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Italian Pages 252 [318] Year 2012
Collationes Studi sul pensiero tardo-antico, medievale e umanistico
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Direttore Giulio d’Onofrio
Comitato scientifico-editoriale / Editorial Board Michele Abbate – Armando Bisogno – Maria Borriello Maurizio Cambi – Luigi Catalani – Mario Coppola – Renato de Filippis Michele C. Ferrari (Erlangen) – Giacomo Gambale – Lucia Pappalardo Pasquale Porro – Irène Rosier-Catach (Paris) – Valeria Sorge Anca Vasiliu (Paris) – Iolanda Ventura (Orléans) – Angelo Maria Vitale
Collationes è una collana sottoposta a valutazione da parte di revisori anonimi. Il contenuto di ciascun volume è valutato e approvato da specialisti scelti dal Comitato scientifico-editoriale e periodicamente resi noti on line alla pagina: http://www.unisa.it/docenti/donofrio/edizioni/peer_review ______________ Collationes is a peer-reviewed Series. The content of each volume is assessed by specialists who are chosen by the Editorial Board and whose names are periodically made known at http://www.unisa.it/docenti/donofrio/edizioni/peer_review
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Giacomo Gambale
La lingua di fuoco Dante e la filosofia del linguaggio
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La realizzazione di questo volume è stata resa possibile da un parziale contributo offerto dal Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale dell’Università degli Studi di Salerno su fondi Farb 2011 (resp. Giulio d’Onofrio).
In copertina: Pentecoste Bibliothèque Méjanes (Aix-en-Provence), ms. 15, f. 119v (Psautier à l’usage d’Arras, sec. XIII) Photographic credit: © Institut de recherche et d’histoire des textes - CNRS
© 2012, Città Nuova Editrice Via Pieve Torina, 55 - 00156 Roma tel. 063216212 - e-mail: [email protected] ISBN 978-88-311-1801-9 Finito di stampare nel mese di maggio 2012 dalla tipografia Città Nuova della P.A.M.O.M. Via Pieve Torina, 55 00156 Roma - tel. 066530467 e-mail: [email protected]
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A mio padre e a mia madre
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Indice generale
Ringraziamenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. Dante e la filosofia del linguaggio: una difficile lettura 2. Una vecchia tesi: Dante e i modisti . . . . . . . . . . 3. La ricerca della parola perfetta . . . . . . . . . . . . .
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PARTE PRIMA Comunicazione, spirito e morale Capitolo primo Parlare, parola, dire, voce…: il movimento spirituale del linguaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. «Lo sermone... è ordinato a manifestare lo concetto umano» 2. «Sì forte era la mia imaginazione, che piangendo incominciai a dire...» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . a) L’immaginazione e il movimento degli spiriti . . . . . b) La parola ‘ispirata’ . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. «La voce mia di grande affetto impressa...» . . . . . . . 4. «E come in fiamma favilla... in voce voce». . . . . . . . Capitolo 2 La dimensione morale del linguaggio: l’exemplum di Ulisse 1. La potestas nocendi della lingua . . . . . . . . . . . . a) Il potere di nuocere della lingua nella Divina Commedia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Indice generale
b) Il potere di nuocere della lingua attorno alla Divina Commedia: la riflessione metalinguistica . . . . . . . . pag. 93 2. Il canto di Ulisse, l’Epistola di Giacomo e il De peccato linguae . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 105 a) «Come fosse la lingua che parlasse...» . . . . . . . . . » 107 b) Il pravum consilium. Una fonte: Guglielmo Peraldo » 116 3. Lingue di fuoco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 127
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PARTE SECONDA Le locutiones dell’oltretomba Capitolo 3 Due esempi di inordinata locutio: gli strani versi di Pluto e di Nembrotto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Il plurilinguismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. «Pape Satàn, Pape Satàn, aleppe!» . . . . . . . . . . . . 4. «Raphèl maì amècche zabì almi». . . . . . . . . . . . . a) La confusio linguarum . . . . . . . . . . . . . . . . b) L’«argomento de la mente» . . . . . . . . . . . . . .
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Capitolo 4 Il linguaggio del Paradiso: «redole odor di lode» . 1. L’angelica voce . . . . . . . . . . . . . . . . 2. La «loda». . . . . . . . . . . . . . . . . . . a) Inenarrabilis mentis affectus . . . . . . . b) «Osanna, sanctus Deus sabaòth...» . . . . 3. Glossolalia, Pentecoste e giubilo . . . . . . .
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Capitolo 5 Il primiloquium di Adamo e la retorica della pura oratio: la parola perfetta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. Il paradigma adamitico . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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PARTE TERZA All’origine della parola
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Indice generale
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a) Nominatio rerum . . . . b) L’etica del primiloquium 2. L’arte della preghiera . . . . a) La rhetorica divina . . . b) La pura oratio. . . . . . 3. Le interiezioni . . . . . . . 4. Una parola perfetta. . . . .
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Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Indice dei nomi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Indice biblico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Summary . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Ringraziamenti Desidero ringraziare con affetto Giulio d’Onofrio, senza il quale il mio amore per Dante non sarebbe nemmeno nato. Pungolo continuo per nuove riflessioni, allo stesso tempo mi ha invitato a ‘sostenere’ l’entusiasmo della lingua e a ‘frenare’ i movimenti disordinati dell’ingegno. Un ringraziamento va a Irène Rosier-Catach, che mi ha permesso di capire l’importanza del dibattito nella ricerca, e come le conoscenze possano essere veicolate con maggior forza attraverso l’amicizia.
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Introduzione
1. Dante e la filosofia del linguaggio: una difficile lettura Apprezzare la filosofia di Dante sul linguaggio significa cercare di capire se sia legittimo parlare di filosofia, ossia di un’interpretazione sistematica e scientifica da parte dell’Autore attorno a uno specifico soggetto, la parola, la facoltà linguistica, ecc.; o se sia più opportuno parlare di frammenti teorici che costellano l’opera dantesca nel suo complesso. In quest’ultimo caso, il compito del critico si limiterebbe a individuare e, successivamente, confrontare i frammentari riferimenti alla tematica linguistica, per verificare in ultima analisi l’esistenza o meno di un pensiero di Dante sul linguaggio. I fattori che Dante mette in gioco, nell’atto stesso in cui ‘tratta’ i fenomeni linguistici, sono molteplici, e si trovano al crocevia di diverse istanze, teologiche, morali, politiche, estetiche allo stesso tempo. Un aspetto che non sorprende, se si tiene conto del modo in cui il Medioevo concepisce l’organizzazione del sapere: le arti liberali rappresentano le diverse angolature dalle quali vedere in modi complementari lo stesso oggetto di conoscenza, la realtà. Nell’analisi dell’opera dantesca bisogna tener conto, per esempio, della forza delle immagini, con le quali l’Autore cerca di portare alla luce determinate idee; la straordinaria sintesi con la quale queste idee vengono proposte al lettore. Il caso del primiloquium di Adamo, cioè la parola prima che questi proferisce nello spazio virtuoso del paradiso terrestre, è emblematico: poche righe del De vulgari eloquentia mettono in evidenza come Dante scelga di utilizzare per esigenze personali diverse auctoritates. Dietro le argomentazioni stringenti, attraverso cui si cerca di scoprire in quale modo, dove, sotto quale idioma la parola prima è stata proferita dal primo uomo (e con una terminologia che allude alla teologia,
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Introduzione
alla retorica, alla psicologia, a fonti aristoteliche, agostiniane e gregoriane, agli accessus ad auctores), vi è l’immagine, la forza di una scena immortalata in modo quasi michelangiolesco: Dio sembra, come nel Giudizio universale, toccare Adamo infondendogli lo spirito, e Adamo indirizzarsi a Dio con la parola nell’atto stesso in cui la vita lo pervade. Argomentazioni e immagini si confondono. E se questo è valido per il De vulgari – opera dalle caratteristiche speculative marcate – la cosa risulta tanto più vera per la Divina Commedia. Il poema non solo applica alla narrazione le dottrine sul linguaggio che emergono dal trattato latino, ma discute con quest’ultimo con continui rimandi intertestuali; sviluppa dottrine che confermano o portano a maturazione le conquiste intellettuali emerse negli anni che ne precedono la redazione. Si è soliti citare, per magnificare questo aspetto del poema, il canto XXVI del Paradiso, con i famosi versi che il Poeta mette in bocca ad Adamo, progenitore di tutti gli uomini. L’autore fiorentino si immagina nelle sfere celesti al cospetto del primo uomo, «padre antico», occasione per trattare dell’essenza di alcuni temi, tra i quali l’origine del linguaggio. Le esigenze della narrazione, i limiti imposti dallo stile e dalle rime, non impediscono una trattazione del tema puntuale. Termini ed espressioni conservano, nonostante il contesto poetico nel quale sono inseriti, un valore tecnico, dotto, riconducibile alla terminologia usata dagli scolastici nel trattare tematiche linguistiche. Come ha già messo in evidenza Ruedi Imbach, la strutturazione e la sequela dei versi di Paradiso XXVI in cui il linguaggio risulta il subiectum principale rivelano argomenti precisi: comunicazione infraumana e sovraumana; lingua di Adamo e sua origine; torre di Babele e confusione delle lingue (evocazione di Nembrot); il linguaggio umano: la sua spontaneità e la sua variabilità; il primo nome utilizzato per designare Dio. Tutti argomenti presenti nel De vulgari, e ritrattati appunto nella terza cantica1. Non solo il Paradiso, ma lo stesso Inferno soggiace a questa sorta di filiazione che intercorre con il trattato latino; un aspetto collocato in primo piano dalla critica recente2, che tuttavia ha finito col focalizzare l’attenzio-
1 Cf. R. IMBACH, La lingua di Adamo e la filosofia del linguaggio in Dante, in ID., Dante, la filosofia e i laici, tr. it., Genova - Milano 2003 (ed. orig. Paris 1996), pp. 167-184. Cf. anche ID., Appunti di uno storico della filosofia sul De vulgari eloquentia, in «Letture classensi», 38 (2009), pp. 41-62. 2 In senso contrario all’orientamento modernista di alcuni contributi, come quelli di Cremona, Lugarini, Peirone, Giustiniani, Lo Piparo, Pagliaro, le cui po-
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Dante e la filosofia del linguaggio: una difficile lettura
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ne sul solo De vulgari, e involontariamente ha messo al margine un’opera, la Vita nuova, fondamentale per la comprensione delle incursioni teoriche di Dante sul linguaggio, e fondamentale per capire alcuni meccanismi
sizioni hanno teso a stabilire un parallelo tra la riflessione dantesca e la linguistica contemporanea, gli studi di Zygmunt Baran´ski hanno insistito in particolare su un punto: l’esistenza di un legame filosofico-linguistico tra i primi nove capitoli del trattato latino e la Commedia, in nome di una presenza esplicita e sottintesa della Sacra Scrittura in essi. L’aspetto forse più importante che lo studioso ha messo in luce è rappresentato dal riconoscimento della Commedia come opera che elabora teorie linguistiche, e non solo il canto XXVI di Paradiso, ma anche altri luoghi del poema spesso trascurati dalla critica. Senza entrare nel merito di alcuni temi, che saranno approfonditi in modo più dettagliato nelle pagine successive, è da rimarcare l’interessante rapporto che Baran´ski ha colto tra il tema della confusio linguarum e il disordine linguistico-morale che esplode nella prima cantica dell’Inferno: «L’immagine di Babele costituisce un’influenza assai importante sul modo in cui viene rappresentato artisticamente il primo dei regni ultraterreni, sin dall’inizio l’inferno dantesco è presentato come un mondo di confusi suoni e balbettii senza senso». Questa intuizione, sviluppata solo parzialmente, potrebbe evidenziare in modo ancora più marcato la ricchezza della Commedia riguardo i fenomeni linguistici. Rimane inesplorata, come ha osservato lo stesso Baran´ski, la varietà dei linguaggi ultraterreni, dal ringhiare di Cerbero, al linguaggio disordinato di Nembrotto, dal dialetto lombardo di Virgilio, alla lingua impenetrabile di Cacciaguida. Si può aggiungere: il canto di lode dei beati, le bestemmie dei peccatori e la posizione centrale che nel poema occupa l’episodio di Ulisse, il più delle volte letto secondo canoni avulsi dalla logica interna della Commedia. Cf. Z. BARAN´ SKI, Dante’s Biblical Linguistics, in «Lectura Dantis», 5 (1981), pp. 105-143 (poi tradotto in italiano con il titolo La linguistica scritturale di Dante, in ID., «Sole nuovo, luce nuova». Saggi sul rinnovamento culturale in Dante, Torino 1996, pp. 79-128); ID., Divine, Human and Animal Languages in Dante: Notes on De Vulgari Eloquentia I, I-IX and the Bible, in «Transactions of the Philological Society», 87.2 (1989), pp. 205-231. La citazione riportata tra virgolette è tratta da BARAN´ SKI, La linguistica scritturale cit., p. 107. Si guardino inoltre i seguenti studi: A. PAGLIARO, I primissima signa nella dottrina linguistica di Dante, in «Quaderni di Roma», 1 (1947), pp. 485-501 (ripr. in ID., Nuovi saggi di critica semantica, Messina - Firenze 1956, pp. 215-238); ID., Comunità linguistica e lingua comune nella dottrina linguistica di Dante, in Dante e l’Italia meridionale, Atti del congresso nazionale di studi danteschi (Caserta - Benevento - Cassino - Salerno - Napoli, 10-16 ottobre 1965), Firenze 1966, pp. 115-129; J. CREMONA, Dante’s Views on Language, in The Mind of Dante, ed. U. Limentani, Cambridge 1965, pp. 138-162; E. LUGARINI, Il segno in Dante: ipotesi sul primo libro del De vulgari eloquentia, in Psicoanalisi e strutturalismo di fronte a Dante, a c. di E. Guidubaldi, 3 voll., Firenze 1972, III, pp. 79-86; L. PEIRONE, Il De vulgari eloquentia e la linguistica moderna, Genova 1975; V. R. GIUSTINIANI, Dante e la linguistica medievale e moderna, in
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Introduzione
antropologico-linguistici della Commedia. Dall’analisi del libello dantesco emerge, infatti, un dato che sarà presente nella produzione letteraria del Poeta in tutta la sua interezza: la parola come atto di rivelazione dello spirito. Da un’attenta analisi dei testi risultano tre livelli, dimensioni o sostrati sedimentati nell’atto locutorio (così come questo è concepito da Dante), connessi gli uni agli altri e che insieme contribuiscono alla ricchezza del parlare e della parola nell’opera dantesca. In generale, vi è un livello comunicativo: la locuzione funge da strumento, medium per mezzo del quale gli uomini commerciano le proprie idee. Questo è facilmente rappresentabile secondo un ordine geometrico di tipo orizzontale: l’uomo parla all’altro uomo. Vi sono poi due livelli, più specifici. Uno espressivo: l’atto locutorio è colto da Dante nel suo formarsi, nella sua genesi; è il risultato della profondità dell’individuo, che emerge esternamente ed è impressa nel segno linguistico con cui si comunica. Infine, un livello morale: la parola che è immessa nel circolo comunicativo è certamente portatrice della profondità emotiva e concettuale del locutore, ma se questa profondità si trova in contrasto con il Sommo Bene la parola diventa un «seme di operazione» distruttivo. Questi livelli che appartengono all’atto linguistico sono intrecciati, e soltanto esigenze di carattere formale mi hanno spinto a dividere quanto nell’opera di Dante è legato in modo indissolubile. Se si prendono i versi «se le mie parole esser dien seme / che frutti infamia al traditor ch’i’rodo»3, messi in bocca al conte Ugolino nell’atto emblematico di rodere la sua vittima, questo intreccio tridimensionale risulta
«Romanische Forschungen», 91 (1979), pp. 399-410; F. LO PIPARO, Dante linguista anti-modista, in Italia linguistica: idee, storia, strutture, a c. di F. Albano Leoni et al., Bologna 1983, pp. 9-30; ID., Sign and Grammar in Dante. A Non-modistic Language Theory, in The History of Linguistics in Italy, edd. P. Ramat - H. J. Niederehe - K. Koerner, Amsterdam - Philadelphia 1986, pp. 1-22. 3 Inf. XXXIII 7-8. Per i passaggi delle opere di Dante ci si è avvalsi delle seguenti edizioni (e, per i rinvii, delle abbreviazioni indicate tra parentesi): Rime, a c. di M. Barbi, Firenze 1960; Vita nuova (VN), a c. di M. Barbi, Firenze 1960; Convivio (Conv.), a c. di F. Brambilla Ageno, 2 voll. (3 tomi), Firenze 1995; De vulgari eloquentia (De vulg.), introduzione e testo a c. di P. V. Mengaldo, Padova 1968; La Commedia secondo l’antica vulgata, a c. di G. Petrocchi, 4 voll., Firenze 1994 (ci si riferisce alle tre cantiche con le sigle Inf., Purg., Par.); Monarchia (Mon.), a c. di P. G. Ricci, Milano 1965; Epistole (Ep.), a c. di E. Pistelli, Firenze 1960; Il Fiore e il Detto d’amore attribuibili a Dante Alighieri (Fiore), a c. di G.
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Dante e la filosofia del linguaggio: una difficile lettura
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chiaro. Qui, le parole non sono solo il segno per mezzo di cui si veicola un messaggio a qualcuno; sono anche il frutto di un sentimento (nel caso specifico, l’odio, l’ira) e sono un’arma con la quale corrodere la fama di un altro uomo. Le parole possono essere definite una sorta di nodo (il vocabolo appartiene al lessico di Dante, e con connotazioni interessanti) che presenta complessità di intrecci a più livelli. Un aspetto evidente in quella che mi è sembrata l’apoteosi di questa concezione poliedrica dell’atto locutorio: il caso, già ricordato, del primiloquium, volutamente collocato alla fine di queste indagini per il ruolo particolare che assume nell’economia dell’opera dantesca. È in questa occasione che Dante, nell’inventare un contesto originale per spiegare la nascita della parola, mette in gioco tutta una serie di elementi che, se colti in modo appropriato, fanno luce sui tanti passaggi della Divina Commedia nei quali i discorsi delle anime beate sono canti, espressioni di gioia, semplici lettere interiettive con cui nominare Dio, momenti esemplari della parola sia dal punto di vista estetico, sia dal punto di vista morale. Ogni volta che ci si avvicina al pensiero linguistico dell’Alighieri, soprattutto se si presta attenzione al poema, bisogna tener conto preliminarmente di tre fattori: 1) la formazione culturale dell’Autore; 2) il ruolo della teologia nel complesso dell’opera; 3) l’utilizzo del discorso poetico come elemento fondamentale nell’elaborazione di un’idea. La formazione culturale di Dante non è inquadrabile nei canoni dell’istituzione universitaria; il suo continuo spostarsi da una regione all’altra dell’Italia contribuisce senza dubbio alla nascita di una forte sensibilità per i fenomeni linguistici, visti e registrati direttamente sul campo. Quanto influisce, per esempio, la moltiplicazione delle parlate, direttamente vissute tra gli abitanti di Bologna, non solo sulla costruzione concettuale dell’episodio babelico, ma anche sull’invenzione del disordine linguistico e morale dei canti dell’Inferno? Da questo rapporto empirico che il Poeta instaura con la realtà derivano alcune conseguenze di capitale importanza. Innanzitutto, da un punto di vista metodologico è da sottolineare come l’opera di Dante diventi suscettibile di una lettura problematica, non necessariamente lineare, ri-
Contini, Milano 1984. I rinvii si accordano nella forma con la consuetudine tipica degli studi danteschi. I corsivi nelle citazioni sono miei.
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Introduzione
sultato di una visione che «non rampolla da un’esperienza scolastica e neppure essenzialmente filosofica: rampolla da uno stato d’animo sentimentalmente teso»4. Questo significa che i soggetti posti all’attenzione dell’Autore non necessariamente vengono trattati con piglio scientifico, ma sono vissuti, risentono fortemente del coinvolgimento pratico-morale con cui egli s’immerge nella materia di studio. L’esito più naturale di questo coinvolgimento sono contraddizioni, evoluzioni o ritrattazioni, che invece di sminuire il valore dell’opera testimoniano la relazione viva del Poeta con le proprie idee. La formazione anomala che caratterizza il pensiero dantesco si risolve, inoltre, in un montaggio culturale dei testi letti, montaggio che non permette di risalire a una fonte individuabile con chiarezza e riconoscere le auctoritates tradizionali, utilizzate con frequenza nel Medioevo. Questo implica che l’obiettivo di un qualsiasi studioso che decida di avvicinarsi al pensiero dantesco non deve, come ha suggerito Pier Vincenzo Mengaldo, limitarsi a redigere cataloghi, ma deve «saggiare» i modi di utilizzazione delle letture effettuate dall’Autore e il grado di libertà con cui le autorità sono manipolate, in funzione di problematiche personali e originali5. Potrebbe risultare erronea la tendenza critica a dirigere la propria attenzione esclusivamente sui grandi testi della tradizione medievale, e trascurare in questo modo gli scritti minori, come quelli poetici, i volgarizzamenti e le opere di cultura media. In generale può essere sempre utile rinviare al seguente monito: Questo genere di ricerche empiriche, nella maggior parte dei casi, è impossibile, ma è anche perfettamente inutile. Utilissima, invece, anzi necessaria è la conoscenza dei problemi e delle preoccupazioni intellettuali che formano l’ambiente spirituale nel quale il pensiero filosofico di Dante, personalissimo come ogni vero pensiero filosofico, si maturò (...) spesso sorpassando, con penetranti e ardite intuizioni, il comune modo di pensare del suo tempo6.
In secondo luogo, da un punto di vista contenutistico, è da mettere in luce quella che è considerata, a partire dagli studi di Bruno Nardi, la
4 G. VINAY, Il De vulgari eloquentia, in «Annali della Pubblica Istruzione», 6 (1960), [pp. 673-686], p. 674. 5 Cf. P. V. MENGALDO, Linguistica e retorica di Dante, Pisa 1978, in partic. pp. 11-123 («Introduzione al De vulgari eloquentia»). 6 B. NARDI, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967 (19301), Intr., p. VIII.
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Dante e la filosofia del linguaggio: una difficile lettura
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grande conquista della meditazione dantesca: il concetto della naturalità e necessità del mutamento della lingua, un concetto che si afferma con il De vulgari, e si esplicita in modo netto nella Divina Commedia, con l’eliminazione del «pregiudizio teologico» della torre di Babele. Le parole di Adamo in Paradiso XXVI mostrano come neppure la lingua appresa direttamente da Dio possa essere considerata stabile, ma frutto della instabilità culturale e naturale degli uomini. Lo stesso volgare illustre, secondo Nardi, si presenta come una lingua viva, e il «concetto del variare delle lingue non è più concetto astratto, come presso i trattatisti scolastici, ma diventa concreto, solido, storico: è coscienza dello storico divenire del linguaggio di un popolo»7. Secondo una linea interpretativa consolidata, la diversità dei linguaggi è, quindi, la grande scoperta del poeta fiorentino. La scoperta della naturalità che appartiene alle lingue, la loro trasformazione nello spazio e nel tempo, è l’intuizione originale che lo ha collocato nella storia del pensiero filosofico. Tuttavia, c’è da sottolineare come nella Divina Commedia esistano diversità linguistiche valutate in modo differente. La diversità di lingue e di voci nell’Inferno è paragonata al girare caotico della sabbia, quando questa è catturata nel vortice di un vento tumultuoso8; come nel regno infernale, la diversità di lingue e di voci in Paradiso è paragonata al girare, ma un girare armonioso e dolce9. Qual è allora il discrimine per distinguere, da un punto di vista razionale, le due diversità in questione? Perché la moltiplicazione dei linguaggi, delle favelle, dei suoni dell’Inferno è valutata in modo negativo, mentre la moltiplicazione delle voci, a partire dal Purgatorio, è qualificata il più delle volte con l’aggettivo «dolce»? Come si è accennato, sono diversi i fattori che entrano in gioco nella riflessione dantesca, e rispondere a queste domande significa tener conto anche del ruolo che la teologia gioca nel complesso dell’opera, e della
7 B. NARDI, Il linguaggio, in ID., Dante e la cultura medievale, Bari 1990 (19421), [pp. 173-195], p. 190. Sulla naturalità del linguaggio si veda inoltre: PAGLIARO, I primissima signa cit. (alla nota 2); ID., Comunità linguistica cit. (ibid.); G. VINAY, Ricerche sul De vulgari eloquentia, in «Giornale storico della letteratura italiana», 136 (1959), pp. 236-274 e pp. 367-388; ID., Il De vulgari eloquentia cit. (alla nota 4); ID., La teoria linguistica del De vulgari eloquentia, in «Cultura e scuola», 2 (1962), pp. 30-42. 8 Cf. Inf. III 25-30. 9 Cf. Par. VI 124-126.
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Introduzione
Commedia in particolare. Il criterio per capire la differenza tra le locutiones dei tre regni rientra in un piano che non può essere giudicato con i soli mezzi razionali. È la qualità del patto delle anime con lo Spirito Santo che in modo chiaro distingue Inferno e Paradiso, e, di conseguenza, le caratteristiche estetiche, grammaticali e morali dei linguaggi dell’oltretomba («voci chiocce» / «voci dolci»). L’opera di Dante si presta a una difficile lettura, in vista di un’enucleazione di un pensiero sul linguaggio. Questo pensiero è affidato il più delle volte – se si fa eccezione per i testi dalle connotazioni teoriche evidenti: il De vulgari, il Convivio, la Monarchia – al movimento vivo della poesia. Nella Vita nuova, nelle Rime, nel Fiore, nella Divina Commedia in modo speciale, il discorso poetico non è un ricettacolo che in modo passivo accoglie idee concepite dall’Autore in altra sede. Il poema, per esempio, non è una semplice enciclopedia, nella quale sono inserite alcune voci dottrinali ordinate in versi secondo un gusto manieristico. La poesia teorizza e allo stesso tempo mette in pratica le idee, lasciando trapelare la vivacità di un pensiero su uno specifico soggetto. Basti pensare all’uso delle metafore, che ricorrono con frequenza nell’opera poetica. Queste permettono di afferrare con maggiore forza, rispetto al discorso filosofico scolastico, la natura di soggetti di difficile comprensione; così come un gioco di parole o l’utilizzo di figure retoriche particolari possono accentuare connotazioni di un contenuto concettuale che una semplice proposizione non sarebbe in grado di esprimere. Si prendano i seguenti versi: «O luce etterna che sola in te sidi / sola t’intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi!»10. Questi versi non solo rinviano ad alcuni passi evangelici, o racchiudono in poche parole dottrine teologiche importanti (come il principio secondo cui solo la luce divina può contenersi), ma descrivono in modo efficace, grazie all’uso delle allitterazioni, il processo automatico e sincronico che dall’Uno porta al Tre, e viceversa. Rendono fino in fondo un concetto di difficile presa, il movimento della Trinità, quello che il Poeta chiama «circulazion». In questo caso, l’interpretazione del verso richiede che si tenga conto del contenuto e della figura retorica utilizzata. Si prendano altri due esempi. Malabocca è un personaggio del Fiore, opera tradizionalmente attribuita a Dante. Questi è paragonato a volte a un cane, a volte a un’arma. Il nome stesso del personaggio risulta em-
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blematico. Dietro questa descrizione, a mio avviso, non si nasconde un semplice espediente retorico di tipo comico, ma una concezione sul linguaggio espressa in modo plastico, attraverso alcune immagini che determinano la potenza reale ed efficace della parola. Inoltre, in Inferno, alcune anime si esprimono nel e per mezzo del fuoco, e le parole spesso richiamano le faville. Anche in questo caso non si tratta di un’immagine banale, la metafora racchiude invece un senso profondo, condensa una precisa idea e rinvia ad altre immagini della Commedia, come se il poema stesse argomentando per imagines specifiche dottrine. Tutto questo conferma la difficoltà di leggere la poesia di Dante in vista di una comprensione delle sue dottrine linguistiche. Tuttavia, per quanto difficile risulti la lettura, non esplicite alcune dottrine e per quanto alcune classificazioni possano risultare soggettive, l’opera poetica argomenta con i suoi personaggi, con i discorsi di questi ultimi, con i vocaboli più o meno tecnici presenti nei discorsi. Tutti questi elementi sono inseriti nei drammi che il Poeta di volta in volta inventa, e non possono prescindere dai contesti in cui sono inquadrati. In questo modo formano un insieme, che mette nella condizione di individuare un pensiero forte dell’Alighieri sul linguaggio.
2. Una vecchia tesi: Dante e i modisti La riscoperta nel ‘500 del De vulgari eloquentia, l’opera alla quale l’Alighieri affida parte delle sue riflessioni sul linguaggio, è inserita nel contesto critico della cosiddetta ‘questione della lingua’11, che affonda le sue radici nel dibattito quattrocentesco sull’opportunità di scrivere in italiano, sulla letteratura volgare già esistente e, di conseguenza, sulla negazione o il riconoscimento della nuova lingua di fronte al latino. Questo ha comportato una presa di coscienza debole sulle modalità con cui l’autore fiorentino ha affrontato, da un punto di vista filosofico, questioni relative
11 Per la ‘questione della lingua’ mi limito a segnalare come introduzione al tema pochi studi: M. TAVONI, Latino, Grammatica, Volgare. Storia di una questione umanistica, Padova 1984; A. MAZZOCCO, Linguistic Theories in Dante and the Humanists. Studies of Language and Intellectual History in Late Medieval and Early Renaissance Italy, Leiden 1993; C. MARAZZINI, Da Dante alla lingua selvaggia. Sette secoli di dibattiti sull’italiano, Roma 1999.
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Introduzione
ai fenomeni linguistici. Ci si è limitati, nella prospettiva di dare un assetto stabile e sicuro al nascente volgare italiano, a valutare l’opera di Dante in relazione alle sole scelte lessicali o ai tipi di scrittura che di volta in volta il Poeta elabora nel corso delle sue esperienze. Questa lettura riduzionista non solo ha misconosciuto l’impianto concettuale che soggiace alla costruzione del De vulgari, ma si è limitata a interrogare il trattato latino – e l’opera di Dante in genere – sui soli punti considerati importanti per una possibile normativizzazione della lingua italiana. Si è così assistito, a partire dal secolo XV, a una sorta di strumentalizzazione del pensiero dantesco, considerato solo nell’ottica di una promozione o meno del fiorentino a lingua nazionale. L’interesse della critica ha prestato attenzione in particolare al nesso Dante / volgare latium / volgare illustre, reiterando in questo modo un pregiudizio: che l’attività speculativa sul linguaggio a opera del Poeta si fosse limitata a un originale censimento dei differenti dialetti che pullulavano nella penisola; di qui, l’esigenza di creare una nuova lingua (fiorentina o cortigiana) che potesse essere riferimento per tutti gli italiani. Un primo tentativo di allontanarsi da questa tradizione interpretativa, che ha come esautorato le potenzialità intellettuali di Dante rispetto al soggetto ‘linguaggio’, si può trovare in alcuni lavori apparsi all’inizio del secolo scorso, lavori che hanno innestato nella discussione critica cambiamenti metodologici e di prospettiva dai quali è conseguita una maggiore sensibilità verso le capacità dell’Autore12. La maggiore attenzione rivolta ai primi nove capitoli del De vulgari, per lungo tempo marginalizzati, ha messo in evidenza una serie di problematiche inerenti il linguaggio di particolare pregnanza filosofico-teologica: la parola adamitica, la priorità dell’ebraico sugl’idiomi storici, il mito della torre di Babele e la confusione delle lingue, la nobiltà del volgare sul latino, il rapporto problematico
12 Cf. F. D’OVÌDIO, Dante e la filosofia del linguaggio, in ID., Studi sulla Divina Commedia, 2 voll., Napoli 1931, I, pp. 291-326; D. GUERRI, «Papè Satan, Papè Satan aleppe», in «Il giornale dantesco», 12 (1904), pp. 138-142; ID., La lingua di Nembrot, ibid., 13 (1905), pp. 56-66; ID., Il nome di Dio nella lingua di Adamo secondo il XXVI del Paradiso e il verso di Nembrotte nel XXXI dell’Inferno, in «Giornale storico della letteratura italiana», 54 (1909), pp. 65-76. Questi articoli sono stati raccolti nel volume D. GUERRI, Scritti danteschi e d’altra letteratura antica, Roma 1990. Si veda, inoltre, P. ROTTA, La filosofia del linguaggio nella patristica e nella scolastica, Torino 1909.
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tra stabilità di una lingua grammaticale e polverizzazione storica dei volgari. Inoltre, l’attenzione non si è focalizzata in modo unilaterale sul solo De vulgari, ma con un respiro che è divenuto di volta in volta più ampio si è concentrata anche sull’opera poetica. Si è visto come nel canto XXXI dell’Inferno la figura di Nembrotto, «per lo cui mal coto / pur un linguaggio nel mondo non s’usa»13, richiami la dottrina della confusio linguarum, elaborata in modo diverso nel De vulgari. La contingenza delle lingue è affrontata, invece, nel canto XXVI del Paradiso, con le note terzine che il Poeta mette in bocca ad Adamo, che sottolineano l’arbitrarietà e la temporalità che sono alla base di ogni produzione umana14. Grazie a queste aperture, lo stesso tema del volgare illustre ha assunto lentamente un carattere più complesso, rappresentando, com’è già evidente nella traduzione e nel commento al De vulgari di Aristide Marigo, l’esito di uno sforzo speculativo risoltosi in una «compiuta teorica d’eloquenza volgare»15. Le domande attorno al volgare si sono fatte più pertinenti, e hanno rivelato una presa di coscienza non solo dei diversi piani teologici, filosofici, grammaticali, retorici e poetici che stratificano il trattato latino, ma anche della sottigliezza da parte dell’Autore nel maneggiare i vocaboli che inserisce nella sua opera. Un aspetto che è sottolineato più tardi, e con forza, da Mirko Tavoni, il quale in polemica con Mengaldo ha evidenziato i tecnicismi della terminologia dantesca con riferimento ai fenomeni del linguaggio16. Il concetto di volgare latium, per
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Inf. XXXI 77-78. Cf. Par. XXVI 124-138. 15 Cf. A. MARIGO, Introduzione, in DANTE ALIGHIERI, De Vulgari Eloquentia ridotto a miglior lezione e commentato da A. Marigo, Firenze 1938, pp. XXI-XXIII: «[Dante] si accinse a scrivere il De vulgari eloquentia, proponendosi di ridurre la materia tradizionale della retorica ad organica dottrina volgare, secondo una linea direttiva filosofica, e presentarsi come poeta e come maestro (...). Al vanto di sommo poeta morale, vuole aggiungere quello di primo teorizzatore dell’arte di dire in volgare (...). E (...) si presenta come maestro che (...) movendo dalla dottrina tradizionale e da una raffinata esperienza di lingua, di stile, di verso (...) di tecnica strofica, può esprimere una compiuta teorica di eloquenza volgare». 16 Cf. M. TAVONI, Contributo all’interpretazione di De vulgari eloquentia I, 1-9, in «Rivista di letteratura italiana», 5.3 (1987), pp. 385-453; ID., Ancora su De vulgari eloquentia I 1-9, ibid., 7 (1989), pp. 468-496; P. V. MENGALDO, Un contributo all’interpretazione di De vulgari eloquentia I, i-ix, in «Belfagor», 44 (1989), pp. 539-558. 14
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Introduzione
esempio, entra in scena solo col capitolo decimo del De vulgari, punto nodale già per Marigo, in quanto testimonia il duplice senso del termine ‘volgare’, uno astratto e universale, «locutio vulgaris naturalis», e l’altro concreto e storico17. Entrambi i concetti si contrappongono alla «locutio secundaria artificialis», che indicherebbe il valore discriminante che in tutto il trattato gioca l’opposizione iniziale lingua naturale e gramatica, la prima più nobile dell’altra («nobilior») e, per questo, superiore alla produzione «artificiale» di una lingua grammaticale, come il greco o il latino18. Di qui, una serie di questioni problematiche: come conciliare questa posizione con quanto lo stesso Dante dichiara nel Convivio a proposito della maggiore nobiltà del latino, lingua stabile e perenne, rispetto alla mutevolezza storica dei volgari19? Si tratta di una contraddizione manifesta, o i criteri valutativi del Poeta si collocano su due sistemi di riferimento differenti? Cos’è precisamente la gramatica? La risposta che Marigo ha dato a quest’ultimo interrogativo è interessante, s’inscrive nel tentativo di vedere nel volgare illustre una reparatio post-babelica alla dispersione delle lingue, e riconquistare grazie agli strumenti di «inventores gramatice facultatis» l’unità, perduta, della lingua di Adamo20. Secondo Marigo, che ha giocato con i termini «inventores» e «positores» offerti dal testo, la grammatica di cui si serve Dante, per superare la confusione linguistica dettata dalla presunzione che ha portato gli uomini a sfidare Dio, è quella speculativa, il cui interesse è ritrovare (invenire) i principi basilari e universali sui quali si costruiscono le diverse lingue21.
17 Cf. MARIGO, Introduzione, in De Vulgari cit. (alla nota 15), p. XVII. Su questo punto cf. già P. RAJNA, Il primo capitolo del trattato De vulgari eloquentia tradotto e commentato, in Miscellanea di studi in onore di Attilio Hortis, Trieste 1910, pp. 113-128, in partic. p. 128, nota 30. 18 Cf. De vulg. I i. 19 Cf. Conv. I v 7. Su questo aspetto cf. C. GRAYSON, Nobilior est vulgaris: latino e volgare nel pensiero di Dante, in ID., Cinque saggi su Dante, Bologna 1972, pp. 1-31. 20 Cf. De vulg. I ix 11. 21 Cf. MARIGO, comm. in De Vulgari cit., p. 72, nota 59: «Gl’inventori dell’arte (...) di grammatica, cioè di quell’organismo astratto di regole colle quali ogni lingua letteraria è ridotta a ogni sistematica dottrina. Non fa meraviglia che di quest’ars, concepita con valore universale, il medio evo facesse ritrovatore i filosofi, ai quali seguirono gli studiosi della lingua (...). Così, infatti, pensa con altri, un grammatico del secolo XIII: ‘Prima generatio gramatice non potuit esse per doctrinam que hanc
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Sulla base di tali tesi si è sviluppata la discussa posizione di Maria Corti, che ha finito con l’estremizzare l’approccio filosofico di Dante riguardo il linguaggio. Il suo volume Dante a un nuovo crocevia22, del 1981, ha fatto del Poeta non solo un accanito lettore dei Modi significandi sive quaestiones super Priscianum maiorem di Boezio di Dacia, ma un grammatico speculativo nei metodi e nei contenuti. Ritengo sia importante ripercorrere, anche se per sommi capi, le tesi della Corti. Evidenziare gli aspetti discutibili di qualche affermazione potrebbe essere utile per definire alcuni capisaldi, e soppesare quanto sia legittimo parlare di un Dante filosofo del linguaggio23. Per la Corti il progetto fondamentale del De vulgari è la costruzione di una lingua regulata che possa ripristinare, dopo lo smacco di Babele, gli
supponeret esse, sed fuit per inventionem. Inventio autem gramatice gramatica precedit. Non ergo gramaticus sed philosophus proprias naturas rerum diligenter considerans ex quibus modi essendi appropriati diversis rebus cognoscuntur, gramaticam invenit’. E così spiegatone il valore universale, ne trae la conseguenza che ‘omnia ydiomata sunt una gramatica (...) quia nature rerum et modi essendi et intelligendi similes sunt apud omnes et per consequens similes modi significandi et costruendi et loquendi a quibus accipitur gramatica. Et sic tota gramatica, que est in uno ydiomate, similis est illi que est in altero et una in specie cum illa, diversificata solum secundum diversas figurationes vocum que sunt accidentales gramatice’». 22 I lavori della Corti riguardo il nesso Dante-grammatica speculativa sono molteplici, a partire da un articolo del 1981 fino ai più recenti contributi apparsi per Einaudi, che confermano da angolature differenti le tesi originarie. In questo paragrafo si seguirà la lettura di Dante a un nuovo crocevia, Firenze 1981, che sintetizza in modo preciso il progetto filosofico che la commentatrice intravede nell’opera dantesca, il De vulgari in particolare. Per quanto riguarda gli altri scritti, cf. M. CORTI, La teoria del segno nei logici modisti e in Dante, in «Quaderni del circolo semiologico siciliano», 15-16 (1981), pp. 69-84; EAD., La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, Torino 1983; EAD., Postille a una recensione, in «Studi medievali», Ser. 3a, 25.2 (1984), pp. 839-845; EAD., Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante, Torino 1993; EAD., Scritti su Cavalcanti e Dante. La felicità mentale. Percorsi dell’invenzione e altri saggi, Torino 2003. Sulla grammatica speculativa: I. ROSIER-CATACH, La grammaire spéculative des modistes, Lille 1983; C. MARMO, Semiotica e linguaggio nella scolastica: Parigi, Bologna, Erfurt, 1270-1330. La semiotica dei modisti, Roma 1994. 23 Cf. I. PAGANI, La teoria linguistica di Dante. De vulgari eloquentia: discussioni, scelte, proposte, Napoli 1982, in partic. Appendice, pp. 253-273. Il volume della Pagani è un ottimo strumento per districarsi tra le diverse letture della critica sulle teorie linguistiche di Dante, a partire dall’interpretazione di Marigo, fino alla pubblicazione appunto dello studio della Corti del 1981.
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Introduzione
aspetti virtuosi della lingua di Adamo prima della sua cacciata dal paradiso terrestre, superare lo stato di polverizzazione dei volgari in cui versa il mondo e segnare in questo modo un ritorno circolare allo stato primigenio. Gli strumenti a disposizione di Dante, per risollevare la sorte disastrosa dell’uomo, causata dalla sua superbia, sono quelli della grammatica speculativa, ovvero primissima principia di pertinenza della metafisica, della logica e della grammatica, in grado di accordare le forme sostanziali dei diversi idiomi. Questi princìpi – scrive Boezio di Dacia – «sunt omnibus communia et nulli propria», definizione che da un punto di vista formale ricorderebbe quella dantesca del volgare aulico, mostrando la totale sintonia tra piano filosofico del De vulgari e aristotelismo radicale: «Quicquid tale est ut omnibus comune nec proprium ulli»24. La prospettiva da cui Dante prepara il suo progetto non si limita, quindi, a uno sguardo storico ed empirico dei diversi idiomi; la «gramatica communis», intesa come strumento di salvezza, non può essere identificata col semplice latino, ma con qualcosa di più profondo. La razionalità gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo del De vulgari, e si risolve in alcuni elementi che caratterizzano l’impianto argomentativo del trattato, costruito prevalentemente sui meccanismi di una quaestio disputata, indice, secondo la studiosa, della «frequentazione filosofico-grammaticale», tipica dei modisti, da parte dell’Autore25. Il tratto più importante di questa frequentazione è dato, per la Corti, dal passaggio «hinc moti sunt inventores gramatice facultatis»26, espressione con la quale Dante rinvierebbe, sulla traccia dei Modi significandi di Boezio, a un suo presunto ruolo di philosophus, che contrapposto ai più banali positores «invenit (...) proprias naturas rerum diligenter». Il compito di Dante consisterebbe nel dar vita a una scientia del linguaggio, che tiene conto del processo di partecipazione imitativa – cui allude Boezio, e in genere la grammatica speculativa – tra i modi dell’essere, dell’intelligere e del significare; che non presta attenzione alle «diversae figurationes vocum, quae sunt
24 De vulg. I xviii 2. Cf. CORTI, Dante a un nuovo crocevia cit. (alla nota 22), p. 63 e ss. I passi dei Modi significandi sono citati direttamente dal testo della Corti. Più precisamente, per l’opera di Boezio si veda: BOEZIO DI DACIA, Modi significandi, edd. J. Pinborg - H. Roos, Copenaghen 1969 (Corpus Philosophorum Danicorum Medii Aevi, 4). 25 CORTI, Dante a un nuovo crocevia cit., p. 36. 26 De vulg. I ix 11.
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accidentales grammaticae», ma alle cose essenziali. Solo una grammatica preceduta da un approccio filosofico-metafisico può giungere a scoprire gli «essentialia principia» o le «identitates secundum speciem» presenti in tutti gl’idiomi, e risalire in questo modo dalla frammentazione dei linguaggi a una lingua illustre, stabile e perenne, il volgare illustre, costruito appunto grazie agli strumenti offerti dalla modistica27. Queste tesi, come da angolature differenti hanno dimostrato gli studi di Ileana Pagani, di Alfonso Maierù, di Gianfranco Fioravanti, di Francesco Lo Piparo28, vanno incontro a una serie di incongruenze, che evidenziano l’insostenibilità del nesso Dante / grammatica speculativa. Da un punto di vista metodologico, è già emerso in che modo la Corti abbia analizzato non correttamente alcuni passaggi del De vulgari, arbitrariamente estrapolati dal contesto dell’opera e confrontati con poche righe dei Modi significandi di Boezio. Il caso più emblematico è rappresentato dal passaggio «gramatica nichil aliud est quam quedam inalterabilis locutionis ydemptitas diversis temporibus atque locis», passaggio che testimonierebbe in modo inequivocabile il riferimento dantesco alla grammatica dei modisti, e in particolare alla «continua riflessione di Boezio sulla complementarità, entro i diversi idiomi, di multitudo e unitas, diversitas e identitas (...); il primo fattore appartiene all’accidentalità, il secondo all’essenza del linguaggio, quindi alla grammatica»29. Una lettura anche superficiale del trattato sul volgare chiarisce come la Corti abbia ritenuto irrilevante il prosieguo di questo passo: Gramatica nichil aliud est quam quedam inalterabilis locutionis ydemptitas diversis temporibus atque locis. Hec cum de comuni consensu multarum gentium fuerit regulata, nulli singulari arbitrio videtur obnoxia, et per consequens nec variabilis esse potest30.
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Cf. CORTI, Dante a un nuovo crocevia cit., pp. 39-41 e pp. 62-63. G. FIORAVANTI, rec. M. CORTI, Dante a un nuovo crocevia (Firenze 1981), in «Rivista di letteratura italiana», 1.1 (1983), pp. 193-204; LO PIPARO, Dante linguista cit. (alla nota 2); ID., Sign and Grammar in Dante cit. (ibid.); A. MAIERÙ, Dante al crocevia?, in «Studi medievali», Ser 3a, 24 (1983), pp. 735-748; ID., Il testo come pretesto, ibid., 25 (1984), pp. 847-855; PAGANI, La teoria linguistica di Dante cit. (alla nota 23). 29 CORTI, ibid., p. 39. 30 De vulg. I ix 11. 28
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Introduzione
Queste parole specificano invece il vero senso attribuito da Dante alla lingua grammaticale: l’unità e inalterabilità della grammatica è assicurata dal fatto che essa è «regulata de comuni consensu multarum gentium»; un consenso parziale («multarum gentium») e non universale, il cui fine è la creazione di una lingua di scambio che superi gl’inevitabili limiti dei volgari naturali. A questo aspetto, già messo in luce dalla Pagani31, si può aggiungere una considerazione ulteriore, che rivelerebbe il rapporto del Poeta con i testi più comuni di Isidoro. Nelle Etimologie si ritiene che la historia sia una «narratio rei gestae» di pertinenza della grammatica («ad grammaticam pertinet»)32, in quanto tutto ciò che è degno di memoria è tramandato attraverso la scrittura. Per Dante, è il legame tra lingua, grammatica e storia che sembra implicito nello scopo ultimo dell’istituzione della scienza grammaticale, consentire all’uomo il contatto con il pensiero e le azioni memorabili degli antichi: Hinc moti sunt inventores gramatice facultatis; que quidem gramatica nichil aliud est quam quedam inalterabilis locutionis ydemptitas diversis temporibus atque locis. Hec cum de comuni consensu multarum gentium fuerit regulata, nulli singulari arbitrio videtur obnoxia, et per consequens nec variabilis esse potest. Adinvenerunt ergo illam ne, propter variationem sermonis arbitrio singularium fluitantis, vel nullo modo vel saltem imperfecte antiquorum actingeremus autoritates et gesta, sive illorum quos a nobis locorum diversitas facit esse diversos33.
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Cf. PAGANI, ibid., p. 260. Cf. ISIDORO DI SIVIGLIA, Etymologiae, I, 41, 1-2, PL 82, 122BC, ed. W. M. Lindsay, Oxford 1985 (19111), p. 81, 18-29: «Historia est narratio rei gestae, per quam ea, quae in praeterito facta sunt, dinoscuntur. Dicta autem Graece historia APO TOU ISTOREIN, id est a videre vel cognoscere. Apud veteres enim nemo conscribebat historiam, nisi is qui interfuisset, et ea quae conscribenda essent vidisset. Melius enim oculis quae fiunt deprehendimus, quam quae auditione colligimus. Quae enim videntur, sine mendacio proferuntur. Haec disciplina ad Grammaticam pertinet, quia quidquid dignum memoria est litteris mandatur. Historiae autem ideo monumenta dicuntur, eo quod memoriam tribuant rerum gestarum. Series autem dicta per translationem a sertis florum invicem conprehensarum». 33 De vulg. I ix 11. Sempre nel De vulgari (ma la cosa vale per l’intera produzione letteraria di Dante) potrebbe risultare ragionevole l’utilizzo di altri testi enciclopedici. Il seguente passo tratto da una versione versificata de Li livres dou 32
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Una vecchia tesi: Dante e i modisti
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Se la grammatica speculativa insiste su un rapporto che potremmo definire verticale tra stato ontologico della realtà, concezioni dell’anima e modalità della significazione, prendere in considerazione altri fonti per far luce sul pensiero linguistico di Dante significherebbe rompere questo nesso, che potrebbe rivelare come l’attenzione del Poeta si concentri su una dimensione orizzontale e/o intensiva del linguaggio, politica, morale, pragmatica, spirituale, che tiene conto dell’uso della parola, degli effetti di quest’ultima sugli ascoltatori e sul compito edificante che la parola stessa deve assumere nei confronti del pubblico al quale si rivolge. Vorrei segnalare due tradizioni teologico-filosofico-retoriche medievali sulla lingua, spesso messe al margine per una comprensione generale delle teorie dantesche. La prima è relativa alle artes orandi, che – come emergerà nei prossimi capitoli – potrebbero essere alla base non solo dello ‘stile della lode’ concepito nella Vita nuova, ed esplicitato secondo modalità poetiche nel Paradiso, ma soprattutto del tema della nascita della parola nel De vulgari, una parola dialogica che si esprime non a caso in una preghiera o lode verso Dio34. La seconda tradizione è relativa ai cosiddetti peccata linguae, tema affrontato a più riprese da Carla Casagrande e Silvana Vecchio, i cui contributi potrebbero essere utilizzati per una migliore valutazione del termine lingua35. Da una parte emergerebbe un nesso più
Tresor di Brunetto Latini arricchisce la definizione di linguaggio grammaticale presente in Isidoro, tramandando una concezione del termine grammatica diversa da quella dell’ambiente speculativo, e più vicina all’idea datane da Dante. Cf. A. D’ANCONA, Il Tesoro di Brunetto Latini versificato, in «Memorie dell’Accademia dei Lincei, Cl. di scienze morali, storiche e filologiche», 4.4 (1888), [pp. 111-274], pp. 125-126: «E perciò i Latini antichi e saggi / per rechare inn uno diversi linguaggi, / chè s’intendesse insieme la gente, / trovaro la Grammatica comunemente. / (...) / I Latini, secondo il loro idioma, trovarono la loro gramatica a Roma». 34 Cf. R. DRAGONETTI, La conception du langage poétique dans le De vulgari Eloquentia, in ID., Aux frontières du langage poétique (Études sur Dante, Mallarmé, Valéry), in «Romanica Gandensia», 9 (1961), pp. 9-77: sulla scia delle interpretazioni teologico-religiose di André Pézard, Dragonetti è stato tra i primi a segnalare il carattere dialogico della parola di Adamo nel De vulgari, con tutte le conseguenze che derivano da questa constatazione. Cf. A. PÉZARD, Dante sous la pluie de feu (Enfer chant XV), Paris 1950. 35 Cf. C. CASAGRANDE - S. VECCHIO, I peccati della lingua: disciplina ed etica della parola nella cultura medievale, Roma 1987. Altre fonti, antiche e medievali, che potrebbero cambiare la prospettiva della riflessione critica sulle teorie linguistiche di Dante, saranno suggerite nel prosieguo della ricerca.
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Introduzione
stretto tra linguaggio e morale, un’ipotesi che scarterebbe in modo definitivo il rapporto con la grammatica speculativa; dall’altra, metterebbe in luce il legame profondo tra De vulgari e Divina Commedia, in particolare la prima cantica, in nome appunto della ricerca di una moralità della parola. Il nesso tra etica e linguaggio è più congeniale a quelle dottrine circolanti nell’ambiente bolognese definite ‘pre-modiste’, e paradossalmente utilizzate dalla Corti per corroborare la tesi di un nesso tra Dante e grammatica speculativa36. Infatti, i pre-modisti forzano l’intellettualismo presente nella speculazione logico-grammaticale di alcuni autori; privilegiano una nozione di linguaggio come sistema non-razionale, in quanto la parola è da loro concepita come risultato di un contesto, nel quale non si può prescindere dal ruolo fondamentale che assumono il sentimento e l’intenzione del locutore, e dall’effetto pratico (atto) che la parola ha sull’ascoltatore. Bisogna tener conto di un altro aspetto. Per corroborare la tesi della mutevolezza delle lingue (dei volgari), Dante in più occasioni fa riferimento a un fatto: la mente dell’uomo è naturalmente mutevole, il che comporta un’evoluzione continua non solo dei segni linguistici, ma anche dei segni comportamentali (habitus, mores). La contingenza dei modi d’espressione s’inscrive in un sistema antropologico che probabilmente non tiene conto della fissità della ragione umana (che si risolverebbe in una dottrina linguistica caratterizzata dalla imitazione tra i modi dell’essere, dell’intelligere e del significare), ma della compenetrazione stretta tra ragione e corpo. Ciò che contraddistingue l’uomo dalle altre creature, angeli e animali, consiste nel riconoscimento di questo sinolo, che si traduce nell’affermazione «soli homini datum est loqui»37, oppure, «solamente l’uomo intra li animali parla»38, punto di partenza importante per una comprensione complessiva della riflessione dantesca sulla lingua39. 36 Cf. G. C. ALESSIO, La grammatica speculativa e Dante, in «Letture classensi», 13 (1984), pp. 69-88; ID., Il De vulgari eloquentia e la teoria linguistica del Medioevo, in «Per correr miglior acque...». Bilanci e prospettive degli studi danteschi alle soglie del nuovo millennio, Atti del Convegno di Verona - Ravenna (25-29 ottobre 1999), 2 voll., Roma 2001, II, pp. 203-228. In generale sui pre-modisti cf. I. ROSIER-CATACH, La parole comme acte. Sur la grammaire et la sémantique du XIIIe siècle, Paris 1994; EAD., La parole efficace. Signe, rituel, sacré, Paris 2004. 37 De vulg. I ii 1. 38 Conv. III vii 9. 39 La critica ha prestato la dovuta attenzione a questo aspetto ‘umano’ del linguaggio, in relazione soprattutto al tema della locutio angelica. Per la locutio
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Una vecchia tesi: Dante e i modisti
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Si pone a questo punto una domanda, che va nella direzione di un capovolgimento delle tesi della Corti, e spinge la ricerca verso prospettive indagate solo parzialmente: l’interesse di Dante, piuttosto che rivolto alle forme sostanziali dei diversi idiomi, non è centrato, invece, sulle forme non discorsive del linguaggio e sulle diverse figurationes vocum, accidenti della grammatica considerati irrilevanti dai modisti? Se il programma filosofico di questi ultimi è relativo alla costruzione di una grammatica universale, asettica nella sua struttura, è ragionevole pensare che l’interesse di un poeta sia legato alle sfumature delle parole, al loro carattere morale, alla dimensione orale che, nel Medioevo, caratterizza fortemente la composizione di canzoni, di ballate, ecc.40 Il solo impianto della grammatica speculativa non può spiegare la ricerca quasi spasmodica dello stile nobile tra termini «irsuti», «urbani», «pettinati» – come accade nel De vulgari eloquentia41; il riferimento alla suavitas e alla dulcedo delle parole – per esempio nella Commedia42; l’importanza che la musica assume nel sistema complessivo delle opere43;
angelica con riferimento specifico a Dante, cf.: P. V. MENGALDO, Preistoria e componenti di una tesi dantesca (DVE I, II, 3; III, 1-2), in Studi in onore di Alfredo Schiaffini, 2 voll., Roma 1965, II, pp. 680-709 (ripr. in ID., Linguistica e retorica cit. [alla nota 5], pp. 162-199); ID., s. v. Angeli (la lingua degli angeli), in Enciclopedia dantesca, 5 voll., Roma 1970-1978 (d’ora in avanti ED, con indicazione solo del numero del volume), I, pp. 268-272; J. L. CHRÉTIEN, Le langage des anges selon la scolastique, in «Critique», 387-388 (1979), pp. 674-689; B. FAES DE MOTTONI, Il linguaggio e la memoria dell’angelo in Dante, in Pour Dante. Dante et l’Apocalypse. Lectures humanistes de Dante, sous la dir. de B. Pinchard, Paris 2001, pp. 237-253; I. ROSIER-CATACH, «Solo all’uomo fu dato di parlare»: Dante, gli angeli e gli animali, in «Rivista di filosofia neoscolastica», 3 (2006), pp. 435-465. Si vedano inoltre i seguenti studi: B. FAES DE MOTTONI, Enuntiatores divini silentii: Tommaso d’Aquino e il linguaggio degli angeli, in «Medioevo», 12 (1986), pp. 197-228; EAD., Voci, ‘alfabeto’ e altri segni degli angeli nella quaestio 12 del De cognitione angelorum di Egidio Romano, in «Medioevo», 14 (1988), pp. 71-105; EAD., San Bonaventura e la scala di Giacobbe. Letture di angelologia, Napoli 1995; T. SUAREZ-NANI, Connaissance et langage des anges selon Thomas d’Aquin et Gilles de Rome, Paris 2002. 40 Sull’oralità della parola negli scritti letterari del Medioevo, cf. P. ZUMTHOR, La lettre et la voix. De la ‘littérature’ médiévale, Paris 1987. 41 Cf. G. FOLENA, Dante e la teoria degli stili, in ID., Textus testis: lingua e cultura poetica delle origini, Milano 2002, pp. 199-228. 42 Cf. M. COLOMBO, Note sul linguaggio amoroso dei mistici medievali e Dante, in «Letture Classensi», 13 (1984), pp. 89-109. 43 Cf. M. PAZZAGLIA, Il verso e l’arte della canzone nel De vulgari eloquentia, Firenze 1967.
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Introduzione
in generale, il rapporto esistente tra il trattato latino e il resto della produzione intellettuale dantesca. I riferimenti filosofici vanno cercati altrove, e dovrebbero tener presente la possibile armonia tra istanze filosofiche, poetiche e antropologiche44.
3. La ricerca della parola perfetta
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Le tesi della Corti in modo acritico sono state accettate per elaborare idee d’importanza non marginale per la stessa cultura occidentale. Un
44 Un contributo su questa linea interpretativa è dato da alcuni saggi di Giorgio Agamben, raccolti nel volume Stanze, del 1977. Trascurati dai dantisti, questi studi hanno preso avvio da un presupposto implicito interessante, che può essere tradotto in questi termini: la poesia dantesca non solo è ricettacolo di teorie filosofiche importanti, il linguaggio poetico in quanto tale è lo strumento più adeguato per esprimere idee che altrimenti perderebbero la loro forza. Per esempio, la difficoltà nel vedere nelle esperienze degli stilnovisti un linguaggio filosofico e dottrine ben codificate è il risultato, ha sostenuto Agamben, di una scissione che si è prodotta nella cultura occidentale tra parola poetica e parola pensante. Tale scissione ha portato alla convinzione che la poesia sia ciò che possiede il proprio oggetto senza conoscerlo, la filosofia una disciplina che lo conosce senza rappresentarlo. La parola poetica degli stilnovisti, come quella di Dante, rivelerebbe, al contrario, una nuova prospettiva, un nuovo modo di filosofare, che la cultura occidentale ha dimenticato a causa di questa scissione. In altri termini, la poesia non risponde a sole esigenze di carattere estetico, che ne limitano il ruolo a una presentazione formale della verità; instaura con quest’ultima un rapporto intimo, rivelandosi, di conseguenza, un mezzo di conoscenza. Dalla lettura di Agamben si possono trarre alcune lezioni, a partire dall’importanza che assume lo stilnovismo nell’economia delle teorie linguistiche. Nell’esperienza degli stilnovisti, infatti, è elaborata una nuova concezione del segno, che non necessariamente deve essere interpretato secondo un rapporto diretto ed estensivo con la cosa. L’amore gioca un ruolo fondamentale nel sistema antropologico dell’opera dantesca, e qualsiasi interpretazione legata a un chiarimento delle teorie linguistiche non può prescindere dal retaggio filosofico-poetico stilnovistico che Dante recepisce nei primi anni della sua formazione. Questo significa che la Vita nuova assume, rispetto alla marginalità in cui l’opera è stata collocata dalla critica, una posizione di partenza importante per lo sviluppo di una nuova idea del segno linguistico: quest’ultimo non esprimerebbe la res in quanto tale, perché è mediato nella sua formazione dall’esperienza amorosa e dal gioco psicologico degli spiriti all’interno dell’individuo. Cf. G. AGAMBEN, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino 1977.
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La ricerca della parola perfetta
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caso esemplare, anche perché al di fuori di studi specifici e specialistici, e per tale motivo con una maggiore divulgazione rispetto a questi, è rappresentato dal volume di Umberto Eco La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea45, che ha dedicato un capitolo alle teorie linguistiche di Dante. Il testo ha ripreso l’idea di fondo della Corti, riguardo il passaggio del De vulgari sulla forma linguistica («forma locutionis») che il primo uomo avrebbe ricevuto direttamente da Dio, ovvero «il principio generale strutturante della lingua sia per quanto riguarda il lessico sia per quanto [riguarda] i fenomeni morfosintattici»46. [Dante] poteva pensare alla forma locutionis come a una sorta di meccanismo innato che a noi contemporanei ricorda esattamente quei principi universali di cui si occupa la grammatica generativa chomskiana (la quale d’altra parte si ispira agli ideali razionalistici di Descartes dei grammatici di Port-Royal, i quali riprendevano la tradizione modistica medievale)47.
L’episodio di Babele è, secondo Umberto Eco, simbolo della scomparsa della forma locutionis perfetta, «l’unica che permettesse la creazione di lingue capaci di riflettere l’essenza stessa delle cose»48. Quanto è sopravvissuto all’atto blasfemo che ha visto protagonisti gli uomini sono formae locutionis «sgangherate e imperfette», come imperfetti sono i volgari italiani che Dante analizza nei loro difetti. A partire da questo punto, il cammino del volgare illustre è tracciato: restaurare la lingua perfetta e permettere al Poeta «di rendere le parole adeguate a ciò che debbono esprimere»49. Il pregiudizio implicito in questa interpretazione, in fondo accettato anche da quelle posizioni che hanno criticato duramente il nesso Dante-modisti, è consistito nell’utilizzare il criterio dell’adaequatio nome-cosa come punto nodale del pensiero dantesco sulla lingua. Si ha
45 Cf. U. ECO, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Bari 1993 (ultima ed. 1999). Cf. anche ID., Dall’albero al labirinto. Studi storici sul segno e l’interpretazione, Milano 2007. Anche Alessandro Ghisalberti sembra condividere alcune tesi della Corti: cf. A. GHISALBERTI, Dante Alighieri: la teologia del poeta, in Storia della teologia nel Medioevo, dir. di G. d’Onofrio, 3 voll., Casale Monferrato 2003, II, La grande fioritura, pp. 301-323, in partic. pp. 317-321. 46 CORTI, Dante a un nuovo crocevia cit. (alla nota 22), p. 47. Cf. De vulg. I vi 5. 47 ECO, La ricerca della lingua cit., p. 52. 48 Ibid., p. 52. 49 Ibid., p. 53.
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Introduzione
il sospetto che il concetto di perfezione utilizzato da Eco non abbia fatto che esasperare questo punto di vista, ritenendo che la lingua di Adamo non facesse che riflettere l’essenza delle cose. Ma è davvero questo l’interesse di Dante, stabilire un rapporto biunivoco tra nomen e res? Non è piuttosto, nell’ambito di un progetto poetico, storico, morale, politico, cogliere la relazione tra soggetto e cosa anche sotto modalità affettive? La riflessione di Dante sul linguaggio sembra forzare l’intellettualismo presente in una parte della speculazione logica e grammaticale del secolo XIII. Questo intellettualismo, ha notato Earline Jennifer Ashworth, è costituito da tre elementi. Il primo privilegia la nozione di linguaggio come sistema razionale, in cui la parola è isolata dal contesto all’interno del quale prende forma, e dal ruolo fondamentale dell’intenzione o sentimento del locutore. Il secondo focalizza l’attenzione esclusivamente su un linguaggio proposizionale, canonico – secondo la lezione di Prisciano – suscettibile di divenire linguaggio scientifico in quanto speculare alla realtà che esprime. In questo caso, come accade per certi modisti, le forme di linguaggio non discorsive essenziali alla costruzione della frase poetica, come per esempio le esclamazioni, sono considerate irrilevanti (e già questo elemento è sufficiente per sancire la totale antinomia, da un punto di vista programmatico e filosofico, tra Dante e la grammatica speculativa). Il terzo presta scarsa attenzione a segni che denotano passioni, o a concetti espressi sotto il modo dell’affetto50. L’interesse del Poeta è probabilmente rivolto a quelle espressioni nelle quali si crea una sorta di corto circuito nel rapporto tra vox, mens e res, più congeniale allo sperimentalismo linguistico e al plurilinguismo che caratterizzano la sua opera poetica. In questa prospettiva, il passo del De vulgari sulla nascita della parola assume un ruolo centrale, sia come maturazione di alcune tesi sviluppate in particolare nella Vita nuova e nelle Rime, sia come modello teorico per costruire in modo consapevole la Commedia. In un recente studio, che non a caso ha assunto le pagine del trattato latino sulla ‘parola prima’ come chiave di volta del pensiero linguistico di Dante, e che ha visto nell’affectus il criterio più adeguato per interpretare questo passaggio, Alessandro Raffi ha scritto:
50 Cf. E. J. ASHWORTH, Aquinas on Significant Utterance: Interjections, Blasphemy, Prayer, in Aquinas’s Moral Theory. Essays in Honor of Norman Kretzmann, edd. S. Mac Donald - E. Stump, Ithaca - London 1998, pp. 207-234.
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La ricerca della parola perfetta
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La nobiltà della lingua non si misura dalla facoltà di rappresentare il visibile in senso mimetico, ma dalla sua capacità di incalzare l’Invisibile e di sporgersi verso quell’Altrove rispetto al quale nessun segno potrà mai essere adeguato. Il poeta è sempre coinvolto in una sorta di paradossale «arte della fuga»: attraverso la sua voce il linguaggio ritrova il luogo della sua Origine solo a patto di trasmodare, eccedendo se stesso e aprendosi all’Ineffabile51.
Lo studioso ha parlato di una «teologia del segno», espressione che implicitamente indica l’incontro tra istanze teologiche e grammaticali che Marie-Dominique Chenu ha identificato come elemento caratteristico della speculazione medievale52. In questo caso, il segno linguistico si carica di significati che vanno al di là della relazione estensiva tra discorsonome e cosa. Esiste una seconda relazione, più originaria, e concerne il rapporto intimo che l’uomo instaura con il mondo, con Dio, con gli altri uomini, relazione non mimetica, come si cercherà di verificare, alla base della concezione dell’Alighieri sul linguaggio.
51 Cf. A. RAFFI, La gloria del volgare. Ontologia e semiotica in Dante dal Convivio al De vulgari eloquentia, Soveria Mannelli 2004, p. 252. 52 Cf. M. D. CHENU, Grammaire et théologie aux XIIe et XIIIe siècles, in «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge», 10 (1936), pp. 5-28.
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PARTE PRIMA Comunicazione, spirito e morale
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Capitolo primo
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Parlare, parola, dire, voce...: il movimento spirituale del linguaggio
Mai non l’avrei riconosciuto al viso; ma ne la voce sua mi fu palese ciò che l’aspetto in sé avea conquiso. Questa favilla tutta mi raccese mia conoscenza a la cangiata labbia, e ravvisai la faccia di Forese. (Purg. XXIII 43-48)
1. «Lo sermone... è ordinato a manifestare lo concetto umano» Apprezzare l’uso della terminologia dantesca con riferimento ai fenomeni linguistici significa fare un primo e fondamentale passo verso la comprensione della riflessione di Dante sul linguaggio1. Si può constatare la complessità di questa terminologia, conseguenza di due fenomeni importanti:
1 In questo paragrafo mi occuperò brevemente (dato che il tema è ripreso più volte dagli studiosi, a partire dall’edizione del De vulgari di Marigo) della dimensione comunicativa più generale dell’azione locutoria. Questo aspetto emerge con particolare forza nei due trattati, il De vulgari e il Convivio, caratterizzati non a caso da una scelta deliberata, da parte dell’Autore, di trattare in maniera ‘scientifica’, con argomentazioni stringenti e con prosa lineare, i fenomeni linguistici. In particolare nel De vulgari, la locutio vulgaris, il linguaggio dell’uomo, in modo esplicito e con un riferimento alla terminologia degli scolastici, diventa il subiectum della trattazione, quindi il termine fisso attorno al quale ruotano le osservazioni dell’Alighieri.
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Parlare, parola, dire, voce...: il movimento spirituale del linguaggio
il rapporto vivo e pratico che l’Autore instaura con il linguaggio, dovuto essenzialmente allo statuto in fieri della lingua italiana e agli scopi prevalentemente poetici che accompagnano l’opera dantesca; la rilevanza che la parola assume nel contesto medievale, grazie all’apporto fondamentale del Cristianesimo, che fa del Verbo (la parola) un oggetto di culto e un principio teologico-filosofico attraverso il quale comprendere la creazione del mondo, la natura dell’uomo e quella divina. L’attenzione che Dante presta al linguaggio è il risultato di un contesto generale di liberazione della parola. Il secolo XIII è stato ciò che Jacques Le Goff e Jean-Claude Schmitt hanno definito «le grand siècle de la parole»2. Per esempio, gli anni 1180-1230 sono stati fortemente caratterizzati dall’evoluzione della predicazione verso forme di professionalizzazione del linguaggio, nuovi modi di predicare che hanno tenuto conto sempre più spesso del potere che la parola esercita sui fedeli. Il rinnovamento dei metodi d’insegnamento nelle Università e tra gli Ordini Mendicanti ha contribuito, inoltre, alla nascita di una «nouvelle oralité savante»3, detentrice rispetto a forme scritte di linguaggio di un potere (potestas) superiore e più specifico4. In generale, nel Medioevo si assiste a un interesse nuovo per la parola e la sua forza, come nel caso di Ugo di San Vittore, che interrogandosi sulla efficacia del linguaggio da utilizzare affinché l’oratio possa giungere a buon fine dedica un trattato alla virtus della preghiera5. La lettura complessiva dell’opera di Dante pone subito di fronte a un dato, il ricorso continuo da parte dell’Autore a termini che hanno un particolare riferimento al campo semantico del linguaggio. A partire dalla Vita nuova, la frequenza dei verbi «parlare» e «dire», dei sostantivi «parole» e «voce», è impressionante: un aspetto che rivela l’interesse quasi ossessivo del Poeta per i fenomeni linguistici6. Un passo del libello, che 2 J. LE GOFF - J. C. SCHMITT, Au XIIIe siècle, une parole nouvelle, in Histoire vécue du peuple chrétien, dir. J. Delumeau, 2 voll., Toulouse 1979, I, pp. 257-279. 3 Ibid, p. 266. 4 Cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, IIIa, q. 42, art. 4, resp. 1, in ID., Opera Omnia, iussu Leonis XIII P. M. edita (in seguito: ed. Leonina), [tt. IV-XI], Roma 1887-1906, XI, p. 414. 5 Sulla virtus della preghiera, con particolare riferimento alla concezione che il Vittorino ha del discorso religioso, cf. infra, pp. 253-256. 6 Il vocabolario dantesco relativo al linguaggio è ricco; si possono citare le seguenti voci: «dire», «parlare», «parola», «favella», «lingua», «sentenza», «segno», «sermone», «dittare», «voce», «nomi». Si tratta – è bene precisare – soltanto di
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«Lo sermone... è ordinato a manifestare lo concetto umano»
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conferma l’ipotesi dell’importanza fondamentale di tale scritto per una prima elaborazione delle teorie linguistiche, può dare un’idea di questa ossessione: Avvenne quasi nel mezzo de lo mio dormire che me parve vedere ne la mia camera lungo me sedere uno giovane vestito di bianchissime vestimenta, e pensando molto quanto a la vista sua, mi riguardava là ov’io giacea; e quando m’avea guardato alquanto, pareami che sospirando mi chiamasse, e diceami queste parole: «Fili mi, tempus est ut pretermictantur simulacra nostra». Allora mi parea che io lo conoscesse, però che mi chiamava così come assai fiate ne li miei sonni m’avea già chiamato: e riguardandolo, parvemi che piangesse pietosamente, e parea che attendesse da me alcuna parola; ond’io, assicurandomi, cominciai a parlare così con esso: «Segnore de la nobiltade, e perché piangi tu?». E quelli mi dicea queste parole: «Ego tanquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentie partes; tu autem non sic». Allora, pensando a le sue parole, mi parea che m’avesse parlato molto oscuramente; sì ch’io mi sforzava di parlare, e diceali queste parole: «Che è ciò, segnore, che mi parli con tanta oscuritade?». E quelli mi dicea in parole volgari: «Non dimandare più che utile ti sia». E però cominciai allora con lui a ragionare de la salute la quale mi fue negata, e domandailo de la cagione; onde in questa guisa da lui mi fue risposto: «Quella nostra Beatrice udio da certe persone di te ragionando, che la donna la quale io ti nominai nel cammino de li sospiri, ricevea da te alcuna noia; e però questa gentilissima, la quale è contraria di tutte le noie, non degnò salutare la tua persona, temendo non fosse noiosa. Onde con ciò sia cosa che veracemente sia conosciuto per lei alquanto lo tuo secreto per lunga consuetudine, voglio che tu dichi certe parole per rima, ne le quali tu comprendi la forza che io tegno sopra te per lei, e come tu fosti suo tostamente da la tua puerizia. E di ciò chiama testimonio colui che lo sa, e
nuclei terminologici, attorno ai quali ruota una costellazione di voci che volutamente tralascio, come, per esempio, «parlamento» (che ricorre prevalentemente nel Fiore). Per le occorrenze di alcune di queste voci e le loro definizioni, cf. R. AMBROSINI, s. v. Dire, in ED, II, pp. 467-470; B. BASILE, s. v. Dittare, Dittato, Dittatore, ibid., II, pp. 520-521; D. CONSOLI, s. v. Parlare, Parola, ibid., IV, pp. 307-310 e 318-320; ID., s. v. Voce, ibid., V, pp. 1111-1113; ID., s. v. Segno, ibid., V, pp. 127-130; ID., s. v. Sermone, ibid., V, p. 186; P. V. MENGALDO, s. v. Lingua, ibid., III, pp. 655-664; A. NICCOLI, s. v. Sentenza (Sentenzia), ibid., V, pp. 169-171. Per quanto riguarda il termine «linguaggio», si tratta di un francesismo usato solo tre volte nella Divina Commedia (e una nel Fiore) con il valore di lingua, di idioma. Si rinvia all’articolo di Mengaldo appena citato, e a L. ONDER, s. v. Linguaggio, ibid., III, p. 664.
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Parlare, parola, dire, voce...: il movimento spirituale del linguaggio
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come tu prieghi lui che li le dica; ed io, che son quelli, volentieri le ne ragionerò; e per questo sentirà ella la tua volontade, la quale sentendo, conoscerà le parole de li ingannati. Queste parole fa che siano quasi un mezzo, sì che tu non parli a lei immediatamente, che non è degno; e no le mandare in parte, sanza me, ove potessero essere intese da lei, ma falle adornare di soave armonia, ne la quale io sarò tutte le volte che farà mestiere»7.
Tutto il mondo di Dante potrebbe essere visto alla luce di parole, suoni, segni che sembrano tessere la carne e lo spirito dei suoi attori. È un quadro in movimento dove gli esseri appaiono attraverso la parola, in un dialogo continuo e ininterrotto: la bellezza e la virtù parlano con l’intelletto, lo spirito animale si rivolge con parole allo spirito della vista8, l’Amore parla con il cuore9. Si potrebbero moltiplicare gli esempi, e tutti confermerebbero questa rinascita della parola che caratterizza a tutti i livelli, politico sociale poetico e religioso, a partire dal secolo XIII l’epoca medievale. Per comprendere il vocabolario di cui si serve l’autore fiorentino, è da segnalare, in primo luogo, l’importante contributo di Mirko Tavoni che, per quanto limitato a un’analisi della terminologia in latino del De vulgari eloquentia, ha messo in evidenza la puntualità («polivalenza e specificità») dei vocaboli utilizzati da Dante, secondo uno schema che corrisponde all’architettura concettuale del trattato10. Il latino medievale, 7 VN XII 3-8. Cf. G. D’ONOFRIO, Consequentia rerum: le parole e la distinzione delle cose nel pensiero di Dante, in Oggetto e spazio. Fenomenologia dell’oggetto, forma e cosa, dai secoli XIII-XIV ai post-cartesiani, Atti del Convegno (Perugia, 8-10 settembre 2005), a c. di G. Federici Vescovini - O. Rignani, Firenze 2008 (Micrologus’ Library, 24), pp. 37-57, in partic. pp. 48-50. 8 Cf. VN II 5. 9 Cf. VN XXIV 4. 10 TAVONI, Ancora su De vulgari eloquentia cit. (Introd., alla nota 16), p. 470. Il termine locutio ha un valore attivo determinato dal suo suffisso, e in modo regolare significa il parlare, la parola o l’espressione linguistica. Il termine loquela, al contrario, è costruito con un diverso suffisso, e per questo in tutte le sue occorrenze significa la lingua. Il rapporto tra i due termini è analogo al rapporto che sussiste tra coppie di termini come corruptio e corruptela, parentatio e parentela, tuitio e tutela: in tutti questi casi il deverbale in -tio indica l’attività stessa del verbo (corruptio = corrompere; per cui, locutio vulgaris = loqui vulgariter, ben distinto da vulgaris), mentre il deverbale in -ela indica «un oggetto astratto in qualche modo prodotto da quella attività» (cf. ibid., p. 472). Per quanto riguarda ydioma, il termine indica prevalentemente una «particolare forma di espressione», un determinato tipo linguistico che corrisponde al sistema filosofico che struttura
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com’è noto, possiede un gran numero di termini per pensare la lingua o il linguaggio: locutio, ydioma, lingua, loquela, sermo, oratio, vox, ecc., ciò che contribuisce a una lettura problematica dello stesso De vulgari. Intraprendere la lettura del testo significa, pertanto, prestare particolare attenzione alla terminologia impiegata. L’interpretazione dei termini condiziona quella del trattato nel suo complesso, e considerata la varietà di registri del vocabolario latino diventa necessario interrogarsi sullo statuto dei vocaboli utilizzati11. il De vulgari. La specificità semantica del termine è provata dalla sua concentrazione nella zona testuale intermedia tra le tematiche della locutio, sviluppate con maggiore attenzione nei primi cinque capitoli del trattato, e quelle del vulgaris, presenti soprattutto nei capitoli 10-19 del primo libro. Il vocabolo è utilizzato per trattare le antiche forme in cui si realizzò la facoltà linguistica dell’uomo, come l’idioma adamitico o gli idiomi babelici. Il termine – legato com’è evidente alla sua radice etimologica idios, «particolare» – specifica il passaggio nel De vulgari da una definizione teorica del linguaggio in generale, a uno sguardo più specifico sulla storia linguistica dell’umanità. Nel caso di Adamo il dono del linguaggio da parte di Dio si concretizza in una «certa forma locutionis» (I vi 4), sintagma che in un dizionario latino potrebbe essere il definiens del lemma ydioma (cf. ibid., p. 480). Cf. M. TAVONI - J. G. PALLARÈS, De vulgari Eloquentia: edició bilingüe, Vic 1995, Intr., p. 26: «En el moment en què de la definició teòrica del que és el llenguatge en general (locutio) passa a la història lingüística de la humanitat, Dante posa sopra la taula el terme ydioma (...) come el més apte per designar les formes lingüístiques particulars en les quals el do diví de la paraula es va complir». Dopo aver postulato e trattato i concetti fondamentali relativi alla locutio vulgaris (il linguaggio umano), e dopo aver narrato la protostoria linguistica dell’umanità dall’idioma del primo uomo alla confusione degli ydiomata di Babele, fino agli ydiomata europei (tra i quali spicca l’ydioma nostrum, tripartito nei vulgaria d’oc, d’oil e del sì), Dante abbandona la ricerca sul passato per focalizzare l’attenzione sul presente, secondo uno schema riconfermato che dall’universale giunge al particolare. In questo caso l’osservazione diventa empirica, e si concentra sul vulgaris, precisamente i vulgaria municipali, che si strutturano nella penisola italiana ognuno con i propri caratteri e le proprie forme di pronuncia. Per tutti questi aspetti, ora si può fare affidamento anche al ricco apparato di note della nuova edizione critica del De vulgari, cf. DANTE ALIGHIERI, De vulgari eloquentia, ed. M. Tavoni, in ID., Opere, I, dir. di M. Santagata, Milano 2011 (I Meridiani). 11 Cf. I. ROSIER-CATACH, Introduction, in DANTE ALIGHIERI, De l’éloquence en vulgaire, introduction, annotation, glossaire par I. Rosier-Catach, traduction par A. Grondeux - R. Imbach - I. Rosier-Catach, Paris 2011, p. 25: «Il emporte à chaque fois de s’interroger sur la valeur des termes utilisés sans quoi l’on s’expose soit au risque de la surinterprétation – on assimile un terme à un autre au statut technique attesté, en le chargeant de tout l’appareil théorique qui l’encadre –, soit à celui de
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Parlare, parola, dire, voce...: il movimento spirituale del linguaggio
I termini impiegati nel De vulgari sono essenzialmente quattro: locutio, loquela, ydioma, vulgaris. È al termine locutio che si presterà la dovuta attenzione, in quanto il vocabolo si concentra in particolare nei primi cinque capitoli del De vulgari, dedicati a una trattazione spiccatamente teoretica del linguaggio umano12. Il sostantivo si lega al verbo loqui, confermando in questo modo il suo significato attivo, come in De vulg. I iv 4, dove è affrontato il tema dell’origine della parola. In generale, Dante concepisce il termine come manifestazione agli altri (uomini) di quanto il soggetto elabora concettualmente, un «enucleare aliis conceptum» di ordine sensibile e razionale, con caratteristiche che si contrappongono sia alla comunicazione spirituale e diretta degli angeli, sia alla comunicazione istintiva degli animali13. Questa definizione di locutio corrisponde a una concezione del linguaggio la cui funzione principale è la comunicazione con qualcuno, fatto evidente anche nel Convivio dove Dante sembra riprendere il «manifestare conceptum mentis» di una definizione di Tommaso d’Aquino: Lo sermone (...) è ordinato a manifestare lo concetto umano14.
L’utilizzo in volgare dei termini «parlare» e «parola» testimonia l’accordo esistente tra De vulgari e Convivio. In quest’ultimo testo, come nel trattato latino, il parlare denota l’atto di pronunciare le parole attraverso le
la sous-interprétation – on prend un terme pour un mot du discours ordinaire alors qu’il est porteur de connotations ayant pour origine un emploi spécialisé avéré». 12 Si prendano per esempio i primi due capitoli del testo dantesco. Lo scopo del trattato è di giovare «locutioni vulgarium gentium» (I i 1); il soggetto della condenda «vulgaris eloquentie doctrina» è la «vulgaris locutio», distinta dalla «locutio secundaria (...) quam Romani gramatica vocaverunt» (i 2). «Hec est nostra vera prima locutio»; «nostra» non «ut et aliam sit esse locutionem quam hominis» (ii 1): la locutio è infatti esclusiva dell’uomo, dato che gli angeli «nullo signo locutionis indiguisse videntur» (ii 3), e gli animali «de locutione non oportuit provideri», perché a essi «non solum non necessaria fuit locutio, sed prorsus dampnosa fuisset» (ii 5). Quanto all’asina di Balaam, la sua «vox inde resultavit distincta tamquam vera locutio» (ii 6); e quanto alle gazze, «talis actus locutio non est, sed quedam imitatio soni nostre vocis» (ii 7). I passi citati sono estrapolati da TAVONI, Contributo all’interpretazione cit. (Introd., alla nota 16), p. 386. 13 Cf. De vulg. I ii 3-5. 14 Conv. I v 12. Cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, Ia, q. 107, art.1, ad. 1, ed. Leonina cit. (alla nota 4), V, p. 488: «Nihil est enim aliud loqui ad alterum, quam conceptum mentis alteri manifestare». E cf. ibid., resp., p. 488.
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quali si trasmette una concezione dello spirito. Nel trattato in volgare è specificato che il parlare è un’azione esclusiva dell’essere umano, che in questo modo si distingue dagli animali, incapaci di veicolare per mezzo di segni sensibili un concetto razionale. Anche se è possibile verificare l’esistenza di esseri, come piche e pappagalli15, in grado di formulare proposizioni linguistiche sensate, a rigore questa non è un’azione locutoria. Il parlare è qualcosa di più nobile, e richiede perché possa essere definito tale che l’individuo imprima in esso la sua intenzione: Onde è da sapere che solamente l’uomo intra li animali parla, ed ha reggimenti ed atti che si dicono razionali, però che solo elli ha in sé ragione. E se alcuno volesse dire contra, dicendo che alcuno uccello parli, sì come pare di certi, massimamente della gazza e del pappagallo, e che alcuna bestia fa atti o vero reggimenti, sì come pare della scimia e d’alcuna altra, rispondo che non è vero che parlino né che abbiano reggimenti, però che non hanno ragione, dalla quale queste cose convegnono procedere; né è in loro lo principio di queste operazioni, né conoscono che sia ciò, né intendono per quello alcuna cosa significare, ma solo quello che veggiono e odono ripresentare16. Si vero contra argumentetur quis de eo quod Ovidius dicit in quinto Metamorfoseos de picis loquentibus, dicimus quod hoc figurate dicit, aliud intelligens. Et si dicatur quod pice adhuc et alie aves locuntur, dicimus quod falsum est, quia talis actus locutio non est, sed quedam imitatio soni nostre vocis; vel quod nituntur imitari nos in quantum sonamus, sed non in quantum loquimur. Unde si expresse dicenti ‘pica’ resonaret etiam ‘pica’, non esset hoc nisi representatio vel imitatio soni illius qui prius dixisset17.
Ancora nel Convivio, alcuni passaggi ribadiscono l’idea che l’azione locutoria, e in senso specifico il linguaggio, la lingua, consistano nella manifestazione ad alterum di un concetto: «Lo sermone lo quale è ordinato a manifestare lo concetto umano, è virtuoso quando quello fa»18. Il vo15 Per le fonti medievali sul tema, cf. F. MAZZONI, Per il tópos della gazza e del pappagallo (Convivio, III vii 9; De Vulgari Eloquentia, I ii 7), in «Italia medioevale e umanistica», 2 (1959), pp. 443-444. 16 Conv. III vii 9. 17 De vulg. I ii 7. 18 Cf. Conv. I v 14: «Quello sermone è più bello nello quale più debitamente si rispondono [li vocabuli...]»; xii 13: «In ciascuna cosa di sermone lo bene manifestare del concetto si è più amato e commendato». Il termine è usato per ‘lingua
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cabolo «sermone» presenta un legame evidente con l’utilizzo che si fa del corrispettivo termine in latino, sermo. In questo caso, risalta come la posizione filosofico-linguistica di Dante s’inscriva in una lunga tradizione, che concepisce nel linguaggio prevalentemente uno strumento attraverso il quale avviene uno scambio di pensieri tra esseri viventi, scambio che il De vulgari definisce con il termine «commertium». Il testo di riferimento di questa tradizione è il Timeo di Platone, nella versione latina di Calcidio. Autori come Ruggero Bacone e Roberto Kilwardy, dai cui scritti trapela un’ascendenza filosofica di tipo agostiniano, in modo più o meno diretto nelle loro definizioni sul linguaggio ricorrono a una formula che trova origine proprio nell’opera platonica, formula che circola in epoca medievale sotto la forma di luogo comune o massima: Siquidem propterea sermonis est ordinata communicatio, ut praesto forent mutuae voluntatis indicia19.
Il «parlare» e il «sermone» si concretizzano nelle «parole», gli elementi lessicali del discorso e i suoni vocali che veicolano le concezioni dell’anima. Nel Convivio si ha una bella definizione, importante perché sottolinea come la parola mostri, porti alla luce, un concetto o un dato che se inseriti in un circuito comunicativo arricchiscono la personalità di colui che li riceve. L’accrescimento della conoscenza, come insegna già Agostino, può essere solo il frutto della comunicazione: Le parole sono fatte per mostrare quello che non si sa20.
La parola è legata all’insegnamento, e il suo utilizzo è indice di una deficienza esistenziale che appartiene all’uomo, il quale per rimediare ad
umana’, propria dell’uomo, nella Divina Commedia; cf. Inf. XXVIII 4-6: «Ogne lingua per certo verrìa meno / per lo nostro sermone e per la mente / c’hanno a tanto comprender poco seno»; Purg. XII 111: «Cantaron sì, che nol dirìa sermone». In questi ultimi due casi il termine coincide con il «sermo deficit» di Ep. XIII 83. 19 PLATONE, Timaeus, 47c, transl. Calcidii, ed. J. H. Waszink, in CALCIDIO, [Platonis] Timaeus translatus commentarioque instrusctus, London - Leiden 19752 (Plato latinus, 4), [pp. 7-52], p. 44, 23. Per l’importanza che negli scritti medievali assume questa massima, cf. ROSIER-CATACH, «Solo all’uomo fu dato di parlare» cit. (Introd., alla nota 39), in partic. p. 438 e ss. 20 Conv. I ii 7.
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alcune sue mancanze è costretto a vivere in società. Contrariamente all’animale, l’uomo non ha un accesso immediato al nutrimento, né ai mezzi necessari alla sua difesa, mancanze alle quali riesce a ovviare grazie all’uso della parola. Scrive, in tal senso, Tommaso:
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Si quidem homo esset naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi anime passiones, quibus ipsis rebus conformaretur, ut earum noticiam in se haberet; sed quia homo est naturaliter animal politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis innotescerent alii, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces significativas ad hoc quod homines ad invicem conviverent21.
Lo stesso Dante parla di una necessità da parte dell’uomo di vivere in un insieme collettivo, ordinato alla realizzazione della vita felice. La realizzazione della felicità, scopo ultimo dell’«umana civilitade», avviene solo a patto che gl’individui stringano un’alleanza di reciproco rispetto. Nella vita, osserva l’Alighieri, l’uomo ha bisogno di molte cose, e la sua soddisfazione personale può essere attuata solo con l’«aiutorio» dei suoi simili. La necessità dell’uomo di vivere in famiglia, nel quartiere, nella città, nel regno, mette in evidenza l’essenza politica della specificità della comunicazione umana, che si realizza, quindi, per mezzo della parola22. L’essere umano è diverso non soltanto dagli animali, grazie al segno linguistico fa emergere la sua autenticità anche rispetto al mondo angelico23. Il problema della comunicazione angelica – che può essere formulato in questi termini: considerato che gli angeli sono spiriti puri, essi comunicano, e se comunicano in quale modo? – è tema di discussione tra gli scolastici. Lo stesso Dante partecipa indirettamente al dibattito, e la sua soluzione si distingue per originalità: gli angeli, per manifestare le loro gloriose concezioni, hanno a disposizione capacità intellettive pronte e ineffabili, grazie alle quali si fanno conoscere dai propri simili in modo immediato e totale, o per sé, o per mezzo dello Specchio della Sapienza, la luce della Mente divina dove il pensiero si palesa come in uno specchio ancor prima di essere concepito, e dentro cui tutti riflettono la loro bellez-
21 TOMMASO D’AQUINO, Expositio libri Peryermeneias, I, 2, ed. Leonina cit. (alla nota 4), I*/1, Roma - Paris 1989, p. 9, 25-33. 22 Cf. Conv. IV iv 1-2. 23 Cf. supra, Introd., nota 39.
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za e contemplano i loro desideri. Per questo motivo, non hanno bisogno della parola24. A differenza della maggior parte degli autori scolastici, l’Alighieri non accetta in modo deciso che la comunicazione angelica possa realizzarsi in un «signum locutionis». L’uomo non ha la stessa capacità di penetrazione rinvenibile in un essere intelligente e puro, l’opacità che lo contraddistingue lo oppone ontologicamente al mondo della chiarezza e della lucentezza assoluti, ragione per cui è richiesta da parte sua l’«enucleazione» laboriosa di un pensiero in un segno razionale e sensibile. Dato che caratteristica dell’uomo è ricevere i contenuti da una ragione e a questa trasmetterli, è stato necessario che il genere umano disponesse, per una mutua corrispondenza di pensieri, di un segno razionale; e considerata l’impossibilità che un’informazione si trasmetti da una ragione all’altra in modo immediato, necessaria è risultata la mediazione dei sensi, di un segno sensibile, un «medium sensuale»25. La parola è questo signum locutionis, questo nucleo
24 Cf. De vulg. I ii 3. È da notare come il testo parli di «angeli ad pandendas gloriosas eorum conceptiones (...)». Nella Commedia è utilizzato il verbo «pandi», che è latinismo da pandere, ed è impiegato per specificare proprio il ‘palesarsi’ del pensiero dei beati nello «speglio» (lo «speculum» del De vulg.) della mente divina. Cf. Par. XV 61-63: «... i minori e’ grandi / di questa vita miran ne lo speglio / in che, prima che pensi, il pensier pandi». 25 Cf. De vulg. I iii 2-3: «Oportuit ergo genus humanum ad comunicandum inter se conceptiones suas aliquod rationale signum et sensuale habere; quia, cum de ratione accipere habeat et in rationem portare, rationale esse oportuit; cumque de una ratione in aliam nichil deferri possit nisi per medium sensuale, sensuale esse oportuit. Quare, si tantum rationale esset, pertransire non posset; si tantum sensuale, nec a ratione accipere nec in rationem deponere potuisset. Hoc equidem signum est ipsum subiectum nobile de quo loquimur: nam sensuale quid est, in quantum sonus est; rationale vero in quantum aliquid significare videtur ad placitum». Cf. inoltre: ARISTOTELE, De interpretatione, 2, 16a, 19-20; ISIDORO DI SIVIGLIA, Etymologiae I, 9, 1, PL 82, 86B, ed. Lindsay cit. (Introd., alla nota 32), p. 37, 18-20: «Sunt autem verba mentis signa, quibus homines cogitationes suas invicem loquendo demonstrant»; TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, Ia, q. 107, art. 1, ad 1, ed. Leonina cit. (alla nota 4), p. 488: «In nobis interior mentis conceptus quasi duplici obstaculo clauditur. Primo quidem, ipsa voluntate, quae conceptum intellectus potest retinere interius, vel ad extra ordinare. Et quantum ad hoc, mentem unius nullus alius potest videre nisi solus Deus; secundum illud I Cor. II, ‘quae sunt hominis’, nemo novit ‘nisi spiritus hominis, qui in ipso est’ (1 Cor 2, 11). (...) Clauditur mens hominis ab alio homine per grossitiem corporis. Unde cum etiam voluntas ordinat conceptum mentis ad manifestandum alteri,
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concreto di pensieri che non appartiene agli angeli, né agli animali, con il quale si comunica e s’insegna, quanto Nardi con un’espressione felice ha designato la «sintesi viva» del concetto con il segno sensibile26. Concepiti nello stesso periodo, il De vulgari e il Convivio condividono la stessa riflessione sul linguaggio, riflessione che in entrambi i trattati si sviluppa a partire da una stessa antropologia di fondo: l’uomo nell’ordine gerarchico dell’universo occupa una posizione centrale, posta a metà strada tra il mondo angelico e quello animale27. La sua identità è definibile come l’intreccio indissolubile di una sostanza intelligente e di una sostanza materiale, quest’ultima definita nel trattato latino «grossitia»28. L’unione indissolubile tra corpo e anima è confermata dall’autorità del Liber de Causis (il «Libro delle Cagioni», secondo il volgarizzamento del titolo ricorrente nel Convivio): se è vero che tutto dipende e prende forma dalla luce e dalla bontà divina, esiste allo stesso tempo una differenza nella ricezione di questa bontà e di questa luce da parte degli esseri animati e inanimati. Come, infatti, esistono corpi diafani (tra i quali gli angeli, «sanza grossezza di materia»), in grado di ricevere pienamente la luce e lasciarsi
non statim cognoscitur ab alio, sed oportet aliquod signum sensibile adhibere. (...) Hoc autem obstaculum non habet angelus. Et ideo quam cito vult manifestare suum conceptum, statim alius cognoscit». 26 Cf. NARDI, Dante e la cultura medievale cit. (Introd., alla nota 7), p. 186: «Ciò che rende possibile la comunicazione delle conceptiones dell’animo, tra gli uomini, è, da una parte, la comune natura razionale, e, dall’altra, il segno sensibile in cui s’incarna il concetto della mente. La parola è la sintesi viva del concetto col segno sensibile; quest’ultimo è veramente parola, in quanto possiede un valore spirituale». 27 Cf. Mon. III xv 3: «Ad huius autem intelligentiam sciendum quod homo solus in entibus tenet medium corruptibilium et incorruptibilium; propter quod recte a phylosophis assimilatur orizonti, qui est medium duorum emisperiorum». Cf. TOMMASO D’AQUINO, Super IV Sententiarum, d. 23-50, d. 50, q. 1, a.1, resp., in ID., Opera Omnia, Parma 1858, VII/2, [pp. 872-1259], IV, p. 1247: «Intellectus enim noster est medius inter substantias intelligibiles et res corporales; unde anima intellectiva dicitur esse creata in orizonte aeternitatis, in libro de causis; et hoc ideo quia ipsa per intellectum attingit ad substantias intelligibiles; inquantum vero est actus corporis, contingit res corporales. Omne autem medium quanto magis appropinquat uni extremorum, tanto magis recedit ab alio; et quanto magis recedit ab uno, tanto magis alteri appropinquat». E cf. Liber de Causis, II, 22, éd. in P. MAGNARD, La demeure de l’être. Autour d’un anonyme. Études et traduction du Liber de causis, Paris 1990, p. 42: «Esse vero quod est post aeternitatem et supra tempus est anima, quoniam est in horizonte aeternitatis inferius et supra tempus». 28 De vulg. I iii 1.
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addirittura attraversare da essa, così esistono corpi costituiti interamente da materia (la terra) incapaci di riflettere qualsiasi forma luminosa: Così la bontà di Dio è ricevuta altrimenti dalle sustanze separate, cioè dalli Angeli, che sono sanza grossezza di materia, quasi diafani per la purità della loro forma; e altrimenti dall’anima umana, che, avegna che da una parte sia da materia libera, da un’altra è impedita, sì com’è l’uomo ch’è tutto nell’acqua fuor del capo, del quale non si può dire che tutto sia nell’acqua né tutto fuor da quella; e altrimenti dalli animali, la cui anima tutta in materia è compresa, ma, tanto dico, alquanto [è] nobilitata; e altrimenti dalle piante, e altrimenti dalle minere, e altrimenti dalla terra che dalli altri, però che è materialissima, e però remotissima e improporzionalissima alla prima simplicissima e nobilissima vertute che sola è intellettuale, cioè Dio29.
Sulla base di questa concezione antropologica, in cui l’uomo è in un certo senso visto come sinolo di materia e intelligenza, scaturisce una riflessione linguistica coerente e conseguente a questa stessa concezione. Come più volte è stato ribadito, il parlare e la parola consistono puntualmente nell’unione di una sostanza materiale e di una sostanza immateriale, il segno sensuale e il segno razionale. È da rilevare come anche in questo caso la riflessione dantesca trovi importanti precedenti in alcuni autori, per i quali la parola concepita come composizione di sensibile e razionale può essere paragonata all’uomo in quanto compositus di anima e di corpo. È, per esempio, la posizione di Bonaventura, che nel discutere la modalità di comunicazione angelica sottolinea il parallelismo tra unità psico-fisica dell’uomo e duplice composizione del linguaggio umano: Et hoc conveniens est ut, sicut homo compositus est ex anima et corpore, ita eius locutio aliquid habeat spirituale, aliquid corporale30.
Le teorie dello pseudo-Kilwarby, di Alberto Magno e di Pietro Ispano, mostrano una singolare convergenza con tale posizione31, e tutte trovano
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Conv. III vii 5. BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Commentaria in quatuor libros Sententiarum, II, d.10, a.3, q.1, in ID., Opera omnia, 10 voll., Quaracchi 1882-1902, II (1885), p. 269a. 31 Cf. C. MARMO, Corpo e anima del linguaggio nel XIII secolo, in Anima e corpo nella cultura medievale, Atti del V convegno di studi della Società Italiana per lo 30
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un precedente autorevole in Agostino. La parola, come è riportato nel De quantitate animae, presenta un elemento sensibile, il «sonus», e un aspetto di pertinenza della mente, la «significatio», che possono essere considerati quasi il corpo e l’anima della parola:
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Cum ergo nomen ipsum sono et significatione constet, sonus autem ad aures, significatio ad mentem pertineat; nonne arbitraris in nomine, velut in aliquo animante, sonum esse corpus, significationem autem quasi animam soni32?
Ma in cosa consiste precisamente per l’autore fiorentino la razionalità del segno, il concetto? La parola per Dante può essere considerata come qualcosa più di un semplice strumento di ‘mediazione’, ovvero un segno sensibile in movimento che riflette lo spirito morale di colui che parla? La parola è solo un mezzo neutro per relazionarsi all’altro, o lascia traccia nella sua essenza di un’impressione depositata dal «parladore»? Se si porta l’attenzione sui termini «parlare» e «parola» nella Divina Commedia, questi assumono toni e gradi espressivi vari, e sono spesso definiti da qualifiche attributive che cambiano in relazione al sentimento dell’agente linguistico e al contesto in cui si muove il protagonista dell’azione locutoria. In Inferno si hanno «parole di dolore»33, «parole maladette»34, «parole grame», «parole ebbre»35, «parole sciolte»36, parole che tormentano («assai ne cruccia con le sue parole»)37, «parole gravi»38, le uniche capaci di descrivere lo stato peccaminoso del regno infernale. Le parole stesse, sempre in relazione al contesto e al locutore che le pronuncia, possono essere moralmente positive: quelle dell’angelo venuto in soc-
Studio del Pensiero Medievale (Venezia, 25-28 settembre 1995), a c. di C. Casagrande - S. Vecchio, Firenze 1999, pp. 305-316; S. NAGEL, La vox come medium tra anima e corpo: annotazioni in margine ai commenti al De animalibus attribuiti a Pietro Ispano, ibid., pp. 191-205. 32 AGOSTINO DI IPPONA, De quantitate animae, XXXII, 66, PL 32, 1072, ed. W. Hörmann, Turnhout 1986 (CSEL, 89), [pp. 131-231], pp. 213-214. 33 Inf. III 26. 34 Inf. VIII 95. 35 Inf. XXVII 15, 99. 36 Inf. XXVIII 1. 37 Inf. XVI 72. 38 Inf. XIX 103.
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Parlare, parola, dire, voce...: il movimento spirituale del linguaggio
corso ai due pellegrini sono «parole sante»39, quello di Dante è un «parlare onesto»40. In Purgatorio si sente «parlare in modo soave e benigno»41. Le parole di Cacciaguida in Paradiso sono «chiare» («ma per chiare parole e con preciso / latin rispuose quell’amore paterno, / chiuso e parvente del suo proprio riso»)42. Beatrice, infine, «sorrise parolette brevi»43. Si cercherà di rispondere a quelle domande a partire da un’analisi dettagliata di alcuni luoghi della Vita nuova, opera spesso messa al margine per una comprensione delle dottrine linguistiche dell’Alighieri44. Il libello giovanile sviluppa una concezione antropologica diversa e complementare rispetto a quella esposta in precedenza, concezione che permette di decifrare meglio il senso dei termini «dire», «parlare», «parola», spesso connessi gli uni agli altri, al termine «voce» (la parte per così dire estrema dell’azione locutoria) e concepiti quale risultato di un movimento psicologico interno al locutore. La Vita nuova getta le fondamenta di una teoria del segno linguistico che trova applicazione perfetta nella Divina Commedia, opera addirittura inconcepibile, in una prospettiva filosoficolinguistica, senza l’esperienza preliminare del libello.
2. «Sì forte era la mia imaginazione, che piangendo incominciai a dire...» Nell’opera di Dante è possibile ravvisare un’attenzione particolare all’urgenza della parola, all’azione del parlare colta nell’atto stesso della sua nascita: parola concepita come evento, atto di rivelazione istantanea dello spirito del soggetto. Un aspetto testimoniato a più riprese da un ricorso quasi ossessivo a espressioni costruite con il verbo «cominciare»45, accom-
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Inf. IX 106. Inf. X 23. 41 Purg. XIX 44. 42 Par. XVII 34-36. 43 Par. I 95 (cf. Inf. II 56). 44 Mi sembra che la Vita nuova sia stata presa in considerazione dalla critica solo in quanto delinea una prima emancipazione del volgare rispetto al latino, ciò che spinge Dante a sottoporre il volgare stesso alle regole dell’ars. 45 Su questo aspetto, si veda G. GORNI, Il nodo della lingua e il verbo d’amore. Studi su Dante e altri duecentisti, Firenze 1981. 40
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«Sì forte era la mia imaginazione…»
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pagnato regolarmente dai termini «dire», «parlare», «parola», «voce», o seguito immediatamente dal discorso diretto del personaggio in causa, il quale «mette fuori», espone, «dirizza» sé e il suo segno linguistico a un determinato interlocutore46. Questa costruzione è tipica della Commedia, è applicata nel Fiore (che in questo modo lascia trapelare una possibile parentela con il poema) e trova la sua prima messa in scena nella Vita nuova e nelle Rime: «‘Pape Satàn, pape Satàn, aleppe!’, / cominciò Pluto con voce chioccia» (Inf. VII 1-2); «Cominciò poi a dir (...)» (XI 17); «E ‘l buon maestro ‘prima che più entre (...)’ / mi cominciò a dire» (XIII 16 e 18); «‘Ecco colei che tutto il mondo appuzza’ / sì cominciò lo duca mio a parlarmi» (XVII 3-4); «Cominciò a crollarsi mormorando» (XXVI 86) (nel senso che la fiamma di Ulisse cominciò a dire o parlare); «‘Raphèl maì amècche (...)’ / cominciò a gridar la fiera bocca» (XXXI 67-68); «E il mio conforto ‘perché pur diffidi?’ / a dir mi cominciò tutto rivolto» (Purg. III 22-23); «Alto sospir, che duolo strinse in ‘uhi!’ / mise fuor prima; e poi cominciò (...)» (XVI 64-65); «Franchez[za] cominciò la diceria / e disse (...)» (Fiore XIII 5-6); «Pietà cominciò poi su’ parlamento / con lagrime bagnando il suo visag[g]io / dicendo (...)» (XIV 1-3); «Astinenza sì cominciò a parlare / e disse (...)» (CXXXIII 1-2). Questi sono solo pochi esempi. Espressioni più o meno simili, come si può facilmente verificare, ricorrono con insistenza, e se si fa riferimento alla prima persona singolare del verbo «cominciar» in modo ancora più evidente risalta l’immediatezza della parola, scaturita da un soggetto che non riesce a contenere la portata di un’esperienza portentosa – che questa esperienza sia vissuta all’insegna di un contatto positivo con le cose da parte dell’agente linguistico, o che risulti da un contatto negativo47. La
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Per es. Conv. II ii 5. Cf. Inf. II 10; V 73; V 111-116: «Il poeta mi disse: ‘Che pense?’ / Quando rispuosi, cominciai: ‘Oh lasso (...)’ / Poi mi rivolsi a loro e parla’io, / e cominciai (...)»; XIV 43; XVI 52; XXIII 109; Purg. IV 43 e 123; VI 28; X 112; XXV 1920: «Allor sicuramente apri’ la bocca / e cominciai (...)»; Par. III 34-37: «E io a l’ombra che parea più vaga / di ragionar, drizza’mi, e cominciai, / quasi com’uom cui troppa voglia smaga: / ‘O ben creato (...)’»; XV 70-73: «Io mi volsi a Beatrice, e quella ch’udio / pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno / che fece crescer l’ali al voler mio. / Poi cominciai così (...)»; XVI 16; XVII 103: «Io cominciai, come colui che brama (...)»; XXVI 91; Conv. II ii 5: «Dirizzai la voce mia in quella parte onde procedeva la vittoria del nuovo pensiero, sì come virtù celestiale; e cominciai a dire: ‘Voi che intendendo (...)’» e cf. II xii 9; III i 13: «E cominciai a dire: 47
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Parlare, parola, dire, voce...: il movimento spirituale del linguaggio
parola, il parlare, il dire, sono sempre momenti evenemenziali, risultati da un volere, da un desiderio o da un sentimento di difficile contenimento, da stati dello spirito che richiedono uno strumento che faccia da valvola di sfogo. Non è casuale che in molti momenti dell’opera dantesca l’atto del parlare, che in alcuni casi – come nella Vita nuova – si confonde con il parlare poetico in quanto tale, sia preceduto da espressioni come «disfogare», «volontade», «brama», «voglia»: il cominciamento del parlare si radica in qualcosa di magmatico, un movimento di pressione interna appartenente al soggetto e che ha bisogno di erompere, di fuoriuscire esternamente, «fuor della mente», scrive Cavalcanti. Una sfaccettatura importante della riflessione dantesca che si coglie appunto solo a partire da un’attenta analisi del libello giovanile, che lega in modo indissolubile la nascita della parola ai concetti di «cuore», «immaginazione», «Amore» e «spirito». Prima di entrare nel merito di questa analisi, cercheremo di capire in quale contesto filosofico s’inserisce la Vita nuova; in che modo gli autori medievali concepiscono la formazione della parola umana. L’aspetto ‘comunicativo’ rappresenta solo la parte più generale di un fenomeno poliedrico, il linguaggio, così come questo è concepito dal Poeta, che in quanto poeta è portato a rilevare anche l’aspetto espressivo e spirituale della parola. Se nei trattati la dimensione razionale è più evidente, nelle opere poetiche sono altri i fattori messi in gioco, come il ruolo che l’immaginazione – posta a metà strada tra le facoltà intellettive e le facoltà sensitive – gioca nella formazione del parlare: la facoltà immaginativa e gli spiriti sono concetti alla base di un’idea del segno linguistico che non può essere valutata secondo una prospettiva semplicemente intellettualistica.
‘Amor che nella mente mi ragiona (...)’»; IV i 9: «E cominciai una canzone nel cui principio dissi (...)»; VN III 9: «Pensando io a ciò che m’era apparuto (...) cominciai allora questo sonetto»; IX 8: «Cominciai di ciò questo sonetto, lo quale comincia (...)»; XII 4: «Cominciai a parlare così con esso (...)»; XIX 2-3: «‘Donne ch’avete (...)’. Queste parole mi ripuosi ne la mente con grande letizia, pensando di prenderle per mio cominciamento; onde (...) cominciai una canzone con questo cominciamento (...)»; XXVII 1-2; XXXI 1: «Tanto dolore era fatto distruggitore dell’anima mia, e cominciai allora una canzone, la qual comincia: ‘Li occhi dolenti (...)’»; Rime LXXXIV 1-4: «Parole mie che per lo mondo siete / voi che nasceste poi ch’io cominciai / a dir per quella donna in cui errai / ‘Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete (...)’».
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a) L’immaginazione e il movimento degli spiriti I luoghi antropologici di riferimento per spiegare la genesi fisico-biologica della parola – precisamente quella della vox – sono differenti, e vanno dal De anima di Aristotele ad Avicenna, da Agostino alla tradizione medica e all’opera di Giovanni Damasceno48. In tutti questi casi si sottolinea il ruolo base dell’immaginazione, interpretata a volte come excogitatio o sermo interior, altre volte come spirito, inteso nel senso galenico del termine come potenza o virtù organica dell’uomo. Il De anima aristotelico rappresenta senza dubbio una delle fonti principali per la comprensione della nascita della parola e per la definizione della vox. La condizione, secondo Aristotele, per far sì che un suono diventi realmente una parola è la dipendenza del suono stesso da un’immagine: «Oportet animatum esse verberans et cum ymaginatione aliqua»49. Severino Boezio specifica il senso della definizione aristotelica e aggiunge: l’immaginazione deve essere portatrice di significato, «cum imaginatione significandi»50. Con la riflessione di Alberto Magno la situazione si complica. In un articolo della Summa de creaturis il domenicano s’interroga sul processo 48 Cf. ROSIER-CATACH, La parole comme acte cit. (Introd., alla nota 36), in partic. pp. 123-155. 49 ARISTOTELE, De anima, II, 8, 420b30. 50 Cf. SEVERINO BOEZIO, In librum Aristotelis Peri hermeneias, Editio secunda, I, PL 64, 393C, ed. C. Meiser, Leipzig 1880, p. 4, 26-29: «Illa quoque potest esse definitio vocis, ut eam dicamus sonum esse cum quadam imaginatione significandi. Vox namque cum emittitur, significationis alicuius causa profertur». Cf. inoltre AVERROÈ, Commentarium magnum in Aristotelis De anima libros, II, 90, ed. F. S. Crawford, Cambridge (Mass.) 1953 (The Mediaeval Academy of America), p. 268, 28-33: «Et ideo dixit: ‘Animatum et cum ymaginatione’. Innuit enim quod ista actio completur duabus virtutibus anime, quarum una est concupiscibilis et altera ymaginativa. Deinde dixit: ‘Vox enim est sonus illius’, etc. Idest, primum enim movens in voce est anima ymaginativa et concupiscibilis». E cf. TOMMASO D’AQUINO, Sentencia libri de anima, II, 18, ed. Leonina cit. (alla nota 4), XLV/1, Roma - Paris 1984, p. 146, 160-167: «Oportet enim quod vox sit sonus quidam significans, vel naturaliter, vel ad placitum; et propter hoc dictum est, quod huiusmodi percussio est ab anima. Operationes enim animales dicuntur, quae ex imaginatione procedunt. Et sic patet, quod vox non est percussio respirati aeris, sicut accidit in tussi. Sed id cui principaliter attribuitur causa generationis vocis, est anima, quae utitur isto aere, scilicet respirato, ad verberandum aerem, qui est in arteria, ad ipsam arteriam. Aer ergo non est principale in vocis formatione, sed anima quae utitur aere, ut instrumento, ad vocem formandam».
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Parlare, parola, dire, voce...: il movimento spirituale del linguaggio
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attraverso il quale il suono vocale diventa significativo e sul modo in cui il significato si aggiunge alla voce. Secondo Alberto, il suono si associa al significato in due tempi. C’è innanzitutto la formazione di un discorso interiore, poi l’espressione di questo in un suono vocale. Grazie alla sua facoltà espressiva («potentia interpretativa»), il locutore può formare nel suono vocale che pronuncia una species o immagine della cosa, identica a quella che ha nel suo spirito, in funzione della sua intenzione di significare. Questa facoltà governa gli organi della parola e quindi la produzione della vox, che è aria percossa; essa vi imprime l’immagine contenuta nell’intelletto. Per Alberto, l’atto di significazione è l’impressione in un suono vocale di un’immagine simile a quella che esiste nello spirito del locutore51.
51 Cf. ALBERTO MAGNO, Summa de creaturis, q. 25, in ID., Opera omnia, 38 voll., éd. A. Borgnet, Paris 1890-1899, XXXV (1896), p. 243 e ss. Questa pragmatica del linguaggio è chiaramente distinta, nel pensiero di Alberto, dall’istituzione o imposizione della parola. Esistono per il tedesco due relazioni nel linguaggio. La prima è quella del suono vocale con la cosa che è al di fuori dell’anima, ed è questa che è in causa nel processo di istituzione del linguaggio; la seconda è quella di un suono vocale con una certa impressione, species o immagine sensibile della cosa presente nell’immaginazione, e questa è legata all’usus. Il capitolo sull’imposizione del Commentum super Priscianum Maiorem dello pseudo-Kilwardby è prossimo alla posizione di Alberto. Come questi il grammatico anonimo ammette che la prima istituzione del linguaggio debba effettuarsi per designazione di una cosa presente, alla quale si associa il suono vocale. Inoltre, ritiene che il processo d’imposizione di un suono vocale a una cosa non avvenga direttamente, ma per il tramite di un’operazione mentale. Il locutore sceglie innanzitutto di associare una tale immagine della cosa con una immagine del suono («cogitat enim apud se quem intellectum per quam vocem debeat significare»), ciò che produce un verbo mentale interiore; tutti gli uomini hanno la facoltà di effettuare questa operazione, nominata excogitatio, che è parte dell’anima sensitiva posta tra immaginazione e memoria. In un secondo tempo, l’anima per desiderio e volontà di trasmettere agli altri per mezzo di un segno sensibile ciò che essa pensa, attraverso un’azione sugli organi della parola produce un suono vocale esterno. La relazione del suono vocale all’immagine mentale o species è essenziale, perché solo per suo tramite il suono può divenire significativo per colui che lo riceve, e ottemperare in questo modo al suo destino finale: essere nuntius di una specie intellegibile. Cf. PSEUDOKILWARDBY, Commentum super Priscianum maiorem, edd. K. M. Fredborg - N. G. Green-Pedersen - L. Nielsen - J. Pinborg (The Commentary on ‘Priscianus Maior’ ascribed to Robert Kilwardby), Copenhagen 1975 («Cahiers de l’Institut du Moyen Âge grec et latin», 15.1975), p. 58, 10-28 e p. 61, 22-24. Si veda inoltre, su questo tema e sulla traduzione francese della questione della Summa di Alberto, ROSIER-CATACH, La parole comme acte cit., in partic. pp. 126-131 e pp. 303-315.
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Come si può constatare dalla breve disamina di questi testi, l’immaginazione e l’immagine giocano un ruolo fondamentale nella produzione della parola. I due termini, tuttavia, non devono essere sempre assunti secondo rigidità semantiche. Già nel pensiero di Aristotele l’immaginazione fluttua tra senso e intelletto, e questo suo statuto ambiguo è conservato in parte del pensiero medievale52. L’imaginatio (o phantasia) è anche una facoltà dinamica, e a partire dalle asciutte definizioni delle prime enciclopedie medievali è un moto dell’anima, una sorta di ripiegamento su sé stessi che moltiplica, divide, contrae l’oggetto che s’imprime internamente dall’esterno53. Questo aspetto di dinamicità interna è accentuato nell’opera pseudo-agostiniana De spiritu et anima, dove l’imaginatio è vis animae che «traduce» internamente l’oggetto materiale. Attraverso l’immaginazione l’anima si scioglie quasi in ogni luogo, si eccita, s’innalza, sembra fluttuare; vagare in sé stessa come se stesse percorrendo un grande spazio («in semetipsa tamquam in magno percurrens spatio pervagatur»)54. Per Ugo di San Vittore, inoltre, l’immaginazione è uno
52 Cf. J. HAMESSE, Imaginatio et Phantasia chez les auteurs philosophiques du 12e et 13e siècle, in Phantasia-Imaginatio, Atti del V Colloquio internazionale del Lessico Internazionale Europeo (Roma, 9-11 gennaio 1986), a c. di M. Fattori M. Bianchi, Roma 1988, pp. 153-184; G. SPINOSA, Phantasia e Imaginatio nell’Aristotele latino, ibid., pp. 117-133; M. D. CHENU, Imaginatio: note de lexicographie philosophique médiévale, in Miscellanea Giovanni Mercati, 6 voll., Città del Vaticano 1946 (Studi e testi, 122), II, pp. 593-602 [ripr. in ID., Studi di lessicografia filosofica medievale, Firenze 2001, pp. 127-136]. 53 Cf. ISIDORO DI SIVIGLIA, Differentiae, PL 83, 32BC: «Phantasma vero est ex imagine cognita, aliqua, quam vidimus, imago formare, ut puta, species avi quem numquam vidisse meminimus; sed tamen eius species non memoria, sed motu animi figuratur. De cognitis ergo speciebus memoria collecta, phantasia est; de incognitis species animo figurata, phantasma. Nam figurata phantasmata nihil aliud sunt quam de specie corporis, corporeo senso abstracta; figmentoque memoriae, ut accepta sunt, vel partiri, vel multiplicare, vel contrahere, vel distendere, vel ordinare, vel turbare, vel quidlibet figurare cogitando facillimum est, sed, cum verum quaeritur, cavere et vitare difficile. Item phantasia est incognita ex cognitis conjectura, phantasma vero rerum incognitio cognitarum». 54 Cf. De spiritu et anima, 11, PL 40, 786-787: «Imaginatio est ea vis animae, quae rerum corporearum corporeas percipit formas, sed absentes. Sensus namque formas in materia percipit, imaginatio extra materiam: et ea vis quae exterius formata, sensus dicitur, eadem usque ad intimum traducta, imaginatio vocatur. Imaginatio namque de sensu oritur, et secundum eius diversitate ipsius quoque est variatio. Multa videt anima carnalibus oculis, multa etiam phantastica
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Parlare, parola, dire, voce...: il movimento spirituale del linguaggio
«spiritus corporeus» in grado di accordare la disparità essenziale nell’uomo tra corpo e spirito; è un fuoco o «incorporea lux», capace di operare una sorta di raffinamento dell’immagine impressa sull’organo del senso, in modo tale che l’immagine possa venire in contatto con la ragione55. Con il concetto di «spirito» il significato di immaginazione si arricchisce, e, lungi dal rappresentare qualcosa di negativo e secondario, la facoltà immaginativa – grazie all’apporto delle teorie stoiche, neoplatoniche e mediche – assume nel Medioevo un ruolo importante, suggellando un suo statuto pre-razionale, centrale tra il mondo dell’intelletto e quello sensibile56. L’immaginazione è spirito, per sottigliezza, mobilità, nobiltà, sentimento, sentire, affectus, e in quanto spirito si lega al cuore, che diviene il ricettacolo, la sede e l’organo delle immagini. Queste ultime non sono rappresentazioni neutre, ma com’è evidente nell’interpretazione degli stilnovisti – a partire da Cavalcanti – sono letteralmente «formate di desiderio» («formando di disio nova persona»; «fatta di gioco in figura d’amore»)57. Il movimento spirituale dell’immaginazione è chiaro nel sonetto cavalcantiano Pegli occhi fere uno spirito sottile, dove il meccanismo aristotelico dell’impressione dell’oggetto esterno sui sensi è specificato e illustrato dalla frequenza quasi ossessiva del termine «spirito». Uno spirito sottile penetra dagli occhi, ferisce questi e risveglia lo spirito che si trova nel cervello («fa’n la mente spirito destare»), suscitando in lui la forma immaginaria della donna; da questo secondo spirito nasce l’amore
imaginatione concipit: et ubique quasi diffunditur, movetur, erigitur, et fluctuare videtur: non a se egrediens, sed in semetipsa tamquam in magno percurrens spatio pervagatur; et non exit ad illa, sed tractatibus suis sibi illa repraesentat». 55 Cf. UGO DI SAN VITTORE, De unione corporis et spiritus, PL 177, 287D-288A, ed. A. Piazzoni, in «Studi Medievali», Ser. 3a, 21.2 (1980), [pp. 861-888], p. 886, 107-112: «Sensus namque sive per visum, sive per auditum, sive per olfactum, sive per gustum, sive per tactum, extinsecus corpus contingens formatur, ipsamque formam ex corporis contactu conceptam intrinsecus reducens permeatus singulis sensibus emittendis et revocandis introrsum dispositos ad cellam phantasticam colligit, eamque illi parti puriori corporei spiritus imprimens imaginationem facit». 56 Cf. M. D. CHENU, Spiritus: le vocabulaire de l’âme au XIIe siècle, in «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 41 (1957), pp. 209-232 [ripr. in ID., Studi cit. (alla nota 52), pp. 171-194]; G. SPINOSA, Vista, spiritus e immaginazione, intermediari tra l’anima e il corpo nel platonismo medievale dei secoli XII e XIII, in Anima e corpo cit. (alla nota 31), pp. 207-230. 57 GUIDO CAVALCANTI, Rime, XXXII, 17, in Poeti italiani del Duecento, a c. di G. Contini, Milano - Napoli 1960, p. 536; XXX, 22, p. 532.
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(«lo spirito d’amare»), che fa tremare gli altri spiriti, il vitale e il naturale («quest’è lo spiritel che fa tremare»)58. Ciò che preme sottolineare, come ha già fatto Giorgio Agamben59, è che questo motus spirituum (che si risolve in un tremore dell’anima, in un suo dolore, nella collera o nella gioia) potrebbe essere alla base di un’originale teoria del segno presso gli stilnovisti, i quali esplicitamente affermano l’origine ‘cardiaca’ della voce, termine che può indicare anche il canto o la parola poetica in quanto tale. «Tu, voce sbigottita e deboletta / ch’esci piangendo de lo cor dolente…»60, scrive per esempio Cavalcanti. Inoltre, si può notare come presso questi filosofi-poeti siano gli stessi spiriti che parlano, in particolare lo spirito d’amore, che tesse continuamente un dialogo con gli autori. Il segno si può letteralmente definire ispirato, perché risultato immediato del dialogo tra gli spiriti, oppure, come movimento che esprime in atto questo gioco interno e che si risolve non semplicemente nella funzione di indicare l’oggetto in quanto tale, ma nella funzione di significare una passio animae61. È Dante a suggellare questa nuova teoria del segno, nella Vita nuova, prima che nella Divina Commedia e nel I libro del De vulgari eloquentia.
b) La parola ‘ispirata’ Nell’opera dantesca si può notare come il concetto di «imaginazione» indichi sia la facoltà o senso interno dell’anima, sia – più genericamente – il prodotto di tale facoltà62. Com’è tipico della tradizione medievale, che
58
Ibid., XXVIII, 2, 3 e 7, p. 530. Cf. AGAMBEN, Stanze cit. (Introd., alla nota 44), in partic. pp. 146-155, ma anche pp. 121-129. 60 GUIDO CAVALCANTI, Rime, XXXV, 37-38, in Poeti cit. (alla nota 57), p. 542. 61 Per altri passi poetici appartenenti al Dolce stilnovo, e relativi al gioco degli spiriti e alla conseguente teoria di un segno ‘ispirato’, cf. anche L’Intelligenza, CCCIV, in Poemetti del Duecento, a c. di G. Petronio, Torino 1957, p. 504; DINO FRANCESCOBALDI, Rime, VII, in Poeti del Dolce stil nuovo, a c. di M. Marti, Firenze 1969, pp. 369-370; CINO DA PISTOIA, Rime, XVIII, ibid., pp. 465-466; ID., Rime, LXXIV, ibid., pp. 597-599; CLXXXV, pp. 920-921; LXIV, pp. 574-575. Per il concetto di spirito cf. anche P. BOYDE, Perception and Passion in Dante’s Comedy, Cambridge 1993, in partic. pp. 140-170. 62 Cf. A. LANCI, s. v. Imaginare, Imaginazione, Imagine, in ED, III, pp. 367-372. 59
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struttura il concetto sull’autorità di Aristotele, l’immaginazione è la facoltà che trattiene le forme sensibili astratte dalle cose tramite i sensi, e che l’intelletto trae a sé come materiale di conoscenza. Il concetto di «imaginazione» utilizzato da Dante rivela, tuttavia, due aspetti, che arricchiscono in senso passionale – si potrebbe dire – la definizione aristotelica. In primo luogo, l’«imaginare» è legato al cuore e alimenta tramite le immagini l’amore. In questo caso, il concetto s’inserisce nella tradizione degli spiriti tipica della trattatistica medica e della poesia stilnovistica, e allo stesso tempo si lega all’eredità filosofica di Avicenna, che fa del cuore il principium primum del desiderio amoroso: suscitati e commossi dalla forma sensibile della donna, penetrata negli occhi, lo spirito vitale, che ha sede nel cuore, lo spirito animale che ha sede nel cervello e lo spirito naturale, che ha sede nel fegato, generano nel cuore il desiderio d’amore. L’immaginazione, che impressionata dagli spiriti sensitivi i quali portano le loro percezioni al cervello, riceve e custodisce tale immagine, la ripresenta – anche in assenza della donna – al senso comune, alimentando in tal modo l’amore: «Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a lui disponsata, e cominciò a prendere sopra me tanta sicurtade e tanta signoria per la vertù che li dava la mia imaginazione, che me convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente»63. In secondo luogo, l’immaginazione se opera con particolare intensità è in grado d’impressionare il corpo e le sue funzioni, fino a esplodere esternamente: il libello giovanile si presenta come una raccolta accurata degli effetti dell’organo dell’immaginazione e dell’amore sulla psiche, come gli smarrimenti, le farneticazioni, i «tremuoti» del cuore, gli «spiriti smagati», il lacrimare, i sospiri, il ferimento degli occhi. Questi due aspetti mettono in evidenza come l’immaginazione rappresenti nella Vita nuova una facoltà dell’anima che coinvolge fisicamente Dante-personaggio, e come slitti in più occasioni verso il concetto di «sentire». L’immaginare, quindi, si presenta come un sentire interno il movimento tumultuoso o meno degli spiriti, movimento che esercitando una pressione sulla psiche erompe esternamente in diversi segni, come per esempio i sospiri. È in questo meccanismo di fuoriuscita degli spiriti dall’interno (il «disfogare»)64 – che anche Tommaso coglie parlando di
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VN II 7. Cf. VN IX 2: «E tutto ch’io fosse a la compagnia di molti quanto a la vista, l’andare mi dispiacea sì, che quasi li sospiri non poteano disfogare l’angoscia che 64
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una moltiplicazione degli spiriti e del calore attorno al cuore, che costringe l’uomo in alcuni casi a emettere gli spiriti «ad superiora per os»65– che si annida la nascita della parola (poetica), della voce. La Vita nuova è attraversata in tutte le sue fasi – dalle rime di origine cavalcantiana, dove più accentuato è l’aspetto corporeo dell’amore, allo stile della lode – da uno sguardo continuo all’atto del parlare nel suo formarsi. Quest’ultimo è sempre il risultato di una pressione dell’immaginazione sul cuore, che costringe l’autore-personaggio, come spinto da una forza superiore, a parlare: «La mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa, e disse…»66. «Voglio che tu dichi – così si rivolge Amore a Dante – certe parole per rima, ne le quali tu comprendi la forza che io tegno sopra te per lei»67. «E avendo già dette le parole che Amore m’avea imposte a dire – continua il fiorentino – mi cominciaro molti e diversi pensamenti a combattere e a tentare, ciascuno quasi indefensibilemente (…). E in questo stato dimorando, mi giunse volontade di scriverne parole rimate; e dissine allora questo sonetto (…)»68. Il capitolo XXIII del libello dantesco chiarisce questo meccanismo di pressione interna della psiche e relativa urgenza del parlare, e la parola nel suo nascere è ancora una volta inquadrata come manifestazione di un sentire interno potente, ciò che lo stesso Dante definisce «pensamento forte»69
lo cuore sentia, però ch’io mi dilungava de la mia beatitudine»; XXXI 1: «Poi che li miei occhi ebbero per alquanto tempo lagrimato, e tanto affaticati erano che non poteano disfogare la mia tristizia, pensai di volere disfogarla con alquante parole dolorose; e però propuosi di fare una canzone, ne la quale piangendo ragionassi di lei per cui tanto dolore era fatto distruggitore de l’anima mia; e cominciai allora una canzone». 65 Cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, Ia IIae, q. 44, art.1, ad 2, ed. Leonina cit. (alla nota 4), VI, p. 283: «Maximum auxilium (...) in animalibus est calor et spiritus; et ideo in dolore natura conservat calorem et spiritum interius, ut hoc utatur ad repellendum nocivum; et ideo Philosophus dicit in libro de Problematibus quod, multiplicatis spiritibus introrsum et calore, necesse est quod emittantur per vocem. Et propter hoc dolentes vix se possunt continere quin clament. Sed in timentibus fit motus interioris caloris et spirituum a corde ad inferiora, ut dictum est, et ideo timor contrariatur formationi vocis, quae fit per emissionem spirituum ad superiora per os». 66 VN XIX 2. 67 VN XII 7. 68 VN XIII 1-7. 69 VN XV 1.
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e, in più occasioni, «volontade di dire»70. Tutti i fattori necessari alla genesi della parola sono qui presenti, e s’intrecciano fino a concretarsi esternamente in esclamazioni o nel nome stesso di Beatrice: un «forte smarrimento», l’«imaginare», l’«erronea fantasia», l’«Amore», il «cuore». Il personaggio Dante è all’improvviso colto nel sogno da una visione (donne scapigliate, l’oscuramento del sole, stelle piangenti, uccelli morti) e in questa farneticazione presagisce la morte di Beatrice. «Allora – scrive – cominciai a piangere molto pietosamente; e non solo piangea ne la imaginazione, ma piangea con li occhi, bagnandoli di vere lagrime». Immagina, poi, di vedere la donna gentilissima trasportata dagli angeli verso il cielo, ed è in questo momento che il cuore gli parla, confermando la morte della donna: «Allora mi parea che lo cuore, ove era tanto amore, mi dicesse: vero è che morta giace la nostra donna». In una sorta di crescendo, il sogno si ravviva («fue sì forte la erronea fantasia»): donne coprono di un velo bianco Beatrice; Dante si appella alla morte, si chiude in solitudine, guarda verso il cielo e, preso da immagini sempre più sentite, prorompe in parole reali («verace voce»), che squarciano il velo onirico della fantasia71: Sì forte era la mia imaginazione, che piangendo incominciai a dire con verace voce: «Oi anima bellissima (...)!»72.
Il ruolo dell’immaginazione non deve essere dissociato dal gioco interno degli spiriti e dalla parte che gioca il cuore in questo passo, ciò che dà un senso realistico e fisiologico alla descrizione della formazione della parola e della voce, e non solo figurato. Solo considerando il movimento pneumatico interno all’individuo può essere compresa fino in fondo la nascita della vox, la verace voce, «voce (...) sì dolorosa / e rotta sì da l’angoscia del pianto»73: Piansemi Amor nel core, ove dimora; per che l’anima mia fu sì smarrita, che sospirando dicea nel pensero: – Ben en converrà che la mia donna mora. –
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VN XVI 1; XIX 1; XXXVI 3. Cf. VN XXIII 6-10. 72 VN XXIII 10. 73 VN XXIII 19 (Donna pietosa e di novella etade), vv. 15-16. 71
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Io presi tanto smarrimento allora, ch’io chiusi li occhi vilmente gravati, e furon sì smagati li spirti miei, che ciascun giva errando; e poscia imaginando (…)74.
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Se questo sonetto chiarisce il meccanismo che è alla base della nascita della parola, la cosa risulta ancora più palese se ci si riferisce ad altri due componimenti: Poi prende Amore in me tanta vertute che fa li miei spiriti gir parlando ed escon for chiamando la donna mia, per darmi più salute75. Amor, che ne la mente la sentia [scil. la donna gentil] s’era svegliato nel destrutto core, e diceva a’ sospiri: «Andate fore»; per che ciascun dolente si partia. Piangendo uscivan for de lo mio petto con una voce che sovente mena le lagrime dogliose a li occhi tristi (...)76.
Come si può constatare, Dante delinea, anche se in maniera non sistematica, un’originale teoria del segno vocale o della parola, che risente fortemente della lezione degli stilnovisti. Una costante in particolare struttura il suo pensiero: l’amore come principio fondante dell’espressione segnica. Definito nella Divina Commedia «moto spiritale», risultante da un ripiegamento dell’anima sull’immagine («intenzione») della cosa percepita77,
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VN XXIII 21-22 (ibid.), vv. 31-39. VN XXVII 4 (Sì lungiamente m’ha tenuto Amore), vv. 9-12. 76 VN XXXIV 9-10 (Era venuta ne la mente mia), vv. 5-11. Gli esempi avrebbero potuto essere moltiplicati. Molti dei sonetti della Vita nuova descrivono questo gioco interno degli spiriti, movimento psicologico scaturigine di un segno linguistico ‘ispirato’. 77 Cf. Purg. XVIII 22-27: «Vostra apprensiva da esser verace / tragge intenzione, e dentro a voi la spiega, / sì che l’animo ad essa volger face; / e se, rivolto, inver’ di lei si piega, / quel piegare è amor, quell’è natura / che per piacer di novo in voi si lega». 75
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l’amore, già a partire dal libello giovanile, è ciò che impone l’attività del dire (poetico): «Amore m’avea imposte a dire…». Dante caratterizza l’espressione linguistica come risultato immediato (il «disfogare») dello spirito d’amore, «nota» di una passio animae che dall’interno dell’individuo «detta» il suo linguaggio spirituale78. L’amore, scrive il Poeta, «muove l’Imponitore del nome»79. Ribadirà più avanti negli anni, e con un linguaggio che consapevolmente richiama i codici linguistici delle teorie del segno: «I’mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando»80. Come negli stilnovisti, il segno vocale per l’Autore è letteralmente ispirato, non denota solo la cosa che esternamente è presente all’anima, ma racchiude nella sua parte sensibile lo spirito del locutore. Per questo le parole nella Vita nuova si confondono il più delle volte con i sospiri, sono «miste» al pianto («allora queste donne cominciaro a parlare tra loro; e sì come talora vedemo cadere l’acqua mischiata di bella neve, così mi parea udire le loro parole uscire mischiate di sospiri»)81, si trasformano in esclamazioni e lo stesso nome di Beatrice è amore, dolore o lode. 78 Il verbo «dittare», generalmente legato alla scrittura, e in senso lato al dire e al parlare, ricorre in altri due passaggi importanti, Purg. XIV 12 et VN XX 3 (Amore e il cor gentil), v. 2. Il verbo allude alla tradizione delle artes dictaminis, ed è utilizzato in particolare per sottolineare il ruolo di scriba Dei che Dante sembra tacitamente arrogarsi; cf. Purg. XXIV 58-59: «Io veggio ben come le vostre penne / di retro al dittator sen vanno strette (...)». Lo stesso Cavalcanti, e lo stilnovismo in generale, condividono questa concezione; cf. GUIDO CAVALCANTI, Di vil matera mi convene parlare, v. 16, in Poeti cit. (alla nota 57), p. 564: «Amore à fabricato ciò ch’io limo». Per un senso più spirituale del concetto di scriba Dei, cf. RICCARDO DI SAN VITTORE, Tractatus de gradibus charitatis, I, PL 196, 1195A: «Quomodo enim de amore loquetur homo qui non amat, qui vim non sentit amoris? De aliis nempe copiosa in libris occurrit materia; huius vero aut tota intus est, aut nusquam, quia non ab exterioribus ad interiora suavitatis suae secreta transponit, sed ab interioribus a exteriora transmittit. Solus proinde de ea digne loquitur qui secundum quod cor dictat verba componit». In generale si veda C. CASAGRANDE, Le calame du Saint-Esprit. Grâce et rhétorique dans la prédication au XIIIe siècle, in La parole du prédicateur: Ve- XVe siècle, Études réunis par R. M. Dessì - M. Lauwers, Nice 1997 (Collection du Centre d’Études Médiévales de Nice, 1), pp. 237-254. Per il rapporto tra parola e Spirito Santo si veda anche il capitolo successivo. 79 VN XXIV 4. 80 Purg. XXIV 52-54. 81 VN XVIII 5.
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L’interesse di Dante è rivolto alla poesia, pertanto, alla costruzione di proposizioni non canoniche che includano suoni disarticolati e parole capaci di significare l’intensità delle passioni/immagini, e non solo specie intellegibili. Le parole non saranno mai neutre, ma sempre miste a un movimento spirituale interno:
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In quello punto dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole (...). In quello punto lo spirito naturale, lo quale dimora in quella parte ove si ministra lo nutrimento nostro, cominciò a piangere, e piangendo disse queste parole: «Heu miser (...)»82. Allora, ricordandomi che già l’avea veduta fare compagnia a quella gentilissima, non poteo sostenere alquante lagrime; anzi piangendo mi propuosi di dicere alquante parole de la sua morte83. [Amore] quando m’avea guardato alquanto, pareami che sospirando mi chiamasse, e diceami queste parole (...)84. E dicendo io queste parole con doloroso singulto di pianto, e chiamando la Morte che venisse a me, una donna giovane e gentile, la quale era lungo lo mio letto, credendo che lo mio piangere e le mie parole fossero solamente per lo dolore de la mia infermitade, con grande paura cominciò a piangere85. E poco dopo queste parole, che lo cuore mi disse con la lingua d’Amore (…)86. Poi che li miei occhi ebbero per alquanto tempo lagrimato, e tanto affaticati erano che non poteano disfogare la mia tristizia, pensai di volere disfogarla con alquante parole dolorose87. Onde io, avendo così più volte combattuto in me medesimo, ancora ne volli dire alquante parole; e però che la battaglia de’ pensieri vinceano coloro che
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VN II 4, 6. VN VIII 2. 84 VN XII 3. 85 VN XXIII 11. 86 VN XXIV 3. 87 VN XXXI 1. 83
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per lei parlavano, mi parve che si convenisse di parlare a lei; e dissi questo sonetto, lo quale comincia: «Gentil pensero»88.
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3. «La voce mia di grande affetto impressa...» Dal paragrafo precedente è emerso in modo chiaro lo stretto legame esistente tra parola e spirito, tra un sentire interno che appartiene all’agente linguistico e la sua voce, quest’ultima definibile come un movimento o vibrazione della parola che lascia risuonare esternamente la passione che vi ha impresso il soggetto locutore. La logica secondo la quale Dante procede per spiegare nel De vulgari la nascita (il cominciamento) della locutio – della vox, proferita per la prima volta da Adamo – è la stessa che si è intravista nella Vita nuova: l’anima sente il movimento spirituale procurato da un contatto con la res, e prorompe in un suono vocale che significa il sentimento della stessa anima nei confronti della cosa tradotta internamente. Nel trattato latino, alla sollecitazione procurata da Dio, il primo uomo risponde immediatamente, «non appena il potere del soffio vivificatore... e fonte d’amore» (ancora una volta lo spirito e l’amore, intesi in questo caso non in senso psicologico, ma teologico) lo ha colmato di perfezione. Di conseguenza, la parola proferita lascia traccia di questo amore (il «gaudium») e risuona («sonaverit») nell’ambiente perfetto del paradiso terrestre89. Funzione primordiale della parola non è accordare un nome alla cosa secondo le sue proprietà essenziali – come in modo erroneo si potrebbe dedurre dal principio dichiarato nella Vita nuova «nomina sunt consequentia rerum»90. Il fatto di sentire sé, invece, l’«i-
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VN XXXVIII 4. Cf. De vulg. I iv 4. 90 VN XIII 4: «Lo nome d’Amore è sì dolce a udire, che impossibile mi pare che la sua propria operazione sia ne le più cose altro che dolce, con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose, sì come è scritto: ‘nomina sunt consequentia rerum’». Si tratta, come ha scritto Bruno Nardi, del primo fugace accenno a una teoria del linguaggio, accenno occasionale, di scarsa importanza e spesso sovraccaricato di significati platonici o neoplatonici che stridono con il contesto della Vita nuova. Com’è noto, la possibile fonte di questa massima appartiene all’ambito giuridico delle Institutiones di Giustiniano, dove si legge: «Sed tamen nomen inconveniens remanebat, cum ante nuptias quidem vocabatur, post nuptias autem tale accipiebat incrementum. Sed non plenissimo fini tradere san89
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maginare» – secondo la lezione del libello – apre l’uomo al bisogno di esprimersi; il sentirsi è alla base del cominciamento dell’atto linguistico:
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In homine sentiri humanius credimus quam sentire, dummodo sentiatur et sentiat tanquam homo91.
Il movimento degli spiriti, il sentirsi, l’eruzione della parola, le voci che risuonano, la commistione tra parlare e gli affetti di colui che parla, sono i tanti elementi che si ritrovano in modo potenziato – perché inquadrati in una visione oltremondana – nella Divina Commedia. A una lettura anche superficiale, il poema si lascia apprezzare per le vibrazioni che vi risuonano. Molto spesso i personaggi incontrati lungo il corso del pellegrinaggio dantesco si nascondono e si lasciano intravedere soltanto attraverso la loro voce, che appunto risuona e vibra nell’aria. Mai come in questo caso (e quindi, nel senso più realistico e puntuale), la voce è aria percossa da un’anima, e la parola letteralmente rivela uno spirito. L’episodio che si svolge nella valle dei suicidi è emblematico di tutta una serie di fenomeni che con frequenza ricorrono nella Divina Commedia. Descriverne alcuni tratti potrebbe essere interessante per comprendere, in particolare, un aspetto già emerso nella Vita nuova, e che si conferma con forza nel poema: il parlare, la parola e la voce sono miste all’affetto del locutore, ne rivelano la condizione spirituale, l’essere, vibrando nell’atmosfera circostante. Passato il Flegetonte in groppa al centauro Nesso, Virgilio e Dante s’inoltrano in un paesaggio strano, fatto di sterpi contorti e in cui risuonano «lamenti» e «guai», dei quali non si riescono a percepire i soggetti che di regola dovrebbero essere alla base della loro proferazione. Dante è smarrito. Per far luce sull’oscurità del fatto, il maestro lo invita a rompere uno di questi ramoscelli. Dalla rottura segue un fenomeno meraviglioso:
ctiones cupientes, et consequentia nomina rebus esse studentes, constituimus ut tale donationes (...) non ante nuptias, sed propter nuptias vocentur». Antonino Pagliaro sottolinea come la citazione dantesca abbia volutamente sostituito il genitivo rerum al dativo rebus, complemento di consequentia, una sostituzione che ha lo scopo di far emergere il ruolo della cosa, dell’oggetto, nella formazione dei nomi. Cf. NARDI, Dante e la cultura medievale cit. (Introd., alla nota 7), in partic. pp. 173-178; PÉZARD, Dante sous la pluie cit. (Introd., alla nota 34), Appendice V (Nomina sunt consequentia rerum), pp. 355-364; PAGLIARO, Nuovi saggi cit. (Introd., alla nota 2), Appendice (Nomina sunt consequentia rerum), pp. 239-246. 91 De vulg. I v 1.
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il tronchetto «grida», «dice», «geme», «cigola», azioni che s’intrecciano le une alle altre in un sinolo indissolubile. È la voce di Pier della Vigna, un soffio, una parola che si lamenta, che esprime il dolore della condizione di un condannato, di un’«anima lesa» rinchiusa nella materia legnosa sua unica dimora. La parola espressa («uscita») è in questo caso intrisa di sangue: Come d’un stizzo verde ch’arso sia da l’un de’ capi, che da l’altro geme e cigola per vento che va via, sì de la scheggia rotta usciva insieme parole e sangue; ond’io lasciai la cima cadere, e stetti come l’uom che teme92.
Quello di Pier della Vigna non è un caso isolato. Nel canto V dell’Inferno, il Poeta incontra Paolo e Francesca, uniti nell’oltretomba a formare qualcosa di ‘mostruoso’, una delle prime metamorfosi che s’incrociano nel regno infernale causate da un amore vissuto all’insegna del disordine morale. Le parole che fuoriescono dall’anima (lo «spirto») interrogata da Dante, anche in questo caso non sono pulite, chiare, ma indice del dolore che contorce e, quindi, miste al pianto: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria, e ciò sa ‘l tuo dottore. Ma s’a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto dirò come colui che piange e dice»93.
Le parole e le voci che risuonano nell’Inferno sono il sintomo di uno stato di sofferenza che inevitabilmente si riflette in un comportamento linguistico disordinato. Il segno vocale proferito non è «integro», ma frutto di un tumulto interiore negativo che rompe la possibile linearità e dolcezza del discorso. Chi, per esempio, è posseduto dai fumi dell’ira, si esprime necessariamente in parole spezzate:
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Inf. XIII 40-45. Inf. V 121-126.
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Fitti nel limo dicon: «Tristi fummo ne l’aere dolce che dal sol s’allegra, portando dentro accidioso fummo: or ci attristiam ne la belletta negra». Quest’inn si gorgoglian ne la strozza, ché dir nol posson con parola integra94.
Interessante risulta lo studio di altri due episodi, quelli relativi alle vicende di Ulisse e Guido da Montefeltro. Nel canto XXVI dell’Inferno, il pellegrino è colpito da un’immagine che a prima vista ha qualcosa di bucolico. Da un’altura lo sguardo del poeta abbraccia una distesa dove pullulano come lucciole tante piccole fiamme. Sono «spirti» che hanno fatto del fuoco infernale il loro corpo e, di conseguenza, lo strumento mostruoso con il quale parlano, «gittano fuori», esprimono la loro condizione spirituale. Ulisse è una di queste faville parlanti: Indi la cima qua e là menando, come fosse la lingua che parlasse, gittò voce di fuori e disse: (...)95
Allo strano dialogo tra Dante e l’eroe pagano, segue immediatamente un’altra fiamma, precisamente «un confuso suon che fuor n’uscìa», e dietro al quale si nasconde – si confonde – un’altra anima. Il sibilo, come di fiamma agitata dal vento, «mugghia»: è la «voce de l’afflitto», Guido da Montefeltro, incarcerato per sempre nell’involucro di fuoco. Il mugghiare nel testo allude alla costruzione di un bue di rame su commissione di Falaride, tiranno di Agrigento, e costruito in modo tale che i miseri vi fossero collocati all’interno per espiare le loro colpe. La macchina di tortura veniva successivamente arroventata, e le grida del colpevole si trasformavano in muggiti bovini, così come le parole dei dannati dell’ottava bolgia si fanno «grame», dolenti, impedite e soffocate96.
94
Inf. VII 121-126. Inf. XXVI 88-90. Per un’interpretazione del canto XXVI dell’Inferno, cf. cap. 2. 96 Cf. Inf. XXVII 1-24, 58-60, 130-132: «Già era dritta in sù la fiamma [quella di Ulisse] e queta / per non dir più, e già da noi sen gia / con la licenza del dolce poeta, / quand’un’altra, che dietro a lei venia, / ne fece volger li occhi a la sua cima / per un confuso suon che fuor n’uscia. / Come ‘l bue cicilian che mugghiò prima / 95
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Che la voce e la parola conservino e rivelino il movimento affettivo di uno spirito è un dato che si riconferma nel Purgatorio, dove viene postulata la teoria antropologica che fonda il nesso di cui si sta parlando: il regno ultramondano è popolato da spiriti, anime, corpi aerei inconsistenti ma provvisti di tutte le facoltà sensitive. Facendo propria l’opinione di Alberto Magno, Dante per bocca del personaggio Stazio, all’altezza del canto XXV del Purgatorio, sviluppa, innanzitutto, la sua personale concezione sulla generazione dell’uomo97: non appena nel feto si è compiuta l’organizzazione e l’articolazione della parte cerebrale, alla base delle funzioni sensitive, interviene Dio che infonde in questa sua opera mirabile uno spirito nuovo e pieno di virtù, l’intelletto possibile. Quest’ultimo attraverso un movimento di assimilazione attira a sé quanto di attivo vi è nel feto (la virtù informativa divenuta anima vegetativa e sensibile), per fare con essa un’«alma sola», che non solo vive e sente, ma riflette su se stessa ed ha coscienza del suo operare (si sente, sentiri): «E sappi che, sì tosto come al feto l’articular del cerebro è perfetto, lo motor primo a lui si volge lieto sovra tant’arte di natura, e spira spirito novo, di vertù repleto, che ciò che trova attivo quivi, tira in sua sustanzia, e fassi un’alma sola, che vive e sente e sé in sé rigira»98.
col pianto di colui, e ciò fu dritto, / che l’avea temperato con sua lima, / mugghiava con la voce de l’afflitto, / sì che, con tutto che fosse di rame, / pur el parea dal dolor trafitto; / così, per non aver via né forame, / dal principio nel foco, in suo linguaggio / si convertian le parole grame. / Ma poscia ch’ebber colto lor viaggio / su per la punta, dandole quel guizzo / che dato avea la lingua in lor passaggio, / udimmo dire: ‘O tu a cu’io drizzo / la voce e parlavi mo lombardo, / dicendo ‘Istra ten va, più non t’adizzo’, / perch’io sia giunto forse alquanto tardo, / non t’incresca a parlar meco; / vedi che non incresce a me, e ardo!’ / (...) / Poscia che ‘l foco alquanto ebbe rugghiato, / al modo suo, l’aguta punta mosse / di qua, di là, e poi dié cotal fiato [parlò] (...) / (...) / Quand’elli ebbe ‘l suo dir così compiuto, / la fiamma dolorando si partio, / torcendo e dibattendo ‘l corno aguto». 97 Su questo tema cf. NARDI, Dante e la cultura medievale cit. (Introd., alla nota 7), pp. 207-224. 98 Purg. XXV 68-75.
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«La voce mia di grande affetto impressa...»
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Una volta che l’individuo muore, l’anima si scioglie dalla carne, ma conserva potenzialmente le sue tre facoltà, la vegetativa, la sensitiva e l’intellettiva. Giunge, successivamente, su decreto divino nel luogo ultramondano che le è stato assegnato, e qui, circoscritta dallo spazio aereo, subito comincia a operare nell’aria circostante – con le sue funzioni che si riattualizzano – nello stesso modo e nella stessa misura («così e quanto») con cui operava sulla materia corporea. Lo spirito informa letteralmente l’atmosfera, che a sua volta diviene l’involucro sottile che avviluppa, suggella l’anima assumendone la figura. In questo modo, lo spirito diventa visibile, un’ombra, un corpo sottilissimo, impalpabile e percepibile allo stesso tempo. Il parlare, la gioia che si esprime nel riso, le lacrime e i sospiri sono, quindi, nei tre regni qualcosa di reale, mentre lo spirito si atteggia e prende forma secondo i desideri e gli affetti che lo «affliggono»99. Questo intenso passaggio del Purgatorio è d’importanza cruciale. Fino in fondo si capisce il ruolo che lo spirito e l’affectus giocano nella produzione dei comportamenti, tra i quali è da annoverare l’attività linguistica. Se nella Vita nuova il movimento spirituale assume un ruolo chiave nel cominciamento della parola, secondo una prospettiva prevalentemente psicologica, nella Divina Commedia questo stesso movimento non è più parte interiore dell’individuo, ma il protagonista dichiarato ed evidente della vicenda dell’al di là, e che si riconosce e si riflette nella vibrazione vocale che da esso stesso emana. Il poema attualizza e delinea in maniera chiara, perfeziona in senso reale quanto nel libello giovanile è solo in potenza.
99 Cf. Purg. XXV 79-108: «Quando Làchesis non ha più del lino, / solvesi da la carne, e in virtute / ne porta seco e l’umano e ‘l divino: / l’altre potenze tutte quante mute; / memoria, intelligenza e volontade / in atto molto più che prima agute. / Sanza restarsi per sé stessa cade / mirabilmente a l’una de le rive; / quivi conosce prima le sue strade. / Tosto che loco lì la circunscrive, / la virtù formativa raggia intorno / così e quanto ne le membra vive. / E come l’aere, quand’è bien pïorno, / per l’altrui raggio che ‘n sé si riflette, / di diversi color diventa addorno; / così l’aere vicin quivi si mette / e in quella forma ch’è in lui suggella / virtualmente l’alma che ristette; / e simigliante poi a la fiammella / che segue il foco là ‘vunque si muta, / segue lo spirto sua forma novella. / Però che quindi ha poscia sua paruta, / è chiamata ombra; e quindi organa poi / ciascun sentire infino a la veduta. / Quindi parliamo e quindi ridiam noi; / quindi facciam le lagrime e’sospiri / che per lo monte aver sentito puoi. / Secondo che ci affliggono i disiri / e li altri affetti, l’ombra si figura, / e questa è la cagion di che tu miri».
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Parlare, parola, dire, voce...: il movimento spirituale del linguaggio
Per quanto riguarda la seconda cantica, gli spiriti si riconoscono da fremiti vocali misti a sospiri, da parole che in un certo senso possono essere definite sbiadite. Fatto che non sorprende, se si tiene conto dello stato di sospensione in cui versano le anime purganti, sospensione che ricorda la condizione delle grandi anime del Limbo. Quello di Virgilio è un caso esemplare. Presentato all’esordio della Divina Commedia come un’ombra diminuita, priva contemporaneamente della vita e della morte («ombra od omo certo»), Virgilio vive la stessa ambiguità degli spiriti nobili del castello:
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«Io era tra color che son sospesi»100.
L’angoscia del pagano di non possedere un’identità marcata e di non poter realizzare la propria individualità si riflette in modo naturale in un parlare diminuito, strutturalmente sbiadito, tra l’essere e il non essere, «fioco»: Mentre ch’i’ rovinava in basso loco dinanzi a li occhi mi si fu offerto chi per lungo silenzio parea fioco101.
Quando nel settimo canto del Purgatorio Virgilio evoca a Sordello la sua dimora, non accentua l’atmosfera consolatrice che in modo fallace si potrebbe evincere dall’appartenere alla nobile comunità dei saggi, ricorda, invece, l’ambiguità di un luogo dove risuonano («suonan») sospiri: «Luogo è là giù non tristo di martìri, ma di tenebre solo, ove i lamenti non suonan come guai, ma son sospiri»102.
La condizione linguistica ed emotiva delle anime purganti trova rappresentazione ancora più puntuale nello stato di sospensione, nei dubbi che 100
Inf. IV 52. Inf. I 61-63. Sul termine «fioco» nella Divina Commedia, cf. R. DRAGONETTI, «Chi per lungo silenzio parea fioco», in «Studi danteschi», 38 (1961), pp. 47-74 (ripr. in ID., Dante, la langue et le poème: recueil d’études réunis, Paris 2006, pp. 151-170). 102 Purg. VII 28-30. 101
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«La voce mia di grande affetto impressa...»
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colpiscono lo stesso Dante in Purgatorio. I primi versi del canto XXXI sono il modello più appropriato per comprendere il modo in cui il Poeta concepisce il rapporto tra affetto e voce, la nascita della parola (in senso fisico e morale) come risultato di un sentire interno. Tra accuse e rimproveri utilizzati da Beatrice come mezzi di catarsi, l’animo del pellegrino è spesso confuso, dubbioso, confusione e dubbio che si riflettono puntualmente in una voce o in una parola che cercano con fatica di farsi strada («varco»), di realizzarsi in qualcosa di preciso. Lo stato d’animo del personaggio-Dante è fiaccato, impaurito, e di fronte a Beatrice si risolve in un segno linguistico affievolito: come una balestra si spezza quando la sua corda e l’arco sono sottoposti a un’eccessiva tensione, e la freccia di rimando è indebolita nell’impeto con il quale dovrebbe giungere al bersaglio, così Dante sotto il pesante carico della confusione scoppia in lacrime e sospiri, mentre la voce si «allenta», si affievolisce: Era la mia virtù tanto confusa, che la voce si mosse, e pria si spense che da li organi suoi fosse dischiusa. Poco sofferse; poi [Beatrice] disse: «Che pense? Rispondi a me, ché le memorie triste in te non sono ancora da l’acqua offense». Confusione e paura insieme miste mi pinsero un tal ‘sì’ fuor de la bocca, al qual intender fuor mestier le viste. Come balestro frange, quando scocca da troppa tesa, la sua corda e l’arco, e con men foga l’asta il segno tocca, sì scoppia’io sottesso grave carco, fuori sgorgando lagrime e sospiri, e la voce allentò per lo suo varco. (...) Dopo la tratta d’un sospiro amaro, a pena ebbi la voce che rispuose, e le labbra a fatica la formaro. Piangendo dissi (...)103.
103 Purg. XXXI 7-21, 31-34. Cf. Purg. XXXIII 25-29: «Come a color che troppo reverenti / dinanzi a suo maggior parlando sono, / che non traggon la voce viva ai denti, / avvenne a me, che sanza intero suono, / incominciai (...)»; Conv.
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Parlare, parola, dire, voce...: il movimento spirituale del linguaggio
Se i segni linguistici delle anime purganti conservano impressa una condizione di sospensione, tuttavia bisogna riconoscere che questa condizione, a differenza delle anime del Limbo, è caratterizzata dalla speranza della salvezza. Gli spiriti non sono immersi totalmente nella nostalgica contemplazione del passato, o nel rimorso per il peccato; con fiducia guardano al futuro. Le voci e le parole in Purgatorio sono miste sì ai sospiri, ma allo stesso tempo sono pregne di una dolcezza che poi erompe in giubilo tra le sfere del Paradiso. Nel quarto capitolo, consacrato al linguaggio di coloro che abitano nei cerchi celesti, in modo più dettagliato ci si occuperà dei canti di lode portatori della gioia dei rispettivi locutori. Per adesso, ci si può limitare a constatare come anche nel Paradiso la personalità dell’agente linguistico, il suo affectus, si manifestino in voci e parole non a caso giubilanti. Il meccanismo della terza cantica è lo stesso che abbiamo riscontrato nelle due cantiche precedenti: lo spirito si reifica in vibrazioni linguistiche che corrispondono al desiderio dal quale queste vibrazioni cominciano. Se in Inferno si assiste al fenomeno di fuochi o faville parlanti (spiriti imprigionati nella materia ignea che è sia abitacolo dell’anima, sia strumento di comunicazione), fuochi e luci parlanti sono anche gli spiriti del regno paradisiaco. In Paradiso, il sistema valoriale rispetto alle «foci infernali» è rovesciato e, pertanto, le modalità con cui i contenuti concettuali ed emotivi dei diversi attori sono veicolati si reggono su criteri differenti. I guizzi, le faville vocali che si sprigionano dai fuochi (le anime) che ardono in questo regno non sono caotiche, imprevedibili, soffocate (come nel caso di Ulisse e Guido); sono, al contrario, ordinate. Basti pensare alla corona degli spiriti sapienti, «vivi e vincenti», «dolci in voce», «ardenti soli» che cantano e si dispongono secondo ordini armoniosi104. Dentro a questi soli si riconoscono delle voci, come quella di Tommaso, «benedetta fiamma» che parla, si muove e danza secondo un moto rotatorio perfetto. Lo stesso discorso vale per la seconda corona degli spiriti sapienti, dalle cui luci emerge la voce di Bonaventura: Del cor de l’una de le luci nove si mosse voce, che l’ago a la stella
III (Amor che nella mente mi ragiona) vv. 33-36: «‘N sue bellezze son cose vedute / che gli occhi di color dov’ella luce / ne mandan messi al cor pien di disiri, / che prendon aire e diventan sospiri». 104 Cf. Par. X 64, 66, 76.
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«E come in fiamma favilla... in voce voce»
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parer mi fece in volgermi al suo dove; e cominciò: (...)105.
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4. «E come in fiamma favilla... in voce voce» Si può ricapitolare questo primo studio cercando di focalizzare l’attenzione su alcuni punti, e specificarne meglio alcuni aspetti. L’interesse di Dante per i fenomeni linguistici nell’opera in volgare è messo in luce dal ricorso e dall’intreccio, a volte anche pedante, dei termini «parlare», «parola», «dire» e «voce». L’atto locutorio è inquadrato in una prospettiva a-razionale, nel senso che viene colto nel suo cominciamento. In senso generale, il parlare è frutto di un movimento dell’affectus relativo all’agente linguistico. Il movimento degli spiriti, e quanto ruota attorno al concetto di «spirito» è essenziale per la comprensione dell’origine psicologica e teologica della parola. Esiste in questo senso una stringente coerenza tra le opere di Dante: la Vita nuova risulta fondamentale nella delineazione di un primo programma filosofico-linguistico, che sarà perfezionato dalla Divina Commedia. Nella parola e nel parlare, secondo un insegnamento che risale ad Agostino106, si ha traccia dell’essere di colui che utilizza gli strumenti locutori («la voce mia di grande affetto impressa»; «la voce tua sicura, balda e lieta / suoni la volontà, suoni ‘l disìo»)107. La vox, la voce, che rappresenta per così dire la parte estrema dell’atto locutorio, il sonus, imprime nella sua sostanza le rappresentazioni concettuali ed emotive del soggetto. La voce, intesa come parola vibrante che esprime un movimento spirituale, gioca un ruolo soprattutto nel poema. Qui il termine si confonde con il soggetto parlante in quanto tale, e la voce diventa addirittura protagonista degl’intrecci drammatici che si svolgono nell’opera. In altri termini, è agente di un’azione: coglie Dante di sorpresa, lo guida, lo ammonisce, lo soccorre, ecc.108.
105
Par. XII 2, 28-30. Cf. infra, cap. 4, nota 128. 107 Par. VIII 45; XV 67-68. 108 Cf. Inf. II 56-57: «[Beatrice] cominciommi a dir soave e piana, / con angelica voce, in sua favella»; IV 79, 82-83: «Intanto voce fu per me udita: (...) / Poi che la voce fu restata e queta, / vidi quattr’ombre a noi venire»; V 79-80: «Sì 106
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Parlare, parola, dire, voce...: il movimento spirituale del linguaggio
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Nella Divina Commedia, le voci possono essere definite anche emanazioni dello spirito. Il termine «emanazione» è presente nel De vulgari con riferimento al primiloquium di Adamo, la vox del primo uomo («primilo-
tosto come il vento a noi li piega, / mossi la voce (...)»; VII 43-44: «Assai la voce lor chiaro l’abbaia, / quando vegnon a’ due punti del cerchio (...)»; XVII 91-93: «I’m’assettai in su quelle spallacce, / sì volli dir, ma la voce non venne / com’io credetti: ‘Fa che tu m’abbracce’»; XIX 64-66: «Per che lo spirto [scil. il simoniaco papa Niccoló] tutti storse i piedi; / poi, sospirando e con voce di pianto, / mi disse (...)»; XXIII 127: «Poscia [scil. Virgilio] drizzò al frate cotal voce (...)»; XXIV 6469: «Parlando andava per non parer fievole; / onde una voce uscì de l’altro fosso, / a parole formar disconvenevole. / Non so che disse, ancor che sovra ‘l dosso / fossi de l’arco già che varca quivi; / ma chi parlava ad ire sembrava mosso»; Purg. II 46-47: «‘In exitu Isräel de Aegypto’ / cantavan tutti insieme ad una voce»; IV 97-100: «E com’elli [scil. Virgilio] ebbe sua parola detta, / una voce [scil. di Belacqua] di presso sonò (...). / Al suon di lei ciascun di noi si torse»; IX 140-141: «‘Te Deum laudamus’ mi parea / udire in voce mista al dolce suono»; XIII 28-29: «La prima voce che passò volando / ‘Vinum non habent’ altamente disse»; XIV 130-134: «Poi fummo fatti soli procedendo, / folgore parve quando l’aere fende, / voce che giunse di contra dicendo: / ‘Anciderammi qualunque m’apprende’; / e fuggì come tuon che si dilegua»; XV 35: «Con lieta voce [scil. l’angelo benedetto] disse»; XVI 28: «Così per una voce detto fue (...)»; XVII 46-47: «I’ mi volgea per veder ov’io fosse, / quando una voce disse: (...)»; XXII 139-141: «Li due poeti a l’alber s’appressaro; / e una voce per entro le fronde / gridò (...)»; XXIV 133-139: «‘Che andate pensando sì voi sol tre?’ / sùbita voce disse, ond’io mi scossi / come fan bestie spaventate e poltre. / Drizzai la testa per veder chi fossi; / e già mai non si videro in fornace / vetri o metalli sì lucenti e rossi, / com’io vidi un che dicea: (...)»; XXVII 7-9: «Fuor de la fiamma stava in su la riva, / e cantava (...) / in voce assai più che la nostra viva»; XXVII 55-59: «Guidavaci una voce che cantava / di là; e noi attenti pure a lei, / venimmo fuor là ove si montava. / ‘Venite, benedicti Patris mei’, / sonò dentro a un lume che lì era (...)»; XXX 15: «La revestita voce alleluiando»; Par. XIV 19-21: «Da più letizia pinti e tratti (...) / levan la voce e rallegrano li atti»; Par. XIV 34-37: «E io udi’ ne la luce più dia / del minor cerchio una voce modesta (...) risponder (...)»; XVI 32-34: «Così con voce più dolce e soave (...) [scil. Cacciaguida] dissemi (...)»; cf. Rime CXIII 2: «La voce vostra sì dolce e latina»; Par. XIX 10-12: «Io vidi e anche udi’ parlar lo rostro / e sonar ne la voce e ‘io’ e ‘mio’, / quand’era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’»; XX 22-30: «E come suono al collo de la cetra / prende sua forma, e sì com’al pertugio / de la sampogna vento che penètra, / così, rimosso d’aspettare indugio, / quel mormorar de l’aguglia salissi / su per lo collo, come fosse bugio. / Fecesi voce quivi, e quindi uscissi / per lo suo becco in forma di parole, / quali aspettava il core ov’io lo scrissi»; XXI 136-137: «A questa voce vid’io più fiammelle / di grado in grado scendere e girarsi»; XXII 1-7: «Oppresso di stupore, a la mia guida / mi volsi, come parvol che ricorre / sempre colà dove più si confida; / e quella, come madre che soccorre /
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«E come in fiamma favilla... in voce voce»
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quium emanavit»)109; allude verosimilmente alle teorie sulla luce, secondo le quali da una fonte prima emana appunto un raggio luminoso, recepito in modo differente dagli esseri, secondo la loro capacità di ricezione. Questa teoria è legittimata dal Liber de Causis, è riconfermata in Paradiso110. Nel trattato in volgare, inoltre, è da segnalare la seguente definizione:
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In quelle operazioni che sono propie dell’anima razionale (...) la divina luce più espeditamente raggia; cioè nel parlare e nelli atti che reggimenti e portamenti sogliono essere chiamati111.
A partire da queste dottrine, non è casuale che Dante abbia concepito nella Commedia la voce (e/o il soggetto parlante, l’anima, lo spirito, con i quali il termine si confonde) sotto forma di luce in movimento; e non è un caso che spesso le voci siano faville che promanino da anime fiammeggianti. Il corpo aereo nel regno ultramondano sigilla l’anima, come la fiammella (che è la forma impressa dal fuoco nell’aria) segue il fuoco ovunque esso si tramuta: E simigliante poi a la fiammella che segue il foco là vunque si muta112.
sùbito al figlio palido e anelo / con la sua voce, che ‘l suol ben disporre, / mi disse (...)». Dietro queste connotazioni del vocabolo mi sembra implicita una teoria di tipo agostiniano, che vede nella voce e nel suono delle parole il potere, da parte dell’uomo, di commuovere e muovere le anime alle quali si rivolge. Comunque sia, la potestas che è racchiusa nelle diverse modulazioni della voce è evidente nel seguente passo del Convivio, dove Dante, che utilizza in questo caso un tópos caro a parte della tradizione letteraria medievale, vede in Orfeo il simbolo della poesia e della musica in grado di trasformare i cuori; cf. Conv. II i 4: «Quando dice Ovidio che Orfeo facea colla cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere: che vuol dire che lo savio uomo collo strumento della sua voce faccia mansuescere ed umiliare li crudeli cuori, e faccia muovere alla sua volontade coloro che [non] hanno vita di scienza e d’arte; e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre». Per come il suono e la voce vengano pensati e studiati nel Medioevo, cf. J. M. FRITZ, Paysages sonores du Moyen Âge. Le versant épistémologique, Paris 2000 (sui poteri d’Orfeo, in partic. pp. 45-56). 109 De vulg. I iv 1. 110 Cf. Par. I 1-3: «La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove»; cf. inoltre Ep. XIII 53-61. 111 Conv. III vii 8. 112 Purg. XXV 97-98.
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Parlare, parola, dire, voce...: il movimento spirituale del linguaggio
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E come in fiamma favilla si vede, e come in voce voce si discerne, quand’una è ferma e altra va e riede vid’io in essa luce altre lucerne muoversi in giro più e men correnti, al modo, credo, di lor viste interne113.
Se si accetta il nesso voce/luce, si può notare con chiarezza come le vibrazioni locutorie dei soggetti posseggano gradi di luminosità differenti, a seconda che i soggetti siano inseriti in Inferno, in Purgatorio o in Paradiso. Nel primo caso, si possono avere fuochi nei quali la luce s’ispessisce in modo tale da divenire materia ignea vera e propria. Le voci (o le faville) gettate da questo fuoco sono poco lineari, hanno un movimento convulso e imprevedibile. Nel secondo caso, la luce è rarefatta, di conseguenza il suono vocale corrispettivo ha una mancanza di densità (in senso letterale e metaforico) simile allo spessore che si può ritrovare in un sospiro114. Infine, nel Paradiso i soggetti parlanti sono fonti luminose ormai purificate, caratterizzate da un movimento gioioso e armonioso che si riflette in una vibrazione vocale dolce, lineare, sottile, piana115. A questa gradazione della voce/luce corrisponde anche una diversa aggettivazione, utilizzata in modo puntuale dall’Autore, per qualificare le parlate, il parlare e le parole dei soggetti che vivono nei tre regni. Nell’Inferno assumono una connotazione morale e/o grammaticale negativa («a parole formar disconvenevole»)116, mentre in Purgatorio e in Paradiso assumono un carattere positivo. Esiste, infine, un forte senso di oralità in tutta l’opera dantesca, suggellato non solo dall’importanza assunta dal termine «voce», ma dal fatto stesso che il parlare e la parola non siano mai concepiti come neutri.
113
Par. VIII 16-21. Cf. Inf. IV 25-27: «Quivi [scil. nel Limbo], secondo che per ascoltare, / non avea pianto mai che di sospiri / che l’aura etterna facevan tremare»; Purg. VII 28-30; Purg. XIX 73-75: «‘Adhaesit pavimento anima mea’ / sentia dir lor con sì alti sospiri, / che la parola a pena s’intendea»; Par. I 100-103: «Ond’ella [scil. Beatrice] appresso d’un pïo sospiro, / li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante / che madre fa sovra figlio deliro, / e cominciò (...)». 115 Sull’importanza che il fuoco assume come metafora linguistica, teologica e morale, cf. cap. 2. 116 Inf. XXIV 66. 114
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«E come in fiamma favilla... in voce voce»
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Espressioni come «cominciò poi a dir...», «e il buon maestro... mi cominciò a dire», ecc., potrebbero rientrare in quelli che Paul Zumthor ha definito «indici di oralità»: «Tout ce qui, à l’interieur du texte, nous renseigne sur l’intervention de la voix humaine dans sa publication»117. Nella Divina Commedia questa dimensione è accentuata: il parlare, la voce e la parola risuonano nell’atmosfera circostante. Nel De vulgari, come si avrà modo di approfondire, la stessa vox del primo uomo risuona («aveva risuonato», sonaverit) nell’atmosfera ideale del paradiso terrestre. Non è inverosimile pensare che la parola prima sia una sorta di canto concentrato, un canto liturgico o una nota puntuale. La voce di Adamo è precisamente una lode cantata, un paradigma teologico, filosofico e linguistico che ispirerà tutta la struttura ideologica e poetica che caratterizza la terza cantica. In modo perfettamente simmetrico, invece, i linguaggi che risuonano nell’Inferno sono canti distorti, disordinati o tormentati, modalità di espressioni negative che corrispondono allo statuto ontologico negativo dei personaggi che risiedono nel luogo infernale. Considerata l’importanza del risuonare delle parole e delle voci nelle atmosfere vibranti dei tre regni, non c’è da stupirsi del ricorso al termine «nota», che meglio specifica il senso di queste voci e di queste parole. Il vocabolo ricorre prevalentemente nella terza cantica, dove la parola proferita si confonde ormai con qualcosa di cantato armoniosamente: una nota di gioia118.
117 ZUMTHOR, La lettre et la voix cit. (Introd., alla nota 40), p. 37. Espressioni come «voglio dire», «dirò», «dico», s’incontrano con frequenza nella letteratura medievale. Cf. P. GALLAIS, Recherches sur la mentalité des romanciers français du Moyen Âge, in «Cahiers de civilisation médiévale», 7 (1964), pp. 479-493. 118 In modo più specifico la differenza tra i fenomeni linguistici infernali e quelli paradisiaci sarà trattata nei due capitoli dedicati all’inordinata locutio e al canto/linguaggio di lode della terza cantica. In tale occasione saranno studiati alcuni casi che esemplificano il carattere spirituale del linguaggio in Dante, ma anche quello morale: due stati indissolubilmente legati fra di loro. Ci si può limitare a segnalare in questa sede qualche esempio relativo in particolare al termine «nota»: Inf. XXXII 35-36: «Eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia, / mettendo i denti in nota di cicogna»; Par. VI 124; VII 4-6: «Così volgendosi a la nota sua, / fu viso a me cantare essa sustanza, / sopra la qual doppio lume s’addua»; X 143-144: «Tin tin sonando con sì dolce nota / che ‘l ben disposto spirto d’amor turge»; XIV 19-24 e 119-120; XVIII 79: «Prima, cantando, a sua nota moviensi»; XXV 103108; VN XII 14 (Ballata i’ voi che tu ritrovi Amore) v. 38: «Nota soave». Si ricordi, inoltre, il già citato «Amor mi spira, noto», passo che in questo contesto ‘sonoro’ arricchisce in senso musicale il suo significato spirituale.
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Capitolo 2
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La dimensione morale del linguaggio: l’exemplum di Ulisse
La vertude più sovrana che possa aver la criatura umana sì è della lingua rifrenare. Sovr’ogn’altra persona a noi sì pare ch’esto peccato in voi fiorisce e grana; se no’l lasciate, egli è cosa certana che nello ‘nferno vi conviene andare. (Fiore CXXXIII 2-8)
1. La potestas nocendi della lingua Un’analisi sulla terminologia in volgare, con riferimento ai fenomeni linguistici, risulterebbe incompleta se non si tenesse conto dell’importanza del vocabolo «lingua». Nel modo in cui ricorre nell’opera dantesca, può significare l’organo della bocca e lo strumento della fonazione; generalmente, può designare il linguaggio o il sistema di parole e locuzioni utilizzate come mezzo di espressione. In quest’ultimo caso, in molte occorrenze si confonde semanticamente con ydioma1. In questa sede, rispetto al sondaggio e alle considerazioni che sul termine ha svolto Pier Vincenzo Mengaldo nell’Enciclopedia Dantesca2, si vuole portare l’attenzione su alcune espressioni che rivelano la straordinaria ricchezza del vocabolo.
1
Cf. Purg. VII 16-17; XI 98; VN XXV 3-5; Conv. I iii 4; xi 12; Par. XXVI 124. Cf. MENGALDO, s. v. Lingua cit. (cap. 1, alla nota 6). Se nel capitolo precedente emerge l’importanza della dimensione comunicativa, e soprattutto spirituale 2
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La dimensione morale del linguaggio: l’exemplum di Ulisse
Il modo in cui è utilizzato da Dante, in particolare nell’Inferno, lascia trapelare uno sfondo teologico-filosofico in cui la lingua è più di un semplice membro corporeo, per mezzo del quale l’uomo fabbrica dei suoni, suoni che a loro volta accordandosi diventano sensati fino a concretarsi in un sistema idiomatico preciso. La lingua può essere un soggetto autonomo difficile da controllare, un organismo vivente vero e proprio capace di nuocere con le parole – diventate armi affilate, semi che ingravidano, scintille che distruggono – il destinatario al quale esse sono indirizzate; ha una sua potenza fisiologica e, allo stesso tempo, è la loquela (la favella) che veicola il disordine morale del locutore. La lingua può essere lo strumento più efficace per commettere un peccato. Ne I peccati della lingua3, Carla Casagrande e Silvana Vecchio hanno portato l’attenzione su quello che può essere definito il mito fondatore per eccellenza, in ambito cristiano, della potestas nocendi insita nel parlare, l’Epistola di Giacomo. In questo testo la lingua è colta in tutta la sua pericolosità. Nonostante le dimensioni ridotte, questo è un organo difficile da contenere. È scritto ancora nell’Epistola che se l’uomo è stato in grado di domare le creature più diverse, imprimendo ovunque il proprio segno, la cosa non è più evidente per quanto riguarda questo «malum inquietum»: la lingua è un fuoco («lingua ignis est»), e trova la sua origine direttamente nell’inferno: Nolite plures magistri fieri, fratres mei, scientes quoniam maius iudicium accipiemus. In multis enim offendimus omnes. Si quis in verbo non offendit hic perfectus est vir potens etiam freno circumducere totum corpus. Si autem equorum frenos in ora mittimus ad consentiendum nobis et omne corpus illorum circumferimus. Ecce et naves cum magnae sint et a ventis validis minentur circumferuntur a modico gubernaculo ubi impetus dirigentis voluerit; ita et lingua modicum quidem membrum est et magna exultat ecce quantus ignis quam magnam silvam incendit. Et lingua ignis est, universitas iniquitatis; lingua constituitur in membris nostris, quae maculat totum corpus et inflammat rotam nativitatis et inflammatur a gehenna. Omnis enim natura et bestiarum et volucrum et serpentium et etiam cetorum domatur et domita est a natura humana; linguam autem nullus hominum domare potest, inquietum malum, plena veneno mortifero4.
della parola, come annunciato ci si occuperà adesso dell’aspetto morale e teologico dell’atto locutorio. 3 Cf. CASAGRANDE - VECCHIO, I peccati della lingua cit. (Introd., alla nota 35). 4 Gc 3, 1-8.
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L’Epistola di Giacomo è diffusa nel Medioevo con il commento di Beda il Venerabile, che mette in gioco una serie di elementi di fondamentale importanza per la comprensione di metafore che nel passo biblico descrivono in modo efficace la potestas della lingua. Vi è un passaggio in particolare sul quale il commentatore sembra focalizzare la sua attenzione: la lingua è un modicum gubernaculum capace di dirigere grandi navi, nonostante venti avversi. In questo modo Beda scioglie e rende intellegibile l’immagine: le navi sono le anime degli uomini gettate nel mare della vita; i venti validi, gli appetiti che costringono al bene o al male; il timone per mezzo del quale si governano le anime, secondo l’impetus di chi le dirige, è legato all’intentio cordis, per cui gli eletti raggiungeranno il porto della patria celeste, mentre i reprobi «quasi Scylla vel Charybdi necati fluctuosis vitae (...)». Solo se governata in modo virtuoso, la lingua può portare alla felicità, in caso contrario «magna perditionis exaltat»5. La parola può portare al naufragio; ed è importante sottolineare questo aspetto: la navigazione è uno dei tanti luoghi retorici che ricorre negli scritti medievali per spiegare il valore fondamentale che il consiliarius e il consilium rivestono nella vita della comunità degli uomini. Come vedremo, un pravum consilium può portare alla morte un manipolo di marinai, alla disgregazione della polis6. Il vero potere di distruzione della lingua emerge con particolare forza quando Beda insiste sul carattere animale di quest’organo indomabile. Se Plinio racconta come gli uomini in Egitto abbiano domato l’«immanissima serpentium aspis», non esiste un’auctoritas, sembra suggerire il commentatore, che abbia parlato di un vero controllo della lingua. Quella dei pravi, scrive Beda, è una lingua che per ferocia, speditezza e «virulen-
5 Cf. BEDA IL VENERABILE, In Epistolas septem catholicas, I, 3, 4, PL 93, 26C, ed. D. Hurst, Turnhout 1983 (CCSL, 121), [pp. 181-342], p. 204, 71-79: «Naves magnae in mari mentes sunt hominum in hac vita, sive bonorum, sive malorum. Venti validi a quibus minantur ipsi appetitus sunt mentium, quibus naturaliter coguntur aliquid agere, per quod vel ad bonum, vel ad malum perveniant finem. Gubernaculum quo huiusmodi naves circumferuntur, ubi impetus dirigentis voluerit, ipsa cordis intentio est, qua electi, transgressis huius saeculi fluctibus, felicem patriae coelestis portum attingunt, reprobi autem quasi Scylla vel Charybdi necati fluctuosis vitae huius erroribus, quos deserere nesciebant, intereunt». 6 Cf. C. CASAGRANDE, Virtù della prudenza e dono del consiglio, in Consilium. Teorie e pratiche del consigliare nella cultura medievale, a c. di C. Casagrande - C. Crisciani - S. Vecchio, Firenze 2004, pp. 1-14.
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tia» primeggia rispetto alle bestie, agli uccelli e ai serpenti. Ci sono lingue bestiali acuminate come spade, volatili perché vane, serpentine in quanto velenose7. Per questo, sottolinea Tommaso di Chobham, teologo inglese nato intorno al 1160 e morto tra il 1233 e il 1236, è più facile domare un’anima che la lingua («facilius est gubernare animam quam linguam»)8. In tale contesto può essere apprezzato appieno l’uso della terminologia dantesca, in particolare quelle espressioni in cui la lingua è descritta come «presta», «sciolta», «stucca», «scissa», «pronta», che letteralmente ‘morde’, ‘lingua di fuoco’. Espressioni che rivelano in senso lato, e allo stesso tempo in una prospettiva realistica, la potenza che si nasconde dietro l’utilizzo non retto del linguaggio; l’approccio morale di Dante nella sua riflessione sull’atto linguistico. Con una certa frequenza nella prima cantica della Commedia è descritta, infatti, la natura di peccati con connotazioni verbali, descrizione che lascia trapelare, attraverso il movimento pittorico delle immagini, la mostruosità e il disordine nei quali precipita colui che in malo modo maneggia un’arma, la lingua, capace di rompere in più occasioni la concordia politica ed esistenziale di molteplici volontà9. Nella Monarchia, Dante è chiaro: l’armonia si costruisce a patto che il sovrano faccia corrispondere alle buone parole («bona loquendo»)10 opere altrettanto buone. Questo principio politico-morale può essere applicato retrospettivamente per leggere l’Inferno: personaggi come Giasone, Ulisse, Guido da Montefeltro, Alessio Interminelli, sono puniti per
7 Cf. BEDA IL VENERABILE, ibid., I, 3, 7-8, 28AB, ed. Hurst cit. (alla nota 5), p. 206, 146-157: «Legimus in Plinio immanissimam serpentium aspidem in Aegypto domitam a patre familias, et quotidie de caverna sua egressam, ad mensas eius annonam percipere solitam. Legimus item, scribente Marcelino comite, mansuefactam tigridem ab India Anastasio principi missam. Vult ergo intellegi quia lingua pravorum bestiis ferocitate volucribus levitate vel exaltatione serpentibus virulentia praecellat. Sunt enim bestiales qui exacuerunt ut gladium linguas suas, sunt volatiles qui posuerunt in caelum os suum et quorum os locutum est vanitatem, sunt serpentini de quibus dictum est: ‘Venenum aspidum sub labiis eorum’ (Sal 13, 3). Linguam autem nullus hominum domare potest». 8 TOMMASO DI CHOBHAM, Summa de commendatione virtutum et extirpatione vitiorum, IV, ed. F. Morenzoni, Turnhout 1997 (CCCM, 82B), p. 186, 2384. 9 Cf. Mon. I xv 5: «Est enim concordia uniformis motus plurium voluntatum; in qua quidem ratione apparet unitatem voluntatum, que per uniformem motum datur intelligi, concordie radicem esse vel ipsam concordiam». 10 Mon. I xiii 4.
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avere utilizzato la lingua (la parola, l’arte del parlare) con conseguenze disastrose dal punto di vista della comunità degli uomini; per aver utilizzato scorrettamente la loro abilità oratoria. Nell’Inferno sono descritte a più riprese le vicende storiche di veri e propri peccatori in verbis, e le Malebolge, a dispetto di una facile lettura, che vede nelle bolge una descrizione disordinata delle punizioni delle anime peccatrici, diventano una classificazione per imagines di peccati della lingua: bestemmiatori, adulatori, seduttori, maghi, consiglieri, seminatori di discordia, ipocriti, sono ordinatamente raggruppati nel genere sommo della frode, che a partire dal canto XVIII diventa il criterio per comprendere le punizioni dei dannati11. Dopo essersi imbattuti in manifestazioni peccaminose caratterizzate da incontinenza, violenza bestiale, Virgilio e Dante giungono nell’ottavo cerchio, costituito da dieci bolge concentriche dove risiedono i fraudolenti, coloro che si sono macchiati in vita del peccato della frode, tipico degli uomini, gli unici tra gli esseri viventi in grado di utilizzare a piacimento la ragione e l’arte del discorso. Il difetto del fraudolento non consiste come nei violenti nella soppressione delle capacità razionali, ma in una perversione della volontà e dei doni intellettuali concessi da Dio all’uomo, e utilizzati soltanto per conseguire beni strettamente personali, a detrimento del bene comune e del sommo bene: «D’ogni malizia, ch’odio in cielo acquista, ingiuria è ‘l fine, ed ogni fin cotale o con forza o con frode altrui contrista. Ma perché frode è de l’uom proprio male, più spiace a Dio; e però stan di sotto li frodolenti e più dolor li assale»12.
«La nostra ragione – scrive Dante nel Convivio – [ha] quattro maniere d’operazioni (...) operazioni che essa considera e fa nel proprio atto suo, le quali si chiamano razionali, sì come sono arti di parlare»13. Il linguaggio e lo scambio verbale rappresentano per il fiorentino manifestazioni della
11 Sulla disposizione e le caratteristiche di Malebolge, cf. E. SANGUINETI, Interpretazione di Malebolge, Firenze 1961. 12 Inf. XI 22-27. 13 Conv. IV ix 5.
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ragione, precisamente ‘arti’ che giocano un ruolo fondamentale nella costruzione delle relazioni umane. La perversione delle facoltà intellettuali, di conseguenza, implica una distorsione della funzione naturale del discorso. Uno sguardo rapido al canto XVIII mette in luce il pericolo che Dante coglie nell’uso improprio dell’arte del linguaggio.
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a) Il potere di nuocere della lingua nella Divina Commedia Nella prima fossa delle Malebolge sono puniti, distinti in due schiere che girano in opposte direzioni, gli sfruttatori e i seduttori di donne, gli uni e gli altri frustati dai diavoli; nella seconda, immersi nello sterco, stanno i lusingatori e gli adulatori. Queste due categorie sono accomunate dal particolare uso della ‘deliberazione’, con cui i peccatori mettono in pratica i loro propositi malvagi. I lusingatori, per esempio, trasformano il corpo femminile in oggetto di merce, mentre i seduttori inducono la donna allo smarrimento, attraverso l’uso di tecniche erotico-retoriche studiate. I primi sono rappresentati da Venedico Caccianemico, bolognese di potente famiglia guelfa, condannato per aver convinto e condotto la sorella «a far la voglia del marchese» (ipotetico esponente della famiglia degli Estensi), per averne fatto in sostanza una «femmina da conio»14. I seduttori sono rappresentati, invece, da Giasone, che guidò le navi degli Argonauti nella Colchide alla conquista del vello d’oro. Approdato all’isola di Lemno, qui sedusse Isifile: «Con segni e con parole ornate / Isifile ingannò»15. Il «senno» di Iasòn, connotato inizialmente in modo positivo, si trasforma in peccato, in quanto attraverso gesti, atti e parole ricchi di arti e di lusinghe corrompe una «giovinetta», che l’eroe seduce per soddisfare la propria lussuria. L’aggettivo «ornato», utilizzato in questo caso per descrivere il discorso che seduce, è indicativo: il cattivo uso della retorica cattura, corrompe, nuoce. Se ci si spinge nel profondo delle bolge s’incontra Alessio Interminelli, che in modo chiaro confessa a Dante la sua colpa: 14 Inf. XVIII 56, 66. Con l’espressione «femmine da conio», l’Ottimo, il Buti e l’Anonimo intendono «femmine da ingannare, da indurre al peccato con arti subdole»; cf. N. SAPEGNO, commento a La Divina Commedia, Firenze 1985³, p. 208, nota al verso 66. 15 Inf. XVIII 91-92.
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«Quaggiù m’hanno sommerso le lusinghe ond’io non ebbi mai la lingua stucca»16.
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Alessio, personaggio del quale poco o nulla emerge dai documenti, si definisce un artista del discorso, che coscientemente ha utilizzato la lingua come un’arma, una lama17, con il solo scopo d’ingannare: la lusinga, di cui la lingua in vita non si è mai saziata («stucca»), è la causa del suo tormento nelle regioni dell’Inferno, una colpa che in questo modo viene descritta da Benvenuto da Imola nel suo commento alla Divina Commedia: Nullum sermonem sciebat facere, quem non condiret oleo adulationis; omnes ungebat, omnes lingebat, etiam vilissimos et mercenarios famulos18.
Tra le anime dannate colpisce anche la presenza di Taide, personaggio dell’Eunuco di Terenzio, con parole inequivocabili presentata nella bolgia degli adulatori: «La puttana che rispuose / al drudo suo quando disse: ‘Ho io grazie / grandi apo te?’: / ‘Anzi maravigliose!’»19. La replica della donna al maschio innamorato immortala un tipo di discorso caratterizzato da un tono di lusinga affettata, col solo scopo di ingannare in modo premeditato l’interlocutore al quale la lusinga stessa è indirizzata. L’amicizia, è scritto nel Convivio, si costruisce, «s’acquista per soavi reggimenti, che sono dolce e cortesemente parlare». Per questo motivo, Salomone insegna come sia necessario «rimuovere» tutti quegli espedienti che contribuiscono a un uso inappropriato del linguaggio e del comportamento (il Convivio, con un riferimento che richiama il Fiore, dice: «Rimuovi da te la mala bocca»)20. La replica di Taide, invece, si colloca al limite di un discorso autenticamente cortese, in modo mellifluo si nasconde dietro quello che a noi appare come un falso complimento; precisamente – se si vuole leggere l’episodio alla luce di un altro passo del trattato – è un discorso non retto da «Veritade, la quale modera noi dal vantare noi oltre che siamo e dal diminuire noi oltre che siamo, in
16
Inf. XVIII 125-126. Cf. Inf. XXXII 96: «Mal sai lusingar per questa lama». 18 BENVENUTO DA IMOLA, Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam, ed. J. Ph. Lacaita, 4 voll., Firenze 1887, II, p. 25. 19 Inf. XVIII 133-135. 20 Conv. IV xxv 2. 17
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nostro sermone»21. La lusinga manipola attraverso la parola quanto in modo veritiero è sentito nel nostro cuore, fuoriesce dalla bocca come un miele velenoso, avvelena l’uomo con falsa dolcezza. Non è un caso, che nell’ordine perfetto della giustizia divina concepito nell’Inferno, l’adulatore sia collocato nello sterco. La legge del contrappasso è per l’adulatore solennemente concepita già all’altezza del Convivio: «Li schernidori Dio li schernisce»22. Come si può constatare da questa rapida carrellata dei personaggi di Inferno XVIII23, esiste un indubbio approccio morale nella riflessione che Dante elabora sul linguaggio. Alla base di questa concezione vi è un uso particolare del termine lingua, intesa come strumento potenzialmente pericoloso e, allo stesso tempo, come discorso che esercita un potere distruttivo sugli altri uomini. È importante sottolineare il fatto che la lingua in questi frangenti indichi contemporaneamente l’organo in quanto tale e la sua funzione, perché permette all’Autore di delineare con chiarezza sia il mezzo del peccato, sia il contrappasso da applicare al peccato stesso. Nel canto XXV dell’Inferno, per esempio, il pellegrino assiste a una scena raccapricciante, la trasformazione (la metamorfosi) di un uomo in serpe. Si tratta di un ladro, in vita abile nell’utilizzo della sua lingua biforcuta (sarebbe il caso di dire, sulla scia di quanto afferma Beda, «serpentina»). L’uso inappropriato di quest’organo è punito da Dio in modo puntuale: La lingua, ch’avëa unita e presta prima a parlar, si fende24.
Lo stesso discorso – avremo occasione di ritornarci – vale per tutti quei peccatori che nel canto XXVIII si sono macchiati in vita dell’azione abominevole di suscitare liti, mettere zizzania tra fratelli, distruggere l’unità dei tanti corpi politici che costellano l’umanità. Per loro, la giustizia prevede un’unica pena: la scissione del corpo e della lingua. Quest’ultima – è scritto in un altro passo efficace della Divina Commedia, siamo in Paradiso – è assassina, uccide quel vincolo che nel Convivio è considerato alla base di tutti i vincoli politici (il quartiere, la città, lo stato), che per-
21
Conv. IV xvii 6. Conv. IV xxv 1-2. 23 Per uno studio ulteriore, cf. J. FERRANTE, The Relation of Speech to Sin in the Inferno, in «Dante Studies», 87 (1969), pp. 33-46. 24 Inf. XXV 133-134. 22
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mettono all’uomo di esaltare la propria essenza: l’amore per «le più prossime persone (...) [i] parenti»25, i genitori. Per Dante, la lingua dell’uomo accresce la sua voglia di distruzione, quanto più l’uomo cresce: l’individuo che si mostra sincero da fanciullo (quando ancora la sua loquela è difettosa), cresciuto negli anni, diventa ghiotto, trasforma la sua voglia di cibo in vizio; l’individuo che da fanciullo è pieno di affetto e di obbedienza per la madre, fatto uomo, con «loquela intera» vorrebbe vederla morta. In questo brano, il legame tra la lingua e il parlare è evidente; la lingua si confonde con lo strumento e la sua funzione, la gola e la loquela. Una «lingua sciolta» può condurre al vizio: Tale, balbuzïendo ancor, digiuna, che poi divora, con la lingua sciolta, qualunque cibo per qualunque luna; e tal, balbuzïendo, ama e ascolta la madre sua, che, con loquela intera, disïa poi di vederla sepolta26.
In più occasioni Dante prevede una punizione per lo strumento con il quale l’uomo pecca: una lingua indisciplinata sarà sempre sottoposta a una specifica tortura, secondo la legge universale del contrappasso che agisce nei gironi dell’Inferno. Com’è noto, Tommaso usa il participio contrapassus (da contra patior) per tradurre il verbo antipeponthos, utilizzato da Aristotele nell’Etica Nicomachea: Videtur quod iustum est simpliciter idem quod contrapassum. Iudicium enim divinum est simpliciter iustum. Sed haec est forma divini iudicii, ut secundum quod aliquis fecit, patiatur: secundum illud Mattheus vii, 2: «In quo iudicio iudicaveritis, iudicabimini: et in qua mensura mensi fueritis, resultietur vobis». Ergo iustum est simpliciter idem quod contrapassum27.
Dal patire dell’individuo è possibile risalire al facere terreno. In questo modo, il mondo ultraterreno nell’opera di Dante, con le sue rappresentazioni letterali che danno corpo a una realtà tutt’altro che evanescente, 25
Conv. I xii 5. Par. XXVII 130-135. 27 TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, IIa IIae, q. 61, art, 4, 1, ed. Leonina cit. (cap. 1, alla nota 4), p. 38. Cf. ARISTOTELE, Ethica Nicomachea, V, 5, 1132b. 26
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diventa una lente euristica per capire fino in fondo fenomeni (come quelli relativi al linguaggio) che altrimenti sarebbero rimasti nell’ombra. È la concezione antropologica racchiusa nel poema che mette il lettore nella condizione di elevarsi non solo moralmente, ma anche da un punto di vista conoscitivo: dopo la separazione dal corpo, l’esse compositi dell’anima è immutato, in modo tale che questa conserva intatte le sue forze vitali e sensitive28. La prospettiva divina attraverso cui i fenomeni vengono compresi non è, tuttavia, una prerogativa dell’opera dantesca, ma caratterizza anche quelle produzioni visionarie che rappresentano in un certo senso gli antecedenti rudimentali della Divina Commedia. La semplicità poetica di questi scritti, che rientrano di fatto in quello che è stato riconosciuto come un genere letterario vero e proprio, le visiones animarum29, ci mette nella condizione di capire le prime riflessioni elaborate sotto il segno di immagini vivide attorno al peccato della lingua; di capire, soprattutto, gli effetti negativi conseguenza di un uso distorto di questo membro, la cui unica funzione dovrebbe essere la lode rivolta a Dio. Tra gli autori medievali artefici di questa poesia visionaria non esiste un gusto per l’orrido fine a se stesso, come in modo erroneo si potrebbe evincere dalle tante descrizioni macabre delle pene inflitte nell’inferno. L’orrore, secondo la legge del contrappasso, è invece la condizione di colui che in modo non retto ha utilizzato i mezzi che Dio gli ha dato a disposizione; nel nostro caso, l’agente linguistico che, utilizzando in malo modo la parola, ha fatto innanzitutto un danno fisico alla sua persona. Prima di entrare nel dettaglio del canto XXVI, si è deciso di riportare quelle fonti ritenute centrali per comprendere in che modo Dante concepisce questo ruolo particolare affidato alla lingua. Si tratta di fonti vicine alla Divina Commedia, caratterizzate da una riflessione metalinguistica
28 Cf. E. AUERBACH, Studi su Dante, Milano 2008 (1ª ed. ital. 1963), p. 79. E cf. anche supra, cap. 1, § 3. 29 La bibliografia sulle visiones animarum è vasta. Per un quadro generale si può rinviare ai classici J. LE GOFF, La naissance du Purgatoire, Paris 1981, e A. GRAF, Miti, leggende e superstizioni del Medioevo, pref., note e appendice di G. Bonfanti, Milano 1984. Per quanto riguarda Dante, cf. A. D’ANCONA, I precursori di Dante, Bologna 1874 (ripr. anast. 1989); C. SEGRE, L’Itinerarium Animae nel Duecento e Dante, in «Letture Classensi», 13 (1984), pp. 9-32; T. SILVERSTEIN, Dante e la Leggenda del Mi‘ra¯j: il problema dell’influsso islamico nella letteratura escatologica cristiana, in «Critica del Testo», 3 (2001), pp. 582-636.
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sul potere di nuocere dell’azione locutoria, e che potrebbero arricchire il quadro sul peccatum linguae, così come analizzato da Casagrande e Vecchio. Queste fonti potrebbero offrirci, allo stesso tempo, i mezzi concettuali per introdurci alla lettura di Inferno XXVI.
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b) Il potere di nuocere della lingua attorno alla Divina Commedia: la riflessione metalinguistica Dall’analisi delle visiones animarum emergono due dati. Il dannato è innanzitutto colpito dai supplizi nella parte del corpo usata per peccare, parte che diventa simbolo di una confusione semantica tra l’organo in quanto tale e la sua funzione. In secondo luogo, per quanto il castigo delle anime sia genericamente commisurato alla loro colpa, lo stesso non si può dire per i peccati legati alla parola: in questo caso la corrispondenza tra la punizione e il peccato è stringente. Nella Visio Pauli, per esempio, che può essere considerata una delle fonti di Dante in vista dell’elaborazione della Divina Commedia, la legge del taglione è applicata in modo puntuale: in un luogo privo di luce («non erat lumen in illo loco, sed tenebre et tristicia et mesticia») scorre un fiume di fuoco nel quale sono immerse fino alle labbra molte anime: «Hi sunt detractores alterutrum convenientes in ecclesiam Dei»30. Com’è facile intuire, le labbra sono il veicolo del peccato, in questo caso la detractio, che come avremo occasione di verificare diventa, assieme ad altri peccati di parola affini, l’oggetto che maggiormente solletica la fantasia degli autori medievali. La scissione delle labbra e della bocca rappresenta senza dubbio la forma più immediata di punizione per i cattivi locutori. È quanto si può constatare nelle tante tappe che scandiscono il viaggio dell’Apostolo: un angelo dall’alto – per citare un altro esempio – fende la lingua di un condannato con una spada di fuoco gigantesca («novacula grandis ignita»). La colpa di quest’ultimo è consistita nel non far corrispondere un comportamento adeguato ai precetti morali letti e indirizzati al popolo31. In queste prime rappresentazioni si può osservare come la lingua sia considerata non soltanto veicolo della locutio, ma anche organo della gola.
30 Visio Pauli, ed. T. Silverstein - A. Hilhorst (Apocalypse of Paul), Genève 1997, [pp. 212], p. 138. 31 Cf. ibid., p. 142.
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Il peccato della parola confluisce molto spesso in un peccato di gola, la loquela ha in comune con il mangiare il luogo e l’organo di origine, secondo un canone che sarà particolarmente esplicito in un trattato anonimo del secolo XIII, intitolato in modo eloquente De lingua32. Non è un caso che tra i dannati si possa assistere a una pena come la seguente: in un luogo angusto «viri ac mulieres manducantes linguas suas» (in un’altra versione, si ha «commanducantes»). Ancora una volta, si tratta di coloro che «detractant in ecclesia verbum Dei»33. Il peccato della detractio consiste nel togliere attraverso la parola sussurrata – Cassiodoro dice «oblocutione»34 – qualcosa che appartiene alla fama di colui di cui si sta parlando. Per alcuni è considerato una sorta di assassinio, e per questo motivo viene ritenuto tra i peccati di parola più detestabili. Ciò che spiega il continuo ricorso alla metafora da parte degli autori medievali per afferrare il lato estremo e oscuro del potere di nuocere di tale vizio. Il detrattore provoca un danno non solo all’oggetto del suo discorso, ma allo stesso ascoltatore, per tale motivo è considerato come chi «rode» (il termine è del domenicano Domenico Cavalca) la carne del suo simile, infrangendo il tabù biblico di nutrirsi del sangue altrui35. L’«occulto detrattore in vita» è vile, perverso, e come i cani latra in continuazione, abbaia, propagando nella comunità una parola malvagia. E come il cane da macello, col muso insanguinato «rivolta» nella bocca il sangue dei peccati commessi da altri uomini. Il detrattore, inoltre, può essere assimilato al porco: come questo «mette il grifo nel loto (...) mette pure la sua lingua a ragunare l’altrui brutture». Di conseguenza, la sua bocca è fetente, contamina l’aria come una malattia. In altri termini, il detrattore è l’animale – come dirà Dante di Gerione, simbolo della frode – che «tutto ‘l mondo appuzza»36. 32 Cf. CASAGRANDE - VECCHIO, I peccati della lingua cit. (Introd., alla nota 35), pp. 141-174. 33 Visio Pauli, ed. cit., p. 144. 34 Cf. CASSIODORO [FLAVIO MAGNO AURELIO CASSIODORO SENATORE], Expositio Psalmorum, LXXVII e C, PL70, 566C e 702B, ed. M. Adriaen, 2 voll., Turnhout 1958 (CCSL, 97-98), II, pp. 723, 615-618 e 893, 131-133. 35 Cf. Inf. XXXIII 7-8: «Se le mie parole esser dien seme / che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo». 36 Inf. XVII 3. Per le citazioni di Cavalca, cf. DOMENICO CAVALCA, Il pungilingua, X («Del peccato della detrazione, ed in prima, come si mostra detestabile per tre ragioni»), ed. G. Bottari, Milano 1837, pp. 95-106.
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Considerata la particolare pericolosità della detractio, non c’è da stupirsi che il genere della visio abbia concepito con conturbante finezza il castigo relativo a tale peccato. La visione diventa l’occasione per inquadrare nel modo più razionale possibile il vizio, facendo emergere in un solo colpo il danno che il peccatum linguae provoca sul locutore e l’ascoltatore, entrambi destinati alla perdita della loro essenza, l’umanità, e ad esaltare una dimensione di bestialità nascosta. La pena congegnata nella Visio Thurkilli, testo che racconta la visione di un bracciante avvenuta il 27 ottobre 1206, è a dir poco geniale, per semplicità e puntualità. Mai come in questo caso, dalla sofferenza scaturita dal castigo si può risalire all’atto concreto del peccatore in verbis: due detrattori sono condotti in mezzo a una turba di dannati; si guardano in modo torvo; entrambi hanno in bocca l’estremità di un palo infuocato e ardente (che richiama simbolicamente la lingua o la parola) che divorano fino a toccarsi, e a dilaniare con i denti i rispettivi volti: Inter alios duo de numero detractorum in medio adducti sunt; quorum os usque ad auriculam distorquendo dehiscens versis adinvicem vultibus sese torvis prospiciebant oculis, apposita sunt duo capita cuiusdam hasta ardentis et flammantis in ore utriusque; quam in ore distorto commasticantes et rodentes celeriter ad medietatem haste rodendo venerunt sibi approximantes, sicque sese mutuo dentibus laniantes, totum vultum suum masticando cruentabant37.
Il peccato della lingua, quindi, suscita in modo particolare l’interesse e la fantasia delle visiones animarum. Le fosse dell’inferno sono piene fino
37 Visio Thurkilli, ed. P. G. Schmidt, Leipzig 1978 (Bibliotheca Scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana), p. 25. Si veda, inoltre, per uno stretto legame tra parola di fuoco e punizione corrispettiva, il seguente passaggio della Visio monachi de Eynsham, ed. H. Thurston, in «Analecta Bollandiana», 22 (1903), [pp. 236-319], p. 289: «Tres ibi [in inferno] olim sepius visos a nobis catenis igneis artius constrictos inter globos ignium, et procellas grandinum ac nivum, et turbines ventorum, et interfluentis stagni fetores, miserabili ordine volutari cernebam. Non multum adinvicem dissimiliter cruciabantur. Unus tamen pre ceteris immanissime ea potissimum ex causa torquebatur, quod placitatoris loco inter seculares iudices consedere plurimum delectari soleret. Multis etiam bona conscientia nitentibus in litigando violentus contra iustitiam oppressor extitit, et hiante ore iugiter linguam sibi flammis ultricibus ardere querebatur. Et cum vicissim nunc ignibus totus cremaretur, modo nive madidus geluque constrictus obrigesceret, nunc stagni fetoribus cenoque oblimatus sorderet, lingue semper sue continuabantur incendia».
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all’inverosimile di spergiuri, falsi testimoni, maghi che hanno utilizzato la parola per realizzare malefici, seminatori di discordia, adulatori, blasfemi, cattivi consiglieri, principi e uomini di corte perfidi, pettegoli, maldicenti. Tutti sono sottoposti a pene corrispondenti al peccato commesso. Nella Visio Tungdali (secolo XIII) vescovi dalla lingua aguzza, insieme ai lussuriosi, sono divorati da un mostro ed evacuati in un lago gelato, dove ingravidati partoriscono serpi che ne lacerano le anime; le lingue ne divorano il palato38. Nella Visio Alberici chi ha testimoniato il falso, immerso in un lago solfureo, è colpito sul volto e sulla bocca dai demoni, con serpenti e scorpioni (simboli biblici della parola malvagia) utilizzati come armi: questi peccatori sono detrattori e «qui falsum dixerunt testimonium»39. Nell’Apocalisse di Pietro, a testimonianza del carattere politico che si nasconde dietro il peccatum linguae, i servi che non obbedirono ai padroni, tormentati nel fuoco si mordono la lingua. Tra le punizioni infernali riferite dall’abate Riccardo, e riportate nelle lettere riproposte da Ugo di Flavigny nel suo Chronicon, un cattivo predicatore è sottoposto all’estrazione della lingua «forcipibus igneis» (ciò significa che la lingua stessa è un forcipe di fuoco)40. Se questi testi possono essere considerati rudimentali, per l’immediatezza e la semplicità della descrizione del peccato di parola, lo stesso non si può dire per uno scritto concepito in ambito francese intorno alla metà del secolo XIV: scritto che affianca alle tradizionali immagini che prevedono la punizione del membro con il quale il peccato è commesso una riflessione più attenta al potere di nuocere della parola, soprattutto quando questo potere è scaturito dal tradimento. Si tratta del Pèlerinage de l’Âme di Guillaume de Digulleville, opera che rispetto ai testi citati mostra un’ossatura filosofica compatta. 38 Cf. Visio Tungdali, ed. a c. di M. Lecco (La visione di Tungdal), Alessandria 1998, p. 53. 39 Cf. Visio Alberici, ed. P. G. Schmidt, Stuttgart 1997, p. 180: «Ostendit post hec michi apostolus lacum magnum tetrum et aqua sulphurea plenum, in quo animarum moltitudo demersa erat, plenum serpentibus ac scorpionibus. Stabant vero ibi et demones, serpentes tenentes et ora, vultus et capita hominum cum eisdem serpentibus percutientes. Quos dixit apostolus esse detractores et qui falsum dixerunt testimonium». 40 Per un’analisi dei tipi di contrappasso nelle visiones animarum, cf. A. LONGONI, Il contrappasso tra Occidente cristiano e mondo arabo, in «Strumenti Critici», 19.2 (2004), pp. 189-231.
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Il protagonista della visione durante il suo pellegrinaggio nell’inferno assiste a numerose punizioni («après vi maintes justices / faites selon divers vices»), ma è colpito in modo particolare dal castigo di alcune anime appese per gli occhi e per la lingua a una trave, e sospesi al di sopra del fuoco che li brucia41. Occhi e lingua rappresentano, secondo un canone stabilito per esempio da Vincenzo di Beauvais, i due strumenti attraverso i quali l’uomo agisce in modo diretto sugli altri uomini, e quindi i mezzi con i quali più facilmente si può peccare. Secondo un tópos ricorrente tra gli autori medievali, la bocca e gli occhi sono le aperture (i «balconi», scrive Dante nel Convivio)42 che permettono all’anima di affacciarsi esternamente. Nella descrizione dei castighi a opera di Guillaume, il peccatum linguae assume una posizione centrale. È il protagonista della visio a condurci su questa strada: il numero di impiccati per la lingua è di gran lunga maggiore rispetto a quello di tutti i peccatori che risiedono nell’inferno. Ma non è solo la quantità che porta al centro della scena tale vizio, è la qualità stessa della pena che spinge il pellegrino a soffermarsi con un certo interesse sulla condizione dei dannati. In un caso, per esempio, il protagonista è sbigottito da un’immagine: un’anima ha la bocca d’oro interamente sigillata; è appesa a una pertica per due lingue che fuoriescono dalla gola, mentre altre anime sono appese, sempre per la lingua, a pertiche d’argento. In questo modo è spiegato il sistema filosofico-morale che soggiace al dramma: i peccatori sono i discendenti dell’Invidia, ancora una volta i detrattori, ladri («robeeurs») di reputazione, che attraverso parole velenose («par la langue enveninee») si sono preoccupati nella vita della diffamazione altrui: Aussi entre vous, detrateurs, / qui avés esté robeeurs / de bon nom et renommee / par la langue enveninee / par quoi à droit vous ai pendus, / souviengne vous que deceüs / vous a vostre mere Envie43!
41 Cf. Le Pèlerinage de l’âme [Descente aux enfers avec Guillaume de Digulleville], éd. F. Duval, [édition et traduction commentées d’un extrait du Pèlerinage de l’âme (Paris, Bibl. Nat. de Fr., français 12466)], Paris 2006, pp. 124-127. 42 Cf. Conv. III viii 8-9: «Occhi (...) e dolce riso (...) li quali due luoghi, per bella similitudine, si possono appellare balconi della donna che nel dificio del corpo abita, cioè l’anima». 43 Le Pèlerinage de l’âme, ed. Duval cit. (alla nota 41), pp. 128-129; tr. in francese moderno: «Et vous aussi, détracteurs, / qui avez été des voleurs / de bonne réputation et de renommée / par vos langues empoisonnées, / auxquelles je vous
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Il danno del vizio ricade soprattutto sull’agente linguistico. La pena è la prova di come l’utilizzo disordinato di uno strumento possa rivolgersi contro colui che non ha preso nessuna precauzione nel maneggiarlo; dimostra come la parola sia il riflesso della «bocca del cuore» – avrebbe detto Agostino. Se il cuore è di tenebra, il discorso corrispondente sarà dannoso. In questo caso, dall’invidia che agisce sempre per sottrazione, come ha insegnato Vincent-Cassy44, scaturisce una parola che corrode, detrae, ruba i tesori che appartengono all’anima: Vostre plus grant estudie / a esté de ceux diffamer (...) / moult est tresmauvais instrument / langue qui scet repostement / bon nom embler à son voisin. / N’est mie si grant larrecin / d’embler joyaus, or ou argent / ou deffondrer .i. tresor grant, / con c’est de fortraire bon nom / par langue de detraction45.
Apparentato alla detractio è il tradimento, che nel sistema di Guillaume si estende fino a includere l’ipocrisia e l’adulazione. Traditori, ipocriti e adulatori («trahiteurs», «fausse gent» e «mauvais flateurs») sono raffigurati da anime bilingue, mostruosità che trova un precedente nel dato biblico. Infatti, nella Scrittura, in particolare nell’Ecclesiastico, in cui il termine ricorre almeno tre volte, il bilingue è colui che tende insidie al prossimo; è falso, calunniatore, ladro; conduce l’uomo alla rovina: odium, inimicitia e contumelia sono gli unici frutti che un essere dalla doppia lingua può raccogliere (Sir 5, 15-18 ). La parola esercita al massimo la sua potenza di nuocere quando è spinta all’azione dal tradimento. Sotto mentite spoglie, ci ricorda il Pèlerinage, la parola si muove in modo rapido per vie traverse, è sottile, colpisce duro quando il nemico è preso alle spalle. Nei versi dell’autore il tradimento prende forma, i suoi tratti vengono delineati con precisione e sulla traccia della migliore tradizione dei Bestiari è presentato come un animale: grazie
ai justement pendus, / rappelez-vous que vous avez été trompés / par votre mère Envie». 44 Cf. M. VINCENT-CASSY, L’envie au Moyen Âge, in «Annales. Économies, Sociétés, Civilisations», 35 (1980), pp. 253-271. 45 Le Pèlerinage de l’âme, ed. Duval cit. (alla nota 41), pp. 128-129; tr.: «Votre plus grand souci / a été de diffamer (...). / La langue qui sait furtivement / dérober la renommée de son voisin / est très mauvais instrument. / Voler des joyaux, de l’or ou de l’argent, / ou vider un grand trésor / n’est pas un aussi grand brigandage / que d’escamoter une renommée / par une langue diffamante».
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alla sua coda da scorpione, ha distrutto la città di Troia; dalla bocca fuoriesce un pungiglione infame che colpisce in modo implacabile («la male touche / qui tout fiert sans garison, / c’est ta langue sursemee»); sorride in modo falso; e lo si vede frequentare i banchi delle chiese, dove vestito dell’abito della religione e coperto dal mantello dell’ipocrisia (le «cappe d’oro» degli ipocriti, avrebbe suggerito Dante), loda il Signore. Ecco come due dannati intonano un inno a Tradimento. Da questa lode capovolta è messo in risalto tutto il potere negativo che si nasconde dietro l’uso della parola: Gens innocens allons tuer, / nos dars à leurs postis ruer! / rien n’y ait que ne brison / tout à une randonnee! / (...) / Alons nos langues aguisier / pour percier ens cueur et gisier, / et dë eus tant mesdison / qu’il aient honte alevee! / Ferons les fort de nos langues / et batons, de nos palangues; / et leurs los si debrison / que n’aient teste levee46!
Dall’opera di Guillaume emerge un impianto filosofico-morale che si regge sui pilastri della riflessione gregoriana, la quale presta particolare attenzione non solo alla filiazione invidia-detrazione, che abbiamo riconosciuto come uno degli elementi portanti del Pèlerinage, ma anche al ruolo centrale assunto dal tradimento-ipocrisia. Per Gregorio Magno questo consiste in una rottura dell’obbedienza all’autorità, una trasgressione considerata come l’essenza stessa del peccato. L’insolenza orgogliosa, la ribellione superba contro la legge che scaturisce dal tradimento, non sono altro che la sostituzione del proprio potere a quello divino. Precisamente, il tradimento è un travestirsi dell’autorità divina, un’operazione di mimesi esemplificata in modo mitico da Lucifero, che può essere definito una sorta di proto-ipocrita47. Nel mondo di Guillaume, l’ipocrisia assume una portata quasi apocalittica, l’uso distorto della lingua lascia emergere come nell’uomo esi-
46 Ibid., pp. 132-135; tr.: «Allons tuer des gens innocents / et jeter nos lances à leurs portes! / N’épargnons rien, brisons tout / en une seule fois! / (...) / Allons aiguiser nos langues / pour leur percer le cœur et le foie; / et médisons si bien d’eux / qu’ils en soient tout honteux! / Frappons-les fort de nos langues, / battons-les de nos rondins / et brisons leur réputation / afin qu’ils ne puissent relever la tête!». 47 Cf. C. STRAW, Gregory, Cassian, and Cardinal Vices, in In the Garden of Evil. The Vices and Culture in the Middle Ages, ed. R. Newhauser, Toronto 2005, pp. 35-58, in partic. pp. 49-50.
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stano dimensioni infernali nascoste. Due aspetti rilevati con tale forza immaginifica che i precedenti culturali di questa visio non possono essere ricercati soltanto nella riflessione dei teologi. La vera fonte del Pèlerinage, infatti, è un’opera letteraria che nei secoli XIV e XV riscuote l’attenzione di studiosi come Giovanni Gerson, e che può essere considerata come l’opera poetica per eccellenza in cui il peccatum linguae assume, rispetto all’ordine dei vizi capitali, uno statuto autonomo: il Roman de la Rose48. Scritto a due riprese a partire dalla prima metà del Duecento da Guillaume de Lorris e Jean de Meun, il Romanzo struttura il racconto della presa della ‘Rosa’, da parte dell’‘Amante’, ricorrendo alla figura retorica della personificazione. I vizi e le virtù, che appartengono al protagonista della narrazione, sono messi in scena in modo teatrale: parlano, lottano, si confrontano, danno vita a un dramma attraverso il quale il lettore coglie in modo chiaro il movimento psicologico del soggetto. La dislocazione della psiche sulla scena e nell’intreccio narrativo corrisponde in modo adeguato al processo di astrazione dal dato sensibile descritto da Aristotele. Come le visiones animarum, il Romanzo diventa strumento di conoscenza. L’opera fa risaltare un mondo in cui la parola come strumento di azione si sostituisce alla forza. La conquista dell’‘Amata’ (la ‘Rosa’), da parte dell’‘Amante’, avviene attraverso una serie di stratagemmi e sotterfugi, indice di una trasformazione di codici culturali, che si sostituiscono al sistema di valori aristocratico-cortese in cui l’amore possiede una forte carica ideale: la nobiltà dell’‘Amante’ non è più valutata nella sfera dell’agone, ma dalla capacità di usare la parola come un’arma. In questo
48 L’edizione scelta per le citazioni del Roman de la Rose è quella di Lecoy: GUILLAUME DE LORRIS - JEAN DE MEUN, Le Roman de la Rose, éd. F. Lecoy, 3 voll., Paris 1965-1970. Sul Roman de la Rose, e sul suo rapporto con Dante, cf.: R. EMMERSON - R. B. HERZMAN, The Apocalyptic Age of Hypocrisy: Faus Semblant and Amant in the Roman de la Rose, in «Speculum», 62.3 (1987), pp. 612-634; D. POIRION, Les mots et les choses selon Jean de Meun, in «L’information littéraire», 26 (1974), pp. 7-11; L. VANOSSI, Dante e il Roman de la Rose. Saggio sul Fiore, Firenze 1979; K. BROWNLEE, The Problem of Faux Semblant: Language, History ad Truth in the Romans de la Rose, in «The New Medievalism», edd. K. Brownlee - M. Scordilis-Brownlee, Baltimore 1991, pp. 253-271; G. CONTINI, s. v. Fiore, in ED, II, pp. 895-901; ID., Un nodo della cultura medievale: la serie Roman de la Rose-Fiore-Divina Commedia, in ID., Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino 2001 (1970¹), pp. 245-283.
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quadro, la ‘Ragione’, sia come strumento per agire in modo prudente, sia come personaggio del Romanzo, è rilegata volutamente su un piano secondario, rispetto a quelli che si mostreranno i veri protagonisti della vicenda: ‘Faux-Semblant’ e ‘Male Bouche’. Quest’ultimo è a difesa del castello dove la ‘Rosa’ è imprigionata. Le caratteristiche che appartengono al personaggio richiedono, pertanto, da parte dell’‘Amante’, una flessibilità di valori tale da implicare una relativa inutilità della ‘Ragione’. ‘Male Bouche’, che nel Fiore attribuito a Dante diventerà ‘Malabocca’, è il simbolo di una società che costruisce in modo perverso le sue fondamenta sulla parola indisciplinata. Questi, grazie alla tecnica della personificazione, può essere descritto come un essere inquieto e inquietante, che per mezzo di una «langue deslaial et fause»49, ma soprattutto indomabile («tant que il ne se pot tere»)50, getta costantemente l’individuo in uno stato d’animo che ricorda la sofferenza di un dannato: «Plor et sopir (...) / friçons et plointes e complaintes»51. Attraverso la figura di ‘Male Bouche’, il Roman de la Rose elabora una dottrina originale, se confrontata a quella concepita nel Pèlerinage. Se in quest’ultima opera il disordine linguistico è il risultato, l’effetto dello stato morale di cui l’agente è portatore (l’invidia), nell’altra la lingua, la bocca, la mala bocca sono la causa scatenante del vizio; suscitano, per esempio, il movimento disordinato di ‘Gelosia’, altro custode della prigione. ‘Male Bouche’, la cui «gueule [è] mout punese / et mout poignant et mout amere»52, da una parte avvelena («envenime et [...] antoiche») coloro che diventano sua preda, portando questi alla morte per mezzo della lingua («par langue les livre a martire»); dall’altra, attraverso una manipolazione del discorso (il Romanzo dice la «matire», la materia), spande senza ritegno la diffamazione, suscitando appunto le inquietudini di ‘Gelosia’: Mes trop est malement janglierres / Male Bouche, li fleütierres. / Jalousie l’a fet sa guiete, /c’est cist qui tretouz nos aguiete, / cil bret et crie sanz deffense
49
Le Roman de la Rose, v. 3777, éd. Lecoy cit. (alla nota 48), I, p. 116. Ibid., v. 3498, p. 107. 51 Ibid., vv. 3771-3773, p. 116. Cf. Inf. III 22: «Quivi sospiri, pianti e alti guai (...)». 52 Le Roman de la Rose, vv. 3500-3501, éd. Lecoy cit. (alla nota 48), pp. 107108. 50
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/ quan qu’il set, voire quan qu’il pense, / et contreuve neïs matire / quant il ne set de cui mesdire / s’il en devoit estre penduz, / n’en seroit il pas deffenduz53.
Porre il vizio, come quello della gelosia, in una posizione subordinata rispetto all’uso che l’uomo può fare della lingua, significa concepire questo stesso organo, tipico dell’esistenza umana, come una sorta di soggetto avente vita propria. Qualcosa di autonomo e incontrollabile, che nel momento stesso in cui comincia a muoversi può risultare inarrestabile nella sua corsa. Qualcosa insomma che può essere apparentato al fuoco che distrugge, o a un animale che necessita, perché finalmente possa essere domato, di una briglia, un freno, in generale un’azione di controllo – come ricorda l’Epistola di Giacomo. Azione alla quale invita non a caso la ‘Ragione’, personaggio emblematicamente inascoltato nel racconto, che legittimando la sua argomentazione con i riferimenti alle autorità dell’Almagesto e di Catone dichiara la necessità di frenare la lingua, prima che questa possa creare danni: Dire le choses a tere / c’est trop grant dyable à fere. / Langue doit estre refrenee, / car nous lisons de Tholomee / une parole mout honeste / au commencier de l’Almageste, / que sage est cil qui met peine / a ce que sa langue refreine, / fars sanz plus quant de Dieu parole / (...) / Chaton meïsme s’acorde, / s’il est qui son livre recorde. / La peiz en escrit trouver tu / que la premereine vertu, / c’est de metre a sa langue frain: / donte donc la teue et refrain / de folies dire et d’outrages (...)54.
53
Ibid., vv. 12419-12428, ibid., II, p. 128. Ibid., vv. 7005-7013 e 7023-7029, I, pp. 215-216. Cf. Disticha vel dicta Cathonis, I, 3, ed. E. Baehrens, Leipzig 1881 (Poetae Latini minores, III), p. 217: «Virtutem primam esse puto compescere linguam: proximus ille deo est, qui scit ratione tacere». Il tema del ‘frenare la lingua’ ricorre non solo negli scritti teologici dedicati ai vizi e alle virtù, ma nella stessa poesia. Per esempio: IACOPONE DA TODI, Omo che pò la sua lengua domare, vv. 1-10, in ID., Laude, a c. di F. Mancini, Roma - Bari 2006 (1974¹), p. 224: «Omo che pò la sua lengua domare, / granne me pare c’aia signoria; / ché raro parlamento pò l’om fare, / che de peccar no n’aia alcuna via. / Iome pensato de parlare; / reprennome, ché faccio gran follia, / cà ‘l senno en me non sento né affare / a far devere granne diciria. / Ma lo volere esforza êl rasonare, / preso à lo freno e tello en sua bailìa»; BERTRAN CARBONEL, La primiera de totas las vertutz, in M. ROUTLEDGE, Poésies de Bertran Carbonel, Birmingham 2001, p. 113: «La primiera de totas las vertutz / es com’aia en son parlar mezura / per que totz homs deuri’ aver gran cura / de gent parlar cant se sent somogutz, 54
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Tuttavia, come si è detto, nel romanzo la ‘Ragione’ è volutamente messa al margine, marginalità che è parallela al declino di un sistema impostato su coordinate valoriali, come la dicotomia nemico/amico, ben delineate. Come emerge dal testo, quello dell’‘Amante’ è un nemico non dichiarato («il n’est pas arternis overz»); come un traditore, ferisce e diffama alle spalle. In altri termini, ‘Male Bouche’, le cui parole una volta proferite dalla sua lingua calunniosa producono effetti negativi che non possono essere più estinti («estaindre»), può essere sconfitto solo per mezzo delle sue stesse armi: l’‘Ipocrisia’: ‘Faux Semblant’, che in un capovolgimento paradossale di valori si sostituisce a ‘Ragione’, diviene il consigliere fidato dell’innamorato, ed è l’unico in grado di mettere un freno al suo nemico: Bon estouper fet Male Bouche, / qu’il ne die blasme ou reprouche. / Male Bouche et touz ses paranz, / a cui ja Dieu ne soit garanz, / par barat esteut barater, / servir, chuer, blandir, flater / par hourt, par adulacion, / par fauce simulacion, / et encliner et saluer, / qu’il fet trop bon le chien chuer / tant qu’en ait la voie passee55.
Se l’ipocrisia, il tradimento, il consiglio fraudolento che in modo ironico assurge a valore morale positivo, rappresentano solo una piccola parte del vasto programma filosofico del Roman de la Rose, lo stesso non si può dire per il Fiore (opera tradizionalmente attribuita a Dante Alighieri), che estrapola dal romanzo francese pochi episodi, li traduce nel volgare italico, li inquadra in una sequenza di sonetti e si concentra in modo principale sui ruoli di ‘Malabocca’, ‘Falsembiante’ e la ‘Vecchia’, nutrice astuta dell’‘Amata’ (‘Fiore’, ‘Bell’Accoglienza’)56. In questo modo, quanto nell’opera francese risulta come parte organica di un sistema più ampio, nel Fiore diventa il tutto. L’Ipocrisia (‘Ipocristo’ – neologismo
/ c’uey non es homs ab pejor malautia / cant de maldir sa lenga no castia; / car per mal dir prendan e dishonor / e ven a faytz per qu’en pert sa baylia». Per uno studio in questo senso, circoscritto alla poesia trobadorica, cf. M. CABRÉ, Mors et vita in manibus linguae: la metafora della lingua nei trovatori, in Scène, évolution, sort de la langue et de la littérature d’oc, Actes du septième congrès International de l’Association Internationale d’Études Occitanes (Reggio Calabria - Messina, 7-13 juillet 2002), éd. R. Castano et al., 2 voll., Roma 2003, I, pp. 179-199. 55 Le Roman de la Rose, vv. 7353-7363, éd. Lecoy cit. (alla nota 48), pp. 225226. 56 Sul Fiore, cf. supra, nota 48.
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La dimensione morale del linguaggio: l’exemplum di Ulisse
coniato dall’Autore facendo confluire in un solo termine il nome Cristo e il vocabolo ipocrita) è ormai l’unica protagonista della vicenda umana. L’inferno, che scaturisce da un uso malsano della parola, si conferma come una condizione che appartiene alla vita quotidiana, e non soltanto alla dimensione straordinaria del mondo ultraterreno. Mi limito in questa sede a segnalare una serie di metafore relative al personaggio ‘Malabocca’, vero simbolo del potere negativo della lingua e causa scatenante di uno stravolgimento di codici morali: «Malabocca (...) è traditor: chi ’l tradisce non erra; / chi con falsi sembianti no.ll’aferra / il su’ buon gioco mette a ripentaglia»57. Le metafore che vengono utilizzate per connotare questo malefico guardiano del castello, in cui ‘Fiore’ è imprigionata, riguardano innanzitutto l’ambito animale. ‘Malabocca’ è identificato per crudeltà e sauvagerie – allo stesso modo di come abbiamo visto per i detrattori – al cane (è da notare come Alano di Lilla nel Liber de planctu naturae paragoni gli adulatori proprio a cani da palazzo). Come un cane (la metafora è ancora una volta reperibile in Alano di Lilla, e in Guglielmo Peraldo)58 abbaia e latra in continuazione: «Se .ttu lo sfidi o batti, e’ griderà, / chéd egli è di natura di mastino: / chi più ‘l minaccia, più gli abaierà»59. Inoltre, per sottolineare la puntualità nociva delle operazioni relative a questa mala lingua, e sopratutto per illustrare in modo adeguato come la parola abbia la capacità di ferire in modo rapido, sia da lontano che da vicino, si fa ricorso alla metafora dell’arma, precisamente all’arco da cui la freccia scocca: «Egli è un mal tranello / che giorno e notte grida e nogia [e] tenza / (...) incontanente scoc[c]a / ciò ched e’ sa, ed in piaz[z]a ed a santo / e contruova di sé e mette in cocca»60. Ultima metafora è quella del naufragio, d’importanza capitale per una serie di ragioni sulle quali ritorneremo: ‘Malabocca’, con la lingua avvelenata, è la causa del tormento dell’Amante, che è gettato come un marinaio nella tempesta61.
57
Fiore LXIX 5-8. Per l’uso delle metafore sulla lingua negli scritti teologico-filosofici medievali, cf. C. CASAGRANDE - S. VECCHIO, Le metafore della lingua (secoli XII-XIII), in Oralità. Cultura, letteratura, discorso, Atti del convegno internazionale (Urbino 21-25 luglio 1980), a c. di B. Gentili - G. Paioni, Roma 1985, pp. 635-662. 59 Fiore LXIX 9-11. 60 Ibid., LI 7-8 e 12-14. 61 Cf. ibid., LVI 1-8. 58
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Il canto di Ulisse, l’Epistola di Giacomo e il De peccato linguae
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L’utilizzo delle metafore nel Fiore è il tentativo da parte dell’Autore di afferrare un soggetto mobile e di difficile comprensione come quello della lingua. Questa, secondo analogie ricorrenti tra gli autori medievali, è assimilata agli animali, motivo che spinge il Fiore a dichiarare – come ha già fatto ‘Ragione’ nel Roman – la necessità di «rifrenare» la lingua: La vertude più sovrana che possa avere la criatura umana sì è della lingua rifrenare. Sovr’ogn’altra persona a noi sì pare ch’esto peccato in voi fiorisce e grana; se no’l lasciate, egli è cosa certana che nello ‘nferno vi conviene andare62.
Animalità, fuoco, naufragio, necessità di porre un freno a qualcosa d’indomabile sono i tanti motivi legati al potere di nuocere della lingua (e della parola) che ricorrono in modo potenziato – perché inquadrati in una logica divina – nella Commedia di Dante. Questi diventano essenziali per comprendere, in particolare, la personalità di un personaggio come Ulisse, che per mezzo della parola (l’«orazion picciola») ha condotto al naufragio un manipolo di marinai. La pena alla quale viene sottoposto nell’Inferno è esemplare: l’eroe omerico (come il consigliere fraudolento Guido da Montefeltro) è imprigionato in una lingua di fuoco, a testimonianza del grave danno che può scaturire da una lingua incustodita. Al canto XXVI dell’Inferno presterò la dovuta attenzione: l’episodio di Ulisse si rivela, a mio avviso, l’exemplum più efficace che Dante offre sulla potestas nocendi della lingua.
2. Il canto di Ulisse, l’Epistola di Giacomo e il De peccato linguae Quanto ci narra Dante rientra apparentemente in un sistema valoriale positivo: Ulisse non ha fatto altro che invitare, primus inter pares, i propri compagni a superare le colonne di Ercole, simbolo, nel Medioevo, del limes che divideva il mondo conosciuto dal «mondo sanza gente». Questo invito è stato fatto attraverso un discorso, l’«orazion picciola», discorso 62
Ibid., CXXXIII 2-8.
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La dimensione morale del linguaggio: l’exemplum di Ulisse
entusiasmante, nobile, filosofico, caratterizzato dall’esaltazione della coscienza dell’essere e del dover-essere quale valore fondamentale nella vita di tutti gli uomini, coscienza che distingue l’uomo stesso dall’essere animale, e che lo spinge a realizzare sulla terra qualcosa di titanico. «Considerate la vostra semenza» – così si rivolge Ulisse ai suoi compagni – «fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza»63. Per quale motivo, allora, l’eroe è collocato tra i gironi dell’Inferno, considerato il fatto che è portatore di un messaggio positivo, elevare l’uomo dallo stato di brutalità nel quale spesso può costringersi? Si è cercato di rispondere alla domanda articolando la risposta in due brevi sezioni: innanzitutto, prendere in considerazione il ruolo che l’Epistola di Giacomo gioca nella strutturazione del canto; successivamente, spostare l’attenzione sulla Summa di Guglielmo Peraldo, fondamentale per comprendere in modo specifico il peccato di cui Ulisse si è macchiato. Quanto emerge è sia la complessità del capitolo dedicato al personaggio omerico, sia la ricchezza della riflessione di Dante sulla lingua e sul linguaggio. In sostanza, se si accetta il riferimento implicito all’Epistola nella Divina Commedia, l’importanza retorica assunta dall’«orazion picciola» e l’influenza di Peraldo, si può già dire che la pena alla quale è sottoposto Ulisse è una fiamma-lingua, un involucro ermetico, senza «via né forame»64, che costringe l’eroe a tenere una condotta esistenziale nell’Inferno di chiusura verso l’esterno. La parola rappresenta, come si evince dal De vulgari, il mezzo attraverso il quale l’individuo si riconosce come specie autonoma e lo strumento sensibile attraverso il quale si esprimono esternamente i propri concetti, ad alterum65. In questo modo la parola crea una comunità politica, un’impresa, che si regge solo ed esclusivamente sulla sua responsabilità morale: Ulisse sarà condannato per mezzo della fiamma al controllo della lingua e all’anonimato («nessuna mostra ‘l furto»), in quanto ha derogato alla funzione essenziale della parola, quello di uno scambio verace dei pensieri; perché ha condotto verso la morte, nella veste di re-condottiero di una comunità politica, la sua flotta66.
63
Inf. XXVI 117, 118-120. Inf. XXVII 13. 65 Cf. De vulg. I iii 1. 66 Bisogna tener conto, ovviamente, anche di un altro motivo che spiega la collocazione di Ulisse tra gli ingannatori: l’inganno ai danni di Achille e il furto del Palladio. 64
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a) «Come fosse la lingua che parlasse...» Da un punto di vista critico, la figura dell’eroe greco, che è una delle più complesse dell’immaginario dantesco, si scontra con una serie di difficoltà, quali la sua precisa collocazione nell’Inferno o il ruolo anomalo che la passione poetica di Dante sembra attribuirgli: se confrontato ad altri personaggi Ulisse giganteggia per la sua statura psicologica e morale, e per la sorte romantica alla quale è sottoposto dall’Autore. Un’anomalia che ha contribuito alla nascita di una critica positiva attorno al personaggio, al punto da considerare autonoma la sua vicenda dal disegno complessivo della Divina Commedia, e dubitare della sua effettiva punizione in Malebolge. In questo senso si può parlare di un’interpretazione di Inferno XXVI basata generalmente su un elemento metodologico, rinvenibile, per esempio, nell’interpretazione di Rossi, che ha parlato di un «dissidio tra Dante teologo e Dante poeta»67: se la concezione teologica del primo non poteva non collocare Ulisse in una delle fosse dell’Inferno, la sensibilità poetica del secondo – «vincente», secondo lo studioso – doveva necessariamente ammirare la prosopopea grandiosa di un personaggio che si è spinto fino a varcare i limiti del conoscibile. Una serie di elementi ha spinto molti interpreti a vedere il personaggio in senso tragico, a leggerlo in una prospettiva omerica, dimenticando la lettura medievale di una figura che è plasmata nel corso dei secoli secondo istanze differenti da quelle greche. Si è così parlato, a partire dal com-
67 Cf. M. FUBINI, s. v. Ulisse, in ED, V, pp. 803-809. Questa è la posizione di una lunga schiera di commentatori. L’Enciclopedia Dantesca alla voce Ulisse (alla quale si rinvia per la lunga bibliografia sul personaggio) mantiene con Mario Fubini questa linea interpretativa, volta a considerare da un punto di vista poetico la vicenda dell’eroe. La conseguenza più immediata di questa scelta metodologica è rappresentata dall’impossibilità di riconoscere la vera pena alla quale Ulisse è sottoposto: «È da notare anche come, a differenza delle pene delle altre bolge, questa non abbia niente di ripugnante o di orroroso – la prima impressione è soltanto di una diffusa mobile luce, simile a quella delle lucciole in una sera d’estate –, anche perché i dannati e le loro sofferenze sono nascosti dentro le fiamme» (p. 803). Si veda anche ID., Il peccato di Ulisse e altri scritti danteschi, Milano - Napoli 1966. Su questa stessa linea anche il testo di Massimo Seriacopi, esplicito fin dal titolo del suo saggio, che in ogni caso rimane un ottimo strumento per apprezzare in particolare il punto di vista degli antichi commentatori sulla figura di Ulisse: M. SERIACOPI, All’estremo della prudentia. L’Ulisse di Dante, Roma 1994.
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La dimensione morale del linguaggio: l’exemplum di Ulisse
mento di Benvenuto, della magnanimità di Ulisse («vir magnanimus»)68, grandezza che non poteva non portare alla rovina: il concetto di folle, il «folle volo»69, indica questo eccesso di magnanimità, che ha costretto l’eroe in un circuito tragico70. La difficoltà interpretativa di Inferno XXVI, che ha condotto all’attenuazione della peccaminosità di quest’anima infernale, potrebbe essere la conseguenza della non chiara individuazione della legge del contrappasso che anima la sezione di Malebolge in questione. La vicenda della morte di Ulisse e quella dei suoi compagni, l’ombra del monte, le colonne di Ercole, raccontate dallo stesso personaggio al pellegrino-Dante secondo una fine modalità retorica di narratio, sono al di fuori del meccanismo di funzionamento effettivo della giustizia divina nell’Inferno. Un primo chiarimento, invece, sembra si possa scorgere in una vecchia interpretazione di André Pézard, il quale ha stabilito un nesso tra le fiamme che puniscono i peccatori e quelle scese sugli apostoli nel giorno di Pentecoste, un accostamento che indica la punizione di chi si è macchiato, come Brunetto Latini, di violenza contro lo Spirito Santo, e di chi come Ulisse ha cercato di frodarlo71. Va sottolineato il ruolo rilevante che in questa interpretazione ha assunto la fraudolenza del personaggio, tema ripreso successivamente da Augustin Renaudet72, che ha evidenziato, in riferimento all’«orazion picciola», la capziosa abilità oratoria dell’eroe; e da Giorgio Padoan, che ha
68 Cf. BENVENUTO DA IMOLA, Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam, ed. Lacaita cit. (alla nota 18), II, p. 294. 69 Cf. Inf. XXVI 124-126: «E volta nostra poppa nel mattino, / de’ remi facemmo ali al folle volo, / sempre acquistando dal lato mancino». 70 Anche chi, come Bruno Nardi, è stato pronto a riconoscere l’ovvia collocazione infernale del personaggio si posiziona su questa linea interpretativa romantica: il paragone che egli fa con Lucifero sancisce la grandezza di Ulisse, e s’inscrive decisamente nella prospettiva di chi ha visto nella sua vicenda l’atto eroico «di un grande uomo solitario di Malebolge», «piramide piantata in mezzo al fango», secondo un’espressione di De Sanctis che ha fatto letteralmente scuola. Cf. B. NARDI, La tragedia di Ulisse, in «Studi danteschi» 20 (1937), pp. 5-15 (ripr. in ID., Dante e la cultura medievale cit. [Introd., alla nota 7], pp. 125-134). La citazione di Francesco de Sanctis è tratta da F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, n. ed. a c. di B. Croce, 2 voll., Bari 1912, I, p. 192. 71 Cf. PÉZARD, Dante sous la pluie cit. (Introd., alla nota 34), p. 293. 72 Cf. A. RENAUDET, Dante humaniste, Paris 1952.
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mostrato come nell’Eneide, nelle Metamorfosi e nell’Achilleide i discorsi di Ulisse siano capolavori improntati all’astuzia. È questa l’immagine del personaggio trasmessa nel Medioevo, come quella dell’Eneide, dove è sottolineato il carattere di «scelerum inventor» dell’eroe o di «fandi fictor»73, punto di partenza importante per un ribaltamento critico delle posizioni tradizionali su Inferno XXVI. La capacità maggiore di Ulisse, infatti, ha scritto Padoan, è quella di conoscere «l’arte di far apparire vero e giusto, e in nome degli ideali più nobili, anche ciò che in definitiva è la negazione stessa di quegli ideali»74. Il riferimento alla Pentecoste e alle fiamme fatto da Pézard è interessante per un’altra ragione, perché conduce a un ambito speculativo preciso, che ruota attorno al tema della lingua. È noto, secondo gli Atti degli
73
VIRGILIO, Aeneis, II, v. 164; IX, v. 602. G. PADOAN, Ulisse fandi fictor e le vie della sapienza, in «Studi Danteschi», 37 (1960), [pp. 21-61] (e in ID., Il pio Enea, l’empio Ulisse. Tradizione classica e intendimento medievale in Dante, Ravenna 1977, pp. 170-204), p. 25. A mettere in evidenza per la prima volta l’aspetto retorico del discorso di Ulisse (l’«orazion picciola») è stato BENVENUTO DA IMOLA, Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam, ed. Lacaita cit. (alla nota 18), II, p. 290: «Vide quod captatio benevolentiae non solum fit per exordium, sed etiam per caeteras partes orationis. Est enim velut sanguis diffusus per omnia membra vivificans totum corpus orationis. Et dicit: ‘Di retro al sol (...)’. Deinde facit confirmationem, dicens: ‘Considerate la vostra semenza (...)’. Unde dicit: ‘Ma per seguir virtute e conoscenza’, quae facit viam ad felicitatem. Et concludit effectum mirabile istius pulcerrimae persuasionis dicens: ‘Fec’io (...) li miei compagni (...) con questa orazion picciola’, quae brevis verbis et magna sententia». Così SAPEGNO, La Divina Commedia cit. (alla nota 14), p. 299: «Discorso breve, ma nella sua brevità costruito come un’orazione vera e propria». In un articolo del 1973, Anna Dolfi ha sottolineato come il racconto di Ulisse sia caratterizzato da un uso particolare di tecniche retoriche, che tradisce la vera natura di uno spirito fraudolento. Cf. A. DOLFI, Il canto di Ulisse: occasione per un discorso di esegesi dantesca, in «Forum Italicum», 4.1 (1973-1974), [pp. 2245], p. 36: «Ulisse usa nel suo racconto intenzionalmente l’amplificatio per influire gradualmente sugli ascoltatori, scegliendo di far leva contemporaneamente sul loro sentimento e sulla loro intelligenza, prospetta prima la situazione in maniera narrativa e passa poi, attraverso una gradatio d’intensificazione alla vera e propria orazione. L’incipit ‘o frati…’, affettivamente volto a captare la benevolenza dei compagni, è seguito dalla narratio sulla loro situazione e dalla argomentatio, con l’invito a varcare i limiti di Gibilterra. Abilmente Ulisse nel suo discorso si muove in sottile alternativa, tra probatio e refutatio, attraverso l’uso retorico del ‘non vogliate negar l’esperienza…’ facendo uno dei più alti e convincenti discorsi: ‘considerate la vostra semenza’». 74
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Apostoli, che quel giorno all’improvviso un rumore venne dal cielo, e apparvero lingue di fuoco («dispertitae linguae tamquam ignis»); tutti gli apostoli furono pervasi dello Spirito Santo, e così come lo Spirito dettava («dabat eloqui illis»), questi cominciarono a parlare in lingue75. È possibile accostare questo passo biblico a quei dannati che nelle Malebolge si sono macchiati del peccato di bestemmia, simonia, tradimento (nei confronti di Dio, di se stessi e della patria), di ipocrisia, di frode: peccati che prevedono, com’è evidente, un uso distorto della lingua e della parola? Si può davvero parlare di un’azione contro lo Spirito Santo da parte di Ulisse, così come affermato rapidamente da Pézard? In Inferno XXVI esiste senza dubbio un nesso tra il concetto di lingua e quello di fuoco: una fiamma è ciò che avvolge Ulisse, e la fiamma in modo incontrollabile («indi la cima qua e là menando») diviene il mezzo attraverso il quale questi esprime e racconta la sua vicenda; il segno sensibile, secondo la terminologia dantesca, attraverso cui è veicolato il segno razionale: Come fosse la lingua che parlasse gittò voce di fuori e disse (…)76.
Senza rinunciare all’accostamento con At 2, 1-4, presente in filigrana in questo e in altri canti relativi a Malebolge (la «piova»)77, il riferimento biblico più immediato al quale Dante si rivolge, per dare un senso alla «fiamma antica» che avvolge l’eroe omerico, fiamma che rappresenta allo stesso tempo il mezzo sensibile attraverso cui è espresso un messaggio determinato, è dato dal terzo capitolo dell’Epistola di Giacomo. Qui la lingua – si è già detto – è definita un piccolo timone, capace di dirigere una nave in situazioni avverse: «modicum membrum», piccolo organo, è capace di grandi cose. La lingua è un fuoco («lingua ignis est»), mon-
75 At 2, 1-4: «Et cum complerentur dies pentecostes erant omnes pariter in eodem loco, et factus est repente de caelo sonus tamquam advenientis spiritus vehementis et replevit totam domum ubi erant sedentes, et apparuerunt illis dispertitae linguae tamquam ignis seditque supra singulos eorum, et repleti sunt omnes Spiritu Sancto et coeperunt loqui aliis linguis prout Spiritus Sanctus dabat eloqui illis». Per un’analisi del tema della Pentecoste, cf. infra, cap. 4, § 3. 76 Inf. XXVI 89-90. 77 Cf. Inf. VI 7 e Inf. XIV 132.
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do dell’iniquità, vive inserita nelle nostre membra, contamina il corpo e incendia il corso della vita («inflammat rotam nativitatis»). «Inquietum malum», trova la sua origine direttamente nell’inferno. Il riferimento a questo passo del Nuovo Testamento è fatto per la prima volta da un commento di Pietro, figlio di Dante. La sua interpretazione è tra le più efficaci, dato che inquadra in modo puntuale il contesto culturale che soggiace alla costruzione dell’episodio di Inferno XXVI. Innanzitutto, Pietro individua con precisione il peccato punito nell’ottava bolgia, una specie di frode commessa da retori e consiglieri perversi («pravi oratores et consultores»): un’azione che richiama, come vedremo, uno specifico peccato della lingua, quello del pravum consilium. Secondo il commentatore, l’eloquenza («callida», aggettivo che stabilisce un’identità qualitativa tra il fuoco e l’ingegno dei consiglieri, secondo un accostamento terminologico presente per esempio in Papia)78 è una spada, un «gladius acutus», quando questa è affidata ai folli. Per tale ragione, ammonisce l’Ecclesiastico, l’uomo deve imparare a controllare la propria anima attraverso la custodia della bocca («ori tuo facito ostia... et frenos ori tuo rectos», Sir 28, 28). Il secondo elemento d’interesse, nel commento di Pietro, è rappresentato dalla chiara individuazione della pena di Ulisse, individuazione attraverso cui è possibile risalire, con sicurezza, al peccato di quest’anima infernale: la pena è la fiamma, nella quale sono puniti i peccatori dell’ottava bolgia. Questo significa, secondo un’interpretazione allegorica, che gli uomini astuti e pravi, capaci di utilizzare nel mondo terreno l’eloquenza, possono essere paragonati a un fuoco, a una piccola favilla che incendia tutto e tutti79.
78 Cf. PAPIA VOCABULISTA, Elementarium, ed. Venezia 1496 (ripr. Torino 1966), p. 46: «Callidus versutus in disputando ingeniosus subdolus: inde calliditas, calidus vero affectus calore fervidus». Questo passo è citato anche in B. PORCELLI, Peccatum linguae, modello mosaico, climax narrativo nel canto di Ulisse, in «Critica letteraria», 19.72 (1991), [pp. 423-443], p. 424. 79 Cf. PIETRO ALIGHIERI, Super Comoediam Commentarium, ed. by S. Pagano F. Mazzoni, electr. transcr. by G. Puletti, Società Dantesca Italiana, Inf. XXVI 2533. Cfr. anche ID., Super Dantis ipsius genitoris Comoediam Commentarium, ed. V. Nannucci, Firenze 1845, pp. 230-231; e cfr. Commentarium di Pietro Alighieri nelle redazioni ashburnhamiana e ottoboniana, trascr. a c. di R. Della Vedova - M. T. Silvotti, Nota introduttiva di E. Guidubaldi, Firenze 1978, in partic. pp. 356362. Per una discussione più analitica su questa interpretazione di Pietro Alighieri nelle tre redazioni del suo commento alla Commedia, mi permetto di rinviare
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La dimensione morale del linguaggio: l’exemplum di Ulisse
L’Epistola è diffusa nel Medioevo, insieme al commento di Beda, e attraverso la lettura di quest’ultimo potrebbe essere stata studiata da Dante. È verosimile pensare che l’accostamento di alcuni luoghi-simbolo, essenziali per la strutturazione dell’episodio dantesco, quali quello della lingua, del fuoco e della navigazione, trovino radice nell’Expositio di Beda sull’Epistola. Come riportato in precedenza, la nave rappresenta la mente degli uomini nella vita terrena; i venti gli appetiti; il timone rinvia all’«intentio cordis», che conduce gli eletti al porto felice della patria celeste, mentre i «reprobi» sono inghiottiti dai flutti della vita terrena. Un lascito dell’Epistola, che potrebbe giocare un ruolo importante per la comprensione della personalità di Ulisse, e di quei dannati che sembrano essersi macchiati di un uso distorto della parola, consiste nell’introduzione di un altro luogo-simbolo, legato sia al termine «lingua», sia all’espressione vir perfectus: il «cavallo», al quale la lingua è paragonata per esprimere la potenza di un membro che, se sottoposto all’uso di strumenti idonei («freni») a circoscriverne («circumferre») la forza, si accorda perfettamente ai nostri intenti. Così, la parola («verbum») sottoposta a regole, frenata, che non offende, sarà tipica di un uomo perfetto. È suggestivo notare come proprio in questa bolgia di Inferno XXVI, e in una modalità che sembra volutamente antitetica alle sue caratteristiche morali, Dante faccia riferimento indirettamente all’organo, la bocca o la lingua, con i quali il suo ingegno si manifesta: E più lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio perché non corra che virtù nol guidi80.
a G. GAMBALE, La figura di Ulisse nei commenti di Pietro Alighieri alla Divina Commedia, in L’antichità classica nel pensiero medievale, Atti del convegno della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale, SISPM (Trento 27-29 settembre 2010), a c. di. A. Palazzo, Textes et études du Moyen Âge, Turnhout 2011 (FIDEM 61), pp. 307-322. Più recentemente, altri critici hanno fatto riferimento all’Epistola di Giacomo per spiegare le lingue di fuoco nell’ottava bolgia: FERRANTE, The Relation of Speech cit. (alla nota 23); J. A. SCOTT, Inferno XXVI: Dante’s Ulysses, in «Lettere Italiane», 23.2 (1971), pp. 145-186; J. G. TRUSCOTT, Ulysses and Guido, Inferno XXVI-XXVII, in «Dante Studies», 91 (1973), pp. 47-72; R. BATES - T. RENDALL, Dante’s Ulysses and the Epistle of James, in «Dante Studies», 107 (1989), pp. 33-44; G. BRUGNOLI, Epistula catholica beati Jacobi, in ID., Studi danteschi, 3 voll., Pisa 1998 (Testi e studi di cultura classica), III, pp. 19-24. 80 Inf. XXVI 21-22.
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Il canto di Ulisse, l’Epistola di Giacomo e il De peccato linguae
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Inoltre, nel campo dei richiami interni danteschi si potrebbe collocare il rapporto antitetico tra l’«affreno» ora citato e la «lingua sciolta» dei bestemmiatori:
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Più al duolo avea la lingua sciolta81.
La metafora del freno attribuita alla lingua trova una conferma ulteriore in un passaggio del Fiore più volte citato, dove esplicitamente si invita a «rifrenare la lingua». Sempre in Inferno XXVI, è importante notare come Dante, curioso di parlare alla fiamma che avvolge i due eroi greci, Ulisse e Diomede, è invitato da Virgilio a tacere, a «sostenere» la propria lingua («fa che la tua lingua si sostegna»)82, azione che in modo chiaro rinvia al «sostenute» di Convivio IV ii 8-10, e antitetica all’imprevedibilità della lingua di fuoco, mezzo di espressione di Ulisse. In questo passaggio del trattato in volgare, fondamentale per capire l’azione che la parola esercita su un ipotetico destinatario, non a caso l’autore fiorentino traduce un passo dell’Epistola; stabilisce un rapporto interessante tra la pazienza dell’agricoltore, capace di aspettare il prezioso frutto della terra, e le parole, che prima di essere utilizzate devono essere custodite («sostenute»). Le parole, come semi, possiedono straordinarie potenzialità, che se coltivate attraverso un lavoro di discrezione razionale («discretamente») operano in modo virtuoso («fruttifere»), mentre l’assenza di discrezione fa sì che esse perdano la capacità di fecondare gli altri. Uno degli strumenti tradizionali della discretio è il tempo, che deve essere gestito con accortezza. Se questo avviene, il contesto all’interno del quale sono inseriti il locutore («parladore») e l’ascoltatore si dispone in modo tale che la comunicazione possa essere fruttuosa: Per che le parole, che sono quasi seme d’operazione, si deono molto discretamente sostenere e lasciare, [sì] perché bene siano ricevute e fruttifere vegnano, sì perché dalla loro parte non sia difetto di sterilitade. E però lo tempo è da provedere, sì per colui che parla come per colui che dee udire: ché se ‘l parladore è mal disposto, [le] più volte sono le sue parole dannose; e se l’uditore è mal disposto, mal sono quelle ricevute che buone siano. E però Salomone
81 82
Inf. XIV 27. Cf. anche Par. XXVII 130-135. Inf. XXVI 72.
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dice nello Ecclesiaste: «Tempo è da parlare, e tempo è da tacere» (Qo 3, 7). Il perché io sentendo [in] me turbata disposizione, per la cagione che detta è nel precedente capitolo, a parlare d’amore, parve a me che fosse d’aspettare tempo, lo quale seco porta lo fine d’ogni desiderio, e appresenta, quasi come donatore, a coloro a cui non incresce d’aspettare. Onde dice santo Iacopo apostolo nella sua Pistola: «Ecco lo agricola aspetta lo prezioso frutto della terra, pazientemente sostenendo infino che riceva lo temporaneo e lo serotino» (Gc 5, 7). E tutte le nostre brighe, se bene venimo a cercare li loro principii, procedono quasi dal non conoscere l’uso del tempo83.
In questo brano del Convivio vi è un riferimento chiaro alle circumstantiae locutionis, un insieme di strumenti retorici che permettono il controllo della lingua e della parola. Il passaggio di Salomone citato da Dante rientra in una lunga e consolidata tradizione, che stabilisce come il tempo sia fondamentale per la creazione di una parola virtuosa. In altri termini, per molti autori medievali il discorso, prima di essere elaborato, deve rispondere a una serie di interrogativi che ne permettono una sorta di affinamento razionale e morale allo stesso tempo. Per Ugo di San Vittore, per esempio, che in modo canonico legittima la sua argomentazione sulle circumstantiae a partire da Sal 140, 1-5, ritiene che il novizio debba tener conto in modo rigoroso nella formulazione dei suoi discorsi di cinque regole: «Quid dicatur, cui dicatur, quomodo dicatur, quando dicatur, ubi dicatur». Se nel parlare l’individuo esclude la possibilità di riflettere sulla qualità dell’oggetto del suo discorso, lo statuto e le condizioni morali, fisiche e sociali dell’ascoltatore al quale indirizza le parole, le modalità per cui le parole stesse si trasmettono agli altri, la tempistica e il contesto, la locutio umana risulterà per gli «animi auditorum» (la «disposizione dell’uditore», scrive Dante) «inutile», «disonesta» e «nociva»84.
83 Conv. IV ii 8-10. L’Epistola è citata da Dante in altre due occasioni, in Conv. IV xx 6: «Secondo la parola de l’Apostolo: ‘Ogni ottimo dato e ogni dono perfetto di suso viene, discendendo dal Padre de’ lumi’» (cf. Gc 1, 17: «Omne datum optimum et omne donum perfectum desursum est descendens a Patre luminum apud quem non est transmutatio nec vicissitudinis obumbratio») e in Par. XXV 77. 84 Cf. UGO DI SAN VITTORE, De institutione novitiorum, XIII, PL 176, 943D944A, edd. H. B. Feiss - P. Sicard - D. Poirel - H. Rochais, in ID., Opera, 2 voll., Turnhout 1997 (Sous la Règle de saint Augustin, 3), I, pp. 74-76: «In locutione quinque res sunt observande, hoc est quid dicatur, cui dicatur, quomodo dicatur, quando dicatur, ubi dicatur. Quid autem dicendum sit hac primum generali distin-
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Ci si può limitare, in questa sede, a riportare altri due brani, appartenenti a due autori che per diverse ragioni sono legati alla produzione letteraria dell’Alighieri. Il primo di questi autori è Brunetto Latini, il quale nel suo Livres dou Tresor, caro a Dante, riprende la tematica del discorso perfetto affrontata da Ugo, e in un francese oramai desueto insegna come il locutore debba stare attento all’«a qui», al «porqoui», al «comment» (la maniera e la misura), e al «tens» (il tempo): Or estuet regarder a qui tu paroles, s’il est tes amis ou non (...). Après dois tu garder porquoi tu paroles, c’est a dire l’ochoison de tes dis (...) car autrement dois tu parler por le service Dieu que por les homes, et autrement por ton preu que pour l’autrui (...). Or e convient il consirer comment tu paroles, car il n’est nulle chose ki n’ait besoing de ses manieres et de sa mesure (...). Autresi dois tu garder le tens quant u vieus en parler85.
L’altro autore è Albertano da Brescia, che scrive l’Ars loquendi et tacendi, con lo scopo di insegnare al figlio quella che in altra occasione definisce una «coercizione della lingua», perché il discorso possa essere costruito nel segno della verità, e non della menzogna. L’ordito delle parole da indirizzare all’ascoltatore, per essere davvero efficace, dovrebbe essere tessuto nella trama della dottrina delle quattro cause, efficiente, materiale, formale e finale, che corrispondono, rispettivamente, alla presa di coscienza di sé, del proprio ruolo di agente linguistico (quis), all’oggetto della discussione (quid), alla modalità di comunicazione (quomodo) e al fine, al perché, che spingono all’azione locutoria in quanto tale (cur)86. Solo in questo modo, afferma Albertano, il verbum può risultare «efficax, non inane, rationabile, dulce, suave, molle et non durum, pulchrum et
ctione discernitur, ut videlicet nunquam in sermonibus disciplinatis otiosa adhibeantur. Otiosa autem sunt omnia que sunt aut nociva, aut inhonesta, aut inutilia. Inutilia autem sunt que nec loquentibus, nec audientibus prosunt. Inhonesta sunt que vel illius qui loquitur, vel illius cui loquitur, vel illius de quo loquitur dignitati non conveniunt. Nociva sunt que suis suasionibus animos auditorum sive a errorem, sive ad pravitatem inducunt». 85 BRUNETTO LATINI, Li livres dou Tresor, LIX-LXVII, éd. F. J. Carmody, Genève 1998, pp. 240-245. 86 Cf. ALBERTANO DA BRESCIA, Liber de doctrina dicendi et tacendi, ed. P. Navone (Liber de doctrina dicendi et tacendi: la parola del cittadino nell’Italia del Duecento), Tavarnuzze - Impruneta 1998, p. 28 [6]; ma cf. ibid., p. XXXIV, nota 1.
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non turpe vel malum, et non obscurum, non ambiguum, non sophisticum, non iniuriosum nec seditiosum, non irrisorium nec dolosum, non superbum nec otiosum»87. Alla luce di tutti questi dati si delinea, se accettato il riferimento implicito alla lingua di fuoco dell’Epistola di Giacomo, il peccato dell’eroe pagano: un peccatum linguae, il peccato di chi non ha preso in considerazione gli strumenti retorici e morali a cui deve essere sottoposta la lingua, prima di essere utilizzata. Quella di Ulisse si è rivelata una lingua incongrua, inordinata, dissoluta, dolosa, maledica; ha dato vita a un «pravum consilium» (l’espressione è di Guglielmo Peraldo), ha manifestato nel suo eloquio uno spirito fraudolento. Per questa ragione l’eroe è impietosamente gettato tra le bolge dell’Inferno.
b) Il pravum consilium. Una fonte: Guglielmo Peraldo Il riferimento, appena fatto, a Peraldo non è casuale, dato che la sua opera potrebbe rappresentare un criterio importante per chiarire la struttura filosofico-teologica che soggiace a Inferno XXVI. Se confrontata con l’opera dei suoi predecessori, che in modo sporadico e frammentario si sono occupati del vizio della lingua, quella di Peraldo si distingue per una classificazione del tema più precisa, basandosi la ricerca su un principio di definizione razionale dei diversi peccati. A questo criterio di organizzazione, che si sostituirà al sistema inadeguato di Gregorio, è consacrata in particolare la Summa de vitiis et virtutibus, circolante attorno al 1250, e destinata ad avere un grosso seguito presso diversi ambienti e in diversi generi letterari. Si può pensare, per esempio, al genere enciclopedico dello Speculum doctrinale di Vincenzo di Beauvais, dove l’analisi dei peccati capitali si conclude con un’indagine sui vizi della lingua e quelli degli occhi88; al Somme le Roi, trattato morale per il re Filippo III, composto intorno al 1280 dal domenicano Lorenzo d’Or-
87
Ibid., pp. 18-20 [89]. Cf. A. A. TRIOLO, Ira, Cupiditas, Libido: The Dynamics of Human Passion in the Inferno, in «Dante Studies», 95 (1977), [pp. 1-37], p. 12: «The Speculum Morale of the pseudo-Vincent of Beauvais, a work written in Dante’s time and obviously indebted to Aquinas, strikes me as an excellent sounding board, if not necessarily a source for this and other matters in Dante». 88
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Il canto di Ulisse, l’Epistola di Giacomo e il De peccato linguae
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leans; al Manuel des Péchés, attribuito sia a Guglielmo di Waddington, sia a Roberto Grossatesta89. Più interessante, da un punto di vista storico e per una migliore comprensione delle possibili vie attraverso cui il sistema di Peraldo potrebbe essere giunto a Dante, è l’eredità peraldiana presente nel Liber de virtutibus et vitiis, composto dal francescano Servasanto da Faenza tra il 1277 e il 1285, periodo che potrebbe corrispondere agli anni di formazione giovanile del poeta fiorentino presso le «scuole delli religiosi» di Firenze90. Il Liber di Servasanto si conclude con la distinctio XVII, consacrata all’analisi del vizio della lingua e delle sue diverse specie. In definitiva, l’opera riprende testualmente le definizioni di Peraldo nella Summa91. Un testo ulteriore da segnalare – tuttavia al di fuori dei limiti cronologici legati all’attività di Dante – è Il pungilingua di Domenico Cavalca, scritto che si propone come il fedele volgarizzamento della sezione della Summa dedicata al peccato della lingua. L’opera è degna di attenzione almeno per tre ragioni: 1) in quanto mette in evidenza come l’ambiente toscano, grazie alla predicazione di domenicani e francescani, per esempio quella dello stesso Cavalca, sia particolarmente sensibile al tema del potere della lingua; 2) per la funzione di divulgazione, legata allo spirito di evangelizzazione dei predicatori; 3) per la novità di alcuni passaggi rispetto al modello peraldiano: le definizioni di peccati tipicamente religiosi della parola si allargano fino a comprendere il peccato dei novellieri, dei canti, dei balli dissoluti e degli indovini, vizi della lingua che si riferiscono a un contesto chiaramente laico92.
89 Per tutti questi aspetti, cf. CASAGRANDE - S. VECCHIO, I peccati della lingua cit. (Introd., alla nota 35), in partic. pp. 128-140. 90 Conv. II xii 7. 91 Cf. L. OLIGER, Servasanto da Faenza O. F. M. e il suo Liber de virtutibus et vitiis, in Miscellanea F. Ehrle: scritti di storia e paleografia, 6 voll., Roma 1924 (Studi e testi, 37-42), I, pp. 148-189; C. DELCORNO, La predicazione nell’età comunale, Firenze 1974; C. CASAGRANDE, Predicare la penitenza. La Summa de poenitentia di Servasanto da Faenza, in Dalla penitenza all’ascolto delle confessioni: il ruolo dei frati mendicanti, Atti del XXIII Convegno internazionale della Società internazionale di studi francescani e del Centro interuniversitario di studi francescani (Assisi, 12-14 ottobre 1995), Spoleto 1996 (Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, Atti del Centro interuniversitario di studi francescani), pp. 59-102. 92 Cf. DOMENICO CAVALCA, Il pungilingua, ed. Bottari cit. (alla nota 36). Per le notizie sull’autore si rinvia ai seguenti titoli: C. NASELLI, Domenico Cavalca, Città
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Sigfried Wenzel, in un articolo apparso nel 196593, ha messo in evidenza come il sistema del peccato teorizzato da Peraldo possa avere influenzato la classificazione dantesca dei vizi presente in Purgatorio XVII. La seconda cantica rivela in questo modo una forte esigenza di razionalizzazione94, a partire dalla definizione stessa del vizio capitale, su cui si regge un
di Castello 1925; T. TADDEI, La vita del Cavalca dai suoi scritti, in «Il Rosario. Memorie domenicane», 59 (1942), pp. 170-175; C. DELCORNO, s. v. Cavalca, Domenico, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXII, Roma, pp. 577-586. 93 Cf. S. WENZEL, Dante’s Rationale for the Seven Deadly Sins (Purgatorio XVII), in «Modern Language Review», 60 (1965), pp. 529-533. 94 Cf. ibid., p. 530. Sulla stessa linea interpretativa di Wenzel si è mosso Carlo Delcorno. Cf. C. DELCORNO, Dante e Peraldo, in ID., Exemplum e letteratura: tra Medioevo e Rinascimento, Bologna 1989, p. 209: «Vi è un’indubbia analogia tra la distribuzione degli esempi di superbia e gli schemi compositivi in uso nella predicazione al tempo di Dante, descritti con molta precisione nelle artes praedicandi: uno dei più comuni tracciava una divisione a tre membri, ognuno dei quali veniva poi dilatato con quattro distinzioni, così da ottenere un organismo da dodici elementi». Sempre per il rapporto Dante-Peraldo, fondamentale per la comprensione della classificazione delle pene in Purg. XVII, si veda F. MANCINI, Un’auctoritas di Dante, in «Studi danteschi», 45 (1968), pp. 95-119. Interessante, inoltre, uno studio della Corti sul Fiore di Virtù, studio che prende in considerazione la Summa di Peraldo quale modello utilizzato per formulare in tale testo il concetto di nobiltà: cf. M. CORTI, Le fonti del Fiore di Virtù e la teoria della nobiltà nel Duecento, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 136 (1959), pp. 1-82, in partic. pp. 62-82. Per l’influsso di Peraldo su Iacopone da Todi, cf. MANCINI, ibid., p. 96, nota 5, e ID., Il codice Oliveriano 4 e l’antica tradizione manoscritta delle laudi Iacoponiche, in «Studia Oliveriana», 15-16 (1967-1968), pp. 101-113. In generale, per l’opera di Peraldo e la sua influenza nel Medioevo si veda S. WENZEL, The Continuing Life of William Peraldus’s Summa vitiorum, in Ad litteram: Authoritative Texts and Their Medieval Readers, edd. M. D. Jordan - K. Emery Jr., Notre Dame - London 1992, pp. 135-163, e ID., The Seven Deadly Sins: Some Problems of Research, in «Speculum», 43.1 (1968), pp. 1-22. Richard Allen Shoaf ha citato, per spiegare un passaggio dell’Inferno (Inf. XXX) che vede protagonista mastro Adamo, un passo dalla Summa di Guglielmo Peraldo tratto dall’edizione di Lyon del 1668: cf. GUGLIELMO PERALDO, Summae virtutum ac vitiorum, II, IV, pars 1, c. 4, ed. Lyon 1668, p. 59, cit. in R. A. SHOAF, Dante and Peraldus: the aqua falsa of Maestro Adamo (a Note on Inferno 30. 64-69), in «Quaderni d’Italianistica», 10.1-2 (1989), [pp. 311-313], p. 312: «Qui vult sitim cupiditatis suae divitiis sedare, similis est illi qui vult sitim corporalem extinguere falsam aquam bibendo. Aqua falsa ex eo quod aqua nata est sitim extinguere, et eo quod falsa nata est eam provocare: sic divitiae in quantum aliquem defectum supplent, sitim sedant, in quantum vero multos defectus secum afferunt, sitim provocant».
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insieme di distinzioni e sottodistinzioni, secondo un ordine geometrico rinvenibile nella Summa. Ricorrendo all’auctoritas di Agostino, Peraldo definisce il vizio come il prodotto di un amore disordinato, «amor inordinatus», frutto di una causa sia oggettiva, in quanto amore che sceglie il male come obiectum, sia psicologica, in quanto lo stesso bene può essere desiderato in modo eccessivo («nimius») o difettivo («nimis parvus»)95. Sulla stessa linea, come notato anche da Franco Mancini, si situa la definizione di Purgatorio XVII riguardo il concetto di vizio: «Né creator né creatura mai» cominciò el, «figliuol, fu sanza amore, o naturale o d’animo; e tu ‘l sai. Lo naturale è sempre sanza errore, ma l’altro puote errar per malo obietto o per troppo o per poco vigore»96.
La definizione del vizio da parte di Peraldo come amore inordinatus potrebbe essere alla base della classificazione dei peccati della lingua, cui l’uomo può essere soggetto e ai quali, in modo originale, l’autore dedica un’attenzione particolareggiata nell’ultima parte del trattato, relegando il tema in una sezione autonoma intitolata De peccato linguae. La sezione si divide in tre parti, la seconda è dedicata alla enumerazione di 24 «peccata linguae»: blasphemia, murmur, peccati defensio, periurium, mendacium, detractio, adulatio, maledictio, convitium, contentio, bonorum derisio, pravum consilium, peccatum seminantium discordiae, bilinguium, rumor, iactantia, secretorum revelatio, indiscreta comminatio, indiscreta promissio, verbum otiosum, multiloquium, turpiloquium, scurrilitas, indiscreta taciturnitas. Dall’elenco si può evincere la centralità occupata dal pravum consilium, il «malo consiglio» – secondo il volgarizzamento di Cavalca –, centralità
95 Cf. GUGLIELMO PERALDO, Summae virtutum ac vitiorum, II, VI, pars 1, ed. Venezia 1571, p. 308: «Sicut virtus secundum Augustinum amor est ordinatus sic vitium est amor inordinatus: amor vero duobus de causis potest esse inordinatus: est enim inordinatus si sit amor mali: licet etiam amor boni sit, est tamen inordinatus si sit nimius vel nimis parvus»; questo passo è citato anche in MANCINI, Un’auctoritas di Dante cit. (alla nota 94), p. 102 (il riferimento agostiniano non è facilmente identificabile). Mi avvarrò, nelle citazioni seguenti, dell’edizione veneziana della Summa. 96 Purg. XVII 91-96.
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che dipende dalla particolare gravità di un peccato («non est parvum peccatum»), che induce all’impoverimento di quella implicita fiducia reciproca su cui si basa una comunità di uomini, l’Ecclesia. Questo peccato è definito dall’autore sulla base del soggetto dell’azione peccaminosa, il «pravus consiliarius», un traditore («proditor») che inganna («decipit») colui che a esso si affida («in eo confidit»). La figura è presente – e a questa rinvia lo stesso Peraldo – in un passaggio biblico preciso, ossia Prv 26, 18-19, dove l’uomo che inganna il prossimo («vir qui fraudolenter nocet amico suo»), è paragonato a un delinquente («noxius») che scaglia tizzoni e frecce di morte97. La perversità dell’uomo fraudolento consiste nella malizia con la quale distorce la verità, nel presentare sotto una modalità argomentativa apparentemente lecita un’intenzione fallace. Con l’azione del pravus consiliarius non viene messa in gioco l’oggettività della cosa in quanto tale, ma la ‘relazione’ che s’instaura tra la stessa verità e l’intenzione di colui che froda. Detto in altri termini, riguarda l’apparenza98, il modo di presentare il vero agli altri. Questa relazione tra intenzione, cosa proferita e destinatario del messaggio, che mette in evidenza come la parola non si riduca soltanto a un rapporto verticale con il suo significato, può essere compresa sulla base della definizione che Agostino dà della menzogna: un falso significato delle parole, con l’intenzione d’ingannare («falsa significatio cum voluntate fallendi»)99. Definizione che è sviluppata in modo
97 Cf. GUGLIELMO PERALDO, Summae virtutum ac vitiorum, II, IX, pars 2, c. 12, ed. Venezia 1571, p. 579: «Pravus consiliarus proditor est. Decipit enim eum qui in eo confidit; scilicet eum qui ab eo consilium petit; quod non est parvum peccatum. Unde Prov. 26, [18-19] ‘Sicut noxius est qui mittit lanceas et sagittas in mortem: ita vir qui fraudolenter nocet amico suo’». Cf. DOMENICO CAVALCA, Il pungilingua, ed. Bottari cit. (alla nota 36), XIX, p. 182: «Ma vie più sommamente e più pericoloso e diabolico è il peccato di quelli, i quali saputamente ed a malizia danno mali consigli, ed a male inducono e confortano. E questo peccato è grave più e più, secondo la qualità della perversa intenzione di chi consiglia, o secondo il male che ne seguita, o può seguitare». 98 Cf. DOMENICO CAVALCA, ibidem: «Sotto spezie di bene e di cosa lecita, a male induce e consiglia». 99 Cf. AGOSTINO DI IPPONA, Contra mendacium, XII, 26, PL 40, 537, ed. J. Zycha, Wien 1900 (CSEL, 41), [pp. 469-528], p. 507, 10. Sul concetto di menzogna si veda CASAGRANDE - VECCHIO, I peccati della lingua cit., in partic. cap. 3 (Mendacium, periurium, falsum testimonium); I. ROSIER-CATACH, Les développements médiévaux de la théorie augustinienne du mensonge, in «Hermès», 15 (1995), pp. 91-103; EAD., La parole efficace cit. (Introd., alla nota 36), in partic. pp. 296-323.
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preciso nell’Enchiridion, dov’è scritto che mente colui che dice cosa diversa da ciò che ha nell’anima, con la volontà d’ingannare («omnis autem qui mentitur, contra id quod animo sentit loquitur, voluntate fallendi»)100. Dall’importanza che assume l’intenzione si deduce come il linguaggio rappresenti qualcosa che si dirige verso un interlocutore, a cui destinare un ipotetico messaggio. Ciò significa che non esiste soltanto una relazione tra il discorso e la cosa, in base alla quale si può stabilire un criterio di falsità, di adeguazione o meno tra questi due elementi, ma esiste una seconda relazione, tra ciò che si ha nel cuore (la «bocca del cuore», secondo la terminologia agostiniana) e quanto si rivela nel discorso (la «bocca del corpo»). La menzogna, per Agostino, è un peccato della lingua, per la semplice ragione che il mentire contraddice il fine naturale per il quale la parola è stata istituita, quello di uno scambio vicendevole dei pensieri. Come mette in evidenza anche Tommaso, esiste una duplice verità inerente al segno, o al discorso, una verità logica, in funzione della quale qualcosa è detta vera, l’altra morale, in funzione della quale qualcuno è verace101: la menzogna, come il pravum consilium, rientrano decisamente in quest’ultima definizione, dove il ruolo più importante è assunto dal soggetto che esprime («enuntiat») un pensiero. L’azione del fraudolento non può essere giudicata secondo un criterio veritativo, secondo il tema del suo discorso, che può essere per esempio nobile, come quello di esaltare il valore della conoscenza e seguire la virtù, ma secondo un criterio pragmatico-retorico che tenga conto del carattere morale dell’oratore e dell’effetto del discorso sull’ascoltatore102. La sua azione è prevalentemente morale e politica, se con politica s’intende
100 Cf. AGOSTINO DI IPPONA, Enchiridion, VII, 22, PL 40, 231, ed. E. Evans, Turnhout 1969 (CCSL, 46), [pp. 49-114], p. 62, 72-73. 101 Cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, IIa IIae, q. 109, art. 1., resp., ed. Leonina cit. (cap. 1, alla nota 4), p. 416: «Veritas dupliciter accipi potest. Uno modo, secundum quod veritate aliquid dicitur verum. Et sic veritas non est virtus, sed obiectum vel finis virtutis. Sic enim accepta veritas non est habitus, quod est genus virtutis, sed aequalitas quaedam intellectus vel signi ad rem intellectam et significatam, vel etiam rei ad suam regulam, ut in primo habitum est. Alio modo potest dici veritas qua aliquis verum dicit: secundum quod per eam aliquis dicitur verax. Et talis veritas, sive veracitas, necesse est quod sit virtus: quia hoc ipsum quod est dicere verum est bonus actus; virtus autem est quae bonum facit habentem, et opus eius bonum reddit». 102 Cf. ARISTOTELE, Rhetorica, I, 2, 1356a.
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la dimensione orizzontale di un ‘indirizzarsi a’, e in termini morali e politici deve essere interpretato il potere della parola che il pravus consiliarius utilizza. L’atteggiamento dei fraudolenti è inquadrato da Peraldo proprio in questi termini. Non esiste peccato più grave, scrive il domenicano, in quanto il consiglio diabolico di costoro distrugge l’unità della Ecclesia, impedendo all’uomo il raggiungimento della salvezza: Pravi consiliarii quasi omnia malum faciunt: sic tamen ut nihil mali fecisse videantur. Ipsi dant palmas in faciem Christi et in membris eius (...). Quasi Dominus ignorare possit astutia eorum (...). Nullum peccatum est quod magis impediat homines a salute, quam istud. Peccatum istud multum nocivum est ecclesiae Dei. Unus enim malus consiliarius destruit quandoque totam unam patriam. Illi qui astuti sunt ad dandum consilia nociva aliis, in consulendo sibi ipsis iusto Dei consilio fatui inveniuntur103.
Questo senso pragmatico, morale e politico attribuito al pravum consilium, e in senso generale al potere della parola, è specificato da Peraldo dal peccato immediatamente successivo, il peccatum seminantium discordiae, che è nocivo non soltanto all’unità della ‘Chiesa’, ma alla stessa continuità del corpo umano: dalla parola di colui che semina discordia («qui discordiam seminat») scaturisce il frutto della divisione104. Nella successione ‘pravi consiglieri’ / ‘seminatori di discordia’ stabilita dalla Summa si riflette puntualmente l’ordine dei peccati nelle stesse Malebolge. Subito dopo gli episodi che narrano le gesta dei fraudolenti Ulisse e Guido, Dante porta sulla scena i «seminator di scandalo e di scisma» («seminator di scandalo e di scisma / fuor vivi, e però son fessi così»)105, tra i quali spicca la figura dell’apostata Maometto, puntualmente ritratto come un essere mostruoso, scisso, «rotto dal mento infin dove si trulla»106.
103 PERALDO, Summae virtutum ac vitiorum, II, IX, pars 2, c. 13, ed. Venezia 1571, pp. 579-580. 104 Cf. ibid., II, IX, pars 2, c. 13, p. 581: «Nihil magis nocivum est corpori humano, quam divisio continuitatis, nec magis nocivum est Ecclesiae Dei, quam divisio unitatis. Ex uno verbo quod dicit ille qui discordiam seminat, quandoque nascitur discordia tanta, ex qua destruitur patria una: unde magnae malitiae est seminare semen tale, cum ex uno gradu illius, talis messis surgat». 105 Inf. XXVIII 35-36. 106 Inf. XXVIII 24. Sulla successione pravum consilium / peccatum seminantium discordiae in Dante, per la prima volta PORCELLI, Peccatum linguae cit. (alla nota 78).
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Il canto di Ulisse, l’Epistola di Giacomo e il De peccato linguae
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Ancora una volta emerge alla luce del contrappasso un dato: la distorsione, il disordine, l’arretramento dallo stato di umanità, sono la conseguenza naturale di un uso distorto della lingua. Al seguito di Maometto (secondo una leggenda che ricorre nel Medioevo, membro della Chiesa cattolica, e in quanto tale fautore di uno scisma dall’interno della stessa comunità cristiana) figurano altre anime, in vita utilizzatrici perverse della parola. Il primo di questa serie è Curione, generale romano, famoso per aver troncato gl’indugi di Cesare esortandolo a superare il Rubicone, azione, com’è noto, alla base dello scoppio della guerra civile, quindi di una scissione dell’unità politica che fino a quel momento risultava intatta. La trasgressione operata dal tribuno della plebe si presenta come un vero e proprio peccatum linguae, se si presta attenzione alle parole con le quali Dante ne descrive la punizione: il dannato, per la razionalità che ancora una volta si manifesta nella giustizia divina, è privato del dono di parlare («non favella») e la lingua, con cui il consiglio perverso si è realizzato, è puntualmente «tagliata»: «Questi è desso, e non favella. Questi, scacciato, il dubitar sommerse in Cesare, affermando che ‘l fornito sempre con danno l’attender sofferse». Oh quanto mi pareva sbigottito con la lingua tagliata ne la strozza Curïo, ch’a dir fu così ardito107!
Anche la Corti ha fatto riferimento alla tradizione del peccatum linguae per spiegare il rapporto tra menzogna, fraudolenza e parola nella strutturazione del canto di Ulisse. Cf. M. CORTI, Le metafore della navigazione, del volo e della lingua di fuoco nell’episodio di Ulisse (Inferno, XXVI), in Miscellanea di studi in onore di Aurelio Roncaglia, a c. di R. Antonelli, 4 voll., Modena 1989, II, [pp. 479-491], pp. 489-490: «Vagheggiatori di postille al tema, i commentatori vi hanno costruito la teoria dei ‘peccati della lingua’, due dei quali, fondendosi in uno, riguardano direttamente Ulisse a livello di fabula e di allegoria: il consiglio fraudolento (una delle forme del mendacium) e la fraus dei filosofi che, con la loro nefasta garrulitas separano la coscienza scientifica da quella religiosa; in entrambi i casi il peccatore viene definito homo linguosus e la sua lingua, lingua ignea. (...) Così l’uomo falsidicus, che è un tipo del linguosus, può agire su cose materiali (i consigli fraudolenti di Ulisse nella fabula) o su spirituali (i filosofi trasgressivi); nel secondo caso la fraus può servirsi della mala loquacitas». 107 Inf. XXVIII 96-102. L’invito di Curione a Cesare è in un certo senso un consiglio politico, e spiega il passaggio insensibile dai gironi in cui sono puniti i consiglieri
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In rapida successione incontriamo poi Mosca dei Lamberti, le cui parole sono emblematicamente definite il «mal seme», all’origine delle lotte civili tra i fiorentini; e Bertram dal Bornio, uno dei maggiori poeti della letteratura provenzale, suddito di Enrico II d’Inghilterra e che si narrava avesse spinto il figlio di quest’ultimo, Enrico III, a ribellarsi contro il padre: i suoi consigli vengono definiti cattivi («ma’conforti»), i suoi discorsi «malvagi punzelli», pungoli malvagi108. Per completare il quadro dell’interpretazione del canto XXVI e confermare, allo stesso tempo, l’idea trapelata di un’azione o di un atto che la lingua e il discorso esercitano sull’ascoltatore, è opportuno portare l’attenzione sul termine «seme», utilizzato da Dante per definire il potere della parola («seme d’operazione»); per descrivere le infamie che il conte Ugolino indirizza alla sua vittima («se le mie parole esser dien seme [...]»); per qualificare i discorsi scismatici di Mosca dei Lamberti («mal seme»); per sottolineare, infine, la forza dell’opera perturbatrice dei consigli e delle parole di alcune anime dannate («seminator di scandalo [...]»). Il termine trova la sua radice morale più lontana nel Vecchio Testamento, in particolare nel Libro dei Proverbi, dove, per esempio nel sesto capitolo, la perversione dell’uomo iniquo si riflette in una distorsione del suo corpo, del comportamento, dell’intenzione, delle parole che questi proferisce e degli effetti che queste ultime producono: l’uomo iniquo cova propositi malvagi nel suo cuore, suscitando in continuazione liti («pravo corde machinatur malum et in omni tempore iurgia seminat»); il perverso agisce in modo abominevole, «seminat inter fratres discordias»109. Il termine «seme» rimanda inoltre anche a un passo del dodicesimo capitolo dello stesso Libro dei Proverbi, che s’inserisce nel contesto più generale
di frode ai seminatori di discordia. Su questo nesso, cf. anche TRUSCOTT, Ulysses cit. (alla nota 79), che insiste sul carattere politico dell’azione fraudolenta commessa da Guido e Ulisse. 108 Cf. Inf. XXVIII 106-108, 134-142. 109 Cf. Prv 6, 12-19: «Homo apostata vir inutilis graditur ore perverso, annuit oculis terit pede digito loquitur, pravo corde machinatur malum et in omni tempore iurgia seminat, huic extemplo veniet perditio sua et subito conteretur nec habebit ultra medicinam, sex sunt quae odit, Dominus et septimum detestatur anima eius, oculos sublimes linguam mendacem manus effundentes innoxium sanguinem, cor machinans cogitationes pessimas pedes veloces ad currendum in malum, proferentem mendacia testem fallacem et eum qui seminat inter fratres discordias».
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dell’uso della lingua, e che descrive l’esistenza di due modelli linguistici e comportamentali antitetici, uno positivo e l’altro negativo. Da una parte, esiste una parola saggia, giusta, discreta, capace di sanare («qui sanat»), ferma, tipica del sapiens, uomo in grado di coltivare in modo positivo le sue tensioni e riappacificare gli esseri (potrebbe essere il caso di Virgilio, la cui lingua – come vedremo nelle conclusioni di questo studio – è paragonata a una medicina, e le cui parole sono semi / faville); dall’altra, esistono parole che indicano perversione, risultato naturale di chi non è in grado di controllare le proprie passioni («cogitationes»). I termini «statim» e «repentinus», riferiti rispettivamente all’uomo «fatuus» che prorompe in un linguaggio iroso, e al bugiardo, incapace di star zitto, sottolineano in modo eloquente la potenza e l’incontrollabilità della lingua. Ognuno si sazia del frutto della sua bocca, «de fructu oris sui unusquisque replebitur bonis»110. La parola ha una duplice caratteristica: da una parte racchiude in modo intimo l’anima di colui che la utilizza, dall’altra è un atto che perfeziona nella realtà («operazione», secondo Dante, vocabolo che volgarizza il termine perficere) l’intenzione del locutore, nel momento in cui questi destina a qualcuno il suo messaggio. Lo stesso autore della Summa, Peraldo, insiste in particolare sulla potestas nocendi della lingua, su quanto, come e in quali modi la parola può nuocere allo stesso locutore («ipsi loquenti»), all’interlocutore cui essa si rivolge («ei cui loquitur»), alla cosa cui si riferisce («de quo loquitur»)111. Per questa sua potestas deve essere sottoposta a una stretta sorveglianza, e deve essere sottoposta, come attestato dall’autorità dei Salmi, a un attento esame da parte di chi ne fa uso:
110 Cf. Prv 12, 13-20: «Propter peccata labiorum ruina proximat malo effugiet autem iustus de angustia, de fructu oris sui unusquisque replebitur bonis et iuxta opera manuum suarum retribuetur ei, via stulti recta in oculis eius qui autem sapiens est audit consilia, fatuus statim indicat iram suam qui autem dissimulat iniuriam callidus est, qui quod novit loquitur index iustitiae est qui autem mentitur testis est fraudulentus, est qui promittit et quasi gladio pungitur conscientiae lingua autem sapientium sanitas est, labium veritatis firmum erit in perpetuum qui autem testis est repentinus concinnat linguam mendacii, dolus in corde cogitantium mala qui autem ineunt pacis consilia sequitur eos gaudium». 111 Cf. PERALDO, Summae virtutum ac vitiorum, II, IX, pars 1, ed. Venezia 1571, p. 533: «Potestas nocendi quae est in lingua, apparebit si ostendatur quis noceat, et quantum noceat, quantum velociter, et quot modis. Nocet autem lingua et ipsi loquenti, et ei cui loquitur, et ei de quo loquitur».
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La dimensione morale del linguaggio: l’exemplum di Ulisse
deve «transire per districtum iudicium», in modo tale da essere spogliata dei suoi elementi negativi112. Bisogna procedere precisamente a una custodia della lingua, utilizzando tutte quelle accortezze che ne permettono un uso virtuoso, accortezze militari, per esempio, simili alle fortificazioni («ostium portae»), che si è soliti costruire attorno agli accampamenti113; usare le accortezze del contadino, in grado di leggere il corso naturale delle cose, per raccogliere in abbondanza i frutti preziosi della bocca, sorta di campo fertile114. Considerata la sua potenza, la lingua deve essere coartata, frenata, governata, coltivata, perché la sua azione possa essere virtuosa per il locutore, per gli altri e per la stessa nobiltà del tema che essa veicola. Compiti che molte delle anime collocate nell’Inferno non si sono preoccupate di ottemperare in vita, ragione per cui i frutti da loro raccolti sono risultati controproducenti per la loro salvezza e per quella degli altri uomini.
112
Cf. ibid., II, IX, pars 1, p. 537. Cf. ibid., II, IX, pars 1, p. 532: «Horum qui os suum non custodit, est quasi civitas absque muro. Unde Prov. 25: ‘Sicut urbs patens et absque murorum ambitu, ita vir qui non potest in loquendo cohibere spiritum suum’. Est etiam sicut castrum vel domus absque porta. Unde legitur in Vitis patrum quod quidam senex cum quibus fratribus ibat ad beatum Antonium, et audivit multa ab illis in via de sacra scriptura et de operibus manuum suarum, sed ipse per omnia tacebat. Et cum venissent ad Antonium, dicit Antonius seni: ‘Bonos fratres habuisti comites itineris tui’. At ille: ‘Boni sunt quidem, sed habitatio eorum non habet ianuam’. Qui vult intrat in stabulum eorum, et solvit asinum. Qui vult custodire castrum aliquid, oportet quod diligentiam habeat circa ostium portae. Unde ibi turres solent fieri. Etiam in claustris ad portam custodes consueverunt poni. Sic qui vult custodire animam suam oportet quod diligentiam adhibeat circa custodiam oris. Homo etiam os non custodiens est vas absque operculo, et ideo immundus est, iuxta illud Num.19: ‘Vas non habens operculum neque ligaturam desuper immundum erit (...)’. Est etiam velut equus absque freno, et navis sine gubernaculo. Unde Iac. 3: ‘Si equis fraena in ora mittimus, ad consentiendum nobis omne corpus eorum circumferimus. Et naves, quamvis magnae sint et a ventis validis minentur, circumferuntur tamen a modico gubernaculo, ubi impetus dirigentis voluerit’». 114 Per le metafore agricole relative al rapporto bocca-labbra-lingua-terra, cf. CASAGRANDE - VECCHIO, Le metafore cit. (alla nota 58), in partic. pp. 642-645. 113
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Lingue di fuoco
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3. Lingue di fuoco Quella del fuoco è senza dubbio una delle immagini più efficaci che ricorrono in epoca medievale per descrivere la pericolosità insita nella lingua (e in senso lato, nel linguaggio e nel parlare), pericolosità che si fa drammatica quando l’immagine richiama la parola del Cristo. È scritto, infatti, nel Vangelo: «Sono venuto a gettare un fuoco sulla terra» (Lc 12, 49). Le parole che Gesù utilizza per la salvezza degli uomini a prima vista racchiudono qualcosa di distruttivo, violento, paradossale. Origene, per esempio, vede in questa parola qualcosa di minaccioso e inquietante: dal fuoco certamente deriva l’amore, ma l’amore ha la sua collera, la sua gelosia, la sua violenza e le sue esigenze115. È possibile ravvisare nel simbolo del fuoco (e di rimando in quello della lingua) una sorta di ambiguità, che dipende dall’esperienza che noi stessi abbiamo dell’elemento igneo. Il calore che emana da questo è allo stesso tempo positivo e negativo: c’è un calore che ammorbidisce e preserva dal gelo e dall’indurimento; c’è anche un calore che distrugge, consuma, divora le cose utili, le cose inutili e dannose. In un discorso sul sacramento del battesimo, Gregorio di Nazianzo scioglie in modo manifesto questa ambivalenza che appartiene al simbolo, parlando nei suoi Discorsi di due luci le cui nature sono il prodotto di due differenti fuochi: quello che Luca racconta nel suo Vangelo, legato all’azione salvifica di Cristo, e quello dei vizi e delle passioni, fuoco crudele che si oppone alla virtù purificatrice dei «carboni ardenti» che Dio ha gettato sulla terra. Dal primo si genera la luce che illumina i nostri passi verso il Signore, dal secondo, invece, una «luce cieca», tipica del sole quando è allo zenit116. Anche Gregorio Magno vede nel concetto biblico due significati divergenti. Preso in senso figurato, il fuoco può indicare tanto lo Spirito Santo, quanto la malizia che appartiene all’anima. Il suo movimento è allo stesso tempo opposto: se il fuoco dell’amore fa salire l’anima, quello della malizia la precipita verso il basso, incurva l’anima facendola rovina-
115 Su questo e altri aspetti relativi al fuoco, si rinvia all’affascinante studio di Jean-Louis Chrétien, in particolare in relazione alle analisi del pensiero di Origene, commentatore del verso evangelico in questione (Lc 12, 49): J.-L. CHRÉTIEN, L’intelligence du feu. Réponses humaines à une parole de Jésus, Paris 2003. 116 Cf. ibid., p. 88.
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La dimensione morale del linguaggio: l’exemplum di Ulisse
re nel profondo117. La descrizione che il teologo elabora nelle sue Omelie è l’unico criterio (di tipo non razionale) per comprendere quella che si presenta agli occhi della cultura medievale come una competizione tra parola dispensatrice di frutti e parola che brucia, nuoce e arde. Solo il patto con il Cristo e lo Spirito Santo, che invadono l’anima dell’agente linguistico, discrimina tra una lingua infuocata che vivifica e una lingua infuocata che distrugge. Questo discrimine è evidente se si fa riferimento all’episodio della Pentecoste: le dispertitae linguae di fuoco che scendono sulle teste degli apostoli sono la moltiplicazione miracolosa dello Spirito Santo sui discepoli di Cristo, i quali grazie a questa discesa riescono a parlare in diverse lingue. Il racconto della Pentecoste narrato negli Atti degli Apostoli diventa nel Medioevo il simbolo che legittima il ruolo della predicazione nella società degli uomini, simbolo che si deposita nell’immaginario con particolare forza a partire dai commenti di Gregorio di Nissa e Giovanni Crisostomo. Le lingue di fuoco hanno anche un valore positivo, sono quelle che illuminano chi si trova nelle tenebre dell’errore, bruciano le spine del peccato, purgano l’anima e la rendono capace di accogliere il seme della parola divina. Gregorio Magno è ancora più esplicito: le variae linguae parlate mostrano all’esterno il cambiamento operato dallo Spirito, il quale imprime negli apostoli la forza che a sua volta si manifesta nelle parole che questi proferiscono, parole che bruciano il cuore degli ascoltatori, riproducendo ogni volta il miracolo della Pentecoste: fiamme che generano altre fiamme118. È a partire da questo nesso tra la lingua e il fuoco che emerge la drammaticità insita nell’uso del linguaggio. Il fuoco è doppio,
117
Cf. ibid., p. 90. Il tema della Pentecoste sarà trattato infra, nel quarto capitolo. Per adesso ci si può limitare a segnalare i seguenti studi della Vecchio, uno relativo ai commentari sugli Atti degli Apostoli riguardo, appunto, la Pentecoste; l’altro, al legame tra le artes praedicandi e il simbolo delle lingue di fuoco: S. VECCHIO, Dispertitae linguae: le récit de la Pentecôte entre exégèse et prédication, in Zwischen Babel und Pfingsten: Sprachdifferenzen und Gesprächsverständigung in der Vormoderne (8.-16. Jahrhundert), Akten der 3. deutsch-französischen Tagung des Arbeitskreises ‘Gesellschaft und individuelle in der Vormoderne’ - Entre Babel et Pentecôte: différences linguistiques et communication orale avant la modernité (VIIIe-XVIe), Actes du 3ème colloque franco-allemand du groupe de recherche ‘Société et communication individuelle avant la modernité’, Höhnscheid (Kassel) 16.11-19.11.2006, a c. di P. Von Moss, Zürich - Berlin 2008, pp. 237-252; EAD., 118
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ha una duplice natura; basta poco perché veicoli una scintilla che, invece di riscaldare o illuminare, bruci e getti nelle tenebre. La sfida più potente che viene lanciata al fuoco non proviene dal suo contrario, ma da un altro fuoco che con il primo è accomunato dalla stessa natura. A Ulisse, rappresentato simbolicamente come favilla parlante, lingua di fuoco la cui natura negativa genera parole di distruzione, Dante contrappone altre lingue, altri fuochi, di diversa fattura, capaci di produrre parole (faville) che illuminano il percorso di chi si è perduto nelle tenebre. È il caso di Virgilio, la cui lingua – scrive il Poeta – assomiglia alla lancia di Achille, che la tradizione vuole capace di ferire e medicare allo stesso tempo: «Una medesma lingua pria mi morse, / sì che mi tinse l’una e l’altra guancia, / e poi la medicina mi riporse; / così od’io che solea far la lancia / d’Achille e del suo padre esser cagione / prima di trista e poi di buona mancia»119. Da questa lingua nasce un’eloquenza positiva, un’orazione sapiente, che in modo puntuale si contrappone alla falsa retorica dell’eroe omerico, o al parlare ornato di Giasone, il cui scopo è stato l’inganno e la distruzione del suo prossimo120. L’opera virgiliana, l’Eneide, è una fiamma divina le cui scintille sono «semi» (la metafora agricola si associa in questo caso a quella ignea) che hanno illuminato generazioni di poeti: «Al mio ardor fuor seme le faville, che mi scaldar, de la divina fiamma onde sono allumati più di mille»121.
Tuttavia, Virgilio è solo una piccola fiamma di eloquenza, se paragonata ai tanti fuochi che parlano in Paradiso. Adamo, Tommaso, Bonaventura, Bernardo – per citare solo alcuni nomi – sono i rappresentanti della vera
Les langues de feu. Pentecôte et rhétorique sacrée dans les sermons des XIIe et XIIIe siècle, in La parole du prédicateur cit. (cap. 1, alla nota 78), pp. 255-269. 119 Inf. XXXI 1-6. 120 Cf. S. BOTTERILL, Dante’s Poetics of the Sacred Word, in «Philosophy and Literature», 20.1 (1996), [pp. 154-162], pp. 155: «Jason’s ‘parole ornate’ are morally quite from Virgil’s: instead of saving they betray, instead of embodying the truth they act as a vehicle of deceit. Their ornamental quality is specious, employed to conceal the speaker’s malicious and self-seeking intent; eloquence here has become the means of bringing about another’s harm». 121 Purg. XXI 94-96.
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La dimensione morale del linguaggio: l’exemplum di Ulisse
retorica, fuochi da cui sprigionano scintille che illuminano e riscaldano; sono strumenti, lingue, grazie ai quali lo Spirito Santo scrive sui cuori i precetti di Dio; ispirate, le loro parole sono in grado non di condurre gli uomini alla perdizione, ma alla salvezza eterna. Filippo il Cancelliere in una bella immagine parla di due ‘cancellerie’ rivali che da sempre si contrappongono. Da una parte, vi è la ‘cancelleria’ del diavolo, con i suoi scribi, i suoi calami, i suoi inchiostri e le sue pergamene. Qui tra perfidi avvocati, adulatori, «lenones», esistono anche i «pravi consiliarii», i cattivi consiglieri. Dall’altra parte, vi è la ‘cancelleria’ di Dio, che tra i suoi membri annovera «doctores», «praedicatores» e «boni consiliarii», le cui lingue sono eloquenti e ispirate122. I beati, i sapienti, i dottori e i predicatori che abitano nelle sfere celesti della Divina Commedia, appartengono senza dubbio a quest’ultimo mondo; sono essi stessi modelli di un linguaggio e di discorsi costruiti all’insegna del bene comune. Nel cielo di Giove, per esempio, le anime formano un’aquila che parla; simultaneamente tutte formano le stesse parole, realizzando in questo modo una perfetta comunione di volontà, chiaramente antitetica ai discorsi di disgregazione visti nel regno infernale: «Io vidi e anche udi’ parlar lo rostro, / e sonar ne la voce e ‘io’ e ‘mio’, / quand’era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’»123. Nel Paradiso, i segni linguistici, normalmente utilizzati per esprimere il senso di individualità, sono investiti di una nuova
122 Cf. FILIPPO IL CANCELLIERE, Sermones in Psalmos, ms. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 9877, f. 53rv, citato in CASAGRANDE, Le calame cit. (cap. 1, alla nota 78), p. 243, nota 19: «Dominus habet scribas suos et calamos et pergamenum et incaustrum. Scribe Domini sunt predicatores et doctores, boni consiliarii, calamus lingua eorum, incaustrum gratia, membrana sive pergamenum ipsum cor hominis (...). Diabolus etiam habet suos scribas et calamos et pergamenum et incaustrum. Scribe mali omnes advocati, adulatores, deceptores, mali consiliarii, omnes lenones et consiliatrices stupri et lenocinii. Calamus lingua talium, incaustrum teterrimum peccatum, pergamenum cor. Isti linguis sicut calamis scribunt litteras tetras diaboli in corde audentium quasi in pergameno. Calamum enim intingunt in incaustro diaboli. Incaustrum diaboli est infectio et negritudo peccati et illunies inferni sive limositas cuius negritudo et infectio signatur per picem». È suggestivo constatare come questa immagine richiami i regni ultramondani (ancora una volta, una visio), descritti da Bonvesin de la Riva nel suo Libro de le tre scritture, nel quale i regni dell’inferno e del paradiso sono distinti con l’immagine della scrittura-inchiostro: l’inferno è rappresentato dalla scriptura nigra, il paradiso, dalla scriptura dorada. 123 Par. XIX 10-12.
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funzione. Individualità e molteplicità si confondono, creano qualcosa di armonioso in nome del bene comune. All’immagine di Filippo si può aggiungere un’ulteriore rappresentazione, forse più efficace, rispetto alla precedente, per comprendere i meccanismi del poema dantesco, e il modo in cui lo stesso Dante maneggia il termine «lingua». Giacomo da Varagine, in un sermone consacrato al giorno della Pentecoste, parla in modo eloquente di lingue infiammate, dalle quali si possono riconoscere tre tipi di uomo, l’infernale, il terrestre e il celeste. Dio, infatti, ha forgiato tre province, dove abitano gruppi di cittadini ognuno con il suo linguaggio. Il linguaggio della provincia celeste consiste nel lodare Dio; quello della provincia terrestre nel trattare di cose terrestri; infine, il linguaggio della provincia infernale, che consiste nel maledire e bestemmiare. La lingua è sempre considerata un fuoco, ma dal patto che l’uomo instaura con lo Spirito Santo può essere benedetta, se il patto stesso è suggellato, maledetta, se la grazia dello Spirito non è concessa124. Al margine di queste considerazioni, si può concludere dicendo che lo stesso Dante immagina la sua missione di poeta come quella di una lingua infuocata benedetta e ispirata, capace di illuminare con le sue scintille il percorso di chi vive nelle tenebre. Nella Vita nuova, lo scopo annunciato dall’Autore è far condividere attraverso una nuova forma di poesia, quella della lode, il miracolo divino di Beatrice. Il libello, alludendo al verso dei
124 Cf. GIACOMO DA VARAGINE, De die Penthecostes: sermo V, in Sermones, ed. Venezia 1589, p. 230: «Deus enim tres provincias fecit, scilicet provinciam celestem, provinciam terrestrem et provinciam infernalem. Et in qualibet provincia posuit proprium idioma. Est enim idioma provinciae celestis Deum laudare et benedicere. Beati qui habitant in domo tua Domine, in secula saeculorum laudabunt te. Et idioma provinciae terrestris est de terrenis tractare. Qui de terra est, de terra loquitur. Sed linguagium provinciae infernalis est maledicere et blasphemare. Cum esurierit irascetur, et maledicet regi suo et Deo suo. Cognoscitur autem quisque de qua provincia sit per idioma et ex idiomate suo seu loquela. Unum dictum fuit Petri: ‘Galileus es. Nam et loquela tua manifestum te facit’ [Mt 26, 73]. Cum igitur quis loquitur verba laudis, et aedificationis proximi, signum est qui est de provincia coelesti (...). Quando autem quis loquitur verba terrena, signum est qui est de provincia mundi seu terrestri. Ipsi de mundo sunt, et de mundo loquuntur, et mundus eos audit. Quando vero aliquis loquitur verba mendacij, et blasphemiae, tunc signum est qui est de professione et provincia ipsius miserabilis inferni: quia istud proprium idioma demonis infernalis».
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La dimensione morale del linguaggio: l’exemplum di Ulisse
Salmi (44, 2) che fa riferimento al processo per cui la lingua dell’ispirato è mossa dalla grazia dello Spirito125, descrive come dal contatto con la donna angelicata il cuore del Poeta ‘erutti’, e «la lingua (...) come per se stessa mossa» si esprima, parli126. In questo modo, la predicazione agli uomini della bellezza di Beatrice, attraverso le canzoni, è suggellata dal patto con lo Spirito (o Amore)127. In modo audace, l’Alighieri nel Convivio si definisce «nuovo sole», una «nuova luce». Non tutti gli uomini, è scritto nel trattato, hanno la possibilità, per ragioni di tipo fisico, sociale e politico, di accedere alla mensa della scienza. Compito del poeta è elargire per mezzo di un linguaggio a tutti accessibile (il volgare) il pane della filosofia e della teologia. Solo in questo modo, coloro che vivono nella «oscuritade» saranno illuminati128. Se ci si sposta al De vulgari, anche in questo caso Dante si affida una missione, e la missione ancora una volta è legittimata da un’allusione di sapore religioso a una luce concessa dall’alto, una grazia, in senso lato un fuoco, che discende e che per mezzo del poeta illumina le intelligenze umane. L’autore fiorentino si definisce il miglior rappresentante di una lingua ancora da venire, un volgare eloquente ed efficace, definito puntualmente illustre, un volgare che illuminato dalla giustizia e dalla carità illumina a sua volta129. Con coerenza, a partire dal libello giovanile, Dante si sente e vede un fuoco di eloquenza. La sua è la vera lingua di fuoco che si contrappone a quella di Ulisse, delle anime dannate, in quanto investita dalla «somma luce» che su tutto risplende in modo chiaro; una lingua che fa guizzare una «favilla», il cui scopo è l’illuminazione intellettuale e sentimentale di tutti gli uomini. «O somma luce (...)», così prega Dante, e in queste parole è racchiusa la missione ultima della Commedia, «fa la lingua mia tanto possente, / ch’una favilla sol de la tua gloria / possa lasciare a la futura gente»130.
125 Cf. Sal 44, 2: «Eructavit cor meum verbum bonum, dico ego opera mea regi: lingua mea calamus scribae velociter scribentis». 126 VN XIX 2. 127 Espressioni che ho citato nel capitolo precedente, come per esempio quelle relative al «dittare dentro» dello Spirito d’Amore, che spinge lo stesso Dante a parlare, a formulare discorsi significativi, acquistano in questo contesto una maggiore ricchezza. 128 Cf. Conv. I xiii 12. 129 Cf. De vulg. I xvii 2. 130 Par. XXXIII 67, 70-72
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PARTE SECONDA Le locutiones dell’oltretomba
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Capitolo 3
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Due esempi di inordinata locutio: gli strani versi di Pluto e di Nembrotto
«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!», cominciò Pluto con la voce chioccia. (Inf. VII 1-2)
«Raphèl maì amècche zabì almi», cominciò a gridar la fiera bocca, cui non si convenia più dolci salmi. (Inf. XXXI 67-69)
1. Premessa Dai capitoli precedenti emerge come la parola, il parlare, la lingua e la voce, siano per Dante i diversi aspetti – inquadrati da diverse angolature – di un unico fenomeno: il linguaggio. Nella Divina Commedia questi aspetti s’intrecciano e si confondono, mettono in risalto come l’atto locutorio espresso dai protagonisti dell’oltretomba sia caratterizzato da segni linguistici che comunicano non solo un pensiero, ma anche la condizione morale di cui l’agente si fa portatore; manifestano uno stato che qualifica l’essenza e l’essere dei locutori, allo stesso tempo il luogo e il contesto nei quali questi locutori sono inseriti. Per l’autore fiorentino il linguaggio sembra possedere tre funzioni, di cui una generale, il comunicare, e due specifiche, una spirituale e l’altra morale, tradire qualcosa di sé all’altro e agire sul destinatario, come per esempio suscitare un’emozione, che nel caso dell’Inferno sarà il più
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Due esempi di inordinata locutio: Pluto e Nembrotto
delle volte un’emozione di spavento, di terrore, di perdita del più elementare senso di orientamento. Come constateremo, per quanto riguarda Nembrotto, la disarticolazione grammaticale, che caratterizza il suo nondiscorso rivolto ai due pellegrini Virgilio e Dante, rivela addirittura la storia di un individuo, un percorso morale articolato in diverse tappe che si riflette puntualmente nel linguaggio. L’insensato discorso del gigante è rappresentato in modo perfetto da un grido che proviene da una «fiera bocca» (sarebbe il caso di dire una «mala bocca»): «Raphèl maì amècche zabì almi», grido che rivela l’acume con il quale Dante descrive con immagini le sue convinzioni filosofico-linguistiche. Per la frase del demone Pluto, «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!», valgono le considerazioni appena fatte. Anche in questo caso – forse, in maniera più palese rispetto ai versi di Nembrotto, e per una ragione precisa, ossia, l’utilizzo da parte del Poeta di un espediente grammaticale chiaro, la giustapposizione di semplici particelle interiettive – le parole sono rivelatrici di una condizione affettiva e morale; allo stesso tempo, suscitano, muovono, commuovono lo stato d’animo di chi le riceve: lo stesso Dante, Virgilio, le anime collocate nei cerchi di cui il guardiano è Pluto, il lettore. Per realizzare questa intensità che appartiene alla parola e al parlare, cosa che varrà anche per molte delle parlate del Paradiso, anche se in una prospettiva differente, Dante inventa nuovi linguaggi, forme linguistiche misteriose, senza nessun corrispettivo nella realtà, e in grado di dire qualcosa in più rispetto ai linguaggi canonici che si limitano – secondo una lezione diffusa nel Medioevo – a designare la realtà nella sua obiettività, substantia cum qualitate. Queste invenzioni linguistiche non sono una prerogativa assoluta dell’Alighieri, ma appartengono a una tradizione letteraria consolidata, che nel tentativo di suscitare emozioni, esprimere quanto in linea di principio risulta inesprimibile, lega in modo artificioso diversi idiomi, fino alla creazione di qualcosa di enigmatico. Le invenzioni linguistiche appartengono al fenomeno più vasto del plurilinguismo, ragione per cui si è deciso di trattare questo tema prima di entrare nel merito dei «versi strani» di Inferno VII e Inferno XXXI, utilizzati con sapienza dalla penna dell’Alighieri.
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Il plurilinguismo
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2. Il plurilinguismo Una comprensione adeguata dei versi di Pluto e di Nembrotto richiede, quindi, una descrizione preliminare del plurilinguismo1, la realtà concreta delle tante lingue vissuta da Dante in prima persona, in un rapporto vivo e dinamico. Questo metterebbe in evidenza come l’interesse del Poeta per il linguaggio sia fortemente sollecitato non da strutture formali ipotizzabili come implicite ai linguaggi stessi, ma dalle variazioni di questi ultimi, idiomatiche, fonetiche, accidentali, risultato di un’evoluzione storica che è insita nei segni attraverso i quali gli uomini si esprimono. Con Dante si assiste, soprattutto se si fa riferimento alla Divina Commedia, a un uso cinico di diversi registri linguistici all’interno di pochi versi, ciò che presuppone una particolare sensibilità nei confronti del presente, della frammentazione delle lingue e della molteplicità dei suoi attori, questi ultimi portatori ognuno di una forma di espressione originale, relativa
1 Su Dante e il plurilinguismo cf. W. PABST, Dante und die literariche Vielsprachigkeit der südlichen Romania, in «Romanistisches Jahrbuch», 5 (1952), pp. 161-181; W. TH. ELWERT, L’emploi des langues étrangères comme procédé stylistique, in «Revue de littérature comparée», 34.3 (1960), pp. 409-437; P. ZUMTHOR, Un problème d’esthétique médiévale: l’utilisation poétique du bilinguisme, in «Le Moyen Âge», 66 (1960), pp. 301-336, pp. 561-594; A. PAGLIARO, Dialetti e lingua nell’oltretomba, in «Cultura e scuola», 4 (1965), pp. 254-271 (ripr. in ID., Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, 2 voll., Messina - Firenze 1967, II, pp. 433-465); G. CAMBON, Dante and the Drama of Language, in ID., Dante’s Craft. Studies in Language and Style, Minneapolis, 1969, pp. 23-45; M. BRACCINI, Paralipomeni al «personaggio-poeta» (Purgatorio XXVI 140-7), in Testi e interpretazioni. Studi del seminario di Filologia Romanza dell’Università di Firenze, Milano - Napoli 1978, pp. 169-256; F. BRUGNOLO, Plurilinguismo e lirica medievale. Da Raimbaut de Vaqueiras a Dante, Roma 1986; G. NENCIONI, Il contributo dell’esilio alla lingua di Dante, in Dante e le città dell’esilio, a c. di G. Pino, Ravenna 1989, pp. 177-198; F. BRUNI, Testi e chierici del Medioevo, Genova 1991, in partic. pp. 30-41; L. RENZI, Un aspetto del plurilinguismo medievale: dalla lingua dei Re Magi a «Papé Satan aleppe», in Omaggio a Gianfranco Folena, 3 voll., Padova 1993, I, pp. 61-73; BARAN´ SKI, La linguistica scritturale cit. (Introd., alla nota 2). Per una definizione del plurilinguismo, si veda ELWERT, L’emploi des langues cit., p. 410: «Par plurilinguisme littéraire, on peut entendre, d’une part, l’emploi de plusieurs langues dans le même milieu, mais séparément (...). D’autre part, on peut entendre par plurilinguisme littéraire l’emploi de différents idiomes à l’intérieur d’une seule et même œuvre». I testi qui citati, come il paragrafo che segue, sono importanti anche per comprendere quanto si dirà nel prossimo capitolo.
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Due esempi di inordinata locutio: Pluto e Nembrotto
alla dimensione spazio-temporale specifica in cui l’espressione si genera, e allo statuto morale e comportamentale del locutore che la proferisce2. Da un punto di vista storico, questo atteggiamento potrebbe essere il prodotto sia dello stato di confusione che regna nella penisola italiana, come appare evidente dalla lamentazione di Purg. VI 76-78 («Ahi serva Italia, di dolore ostello / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di provincie, ma bordello!»), legata alle battute dei due ‘lombardi’ Virgilio e Sordello; sia della formazione di nuove realtà politiche, le corti principesche, le cui azioni culturali incoraggiano una tendenziale sprovincializzazione delle rispettive lingue3. Queste ultime sono spinte, da una parte, ad allontanarsi dall’egemonia delle parlate locali, e dal territorio in cui la corte ha sede, dall’altra ad accogliere nuovi idiomi, provenienti da diverse realtà regionali e sovra-regionali. Un caso esemplare è rappresentato dalla corte di Cangrande della Scala, «colui che ‘mpresso fue, / nascendo, sì da questa stella forte, / che notabili fier l’opere sue»4. La testimonianza del Bisbidis di Manuello Giudeo, presunto amico di Dante, descrive la realtà della corte veronese percorsa da signori, marchesi, baroni di diversa nazionalità, i cui differenti idiomi s’intrecciano al punto da richiamare la confusione di Babele: Quivi Tedeschi, Latini et Franceschi, Fiammenghi et Ingheleschi insieme parlare. Fanno un trombombe che par che rimbombe a guisa di trombe chi pian voi sonate5.
2 Cf. E. AUERBACH, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, tr. it., 2 voll., Torino 1956 (ed. orig. Bern 1946), I, p. 198: «La lingua di Dante appare quasi un miracolo inconcepibile. Di fronte a tutti gli altri scrittori precedenti, fra i quali furono tuttavia grandi poeti, la sua espressione possiede una tale ricchezza, concretezza, forza e duttilità, egli conosce e impiega un numero talmente superiore di forme, afferra le più diverse apparenze e sostanze con piglio tanto più saldo e sicuro, che si arriva alla convinzione che quest’uomo abbia con la sua lingua scoperto il mondo». 3 Su questo aspetto si veda BRUNI, Testi e chierici cit. (alla nota 1). 4 Par. XVII 76-78. 5 MANUELLO GIUDEO, Bisbidis a magnificenza di messer Cane de la Scala, vv. 7380, in Rimatori comico-realistici del Due e Trecento, a c. di M. Vitale, 2 voll., Torino 1956, II, [pp 103-112], p. 107.
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Il plurilinguismo
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In generale, è la città medievale nella sua interezza a essere attraversata da pulsioni contraddittorie, che sfociano in una giustapposizione di diversi umori linguistici. Per esempio nell’ambiente universitario, organizzato amministrativamente secondo il modello delle nazioni, si assiste a un intreccio di codici antropologici e linguistici antinomici. Nonostante il latino rappresenti lo strumento di comunicazione più importante nelle Università, e sia portatore di un valore di stabilità, a partire dalla trasmissione lineare del sapere che avviene attraverso il suo utilizzo, questo è affiancato dai volgari e dalle lingue di origine degli studenti, i quali sono depositari, dopo aver tolto l’abito e la tonsura – secondo un’espressione di Boncompagno da Signa – di violenze e dissennatezze degne delle Malebolge dantesche: Immoderata gulositas, manifesta fornicatio, ebrietas, ludus, intemperantia expensarum, avaritia, inconstantia, fermentum sodomiticum, commixtio gomorrea et furtum (...) arma deferat interdicta, moveat scandala, excitet contentiones, lites et guerras, vulneret, occidat, sit consul meretricum, de nocte transcurrat, cithaziret, saltet et cantet cum ioculatoribus et meretricibus in choreis6.
L’ambiente cittadino, con le sue convulsioni interne, la nascita di nuove classi, la coabitazione dentro il suo spazio di realtà linguistiche sociali e nazionali differenti, sembra realizzare in terra il mito della confusione di Babele. Non a caso Maria Corti ha parlato, a proposito del celebre passaggio del De vulgari relativo alla costruzione della torre e alla conseguente confusio linguarum, di «allegoria in factis»7. Il mondo che circonda Dante, in continua espansione ed evoluzione, è percorso da stimoli contraddittori, da modelli culturali irriducibili tra di loro e, allo stesso tempo, intrecciati in un unico gruppo o nella medesima coscienza individuale: confusione che si rifletterà nella produzione letteraria. Un’opera, un solo brano, un passaggio o una sola parola possono essere costruiti su diversi registri linguistici, fino alla creazione di una lingua immaginaria. Sono numerosi gli esempi che si potrebbero addurre
6 BONCOMPAGNO DA SIGNA, Boncompagnus, I, 13, 4, ed. S. M. Wight, Los Angeles 1998 (reperibile on line: http://scrineum.unipv.it/wight/index.html). Citato anche in BRUNI, Testi e chierici cit. (alla nota 1), p. 167. 7 Cf. CORTI, Scritti su Cavalcanti e Dante cit. (Introd., alla nota 22), in partic. pp. 301-311.
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Due esempi di inordinata locutio: Pluto e Nembrotto
per chiarire questa pratica retorica utilizzata già da Plauto, e presente nel Nuovo Testamento. Nel secolo XII la poetessa Ildegarda di Bingen elabora una sua personale lingua (900 parole con glossario latino), in cui non sorprende – nota Peter Dronke – il fatto che molte parole abbiano un’aria vagamente volgare, germanica:
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O orzchis Ecclesia... tu es caldemia stigmatum loifolum... et es chorzta gemma! (O immensa Ecclesia... tu sei la fragranza delle ferite dei popoli... e sei un bocciolo splendente)8.
La cosa che colpisce nello spoglio di questi testi è il ricorso frequente a parole ebraiche o finto-ebraiche, un fatto comprensibile a partire da ragioni che saranno esposte di qui a poco, e che non si spiega con il solo riferimento all’ebraico come lingua sacra e originaria. Basti considerare, per adesso, la parola racha presente nel Vangelo di Matteo (5, 22), e inserita come cifra linguistica straniante nella proposizione in greco o in latino, testimonianza di una pratica retorica plurilinguista presente soprattutto in quei testi che nel Medioevo rappresentano il punto di riferimento più autorevole, i testi sacri. Quello della lingua immaginaria, o inventata, è un fenomeno che si affianca a due tipi di opposizione, verticale e orizzontale, che Paul Zumthor ha individuato come caratteristica comune a molti testi della cultura medievale9. Per verticale s’intende la dialettica tra latino e volgare all’interno di uno stesso testo (una lingua artificiale e una naturale), per orizzontale la giustapposizione tra le diverse ramificazioni romanze di quello che Dante definisce «ydioma tripharium», la lingua dell’oc, dell’oil e del sì10.
8 ILDEGARDA DI BINGEN, Lieder, a c. di P. Barth et al., Salzburg 1969, pp. 142143. Citato anche in P. DRONKE, Dante e le tradizioni medievali, tr. it., Bologna 1990, p. 83 (per altri esempi di lingua inventata cf. ibid., pp. 82-96). 9 Cf. ZUMTHOR, Un problème d’esthétique cit. (alla nota 1). 10 Cf. De vulg. I ix 2.
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Il plurilinguismo
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I passi della lingua immaginaria sono prerogativa particolare del teatro, come nel Miracle de Théophile di Rutebeuf, della metà del secolo XIII, dove il pagano Salatino evoca il diavolo con parole misteriose:
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Ci conjure Salatins le deable. Bagahi laca bachahé Lamac cahi achabahé Karrelyos Lamac lamec bachalyos Cabahagi sabalyos Baryolas Lagozatha cabyolas Samahac et famyolas Harrahya11.
Ma qual è lo scopo di queste pratiche retoriche? Quali considerazioni filosofico-linguistiche si possono trarre dalla lettura di questi passi? Tutto si limita alla creazione di un effetto grottesco, di ribaltamento della realtà che induce al riso, secondo i canoni tradizionali della parodia, o vi è qualcosa di più profondo? Prima di passare a Dante, si può abbozzare una risposta, che trova un fondamento nel termine ‘glossolalia’ utilizzato da Lorenzo Renzi per descrivere questi aspetti del plurilinguismo medievale e per chiarire i versi misteriosi di Inferno VII e Inferno XXXI; termine che lo studioso ha mutuato da alcuni lavori di Jakobson12. Innanzitutto, si può sottolineare
11 RUTEBEUF, Le Miracle de Théophile, vv. 160-168, in ID., Œuvres complètes, éd. M. Zink, 2 voll., Paris 1990, II, [pp. 19-67], p. 32. Citato anche in RENZI, Un aspetto del plurilinguismo cit. (alla nota 1), p. 64; in questo studio di Renzi sono descritti anche altri esempi di lingua immaginaria o inventata. Per altri passaggi si veda anche: R. GARAPON, La fantaisie verbale et le comique dans le théâtre français du Moyen Âge à la fin du XVIIe siècle, Paris 1957, in partic. pp. 16-35; e BRACCINI, Paralipomeni cit. (alla nota 1). Sul tema anche A. BAUSANI, Le lingue inventate. Linguaggi artificiali, linguaggi segreti, linguaggi universali, Roma 1974. 12 Cf. R. JAKOBSON, Glossolalie, in «Tel Quel», 26 (1966), pp. 4-9; ID., Perché ‘mamma’ e ‘papà’?, in Il farsi e il disfarsi del linguaggio. Linguaggio infantile e afasia, tr. it.,Torino 1971. Il termine glossolalia in questo caso è utilizzato in un modo per così dire neutro. Per quanto riguarda la sua accezione teologico-morale cf. cap. 4, § 3.
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Due esempi di inordinata locutio: Pluto e Nembrotto
come queste lingue inventate non siano agglomerazioni casuali, ma rispondano a tendenze costitutive unitarie. Il più delle volte sono caratterizzate da suoni monotoni, ripetitivi, e quanto più forzano l’opacità della materia fonica, tanto più sembrano essere produttori di un significato profondo. La glossolalia è il «tentativo di raggiungere il significato profondo delle cose, anzi un significato capace di agire sulle cose, di cambiarle in virtù della forza magica dei suoni – e questo grazie a un loro supposto potere interno»13. Si tratta di agglomerati di suoni dai quali si può evincere non tanto il significato di cui questi agglomerati dovrebbero essere depositari, ma dai quali potrebbe emergere la personalità, il sentimento, il movimento interno dei personaggi che ne fanno uso. Nei casi analizzati da Renzi si tratta di personaggi legati alla magia o al mondo diabolico, e per questo il loro linguaggio veicola un senso di disordine, di eccentricità, rispetto alla linearità del linguaggio proposizionale; un linguaggio intenso e distorto, capace di dire qualcosa che una disposizione congrua delle parole non sarebbe stata in grado di esprimere, come appare evidente anche dalla definizione del discord da parte di Raimbaut de Vaiqueras, figura retorica capace di adeguarsi a un contrasto di motivi che avviene nell’anima del locutore: Eras quan vey verdeyar pratz e vergiers e boscatges vuelh un descort comensar d’amor, per qu’ieu vauc aratges; quar ma dona.m sol amar, mas camiatz l’es sos coratges, per qu’ieu vuelh dezacordar los motz e.ls sos e.ls lenguatges14.
13
RENZI, Un aspetto del plurilinguismo cit. (alla nota 1), p. 67. RAIMBAUT DE VAQUEIRAS, Eras quan vey verdeyar, vv. 1-8, in J. LINSKILL, The Poems of the Troubadour, Raimbaut de Vaqueiras, Mouton 1964, p. 192. Cf. ELWERT, L’emploi des langues cit. (alla nota 1), p. 424: «Le descort était une poésie où le poète exprimait le désarroi dans lequel le jetait l’indifférence de sa dame, le désaccord qui régnait dans son cœur entre les différents sentiments, et qui se traduisait par un trouble de la raison (...). En général ce désaccord était exprimé par un assemblage de propositions contradictoires. Mais le désordre intérieur pouvait aussi s’exprimer par un désordre linguistique, le mélange des idiomes». Un esempio di plurilinguismo è anche nei seguenti versi, recentemente attribuiti 14
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A partire dalla Vita nuova, fino alla Divina Commedia, si assiste a un panorama incredibilmente ricco che va dalla dialettica verticale tra latino e volgare del libello giovanile, al plurilinguismo più accentuato del poema dantesco, in cui si realizza anche un nuovo contrasto, più originale, tra le lingue regionali di ogni singola variatio di un ydioma; frammentazione analizzata, da un punto di vista teorico, nel De vulgari eloquentia: «Quare autem tripharie principalius variatum sit, investigemus; et quare quelibet istarum variationum in se ipsa varietur»15. Dante è affascinato dal gioco di giustapposizione delle lingue, che a seconda dei casi offre particolari effetti. Per quanto riguarda la Vita nuova si è soliti citare i passaggi 4-6 del secondo capitolo, dove è applicato il versus cum auctoritate, utilizzato per elevare il tono della prosa e conferire al passo un’aura religiosa: In quello punto dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: «Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur michi». In quello punto lo spirito animale, lo quale dimora ne l’alta camera ne la quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro percezioni, si cominciò a maravigliare molto, e parlando spezialmente a li spiriti del viso, sì disse queste parole: «Apparuit iam beatitudo vestra». In quello punto lo spirito naturale, lo quale dimora in quella parte ove si ministra lo nutrimento nostro, cominciò a piangere, e piangendo disse queste parole: «Heu miser, quia frequenter impeditus ero deinceps!»16.
Nello stesso De vulgari, per quanto il trattato sia consacrato a uno studio lineare e teorico sul tema linguistico, non sfugge un passo, dove l’Autore espone i capoversi di alcuni brani di diversa provenienza, e sembra non resistere al particolare effetto del contrasto tra latino, lingua stabile e perenne, e la frammentazione dei volgari: Circa que sola, si bene recolimus, illustres viros invenimus vulgariter poetasse; scilicet Bertramum de Bornio arma; Arnaldum Danielem amorem; Gerardum
a Dante: DANTE ALIGHIERI, Rime, LII, 1-3, ed. C. Giunta, Opere, 3 voll., Milano, I, 2011 (I Meridiani): «Ai faus ris, pour quoi traï aves / oculos meos? Et quid tibi feci, / che fatta m’hai sì dispietata fraude?». 15 De vulg. I ix 4. 16 VN II, 4-6.
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Due esempi di inordinata locutio: Pluto e Nembrotto
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de Bornello, rectitudinem; Cinum Pistoriensem amorem; amicum eius rectitudinem. Bertramus etenim ait: «Non posc mudar c’un cantar non exparia»; Arnaldus: «L’aura amara / fa ‘l bruol brancuz / clarzir»; Gerardus: «Per solaz reveillar / Che s’es trop endormiz»; Cinus: «Digno sono eo di morte». Amicus eius: «Doglia mi reca ne lo core ardire»17.
In ogni caso, è la Divina Commedia a offrire il maggior numero di esempi d’intreccio linguistico. All’interno del poema si verifica non solo una disposizione orizzontale di versi che evocano famiglie idiomatiche differenti, ma la materia fonica è plasmata («fabbricata» avrebbe scritto Dante)18 in modo tale da creare molteplici neologismi, d’adattarsi alla situazione specifica nella quale è manipolata e d’adeguarsi alle caratteristiche dei personaggi che di volta in volta sono presentati dall’Autore. Molto spesso, la struttura di una parola o più parole («forma locutionis», secondo la terminologia del De vulgari, che consiste nella relazione tra «vocabula», «constructio vocabulorum» e «prolatio»)19, evocano determinati luoghi che suggeriscono, come ha dimostrato Giovanni Nencioni parlando di «dialettalismo evocativo»20, gli ambienti corrispondenti alla biografia di Dante esule. L’esilio ha rappresentato per il Poeta un’occasione, leggere, ascoltare, confrontare i testi e gl’idiomi dei luoghi visitati, e registrare in questo modo le diverse strutture fonetiche e morfologiche delle lingue disseminate nella penisola italiana. Nel discorso di Bonagiunta, per esempio, in Purg. XXIV 55, è utilizzato come spia idiomatica l’avverbio lucchese «issa». Il personaggio è caratterizzato linguisticamente da segni nelle parole da lui stesso pronunciate,
17
De vulg. II ii 8. Cf. De vulg. I vi 7; Purg. XXVI 117. 19 Cf. De vulg. I vi 4. 20 NENCIONI, Il contributo dell’esilio cit. (alla nota 1), p. 179. Cf. Conv. I iii 4: «Poi che fu piacere delli cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno – nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo della vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo core di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che m’è dato –, per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata». Per lo stretto rapporto tra teorie linguistiche del De vulgari ed esilio cf. anche M. SHAPIRO, De vulgari eloquentia: Dante’s Book of Exile, Lincoln - London 1990. 18
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Il plurilinguismo
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com’è evidente anche nei casi di Ugo Capeto e Pier da la Broccia: il primo è indicato come francese dalla variante fonetica del suo nome («Ciappetta»), da gallicismi quali «giuggia», il nome proprio Luigi e l’emblematico fiordaliso; il secondo è presentato dal provenzalismo «inveggia»21. In generale, non sono infrequenti da parte delle anime i riferimenti alla toscanità di Dante e al carattere lombardo di Virgilio, tratti che l’Autore individua come due parti specialmente significative di un’entità linguistica più vasta, le «genti d’Italia»: i «Latini»22. Alle anime che si trovano nella cornice degli invidiosi, il pellegrino si rivolge in questo modo: «Ditemi, chè mi fia grazioso e caro, s’anima è qui tra voi che sia latina; e forse lei sarà buon s’i’ l’apparo».
Gli risponde Sapìa, che riformulerà («tu vuo’ dire») il concetto di latino in «che vivesse in Italia»: «O frate mio, ciascuna è cittadina d’una vera città; ma tu vuo’ dire che vivesse in Italia peregrina»23.
È da notare come una qualificazione di questo tipo nel Paradiso perda molto del suo significato, come emerge dal celebre «latino» di Cacciaguida («per chiare parole e con preciso / latin rispuose quello amor paterno»)24. Il termine in questo caso indica la chiarezza del linguaggio, piuttosto che una lingua determinata sviluppatasi in un tempo e in uno spazio precisi25: l’appartenenza delle anime alla città divina sfuma le ra21
Cf. Purg. XX 48-86; VI 20. Per quanto riguarda la ‘toscanità’ di Dante, cf. Inf. X 22-26; XXIII 7677; XXXII 66; XXXIII 10-12; Purg. XVI 136-137. Per quanto riguarda invece il Virgilio ‘lombardo’, cf. Inf. I 67-69; XXVII 19-21; Purg. VI 67-84; XVIII 82-83. 23 Purg. XIII 91-96. 24 Par. XVII 34-35. 25 Cf. A. PÉZARD, Les trois langues de Cacciaguida, in «Revue des études italiennes», 13 (1967), [pp. 217-238], p. 223: «Le mot lui-même épithète ou substantif, se prête à des sens étendus, que nos langues on perdus depuis. L’italien, avant Dante, chez Dante et après Dante, appelle latin tout langage clair et soigné (Par. XII 145), voir tout discours suffisamment intelligible (Conv. II iii 1; Par. III 67). Cavalcanti appelle latin le chant des oiseaux (Fresca rosa novella, VI 11); le 22
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dici della città terrena, mentre l’identità nazionale è accentuata in modo grottesco tra i dannati: «O tu che con le dita ti dismaglie» cominciò ‘l duca mio a l’un di loro, «e che fai d’esse tal volta tanaglie, dinne s’alcun Latino è tra costoro che son quinc’entro (...)». «Latin siamo noi (...)».
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«Io fui d’Arezzo (...)»26.
Si può vedere, inoltre, come Virgilio, incontrato Ciampolo inviti l’interlocutore a nominare le anime provenienti dalla terra lombarda e da quella toscana: Lo duca dunque: «Or dì: de li altri rii conosci tu alcun che sia latino sotto la pece (...)?»27.
Gli esempi potrebbero essere moltiplicati28. Si può far riferimento, ancora, al canto XXI dell’Inferno, dove i Latini sono rappresentati ampiamente nelle persone dei barattieri lucchesi; o al canto XVIII, dove tra i ruffiani, gl’ingannatori e i lusinghieri spiccano i nomi di Venedico Caccianemico da Bologna, il greco Giasone e Alessio Interminelli da Lucca, a conferma di un’identità linguistica e di una confusione di linguaggi, entrambe accentuate con particolare forza nella prima cantica, secondo una linea programmatica che lo stesso Dante ha stabilito all’inizio del poema: «Diverse lingue, orribili favelle (...)»29.
provençal et le français n’avaient pas attendu l’exemple, dans le cas le plus général ni même dans l’acception la plus particulière, comme en témoignent la Chanson de Ronceveaux ou le Roman de la Rose; et la vieille Chanson du Coquelicot, encore vivante, en garde la trace». 26 Inf. XXIX 85-89, 91 e 109. 27 Inf. XXII 64-66. 28 Cf. BRUNI, Testi e chierici cit., in partic. pp. 31-41. 29 Inf. III 25.
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Il plurilinguismo
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Lo sguardo attento di Dante alla pluralità dei linguaggi si traduce, quindi, in una pratica poetico-retorica per cui i personaggi sono introdotti a parlare in una lingua straniante, e dalla quale si può desumere l’origine, non solo fisica, del locutore. È d’obbligo citare, ancora, cinque passaggi della Divina Commedia, formalmente vicini ai versi dei canti VII e XXXI:
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«Vexilla regis prodeunt inferni verso di noi; però dinanzi mira», disse ‘l maestro mio, «se tu ‘l discerni»30. Ed elli a me: «Perché i nostri diretri rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima scias quod ego fui successor Petri»31. «Osanna, sanctus Deus sabaòth superillustrans claritate tua felices ignes horum malacòth». Così volgendosi alla nota sua, fu viso a me cantare essa sustanza32. «O sanguis meus, o superinfusa gratia Dei, sicut tibi cui bis unquam celi ianüa reclusa?». Così quel lume: ond’io m’attesi a lui33. El cominciò liberamente a dire: «Tan m’abellis vostre cortes deman, Qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan»34.
In questi ultimi casi, comprese le parole enigmatiche di Pluto e di Nembrotto, il plurilinguismo degli attori (plurilinguismo che si spinge fino
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Inf. XXXIV 1-3. Purg. XIX 97-99. 32 Par. VII 1-5. 33 Par. XV 28-31. 34 Purg. XXVI 139-142. 31
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alla creazione di una lingua originale) si affaccia in modo evidente. Un denominatore comune emerge: l’Autore non manca di sottolineare, come ha già evidenziato Braccini in modo sottilissimo, a prescindere dalla collocazione infernale o paradisiaca degli agenti linguistici, la dimensione sostanzialmente esclamatoria, non razionale dei loro enunciati, in modo chiaro («e quando l’arco de l’ardente affetto / fu sì sfogato, che ‘l parlar discese / inver’ lo segno del nostro intelletto»35; «‘taci, maledetto lupo! / consuma dentro te con la tua rabbia’»36; «‘anima sciocca / tienti col corno, e con quel ti disfoga / quand’ira o altra passïon ti tocca’»37), o attraverso perifrasi che concernono la difficoltà e l’incertezza di percezione («così [...] / fu viso a me cantare essa sustanza / [...] /ed essa e l’altre mossero a sua danza / e quasi velocissime faville / mi si velar di sùbita distanza»)38. È a partire da questi dati che si può avviare una ricerca costruttiva dal punto di vista filosofico-linguistico sugli strani versi dei canti settimo e trentunesimo dell’Inferno.
3. «Pape Satàn, pape Satàn, aleppe!» Questo verso ha rappresentato una delle cruces più discusse da parte dei dantisti39, come potrebbe emergere da un semplice spoglio dei riferimenti bibliografici presenti nell’Enciclopedia Dantesca40. Si può subito constatare come un’interpretazione linguistico-letterale, tesa esclusivamente a chiarire il significato delle parole di Pluto, non abbia ottenuto risultati convincenti, e abbia finito con il complicare la lettura dell’Inferno. Molti commentatori sono stati favorevoli a vedere nell’espressione l’uso della lingua ebraica; per altri si è trattato di lingua greca; per alcuni di lingua araba, o in ogni caso semitica; e vi è stato persino chi ha ritenuto si trattas-
35
Par. XV 43-45. Inf. VII 8-9. 37 Inf. XXXI 70-72. 38 Par. VII 4-9. 39 Cf. B. MAIER, Le principali cruces della Divina Commedia nella critica contemporanea, in «Cultura e scuola», 13-14 (1965), pp. 271-284. 40 E. CACCIA, s. v. Pape Satàn, pape Satàn aleppe, in ED, IV, pp. 280-282. Per una riflessione matura ed erudita sul tema si rinvia agli studi di Domenico Guerri, cf. supra, Introd., alla nota 12; e cf. PAGLIARO, Dialetti e lingua cit. (alla nota 1). 36
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«Pape Satàn, pape Satàn, aleppe!»
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se di un’espressione dialettale modenese. La scelta di un’interpretazione linguistica puntuale ha messo in evidenza la sottigliezza e l’originalità degli interpreti, come nel caso della Vita di Benvenuto Cellini, che ha legato il verso alla frase in francese «paix Satan, paix Satan, allez!»41, ma ha reso incerto e più complesso il quadro ermeneutico relativo a Inferno VII42. Una risoluzione del problema si può trovare facendo ricorso a quanto detto nei paragrafi precedenti, a proposito della stretta relazione tra lingua, personaggio e contesto. In particolare, è da notare come la connessione tra luoghi, realtà naturali, gruppi umani, usi e linguaggio, sia percepita dagli studiosi medievali con una certa frequenza43. Nelle Etimologie di Isidoro è scritto a chiare lettere che la diversità tra i popoli dislocati sulla terra è data dall’effetto dei cieli e dalle proprietà naturali dei luoghi su cui i popoli sono insediati («secundum diversitatem enim coeli et facies hominum et colores et corporum quantitates et animorum divarsitates existunt»)44. Le qualità specifiche degli individui sono il riflesso della combinazione di influenze celesti e terrene, teoria sviluppata in modo maturo da Ruggero Bacone che, influenzato dal modello filosofico del De radiis di al-Kindi45, affronta il tema della complexio locorum (complesso di proprietà che caratterizzano la natura specifica di ogni luogo), alla base delle diversità e delle specificità etniche e linguistiche dei popoli:
41 BENVENUTO CELLINI, La Vita, II, 27, in Opere di Baldassarre Castiglione, Giovanni della Casa, Benvenuto Cellini, a c. di C. Cordié, Milano - Napoli 1960, p. 819; e cf. ibid., nota 1. 42 Alcuni esempi tratti da CACCIA, Pape Satàn cit. (alla nota 40), p. 280: «Splendi aspetto di Satana, splendi, aspetto di Satana primaio» (Lanci); «Vomita bocca di Satana, fiamme di fuoco» (Schier); «Poffardio, Satana, dei vagabondi s’inoltrano a questa volta» (Fraticelli, Walter); «La porta dell’inferno ha vinto» (Scarafoni). Per le espressioni dialettali: «Oh ribelle, oh ribelle, oh leppa» (Monti); «Sorgi Satana, aiutami, affrettami alleppare» (Torquati; «alleppare» significherebbe fuggire); «Satanasso, alleppate, alleppate, andatevene al diavolo» (Amari). 43 Cf. G. STABILE, La torre di Babele: confusione dei linguaggi e impotenza tecnica, in Ars et Ratio: dalla torre di Babele al ponte di Rialto, a c. di J. C. Maire Vigueur - A. Paravicini Bagliani, Palermo 1990, pp. 245-277 (ripr. in ID., Dante e la filosofia della natura. Percezioni, linguaggi, cosmologie, Firenze 2007, pp. 219252). 44 ISIDORO DI SIVIGLIA, Etymologiae, IX, 2, 105, PL 82, 338C, ed. Lindsay cit. (Introd., alla nota 32), p. 358, 12-13. 45 Cf. ROSIER-CATACH, La parole comme acte cit. (Introd., alla nota 36), in partic. pp. 221-231.
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Locus est principium generationis quemadmodum et pater, ut dicit Porphyrius. Et nos videmus quod omnia viariantur secundum loca mundi diversa, non solum in naturalibus, sed homines in moribus; quoniam alios mores habent Aethiopes, alios Hispani, alios Romani, et alios Gallici. Nam et Picardi, qui sunt veris Gallicis vicini, habent tantam diversitatem in moribus et lingua, ut non sine admiratione possit esse unde sit tanta diversitas locorum propinquorum (...) res huius mundi in diversis locis constitutae, quantumcumque propinquae sunt (...) eis accidit infinita diversitas46.
Lo stesso Dante, in armonia con le speculazioni medievali, affronta questi temi in chiave teorica nel Convivio. Nel terzo libro, all’altezza del capitolo III, l’Autore riprende la dottrina aristotelica dei luoghi naturali, fondamento della diversità delle proprietates rerum. Per Aristotele, ogni luogo ha la capacità di esercitare una propria potenza o dynamis47, e in questo senso ha una funzione formatrice. Ogni luogo ha una proprietà germinale che specifica la natura di ciascun essere che su di esso vive. «Locus – scrive Alberto Magno – cum virtutibus quae sunt in ipso dat multam proprietatem locato»48. Scrive Dante: «Ciascuna cosa (...) ha ‘l suo speziale amore» e ogni amore è specificato «per lo loco nel quale adopera»49. Da questo si può dedurre che dalla diversità dei luoghi dipende la caratterizzazione degli individui e degli aggregati sociali, tema che il Poeta riprende nel De vulgari eloquentia: la ramificazione e moltiplicazione delle lingue da una radice comune avviene «per diffusos multipliciter palmites»; processo di smembramento che coinvolge gruppi dislocati in luoghi e tempi diversi («per locorum temporumque distantias variari oportet»), e gruppi che dimorano nella stessa città («sub eadem civilitate morantes»)50. Ogni variazione sociale, idiomatica, comportamentale, è segno di una variazio-
46 RUGGERO BACONE, Opus maius, I, IV, 5, 5, ed. J. H. Bridges, 3 voll., Oxford 1897-1900, I, p. 138. Cf. inoltre ID. Opus tertium, I, 37, in ID., Opera quaedam hactenus inedita, ed. J. S. Brewer, I, London 1859 (Rerum Britannicarum Medii Aevi Scriptores, 15) [repr. 1965], [pp. 3-310], p. 120: «Secundum (...) diversitatem locorum in complexione diversificantur res in complexionibus, et homines in artibus, et scientiis, et linguis, et negotiis, et moribus (...) secundum diversitatem regionum». 47 Cf. ARISTOTELE, Physica, IV, 1, 208b10 e 208b34. 48 ALBERTO MAGNO, De natura loci, I, 1, in ID., Opera omnia, éd. Borgnet cit. (cap. 1, alla nota 51), IX (1890), p. 560. 49 Conv. III iii 2, 1. 50 De vulg. I viii 1; ix 6-7; ix 4; e cf. ibid., x 7.
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ne di luogo, che genera secondo la sua natura le proprietà di coloro che lo abitano51. Se si prendono in considerazione questi elementi teorici è da valutare l’importanza che l’Inferno assume come luogo, dal quale emergono le caratteristiche dei suoi abitanti e il modo in cui questi si associano nella città infernale, la «città di Dite»52. Dalla comprensione della natura di questa città e di questo luogo si può risalire a una prima conoscenza degli aspetti linguistici che si generano in essa, e di qui arrivare a una risoluzione dell’enigma nascosto nelle parole di Pluto. Nel Convivio, Dante offre una definizione generale del parlare umano come prodotto dell’attività della ragione, «dove la divina luce più espeditamente raggia»53. La potenza dell’uomo consiste nell’attività razionale e nelle sue modalità di operazione, tra le cui manifestazioni vi è il linguaggio, che pone l’uomo stesso in uno stato di filiazione diretta con Dio. È questa identità tra parola-luce-Dio-ragione che verrà applicata in senso negativo nella prima cantica per definire i segni linguistici dei dannati e dei demoni. È risaputo come l’Inferno sia connotato da un’assenza di visione. Le cose e gli attori che si offrono a Dante-personaggio durante il suo percorso sono caratterizzati da una loro evanescenza fisica, che non permette al pellegrino di acquisire una conoscenza chiara e distinta. Allo stesso tempo, è da tener presente che l’Inferno, «aura sanza tempo tinta», è il luogo per eccellenza dell’assenza di Dio. Ora, partendo dai termini del Convivio appena citati, si può immaginare come il linguaggio elaborato nel primo regno dell’oltretomba sia un linguaggio in cui la luce e Dio sono assenti. Di qui, una latitanza della ragione che rende l’espressione linguistica oscura, oppure tormentata, priva di luce, in senso logico, morale e/o metaforico. Lo stesso Autore non manca di sottolineare almeno in due occasioni, e con accenti simili, la vera natura dell’Inferno, «loco d’ogne luce muto» e «là dove ‘l sol tace»54. In entrambi i casi, un termine uditivo esprime un’imma-
51
Cf. Par. XIII 52-72. L’interessante relazione tra lingua e Inferno, quest’ultimo inteso come città (precisamente «anti-city»), è fatto da CAMBON, Dante and the Drama cit. (alla nota 1), p. 34. Forzando leggermente il senso del testo dantesco, con l’espressione ‘Città di Dite’ mi riferisco all’Inferno nella sua interezza. 53 Conv. III vii 8. 54 Inf. V 28; I 60. Cf. B. PORCELLI, «Chi per lungo silenzio parea fioco» e il valore della parola nella Commedia, in «Ausonia», 19 (1964), pp. 32-38. 52
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gine visiva, e offre al lettore una chiave d’interpretazione: tutto l’Inferno è un suono irrazionale, incongruo, di dolore, che rinvia a un’assenza. Oltrepassando la porta dell’Inferno le orecchie del pellegrino sono travolte da un turbinio di suoni cacofonici: forti lamenti, battito di denti, parole blasfeme, pianti accorati, strida, latrati, voci roche, mugghiare di venti, «dolenti note», urla e grida, guaiti di dolore55. È da notare come i personaggi stessi che Dante incontra si esprimano in una maniera che ricorda il connubio parole-sospiri della Vita nuova: Francesca piange e dice («dirò come colui che piange e dice»)56; il parlare di Pier della Vigna è un fischio acuto del vento, composto di parole e sangue (« [...] de la scheggia rotta usciva insieme / parole e sangue»)57; come Ulisse, Guido da Montefeltro è una fiamma la cui cima in modo disordinato parla («per un confuso suon che fuor n’uscia»)58; il conte Ugolino «parlare e lagrimar vedrai insieme»59. Zygmunt Baran´ski ha evidenziato come i termini scelti dall’Autore per descrivere i rumori, i vari sospiri, i lamenti, le espressioni più generali di dolore, frustrazione, rabbia, siano scrupolosamente accurati, e appartengano tutti alla categoria semiotica dei segni ‘naturali’60. Il nome, infatti, scrive Boezio, non è solo una voce significativa: «Sunt quaedam voces quae significant quidem, sed nomina non sunt»61, e sono quelle voci nelle
55 Cf. Inf. III 44: «Lamentar li fa sì forte»; 101: «Dibattero i denti»; 103: «Bestemmiavano Dio e lor parenti»; 107: «Forte piangendo»; V 25: «Dolenti note»; 27: «Molto pianto mi percuote»; 29-30: «Mugghia come fa mar per tempesta, / se da contrari venti è combattuto»; 35: «Quivi le strida, il compianto, il lamento»; VI 14: «[Cerbero] con tre gole caninamente latra»; 19: «Urlar li fa la pioggia come cani»; 32-33: «Cerbero, / che ‘ntrona l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde»; VII 2: «Voce chioccia»; 26: «Grand’urli»; 30: «Gridando»; 33: «Gridandosi anche loro ontoso metro»; 43: «Assai la voce lor chiaro l’abbaia». 56 Inf. V 126. 57 Inf. XIII 43-44. 58 Inf. XXVII 6. 59 Inf. XXXIII 9. Cf. cap. 1. 60 Cf. BARAN´ SKI, La linguistica scritturale cit. (Introd., alla nota 2), in partic. pp. 106-114. 61 SEVERINO BOEZIO, In librum Aristotelis Peri hermeneias, Editio prima, I, 2, PL 64, 420C, ed. C. Meiser, Leipzig 1877, p. 54, 14-23: «Neque solum nomen vox significativa est, sed sunt quaedam voces que significant quidem, sed nomina non sunt, ut ea quae a nobis in aliquibus affectibus proferuntur, ut cum quis gemitum edit, vel cum dolore concitus emittit clamorem. Illud enim doloris animi, illud
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quali si manifesta un movimento dell’anima o una passione del corpo, che nel caso dell’Inferno non può non consistere se non in qualcosa di oscuro e negativo. Al limite di questa categoria semiotica, come vedremo, ci sono le interiezioni, particulae orationis in grado di significare l’intensità di un sentimento, negativo o positivo, come la rabbia o la gioia. Per quanto riguarda Pluto, ci troviamo di fronte a uno stato manifesto di rabbia, un movimento disordinato dell’anima esplicitato dalle parole di Virgilio («consuma dentro te con la tua rabbia»)62, e che si manifesta in una «voce chioccia», stridente, rabbiosa, volta ad atterrire i due pellegrini. La fenomenologia dell’ira è affrontata da Dante, sempre nel canto VII dell’Inferno, nel girone degli iracondi immersi nel fango della palude Stigia: da una parte, vi sono quelli che preda di un dolore senza fine sospirano nella melma, e in questo caso il vizio capitale si manifesta nel sintomo riconosciuto dalla scolastica come tristitia («‘tristi fummo / ne l’aere dolce che dal sol s’allegra, / portando dentro accidïoso fummo: / or ci attristiam ne la belletta negra’. / Quest’inno si gorgoglian ne la strozza, / ché dir nol posson con parola integra»)63; dall’altra, quelli che emergono dalla palude e si percuotono i corpi, dilaniandosi con i loro stessi denti in un desiderio ossessivo di autodistruzione: Queste si percotean non pur con mano, ma con la testa e col petto e coi piedi, troncandosi co’ denti a brano a brano64.
In quest’ultimo caso è da registrare la forza prorompente del vizio capitale, che costituisce un tópos nella descrizione che gli autori medievali fanno di tale peccato. L’ira non è altro che lo scatenamento incontrollato dell’aggressività umana, che induce l’uomo ad abbassarsi a uno stato di animalità evidente. È quanto osserva Gregorio Magno, per il quale la di-
corporis signum est, et cum sint voces et significent quamdam vel animi vel corporis passionem, nullus tamen gemitum clamoremque dixerit nomen. Mutorumque quoque animalium sunt quaedam voces quae significant: ut canum latratus iras significat canum». 62 Inf. VII 9. 63 Inf. VII 121-126. Per un’analisi sul vizio capitale dell’ira, cf. C. CASAGRANDE - S. VECCHIO, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Torino 2000, in partic. pp. 54-77. 64 Inf. VII 112-114.
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namica del peccato appare scandita dalla perdita del dominio di sé e dal disordine del proprio corpo scaturiti da un allontanamento dalla luce:
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Huic Deus radium suae cognitionis abscondit (...) cor palpitat, corpus tremit, lingua se praepedit (s’inceppa), facies ignescit, exasperantur oculi, et nequaquam recognoscuntur noti. Ore quidem clamorem format, sed sensus quid loquatur ignorat (...) furor membra foras in ictibus exercet (...). Aliquando autem manus non exerit, sed in maledictionibus iaculum linguam vertit65.
Lo smarrimento della luce della verità, del raggio di Dio nello stato patologico dell’iracondo, si lega a un disordine esteriore, a un difetto di comunicazione gestuale e linguistica66, tema, come si è visto, caro a Dante, che sul connubio assenza di Dio / luce-parola ha costruito la fisionomia del primo regno d’oltretomba. Che l’ira corrisponda a una distorsione dello strumento primario della comunicazione, la parola, è un dato messo in risalto con particolare forza dalle analisi di Tommaso d’Aquino. Secondo il domenicano, dal punto di vista psicologico (il «cuore»), l’ira genera due vizi: l’«indignatio» e il «tumor mentis». In quest’ultimo caso, l’uomo è preso da un’ossessione per la vendetta e per i diversi modi di realizzarla, che gli procurano una sorta di rigonfiamento interno («talibus cogitationibus animum suum replet»). Dal punto di vista linguistico, invece, si assiste a un duplice disordine («inordinatio»): l’ira si manifesta in una particolare modalità del parlare («in modo loquendi»), l’espressione diventa confusa e disordinata («inordinata et confusa locutio»), dinamica certificata in modo autorevole da un passaggio del Vangelo di Matteo, in cui è scritto che chi si adira dicendo «racha» al proprio fratello sarà sottoposto al giudizio del Sinedrio o
65 GREGORIO MAGNO, Moralia in Iob, V, 45, 78-79, PL 75, 724BD, ed. M. Adriaen, 3 voll., Turnhout 1979-1985 (CCSL, 143-143A-143B), I, pp. 276, 36 277, 54. 66 Cf. MARTINO DI BRAGA, Opusculum de ira, 2, PL 72, 43BC: «Habitus audax et minax vultus, tristis frons et torvus intuitus, faciei aut pallor aut rubor: aestuat ab imis praecordiis sanguis, flagrant et micant oculi, tremunt labia, comprimuntur dentes, crebro et vehementius acto suspirio quatitur pectus, gemitus anxius, et paulo explanato sono sermo est praeceps, rabida vocis eruptio, colla distendit, inquietae manus, saepiusque compulsi coitus digitorum, dentes strident, citatus gradus, pulsataque pedibus humus, artus trepidi, et instabili fluctuatione totum concitatum corpus».
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dell’inferno (Mt 5, 22). L’altro disordine riguarda la natura della parola nella quale l’iracondo prorompe («prorumpit»): bestemmia, se si tratta di una parola contro Dio, contumelia se la parola è indirizzata contro il prossimo67. Il termine racha è un esempio di espressione linguistica che indica un modus loquendi risultato da un disordine emotivo, e che abbiamo incontrato come cifra utilizzata nella costruzione di una lingua inventata, enigmatica o immaginaria. Nell’esegesi al Vangelo di Giovanni, passo 12, 1213 («hosanna, benedictus qui venit in nomine Domini, rex Israel»), Agostino spiega come il vocabolo hosanna venga conservato in lingua ebraica nella lettura del testo sacro, e quindi come elemento straniante rispetto al contesto, per rendere più efficace l’espressione di un sentimento. Si tratta di un’interiezione, utilizzata – scrive Agostino – per indicare un affetto, piuttosto che significare qualcosa di oggettivo («magis affectum indicans, quam rem aliquam significans»); un’interiezione intraducibile, come ne esistono in latino: heu!, se si vuole indicare un dolore, vah!, la gioia, e così di seguito. Della stessa natura è il termine racha, presente nel Vangelo di Matteo, una «interiectio (...) affectum indignantis ostendens»68. 67 Cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, IIa IIae, q. 158, art. 7, resp., ed. Leonina cit. (cap. 1, alla nota 4), X, p. 282: «Respondeo dicendum quod ira potest tripliciter considerari. Uno modo, secundum quod est in corde. Et sic ex ira nascuntur duo vitia. Unum quidem ex parte eius contra quem homo irascitur, quem reputat indignum ut sibi tale quid fecerit. Et sic ponitur indignatio. Aliud autem vitium est ex parte sui ipsius, inquantum scilicet excogitat diversas vias vindictae, et talibus cogitationibus animum suum replet, secundum illud Iob XV, nunquid sapiens implebit ardore stomachum suum. Et sic ponitur tumor mentis. Alio modo consideratur ira secundum quod est in ore. Et sic ex ira duplex inordinatio procedit. Una quidem secundum hoc quod homo in modo loquendi iram suam demonstrat, sicut dictum est de eo qui dicit fratri suo, raca. Et sic ponitur clamor, per quem intelligitur inordinata et confusa locutio. Alia autem est inordinatio secundum quod aliquis prorumpit in verba iniuriosa. Quae quidem si sint contra Deum, erit blasphemia; si autem contra proximum, contumelia. Tertio modo consideratur ira secundum quod procedit usque ad factum. Et sic ex ira oriuntur rixae, per quas intelliguntur omnia nocumenta quae facto proximis inferuntur ex ira». 68 AGOSTINO DI IPPONA, In Evangelium Iohannis tractatus CXXIV, LI, 2, PL 35, 1764, ed. A. Mayer, Turnhout 1954 (CCSL, 36), p. 440, 1-19. Cf. TOMMASO D’AQUINO, Quaestiones disputatae de malo, q. 12, a. 5, resp., in ed. Leonina cit. (cap. 1, alla nota 4), XXIII, pp. 244, 45 - 245, 67: «Aliud autem vitium causatur ex ira in corde existente ex parte eius quod iratus appetit. Excogitat enim iratus diversas vias et modos per quos possit se vindicare, et talibus cogitationibus quodammodo inflatur
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Due esempi di inordinata locutio: Pluto e Nembrotto
Nella costruzione delle parole attribuite a Pluto sembra che Dante faccia riferimento alla tradizione linguistico-grammaticale delle interiezioni, particelle del linguaggio capaci di concentrare un movimento dell’anima (un motus animi) e riferire lo stato morale di colui che le proferisce. Gli antichi commentatori della Divina Commedia, a dispetto delle spiegazioni cervellotiche da parte di coloro che hanno cercato di ricostruire il verso sulla traccia di ipotesi e deduzioni rivelatesi troppo personali, hanno privilegiato questa pista. I contemporanei di Dante, al di là delle diverse traduzioni letterali, tutti hanno concordato su un punto: la stretta relazione tra l’espressione linguistica del demone e il suo movimento interno. «Turbative et admirative comotus ex adventu et visione Virgilii et Dantis clamavit», ha commentato nel 1324 Graziolo Bambaglioli69, e il verbo clamare indica il frastuono linguistico e l’urlo disordinato corrispondenti al turbamento e al caos emotivo del soggetto-Pluto. Guido da Pisa, in modo più preciso, ha scritto: «Voce fracta clamavit»70. «Cridare con una
animus eius, secundum illud Iob XV, v. 2: ‘Numquid sapiens (...) implebit ardore stomachum suum?’ Et sic ex ira oritur tumor mentis. Procedit etiam ira in locutionem, et contra Deum qui permittit iniuriam inferri, et sic ex ira causatur blasphemia; et contra proximum, qui infert: et sic sunt duo gradus irae qui tanguntur Matth., V, 22. Quorum unum est cum aliquis prorumpit in verba inordinata sine expressione specialis iniuriae, ut qui dixerit fratri tuo, racha, quae est interiectio irascentis, et sic ex ira oritur clamor, id est inordinata et confusa locutio indicans motum irae. Alius gradus irae est cum aliquis prorumpit usque ad verba iniuriosa; sicut cum quis dixerit fratri suo, fatue, ad quod pertinet contumelia. Secundum autem quod ira procedit in actum, sic causantur rixae, in quibus includuntur omnia consequentia, sicut vulnerationes, homicidia, et huiusmodi». Cf. inoltre De vulg. I xii 5: «Rachà, rachà! Quid nunc personat tuba novissimi Frederici, quid tintinabulum secundi Karoli, quid cornua Iohannis et Azzonis marchionum potentum, quid aliorum magnatum tibie, nisi ‘Venite, carnifices; Venite, altriplices, venite, avaritie sectatores!». Per un’analisi dell’interiezione, v. infra, cap. 5, § 3. 69 GRAZIOLO BAMBAGLIOLI, Commento all’Inferno di Dante, a c. di C. L. Rossi, Pisa 1998, p. 55: «‘Pape Satàn, pape Satàn Aleppe’. In fine capituli precedentis auctor demostravit qualiter invenit Plutonem adversarium grandem et demonem infernalem; nunc vero in principio huius capituli ostendit et scribit quod idem Pluton turbative et admirative comotus ex adventu et visione Virgilii et Dantis clamavit et ait adversus Virgilium et Dantem ‘Pape Satan Aleppe’, hoc est dicere ‘O Satan demon, o Aleppe demon, quale mirum et novum est istud, quod isti novi hospites huc accedunt’». 70 GUIDO DA PISA, Expositiones et Glose super Comediam Dantis, ed. V. Cioffari, Albany (N. Y.) 1974, p. 137: «Quod miratus et pavore plenus fuerit patet
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voce stridente» ha sottolineato Guglielmo Maramauro71. Così Benvenuto da Imola: «Clamare terribiliter», con voce «rauca et aspera, quia cum indignatione et ira clamabat»72.
per illud verbum quod protulit, ‘Pape’, quod quidem verbum est interiectio admirantis. Quod doluerit et contristatus fuerit patet per illud aliud verbum cum dixit ‘aleph’. Aleph enim interiectio est dolentis, que tantum sonat apud Hebreos quantum A apud Latinos. Nam in omni alfabeto cuiuscunque lingue prima lictera est A, quam Hebrei dicunt aleph, et Greci alpha, et in omni lingua interiectio est dolentis. Quod vero auxilium maioris clamaverit, patet quia Luciferum imperatorem Inferni in auxilium sui voce fracta clamavit, cum dixit: ‘Sathàn, Sathàn’». 71 GUGLIELMO MARAMAURO, Expositione sopra l’Inferno di Dante Alighieri, ed. P. G. Pisoni - S. Bellomo, Padova 1998 (Medioevo e Umanesimo, 100), p. 181: «Or tornamo al testo. Pape etc. Pluto, quando vidde D. e V., cominciò a cridare con una voce stridente e disse queste parole: ‘O Satàn etc.’. E questo è naturale d’alcuno che vede cosa maravigliosa de farsi maraviglia: sì che «pape» sona in gramatica ‘maraviglia’, et est adverbium admirandi. E non sollo una volta, ma repete ancora. E infine dice ‘Allephe’. Questa parola è di dolore et est interiectio dolentis, a designare che Pluto aveva gran doglia vedendo costoro. E pare che D. toche quel che dice Ieremia profeta ne le soi Lamentationi comenzando. Per l’alfabeto ebraico questa littera ‘alephe’ è la prima». 72 BENVENUTO DA IMOLA, Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam, ed. Lacaita cit. (cap. 2, alla nota 18), I, pp. 243-244: «Ad primam dico quod autor primo describit dominum et custodem istius circuli, scilicet Plutonem. Ad quod nota, antequam veniam a expositionem literae, quod Pluto apud omnes poetas dicitur rex Inferni, et ponitur pro elemento terrae; et quia ex terra nascitur omnis opulentia divitiarum ex quibus nascitur avaricia, ideo autor per Plutonem regem terrenarum et mundanarum diviciarum repraesentat in generali universale vicium avaritiae. Modo ad propositum autor fingit Plutonem clamare terribiliter viso autore vivo: ‘Pape sathan, pape sathan aleph’. Hoc autem figurat quod Pluto videns hominem vivum in regno avariciae, idest non mortuum in vicio avariciae, venientem ad destructionem avariciae, non valens impedire eius iter, miratur, dolet et implorat auxilium alterius. Quod miretur patet, quia dicit: ‘Pape’, quod est adverbium admirantis. Quod doleat patet, cum dicit: ‘Aleph’, quod est adverbium dolentis; cum vero dicit: ‘Sathan’, implorat auxilium alterius; nam sathan interpretatur princeps daemoniorum. Dicit ergo: ‘Pluto cominciò’, supple, clamare et dicere: ‘Aleph, sathan sathan, pape pape, idest ah, ah, dyabole, dyabole! quale monstrum est istud quod vivus homo videatur in loco isto!’ Et nota quod apud hebraeos aleph est prima litera alphabeti: Graeci vero dicunt alpha; latini a, et ah aliquando est adverbium dolentis, et tunc debet aspirari, et ita capitur hic. Et dicit, ‘con la voce chioccia’, idest rauca et aspera, quia cum indignatione et ira clamabat. Aliqui tamen dicunt quod aleph est vocabulum graecum, et tantum valet, quantum vide; et secundum hoc autor videtur dicere quod Pluto ex admi-
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Due esempi di inordinata locutio: Pluto e Nembrotto
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Il sentimento morale del locutore si può rendere con forza attraverso un agglomerato di interiezioni, e non per mezzo di un linguaggio proposizionale, incapace di adeguarsi al vissuto del soggetto. Pape (dal latino papae, dal greco papai) è, infatti, un’«interiectio admirantis», un «avverbio ammirativo», secondo la spiegazione di Iacopo Alighieri73; «una parte di gramatica – ha scritto l’Ottimo – che ha a dimostrare quella affezione dell’animo, che è con stupore, e maravigliarsi»74. Per quanto riguarda aleppe, le spiegazioni divergono, anche se possono essere considerate complementari. Alcuni vi hanno visto, come Guido da Pisa, un’interiezione di dolore; altri, come Pietro, hanno tradotto il «primo», il «principe», «Dio» («alep idest ‘principalis demon noster’»)75.
ratione coepit vocare Sathan et dicere: ‘Veni et vide rem mirabilem quae raro vel numquam accidit’, et tunc dicetur ‘con la voce chioccia’, idest submissa». 73 IACOPO ALIGHIERI, Chiose all’Inferno, ed. S. Bellomo, Padova 1990 («Medioevo e Umanesimo», 75), p. 113: «Pape è avverbio ammirativo; Satàn nome proprio d’alcun diavolo, cioè d’alcun male volere; Alep in lingua ebrea è in latina A, e altri dissero alpha: però si come principio della scrittura la quale in sè tutto contiene, figurativamente qui si dice alep, cioè Iddio, si come principio di tutto l’universo, maravigliandosi dell’essere del presente autore». 74 L’Ottimo Commento, ed. A. Torri (L’Ottimo commento della Divina Commedia. Testo inedito d’un contemporaneo del poeta citato dagli Accademici della Crusca), 3 voll., Pisa 1827-1829 (ripr. anast., Sala Bolognese 1995), I, p. 108. 75 PIETRO ALIGHIERI, Comentum super poema Comedie Dantis, A Critical Edition of the Third and Final Draft of Pietro Alighieri’s Commentary on Dante’s ‘Divine Comedy’, ed. M. Chiamenti, Arizona 2002 (Arizona Center for Medieval and Renaissance Studies), p. 140: «‘Pape Satan, pape Satan aleppe’. Auctor in hoc capitulo dicit se descendisse in quartum circulum Inferni, in quo fingit puniri animas avarorum et prodigorum simul in volvendo saxa, ut dicit textus, ac fingendo ibi se reperire Plutonem demonem, quem Sacra Scriptura vocat Mamonem, unde dicitur: ‘Nolite vobis facere thesaurum de Mamona iniquitatis’ (Lc 16 [13, ad sens.]) exclamantem, viso auctore vivo, ita ibi per Infernum ambulantem: ‘Pape Satan’, idest ‘o Satan’; Alep, idest ‘principalis demon noster’, sicut est principalis lictera Alep in alphabeto Hebreorum, quid est hoc videre: nam pape interiectio dicitur admirantis». Curiosa, inoltre, la seguente interpretazione di Boccaccio sia su «pape», sia su «aleppe»: cf. GIOVANNI BOCCACCIO, Esposizioni sopra la Comedia di Dante, ed. G. Padoan, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a c. di V. Branca, 10 voll., Milano 1965, VI, pp. 380-381: «Dice adunque che, avendo, come nella fine del precedente canto dimostra, trovato Plutone, ‘il gran nimico’, che esso Plutone, come gli vide, admirative cominciò a gridare e ad invocare il prencipe de’ dimòni, dicendo: ‘Papè’. Questo vocabolo è adverbium admirandi e perciò, quando d’alcuna cosa ci maravigliamo, usiamo questo vocabolo, dicendo: papè!.
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In conclusione, che si tratti di un aiuto richiesto a Satana, di un’invocazione o di una lode (rovesciata) rivolte al principe dei demoni, di una manifestazione improvvisa d’ira, dal punto di vista filosofico-linguistico mi sembra degna di nota la natura squisitamente esclamatoria, non razionale dell’enunciato proferito da Pluto. L’interesse di Dante è rivolto all’intenzione del soggetto, al modo in cui questa intenzione si riverbera nell’espressione, alla relazione stretta tra vizio (etica) e linguaggio; una dinamica che può essere resa con forza da alcune parti del discorso capaci di rinviare al movimento psicologico e all’origine dei personaggi che ne fanno uso.
4. «Raphèl maì amècche zabì almi» Le parole di Nembrotto nel trentunesimo canto dell’Inferno hanno subito la stessa sorte dei versi che Dante mette in bocca a Pluto. Sono stati sottoposti all’ingegno di molti interpreti (del secolo XIX) che, in vista di una soluzione letterale, hanno tradotto in vari modi la frase del gigante. È difficile districarsi tra gli studi consacrati al tema e tra le soluzioni originali offerte. Quanto emerge è che nel corso dei primi cinque secoli, seguiti
E da questo vocabolo si forma il nome del sommo pontefice, cioè ‘papa’, l’autorità del quale è tanta che ne’ nostri intelletti genera ammirazione; e non senza cagione, veggendo in uno uomo mortale l’autorità divina e di tanto signore, quanto è Idio, il vicariato. E i Greci ancora chiamano li lor preti papas, quasi ‘ammirabili’: e ammirabili sono in quanto possono del pane e del vino consecrare il corpo e ‘l sangue del nostro signor Gesù Cristo; e, oltre a ciò, hanno autorità di sciogliere e di legare i peccatori che da loro si confessano delle lor colpe, sì come più pienamente si dirà nel purgatorio, alla porta del quale siede il vicario di san Piero. ‘Satàn’: Satàn e Satanàs sono una medesima cosa, ed è nome del prencipe de’ demòni, e suona tanto in latino quanto ‘avversario’ o ‘contrario’ o ‘transgressore’, per ciò che egli è avversario della verità e nimico delle virtù de’ santi uomini; e similmente si può vedere lui essere stato transgressore, in quanto non istette fermo nella verità nella quale fu creato, ma per superbia trapassò il segno del dovere suo. ‘Papè Satàn’: questa iterazione delle medesime parole ha a dimostrare l’ammirazione esser maggiore; e seguita: ‘aleppe’. Alèp è la prima lettera dell’alfabeto de’ Giudei, la quale egli usano a quello che noi usiamo la prima nostra lettera, cioè a; ed è alep appo gli Ebrei adverbium dolentis; e questo significato dicono avere questa lettera, per ciò che è la prima voce la quale esprime il fanciullo come è nato, a dimostrazione che egli sia venuto in questa vita, la quale è piena di dolore e di miseria».
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alla pubblicazione della Divina Commedia, i primi commentatori hanno tutti concordato sull’assenza di significato delle parole, sull’intima inintelligibilità del verso, creata ad arte dal Poeta per testimoniare la confusione seguita alla sfida che la superbia del gigante ha ingaggiato contro Dio con la costruzione della torre di Babele. Una posizione critica che può essere sintetizzata con le parole di Cristoforo Landino:
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Queste parole niente significano, et posto che significassino non se ne può trarre sentenzia intera. Ma il poeta induce Nembroth parlar chosì per significare la confusione delle lingue che nacque da llui76.
È in particolare nell’Ottocento, quindi, che si assiste alla proliferazione di interpretazioni a sfondo filologico, con l’obiettivo di dare un senso ai versi di Nembrotto, e a dispetto delle intenzioni di Dante dichiarate per mezzo di Virgilio («lasciànlo stare e non parliamo a vòto / ché così è a lui ciascun linguaggio / come ‘l suo ad altrui, ch’a nullo è noto»)77. Si assiste in questo modo a una confusione ermeneutica che nulla aggiunge alla comprensione del canto, confusione che con queste parole ironiche Ugo Foscolo ha descritto: [Nembrotto] era punito a straziare parecchie lingue ad un tratto in guisa che niuno potesse intenderlo mai: nè forse i dottissimi che professano di fargli traduttori sono condannati a pena diversa78.
Alcuni esempi, tratti dal commento alla Divina di Commedia di Giovanni Andrea Scartazzini e da un articolo di Ettore Caccia dell’Enciclopedia Dantesca relativi al tema79, possono dare un senso di quello che definire il capriccio di molti interpreti non sembra esagerato. Giuseppe Venturi ha tradotto «per Dio, e perché mai sono in questo profondo (o pozzo)?
76 CRISTOFORO LANDINO, Comento sopra la Comedia, ed. P. Procaccioli, 4 voll., Roma 2001, II, p. 975. 77 Inf. XXXI 79-81. 78 UGO FOSCOLO, La Commedia di Dante Allighieri, illustrata da Ugo Foscolo, 4 voll., Londra 1842-1843, II, p. 319. 79 Cf. La Divina Commedia di Dante Alighieri, riveduta nel testo e commentata da G. A. Scartazzini, 4 voll., Leipzig 1874-1890, I, pp. 382-388 (nota al v. 67 del canto XXXI); E. CACCIA, s. v. Raphèl maì amècche zabì almi, in ED, IV, pp. 851853.
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«Raphèl maì amècche zabì almi»
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Torna addietro nasconditi!»80. Michelangelo Lanci ha sostenuto che il verso debba spiegarsi facendo ricorso all’idioma arabo, e che per questa ragione debba significare: «Esalta lo splendor mio nell’abisso, siccome rifolgorò per lo mondo»81. I tedeschi Ammon e Flügel hanno tradotto rispettivamente, sempre dall’arabo: «Quam stulte incedit, flumina Orci, puer mundi mei!»; «Genommen hat meinen jetzt meine Welt» («Un pozzo ha rapito il mio splendore, ecco ora il mio mondo!»)82. Così Pietro Giuseppe Maggi nel 1854: «(Del) Gigante all’acqua, al profondo (del) Zabio, contra chi (vieni)?»83. La critica più recente ha mostrato una maggiore accortezza rispetto a queste versioni spericolate, e si è mostrata vicina alla sensibilità dei primi commentatori. Innanzitutto, si è voluta evidenziare la stretta relazione tra la confusione delle lingue, tema centrale del De vulgari e affrontato nel trattato con piglio più teorico, e il canto XXXI dell’Inferno, che secondo un’espressione di Francesco D’Ovìdio ha costruito il verso di Nembrotto «infilzando» sillabe «che non facessero senso», dando «concretezza poetica al concetto babelico e compiere con drammatica convenienza la figura dello strano personaggio»84. La posizione di D’Ovidìo ha il merito non solo di mettere in risalto l’assurdità di ricercare la spiegazione del verso nembrottiano in linguaggi storici, ma anche di cogliere il nesso tra dimensione filosofico-teologica di alcune idee che Dante elabora nei trattati e suo espletamento poetico nel poema, e il connubio o convenientia tra personaggio e il suo parlare. In quest’ultimo caso, va ricordato come già i commentatori antichi sottolineassero l’importanza del peccato di superbia commesso dal gigante, condizione necessaria per chiarire, almeno
80 G. VENTURI, Lettera al Cav. Frecavalli, in S. CENTOFANTI (et al.), Studi inediti su Dante Alighieri, Firenze 1846, pp. 33-37, p. 37, n. 3. (Questa lettera è riportata in due separati numeri 21 e 22 del «Giornale Veronese», 1811). 81 M. LANCI, Dissertazione su i versi di Nembrotte e Pluto nella Divina Commedia di Dante, Roma 1819, p. 27. 82 La Divina Commedia..., riveduta… da G. A. Scartazzini cit. (alla nota 79), p. 383. 83 P. G. MAGGI, Di un verso della Divina Commedia di Dante e delle notizie che a’ suoi tempi si aveva delle lingue orientali, in «Giornale dell’I. R. Istituto Lombardo di scienze, lettere ed arti e Biblioteca Italiana», 6.33 (1854), pp. 178-186, p. 181. 84 D’OVÌDIO, Dante e la filosofia del linguaggio cit. (Introd., alla nota 12), p. 497.
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da un punto di vista filosofico, quello che già da adesso, sulle tracce di quanto stabilito nel paragrafo precedente, può essere definito un linguaggio disordinato; meglio: una inordinata locutio tale da rasentare un mutismo concettuale. Aspetto evidenziato con particolare energia da Benvenuto da Imola che ha parlato di «verba non significativa»85. Molto più tardi Ernesto Giacomo Parodi si esprimerà in questi termini: «Le parole di Nembrotte che, con quel Rafel in cima, simulante un nome proprio, hanno l’aria di una (...) rabbiosa o paurosa invocazione, in un linguaggio bambinescamente storpiato e smozzicato, e, con quegli i di maì e di zabì, rendono un bizzarro e comico suono di guaito»86. Insomma, come ha visto Alberto Chiari si tratta di un grido prodotto da rabbia, e comune a tutti i guardiani dell’Inferno87. Ripercorrere la vicenda che ha portato gli uomini alla confusione delle lingue, così come il soggetto è affrontato nel De vulgari, e descrivere lo stato psicologico-morale del protagonista di questa vicenda di superbia umana, il mitico Nembrot, sono le due strade obbligate da percorrere per fare luce sul canto XXXI e sulla riflessione linguistica di Dante.
a) La confusio linguarum Per tutto il mondo cristiano l’episodio della torre di Babele rappresenta il nodo centrale della storia linguistica dell’umanità88. Il racconto del Gene-
85 Cf. BENVENUTO DA IMOLA, Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam, ed. Lacaita cit. (cap. 2, alla nota 18), II, pp. 464-465: «Hic autor describit loquelam gigantis, ut ostendat quomodo iste superbia sua fuit autor confusionis linguarum; unde dicit: ‘la fera bocca’, scilicet istius feroci Nembroth, ‘cui non se convenia più dolci salmi cominciò a gridar’, et dicere ista verba, ‘Raphel maì amech zabì almi’. Ad cuius intelligentiam est hic notandum, quod ista verba non sunt significativa, et posito quod in se aliquid significarent, sicut aliqui interpretari conantur, adhuc nihil significarent hic, nisi quod ponuntur ad significandum quod idioma istius non erat intelligibile alicui, quia propter eius superbiam facta est divisio labiorum. Et haec est intentio autoris quam expresse ponit in litera». 86 E. G. PARODI, Poesia e storia nella Divina Commedia. Studi critici, Napoli 1920, p. 160. 87 Cf. A. CHIARI, Il canto dei giganti, in «Convivium», 22 (1954), pp. 271-283. 88 Cf. A. BORST, Der Turmbau von Babel. Geschichte der Meinungen über Ursprung und Vielfalt der Sprachen und Völker, 4 voll., Stuttgart 1957-1963.
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«Raphèl maì amècche zabì almi»
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si è punto di riferimento autorevole che suggella teologicamente, e quindi secondo canoni certi, la dispersione degli uomini sulla terra e la moltiplicazione dei loro linguaggi. Prima della costruzione della torre gli uomini godevano di un linguaggio comune e di una lingua unica («erat autem terra labii unius et sermonum eorundem»), fino a che gli abitanti della terra di Senaar comunicandosi l’un l’altro («dixitque alter ad proximum suum») un proposito sconsiderato progettarono la costruzione di una torre «cuius culmen pertingat ad caelum». A questa sfida il racconto biblico fa corrispondere l’intervento di Dio, che si mostra particolarmente machiavellico: non si limita, come avrebbe potuto secondo l’onnipotenza implicita nella sua natura, a una distruzione generalizzata e indiscriminata della città, ma affinché la punizione potesse essere più duratura rende impotente lo strumento sul quale la città si regge, il linguaggio: Descendit autem Dominus ut videret civitatem et turrim quam aedificabant filii Adam et dixit: «Ecce unus est populus et unum est labium omnibus; ceperunt hoc facere nec desistent a cogitationibus suis donec eas opere compleant; venite igitur descendamus et confundamus ibi linguam eorum, ut non audiat unusquisque vocem proximi sui». Atque ita divisit eos Dominus ex illo loco in universas terras et cessaverunt edificare civitatem (Gen 11, 5-8).
Già nell’immediatezza della narrazione genesiaca vi sono quegli elementi fondamentali che saranno ripresi con forza nel De vulgari, e che fanno dell’episodio di Babele un racconto a carattere politico-morale, costruito sul nesso città-lingua. Nel settimo capitolo del trattato latino, libro I (47), Dante afferma che tutto il genere umano aveva desiderato quest’opera d’iniquità («coierat», scrive il Poeta, termine ripreso puntualmente in Inf. XXXI 77, il «mal coto» di Nembrotto): alcuni dirigevano lavori, altri li progettavano, gli uni costruivano muri, altri li squadravano livellandoli; vi era chi attendeva a spaccare le pietre, chi a trasportarle per mare e per terra; quando dal cielo furono colpiti da una così grande confusione che, tutti, differenziati in più lingue, dovettero rinunciare all’impresa e mai più poterono ritrovarsi in un’opera comune («numquam a idem commertium convenirent»)89.
89 Cf. De vulg. I vii 4-7: «Presumpsit ergo in corde suo incurabilis homo, sub persuasione gigantis Nembroth, arte sua non solum superare naturam, sed etiam ipsum naturantem, qui Deus est, et cepit hedificare turrim in Sennaar, que postea
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Due esempi di inordinata locutio: Pluto e Nembrotto
Nell’ottica del fiorentino, l’episodio di Babele è quindi concepito come risultato di un’impresa, dove gli uomini sono coordinati dal linguaggio, che palesa la sua funzione di strumento tecnico, attraverso il quale è possibile scambiare secondo un fine prestabilito (nel nostro caso, un’opera iniqua) un flusso continuo di informazioni90. Il termine «commertium» è indicativo, e rivela l’essenza del linguaggio: mettere in comunicazione specie diverse di lavoro e, allo stesso tempo, uomini diversi, individui che senza parola non avrebbero mai potuto manifestare agli altri la loro intima razionalità e i loro intimi propositi. Il linguaggio supera le barriere dell’individualità, e mette l’uomo nella condizione di elevarsi da un possibile stato di solipsismo, in cui l’universo si presenta come una moltiplicazione di tante monadi senza finestre che possano aprire ad altre
dicta est Babel, hoc est ‘confusio’, per quam celum sperabat adscendere, intendens inscius non equare, sed suum superare Factorem. O sine mensura clementia celestis imperii! Quis patrum tot sustineret insultus a filio? Sed exurgens, non hostili scutica sed paterna et alias verberibus assueta, rebellantem filium pia correctione nec non memorabili castigavit. Siquidem pene totum humanum genus ad opus iniquitatis coierat: pars imperabant, pars architectabantur, pars muros moliebantur, pars amussibus regulabant, pars trullis linebant, pars scindere rupes, pars mari, pars terra vehere intendebant, partesque diverse diversis aliis operibus indulgebant; cum celitus tanta confusione percussi sunt ut, qui omnes una eademque loquela deserviebant ad opus, ab opere multis diversificati loquelis desinerent et nunquam ad idem commertium convenirent». 90 Giorgio Stabile ha parlato opportunamente di una confusio labiorum che si riflette in una confusio laborum. Ha riportato questo bel passo di Nicola di Lyra per corroborare la sua tesi: cf. NICOLA DI LYRA, Glossa ordinaria ad Gen 11, 8, Biblia Sacra cum glossis interlineari et ordinaria, I, ed. Venezia 1588, f. 59b (citato in STABILE, La torre di Babele cit. [alla nota 43], p. 248): «Cessaverunt aedificare: quia quando unus petebat lapides alter portabat sibi cementum, vel aliquid simile, et sic credebat unus se derideri ab alio, propter quod mota est inter eos rixa, et contentio, et sic oportuit quod cessarent ab aedificando: et idcirco vocatum est nomen eius Babel id est confusio vel, secundum proprietatem hebraici sermonis, id est mixtio; quia homines ad invicem mixti non intelligebant se mutuo propter multitudinem idiomatum». Mi permetto di aggiungere il seguente passo de La Mappemonde di Pierre de Beauvais (secoli XII-XIII), vv. 647-658, éd. A. Angremy, La Mappemonde de Pierre de Beauvais, in «Romania», 104 (1983), [pp. 457-498], p. 478: «Babel, ce dist l’esponsïons / ce est tout droit confusïon, / car la fu müez li langages / ou li ouvrier entr’eus estoient, / que si haut durement ouvroient / que li uns l’autre n’entendoit, / car quant li uns d’aus demandoit / pierre, si li portoit mortier / ou chose dont n’avoit mestier. / Si faitement fu la müez, / li langajes con vos oëz».
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monadi. Solo grazie alla parola l’uomo perfeziona la sua essenza, vivere nella città e realizzare la sua natura di animale politico91. Da questo si deduce come l’assenza di un linguaggio unico, capace di coordinare uomini e lavoratori diversi, faccia arretrare gli esseri umani a uno stato di brutalità, cosa evidente in un altro passaggio del De vulgari,
91 Cf. TOMMASO D’AQUINO, Sententia libri Politicorum, I, 1/b, 1253 a7, ed. Leonina cit. (cap. 1, alla nota 4), XLVIII/A, Roma 1971, pp. 78-79, 112-154: «Deinde cum dicit quod autem civile animal etc., probat ex propria operatione hominis quod sit animal civile, magis etiam quam apis, et quam quodcumque gregale animal, tali ratione. Dicimus enim quod natura nihil facit frustra, quia semper operatur ad finem determinatum. Unde, si natura attribuit alicui rei aliquid quod de se est ordinatum ad aliquem finem, sequitur quod ille finis detur illi rei a natura. Videmus enim quod cum quaedam alia animalia habeant vocem, solus homo supra alia animalia habeat loquutionem. Nam etsi quaedam animalia loquutionem humanam proferant, non tamen proprie loquuntur, quia non intelligunt quid dicunt, sed ex usu quodam tales voces proferunt. Est autem differentia inter sermonem et simplicem vocem. Nam vox est signum tristitiae et delectationis, et per consequens aliarum passionum, ut irae et timoris, quae omnes ordinantur ad delectationem et tristitiam, ut in secundo ethicorum dicitur. Et ideo vox datur aliis animalibus, quorum natura usque ad hoc pervenit, quod sentiant suas delectationes et tristitias, et haec sibiinvicem significent per aliquas naturales voces, sicut leo per rugitum, et canis per latratum, loco quorum nos habemus interiectiones. Sed loquutio humana significat quid est utile et quid nocivum. Ex quo sequitur quod significet iustum et iniustum. Consistit enim iustitia et iniustitia ex hoc quod aliqui adaequentur vel non aequentur in rebus utilibus et nocivis. Et ideo loquutio est propria hominibus; quia hoc est proprium eis in comparatione ad alia animalia, quod habeant cognitionem boni et mali, ita et iniusti, et aliorum huiusmodi, quae sermone significari possunt. Cum ergo homini datus sit sermo a natura, et sermo ordinetur ad hoc, quod homines sibiinvicem communicent in utili et nocivo, iusto et iniusto, et aliis huiusmodi; sequitur, ex quo natura nihil facit frustra, quod naturaliter homines in his sibi communicent. Sed communicatio in istis facit domum et civitatem. Igitur homo est naturaliter animal domesticum et civile». Sulla natura politica del linguaggio negli scritti danteschi, il De vulgari e la Monarchia su tutti, si vedano i seguenti contributi: R. IMBACH - I. ROSIER-CATACH, De l’un au multiple, du multiple à l’un - clef d’interprétation pour le De vulgari eloquentia, in La résistible ascension des vulgaires. Contacts entre latin et langues vernaculaires au bas Moyen Âge. Problèmes pour l’historien, éd. B. Grevin, Roma 2005 (Mélanges de l’Ecole Française de Rome - Moyen Âge, 117.2), pp. 509-529; R. IMBACH, Quattro idee sul pensiero politico di Dante Alighieri, in «L’Alighieri», 28 (2006), pp. 41-54; I. ROSIER-CATACH, Man as a Speaking and Political Animal, in Dante’s Plurilingualism: Authority, Vulgarization, Subjectivity, edd. S. Fortuna - M. Grignolati - J. Trabant, Oxford 2010, pp. 34-51.
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dove non a caso sono riutilizzati i due termini chiave «species» e «commertium». Nel secondo capitolo del primo libro Dante specifica l’essenza della locutio e ritiene che questa sia superflua tra gli animali, esseri inferiori, governati come sono dal puro istinto. Anzi, sottolinea l’Autore, è da ritenere che la locutio possa essere dannosa tra animali di specie diversa, in quanto la natura ha stabilito che tra di essi non debba esserci «amicabile commertium»: Inferioribus quoque animalibus, cum solo nature instinctu ducantur, de locutione non oportuit provideri: nam omnibus eiusdem speciei sunt iidem actus et passiones, et sic possunt per proprios alienos cognoscere; inter ea vero que diversarum sunt specierum non solum non necessaria fuit locutio, sed prorsus dampnosa fuisset, cum nullum amicabile commertium fuisset in illis92.
Come tra le specie di esseri inferiori non esiste alcun tipo di comunicazione, così nell’episodio di Babele, concepito nel trattato, ogni categoria di lavoratori ha perduto la possibilità di manifestare ai colleghi di altra specie lavorativa i propri intenti, abbassando la propria natura a uno stato di brutalità, di inimicabile commertium. Nelle diverse interpretazioni dell’episodio di Babele susseguitesi in epoca medievale, la posizione del De civitate Dei di Agostino sul tema può fare luce sui passaggi del De vulgari, che stabiliscono in modo originale il nesso tra parola, confusio linguarum e istanze politico-morali sottaciute. Scrive Agostino che con l’impresa di Nembrot fu condannata la sciocca presunzione umana («vana praesumptio») di voler raggiungere le altezze divine. A essere punito fu un «malus affectus», una cattiva disposizione d’animo, radicata in modo estremo in colui che governò la città, il «venator contra Dominum» Nembrot. Poiché è attraverso la lingua che si esercitano il dominio e il potere («quoniam dominatio imperantis in lingua est»), in essa fu punita la superbia, in modo che chi impartiva ordini non fosse compreso da nessuno. Così la conspiratio fu sciolta, e, come afferma Agostino, ognuno abbandonò il proprio simile, per unirsi ai soli individui con i quali poteva comprendersi: Erigebat ergo cum suis populis turrem contra Dominum, qua est impia significata superbia. Merito autem malus punitur affectus, etiam cui non succedit
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effectus. Genus vero ipsum poene quale fuit? Quoniam dominatio imperantis in lingua est, ibi damnata est superbia, ut non intelligeretur iubens homini, qui noluit intelligere ut obediret Deo iubenti. Sic illa conspiratio dissoluta est, cum quisque ab eo quem non intelligebat, abscederet, nec se nisi ei, cum quo loqui poterat, aggregaret: et per linguas divisae sunt gentes, dispersaeque per terras, sicut Deo placuit, qui hoc modis occultis nobisque incomprehensibilibus fecit93.
Agostino pone l’accento non solo sul rapporto lingua-impresa, ma in particolare sul nesso lingua-potere-disposizione d’animo (il «malus affectus»), riproponendo una dottrina linguistica che abbiamo già incontrato a proposito della menzogna: l’esistenza di una relazione tra ciò che si ha nel cuore e quanto si rivela nel discorso. Lo stesso Dante sembra muoversi in quest’ottica, non a caso parla di un uomo che alla vigilia della costruzione della torre «presumpsit in corde suo», aggiungendo un particolare che illumina sul ruolo di dirigente del gigante: l’umanità fu spinta a quest’opera iniqua «sub persuasione» di Nembrot, sotto la suggestione del gigante, la cui scienza prevede evidentemente anche una certa abilità nell’utilizzo degli strumenti retorico-linguistici94. Prima di verificare come questi elementi teorici si riflettano nella costruzione poetica del canto XXXI dell’Inferno, si ritiene importante offrire un esempio ulteriore di commento politico-morale al passo di Genesi in questione, non per rintracciare una filiazione diretta tra una fonte ipotetica e l’interpretazione biblica di Dante, quanto per far emergere la ricchezza filosofica dell’ambiente in cui il Poeta elabora le sue idee. In un commento al Genesi del tempo di Dante, un autore anonimo coglie nell’avidità e nel desiderio di esercitare un potere tirannico le motivazioni principali che hanno portato alla costruzione della torre, simbolo visibile di questo potere perverso95. La pace di un regno (la sua
93 AGOSTINO DI IPPONA, De civitate Dei, XVI, 4, PL 41, 483, edd. B. Dombart - A. Kalb, 2 voll., Turnhout 1955 (CCSL, 47-48), II, p. 505, 53-64. 94 Sul rapporto sapienza-Nembrot cf. R. LEMAY, Le Nemrod de l’Enfer de Dante et le Liber Nemroth, in «Studi danteschi», 40 (1963), pp. 57-128. Cf. inoltre I. ROSIER-CATACH - G. GAMBALE, Confusio et variatio selon les anciens commentateurs de la Commedia, in «Bollettino d’italianistica», n. s., 7.2 (2010), pp. 78-119. 95 Per le notizie su questo autore, probabilmente un discepolo di Pietro di Giovanni Olivi, cf. S. PIRON, Note sur le commentaire sur la Genèse publié dans les œuvres de Thomas d’Aquin, in «Oliviana», 1 (2003) (rivista on line). Cf. anche
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stabilità e unità) può costruirsi solo nel nome di Dio, mentre oltraggiosa risulta l’unione degli uomini al di fuori del progetto divino e in nome di un capo che ha avuto la pretesa di «fundare in aeternum» un unico potere per tutto il regno terrestre («pro uno totius mundani regni»). E quale migliore punizione, si chiede il commentatore, per rompere questa «perversa pax» e questa «unitas Deo contumeliosa»96, se non confondere lo strumento principe attraverso il quale questo patto scellerato tra sudditi e reggenti è avvenuto? La giustizia divina è impeccabile, di una razionalità
I. ROSIER-CATACH - R. IMBACH, La tour de Babel dans la philosophie du langage de Dante, in Zwischen Babel und Pfingsten cit. (cap. 2, alla nota 118), pp. 183-204. 96 [IGNOTUS AUCTOR], Postilla seu expositio aurea in librum Geneseos, in TOMMASO D’AQUINO, Opera Omnia, Parma 1869, XXIII, [pp. 1-133], p. 50: «Nota, inquam, primo rectam correspondentiam eius ad culpam pro qua est datum. Erat enim in illis perversa pax et unitas Deo valde contumeliosa, ipsisque damnosa, et electis onerosa et periculosa. Sicut enim nihil melius quam omnes insimul fortissime uniri in Deo et in omni bono: sic nihil peius quam omnes fortissima conspiratione uniri ad malum. Sicut etiam Deo nihil magis honorificum quam quod omnia sibi soli ut summo capiti cohaereant et subjiciantur, nihilque aliud defendere aut magnificare appetant, nisi Dei imperium ac principatum. Et e contra nihil Deo contumeliosius ac intolerabilius, quam quod omnes Deo et eius regno neglecto, aliquod caput et regnum sibi statuant toto posse. Erat ne ergo tolerandum quod homines paulo post tantum diluvium de novo propagati, unum vilem tyrannum, scilicet Nemroth, quasi unum caput omnium statuerent, et intra unam urbem, pro uno totius mundani regni capite conarentur quasi in aeternum fundare? Sicut autem superbis ad omnem machinationem semper intentis, magnitudo potestatis aderat valde nociva: sic quam plurimum expedit eis quod talis potestas aut omnino tollatur eisdem, aut saltem confringatur, et dividatur et impediatur. Scimus autem quod humanae dominationis potestas ex unica et concordi hominum multitudine consurgit et corroboratur; et ideo, quando superbe et pertinaciter conspirant ad malum, multum eis expedit quod dividantur. Sicut etiam electis plurimum prodest habere multos inductores et quasi compulsores ad bonum, sic eis est periculosissimum et multum onerosum, cum verbo et facto, doctrina et exemplo ab omnibus instigantur et compelluntur ad malum. Et sicut iucundum est electis potentiam et gloriam reproborum videre humiliatam et annullatam: sic valde est onerosum quando contrarium vident; et praecipue si in aeternum aut in tempus nimis longum semper excresceret aut perduraret». L’editore di questo testo, Antonius Senensis OP, nominato il Lusitanus, aveva collaborato all’edizione delle opere di Tommaso commissionata da Pio V. Professore di teologia a Lovanio, si mette alla ricerca dei manoscritti tommasiani. È nel convento francescano di Middelburg che dice di aver trovato un manoscrito che contiene un’expositio al Genesi, esplicitamente attribuita a Tommaso.
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stringente, «bella»: chi ha peccato con la lingua, per mezzo della lingua sarà punito:
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Quid autem aptius et pulchrius ad praedictorum impiam unitatem et potestatem dissecandam et confringendam, quam linguarum divisio et confusio? Per hanc enim fit ut ampliorem societatem homo habeat cum sua carne, quam cum hominibus, quorum linguae sunt sibi mutuo barbarae et ignotae. Per hanc etiam factum est ut his qui Deo non obediebant, et subditi non solum eis non obedirent, imo nec eorum monita vel praecepta intelligere possent97.
Se il passaggio del De vulgari relativo alla sfida di Nembrot lo si legge secondo la lente della politica, è possibile intravedere un filo sottile che attraversa il trattato latino, la Divina Commedia e il progetto di monarchia universale concepito nel De monarchia. È sulla traccia di questo nesso che André Pézard ha interpretato il trentunesimo canto dell’Inferno98. Nembrot ha giocato un ruolo «storico», prima che allegorico, nella visione dell’autore fiorentino, così come nella visione del cronachista Giovanni Villani, il quale ha scritto: Noi troviamo per le storie della Bibbia e per quelle degli Asseriani, che Nembrot il gigante fu il primo re, ovvero rettore e ragunatore di congregazione di genti; ch’egli per la sua forza e séguito signoreggiò tutte le schiatte de’ figliuoli di Noé, le quali furono settantadue99.
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Ibid., p. 50. Cf. A. PÉZARD, Le chant des Géants, in «Bulletin de la Société d’Etudes Dantesques du Centre Universitaire Méditerranéen», 7 (1958), pp. 53-72. Secondo alcuni commentatori contemporanei, la concezione della confusio linguarum, con riferimento alla vita cittadina, possiede un significato politico latente, l’avversione antimunicipale viscerale e ossessiva di cui Dante è portatore. Cf. TAVONI - GOMEZ PALLARÈS, De vulgari eloquentia cit. (cap. 1, alla nota 10); Z. BARAN´ SKI, Inferno VI 73: A Controversy Re-examined, in «Italian Studies», 36 (1981), pp. 1-26 (tr. it. in ID., «Sole nuovo» cit. [Introd., alla nota 2], pp. 183-219). 99 GIOVANNI VILLANI, Nuova Cronica, I, 2, ed. G. Porta, 3 voll., Parma 1990, I, 2, p. 5. Il passo continua in questo modo, ibid., I, 2-5, pp. 5-10: «Furono ventisette quelle che usciron di Sem il primo figliuolo di Noè, e trenta quelle di Cam il secondo figliuolo di Noè, e quindici quelle di Giafet il terzo figliuolo di Noè. Questo Nembrot fu figliuolo di Cus che fu figliuolo di Cam (...) e per lo suo orgoglio e forza si credette contrastare a Dio, dicendo che Iddio era signore del cielo, ed egli della terra; e acciocché Dio non gli potesse più nuocere per diluvio d’acqua, come avea fatto alla prima etade, si ordinò di fare la meravigliosa opera di 98
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Sempre secondo Villani, Nino, il quale occupa un posto esemplare nella Monarchia di Dante, fu discendente del gigante. Re di Assiria, e marito di quella Semiramide definita nell’Inferno «imperadrice di molte favelle»100, Nino fu il primo a tentare l’avventura della monarchia universale riservata a Roma. La sua si rivelò una disfatta, perché il progetto non fu concepito nel giudizio di Dio, l’unico a legittimare la creazione di un impero che includa nei suoi confini diversi popoli. La confusione delle lingue e la caduta di Babele preludono, pertanto, alla disfatta di Babilonia, simbolo ulteriore della impossibilità e dell’inutilità di opporre le proprie volontà a quelle divine, le sole a dare un senso di ordine e di unità alle dinamiche della storia101.
Babel; onde Dio per confondere il detto orgoglio, subitamente mandò confusione in tutti i viventi, e che operavano la detta torre fare; e dove tutti parlavano una lingua, ciò era l’ebrea, si variaro in settantadue diversi linguaggi, che l’uno non intendea l’altro. E per cagione di ciò rimase il lavoro della detta torre, la quale era sì grande, che girava ottanta miglia (...). E poi quella torre rimase per le mura della grande città di Babilonia (...) e tanto è a dire Babilonia, quanto confusione (...). E fu cominciata la detta torre, ovvero mura di Babilonia, settecento anni appresso che fu il diavolo, e duemila trecento cinquanta quattro anni dal cominciamento del secolo infino alla confusione della torre di Babel. E troviamo che si penò a fare anni cento sette: e le genti viveano più lungamente. E nota che in lunga vita, avendo più mogli, aveano molti figliuoli e discendenti, e multiplicaro in molto popolo, tutto fosse disordinato e sanza legge. Della detta città di Babilonia fu prima re che cominciasse battaglie Nino figliuolo di Belo, disceso di Assur figliuolo di Sem, il quale Nino fece la grande città di Ninive; e poi dopo lui regnò Semiramide sua moglie in Babilonia, che fu la più crudele e dissoluta femmina del mondo, e questa fu al tempo di Abraam. Per la cagione della detta confusione, convenne di necessità ch’e’ tribi e schiatte de’ viventi ch’allora erano, si dipartissero e abitassono diversi paesi; e la prima generale partigione fu, che in tre parti si divise il mondo, per le schiatte de’ primi tre figliuoli di Noè. La prima e maggiore parte si chiamò Asia (...). La seconda parte si chiamò Affrica (...). La terza parte del mondo si chiama Europa (...). Questa Europa prima fu abitata da’ discendenti di Giafet, il terzo figliuolo di Noè (...) ed eziandio Noè in persona con Giano suo figliuolo, il quale ebbe poiché fu il diluvio, ne vennero in questa parte d’Europa nelle parti d’Italia, e là finì sua vita (...)». 100 Inf. V 54. 101 Cf. Mon. II viii 1-3: «Ille igitur populus qui cunctis athletizantibus pro imperio mundi prevaluit, de divino iudicio prevaluit. Nam, cum diremptio universalis litigii magis Deo sit cure quam diremptio particularis, et in particularibus litigiis quibusdam per athletas divinum iudicium postulamus iuxta iam tritum proverbium ‘Cui Deus concedit, benedicat et Petrus’, nullum dubium est quin
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Da qualsiasi punto di vista la si voglia interpretare (storico, filosofico o teologico), la figura di Nembrot simboleggia un disordine della mente, una lontananza qualitativa tra cielo e terra, una mancata corrispondenza tra intenti umani e divini. In altri termini, Nembrot è simbolo di superbia102, peccato capitale che consiste nel non riconoscere l’ordine gerarchico universale stabilito una volta per tutte dalla volontà e dalla scienza di Dio. Com’è noto, la superbia è il peccato di Lucifero, la cui colpa primigenia è consistita nel deformare l’opera divina, nel volgersi dal bene supremo al suo proprio bene, aspirando a un’improbabile autosufficienza che in modo inesorabile lo ha portato alla rovina. Questo orgoglio si è insinuato nel creato, e ha trascinato Adamo ed Eva nel peccato, quest’ultimo tangibile a sua volta in alcuni eventi che hanno scandito le tappe della vicenda umana, come l’empio proposito di costruire la torre di Babele. Si tratta di un desiderio di superiorità a rovescio, conseguenza dell’abbandono dell’autorità a cui si deve aderire, il bene immutabile, il solo capace di dare uno slancio e un’apertura all’uomo, che altrimenti farebbe di se stesso l’unico fine al quale tendere, con il rischio in questo caso di accecarsi e gelarsi, perché lontano dalla luce di un bene superiore. «Tenebresceret et frigesceret», scrive Agostino riferendosi alle conseguenze della superbia, usando due termini che descriverebbero in modo adeguato le tenebre e il gelo della Giudecca, dove immobili sotto il ghiaccio sono puniti i traditori e Lucifero, colui che «contra ‘l suo fattore alzò le ciglia»103. L’immobilità, la chiusura in sé, la lontananza da una fonte luminosa, la discordia interiore, la rovina, da intendere in senso spirituale e materia-
prevalentia in athletis pro imperio mundi certantibus Dei iudicium sit secuta. Romanus populus cunctis athletizantibus pro imperio mundi prevaluit: quod erit manifestum – si considerantur athlete – si consideretur et bravium sive meta. Bravium sive meta fuit omnibus preesse mortalibus: hoc enim ‘Imperium’ dicimus. Sed hoc nulli contigit nisi romano populo; hic non modo primus, quin etiam solus actigit metam certaminis, ut statim patebit. Primus nanque in mortalibus, qui ad hoc bravium anelavit, Ninus fuit Assiriorum rex: qui quamvis cum consorte thori Semiramide per nonaginta et plures annos, ut Orosius refert, imperium mundi armis temptaverit et Asyam totam sibi subegerit, non tamen occidentales mundi partes eis unquam subiecte fuerunt». 102 Sulla superbia cf. F. FORTI, s. v. Superbia, in ED, V, pp. 484-487; CASAGRANDE - VECCHIO, I sette vizi cit. (alla nota 63), in partic. pp. 3-35. 103 Inf. XXXIV 35.
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le, sono le pene, ricorda Agostino, che convengono a colui che perverte l’ordine di Dio104.
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b) L’«argomento de la mente» Ora si tratta di verificare come tutti questi elementi, che vanno dalla confusione di Babele, alla superbia e al ruolo di reggente-istigatore che la leggenda attribuisce a Nembrot105, contribuiscano alla strutturazione di quello che per antonomasia è definito il canto dei giganti. La Divina Commedia mette in scena letteralmente alcune idee che Dante elabora in modo più o meno sistematico nel De vulgari. I luoghi, i personaggi e le parole che si succedono lungo il percorso del pellegrino si presentano come altrettanti frammenti di teoria; sono il discorso plastico attraverso il quale l’Autore enuncia concezioni filosofiche e teologiche; concentrano un microcosmo di pensieri che prende forza solo per mezzo della poesia. Per questo il verso enigmatico di Nembrot nella sua insensatezza dice più di quanto un trattato avrebbe potuto argomentare su una specifica dottrina; anzi, attraverso la lente del mondo ultraterreno realizza una teoria sul linguaggio che il De vulgari, libro terreno, ha potuto elaborare solo parzialmente.
104 Cf. AGOSTINO DI IPPONA, De civitate Dei, XIV, 13, PL 41, 420-422, edd. Dombart - Kalb cit. (alla nota 93), pp. 434, 5-14 e 436, 62-67, 69-74: «Quid est autem superbia nisi perversae celsitudinis appetitus? Perversa enim est celsitudo deserto eo, cui debet animus inhaerere, principio sibi quodammodo fieri atque esse principium. Hoc fit, cum sibi nimis placet. Sibi vero ita placet, cum ab illo bono immutabili deficit, quod ei magis placere debuit quam ipse sibi. Spontaneus est autem iste defectus, quoniam, si voluntas in amore superioris immutabilis boni, a quo illustrabatur ut videret et accendebatur ut amaret, stabilis permaneret, non inde ad sibi placendum averteretur et ex hoc tenebresceret et frigesceret (...). Plus autem appetendo minus est, qui, dum sibi sufficere deligit, ab illo, qui ei vere sufficit, deficit. Illud itaque malum, quo, cum sibi homo placet, tamquam sit et ipse lumen, avertitur ab eo lumine, quod ei si placeat et ipse fit lumen: illud, inquam, malum praecessit in abdito, ut sequeretur hoc malum quod perpetratum est in aperto (...). Illa prorsus ruina, quae fit in occulto, praecedit ruinam, quae fit in manifesto, dum illa ruina esse non putatur. Quis enim exaltationem ruinam putat, cum iam ibi sit defectus, quo est relictus Excelsus? Quis autem ruinam esse non videat, quando fit mandati evidens atque indubitata transgressio?». 105 Cf. anche G. R. SAROLLI, s. v. Nembrot, in ED, IV, pp. 34-35.
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Questo discorso non vale solo per Nembrot, ma anche per quei personaggi demoniaci messi a guardia all’entrata dei diversi gironi che costellano l’Inferno, e le cui parlate sembrano racchiudere, sotto il velame, specifici temi con riferimento al linguaggio, tematiche normalmente dibattute in epoca medievale con strumenti differenti. Lontani dalla luce dell’Amore, dall’armonia che propaga dal Bene immutabile, tutti i custodi dell’Inferno sono esseri difformi che riflettono il loro disordine interiore in un linguaggio inintellegibile, barbaro, qualcosa di disumano. Sono exempla che testimoniano la relazione tra morale e parola, tra vizio e dissonanza linguistica. Flegiàs, descritto già da Virgilio nel VI dell’Eneide tra gli abitanti del Tartaro come colui che grida «magna voce per umbras»106, diviene nella Divina Commedia il simbolo dell’ira cieca. E conformemente al tratto virgiliano a lui si addice soltanto il verbo «gridare», adeguato al furore e ai propositi di vendetta che dominano nel cerchio («gridava [...] gridi; forte [...] gridò»)107. Una totale assenza di riflessione, una violenza senza discernimento si manifestano nel grido di Flegiàs che accoglie per la prima volta il pellegrino. Il custode non è in grado di riconoscere il vivente che gli viene incontro, e distinguere la natura di quest’ultimo dalle anime dei morti, se non attraverso l’ammonimento di Virgilio: Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a voto108.
Allora il demone è posseduto da un’ira «accolta», una collera repressa che si addice allo scoppio di violenza per mezzo del quale si è manifestato precedentemente agli occhi dei due viandanti. Minosse è un altro guardiano dell’Inferno. Mitico re di Creta, figlio di Giove ed Europa, nel disegno del poema questo personaggio diventa una figura animale, un mostro canino che annuncia alle anime la pena eterna girando la coda tante volte quanto il numero dei cerchi assegnato al peccatore. È un esempio ulteriore di animalità infernale, di degradazione umana allo stato di bestialità, che non si esprime per un linguaggio chiaro, ma attraverso suoni orribili che rispecchiano la sua condizione orribile:
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VIRGILIO, Aeneis, VI, v. 619. Inf. VIII 18-19; 80-81. 108 Inf. VIII 19. 107
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Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia109.
Un altro caso eclatante è rappresentato da Cerbero, il quale con «tre gole caninamente latra»110. Qui la descrizione dantesca sembra filosoficamente precisa, in quanto ricorda i dibattiti sul linguaggio in cui il latratus canis è tópos ricorrente di suono naturale, opposto alla parola regolata di cui l’uomo è portatore111. Il girone degli ingordi, con il suo guardiano e con la pioggia che fa «urlar» i dannati «come cani»112, diventa un esempio di significazione naturale e interiettiva dove il suono manifesta una sensazione, un sentimento o un bisogno che appartengono all’anima del locutore. Ancora una volta, lo statuto morale del parlante-personaggio e la parola sono indissolubilmente uniti. Il canto XXXI dell’Inferno, con il gigante Nembrot posto a guardia di un nuovo cerchio, introduce a una delle esperienze moralmente più dure del viaggio dantesco113. Inizia un nuovo corso, l’ultimo della cantica, e ci si accinge ad affrontare la discesa nel fondo in cui sono puniti i traditori. Si sta volgendo le spalle al mondo della violenza e della frode, e quella che comincia è una fase che porterà direttamente al centro della terra, dove immobile Lucifero paga il conto del suo movimento sconsiderato, la ribellione contro Dio. I due pellegrini procedono lentamente, allontanandosi dal mondo tumultuoso dei cerchi precedenti. Sono in silenzio, e «sanza alcun sermone» procedono nell’oscurità. Si ripresenta l’assenza 109
Inf. V 4. Inf. VI 14. 111 Cf. U. ECO et al., On Animal Language in the Medieval Classification of Signs, in «Versus», 38-39 (1984), pp. 3-38; U. ECO, Latratus canis, in «MicroMega», 1 (1987), pp. 73-82. Su questo specifico aspetto linguistico legato a Cerbero, cf. BARAN´ SKI, La linguistica scritturale cit. (Introd., alla nota 2), in partic. pp. 98-101. 112 Inf. VI 19. 113 Cf. supra, Introd., nota 12. Cf. inoltre: G. M. DI ALEPPO, Rafel mai amech zabi almi (Inf. XXXI 67): interpretazione di un linguaggio «a nullo noto», Palermo 1907; NARDI, Dante e la cultura medievale cit. (Introd., alla nota 7), in partic. pp. 190-197; ID., Intorno al Nembrot dantesco e ad alcune opinioni di Richard Lemay, in «L’Alighieri», 6 (1965), pp. 47-73 (ripr. in ID., Saggi e note di critica dantesca, Milano - Napoli 1966 [1960¹], pp. 367-376); PÉZARD, Le chant des Géants cit. (alla nota 98); CHIARI, Il canto cit. (alla nota 87); LEMAY, Le Nemrod cit. (alla nota 94); DRONKE, Dante e le tradizioni cit. (alla nota 8), in partic. pp. 65-96; A. MARZO, «L’argomento de la mente», ovvero la malizia dei giganti: lettura del canto XXXI dell’Inferno, in «Filologia e critica», 30.2-3 (2005), pp. 247-262. 110
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di visione, caratteristica fondamentale del regno infernale, e Dante per l’ennesima volta è costretto ad affidarsi a una percezione indistinta e confusa delle cose. All’improvviso il suono fragoroso di un corno squarcia l’immobilità dell’aria, suscitando quell’angoscia e quello spavento che più volte hanno assalito l’animo del viator durante il suo cammino. Dante indirizza lo sguardo verso l’origine del suono, si affida alla sua vista incerta e intravede tra le tenebre delle torri, segno della presenza di una città fortificata. Si tratta, invece, dei giganti, «immensi, ma immobili; vigorosissimi, ma innocui; paurosi, ma vinti»114. La prima immagine dei giganti rende subito evidente la loro riduzione a un’enorme massa in cui è scomparso ogni segno di umanità. Quello della massa, di una materia ‘idiota’ all’interno della quale non vi è traccia di luce, e perfettamente sintetizzata dall’espressione «anima sciocca» che Virgilio rivolge a Nembrot, è un tema che percorre in modo trasversale il canto XXXI, caratterizzando in modo puntuale l’essenza dei giganti. Questi ultimi sono immensi, ma tutti subiscono un’unica condanna, che in modi differenti consiste nell’incatenamento. Fialte, personaggio della mitologia greca, e noto a Dante attraverso il libro VI dell’Eneide, diventa il simbolo di un atto di superbia che ha scandito la storia dei pagani. È ricordato come il più audace tra i giganti che si ribellarono a Giove, i quali compirono l’impresa mastodontica di sovrapporre i monti per dare la scalata al cielo. La legge del contrappasso nell’Inferno, mai come in questo caso chiara, testimonia l’agitarsi sconsiderato di un tempo: il suo «merto», il premio di questa ribellione fondata prevalentemente sulla forza fisica è l’immobilizzazione eterna: Le braccia ch’el menò, già mai non move115.
Lo stesso discorso vale per Briareo, «legato e fatto come questo, / salvo che più feroce par nel volto»116. La ferocia e l’ira dei personaggi si manifestano in un comportamento scomposto, un tentativo di rompere le catene che provoca rumori assordanti. Si sfoga la propria rabbia, violenta e irrazionale, scrollandosi come
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CHIARI, Il canto cit. (alla nota 87), p. 272. Inf. XXXI 96. 116 Inf. XXXI 104-105. 115
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Due esempi di inordinata locutio: Pluto e Nembrotto
una torre scossa dal terremoto117. Ma il movimento è trattenuto, suggella per sempre la stolta ribellione, rivela l’inesorabilità della sconfitta e della rovina che Agostino vede tipica nei superbi. Lo stesso si può dire di Nembrotto, anche se in questo caso a essere trattenuta è la lingua, a essere incatenato è lo strumento che ha permesso la costruzione di un’impresa, rivelatasi nei suoi obiettivi al di fuori di qualsiasi regola. Si tratta di un peccato più spirituale rispetto a quello di Briareo e Fialte, e qualitativamente si avvicina all’azione fraudolenta del condottiero Ulisse, che ha portato alla rovina un’altra impresa, quella della sua flotta. Non è un caso che Dante introduca il gigante con una breve digressione filosofica sull’arte della natura, quest’ultima in grado di indovinare il pericolo per il mondo se avesse continuato a generare questi «animali» che, a differenza di balene ed elefanti, uniscono «possa», «mal volere» e «argomento de la mente», tre forze che connotano lo stesso diavolo in Purg. V 112-114, dove è scritto che questi unisce («giunse») quel mal voler che pur mal chiede con lo ‘ntelletto, e mosse il fummo e ‘l vento per la virtù che sua natura diede118.
I giganti sono esistiti realmente, e rappresentano nella visione del Poeta ‘uomini’; come questi hanno a disposizione la ragione, e come gli uomini, grazie allo strumento razionale, si distinguono dagli animali. Pietro Alighieri, che si conferma tra i lettori più attenti della Divina Commedia, ha messo in risalto il ruolo intermedio assunto dal canto XXXI rispetto a quelli appena precedenti, in cui è punita la fraudolenza, e quelli successivi. Per Pietro, nel pozzo dei giganti, è rappresentata una tipologia precisa di frode («illa species fraudis»), che può consistere sia
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Cf. Inf. XXXI 106-108. Purg. V 112-114. Che esista un rapporto diretto tra la natura dei giganti e del diavolo è evidente dai rilievi pavimentali del primo girone del Purgatorio. Per esortazione di Virgilio, Dante lascia il personaggio Oderisi e oltrepassa la lenta schiera dei penitenti (Purg. XII 1-12); invitato dal maestro a osservare il piano della via, vede una serie di bassorilievi che occupano tutto il ripiano del monte: il Poeta scorge rappresentati la caduta di Lucifero (22-27), Briareo e i giganti sconfitti nella battaglia di Flegra (28-33), infine, Nembrot ai piedi della torre di Babele, «a piè del gran lavoro / quasi smarrito, e riguardar le genti / che ‘n Sennaàr con lui superbi fuoro» (34-36). 118
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nella rottura del vincolo su cui si regge la comunità degli uomini, sia nella rottura del patto di fede con Dio, «quae dicitur proditio», tradimento. Tutto questo avviene per mezzo della ragione, che se utilizzata in modo distorto, separata dalla legge e dalla giustizia – come insegna Aristotele nel libro I della Politica – rende l’uomo il peggiore delle creature. L’«argomento de la mente» indica lo strumento razionale, che se utilizzato in malo modo può divenire un’arma (se non si accorda a un’intenzione positiva, ma al «mal coto») capace di nuocere a Dio e agli altri uomini119. Nembrot, in quanto re, responsabile non di una sola flotta o di un manipolo di marinai, ma del genere umano, è punito per avere usufruito del dono della ragione e delle sue modalità operative, come il linguaggio, nel peggiore dei modi. La sua punizione è tra le più tragiche, esprimersi in qualcosa di distorto che non sarà mai più compreso («ch’a nullo è noto»). Solo, chiuso nella propria specificità di massa enorme, incapace di enucleare agli altri pensieri personali, Virgilio addirittura lo invita a esprimere la propria rabbia con l’unico strumento di comunicazione che gli è rimasto, il corno. La legge del contrappasso già nel De vulgari è delineata in modo impeccabile, ed è tutta racchiusa nel «quot, quot... tot, tot» («quanto... tanto») con cui è descritta la punizione degli uomini per quest’opera superba, in modo particolare per colui che ha esercitato l’arte del potere attraverso la parola: Quot quot autem exercitii varietates tendebant ad opus, tot tot ydiomatibus tunc genus humanum disiungitur; et quanto excellentius exercebant, tanto rudius nunc barbariusque locuntur120.
119 Cf. PIETRO ALIGHIERI, Super Dantis ipsius genitoris Comoediam Commentarium, ed. Nannucci cit. (cap. 2, alla nota 79), pp. 259-261: «Dicit quomodo devenit ad puteum, ubi punitur illa species fraudis, quae nedum vinculum cognationis humanae rumpit, sed etiam vinculum fidei, quae dicitur proditio. Et quia quadrupliciter isto modo rumpitur fides, ideo in eo quadrupliciter fingit proditores puniri, ut infra patebit. Circa quem puteum fingit Gigantes esse, ut dicit textus, et per eos fingit poni in fundum eius (...). Et si quaeratur quare hodie non sunt, respondet per illa verba, quod cum argumentum mentis iungitur cum malo velle etc [vv. 55-56]. Unde ait Aristoteles in primo Politicorum: Sicut homo, si sit perfectus virtute, est optimus animalium, sic si sit separatus a lege et iustitia, pessimus omnium, cum homo habeat arma rationis etc. Quod quidem cessat in brutis etc.». 120 De vulg. I vii 7.
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Capitolo 4
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Il linguaggio del Paradiso: «redole odor di lode»
Ahi quanto son diverse quelle foci da l’infernali! ché quivi per canti s’entra, e là giù per lamenti feroci. (Purg. XII 112-114)
1. L’angelica voce Il regno dell’Inferno, nella visione che Dante elabora nella Divina Commedia, si presenta come una città, la città di Dite, i cui abitanti parlano una lingua che si addice alla loro natura maledetta e alle proprietà del luogo sul quale essi sono dislocati. La confusione degl’idiomi, un linguaggio disumano, il turbine di suoni cacofonici e sgrammaticati portatori di rabbia, di dolore o di tormento, risuonano nell’atmosfera infernale, e descrivono in modo puntuale il nesso tra la parola e lo stato del peccatore che attraverso questa esprime la sua lontananza dall’amore divino. Questa lontananza, che si manifesta in un linguaggio ‘disordinato’, può essere letta alla luce di un tópos ricorrente tra gli autori medievali, quello della rectitudo. Se l’intenzione umana corrisponde alla volontà divina, la parola dove si consuma questa corrispondenza è ‘retta’, in caso contrario disordinata. Nell’ottica del domenicano Guglielmo Peraldo, per esempio, la bestemmia è il linguaggio infernale per eccellenza. Definita sulla base di un classico riferimento ad Agostino, la bestemmia è un enunciato che attribuisce a Dio ciò che non gli compete, può negare a Dio ciò che gli appartiene di diritto, o può significare che il locutore in modo illecito si arroga qualità che spettano al divino («sibi usurpat quod
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Il linguaggio del Paradiso: «redole odor di lode»
Dei est»)1. Per questo la blasphemia è considerata qualcosa di diabolico, «quasi loquela infernalis», il cui effetto su chi ascolta è un sentimento di terrore, l’«horripilatio». E se è vero, come si legge in un versetto del Vangelo di Matteo (26, 73), che nel linguaggio si palesa la personalità di colui che parla, è verosimile pensare che in inferno i peccatori bestemmieranno Dio «propter magnitudinem doloris»2. Quello dell’Inferno dantesco – e qui è evidente la lezione del De vulgari con la lettura negativa dell’episodio della torre di Babele – è un linguaggio di rovina, dove nei suoni riecheggia la frantumazione morale dei soggetti. La discesa del pellegrino nell’abisso è accompagnata dalla polverizzazione delle lingue in dialetti e micro-dialetti, una frammentazione che, secondo uno schema concettuale di tipo aristotelico utilizzato sia nel trattato sul volgare, sia nella Monarchia, allontana l’uomo dal principio dell’unità, su cui si regola la convivenza e la stessa integrità psicologica e morale di ogni singolo individuo3. I casi estremi di questo allontanamento sono simboleg-
1 Cf. PERALDO, Summae virtutum ac vitiorum, II, IX, pars 2, c. 1, ed. Venezia 1571, p. 538: «Notandum ergo secundum Augustinum: Blasphemia est, quando aliquid attribuitur Deo, quod Dei non est, vel quando negatur de Deo quod ipsius est, vel quando aliquis sibi usurpat quod Dei est». Su Peraldo come possibile fonte della Commedia cf. cap. 2. Sul concetto di bestemmia nel Medioevo cf. CASAGRANDE - VECCHIO, I peccati della lingua cit. (Introd., alla nota 35), in partic. pp. 229-240; E. D. CRAUN, Inordinata locutio: Blasphemy in Pastoral Literature 1200-1500, in «Traditio» 39 (1983), pp. 135-162. 2 Cf. PERALDO, ibid., II, IX, pars 2, c. 1, p. 541: «Blasphemia peccatum diabolicum est, est quasi loquela infernalis, cuius signum est horripilatio, quam facit istud peccatum in audientibus (...). Sicut dictum est Petro Matthei 26 [Mt 26, 73]: ‘Vere tu ex illis es, nam et loquela tua manifestum te facit’. Sicut potest dici de blasphemo. Vero tu de inferno es: nam et loquela tua manifestum te facit. Illi qui in inferno erunt, blasphemabunt Deum propter magnitudinem doloris». 3 Cf. De vulg. I xvi 2: «Dicimus quod in omni rerum genere unum esse oportet quo generis illius omnia comparentur et ponderentur, et a quo omnium aliorum mensuram accipiamus: sicut in numero cuncta mensurantur uno, et plura vel pauciora dicuntur secundum quod distant ab uno vel ei propinquant, et sicut in coloribus omnes albo mensurantur – nam visibiles magis et minus dicuntur secundum quod accedunt vel recedunt ab albo. Et quemadmodum de hiis dicimus que quantitatem et qualitatem ostendunt, de predicamentorum quolibet, etiam de substantia, posse dici putamus: scilicet ut unumquodque mensurabile sit, secundum quod in genere est, illo quod simplicissimum est in ipso genere». Cf. Mon. I v 3: «Asserit enim ibi venerabilis eius autoritas [scil. Aristotele] quod, quando aliqua plura ordinantur ad unum, oportet unum eorum regulare seu regere, alia
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L’angelica voce
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giati da Nembrot, il cui linguaggio ha perduto la sua essenza di strumento sociale, e da Lucifero, la cui lontananza radicale dal centro divino si riflette in un mutismo assordante. Sul senso del peccato, Dante è preciso: «Peccare nichil est aliud quam progredi ab uno spreto ad multa»4. Con il Paradiso la situazione s’inverte5. Preparato dalla riabilitazione umana che avviene in Purgatorio, il linguaggio della terza cantica non può non riflettere la condizione dei personaggi incontrati da Dante e dislocati nei diversi cieli, e preannunciata già all’inizio del poema dall’apparizione di Beatrice («cominciommi a dir soave e piana / con angelica voce, in sua favella [...]»)6: alla condizione moralmente chiara di quest’ultima corrisponde un linguaggio chiaro, dolce nei suoni, retto dalla volontà divina nelle intenzioni. Le asperità sonore dell’Inferno si dileguano, sono sostituite dalla
vero regulari seu regi; quod quidem non solum gloriosum nomen autoris facit esse credendum, sed ratio inductiva». Cf. Mon. III xi 1; e cf. ARISTOTELE, Metaphysica, X, 1, 1052b 18 e ss. 4 Mon. I xv 3. 5 Ha scritto CAMBON, Dante and the Drama cit. (cap. 3, alla nota 1), p. 34: «City, garden, and court, Dante’s Heaven is the place of perfect mutuality in a hierarchy of interrelation, which language repeatedly manifests in choral hymns; Dante’s Hell is the negative of that unison, the place of discordant uproar, of frozen passion and self-contained individualism (...). Babel is the negation of Eden and the caricature of Rome-Jerusalem, but since the very texture of imagery makes Dante’s Paradise a synthesis of Holy City and Celestial Garden, Hell is essentially babelic, a combination of anti-garden (the Dark Wood, the Wood of Suicides) and anti-City (the City of Dis)». Così, invece, AUERBACH, Studi su Dante cit. (cap. 2, alla nota 28), pp. 119-120: «La Commedia (...) è l’antitesi delle due città, la civitas diaboli Dis nell’inferno e la civitas Dei nel paradiso. La città di Lucifero, cinta da mura, che si chiude al saggio poeta dell’ordine del mondo romano, così che un messo divino (...) deve ottenere con la forza l’accesso, è il regno della malizia, e lo scopo della malizia è l’ingiustizia. Ma l’ingiustizia non è solo peccato contro Dio, è anche mancanza contro il prossimo e turbamento della retta vita terrena; la città di Dite è il luogo della rovina sociale. Certo, essa è ordinata come una parte dell’ordine divino, in cui anche il male è compreso, e in questo essa è ben ordinata; ma persiste in impotente ribellione contro l’alto potere di Dio, perché la cattiva volontà ha privato i suoi abitanti del bene della retta conoscenza e con esso della libertà (...). La civitas Dei in paradiso è invece la terra della giustizia; in essa le anime stanno in giusto ordine, in comune agire, godendo ciascuna del suo posto e partecipi di un vero bene, la cui provvista è inesauribile (...). Nel vario modo di apparire dei beati nelle sfere dei pianeti la diversità delle disposizioni e delle attività si sviluppa come ordine naturale che fa dell’uomo un cittadino». 6 Inf. II 56-57.
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Il linguaggio del Paradiso: «redole odor di lode»
suavitas, come nel caso della favella di Cacciaguida, un modo di parlare, la suavitas, spiega Dante nel Convivio, «dolce, piacente e dilettoso»7. L’ultima cantica della Divina Commedia è concepita secondo canoni ideologici differenti rispetto a quelli che contribuiscono alla nascita dell’Inferno. Due conquiste intellettuali scandiscono l’elaborazione di questa nuova fase del poema: l’allontanamento sempre più marcato di Dante dal «pregiudizio negativo» sulla diversità delle lingue, pregiudizio suggellato dall’autorità del Genesi, e la maggiore consapevolezza delle proprietà artistiche del volgare («la gloria de la lingua»)8, capace di dare una maggiore forza di espressione, rispetto alle lingue grammaticali, a concezioni e sentimenti mai vissuti. In altri termini, in Paradiso è presentato un uomo nuovo, ripulito dalle macchie del peccato, di conseguenza il linguaggio di cui questi è depositario non riflette il vizio, ma la virtù riconquistata. Il meccanismo concettuale alla base della Divina Commedia è semplice: se il linguaggio degli abitanti dell’Inferno riflette il dolore o l’ira della loro condizione (una loquela infernalis, per antonomasia la bestemmia: «Quando giungon davanti a la ruina, / quivi le strida, il compianto, il lamento, / bestemmian quivi la virtù divina»)9, la parola dove i nuovi cittadini manifesteranno la loro gioia (gaudium, «letizia» secondo la terminologia ricorrente nella terza cantica) sarà la lode. Schema bipolare tracciato da Tommaso nella Summa: Ad rationem blasphemiae pertinet detestatio divinae bonitatis. Illi autem qui sunt in inferno retinebunt perversam voluntatem, aversam a Dei iustitia, in hoc quod diligunt ea pro quibus poniuntur, et vellent eis uti si possent, et odiunt poenas quae pro huiusmodi peccatis infliguntur (...). Sic ergo talis detestatio divinae iustitiae est in eis interior cordis blasphemia. Et credibile est quod post resurrectionem erit in eis etiam vocalis blasphemia, sicut in sanctis vocalis laus Dei10.
7 Cf. Conv. II vii 5: «Dico adunque che vita del mio core, cioè del mio dentro, suole essere un pensiero soave (‘soave’ è tanto quanto ‘suaso’, cioè abellito, dolce, piacente e dilettoso): questo pensiero se ne gìa spesse volte a’ piedi del sire di costoro a cu’ io parlo, ch’è Iddio: ciò è a dire che io pensando contemplava lo regno de’ beati». 8 Purg. XI 98. 9 Inf. V 34-36. 10 TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, IIa IIae, q. 13, art. 4, resp., ed. Leonina cit. (cap. 1, alla nota 4), VIII, p. 111.
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La «loda»
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In questo capitolo, mi occuperò della natura della lode e dei linguaggi di lode che risuonano nelle sfere celesti; delle locutiones degli abitanti del Paradiso, caratterizzate molto spesso, come nell’Inferno, da una giustapposizione di diversi idiomi capace di esprimere il movimento spirituale degli agenti linguistici. Come nella prima cantica, il plurilinguismo, le lingue inventate, le interiezioni, sono gli espedienti retorici utilizzati dall’Alighieri per rendere in modo adeguato un «inenarrabile affetto dell’anima». Tuttavia, nella terza cantica la giustapposizione delle lingue nei singoli discorsi degli spiriti, le espressioni interiettive, acquistano un carattere armonioso. Dal punto di vista del lettore moderno non esiste un criterio razionale per capire la differenza tra i linguaggi infernali e quelli paradisiaci. Se esiste un criterio questo è di tipo teologico-morale, ragione per cui si è deciso di trattare alla fine del capitolo i temi della Pentecoste, del giubilo e della glossolalia: l’invenzione delle lingue è collocata in questo caso sotto il segno di un patto che le anime instaurano con Dio.
2. La «loda» Il significato più generico che il termine «loda» può designare, e che ricorre con maggiore frequenza in alcuni passaggi del Convivio11, non riguarda gli obiettivi scelti come basilari per la mia analisi. Il termine può indicare le parole o le espressioni che attestano il merito di qualcuno, l’opposto di biasimo e vituperio12, e risponde a esigenze di carattere retorico che non si addicono ai riferimenti biblici e spirituali che percorrono le due opere in cui la «loda» assume una portata più elevata, la Vita nuova e la Divina Commedia. In quest’ultima, in particolare, la lode è il linguaggio unico dei protagonisti dislocati tra Purgatorio e Paradiso, linguaggio monotematico indirizzato, secondo moduli assai frequenti nelle Sacre Scritture, all’unica realtà degna di questa concentrazione linguistica, morale ed emotiva, quella divina. I Salmi rappresentano il punto di riferimento più autorevole per tale concezione:
11
Per es. Conv. III i 5; x 9. Per le occorrenze del termine cf. D. CONSOLI, s. v. Lode, in ED, III, pp. 679-680. 12
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Il linguaggio del Paradiso: «redole odor di lode»
Semper laus eius in ore meo (Sal 33, 2). Sic et laus tua in fines terrae (Sal 47, 11).
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Et lingua meditabitur (...) tota die laudem tuam (Sal 34, 23).
Se le grida dell’Inferno significano il dolore dei dannati, già all’altezza della seconda cantica le grida hanno tutt’altra qualità, in quanto accompagnano la redenzione di un’anima che si prepara a salire in Paradiso: «Poi cominciò da tutte parti un grido / (...) ‘Gloria in excelsis’ tutti ‘Deo’ / dicevan»13. Il monte del Purgatorio è scosso da una sorta di terremoto, la cui natura non si spiega per le ragioni fisiche che lo generano sulla terra. La causa deve essere ricercata, dice il personaggio Stazio, nei canti delle anime che con un inno di lode rivolto a Dio festeggiano («di che congaudete»)14 la purificazione compiutasi di un’anima consorella: Però sentisti il tremoto e li pii spiriti per lo monte render lode a quel Signor (...)15.
Si prepara una situazione antitetica rispetto a quella che si può definire l’anarchia linguistica del regno infernale. Le voci o le parole dei nuovi cittadini («tutti») sono «tirate», letteralmente, da uno stesso punto: «Verso Dio / tutti tirati sono e tutti tirano»16. La rappresentazione della vita celeste è sentita come una festa di luci in armonia e come una concordia musicale di affetti. Sollecitati e trascinati da una «letizia» sempre in crescita, i nuovi spiriti dimostrano la loro gioia nel ritmo di volta in volta più veloce del loro girare e nel meraviglioso canto («nota») che da essi promana: Come, da più letizia pinti e tratti, a la fiata quei che vanno a rota levan la voce e rallegrano li atti, così, a l’orazion pronta e divota,
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Purg. XX 133-137. Purg. XXI 78. 15 Purg. 70-72. 16 Par. XXVIII 128-129. 14
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li santi cerchi mostrar nova gioia nel torneare e ne la mira nota17.
In Paradiso, la diversità delle voci assume un valore positivo, se confrontata alla confusione delle «diverse lingue» dell’Inferno. La molteplicità, quando è vissuta all’insegna dello stesso fine e secondo il rispetto di un ordine gerarchico precostituito, quello divino, può formare un accordo armonioso, «dolci note»:
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Diverse voci, fanno dolci note; così diversi scanni in nostra vita rendon dolce armonia tra queste rote18.
Il senso di concordia che accomuna in uno stesso spirito gli abitanti dei diversi cieli, spirito di carità, come si evince da alcune parole di Salomone – carità, sia detto per inciso, senza la quale la lingua è «aes sonans» o «cymbalum tinniens» (1 Cor 13, 1) – è esemplificato dalla «circulata melodia» del canto XXIII di Paradiso, dove si celebra il trionfo della Vergine. Al centro di una turba di splendori rifulge la Madonna. Dall’alto scende una «facella», un lume, che prendendo forma di cerchio si dispone come una corona roteante attorno alla luce di Maria, mentre dagli altri lumi s’innalza un inno di lode: «La circulata melodia / si sigillava, e tutti li altri lumi / facean sonare il nome di Maria»19. Poi la fiamma coronata si leva verso l’Empireo, e tutti gli spiriti si accendono accompagnando con «alto affetto» e con un’antifona dolcissima l’ascensione della Vergine: E come fantolin che ‘nver’ la mamma tende le braccia, poi che ‘l latte prese, per l’animo che ‘nfin di fuor s’infiamma; ciacun di quei candori in sù si stese con la sua cima, sì che l’alto affetto ch’elli avieno a Maria mi fu palese. Indi rimaser lì nel mio cospetto,
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Par. XIV 19-24. Par. VI 124-126. 19 Par. XXIII 109-111. 18
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«Regina celi» cantando sì dolce, che mai da me non si partì ‘l diletto20.
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Se in questo passo il riferimento al Regina coeli lascia immaginare come nei cieli risuoni all’unisono la melodia dell’alleluia, ripetuta da capo e da più voci che si alternano per un numero illimitato di volte, nel primo mobile, che corrisponde al cerchio angelico più prossimo a Dio, le Dominazioni, le Virtù e le Potestà («l’altro ternaro») intonano chiaramente un perpetuo osanna. Ancora una volta, la molteplicità è retta dal principio di unità; tre voci distinte che procedono in un componimento polifonico costituito da tre melodie diverse cantano un’unica parola: L’altro ternaro (...) perpetualmente «osanna» sberna con tre melode, che suonano in tree ordini di letizia onde s’interna21.
Nelle sfere celesti la frammentazione dei saperi che caratterizza il mondo terreno, e che è risaltata con particolare forza nell’episodio di Babele, dove ogni singola categoria di lavoratori è stata depositaria di una specifica scienza non più comunicabile alle altre, si dilegua in nome di un sapere più profondo. Siamo nel regno della «scienza divina», la teologia, «piena (...) di tutta pace»22, e la cui perfezione relativa alla «certezza del suo subietto» scioglie in nome di Dio la disparità esistente tra argomentazioni dialettiche («sofistici argomenti») che fanno perno sull’uso univoco della ragione. La prospettiva dalla quale Dante, in Paradiso, argomenta il suo nuovo sapere si fonda sulla fede, la «sustanza di cose sperate», l’«argomento de le non parventi». Da tale nuova prospettiva nasce un nuovo tipo di pensiero che non lascia margine alla moltiplicazione di discussioni e ipotesi sofistiche («ingegno di sofista»)23. Le autorità sulle quali si pog-
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Par. XXIII 121-129. Par. XXVIII 115-120. Per un’analisi più tecnica dei metodi musicali presenti in questi versi cf. R. Monterosso, s. v. Melodia, in ED, III, pp. 886-887. 22 Conv. II xiv 19. 23 Cf. Par. XXIV 61-81. Sulla concordia dei saperi in nome della teologia, a partire da osservazioni sul concetto di «invidia» in Dante cf. D’ONOFRIO, Consequentia rerum cit. (cap. 1, alla nota 7). Anche ID., La «pace della scienza» secondo Dante Alighieri, in ID., Storia del pensiero medievale, Roma 2011, pp. 545-555. 21
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gia la nuova scienza sono quelle che hanno messo per inciso sulle pergamene la «larga ploia», la pioggia ispiratrice dello Spirito Santo24. Si tratta del Vecchio e del Nuovo Testamento, ma anche dei commenti da parte dei Padri e dei Dottori della Chiesa, che come autori sono stati ispirati dal messaggio divino e che costellano, in quanto auctoritates della Divina Commedia, i cieli del Paradiso. Il linguaggio più adeguato a esprimere questa scienza, che non si limita a uno sguardo neutro e contemplativo del divino, ma instaura con quest’ultimo un rapporto vivo, dinamico (quella che può essere definita la vera gaia scienza, e che Dante definisce «conoscenza viva»)25, è il linguaggio che meglio riflette la sapienza gioiosa dei beati, quello relativo ai Salmi, conosciuti nel Medioevo anche con il nome di salterio, raccolta biblica di inni, preghiere e lamentazioni26. Il termine è utilizzato in maniera ironica, e come spia di quanto sta per accadere in Purgatorio e in Paradiso, già in Inferno per definire il grido feroce di Nembrotto, «cui non si convenia più dolci salmi». La superbia del gigante non lascia trapelare nelle sue parole nessun segno di dolcezza, come avviene invece nelle sfere celesti, i cui abitanti vivono uno stato morale antitetico rispetto a quello del primo vizio capitale. Se il corno è l’unico strumento, rudimentale, rimasto al gigante per esprimere la sua perversione e la sua solitudine, sono altri gli strumenti musicali (la giga e l’arpa, per esempio, di Par. XIV) attraverso i quali i nuovi cittadini manifestano coralmente il loro stato, e sono quelli che accompagnano appunto lo psalmodiare. Il Libro dei Salmi, strettamente legato al canto, rappresenta per Agostino il testo dell’homo novus, colui che finalmente si è liberato dal peccato. Uno stato che non può essere espresso attraverso un linguaggio canonico, la «locutio», ma attraverso il giubilo, il canto e la salmodia. La parola indirizzata a Dio non è neutra, asettica o intellettuale, ma un ibrido di «gaudium et loquere», che deve essere accompagnato dalla «cithara» e dal salterio: Iubilate Deo (...). Gaudete et loquimini. Si quod gaudetis loqui non potestis, iubilate; gaudium vestrum exprimat iubilatio, si non potest locutio: non sit tamen mutum gaudium; cor non taceat Deum suum (...). Iubilate Deo (...)
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Cf. Par. XXIV 91-92. Cf. Par. XXVI 61. 26 Cf. A. PENNA, s. v. Salmo, in ED, IV, pp. 1078-1079. 25
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cantate et exsultate, et psallite. Psallite, Domino Deo nostro in cithara, in cithara et voce psalmi. Psallite, non voce sola; adsumite opera, ut non tantum cantetis, sed et operemini. Qui cantat et operatur, psallit in cithara et in psalterio27.
È stato notato come Dante coni un neologismo per descrivere in modo efficace il canto liturgico delle voci danzanti nei cerchi celesti: «teodìa»28. Il termine è stato per lungo tempo frainteso dai vecchi commentatori (solitamente attenti all’interpretazione della Divina Commedia), i quali lo hanno tradotto il più delle volte con il sostantivo ‘divinità’. Il termine, invece, è costruito con i vocaboli théos e oda (canto), e potrebbe valere grazie ai riferimenti continui che in Paradiso si fanno alla «melode», e grazie all’affinità del vocabolo con i termini comedìa e tragedìa29, ‘canto di Dio’. Questo in effetti è il vero senso della parola, non a caso attribuita nel Paradiso a Davide, tradizionalmente riconosciuto come l’autore e il cantore dei Salmi: Da molte stelle mi vien questa luce; ma quei la distillò nel mio cor pria che fu sommo cantor del sommo duce. «Sperino in te» ne la sua teodìa dice «color che sanno il nome tuo»30.
27 AGOSTINO DI IPPONA, Enarrationes in Psalmos, XCVII, PL 37, 1254-1255, edd. E. Dekkers - J. Fraipont, 3 voll., Turnhout 1956 (CCSL, 38-39-40), II, p. 1374, 1-13. 28 Per una trattazione più completa sul tema cf. M. DAVID, Dante et sa théodie, in Omaggio a Gianfranco Folena, 3 voll., Padova 1993, I, pp. 429-446. Per Teodolinda Barolini si tratta di un nuovo genere letterario più consono, rispetto al termine «commedia», a esprimere il sermo humilis della Divina Commedia; cf. T. BAROLINI, Dante’s Poets. Textuality and the Truth in the Comedy, Princeton 1984, in partic. pp. 276-277. Per il sermo humilis cf. anche il classico AUERBACH, Studi su Dante cit. (cap. 2, alla nota 28), pp. 167-175. 29 Cf. Ep. XIII 28-29: «Libri titulus est: ‘Incipit comedia Dantis Alagherii, florentini natione, non moribus’. Ad cuius notitiam sciendum est quod comedia dicitur a ‘comos’ villa et ‘oda’ quod est cantus, unde comedia quasi ‘villanus cantus’ (...). Differt ergo a tragedia in materia per hoc, quod tragedia in principio est admirabilis et quieta, in fine seu exitu est fetida et horribilis; et dicitur propter hoc a ‘tragos’ quod est hircus et ‘oda’ quasi ‘cantus hircinus’, id est fetidus ad modum hirci». 30 Par. XXV 70-74. Cf. Sal 9, 11: «Sperent in te qui noverunt nomen tuum».
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Se la loquela infernalis suscita orrore in chi ascolta a causa degli stridii, le asperità, la disarticolazione che appartengono ai suoi suoni, la lode è qualificata in modo ricorrente dall’aggettivo «dolce», che può riferirsi sia alle qualità della lode in quanto tale, sia all’effetto che quest’ultima provoca su chi è investito dalle emanazioni della sua essenza. Il potenziamento della facoltà sensibile-spirituale che avviene in Paradiso fa sì che la dolcezza che emana dalla lode possa essere assaporata, annusata e sentita allo stesso tempo. «Redole / odor di lode»31, scrive Dante a proposito della rosa dell’Empireo dalla quale promanano dolci canti, e la particolare forma di questo verso testimonia la genialità del Poeta: i suoni allitterati e i richiami interni tra le lettere delle quattro parole danno perfettamente il senso della lode, quello di un suono che emana, ma della cui origine si hanno solo delle tracce. È stato già messo in evidenza come il termine «redole» sia un latinismo raro che Dante avrebbe mutuato dall’Eneide di Virgilio32, o più probabilmente da Bernardo di Chiaravalle, dato che quest’ultimo lo usa per riferirsi al giglio, figura della futura gloria: «Suavissime redolens»33. Ma la cosa più importante, e mi sembra che questo aspetto non sia stato preso in considerazione dai commentatori, è l’utilizzo che l’autore fiorentino fa di questo termine nel De vulgari eloquentia. Mosso dal criterio linguistico che l’autorità di Adamo ha stabilito nel paradiso terrestre, criterio che consiste in una lode che il primo uomo rivolge a Dio, Dante si mette alla ricerca, dopo la dispersione delle lingue e la moltiplicazione dei vulgaria, del volgare illustre, definito come segue: «Quod in qualibet redolet civitate nec cubat in ulla»34. È probabile che Dante già all’altezza del trattato latino sia consapevole della forza che il volgare potrebbe far emergere in un contesto come quello del Paradiso, della terza cantica. Per adesso è opportuno solo registrare l’importanza di questo richiamo intertestuale,
31 Par. XXX 124-130: «Nel giallo de la rosa sempiterna, / che si digrada e dilata e redole / odor di lode al sol che sempre verna, / qual è colui che tace e dicer vole, / mi trasse Bëatrice, e disse: ‘Mira / quanto è ‘l convento de le bianche stole! / Vedi nostra città quant’ella gira’». 32 Cf. VIRGILIO, Aeneis, I, v. 436. 33 BERNARDO DI CHIARAVALLE, Sermones super cantica canticorum, LXX, 7, PL 183, 1120A, in ID., Opera, edd. J. Leclerq et al., 10 voll., Roma 1957-1998, II, p. 212, 9. 34 De vulg. I xvi 5.
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e come la definizione possa rappresentare un criterio adeguato per comprendere la dolcezza omnipervasiva della lode. Sarebbe difficile seguire tutti i casi in cui il Poeta fa ricorso al connubio lode-dolce, o canto-nota-voce-dolce, dato che non si tratta di eccezioni, ma della norma generale che plasma tutta la dinamica del Paradiso. Ci si limita, in questa sede, a esporre pochi esempi. Nel cielo del Sole, gli spiriti sapienti che si dispongono in cerchio attorno a Dante, e tra i cui «fulgori vivi» si riconosce la fiamma di Tommaso, sono «dolci in voce»35. Sono ordinati e si muovono con precisione impeccabile; come il movimento delle ruote nel meccanismo dell’orologio, le voci si accordano con modulazione armoniosa («tempra») e con dolcezza tale da potersi esperire solo in Paradiso: Indi, come orologio che ne chiami ne l’ora che la sposa di Dio surge a mattinar lo sposo perché l’ami, che l’una parte e l’altra tira e urge, tin tin sonando con sì dolce nota, che ‘l ben disposto spirto d’amor turge; così vid’io la gloriosa rota muoversi e render voce a voce in tempra e in dolcezza ch’esser non pò nota se non colà dove gioir s’insempra36.
Con parole più o meno simili («tintinnio», «tempra», «dolce», «nota») rispetto al passaggio precedente, così è accolta con un inno l’immagine della Croce: E come giga e arpa, in tempra tesa di molte corde, fa dolce tintinnio a tal da cui la nota non è intesa, così da’ lumi che lì m’apparinno, s’accogliea per la croce una melode che mi rapiva, senza intender l’inno. Ben m’accors’io ch’elli era d’alta lode, però ch’a me venìa «Resurgi» e «Vinci»
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Par. X 66. Par. X 139-148.
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come a colui che non intende e ode. Io m’innamorava tanto quinci, che ‘nfino a lì non fu alcuna cosa che mi legasse con sì dolci vinci37.
Un «dolcissimo canto» è quello che «risuona» in un altro cielo: «Santo, Santo, Santo», inno di lode che esprime la riconoscenza dei beati e di Beatrice verso Dio, che ha guidato Dante nell’esame sulla carità, inno di lode che risuona ogniqualvolta il pellegrino supera una determinata prova38. Finito il discorso di Adamo sull’origine del linguaggio, una folla di beati si raccoglie nell’ottavo cielo. È come se l’universo sorridesse alla presenza di Dante, ancora una volta inebriato dal dolce canto che proviene dalle luci, dall’inno liturgico che celebra la presenza eterna di Dio uno e trino nelle sfere celesti: «Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo» cominciò «gloria», tutto ‘l paradiso, sì che m’inebriava il dolce canto. Ciò ch’io vedeva mi sembiava un riso de l’universo, per che mia ebbrezza intrava per l’udire e per lo viso. Oh gioia! Oh ineffabile allegrezza! Oh vita intègra d’amore e di pace! Oh sanza brama sicura ricchezza39!
Non c’è dubbio sul fatto che il nesso lode-dolce riproponga in maniera potenziata, nella terza cantica, nozioni elaborate in modo embrionale nella Vita nuova. A partire dal capitolo XVIII del libello giovanile, com’è risaputo, vengono delineate le linee programmatiche di un modo nuovo di intendere la poesia, poesia come beatitudine. Precisamente, si tratta della ‘poesia della lode’, legata alla glorificazione di Beatrice e alla continua meraviglia che quest’ultima suscita nell’anima del Poeta, che in nome della letizia riposta nella mente si propone di costruire nuove rime40. È
37
Par. XIV 118-129. Cf. Par. XXVI 67-69. Cf. anche Par. XXIV 112-114: «L’alta corte santa / risonò per le spere un ‘Dio laudamo’ / ne la melode che là sù si canta». 39 Par. XXVII 1-9. 40 Cf. VN XIX 1-3. 38
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suggestivo notare come nella Vita nuova sia già presente lo schema bipolare che caratterizzerà i due tipi di linguaggio, uno legato al tormento, l’altro alla gioia, rispettivamente di Inferno e Paradiso. Come nella prima cantica l’assenza di Dio o della luce rappresenta la condizione per la nascita di un linguaggio fatto di lamenti («quivi sospiri, pianti, alti guai»)41, così nel libello l’assenza del saluto di Beatrice provoca uno sconvolgimento delle potenze vitali che si manifesta in parole miste a sospiri di dolore («ora, s’i’ voglio sfogar lo dolore, / che a poco a poco a la morte mi mena, / convenemi parlar traendo guai»)42. E come nel Paradiso l’amore assume il carattere della Dei dilectio che si esprime nella lode, così la presenza di Beatrice («non parea figliuola d’uomo mortale, ma di deo»)43 è esaltata in una parola gioiosa che, come ha scritto Mario Pazzaglia, si risolve nella «densità epica dell’inno» e nella «sua liturgica fermezza»44: Questa gentilissima donna, di cui ragionato è ne le precedenti parole, venne in tanta grazia de le genti, che quando passava per via, le persone correano per vedere lei; onde mirabile letizia me ne giungea. E quando ella fosse presso d’alcuno, tanta onestade giungea nel cuore di quello, che non ardia di levare li occhi, né di rispondere a lo suo saluto; e di questo molti, sì come esperti, mi potrebbero testimoniare a chi non lo credesse. Ella coronata e vestita d’umilitade s’andava, nulla gloria mostrando di ciò ch’ella vedea e udia. Diceano molti, poi che passata era: «Questa non è femmina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo». E altri diceano: «Questa è una maraviglia; che benedetto sia lo Segnore, che sì mirabilemente sae adoperare!»45.
41
Inf. III 22. VN XXXI 8-9 (Li occhi dolenti per pietà del core), vv. 4-6. 43 VN II 8. 44 M. PAZZAGLIA, s. v. Vita Nuova, in ED, V, [pp. 1086-1096], p. 1092. Per una visione complessiva sul tema dello stile della lode e i suoi riferimenti filosoficoreligiosi di tipo agostiniano cf. D. DE ROBERTIS, Il libro della Vita Nova, Firenze 1970 (1961¹). Si veda inoltre, sempre per un approccio più filosofico sullo stilnovo e il ruolo di Beatrice, B. NARDI, Filosofia dell’amore nei rimatori italiani del ‘200 e in Dante, in ID., Dante e la cultura cit. (Introd., alla nota 7), pp. 9-81; AUERBACH, Studi su Dante cit. (cap. 2, alla nota 28), in partic. pp. 23-62; inoltre cf. K. IKEDA, Laude di benedetta Beatrice, in «Studi Italici», 6 (1957), pp. 52-73. Per un’idea almeno approssimativa dello stilnovo e una prima bibliografia, cf. M. MARTI, s. v. Stil Nuovo, in ED, V, pp. 438-444. 45 VN XXVI 1-2. 42
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La poetica della lode si esplica nel libello nei capitoli XVIII-XXVII, a partire dalla canzone Donne ch’avete, non si fonda su un amore disordinato, lo sconvolgimento degli spiriti all’interno dell’individuo, ma su un amore retto «dal fedele consiglio de la ragione»46. Dante vive una situazione di equilibrio, e la beatitudine, che pervade l’anima riappacificata alla vista di una «cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare»47, si traduce appunto nella felicità disinteressata della lode, che supera i vincoli dell’istintività passionale: Volendo ripigliare lo stilo de la sua loda, propuosi di dicere parole, ne le quali io dessi ad intendere de le sue mirabili ed eccellenti operazioni; acciò che non pur coloro che la poteano sensibilmente vedere, ma li altri sappiano di lei quello che le parole ne possono fare intendere48.
L’originalità di questa pratica poetica, rispetto allo stilnovismo più cortese, come ha messo in risalto un celebre studio di Domenico De Robertis49, è rappresentata dal ruolo che le istanze religiose hanno giocato nell’elaborazione della materia nuova. I testi di maggiore rilievo alla base della nuova poesia appartengono non a caso ai Salmi: «Ut confiteamur nomini sancto tuo, et gloriemur in laude tua» (Sal 105, 46); «Exultabunt labia mea cum cavero tibi» (70, 23); «Domine, labia mea aperies; et os meus annuntiabit laudem tuam» (50, 17). Quest’ultimo passo è particolarmente affine allo spirito con il quale è presentata la nascita di Donne ch’avete, componimento-manifesto del nuovo stile: Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa, e disse: «Donne ch’avete intelletto d’amore (...)»50.
In questo frangente è riconoscibile il meccanismo che si trova alla base della nascita della parola-lode, come nell’esperienza tormentosa descritta nei capitoli precedenti al XVIII è quella di un «disfogare»51. Protagoni46
VN II 9. VN XXVI 6 (Tanto gentile), vv. 7-8. 48 VN XXVI 4. 49 Cf. nota 44. 50 VN XIX 2. 51 Per quanto riguarda la nascita della parola e il senso di «disfogare», si veda il cap. 1. 47
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Il linguaggio del Paradiso: «redole odor di lode»
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sta è sempre un movimento interno all’individuo di un affetto di difficile contenimento, che per una straordinaria forza prorompe esternamente. Ma trattandosi, in questo caso, di un affetto positivo suscitato dall’immagine di Beatrice l’eruzione sarà quella di un dolce giubilo52. Il connubio lode-dolce presente nel linguaggio degli attori che abitano le sfere celesti è già abbozzato nella Vita nuova, dove dolcezza è parola tematica delle liriche della lode. Il termine si riferisce contemporaneamente a tre situazioni: può indicare le qualità essenziali di Beatrice53; può designare lo stato d’animo di chi ascolta o vede la gentilissima donna; infine, può designare le parole nelle quali si risolve questo stato d’animo54: Io dico ch’ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave, tanto che ridicere non lo sapeano; né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che nel principio nol convenisse sospirare55. Ed è ne li atti suoi tanto gentile, che nessun la si può recare a mente, che non sospiri in dolcezza d’amore56.
I «sospiri in dolcezza d’amore» sono la lode rivolta al «novo miracolo di Beatrice». Non si tratta di parole il cui scopo è significare in modo scientifico o speculativo l’oggetto che si pone all’attenzione, ma descrivere il
52 Cf. Conv. III i 4: «E avegna che poca podestade io potesse avere di mio consiglio, pur in tanto, o per volere d’Amore o per mia prontezza, ad esso m’acostai per più fiate, che io deliberai e vidi che, d’amor parlando, più bello né più proficabile sermone non era che quello nel quale si commendava la persona che si amava». 53 Cf. Par. III 23, XXII 100, XXIII 34, XXX 26. 54 Cf. VN XXI 3 (Ne li occhi porta la mia donna amore), vv. 9-10: «Ogni dolcezza, ogne pensero umile / nasce nel core a chi parlar la sente»; XXVI 7 (Tanto gentile), vv. 9-11: «Mostrasi sì piacente a chi la mira, / che dà per li occhi una dolcezza al core, / che ‘ntendere no la può chi no la prova»; XXVII 4 (Sì lungiamente), vv. 7-9: «Allor sente la frale anima mia / tanta dolcezza, che ‘l viso ne smore, / poi che prende Amore in me tanta vertude». Per uno studio più dettagliato, cf. S. SARTESCHI, Lode e dolcezza nel XXVII della Vita Nuova, in «Critica letteraria», 26.1 (1998), pp. 3-21. 55 VN XXVI 3. 56 VN XXVI 13 (Vede perfettamente onne salute), vv. 26-28.
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sentimento di colui che vive questo miracolo, e l’incapacità di dire quanto si sta vivendo. Esiste una sproporzione tra la res Beatrice, la sua dolcezza e il suo sorriso, e il linguaggio attraverso il quale Dante cerca di esprimere l’esperienza portentosa scaturita dal contatto con la donna-angelo, «loda di Dio vera»57. La lode s’inserisce in questa sproporzione, e obbliga ad affrontare un nuovo tema, quello dell’ineffabilità58.
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a) Inenarrabilis mentis affectus La lode può essere definita come la tecnica per mezzo della quale si dice un inenarrabile affetto dell’anima, che il linguaggio dei filosofi al contrario non sarebbe in grado di esprimere. Quest’ultimo è grammaticale, ordinato, descrittivo, si pone l’obiettivo di adeguarsi alla realtà circostante, «per quod perfecte exprimere» – scrive Egidio Romano – «naturas rerum»59. Ma come raccontare una vicenda personale che diventa tanto più ineffabile quanto più si eleva ad altezze divine, come quelle che si incontrano in Paradiso? Come adeguare un linguaggio «completo» e «perfetto», quello
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Inf. II 103. Sul tema: A. JACOMUZZI, Il tópos dell’ineffabile nel Paradiso dantesco, in Da Dante al Novecento. Studi critici offerti dagli scolari a Giovanni Getto nel suo ventesimo anno di insegnamento universitario, Milano 1970, pp. 27-59; M. COLOMBO, Dai mistici a Dante: il linguaggio dell’ineffabilità, Firenze 1987; C. PAOLAZZI, La maniera mutata. Il dolce stil novo tra Scrittura e Ars poetica, Milano 1998, in partic. pp. 307-327; L. PERTILE, La Commedia tra il dire e il fare, in Sotto il segno di Dante. Scritti in onore di Francesco Mazzoni, a c. di L. Coglievina - D. De Robertis, Firenze 1998, pp. 233-247; M. ROSSINI, La disianza senz’ali. Note su memoria e ineffabilità in Dante, in Nel perimetro del libro. Interpretazioni di Dante a confronto, a c. di M. Parodi - M. Rossini, Bergamo 1998, pp. 25-51; G. LEDDA, L’impossibile convenientia: topica dell’indicibile e retorica dell’aptum in Dante, in «Lingua e stile», 34.3 (1999), pp. 449-469; Z. BARAN´ SKI, Dante e i segni. Saggi per una storia intellettuale di Dante Alighieri, Napoli 2000; E. FICHERA, Ineffabilità e crisi poetica nella Vita Nuova, in «Italian Quarterly», 163-164 (2005), pp. 5-22. 59 Cf. EGIDIO ROMANO, De regimine principum, II, 2, 7, Roma 1561, p. 180b: «Videntes enim philosophi nullum idioma vulgare esse completum et perfectum per quod perfecte exprimere possent naturas rerum et mores hominum et cursus astrorum, et alia de quibus disputare volebant, invenerunt sibi quasi proprium idioma, quod dicitur latinum, vel idioma literale: quod constituerunt adeo latum et copiosum, ut per ipsum possent omnes suos conceptus sufficienter exprimere». 58
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appunto dei filosofi, al movimento continuo del «trasumanar» («trasumanar significar per verba, / non si porìa»)60. La risposta potrebbe essere transumptio, una transmutatio locutionum, insegna Boncompagno da Signa, attraverso cui dire un «inenarrabilis mentis affectus»61. Una trasformazione delle parole è alla base della strategia che Dante imbastisce per rendere la molteplicità dei canti che costellano il Paradiso, l’ineffabilità che pervade i cieli. Consapevole dei limiti del linguaggio, l’autore fiorentino a partire dal libello giovanile si pone il problema filosofico di come adeguare il «dire» non tanto alla res (come si potrebbe evincere erroneamente dal principio «nomina sunt consequentia rerum»)62, ma al vissuto di una vicenda personale che è stata investita dalla presenza della res. Fin dagli anni della giovinezza, l’obiettivo apparentemente drammatico che Dante si pone è sempre lo stesso: dire, trattare, parlare «degnamente», «come si converrebbe»63, «a pieno»64. Ma l’ostacolo per un’espressione piena consiste sia in un’insufficienza delle facoltà conoscitive che appartengono all’uomo, sia in un’insufficienza della lingua. La consapevolezza dei limiti delle facoltà espressive si affaccia con particolare forza nelle rime dedicate alla celebrazione di Beatrice65. Quanto più l’oggetto (la «matera») s’innalza e si assolutizza, tanto più si accentua il timore di non essere all’altezza, l’incapacità di dire l’esperienza provata rischia addirittura di risolversi nel silenzio:
60
Par. I 70-71. BONCOMPAGNO DA SIGNA, Rhetorica novissima, IX. 2, 1-3, edd. A. Gaudenzi et al., in Scripta Anecdota Glossatorum, 3 voll., Bologna 1892-1913, II (1892), p. 28. 62 Cf. supra, cap. 1, nota 90. 63 VN XLII 1; XXVIII 2. 64 Inf. IV 145. 65 Cf. VN XIII 9 (Tutti li miei penser), vv. 9-11: «Ond’io non so da qual matera prenda; / e vorrei dire, e non so ch’io mi dica: / così mi trovo in amorosa erranza»; XIX 1: «Avvenne poi che passando per uno cammino lungo lo quale sen gia uno rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontade di dire, che io cominciai a pensare lo modo ch’io tenesse; e pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlasse a donne in seconda persona, e non ad ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine»; XXI 4 (Ne li occhi porta) vv. 12-14: «Quel ch’ella par quando un poco sorride / non si pò dicer né tenere a mente, / si è novo miracolo e gentile»; XXVI 5 (Tanto gentile), vv. 1-3: «Tanto gentile e onesta pare / la donna mia quand’ella altrui saluta, / ch’ogni lingua deven tremando muta»; XXXI 15-16 (Gli occhi dolenti), vv. 60-62: «E quale è stata la mia vita, poscia / che la mia donna andò nel secol novo / lingua non è che dicer lo sapesse». 61
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E però propuosi di prendere per matera de lo mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima; e pensando molto a ciò, pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di cominciare; e così dimorai alquanti dì con disiderio di dire e con paura di cominciare66.
La novità dantesca, rispetto all’esperienza mistica che fa dell’ineffabilità un tópos ricorrente, consiste tuttavia in un ribaltamento di prospettiva, che può essere sintetizzato nei termini seguenti: se l’ineffabilità e il silenzio rappresentano per i mistici il punto di arrivo di un percorso spirituale che è giunto a contatto con l’Assoluto, per Dante è un punto di partenza, un’occasione per spostare l’attenzione sulla relazione che si ha con l’Assoluto e, quindi, sulla coscienza delle proprie qualità linguistiche e cognitive. Solo registrando questo cambiamento di prospettiva, puntualizzato per la prima volta nella Vita nuova, si possono comprendere le tecniche varie per mezzo delle quali Dante costruisce i linguaggi presenti nella Divina Commedia, e in Paradiso in modo speciale. In altri termini, l’attenzione è portata sulle potenzialità del dire (di qui il ricorrere del termine nella Vita nuova), piuttosto che sull’Assoluto (Dio o Beatrice) e sul silenzio che dal contatto con quest’ultimo può scaturire: Donne ch’avete intelletto d’amore, i’vo’ con voi de la mia donna dire, non perch’ io creda sua laude finire, ma ragionar per isfogar la mente67.
Nell’opera dantesca il motivo dell’ineffabilità non è un luogo comune retorico, utilizzato per sottolineare genericamente la sproporzione tra dicere e facere68, ma una rivoluzione, un momento per spostare l’attenzione sull’uomo, sulla sua vicenda storica, i suoi percorsi, i suoi movimenti emozionali e gli strumenti razionali che questi mette in gioco. Nel terzo libro del Convivio, all’altezza del capitolo IV, questo aspetto emerge con particolare chiarezza, e la lode nei confronti di Beatrice si muove in questa occasione su una sorta di paradosso («se bene si guarda», scrive Dante): quanto più il parlare è inefficace, difettoso, «a rispetto de la veritade»,
66
VN XVIII 9. VN XIX 5 (Donne ch’avete), vv. 1-4. 68 Su questo punto, PERTILE, La Commedia tra il dire cit. (alla nota 58). 67
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tanto più la lode raggiunge il suo scopo ultimo. Dalla trascendenza della «donna angelicata» scaturisce una duplice insufficienza («due ineffabilitadi»): la povertà dell’intelletto, incapace di ritenere le qualità che raggiano da questo corpo luminoso, e la miseria del linguaggio, che non è in grado d’innalzarsi fino a questa nuova materia. E anche se si considerasse la possibilità di afferrare qualcosa con l’intelletto, il linguaggio per una sua limitatezza strutturale non sarebbe in grado di esprimere una piccola porzione di questo qualcosa. Esiste una sproporzione tra facoltà intellettuali e quella che Dante definisce la «cortezza del nostro parlare»69, una sproporzione tuttavia che rappresenta il vero punto di partenza per iniziare la lode a Beatrice. La lode, infatti, è il risultato di una corsa che il linguaggio ingaggia per raggiungere il pensiero, corsa che diventa tanto più estenuante (ed esaltante) quanto più il pensiero nasce dall’amore: La lingua mia non è di tanta facundia che dire potesse ciò che nel pensiero mio se ne ragiona: per che è da vedere che, a rispetto della veritade, poco fia quello che dirà. E ciò resulta in grande loda di costei, se bene si guarda: nella quale principalmente s’intende70.
La doppia radice dell’ineffabilità è presente anche all’inizio del Paradiso: «E vidi cose che ridire / né sa né può chi di là su discende»71. Il problema, commenta l’Epistola XIII, è duplice: la memoria cede di fronte al «profondarsi» dell’intelletto in Dio («profundat se in ipsum desiderium suum, quod est Deus, quod memoria sequi non potest»); allo stesso tempo, se anche vi fosse il minimo contenuto nella memoria di quanto visto in Paradiso, «sermo deficit», il linguaggio viene meno («multa namque per intellectum videmus quibus signa vocalia desunt»)72. Il riconoscimento della deficienza che appartiene in modo strutturale all’uomo porta l’Autore a valutare al massimo le possibilità con le quali raccontare quanto vissuto nelle sfere celesti. Sulla soglia di quella che sembra essere ogni volta una sconfitta delle facoltà linguistiche e cognitive, di fronte all’esperienza estrema del Paradiso, Dante si preoccupa delle potenzialità del suo poema, spostando in questo modo l’attenzione non
69
Conv. III iv 4; cf. Par. XXXIII 121. Conv. III iv 3. 71 Par. I 5-6. 72 Cf. Ep. XIII 77-84. 70
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su Dio, ma sulla Divina Commedia, la sua struttura, la sua forza e i suoi obiettivi. Lo scopo ultimo che anima i progetti del Poeta è la discesa tra gli uomini, e il tentativo, come per il Convivio, d’innalzare questi alla «mensa dei beati», «manifestare» agli altri anche l’«ombra» di qualcosa che ha «segnato» la memoria: «Tu nota; e sì come da me son porte, così queste parole segna a’ vivi»73.
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O divina virtù, se mi ti presti tanto che l’ombra del beato regno segnata nel mio capo io manifesti (...)74.
Ma quali sono, precisamente, i meccanismi di comunicazione che Dante utilizza per esprimere la verità appresa, adeguati a una «passione impressa» e, allo stesso tempo, che possano riflettere le dolcezze imponderabili sentite in Paradiso? Due sembrano le tecniche utilizzate dall’autore fiorentino, la prima è esplicitata in modo eclatante nei primi versi del settimo canto del Paradiso, posizionato in modo perfettamente antitetico ai primi versi (portatori d’ira) di Pluto in Inferno VII; l’altra consiste in una manipolazione continua della lingua volgare (un rifabbricare), che trova legittimità interna con il canto XXVI di Paradiso.
b) «Osanna, sanctus Deus sabaóth...» Nella prima cantica si è visto come il tentativo di esprimere qualcosa di profondo si sia realizzato con l’invenzione di una lingua che non avesse alcuna rispondenza con la realtà. L’utilizzo di parole latine, greche o ebraiche, è servito a questo scopo: manifestare uno stato d’animo che il linguaggio proposizionale, canonico, non sarebbe stato in grado di comunicare. Questa pratica lascia trapelare i suoi obiettivi in modo distinto alla fine della Vita nuova: la trascendenza di Beatrice è tale da non trovare una parola corrispondente al sentimento scaturito da quella che ormai è una «mirabile visione», a meno che il linguaggio non collassi sotto il 73 74
Purg. XXXIII 52-53. Par. I 22-24.
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peso della sua inconsistenza, si trasformi in qualcosa di diverso e preveda l’aggiunta di elementi estranei al contesto, in questo caso l’introduzione di una frase liturgica che chiude in modo opportuno il testo:
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E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus75.
Quello di una frase o di una parola con riferimento a un rito collettivo, espresse a seconda dei passi nelle tre lingue considerate sacre nel Medioevo, è uno degli espedienti usati nella terza cantica per narrare la dolcezza e l’ineffabilità dei canti celesti di lode. È possibile che Dante nell’elaborazione di questa pratica abbia tenuto ferma la lezione concepita all’altezza del Convivio: la traduzione delle Sacre Scritture ha comportato nei secoli la perdita della dolcezza insita nella lingua con la quale i Libri sono stati scritti, dato che «nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia»76. L’unico modo per ripristinare la dolcezza e l’armonia di un «legame musaico» perduto consiste nel prendere alcune cifre linguistiche, appartenenti per lo più alla liturgia, lasciarle intatte nella loro forma originaria e immetterle in una nuova situazione, in modo tale che il verso ricostruito possa esprimere l’ineffabile. Questo espediente, per quanto riguarda l’uso del latino, lo si vede in funzione a proposito delle lodi, delle salmodie e dei canti in generale che risuonano sia in Purgatorio, sia in Paradiso77. E potrebbe essere em75
VN XLII 1. Conv. I vii 14. 77 Cf. Purg. II 46-48: «‘In exitu Isräel de Aegypto’ / cantavan tutti insieme ad una voce / con quanto di quel salmo è poscia scripto» (cf. Sal 113, 1; Conv. II i 7; Epist. XIII 21); VIII 13-15: «‘Te lucis ante’ sì devotamente / le uscìo di bocca e con sì dolci note / che fece me a me uscir di mente»; IX 139-141: «Io mi rivolsi attento al primo tuono, / e ‘Te Deum laudamus’ mi parea / udire in voce mista al dolce suono»; X 40-45: «Giurato si saria ch’el dicesse ‘Ave!’ / perché iv’era imaginata quella / ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave; / e avea in atto impressa esta favella / ‘Ecce ancilla Dei’, propriamente / come figura in cera si suggella» (cf. Lc 1, 38); XII 109-111: «Noi volgendo ivi le nostre persone, / ‘Beati pauperes spiritu!’ voci / cantaron sì, che nol dirìa sermone» (cf. Mt 5, 3); XIII 28-30: «La prima voce che passò volando / ‘Vinum non habent’ altamente disse / e dietro a noi l’andò reïterando» (cf. Gv 2, 1-11); XV 37-39: «Noi montavam, già partiti 76
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blematico che la prima locutio che Dante proferisce come personaggio della Divina Commedia sia un intreccio di latino e volgare con riferimento
di linci, / e ‘Beati misericordes!’ fue / cantato retro, e ‘Godi, che tu vinci!’» (cf. Mt 5, 7 e 5, 12); XVI 19-21: «Pur ‘Agnus Dei’ eran le loro essordia; / una parola in tutte era e un modo, / sì che parea tra esse ogni concordia»; XX 136; XXII 4-6: «E quei c’hanno a giustizia lor disiro / detto n’avea beati, e le sue voci / con ‘sitiunt’, sanz’altro, ciò forniro» (cf. Mt 5, 6); XXIII 10-12: «Ed ecco piangere e cantar s’udìe / ‘Labia mëa, Domine’ per modo / tal, che diletto e doglia parturìe» (cf. Sal 50, 17); XXV 121-123: «‘Summae Deus clementïae’ nel seno / al grande ardore allora udi’ cantando, / che di volger mi fé caler non meno»; 127-129: «Appresso il fine ch’a quell’inno fassi / gridavano alto: ‘Virum non cognosco’; / indi ricominciavan l’inno bassi» (cf. Lc 1, 34); XXVII 7-9: «Fuor de la fiamma stava in su la riva, / e cantava ‘Beati mundo corde!’ / in voce assai più che la nostra viva» (cf. Mt 5, 8); 58-60: «‘Venite, benedicti Patris mei’, / sonò dentro a un lume che lì era, / tal che mi vinse e guardar nol potei» (cf. Mt 25, 34); XXX 19-21: «Tutti dicean ‘Benedictus qui venis!’ / e fior gittando e di sopra e dintorno / ‘Manibus, oh, date lilïa plenis’» (cf. Mt 21, 9; Mc 11, 10; Lc 19, 38 e Sal 117, 26); 82-84: «Ella si tacque; e li angeli cantaro / di sùbito ‘In te, Domine, speravi’; ma oltre ‘pedes meos’ non passaro» (cf. Sal 130, 1-9); XXXI 97-99: «Quando fui presso a la beata riva, / ‘Asperges me!’ sì dolcemente udissi, / che nol so rimembrar, non ch’io lo scriva» (cf. Sal 50, 9); XXXIII 1-3: «‘Deus, venerunt gentes’, alternando / or tre or quattro dolce salmodia, / le donne incominciaro, e lagrimando» (cf. Sal 78, 1); 10-12: «‘Modicum, et non videbitis me; / et iterum, sorelle mie dilette, / modicum, et vos videbitis me’» (cf. Gv 16, 16); Par. III 121-123: «Così parlommi, e poi cominciò ‘Ave, / Maria’ cantando, e cantando vanio / come per acqua cupa cosa grave»; VII 1-3; XX 94-96: «Regnum celorum violenza päte / da caldo amore a da viva speranza, / che vince la divina volontade»; XXIII 128; XXV 98; XXXII 94-96: «E quello amor che primo lì discese, / cantando, ‘Ave, Maria, gratia plena’, / dinanzi a lei le sue ali distese» (cf. Lc 1, 28). Inoltre, con riferimento indiretto alla liturgia: Purg. XIX 73-75: «‘Adhaesit pavimento anima mea’ / sentìa dir lor con sì alti sospiri, / che la parola appena s’intendea» (cf. Sal 118, 25); 136-138: «Se mai quel santo evangelico suono / che dice ‘Neque nubent’ intendesti, / ben puoi veder perch’io così ragiono» (cf. Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc 20, 35); XXVIII 80-81: «Luce rende il salmo Delectasti, / che puote disnebbiar vostro intelletto» (cf. Sal 91, 5); XXIX 1-3: «Cantando come donna innamorata, / continüò col fin di sue parole: / ‘Beati quorum tecta sunt peccata!’» (cf. Sal 31, 1); Par. XI 61-63: «E dinanzi a la sua spirital corte / e coram patre le si fece unito / poscia di dì in dì l’amò più forte» (cf. Mt 10, 32); XVIII 91-93: «‘Diligite iustitiam’ primai / fur verbo e nome di tutto ‘l dipinto; / ‘qui iudicatis terram’, fur sezzai» (cf. Sap 1, 1); Purg. XXX 10-12: «E un di loro, quasi da ciel messo, / ‘Veni, sponsa, de Libano’ cantando / gridò tre volte, e tutti li altri appresso» (cf. Ct 4, 8). Cf. R. HOLLANDER, Dante’s Use of the Fiftieth Psalm (A Note on Purg. XXX, 84), in «Dante Studies» 91 (1973), pp. 145-150 (ripr. in ID., Studies in Dante, Ravenna 1980, cap. 5).
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esplicito a un salmo penitenziale («miserere di me»)78, avviando in tal modo un processo di purificazione a partire dal regno infernale, che sembrava bloccato per sempre a causa della lupa. L’espressione, così com’è congegnata, manifesta lo stato di assoluto scoramento del soggetto, una intenzione e una richiesta di aiuto profondi, rivolti a un destinatario non riconosciuto (Virgilio) al quale ci si affida, stati che evidentemente non avrebbero potuto dirsi in modo efficace con un linguaggio canonico. Con la funzione di esprimere la dolcezza imponderabile della lode sono utilizzati anche i termini in ebraico («alleluia», «osanna», «amen»)79. In questo caso, la funzione espressiva di tali termini è ancora più evidente, dato che una lunga tradizione a partire da Girolamo coglie la straordinaria carica di significato insita nelle particelle linguistiche ebraiche, disseminate nei testi sacri per testimoniare valori o sentimenti che la lingua nella quale essi sono tradotti non è più in grado di dare al fedele. L’attenzione all’uso dei termini ebraici nel discorso non è fine a se stessa, ma risponde a una sensibilità che si preoccupa di far emergere come nella parola sia racchiuso anche lo stato morale del locutore, quanto si evince in particolare da una lettura di Agostino. Nel De doctrina christiana, dopo aver posto la differenza tra segni naturali e intenzionali, Agostino stabilisce la distinzione tra segni propri e figurati di cui la Bibbia è ricca, e che rendono molto spesso il testo sacro di difficile comprensione. A quest’ultima categoria di segni corrispondono le metafore, mentre con «propria» s’intendono quei vocaboli impiegati per designare gli oggetti in vista dei quali sono istituiti. Essendo questi vocaboli propri a ciascuna lingua è necessaria, spiega Agostino, la conoscenza delle lingue («cognitio linguarum»), come l’ebraico e il greco, affinché la Bibbia possa essere illuminata in alcuni suoi passaggi. Attraverso il ricorso a questa conoscenza si possono superare i dubbi interpretativi nei quali facilmente si incorre, a causa della infinita varietà delle traduzioni latine delle Sacre Scritture («latinorum interpretum infinita varietas»). Il Libro Sacro è disseminato di segni propri, parole ebraiche non tradotte («verba non interpretata») come «amen», «alleluia», «racha», «hosanna». Alcuni sono conservati nella forma antica per la loro autorità
78
Inf. I 65. Inf. XII 88 (cf. Purg. XXX 15); XVI 88; Purg. XXIX 51; Par. VIII 29; XIV 62; XXVIII 118; XXXII 135. 79
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particolarmente santa, altri come hosanna sono reputati intraducibili, «in aliam linguam transferri non potuisse dicuntur». Infatti, ci sono parole in certe lingue, continua Agostino, che non possono passare per mezzo della traduzione («per interpretationem transire») nell’uso di una lingua straniera, come accade per le interiezioni, dato che queste ultime significano un movimento dell’anima piuttosto che una parte precisa di un concetto ragionato: «Et hoc maxime interiectionibus accidit, quae verba motum animi significant potius, quam sententiae conceptae ullam particulam». Hosanna è uno di questi vocaboli intraducibili, e indica il grido di un uomo gioioso: «Vox laetantis» (di colui che gioisce)80. La riflessione agostiniana trova un precedente autorevole in Girolamo, il quale costella i suoi scritti di termini ebraici che appartengono alla Sacra Scrittura. Tra le sue Lettere, la XXVI si pone i seguenti obiettivi: su invito di Marcella spiegare cosa siano questi vocaboli ebraici non tradotti che s’incontrano nella Bibbia («quid ea verba quae ex Hebraeo in Latinum non habemus expressa»); quale il loro senso presso gli ebrei («apud suos sonarent»); perché si ripropongono nei testi in latino senza traduzione («curque sine interpretatione sint posita»): «Ut est illud: alle-
80 Cf. AGOSTINO DI IPPONA, De doctrina christiana, II, 11, 16, PL 34, 42-43, ed. I. Martin, Turnhout 1962 (CCSL, 32), [pp. 1-167], p. 42, 1-26: «Contra ignota signa propria magnum remedium est linguarum cognitio. Et latinae quidem linguae homines, quos nunc instruendos suscepimus, duabus aliis ad Scripturarum divinarum cognitionem opus habent, hebraea scilicet et graeca, ut a exemplaria praecedentia recurratur, si quam dubitationem attulerit latinorum interpretum infinita varietas. Quamquam et hebraea verba non interpretata saepe inveniamus in libris, sicut amen et allelluia et racha et osanna et si qua sunt alia. Quorum partim propter sanctiorem auctoritatem, quamvis interpretari potuissent, servata est antiquitas, sicut sunt amen et alleluia, partim vero in aliam linguam transferri non potuisse dicuntur, sicut alia duo quae posuimus. Sunt enim quaedam verba certarum linguarum quae in usum alterius linguae per interpretationem transire non possint. Et hoc maxime interiectionibus accidit, quae verba motum animi significant potius quam sententiae conceptae ullam particulam. Nam et haec duo talia esse perhibentur; dicunt enim racha indignantis esse vocem, osanna laetantis. Sed non propter haec pauca quae notare atque interrogare facillimum est, sed propter diversitates, ut dictum est, interpretum illarum linguarum est cognitio necessaria. Qui enim Scripturas ex hebraea in graecam verterunt, numerari possunt, latini autem interpretes nullo modo. Ut enim cuique primis fidei temporibus in manus venit codex graecus et aliquantulum facultatis sibi utriusque linguae habere videbatur, ausus est interpretari». Cf. cap. 3, nota 67 e cap. 5, § 3 e 4.
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Il linguaggio del Paradiso: «redole odor di lode»
luia, amen, moram atha, ephod et cetera, quae in Scripturis conspersa». La risposta è concisa. Da una parte, bisogna considerare la sensibilità dei Settanta e degli apostoli, preoccupati di non scandalizzare i primi credenti, reclutati nella comunità ebraica, con innovazioni inopportune nelle traduzioni, ma di trasmettere i testi così come i fedeli li avevano appresi dall’infanzia («ita ut a parvo inbiberant traderent»). Dall’altra, considerare il «vernaculum linguae», ovvero le particolarità idiomatiche di ogni lingua che rendono speciali i vocaboli, il cui senso e la cui forza s’indebolirebbero se tradotti in un’idioma differente: «Propter vernaculum linguae uniuscuiusque idioma non posse ita apud alios sonare ut apud suos dicta sunt, et multus esse melius ininterpretata ponere quam vim interpretatione tenuare»81. Per quanto riguarda l’utilizzo del greco nella Divina Commedia è da segnalare la seguente terzina: Lo ben che fa contenta questa corte, alfa e o è di quanta scrittura mi legge Amore o lievemente o forte82.
Alfa e o indicano inequivocabilmente, come è scritto anche nell’Epistola a Cangrande, i due più importanti attributi di Dio, principio e fine delle cose. La fonte più immediata del verso è senza dubbio l’Apocalisse di Giovanni (quest’ultimo uno degli interlocutori del pellegrino nello stesso canto), dove è scritto:
81 GIROLAMO DI STRIDONE, Epistulae, XXVI, 1-2, ed. I. Hilberg, Vindobonae 1996 (CSEL, 54), pp. 220-221: «Nuper cum pariter essemus, non per epistulam, ut ante consueveras, sed praesens ipsa quaesisti quid ea verba quae ex Hebraeo in Latinum non habemus expressa, apud suos sonarent, curque sine interpretatione sint posita, ut est illud: alleluia, amen, maran atha, ephod et cetera, quae in scripturis conspersa memorasti. Ad quod nos, quia dictandi angustia coartamur, breviter respondemus sive septuaginta interpretes sive apostolos id curasse ut, quoniam prima ecclesia ex Iudaeis fuerat congregata, nihil ob credentium scandalum innovarent, sed ita ut a parvo inbiberant traderent; postea vero quam in universas gentes evangelii dilatatus est sermo, non potuisse semel suscepta mutari, licet et illud in libris suis quos έξηγητιχούς vocat, Origenes adserat propter vernaculum linguae uniuscuiusque idioma non posse ita apud alios sonare ut apus suos dicta sunt, et multo esse melius ininterpretata ponere quam vim interpretatione tenuare». 82 Par. XXVI 16-18.
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«Ego sum alpha et omega», dicit Dominus Deus, «qui eras et qui erat et qui venturus est, ommnipotens» (Ap 1, 8). Et dixit mihi: «Facta sunt! Ego sum alpha et omega, principium et finis» (Ap 21, 6).
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«Ego alpha et omega, primus et novissimus, principium et finis» (Ap 22, 13).
Un aspetto che colpisce nello spoglio di alcuni testi fatto da Bruno Nardi e, successivamente, da Concetto del Popolo in tre differenti contributi, per dimostrare la correttezza della lezione o, rispetto alla lettura omega consolidata negli anni a partire dall’Ottimo, da Pietro, da Benvenuto e dal Buti, è l’utilizzo di questa espressione in particolare nei libri che appartengono all’innologia latina medievale83. Si tratta prevalentemente di preghiere legate alla liturgia, di lodi che esaltano il Signore attraverso un intreccio di idiomi, come nel seguente troparium conservato in un manoscritto del secolo XI, esempio impeccabile di plurilinguismo letterario a sfondo religioso: Alma chorus Domini compongat nomina summi: Messias, σωτήρ, emmanuhel, sabaoth, adonai est, unigenitus, via, vita, manus ομοούσιος principium, primogenitus, sapientia, virtus, alfa caput finisque simul vocitatus adest ω fons et origo boni, paraclitus ac mediator84.
Questo passaggio, così come un verso di Goffredo da Viterbo («O adonai, sabaòt, alfa vocatus et o»)85, in cui sono elencati i nomi di Dio, rappre-
83 Cf. B. NARDI, Saggi e note cit. (cap. 3, alla nota 113), in partic. pp. 317-320; C. DEL POPOLO, ‘Alfa e O’ (Par. XXVI 17), in «Studi e problemi di critica testuale», 44 (1992), pp. 5-13; ID. Postille per ‘Alfa e O’, ivi, 47 (1993), pp. 39-41; ID., Ancora per ‘Alfa e O’, in «Filologia e critica», 20 (1995), pp. 318-328. 84 In DEL POPOLO, ‘Alfa e O’ cit., p. 6. Vedi anche ibid., p. 8: «O et A et A et O / cum cantibus in choro / cum canticis et organo / benedicamus Domino». 85 In NARDI, Saggi e note cit. (alla nota 83), p. 318.
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sentano due criteri importanti per comprendere i versi iniziali del settimo canto del Paradiso, dove la pratica plurilinguistica assume un carattere esplosivo:
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«Osanna, sanctus Deus sabaòth, superillustrans claritate tua felices ignes horum malachòth!». Così, volgendosi alla nota sua, fu viso a me cantare essa sustanza, sopra la qual doppio lume s’addua86.
Prima di analizzare lo strano verso è fondamentale sottolineare il contesto nel quale è pronunciato, e prendere in considerazione il ruolo dell’agente linguistico che lo proferisce87. Il canto precedente al settimo è stato un canto prevalentemente politico che con l’altro, di natura teologica, denuncia una stretta connessione tematica: la storia e il significato dell’impero romano celebrati nel VI canto del Paradiso sono in funzione dell’evento e dell’incarnazione di Cristo che nel VII si narrano. I due fatti sono interconnessi secondo un luogo comune che appartiene alla tradizione cristiana, presente nella Monarchia dantesca: l’evento divino è incardinato nella storia dell’uomo, e l’impero realizza i suoi obiettivi di grandezza perché in accordo con i misteriosi disegni della Provvidenza. A proferire quei versi è non a caso Giustiniano, simbolo dell’esistenza di un legame tra volontà dell’uomo e volontà di Dio, terzine che sono un intervallo che collega i due grandi racconti dei canti VI e VII del Paradiso: un canto di lode a Dio, formulato eccezionalmente nelle lingue sacre per sottolineare la magnificenza dell’azione da lui compiuta in perfetta armonia con gli scopi voluti dal Cielo, ancora una volta un inno proferito da un abitante celeste e, in quanto tale, portatore della letizia che caratterizza le sfere del Paradiso. Gian Roberto Sarolli ha parlato di una perfetta equivocità tra i primi tre versi di Pluto nel VII canto dell’Inferno e questi di Giustiniano. Tutto
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Par. VII 1-6. Per una lettura complessiva del canto, cf. W. TH. ELWERT, Letture dantesche, a c. di G. Getto, 3 voll., Firenze 1955-1961, III (1961), pp. 1465-1486; B. PORCELLI, Il canto VII del Paradiso, in ID., Studi sulla Divina Commedia, Bologna 1970, pp. 111-132. Per le risonanze imperiali del canto, cf. G. FALLANI, in Letture della casa di Dante in Roma, Paradiso, Roma 1977-1989, pp. 223-239. 87
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si gioca su due stati ontologico-morali antitetici, secondo la terminologia del critico uno in malo l’altro in bono; due stati scaturigine rispettivamente di una musica diaboli e di una musica Dei. Per Sarolli, infatti, le parole del guardiano infernale sono «l’inizio di una trionfante invocazione all’indirizzo del Dio del male, e come invertito bestiale gaudio di fronte a quello celestiale quale trovasi nell’esordio del VII del Paradiso, ove identico trilinguismo appare»88. Precisamente, come ha notato Wilhelm Theodor Elwert, quello giustinianeo è un canto latino liturgico arricchito di parole ebraiche, in modo tale da essere rappresentate le due lingue principali della Chiesa, quella giudaica, lingua della Chiesa antica, e la latina, lingua della Chiesa cristiana89. Le voci osanna e sabaòth sono frequenti nel Sanctus della messa, e quindi facilmente riconoscibili. La voce osanna, come abbiamo visto, è un’interiezione che esprime la gioia di colui che parla, o – come vuole Pietro Alighieri che la assimila a un altro termine, anna – un’«interjectio (...) motum animae significans sub deprecantis affectu»90. Sabaòth, invece, è parola che significa «degli eserciti». Più raro il termine malacòth (correttamente malmacòth) che Dante certamente deriva, con la forma errata, dal prologo di Girolamo alla Vulgata, dove ne è specificato il senso: «Malacòth, id est regnorum». Le tre voci in questo modo servono a due obiettivi: sottolineare il carattere liturgico e dottrinale del testo e mettere in rilievo Dio quale signore degli eserciti, concetto proprio del Vecchio Testamento e conforme al ruolo dell’imperatore Giustiniano, braccio temporale della Chiesa, ormai militante negli eserciti celesti («horum malacòth», «di questi regni», scil. celesti). Per quanto riguarda «superillustrans» si è parlato di un neologismo, formato probabilmente a somiglianza del paolino «superabundare» usato dall’Apostolo a significare la grazia che discende sugli uomini incapaci di accoglierla pienamente (Rm 5, 20; Ef 1, 8; 1 Tm 1, 14). In questo caso la grazia discende sulle anime dei beati, «felices ignes», i quali irraggiati dalla chiarezza di Dio s’illuminano. I testi riportati da Nardi e Del Popolo risultano importanti anche per una possibile interpretazione del controverso emistichio «I s’appellava
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G. R. SAROLLI, Prolegomena alla Divina Commedia, Firenze 1971, p. 289. Cf. ELWERT, Letture dantesche cit. (alla nota 87), in partic. p. 1471. 90 PIETRO ALIGHIERI, Super Dantis ipsius genitoris Comoediam Commentarium, ed. Nannucci cit. (cap. 2, alla nota 79), p. 596. 89
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in terra il sommo bene»91. Che il nome di Dio messo in bocca al primo uomo risulti o meno un’invenzione dell’Alighieri, questo non contraddice la possibilità che il Poeta si sia ispirato nella sua invenzione ai nomi ebraici, con i quali nel Medioevo si è soliti nominare la divinità. L’interpretazione critica che ha suggerito di riconoscere in questa consuetudine l’incidenza di elementi cabalistici e mistici nella Divina Commedia può essere scartata, in nome del principio di non moltiplicazione senza necessità delle informazioni. Per quanto le comunità ebraiche siano fortemente radicate nella penisola italiana, e siano fautrici di una produzione letteraria non indifferente, soprattutto nella corte veronese degli Scaligeri92, è più facile pensare, come ha fatto il Penna, che la conoscenza dei nomi di Jahvè sia giunta a Dante per il tramite della tradizione latina. Nel Medioevo, è diffuso per esempio l’epistolario di Girolamo; in una lettera a Marcella (Ep. XXV) il santo «elenca i nomi di Dio in ebraico, fra essi ricorda anche Ja e Jahvè, che dichiara ineffabile, indicandone le singole lettere-consonanti (jod, he, wau, he)»93. La lettera I potrebbe essere semplicemente la contrazione del nome Ya (Ia). Una conferma di quanto si sta dicendo sembra venire da Uguccione da Pisa, il quale all’inizio della
91 Par. XXVI 134. Su Adamo e l’origine del linguaggio in Par. XXVI: cf. GUERRI, Il nome di Dio cit. (Introd., alla nota 12); F. D’OVÌDIO, Il nome di Dio nella lingua di Adamo secondo il XXVI del Paradiso e il verso di Nembrotte nel XXXI dell’Inferno, in ID., L’ultimo volume dantesco, Roma 1926, pp. 373-418; B. TERRACINI, Natura e origine del linguaggio umano nel De vulgari eloquentia, in ID., Pagine e appunti di linguistica storica, Firenze 1957, pp. 237-246; P. DAMON, Adam on Primal Language: Paradiso XXVI 124, in «Italica», 38 (1961), pp. 60-62; P. V. MENGALDO, Appunti sul canto XXVI del Paradiso, in ID., Linguistica e retorica cit. (Introd., alla nota 5), pp. 241-246; TAVONI, Contributo all’interpretazione cit. (Introd., alla nota 16), in partic. pp. 439 e ss.; E. FERRARIO, Il linguaggio nel XXVI canto del Paradiso (vv. 82-142), in Miscellanea di studi in onore di Aurelio Roncaglia cit. (cap. 2, alla nota 106), pp. 559-579; IMBACH, La lingua di Adamo cit. (Introd., alla nota 1); ROSIER-CATACH - GAMBALE, Confusio et variatio cit. (cap. 3, alla nota 94). Per una lettura generale sul canto si vedano inoltre: E. DONADONI, Il canto XXVI del Par., in ID., Studi danteschi e manzoniani, Firenze 1963, pp. 5174; G. FALLANI, Le chant de la charité et le personnage d’Adam (Paradis XXVI) in «Bulletin de la Société des études dantesques», 17-18 (1968-1969), pp. 25-34; B. NARDI, Il canto XXVI del Paradiso, in «L’Alighieri. Rassegna bibliografica dantesca», 26.1 (1985), pp. 24-32. 92 Cf. G. BATTISTONI, Dante, Verona e la cultura ebraica, Firenze 2004. 93 A. PENNA, s. v. El, in ED, II, p. 647.
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sua esposizione della lettera Y, immette nel tessuto stesso di questa esposizione la spiegazione di Ya / Ia:
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I / Y. Ia est nomen Dei secundum quod est invisibilis, ex quo et allelu, quod est laus vel laudate, componitur alleluia, id est laus invisibilis vel laudate invisibilem. Et nota quod hec figura latina I et hec figura y greca idem elementum representant, sed i representat illud in substantiali sono, sed y in accidentali. I enim, hoc elementum, naturaliter exiliter sonat, ergo hec figura i representat illud elementum cum sonat exilius, sed cum sonat spissius et uberius representatur hac figura y94.
La lezione di Uguccione non fa luce soltanto sull’aspetto per così dire morfologico della I utilizzata dall’Adamo dantesco, ma potrebbe chiarire il quomodo, il modus loquendi, il cur del monosillabo. Infatti, la I, con la sua vocale d’appoggio, è universalmente ritenuta nel Medioevo parte integrante del termine alleluia; è il nome di Dio vocalizzato nel iubilus per esprimere la gioia che il linguaggio ordinario non è in grado di carpire; è una parola come amen e osanna con funzione interiettiva; appartiene alle formule liturgiche. Non è irragionevole affermare che la I di Adamo abbia lo stesso valore delle particelle alpha e o che i cori delle anime fanno risuonare, sempre nel ventiseiesimo canto del Paradiso, per esprimere la loro gioia di fronte al Principio delle cose. Non è inverosimile pensare, inoltre, che il nuovo monosillabo non sia diverso dal punto di vista formale dal «Santo, Santo, Santo», che risuona nei cieli non appena Dante termina la sua prova sulla carità. E non sembra assurdo dire che in generale la I corrisponda a tutte quelle esclamazioni, lingue inventate, incroci di più idiomi presenti nella terza cantica, con i quali si nomina Dio e l’amore nei suoi confronti. Esiste un’identità formale tra il primiloquium del De vulgari e la nuova voce con cui Dio è rinominato nel ventiseiesimo canto. In entrambi i casi, si tratta di un actus locutionis nel quale l’uomo riverbera la sua gioia, il suo amore, la sua «conoscenza viva» dell’Unum. Nel trattato latino, come vedremo, si parla di gaudium, nella Commedia si traduce letizia («I s’ap-
94 UGUCCIONE DA PISA, Derivationes, ed. E. Cecchini, 2 voll., Firenze 2004, II, p. 587. Cf. G. CASAGRANDE, «I s’appellava in terra il sommo bene» (Paradiso, XXVI, 134), in «Aevum: rassegna di scienze storiche, linguistiche e filologiche», 50 (1976), pp. 249-273. Cf. anche infra, cap. 5, § 3 e 4.
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pellava in terra il sommo bene / onde vien la letizia che mi fascia [...]»). In entrambi i casi si tratta di modelli estetici, morali, poetici, linguistici, in grado di gettare un lume sul modo in cui il linguaggio dovrebbe essere utilizzato. L’invocazione del nome di Dio proferito da Adamo, ha scritto Alessandro Raffi, è la «funzione fàtica che custodisce l’essenza del linguaggio nella sua più alta nobiltà»95. La lingua e la parola sono concessi all’uomo essenzialmente per invocare il nome di Dio, la lode rappresenta l’atto discorsivo che meglio realizza le facoltà linguistiche degli individui. Rispetto al De vulgari, tuttavia, nel Paradiso lo strumento con il quale l’invocazione di Dio è proferita cambia, non si tratta di una lingua immutabile, ma di una lingua soggetta a trasformazione. Nella terza cantica è realizzato il principio del concorso delle diverse volontà tutte attratte dal Sommo Bene96. Adamo in questo caso è solo una volontà tra tante volontà, e in quanto parte di un tutto potrebbe concorrere alla lode di Dio con un linguaggio esso stesso ‘parziale’. Nella Commedia l’ebraico perde la sua supremazia sulle altre lingue. Se nel De vulgari il primiloquium, espresso appunto nell’idioma sacro, è un modello linguistico ‘assoluto’, nella terza cantica diventa un modello linguistico ‘relativo’. In altri termini, la I potrebbe affiancare l’alpha, la o, sabaoth, alleluia, osanna, voci con le quali l’insieme delle volontà rende più efficace la lode, e più efficace di quanto si potesse farlo con un solo idioma. In Paradiso, siamo in una prospettiva decisamente pentecostale: la molteplicità delle anime, e di conseguenza la molteplicità delle loro voci, è retta da un unico principio che dà al tutto un senso di armonia. Al di là delle interpretazione letterali, è da notare come l’utilizzo di più lingue nel regno celeste abbia perduto il valore negativo che assumeva, invece, nel primo regno d’oltretomba. Questo fatto s’incardina in una nuova ideologia sulla quale è elaborata la terza cantica, in evidente antitesi alla concezione della torre di Babele che ha ispirato ideologicamente la frammentazione dei linguaggi presente nell’Inferno. La nuova prospettiva grazie alla quale è concepito il plurilinguismo del Paradiso è appunto la glossolalia pentecostale. Il plurilinguismo non è una pratica
95 A. RAFFI, Latino, ebraico e volgare illustre: la questione della nobiltà della lingua nel De vulgari eloquentia di Dante, in «Lettere Italiane», 58.1 (2006), [pp. 88-112], p. 111. 96 Cf. Mon. I xv 1-6.
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retorica asettica, fine a se stessa; ha un valore filosofico-religioso, la giusta prospettiva per comprendere in modo più puntuale il linguaggio di lode nel regno dei cieli.
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3. Glossolalia, Pentecoste e giubilo Il termine glossolalia deriva dal greco glóssais lálein o, anche, glóssei lálein, parlare in lingue, e uno dei primi significati è attestato nella Poetica di Aristotele, dove è scritto che un nome è peregrino quando cioè è recepito da una lingua straniera ed entra a far parte dell’uso corrente97. Tuttavia, il termine è originariamente utilizzato nel contesto religioso, si trova nel Nuovo Testamento e si riferisce tradizionalmente al dono soprannaturale di parlare con espressioni diverse. È il dono dello Spirito Santo, che scendendo sugli apostoli mette questi ultimi nella condizione di parlare in molteplici lingue. Negli Atti degli Apostoli (2, 1-13), la storia del dono è scandita in due momenti successivi: mentre i discepoli di Cristo sono riuniti per la celebrazione della Pentecoste – festa ebraica che cinquanta giorni dopo la Pa-
97 Cf. ARISTOTELE, Poetica, 21, 1457b 1-3. La bibliografia sulla glossolalia e la Pentecoste è vasta. Nella redazione di questo paragrafo ci si è avvalsi dei seguenti studi. Per una prima comprensione e definizione del problema: cf. E. LOMBARD, De la glossolalie chez les premiers chrétiens et des phénomènes similaires, Lausanne 1910; F. A. SULLIVAN, Langues (don de), in Dictionnaire de spiritualité ascétique et mystique, 17 voll., Paris 1937-1994, IX, coll. 223-227; R. CABIÉ, Pentecôte, ibid., XII/1, coll. 1029-1036; C. FORBES, Prophecy and Inspired Speech in Early Christianity and its Hellenistic Environment, Tübingen 1995. Per un problema di metodo: cf. B. LAKS, Variatio omnibus: notes sur le changement et la variation linguistiques, in Zwischen Babel und Pfingsten cit. (cap. 2, alla nota 118), pp. 91122. Esempi tra profetismo e glossolalia: cf. P. ALPHANDERY, La glossolalie dans le prophétisme médiéval latin, in «Revue de l’histoire des religions», 104 (1931), pp. 417-436. Fondamentale per un’analisi dell’esegesi patristica e medievale sugli Atti degli Apostoli e il fenomeno delle lingue di fuoco, cf. VECCHIO, Dispertitae linguae cit. (cap. 2, alla nota 118). Per quanto riguarda invece il rapporto tra il dono delle lingue e Dante si veda J. T. SCHNAPP, Between Babel and Pentecost: Imaginary Languages in the Middle Ages, in Modernité au Moyen Âge: Le defi du passé, éd. B. Cazelles - C. Méla, Genève 1990, pp. 175-206, in partic. pp. 184-189; R. HOLLANDER, Dante and Paul’s Five Words with Understanding, Binghamton (New York) 1992 (Medieval & Renaissance Texts & Studies, 1).
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Il linguaggio del Paradiso: «redole odor di lode»
squa ricorda la rivelazione della Legge sul monte Sinai98 – lo Spirito Santo annunciato da un rumore spaventoso si manifesta sotto forma di lingue di fuoco («dispertitae linguae tamquam ignis») che si poggiano sulla loro testa; successivamente, gli apostoli cominciano a parlare in diverse lingue («variis linguis») e gli ascoltatori arrivati da regioni differenti li intendono annunciare la gloria di Dio ciascuno nel suo idioma materno. Il brano parla esplicitamente di lode rivolta a Dio, il contesto nel quale deve essere inserito quello che è considerato come un miracolo divino, nonostante a partire dalla lettura patristica nel dono delle lingue si sia visto prevalentemente lo strumento per legittimare la predicazione del Vangelo. La glossolalia appare come il segno tangibile della presenza dello Spirito Santo, e il miracolo della Pentecoste in quanto segno si presta a molteplici letture. Il fenomeno delle dispertitae linguae – ha scritto Silvana Vecchio in un recente contributo consacrato all’analisi delle tradizioni patristiche e medievali che hanno commentato l’avvenimento pentecostale99 – offre ai fedeli un ventaglio di sensi spirituali sui quali può svilupparsi l’esegesi. In questa lettura, tutti gli elementi del testo acquisiscono un significato preciso: la forma di lingua rivela la parentela tra lo Spirito e il Verbo, il fuoco evoca le teofanie dell’Antico Testamento, le piccole fiamme posizionate sulle teste degli apostoli le diverse grazie concesse dallo Spirito. L’evento si presta anche a una lettura morale che si concentra in
98 Beda il Venerabile sviluppa in modo preciso questo dato facile da cogliere: il parallelo tra Pentecoste ebraica e Pentecoste cristiana. La tavola delle Leggi che Dio affida a Mosè sul monte Sinai, i simboli di questa prima rivelazione come quello del roveto ardente, sono la prefigurazione del dono delle lingue. In ambito cristiano, rispetto alla tradizione ebraica nella quale Dio si è rivolto a un solo popolo, il miracolo è inquadrato in una prospettiva universale. Cf. BEDA IL VENERABILE, Expositio Actuum apostolorum, II, 1, PL 92, 946BC, ed. M. L. W. Laistner, Turnhout 1983 (CCSL, 121), [pp. 3-99], p. 16, 26-36: «Verum notandum iuxta historiam quod apud antiquos, dies Pentecostes, id est, quinquagesimae, quo lex data erat, ab occisione agnus computabatur. Hic autem non a Domini passione, sed, sicut beatus Augustinus exponit, ab eius resurrectione dies quinquagesimus, quo Spiritus Sanctus missus est, computatur, qui, redeunte signi vetero exemplo, ipse ibi manifestissime diem dominicum suo consecravit adventu. Quo etiam temporis articulo, verum Pascha die Dominico monstravit esse celebrandum. Nam sicut hic, sic et illic in ignis visione Deus apparuit, dicente Exodo: ‘Totus autem mons Sinai fumabat, eo quod descendisset Dominus super eum in igne’ (Es 19, 18)». 99 Cf. VECCHIO, Dispertitae linguae cit. (cap. 2, alla nota 118).
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Glossolalia, Pentecoste e giubilo
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particolare sull’immagine del fuoco: la lingua di fuoco, commenta Gregorio di Nissa, è quella che infiammata dallo Spirito Santo illumina coloro che sono immersi nelle tenebre dell’errore100, o, come vuole Giovanni Crisostomo in un’omelia intitolata De sancta Pentecoste, sono quelle che bruciano le spine del peccato, purgano l’anima e la rendono atta ad accogliere il seme della parola divina101. Il senso più profondo del miracolo delle lingue è quello che rinvia alla divisio linguarum che, secondo i passi del Genesi, ha ostacolato la costruzione della torre di Babele. Il miracolo della Pentecoste appare come il momento conclusivo di una lunga parentesi di peccato, inaugurato dall’orgoglio dei costruttori sotto la regia di Nembrot, in modo che l’unità perduta possa essere restaurata nel segno dello Spirito Santo, che riconduce in un regime di concordia la pluralità delle nazioni. L’episodio pentecostale si pone rispetto a quello babelico in una prospettiva di parallelismo antitetico; con quest’ultimo stabilisce evidenti motivi di contrasto e di affinità, che legano questi due momenti della vicenda umana in un rapporto assiologico speculare102. L’affinità consiste in un progetto di unità manifestato attraverso un fatto linguistico, mentre la parte di contrasto è nel tipo di unità, nell’obiettivo morale implicito al progetto e all’utilizzo del linguaggio: nel caso di Babele un’opera in nome di una volontà di potenza che fa perno esclusivamente su se stessa; per ciò che concerne la Pentecoste, invece, il centro attorno al quale si mobilitano le facoltà linguistiche si sposta dall’uomo a Dio, di cui gli apostoli annunciano le meraviglie secondo gl’idiomi di coloro che li intendono parlare. Questi due momenti della storia umana assurgono a simbolo del rapporto stretto che esiste tra dimensione morale e intenti di colui che agisce
100
Cf. GREGORIO DI NISSA, De Spiritu Sancto, PG 46, 699. Cf. GIOVANNI CRISOSTOMO, De Sancta Pentecoste, Homilia II, PG 50, 467. Per il rapporto lingue di fuoco, Pentecoste e predicazione, cf. VECCHIO, Les langues de feu cit. (cap. 2, alla nota 118). Si rinvia inoltre al cap. 2, § 3. 102 Esplicito in questo senso è BEDA IL VENERABILE, Expositio Actuum apostolorum, II, 4, PL 92, 947A, ed. Laistner cit. (alla nota 98), pp. 16-17, 55-61: «Unitatem linguarum quam superbia Babylonis disperserat, humilitas Ecclesiae recolligit. Spiritaliter autem varietas linguarum dona variarum significat gratiarum. Verum non incongrue Spirirus sanctus intelligitur ideo primum linguarum donum dedisse hominibus, quibus humana sapientia forinsecus et discitur, et docetur, ut ostenderet quam facile possit sapientes facere per sapientiam Dei quae eis interna est». 101
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e il linguaggio con il quale l’azione si realizza. L’interpretazione agostiniana del miracolo pone l’accento sul tema politico-morale dell’unità ecclesiastica: la discesa delle fiamme concerne l’insieme dei discepoli presenti quel giorno in assemblea, prototipo e figura della Chiesa, e le lingue nelle quali si esprimono coloro che sono stati riempiti dallo Spirito preannunciano una sola Ecclesia presente negli idiomi di tutti i popoli. In questo quadro, il riferimento a Babele è l’occasione per rilevare il vero significato dell’opposizione tra divisione e unità: la prima si fonda sulla discordia, la seconda sulla charitas, la vera molla che accorpa le diverse membra della Chiesa legandole alla testa del Cristo. Di una sola lingua, se ne sono prodotte molteplici: questo è un fatto di orgoglio, scrive Agostino; da molteplici lingue, una sola: questo invece è il risultato della carità, e nonostante gl’idiomi siano differenti è lo stesso Dio che s’invoca nel cuore, è la stessa pace che è guardata da tutti: Linguae illae quibus loquebantur a Spiritu Sancto impleti, per omnium gentium linguas futuram Ecclesiam praesignabant. Sicut enim post diluvium superba impietas hominum turrim contra Dominum aedificavit excelsam, quando per linguas diversas dividi meruit genus humanum, ut unaquaeque gens lingua propria loqueretur, ne ab aliis intellegeretur: sic humilis fidelium pietas earum linguarum diversitatem Ecclesiae contulit unitati; ut quod discordia dissipaverat, colligeret caritas, et humani generis tamquam unius corporis membra dispersa ad unum caput Christum compaginata redigerentur, et in sancti corporis unitatem dilectionis igne conflarentur103.
È da osservare come i due episodi siano legati anche da due differenti proposte di modelli comunitari. Da una parte, c’è la città di Babele, simbolo di anarchia, dove gl’individui privi di qualsiasi regola che non sia la propria individualità sono condannati a una perenne contrapposizione; dall’altra, l’Ecclesia, che in nome di Dio (o Cristo) regola la molteplicità, la diversità dei popoli, che in questo caso non rappresenta più qualcosa di negativo, ma un valore per rendere più efficace e diversificata la preghiera rivolta al Signore104. Il linguaggio diversificato in tanti idiomi, in questa
103 AGOSTINO DI IPPONA, Sermones ad popolum: Classis II: De tempore, CCLXXI, In die Pentecostes V, PL 38, 1245-1246. 104 I numeri legati alla Pentecoste sono importanti per Agostino per comprendere il senso pieno di un giorno che festeggia la molteplicità ritrovata in nome
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città rinnovata dalla discesa dello Spirito Santo, è la lode, e non bisogna dimenticare che l’avvenimento miracoloso del dono delle lingue narrato negli Atti è legato all’esaltazione a opera degli apostoli delle meraviglie divine: «Audimos loquentes eos nostris linguis magnalia Dei» (At 2, 11). La Pentecoste legittima l’utilizzo di un linguaggio vario che esplicita al massimo le sue potenzialità nel contesto della predicazione e della preghiera. Per Abelardo, le dispertitae linguae sono inserite in un quadro retorico, e rappresentano il mito di fondazione della vera filosofia e dell’eloquenza perfetta che possono realizzarsi, grazie alla forza che lo Spirito Santo imprime sul locutore, solo in ambiente cristiano («in una domo congregati [scil. gli apostoli] Spiritum perceperunt, quia quicunque non sunt de Ecclesia, sunt alieni a gratia»). Il vero retore è il cristiano, l’unico in grado di effettuare un discorso efficace. L’interpretazione del brano relativo alla Pentecoste è giocata da Abelardo sull’opposizione interno/esterno consolidata a partire dalle riflessioni di Gregorio Magno: il messaggio di saggezza e carità si trasmette sugli apostoli per mezzo di una locutio interna che giunge direttamente al cuore; successivamente, la parola interna si esteriorizza e trasmette il messaggio spirituale agli ascoltatori: «Quamdam in cordibus factam vocem locutionis internae, Spiritu
dell’unità, di una diversità che non è più dispersione, ma variatio. Il giorno di Pentecoste, infatti, è definito la solennità delle settimane. Sette sono le settimane che intercorrono tra la resurrezione di Cristo e la discesa dello Spirito Santo. Sette giorni per sette settimane fa quarantanove giorni, ai quali bisogna aggiungerne uno, a motivo dell’unità per ritornare all’inizio. La molteplicità è confermata nell’unità, nella coesione dell’unità, e il rischio della discordia è in questo modo annullato. Cinquanta è il simbolo misterioso della Pentecoste. Cf. AGOSTINO DI IPPONA, ibid., CCLVIII, In die Pentecostes II, 1, 1231-1232: «Propter adventum Spiritus Sancti hodiernus dies sollemnis est nobis, a resurrectione Domini quinquagesimus, septem septimanis multiplicatus. Sed computantes septem septimanas, quadraginta novem invenietis: unus additur, ut nobis unitas commendetur. Quid ipse adventus Spiritus Sancti, quid egit? Praesentiam suam unde docuit? unde monstravit? Linguis omnium gentium locuti sunt omnes. Erant autem in uno loco centum viginti: per decem duodenarius Apostolorum numerus sacratus mysterio est decuplatus. Quid ergo, singuli in quos venit Spiritus Sanctus, singulis linguis omnium gentium sunt locuti, illi alia lingua, et illi alia, et quasi diviserunt inter se linguas omnium gentium? Non sic: sed unusquisque homo, unus homo linguis omnium gentium loquebatur. Loquebatur unus homo linguis omnium gentium: unitas Ecclesiae in linguis omnium gentium. Ecce et hic unitas Ecclesiae catholicae commendatur toto orbe diffusae».
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scilicet suggerente interius, unde loquerentur exterius». Questo significa che l’intelligenza del messaggio è unica, mentre il plurilinguismo concerne la prolatio, la manifestazione visibile delle parole che si plasmano in vari modi a seconda delle qualità degli apostoli e delle caratteristiche di coloro che recepiranno l’informazione («pro qualitate auditorium temperari convenit, ut parvulos lacte nutriamus, adultos panem reficiamus»). Il potere conferito dallo Spirito Santo consiste in una scienza perfetta, «intelligenza e carità» (quella che Dante chiama la «larga ploia», la scienza diffusiva dello Spirito sui cittadini del Paradiso) e, allo stesso tempo, in una varietà di linguaggi in grado di adattarsi a situazioni differenti. La varietas assume un valore positivo, universale, e si sostituisce come modello alla confusione. In questo senso, è interessante rilevare come lo stesso Abelardo proponga di realizzare concretamente questo dono invitando a introdurre nella liturgia della Pentecoste parole che appartengono alle tre lingue principali, quelle scritte sulla croce e quelle con le quali sono stati redatti il Vecchio e il Nuovo Testamento, in modo da rendere più efficaci in ricordo di questo giorno solenne le celebrazioni e le lodi: Unde praesens solemnitas quanto multipliore gratia fit praedita, tanto maiore devotione est celebranda, et omnium linguarum laudibus honoranda (...). Atque utinam vos, sponsae Christi gloriosae, quibus ut supra meminimus, haec solemnitas specialiter incumbit celebranda, omnium linguarum generibus divinas ea laudes resonare possetis! Quod quia non sufficitis, vel hoc saltem efficite, ut doctrinae trium principalium linguarum, quibus duo Testamenta conscripta sunt, et Dominicae titulis crucis insignitus, operam dantes, aliquid amplius quam caeteri fideles his festivis addatis praeconiis105.
In un’ottica simile Alano di Lilla interpreta l’episodio pentecostale; pone l’accento sul fatto che il dono dello Spirito prefigura il modo in cui la lingua debba realizzare al massimo le sue potenzialità, realizzazione massima che può avvenire solo in occasione della predicazione e della lode divina. Focalizzando l’attenzione sul verso «factus est repente de coelo sonus», Alano si sofferma sul termine sonus, prefigurazione, dice, del duplice suono-parola che gli apostoli utilizzeranno, quello della predicazione e il «sonus iubilationis» (infra):
105 Cf. PIETRO ABELARDO, Sermones ad virgines paraclitenses, XVIII, In die Pentecostes, PL 178, 511D-512A.
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Unde: «Laudate eum in cymbalis bene sonantibus», etc. (Sal 150, 5). Hinc apostoli repleti Spiritu Sancto praedicaverunt, alios ad poenitentiam et confessionem invitarunt, et Dominum laudaverunt, contradicentes etiam malis106.
Per avere una visione più completa del parlare in lingue è d’obbligo far riferimento a un altro testo del Nuovo Testamento, la prima Lettera ai Corinzi. Qui, la glossolalia è innanzitutto un modo di pregare, un modo di comunicare con Dio, un loquere Deo che consiste precisamente in uno ψαλῶ, uno psalmodiare. Tuttavia, secondo Paolo, il dono delle lingue non è di per sé sufficiente a edificare l’assemblea dei credenti. Le parole devono essere indirizzate anche alla comunità degli uomini e, per questo, devono essere portatrici di intelligenza: le cose dette, se non sensate, scrive Paolo, rischiano di perdersi nell’aria (1 Cor 14, 1-40). La descrizione del passo paolino si pone in modo problematico rispetto al tema del dono delle lingue esposto negli Atti degli Apostoli. Se in quest’ultimo testo il dono delle lingue è esaltato come un miracolo divino, nella Lettera ai Corinzi la glossolalia sembra essere sconfessata in nome di un altro dono, quello della profezia, la scienza capace di rivolgersi attraverso l’interpretazione, la spiegazione, il chiarimento, a chi non è in grado di accedere ai misteri di Dio. Il parlare in lingue, infatti, è un mezzo, secondo Paolo, per edificare se stessi, senza che gli altri, nel caso non posseggano questo dono e siano letteralmente «idioti», chiusi cioè nei confini di una sola lingua («qui non intelligit nisi linguam suam»)107, possano beneficiare del messaggio divino. Un altro punto problematico è rappresentato dal concetto stesso di ‘parlare in lingue’. Dall’inattività dell’intelligenza, che caratterizza nel passo paolino la preghiera privata, si è dedotto che il fenomeno glossolalico consista in parole estatiche, in lingue d’estasi, confuse. Si è dedotta inoltre la distinzione tra xenoglossia (parlare in lingue straniere), vocabolo più appropriato per descrivere il fenomeno di At 2, e glossolalia, propriamente dono soprannaturale di parlare con espressioni confuse, definizione che sembrerebbe adeguarsi meglio alla narrazione della Lettera ai Corinzi, dove il termine assume apparentemente una connotazione 106
ALANO DI LILLA, Sermo VIII, In die Sancto Pentecostes, PL 210, 219BC. TOMMASO D’AQUINO, Super I epistolam Pauli ad Corinthios, I, 15, l. 5, 860, in ID., Super epistolas Sancti Pauli, ed. R. Cai, Torino - Roma 1953, [pp. 233-435], p. 399. 107
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negativa. In ogni caso, il passaggio paolino, scrive Crisostomo, è assolutamente oscuro, in ragione della nostra ignoranza di ciò che si produsse allora e che adesso non si produce108. Lo stesso Tommaso lascia trapelare nella sua esegesi la difficoltà nell’inquadrare con precisione cosa sia effettivamente questo «loquitur lingua» cui fa riferimento Paolo. La definizione tommasiana oscilla indifferentemente tra diverse opzioni. L’espressione parlare in lingua può indicare il parlare una «lingua ignota», «non explanata», un idioma preciso che può essere indirizzato a un interlocutore di diversa radice idiomatica e, per questo, se non sottoposto a spiegazione, incomprensibile («sicut si lingua Theutonica loquatur alicui Gallico, et non exponat, hic loquitur lingua»)109. In senso più generale, è «lingua ignota» perché non si rivolge agli uomini, all’intelletto degli uomini110. Può indicare, inoltre, la mancanza di attenzione, di presenza di sé nell’atto di proferire una parola con il rischio di non comprenderne il significato; si può recitare, per esempio, la preghiera del Padre Nostro senza che il soggetto «intelligat quae dicit»: questo per Tommaso è un pregare in lingua, con la sola lingua («iste orat lingua»)111. Infine, può designare il parlare di misteri occulti e oscuri: «Loquantur linguis, ad litteram extraneis, vel loquantur ignota et obscura»112. Ma nella Lettera di Paolo il parlare in lingue è davvero concepito come qualcosa di negativo? Non esiste alcun margine che possa collegare i due episodi biblici in questione? Rispondere a queste domande significa difendere la scelta di definire glossolalico il linguaggio degli abitanti della terza cantica della Divina Commedia, senza che il termine sia accompagnato necessariamente dalla connotazione negativa di confusione. Ci si limita a evidenziare quattro nuclei concettuali:
108 Cf. GIOVANNI CRISOSTOMO, In I epistolam ad Corinthios, Homelia XXIX, 1, PG 61, 239B. 109 TOMMASO D’AQUINO, Super I epistolam Pauli ad Corinthios, XIV, l. 1, 814, ed. Cai cit. (alla nota 107), p. 390. 110 Cf. ibid., 817, p. 391: «Qui loquitur lingua, scilicet ignota, non loquitur hominibus, id est, ad intellectum hominum, sed Deo, id est, ad honorem Dei tantum». 111 Ibid., l. 3, 837, p. 395. Cf. ibid., 840, p. 395: «Triplex est attentio. Una est ad verba quae homo dicit: et haec aliquando nocet, inquantum impedit devotionem; alia est ad sensum verborum, et haec nocet, non tamen est multum nociva; tertia est ad finem, et haec est melior et quasi necessaria». 112 Ibid., l. 5, 860, p. 398.
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1) Non esiste nell’Epistola nessuna vera contrapposizione tra il dono delle lingue e il dono della profezia; tale contrapposizione è solo apparente, come segnala anche Tommaso:
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Hic apostolus excludit obiectionem seu falsum intellectum, qui posset esse circa praemissa. Possent enim aliqui credere, quod ex quo apostolus praefert prophetiam dono linguarum, quod donum linguarum esset contemnendum113.
L’obiettivo principale dell’ammonizione paolina è una collocazione precisa del dono delle lingue, una regolazione dell’utilizzo della glossolalia nel contesto di un’assemblea di preghiera. Si può parlare, pertanto, di un’integrazione dei due doni volta a edificare contemporaneamente se stessi e gli altri (e non di mera competizione di un carisma rispetto all’altro), cosa che si evince non solo dalla lettura dell’Epistola, ma anche dall’interpretazione che ne suggerisce ancora una volta Tommaso: Aliquando autem non solum loquuntur linguis, sed etiam ea, quae dicunt, interpretantur. Et ideo dicit nisi forte interpretetur. Nam donum linguarum cum interpretatione est melius quam prophetia114.
2) Questo aspetto si lega a un altro dato: nessuna delle facoltà umane deve essere esclusa, secondo Paolo, dalla partecipazione all’azione divina. Deve esistere un equilibrio tra lo spirito (interpretato da Tommaso anche come immaginazione) e l’intelletto, che accorda un senso, una volontà o un’attenzione all’emissione glossolalica. Solo in questo modo quanto proferito acquisisce valore di linguaggio, non si limita a essere una sola espressione dello spirito e rientra in un circuito di comunicazione. L’invito ad accordare le diverse facoltà è valido in particolare per la preghiera e per la lode, due momenti in cui il linguaggio attualizza pienamente le sue potenzialità: Homo debet servire Deo de omnibus quae habet a Deo; sed a Deo habet spiritum et mentem, et ideo debet de utroque orare (...). Et sic dicit orabo et psallam; quia oratio, vel est ad deprecandum Deo et sic dicit orabo, vel laudandum et sic dicit psallum (...). Orabo ergo spiritu, id est imaginatione, et mente, id est voluntate115.
113
Ibid., l. 2, 820, p. 392. Ibid., 822, p. 392. 115 Ibid., l. 3, 841, p. 395. 114
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3) La glossolalia è un dono dello Spirito Santo, e in quanto tale oggettivamente positivo. I due passi di At e 1 Cor sono accomunati da questo elemento: lo Spirito gioca insieme all’uomo un ruolo importante nell’emissione della voce. Inoltre, negli Atti ciò che risulta essenziale è la proclamazione della gloria di Dio, quanto ci riporta alle espressioni «eulogein», «psallein», impiegate nella prima Lettera ai Corinzi a proposito del parlare in lingue. Un accordo che è confermato dal testo di At 10, 46: la discesa dello Spirito Santo sui pagani della casa di Cornelio spinge questi a parlare in lingue e a lodare Dio («loquentes linguis et magnificantes Deum»). 4) Lo stesso linguaggio estatico, quello che dai moderni è considerato propriamente glossolalico, non è necessariamente confuso, nel senso negativo del termine, ma può essere sia un parlare in lingue straniere (come abbiamo visto nella definizione data da Tommaso), sia un linguaggio apparentemente disordinato, in realtà portatore di armonia. Secondo la testimonianza di un seguace di Francesco d’Assisi, il poverello in estasi credeva di sentire una musica di infinita dolcezza «qui gallicam dabat sonum»; da questa «vena divini susurrii (...) gallicum erumpebat in iubilum»116. La lingua di Santa Cristina, inoltre, secondo la testimonianza lasciataci da Thomas de Cantimpré, è una «harmonia mirabilis» composta da «verba melodiae», ossia parole che in senso stretto non possono essere definite tali («tamen verba dicit possunt, incomprehensibiliter concrepabant»)117. È rilevante per il nostro quadro interpretativo costatare come la glossolalia sia legata da un filo sottile al linguaggio della lode, allo psalmodiare – come attestano le parole di Paolo, «orabo spiritu, orabo et mente, psallam spiritu, psallam et mente» (1 Cor 14, 15), e il racconto di Luca, «audimos loquentes eos nostris linguis magnalia Dei» (At 2, 11) – al canto melodico, individuati come elementi strutturanti della terza cantica. Un nesso che dipende dalla incapacità di esprimere la gioia che scaturisce dal contatto con il meraviglioso. L’unico modo di dire l’ineffabile consiste 116 Legenda trium sociorum (La leggenda di San Francesco scritta da tre suoi compagni), edd. M. da Civezza - T. Domenichelli, Roma 1899, p. 124. Cf. anche ed. T. Desbonnets, in «Archivum Franciscanum Historicum», 67 (1974), pp. 89-114. 117 THOMAS DE CANTIMPRÉ, Vita de Sancta Christina mirabili virgine, III, 35 in «Acta sanctorum», 24.5 (1868), [pp.650-656], p. 654.
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nel parlare in lingue, sia che questo sia inteso come un parlare in lingue straniere (xenoglossia), sia una lingua confusa nel senso positivo del termine; in ogni caso un linguaggio affettivo difficilmente interpretabile secondo criteri razionali e ordinari, nel senso che la parola, o le parole utilizzate, rompono il quadro convenzionale nel quale sono inserite solitamente e sono delegate a esprimere qualcosa di più intimo e profondo, un sapere spirituale e intellettuale. Un inno del mattutino della liturgia della Pentecoste, tratto dagli Analecta hymnica Medii Aevi, è un esempio appropriato di quanto si sta dicendo. Come in Abelardo, il parlare in lingue è il modo migliore per celebrare Dio, un modo che assurge in una prospettiva anti-babelica (dalla confusione al «consonare» delle diverse voci) a momento salvifico: Impleta gaudent viscera, adflata sancto lumine; voces diversae consonant, fantur Dei magnalia. Ex omni gente cogitur Graecus, Latinus, Barbarus, cunctisque admirantibus linguis loquuntur omnium118.
Comprendere l’intreccio tra Pentecoste-glossolalia-lode da un punto di vista filosofico-linguistico significa fare i conti per l’ennesima volta con gli scritti di Agostino, e in particolare con quei testi dove si trovano allusioni al linguaggio ‘disarticolato’ (simile alla glossolalia): In iubilatione cane. Hoc est enim bene canere Deo, in iubilatione cantare. Quid est canere? (...) verbis explicare non posse quod canitur corde. Etenim illi qui cantant, sive in messe, sive in vinea, sive in aliquo opere ferventi, cum coeperint in verbis canticorum exsultare laetitia, veluti impleti tanta laetitia, ut eam verbis explicare non possint, avertunt se a syllabis verborum, et eunt in sonum iubilationis. Iubilum sonus quidam est significans cor parturire quod dicere non potest. Et quem decet ista iubilatio, nisi ineffabilem Deum? Ineffabilis enim est, quem fari non potes; et si eum fari non potes, et tacere non
118 In Pentecoste: ad matutinas laudes, in Analecta hymnica Medii Aevi, LI, ed. M. Dreves - C. Blume, Leipzig 1908, p. 98, n. 92, str. 5-6.
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debes, quid restat nisi in iubiles, ut gaudeat cor sine verbis, et immensa latitudo gaudiorum metas non habeat syllabarum119?
Per Agostino, la parola rivolta a Dio, adeguata cioè a esprimere l’ineffabile della sua natura e la dilatazione del cuore che ne consegue (è da notare come non ci sia spazio per il silenzio, ma solo per un’urgenza morale e naturale del dire: «Tacere non debes») consiste in un superamento dei limiti imposti dalle sillabe. L’accento è posto sull’ineffabilità, sulla letizia, e la scelta delle modalità espressive non ricade sulla parola tout court (il «verbum»), ma su una rinuncia al linguaggio convenzionale. Questo fenomeno ha un nome, giubilo, e consiste in melopee, in canti di esaltazione, che risuonano per esempio durante la celebrazione della messa; o durante la raccolta tra i vendemmiatori e gli agricoltori, i quali, è scritto in un altro passaggio, gioiscono per la fecondità della terra cantando con trasporto. Nei canti enunciati i contadini inseriscono vocaboli con un senso differente dall’ordinario, il modo più efficace per esprimere l’esaltazione dell’anima: si attua la loro iubilatio quando «inter cantica, quae verbis enuntiant, inserunt voces quasdam sine verbis in elatione exultantis animi»120. Se si prende in considerazione la definizione tecnica del termine giubilo, che appartiene alle teorie musicali, si può capire fino in fondo l’utilizzo nella Divina Commedia di vocaboli come sabaòth, alfa, o, I, alleluia, ecc., vocaboli che rimandano sia alla gioia interna, sia ai diversi nomi con i quali Dio poteva essere nominato121. Una definizione canonica si trova 119 AGOSTINO DI IPPONA, Enarrationes in Psalmos, XXXII, II, 1, 8, PL 36, 283, edd. Dekkers - Fraipont cit. (alla nota 27), I, p. 254, 19-32. 120 Cf. ibid., XCIX, 4, PL 37, 1272, II, p. 1394, 1-19: «Qui iubilat, non verba dicit, sed sonu quidam est laetitiae sine verbis: vox est enim animi diffusi laetitia, quantum potest, exprimentis affectum, non sensum comprehendentis. Gaudens homo in exsultatione sua, ex verbis quibusdam quae non possunt dici et intelligi, erumpit in vocem quamdam exsultationis sine verbis; ita ut appareat eum ipsa voce gaudere quidem, sed quasi repleto nimio gaudio, non posse verbis explicare quod gaudet (...). Tamen ut hoc quod dico intellegatis, immo recordemini rem cognitam, maxime iubilant qui aliquid in agris operantur; copia fructuum iucundati vel messores, vel vindemiatores, vel aliquos fructus metentes, et in ipsa fecunditate terrae et feracitate gaudentes, exsultando cantant; et inter cantica quae verbis enuntiant, inserunt voces quasdam sine verbis in elatione exsultantis animi, et haec vocatur iubilatio». 121 Cf. LOMBARD, De la glossolalie cit. (alla nota 97), p. 232: «La glossolalie est souvent chantée, ou émise sur un ton intermédiaire entre la parole et le chant; on
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Glossolalia, Pentecoste e giubilo
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nell’edizione vaticana del Graduale romanum: «Chorus autem repetit alleluia et subiungit neuma, seu iubilum protrahens syllabam a»122. Iubilare, iubilatio, iubilus: gioia spirituale che si esteriorizza in canti o in grida; nell’Alto Medioevo il giubilo serve a designare le vocalizzazioni sull’ultima sillaba di alleluya (ya = Dio)123. La melodia, che molto spesso è sinonimo di giubilo, si sostituisce alle semplici parole. È ancora Agostino a dare le definizioni più precise: iubilare è il gaudium che non può manifestarsi attraverso le parole, ma per mezzo di voci capaci di esprimere «quod intus conceptus est». Si giubila nei canti per esaltare la letizia, «cui dicendo lingua non sufficit», solo per mezzo di quelle voci che sono indici di un affetto dell’anima, «indicetur animi affectus», «quod corde concepitur». E se questo è valido per le gioie terrene, si chiede Agostino, cosa dire di quella gioia celeste «quod vere verbis explicare non possumus»124? Con uno sguardo rivolto all’ineffabile e, contemporaneamente, all’urgenza della parola che scaturisce da una gioia che non può essere celata, in questo modo Gregorio Magno definisce il giubilo: Iubilum namque dicitur quando ineffabile gaudium mente concipitur, quod nec abscondi possit, nec sermonibus aperiri; et tamen quibusdam motibus proditur, quamvis nullis proprietatibus exprimatur125.
a quelque chose d’approchant dans les hymnes ou les cantilènes mystiques, improvisés en plein émotion, mais avec des paroles empruntées à la langue ordinaire». 122 Graduale sacrosanctae romanae ecclasiae (De ritibus servandis in cantu missae) IV, ed. Desclée, Paris - Tournai - Roma 1961, p. 24. 123 Cf. A. SOLIGNAC, s. v. Jubilation, in Dictionnaire de spiritualité cit. (alla nota 97), VIII, coll. 1471-1478. 124 Cf. AGOSTINO DI IPPONA, Enarrationes in Psalmos, XCIV, 3, PL 37, 1218, edd. Dekkers - Fraipont cit. (alla nota 27), II, pp. 1332, 1 - 1333, 12: «Quid est iubilare? Gaudium verbis non posse esplicare, et tamen voce testari quod intus conceptum est et verbis explicari non potest: hoc est iubilare. Nam consideret caritas vestra qui iubilant in cantilenis quibusque, et quasi in certamine quodam laetitiae saecularis; et videtis quasi inter cantica verbis expressa exundantes laetitia, cui lingua dicendo non sufficit, quemadmodum iubilent, ut per illam vocem indicetur animi affectus, verbis explicare non valentis quod corde concipitur. Si ergo illi de gaudio terreno iubilant, nos de gaudio caelesti iubilare non debemus, quod vere verbis explicare non possumus?». 125 GREGORIO MAGNO, Moralia in Iob, XXIV, 6, 10, PL 76, 292A, ed. Adriaen cit. (cap. 3, alla nota 65), III, p. 1195, 8-13.
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Il linguaggio del Paradiso: «redole odor di lode»
L’attenzione che si è voluta prestare al nesso Pentecoste-giubilo-glossolalia è funzionale alla comprensione del quadro intellettuale cui è incardinato il linguaggio degli abitanti dislocati in Paradiso. Dietro il plurilinguismo della terza cantica si nasconde un modello valoriale che fa della diversità, sempre se inquadrata nella prospettiva dell’Unum, qualcosa di positivo. La rinnovazione delle anime spinte dall’amore verso Dio, grazie a un nuovo patto con lo Spirito Santo, genera nei cieli parole virtuose, dolci; un linguaggio di grazia, benedetto, armonioso. Dante si pone il problema di come rendere in modo appropriato le diverse voci che risuonano in Paradiso, come descrivere in modo efficace un’esperienza emotiva e intellettuale di cui è protagonista non secondario. L’autore fiorentino trova una soluzione nel patrimonio della liturgia medievale; nel giubilo, nel parlare in lingue, nelle interiezioni, nelle invenzioni di parlate non convenzionali, nella disarticolazione del linguaggio canonico, nelle espressioni esclamatorie: mezzi che rinviano alla parola ‘affettiva’, capace di enucleare non solo un concetto della mente o designare in modo estensivo la cosiddetta res, ma manifestare quanto si muove e si concepisce nel cuore, nel flusso dell’anima coinvolta interamente nella sua relazione dinamica con le cose. Un modello filosofico per avviare l’avventura linguistica della Divina Commedia, e del Paradiso in modo particolare, è Agostino. Questi più volte inquadra nei suoi scritti l’importanza del legame tra verbum cordis e verbum oris, e nonostante la preminenza data al primo, non si esenta mai dal tentativo di far emergere «quanto più è possibile» ciò che si svolge internamente. L’eredità agostiniana più marcata che è possibile rinvenire nei testi danteschi è quella relativa all’ineffabile. Di fronte alle esperienze («quo saepe fruor interius»), «sermo meus displicet», scrive Agostino. Allo stesso modo Dante che, posto dinanzi alle meraviglie paradisiache, dove sprofondano l’intelletto e la memoria lasciando solo una traccia emotiva di quanto visto e vissuto, afferma: «Sermo deficit». Tuttavia, si tratta di dare voce a questa passione, anche se il linguaggio a disposizione non è in grado di adempiere a tale scopo126. Nonostante esista una spro126 Ha scritto ROSSINI, La disianza senz’ali cit. (alla nota 58), p. 46: «Il carattere estremo dell’‘esperienza’ vissuta nel paradiso si manifesta attraverso questa radicale analisi delle facoltà conoscitive dell’uomo, che vengono valutate al limite della loro possibilità e sulla soglia della loro definitiva sconfitta: pertanto Dante da un lato, in piena assonanza con il discorso agostiniano, giunge a questa prova
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Glossolalia, Pentecoste e giubilo
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porzione tra quanto si vive e il discorso, vi è nell’uomo una necessità del dire, conseguenza non solo di un sentimento difficile da contenere, ma anche di un’esigenza morale di edificare gli altri, che muova e commuova gli altri al sentimento di letizia che pervade il Paradiso. E quale migliore strumento per realizzare tale obiettivo se non la lode, il giubilo, un discorso rinnovato e diretto, affettivo, intuitivo e non convenzionale? Il programma di Dante è già tutto delineato nella Vita nuova: Propuosi di dicere parole, ne le quali io dessi ad intendere de le sue mirabili ed eccellenti operazioni; acciò che non pur coloro che la poteano sensibilmente vedere, ma li altri sappiano di lei quello che le parole ne possono fare intendere127.
La Divina Commedia non è solo un’opera che descrive immagini, è il tentativo di portare agli altri attraverso la parola una «passione impressa», come si dirà nel canto XXXIII del Paradiso, la traccia emozionale di un’esperienza, quella che Agostino definisce in questi termini: «Vestigia quaedam miro modo impressit memoriae»128. Il linguaggio veicola idee
pienamente cosciente del carattere contraddittorio che essa racchiude, dall’altro mostra una chiara consapevolezza del carattere ‘mistico’ di questa ‘esperienza’, e quindi affronta con decisione il rischio della perdita delle parole e dei concetti, cioè della sconfitta dell’io e del suo perdersi e annullarsi. Anche in Dante (...) il momento finale del percorso di ascesa non si risolve nella semplice dissoluzione dell’individualità all’interno del divino e della trasformazione dell’uomo, anzi se è pur vero che ‘trasumanar significar per verba / non si poria’ (Par. I, 70-71), risulta altrettanto necessario superare questo ostacolo e ripensare ad adeguati meccanismi di comunicazione della verità appresa». 127 VN XXVI 4. 128 Cf. AGOSTINO DI IPPONA, De catechizandis rudibus, II, 3, 2-4, PL 40, 311, ed. I. B. Bauer, Turnhout 1969 (CCSL, 46), [pp. 121-178], p. 122, 6-22 : «Nam et mihi prope semper sermo meus displicet. Melioris enim avidus sum, quo saepe fruor interius, antequam eum explicare verbis sonantibus compero; quod ubi minus quam mihi notus est evalueor, contristor linguam meam cordi meo non potuisse sufficere. Totum enim quod intellego volo ut qui me audit intellegat et sentio me non ita loqui ut hoc efficiam, maxime quia ille intellectus quasi rapida coruscatione perfundit animum, illa autem locutio tarda et longa est longeque dissimilis; et, dum ista voluitur, iam se illa in secreta sua condidit; tamen, quia vestigia quaedam miro modo impressit memoriae, perdurant illa cum syllabarum morulis atque ex eisdem vestigiis sonantia signa peragimus, quae lingua dicitur vel latina vel greca vel hebraea vel alia quaelibet, sive cogitentur haec signa sive etiam
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e tenta, allo stesso tempo, di far condividere un sentire. Il Paradiso, per Dante, è un insieme di visioni composte da rappresentazioni e dilatazioni del cuore. Se non si tiene conto di questa duplice dimensione, non si può capire a pieno la forza prorompente che le parole assumono nel poema; lo sperimentalismo impressionistico ed espressionistico da sempre giudicato come la novità del capolavoro di Dante; lo sforzo possente di significare ad alterum, e «significar per verba», la «favilla» di un Erlebnis divino: Qual è colüi che sognando vede, che dopo ‘l sogno la passione impressa rimane, e l’altro a la mente non riede, cotal son io, ché quasi tutta cessa mia visïone, e ancor mi distilla nel core il dolce che nacque da essa. Così la neve al sol si disigilla; così al vento ne le foglie levi si perdea la sentenza di Sibilla. O somma luce che tanto ti levi da’concetti mortali, a la mia mente ripresta un poco di quel che parevi, e fa la mia lingua tanto possente, ch’una favilla sol de la tua gloria possa lasciare a la futura gente129.
voce proferantur, cum illa vestigia nec latina nec greca vel hebraea nec cuiusque alterius gentis sit propria, sed ita efficiantur in animo ut vultus in corpore». 129 Par. XXXIII 58-72.
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PARTE TERZA All’origine della parola
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Capitolo 5
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Il primiloquium di Adamo e la retorica della pura oratio: la parola perfetta
Quid autem prius vox primi loquentis sonaverit, viro sane mentis in promptu esse non titubo ipsum fuisse quod Deus est, scilicet El, vel per modum interrogationis, vel per modum responsionis. (De vulg. I iv 4)
1. Il paradigma adamitico Diversi fattori concorrono all’invenzione del monosillabo El, con il quale l’Alighieri immagina come Adamo si sia rivolto a Dio, nell’atto stesso in cui Dio lo ha creato. Questi fattori riguardano ambiti speculativi differenti, intrecciati in modo indissolubile, e che soltanto per esigenze critiche tendiamo a separare. Esiste, innanzitutto, un fattore teologico-filosofico, che riguarda una sorta di dibattito implicito e ideale che Dante ingaggia con la tradizione esameronale, dibattito che permette all’autore fiorentino di spostare su una nuova prospettiva il tema della genesi della parola. Vi è poi un fattore che concerne la scelta deliberata da parte di Dante di non affidare a Eva la locutio prima: questo permette di inquadrare il primiloquium sotto il segno della morale, di un principio di responsabilità che mette in evidenza come la parola adamitica non sia soltanto il frutto di un dialogo con Dio, ma anche il risultato di un atteggiamento interno moralmente positivo. Esiste, ancora, un fattore che può essere definito teologico-retorico: la parola prima di Adamo è esplicitamente un ringraziamento, un atto discorsivo che magnifica la gloria di Dio; che riconosce la primalità del Signore in quanto Creatore. In questo senso, mi
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Il primiloquium di Adamo e la retorica della pura oratio
è sembrato opportuno richiamare alcuni testi, relativi alla tradizione delle artes orandi, che riflettono proprio su quest’atto discorsivo che si rivolge a Dio, la lode, il giubilo, in generale la preghiera: alla luce di queste riflessioni, il valore della locutio prima di Adamo potrebbe essere apprezzato nella sua pienezza. Infine, non è da dimenticare il fattore grammaticale: l’El, in quanto monosillabo che esprime la gioia, rinvia inevitabilmente al mondo delle interiezioni, particulae orationis in grado di concettualizzare la relazione esistente tra l’Uomo e Dio. Nell’economia dell’opera dantesca, l’episodio relativo alla nascita della parola, che l’autore fiorentino sviluppa secondo quell’arte sintattica che Auerbach gli ha riconosciuto come uno dei tratti originali della sua creatività, occupa una posizione centrale. Poche righe del trattato latino proiettano in un quadro teologico e filosofico le intuizioni sul linguaggio e il suo formarsi, che Dante coglie in chiave psicologica nella Vita nuova. Il gioco degli spiriti nell’animo dell’individuo, il ruolo di Amore nella genesi del segno linguistico, sono fattori, come abbiamo visto, che concorrono a una concezione sul linguaggio di tipo a-razionale, ‘affettivo’, che si preoccupa di far emergere l’urgenza della parola relativa allo stato morale del locutore. Fattori che si ripresentano nel De vulgari eloquentia in modo potenziato, perché inseriti in un contesto nuovo, virtuale e virtuoso, quello del paradiso terrestre, il luogo ideale anche da un punto di vista euristico per comprendere l’efficacia massima che si nasconde dietro la parola. Come nel libello, infatti, nel trattato sul volgare è ancora una volta lo spirito a muovere la parola (la parola prima che Adamo pronuncia), e ancora una volta l’amore media tra l’agente linguistico e la realizzazione segnica di quest’ultimo: Opinantes autem non sine ratione, tam ex superioribus quam inferioribus sumpta, ad ipsum Deum primitus primum hominem direxisse locutionem, rationabiliter dicimus ipsum loquentem primum, mox postquam afflatus est ab Animante virtute, incunctanter fuisse locutum. Nam in homine sentiri humanius credimus quam sentire, dummodo sentiatur et sentiat tanquam homo. Si ergo Faber ille atque Perfectionis Principium et Amator, afflando primum nostrum omni perfectione complevit, rationabile nobis apparet nobilissimum animal non ante sentire quam sentiri cepisse1.
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De vulg. I v 1.
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Il paradigma adamitico
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La maturità che il De vulgari mostra da un punto di vista speculativo, rispetto alla Vita nuova, è data dalla capacità di Dante in quest’opera di concentrare in poche espressioni quanto negli anni giovanili emerge in modo confuso. Ho già avuto occasione di constatare come nel libello si affacci una prima idea di schema bipolare di linguaggio, uno legato al tormento, l’altro alla gioia; una differenza risultata dall’assenza o dalla presenza di Beatrice, simbolo escatologico, e dallo stato che questa assenza e questa presenza suscitano nell’animo del personaggio. Lo schema si ripresenta nel De vulgari, è trattato in modo puntuale e getta le basi teoriche della diversità di modi loquendi che caratterizzerà le parlate dei cittadini della Divina Commedia, quelli che vivono in uno stato di peccato e quelli che vivono in una condizione di letizia perenne: ai primi corrisponderà un linguaggio intriso di dolore, mentre ai secondi una locutio ritmata dal movimento interno della gioia. Scrive Dante nel De vulgari, con piglio sicuro («non titubo»), e corroborando la sua riflessione attorno alla parola prima sulle sole forze della ragione: com’è possibile immaginare che nello stato di peccato la prima parola proferita dall’uomo sia stata un heu!, così è ragionevole pensare che il linguaggio del paradiso sia stato il frutto della gioia («gaudium») di Adamo di fronte a Dio2. Quello che emerge con particolare forza da questa riflessione sintetica e precisa è il riferimento, riconfermato in un passaggio successivo in modo ancora più esplicito3, alla lode, il grande tema filosofico-linguistico che lega senza soluzione di continuità la Vita nuova, i primi libri del trattato, alcuni capitoli del Convivio e la terza cantica del Paradiso. L’episodio adamitico, inoltre, così come è concepito da Dante ricolloca in maniera cristallina un’idea che si affaccia negli anni precedenti alla redazione del De vulgari: la parola non è mai neutra, ma portatrice delle esigenze morali, sentimentali e razionali di colui che la utilizza; questa è mista, scrive il giovane poeta, ai sospiri, quindi depositaria della condizione psicologica
2 Cf. ibid. I iv 4: «Absurdum atque rationi videtur horrificum ante Deum ab homine quicquam nominatum fuisse, cum ab ipso et in ipsum factus fuisset homo. Nam, sicut post prevaricationem humani generis quilibet exordium sue locutionis incipit ab heu, rationabile est quod ante qui fuit inciperet a gaudio; et cum nullum gaudium sit extra Deum, sed totum in Deo, et ipse Deus totus sit gaudium, consequens est quod primus loquens primo et ante omnia dixisset ‘Deus’». 3 Cf. ibid. I v 2: «[Deus] voluit tamen et ipsum loqui, ut in explicatione tante dotis gloriaretur ipse qui gratis dotaverat. Et ideo divinitus in nobis esse credendum est quod in actu nostrorum affectuum ordinato letamur».
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Il primiloquium di Adamo e la retorica della pura oratio
del locutore4. Un’idea che l’Autore cristallizza nel trattato con la scelta di affidare il suo pensiero a due cifre linguistiche con funzione interiettiva: heu, l’interiezione di dolore che esprime lo stato peccaminoso dell’uomo dopo la cacciata dal paradiso, ed El (Deus), risultato dalla gioia del primo essere senziente al contatto con Dio. Dante affida ad Adamo il ruolo di paradigma (o se si vuole di exemplum e auctoritas), che dirige le scelte linguistiche che l’autore fiorentino attuerà nell’intero corso della sua opera5. Gli elementi caratterizzanti questo modello sono già tutti presenti, in modo nascosto dal punto di vista speculativo, nella Vita nuova, e ruotano in particolare attorno ad alcuni concetti-chiave: lode, importanza della forma esclamatoria e interiettiva della parola6, nesso etica-linguaggio. Il De vulgari non fa altro che portare alla luce questi concetti, mettendo in scena una rappresentazione, quella della nascita perentoria della parola a opera di Adamo, che non trova uguali nel contesto culturale del Medioevo.
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Per questi aspetti cf. supra, cap. 1. Dante dà avvio allo studio della parola prima attraverso l’utilizzo dell’accessus ad auctores, affermando implicitamente il ruolo di autorità che la figura di Adamo riveste. Sull’accessus risultano fondamentali gli studi del solito Nardi: cf. in particolare B. NARDI, Osservazioni sul medievale Accessus ad Auctores in rapporto all’Epistola a Cangrande, in Studi e problemi di critica testuale, Atti del convegno di Studi (...), Commissione per i testi di lingua, Bologna 1961, pp. 273-305. 6 Ha scritto AUERBACH, Studi su Dante cit. (cap. 2, alla nota 28), p. 33: «Quasi tutti i componimenti di Dante, fin dal primo giorno, sono intesi non solo a piacere all’ascoltatore e ad ottenere l’applauso, ma a incantarlo e a irretirlo nella sua magia; e il suo tono, nelle poesie più belle, non è quello di una comunicazione, ma di uno scongiuro, di un invito alla comunanza dell’intimo essere, di un comando a seguirlo; ed esso commuove e accende con tanta maggior forza in quanto non è rivolto a tutti, ma ad eletti. Si legga e si consideri: Donne che avete intelletto d’amore (...). È un’apostrofe; ma è anche di più. È invito, scongiuro, altissima pretesa e profonda fiducia. Con piglio sicuro il poeta ha tratto fuori dalla massa dei viventi la schiera degli eletti, li ha raccolti attorno a sé, ed essi ora stanno là, separati dagli altri, pronti ad ascoltarlo. È l’apostrofe, il mezzo artistico preferito da Dante; ma questo termine non ci deve far pensare a una specie di artificio tecnico, perché esso è davvero l’espressione naturale della pienezza del suo spirito. L’apostrofe in Europa è vecchia come la poesia: Omero la usa spesso (...). Le preghiere cristiane, gli inni e le sequenze hanno dato all’apostrofe nuovo vigore; ma si cercherebbe invano un’apostrofe con un simile tono di scongiuro. Anche i provenzali, che all’inizio e alla tornada delle grandi canzoni prendono molto slancio la conoscono appena; al Guinizzelli è del tutto estranea; Dante le ha dato nuova vita». 5
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a) Nominatio rerum Se confrontata con la tradizione esameronale, che legittima le proprie argomentazioni sull’origine della parola a partire dal dato scritturale di Genesi 2, 19-207, il problema della nascita del linguaggio è affrontato da Dante in maniera originale, a partire dal principio metodologico che mette in campo per consolidare su basi solide la sua soluzione: la ragione. Ponendo se stesso in modo audace quale punto di riferimento per avviare la discussione, l’Autore focalizza l’attenzione nello sviluppo del suo tema su un aspetto nuovo, rispetto alle conclusioni a cui giungono i tanti commentari sulla Bibbia che costellano l’epoca medievale. Una novità suggellata dalla terminologia messa in gioco per spiegare un soggetto di difficile comprensione. Basti pensare al vocabolo «primiloquium», una specie di neologismo che non ha precedenti negli scritti di altri autori medievali, e che indica precisamente la parola prima proferita dal primo uomo nel paradiso terrestre8; al termine «sentiri», verbo al passivo con il quale si vuole designare la vera condizione che è alla base dell’enunciazione della parola di Adamo; al concetto di «locutio», il cui suffisso tio tradisce, secondo canoni consolidati nella lingua latina, l’attività verbale che il sostantivo racchiude: la locutio indicherà pertanto il parlare in quanto tale9; infine, agli avverbi «incunctanter» e «mox»: nell’atto dell’insufflamento vitale a opera di Dio, che plasma l’anima del primo uomo, «subito» è pronunciata la parola «El». Insomma, tutti fattori che contribuiscono a evidenziare come Dante focalizzi le sue mire speculative sull’urgenza della parola. Ponendo il tema della genesi del linguaggio, il De vulgari, quindi, si allontana da una tradizione che da Agostino fino a Tommaso fa riferimento in modo costante all’episodio biblico della nominatio rerum. La narrazione su Adamo che compartecipa della creazione di Dio attraverso
7 Cf. X. MURATOVA, Adam donne leurs noms aux ainimaux, in «Studi Medievali», 18.2 (1977), pp. 367-394; G. DAHAN, Nommer les êtres: exégèse et théories du langage dans les commentaires médiévaux de Genèse 2, 19-20, in Sprachtheorien in Spätantike und Mittelalter (Geschichte der Sprachtheorie, 3), ed. S. Ebbesen, Tübingen 1995, p. 55-74. 8 È da osservare che alla voce «loquor» delle Derivationes di Uguccione si ha «anteloquium, id est prima locutio»: cf. UGUCCIONE DA PISA, Derivationes, ed. Cecchini cit. (cap. 4, alla nota 94), p. 701. 9 Cf. cap. 1, nota 10.
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la nominazione degli animali e delle cose, così come l’episodio è raccontato dal Genesi, racchiude nella sua immediatezza un messaggio chiaro: la funzione primordiale della lingua è la denominazione, la significatio, e il nome è utilizzato essenzialmente per corrispondere alla res. Dato evidente dalla lettura che del passo del Genesi in questione fa Isidoro nelle Etimologie, dove è scritto che l’attribuzione dei vocaboli alle cose da parte di Adamo è avvenuta in relazione alle funzioni naturali ed essenziali che appartengono a queste ultime («appellans unicuique nomen ex praesenti institutione iuxta condicionem naturae cui serviret»)10. Per Tommaso, la perfezione del primo uomo nello stato di innocenza è condizione necessaria perché questi possa nominare gli animali: nel ragionamento che la Summa elabora, si afferma che una «scientia infusa» («primus homo habuit scientiam omnium per species a Deo infusas»)11 permette ad Adamo di significare in modo congruo le cose e fissare definitivamente il rapporto biunivoco esistente tra parola e res12. Che l’atto di imposizione dei nomi narrato nella Bibbia stabilisca una volta per tutte la funzione ultima del linguaggio, designare la cosa secondo la sua essenza, è quanto si evince con decisione dai commenti al Genesi di Pietro di Giovanni Olivi ed Enrico di Gand. Secondo l’interpretazione di quest’ultimo, il quale fa riferimento alla massima aristotelica «nomina imposita sunt communia omnibus rebus», l’attività del primo uomo corrisponde a quella di un eccellente metafisico («optimus metaphysicus»), che impone i nomi alle sole specie grazie alla conoscenza che possiede delle «quidditates» delle cose. In questo modo, l’imposizione lascia un segno che permette di risalire dai nomi stessi alle essenze: «Ut ipsa nomina essentialia [essent], deducentia in cognitionum essentiarium»13. Pietro di Giovanni Olivi è ancora più radicale: Adamo non ha imposto i nomi ai 10 ISIDORO DI SIVIGLIA, Etymologiae, XII, 1, 1, 423D, ed. Lindsay cit. (Introd., alla nota 32), p. 33, 2-3. 11 TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 94, art. 3, ad 1, ed. Leonina cit. (cap. 1, alla nota 4), V, p. 417. 12 Ibid., sed contra, p. 458: «Nomina autem debent naturis rerum congruere. Ergo Adam scivit naturas omnium animalium, et pari ratione, habuit omnium aliorum scientiam». 13 ENRICO DI GAND, Lectura ordinaria super Sacram Scripturam, II, ed. R. Macken, Leuven - Leyden, 1980, p. 206, 12-16: «Artificialiter et sicut optimus metaphysicus qui optime novit rerum essentias et quidditates, nomina solis speciebus imposuit diversa secundum diversitatem essentiarum et ipsiis essentiis rerum
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soli animali e alle sole cose, ma ai generi primi, ai corpi primi dell’universo e ai principi primi degli elementi complessi14. L’assenza di riferimento al Genesi è già stata considerata da più critici come eclatante nel De vulgari, assenza che dal punto di vista filosofico ha una ripercussione notevole sull’economia generale del pensiero dantesco. Se, infatti, il dato biblico pone l’accento sull’adaequatio nome/cosa, limitando il linguaggio alla sola funzione di designazione estensiva della res, immaginare come fa l’Alighieri che la parola prima sia pregna della gioia di colui che la pronuncia significa legittimare un uso del linguaggio essenzialmente come strumento che veicola un pensiero/sentimento. Inoltre, è da notare come la parola di Adamo sia rappresentata nel De vulgari in un contesto dialogico: Dio crea nell’aria attraverso la natura, sua ministra, particolari «verba» indirizzati al primo uomo, il quale reagisce alla sollecitazione divina per mezzo della particella El 15. Questo aspetto dialogico del parlare, che Dante sottolinea in modo inequivocabile con l’espressione «vel per modum interrogationis, vel per modum responsionis» (con la quale si indica la modalità di realizzazione concreta della parola di Adamo), è emerso, forse per la prima volta, con gli studi di Roger Dragonetti, precisamente in un articolo intitolato La conception du langage poétique dans le De vulgari eloquentia de Dante, apparso nel 1961. Il critico si è soffermato sulle finalità poetiche che hanno spinto Dante a smarcarsi in modo originale dalle posizioni scolastiche sul tema in questione16. La sua è un’analisi suggestiva, e sembra richiamare la terminologia filosofica che Lévinas ha adoperato per chiarire come
correspondentia, ut ipsa nomina essentialia [essent], deducentia in cognitionum essentiarum». 14 Cf. PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Genesim, Gn 2, 20, ed. D. Flood (con il titolo On Genesis), Saint Bonaventure (NY) 2007, pp. 124-125: «Si Adam imposuit nomina ceteris rebus sicut animalibus, tunc verisimile est quod primis generibus seu rationibus, entium et primis corporibus mundi primisque principiis miscibilium seu mixtorum imposuerit nomina, quasi derivata a primis». 15 Cf. De vulg. I iv 6. 16 Insistendo su concetti come «interpellation», «confrontation», «communication», ha scritto DRAGONETTI, La conception du langage cit. (Introd., alla nota 34), pp. 17-18: «L’homme à qui l’Autre (Dieu) se donne dans la parole, est requis de répondre par le même geste. La parole symbolise alors un échange par lequel le moi et l’Autre en reconnaissant leur appartenance mutuelle, s’obligent à conserver ce pacte fondamental. Ce geste sacrifiel de réciprocité amoureuse instaure
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il linguaggio rappresenti il luogo d’incontro tra due soggetti, senza che l’uno possa inglobare l’altro per mezzo di una conoscenza totalizzante. La parola è il momento dinamico di questo incontro, che non può essere compreso nella categoria di corrispondenza (tesi-antitesi), ma secondo l’idea concreta e viva di infinito: «Contact de l’intangible», «relation avec un être qui conserve son extériorité totale par rapport à celui qui le pense»17; relazione con l’Altro, «laquelle se coule dans la relation du langage dont l’essentiel est l’interpellation, le vocatif. L’Autre se maintient et se confirme dans son hétérogénéité aussitôt qu’on l’interpelle (...). L’invoqué n’est pas ce que je comprends: il n’est pas sous catégorie. Il est celui à qui je parle»18. Il monosillabo con il quale Adamo si rivolge a Dio è contemporaneamente tre cose: un monosillabo di sapienza, che in modo puntuale dice il principio primo delle cose e il fine cui queste tendono; si rivolge al principio stesso sotto forma di domanda o di risposta; manifesta sotto una modalità affettiva (la gioia) il risultato immediato scaturito dal dialogo. La differenza della concezione dantesca sull’origine della parola rispetto alla tradizione esameronale è notevole, se questa vede nell’essenza del linguaggio la nominatio, occasione per legittimare, come per esempio in Agostino19, la superiorità dell’uomo sulle creature, Dante coglie all’origine della parola la funzione di dire la relazione dell’essere umano con la res. Il modo più efficace per esprimere questa relazione è un monosillabo dalle caratteristiche grammaticali ambigue; come avremo occasione di indagare in un paragrafo dedicato allo studio sull’interiezione, una cifra
toute communication véritable. Et sans doute, cet échange de gloire est-il pour Dante le trait fondamental de cette parole d’entente». 17 E. LÉVINAS, Totalité et infini. Essai sur l’extériorité, I.1, 5, Paris 2006 (10ª ed.), p. 42. 18 Ibid., I.2, 3, p. 65. 19 Cf. AGOSTINO DI IPPONA, De Genesi contra Manichaeos, II, 11, 16, PL 34, 205: «Ex hoc enim apparet ipsa ratione hominem meliorem esse quam pecora, quod distinguere et nominatim ea discernere, nonnis ratio potest, quae de ipsis iudicat». Cf. PIETRO COMESTORE, Scolastica historia, Liber Genesis, XVII, PL 198, 1069D, ed. A. Sylwan, Turnhout 2005 (CCCM, 191), p. 35: «Adduxit Deus ad Adam omnia terrae animantia at aeris ut imponeret homo eis nomina, in quo scirent sibi praeesse, et sciret Adam nullum ex eis simile sibi. Et imposuit eis Adam lingua Hebraea, quae sola fuit ab initio. Quod inde perpenditur quia nomina quae luguntur usque ad divisionem linguarum Hebraea sunt».
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linguistica che oscilla allo stesso tempo tra una dimensione razionale e una dimensione sentimentale. Prima di entrare nel merito del valore grammaticale e filosofico della vox che Adamo fa risuonare nell’ambiente del paradiso terrestre, si ritiene necessario soffermarsi su un’altra caratteristica che contraddistingue in modo chiaro la posizione dantesca sulla genesi del linguaggio: il quis della parola, ossia l’agente linguistico in quanto tale, che il testo presenta in modo indiretto introducendo inaspettatamente la figura di Eva. La cosa è d’importanza non marginale, perché attraverso il simbolo della prima donna si conferma, da una parte, il carattere dialogico che Dante vuole imprimere alla parola di Adamo20, dall’altra quella che Dino Castaldo con un’espressione felice ha definito «l’etica del primiloquium»21.
b) L’etica del primiloquium In modo controverso, all’altezza del quarto capitolo, libro I del De vulgari eloquentia, Dante attribuisce al Genesi la nozione che il primo essere a proferire parola sia stato Eva, per poi correggere il Libro Sacro in nome della ragione, e affermare con risolutezza che Adamo è il primo locutore: «Sed quanquam mulier in scriptis prius inveniatur locuta, rationabilius tamen est ut hominem prius locutum fuisse credamus»22. Quello che a prima vista si presenta come un pensiero rocambolesco, o come il frutto eventuale della superbia di un autore che vuole sostituirsi all’autorità della Sacra Scrittura, è il tentativo di far luce sulla Bibbia, a partire dal concetto di locutio che il De vulgari mette in gioco. Locutio, è scritto nel terzo capitolo del trattato, è manifestare i propri pensieri per mezzo di un segno sensibile, una capacità che non appartiene agli angeli, in grado di comunicare tra di loro in modo interattivo23, né agli animali, sottoposti
20 Cf. I. ROSIER-CATACH, «Il n’est pas raisonnable de croire que la très présomptueuse Ève fut le premier être parlant», in «Poésie», 120 (2007), pp. 392-397. 21 Cf. D. CASTALDO, L’etica del primiloquium di Adamo nel De vulgari eloquentia, in «Italica», 59.1 (1982), pp. 3-15. 22 De vulg. I iv 3. 23 Per spiegare le particolari modalità di comunicazione degli angeli, l’immediatezza con la quale sostanze intelligenti si scambiano informazioni, Claude Panaccio ha parlato di «telephone system» e di «radio system». Cf. C. PANACCIO,
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alla legge naturale degli istinti. L’uomo, invece, bilancia nel suo essere una parte razionale e una parte materiale, il corpo, la cui «grossitia» può essere superata nell’atto di comunicazione solo dall’utilizzo del segno sensibile24. Il fatto che la comunicazione preveda un connubio tra segno razionale e «sensuale» scarta le ipotesi che a parlare possano essere stati per la prima volta Dio (che può indirizzarsi agli altri con un linguaggio non propriamente umano); l’asina di Balaam, che come ricorda Numeri 22, 28-30 parla perché mossa da un angelo; il serpente, di cui il diavolo si serve come strumento linguistico per realizzare i propri intenti: tre casi analizzati dal De vulgari25, estrapolati dalla Bibbia, esclusi come possibili esempi di locutio e che confermano due dati: «Oportuit (...) genus humanum ad comunicandas inter se conceptiones suas aliquod rationale signum et sensuale habere»26; «Soli homini datum est loqui»27. Stabilito che il loquere è fenomeno autenticamente umano, consolidata da un punto di vista teorico l’essenza comunicativa e dialogica del linguaggio, scartata a priori l’ipotesi della nominatio rerum, nella logica dantesca l’unico vero esempio di fenomeno locutorio a cui il Libro Sacro potrebbe far riferimento è quello di Eva, un dialogo tra la prima donna e il serpente. Si legge nel De vulgari: «Secundum quidem quod in principio Genesis loquitur, ubi de primordio mundi Sacratissima Scriptura pertractat, mulierem invenitur ante omnes fuisse locutam, scilicet presumptuosissimam Evam, cum dyabolo sciscitanti respondit (...)». Tuttavia, continua Dante, è più ragionevole pensare che la parola prima sia stata proferita da un uomo28. Considerare la comunicazione (la significatio ad alterum) solo in una prospettiva intellettualistica, neutra, come se l’obiettivo dell’Autore fosse
Angel’s Talk, Mental Language, and the Transparency of the Mind, in Vestigia, Imagines, Verba: Semiotics and Logic in Medieval Theological Texts (XIIth-XIVth Century), ed. C. Marmo, Turnhout 1997, pp. 324-335. Cf. supra, cap. 1, § 1. 24 Cf. De vulg. I iii 1. 25 Cf. ibid. ii 6: «Et si obiciatur de serpente loquente ad primam mulierem, vel de asina Balaam, quod locuti sint, ad hoc respondemus quod angelus in illa et dyabolus in illo taliter operati sunt quod ipsa animalia moverunt organa sua, sic ut vox inde resultavit distincta tanquam vera locutio; non quod aliud esset asine illud quam rudere, neque quam sibilare serpenti». 26 Ibid. iii 2. 27 Ibid. ii 1. 28 Ibid. iv 2.
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quello di una riflessione scientifica sul linguaggio di tipo contemporaneo, sarebbe sbagliato. Non ci metterebbe nella condizione di capire perché la proposta biblica di vedere in Eva un locutore sia giudicata irragionevole. Per l’Alighieri il fenomeno linguistico non si riduce all’enucleazione agli altri di un pensiero, ma è qualcosa di intimamente connesso al concetto di bene, che dipende dallo stato morale di colui che parla. Eva è figura emblematica del nesso etica-linguaggio, ed è pretesto per parlare della parola adamitica, depositaria di valori moralmente positivi. Il trattato latino esclude preliminarmente che la prima vera locutio possa essere attribuita agli spiriti dannati. Quando si parla di linguaggio si tratta di qualcosa che serve al bene: «Quod cum de his, quae necessaria sunt ad bene esse, tractemus». Quello dei demoni, come abbiamo avuto occasione di constatare, è un linguaggio portatore di rovina, di perfidia; invece di costruire il luogo di un possibile «commertium» tra gli esseri, destruttura qualsiasi idea di comunità29. La superbia che il De vulgari attribuisce al genere umano sotto il regime politico di Nembrot conferma l’idea che il vizio è molla scatenante della confusione, la vera causa che distrugge la convivenza tra gl’individui. Come i demoni e i giganti, la «praesumptuosissima» Eva ha commesso un peccato di orgoglio, non riconoscere il limite nell’ordine gerarchico voluto da Dio, e un’orgogliosa ribellione può essere soltanto alla base di una parola oggettivamente e moralmente apostata, contraria alla volontà divina30. La locutio della prima donna non può essere giudicata attraverso un criterio veritativo, o secondo una prospettiva scientifica che ne coglie il carattere dialogico in senso avalutativo, ma deve essere giudicata secondo un principio che tenga conto della qualità morale del parlante e del modo in cui questa qualità caratterizza il segno linguistico indirizzato a un ipotetico destinatario. Preoccupazione di Dante è individuare, in vista della formulazione del primiloquium, un principio di responsabilità sot-
29 Cf. ibid. ii 4: «Et si obiciatur de hiis qui corruerunt spiritibus, dupliciter responderi potest: primo quod, cum de hiis que necessaria sunt ad bene esse tractemus, eos preterire debemus, cum divinam curam perversi expectare noluerunt; secundo et melius quod ipsi demones ad manifestandam inter se perfidiam suam non indigent nisi ut sciat quilibet de quolibet quia est et quantus est; quod quidem sciunt: cognoverunt enim se invicem ante ruinam suam». 30 Il legame tra etica e linguaggio nel pensiero di Dante è trattato supra, nel cap. 2. Per la figura di Nembrot, cf. supra, cap. 3, § 4.
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to il quale collocare da sempre la parola. È indicativo come nello stesso capitolo consacrato al tema dell’origine del parlare si faccia riferimento al verbo «respondit», che rinvia al modo in cui Eva si rivolge al diavolo, e al sostantivo «responsio» per significare la parola di Adamo indirizzata a Dio. Al momento della sua formazione la parola è lo strumento che consolida una relazione tra due attori. Il rispondere di Eva al demonio, chiaramente speculare al respondere di Adamo a Dio, è la manifestazione linguistica di un atteggiamento interno che si rende disponibile alla tentazione: la volontà di Eva acconsente ad ascoltare parole che insinuano la ribellione a Dio, suggellando in questo modo un patto su cui potrà fondarsi soltanto una società di perversione31. Al contrario di Eva, la risposta di Adamo acconsente ad accettare un patto con il divino e si concentra in un discorso che, a rigore, non può essere definito tale. A differenza della prima donna che si avventura in una sorta di sproloquio32, Adamo manifesta la sua nettezza morale in un segno linguistico netto, chiaro, come chiara e netta può essere per esempio un’affermazione che si esprime con il ‘sì’: una piccola particella che impegna in modo distinto l’agente linguistico che la utilizza, non lasciando spazio a dubbi e a interpretazioni. Ma cos’è precisamente questo El, questo monosillabo presentato come parola perfetta che risuona nell’atmosfera ideale del paradiso? Si tratta del primo e più tipico dei nomi ebraici di Dio, secondo una tradizione radicata. Basti considerare che i nomi di Dio in ebraico circolano in opere comuni di tipo enciclopedico come quelle di Isidoro e di Uguccione. Nelle Etimologie è scritto: il beatissimo Girolamo, uomo erudito ed esperto di più lingue, è il primo ad aver tradotto il significato dei nomi ebraici in latino; dai suoi testi si deduce il senso dei nomi attribuiti a Dio in lingua ebraica. Per questo motivo: «In principio (...) decem nomina ponimus, quibus apud Hebraeos Deus vocatur. Primum apud Hebraeos Dei nomen El dicitur; quod alii Deum, alii etymologiam eius exprimentes ischyros, id est fortem interpretati sunt, id quod nulla infirmitate oprimitur, sed fortis est et sufficiens ad omnia perpetranda»33.
31
Cf. CASTALDO, L’etica del primiloquium cit. (alla nota 21), in partic. pp. 6-7. Cf. De vulg. I iv 2. 33 ISIDORO DI SIVIGLIA, Etymologiae, VII, 1, 2-3, PL 82, 259CD, ed. Lindsay cit. (Introd., alla nota 32), p. 257, 7-12. 32
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L’ebraico è il «sacratum ydioma» che le labbra del primo parlante fabbricarono, lingua rimasta intatta nella sua forma originaria a quei pochi che non parteciparono all’opera iniqua della costruzione di Babele: la stirpe di Sem, dalla quale ha avuto origine il popolo ebraico, che ha usato l’idioma sacro fino alla sua dispersione. Differenziate le lingue di tutti gli altri gruppi umani per la punizione divina, la lingua originaria rimase appannaggio della famiglia di Heber, da cui il nome di ebrei34. Tra le autorità concordanti si può citare il De civitate Dei di Agostino: Quia ergo in eius [scil. di Heber] familia remansit haec lingua, divisis per alias linguas ceteris gentibus, quae lingua prius humano generi non immerito creditur fuisse communis, ideo deinceps Hebraea est noncupata35.
Infine, il De vulgari stabilisce un nesso tra lingua originaria e lingua di Cristo, nesso che assume una sfumatura teologico-finalistica marcata («hiis solis post confusionem remansit, ut Redemptor noster, qui ex illis oriturus erat secundum humanitatem, non lingua confusionis, sed gratie, frueretur»)36. Su questa stessa linea, Rabano Mauro nel suo commento al Genesi, riprendendo alla lettera uno spunto dalle Interrogationes et responsiones in Genesin di Alcuino: Si quis quaerit in qua familia illa permansit lingua quae primitus Adam data fuit, sciat credibile esse quod in familia Heber, ex quo Hebraei dicti sunt, in ea parte hominum qua Dei portio permansit, in qua et Christus nasciturus erat37.
I passi relativi alla genesi del linguaggio sono una «sintesi sillogistica», come opportunamente è stata definita da Pier Vincenzo Mengaldo38, di nozioni che appartengono a una tradizione comune. Si conferma l’idea che l’originalità di Dante non consista in un’invenzione di sana pianta di concetti inesistenti nel contesto in cui egli sviluppa le sue dottrine, ma in
34
Cf. De vulg. I vi 5-7. AGOSTINO DI IPPONA, De civitate Dei, XVI, 11, PL 41, 490, edd. Dombart Kalb cit. (cap. 3, alla nota 93), p. 513, 12-15. 36 De vulg. I vi 6. 37 RABANO MAURO, Commentaria in Genesim, II, 11, PL 107, 530C; cf. ALCUINO DI YORK, Interrogationes et responsiones in Genesim, Interr. 150, PL 100, 533D. 38 P. V. MENGALDO, s. v. Ebraico, in ED, II, p. 621. 35
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un uso cinico di questi concetti in vista di interessi ed esigenze personali. Nel complesso del De vulgari la perfezione del monosillabo El, la sua unità, universalità e semplicità, diventa il paradigma, dopo la frammentazione delle lingue seguita alla costruzione di Babele, per ricostruire un linguaggio (poetico) in nome di questa stessa unità, universalità e semplicità. Il monosillabo El è un modello di per sé evidente, per sottigliezza, puntualità, brevità, dolcezza, virtù; concentra bontà bellezza e verità. È razionale e affettivo allo stesso tempo. Parla di Dio, si rivolge a Dio ed esprime la relazione tra l’uomo e Dio. Nella tradizione medievale esiste un unico tipo di linguaggio con queste caratteristiche di perfezione, dove la dimensione cognitiva si confonde con quella sentimentale, un tipo di linguaggio portatore di un surplus di conoscenza: la preghiera.
2. L’arte della preghiera Gli studi critici che si sono occupati della riflessione filosofica di Dante sul linguaggio, con riferimento particolare al passaggio del De vulgari sul primiloquium, non hanno tenuto conto di un dato: la preghiera, che come si evince dall’ambivalenza racchiusa nello stesso termine oratio, è per i medievali ‘il’ linguaggio, ‘la’ locutio, nel senso che tutte le caratteristiche appartenenti al discorso terreno (l’oratio saecularis, secondo la definizione puntuale di Guglielmo d’Alvernia) si ritrovano potenziate nel discorso che si rivolge a Dio, il sacrum eloquium, l’oratio spiritualis. La voce del primo locutore descritta nel trattato dantesco possiede una serie di caratteristiche che rientrano nella sfera di una retorica divina, richiamano una terminologia tecnica che ruota appunto attorno alla riflessione dei teologi sulla preghiera; caratteristiche alle quali in altra occasione si è fatto cenno: la vox del primo locutore come dialogo, vel per modum interrogationis, vel per modum responsionis; linguaggio di grazia; lode gratuita e disinteressata volta a magnificare la gloria di Dio, principio e fine delle cose; brevità e puntualità della parola indirizzata al Signore. Tutti elementi che si ritrovano confusi in quello che può essere definito un discorso in sé paradossale. L’impostazione filosofica che soggiace all’elaborazione della nascita della parola nel De vulgari è facilmente rintracciabile se si tiene conto dell’importanza che la preghiera assume negli scritti medievali. Nella Summa di Guglielmo Peraldo, per esempio, è scritto in modo semplice
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e secondo un modo argomentativo quasi sillogistico: la lingua è un dono concesso soltanto agli uomini e nessuna altra creatura è onorata dall’utilizzo di questo membro; è un organo della ragione («quantum ad usum loquelae organum est rationis»), una specie di ambasciatore («nuntius») di quanto la ragione stessa concepisce; disonorevole sarebbe inviare un messo senza che questo rispetti la funzione per la quale è concepito:
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Deberet homines movere ad diligentem custodiam linguae, ad officium quod lingua deputata est. Est enim deputata ad orandum (...) ad proferenda verba sacra39.
Tutta la vita dell’uomo medievale è consacrata alla preghiera, come se il discorso rivolto alla divinità gettasse le fondamenta per avviare un percorso esistenziale vissuto all’insegna della stabilità. I teologi del secolo XIII, maestri di un linguaggio tra i più formalizzati del Medioevo, si mostrano allo stesso tempo maestri di preghiere implicite e meno implicite, «état de contemplation amoureuse et de connivence avec Dieu – ha scritto Nicole Bériou – où tout l’œuvre prend sa source et son sens»40. Durante l’età carolingia la preghiera è addirittura uno dei due pilastri, insieme alla predicazione, su cui si regge la compattezza dell’impero: la grande impresa di rinascita a opera di Carlo Magno è stata in gran parte concepita come riforma della liturgia, vero fondamento della vita cristiana41. Non
39 GUGLIELMO PERALDO, Summae virtutum ac vitiorum, II, IX, pars 1, ed. Venezia 1571, pp. 530-531. Cf. DOMENICO CAVALCA, Il pungilingua, I, ed. Bottari cit. (cap. 2, alla nota 36), pp. 1-2: «Dio singolarmente onorò l’uomo, dandogli la lingua da parlare; la qual cosa a niun’altra creatura concedette (...). Grande adunque villania fa l’uomo d’offendere Iddio con quel membro, nel quale Dio l’ha singolarmente onorato (...). La lingua è organo della ragione, cioè ordinato e fatto per esprimere e manifestare di fuori il senno, ed il lume dentro. E perciò a solo comandamento della ragione dee parlare, e non altrimenti; e molto sconvenevole cosa è, ch’ella senza, o contra ragione parli; come se un messo o fante d’un signore portasse alcuna imbasciata non detta da lui; e massimamente se fosse contra lui (...). La (...) cosa, che debbe inducere l’uomo a ben guardare la lingua, sì è la degnità degli uffizj, a’ quali la lingua è dal Signore Iddio ordinata; cioè a orare, e lodare, e ringraziare Iddio». 40 N. BÉRIOU - J. BERLIOZ - J. LONGÈRES, Prier au Moyen Âge: pratiques et expériences (Ve-XVe s.), Turnhout 1991, Intr., p. 10. 41 Cf. N. STAUBACH, Cultus divinus und karolingische Reform, in «Frühmittelalterliche Studien», 18 (1984), pp. 546-581.
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c’è da stupirsi che l’epoca medievale abbia affidato una particolare cura al discorso per eccellenza, quello rivolto a Dio, preoccupandosi dei modi, della qualità, della tipologia di realizzazione del discorso sacro. Accanto alle artes praedicandi, che si sono preoccupate attraverso la produzione di diversi manuali di rendere efficace dal punto di vista retorico il sermo del predicatore, si assiste nel Medioevo alla proliferazione di testi consacrati allo studio meticoloso della preghiera, una sorta di arte che a partire dall’età moderna ha assunto il nome emblematico di ars orandi42. L’oggetto di quest’arte è il discorso, e colui che prega, afferma Pietro Cantore, è a tutti gli effetti un artigiano («artifex»), il cui materiale di lavoro sono lettere e sillabe che necessitano per un loro utilizzo appropriato di una scienza adeguata da parte dell’orante43. In quanto discorso con Dio e su Dio, nel senso che questi funge da oggetto e da interlocutore, la preghiera merita a pieno titolo il suo nome latino di oratio, un discorso tuttavia che non si limita all’enunciazione, ma che è capace di comprendere un proposito dell’anima. Agostino, in un testo citato più volte, le Enarrationes in Psalmos, definisce la preghiera cristiana come una «locutio» continuamente rivolta al Signore per esprimere un movimento
42 Sul tema della preghiera e delle artes orandi nel Medioevo ci si è avvalsi dei seguenti studi: B. DE BOER, L’attention dans la prière chez Saint Thomas d’Aquin, in «Revue Thomiste», 60 (1960), pp. 100-117; Prière, in Dictionnaire de spiritualité cit. (cap. 4, alla nota 97), XII, coll. 2196-2347, in partic. i contributi di A. MÉHAT, Les religions antiques; ID., La prière dans la tradition chrétienne: du IIe siècle au concile de Nicée; P. GRELOT, La prière dans la Bible; A. SOLIGNAC, Pères de l’Eglise du IVe au VIe siècle; J. CHÂTILLON, La prière au Moyen Âge. Si veda inoltre: BÉRIOU - BERLIOZ - LONGÈRES, Prier au Moyen Âge cit. (alla nota 40); B. H. JAYE, Artes orandi, in M. G. BRISCOE, Artes praedicandi - B. H. JAYE, Artes orandi, Turnhout 1991 (Typologie des sources du Moyen Âge occidental, 61), pp. 77-118; J. L. SOLÈRE, De l’orateur à l’orant: la «rhétorique divine» dans la culture chrétienne occidentale, in «Revue de l’Histoire des Religions», 211.2 (1994), pp. 187-224; G. ANTONI, La prière chez Saint Augustin. D’une philosophie du langage à la théologie du Verbe, Paris 1997; P. HENRIET, La parole et la prière au Moyen Âge: le Verbe efficace dans l’hagiographie monastique des siècles XIe et XIIe, Bruxelles 2000; G. D’ONOFRIO, Prière, philosophie et théologie durant l’antiquité chrétienne et le haut Moyen Âge, in La prière en latin, de l’Antiquité au XVIe siècle: formes, évolutions, significations, Turnhout 2006 (Centre National de la Recherche Scientifique. Centre d’études Préhistoire, Antiquité, Moyen Âge, Collection d’Études Médiévales de Nice, 6), pp. 317-350. 43 Cf. JAYE, Artes orandi cit. (alla nota 42), p. 92.
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dello spirito. Precisamente scrive: «Oratio tua locutio est ad Deum (...) quando oras Deo loqueris»44. La definizione agostiniana è importante, perché porta alla luce uno dei caratteri essenziali che appartengono all’oratio, e che abbiamo riconosciuto come caratteristica del primiloquium di Adamo: la sua natura dialogica. Un aspetto già presente nella tradizione platonica che con il Fedro e il Simposio concepisce la preghiera come un dialogo filosofico; concezione a sua volta ripresa dai Padri della Chiesa. Questa dimensione dialogica mette in evidenza un altro dato. La formulazione della preghiera, scrive sempre Agostino, non serve a far ricordare all’interlocutore (Dio) ciò che da sempre conosce, ma è un mezzo per orientare l’anima verso la perfezione unitaria del principio e delle realtà spirituali invisibili45. Lo scopo ultimo della preghiera è la presa di coscienza delle nostre aspirazioni, un’azione che non deve essere concepita come possibilità di flettere la volontà divina, ma come riconoscimento di se stessi in vista di un desiderio e di un affectus per i beni che Dio medesimo ha deciso di accordarci46. Questo è quanto ammette anche Tommaso, il quale riprendendo la soluzione di Agostino scrive che è necessario indirizzare le preghiere al Signore («Deo preces porrigere») non tanto per segnalare i nostri bisogni, ma per persuaderci che in queste cose bisogna ricorrere all’aiuto divino («ut nos ipsi consideremus in his ad divinum auxilium esse recurrendum»)47; oppure, per eccitare in noi stessi la fiducia nel porgere le richieste di aiuto e perché Dio possa essere riconosciuto come l’autore dei nostri beni («ut recognoscamus eum esse bonorum nostrorum auctorem»)48. Scrive lo stesso Dante nel De vulgari: Si quis vero fatetur contra obiciens quod non oportebat illum loqui, cum solus adhuc homo existeret, et Deus omnia sine verbis archana nostra discernat etiam ante quam nos, cum illa reverentia dicimus qua uti oportet cum de Eter-
44 AGOSTINO DI IPPONA, Enarrationes in Psalmos, LXXXV, 7, PL 37, 1086, edd. Dekkers - Fraipont cit (cap. 4, alla nota 27) (CCSL, 39), p. 1182, 50-51. 45 Cf. ID., De Magistro, I, 2, PL 32, 1195, ed. K. D. Daur, Turnhout 1970 (CCSL, 29), [pp. 157-203], pp. 158, 37 - 159, 77. 46 Cf. ID., Epistula Probae, 8, 17, in ID., Epistulae, CXXX, PL 33, 500-501, ed. A. Goldbacher, 5 voll., Praha - Wien - Leipzig 1904 (CSEL, 44), II/3, [pp. 40-77], pp. 59, 11 - 60, 23. 47 TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, IIa IIae, q. 83, art. 2, ad 1, ed. Leonina cit. (cap. 1, alla nota 4), IX, p. 194. 48 Ibid., ad 3, p. 194.
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na Voluntate aliquid iudicamus, quod licet Deus sciret, immo presciret (quod idem est quantum ad Deum) absque locutione conceptum primi loquentis, voluit tamen et ipsum loqui, ut in explicatione tante dotis gloriaretur ipse qui gratis dotaverat. Et ideo divinitus in nobis esse credendum est quod in actu nostrorum affectuum ordinato letamur49.
L’orazione, ha osservato Giulio d’Onofrio, gioca un’importante funzione di cerniera tra la conoscenza razionale e la conoscenza religiosa, la prima fonte di informazioni certe e incontestabili, ma mai definitive, la seconda totalizzante e perfetta, superiore alle possibilità di apprendimento naturale proprie all’intelligenza umana. Il fine ultimo dell’oratio è il riconoscimento di Dio come principio delle cose e abbandono emotivo a questo stesso principio: perfetta convergenza di credere e intelligere, dell’etica religiosa e della conoscenza50. Un passaggio dei Soliloquia agostiniani porta alla luce questo meccanismo alla base della preghiera, esposizione sintetica di principi teologici (dispiegamento circostanziato degli attributi divini) che nell’atto di essere enunciati spingono il fedele a desiderarli e ad accettarli: Deus universitatis conditor (...). Deus per quem omnia, quae per se non essent, tendunt esse (...). Deus qui de nihilo mundum istum creasti, quem omnium oculi sentiunt pulcherrimum. Deus qui malum non facis, et facis esse ne pessimum fiat. Deus qui paucis a id quod vere est refugientibus, ostendis malum nihil esse. Deus per quem universitas etiam cum sinistra parte perfecta est. Deus a quo dissonantia usque in extremum nulla est, cum deteriora melioribus concinunt. Deus quem amat omne quod potest amare, sive sciens, sive nesciens Deus in quo sunt omnia, cui tamen universae creaturae nec turpitudo turpis est, nec malitia nocet, nec error errat. Deus qui nisi mundos verum scire noluisti (...). Te invoco, Deus veritas, in quo et a quo et per quem vera sunt, quae vera sunt omnia. Deus sapientia, in quo et a quo et per quem sapiunt, quae sapiunt omnia. Deus vera et summa vita, in quo et a quo et per quem vivunt, quae vere summeque vivunt omnia. Deus beatitudo, in quo et a quo et per quem beata sunt, quae beata sunt omnia. Deus bonum et pulchrum, in quo et a quo et per quem bona et pulchra sunt, quae bona et pulchra sunt omnia. Deus intellegibilis lux, in quo et a quo et per quem intellegibiliter lucent, quae intellegibiliter lucent omnia. Deus cuius regnum
49 50
De vulg. I v 2. Cf. D’ONOFRIO, Prière cit. (alla nota 42).
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est totus mundus, quem sensus ignorat (...) Te deprecor (...) Deus qui nos convertis (...) Deus qui nos unis, Deus qui nos in omnem veritatem inducis (...) adveni mihi propitius tu. Quidquid a me dictum est, unus Deus tu, tu veni mihi in auxilium; una aeterna vera substantia, ubi nulla discrepantia, nulla confusio, nulla transitio, nulla indigentia, nulla mors. Ubi summa concordia, summa evidentia, summa constantia, summa plenitudo, summa vita. Ubi nihil deest, nihil redundat (...) Deus (...) cuius legibus (...) omnis mundus (...) magnam rerum costantiam, quantum sensibilis materia patitur (...) custodit. Deus cuius legibus (...) arbitrium animae liberum est, bonisque praemia et malis poenae, fixis per omnia necessitatibus distributae sunt (...). Ad te mihi redeundum esse sentio (...) sed unde ad te perveniatur ignoro. Tu mihi suggere, tu ostende, tu viaticum praebe. Si fide te inveniunt qui ad te refugiunt, fidem da; si virtute, virtutem; si scientia, scientiam (...). Tantum oro excellentissimam clementiam tuam, ut me penitus ad te convertas, nihilque mihi repugnare facias tendenti ad te51.
Dio è riconosciuto come principio, mezzo e fine delle cose («in quo et a quo et per quem»), e di conseguenza diventa il centro attorno al quale si muove lo spirito dell’orante. Oggetto di conoscenza e d’invocazione, il Deus è l’elemento monotematico della preghiera, il punto unico verso il quale si converte colui che prega, la stabilità che corrobora la concordia, la vera sostanza che elimina in terra qualsiasi forma di confusione. La centralità che Dio assume nel discorso dell’orante si trasforma in Agostino nel tentativo (che sarà più esplicito in Ugo di San Vittore) di rendere concisa la preghiera: l’invocazione, è scritto nella seconda parte dei Soliloquia, deve essere breve e perfetta quanto più è possibile: il modo più efficace e immediato di conoscersi riconoscendo l’identità di Dio: RATIO: Ora brevissime ac perfectissime, quantum potes. AUGUSTINUS: Deus, semper idem, noverim me, noverim te52.
In quanto discorso che si rivolge a un interlocutore con parole sensate e che realizzano un atto della ragione, la preghiera è sottoposta nel Medioevo alla tecnica della retorica, l’arte dell’eloquio, il cui scopo è principalmente persuadere o commuovere un ascoltatore. Come l’oratore, l’orante
51 AGOSTINO DI IPPONA, Soliloquia, I, 1, 2-6, PL 32, 869-872, ed. W. Hörmann, Wien 1986 (CSEL, 89), [pp. 3-98], pp. 4-11. 52 Ibid., II, 1, 1, p. 45.
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deve essere maestro dei diversi stratagemmi con i quali la parola viene fabbricata, in modo tale che questa risulti efficace nel suo atto. Rabano Mauro, consapevole del modello agostiniano del vir christianus dicendi peritus, osserva che è necessario che colui che predica la parola di Dio sia in grado di padroneggiare l’arte della retorica53. Dopo aver constatato che l’essenza della preghiera consiste in un discorso o una conversazione / conversione con / verso Dio, è necessario prendere in considerazione un aspetto ulteriore: la retorica della preghiera. In quanto atto di linguaggio, cioè insieme di enunciati indirizzati a qualcuno e organizzati secondo un ordine prestabilito, la preghiera rivela – o dovrebbe rivelare – una costituzione retorica implicita. Come enunciato umano essa può essere costruita secondo regole precise, tipi di discorsi codificati, con lo scopo di suscitare, alla pari di un discorso profano, determinati effetti sull’ascoltatore. In questa linea di ricerca, mi concentrerò, nel paragrafo successivo, su due testi, uno di Guntero di Parigi, che c’introduce in una prima definizione articolata del termine oratio; l’altro, la Rhetorica divina, di Guglielmo di Alvernia, l’opera che più di tutte sottolinea l’esigenza di una costruzione retorica della preghiera, l’affinità esistente tra l’arte del parlare e l’arte del pregare.
a) La rhetorica divina Nel De oratione, ieiunio et eleemosyna, opera di Guntero di Parigi scritta nel 1205, l’arte tipica dell’uomo cristiano, la preghiera, è descritta per la prima volta in maniera articolata. Il primo libro è dedicato puntualmente alla spiegazione dell’equivoco di cui il termine oratio è portatore. Secondo Guntero esistono quattro tipi di discorso, il grammaticale, il retorico, il dialettico e il cattolico:
53 Cf. RABANO MAURO, De institutione clericorum, III, 19, PL 107, 396C, ed. D. Zimpel, Frankfurt 1996 (Freiburger Beiträge zur mittelalter. Geschichte, Studien unde Texte, 7), p. 470, 2-7: «Rethorica est, sicut magistri tradunt, saecularium litterarum bene dicendi scientia in civilibus quaestionibus. Sed haec definitio licet ad mundanam sapientiam videatur pertinere, tamen non est extranea ab ecclesiastica disciplina. Quicquid enim orator et praedicator divinae legis diserte et decenter profert in docendo, vel quicquid apte et eleganter depromit in dictando, ad huius artis congruit».
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Quod orationis vocabulum ad plura aequivocum est, ponenda est primum eiusdem orationis divisio, ut relictis aliis, illam speciem de qua nobis agere propositum est eligamus. Est igitur oratio: alia quidem grammatica, alia dialectica, alia rhetorica, alia vero catholica54.
Le differenze che intercorrono tra questi tipi di discorso sono sostanziali e accidentali, riguardano il modo in cui il discorso stesso si costruisce, il fine cui le parole tendono, l’intenzione alla base di colui che formula la frase, addirittura il ‘tempo’ con cui si scandisce il ritmo di quest’ultima. Alla luce di questi criteri, risulta la totale superiorità dell’oratio catholica rispetto agli altri tipi di discorso, in quanto si rivolge a Dio e perché capace di includere nella sua costruzione grammaticale l’arbitrio e la dimensione affettiva del locutore. Secondo una prospettiva che sembra anticipare l’attuale fenomenologia del discorso religioso, oggetto di una disciplina quale la filosofia delle religioni, Guntero ritiene che l’oratio catholica, la preghiera, sia in grado di assolvere a un compito che le altre orationes non sono in grado di realizzare: dare un senso intimo e profondo («penitus») alla frase, un’impressione, uno scopo ultimo, tutti elementi che a loro volta si riverberano nelle parole utilizzate. Il grammaticus si limita, invece, a una fredda costruzione del discorso; in nome del principio di congruità, in modo asettico lega tra di loro le lettere, poi le sillabe, le parole, fino alla formulazione di una frase congrua e spoglia (priva di quella che potrebbe essere definita sulla base del testo ‘la cura del senso profondo della parola’), una frase asettica che rappresenta il materiale di base per il lavoro del retorico e del dialettico: In oratione quidem catholica tam voces quam earum sensus attenduntur, in oratione vero grammatica de solis vocibus habetur ratio, de sensu penitus non curatur. Grammaticus enim incipiens a voce transit ad litteram, de littera ad syllabam, de syllaba ad dictionem, de dictione ad orationem: et haec omnia secundum solam congruentiam vocis; postmodum ipsam orationem grammatice constitutam, dialecto tradit et rhetori velut quoddam idoneum ad agendum de thesi et hipothesi instrumentum55.
Il discorso grammaticale è semplicemente un ordine congruo delle parole, quello dialettico un enunciato o una proposizione utilizzati da un
54 55
GUNTERO DI PARIGI, De oratione, ieiunio et eleemosyna, PL 212, 103C. Ibid., 115D.
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disputator per sillogizzare, il retorico, una sermocinatio usata dall’oratore per persuadere. I loro soggetti e i loro scopi sono rispettivamente la congruenza tra le parole («de vocum congruentia»), la relazione tra le cose («de consequentia rerum»), la discussione di un fatto controverso («de facti controversia»). Il primo rinvia alla sintassi («id est constructio secundum accidentium congruitatem»), il secondo all’argomentazione razionale circa una determinata tesi, il terzo alla trattazione di un’ipotesi («id est rhetorica quaestio cum circumstantiis»). Il discorso grammaticale, inoltre, si divide in un numero di parti direttamente proporzionale al numero di parole utilizzate: dire Priscianum legit significa scomporre il discorso in due parti, perché due sono le parole che lo compongono. Il discorso dialettico, invece, è costruito con due soli termini (o «extremitates»): il soggetto e il predicato. Il discorso retorico è strutturato in «distinctiones»: l’«exordium», la «narratio», la «partitio», la «confirmatio», la «confutatio» e la «conclusio». Paragonata a questi tipi di discorsi, l’oratio catholica si distingue per la nobiltà dell’oggetto invocato, la semplicità della parola, la varietà delle sue parti, che corrisponde al numero variegato di richieste («petitiones») che l’orante indirizza a Dio («pro orantis arbitrio»), per il modo temporale con il quale il locutore riesce a esprimere se stesso nella formulazione di una frase, il «deprecativus», l’ottativo, il modo del desiderio, opposto all’indicativo, il modo dell’azione reale: Catholica oratio est pia Dei invocatio qua supplicat homo ad impetrandum (...). In [catholica oratio] imploratur divinae pietatis clementai (...). In [catholica oratio] placatur Deus per humilem et puram vocis et animi simplicitatem (...). Catholica oratio tot habet partes quot petitiones que pro orantis arbitrio re et numero variantur (...). Et ceterae quidem orationes per verba indicativa explicantur. Catholica vero per imperativum fieri solet: qui tamen modus cum ad Deum dirigitur, non tam imperativus quam deprecativus dicendus est; propter excellentiam creatoris, cui neminem dignum est imperare56.
L’arte della preghiera raggiunge il suo punto più alto con la Rhetorica Divina, scritta intorno al 1240 da Guglielmo d’Alvernia, il quale in modo esplicito pone l’esigenza di costruire un’arte e una dottrina del discorso sacro, sulla traccia di quanto gli autori pagani hanno fatto a proposito del
56
Ibid., 103C-106B.
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discorso profano. La preghiera viene così sottoposta a un’attenta analisi e studiata nelle sue «perfezioni, differenze, parti, nelle sue virtù magnifiche, i frutti inestimabili, in ciò che contribuisce a perfezionarla e negli ostacoli». Innanzitutto, per Guglielmo la natura dell’oratio è una specie del genere ‘domanda’: «Oratio omnis petitio est», una domanda con la particolarità di essere indirizzata a Dio e che pertanto aggiunge, rispetto alla petitio indirizzata agli uomini, la qualità della venerazione. Si tratta di un atto discorsivo della ragione che prende corpo nelle parole. In questo senso, la preghiera non è soltanto un movimento pio dell’anima verso Dio, come sancito dal De spiritu et anima, né soltanto un’ascensione dello spirito, come dichiara Giovanni Damasceno. L’oratio è a tutti gli effetti una locutio, una manifestazione palese nell’atto di parlare di una domanda (o di una risposta) effettuata dall’orante-locutore57.
57 Cf. GUGLIELMO D’ALVERNIA, Rhetorica Divina sive ars oratoria eloquentiae divinae, in ID., Opera Omnia..., edd. F. Hotot - B. Le Feron, 2 voll., Paris 1674 (ripr. an. Frankfurt 1963), I, [pp. 336-406], pp. 337 e 376: «Huius sacre, et divinalis rhetorice, sive oratoriae scientiae subjectum est oratio, quoniam de ipsa in illa agitur, eiusque perfectiones, differentiae, et partes, nec non mirificae virtutes, et inaestimabiles fructus, sive utilitates, ad iumentaque, atque impedimenta, quibus vel adiuvatur, vel impeditur, et exauditio illius, docentur in eadem, et declarantur. Conveniens autem, et omnino necessarium est ad istam scientiam accedentibus, ut in primis eis determinetur, quid est, quod dicitur oratio, de qua hic intenditur (...). Oratio non est, nisi petitio in genere, quod dico, quia non omnis petitio est oratio sed ea sola quae dirigitur ad Deum (...). Oratio omnis petitio est, et non converso»; «Oratio autem, et vox, et verbum, et responsio est orantis; quapropter personaliter comparet in coelesti ac divinali consistorio cuius oratio ibi est ac personaliter, ac per semetipsum se defendit, qui per orationem in illo consistorio accusationibus resistit. Voce namque propria, et verbo, et responsione sua propriam causam suam ibi defendit, et ibi est paersonali praesentia, videlicet in conspectu Dei Altissimi, ubi et ipsi, et coram ipso loquitur». Per la preghiera intesa come risposta, e quindi come comunicazione paradossale con un interlocutore invisibile invocato, cf. O. BOULNOIS, Quand la réponse précède la demande. La dialectique paradoxale de la prière chrétienne, in «Revue de l’histoire des religions», 211 (1994), pp. 167-186. Su Guglielmo d’Alvernia, cf. S. MARRONE, William of Auvergne and Robert Grosseteste: New Idea of Truth in the Early Thirteenth Century, Princeton (New Jersey) 1983; J. O’DONNEL, The Rhetorica Divina of William of Auvergne: A Study in Applied Rhetoric, in Imagines of Man in Ancient and Medieval Thought: Studia Gerardo Verbeke ab amicis et collegiis dicata, edd. F. Bossier et al., Louvain 1976, pp. 323-333; SOLÈRE, De l’orateur cit. (alla nota 42).
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In ragione della sua natura locutoria, la preghiera viene paragonata da Guglielmo al discorso retorico profano. Se quest’ultimo si caratterizza per un tentativo da parte dell’oratore di convincere un qualsiasi giudice, quella che è definita oratio spiritualis «non intendit ipsum movere». L’orante è consapevole della stabilità e fissità divina, e la preghiera, come si è visto per Agostino, è l’occasione per un posizionamento più chiaro del proprio sé nei confronti di Dio58. Tuttavia, continua Guglielmo, ciò non impedisce che la preghiera stessa sia costruita sul modello di un discorso profano, basato sui principi ciceroniani con cui l’oratore cerca di rendere appetibile il suo tema, e comportarsi quasi come se dovesse «flettere» le convinzioni di un giudice. La preghiera è concepita nella Rhetorica Divina come una lotta che l’orante ingaggia contro Dio («ipsa [oratio] est lucta cum Deo seu contra Deum») affinché quest’ultimo possa essere catturato in un vincolo d’amore; come una pugna a mani nude nella quale Dio può essere «battuto, vinto, legato e spogliato delle sue armi» attraverso l’uso di una tecnica militare di cui l’oratio deve appropriarsi59. Questo aspetto agonistico attribuito in modo esplicito all’oratio spiritualis spiega i riferimenti sottintesi che nel testo si fanno al De inventione e alla Rhetorica ad Herennium. La preghiera se vuole esercitare la sua for-
58 Cf. ibid., p. 338: «Oratio (...) septem habet perfectiones (...) et quia prima est velut oratio rhetorica, et intentio habens similitudinem orationis rhetorice saecularis, et ad similitudinem et proportionem illius partes, videlicet exordium, narrationem, petitionem, confirmationem et infirmationem, novissime vero conclusionem. Differt autem ista oratio spiritualis ab illa, intentione orator enim saecularis intendit sua oratione movere iudicem, inclinare in parte suam (...). Orator vero spiritualis oratione, quam coram Deo Altissimo fundit, non intendit ipsum movere, quem scit indubitanter in ultimate stabilitatis immobilissimum, sed potius semetipsam a malo in quo est bonum, vel a bono in melius, quod est dicere, quia intendit semetipsum facere idoneum per orationem». 59 Cf. ibid., p. 401. E cf. ibid., pp. 402-403: «Procedam ad prosequendum de oratione, secundum quod ipsa est pugna contra armatum omnipotentissimum, atque invictissimum Deum. Et faciam te scire, quia oratione vincitur, capitur, ligatur, armaque sua omnia ei auferuntur, et ab ipso orante captivus inde ducitur, et quamdiu vult ipse orans, in vinculis ab eodem tenetur ipse fortissimus Deus». In proposito, Solère ha parlato di «une lutte courtoise avec Dieu», fatta di furbizie e stratagemmi. La conquista dell’amante per mezzo della parola/arma è un tópos ereditato dall’Ars amatoria: Ovidio, infatti, parla di «militiae species amor est» (Ars amatoria, II, v. 223), verità la cui influenza si esercita nel secolo XII e ancora sul Roman de la Rose; cf. SOLÈRE, De l’orateur cit. (alla nota 42), p. 223.
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za, «penetrare in Dio»60, deve ricorrere ad astuzie e stratagemmi61, rendere efficace il suo contenuto attraverso una scientifica organizzazione del discorso, avvalersi di alcune tecniche di pronuntiatio per esprimere al meglio il movimento interno dello spirito62. Lo scopo ultimo dell’interazione di questi fattori è la creazione di un’oratio snella, rapida, agile, spedita, spoglia di elementi superflui e contraddittori («improbae cogitationes»), chiara, retta nelle intenzioni, sottile, soave63. In altri termini, la preghiera, secondo Guglielmo, che cita l’autorità di Bernardo, per essere davvero efficace nella sua formulazione grammaticale «debet esse brevis et pura»64. Con questa definizione ci si avvicina lentamente alle caratteristiche di purezza e brevità con le quali Dante in modo più o meno esplicito connota l’essenza della vox proferita da Adamo. Ma per comprendere fino in fondo la portata filosofico-linguistica del primiloquium bisogna ricorrere a Ugo di San Vittore e al suo De modo orandi (o De virtute orandi), nel quale si parla di pura oratio, categoria concettuale adeguata a esprimere la brevità e l’affettività racchiuse nella voce El.
b) La pura oratio Composto tra il 1128 e il 1138, il De virtute orandi è considerato il primo testo d’insegnamento retorico della preghiera. Rispetto a opere come quelle di Tertulliano, Cipriano, Origene, Agostino, Cassiano, che si sono occupate in modo non sistematico dell’oratio, con Ugo di san Vittore per la prima volta si presta un’attenzione più scientifica sia alla forma e al ruolo che le parole rivestono nella produzione della preghiera, sia al vocabolario della retorica antica per descrivere le differenti specie dell’oratio. 60
Cf. ibid., p. 376. Il testo parla esplicitamente di astuzie da usare nella lotta contro Dio («astutia luctandi»), come per esempio fare uno sgambetto («supplantatio») o stancare l’avversario («fatigatio adversarii»); cf. ibid., p. 402. 62 Guglielmo parla di «auditoria orationis, quibus vox acuitur»: clamor, eiulatus («qui est vox parvulorum ad patres, et matres»), vox turturis, planctus, gemitus («hoc est resonantia ex intimo dolore; propter quod dicitur Gregorius quia veraciter orare est amaras in compunctione gemitus, non verba composita resonare»), suspirium. 63 Cf. ibid., pp. 375-377. 64 Ibid., p. 389. 61
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La preghiera non si limita a essere una conversio in Deum, ma, in quanto si esteriorizza in diversi modi vocali («ipsa devotio mentis in variis modis voce promitur»), richiede classificazioni e sistematizzazioni precise65. Si possono distinguere per Ugo tre species orationis, secondo il criterio della domanda: la «supplicatio», la «postulatio» e l’«insinuatio». La prima è una preghiera umile e devota, «sine determinatione petitionis». La postulatio è un discorso che include una domanda precisa. L’insinuazione è una manifestazione della volontà per mezzo di una narratio sprovvista di petitio66. Di queste species, la supplicatio occupa la posizione più importante, perché consiste in un discorso paradossale i cui crismi non possono essere compresi con i canoni della retorica ordinaria. Si tratta di un’oratio in cui la domanda si trasforma in lode, aspetto che emerge in modo eclatante con quella che il Vittorino definisce «pura oratio». La preghiera pura è la dimenticanza della richiesta inizialmente posta a Dio, a causa dell’intensità d’amore che scaturisce dal contatto con quest’ultimo, per cui l’unico desiderio dell’orante consisterà nel gioire della vicinanza con il divino: Pura oratio est quando ex abundantia devotionis mens ita accenditur ut cum se ad Deum postulatura converterit, pre amoris eius magnitudine etiam petitionis sue obliviscatur, et dum amore eius quem videt, perfrui vehementer concupiscit, totaque iam illi vacare desiderat, eius etiam pro quo venit curam libenter postponat. Hoc genus orandi uniforme est, et quam pre ceteris omnibus unicum, tam est apud Deum pre ceteris omnibus pretiosum. Sed inter hec tria supplicationum genera infimum locum captatio, medium exactio, supremum et excellentissimum pura oratio obtinet, quia captatio timorem, exactio fiduciam, pura oratio perfectum habet amorem67.
L’espressione pura oratio trova un precedente autorevole nella regola benedettina, nella quale s’invita il monaco a pregare in modo sapiente, nel senso che nell’atto discorsivo la parola e lo spirito devono trovare una
65 Cf. UGO DI SAN VITTORE, De modo orandi, I, PL 176, 979B, ed. H. B. Feiss - P. Sicard - cit. (cap. 2, alla nota 84), pp. 132-134: «Nihil ergo aliud est oratio quam mentis devotio, id est, conversio in Deum per pium et humilem affectum, fide, spe, et caritate subnixa. Sed quia multis modis mens per devotionem accenditur, rursumque ipsam devotio mentis variis modis voce promitur, debemus aliquas singillatim orationis species distinguere ut apertius valeamus virtutem eius indicare». 66 Cf. ibid., II, 979C, p. 134. 67 Ibid., 980AB, p. 136.
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concordia puntuale. La preghiera che s’indirizza a Dio, signore dell’universo, deve essere il frutto di uno stato morale conseguente al riconoscimento di questa primalità divina, quindi umile e devota, stato morale puro che deve realizzarsi verbalmente non in un «multiloquium», ma in una «brevis et pura oratio»68. Rispetto a questo precedente, Ugo non si limita a una teorizzazione o definizione generica della preghiera pura, costruisce, invece, con riferimenti per esempi pratici una grammatica elementare dell’oratio. La forma più imperfetta di preghiera consiste per il Vittorino nell’impiego simultaneo di un nome e di un verbo. Paradossalmente, quanto più il discorso si fa proposizionale, portatore di un senso compiuto («plena [...] significatio»), tanto più l’oratio perde la sua efficacia. Scopo ultimo della preghiera non è una rappresentazione intellettuale del divino, ma una segnalazione dell’affectus dell’orante-locutore scaturito dal contatto con Dio: quanto più la preghiera riesce a includere nel suo discorso questo affectus, tanto più risulta pura nella sua essenza e nella sua forma. In una scala di valori ideale, la pura oratio consiste nell’impiego di soli nomi («per sola nomina») con funzione interiettiva, capaci cioè di esprimere il movimento affettivo di colui che prega. Un esempio potrebbe essere l’espressione Deus meus, un genere di supplicatio fatto per soli nomi, capace di racchiudere nella sua formulazione l’abbondanza dell’affetto (la gioia) del locutore: Illud genus supplicationis quod per sola nomina fit, quo magis est foris significatione imperfectum, tanto intus est abondantia dilectionis plenum. Affectus enim hoc proprium habet, quod quanto maior et ferventior intus est, tanto minus foris per vocem explicari potest69.
La precisione del discorso è inversamente proporzionale all’intensità del sentimento espresso. L’utilizzo di una frase disarticolata o di un solo
68 Cf. BENEDETTO DA NORCIA, Regula, XX (De reverentia orationis), PL 66, 479A-480A, edd. B. Geyer - J. Zellinger, Bonn 1928, p. 40, 1-9: «Si, cum hominibus potentibus volumus aliqua suggerere, non praesumimus nisi cum humilitate et reverentia, quanto magis Domino Deo universorum cum omni humilitate et puritatis devotione supplicandum est. Et non in multiloquio, sed in puritate cordis et conpunctione lacrimarum nos exaudiri sciamus. Et ideo brevis debet esse et pura oratio, nisi forte ex affectu inspiratione divinae gratiae protendatur». 69 UGO DI SAN VITTORE, De modo orandi, II, 980C, ed. H. B. Feiss - P. Sicard cit. (cap. 2, alla nota 84), p. 136.
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nome è in grado di dire l’ineffabile. Sulla traccia delle teorie agostiniane e gregoriane sulla lode, Ugo di San Vittore vede nel giubilo la forma estrema di pura oratio; nella vocalizzazione di un solo nome, quello di Dio, la preghiera risulta rapida ed efficace:
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Illud igitur quod solis nominibus fit ad puram orationem pertinetur videtur (...). Ita ut pura oratio magis in iubilem convertatur et appropinquet Deo, perveniat citius et efficacius obtineat70.
Tutti gli elementi che sono stati fin qui presi in considerazione confermano l’idea di un nesso tra primiloquium e preghiera, soprattutto quando quest’ultima si converte nella lode, nel giubilo, nell’utilizzo di nomi semplici e isolati con funzione interiettiva. In proposito Dante è chiaro: la prima parola proferita da Adamo è un monosillabo che racchiude nella sua formulazione un affectus (la gioia), scaturito dal contatto con il principio delle cose, Dio. Per inciso, si possono segnalare almeno tre possibili fonti che esemplificano in forma narrativa questa stessa concezione, testi che non appartengono al mondo della filosofia scolastica, ma a un genere letterario che può essere definito visionario e poetico allo stesso tempo. Il primo di questi scritti è un racconto del secolo XII articolato sotto forma di dramma, in cui si narra la storia di Adamo a partire dalla sua generazione, una narrazione che si sviluppa secondo l’opposizione di due registri linguistici, il latino per gli elementi liturgici, il volgare per le parti propriamente drammatiche: Formavit igitur Dominus hominem de limo terrae, et inspiravit in faciem eius spiraculum vitae, et factus est homo in animam viventem (...). Quo finito dicat Figura: «Adam!» Qui respondit «Sire!». FIGURA: «Fourmé te ai de limo terre». ADAM: «Bien lo sai»71.
70
Ibid., 980C, p. 138. Sul giubilo cf. cap. 4, § 3. Le jeu d’Adam (Ordo representacionis Adae), éd. W. Noomen, Paris 1971, pp. 19-20. L’editore Noomen vede nelle unità I e II del Jeu d’Adam la ricostruzione di un patto originario che Dio ha stabilito con il primo uomo, secondo il rapporto padrone-servo tipico del feudalesimo. Dio è il signore cui Adamo è sottomesso da un vincolo di fedeltà: in virtù di tale patto Dio gli elargisce il potere sugli animali. Adamo risponde rendendo grazie a Dio e impegnandosi a osservare la Sua volontà. 71
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L’arte della preghiera
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Negli Ioca monachorum, si ha invece questa battuta:
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Primum verbum qualem dixit Adam? Primum verbum «Deo gratias» dixit72.
Più interessante segnalare l’esistenza di un altro testo, che per diverse ragioni si avvicina all’articolazione dell’episodio della nascita della parola elaborato nel De vulgari, nel quale – si ricorda – si parla di una vox di gioia che risuona nell’ambiente ideale del paradiso terrestre, e una vox di dolore, conseguenza del peccato: il Liber compositae medecinae (o Causae et curae) di Ildegarda di Bingen. L’autrice nello sviluppo della sua visione è particolarmente attenta a esaltare la vocalità delle parole come elemento fondamentale del linguaggio. Nella vox, nella voce che risuona si riflette il sentimento di colui che la proferisce. A partire da questo assunto, nel modo seguente Ildegarda immagina la vicenda del primo uomo. Prima della caduta, Adamo conosceva tutti i generi di musica, e la sua voce li concentrava in una sorta di suono simile a quello di un monocorde («vocem habebat sonantem, ut vox monochordi sonat»). Dopo la caduta, l’armonia si è rotta, la voce delle gioie ultramondane («vox supernorum gaudiorum») si trasforma in qualcosa di disordinato, di confuso, qualcosa insomma che può essere apparentato a una risata rumorosa e fragorosa («cachinni»)73. Da un linguaggio ritmato dalla gioia, l’uomo passa in que-
72 Ioca Monachorum, in M. FÖRSTER, Adam Erschaffung und Namengebung, in «Archiv für Religionswissenschaft», 11 (1907-1908), [pp. 477-529], pp. 518-519. Mengaldo riporta una versione simile di questo passaggio degli Ioca monachorum; cf. P. V. MENGALDO, s. v. Adamo, ED, I, [pp. 45-48], p. 48: «Qui [=quid] prius locutus est Adam? – Deo gratias». 73 Cf. ILDEGARDA DI BINGEN, Causae et curae, ed. L. Moulinier, Berlin 2003, pp. 188-189: «Adam quoque ante prevaricationem angelicum carmen et omne genus musicorum sciebat et vocem habebat sonantem, ut vox monochordi sonat. In prevaricatione autem illius de astutia serpentis intorsit se in medullam et in femur eius quidam ventus, qui etiam nunc in omni homine est. Et de vento illo splen hominis inpinguescit, et inepta letitia et risus atque cahinni in homine excutiuntur. Nam sicut in prevaricatione Ade et casta natura prolem gignendi in alium modum delectationis carnis mutata est, ita etiam et vox supernorum gaudiorum, quam idem Adam habebat, in contrarium modum risus et cacynnorum versa est. Inepta enim letitia et risus velut quandam societatem ad delectationem carnis habent, et ideo ventus ille, qui risum suscitat, de medulla hominis exiens femur eius et interiora concutit. Ac interdum pre nimia concussione risus aquam lacrimarum de sanguine venarum oculis hoc modo educit, quemadmodum etiam
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sto modo a suoni che ricordano le pene alle quali i dannati sono sottoposti: attraversato internamente da un vento impetuoso prorompe a volte in lacrime, in singhiozzi, sospiri74, la voce si altera in qualcosa di bestiale. In altri termini, la parola del primo uomo riflette interamente il nuovo stato nel quale la sua natura è precipitata, quella del peccato originale, stato che da un punto di vista mitico fonda il disordine morale e linguistico che sarà suggellato dalla costruzione della torre di Babele.
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3. Le interiezioni Per avere una visione più precisa sulla riflessione dantesca relativa al linguaggio, e al primiloquium in particolare (che si è definito come il frutto maturo dell’esperienza filosofico-linguistica legata alla Vita nuova, e come il modello a partire dal quale Dante inventa le locutiones che si riverberano nel mondo infernale e paradisiaco della Divina Commedia), si può concludere questo studio sulla parola prima nel De vulgari con un riferimento circostanziato all’interiezione. Più volte ci si è imbattuti in questo termine, a proposito per esempio della locutio inordinata del demone Pluto, o per descrivere il linguaggio di lode della terza cantica del poema dantesco. Lo stesso primiloquium è presentato da Dante come una parola che racchiude un affetto (la gioia), così come Ugo di San Vittore ha parlato di affectus a proposito dei «soli nomi» da utilizzare nella pura oratio. Tutti fattori che trovano un senso compiuto se si fa riferimento appunto a questa particella del discorso: l’interiezione75. Per Dante la funzione originaria della
spuma seminis hominis aliquando de sanguine venarum per ardorem delectationis excutitur. Cum enim scientia anime hominis nichil tristitie et nichil adversi et nichi mali in homine sentit, tunc cor eiusdem hominis ad letitiam se aperit, ut flores ad calorem solis se aperiunt, et mox iecur eandem letitiam recipit ac eam in se retinet, ut stomachus cibum in se continet. Et cum sic homo aut de bonis aut de malis, que sibi placent, letatur, tunc predictus ventus interdum ex medulla exiens femur illius primum tangit, et ita splen occupat atque venas eiusdem splenis inplet et se ad cor extendit et iecur replet ac ita hominem ridere facit atque vocem eius similem voci pecorum in cacynnis educit». 74 Cf. ibid., pp. 185-189. 75 Sul tema: J. PINBORG, Interjektionen und Naturlaute: Petrus Heliae und ein Problem der antiken und mittelalterlichen Sprachphilosophie, in «Classica et Mediaevalia», 23 (1961), pp. 115-138; B. ROY - I. ROSIER-CATACH, Grammaire et
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parola non consiste nella nominazione delle cose, secondo la conoscenza che l’uomo ha delle loro proprietà. Il monosillabo di Adamo è un atto del discorso esercitato, proferito, che evidenzia in modo reale e realistico la ‘relazione’ del primo uomo con Dio, un rapporto indicibile dal punto di vista di un discorso ‘articolato’ secondo i canoni tradizionali. Se quest’ultimo tende a far emergere il lato per così dire di dominio che l’uomo può esercitare sulle cose attraverso un linguaggio che concettualizza, e racchiude in specie la cosa nominata, l’interiezione permette la conservazione del rapporto dinamico (il dialogo) tra l’individuo e la stessa res. Si può iniziare da una serie di definizioni, e subito constatare come lungo il corso del Medioevo l’interiectio sia soggetta a interpretazioni differenti. Il contributo più preciso è senza dubbio quello di Donato che nell’Ars minor dedica una sezione, dopo le analisi delle diverse classi di discorso (il nome, il verbo e così di seguito) al concetto: l’interiezione è una «pars orationis» che significa un affetto dell’anima per mezzo di una «vox incondita»76, una voce cioè non sottoposta alla deliberazione della ragione e, per questo, come ha segnalato Jan Pinborg, «inarticolata e animalesca»77. Con alcune particelle linguistiche si può significare questo
liturgie dans les ‘Sophismes‘ du XIIIe siècle, in «Vivarium», 28.2 (1990), pp. 118135; I. ROSIER-CATACH, La distinction entre actus exercitus et actus significatus dans les sophismes grammaticaux du MS BN lat. 16618 et autres textes apparentés, in Sophisms in Medieval Logic and Grammar, ed. S. Read, Dordrecht 1992, pp. 231-261; EAD., La parole comme acte cit. (Introd., alla nota 36), in partic. pp. 5783; EAD., Interjections et expression des affects dans la sémantique du XIIIe siècle, in «Histoire, Épistémologie et Langage», 14.2 (1992), pp. 61-84; G. GRAFFI, L’interiezione tra i grammatici greci e i grammatici latini, in «Incontri linguistici», 19 (1996), pp. 11-18; M. SIRRIDGE, The Wailing of Orphans, the Cooing of Doves and Groans of the Sick: the Influence of Augustine’s Theory of Language on Some Theories of the Interjection, in Vestigia, Imagines, Verba cit. (alla nota 23), pp. 99-116; ASHWORTH, Aquinas on significant cit. (Introd., alla nota 50); S. CIGADA, L’interiezione: classe del lessico e funzione pragmatica nella tradizione latina, in Per una storia della grammatica in Europa, Atti del Convegno (Milano, Università Cattolica 11-12 settembre 2003), a c. di C. Milani - R. B. Finazzi, Milano 2004, pp. 109-120. 76 ELIO DONATO, Ars minor, ed. L. Holtz 1981 (CGL, 4), [pp. 585-602], p. 602, 1-5H : «De interiectione: interiectio quid est? Pars orationis significans mentis affectum voce incondita. Interiectioni quid accidit? tantum significatio. Significatio interiectionis in quo est? Quia aut laetitiam significamus, ut euax, aut dolorem, ut heu, aut admirationem, ut papae, aut metum, ut attat, et si qua sunt similia». 77 PINBORG, Interjektionen cit. (alla nota 75), p. 132.
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Il primiloquium di Adamo e la retorica della pura oratio
movimento affettivo: euax indica la letizia, heu il dolore, papae l’ammirazione, attat la paura. Nelle Regulae grammaticali attribuite ad Agostino, a differenza dell’Ars di Donato, l’interiezione non è considerata parte del discorso, ma semplicemente «affectio» dell’anima che erompe in una voce determinata («affectio erumpentis animi in vocem»). Quanti sono i moti dell’anima, tante saranno le voci atte a significare le perturbazioni interne («quot sunt perturbati animi motus, tot voces reddunt»). Queste «voces» sono le interiezioni, così chiamate perché «interrumpant orationes»78. Come si evince dalle Regulae le particelle interiettive sono tali perché scardinano il ritmo naturale della frase. In questo senso, un testo attribuito a Cassiodoro definisce in modo più preciso la loro funzione: le interiezioni sono così dette perché «interpositae» tra le altre parti del discorso, un’interposizione che permette alla frase di superare la sola dimensione enunciativa, ed esprimere in questo modo i vari affetti dell’anima79. Una cosa, si legge
78 Regulae [AURELII AUGUSTINI], PL 32, 1408, ed. H. Keil, Lipsia 1868 (CGL, 5), [pp. 496-524], p. 524, 9-12. 79 Cf. CASSIODORO (dubium), De oratione et de octo partibus orationis, PL 70, VII, 1240B: «Interiectio dicta est, quod interposita aliis partibus orationis varios animi affectus exprimat: nam aut exsultantis est, ut eia; aut optantis, ut, o mihi praeteritos referat si Iuppiter annos! aut increpantis est, ut, o qui res hominum que deum que; aut dolentis, ut heu! aut timentis, ut ah! ah! Hoc apud Graecos fit, ut interiectiones subiungant in adverbia: apud Latinos autem non fit (...)». Si vedano inoltre: ISIDORO DI SIVIGLIA, Etymologiae, I, 14, 1, PL 82, 89A, ed. Lindsay cit. (Introd., alla nota 32), p. 40, 17-21: «Interiectio vocata, quia sermonibus interiecta, id est interposita, affectum commoti animi exprimit, sicut cum dicitur ab exultante uah, a dolente heu, ab irascente hem, a timente ei. Quae voces quarumcumque linguarum propriae sunt, nec in aliam linguam facile transferuntur». RABANO MAURO, Expositio in Matthaeum, II, PL 107, 806BC, ed. B. Löfstedt, Turnhout 2000 (CCCM, 174), p. 141, 33-35: «Interiectiones grammatici vocant particulas orationis, sigificantes commoti animi affectum, velut cum dicitur a dolonte heu vel ab irascente hem. Quae voces quarumque linguarum sunt propriae, nec in aliam linguam facile transferuntur». UGO DI SAN VITTORE, De grammatica, ed. R. Baron, in ID., Opera propaedeutica, Notre Dame (Ind.) 1966, [pp. 75-156], p. 105, 888-894: «Interiectio est pars orationis que interiecta aliis partibus orationis animi tantum exprimit affectus voce incondita que ex natura magis quam ex institutione profecta videtur; unde communis fere omnibus gemitibus invenitur. Interiectioni tantum significatio accidit que varios animi affectus demonstrat: alie letitiam mentis significat ut euax; alie dolorem ut heu uoi eu; alie admirationem ut papae; alie metum ut attat hui; alie recordationem ut hem; alie silentium ut ist;
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in un commento anonimo all’Ars maior di Donato, è dire «mortuus est Virgilius», un’altra «heu mortuus est Virgilius»: l’utilizzo dell’interiezione disambigua il discorso, dà un senso più profondo alla proposizione, grazie all’enfasi e alla modalità affettiva che il soggetto parlante può imprimere alla stessa80. Dalla breve disamina di questi testi, si constata l’oscillazione definitoria attorno al soggetto preso in questione, un’oscillazione che risale alla riflessione grammaticale che sul tema svolge un’autorità come quella di Prisciano81. A partire dal Duecento la discussione prende connotazioni differenti, grazie all’introduzione di nuove categorie di interpretazione, come la seguente: la significazione può avvenire sia sotto il modo del concetto, sia sotto il modo dell’affetto. L’ambivalenza dell’interiezione viene in questo modo suggellata definitivamente: significa un concetto come le altre parti del discorso, anche se la significazione avviene secondo una modalità affettiva82. In un testo di Bacone, la questione è affrontata in
alie prohibitionem ut ah; alie conquisitionem ut hah; alie indignationem ut bom bax ba bo uua». 80 Cf. Ars Ambrosiana (Commentum anonymum in Donati partes maiores), ed. B. Löfstedt, Turnhout 1982 (CCSL, 133C), p. 179, 2-13: «Interiectio est pars orationis reliqua. Hanc partem orationis Donatus definit, nomen suum primum dicens, ut est interiectio. Qua re dicta est interiectio? Interiectio dicta est, quia interponitur locutionibus ad exprimendos animi affectus. Si enim dicas ‘mortuus est Virgilius’, dixisti quidem illum mortuum esse, sed quo affectu hoc protuleris, non est expressum, nisi interposam illam particulam. Nam si dicas ‘ua mortuus est Virgilius’, laetantis est, si dicas ‘heu mortuus est Virgilius’, dolentis. Si hoc solum dicas mortuus est, in ambiguo est quo affectu hoc protuleris. Vides ergo, quia haec particula interposita exprimit nobis animi affectus, nam aliquoties illam ambiguitatem discernit». 81 I problemi relativi all’interiezione possono essere formulati in questi termini: l’interiezione è o non è una parte del discorso, una classe a sé stante come il nome, il verbo, l’aggettivo, ecc.? Si tratta davvero di una voce inarticolata frutto del solo istinto? In questo caso qual è la differenza con i più comuni segni naturali e le voci animalesche? La ragione non ha nessun ruolo nella produzione dei segni interiettivi? In altri termini, quando si parla di interiezione ci si riferisce a un concetto della mente o a un affetto puro e semplice (nel primo caso si avrà a che fare con una parte del discorso dotata di quelle caratteristiche di convenzionalità proprie delle autentiche partes orationis; nel secondo caso di un semplice segno naturale)? Sulle oscillazioni di Prisciano, cf. GRAFFI, L’interiezione cit. (alla nota 75). 82 Cf. ROSIER-CATACH, Interjections cit. (alla nota 75), in partic. p. 67, nota 21.
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Il primiloquium di Adamo e la retorica della pura oratio
modo chiaro, articolato, e attraverso una serie di riferimenti che rompono con il quadro ristretto della grammatica. L’interiezione, è scritto nella Summa grammatica, scaturisce quando si vede o sente qualcosa di piacevole o spiacevole la cui origine è esterna all’anima; si è colpiti interiormente, e in modo istantaneo una voce interiettiva è proferita: l’affetto subìto dal locutore è il principio di questa espressione83. La dinamica psicologica e antropologica assume una portata non marginale nelle nuove definizioni. La riflessione grammaticale si arricchisce di nuove conquiste intellettuali e di nuove fonti, e dal momento che l’interiectio è un elemento intermedio tra segni puramente istintivi e segni concettuali, la sua comprensione sfocia molto spesso in una sorta di speculazione sull’ontogenesi del linguaggio. Inoltre, l’analisi diventa l’occasione per vagliare l’autenticità dei segni linguistici e la differenza che intercorre sul piano locutorio tra l’uomo e l’animale, una riflessione che per contenuti, risorse intellettuali utilizzate e metodi, si avvicina a quella sul linguaggio dei primi capitoli del De vulgari. Il Sicut dicit Remigius, lungo trattato, anonimo, conservato in un manoscritto parigino e costituito in parte da sofismi grammaticali, potrebbe far luce da un punto di vista filosofico-linguistico su alcuni passaggi del trattato dantesco, come per esempio quello relativo alla subitaneità con la quale la parola di Adamo è proferita84. Secondo l’autore di questo testo, l’interiezione, rispetto alle altre parti del discorso, gode di uno statuto particolare, in quanto fa confluire contemporaneamente («simul») nell’atto della sua istituzione tre operazioni razionali differenti: la ricezione o concezione della cosa da parte dell’intelletto, la deliberazione e il giudizio sulla forma vocale con la quale la concezione deve essere espressa, infine l’atto di istituzione della forma vocale significante. La ragione concepisce la cosa «per affectum», e le ope-
83 Cf. RUGGERO BACONE, Summa Grammatica, in ID., Opera hactenus inedita, ed. R. Steele - F. Delorme, 16 voll., Oxford 1905-1940, XV (1940), p. 99. 84 Il Sicut dicit Remigius è l’opera di un autore che sembra chiamarsi Iohannes, nome che ritorna spesso lungo il corso del trattato, e in particolare negli esempi in prima persona (per es. Ego Iohannes scribo). Per una presentazione del trattato, conservato nel manoscritto lat. 16618 della Biblioteca Nazionale di Parigi, si veda I. ROSIER-CATACH, Les sophismes grammaticaux au XIIIe siècle, «Medioevo», 17 (1991), pp. 175-230, in partic. pp. 189-197; e EAD., La parole comme acte cit. (Introd., alla nota 36), in partic. pp. 247-286.
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razioni precedentemente menzionate alla base del processo di istituzione si effettuano in un breve istante di tempo, o secondo un ordine immediato che corrisponde ad alcuni processi naturali, come quello relativo alla formazione istantanea della luce e del colore. L’imposizione e la proferazione del nome si producono simultaneamente, e l’istitutore della parola diviene un primo enunciatore85. Nel Sicut dicit Remigius, le interiezioni non corrispondono direttamente agli affetti, ma rivelano il rapporto che queste istituiscono con la parte razionale dell’anima che soccombe alle passioni che scaturiscono dal contatto con una cosa esterna («ab extrinseco»). Esse non potranno mai significare le passioni del corpo in quanto tali, quelle prodotte «ab intrinseco», nella parte vegetativa dell’anima, passioni che, invece, saranno espresse da gemiti o segni naturali86.
85 Cf. [MAGISTER IOHANNES], Sicut dicit Remigius, ms. Paris, Bibliothèque Nationale, lat. 16618, f. 49vb, citato in ROSIER-CATACH, La parole comme acte cit. (Introd., alla nota 36), p. 79, nota 60: «Ad ultimum dicendum est quod necessarie interiectiones que sub parte orationis reponuntur, ut heu et papae et huiusmodi, ad placitum significant, non autem alie que significant affectum causatum ab intra ut planctus infirmorum et risus. Et quod obicit dicendum quod illa tria, scilicet rem primo concipere, sive quod idem est intellectu suo eam capere, et secundo, deliberare et iudicare sub qua voce et sub qua proprietate significandi sit, et tertio, eam ad significandum imponere, sunt in impositione interiectionis, licet minus proprie quam in impositione aliarum partium. Cum enim imponitur interiectio ad significandum, ratio concipit rem sum per affectum cui imponitur, sive ad quam significandum imponitur. Sed hec ratio non est perfecta, nec plene iudicare potest, nec etiam deliberare. Potest tamen aliquo modo, licet non ita plene, sicut si non cogeretur a passionibus. Et sunt in illa impositione actus rationis predicti per ordinem, vel temporis licet parum, vel saltem per ordinem nature, sicut lux prius natura medium illuminat, et post manifestat colorem, et deinde fit color in medio, quamvis ista tria simul sine tempore, plus autem potest ratio quam natura». 86 Cf. ROSIER-CATACH, La parole comme acte cit. (Introd., alla nota 36), p. 65. È da segnalare a titolo esemplificativo anche il Commentum super Priscianum maiorem dello pseudo-Kilwardby, il solo testo a sciogliere le tensioni riguardo le voci interiettive tra affetto e concetto, tra naturale e convenzionale (ad placitum). Lo pseudo-Kilwardby ritiene che la «vox interiectionalis» debba essere considerata secondo una duplice prospettiva: 1) in quanto termine con riferimento a un significato che possiede per istituzione, essa significa in maniera tale che la sensualità soccombe alla ragione; 2) in quanto utilizzata da un enunciatore, nel senso che questi è percosso da un movimento violento che ha per origine una cosa sgradevole o gradevole appresa in modo istantaneo («subito»), la ragione non riesce a moderare o a contenere la sensualità dominante, e l’uomo prorompe in un suono vocale che realmente significa per istituzione ciò che esso esprime,
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Nonostante le diverse sfumature, le differenze tra i testi, la voce interiettiva è connotata sempre da una serie di ‘imperfezioni’ che la rendono speciale, come per esempio il fatto di essere pronunciata e di avere un senso anche al di fuori di un preciso contesto proposizionale. Il suo utilizzo corrisponde al tentativo di far emergere lo stato reale e in atto del sentimento provato dal locutore, che come nel caso di Adamo è percosso da un movimento esterno, e a questo movimento risponde immediatamente con enunciati non canonici. Rispetto alla proposizione completa Doleo, l’interiezione heu! indica il dolore come realmente esistente nell’agente linguistico che la utilizza, e non soltanto in quanto dolore pensato o concepito. Lo stesso si può dire della gioia nei confronti di Dio. Applicando il criterio di cui sopra al trattato dantesco, una cosa è affermare in modo lineare ‘Io gioisco della vicinanza di Dio’, un’altra pronunciare il nome di Dio stesso con una certa enfasi: nel primo caso la gioia è pensata, non esiste nell’anima in modo reale, ma secondo la sua immagine o species; nel secondo caso la gioia di Dio è sentita secundum rem, ed è espressa in modo puntuale con il solo nome.
4. Una parola perfetta Agli occhi di Dante la nominazione di Dio all’origine avrebbe potuto risultare blasfema in sé, se espressa con un soggetto e un predicato, in quanto avrebbe suggellato, stravolgendo l’ordine gerarchico dell’universo, la pretesa supremazia dell’uomo sul divino. Per salvaguardare questa relazione, questa ‘conversazione’ tra due enti, e ciascun ente nel riconoscimento della propria legittima posizione (è quanto insegna la pratica e la teoria della preghiera), l’Alighieri fa ricorso a un nome con funzione interiettiva, uno di quei sola nomina con i quali Ugo di San Vittore ritiene
ma utilizzato in modo naturale. Su questo aspetto cf. ROSIER-CATACH, ibid., p. 75, nota 56. Sulla differenza tra segni naturali, interiezioni e segni convenzionali, cf. U. ECO - R. LAMBERTINI - C. MARMO - A. TABARRONI, On Animal Language in the Medieval Classification of Signs, in «Versus: quaderni di studi semiotici Milano», 38-39 (1984), pp. 3-38; I. ROSIER-CATACH, Variations médiévales sur l’opposition entre signification ad placitum et signification naturelle, in Aristotle’s Peri Hermeneias in the Latin Middle Ages: Essay on the Commentary Tradition, edd. H. A. G. Braakhuis - C. H. Kneepkens, Nijmegen 2003, pp. 165-205.
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Una parola perfetta
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che l’orante debba relazionarsi a Dio, non tanto per rappresentarselo, quanto per esprimere l’affectus, la relazione in atto di sé con il divino. Quanto avviene anche nel caso del canto liturgico, basato sulla vocalizzazione di alcuni termini divini che la tradizione ha istituito con lo scopo di pregare o lodare il Signore secondo una modalità di pronunziazione non convenzionale87. Il caso dell’espressione alleluia (o alleluya) è emblematico, ed è termine che per qualità filosofico-grammaticali e teologiche si avvicina al monosillabo El, utilizzato da Adamo per glorificare Dio. Abbiamo già avuto occasione di verificare come a una serie di termini liturgici comuni, quali osanna, sabaoth, ecc., i pensatori del Medioevo attribuiscano uno statuto particolare. Non si tratta soltanto dei diversi nomi con i quali il fedele loda Dio per mezzo dell’ebraico, lingua sacra, ma anche di particelle grammaticali con funzione interiettiva che invece di esprimere quanto è concepito dalla ragione discorsiva, manifestano il movimento di letizia scaturito dal contatto con il divino. Tra i tanti testi che consacrano parte della loro riflessione alla definizione del termine alleluia, possiamo far riferimento per concludere a quanto Isidoro di Siviglia spiega nelle Etimologie. L’enciclopedista avvia la sua discussione con la spiegazione di cosa sia un inno, lo psallare (termine al quale spesso si è fatto ricorso nei capitoli precedenti), e dice che un hymnus è un «canticum laudantium», semplicemente detto nella lingua latina «laus», lode, canto di letizia. L’«hymnus», specifica Isidoro, richiede necessariamente tre fattori perché possa essere definito tale: il canto, la lode e Dio. L’espletamento pratico dell’inno avviene attraverso l’uso di una serie di nomi considerati sacri, tra i quali spicca appunto la voce «alleluia», composta da due parole ebraiche, «allelu», che rinvia al
87 Frasi liturgiche, espressioni sacramentali, preghiere rientrano a pieno titolo nella definizione proposta da Irène Rosier di actus exercitus. Si tratta di parole il cui senso può essere colto solo nel contesto in cui queste parole sono esercitate. Nella maggior parte dei casi si tratta di «énoncés incomplets», nei quali manca uno dei fattori essenziali perché la frase possa essere completa o congrua. Questi enunciati significano prevalentemente l’intenzione del locutore. In altri termini, si ha a che fare con una concezione pragmatica della significazione linguistica, e la parola o le parole pronunciate sono interpretabili solo in una dimensione intersoggettiva e come prodotto di un contesto dato. Cf. ROSIER-CATACH, La distinction cit. (alla nota 75). Per una lista delle comuni espressioni liturgiche usate come spunto di riflessioni grammaticali e filosofiche, cf. EAD., Grammaire et liturgie cit. (alla nota 75).
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Il primiloquium di Adamo e la retorica della pura oratio
significato di lode, e «Ia», uno dei dieci nomi che gli Ebrei attribuiscono al Signore. La particolare sacralità che appartiene al termine spinge Greci, Latini e Barbari a lasciarlo intatto nella sua forma originaria; per quanto questa voce possa essere compresa, «propter sanctiorem (...) auctoritatem servata est ab Apostolis in his propriae linguae antiquitas». Alleluia è termine che riproduce in terra quanto risuona di favoloso nelle sfere celesti, è la stessa voce «tonante» di cui Giovanni parla nell’Apocalisse in occasione della discesa dello Spirito Santo88: una parola sacra, scaturita dalla letizia, che esprime in modo efficace lo stato d’animo e l’intenzione di colui che prega, e per tali motivi intraducibile. Costituta, quindi, da due concetti, l’alleluia (la lode a Dio) è l’interiezione per eccellenza, il cibo e la bevanda del paradiso, Agostino dice il «totum gaudium», la voce in cui risuona la quiete delle sfere celesti89. Se si tiene conto di questi dati, mi sembra evidente che Dante nella sua riflessione relativa alla nominazione di Dio da parte di Adamo abbia fatto ricorso a particelle interiettive comuni nella liturgia del tempo, e in grado di esprimere in modo efficace e secondo una modalità affettiva (la gioia) la relazione del primo uomo con Dio, in senso generale la relazione
88 Cf. ISIDORO DI SIVIGLIA, Etymologiae, VI, 19, 17-21, PL 82, 253B-254A, ed. Lindsay cit. (Introd., alla nota 32), p. 247, 21-29, p. 248, 1-12: «Hymnus est canticum laudantium, quod de Graeco in Latinum laus interpretatur, pro eo quod sit carmen laetitiae et laudis. Proprie autem hymni sunt continentes laudem Dei. Si ergo sit laus et non sit Dei, non est hymnus: si sit et laus et Dei laus, et non cantetur, non est hymnus. Si ergo et in laudem Dei dicitur et cantatur, tunc est hymnus (...). Alleluia duorum verborum interpretatio est, hoc est laus Dei, et est Hebraeum. Ia enim unum est de decem nominibus, quibus apud Hebraeos Deus vocatur. Amen significare vere, sive fideliter, quod est ipsud Hebraeum est. Quae duo verba amen et alleluia nec Graecis nec Latinis nec barbaris licet in suam linguam omnino transferre vel alia lingua adnuntiare. Nam quamvis interpretari possit, propter sanctiorem tamen auctoritatem servata est ab Apostolis in his propriae linguae antiquitas. Tanto enim sacra sunt nomina ut etiam Iohannes in Apocalypsin referat se Spiritu revelante vidisse et audisse vocem caelestis exercitum tamquam vocem aquarum multarum et tonitruum validorum dicentium: amen et alleluia: ac per hoc sit oportet in terris utraque dici, sicut in caelo resonant». Si rinvia ancora una volta al cap. 4, § 3 89 Cf. AGOSTINO DI IPPONA, Sermones, 252, PL 38, 1176: «Ibi cibus noster alleluia, potus alleluia, actio quietis alleluia, totum gaudium erit alleluia, idest, laus dei». Ovviamente, questa concezione si applica perfettamente a quanto detto nel cap. 4 sui canti di lode dei regni celesti.
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Una parola perfetta
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tra l’Uomo e la res. Non sarebbe errato definire la voce El una ‘nota’ (termine che ricorre a più riprese nell’opera dantesca, e con il significato specifico di segno linguistico, anche musicale, suscitato dal rapporto diretto che l’individuo stabilisce con l’Amore o con lo Spirito), un canto liturgico puntuale, una preghiera fatta per sola nomina, una brevis et pura oratio capace di dire sotto il modo della gioia la relazione tra sé e il Principio delle cose: una parola perfetta.
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Conclusione
Nonostante sia difficile parlare di una filosofia del linguaggio in Dante, dato che nella riflessione del fiorentino s’intrecciano non solo elementi di carattere teologico, morale, retorico, politico, ma si sovrappongono, fino a confondersi – com’è evidente nel caso della Commedia – il piano teorico e quello poetico, non mi sembra azzardato parlare di un pensiero forte dell’Alighieri sul parlare, la parola, il dire, quali manifestazioni che contraddistinguono l’uomo in quanto anima parlante. La Vita nuova nell’elaborazione di questo pensiero gioca un ruolo importante; nel vivo della narrazione che il libello ci offre emergono subito alcune idee che saranno riprese soprattutto nel poema, ma che conservano la loro autenticità nello stesso De vulgari, e specialmente nei capitoli che riguardano il primiloquium e il peccato di Babele. Una di queste idee forti, che attraversa senza soluzione di continuità l’opera dantesca, può essere formulata nei termini seguenti: la storia di ogni singolo uomo si riconosce dal linguaggio che egli utilizza per esprimersi. Dietro la parola si nasconde un vissuto, che a sua volta s’imprime nella parola: nel modo in cui questa è proferita, nel suono vocale (che può essere stridente o dolce), nel tipo di emozione che suscita nell’ascoltatore, nella capacità di aggregare o meno gli uomini in una comunità pacifica, vi è traccia di un determinato tipo di uomo. Questo significa che, per Dante, il segno linguistico non è un tubo catodico che insensibilmente è attraversato dal messaggio spirituale dell’individuo. Il segno linguistico si confonde con il messaggio, e innesca un meccanismo dalle implicazioni gnoseologiche e pratiche interessanti: la parola, da una parte, non si limita a descrivere la cosa in quanto tale (non potrebbe), ma in quanto atto proferito da un’anima senziente esprime il ‘sentimento’ della cosa; dall’altra, nel momento in cui è immessa in un circolo comunicativo, agisce realmente, in modo positivo o negativo, sull’interlocutore.
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Conclusione
Questa mancanza di neutralità che appartiene alla parola emerge appunto per la prima volta nel libello giovanile. Il nome di Beatrice non è semplice nome, a seconda delle situazioni è nome che racconta la relazione del personaggio-Dante con la donna angelicata, un nome quindi che narra la vicenda personale di un individuo: Beatrice è lode, dolore, sospiri del giovane poeta. Come Dante – e il paragone sembra suggerito dallo stesso Autore – nel De vulgari Adamo proferisce un segno linguistico che non si limita a nominare (Dio), ma nomina secondo una modalità che racconta la sua vicenda morale di uomo perfetto. Lo stato di perfezione di Adamo nel paradiso terrestre, la sua integrità morale, il contatto con il principio delle cose, si ripercuotono non in un nome puro che definisce, ma in un nome di gioia bello e puntuale. Questa concezione viva della parola si fonda su un sistema antropologico – anche se non formulato esplicitamente – che si ‘spiega’ per la prima volta ancora nella Vita nuova. Come emerge dalla lettura delle rime e della prosa del libello, l’uomo è sempre attraversato al suo interno da un movimento di spiriti. Questi fuoriescono all’esterno, catturano l’immagine della res e la lavorano all’interno dell’individuo. La species della cosa si presenta come una materia viva, ed è da questa materia che si generano una parola o un segno nella loro essenza vivi. Il meccanismo spirituale che è alla base della formazione della parola nella Vita nuova (che può essere definito anche con i termini «imaginazione» o «sentirsi») è inquadrato secondo una prospettiva psicologica, in un certo senso intimistica. Lo stesso meccanismo è riproposto nel De vulgari, per spiegare in modo ancora più puntuale la genesi del linguaggio. Nel trattato è lo Spirito (con la lettera maiuscola) a penetrare l’anima del primo uomo, a forgiarla, ed è da un lavoro spirituale immediato, interno ad Adamo, che scaturisce il primiloquium: il quadro teologico dei primi capitoli del De vulgari rafforza in modo decisivo la spiegazione psicologica del «cominciamento» della parola che si intravede nel libello. L’idea di una concezione del linguaggio, del parlare, del dire, come movimento vivo, è confermata da un’altra concezione antropologica, questa volta formulata esplicitamente dall’Autore, e complementare al sistema antropologico appena descritto. Nell’elaborazione chiara di questa concezione giocano un ruolo fondamentale i due trattati danteschi dalle caratteristiche teoriche più marcate, il Convivio e il De vulgari. Dalla lettura dei due testi si apprende una lezione d’importanza capitale: l’uomo non può prescindere dalla sua natura, il connubio indissolubile di ragione
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e corpo. La grossitia della materia e l’immortalità delle facoltà intellettuali concorrono allo stesso modo alla costruzione dell’essere umano, ed è dal concorso di due essenze che si produce quello che nel De vulgari è definito il signum locutionis, la parola come sintesi del segno razionale e del signum sensuale. Se si passa alla Divina Commedia gli elementi che abbiamo fin qui evidenziato sono riproposti, e in modo potenziato. La prospettiva ultramondana congegnata da Dante è un’occasione per osservare in modo ancora più preciso la storia di individui che si attualizza in tutta la sua pienezza nei tre regni dell’oltretomba. Si ripropongono nel poema: la concezione di una parola che racchiude l’anima del locutore, che narra la vicenda storica di un determinato tipo di uomo; il meccanismo spirituale, che è alla base della formazione del signum locutionis; la parola come sintesi di concetto e segno sensibile. Se si guarda al caso di Nembrot, dietro i versi disarticolati gridati dal gigante secondo un modus loquendi che può essere definito aspro, e dal contenuto concettuale incomprensibile, si nasconde la storia della superbia di un uomo (un re), che ha cercato di sovvertire l’ordine gerarchico delle cose voluto da Dio: il linguaggio, il discorso, si fanno rivelatori di questa storia maledetta. In modo speculare, nei regni celesti, è l’anima di un altro re a manifestarsi nella parola: Giustiniano, e la sua storia di milite della Provvidenza si esprime in modo puntuale in un discorso («osanna, sanctus Deus sabaòth...») solo apparentemente confuso, in realtà l’intreccio armonioso delle lingue sacre che esprimono la lode a Dio. Rispetto alle opere che la precedono, la Divina Commedia accentua un aspetto, la dimensione per così dire teologico-morale del linguaggio. Il poema non solo narra il modo in cui lo spirito delle anime si rivela fisicamente nella voce (basti pensare a Pier della Vigna), ma come mostrano gli esempi di Nembrot e Giustiniano propone allo stesso tempo modelli morali di comportamento linguistico. Questi modelli sono essenzialmente due: la bestemmia in senso lato, e la lode. La prima caratterizza gli abitanti della città di Dite, ed è frutto del dolore; la seconda, i cittadini del Purgatorio, e del Paradiso in modo speciale: la lode è il risultato della gioia. Alla base dei due modelli vi è un concetto, filosofico e religioso, che trova una prima formulazione implicita nella Vita nuova, ed è più evidente nel De vulgari: la qualità morale degli esseri dipende da un’assenza o da una presenza, l’assenza e la presenza di un Uno regolatore. Nel libello giovanile, l’Uno è rappresentato da una sua manifestazione in terra, Be-
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atrice. La presenza o meno della donna angelicata agli occhi di Dante è scaturigine di un determinato comportamento linguistico (poetico): nel caso Beatrice sia presente (come «dimostrazione di un miracolo»), la sua presenza causa un amore retto dalla ragione, ed espresso nello stile della lode; nel caso sia assente, l’assenza genera dolore (le rime di tipo cavalcantiano). Nel trattato latino si ripropone lo stesso schema: Adamo pronuncia due segni linguistici esemplari, in relazione al contesto in cui questi segni sono espressi: nel paradiso terrestre si tratta di una parola esteticamente e moralmente perfetta; dopo la cacciata dal paradiso – in una situazione quindi di allontanamento dal Principio delle cose – si tratta di un segno di dolore (heu!). Nella Divina Commedia, infine, le locutiones degli abitanti dell’oltretomba sono tutte interpretabili secondo lo schema assenza/presenza: le parlate dei cittadini dell’Inferno risentono delle caratteristiche di un luogo, che è essenzialmente privo di luce (Dio, l’Uno), di conseguenza sono parlate di dolore e di bestemmia; quelle dei cittadini del regno celeste sono il frutto di anime rivolte al punto luminoso per eccellenza, pertanto gioiose, ordinate, dolci e armoniose. Se da un punto di vista formale i modelli di comportamento linguistico sono due, dal punto di vista della verità, della bontà e della bellezza esiste un unico tipo di modello, i canti di lode descritti nella terza cantica. In Paradiso – sulla scia dell’importanza che nella Vita nuova assume la lode a Beatrice, e su quanto si elabora sul primiloquium adamitico nel De vulgari – la lode diventa l’atto del discorso più nobile che l’uomo (l’anima, lo spirito) possa realizzare. La lode è un actus locutionis capace di esprimere l’ineffabile; il sentimento di sé nei confronti dell’Uno, e senza che quest’ultimo possa essere inglobato nell’atto discorsivo in quanto tale. La magnificazione che in questo modo viene fatta della gloria di Dio permette all’uomo di riconoscere la sua posizione nell’ordine delle cose: la lode (e la preghiera in generale) è il momento di riconoscimento massimo della propria creaturalità, un momento di giustizia che permette un rapporto di mutua convivenza tra due enti. La Divina Commedia mostra con la terza cantica di non essere un poema mistico, che narra l’assorbimento dell’individuo in Dio. Narra, invece, la tensione dell’anima verso l’Uno, il rapporto dinamico che gli spiriti instaurano con un Punto Assoluto, ed è proprio grazie ai canti di lode, che rivelano l’obbligo morale, come insegna Agostino, di dire la gloria divina (non siamo quindi nel regno del silenzio mistico), la Divina Commedia mostra di essere anche all’apice dell’esperienza divina il poema dell’Uomo.
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Nella terza cantica si nasconde un’altra lezione: sono diverse e molteplici le lodi che nominano e cantano Dio, armonizzate in maniera ordinata. Il Paradiso si colloca decisamente in una logica anti-babelica. Se il mito di Babele consacra l’idea di un’umanità disgregata, fatta di molteplici linguaggi e di altrettanti popoli che non riescono a comunicare, le lodi che all’unisono vibrano nelle sfere celesti edificano a livello di discorso, di anima e di comunità, una struttura in grado di aggregare la molteplicità degli individui e dei vocaboli in una nuova unità. La lode ordina la pletora verbale delle anime, e le assegna regolarità nei ritmi, nei suoni, nelle espressioni, così come il tessuto stesso della terza cantica padroneggia l’esuberanza teorica di figure, di colori, di toni, tipica invece dell’Inferno. In altri termini, la lode è la preghiera universale, nel senso di uni-versus, ed è in grado di trascendere e abolire la Babele dei linguaggi. Questa logica di armonia è condivisa dalla Monarchia (non a caso concepita insieme al Paradiso). All’interno del trattato emerge un dato che fa luce sulla dinamica dei canti descritta nella terza cantica: la molteplicità delle diverse volontà può essere positiva, se coordinata e retta dall’unità. In questo modo la molteplicità si conserva e non si tramuta in semplice anarchia. In un’ottica in cui l’unità e la molteplicità dialogano a vicenda, in cui la parola in quanto segno vivo rivela il contenuto spirituale dell’individuo, non sorprende che il volgare e più volgari diventino non solo gli strumenti linguistici che contraddistinguono le anime della Commedia, ma la cornice stessa nella quale sono inserite le lingue sacre che esprimono la lode a Dio. Nel poema, il volgare è il mezzo più appropriato per descrivere i desideri di più volontà, in quanto è lingua flessibile, in grado di adeguarsi meglio, com’è scritto nel Convivio, all’intimo della coscienza di ogni singolo individuo. Rispetto alla lingua grammaticale, come per esempio il latino, il volgare è adatto a esprimere il vissuto di un’esperienza, che in quanto vissuto è in continua trasformazione e in continuo movimento (la «conoscenza viva»). Per questo risulta adatto all’invenzione dei neologismi, che costellano soprattutto la terza cantica, a una fabbricazione continua di parole in grado di seguire esperienze non fisse, come quella del «trasumanar». Esiste un pensiero compatto di Dante sul linguaggio, che ruota attorno ad alcuni concetti-chiave. Tuttavia, vi sono alcuni elementi di frizione all’interno di questo pensiero che è d’obbligo denunciare, e che richiederebbero una maggiore analisi. Per esempio, come coniugare l’idea della capacità dell’uomo di ricreare il linguaggio, di fabbricarlo, con l’idea
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di un movimento spirituale (sia esso fisiologico o teologico) che sembra trascendere le stesse capacità intellettuali dell’individuo? La storia degli uomini, le loro volontà si manifestano nella e con la parola: ma cos’è precisamente la volontà, l’intenzione dell’uomo; qualcosa che si costruisce di volta in volta, o è da sempre connotata secondo un piano provvidenziale? Qual è insomma il margine di manovra dell’uomo e dello stesso Dante nella città celeste, e soprattutto nella città terrestre? La visione del Paradiso è una profezia, un exemplum, una semplice allegoria o un’utopia (precisare la natura della visione dantesca significa capire il tipo di libertà che gli uomini possono realizzare in terra)? L’amore per l’Uno differenzia la qualità dei comportamenti linguistici ed etici. Ma questo amore è dato da sempre? Come si rettificano allora il linguaggio e la morale per dar vita a una convivenza pacifica tra gli uomini? Si tratta di ravvivare un amore che bisogna riconoscere come qualcosa che da sempre ci appartiene in quanto eletti? Queste frizioni potrebbero non significare nulla per l’Autore, diventano problematiche solo a partire da una prospettiva d’interpretazione non-medievale. Come più volte è stato detto, sono diversi i fattori che contribuiscono alla creazione di un’idea del Poeta sul linguaggio, e tentare di collocare questa idea nella storia del pensiero filosofico e/o linguistico significa tener conto appunto del concorso di questi molteplici fattori. Per apprezzare in modo adeguato la riflessione di Dante, vorrei proporre in conclusione un paragone con un’altra riflessione linguistica, quella di Rousseau. Un paragone che dovrebbe essere concepito solo come punto di partenza per uno studio approfondito da realizzare in altra sede. Come per l’Alighieri, per il filosofo francese la parola distingue l’uomo tra gli animali, ed è lo strumento attraverso il quale l’essere che sente («un être sentant»; Dante scrive: «In homine sentiri humanius credimus quam sentire, dummodo sentiatur et sentiat tanquam homo»1, condizione che è alla base della nascita della parola) comunica al suo simile i propri sentimenti e i propri pensieri. Dato che un uomo può agire su un altro uomo solo attraverso strumenti sensibili, continua Rousseau, è stata necessaria l’istituzione di segni sensibili, come la voce, per esprimere il pensiero2.
1
De vulg. I v 1. Cf. J. J. ROUSSEAU, Essai sur l’origine des langues, éd. C. Kintzler, Paris 1993, cap. 1, p. 55. Cf. De vulg. I iii 2. 2
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Come per Dante, anche per il filosofo del secolo XVIII gli animali posseggono una forma di comunicazione, che a rigore non può essere definita locutoria. Anche se è possibile immaginare una sorta di lingua naturale per le api, i castori, una «lingua gestuale» che parla agli occhi e non al cuore, la vera lingua, quella per convenzione – è scritto nell’Essai sur l’origine des langues, con una terminologia che ricorda l’aristotelico ad placitum – appartiene solo agli uomini. Questi, rispetto agli animali, caratterizzati da una forma di esistenza unilaterale e specifica (nel senso di ‘specie’, e non di individualità), sono in costante progresso; le loro esigenze e i loro desideri sono in continua trasformazione, ragion per cui hanno bisogno per esprimersi di una lingua duttile fatta di molteplici segni3. Questa tesi di Rousseau si lega a un’altra tesi, relativa alla tematica dell’origine delle lingue. Come nel De vulgari, in cui la parola prima di Adamo è una parola di gioia e una parola appassionata che ‘canta’, nel Saggio sull’origine delle lingue si afferma con decisione che i primi idiomi non nacquero da bisogni di tipo naturale («les fruits ne se dérobent point à nos mains, on peut s’en nourrir sans parler; on poursuit en silence la proie dont on veut se repaître»); le prime parole nacquero, invece, da bisogni morali, da passioni come l’amore, l’odio, la pietà, la collera: Pour émouvoir un jeune cœur, pour repousser un agresseur injuste, la nature dicte des accents, des cris, des plaints: voilà les plus anciens mots inventés, et voilà pourquoi les premières langues furent chantantes et passionnées avant d’être simples et méthodiques4.
Alla base delle prime voci vi sono le passioni, queste dettano (Rousseau impiega il verbo «dicter»; Dante, secoli prima, utilizza il verbo «dittare», per esprimere il ruolo di Amore nella formazione della sua poesia) le prime articolazioni linguistiche e i primi suoni, dai quali si formarono le prime canzoni, la poesia e la musica, aspetti diversi di un unico fenomeno, la lingua delle origini. «Dire et chanter – afferma con sicurezza Rousseau, sulla traccia di Strabone – étaient autrefois la même chose»5. Se alla luce di questo rapidissimo confronto si è tentati di giudicare la riflessione di Dante sul linguaggio una sorta di avanguardia, un illumi3
Cf. ROUSSEAU, ibid., cap. 1, p. 60. Ibid., cap. 2, p. 62. 5 Ibid., cap. 12, p. 103. 4
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nismo ante litteram che anticipa la vera e propria filosofia sul parlare e la facoltà linguistica, bisogna riconoscere l’errore potenziale che si racchiude in tale tentazione. L’Alighieri è interamente gettato nel suo tempo, e l’assenza di alcuni elementi dottrinali dal sistema di Rousseau, presenti, al contrario, nella concezione dantesca sul linguaggio, sono solo apparentemente marginali: sottolineano la differenza fondamentale tra due visioni del mondo. Dio, gli angeli, lo Spirito Santo, la complessità di significato di un concetto tutto medievale come quello di spirito, l’importanza della parola (il Verbo) in un contesto storico in cui il Cristianesimo gioca un ruolo di primo piano, sono solo alcuni di questi elementi che non si ritrovano nel Saggio sull’origine delle lingue, e che ne fanno, rispetto ai pochi capitoli del De vulgari in cui si parla dell’origine e dell’essenza della locutio, un testo ‘povero’. È, allo stesso tempo, questa una ragione sufficiente per essere prudenti circa una presunta ‘filosofia’ di Dante sul linguaggio. La visione dell’Alighieri intreccia in modo naturale e automatico piani che nel pensiero moderno risultano disgiunti, quello del credere e dell’intelligere, della ragione e dell’affetto, della verità e della morale, un intreccio che si addice a ciò che nel Medioevo è definita non una filosofia qualunque, ma una vera philosophia.
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Letteratura secondaria
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Letteratura secondaria
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Indice dei nomi*
Abelardo, Pietro 215, 216, 221; Sermones ad virgines paraclitenses 216n Abramo (bib.) 170n Achille (mit.) 106n, 129 Adamo (bib.) 15, 16, 21, 25, 26, 28, 31n, 36, 45n, 68, 78, 81, 129, 163, 171, 189, 191, 208n, 209, 210, 229-267, 270, 272, 275 Adamo, mastro, personaggio dell’Inferno 118n Adriaen, M. 94n, 154n, 223n Agamben, G. 34n, 61, 61n Agostino d’Ippona 48, 53, 53n, 57, 77, 98, 119, 119n, 120, 120n, 121, 121n, 155, 155n, 166, 167, 167n, 171, 172, 172n, 176, 179, 180n, 187, 188n, 202, 203, 203n, 212n, 214, 214n, 215n, 221, 222, 222n, 223, 223n, 224, 225, 225n, 233, 236, 236n, 241, 241n, 244, 245, 245n, 247, 247n, 252, 253, 260, 266, 266n, 272; De quantitate animae 53, 53n; Contra mendacium 120n; Enchiridion 121, 121n; In
Evangelium Iohannis 155n; De civitate Dei 166, 167n, 172n, 241, 241n; Enarrationes in Psalmos 188n, 222n, 223n, 244, 245n; De doctrina christiana 202, 203n; Sermones ad popolum 214n, 215n; De catechizandis rudibus 225n; De Genesi contra Manichaeos 236n; De Magistro 245n; Epistula Probae 245n; Soliloquia 246, 247, 247n; Sermones 266n; (dub.) Regulae 260, 260n Alano di Lilla 104, 216, 217n; In die Sancto Pentecostes 217n Albano Leoni, F. 18n Albertano da Brescia 115, 115n; Liber de doctrina dicendi et tacendi 115n Alberto Magno 52, 57, 58, 58n, 72, 150, 150n; Summa de creaturis 57, 58n; De natura loci 150n Alcuino di York 241; Interrogationes et responsiones in Genesim 241n Alessio Interminelli, lusingatore, personaggio dell’Inferno 86, 88, 89, 146 Alessio, G. C. 32n
* I numeri rinviano alle pagine; quelli in corsivo rinviano a una trattazione specifica del lemma. Una ‘n’ dopo il numero di pagina rinvia a una o più note. I numeri uniti da un trattino indicano la presenza del lemma in tutte le pagine (o le note) comprese in quell’intervallo.
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Alighieri, Iacopo 158, 158n; Chiose 158n Alighieri, Pietro 111, 111n, 158, 158n, 176, 177n, 205, 207; Super Comoediam 111n; Super Dantis 111n, 177n, 207n; Commentarium 111n; Comentum 158n Al-Kindi 149 Alphandery, P. 211n Ambrosini, R. 43n Analecta hymnica: In Pentecoste 221, 221n Anastasio, principe 86 Angremy, A. 164n Antonelli, R. 123n Antoni, G. 244n Antonius Senensis (detto il Lusitanus) 168n Apocalisse di Pietro (apocr.) 96 Argonauti (mit.) 88 Aristotele di Stagira 50n, 57, 57n, 59, 62, 91, 91n, 100, 121n, 150, 150n, 177, 177n, 180n, 181n, 211, 211n; De interpretatione 50n; De anima 57, 57n; Ethica Nicomachea 91, 91n; Rhetorica 121n; Physica 150n; Politica 177; Metaphysica 181n; Poetica 211n Arnaut Daniel 143, 144, 147 Ars ambrosiana 261n Ashworth, E. J. 36, 36n, 259n Assur, divinità assira 170n Auerbach, E. 92n, 138n, 181n, 188n, 192n, 230, 232n Averroè 57n; Commentarium magnum in Aristotelis De anima libros 57n Avicenna 57, 62 Babele, torre di (bib.) 16, 17n, 21, 24, 27, 35, 45n, 138, 139, 160, 162, 163, 164, 164n, 166, 170, 170n, 171, 172, 176n, 180, 181n, 186, 210, 213, 214, 241, 242, 258, 269, 273 Bacone, Ruggero 48, 149, 150n, 261, 262n; Opus maius 150n; Opus ter-
tium 150n; Summa grammatica 262, 262n Baehrens, E. 102n Balaam (bib.) 46n, 238, 238n Bambaglioli, Graziolo 156, 156n; Commento 156n Barański, Z. 17n, 137, 152, 152n, 169n, 174n, 195n Barbi, M. 18n Barolini, T. 188n Baron, R. 260n Barth, P. 140n Basile, B. 43n Bates, R. 112n Battistoni, G. 208n Bausani, A. 141n Beatrice 43, 54, 55n, 64, 66, 75, 77n, 80n, 131, 132, 181, 189n, 191, 192, 192n, 194-200, 231, 270, 272 Beda il Venerabile 85, 85n, 86n, 90, 112, 212n, 213n; In Epistolas septem catholicas 85n, 86n; Expositio Actuum apostolorum 212n, 213n Belacqua, personaggio del Purgatorio 78n Bellomo, S. 157n, 158n Belo, presunto padre di Nino 170n Benedetto da Norcia 255n; Regula 255n Benvenuto da Imola 89, 89n, 108, 108n, 109n, 157, 157n, 162, 162n, 205; Comentum 89n, 108n, 109n, 157n, 162n Bériou, N. 243, 243n, 244n Berlioz, J. 243n, 244n Bernardo di Chiaravalle 129, 189, 189n, 253; Sermones super Cantica canticorum 189n Bertram dal Bornio 124, 143, 144 Bianchi, M. 59n Blume, C. 221n Boccaccio, Giovanni 158n; Esposizioni 158n
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Boezio, Anicio Manlio Severino 57, 57n, 152, 152n; In librum Aristotelis Peri hermeneias 57n, 152n Boezio di Dacia 27-29; Modi significandi 27, 28, 28n, 29 Bonaventura da Bagnoregio 52, 52n, 76, 129; Commentaria in quatuor libros Sententiarum 52n Boncompagno da Signa 139, 139n, 196, 196n; Boncompagnus 139n; Rhetorica novissima 196n Bonfanti, G. 92n Bonvesin de la Riva 130n; Libro de le tre scritture 130n Borgnet, A. 58n, 150n Borst, A. 162n Bossier, F. 251n Bottari, G. 94n, 117n, 120n, 243n Botterill, S. 129n Boulnois, O. 251n Boyde, P. 61n Braakhuis, H. A. G. 264n Braccini, M. 137n, 141n, 148 Brambilla Ageno, F. 18n Branca, V. 158n Brewer, J. S. 150n Briareo (mit.) 175, 176, 176n Bridges, J. H. 150n Briscoe, M. G. 244n Brownlee, K. 100n Brugnoli, G. 112n Brugnolo, F. 137n Brunetto Latini, v. Latini Bruni, F. 137n, 138n, 138n, 146n Cabié, R. 211n Cabré, M. 103n Caccia, E. 148n, 149n, 160, 160n Cacciaguida, personaggio del Paradiso 17n, 54, 78n, 145, 182 Cai, R. 217n, 218n
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Calcidio 48, 48n; [Platonis] Timaeus translatus commentarioque instructus 48n Cam (bib.) 169n Cambon, G. 137n, 151n, 181n Cangrande della Scala (v. anche: Scaligeri) 138, 204 Carbonel, Bertran 102n; La primiera de totas las vertutz 102n Cariddi (mit.) 85, 85n Carlo Magno, imperatore 243 Carmody, F. J. 115n Casagrande, C. 31, 31n, 53n, 66n, 84, 84n, 85n, 93, 94n, 104n, 117n, 120n, 126n, 130n, 153n, 171n, 180n Casagrande, G. 209n Cassiano, Giovanni 253 Cassiodoro, Flavio Magno Aurelio Senatore 94, 94n; Expositio Psalmorum 94n Cassiodoro [dubium] 260; De oratione 260n Castaldo, D. 237, 237n, 240n Castano, R. 103n Catone, v. Disticha vel dicta Chatonis Cavalca, Domenico 94, 94n, 117, 117n, 119, 120n, 243n; Il pungilingua 94n, 117, 117n, 120n, 243n Cavalcanti, Guido 56, 60, 60n, 61, 61n, 66n, 145n; Rime 60n, 61n, 66n Cazelles, B. 211n Cecchini, E. 209n, 233n Cellini, Benvenuto 149, 149n; La Vita 149, 149n Cerbero (mit.) 17n, 152n, 174, 174n Cesare, Caio Giulio 123, 123n Châtillon, J. 244n Chenu, M.-D. 37, 37n, 59n, 60n Chiamenti, M. 158n Chiari, A. 162, 162n, 174n, 175n Chrétien, J. L. 33n, 127n, 128n Ciampolo, personaggio dell’Inferno 146
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Cicerone, Marco Tullio 252; De inventione 252 Cigada, S. 259n Cino da Pistoia 61n, 144; Rime 61n Cioffari, V. 156n Cipriano di Cartagine 253 Coglievina, L. 195n Colombo, M. 33n, 195n Consoli, D. 43n, 183n Contini, G. 19n, 60n, 100n Cordié, C. 149n Cornelio, pagano (bib.) 220 Corti, M. 27-34, 35, 35n, 118n, 123n, 139, 139n Craun, E. D. 180n Crawford, F. S. 57n Cremona, J. 16n, 17n Crisciani, C. 85n Cristina di Saint-Trond, detta Mirabile, santa 220 Croce, B. 108n Curione, Gaio Scribonio, generale romano 123, 123n Cus (bib.) 169n D’Ancona, A. 31n, 92n d’Onofrio, G. 35n, 44n, 186n, 244n, 246, 246n D’Ovidio, F. 24n, 161, 161n, 208n da Civezza, M. 220n Dahan, G. 233n Damon, P. 208n Daur, K. D. 245n David, M. 188n Davide (bib.) 188 De Boer, B. 244n De Robertis, D. 192n, 193, 195n De Sanctis, F. 108n De spiritu et anima 59, 59n, 251 Dekkers, E. 188n, 222n, 223n, 245n Del Popolo, C. 205, 205n, 207 Delcorno, C. 117n, 118n
Della Vedova, R. 111n Delorme, F. 262n Delumeau, J. 42n Desbonnets, T. 220n Descartes (Cartesio), René 35 Dessì, R. M. 66n Di Aleppo, G. M. 174n Diomede (mit.) 113 Disticha vel dicta Cathonis 102, 102n Dolfi, A. 109n Dombart, B. 167n, 172n, 241n Domenichelli, T. 220n Donadoni, E. 208n Donato, Elio 259, 259n, 260, 261; Ars minor 259, 259n, 260; Ars maior 261 Dragonetti, R. 31n, 74n, 235, 235n Dreves, M. 221n Dronke, P. 140, 140n, 174n Duval, F. 97n, 98n Ebbesen, S. 233n Eco, U. 35, 35n, 36, 174n, 264n Egidio Romano 195, 195n; De regimine principum 195n Elwert, W. Th. 137n, 142n, 206n, 207, 207n Emery Jr., K. 118n Emmerson, R. 100n Enrico di Gand 234, 234n; Lectura ordinaria super sacram scripturam 234n Enrico II, re d’Inghilterra 124 Enrico III, detto il Re Giovane 124 Estensi, famiglia 88 Europa (mit.) 173 Eva (bib.) 171, 229, 237-240 Evans, E. 121n Faes de Mottoni, B. 33n Falaride, tiranno di Agrigento 71 Fallani, G. 206n, 208n Falsembiante, personaggio del Fiore 103 Fattori, M. 59n
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Faux-Semblant, personaggio del Roman de la Rose 101, 103 Federici Vescovini, G. 44n Feiss, H. B. 114n, 254n, 255n Ferrante, J. 90n, 112n Ferrario, E. 208n Fialte (mit.) 175, 176 Fichera, E. 195n Filippo III, re di Francia (detto L’Ardito) 116 Filippo il Cancelliere 130, 130n, 131; Sermones in Psalmos 130n Finazzi, R. B. 259n Fioravanti, G. 29, 29n Flegiàs (mit.) 173 Flood, D. 235n Folena, G. 33n Forbes, C. 211n Förster, M. 257n Forti, F. 171n Fortuna, S. 165n Foscolo, Ugo 160, 160n Fraipont, J. 188n, 222n, 223n, 245n Francesca da Rimini, personaggio dell’Inferno 70, 152 Francesco d’Assisi 220 Francesco da Buti 88n, 205 Francescobaldi, Dino 61n; Rime 61n Fredborg, K. M. 58n Fritz, J. M. 79n Fubini, M. 107n Gallais, P. 81n Gambale, G. 112n, 167n, 208n Garapon, R. 141n Gaudenzi, A. 196n Gentili, B. 104n Gerardo di Bornello 143, 144 Geremia, profeta (bib.) 157n Gerione, personaggio dell’Inferno 94 Gerson, Giovanni 100 Getto, G. 206n
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Geyer, B. 255n Ghisalberti, A. 35n Giacomo da Varagine 131, 131n; De die Penthecostes 131n Giafet (bib.) 169n, 170n Giano, presunto figlio di Noè 170n Giasone (mit.) 86, 88, 129, 129n, 146 Giovanni Crisostomo 128, 213, 213n, 218, 218n; De sancta Pentecoste 213, 213n; In I epistolam ad Corinthios 218n Giovanni Damasceno 57, 251 Giove (mit.) 130, 173, 174 Girolamo di Stridone 202, 203, 204n, 207, 208; Epistulae 203, 204n, 208, 240 Giunta, C. 143n Giustiniani, V. R. 16n, 17n Giustiniano I, imperatore 68n, 206, 207, 271; Institutiones 68n Goffredo da Viterbo 205 Goldbacher, A. 245 Gorni, G. 54n Graduale romanum 223, 223n Graf, A. 92n Graffi, G. 259n, 261n Grayson, C. 26n Green-Pedersen, N. G. 58n Gregorio di Nazianzo 127 Gregorio di Nissa, 128, 213, 213n; De Spiritu Sancto 213n Gregorio Magno 99, 116, 127, 128, 153, 154n, 215, 223, 223n, 253n; Moralia in Job 154n, 223n Grelot, P. 244n Grevin, B. 165n Grignolati, M. 165n Grondeux, A. 45n Grossatesta, Roberto 117; Manuel des Péchés (attr.) 117 Guerri, D. 24n, 148n, 208n
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Guglielmo d’Alvernia 242, 248, 250253; Rhetorica Divina 248, 250, 251n, 252, 252n, 253n Guglielmo di Waddington 117; Manuel des Péchés (attr.) 117 Guglielmo Peraldo, v. Peraldo Guido da Montefeltro, personaggio dell’Inferno 71, 76, 86, 105, 122, 124n, 152 Guido da Pisa 156, 156n, 158; Expositiones 156n Guidubaldi, E. 17n, 111n Guillaume de Digulleville 96-100; Pèlerinage 96, 97n, 98, 98n, 99, 99n, 100, 101 Guillaume de Lorris 100, 100n; v. anche: Roman de la Rose Guntero di Parigi 248-250; De oratione 248, 249n, 250n Hamesse, J. 59n Heber (bib.) 241 Henriet, P. 244n Herzman, R. B. 100n Hilberg, I. 204n Hilhorst, A. 93n Hollander, R. 201n, 211n Holtz, L. 259n Hörmann, W. 53n, 247n Hotot, F. 251n Hurst, D. 85n, 86n Iacopone da Todi 102n, 118n; Omo che po’ la sua lengua domare 102n Ikeda, K. 192n Ildegarda di Bingen 140, 140n, 257, 257n; O orzchis Ecclesia 140, 140n; Causae et curae 257, 257n Imbach, R. 16, 16n, 45n, 165n, 168n, 208n Intelligenza (L’) 61n Ioca Monachorum 257, 257n
Isidoro di Siviglia 30, 30n, 31n, 50n, 59n, 149, 149n, 234, 234n, 240, 240n, 260n, 265, 266n; Etymologiae 30, 30n, 50n, 149, 149n, 234, 234n, 240, 240n, 260n, 265, 266n; Differentiae 59n Isifile (mit.) 88 Jacomuzzi, A. 195n Jakobson, R. 141, 141n Jaye, H. 244n Jean de Meun 100, 100n; v. anche: Roman de la Rose Jeu d’Adam (Le) 256n Jordan, M. D. 118n Kalb, A. 167n, 172n, 241n Keil, H. 260n Kilwardby, Roberto (Pseudo) 48, 58n, 263n; Commentum super Priscianum maiorem 58n, 263n Kintzler, C. 274n Kneepkens, C. H. 264n Koerner, K. 18n Lacaita, J. Ph. 89n, 108n, 109n, 157n, 162n Laistner, M. L. W. 212n, 213n Laks, B. 211n Lambertini, R. 264n Lanci, A. 61n Lanci, M. 149n, 161, 161n Landino, Cristoforo 160, 160n; Comento 160n Latini, Brunetto 31n, 108, 115, 115n; Li livres dou Tresor 30n, 115, 115n; v. anche: Tesoro di Brunetto Latini versificato Lauwers, M. 66n Le Feron, B. 251n Le Goff, J. 42, 42n, 92n Lecco, M. 96n
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Leclerq, J. 189n Lecoy, F. 100n, 101n, 103n Ledda, G. 195n Legenda trium sociorum 220n Lemay, R. 167n, 174n Lévinas, E. 235, 236n Liber de Causis 51, 51n, 79 Limentani, U. 17n Lindsay, W. M. 30n, 50n, 149n, 234n, 240n, 260n, 266n Linskill, J. 142n Lo Piparo, F. 16n, 18n, 29, 29n Löfstedt, B. 260n, 261n Lombard, E. 211n, 222n Longères, J. 243n, 244n Longoni, A. 96n Lorenzo d’Orleans 116; Somme le Roi 116 Lucifero (bib.) 99, 108n, 171, 174, 176n, 181, 181n Lugarini, E. 16n, 17n Mac Donald, S. 36n Macken, R. 234n Maggi, P. G. 161, 161n Magnard, P. 51n Maier, B. 148n Maierù, A. 29, 29n Maire Vigueur, J. C. 149n Malabocca, personaggio del Fiore 22, 101, 103, 104 Malatesta, Paolo, personaggio dell’Inferno 70 Male Bouche, personaggio del Roman de la Rose 101, 103 Mancini, F. 102n, 118n, 119, 119n Manuello Giudeo 138, 138n; Bisbidis 138, 138n Maometto 122, 123 Maramauro, Guglielmo 157, 157n; Expositione 157n Marazzini, C. 23n
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Marcella, destinataria delle lettere di Girolamo di Stridone 203, 208 Marcellino, Ammiano 86n Marigo, A. 25, 25n, 26, 26n, 27n, 41n Marmo, C. 27n, 52n, 238n, 264n Marrone, S. 251n Marti, M. 61n, 192n Martin, I. 203n Martino di Braga 154n; De ira 154n Marzo, A. 174n Mayer, A. 155n Mazzocco, A. 23n Mazzoni, F. 47n, 111n Méhat, A. 244n Meiser, C. 57n, 152n Méla, C. 211n Mengaldo, P. V. 18n, 20, 20n, 25, 25n, 33n, 43n, 83, 83n, 208n, 241, 241n, 257n Milani, C. 259n Minosse (mit.) 173, 174 Modisti 23-34, 35, 36 Monterosso, R. 186n Monti, L. 149n, Morenzoni, F. 86n Mosca dei Lamberti, personaggio dell’Inferno 124 Mosè (bib.) 212n Moulinier, L. 257n Muratova, X. 233n Nagel, S. 53n Nannucci, V. 111n, 177n, 207n Nardi, B. 20, 20n, 21, 21n, 51, 51n, 68n, 69n, 72n, 108n, 174n, 192n, 205, 205n, 207, 208n, 232n Naselli, C. 117n Navone, P. 115n Nembrot (bib.) 16, 17n, 25, 136, 137, 147, 159-177, 181, 187, 213, 239, 239n, 271 Nencioni, G. 137n, 144, 144n
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Nesso (mit.) 69 Newhauser, R. 99n Niccoli, A. 43n Niccolò III, papa 78n Nicola di Lyra 164n; Glossa 164n Niederehe, H. J. 18n Nielsen, L. 58n Nino, leggendario re degli Assiri 170, 170n, 171n Noè (bib.) 169, 169n, 170n Noomen, W. 256n O’Donnel, J. 251n Oliger, L. 117n Onder, L. 43n Orfeo (mit.) 79n Origene 127, 127n, 204n, 253 Orosio, Paolo 171n Ottimo (commento) (L’) 88n, 158, 158n, 205 Ovidio, Nasone Publio 47, 79n, 252n Pabst, W. 137n Padoan, G. 108, 109, 109n, 158n Pagani, I. 27n, 29, 30, 30n Pagano, S. 111n Pagliaro, A. 16n, 17n, 21n, 69n, 137n, 148n Paioni, G. 104n Palazzo, A. 112n Pallarès, J. G. 45n, 169n Panaccio, C. 237n Paolazzi, C. 195n Paolo Apostolo 217-220 Papia (Vocabulista) 111, 111n; Elementarium 111n Paravicini Bagliani, A. 149n Parodi, E. G. 162, 162n Parodi, M. 195n Pazzaglia, M. 33n, 192, 192n Peirone, L. 16, 17n Penna, A. 187n, 208, 208n
Peraldo, Guglielmo 104, 106, 116-126, 179, 242, 243n; Summae virtutum ac vitiorum 106, 118n, 119n, 120n, 122n, 125n, 180n, 242, 243n Pertile, L. 195n, 197n Petrocchi, G. 18n Petronio, G. 61n Pézard, A. 31n, 69n, 108, 108n, 109, 110, 145n, 169, 169n, 174n Piazzoni, A. 60n Pier da la Broccia, personaggio dell’Inferno 145 Pier della Vigna 70, 152, 271 Pierre de Beauvais 164n; La mappemonde 164n Pietro, Santo 159n Pietro Cantore 244 Pietro Comestore 236n; Scolastica historia 236n Pietro di Giovanni Olivi 167n, 234, 235n; Lectura super Genesim 235n Pietro Ispano 52 Pinborg, J. 28n, 58n, 258n, 259, 259n Pinchard, B. 33n Pino, G. 137n Pio V, papa 168n Piron, S. 167n Pisoni, P. G. 157n Pistelli, E. 18n Platone 48, 48n; Timeo (Timaeus) 48n; Fedro 245; Simposio 245 Plauto 140 Plinio 85, 86n Pluto, personaggio dell’Inferno 55, 135137, 147, 148-159, 199, 206, 258 Poirel, D. 114n Poirion, D. 100n Porcelli, B. 111n, 122n, 151n, 206n Porfirio di Tiro 150 Porta, G. 169n Postilla seu expositio aurea in librum Geneseos 168n
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Prisciano di Cesarea 36, 250, 261, 261n Procaccioli, P. 160n Puletti, G. 111n Rabano Mauro 241, 241n, 248, 248n, 260n; Commentaria in Genesim 241n; De institutione clericorum 248n; Expositio in Matthaeum 260n Raffi, A. 36, 37n, 210, 210n Raimbaut de Vaiqueras 142, 142n; Eras quan vey verdeyar 142n Rajna, P. 26n Ramat, P. 18n Read, S. 259n Renaudet, A. 108n Rendall, T. 112n Renzi, L. 137n, 141, 141n, 142, 142n Rhetorica ad Herennium 252 Riccardo di San Vittore 66n; Tractatus de gradibus charitatis 66n Riccardo, abate 96 Ricci, P. G. 18n Rignani, O. 44n Roberto Grossatesta, v. Grossatesta Rochais, H. 114n Roman de la Rose 100-103, 105, 146n, 252n Roos, H. 28n Rosier-Catach, I. 27n, 32n, 33n, 45n, 48n, 57n, 58n, 120n, 149n, 165n, 167n, 168n, 208n, 237n, 258n, 259n, 261n, 262n, 263n, 264n, 265n Rossi, C. L. 156n Rossini, M. 195n, 224n Rotta, P. 24n Rousseau, J. J. 274, 274n, 275, 275n, 276 Routledge, M. 102n Roy, B. 258n Ruggero Bacone, v. Bacone Rutebeuf 141, 141n; Miracle de Théophile 141, 141n
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Salomone (bib.) 89, 113, 114, 185 Sanguineti, E. 87n Santagata, M. 45n Sapegno, N. 88n, 109n Sapìa Senese, personaggio del Purgatorio 145 Sarolli, G. R. 172n, 206, 207, 207n Sarteschi, S. 194n Satana 55, 135, 136, 148, 149, 149n, 156n, 157n, 158n, 159, 159n Scaligeri (o della Scala), famiglia 208 Scarafoni, A. 149n Scartazzini, A. G. 160, 160n, 161n Schier, K. H. 149n Schmidt, P. G. 95n, 96n Schmitt, J.-C. 42, 42n Schnapp, J. T. 211n Scilla (mit.) 85, 85n Scordilis-Brownlee, M. 100n Scott, J. A. 112n Segre, C. 92n Sem (bib.) 169n, 170n, 241 Semiramide, leggendaria regina degli Assiri 170, 170n, 171n Seriacopi, M. 107n Servasanto da Faenza 117; Liber de virtutibus 117 Shapiro, M. 144n Shoaf, R. A. 118n Sicard, P. 114n, 254n, 255n Sicut dicit Remigius 262, 262n, 263, 263n Silverstein, T. 92n, 93n Silvotti, T. 111n Sirridge, M. 259n Solère, J. L. 244n, 251n, 252n Solignac, A. 223n, 244n Sordello da Goito 74, 138 Spinosa, G. 59n, 60n Stabile, G. 149n, 164n Staubach, N. 243n Stazio, Publio Papinio 72, 184 Steele, R. 262n
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Strabone 275 Straw, C. 99n Stump, E. 36n Suarez-Nani, T. 33n Sullivan, F. A. 211n Sylwan, A. 236n Tabarroni, A. 264n Taddei, T. 118n Taide, leggendaria etera ateniese 89 Tavoni, M. 23n, 25, 25n, 44, 44n, 45n, 46n, 169n, 208n Terenzio, Publio Afro 89; Eunuco 89 Terracini, B. 208n Tertulliano, Quinto Settimo Florenzio 253 Tesoro di Brunetto Latini versificato (Il) 31n Tolomeo, Claudio 102 Thomas de Cantimpré 220, 220n; Vita de Santa Christina 220n Thurston, H. 95n Tommaso d’Aquino 42n, 46, 46n, 49, 49n, 50n, 51n, 57n, 62, 63n, 76, 91, 91n, 121, 121n, 129, 154, 155n, 165n, 168n, 182, 182n, 190, 217n, 218, 219, 219n, 220, 233, 234, 234n, 245, 245n; Summa theologiae 42n, 46n, 50n, 63n, 91n, 121n, 155n, 182, 182n, 234, 234n, 245n; Expositio libri Peryermeneias 49n; Super IV Sententiarum 51n; Sentencia libri De anima 57n; Quaestiones disputatae de malo 155n; Sententia libri Politicorum 165n; Super I epistolam Pauli ad Corinthios 217n, 218n, 219n Tommaso di Chobham 86, 86n; Summa de commendatione 86n Torquati, G. 149n Torri, A. 158n Trabant, J. 165n Triolo, A. A. 116n Truscott, J. G. 112n, 124n
Ugo Capeto, re di Francia 145 Ugo di Flavigny 96; Chronicon 96 Ugo di san Vittore 42, 42n, 59, 60n, 114, 114n, 115, 247, 253-256; De virtute (modo) orandi 253, 254n, 255n, 256n; De unione corporis et spiritus 60n; De institutione novitiorum 114n; De grammatica 260n Ugolino della Gherardesca, personaggio dell’Inferno 18, 124, 152 Uguccione da Pisa, 208, 209, 209n, 233n, 240; Derivationes 209n, 233n Ulisse (mit.) 17n, 55, 71, 71n, 76, 86, 105-126, 129, 132, 152, 176 Vanossi, L. 100n Vecchio, S. 31, 31n, 53n, 84, 84n, 85n, 93, 94n, 104n, 117n, 120n, 126n, 128n, 153n, 171n, 180n, 211n, 212, 212n, 213n Venedico Caccianemico, personaggio dell’Inferno 88, 146 Venturi, G. 160, 161n Villani, Giovanni 169, 169n, 170; Nuova Cronica 169n Vinay, G. 20n, 21n Vincent-Cassy, M. 98, 98n Vincenzo di Beauvais 97, 116; Speculum doctrinale 116 Vincenzo di Beauvais (pseudo-) 116n Virgilio, Marone Publio 17n, 69, 74, 78n, 87, 109n, 113, 125, 129, 129n, 136, 138, 145, 145n, 146, 153, 156, 156n, 160, 173, 173n, 175, 176n, 177, 189, 189n, 202, 261, 261n; Aeneis 109, 109n, 129, 173, 173n, 175, 189, 189n Visio Alberici 96, 96n Visio monachi de Eynsham 95n Visio Pauli 93, 93n, 94n Visio Thurkilli 95, 95n Visio Tungdali 96, 96n
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Indice dei nomi
Vitale, M. 138n Von Moss, P. 128n
Zellinger, J. 255n Zimpel, D. 248n Zink, M. 141n Zumthor, P. 33n, 81, 81n, 137n, 140, 140n Zycha, J. 120n
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Walter, E. L. 149n Waszink, J. H. 48n Wenzel, S. 118, 118n Wight, S. M. 139n
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Indice biblico
Sacra Scrittura 17n, 98, 126n, 158n, 203, 237, 238 Genesi 167, 168n, 182, 213, 233-235, 237, 238, 241 Esodo 212n Numeri 238 Salmi 125, 132, 135, 162n, 183, 187, 188, 193 Proverbi 124 Ecclesiaste 114 Ecclesiastico 98, 111 Geremia, Lamentazioni 157n Matteo 140, 154, 155, 180 Luca 127, 220 Giovanni, Vangelo 155 Atti degli Apostoli 109, 128, 128n, 211, 211n, 215, 217 Prima lettera ai Corinzi 217-220 Giacomo, Epistola 84, 85, 102, 106, 110, 112, 112n, 113, 114, 114n, 116 Apocalisse 204, 266 Gen 2, 19-20 Gen 11, 5-8 Es 19, 18 Nm 22, 28-30 Sal 9, 11 Sal 13, 3
233 163 212n 238 188n 86n
Sal 31, 1 Sal 33, 2 Sal 34, 23 Sal 44, 2 Sal 47, 11 Sal 50, 9 Sal 50, 17 Sal 70, 23 Sal 78, 1 Sal 91, 5 Sal 105, 46 Sal 113, 1 Sal 117, 26 Sal 118, 25 Sal 130, 1-9 Sal 140, 1-5 Sal 150, 5 Prv 6, 12-19 Prv 12, 13-20 Prv 26, 18-19 Qo (Eccle) 3, 7 Ct 4, 8 Sap 1, 1 Sir (Eccli) 5, 15-18 Sir (Eccli) 28, 28 Gio 15, 2 Mt 5, 3 Mt 5, 6 Mt 5, 7
201n 184 184 132n 184 201n 201n 193 201n 201n 193 200n 201n 201n 201n 114 217 124n 125n 120 114 201n 201n 98 111 155n, 156n 200n 201n 201n
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Mt 5, 8 Mt 5, 12 Mt 5, 22 Mt 10, 32 Mt 21, 9 Mt 22, 30 Mt 25, 34 Mc 11, 10 Mc 12, 25 Lc 1, 28 Lc 1, 34 Lc 1, 38 Lc 12, 49 Lc 16, 13 Lc 19, 38 Lc 20, 35 Gv 2, 1-11 Gv 12, 12-13 Gv 16, 16
Indice biblico
201n 201n 155n, 156n 201n 201n 201n 201n 201n 201n 201n 201n 200n 127, 127n 158n 201n 201n 200n 155 201n
At 2 At 2, 1-4 At 2, 1-13 At 2, 11 At 10, 46 Rm 5, 20 1 Cor 2, 11 1 Cor 13, 1 1 Cor 14, 1-40 1 Cor 14, 15 Ef 1, 8 1 Tm 1, 14 Gc 1, 17 Gc 3, 1-8 Gc 5, 7 Ap 1, 8 Ap 21, 6 Ap 22, 13
217 110, 110n 211 215, 220 220 207 50n 185 217 220 207 207 114n 84n 114 205 205 205
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Giacomo Gambale
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The tongue of fire Dante and the philosophy of language
Summary A number of factors contribute to the richness of Dante’s conception of language. They refer not only to the field of philosophy, but also to the disciplines of aesthetics, ethics and theology. This is not a surprising feature taking into consideration that medieval culture looks at reality through the lens of the different artes. In Dante’s work there are mainly two levels of locution: the expressive (or spiritual) level and the moral one. In the Poet’s view the very moment the word enters the communication circuit it is a bearer of the emotional depth of the linguistic agent. If this profundity is in contrast with the Supreme Good, the word itself may become a «destructive operating seed». In the Divina Commedia, where reflection is interwoven with the mechanisms of poetry, the use of metaphors, allegories and a variety of figures of speech, this conception is expressed by a precise polysemic image with a high religious connotation: the tongue of fire. In the same manner as fire, the tongue (which reminds the different facets of the human language), burns, destroys or lights and heats; it becomes the means of the revelation of the spirit and may be the cause of a morally positive or negative action.
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