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la liminalità del rito
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«Caro SalutiS Cardo». Contributi, 28 Collana a cura di G. bonaCCorSo - a.n. terrin - F. troleSe
istituto di liturgia Pastorale abbazia di S. Giustina – Padova Prima edizione digitale 2014
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G. Bonaccorso - Ch. L. Cakpo A. Destro - L. Girardi - G. Laiti - F. Leto G. Mazza - R. Penna - L. Soravito de Franceschi R. Tagliaferri - A.N. Terrin
LA liminalità DEL RITO A cura di Giorgio Bonaccorso
EDIZIONI MESSAGGERO PADOVA ABBAZIA DI SANTA GIUSTINA PADOVA
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Nihil obstat quominus imprimatur In Festivitate Praesentationis Domini Patavii, die II mensis februarii 2014 Ioannes Baptista Franciscus Trolese O.S.B. Abbas Monasterii S. Iustinae de Padua Vice Magnus Cancellarius Instituti ISBN 978-88-250-3733-3 ISBN 978-88-250-3734-0 (PDF) ISBN 978-88-250-3735-7 (EPUB) Copyright © 2014 by P.P.F.M.C. MESSAGGERO DI SANT’ANTONIO – EDITRICE Basilica del Santo - Via Orto Botanico, 11 - 35123 Padova www.edizionimessaggero.it
Copyright © 2014 by PP.BB. ABBAZIA DI S. GIUSTINA Via G. Ferrari, 2/A - 35123 Padova
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Introduzione Giorgio Bonaccorso
I pochi minuti che bastano per descrivere il nucleo dell’annuncio cristiano non bastano per entrare nell’esperienza su cui si fonda quell’annuncio. Non basta soprattutto il percorso lineare con cui spesso si parla di Cristo, della sua vicenda storica, della sua predicazione. L’annuncio e la catechesi sono indubbiamente componenti importanti della fede ma non sono ancora «segno» di ciò in cui si crede se non prendono le mosse dall’impossibilità di dire Dio come si dice il mondo, la storia, l’uomo. E se per dire Dio occorre comunque affidarsi ai linguaggi del mondo, della storia, dell’uomo, questi linguaggi devono essere segnati dalla consapevolezza dei loro limiti, dall’interruzione del loro uso comune, dall’esibizione della loro impotenza semantica. Allo stesso modo i comportamenti e le azioni che in un modo o nell’altro si aprono al mistero divino lo possono fare solo proponendosi come interruzioni delle prassi ordinarie con le quali l’uomo vive quotidianamente. Insomma, se la fede è la fede nel mistero non è esperienza autentica finché non si incontra il limite del discorso come di qualsiasi altra forma espressiva e di qualsiasi azione. La semplice concatenazione degli eventi narrati in un discorso lineare senza interruzioni non annuncia più Dio e se lo annuncia lo traccia come elemento da sommare agli altri, ossia lo nega per quello che è veramente. L’esperienza di fede come l’esperienza religiosa di tanti popoli avverte il rischio di questo processo di normalizzazione, e procede all’elaborazione di percorsi che impediscano di sciogliere il mistero in una omogeneità incapace di percepire la differenza di Dio. Se ora qualcuno si chiede a quali
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percorsi ci si vuole riferire, un tentativo di risposta si trova nelle pagine di questo libro i cui contributi girano intorno al fenomeno religioso e rituale, cristiano e liturgico, della liminalità. In termini puramente orientativi si può osservare che la liminalità può venire indagata a diversi livelli dell’esperienza umana: è anzitutto un modo di vivere e di comprendere la realtà, che implica la dissoluzione del continuum nella consapevolezza che l’esistenza è caratterizzata da processi discrezionali e differenziali; in secondo luogo la liminalità assume le nozioni di confine, di interruzione e di passaggio, in relazione all’esperienza religiosa che in un modo o nell’altro tende a un secondo livello della realtà; ma soprattutto la liminalità è un aspetto costitutivo del rito che, più di qualunque altra azione, istaura una prassi caratterizzata dalla rottura di livello. La congenialità tra esperienza religiosa e azione rituale è evidente proprio grazie alla liminalità. E sono i contesti religiosi e le prassi rituali che vengono affrontati negli interventi presenti in questo libro. Nella prima parte ci si confronta con indagini antropologiche e fenomenologiche che consentano di individuare gli aspetti più generali della liminalità religiosa e rituale. Negli interventi della seconda parte l’attenzione viene rivolta alla tradizione cristiana partendo da alcuni aspetti biblici e procedendo tanto verso un fenomeno particolarmente rilevante come quello dell’iniziazione quanto verso una riflessione teologica più generale. Poiché il principale interesse è rivolto al rito, è quanto mai importante verificare il tema della liminalità relativamente ad alcuni linguaggi della liturgia: gli interventi della terza parte tentano questa strada approfondendo i temi concernenti lo spazio e la musica. La valenza universale della liminalità rituale porta anche a interrogarsi sul ruolo che essa può svolgere nelle relazioni tra il cristianesimo e altre religioni, ossia nell’ambito di quell’aspetto importante della missione ecclesiale che è l’inculturazione. La prima parte del volume, come si è detto, considera la liminalità, intesa anzitutto come soglia e interruzione, alla luce del suo statuto antropologico di tipo religioso e rituale. L’intervento di A.N. Terrin si mantiene entro il vasto orizzonte delle religioni tentando di qualificare la liminalità e la marginalità non come semplici componenti del sacro ma come istitutivi del sacro. La
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religione è lo sconfinamento rispetto a questo mondo e a questa storia. Il limen è la soglia della casa e comunque la divisione tra spazi, ma anche la soglia di una nuova epoca e quindi la divisione tra tempi. In tale divisione si rende possibile, tanto sotto il profilo dello spazio quanto sotto il profilo del tempo, l’esperienza che è alla base delle religioni. Il luogo originario della liminalità come sostanza delle religioni sembra essere il rito, ma la liminalità stessa sembra sconfinare rispetto al rito e riprodursi come marginalità che destruttura sistematicamente e in modo stabile i comportamenti sociali e i modi di pensare. Il rito è una liminalità dinamica dato che all’uscita dal contesto socio-culturale fa seguire il rientro in tale contesto. Le religioni si avvalgono di questa dinamica, ma possono anche elaborare una liminalità stabile, una marginalità senza ritorno, come si può riconoscere in quei gruppi sociali che si istituiscono proprio come gruppi ai margini della vita sociale. Ciò che accomuna tutti questi fenomeni è però la nostalgia dell’eccedenza rispetto al già dato e al già consumato. La liminalità e la marginalità conservano la nostalgia dell’eccedenza e con ciò stesso configurano la possibilità dell’esperienza religiosa. Indubbiamente, le religioni possono istituzionalizzarsi al punto da esautorare la differenza rispetto alle strutture sociali e ideologiche, possono cioè tendere a eliminare la liminalità e la marginalità, ma così facendo si avviano verso l’autoeliminazione. Lo stretto legame tra liminalità e religione non deve trascurare che il luogo principale di entrambe è il rito. Per questo motivo è opportuno l’intervento di R. Tagliaferri che si muove tra la natura rituale della liminalità e la natura liminale del rito. I riti religiosi non pretendono necessariamente che chi vi partecipa diventi stabilmente marginale ma che faccia un’esperienza significativa del sacro. A ben vedere, infatti, gli innumerevoli dispositivi con i quali durante i riti si gestiscono i linguaggi e le azioni, sollevandoli dal loro uso ordinario per scuotere la sensibilità, consentono agli esseri umani di accedere al sacro in modo esperienziale. Vi possono essere anche altre forme di interruzione della quotidianità, com’è facilmente riscontrabile in tanti tipi di svago che riducono il liminale al liminoide. Esse però non conservano la stessa forza dei riti religiosi, ossia non
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sono in grado di realizzare una performance che attraverso i dispositivi liminali sia in grado di orientare la vita e comunque di inserire nel sacro. Nei riti vi è infatti un delicato equilibrio, difficilmente riproducibile altrove, tra il disordine che devono produrre per fare accedere a un altro livello della realtà, ossia al sacro, e l’ordine a cui tale processo di disordine viene ricondotto per consentire una condivisione di esperienze ripetibili nel tempo. Rivolgendosi alla tradizione cristiana resta da chiedersi se questo delicato equilibrio che caratterizza la liminalità rituale sia stato mantenuto. La risposta porta inevitabilmente a riconoscere una certa ambiguità: per un verso la prassi ecclesiale (come nel caso della festività domenicale, dell’iniziazione cristiana, dei percorsi penitenziali) è ricca di testimonianze significative della liminalità rituale, ma per altri gli interventi magisteriali insistono su una prospettiva dottrinaria e morale poco incline ai temi tipicamente liminali dell’interruzione e della trasgressione. Le questioni sollevate sulla liminalità (a volte mancata) delle religioni e dei riti, del cristianesimo e della liturgia, assumono una particolare rilevanza anche in ordine ai criteri di aggregazione sociale e alla loro connessione con i criteri di riconoscimento del sacro. A. Destro punta l’attenzione su questi problemi osservando come il legame tra il sacro e il sociale è un’acquisizione classica delle ricerche antropologiche e implica, in primo luogo, la questione dell’aggregazione, ossia del modo con cui una comunità opera unitariamente e si autoidentifica. Sembra difficilmente contestabile che un’aggregazione comunitaria implichi un qualche processo di differenziazione tra ciò che è più comune e ciò che per il suo alto valore consente di realizzare l’unità e l’identità del gruppo. La differenza tra sacro e profano muove anche da questa esigenza sociale. Il modo, poi, con cui si opera la differenziazione e sacralizzazione di oggetti, spazi, persone, riporta ai dispositivi rituali della liminalità che «hanno un’altissima incidenza sulla capacità interpretativa ed emozionale dell’individuo». Ancora una volta è inevitabile il confronto tra la marginalità, che è sostanzialmente la negazione di ciò che è più appetibile in un contesto sociale ordinario, e la liminalità che è un processo di trasformazione per conseguire una condizione più perfetta. Gesù è stato indubbiamente una persona che ha
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vissuto una condizione di marginalità, ma allo stesso tempo ha introdotto i discepoli in percorsi rituali di tipo liminale. La seconda parte del volume concentra l’attenzione sulla tradizione cristiana, dai fondamenti biblici ai suoi sviluppi storici. La chiesa delle origini, afferma R. Penna, è caratterizzata dalla liminalità dato che l’accettazione del messaggio di Gesù la mette inevitabilmente ai margini delle istituzioni politiche e religiose con le quali viene in contatto. Per le chiese paoline si può parlare di liminalità sia rispetto alla sinagoga sia rispetto al paganesimo, come emerge anche dal fatto che l’ambiente tipico del loro riunirsi è la casa e non il luogo cultuale ufficiale. Inoltre, lo svolgimento delle riunioni dei cristiani assomiglia più a quello dei gruppi filosofici che a quello dei gruppi religiosi. Sembra, cioè, potersi affermare che la comunità cristiana antica sia caratterizzata, come tutte le comunità religiose, dalla liminalità, ma che tale liminalità consista nel differenziarsi dalle comunità religiose ed essere più prossima ai gruppi filosofici. Nelle riunioni dei cristiani sono riconoscibili componenti tipicamente cultuali e rituali concentrati intorno al pasto e alla parola, ma la liminalità è riconoscibile soprattutto nello stile di vita improntato alla fede in Cristo e marcatamente differenziato rispetto ai comportamenti degli altri gruppi umani. Rimarrebbe da chiedersi se in ciò non sia da scorgere una forma di marginalità piuttosto che una vera e propria liminalità, dato che la chiesa primitiva avrebbe abbracciato uno stato di vita duraturo decisamente diverso da quello della società in cui viveva. L’osservazione che a questo punto è opportuno fare è che se la liminalità della chiesa primitiva sembra improntata soprattutto a una marginalità nello stile di vita, il fenomeno dell’iniziazione cristiana riporta l’attenzione sulla liminalità rituale. Come osserva G. Laiti, il cammino proposto a chi vuole entrare nella chiesa è caratterizzato da quella condizione provvisoria e di soglia che è tipica dei riti religiosi. Se l’intento dell’iniziazione cristiana è quello di favorire la conversione a Cristo e alle esigenze che scaturiscono dalla fede in lui, il modo adottato per realizzare tale intento è un insieme di passaggi che implica l’interruzione rispetto alla semplice vita quotidiana: «il divenire cristiani espone a una “soglia di rottura” evidenziata dalla
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distanza tra il “prima” e il “poi”». L’esito di tale cammino è l’illuminazione che consente di accedere alla verità e di realizzare un corretto comportamento morale. La vita della chiesa però, anche quando è illuminata e corretta, rimane provvisoria rispetto al regno di Dio: di conseguenza si deve riconoscere un altro livello di liminalità, e precisamente quello escatologico. La prassi ecclesiale in questo mondo conserva la figura della soglia sia perché interrompe uno stile di vita precristiano sia perché vive nella consapevolezza dello scarto rispetto al regno. La questione che rimane aperta è la proponibilità dell’iniziazione cristiana nell’attuale contesto storico-culturale. L. Soravito, affrontando tale questione, delinea anzitutto alcune caratteristiche dell’iniziazione e successivamente espone i motivi di inquietudine derivanti dalla scarsa incidenza dei processi formativi che dovrebbero iniziare le persone alla fede. Indubbiamente la cultura contemporanea presenta delle resistenze all’iniziazione ma più spesso è la prassi ecclesiale che risulta troppo ripiegata su atteggiamenti difensivi e incapace di proporre percorsi significativi. L’iniziazione cristiana può non raggiungere i suoi intenti perché si riduce a una catechesi che non coinvolge gli esseri umani in modo personale e comunitario. Sarebbe auspicabile invece un cammino più attento ai dispositivi rituali e quindi un’iniziazione che riscopra nella liturgia un supporto fondamentale. All’interno di tale auspicio emerge anche il valore della liminalità intesa come «esperienza in cui i rapporti spazio/temporali e interpersonali sono vissuti in maniera “altra”, fuori delle regole usuali». Le acquisizioni biblico-patristiche e le problematiche pastorali costituiscono dei solidi fondamenti e delle evidenti urgenze per ripensare la liminalità in un discorso più globalmente teologico. Ci si può infatti chiedere quale contributo possa fornire il tema della liminalità all’elaborazione della teologia fondamentale e sistematica. Affrontando la questione, G. Mazza sottolinea anzitutto la rilevanza che stanno assumendo o comunque possono assumere gli studi sul rito nell’ambito della ricerca teo logica. All’interno di questo atteggiamento meno refrattario al rito rispetto agli studi teologici del passato, un posto centrale assume il tema della liminalità per la sua congenialità con lo
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statuto stesso della fede. La dimensione antistrutturale della liminalità rituale, infatti, implica quella violazione dell’ordinario che è alla base di una fede fondata sull’eccedenza di Dio rispetto al mondo e all’uomo. Se il rito, grazie alla sua dinamica liminale, dice che la realtà profonda del sacro è indisponibile a ogni tentativo di possesso da parte dell’uomo, la fede cristiana implica ugualmente uno statuto di liminalità perché si configura come apertura a ciò che rimane fondamentalmente indisponibile a ogni pretesa umana di possesso e di piena comprensione. Sotto questo profilo il rito mantiene la fede nella consapevolezza della sua natura più profonda. Rimarrebbe da approfondire la relazione tra la presenza-assenza di Dio, ossia il suo essere prossimo all’uomo (presenza) come mistero di cui l’uomo non può disporre (assenza), e il coinvolgimento-sospensione del rito, ossia il suo ricorrere alla dimensione sensibile dell’uomo per portare l’uomo a superare il mondo della sensibilità. Con la terza parte del volume ci si impegna a indagare la liminalità nei linguaggi che entrano nella sfera religiosa e rituale, cristiana e liturgica. Si tratta per lo più di linguaggi artistici dato che la stessa nozione di arte implica una qualche forma di liminalità ossia di interruzione, sorpresa, scuotimento. Poiché il limen si riferisce anzitutto allo spazio è quanto mai opportuno confrontarsi anzitutto con i luoghi sacri della tradizione cristiana, con le forme artistiche che li caratterizzano e che li dispongono a diventare espressioni del mistero che in essi vi si celebra. F. Leto si impegna in questa ricerca mostrando le strutture architettoniche che declinano la liminalità rituale. Dopo la presentazione di alcune questioni generali viene proposto un lemmario nel quale sono esposti luoghi e movimenti tipici della liminalità, riconducibili all’interruzione e alla soglia, allo sconcerto e all’orientamento, alla frattura e all’appartenenza. L’esame di luoghi concreti dell’architettura legati alla liturgia è quanto mai prezioso dato che consente di verificare se la liminalità sia non solo una teoria sulla realtà ma anche e soprattutto un’esperienza reale aperta alla trascendenza. La scommessa principale però è se l’architettura sia effettivamente un linguaggio del rito religioso e cristiano, ossia se consenta un’esperienza aperta alla trascendenza proprio in quanto linguaggio del rito.
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Dall’insieme dell’intervento emerge la convinzione che lo spazio visibile e percorribile in diverse chiese, cappelle e battisteri, sia non solo un’occasione del rito ma un linguaggio così profondamente legato alla liminalità da contribuire a istituire il rito. Ovviamente tutto questo gioca con le immagini che i luoghi esaminati non solo contengono ma realizzano in una plasticità recepibile immediatamente. Si è così già nel sacro prima di dirlo, si è già nel mistero cristiano prima di predicarlo. L’interrogativo inespresso ma sempre sotteso è se la liminalità dipenda dalle qualità intrinseche dell’arte architettonica o dal suo inserimento nel contesto rituale. Probabilmente la risposta è che la costruzione artistica di uno spazio, proprio per la sua qualità esteticamente liminale, consente di riconoscere in essa una componente quanto mai congeniale per la liminalità esplicitamente religiosa del rito. Ciò sembra quanto mai vero nella relazione tra musica e liturgia, che, come osserva L. Girardi, apre un capitolo quanto mai complesso e dibattuto. La musica produce esperienze profonde che, incidendo sul modo di percepire il tempo, lo spazio e il corpo, segnano una soglia e un passaggio a ciò che è oltre il quotidiano e l’ordinario. Nel rapporto con la liturgia, però, emerge anzitutto l’esigenza che queste potenzialità della musica si coniughino con gli altri linguaggi e le altri arti del rito. La possibilità di distinguere tra musica profana e musica sacra, infatti, non può basarsi su percorsi sonori chiaramente identificabili con una delle due, ma deve affidarsi alla capacità del rito stesso di trasformare la musica in direzione del sacro. Si tratta quindi non tanto di individuare una musica sacra quanto di riconoscere una musica rituale, ossia una musica che possa condividere l’apertura rituale al sacro. Sotto questa prospettiva anche l’improvvisazione musicale, se coerente con il programma della celebrazione liturgica, può realizzare nell’ascoltatore l’esperienza di una soglia, di un salto, di un’interruzione rispetto al previsto. Le molteplici prospettive con le quali si è affrontato il tema della liminalità del rito possono trovare un punto di verifica in ricerche specifiche rivolte a una determinata cultura. Il contributo di Ch.L. Cakpo (che coincide con un capitolo della sua tesi di licenza) consiste proprio nell’aver approfondito la dimensio-
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ne liminale dell’iniziazione attraverso il confronto tra la cultura africana e la tradizione cristiana. Torna così il tema già affrontato dell’iniziazione ma sotto la prospettiva dell’inculturazione. Il ruolo della liminalità è decisivo perché consente di realizzare un cammino di conversione al cristianesimo senza disattendere la cultura della società africana. Proprio l’attenzione a tale cultura consente ai membri della società di vivere concretamente i processi rituali di liminalità e quindi di realizzare veramente la conversione. Il circolo appena descritto nasce dal fatto che la liminalità funziona solo se si rimane aderenti alla concretezza della società che l’adotta. D’altra parte se una società adotta la liminalità rituale, e quindi si predispone all’interruzione della vita ordinaria per aprirsi ad altri livelli dell’esperienza, può, sempre attraverso tale dinamica, predisporre i suoi membri ad aprirsi all’esperienza della fede cristiana. La tesi avvalorata dai diversi interventi è che l’accesso a ciò che, in un modo o nell’altro, trascende l’essere umano, non potendo prescindere dall’uomo e dalla sua vita, si configura come «modalità liminale» di organizzare la vita umana. La soglia e l’interruzione, l’abbandono e il passaggio, sono aperture a ciò che è «al di là» della vita quotidiana costruite con lo stesso materiale della vita quotidiana. Se l’alterità intrinseca alla sfera religiosa e cristiana non rimane un concetto astratto a partire dal quale si pretende di rifiutare questo mondo, ma viene inscritta in percorsi concreti nei quali si gestisce in modo liminale questo mondo, si può e si deve affermare che tutte le forme di contrapposizione si muovono all’interno di un programma simbolico che tiene insieme gli opposti. Ciò, almeno, sembra difficilmente contestabile nel rito che non dice mai nulla dell’altro mondo senza passare per il materiale che costituisce questo mondo. La liminalità rituale è proprio il modo di gestire questo mondo per dire l’altro mondo, con la conseguenza che uno non può sussistere senza l’altro. La liminalità rituale è contrapposizione e composizione, rottura e intreccio, desiderio e nostalgia.
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Prima parte _______________________________________________________________
LA LIMINALITÀ COME ORIGINE DEL SACRO E FORMA DEL RITO _______________________________________________________________ A.N. Terrin R. Tagliaferri A. Destro
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IL VALORE DELLA LIMINALITÀ NEL CONTESTO DI UNA PROSPETTIVA RITUALE PLURISEMANTICA Aldo Natale Terrin
I - Il «limen»: la radice stessa della nostra esperienza religiosa?
1. Introduzione: il «limen» come «peak experience» e punto d’incontro di esperienze religiose e simboliche Il tema così come viene enunciato nel titolo per sé dovrebbe comportare un progetto ampio di ciò che significa «liminale», comprendendo eventualmente una «descrizione» di alcuni fenomeni di segno liminale a livello di storia comparata delle religioni e poi una teorizzazione del significato che racchiude in sé e per sé la liminalità. Si tratta di un compito già impegnativo e importante. Tuttavia, riflettendo più in profondità, ci si rende conto che questo compito è ancora ristretto per l’ampio spettro semantico a tutto campo che va attribuito al termine «liminale». Il liminale infatti include molta parte del senso religioso stesso, include molti processi di «sublimazione religiosa», implica in nuce l’«istinto ascetico» dell’uomo religioso, e di più, realizza – almeno in parte – la verità stessa di ciò che chiamiamo il «mistico». Dunque si allarga facilmente a vari fenomeni religiosi fino a coprire in parte la gamma stessa del religioso, nella misura in cui questo viene definito come «altro» dal sociale. Perciò, considerando l’ampia portata del significato della li-
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minalità, dovrò anzitutto fare una specie di inventario dei caratteri propri di ciò che è liminale attraverso la storia delle religioni, ma avrò nello stesso tempo anche la necessità di sottolineare a livello religioso specifico l’appartenenza di tale concetto a uno dei temi più «creativi» e «specifici» delle religioni e del senso religioso. Non si tratta dunque di aver a che fare con un elemento tra i tanti della storia delle religioni, che possono essere ricercati quasi a capriccio nell’ampio mondo delle religioni. Si tratta di avere a che fare con un concetto di estremo valore per tutto l’impianto religioso delle religioni. Su questo sfondo vorrei articolare allora sia un’iniziale presa in considerazione dei criteri di riconoscimento di ciò che chiamiamo «liminale», sia mettere in luce via via l’ampio spettro delle prospettive semantiche con cui abbiamo a che fare. Per venirne a capo in qualche modo non c’è dubbio che occorre partire da un’idea che per sé è legata soltanto allo spazio: il limen è la soglia di una casa, è la divisione tra spazi1, ciò che sta al confine: è la realtà che sta «di mezzo» tra un territorio e un altro, contribuendo già così a costruire un primo pacchetto di significati. Ora proprio a partire da questo «tra un luogo e un altro» si arriva a tesi religiose che sono essenziali per il significato stesso che attribuiamo alla religione. Ciò che emerge con forza dal limen e dalla liminalità sono i significati che definiscono l’essenza di un’esperienza che sta sia «ai bordi», sia come ciò che sta «di mezzo» e poi anche «oltre» il mondo fisico, attraverso una serie di «oltrepassamenti», che non sono più soltanto di carattere spaziale, ma poi si convertono in significati metaforici che non è improprio chiamare «trascendentali». Infatti – come vedremo – la liminalità si congiunge semanticamente alla «marginalità», la marginalità è a un passo dal «dualismo» e il dualismo si arricchisce di un discorso simbolico e metaforico, che alla fine risulta come il fondamento della stessa possibilità di parlare di un «altro mondo». 1 Cf. V. Turner, Liminality, Kabbalah and the Media, «Religion» 15 (1985), 205-217, qui 215.
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liminalità in prospettiva rituale plurisemantica
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Enunciata così la grande tesi che si presenta come un cluster concept (un pacchetto di concetti) possiamo tentare di articolare lentamente il nostro discorso. Dunque la «spazialità» come ciò che sta «di mezzo» diventa un concetto che fa da apripista e da finestra all’alterità in modo tale che – una volta aperta la finestra sull’alterità – si crea la premessa perché il linguaggio possa dire ciò che altrimenti non sarebbe in grado di esprimere. La liminalità, alla fine, introduce questo «secondo linguaggio» metaforico che è essenziale per il fatto religioso.
2. «Tras-gressione», alienazione, marginalità ed esperienza di morte
È, dunque, questo insieme di connotazioni a sfondo epistemologico e fondativo che va approfondito oltre il discorso storico religioso, poiché il significato di liminalità traduce – come vedremo via via – il senso stesso dell’esperienza religiosa, anzi ne è la radice ultima e in qualche modo la conditio sine qua non dell’esperienza religiosa stessa e della sua esplicitazione linguistico-simbolica. Sotto questo aspetto sarà mio compito dimostrare come la liminalità è l’elemento di spicco e l’elemento distintivo di ogni vera religione. È infatti la liminalità che crea il religioso in quanto momento «dialettico» tra il «luogo» e l’altro luogo, o meglio come il «non luogo» come l’«altrove» e poi, in una prima metaforica, tra il «sociale» e ciò che sta «fuori dal sociale», come elemento di «rottura» di una situazione, come «esperienza di superamento» rispetto a situazioni date, a esperienze consolidate socialmente, a forme di esistenza comprovate. Una caratteristica infatti del discorso religioso sta nella costruzione di idee di realtà che sono «fuori» dall’evidenza immediata. E dunque la liminalità dà spazio a questo mondo «oltre il mondo» immediato, portando fisicamente al limen, al margine – direi, se mi è consentito –, a un «passo dall’impossibile», come ciò che è «altro» dal mondo e non fa più parte del mondo.
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Questo oltrepassamento e questa «trasgressione» del mondo fanno parte di idee che sono condivise dai credenti, ma sono idee che non sono per sé verificabili. La loro forza e la loro stessa origine sembra che provengano proprio dal mondo «liminale»: dalla capacità quasi fisica di uscire dal mondo in cui viviamo. In chiave più sociologica, accentuando le metafore coinvolte, il limen come luogo indica anche la «periferia», il «margine», ciò che sta «fuori dal centro» e che si può configurare come «trasgressione», «sporgenza», «deviazione», «rottura», «deriva»: è il senso stesso della «perdita» del luogo. E qui allora i significati topografici si intersecano con quelli sociali e socioreligiosi in modo totale. Il liminale, in un senso alquanto più figurato, diventa la «crisi del sociale», comporta la «crisi della storia», l’«isolamento», la «perdita dell’identità» socio-culturale: è un atto di «estraneazione» e di «morte» rispetto a ciò che è socialmente rispettato, a ciò che è condiviso e approvato pubblicamente. È il confine stretto esistente tra la vita e la morte. È in qualche modo un «salto nel buio» che non gratifica, ma al contrario «emargina» e «mortifica»: è una forma nuova, pericolosa, «asociale» di esistenza. In un secondo momento, l’esperienza che qualifica il «marginale» potrebbe stare nel «non riconoscersi più nel quotidiano» in cui gli altri si riconoscono, poi porta a forme più «dissociative» di significato, porta in qualche modo a «perdere l’orizzonte», così come potrebbe indicare la «morte nella vita», potrebbe comportare il vivere una forma di «smarrimento», di «derelizione», di «abbandono» totale. Su questo sfondo, si può alla fine affermare che il «folle» – come vedremo da alcuni tratti della storia delle religioni – è la figura più vicina al liminale nel mondo delle religioni. La liminalità, come la marginalità, si può dire perciò sia qualcosa di molto simile alla «pazzia» in cui si diventa esseri «asociali» a tutti i livelli, in quanto si esce fisicamente e moralmente dal mondo, così come ci si esclude dal sociale. Sarà quello che cercherò di vedere attentamente nel seguito di queste mie considerazioni.
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* * * Oggi – purtroppo – le grandi religioni sono abbastanza o forse troppo «integrate» nel tessuto sociale, e dunque è difficile riconoscere l’importanza della liminalità al loro interno, ma un tempo non era così. Esse sono nate come «sètte» e in quanto tali erano relegate ai margini del sociale. D’altra parte, ancora oggi la loro essenza non appare consistere e istituirsi nel momento di «integrazione» e di «collaborazione» con il sociale, ma piuttosto nel momento di dissenso e di contestazione, anche se francamente non si tratta più di repulsione e di esclusione dal sociale. Da questo punto di vista, per noi nel presente è difficile pensare alla liminalità e alla marginalità della religione, perché si dà il caso che la religione è troppo solidale con gli aspetti sociali comuni del vivere. Ma un tempo era del tutto normale pensare al mondo religioso come essenzialmente «estraneo» se non «ostile» al sociale. Forse le religioni hanno perso la loro forza religiosa perché si sono troppo integrate con le culture e hanno dimenticato la loro istanza «liminale» che è poi, per altri versi, l’istanza apocalittica stessa che le rende inconciliabili con il mondo. Questo legame con l’apocalittica è un tema e un problema che ci porterebbe lontano e che purtroppo non possiamo qui trattare per l’economia di questo lavoro2. Dunque quello che ho da dimostrare sta tutto nella esplicitazione della ricchezza dello stesso significato di liminalità/ marginalità, tenendo conto che questa istanza oggi è debole, è in pericolo, subisce forme di appiattimento e di smarrimento per una visione religiosa troppo «accomodante» che a volte riesce a mortificare totalmente il senso religioso stesso.
2 Si veda emblematicamente: A.N. Terrin, Echi millenaristici in epoca moderna. Studio fenomenologico con riferimenti conclusivi al rituale, in Apocalittica e liturgia del compimento, a cura di A.N. Terrin, EMP - Abbazia di Santa Giustina, Padova 2000, 242-280.
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3. Significato del termine
in ambito antropologico-rituale
Abbiamo bisogno di incominciare con qualche riferimento storico. Come si sa, il termine «liminalità» è connesso nel suo emergere storico con il nome di van Gennep, studioso dei «riti di passaggio»3, che furono chiamati dall’autore anche «riti liminali». Dunque, il termine nasce e prende significato storicamente a partire da queste forme rituali primitive e in particolare ha trovato la sua collocazione più propria parlando dei «riti di iniziazione» dove l’autore ha scoperto che la «fase intermedia» che vive l’iniziando, è un vero limen poiché egli si separa dal gruppo e vive in una situazione intermedia in cui non si riconosce più nel sociale. In tal senso, il suo status può essere considerato una forma di «morte sociale». Perciò il liminale è colui che vive spazialmente e socialmente outside, o meglio in between, nel rito: l’iniziando in modo particolare vive «di mezzo» a due situazioni e ancora non ha optato e non ha risolto la sua «crisi». Si colloca spazialmente nell’intercapedine tra uno spazio e un altro spazio, tra un polo e un altro polo, e dunque vive in una particolare situazione di libertà e di anomia, fuori dalle regole sociali. Lo studio di A. van Gennep, che riguardava l’iniziazione e aveva scoperto come tale il rito in quanto costitutivo di un tipo di morte sociale, è stato successivamente valorizzato prima da Max Gluckman (1962) a partire dai cosiddetti «riti di afflizione»4 e poi soprattutto dall’antropologo V. Turner, in cui si trova per la prima volta una chiara distinzione nelle sequenze cerimoniali dei riti e una chiara visione delle tappe di ogni rito: — rito di «separazione»; — communitas (è il «di mezzo»); — rito di «riaggregazione»5. 3 Cf. A. van Gennep, I riti di passaggio, Boringhieri, Torino 1981 (prima ed. 1909). 4 Cf. M. Gluckman, Essays on the Ritual of Social Relations, Manchester University Press, Manchester 1962. 5 Cf. V. Turner, Schism and Continuity in an African Society, Manchester University Press, Manchester 1957. Cf. anche Id., The Ritual Process: Structure
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L’accentuazione particolare in questa sequenza viene posta proprio sul momento «liminale» e cioè sulla «marginalità» presente in ogni rito, cui fa da pendant nella storia delle religioni – in una considerazione allargata dello status rituale liminale – uno status particolare che prende il nome di status di «marginalità». Quello che è importante notare è dunque il fatto che il rito di iniziazione, con la sua liminalità specifica e limitata e di natura strettamente rituale, può essere allargato poi in altre situazioni e il «liminale» di un momento rituale può divenire il marginale di una vita intera: può divenire uno status permanente. E come in ogni rito vi è dunque un momento in cui l’iniziando viene «posto fuori» dalla società e trattato in modo diverso, come se non appartenesse più al gruppo sociale di origine, e di fatto viene «spogliato» di tutto ciò che la società gli offriva in precedenza e posto così in uno stato liminale in attesa di un suo reinserimento nella società tramite una serie di pratiche rituali, così nello «status marginale» permanente – preso in considerazione dalla storia delle religioni – l’iniziando si consolida nella «estraneità al mondo» legittimando anche uno stato marginale permanente come continuazione del liminale rituale.
4. Caratteristiche della communitas come status È importante sottolineare anzitutto quali sono i caratteri propri di uno status rituale di marginalità o liminalità. La caratterizzazione migliore è sempre quella descritta dallo stesso Turner. Le persone che si trovano nello status liminale, poiché non si trovano né da una parte né dall’altra (in between) sono contrassegnate da «ambiguità» e da «indeterminatezza», sono come dire «tabuizzate» mentre la loro posizione socio-religiosa viene indicata da simboli quali la morte, l’utero materno, l’oscurità, la bisessualità, il deserto, l’eclissi solare o lunare6. and Anti-Structure, Ithaca, Cornelly University Press, New York 1969 (trad. it. Il processo rituale. Struttura e anti-struttura, Morcelliana, Brescia 2001). 6 Cf. Turner, Il processo rituale, cap. III.
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Altre caratteristiche di questo stato marginale attuale sono date dall’uguaglianza riconosciuta tra i membri, dalla «nudità» o dalla «uniformità del vestiario», dal fare esperienza di una particolare potenza di cui ci si sente pervasi e che non ha nulla a che vedere con una forza o una potenza umana. Ancora va sottolineato il fatto che i membri costituiscono un particolare gruppo sociale chiamato la communitas in cui il rapporto tra i soggetti del rituale diventa di tipo «immediato», «spontaneo», diretto e si basa sulla forma «io-tu» e «io-noi». Proprio la communitas crea in particolare il contesto nuovo e diverso non soltanto perché è in grado di amalgamare i membri tra loro, in quanto è capace di creare una situazione del tutto nuova, quasi in contrapposizione alla relativa società di appartenenza attraverso uno stato di libertà spirituale, ma anche perché è in grado di sviluppare valori nuovi e ideali sopiti nell’ambito del sociale. La communitas, che si fa portatrice dello stato liminale, è un gruppo che vive una fase di fervore e di effervescenza religiosa a tutti i livelli. Tutti si sentono uniti tra di loro, condividono tutto nell’ambito della più profonda fraternità; è un gruppo che si può definire «anomico», che non ha leggi se non quella della carità, non possiede niente se non l’amore, non è interessato a nulla se non a vivere intensamente un’esperienza di pienezza simbolica e religiosa. È infatti una comunità che sconfessa tutti gli ideali propri della cultura in quanto tale7. Naturalmente anche il concetto di «liminalità» dei riti iniziatici è stato discusso e considerato anche a livello critico. Per un punto di vista di discussione in rapporto alle culture moderne e alle società complesse si veda ad esempio: G. Herlyn, Ritual und Übergangsritual in komplexen Gesellschaften. Sinn- und Bedeutungszuschreibungen zu Begriff und Theorie, LIT Verlag, Muenster-Hamburg-London 2002. Per una critica invece della liminalità che coinvolge van Gennep, V. Turner, Max Gluckman ma che non ritengo capace di scalfire il senso profondo di questa categoria rituale-religiosa, cf. B. Lincoln, Emerging from the Chrysalis. Rituals of Women’s Initiation, Oxford University Press, New York 1991, 1-3, 100-101. Anche l’antropologo Crapanzano critica Turner e ritiene che la teoria legata a van Gennep, Gluckman e V. Turner basata sui tre stadi non rifletta sufficientemente la realtà del rito, ma rifletta molto di più la particolare cultura dell’antropologo. Cf. V. Crapanzano, Rite and Return: Circumcision in Morocco, in W. Muensterberger - L.B. Boyer (a cura), The Psychoanalytik Study of Society, vol. 9 (1981), 15-36. 7
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4.1. La spontaneità e la solidarietà La communitas è l’instaurarsi di un gruppo nuovo «antistrutturale» rispetto alla società. Ma qual è più propriamente il suo statuto? Occorre osservare che secondo Turner l’elemento più importante della communitas è proprio il suo essere una realtà «non strutturata», che nasce in qualche modo in contrapposizione a quella ordinaria, strutturata e istituzionale. Nel nuovo status prevale la spontaneità del rapporto e la solidarietà tra i membri. Citando M. Buber, Turner afferma che la communitas non significa essere uno accanto all’altro, fianco a fianco, non significa il sotto e sopra di una moltitudine di persone, ma piuttosto l’essere «l’uno con l’altro». Questa moltitudine nuova, pur muovendosi verso un obiettivo, sperimenta soprattutto un «muoversi verso», un «stare di fronte» agli altri, un «fluire dell’io verso il tu». «La comunità è là dove si fa evento la comunità»8, dove prevale – per dirlo ancora con le parole di M. Buber – das Zwischenmenschliche, cioè i rapporti umani sinceri. Mentre per la mancanza di regole e la totale libertà che comporta, ha di fatto una funzione di «destrutturazione», per cui si può parlare di un «vuoto al centro». In questa situazione il dovere non è più sentito come un’obbligo e la volontà individuale tende a coincidere con l’esigenza di tutti in modo tale che viene tolto il momento, del resto sempre penoso, costituito di solito dalle imposizione esterne. In una parola, si vive un momento utopico e ideale in cui la mia libertà spirituale coincide con la libertà spirituale degli altri. La formazione della communitas comporta perciò un’oblatività totale in cui, prevalendo il «noi» si tende a mettere insieme i beni materiali, il modo di vestire, di sentire, di vivere. L’espressione più alta di questo nuovo modo di vivere si manifesta nel tentativo di mettere insieme anche le esperienze personali e le questioni di coscienza dei singoli. Vi è una condivisione totale e sincera. 8
Cf. Turner, Il processo rituale, 87.
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In maniera appropriata il sociologo italiano Alberoni ha paragonato questa communitas statu nascenti alla fase di «innamoramento» per la spontaneità dei rapporti, ma soprattutto per la fusione che si opera sul piano dei valori. Egli scrive: «L’amore in quanto sintesi della vita stessa vuole appunto il tutto che è costituito dal valore. Si può rinunciare alla vita ma non a quel tutto, cioè alla sintesi, perché non si può rinunciare al valore»9. 4.2. Allontanamento e distacco dalla società e dai suoi valori Come indica la parola stessa «margine», coloro che vivono nella marginalità/liminalità – le parole a volte coincidono nei significati – rifiutano la società e la cultura a cui per altro verso appartengono. «Il neofita – scrive V. Turner – deve essere una tabula rasa in cui viene iscritta la conoscenza e la sapienza del gruppo». Gli adepti rifiutano in definitiva quel mondo simbolico ideale che entro la società serve a mantenere l’equilibrio esistenziale di fondo in relazione all’ordinamento sociale e alle sue regole. Si sa, del resto, che una delle più gravi crisi della persona che vive in società viene provocata dallo smarrimento di alcuni punti di riferimento che risultano fondamentali per la vita normale. Il «perdere l’orientamento» inteso metaforicamente comporta una crisi «psicologica», «logica» e «metafisica» a cui difficilmente si può sopravvivere. Ora, il rifiuto della cultura – come viene realizzato dal liminale – comporta qualcosa di simile a una perdita grave del proprio orientamento nel mondo. A questo rifiuto si aggiunge naturalmente anche il rifiuto di un certo tipo di religione, connesso appunto con quel tipo di cultura che le è connaturale. Se si ha presente la tesi di Berger-Luckmann in La realtà come costruzione sociale10, si riconoscerà che gli autori vedono l’universo simbolico che è poi il mondo sociale «implicitamente religioso» strettamente connessi tra loro al punto Cf. F. Alberoni, Statu nascenti, Il Mulino, Bologna 1968, 201. Cf. P. Berger - T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna 1997 (prima ed. 1966). 9
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che religioso e sociale convergono nel costituire il momento supremo di coesione della società. C’è una reciproca interazione tra religione e cultura; c’è anche un reciproco sostegno nel far percepire l’ordine delle cose e far riconoscere l’universo simbolico di fondo. Però, tanto è naturale la connessione tra sociale e religioso e tanto prepotentemente avviene la catastrofé quando quella connessione viene scissa: un abbandono del sociale comporta ipso facto anche un abbandono della «realtà sociale» per intero, dunque anche l’abbandono di un certo tipo di religione, quella che può essere chiamata la «religione della società». In questo rifiuto di accettare il sociale, a cui fa capo anche un certo universo simbolico come referente comunemente inteso, si può parlare di «devianza dalla realtà», in quanto non si può più accettare quella realtà sociale (e religiosa) che viene condivisa dalla maggior parte della popolazione. Sintomi di questo «concetto deviante di realtà» potrebbero essere, ad esempio, la rinuncia ai consumi proposti dalla società o il rifiuto per il rispetto delle norme sociali. Un atteggiamento fondamentale di rifiuto della società può essere colto là dove non si accettano le forme classiche di consenso o in genere dove le regole sociali vengono ridicolizzate e considerate di nessun valore11. Si parla allora chiaramente di un trovarsi a proprio agio più nell’«anti-struttura» che nella struttura. Questa condizione si manifesta con particolare forza nei riti di iniziazione. Gli iniziati in questo stato vengono trattati come se non fossero né vivi né morti. E come fossero sia vivi che morti. Spesso i ragazzi che vengono iniziati vengono considerati come «corpi tabù» o corpi allo stato fetale. Sono dei morti viventi. Essi non possono più disporre neppure del proprio nome. Non hanno un loro status, non possiedono proprietà, neppure vestiti comuni, non c’è ruolo né hanno compiti determinati da realizzare. Tali erano ad esempio le sètte religiose nel mondo della polis greca. Gli scettici, gli orfici e i pitagorici erano gruppi chiusi e marginali che non accettavano affatto il modo di vivere, di cibarsi e di vestire dei loro concittadini dai quali si allontanavano per le loro idee. Cf. M. Detienne, Dioniso e la pantera profumata, Laterza, Bari 2007. 11
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Secondo il primo Turner, che si appoggiava alle analisi di Gluckman nel contesto della scuola di Manchester, sembra che questo stadio così anomalo servisse in maniera eminente a risolvere i «conflitti sociali». Non neghiamo che tali riti potevano essere un modo per «rendere sterili» i conflitti della società, guardandoli come in uno specchio e in questo modo mettendoli a distanza. Ma questa lettura della scuola di Manchester non appare certo l’interpretazione più importante. Il significato che i riti liminali acquistano in rapporto alla religione appare molto più appropriato e corrispondente alla realtà del limen. Per capire il distacco dalla società e dai suoi valori come fatto religioso e liminale occorre ricordare che lo status di marginalità viene in fondo a dire che tutta la società è «una grande bugia». E che soltanto questa bugia riconosciuta permette di invocare un altro luogo e un altro spazio per la costruzione di simboli e di esperienze religiose. Così ebbe a interpretare lo status liminale lo stesso V. Turner in un importante articolo scritto nel 1980 per la rivista «Concilium»12. Uno «stato marginale» è ad esempio lo status dei «monaci del deserto» di un tempo, lo status che dovrebbe viversi, ad esempio, nei «monasteri» di oggi come in quelli di ieri. Si tratta infatti di un vivere fuori dalla società in nome di valori più alti e ritenuti più importanti per la propria esistenza. 4.3. Visione dicotomica della realtà Questo terzo motivo va di pari passo con il distacco dal sociale. Si lasciano i valori sociali in quanto si ha qualcosa d’altro da proporre e qualche cosa di diverso per cui vivere. La critica alla società nel suo vivere «mediocre» e «qualunquista» è condotta in nome di motivazioni diverse, in cui si fa riferimento ad altri valori e dominano altre istanze. Per esempio l’«aldilà», il «regno nuovo», il «regno dei cieli» e l’«escatologia» in genere comportano a loro volta una fuga mundi che è il segno della ricerca di liminalità. 12
Cf. la rivista «Concilium» (1980).
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Anche il «clima apocalittico» che in certe occasioni storiche è più forte in seno alle culture, comporta un allontanamento dal sociale e dunque avvia verso forme di marginalità. Quando si annunciano catastrofi, quando si parla insistentemente della fine del mondo e dell’irrompere di una realtà nuova, quando a questi motivi religiosi dicotomici si aggiungono altre motivazioni più immediate come l’«alienazione» dell’uomo nell’attuale momento storico, la «perdita di contatto» con la natura, il tradimento della visione ecologica e la crescente disumanizzazione dell’uomo è evidente che il clima diventa «dicotomico», «dirompente» e perciò ci si prepara a scegliere e in qualche modo a «decidere» in chiave apocalittica. I più coscienziosi allora, in questo stato di cose, sono coloro che diventano «marginali»: si escludono dal sociale, tentano vie diverse di salvezza. Ma nella congiunzione di temi religiosi affini, su questo sfondo, sarebbe allora importante stabilire quale sia il legame tra marginalità e forza escatologica e apocalittica. Sembra che i due movimenti siano molto connessi tra loro e che mentre la marginalità crea la «distanza a livello spaziale» (crea infatti l’isolamento, la estraneità), si dà il caso che, a livello storico temporale, la distanza sembra che sia creata niente meno che dalla «fine dei tempi» e cioè dal discorso apocalittico ed eventualmente dal discorso escatologico. Dunque c’è una corrispondenza e un’affinità tra luogo e tempo in fase liminale: i due grandi fenomeni religiosi che ne derivano sono in una interazione reciproca e portano per un verso il nome di «marginalità» come interruzione dello spazio e, per altro verso, di «apocalittica» come fenomeno di interruzione del tempo13. Sicuramente le due dimensioni del tempo e dello spazio e della loro rispettiva opera di rottura sono complementari e creano grandi significati a livello simbolico-religioso.
13 Cf. la bella miscellanea: Interrompere il quotidiano. La costruzione del tempo nell’esperienza religiosa, a cura di N. Spineto, Jaca Book, Milano 2005.
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4.4. La consapevolezza di condurre un’esistenza liminale/marginale Questo elemento, e cioè la consapevolezza di essere e di vivere in un’esistenza liminale e marginale, è un fatto altrettanto importante. Si tratta della «coscienza di vivere al margine del sociale», come dei «reietti». Considero questo elemento come un elemento tra i più efficaci. Nello stato di marginalità infatti è importante «il non sentirsi a casa propria», «il sentirsi quasi mancare la terra sotto i piedi», il sentirsi «fuori dal mondo», oppure il rendersi conto che il mondo «manca di un’anima» per cui diventa indispensabile una contromisura secondo la quale l’uomo liminale/marginale si «sente a disagio» in tutte le situazioni possibili. L’esistenza marginale è dunque un prolungamento della condizione liminale e comporta varie istanze, le quali devono restare tutte inevase. Le persone marginali non accettano schemi collaudati dalla cultura perché questi saranno in ogni caso incapaci di soddisfare le esigenze più profonde di coloro che si pongono davanti alla vita come veri cercatori. Il vero liminale infatti per natura si sentirà sempre «straniero nella città degli uomini». Per questo stesso motivo egli è perciò uno che «non possiede una famiglia» e che vive una vita – si direbbe – da maudit (maledetto), da homeless (senza casa). Noi diremmo oggi che il liminale/marginale è colui che vive semplicemente una vita da «barbone». Naturalmente se una persona vive in gruppo forma la communitas, la quale è qualcosa di isolato nella società, anche se vive nella solidarietà e fraternità del gruppo. Se invece il liminale è da solo vive nella sua più profonda solitudine, sapendo di essere tagliato fuori dal mondo. Su questo sfondo però il liminale può avere una coscienza particolare di sé. Può avvenire che il «marginale» a volte nutra anche una coscienza di élite, pur vivendo sempre in un certo isolamento. Questo è possibile e documentabile. Si può far riferimento in maniera agile alla storia delle religioni, là dove si parla di alcune classificazioni standard di leader come i «profeti», i «mistici», i guru, i sadhu, gli sciamani, ecc.
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4.5. Accentuazione dell’esperienza religiosa interna ed emergenza del capo carismatico In realtà, quando nella comunità si realizza la «fusione nel valore» e cioè i valori diventano talmente forti da creare un vero amalgama tra le persone, si arriva al punto focale intorno al quale si concentra la nuova communitas, allora siamo giunti in altre parole all’esperienza religiosa che dà ragione del cambiamento di status, della marginalità, della situazione sui generis in cui ci si viene a trovare, in opposizione alla cultura e alla società. Tale communitas ha un punto forte e la sua realizzazione consiste in una profonda metánoia per cui si vede tutto sotto un’altra luce e con altri occhi. La società, dal suo punto di vista, non riesce a capire questo cambiamento e perciò «emargina» queste forme di «vivere insieme». In realtà per la communitas si tratta di un cambiamento radicale basato su un valore assoluto, un valore tale che, a sua volta, rende «marginali» e «contingenti» tutti gli altri valori. Potremmo parlare di esclusioni reciproche tra la società e la communitas, nel senso che l’una non riconosce l’altra e viceversa. In questo senso la liminalità manifesta anche il suo valore «superiore». Non crea un margine, un’intercapedine, un gap tra sé e il mondo in modo arbitrario e soltanto per un capriccio, ma crea l’alterità del modo di vivere e di pensare in nome di un valore «superiore» e incomunicabile al sociale. In tal modo si dovrebbe presupporre che la liminalità/marginalità non nasca mai da una forma di narcisismo o di auto-compiacimento, ma sia sempre rivolta verso un valore assoluto che gli altri – quelli esterni al gruppo – non capiscono e non possono capire. Si tratta in fondo di rendersi coscienti di dove sta la vera vita e dove invece sta la morte, dove sta la realtà e dove invece l’apparenza. Connessa con l’esperienza della communitas è l’idea storicoreligiosa del «capo carismatico». Nella communitas infatti è inevitabile il costituirsi di un capo carismatico che accentra in se stesso l’assolutezza del nuovo valore. La funzione del capo carismatico è importante perché riassume il momento etico fondamentale della communitas in quanto i membri di appartenenza non si sentono sudditi ma, in nome del valore assoluto scoperto
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insieme, si sentono capaci di far coincidere atti di massima «dipendenza» con atti di assoluta «libertà», considerata come pura forma di oblatività. D’altro canto, il capo carismatico si presenta con i segni tangibili dell’autorità: possiede infatti la profezia, la rivelazione, la visione che corroborano la sua funzione e che gli creano d’intorno un alone di mistero. In questo contesto, alla persona del leader fa riferimento tutta la communitas che ritrova in esso il centro propulsore, la forza per difendersi e per avere coesione all’interno del gruppo14. Ma, con il capo carismatico, incomincia spesso anche la fase di razionalizzazione in senso weberiano della communitas, per cui lentamente si tende a reintrodurre quegli elementi che portano all’efficienza e all’organizzazione sociale e religiosa, mentre si rivaluta poco a poco un sempre maggiore inserimento del «carisma d’ufficio», come dire la «grazia di stato» che prevale sul carisma diffuso della communitas. Aranguren parla in questo processo – del resto già bene chiarito da M. Weber – di una chiesa che diventa «apparato», di un’organizzazione dove la «grazia viene gestita» e l’ispirazione di Dio canalizzata, mentre al contrario ora il carisma profetico e mistico viene guardato con un certo sospetto15. È la sorte di tutte le comunità carismatiche che diventano istituzionali. Le congregazioni religiose, i monasteri sono nati all’origine tutti come movimenti «marginali» con la proposta di valori nuovi e in un clima «entusiastico», poi lentamente hanno subìto un processo di istituzionalizzazione fino a perdere – di solito – il carisma e vivere solo nella regola e nell’ambito dell’istituzione.
14 Si veda E. Shils, Centro e periferia. Elementi di macrosociologia, Morcelliana, Brescia 1984, 59-69. 15 Cf. J.L. Aranguren, Changements culturels de la jeunesse à l’ègard de la religion, in Aa.Vv. Changement social et Religion, Actes de la 13e conférence internationale de sociologie religieuse (Lloret de Mar - Espagne 1975), CISR, Lille 1975, 14-15.
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4.6. Delineazione conclusiva: il bisogno di «margine» nella «communitas» rituale Il margine è il «fosso», è il «perimetro» che circonda la communitas, è lo spazio che permette una separazione. Ed è nello stesso tempo la condizione sine qua non della costituzione della communitas. È anzitutto indicato come spazio marginale: un «limite», un «muro», un’«interruzione», dei «gradini», una «scala», un luogo sacro rispetto a un luogo profano; tutto può diventare «margine», «limen» a seconda della cultura, delle situazioni. Il limen può essere «figurato» o «metaforico»: importante è che sia vissuto come «limen». Anche indossare un certo vestito può essere un «margine», è qualche cosa che deve comportare una «rottura» con l’ambiente, una «destrutturazione», un momento di isolamento di un’esperienza forte. Anche un digiuno può essere la forma del liminale/marginale. Anche il «non mangiare certi cibi». Il linguaggio è liminale quando si appropria per esempio di un linguaggio esoterico. La vita stessa è «liminale» perché compresa sempre tra due polarità: vita e morte nella visione religiosa. Giustamente come scrive van der Leeuw «noi moderni per tracciare il grafico della vita ci contentiamo di una semplice linea retta: il tratto verticale calcato ne segna il principio e un altro la fine; quel che precedette la nascita non appartiene alla nostra vita [...]. Nella vita sacra non è lo stesso, tutti i tratti hanno il medesimo spessore, tutte le tappe la stessa importanza: ogni trapasso va dalla morte alla vita e dalla vita alla morte»16. È in questo senso che ogni rito di passaggio è insieme un rito di nascita e un rito di morte. Si potrebbero perciò fare delle equivalenze che fanno vedere meglio come si svolge la vita religiosa in un contesto credente: il rito comporta qualcosa di «liminale», il liminale implica una morte, la morte implica una risurrezione o una rinascita: rito/ liminalità/morte e rinascita. 16 Cf. G. van der Leeuw, Fenomenologia della religione, Boringhieri, Torino 1960, § 22.
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II - Allargamento e approfondimento della liminalità a livello di storia delle religioni
Non mi dilungo nella descrizione dello status marginale rituale, presente e nato dai riti di iniziazione, soprattutto perché questa liminalità diventa di fatto un simbolo della «marginalità» come estraneazione in senso più ampio e in cui nasce e si sviluppa non soltanto il fatto rituale ma dove il senso religioso stesso ha un suo punto nodale. Ma la liminalità come «marginalità» apre un capitolo importante di storia delle religioni. È proprio la storia delle religioni che ci può suggerire delle intuizioni e delle complementarità al concetto di liminalità/ marginalità. Si tratta di integrazioni che sono molto interessanti e in qualche modo necessarie per comprendere tutta la valenza del discorso religioso17. Ma vediamo anzitutto il passaggio dalla liminalità alla marginalità.
1. Il contesto rituale a livello di storia delle religioni: dalla liminalità alla marginalità Dal contesto dei riti di iniziazione, facciamo anzitutto delle piccole osservazioni che riguardano il rito ma si estendono alla religione e alle religioni. Se la liminalità è il segno dello «svuotamento», come di fatto è, ha un significato di eccezionale valore che si amplifica e crea una cassa di risonanza in molti contesti religiosi. All’inizio del rito è necessario «fare il vuoto». Un tempo per entrare in un santuario ci si doveva – ad esempio – «spogliare completamente» («nudità rituale», fatto che veniva etichettato anche come skyclad e cioè come un «vestirsi di cielo»). Questa esperienza non era poi tanto inusuale e infatti era un costume classico ancora nella religione degli antichi Ittiti ed era passata poi nei riti di 17 In questo senso si veda ad esempio: S.N. Eisenstadt, Comparative Liminality. Liminality and Dynamics of Civilization, «Religion» 15 (1985), 315-338.
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semina dell’agricoltura nei paesi nordici. Così, ad esempio, era fondamentale quando si entrava nel tempio: il «togliersi le scarpe», lo «slacciare le cinture», come diventerà poi fondamentale, per i riti di passaggio, il passare attraverso un «tunnel». Esperienza che del resto avviene ancora oggi nei riti afro-brasiliani ad esempio del Candomblé, del vudu, della makumba18. Dunque il senso era quello della necessità di «isolarsi», «soffrire situazioni al limite della morte», come nei riti di iniziazione si dovevano sopportare «mutilazioni», «tatuaggi», «l’estrazione di un dente», la «scarnificazione» e altre forme di sofferenza19. Questo stato liminale subisce un mutamento: diventa in qualche modo qualcosa di a se stante. Diventa un fenomeno significante fuori dal suo rapporto con il rito di iniziazione. * * * Il concetto di liminalità, quando diventa in qualche modo «autonomo» e un tutto a sé, non più strettamente connesso con il rito, si coniuga egregiamente con la marginalità. In secondo luogo, una volta che si riconosce che l’origine di una religione comporta sempre una situazione di liminalità/marginalità, l’importanza del nostro discorso starebbe nel poter vedere quale sia il rapporto tra «marginalità rituale» che resta all’origine del concetto e l’idea di marginalità come fatto sociale autonomo a partire dal quale una religione trova uno dei suoi lineamenti più fecondi e creativi. Si tratta di una tesi che andrebbe studiata a sé, dovendo commisurare anche se ci sia un rapporto di filiazione tra riti di passaggio e «marginalità», o se questo sia avvenuto in modo inverso e cioè dalla marginalità ai riti di passaggio. Ma occorre osservare che questo passaggio da una liminalità rituale a una liminalità/marginalità a se stante e a più ampio raggio, in grado di comprendere l’intera storia delle religioni, è stata bene analizzata e delineata dallo stesso Turner. Egli infatti aveva visto e considerato la liminalità come uno status generalizSi veda emblematicamente il lavoro di P. Verger, Orisha. Les Dieux Yoruba en Afrique et au nouveau monde, Metoilié, Paris 1982; cf. anche A. Metraux, Le voudou Haitien, Gallimard, Paris 1958. 19 Si veda il classico lavoro di A. van Gennep, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino 2002 (ed. or. Paris 1909). 18
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zato e permanente. E infatti in una pagina de Il processo rituale egli scrive: Si direbbe che sia accaduto questo, che con il progressivo specializzarsi della società e della cultura, con la crescente complessità della divisione del lavoro, quella che nella società tribale era essenzialmente una serie di qualità transazionali intermedie tra stati definiti della cultura e della società, sia divenuta anch’essa uno stato istituzionalizzato20.
Nel corso di questo saggio perciò non si potrà trascurare di fare ricorso al rapporto tra marginalità rituale e marginalità religiosa tout court, mentre per ora ci preme una descrizione della seconda marginalità come quel fenomeno più ampio rintracciabile in tutta la storia delle religioni e avente una sua chiara configurazione anche fuori dal rituale. Ora, fuori da una stretta sorveglianza di tipo rituale, la liminalità/marginalità ha alcune caratteristiche di spicco che vorremmo qui descrivere brevemente per venire incontro così ad alcune caratteristiche proprie che poi si ritrovano nella storia delle religioni. Le caratteristiche principali ricoprono il concetto di communitas e sono state considerate sopra. Però dal punto di vista della storia delle religioni sono rilevabili globalmente almeno due temi complementari che hanno un’ampia risonanza in tutta la storia delle religioni. Si tratta essenzialmente della visione dicotomica della realtà e dunque di un dualismo essenziale e di una visione ascetica che è un aspetto complementare alla considerazione dicotomica della realtà.
2. La marginalità come «una forma di dualismo» presente nel mondo delle religioni. Una «differenza di mondi» Credo che si tratti di una domanda che non si può evitare. Il concetto di «liminalità» porta con sé molti temi e sembra legarsi soprattutto a temi fondamentali come la «marginalità», la 20
Cf. Turner, Il processo rituale, 89ss.
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«morte» ma anche con il «dualismo» presente nelle religioni. Sarebbe importante sapere qual è l’origine ultima della liminalità/marginalità nelle religioni. Si potrebbe fare riferimento a un tipo più o meno pronunciato di «dualismo» presente da sempre in tutte le religioni del mondo? Non credo che in questo caso giochi in maniera preponderante il rapporto tra «bene» e «male», come nel mondo iranico antico, anche se questa categoria perché più facile e percepibile tenta sempre di sovrapporsi alle altre, ma credo che sia in atto soprattutto un criterio di rapporto tra «sacro» e «profano», tra eccedenza e quotidianità, tra esperienza fuori dalla norma ed esperienza nella norma. Da questo punto di vista sarei del parere che non sono le religioni «dualistiche» a creare la vera differenza, come ad esempio la visione iranica antica, o il buddhismo, il manicheismo o lo gnosticismo, ma a fare la differenza maggiore sono piuttosto anzitutto le religioni a livello «mistico-esoterico», le quali esaltano un sacro «trasgressivo» rispetto a un profano normale, quotidiano, insipido. Dunque, non si tratterebbe al fondo di avere a che fare con un dualismo «metafisico» o «etico», ma si tratterebbe di una differenza di realtà tra chi sa «sognare» un universo simbolico quasi come l’«inverso» o il «rovesciamento» del mondo quotidiano e chi invece è inesorabilmente legato a questo mondo e vede tutto allo specchio della normalità e della quotidianità della vita. La marginalità è strettamente connessa a questa differenza tra mondi e sta nel riconoscimento che tale differenza porta con sé il tema della religione. La religione si esprime quando un «universo simbolico sovrannaturale» è in grado di sostituire questo mondo empirico e naturale. Ora questo passaggio richiede un’«ascesi», una «capacità meditativa ed estatica» particolare, richiede un «volo fuori dal mondo» (E. Zola). La liminalità e la marginalità ci vengono a dire che questi mondi alternativi a quello in cui viviamo non si formano attraverso la razionalità, il sillogismo, la visione logica della vita, ma al contrario i mondi alternativi sono figli di una «follia», come erano folli i «figli del vento» che nel mondo vedico antico portavano i capelli lunghi e sapevano andare in estasi. Erano i cosiddetti rs.i (i veggenti). Come erano e sono folli gli sciamani, che pure andavano e van-
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no in trance e poi, in modo particolare, sono in grado di intraprendere il «volo nell’aldilà». Naturalmente vengono aiutati in questa loro uscita dal mondo dal suono dei tamburi, dalla danza e, di più, dal mondo rituale di cui si circondano e in particolare dagli spiriti degli antenati, che portano con sé attraverso le varie maschere che indossano21.
3. Per una teoria dell’«ascetismo»:
fenomeno complementare alla liminalità.
La nascita del mondo metaforico
Già alcuni accenni tra liminalità e ascetismo sono presenti qua e là in V. Turner. Una connessione tra i due fenomeni però appare immediata non appena si rifletta sui termini. La liminalità/marginalità è un distacco dal sociale, un abbandono del sociale e delle regole della società per compiti e valori che si ritengono più importanti; ora che cos’è l’ascetismo se non un insieme di restrizioni di bisogni umani e di inclinazioni naturali per realizzare visioni religiose più profonde, per acquistare delle virtù, per raggiungere in qualche modo una maggiore sapienza o l’illuminazione? Dunque liminalità/marginalità e ascetismo sono forme concomitanti e complementari. 3.1. Caratteristiche comuni della liminalità e dell’ascetismo Ma in rapporto alla liminalità come marginalità è del tutto importante allora porsi un’altra domanda convergente. Ci possiamo interrogare sulle affinità tra i due mondi: quello dell’ascetismo e quello della liminalità e creare un catalogo di analogie. Cf. A.F. Anisimov, The Shaman’s Tent of the Evenks and the Origin of the Shamanistic Rite, in H.N. Michael (a cura), Studies in Siberian Shama nism, Arctic Institute of North America, Toronto 1963, 84-123. Cf. anche per una sintesi: A. Stolz, Schamanen. Ekstase und Jenseitssymbolyk, DuMont Buchverlag, Colonia 1988, in particolare 55ss: Die Séance. Si veda anche la sintesi sullo sciamanismo: M. Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Ed. Mediterranee, Roma 1974. 21
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Ora, che cos’è l’ascetismo se non una «prassi di dissociazione» dalla forme di vita ordinaria o «naturale» come la liminalità/ marginalità, dissociazione dai comportamenti, dalle pratiche, dai modi di pensare e di percepire le norme sociali? L’ascetismo infatti comporta una serie di restrizioni che sono interessanti e fondamentali per riconoscervi un tratto di liminalità. In maniera approssimativa potremmo catalogare le restrizioni nel modo seguente. 1. Le pratiche ascetiche comportano delle restrizioni sistematiche e/o prolungate, comportano la dissociazione dai bisogni umani naturali e dalle inclinazioni, come ad esempio una restrizione nel dormire, nel cibo, in rapporto al sesso, in relazione al riposo, in relazione allo stesso uso più o meno libero dei sensi, della parola, delle interazioni sociali, ecc. 2. L’ascetismo comporta anche tecniche di impegno del corpo e della mente: meditazione o contemplazione, comportano preghiera, mantra, yoga. In pratica comportano dei modi differenti di pressione sul corpo e sulla mente. 3. Sia l’ascetismo che la liminalità prevedono anche un rovesciamento delle norme sociali: prevedono la critica delle istituzioni sociali, l’estraneazione al mondo delle autorità pubbliche; prevedono la «libertà» nell’assunzione di cibo e bevande; prevedono addirittura un comportamento che socialmente è considerato una «pazzia» (si può affermare in molti casi che i santi sono «pazzi», gli yogi sono «folli», gli uomini religiosi sono «idioti»). 4. È previsto anche un trattamento di sottomissione alla sofferenza per quanto concerne il corpo (disagi nel sedere, uso del cilicio, digiuni, ecc.). Ma si deve tener conto anche delle virtù che si esercitano e si coltivano nel contesto della visione ascetica e liminale. Anche qui mettiamo a elenco alcune caratteristiche fondamentali. 1. Si esercitano le virtù come il «dire la verità», «l’essere e il comportarsi come bambini», l’essere «pazienti», «compassionevoli», «disinteressati». 2. Si esercita la capacità di «guardare oltre», di «guardare all’altro mondo», si realizzano capacità profetiche, ecc., così come forme di visioni e di rivelazioni.
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3. Si esercita la capacità di essere neutrali: di essere imparziali nel giudizio22. La vicinanza tra liminalità/marginalità e ascetismo attraverso queste caratteristiche resta dimostrata. 3.2. Il mondo simbolico e metaforico figlio della liminalità e dell’ascetismo? Ma a che cosa conduce un ulteriore approfondimento in questa direzione? Conduce a riconoscere che lo stesso linguaggio «metaforico» e simbolico prende l’avvio dal «distacco ascetico» e dal «mondo marginale» in cui confina l’esperienza religiosa. È possibile questo passaggio dal piano fisico e topografico, è concepibile che il distacco fisico e geografico dalla realtà porti verso il piano linguistico e meta-linguistico? Basterebbe la definizione che danno di metafora Lakoff e Johnson per riconoscere l’importanza della condizione «marginale» e «liminale» per la formazione del linguaggio simbolico e metaforico. Nel libro Metafora e vita quotidiana23, i due autori, sopra nominati, ritengono che la metafora consista nel «comprendere e nel fare esperienza di una cosa nei termini di un’altra». Le persone umane categorizzano le cose nel mondo, non però in un modo qualunque, ma a seconda delle percezioni e secondo i gradi di esperienza in una interazione costante tra percezione, concetti e costruzione della realtà. Ora, uno dei modi più potenti di pensare e di strutturare la realtà nasce dalle Per queste caratteristiche qui descritte si veda sinteticamente W. KaelAscetism, in M. Eliade (a cura), The Encyclopedia of Religion, McMillan Publishing Company, New York 1987, 441-445. Cf. anche A.G.S. Kariyawasam, Ascetic Practices, in G.P. Malalasekera (a cura), Encyclopedia of Buddhism, vol. II, Government Press, Ceylon 1985, 161-168. Ma si veda soprattutto l’articolo a cui mi sono ispirato: Thore Bjørnvig, Methaphors as Ascetism: Ascetism as an Antidote to Symbolic Thinking, «Method and Theory in the Study of Religion» 19 (2007), 72-120, saggio molto articolato e a volte – a mio parere – poco controllato metodologicamente. 23 Cf. G. Lakoff - M. Johnson, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano 2004 (ed. or. Metaphors We Live By, The University of Chicago Press, Chicago 1980). 22
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connessioni che noi riusciamo a fare là dove noi percepiamo, pensiamo e creiamo nuovi rapporti tra le cose e il mondo. Dunque se seguiamo attentamente questo progetto, si può dire che c’è un modo «letterale» di pensare basato sulle strutture neurobiologiche del cervello, ma c’è anche un modo di pensare che nasce da connessioni nuove e significati diversi che sorgono da interazioni tra domini cognitivi diversi24. Ora queste interazioni e connessioni nuove si sviluppano quando ci si trova fisicamente in situazioni nuove, quando c’è un passaggio fisico da un luogo a un altro, quando usciamo fuori dalla normalità, quando, in pratica, si vivono stati di liminalità e di ascetismo. È stato J. Bronkhorst ad avere tra i primi questa intuizione fondamentale della profonda connessione esistente tra ascetismo e possibilità metaforiche e simboliche a livello neuronale25, ma forse in maniera più specifica è stato lo studio dell’archeologo e studioso della mente S. Mithen a portare a compimento un’intuizione che appariva molto importante sull’integrazione tra diverse modularità della mente26. Il linguaggio metaforico si sviluppa dunque a partire da connessioni nuove che creano possibilità di dire cose in termini di altre cose, dunque attraverso una sovrapposizione, un movimento dinamico di spostamento dell’attenzione e di comparazione. A loro volta, in The Way We Think Giles Fauconnier e Mark Turner27 hanno sviluppato ampiamente a livello linguistico questa possibilità a partire dalla «teoria concettuale della metafora», congiungendo processi fisici a processi mentali e facendo vedere come un trasferimento di un contesto fisico, qualcosa come la liminalità, produce facilmente un trasferimento di struttura a livello metaforico e crea nuove possibilità linguistiche di carattere simbolico e metaforico. Naturalmente l’ascetismo può portare anche a una seconda Si veda G. Fauconnier - M. Turner, The Way We Think. Conceptual Blending and the Mind’s Hidden Complexities, Basic Books, New York 2002. 25 Cf. J. Bronkhorst, Ascetism, Religion and Biological Evolution, «Me thod and Theory in the Study of Religion» 13 (2001), 374-415. 26 Si veda S. Mithen, The Prehistory of the Mind. A Search for the Origins of Art, Religion, and Science, Foenix, Great Britain 2003 (1996). 27 Si veda Fauconnier - Turner, The Way We Think, citato. 24
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forma di esperienza religiosa connessa con forme di «afasia» e di mancanza di linguaggio, come una fase esperienziale conclusiva del rapporto tra il «mondo» e «l’altro dal mondo». Si tratta della convergenza di ascetismo e liminalità verso la fase mistica. Il misticismo – fase finale della visione ascetica e della visione liminale – comporta spesso questo stadio in cui il discorso diventa «apofatico» (in cui non si può dire più nulla), diventa «muto», quasi a cogliere l’aporia stessa insita nella trascendenza28. Ora, credo che soltanto in questo secondo e più sublime stadio possa avvenire qualcosa come ciò che Forman chiamava «l’evento della pura coscienza», dimenticando o misconoscendo ogni contenuto mentale poiché si raggiunge asceticamente e misticamente quel «campo totale» (Ganzfeld) della libertà religiosa e mistica29. Non c’è dubbio che per questa sua visione della mistica, Forman – quando affermava che l’esperienza mistica è proprio l’opposto del costruttivismo – si appoggiava chiaramente al mondo «liminale». Più che «costruire» si dovrebbe dire infatti che il soggetto cessa di costruire immagini visive e cessano tutte le categorie linguistiche. Forman – che continua nella linea dei perennialisti come A. Huxley, Stace, R. Otto, ecc. – conclude infatti affermando giustamente: «Se pensare è costruire pensieri e costruire equivale a pensare, cessare di pensare è cessare di costruire»30. Come dire che la mistica non ha un linguaggio particolare, ma è piuttosto la «mancanza di linguaggi», anche se le interpretazioni in seconda battuta usano ancora linguaggi e categorie. Credo che questo sia il secondo contributo essenziale a cui conduce il vero senso della liminalità quando si configura come una teoria dell’ascetismo. La dissociazione mistico-ascetica dalle strutture convenzionali con la conseguente destabilizzazione degli impulsi sensoriali, nel caso estremo, comporta una «distruzione del sé sociale», che significa nello stesso tempo un annullamento della propria personalità. Ma questo è soltanto il punto finale di arrivo. Si veda M.A. Sells, Mystical Language of Unsaying, University of Chicago Press, Chicago 1994, 2-3. 29 Cf. K.C. Forman, The Problem of Pure Consciousness: Mysticism and Philosophy, Oxford University Press, Oxford 1997, 36. 30 Ivi, 38. 28
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4. Esemplificazioni a partire dalla storia delle religioni 4.1. Dioniso e Shiva come divinità capaci di creare marginalità a livello mistico-esoterico Poiché l’argomento della liminalità/marginalità che prendo qui in considerazione ha varie sfaccettature ed è del resto un fenomeno molto interessante a livello storico-religioso, vorrei presentare emblematicamente almeno le due figure di divinità marginali, le quali fanno da sole metà dell’intera storia delle religioni: figure che, per altro verso, per sé connotano mondi religiosi «enigmatici», così come enigmatica resta, forse in ultima istanza, ogni nostra considerazione della religione a livello «marginale». In Grecia il dio Dioniso e in India il dio Shiva appaiono divinità eminentemente «liminali»31. Si può dire di più: ambedue sono considerate «divinità folli», «pazze», sono incomprensibili al nostro mondo culturale di oggi. Si potrebbe dire di più affermando che il problema sta nel come spiegare queste due divinità così poco ortodosse per il nostro sguardo razionale e per la nostra attuale comprensione della religione. Qui nasce un problema storico religioso di grande rilevanza. Si potrebbe infatti dire che se quelle esperienze così strane sono paradigmatiche allora c’è qualcosa che «non va nella nostra religione», in quanto il nostro modo di vivere la religione è di tutt’altra natura. Oggi il modo di vivere la religione è un modo «razionale», socialmente «convalidato» e «condiviso»: è un modo in cui società e religione si incontrano e si legittimano reciprocamente. In questo contesto bisognerebbe forse riconoscere che queste divinità sono «aberranti» e dovrebbero essere cancellate dalla storia delle religioni. Il momento mistico-esoterico di queste divinità è «stravagante» e direi nello stesso tempo «deviante». Queste divinità sono dèi in grado di portare alla pazzia e alla follia; dimensione marginale per eccellenza, realtà che si pone al di fuori da ogni legalità: dimensione che, per altro, deve essere 31 Cf. A. Danielou, Siva e Dioniso. La religione della natura e dell’eros, Ubaldini, Roma 1980.
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controllata dalla società stessa perché ritenuta un pericolo estremo per gli uomini che vivono nella società e nell’ordinamento. Ora, in questo contesto appare che la religione è più «rivoluzionaria» di qualsiasi rivoluzione, ma non in modo figurato come solitamente viene intesa. È rivoluzionaria davvero nella misura in cui nel suo momento mistico-esoterico «rovescia il mondo»: espressione forse paradossale del liminale – ma ancora forma liminale –, è una realtà in grado di «scardinare il mondo», è in grado di distruggere la società nelle sue stesse fondamenta. 4.2. Il dio Dioniso con i riti dionisiaci Basterebbe leggere le Baccanti di Euripide per rendersi conto della «marginalità» estrema, che agita il culto di Dioniso, come esperienza opposta e drammatica rispetto all’idea della polis greca. Dioniso non è soltanto il dio del vino che inebria, è un dio che toglie tutte le inibizioni, che riconduce gli uomini a uno stato primordiale e selvaggio, è un dio che faceva compiere rituali esaltanti e tragici, in cui si cedeva a un tipo di esaltazione parossistica e al delirio. Le donne in questo caso potevano partecipare al rito perché in fondo impersonavano quel tipo di razionalità «irrazionale» che il mondo greco contrapponeva al lógos maschile. E la musica, che accompagnava tale ritualità, in particolare il ditirambo, aveva un ritmo ossessivo che portava a forme di eccitazione. Brevemente: le donne che si recano sul monte Citerone sono in preda all’entousiasmós (i sinonimi del termine connotano qualcosa di «essere posseduti dal dio», «delirare»), se così si può dire. Infatti entousiasmós non è lontano dall’esperienza dell’éstasis («andare fuori di testa»), che corrisponde poi a «perdere se stessi»: è la perdita del sé. Così, non fa un’esperienza comune, colui che è éntheos è «posseduto da Dio», mentre la manía è un termine per dire ancora qualcosa come «il vivere una realtà ossessionante»). Ma il comportamento di questi partecipanti al rito non è qualcosa di rappacificante, al contrario è un dramma e una tragedia. Le baccanti – come si sa dalla storia – agiscono in preda a una vera follia. Strappano la carne viva degli animali che incon-
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trano per cibarsene in maniera crudele e in un delirio collettivo attraverso il cosiddetto sparagmòs e attraverso la omophagìa; ma, di più, confondono gli animali con le persone. Agave scambia suo figlio per un leone, Penteo viene sacrificato e messo a morte perché si era proclamato contro Dioniso, il tutore della città, e non aveva riconosciuto il dio Dioniso stesso. Si potrebbe portare qui a descrizione importante del rito delle Baccanti la pagina sublime di un antico, ma sempre efficace, autore: E. Rohde. Egli scrive anzitutto del dio Dioniso: Il culto di questa divinità tracia aveva carattere quasi orgiastico mentre aveva molti punti di contatto con i frigi, un popolo quasi identico ai traci. La festa era celebrata sui monti, nella notte oscura alla luce malferma delle fiaccole. Risuonava una musica rumorosa; squilli di cennamelle bronzee, un cupo tonare di grandi timballi e fra mezzo il suono profondo dei flauti che invitavano alla follia [...]. Eccitata da questa musica selvaggia la schiera dei festaioli danza tra alte grida di giubilo. Di canti non sappiamo nulla; la violenza della danza toglieva il fiato, li rendeva impossibili. Ché non era il passo di danza moderatamente mosso con cui i greci di Omero procedevano nel peana, ma una danza circolare, furiosa, vorticosa, pericolosa, precipitosa con la quale la schiera degli invasati percorreva di corsa le pendici dei monti. Per di più erano donne che si aggiravano in queste danze scatenate fino a sfinirsi; erano camuffate stranamente: indossavano delle lunghe vesti fluttuanti, di pelli di volpe, sulle vesti pelli di capriolo, sul capo corna. I capelli ondeggiavano selvaggiamente; nelle mani hanno serpenti sacri a Sabazio, brandiscono pugnali le cui punte sono nascoste tra l’edera. Così esse infuriano fino alla massima eccitazione di tutti i sensi, poi invase da sacro furore si precipitano sugli animali scelti per il sacrificio, li afferrano, li sbranano, strappano coi denti la carne sanguinolenta (sparagmós) e la mangiano avidamente cruda (omophagìa)32.
Dalla descrizione di Rohde si evince il carattere irrazionale dei riti che eccitavano soprattutto i sensi. Dunque a differenza di Daniélou, che parla di religioni della natura, io credo che si possa vedere in questa divinità anche la «fase liminale» portata alle sue ultime conseguenze. 32 Cf. E. Rohde, Psiche. Culto delle anime e fede nell’immortalità presso i greci, II vol., Laterza, Bari 1982 (ed. or. 1890-1894), 344-346.
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Alcuni elementi che confermano la liminalità e la marginalità di questi rituali potrebbero essere visti, per esempio, nel fatto che 1) si compivano di notte, 2) nell’alto di una montagna, 3) rivestivano forme e atteggiamenti chiaramente «irrazionali» (eccitavano i sensi), 4) portavano allo stato di trance e, alla fine, a livello millenaristico, 5) erano in grado di far sgorgare dalla terra «ruscelli di vino e miele», mentre – si dice – «i tirsi stillavano miele». 4.3. Il dio Shiva nella tradizione indù Non dissimile da Dioniso appare la figura del dio Shiva, che nella storia delle religioni appare come la riconciliazione di tutti i contrari. Egli è un dio «asceta ed erotico» nello stesso tempo – come lo definisce Wendy Doniger33 – è un dio privo di tutto, vagante tra monti e foreste, è l’antropofago terribile che sta nei pressi dei campi di cremazione, circondato da una schiera di apparizioni demoniache, è adorno di teschi e di serpenti cobra, vestito di pelle di tigre. La sua rappresentazione più antica è data dal simbolo dell’organo sessuale maschile. Diventa poi lentamente nel tempo un simbolo di unità fondendosi con l’uovo cosmico. È in particolare l’inventore della danza e in una mitologia abbastanza antica si dice che egli con «i tre passi di danza ha creato il mondo». Anche Shiva è un dio della mistica che include una specie di liminalità a oltranza, una forma di «pazzia», di «invasamento» da parte dei suoi seguaci. Egli si presenta di fatto come l’asceta e nello stesso tempo è il dio «scatenato», che si serve anche di droghe per manifestare la sua vera natura. Nelle raffigurazioni pre-vediche scoperte ad Harappa, questo dio ha il capo sormontato da un paio di corna ed è accompagnato da un elefante, da una tigre, un rinoceronte e un bufalo. Tutto ciò tende ad anticipare in qualche modo il Rudra-Shiva che verrà più tardi. Egli è nello stesso tempo il grande Yogin (il grande asceta) itifallico ed è conosciuto anche come il «signore degli animali» (pas´upati). La sua forma «liminale» appare per esempio da questo passaggio riportato dalla studiosa W. Doniger: 33
Cf. W. Doniger, Shiva. L’asceta erotico, Adelphi, Milano 1997.
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Shiva aveva poi vagato per la Foresta dei Pini e le mogli dei saggi che vi abitavano si erano innamorate di lui e lo avevano seguito ovunque. Shiva nudo, col fallo eretto, danzava e chiedeva l’elemosina con un teschio in mano. I saggi allora si erano infuriati e avevano maledetto il lin. ga perché cadesse a terra. Cadendo, il lin. ga aveva però provocato una terribile conflagrazione; Brahma e Vishnu tentarono invano di trovarne la sommità e il fondo e la pace tornò solo quando i saggi ebbero acconsentito di adorare il linga insieme alle mogli34.
Egli in particolare è il dio che compie due tipi di danza: la danza nataraˉ ja (danza della pura gioia), che è danza della pura gioia che trasforma positivamente il mondo; ma anche la danza tandava, tramite la quale egli si precipita giù dalle montagne freneticamente, come un pazzo o un ubriaco, circondato da una folla di creature mezze umane e mezze animalesche. Si tratta della danza giù dalle montagne dell’Himalaya, danza macabra che rappresenta la «distruzione del mondo»35. Dunque egli – come Dioniso – personifica un dio dell’ambivalenza e della marginalità assoluta. Anche se lo Shivaismo si è poi trasformato in una grande religione d’amore e di dedizione, non va negato questo aspetto ambiguo che è presente soprattutto agli inizi, per cui tale religione si configura pienamente come una religione mistico-esoterica. In definitiva le figure di Dioniso e Shiva parlano della marginalità in un linguaggio vero, non quello fittizio in cui può essere recepito il nostro discorso, viste le diverse condizioni religiose e storico culturali in cui si iscrive il nostro stesso raccontare. Queste due divinità parlano veramente della «marginalità» nella religione come forma di «pazzia», come sovvertimento del mondo, come entousiasmòs religioso, fenomeni che come tali sono stati banditi dal nostro mondo e non possono essere più percepiti all’interno della società occidentale che ha razionalizzato ogni aspetto della vita, compreso quello religioso. Cf. Doniger, Shiva. L’asceta erotico, 53. Naturalmente qui la Doniger mette insieme vari passaggi presi dai Purana: testi mitologici che non fanno parte dei veda antichi, ma in ogni caso sono significativi dei vari miti che si incentrano sul dio Shiva. 35 Cf. R.C. Zaehner, L’Induismo, Il Mulino, Bologna 1980. 34
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5. Breve excursus. Il pellegrinaggio: figura di liminalità e marginalità nello stesso tempo
Posso portare soltanto in conclusione, a modo di esempio, un altro tema di grande significato liminale/marginale: il tema del pellegrinaggio che però andrebbe ben diversamente sviluppato in ordine al tema della liminalità di quanto posso fare qui in queste pagine conclusive. Anche il pellegrino infatti è un liminale nel senso vero della parola. La parola pellegrino deriva dal latino peregrinus (colui che è partito per una terra lontana) e fin dall’XI secolo designava però nello stesso tempo colui che «non ha diritto di cittadinanza». Il pellegrino infatti, per un verso, è colui che lascia, che «va via» e dunque è confinato ed emarginato e, per altro verso, è il povero spiritualmente e materialmente. Dunque un emarginato, un vagabondo e un nomade a cui si assomma l’essere «senza diritti». Soltanto in maniera secondaria e derivata è ancora il ricercatore, colui che ha capito la fragilità del vivere, colui che cerca nello spazio e nel movimento quella realtà che gli sfugge e che vorrebbe afferrare come l’unica indispensabile alla vera realizzazione di una vita in tensione, di un’esperienza dinamica. Soltanto in seconda battuta dunque, anche qui il concetto di «margine» assume il significato metaforico e metafisico. Ma nel pellegrinaggio – modalità in cui il pellegrino trova il suo status senza status – c’è anche una configurazione fisica che ricalca le stesse orme del rito di iniziazione. Infatti anche nel pellegrinaggio si possono distinguere gli stati della separazione, del momento di communitas e poi il senso e il significato della riaggregazione entro l’evento del pellegrinaggio. Il pellegrinaggio in quanto tale è infatti caratterizzato da tre aspetti che sono del tutto simili al rito di liminalità. Anzitutto, il mettersi in viaggio – distaccandosi dalla vita quotidiana – per un luogo speciale e consacrato; in secondo luogo, vi è lo spostamento collettivo o individuale verso un santuario con una certa difficoltà fisica e morale; come terzo movente, il movimento della pellegrinatio è spesso funzionale all’ottenimento di una grazia o di una benedizione per ritornare alla vita «ordinaria» rinfrancati e soprattutto diversi. Dunque c’è un vero calco di un rito di passaggio in tutte le sue fasi.
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Non si deve sottovalutare, poi, la ricerca del «meraviglioso» e la ricerca mistica che animano i pellegrini. Il pellegrino, rompendo la norma di vita comune, introduce la novità. Giustamente – scrive Turner – possiamo affermare che il pellegrinaggio possiede alcuni attributi della liminalità dei riti di passaggio. Si tratta della liberazione dalla «struttura mondana», «omogeneizzazione di status», «semplicità di abbigliamento», la formazione di communitas, dura prova, riflessione sui significati della vita, istituzione ritualizzata di corrispondenze tra paradigmi religiosi ed esperienze umane, emersione dell’individuo dalla moltitudine36. Non si tratta forse delle qualifiche che configurano in senso proprio la liminalità rituale? 5.1. Il pellegrino e il centro del mondo Ma dirò di più. Ciò che muove il pellegrino verso un luogo particolare sembra essere un’idea universale presente e operante in ogni concezione religiosa e anche non religiosa, ma che per coloro che sono religiosi ha, però, una sua particolare configurazione. Il bisogno, quasi l’istinto, di trovare il centro del mondo sapendo nello stesso tempo che il centro del mondo non appartiene più a una realtà terrena, ma è piuttosto sullo sfondo come l’altrove, come il «metafisico» o l’ontologico in quanto tale. Nelle considerazioni di Eliade, in particolare, l’originario coincide con la solidità di ciò che è «ontologico» in quanto tale, dove si vive la vera consistenza delle cose. Ma, in «cerca verso...», «in movimento verso...» il pellegrino del resto rimane pur sempre uno che cerca ancora, ma non ha trovato, resta perennemente «per strada», in cammino «verso». Il pellegrino è un vero «marginale» sotto questo punto di vista. Non è un caso che il nome dei santuari più antichi, di Nippur e di Larsa così come quello di Sippar avesse un’etimologia particolare: dur-an-ki significava infatti luogo tra cielo e terra. Così le città sante e i luoghi santi sono paragonati alle cime delle montagne cosmiche. Per questo Gerusalemme e Sion non furono sommerse dal diluvio, così come nella tradizione islamica si 36
Cf. V. Turner - E. Turner, Il pellegrinaggio, Argo, Lecce 1997, 80.
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osserva che il luogo più alto della terra è la Kaaba perché la stella polare attesta che essa si trova di fronte al centro del cielo. Ogni città orientale si trovava al centro del mondo: Babilonia era una Bab-ilani, una porta degli dèi, perché in quel luogo gli dèi scendevano sulla terra. Allo stesso modo, lo ziqqurat mesopotamico era in realtà una montagna cosmica e il tempio di Barabudur è un’immagine del cosmo ed è costruita a forma di montagna cosmica37. Centro e periferia sono i due orizzonti. Ma il centro è raggiungibile o non è piuttosto sinonimo di un «vuoto», di un luogo che non si troverà mai in questo mondo, qualcosa di analogo a ciò che accade nel mondo tradizionale giapponese, dove il posto centrale e più importante corrisponde anche a un grande «vuoto»? Il pellegrino aspira al «centro», ma sa di essere ancora in periferia, di non aver trovato il punto solido di consistenza; è uno che cammina e si muove perché deve arrivare, ma il punto ad quem gli sfugge, appare qualcosa di irraggiungibile, eppure deve «andare» perché Dio o il divino è soltanto «qualche passo più avanti». I monaci indù e buddhisti sono estremamente consapevoli di questa lontananza della meta. Alcuni di essi camminano tutta la vita in cerca della meta ultima, che di fatto non troveranno mai, e visitano centinaia di santuari con questo spirito e con questa nostalgia «perenne» e indomabile di poter finalmente raggiungere il centro del mondo attraverso l’«altrove», attraverso l’attraversamento di mille periferie. Credo che la figura del pellegrinaggio sia per eccellenza un rispecchiamento della liminalità nel significato di tirtha (passaggio) e tirtha-yatra, «soglia tra cielo e terra», «luogo in cui si incontrano gli dèi», che caratterizza ogni pellegrinaggio, ma soprattutto quelli propri dell’India. Ogni pellegrinaggio è infatti un «passaggio», un «attraversamento» di spazi e di acque – nell’India di ieri e di oggi – un «guado» da attraversare in cerca del sacro, in cerca del centro del mondo, che naturalmente è oltre questo mondo38. 37 Si veda per l’intero contesto M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, Torino 1972, in particolare § 145, 392ss. 38 Di recente si veda il bel libro di D. Eck, India: A Sacred Geography, Harmony Books, New York 2012.
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liminalità in prospettiva rituale plurisemantica
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6. Conclusione. Il «liminale» di cui dovrebbe farsi garante il rito in ordine all’esperienza religiosa Benché, come ha rilevato M. Scheler, il contenuto spirituale di un fenomeno religioso non possa mai essere deducibile da fattori storico-sociali, e benché l’esperienza religiosa comporti sempre anche un’ombra di ambiguità che le è – per così dire – consostanziale, un approfondimento delle condizioni sociali di marginalità in cui si ponevano i mondi religiosi – tra cui il cristianesimo – è altamente significativo per capire il nucleo propriamente «religioso» delle religioni. Su questo sfondo la mia ultima conclusione è abbastanza scontata. A mio avviso – come ho cercato di dimostrare –, vi è una concatenazione storica di eventi e di significati a catena per cui si va dal rito «liminale», alla «marginalità», dalla «marginalità» al linguaggio metaforico, dal linguaggio metaforico e simbolico verso l’«alterità» e dall’alterità verso una teologia «apofatica» di grande significato. È chiaro che a fondamento di questi parametri vi è poi una visione in cui viene rovesciato il rapporto tra vita e morte, ciò che appare evidente soprattutto nei riti di iniziazione, dove la vita è la morte e la morte è la vita nuova. Di conseguenza – senza voler essere «dicotomici» a ogni costo e senza voler spaccare il mondo in due emisferi – occorre notare che una religione è se stessa nella misura in cui dice qualcosa di «diverso», di «oltre», di «eccedente» rispetto a questo mondo. Gli stessi valori morali non sono autonomi per l’esperienza religiosa, ma hanno un fondamento «eteronomo». Occorre in qualche modo «saltare fuori dal mondo» per capire il senso religioso, occorre capire che «il senso del mondo è fuori dal mondo»39 e i riti di liminalità vengono suffragati nella storia dal mondo della marginalità e dal distacco; ora, proprio in ordine a questo distacco si creano le condizioni per il superamento e l’«oltrepassamento». Ma si potrebbe forse a questo punto dedurre allora qualcosa di importante e di essenziale per l’esperienza religiosa? 39
Cf. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 6. 41.
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Da questo punto di vista, che raggiunge un guadagno fenomenologico non secondario, potremmo dire con sicurezza che tutti coloro che lavorano direttamente o indirettamente per una religione o un cristianesimo che sia in continuità con la vita, prima o poi si troveranno a lavorare «contro» il senso della religione e della stessa vita cristiana. Oggi – per esempio – più di ieri ci rendiamo conto che la secolarizzazione è stato un processo contrario alla religione e al senso religioso nel suo insieme nella misura in cui voleva saldare il mondo con un senso religioso intramondano. L’esperienza religiosa infatti non nasce e non si acquieta se non nella consapevolezza di un «altrove» che non sta in un continuum rispetto a questa vita e a questo mondo. «Liminalità» e «apocalittica» sono perciò i due estremi, quasi due poli reciproci che fanno da sentinella alla verità della religione. Il rito, che ha bisogno di un minimo di liminalità per essere tale, a questo livello dovrebbe ricordare a tutti noi su che cosa si fonda il «senso religioso» e «rituale»: si radica sul fondamento di «parole», «gesti», «azioni», «condizioni» e «precondizioni» che sono «simboliche», «metaforiche», «estemporanee», «eccedenti», «sporgenti», «anomali» e «a-normali» rispetto alla «normalità» della vita. Se perciò il rito fosse incautamente portato a perdere questa sua caratteristica «anomala» per essere più vicino alla gente e alla vita quotidiana, rischia di spegnere il senso religioso stesso. È come se perdesse la sua natura: è come se il sale divenisse insipido. Non servirebbe più a nulla. La religione fuori dalla liminalità/marginalità non avrebbe più forza e vitalità e sarebbe destinata a morire.
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ELEMENTI FONDAMENTALI DELLA LIMINALITÀ DEL RITO Roberto Tagliaferri
1. Premesse In questi ultimi anni la ricerca sul rito ha ripreso vigore su alcuni versanti lasciati in ombra dalla riforma liturgica del Vaticano II. Finora sembrava che l’azione teandrica si esaurisse nella riproposizione della dimensione teologica e della dimensione partecipativa del popolo di Dio. I risultati pastorali poco avvincenti denunciano un male oscuro nella liturgia, che non si riesce a diagnosticare, nonostante le molteplici analisi, perché forse sfugge ciò che del rito «resta ancora non compreso nella sua profondità»1. Vi sarebbe cioè nel rito un’eccedenza rispetto alla sua conoscenza esplicita perseguita, un’eccedenza di diverso ordine rispetto alla significazione dottrinaria, che «coopta l’evento fondante» e lo ripropone intensificato alla coscienza del fedele. I meccanismi, che sovrintendono a questa potenza del rito, rimangono in larga misura sconosciuti e disattesi, e invocano un supplemento di indagine. Due stagioni fa l’Istituto di Liturgia Pastorale ha approfondito la natura ambigua e nascosta del rito nel rapporto fra immutabile e mutabile, fra ripetizione e rinnovamento, in questa altra occasione si punta la lente sulla liminalità, altro carattere fondamentale occultato nella attuazione della riforma. Liminalità e ripetizione sono come i due polmoni dello stesso organismo rituale. Victor Turner addirittura sostiene che la 1 A.N. Terrin, Introduzione, in La natura del rito. Tradizione e rinnovamento, a cura di A.N. Terrin, EMP - Abbazia di Santa Giustina, Padova 2010, 8.
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ripetizione sia essa stessa una forma liminale. Non si tratta quindi di un connotato di poco conto, di cui si possa fare a meno. Nella conclusione della mia relazione al convegno di Torreglia 2008 ho espressamente indicato la dinamica liminale come condizione dello scambio simbolico tra ordine e disordine, fra istituzione e carisma2. Dire rito è dire liminalità. La liminalità è tema centrale per chi si occupa di rito. Non c’è antropologo, esperto di rito, che non metta in luce questo aspetto inerente alla sua stessa essenza. È diventata classica ormai la definizione di Raymond Firth: «Il rituale può essere considerato come una svalutazione simbolica della situazione “reale” [...], una sorta di “comunicazione frammentaria”. Può essere inteso anche come una specie di travestimento simbolico, una formulazione che allude indirettamente alla “realtà”, non esponendola ma evadendone o rappresentandola diversa da come è»3. Il termine, che esprime il margine, la soglia, il frame, indica una «condizione di mezzo», l’«in between», il punto di passaggio da una situazione all’altra, o meglio il posizionarsi scomodo né da una parte né dall’altra, l’indugio di sospensione tra due mondi, tipico di ogni cerimonia religiosa. Già Arnold van Gennep nel 1909 indicava questo elemento come la base di ogni rito: «È questa la situazione che designo col termine di margine, e uno degli scopi di questo libro è quello appunto di dimostrare che questo margine ideale e materiale al tempo stesso si ritrova in forme più o meno accentuate in tutte le cerimonie che accompagnano il passaggio da una situazione magico-religiosa o sociale a un’altra»4. La sottolineatura più o meno marcata della 2 «Se la Chiesa intende affidare la novità del Vangelo non solo al potere della tradizione e della dottrina, ma ritrova il coraggio della “via rituale” per il cambiamento, deve esporsi al pericolo dello scambio rituale tra ordine e disordine. Deve riscoprire il potere della magìa, come potere non deciso dall’uomo, ma derivante dalla capacità di abitare la soglia, di scambiare i margini per non mettere la verità nella posizione statica del sapere saputo. Solo questo potere crea innovazione. Ora bisogna riflettere seriamente sui meccanismi del rito di produrre novità attraverso lo scambio di livelli, di margini, come puro e impuro». R. Tagliaferri, Carisma e istituzione. La liturgia come istituzionalizzazione del carisma, in La natura del rito, 123. 3 R. Firth, I simboli e le mode, Laterza, Bari 1977, 160. 4 A. van Gennep, I riti di passaggio, Boringhieri, Torino 1981, 16.
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soglia, a seconda delle caratteristiche e degli stili celebrativi, non consente a nessun rito di evaderla. Infatti ogni rito tende a produrre un «salto» da un confine all’altro. Agisce quindi in senso disgiuntivo perché separa un mondo da un altro e contemporaneamente contribuisce a trovare i collegamenti, a congiungere due ordini diversi. È il meccanismo dell’atto di simbolizzazione perché mette in relazione due realtà eterogenee. In se stesso non è nulla, è solo il tramite di collegamento. Il limen non è il fine del rito, ma una metodica per raggiungere i suoi obiettivi. Impedisce la sovrapposizione invasiva di un mondo su un altro. È come una membrana cellulare, che mentre tende ad alimentare l’organismo mettendolo in comunicazione con un mondo esterno, regola il flusso con meccanismi elettrolitici per ristabilire l’equilibrio e la compatibilità tra le due zone. Il rito è un fenomeno liminale, che interrompe e apre il circuito come un interruttore di corrente. La mia personale vicenda di studio sulla liturgia è rimasta fin da principio colpita da questo aspetto di «violazione del mondo»5 operato dai riti perché essi agiscono in maniera contraria alla nostra mentalità ordinaria, intenta a trovare le connessioni e le omologie con la vita di ogni giorno. Invece il rito distacca, separa, crea polarità col mondo quotidiano, non per smentirlo e condannarlo eticamente in vista di una nuova condotta, ma per allargare la nostra percezione. La liminalità infligge al senso comune una smentita per rendere disomogeneo il mondo sacro dal mondo profano. L’allarme scatenato dal rito impedisce la omologia tra Dio e l’uomo e contemporaneamente produce un effetto contrario, cioè la trascrizione simbolica dell’infinito nell’orizzonte del finito. Così la liminalità interrompe e quindi separa due zone incommensurabili, ma diviene anche la condizione di possibilità della loro comunicazione. I riti usano diverse strategie per produrre la liminalità, a seconda della loro classificazione e a seconda dei contesti culturali6. Non vi è una metodica unica. Le tradizioni religiose si sono Cf. R. Tagliaferri, La violazione del mondo. Ricerche di epistemologia liturgica, C.L.V. - Edizioni Liturgiche, Roma 1996. 6 Ivi, 153-154. 5
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sbizzarrite nel suggerire sempre nuovi meccanismi eccettuativi. L’importante è che nel rito venga spezzato il flusso dell’ordine del mondo, con nessun'altra intenzione che di accedere al mistero. La riforma del concilio Vaticano II nel tentativo di eliminare «gli elementi meno rispondenti all’intima natura del culto divino» ha indubbiamente sfoltito la liturgia dai rami secchi e ha immesso nuova linfa per far risplendere la nobile semplicità della tradizione più autentica, tuttavia sul versante della liminalità ha dimostrato un certo imbarazzo antropologico. La liminalità infatti è stato l’aspetto rituale più faticoso da integrare nel culto cristiano. La storia della liturgia documenta con dovizia di particolari il doppio binario nella considerazione della liminalità. Da una parte ha sentito il bisogno di immettere alcuni elementi liminali come il riposo festivo, l’abito rituale, il digiuno, la penitenza, ecc., d’altra parte ha ingaggiato una dura lotta contro le pratiche anomiche dei riti «pagani», ritenute inammissibili per esigenze morali e sopravvissute nelle feste popolari «laiche» come il carnevale o il capodanno. Il Vaticano II, attentissimo nel ridare spessore antropologico all’azione liturgica restituendo dimensioni atrofizzate come l’assemblea, la ministerialità, la parola scritturistica, non ha riservato altrettanto interesse per il momento liminale. Si potrebbe dire che la liminalità rituale rappresenti il grande oblio della riforma, peraltro perfettamente comprensibile a partire da un certo razionalismo rituale, che ha ispirato i riformatori. Legando la fruizione spirituale alla partecipazione consapevole, pia e attiva (SC 48), il concilio ha pensato di ridare spessore alla preghiera della chiesa sul modello comunicativo della comprensione dottrinale dei testi eucologici e biblici e della coralità dell’atto pubblico. Non ha immaginato che il linguaggio simbolico del rito potesse comunicare in modo speciale le realtà divine, utilizzando meccanismi di smentita metodica della semantica quotidiana. Gregory Bateson ha indagato questo aspetto e ha parlato di «comunicazione non-comunicativa» dei sacramenti per segnalare questa difformità7. Tuttavia ritengo che il vero impedimento a una più 7 Cf. G. Bateson - M.C. Bateson, Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro, Raffaello Cortina, Milano 1989, 127.
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attenta considerazione della liminalità rituale dipenda da una certa presunzione di incarnare una «escatologia realizzata». Pur ammettendo la condizione viatrice tra la prima e la seconda venuta del Figlio dell’uomo, tuttavia la chiesa spesso si atteggia come depositaria di una dimensione definitiva da contrapporre al mondo. Così non sembra interessata a una situazione liminale, che la riguardi nel tentativo di accesso a una prolessi dell’éschaton, perché è convinta che la liminalità stia già nel suo essere «segno di contraddizione» (Lc 2,34)8. Il problema è che la chiesa è essa stessa sottoposta alla metánoia, non può identificarsi con il regno definitivo. Non può sottrarsi alla riforma e al cambiamento per esigenza di fedeltà al Vangelo. La chiesa deve mettersi in stato di penitenza ricorrendo alla liturgia, che la consegna a uno stato di liminalità per convertirsi sempre di nuovo. Invece la liminalità, ovvero l’interruzione del flusso della vita ordinaria, è sembrato proprio l’aspetto da superare con la riforma conciliare. Comprensibilità e semplicità familiare dei riti sono apparsi i versanti più genuini da perseguire pastoralmente. I grandi temi per la formazione liturgica hanno cavalcato il tema del rapporto tra liturgia e vita perché, nonostante tutti gli sforzi, il rito conservava sempre un certo grado di estraneità dal sentire normale e quindi doveva essere sempre di nuovo addomesticato e reinventato. Così è sembrato utile a tanti pastori immettere nella liturgia nuovi riti con lo scopo palese di vincere l’estraneità e il distacco dai problemi della vita. Per creare «comunità» i fedeli non erano mai abbastanza vicini. Si dovevano reimpostare Per esempio nel tradizionale discorso alla curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi (22 dicembre 2005) papa Ratzinger, facendo un bilancio a quarant’anni dal Vaticano II, propose un’ermeneutica di continuità nella tradizione nel senso di purezza contro gli errori dell’uomo: «Non poteva essere intenzione del concilio abolire questa contraddizione del vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell’uomo. Era invece senz’altro suo intendimento accantonare contraddizioni erronee o superflue, per presentare a questo nostro mondo l’esigenza del Vangelo, in tutta la sua grandezza e purezza. Il passo fatto dal concilio verso l’età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra ragione e fede, che si ripresenta sempre in nuove forme», L’ermeneutica del concilio Vaticano II nel pensiero di Benedetto XVI, «CredereOggi» 26 (1/2006), 150. 8
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gli spazi assembleari per costruire prossimità e circolazione di flusso. Sembrava una contraddizione insanabile e un’incoerenza intollerabile l’estraneità delle persone, che si comunicavano senza nemmeno conoscersi. Il criterio della celebrazione fruttuosa era la reversibilità della preghiera nella testimonianza della vita, fino a stabilire il criterio della veracità della preghiera sulla efficacia della vita morale. Dunque risuonava davvero male l’interesse per un rito estraniante, non regolato dalla continuità con la vita quotidiana. L’attuazione della riforma è stata in linea con questa sensibilità rituale, a cui oggi si deve rimproverare una imperdonabile ingenuità nella competenza rituale. Non dovrebbe sorprendere più di tanto allora il dato sociologico, che documenta lo scarso risultato della riforma. Come si può pretendere il raggiungimento dell’obiettivo di educare allo «spirito della liturgia» se poi di fatto si occulta un suo elemento celebrativo essenziale? A meno di voler escludere la liminalità dall’essenza del rito con l’inevitabile distruzione di questo linguaggio della fede, non si può evitare che gli esiti pastorali siano deludenti. Forse questo è il punto saliente che questo convegno dovrebbe mettere a tema e dirimere: ci può essere liturgia senza liminalità? E ancora: che cosa s’intende per liminalità? È forse riducibile a un atteggiamento etico? O didascalico? O semplicemente strategico per stupire? Se al contrario definisce la natura più profonda della liturgia, come ripristinarlo? E con quali espedienti rituali? È la prima volta che l’ILP prende di mira in modo specifico questo aspetto decisivo del rito, nonostante la sua notoria sensibilità antropologica. Le ragioni possono essere diverse, ma è indubbio che su questo snodo si consuma forse il massimo di incomprensione e di divaricazione teoretica. Vorrei ricordare anche che questa problematica non si esaurisce nel dibattito interno alla teologia liturgica, coinvolge in ugual misura la catechesi della chiesa che, dopo i rovesci di un certo impianto dottrinario ed etico, ha scelto itinerari iniziatici alla fede. La netta sensazione è che non si conosca precisamente il metodo iniziatico, o meglio che non si possa procedere per via iniziatica proprio per la resistenza all’aspetto liminale. Esso rappresenta una
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pedagogia di rottura per cui l’iniziato viene destabilizzato nelle sue normali procedure e reintegrato a una vita diversa. Questo metodo è delicato perché persegue una certa deprogrammazione del neofita e questo è inammissibile in una cultura omologica e gregaristica, dettata dall’opinione pubblica mediatica. Vi può mai essere dunque una liturgia cristiana senza liminalità, che separi dal mondo e destabilizzi la vita? Questo è il problema, che chiede una risposta puntuale, non ulteriormente procrastinabile alla liturgia cristiana almeno su due fronti: il primo in relazione all’esperienza religiosa, il secondo per una celebrazione pia, fruttuosa, partecipata e desiderabile. La tesi del mio intervento tende a sostenere che senza liminalità rituale non c’è la possibilità dell’estasi in senso religioso come uscita da sé per essere riempiti da Dio e non ci può essere nemmeno l’efficacia e la gioia di celebrare la liturgia. Non importa come ottenere questo effetto di smobilitazione e di rottura simbolica. L’essenziale è che la liturgia crei uno stacco, un vuoto per accogliere la presenza del sacro, rinunciando ai normali criteri della comunicazione pubblica. Evidentemente questa linea interpretativa della riforma liturgica da una parte forza il dettato conciliare, troppo timido su questo fronte decisivo per la mediazione sacramentale, d’altra parte dichiara inammissibili le pratiche pastorali tese a funzionalizzare il rito alla morale o alle dinamiche della vita ordinaria. Bisogna domandarsi se è prudente spingere in questa direzione la riforma conciliare. Non si potrebbe presumere che stiamo assistendo a una legittima evoluzione del culto divino su un fronte più razionalistico comune all’Occidente, che affida alla lezione scritturistica e alla semantica gran parte dell’onere della memoria? Qualcuno opta per questa soluzione e dovrebbe avere il coraggio di ammettere che è in corso nella chiesa cattolica una certa «protestantizzazione» modulata sul fronte del sola Scriptura. Nulla di irreparabile o di ignobile: il dialogo ecumenico ci ha fatto apprezzare i diversi modelli di tradizione tra le chiese sorelle, peraltro già incoativamente presenti nell’età apostolica (cf. BEM pubblicato dalla Commissione Fede e Costituzione nel 1982). Non si può però, a mio modesto parere, tenere la metodica rituale della memoria, scartando alcune sue dimensioni
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essenziali, come la liminalità. Se si vuole tenere la strategia sacramentale, come Gesù del resto ha raccomandato nell’Ultima cena, non si può baipassare la simbolizzazione liminale. Vale qui l’adagio conciliare coniato per la chiesa e adattato alla liturgia che recita: «Liturgia semper reformanda». Mi pare che su questo fronte occorra un incremento di riforma, che è legittimo per il mandato dei vescovi al post-concilio di completare e attuare le linee programmatiche di Sacrosanctum concilium. Lo schema della relazione prevede questi passaggi: l’analisi fenomenologica della liminalità del rito per evidenziarne lo stretto e imprescindibile legame. Seguirà una riflessione storica sui rapporti controversi tra liminalità e culto cristiano, fino alla riforma del Vaticano II, che sembra refrattario a sottolineare le dinamiche eversive della liturgia. Tenteremo poi di indicare alcuni elementi già presenti nella liturgia riformata, che ne scandiscono la liminalità. Infine indicheremo altri meccanismi elusivi che potrebbero entrare nella liturgia, rendendola più spiccatamente iniziatica senza esporla a pratiche troppo «ergotropiche», lontane dal suo stile misurato e ieratico. Evidentemente la mia preferenza è per un cristianesimo rituale, che affidi la memoria dell’evento fondante alla disciplina dell’arcano, contro le spinte esasperatamente razionalistiche e logocentriche.
2. La fenomenologia della liminalità rituale Lo studio della liminalità rituale ha una bibliografia amplissima, che si può far coincidere con gli studi di quanti si sono occupati di riti, perché è una dimensione troppo evidente per non essere notata. Lo sconcerto9, il salto di livello simbolico10, l’eccettuatività, l’eterotopia, l’evidenziazione teatrale11, la schismogenesi12, la Cf. R. Firth, I simboli e le mode, Laterza, Bari 1977. Cf. C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987. 11 Cf. K. Elam, Semiotica del teatro, Il Mulino, Bologna 1988. 12 Cf. G. Bateson, Naven. Un rituale di travestimento in Nuova Guinea, Einaudi, Torino 1988. 9
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marginalità13, la morte simbolica14 sono solo alcuni termini usati dagli antropologi per accedere all’essenza liminale dei riti. L’autore di riferimento tuttavia è Victor Turner, che ha fatto della liminalità uno dei punti salienti della sua riflessione sul rito. L’interesse per questo antropologo americano è accentuato per una sua riflessione sul rito e sulla liturgia cristiana all’indomani della promulgazione di Sacrosanctum concilium nel 1963. Il settimanale «Worship» gli commissionò un commento sulla riforma in riferimento agli ultimi otto anni. L’esitazione di Turner ad applicarsi alla liturgia è stata superata sia dalla sua militanza cattolica, sia dal suo desiderio di segnalare i limiti positivisti e razionalisti degli architetti della riforma conciliare. Lamenta soprattutto lo smarrimento del carattere liminale della liturgia, in quel versante più attaccato dai riformatori, che è la qualità «arcaica» dei riti. Turner scrive: «Nel rito l’arcaico è una metafora dell’antistruttura. Dobbiamo riconoscere che nel calcolo del simbolismo culturale, accanto a dei “più”, vi sono anche dei “meno” e degli “zero”. Il positivismo e il razionalismo hanno ridotto il rito e il suo simbolismo a poco più che il riflesso e l’espressione di aspetti della struttura sociale, diretti o “velati” o “proiettati”. I momenti liminali e il rito che li protegge sono le prove dell’esistenza di poteri antitetici a quelli che generano e mantengono strutture “profane” di tutti i tipi, sono una prova che l’uomo non vive di solo pane»15. La precisione e la competenza dell’attacco di Turner non possono lasciare indifferenti i teologi. Non si tratta della solita critica tradizionalista alla riforma liturgica, siamo di fronte al parere autorevole di uno dei massimi esperti di antropologia culturale dei riti, che rimprovera l’incompetenza rituale della chiesa sul versante della liminalità. L’arcaico non è sinonimo di sorpassato, di anti-moderno, di non creativo. Esso è «il capovolgimento simbolico di ciò che è utilitario, di ciò che è alla moda, e anzi, Cf. I. Goffmann, Modelli di interazione, Il Mulino, Bologna 1978. Cf. M. Eliade, La nascita mistica. Riti e simboli d’iniziazione, Morcelliana, Brescia 1980. 15 V. Turner, Simboli e momenti della comunità. Saggio di antropologia culturale, Morcelliana, Brescia 1975, 8-9. 13 14
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dell’insieme dei ruoli-status istituzionalizzati che compongono la struttura sociale». Il liminale è essenziale alla liturgia perché la esorcizza dai meccanismi alla moda e prepara il terreno al sacro. «In altre parole – continua Turner – il rito dovrebbe avere sempre e dovunque una qualità formale globalmente arcaica, ripetitiva, se è destinato ad essere veicolo di valori ed esperienze che trascendono quelli della lotta fra status, dell’affannarsi per il denaro e del self-serving». Il corsivo sul dovere del rito di essere liminale sempre e dovunque per non assimilare il sacro alla funzionalità della vita è un’osservazione di importanza capitale per la qualità di una riforma liturgica. Sappiamo, a cinquant’anni da Sacrosanctum concilium, che le cose sono andate proprio nella direzione indicata da Turner. La neutralizzazione della liminalità ha prodotto una liturgia in presa diretta con la vita quotidiana e incapace di mediare il Sacro. «Per queste ragioni molti hanno cominciato a sentire che alcuni cambiamenti liturgici, introdotti sperimentalmente fin dal 1963 nella chiesa cattolica, hanno un carattere incongruo, “inadeguato”»16. V. Turner non ha remore nel dichiarare che molti cristiani si sono ritirati dalla frequenza ecclesiale proprio per questo funzionalismo strutturale presente nella riforma liturgica. Vogliamo approfondire questa materia perché si evince che la liminalità rituale è decisiva per il destino della liturgia nella vita della chiesa. L’indagine si muoverà su due registri tra loro connessi: la liminalità dei riti e i riti liminali in senso proprio. 2.1. La liminalità dei riti In questo primo approfondimento l’attenzione cadrà sul momento liminale nel quadro complessivo della performance rituale. Ogni rito è liminale in quanto rito. Il tema in questione riguarda l’essenza del rito sotto il segno della liminalità nella lezione decisiva offerta da Victor Turner, che ha lavorato come antropologo soprattutto tra gli Ndembu d’Africa17. Ivi, 10. Cf. V. Turner, La foresta dei simboli. Aspetti del rituale Ndembu, Morcelliana, Brescia 1976. 16 17
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La liminalità, in una delle tante definizioni di Turner, «è l’inconscio dell’uomo culturale; è il punto in cui la vita della specie sfocia nella vita individuale di “superficie”»18. L’interesse per questa definizione risiede nel fatto che viene universalizzata la liminalità come un meccanismo che non riguarda solo la religione, ma anche i processi culturali, risiedendo in ultima istanza nelle stesse dinamiche adattative dell’uomo. Lasciarsi sfuggire questo nesso significa non accorgersi che nell’homo sapiens il suo vantaggio evolutivo sta proprio nel potere simbolico di scambiare la vita e la morte, cosicché in ogni dimensione di vita si deve insinuare una «rottura di livello», una «crisi» per avanzare verso zone più complesse della conoscenza e dell’esperienza del mondo dove, citando Dilthey, «la vita coglie la vita». Il termine «liminale» viene adottato da Turner dallo studio di Arnold van Gennep sui «riti di passaggio»19 e indica la fase di «margine» tra la «separazione» e la «aggregazione». Il novizio viene separato dal suo ambiente familiare, spogliato degli attributi esterni della sua posizione sociale e confinato in un luogo isolato, insieme con i suoi compagni di iniziazione, dove vive una paretiticità, una comunanza, detta communitas, o antistruttura. La situazione antistrutturale ha diverse configurazioni: o di tipo permanente e si dice «marginalità», o di tipo temporaneo e si chiama «liminalità» in senso proprio. Stati di vita permanenti in ambito religioso sono i monaci, i sacerdoti, i religiosi. Militanze nel mondo laico-sociale sono i movimenti pacifisti, ambientalisti, gli hippies degli anni Sessanta, ecc. Il tratto temporaneo della liminalità è caratteristica soprattutto dei riti, di tutti i riti. Il problema è verificare se la marginalità stabile derivi dalla liminalità temporanea, o viceversa. Turner tende a rispondere facendo derivare la liminalità rituale dalla marginalità sociale20, ma Ivi, 10. Cf. van Gennep, I riti di passaggio, 11. 20 «I rituali di inversione di status rendono visibile nei loro modelli simbolici e comportamentali categorie sociali e forme di raggruppamento che sono considerate assiomatiche e immutabili sia nella sostanza che nei rapporti reciproci». V. Turner, Il processo rituale. Struttura e anti-struttura, Morcelliana, 18 19
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la sua proposta non è poi così convincente. Mi pare più plausibile il processo inverso perché la liminalità non può diventare uno status, in quanto espone al pericolo ed è quindi instabile. Non si può stare abitualmente in una posizione «in between» perché significherebbe iscrivere l’escatologico nel tempo, l’assoluto nel relativo, il frammezzo e l’ambiguità come stati permanenti. Tale posizione è aleatoria per la sua pericolosità e deve presto essere abbandonata per non rimangiarsi il guadano allusivo di altro con una specie di possesso del divino di diritto. Non si dice che siano mancati gli esperimenti di liminalità istituzionalizzata, ma si sottolinea che col tempo rischiano di degenerare. Sia in campo sociale, sia in campo religioso gli outsider tendono a rendere stabile la liminalità con risultati di solito deludenti con il passare del tempo perché tendono a fare del loro status non un frammezzo ambiguo, ma una posizione alternativa a un’altra. A questo punto si perde il vantaggio simbolico della liminalità per accedere a un altro livello di esperienza e ci si posiziona semplicemente in alternativa col mondo precedente. L’esempio calzante viene dai movimenti alternativi alla polis della Grecia antica. Pitagorici, orfici, dionisiaci, cinici rifiutano il sistema di valori della città attraverso il «capovolgimento» sul piano alimentare. Secondo Marcel Detienne le prime due soluzioni, «che si atteggiano ad antisistema, si accontentano di capovolgere il modello politico e di condannare nella Città i comportamenti cannibaleschi che essa stessa denuncia all’esterno; quanto alle altre due che procedono all’interno del sistema politicoreligioso, esse intraprendono il ritorno del cannibalismo contro la Città, sia per distruggerla, sia per introdurvi ciò che Platone chiamerà l’Altro»21. Ma alla fine il progetto fallisce. Ecco perché non si può tenere la marginalità stabile come origine della liminalità, ma viceversa è la liminalità all’origine della marginalità, con il grave rischio di non riuscire a mantenere la posizione. Per esempio il monachesimo cristiano è nato come adesione totale a Cristo, come anticipazione escatologica in senso religioso ed è Brescia 1972, 191. 21 M. Detienne, Dioniso e la pantera profumata, Laterza, Bari 1981, 114.
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diventato spesso un’alternativa al mondo come fuga mundi con le ambiguità e i cortocircuiti di una contro-società niente affatto affrancata dai meccanismi patologici della società ordinaria. Si capisce che si vorrebbe istituzionalizzare il meccanismo di accesso al sacro rendendolo stabile con scelte di marginalità come la povertà, l’obbedienza, la verginità, ma è pressoché impossibile mantenerle nella tensione dello «in between». Nella liminalità rituale regna l’ambiguità, sono sconvolte le linee di demarcazione dell’ordine sociale ma non per creare un nuovo ordine stabile, piuttosto per accedere a un altro livello di esperienza; si ritorna in una sorta di caos primordiale per rinascere un’altra volta cambiati e in una posizione sociale più elevata. Vi è indubbiamente la ricaduta sociale in una posizione diversa ma non per smentire la precedente, piuttosto per attingere alla sorgente, che permette il salto in una nuova posizione. È interessante notare che la liminalità si esprime in modalità molto differenti nei vari riti, con trasgressioni di molteplici mondi vitali. In una tabella, redatta in altre pubblicazioni, ho proposto una tassonomia dei riti religiosi nel tentativo di raccoglierli tutti sotto il segno della liminalità22. Ovviamente le rotture di livello liminale sono diverse in ragione delle differenti situazioni vitali in cui sono implicati. Tuttavia è molto interessante constatare che non c’è rito senza una smentita della realtà ordinaria. I riti sono un «dramma sociale» in cui si mette in scena il passaggio dalla morte alla risurrezione attraverso la liminalità. «Un dramma sociale ha inizio quando l’andamento pacifico della vita sociale regolare, governata da norme, è interrotto dalla rottura di una regola che controlla una delle sue relazioni salienti»23. Allora si verifica una crisi, che ha bisogno di mezzi di compensazione, soprattutto di un’azione ritualizzata, in grado di far passare efficacemente dalla morte alla vita. La liminalità viene paragonata spesso alla morte, al ritorno in utero, all’oscurità, alla bisessualità, al deserto, all’eclissi solare o lunare. I novizi sono trattati come chi non possiede niente, neanche la dignità umana. Sono mascherati, o coperti da una piccola striscia di 22 23
R. Tagliaferri, Carisma e istituzione, in La natura del rito, 110-111. V. Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986, 167.
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tessuto, oppure nudi. Turner descrive così lo stato dei giovani iniziandi Ndembu: «Il loro comportamento è normalmente passivo o umile; è implicito che debbano obbedire ai loro maestri e accettare senza lamentarsi punizioni arbitrarie. È come se li si riducesse o li si livellasse a una condizione uniforme per rimodellarli da capo e dotarli di nuove capacità per metterli in grado di affrontare la loro nuova situazione nella vita»24. Per ottenere questi risultati si usano alcune tecniche come nel caso dei riti di insediamento del Kanongesha: la sottomissione e il silenzio, le umiliazioni, la continenza sessuale. Ottenuti i poteri di capo egli dovrà esercitare questo nuovo status per il bene della comunità. Il sacerdote così si esprime davanti al capo-eletto degli Ndembu quando emerge dall’isolamento liminale: «Ascoltate, tutti voi. Kanongesha è nato oggi alla dignità di capo. Questa argilla bianca (mpemba), con la quale saranno consacrati il capo, gli altari ancestrali e gli officianti, è per voi per tutti i Kanongesha del passato riuniti qui [a questo punto gli antichi capi vengono citati per nome]. E, perciò, tutti voi che siete morti guardate il vostro amico che è asceso [sullo scanno del capo], affinché egli possa essere forte. Egli deve continuare a pregarvi bene. Deve proteggere i bambini, deve prendersi cura di tutti, uomini e donne, perché possano essere forti e perché egli stesso sia gagliardo. Ecco la tua argilla bianca. Io ti ho investito, o capo. Tu, o popolo, devi elevare suoni di lode. La dignità di capo è apparsa»25. Il tratto fondamentale della liminalità è una conoscenza per via di esperienza. Giocando con la sua radice indo-europea, il termine «esperienza» deriva da *per-, «tentare, azzardare, rischiare», da cui deriverebbe il greco peîra, «esperienza», fonte della nostra parola «empirico». Il latino periculum significa «tentativo, pericolo, cimento», da cui experientia con l’aggiunta del prefisso ex, «fuori», che aggiunge la dimensione del «tentare, esaminare». Il greco peiráo indica un passaggio: «io passo attraverso», per cui l’esperienza è come un viaggiare che accumula esperienze attraverso il tempo. «Mediante l’esperienza 24 25
Turner, Il processo rituale, 112. Ivi, 122.
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– conclude Turner – noi “viaggiamo” con “paura” attraverso “pericoli” procedendo “sperimentalmente”»26. In questo «vivere attraverso» dei riti di passaggio si accede alla verità dell’essere uomini. Il rito è il dramma sociale in cui si esperisce l’attraversamento arrischiato e pericoloso verso nuovi confini attraverso tecniche di destrutturazione, di livellamento come l’assenza di indumenti e di nomi, l’incuria del proprio aspetto esteriore, l’indeterminazione dei sessi, l’anonimato. I novizi «sono morti per il mondo sociale, ma vivi per quello asociale»27. Turner ricorda che in un convegno dell’American Anthropological Association a Toronto nel 1972 l’antropologo Brian Sutton-Smith ha applicato un carattere della liminalità, cioè l’antistruttura, ai giochi dei bambini, scoprendo che la dinamica di ordine-disordine è fondamentale per trovare una valvola di sfogo, oppure perché «abbiamo bisogno di imparare qualcosa attraverso il disordine». Questa riflessione induce Turner a distaccarsi dal «modello gallostrutturalista» di Lévi-Strauss per cui la liminalità sarebbe caratterizzata da «regole sintattiche implicite» e quindi necessarie, e ad aderire a una visione libera e giocosa della liminalità come «scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o “ludica” dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile, per quanto bizzarra»28. Ritorna il tema della liminalità come fattore culturale decisivo che, soprattutto nei riti religiosi, dispiega il suo potenziale di rigenerazione del mondo in un’esperienza di «flusso», in cui la struttura può essere di nuovo trasformata o «liquefatta» nella communitas29. Sicuramente questa esperienza di «flusso» dei riti liminali merita una attenta considerazione per gli elementi caratterizzanti che ne fanno un’esperienza unica e desiderabile. Sei elementi la identificano: Turner, Dal rito al teatro, 42, 43. Ivi, 59. 28 La citazione completa recita: «Io sono del parere che l’essenza della liminalità, la liminalità par excellence, consista nella scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o “ludica” dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile, per quanto bizzarra», ivi, 61. 29 Cf. ivi, 110. 26 27
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— nel flusso non c’è dualismo; c’è fusione tra azione e coscienza; — questo è possibile perché l’attenzione è concentrata su un
campo di stimoli limitato; — nel flusso c’è l’oblio di sé, la perdita della propria identità ma non della propria coscienza, che invece è accresciuta nelle dimensioni cinestesica e intellettuale, mentre si contrae quella riflessiva; — nel flusso la persona è padrona delle proprie azioni e del proprio ambiente. Sa di farcela anche nella situazione di pericolo. I piaceri del flusso sopravanzano le sensazioni di pericolo e di difficoltà e di rischio; — nel flusso vi sono esigenze di azioni coerenti, non contraddittorie. Nella vita quotidiana la critica alza un velo problematico sulle azioni, nel flusso rituale vi è una «volontaria sospensione dell’incredulità». Roy Rappaport direbbe che nel rito si produce efficacemente l’accettazione pubblica dei valori condivisi; — il flusso non ha bisogno di ricompense. È autotelico, vive del benessere e della felicità di eseguirlo30. Forse per questa mancanza di flusso le liturgie cattoliche hanno sempre bisogno di incentivi e di piccoli ricatti per farsi accettare. Ma la domanda più scottante riguarda il destino del rito e della liminalità nell’Occidente post-moderno e nella autocomprensione di «escatologia realizzata» nella chiesa. Rimandiamo più avanti un tentativo di risposta, che manterrà un margine di ambiguità per la compresenza degli opposti. Sta di fatto che lo stesso Turner segnala il problema di una caduta del liminale nel liminoide nelle società moderne. «Nelle società postindustriali, dove il rito fu soppiantato dall’individualismo e dal razionalismo, l’esperienza del flusso si trasferì principalmente nei generi di svago: arte, sport, giochi, passatempi, ecc.»31. La festa è diventata week-end, il gioco rituale è diventato sport, il pericolo liminale ha un surrogato nello sballo del sabato sera; la violenza è diventata «crisi sacrificale» senza rito che la metamorfizza. 30 31
Cf. ivi, 106-109. Ivi, 110.
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2.2. Il pellegrinaggio fenomeno liminoide Secondo Turner il pellegrinaggio si può accostare ai riti di passaggio proprio per la caratteristica liminale, anche se registra diverse varianti. I pellegrini abbandonano la vita quotidiana e si incamminano per agros verso un «centro sacro» situato normalmente nei confini della struttura profana32. Proprio l’aspetto periferico può essere visto come una dimensione spaziale della liminalità. Grazie al viaggio che li ha condotti fuori dalla struttura sociale, i pellegrini hanno accesso a un luogo e a un momento «dentro e fuori dal tempo», dove sperano di avere un’esperienza diretta del sacro attraverso azioni simboliche e soprattutto attraverso la mediazione dei morti. Nel saggio Death and Dead in the Pilgrimage Process Turner analizza il ruolo dei morti nei riti di passaggio e nei pellegrinaggi e sostiene che essi esercitano una duplice funzione: il mantenimento della struttura sociale e la mediazione col mondo invisibile33. Anche nel cristianesimo i primi centri di pellegrinaggio furono le tombe dei martiri, considerati come luoghi dove c’è una comunicazione particolare tra cielo e terra attraverso la mediazione di preghiere, di miracoli e di apparizioni. Ma in tutta la storia della chiesa, la mediazione dei santi e dei morti è uno dei punti fondamentali della religiosità popolare. La pratica di pregare i morti e per i morti è solitamente fondata sul dogma della «comunione dei santi». 32 Cf. V. Turner, Dramas, fields, and metaphors: symbolic action in human society, Cornell University Press, Ithaca and London 1974. 33 «Questa funzione concerne, da una parte, il mantenimento della struttura sociale del sistema nella sua forma caratteristica, con le sue leggi morali e giuridiche, agendo come sanzione punitiva contro le trasgressioni gravi dei principi fondamentali giuridici ed etici che determinano la forma e il profilo del sistema. D’altra parte i morti sono in relazione con due modalità extrastrutturali, forse anti-strutturali: la modalità “biologica” (o “naturale”) e la modalità “spirituale”. Nella prima modalità [...], i morti sono intenti a fare la mediazione tra il mondo invisibile, ideale, dei paradigmi e degli archetipi e il mondo sensibile del sesso e dell’economia, della produzione, distribuzione e consumo delle derrate. Se i morti sono onorati, conosciuti e riconosciuti, possono accordare benefici in modo indifferenziato e secondo le differenze strutturali», V. Turner, Death and Dead in the Pilgrimage Process, in Religion and Social Change in Southern Africa, David Philip & Rex Collings, Cape Town 1977, 112.
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Come nelle società tribali, i morti sono i mediatori tra domini normalmente separati e/o opposti, come per esempio «la nascita e la morte, la struttura e la comunità, l’uomo e la divinità, la cultura e la natura, il mondo visibile e il mondo invisibile, il passato e il presente, il mondo umano e il mondo animale e molte altre diadi fondamentali»34. Come nei riti di passaggio, il pellegrinaggio comporta anche una destrutturazione sociale con un’omologazione nel modo di vestire, nei ruoli, nei comportamenti, in un clima di cameratismo e di fraternità che elide le differenze e le demarcazioni. Fondamentale è il viaggio. Turner scrive: «Il rapporto col corpo del pellegrino è, per lui, ancora più impressionante, nel dominio simbolico, che i simboli visivi e auditivi che dominano le liturgie e le cerimonie religiose strutturate dai calendari, qui egli osserva, là egli partecipa. Il pellegrino diventa esso stesso un simbolo totale, veramente, un simbolo di totalità»35. Come si vede i contatti tra pellegrinaggio e riti di iniziazione sono molteplici e legati alla liminalità, ma non esonerano dal riscontro di notevoli differenze. La più marcata riguarda la volontarietà dell’azione libera dei pellegrinaggi, a differenza dell’azione iniziatica subita. Turner sottolinea questo aspetto anche sul versante spaziale: «Il limen del pellegrinaggio è caratterizzato dal movimento del viaggio, mentre quello dell’iniziazione è la stasis (la reclusione) dei novizi in uno spazio fissato, sacro. Il primo liminalizza il tempo, il secondo lo spazio; il tempo è qui legato alla volontà libera, lo spazio all’obbligo»36. È per questo motivo che il pellegrinaggio viene collocato piuttosto tra i fenomeni liminoidi 37. I fenomeni liminali infatti sono estremamente seri, pervasi di dovere, mentre, come vedremo nel prossimo paragrafo, i fenomeni liminoidi sono divertenti, giocosi, pervasi di volere38. Ivi, 126. Turner, Dramas, fields, and metaphors: symbolic action in human society, 207-208. 36 Turner, Death and Dead in the Pilgrimage Process, 117. 37 V. Turner - E. Turner, Image and pilgrimage in Christian culture: anthropological perspectives, Columbia University Press, New York 1978, 1-38. 38 Cf. Turner, Dal rito al teatro, 84. 34 35
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Il pellegrinaggio è fenomeno registrato in tutte le religioni, che ha una caratteristica comune: s’allontana dalla società istituzionalizzata e va verso la communitas. Turner cita l’esperienza di Malcom X alla Mecca: «L’amore, l’umiltà e la vera fraternità erano come un sentimento fisico, dappertutto dove mi aggiravo... tutti mangiavano come se fossero Uno (la commensalità è qui sottolineata), e dormivano come se fossero Uno. Ogni elemento dell’atmosfera del pellegrinaggio accentuava l’unità dell’uomo sotto il Solo Dio... Io non sono mai stato testimone d’una tale ospitalità sincera e dello straordinario spirito di vera fraternità, come è praticato qui dalla gente di tutti i colori e razze, in questa terra antica e santa, la terra di Abramo, di Maometto e di tutti gli altri Profeti delle Scritture»39. Vi è una convergenza su questo aspetto della communitas universale prodotta dai pellegrinaggi in tutti i luoghi e in tutti i tempi, tanto che le ortodossie diventano reticenti. L’istituzione religiosa, anche cattolica, è sospettosa verso la communitas spontanea e tenta di controllare queste manifestazioni40, che tuttavia proliferano determinando un compromesso sempre precario tra communitas e struttura. In sintesi, secondo Turner, «il pellegrinaggio ha qualche attributo della liminalità dei riti di passaggio: la liberazione dalle strutture mondane; l’omogeneizzazione degli statuti, la semplicità dei vestiti e della condotta; la communitas; l’ordalia, la riflessione sul senso dei valori fondamentali religiosi e culturali; la proclamazione ritualizzata delle corrispondenze tra i paradigmi religiosi e le esperienze umane di parte; l’emergenza della persona integrale a partire dalle molteplici persone; il movimento da un centro mondano verso una periferia sacra, che da una maniera transitoria (transiently), diventa centrale per l’individuo, un axis mundi della sua fede; il movimento stesso, come simbolo di communitas, che cambia col tempo, contro la stasis che rappresenta la struttura; l’individualità affermata contro il contesto istituzionalizzato, e così di seguito. Ma poiché il pellegrinaggio Turner, Dramas, fields, and metaphors, 204. Cf. V. Turner - E. Turner, Image and pilgrimage in Christian culture, 32 e 191. 39 40
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è un fenomeno volontario e non un meccanismo sociale obbligatorio per fissare la transizione d’un individuo o d’un gruppo d’uno stato o d’uno statuto verso un altro all’interno della sfera mondana, il pellegrinaggio è forse meglio conosciuto come liminoide o quasi liminale, piuttosto che liminale nel senso di van Gennep»41. 2.3. Liminale e liminoide In precedenza si annotava che nel mondo moderno la secolarizzazione del rito ha sviluppato una diversa liminalità, che Turner chiama liminoide, nel senso di svago. Molti sono i generi di svago: il teatro, il balletto, l’opera, il cinema, il romanzo, la poesia stampata, le mostre d’arte, la musica classica e il rock, i carnevali, i cortei, gli avvenimenti sportivi, ecc. «La disintegrazione è stata accompagnata dalla secolarizzazione. Le religioni tradizionali, i loro riti spogliati di gran parte della loro ricchezza e dei loro significati simbolici precedenti, e dunque della loro capacità trasformatrice, sopravvivono nella sfera dello svago, ma non sono riusciti ad adattarsi bene alla modernità»42. Il liminoide è una sopravvivenza del liminale perché ne adombra i caratteri, ma non l’efficacia. Il liminale infatti è un'autoimmolazione trasformatrice dell’ordine. «La realtà compie una immersione sacrificale nella possibilità e ne emerge come un diverso genere di realtà»43. Non si tratta di una lotta manichea fra ordine e disordine, ma c’è invece «un’incongruenza qualitativa» fra i contrari coinvolti. Il rito è produttivo, è performance, rappresentazione e non insieme di regole o di rubriche. «Le regole “incorniciano” il processo rituale, ma il processo rituale trascende la sua cornice»44. Eseguire un dramma, una performance significa generare qualcosa di nuovo senza precedenti. Non è un’illusione, è un’azione trasformatrice. Senza la liminalità il rito scade in cerimonia, in rituale secolare. La fase liminale è l’elemento Ivi, 34-35. Turner, Dal rito al teatro, 155. 43 Ivi, 152. 44 Ivi, 145. 41 42
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essenziale, anti-secolare del rito religioso. «La cerimonia indica, il rito trasforma» attraverso la liminalità45. Mi pare molto istruttiva questa distinzione di Turner capace di gettare luce anche sulla crisi della liturgia cattolica. La riforma liturgica, o meglio la sua applicazione post-conciliare, ha forse disinnescato il potere del rito, trascinandolo verso traguardi liminoidi, secolarizzati? Anche di questo interrogativo daremo ragione più avanti, ma è indubbio il tentativo razionalizzante non coltivando nessuna fiducia sul potere del rito. Nell’Occidente infatti è rimasta pressoché inalterata la mentalità dualistica agostiniana, che distingue il vero culto interiore, dal culto esteriore, che è solo segno di quello interiore. Sono rimaste le procedure liminali, ma senza anima e quindi sono diventate liminoidi. L’-oide deriva dal greco -eidos, forma, modello e significa «rassomigliante a». Il liminoide assomiglia al liminale ma è deprivato della sua efficacia46. Questa operazione culturale ha causato danni enormi specialmente all’Occidente europeo sia sul versante sociologico che su quello religioso. La mancata elaborazione dei drammi sociali, con la conseguente metamorfizzazione liminale dei momenti di crisi, ha scatenato la violenza senza ritorno, mantenendo i sistemi collettivi in uno stato permanente di fibrillazione. Non è difficile trovare sui giornali le notizie di svaghi liminoidi finiti male. Sul fronte religioso la deriva rituale con il misconoscimento del potere liminale ha prodotto un cristianesimo individualista e dogmatico, autocentrato sulla sua verità definitiva, che rischia continuamente la tentazione fondamentalista. Di qui il giudizio senza appello di Turner: «Se si vuole rendere sterile o castrare una religione, la prima cosa da fare è abolire i suoi rituali, i suoi processi di generazione e di rigenerazione»47. Programma eseguito dalla modernità con scrupolo e dedizione non tanto dai detrattori del cristianesimo, ma dai suoi ministri deputati. È probabile quindi che dietro al problema della liminalità rituale si possa nascondere una qualche verità essenziale inopinatamente smarrita od occultata. Ivi, 147. Cf. ivi, 68. 47 Ivi, 156. 45 46
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2.4. Liminalità e pericolo rituale Un aspetto fondamentale della liminalità nelle culture tradizionali, compreso il mondo biblico, è il pericolo del rito proprio perché, eliminando i confini, espone l’uomo al rischio della contaminazione, fino alla perdita della vita. Chi tocca l’arca della alleanza muore, chi vede Dio muore, chi tocca il cadavere, oltrepassando il limite tra morte e vita nei riti funebri, rischia di cadere vittima. Nella tradizione Sara del Ciad quando uno dei coniugi muore, si attiva una situazione di impurità e di maledizione. Questo è il motivo per cui il coniuge, che si era preso cura in maniera intima e particolare del/della paziente prima di occuparsi del cadavere, ha bisogno di un rito d’isolamento e di raccoglimento più lungo degli altri per purificarsi. Le persone e le cose entrate in contatto con i morti sono contaminate e la persona più colpita è il/la vedovo/a che ha condiviso la vita intima con il congiunto. La persona vedova diventa impura, intoccabile (nje siroe) per i due mondi: per il suo rapporto con il coniuge del mondo dei morti-viventi e per il suo rapporto con la famiglia vivente. Essa non partecipa alla vita della comunità: non va al mercato, non si reca alla piazza del raccoglimento funebre ed evita di entrare nel campo di qualcuno. Mangia da sola e gli utensili non sono condivisi. Chi entrasse in contatto con lei rischierebbe una grave malattia la cui guarigione richiederebbe una serie di riti da parte di una persona vedova. Lo stato della persona vedova è contagioso e le persone coniugate evitano d’entrare in contatto con lei per paura di perdere a loro volta il proprio coniuge. Se entrasse in un campo, le piante si contaminerebbero e non darebbero frutto48. La contaminazione rituale dipende dall’idea che tra morti e vivi vi siano dei contatti. Bisogna evitare che un altro ordine dilaghi nella vita altrimenti la corrompe e la distrugge. Il problema della liminalità diventa allora drammatico perché sembra quasi che non se ne possa uscire, con le conseguenze terribili che ne vengono. La cancellazione o l’attraversamento dei margini tabuizzati può diventare 48 J.-P. Tolna Djimasbeje, I riti funebri presso il popolo Sara del Ciad (tesi di licenza all’Istituto di Liturgia Pastorale 2009), 47.
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sia possibilità di comunione col sacro, sia pericolo di rimanervi intrappolato e schiacciato. Non solo i riti funebri o di vedovanza creano contaminazione, ma i rituali in genere sono sempre apparsi pericolosi, per cui erano isolati tra i riti d’ingresso e i riti di congedo. Quello che nella liturgia cristiana oggi è vissuto normalmente come un’accoglienza e un saluto quasi per assecondare le buone maniere e per mettere i fedeli a loro agio, nella tradizione aveva il significato di spergiurare una situazione di grave pericolo. L’uomo che siede a mensa con Dio deve avere l’abito adeguato, deve avere una lingua da iniziato e soprattutto quando esce dalla familiarità col sacro deve stare attento a non rimanere permanentemente adescato. Eppure il pericolo, ovviato con sbarramenti tabuizzanti e interdizioni, è in funzione della rigenerazione. È come se l’ordine del mondo venisse disorganizzato dal rito, diventando pericoloso per l’uomo, ma il temporaneo caos crea la condizione per un mondo nuovo, riorganizzato su nuove basi. Nelle cerimonie di rinnovamento si incorre spesso nella contaminazione49. Anche nel mondo biblico nel rito l’abominio è sorgente di terribili poteri (cf. Levitico, Numeri, Deuteronomio). I rituali cristiani odierni non sono più pericolosi perché non scambiano e non trapassano linee di forza, ma si assestano sul già dato per ribadire ideologicamente la dottrina codificata. Invece il rito dovrebbe sempre essere pericoloso perché «riconosce la potenza del disordine»50. Attraverso il rito l’individuo può dominare il pericolo perché gli crea una zona franca, diver«La contaminazione è un tipo di pericolo che non ha probabilità di verificarsi, ad eccezione del caso in cui siano chiaramente definite le linee di struttura del cosmo o della società [...]. Una persona responsabile di contaminazione è sempre in torto. Essa ha prodotto delle condizioni non giuste o semplicemente ha varcato dei confini che non avrebbe potuto varcare, e questo sconfinamento è cagione di pericolo per qualcuno. Contaminare, a differenza della stregoneria e del maleficio, è una capacità che gli uomini condividono con gli animali; infatti la contaminazione non deriva semplicemente dagli uomini. La contaminazione si può trasmettere intenzionalmente, ma l’intenzione non è importante per gli effetti che provoca – è più facile che la contaminazione si verifichi inavvertitamente», M. Douglas, Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù, Il Mulino, Bologna 1975, 175. 50 Ivi, 149. 49
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sa dall’ordinario. Tuttavia il rito non è un rifugio rassicurante, al contrario permette l’andirivieni sulla linea di demarcazione tra puro e impuro, tra ordine e caos per il rinnovamento del mondo. Nessuna esperienza è tanto bassa da non venire assunta dal rito e trasfigurata51. La questione centrale è che spargimenti di sangue, incesti e antropofagia, secrezioni di orifizi, sporcizia, margini e quant’altro possono essere simboli di pericolo e di potere proprio per la proprietà del rito di trapassare le linee di ordine e disordine per la rinascita. Nei punti vulnerabili dei confini l’ordine può essere attaccato dal disordine ed essere contaminato. Così il rito mostra sempre due facce: una rassicurante e l’altra traumatizzante. Quando il rito sembra concedere un rifugio sicuro contro i terrori del mondo, improvvisamente si impenna e diventa agghiacciante come nell’assassinio rituale con cui i Dinka danno la morte ai loro maestri fiocinatori quando sono vecchi. Il potere del rito non è solo una fuga dalla necessità, ma è un potere di scelta di sfuggire all’ordine del mondo. La magia del rito rivela così la sua più intima natura, che non sta nel controllo del mondo e degli spiriti, ma nella capacità dell’uomo di sfuggire ai propri meccanismi adattativi per esporsi al rischio della morte. «Se c’è la tentazione – conclude M. Douglas – di considerare il rituale come una lampada magica da strofinare per ottenere ricchezze e poteri illimitati, il rituale mostra l’altro lato della medaglia. Se la gerarchia di valori è brutalmente materiale, essa viene intaccata in modo drammatico dal paradosso e dalla contraddizione»52. Come si acquistano questi poteri nel rito? Quali le tecniche messe in atto dal rito per accedere nella zona pericolosa e tabuizzata dell’attraversamento delle linee tra ordine e disordine per l’innovazione? Il meccanismo fondamentale del Framing rituale è la ripetizione. Il rito è ciò che è conforme all’ordine. La ripetizione è semiogenetica perché lo scambio del Framing per essere creativo deve avvenire tra un elemento caotico e un elemento rigido. Se entrambi i lati del confine simbolico sono innovativi non vi può essere creatività inedita, ma un margine 51 52
Cf. ivi, 177. Ivi, 267.
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semplicemente rispecchierà l’altro. Se la novità del rito è organizzata dalla creatività nel porre l’azione, il nuovo che ne esce è già predeterminato e quanto meno trascina su di sé tutta l’attenzione dei partecipanti. Invece la ripetizione dei gesti rituali fa scivolare via ogni autocompiacimento sulla performance e fa convergere tutta l’attenzione sulla potenza che si genera. La tecnica estatica dei riti tradizionali provoca lo svuotamento del Sé attraverso il ritmo ossessivo della danza e del tamburo finché la potenza diventa signora del fedele in balìa degli spiriti. I riti ecclesiali hanno perduto la loro qualità «magica», ossia non sono più in grado di produrre novità perché sono deprivati di potenza sacrale a favore della dottrina. Così l’innovazione può venire solo dalla continua invenzione di nuove soluzioni rituali contro la ripetizione. L’inevitabile conseguenza è la mancanza di novità perché la presunta creatività non è altro che una variabile già codificata. Inoltre il rito diventa opaco, intransitivo, non scambia le linee di contatto, non ha nessuna pericolosità e serve solo come cinghia di trasmissione di comportamenti morali, di ideologie religiose o di dottrine sature senza sporgenza sull’alterità di Dio. Non era così invece nella ritualità tradizionale. Sebbene tutta la tradizione biblica sia attraversata dalla tensione tra «modello sacrificale» e «modello profetico» della fede, oggi ha prevalso il secondo e si è smarrita la pericolosità del rito divenuto rassicurante e poco attraente.
3. La liminalità nella liturgia cristiana In questo paragrafo intendo confrontare la problematica dell’essenza liminale del rito in senso fenomenologico e storicoreligioso con la liturgia cristiana. Si può dire che il rito cristiano abbia nella sua intima natura la liminalità? Oppure si deve convenire che la liturgia cristiana ha messo fine alla trasgressione in nome di un’escatologia realizzata, che non ha più bisogno di conversione, se non in senso morale? Se è così, si può immaginare una liturgia che non sia liminale e che mantenga le caratteristiche della mediazione rituale della fede?
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L’indagine fenomenologica ha aiutato a individuare la liminalità nel senso di «metodico sconcerto» della vita ordinaria operato dal rito per immettere i fedeli in un altro ordine di grandezze, del tutto dissimile dai paradigmi ordinari della vita. Senza questo aspetto di marginalità il rito non attiva la percezione del sacro e fallisce il suo alto compito di istituzionalizzazione della memoria dell’evento fondante. La liturgia cristiana, che agisce ritualmente, dovrebbe custodire questo meccanismo eterotopico non tanto per obbedire a un quadro formale dettato dall’esterno, ma per rispettare il gioco linguistico in cui opera. Bisogna adeguarsi alle regole grammaticali e sintattiche di un qualsivoglia linguaggio se si intende comunicare. Nessuno le ha inventate, ma tutti sono tenuti a conformarsi. Lo stesso concilio Vaticano II ha riconosciuto questo principio basilare di riforma «qualora si siano introdotti elementi meno rispondenti alla intima natura della liturgia stessa» (SC 21). Nello stesso paragrafo si dice addirittura che la riforma deve distinguere la «parte immutabile, perché di istituzione divina» e le «parti suscettibili di cambiamento». L’esegesi del testo conciliare dà adito a diverse interpretazioni, ma non sembra plausibile attribuire alle parti immutabili solo il livello contenutistico rivelato. Sembra che a esse vadano aggiunte anche le dimensioni rituali adottate da Gesù stesso nel memoriale pasquale. Se l’esegesi non si irrigidisce in un fondamentalismo biblico, che riconosce solo la ritualità testimoniata dalla Sacra Scrittura, ma accetta il criterio ampio che la memoria di Cristo si esprime ritualmente, allora la problematica della liminalità come essenza del linguaggio rituale ritrova la sua piena legittimità. La storia del culto cristiano documenta in modo estremamente significativo la delicatezza del tema in un andirivieni di episodi controversi tra adozione di meccanismi liminali e condanna di sequenze rituali anomiche. La ricostruzione di alcuni di questi capitoli di storia della liturgia ci autorizzerà a trovare alcuni criteri per la riformabilità della liturgia e ci aiuterà a fare un bilancio della riforma del Vaticano II. A un primo approccio sembra che la riforma conciliare abbia trascurato la dimensione liminale. Lo stesso programma di «aggiornamento» di Giovanni XXIII sembrava appoggiare una linea di riforma, teso a trovare
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le compatibilità tra liturgia e sensibilità moderna. Il tema centrale della «partecipazione liturgica» con la traduzione in vernacolo dei testi e delle letture bibliche, nonché con le innovazioni architettoniche tese a limitare le distanze spaziali e le barriere comunicative, sembrano scalzare dalle fondamenta la liminalità rituale. Infine l’episodio post-conciliare della relazione omologica tra liturgia e vita per definire il senso pastorale della liturgia, depone a sfavore di un’attenzione alla liminalità rituale. La riflessione più ponderata dell’episodio conciliare tuttavia si mostra più complessa e lascia trasparire molte sensibilità liminali: dalla riscoperta dell’iniziazione cristiana, all’approfondimento della festa nel giorno del Signore. Sembra che il tema in questione sia ancora in fase di allestimento. D’altra parte bisogna ammettere che nel corso dei secoli il linguaggio rituale della chiesa ha avuto più un’elaborazione pratica che teorica. La riflessione teologica cattolica si è limitata a garantire la teologicità del culto e la sua inderogabilità nel regime della Nuova Alleanza. È stato il Vaticano II che per primo ha elaborato criteri di riforma con i limiti teoretici più volte ricordati, ma anche con lo straordinario coraggio di rimodulare le dimensioni antropologiche dell’azione liturgica teandrica. I livelli di ricerca sulla liminalità liturgica riguarderanno dunque la storia nel controverso conflitto tra condanna e assunzione di elementi rituali eterotopici. 3.1. Breve sondaggio storico sulla controversa vicenda della liminalità nella liturgia Lo sfondo storico dell’imporsi del cristianesimo nel mondo antico è la sua origine ebraica e il tentativo di accreditarsi all’esterno con l’assunzione di elementi sincretistici dall’ambiente greco-romano. Va ricordato che il cristianesimo è una costola dell’ebraismo, legato alla tradizione profetica del Messia, riconosciuto da alcuni discepoli nella vicenda drammatica di Gesù di Nazaret e rigettato dal sinedrio. È nota la polemica anti-cultuale del profetiamo, in parte assunta dallo stesso Gesù (cf. Gv 4,21-24) e d’altra parte integrata nella tradizione rituale della Pasqua fatta propria dal maestro di Nazaret per memorializ-
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zare la Nuova Alleanza nella sua morte. La dura polemica tra discepoli di Gesù e sinedrio portò ad accentuare il distacco dal tempio e ad adottare sempre più una linea giudeo-ellenistica di contaminazione col mondo pagano. Ne risultò una proposta fortemente legata al kerygma e tuttavia ancorata al memoriale della Cena nel «primo giorno dopo il sabato». La sfida di questa eresia ebraica al mondo dei gentili ebbe alterne vicende: sul fronte dell’annuncio presto il Vangelo si sposò col lógos filosofico e con gli esercizi spirituali del controllo di sé della terapeutica stoica delle passioni53. Sul fronte della liturgia il memoriale eucaristico cominciò ad assumere connotati rituali, desunti da vari contesti. Il sincretismo rituale riguardò anche la dimensione liminale, ma con un’avvertenza, che rimase criterio permanente nella storia, ovvero il rigetto di sequenze rituali anomiche riferite alla sessualità. Così furono respinte non solo pratiche rituali licenziose come nei Saturnalia, ma anche linguaggi del corpo come la danza. Quali sono dunque gli elementi liminali della antica liturgia cristiana? Sono diversi e vanno contestualizzati nell’ambiente culturale circostante. Mi riferisco in modo particolare al riposo festivo della domenica, alla liminalità dell’iniziazione cristiana e alla liminalità del «quadragesimale sacramentum» della nostra conversione. Ovviamente vi sono molti altri episodi di liminalità rituale come il travestimento con le sacre vesti, il silenzio, ecc., ma si intende solo offrire una direzione alla presenza formidabile della liminalità nel culto cristiano. 3.1.1. Il riposo festivo della domenica Sicuramente il riposo festivo è un elemento liminale di grande efficacia, attestato in molte culture e tradizioni religiose. Esso ha una valenza sociale per interrompere il ritmo serrato del lavoro defatigante, ma soprattutto ha un significato religioso perché è un tuffo nell’eternità per riattivare il mondo scosso da mille problemi. Nel racconto biblico della Genesi Dio crea il mondo in sei giorni e il settimo si è riposato (cf. Gen 1). Riposo e festa vanno di pari passo e scandiscono il tempo dell’uomo. Mircea Eliade descrive bene questa commistione: 53
Cf. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino 1988.
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Ogni festa religiosa, ogni periodo liturgico, consistono nella riattualizzazione di un evento sacro avvenuto in un passato mitico, al «principio». Partecipare religiosamente a una festa, significa uscire dalla «normale» durata temporale e reintegrare il tempo mitico, riattualizzato dalla festa stessa. Ne consegue che il Tempo sacro è indefinitivamente recuperabile, indefinitivamente ripetibile. Sotto un certo aspetto si potrebbe dire che esso non «trascorre», che non costituisce una «durata» irreversibile. È un Tempo ontologico per eccellenza, «parmenideo»: sempre uguale a se stesso, non muta né si esaurisce. Ad ogni festa periodica, ritroviamo lo stesso Tempo sacro, lo stesso di cui alla festa dell’anno precedente, o di un secolo prima: è il Tempo creato e santificato dagli dèi dall’epoca delle loro gesta, che sono infatti riattualizzate dalla festa. In altre parole, ritroviamo nella festa la prima apparizione del Tempo sacro, così come avvenuto ab origine, in illo tempore54.
All’inizio i cristiani continuavano a frequentare il tempio e a rispettare il sabato, ma nel primo giorno dopo il sabato celebravano la Cena del Signore in ricordo della sua morte e risurrezione. Prima di Costantino a nessun teologo è venuto in mente di concepire la domenica come un nuovo sabato cristiano perché vi erano prassi molto diverse: alcuni cristiani celebravano solo il sabato, altri sia il sabato che la domenica, altri ancora solo la domenica. Il problema dell’origine della celebrazione cristiana della domenica è assai complicato, con diverse ipotesi. Poiché la domenica era festeggiata soprattutto in ambiente pagano si è pensato che derivasse dal giorno sacro al sole. Poi le scoperte del calendario di Qumrân hanno ricondotto la domenica alla «preminenza liturgica» attribuita all’ottavo giorno. Secondo l’opinione molto accreditata di H. Riesenfeld, i cristiani si sarebbero radunati il sabato sera, dopo aver partecipato al sabato ebraico55. Poiché per loro un giorno ha inizio con la sera del giorno precedente si ha una ricostruzione plausibile del passaggio alla domenica col ricordo del Risorto. Willy Rordorf ritiene questa tesi «molto seducente», ma improbabile perché si basa sul solo testo di At 20,6-11 e non tiene conto di altri testi che M. Eliade, Il Sacro e il profano, Boringhieri, Torino 1979, 47-48. Cf. H. Riesenfeld, Sabbat et jour du Seigneur, in New Testament essays. Studies in memory of T. W. Manson, Manchester University Press, Manchester 1959, 210-218. 54 55
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parlano delle apparizioni del Risorto la sera della domenica (Lc 24,28-43 e Gv 19-20.24.26)56. L’antichità della struttura rituale della festa domenicale è un indizio fondamentale non solo della via rituale alla fede in Cristo, ma anche per stabilire un criterio liturgico, che non escluda la liminalità. Infatti connesso alla festa c’è sempre il tabù da lavoro, che se non è diventato subito normativo è dipeso dalla situazione di minoranza della primitiva comunità cristiana. Appena la situazione politica lo ha consentito, subito con Costantino si è elevata la domenica al rango di giorno di riposo ufficiale nell’impero romano. Nel Codice Giustinianeo (3,12,2) si legge: «L’imperatore Costantino a Elpidio. Tutti i giudici e le popolazioni urbane e tutti coloro che esercitano mestieri nel giorno del sole degno di venerazione facciano riposo»57. I motivi di questo decreto sono principalmente sociologici o sono dovuti alla volontà di venire incontro a un’esigenza rituale della chiesa? Secondo Rordorf la chiesa assunse progressivamente il compito di educatrice delle masse e il riposo domenicale veniva incontro a questa esigenza. Eusebio nel Commento ai Salmi (Sal 91) elabora una teologia del riposo festivo come anticipazione dell’ottavo giorno, del sabato perfetto, in cui ci si affranca dai lavori servili per dedicarsi alla preghiera e al canto58. Il trasferimento del sabato ebraico alla domenica è completato. In questo passaggio Rordorf vede un’esigenza sociologica. Infatti si chiede se oggi, «abbandonate le antiche tradizioni dell’era costantiniana», non è arrivato il momento di slegare culto cristiano e astensione ufficiale dal lavoro perché, «anche se hanno luogo nello stesso giorno, non formano necessariamente per questa ragione un’unità indissolubile»59. È evidente che nell’autore è assente la sensibilità rituale, che induce a pensare che il cristianesimo 56 «La supposizione che le più antiche celebrazioni cristiane della domenica non avessero luogo la sera del sabato, ma la sera della domenica, e risalissero alla comunione eucaristica con il Risorto, è più accettabile rispetto alla tesi su esposta», W. Rordorf, Sabato e domenica nella Chiesa antica, SEI, Torino 1979, XVII. 57 Ivi, 113. 58 Ivi, 44-45. 59 Ivi, XX.
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abbia progressivamente elaborato i suoi riti, reimparando l’ars celebrandi. Il riposo sabbatico non è che un capitolo di questa faticosa e lenta istituzionalizzazione della memoria. Lo stesso Rordorf non nasconde le critiche di J. Daniélou e di C.S. Mosna, secondo i quali anche in epoca pre-costantiniana si erano levate voci che chiedevano il riposo festivo60. Evidentemente la mancanza del registro di antropologia dei riti non permette una lettura diversa. I riti non si inventano e quando manca qualche elemento essenziale deve prima o poi riemergere. Ora il riposo festivo è un fattore liminale eccezionale perché interrompe come nessun altro il flusso del tempo quotidiano. La deroga dal lavoro va contro ogni logica economica e funzionale. Se si può accreditare l’ipotesi del riposo per riprendere le forze, non si spiega perché accanto al riposo vi è spreco di risorse e inutilità, contro ogni funzionalizzazione del tempo e dei vantaggi. La verità è che il riposo festivo rappresenta il momento liminale per eccellenza nella vita di ogni uomo e di ogni cultura. Talvolta funziona solo questo tratto liminale con nessun altro rito di accompagnamento e da solo assolve allo straordinario compito di ricreare gli stati mentali degli individui e del gruppo. La nota pastorale della CEI Il giorno del Signore (1984) con accenti accorati e teologicamente impegnativi, a partire da SC n. 106, ricorda: «“Festa primordiale” della comunità cristiana, pasqua settimanale, sintesi mirabile e viva di tutto il mistero della salvezza dalla prima venuta del Cristo all’attesa del suo ritorno, la domenica ha costituito, con il suo ritmo settimanale, il nucleo primitivo della celebrazione del mistero di Cristo nella successione dei diversi tempi e dell’intero anno liturgico» (GdS n. 1). Il giorno del Signore sarebbe una struttura portante del rito in quanto è il suo nucleo germinativo. Ha una molteplicità di significati: è giorno del Signore (n. 8), è giorno della chiesa (n. 9), è fonte di comunione attorno alla stessa mensa (n. 10), è giorno dell’eucaristia (nn. 11-12), è giorno della missione (n. 13), è giorno della carità (n. 14), è giorno della festa (nn. 15-18), è l’«ottavo giorno» (n. 20). In quest’ultima connotazione si ricorda il legame con il riposo liminale. Se il rito deriva dalla festa 60
Cf. ivi, XIX.
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e non c’è festa senza riposo, allora la decantazione liminale delle opere e dei giorni cede il posto a un altro mondo, quello escatologico. L’anticipazione festivo-rituale dell’ottavo giorno è possibile solo per un attraversamento di linee tra il tempo e l’eterno, reso possibile dalla destrutturazione liminale del tempo. Così anche nella liturgia riformata del Vaticano II è rimasta in vita, anzi è stata potenziata, la liminalità del giorno del Signore come un’esigenza della fede, non solo come un dovere (cf. GdS n. 8). 3.1.2. Lo scrutinio e la catechesi morale nell’iniziazione cristiana Un altro ambito di ritualità liminale, testimoniato dall’antica «disciplina dell’arcano», è lo scrutinio nel pre-catecumenato della Traditio Apostolica di Ippolito61. Questa prassi iniziatica, la cui diffusione è difficile da stabilire sebbene abbia esercitato grande influenza sia in Oriente che in Occidente, si può contestualizzare in un ambiente ecclesiale romano verso il 215 d.C. e documenta la prassi iniziatica cristiana che si compone di quattro grandi momenti: pre-catecumenato, catecumenato, celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione, mistagogia. Questa struttura pastorale per fare i cristiani si rivolgeva a un pubblico adulto ed era ispirata ad alcune direttive pastorali, guidate dalla logica dei riti di passaggio. Infatti vi erano due presupposti preziosi per la nostra ricerca: il primo sostiene la priorità dell’esperienza mistica rispetto alla dottrina; il secondo sostiene che per fare l’esperienza del mistero bisogna avere una lingua da iniziati, cioè bisogna avere una competenza rituale. La pedagogia che sostiene l’iniziazione infatti è del tutto liminale: esige una previa separazione per una conseguente ristrutturazione a un altro grado di percezione. Ovunque domina la liminalità, che si potrebbe condensare nell’adagio evangelico: «Passate per la porta stretta». Altrimenti detto questo metodo liminale si potrebbe così condensare: ti smonto per rimontarti diverso da prima. Il pre-catecumenato consiste in una presentazione del candidato Cf. La tradition apostolique de Saint Hippolyte. Essai de reconstitution, éd. Dom Bernard Botte, Aschendorffsche Verlagsbuchhandlung, Münster Westfalen 1972. 61
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da parte di un membro della comunità, che deve garantire che l’interessato è almeno in grado di ascoltare. Segue un interrogatorio sulle professioni perché alcune sono incompatibili, come il lenone, lo scultore e il pittore, l’attore, il maestro, il gladiatore il guardiano di templi, il soldato, la prostituta, il mago, l’incantatore, l’astrologo, il ciarlatano, l’interprete di sogni, il fabbricante di amuleti. La formula: «smetta o sia rimandato», non ammette deroghe se non in casi eccezionali. Dopo l’ammissione segue il catecumenato di almeno tre anni in cui si svolgono catechesi e preghiere. La partecipazione alla eucaristia è limitata all’ascolto della parola di Dio, poi i catecumeni vengono espulsi dall’aula. Le catechesi non sono di stampo dottrinario, ma morale con l’intenzione di creare una nuova soggettività attorno ad alcuni detti evangelici come «non fare agli altri ciò che non vuoi gli altri facciano a te», o come «fuggi il male e fai il bene», ecc. La catechesi pragmatica, o di atteggiamenti, è tipicamente liminale perché destabilizza la vita ordinaria per creare l’idoneità ai santi Misteri. La celebrazione dei Misteri avviene la notte di Pasqua, preparata dalla quaresima, o tempo dell’illuminazione, in cui i catecumeni ricevono le traditiones (il Pater e il Credo) e si sottopongono agli esorcismi. I tre sacramenti (battesimo, cresima, eucaristia), ricevuti tutti insieme, rappresentano il momento saliente dell’iniziazione. È il momento della «rivelazione», della fusione mistica con Cristo e si celebra solennemente con tutta la comunità nella veglia pasquale, da Agostino definita la «madre di tutte le veglie» e che dura fino all’alba. Nella settimana seguente i neofiti, avvolti nelle bianche vesti battesimali, sono infine istruiti con le catechesi mistagogiche, che tentano di spiegare teologicamente l’esperienza mistica fatta nel rito pasquale. È rilevante costatare che anche nel cristianesimo antico vigeva il regime iniziatico, che è un «rito di passaggio» dominato dalla liminalità. È altresì importante sottolineare che la chiesa post-conciliare ha ripristinato la disciplina iniziatica della Traditio Apostolica come iniziazione degli adulti (OICA 1972) e ha reso questo metodo «modello» per ogni cammino di fede cristiana (RICA, n. 10). Nella Nota pastorale del Consiglio permanente della CEI, L’iniziazione cristiana. 1. Orientamenti per il catecumenato degli adulti (Roma 1997) si legge al n. 5:
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L’istituzione del catecumenato, secondo il Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti (RICA), assume tre principali modalità: – il ripristino del catecumenato vero e proprio, richiesto dal concilio Vaticano II e attuato attraverso la pubblicazione del RICA, reintroduce per gli adulti, che chiedono il Battesimo, uno specifico itinerario di fede e di appartenenza ecclesiale che ripropone, con larghe possibilità di adattamenti, la ricchezza educativa del catecumenato antico (RICA, cap. I); – l’iniziazione cristiana dei fanciulli e ragazzi, non battezzati da piccoli si presenta come un autentico catecumenato, sia pure adattato alla loro età (RICA, cap. V); – il completamento dell’iniziazione cristiana per gli adulti che, battezzati da piccoli, chiedono di essere preparati alla Confermazione e all’Eucaristia ha uno specifico fondamento nell’applicazione ad essi del metodo e dello stile del catecumenato (RICA, cap. IV). Questi cristiani non sono assimilabili ai veri catecumeni, ma nemmeno a quelli che hanno completato l’iniziazione cristiana.
Le difficoltà nell’attuare queste linee guida non devono farci sottovalutare il grande valore antropologico di una svolta nella catechesi, non più lasciata a un modello razionalistico-dottrinario e neppure pedagogico-morale. La chiesa sembra essersi convinta che bisogna ripristinare la via iniziatica dove rito, morale e dottrina si fondono in una pedagogia liminale, dove il fedele dapprima deve fare esperienza religiosa per poi esprimerla con l’annuncio e con la vita in Cristo. 3.1.3. La liminalità della penitenza canonica La prassi antica della penitenza canonica è uno straordinario capitolo di liminalità liturgica. Il contesto è la difficile ammissione da parte della chiesa antica della ricaduta nel peccato da parte del battezzato. In un clima di escatologia realizzata o imminente i cristiani vivevano in una sorta di liminalità permanente, tanto che Paolo deve intervenire contro gli entusiasti di Corinto, che vivevano in continua agitazione e li esorta a vivere in pace. Il neofita, rinato in Cristo, era una creatura nuova, le cose di prima erano passate ne erano nate di nuove. La rinuncia al mondo e al peccato ineriva alla scelta di fede cristiana. I problemi cominciarono a nascere quando ci si rese conto che il riposo sabbatico definitivo tardava a venire e bisognava ri-
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assestarsi in una escatologia rimandata con l’inevitabile contraccolpo sulla vita dei cristiani, che potevano ricadere facilmente nel peccato. La nostra pratica penitenziale reiterata d’origine irlandese diventa una precomprensione che ci impedisce di capire a fondo il clima di disagio dell’antica chiesa di fronte al peccatore. In primo piano non vi era la misericordia di Dio, neppure il soggetto peccatore, quanto le condizioni ecclesiali del perdono. Fino al secolo III vi è una grande varietà di opinioni, fino alla unanime ammissione di una «penitenza seconda», dopo il battesimo, unica e pubblica. Due questioni dominavano il quadro ecclesiale: in caso di peccato era minacciata più la santità della chiesa o del peccatore? In caso di ammissione alla penitenza come si poteva verificare il grado di pentimento? Sul primo fronte i testi antichi non danno risposte unanimi e già Paolo nelle sue lettere tenta di armonizzare le due istanze. In genere domina l’opinione che bisogna salvaguardare innanzitutto la purezza della comunità dei santi. «Questo punto di vista esigeva l’esclusione non solo del peccato, ma anche del peccatore»62. Si doveva trattare di una misura disciplinare in vista del pentimento del peccatore per poi reintegrarlo nella comunità, o poteva spingersi fino a diventare una separazione irrevocabile del membro ormai morto? Anche la scomunica per i peccati più gravi e imperdonabili rientrava in questa logica di emarginazione ecclesiale. Dato che i testi apostolici non offrivano direttive precise la chiesa si è mossa a vista per un lungo periodo. L’esclusione doveva limitarsi alla comunione eucaristica, mantenendo ancora legami con la comunità, o bisognava interrompere ogni rapporto? L’obbligo per il peccatore di tenere determinati comportamenti era la prova del pentimento sincero, o aveva il significato dell’espiazione? Il Nuovo Testamento non parla di penitenza in termini di comportamenti esterni per ottenere il favore di Dio o il riscatto dal peccato, secondo l’uso veterotestamentario. Secondo A.E. Willhem Hooijberg in questa rielaborazione avrebbero concorso anche gli usi pagani; sta di fatto che il termine metánoia «de62 H. Karpp, La penitenza. Fonti sull’origine della penitenza nella Chiesa antica, SEI, Torino 1975, XVII.
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signa più che il pentimento il comportamento penitenziale»63. La penitenza acquista il carattere liminale di comportamenti borderline per la ri-ammissione eucaristica. L’imposizione di duri obblighi pubblici aveva un chiaro valore liminale di ristrutturazione simbolica di un ordine perduto. In primo piano non vi è l’esito della riconciliazione ecclesiale, dopo il distacco dalla comunità, ma la fase di soglia, quando il peccatore si mette volontariamente nello stato di marginalità imposto dal vescovo per ottenere il perdono. È significativo che dopo la confessione del peccato e la penitenza pubblica, che poteva durare anche vent’anni come nel caso degli omicidi, il fedele otteneva il perdono dal vescovo attraverso l’imposizione delle mani. L’ingresso nell’ordine dei penitenti comportava come un secondo battesimo; ecco perché la penitenza era chiamata «seconda tavola di salvezza». Se si vuole indugiare brevemente sulla tipologia delle penitenze risulta chiaro il carattere liminale della prassi canonica. Cyrille Vogel scrive: Les rites humiliants de la liturgie pénitentielle mettaient à rude épreuve l’amour-propre des fidèles: réprimande publique de l’évêque lors de la cérémonie d’entrée, cilice et vêtements de deuil, place spéciale aux offices, exclusion de l’Eucharistie et finalement, pour courronner le tout, réconciliation publique devant le peuple reuni. Les prescriptions qui règlent la vie privée du pénitent ne laissent pas d’être fort gênantes, voire incompatibles avec certaines pofessions: mortifications diverses, prières prolongèes, jeûne, assistance à la célébration des heure canoniques, vigiles prolonguées, fonctions de fossoyeur bénévole64.
L’ignominia pubblica delle penitenze trovava spesso resistenza nei peccatori, anche se non vi fu mai confusione tra punizioni ecclesiastiche e punizioni civili. La riflessione interessante è che nella penitenza antica non bastava il pentimento umano e il perdono divino per la riammissione, ma era decisivo anche il giudizio e il soccorso della comunità perché c’era in gioco la santità della chiesa. A essa si poteva sacrificare anche l’individuo Ivi, XVIII. C. Vogel, Le pécheur et la Pénitence dans l’église ancienne, Cerf, Paris 1966, 51-52. 63 64
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peccatore, in un’accezione non dissimile alla logica del capro espiatorio di Levitico 16. Non dimentichiamo che la quaresima non era solo il tempo dei penitenti peccatori che il giovedì santo ricevevano il perdono, ma era una decisiva struttura iniziatica con le procedure liminali del digiuno e della penitenza. Essa metteva in stato di penitenza tutta la chiesa al motto: aiuta la chiesa a convertirsi convertendoti. Secondo Heinrich Karpp «la difesa della purezza della comunità viene ad avere la priorità rispetto all’aiuto pastorale dato ai singoli peccatori, ancorché il peccatore in quanto individuo attiri su di sé un’attenzione sempre più netta. Non ci sarebbe infatti alcun bisogno di penitenza pubblica, se la penitenza avesse come scopo principale la rottura del peccatore con il suo peccato e la sua riconciliazione con Dio. A dire il vero, l’istituzione penitenziale solo indirettamente ha come scopo la cura delle anime, e soltanto nella misura in cui l’esclusione del peccatore diviene un momento del processo della sua reintegrazione nella comunità»65. Con lo sviluppo della dimensione individuale del peccato e del perdono, la penitenza pubblica perde la sua ragione d’essere, viene messo in primo piano il peccato e il giudizio della chiesa, tanto che viene chiamata «confessione» e viene di fatto sottovalutata la dimensione liminale della penitenza. Con il titolo Il peccato e la paura Jean Delumeau ha tracciato un bilancio straordinario sull’idea di colpa individuale in Occidente. Secondo lo storico francese dal XIII al XVIII secolo si è consumato in Europa il dramma collettivo della «malattia dello scrupolo», che contamina anche la mentalità odierna. «Un’angoscia di fondo, che si esplicava volta a volta in tante paure “specifiche”, portò a scoprire un nuovo nemico presente in ciascuno della città assediata; e così emerse una paura nuova: la paura del proprio io»66. In verità questa nuova paura dell’io non ebbe solo esiti negativi, al contrario si sviluppò una nuova coscienza individuale patrimonio dell’Occidente67. Ma questo passaggio di paradigma ha creato Karpp, La penitenza, XXI-XXII. J. Delumeau, Il peccato e la paura. L’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo, Il Mulino, Bologna 1987, 7. 67 «La “cattiva coscienza” si è sviluppata in sintonia con l’arte del ritratto ed ha accompagnato l’affermazione progressiva dell’individualismo e del sen65 66
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lo sdoppiamento tra singolo fedele e chiesa cosicché subentra il paradosso della chiesa che rimane sempre santa, pur nel peccato dei suoi fedeli. Giovanni Paolo II ripristinò il corretto rapporto tra chiesa e peccatore quando ammise nel Giubileo 2000 la colpa di tutta quanta la chiesa nel peccato dei singoli fedeli. La riforma della penitenza del Vaticano II ristabilisce l’equilibrio tra il singolo credente e la chiesa, distinguendo vari livelli di attenzione pastorale. Il perdono di Dio è accanto alla riconciliazione ecclesiale in un quadro in cui peccato individuale e penitenza pubblica ritrovano una loro plausibilità pastorale, ma si smarrisce ampiamente l’antica liminalità. 3.2. I divieti ecclesiastici contro la liminalità anomica dei riti Nel Direttorio su Pietà popolare e Liturgia (DPPL) del 2002, la paura di gesti superstiziosi o anomici scarta di principio ogni deregulation liminale. Essendo il Vangelo la misura ed il criterio valutativo di ogni forma espressiva – antica e nuova – di pietà cristiana, alla valorizzazione dei pii esercizi e di pratiche di devozione deve coniugarsi l’opera di purificazione, talvolta necessaria per conservare il giusto riferimento al mistero cristiano. Vale per la pietà popolare quanto asserito per la Liturgia cristiana, ossia che «non può assolutamente accogliere riti di magia, di superstizione, di spiritismo, di vendetta o a connotazione sessuale» (n. 12).
A rigore l’applicazione di questi criteri non avrebbe consentito l’assimilazione di nessun rito dalle altre religioni. La stessa cosa dicasi dei linguaggi rituali assunti dalla chiesa dall’ambiente culturale: non vi è un criterio interno alla dimensione pragmatica. «Per le più antiche comunità cristiane la sola realtà che conti è Cristo (cf. Col 2,16), le sue parole di vita (cf. Gv 6,63), il suo comandamento dell’amore reciproco (cf. Gv 13,34), le azioni rituali che egli ha comandato di compiere in sua memoria (cf. 1Cor 11,24-26). Tutto il resto – giorni e mesi, stagioni e anni, feste e noviluni, cibi e bevande... (cf. Gal 4,10; Col 2,16-l9) – è so di responsabilità. Insomma, c’è stato un sicuro legame tra senso di colpa, inquietudine interiore e creatività», ivi, 11.
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secondario» (n. 23). Come si vede il criterio è dottrinario non antropologico nel senso che non è il rito che detta i criteri della sua specifica mediazione e della sua celebrabilità. Quando al n. 12 si ricorre al criterio antropologico nel dirimere i rapporti tra religiosità popolare e liturgica il Direttorio si limita a riconoscere «l’afflato antropologico, che si esprime sia nel conservare simboli ed espressioni significative per un dato popolo evitando tuttavia l’arcaismo privo di senso, sia nello sforzo di interloquire con sensibilità odierne». Le condanne delle superstizioni nella storia della chiesa, mentre ottenevano il vantaggio di staccare le masse popolari dal paganesimo, di fatto espropriavano la liturgia cristiana di molte caratteristiche liminali. Infatti il criterio morale per la legittimità di una sequenza rituale non si avvedeva del carattere anomico del rito e procedeva con epurazioni radicali. Fu soprattutto la presenza dell’anomico nei culti popolari che offriva alla chiesa il pretesto per affermare la superiorità del cristianesimo e viceversa l’immoralità demoniaca dei culti pagani. La condanna delle calende di gennaio, della divinazione e dei presagi, l’istituzione di un nuovo calendario festivo e la suddivisione della settimana, la socializzazione dello spazio con la cristianizzazione delle fonti, degli stagni, dei boschi sacri, l’istituzione delle rogazioni, la condanna dei sortilegia sono materia dei concili del V-VI secolo e dei penitenziali carolingi. Jean-Claude Schmitt sostiene: «Se le categorie dell’interpretazione ecclesiastica delle “superstizioni” si precisano molto presto, l’innovazione principale rappresentata dall’emergere del diavolo nei discorsi e nelle fantasie dei chierici ispira a questi ultimi più indulgenza che severità verso le vetule, i rustici o anche i sortilege che sono vittima delle illusioni diaboliche»68. Questa tolleranza verso i culti pagani fino al secolo X diventa in seguito una vera e propria demonizzazione. Il diavolo non è solo una figura del folklore, è un «oggetto culturale», dove confluiscono gran parte delle pratiche anomiche dei riti antichi, soprattutto quelle riferite al corpo, alla sessualità e alla donna. 68 J.-C. Schmitt, Religione, folklore e società nell’Occidente medievale, Laterza, Bari 2000, 21.
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L’esempio emblematico è il destino della danza nel culto cristiano antico, che rappresentava un grande esercizio di liminalità prima dei divieti ecclesiastici. Due istanze contraddittorie si contendevano la questione: i dottori morali assolvevano i balli come leciti, e i santi li condannavano come diabolici. È difficile ricostruire una posizione netta. Judith Lynne Hanna, grande esperta del tema, ne spiega la ragione: «L’odio-amore con cui il Cristianesimo guarda al corpo e l’accettazione stessa della dicotomia mente/corpo – che si è rafforzata a partire dalla diffusione del razionalismo nell’Europa del XVI secolo – hanno prodotto atteggiamenti sia positivi che negativi nei confronti della danza»69. Il sospetto verso la dimensione ludica del corpo per accentuare gli aspetti ascetici è espresso da Giovanni Crisostomo: «Dio non ci ha dato i piedi per ballare, ma per camminare modestamente. Il nostro corpo saltando si scompone, tanto più la nostra anima». Il timore va verso questa «scomposizione», modo di esprimere tutto ciò che esorbita la quiete o l’ottundimento del corpo. Questa «antropologia angelicata» non ignora il corpo, lo rende strumento di elevazione spirituale mediante la sua negazione. Sono privilegiati gli «esercizi spirituali» di matrice orfica e neoplatonica, ispirati dall’antitesi «tra l’irrazionalità del piacere fisico e la razionalità dell’autocontrollo» (G. van der Leeuw). Il culto si sposta dalla partecipazione fisica, come la danza rituale attorno alle tombe dei martiri, alla contemplazione meditativa. «Il lavoro sulla danza della cultura ecclesiastica – scrive Fabrizio Andreella – è soprattutto un lavoro sul corpo, per chiuderne i fori, organici e semantici, tagliarne le protuberanze, costruire attorno ad esso uno spazio controllato da cui non è né lecito né possibile uscire»70. Il corpo è sospettato perché trascina verso la sensibilità irrazionale, e l’irrazionale dei sensi convoglia gran parte della liminalità, cosicché il rito romano va sempre di più verso quello stile «trofotropico», tendente a escludere ogni movimento non controllato. «Più che pagana 69 J.L. Hanna, Danza, in Enciclopedia delle religioni, vol. 2, Il rito. Oggetti, atti, cerimonie, a cura di M. Eliade, Marzorati-Jaca Book, Milano 1994, 125. 70 F. Andreella, Il corpo sospeso. La danza tra codici e simboli all’inizio della modernità, Il Cardo, Venezia 1994, 26.
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– sostiene giustamente Adreella – la danza viene paganizzata dall’intelligencija cristiana»71. Dal terzo concilio di Toledo (589) in poi risuonano identiche le formule censorie e le condanne. «Exterminanda omnino est irreligiosa consuetudo, quam vulgus per sanctorum solemnitates agere consuevit; ut populi, qui debent officia divina attendere, saltantionibus et turpibus invigilent canticis; non solum sibi nocentes, sed et religiosorum officiis perstrepentes» (can. 23). Il passaggio al demoniaco è presto fatto. Giovanni Crisostomo con un aforisma diventato celebre sentenzia : «Ubi enim saltatio, ibi diabolus». In effetti il riferimento al demoniaco non è del tutto fuori luogo, come poteva apparire il dionisiaco nel culto greco, ma nella liturgia cristiana si colora di immoralità e questo decreta la fine del liminale nel rito. Infatti nella danza fa problema non tanto la sua origine pagana, ma la sua pericolosità fuori controllo. Il paganesimo viene inventato per togliere la danza e quindi l’elemento liminale, incontrollato dal culto cristiano72. Questo problema si è trascinato fino a noi e non è ancora stato metabolizzato neppure dal Vaticano II. Il problema a questo punto non riguarda danza sì/danza no nella liturgia, ma attiene ormai all’essenza liminale del rito. 3.3. La liminalità secondo la riforma del concilio Vaticano II: una vicenda controversa Facendo il punto di quanto detto si possono tenere come assodati almeno due elementi: primo che la liminalità è parte essenziale del rito; secondo che la storia della liturgia ha tenuto nei confronti della liminalità rituale posizioni contraddittorie. La chiesa ha esorcizzato la liminalità temendone il disordine morale, sebbene abbia messo in atto sequenze rituali con eleIvi, 27. «Non che la danza in sé fosse considerata un peccato. Né veniva percepita allora dal punto di vista dei moralisti di epoche più recenti come un piacere mondano che svia le anime dalle cose di religione. Al contrario, il pericolo veniva propriamente dal carattere rituale della danza, che era per sua stessa essenza un atto di culto, di un culto pagano», J.-C. Schmitt, Il gesto nel Medioevo, Laterza, Bari 1990, 76. 71 72
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menti di soglia. La domanda sorge spontanea in riferimento alla situazione odierna: la riforma del Vaticano II ha superato questa ambiguità, oppure sono rimasti gli equivoci? La risposta non è proprio semplice, perché a un primo sguardo sembra che il concilio non si sia interessato della liminalità rituale, ma a una più accurata investigazione emergono dati confortanti. Nell’ermeneutica del concilio è necessario distinguere l’intenzionalità dei riformatori dalla receptio post-conciliare delle chiese. Nell’intenzione di riforma per attingere alla «intima natura» della liturgia non si è dato uno spazio adeguato alla dimensione della liminalità. Si sono immessi positivamente i principali codici del rito lasciato in disuso dalla tradizione scolastica e tridentina, si è sottolineata la partecipazione dell’assemblea per una celebrazione «piena, attiva e comunitaria», ma non si è indagato ulteriormente sull’essenza del rito. Ritorna preziosa la critica di V. Turner rilasciata alla rivista «Worship». È proprio vero che la riforma liturgica si è dimenticata della liminalità rituale? Accanto alla precisa critica di razionalismo rituale, non vi è spazio anche per un giudizio meno drastico? Distinguerei due livelli interpretativi, riguardo i riti riformati e riguardo la mentalità che li ha accolti. A livello di testi vi sono molti indizi già in SC e molte prove nei documenti successivi che segnalano un chiaro interesse alla liminalità. Mi riferisco ai rituali sulla penitenza, sulla iniziazione cristiana degli adulti. Soprattutto è sorprendente il documento su Il giorno del Signore. In questi testi è evidente la metodica iniziatica, che si regge sullo sconcerto rispetto alla mentalità ordinaria. L’anello debole del problema è invece la mentalità che ha attuato il concilio, sicuramente incapace di apprezzare lo spirito della liturgia nella sua defamiliarizzazione del mondo. Questo è il punto dal quale ripartire per un’inversione di marcia nella pastorale liturgica. SC non ha inteso produrre una teoria della liturgia, ma in linea con l’ispirazione pastorale, voluta da Giovanni XXIII, ha tracciato linee di demarcazione per una ripresa dello spirito della liturgia nella vita della chiesa. I silenzi su alcuni aspetti fondamentali del rito possono giustamente essere rimproverati, ma con l’onestà di riconoscere l’intenzione prevalente del documento conciliare. Detto ciò, è corretto intravedere un secondo
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livello nelle pieghe del testo, alcuni indizi che spingono verso una sensibilità liminale della liturgia. Per esempio quando si parla del «sacro silenzio» al n. 30, oppure della penitenza ai nn. 109b, 110, o ancora della festa al n. 108. Soprattutto quando si propone il catecumenato per gli adulti si parla di diversi gradi ai nn. 64-66. Sarebbe tuttavia ingiusto forzare i testi, che per loro esplicito dettato rimandano all’attuazione del post-concilio. Credo che non si possa smentire che nei testi sul giorno del Signore e sull’iniziazione degli adulti gli elementi liminali siano espliciti e soprattutto suppongano una riflessione sul rito che prevede la liminalità come suo carattere prevalente. 3.4. Liturgia e vita: un rapporto senza soglia Uno dei più grandi abbagli perpetrati dal post-concilio è di intendere la riforma liturgica in termini etico-morali, come se la liturgia fosse funzionale al retto vivere cristiano. Il ragionamento teologico sotteso partiva dalla riscoperta del Vangelo del regno che, come il lievito nella pasta secondo la metafora evangelica, rappresentava la presenza di Dio nel mondo, che costruiva cieli nuovi e terra nuova. Paolo VI diceva che il mondo moderno non ha bisogno di profeti, ma di testimoni, sottolineando la priorità della diaconia e della martiria per rendere credibile il Vangelo in un mondo pluralista e secolarizzato. Così sembrava del tutto plausibile funzionalizzare la liturgia alla testimonianza di carità. Senza togliere nulla al valore dei sacramenti, sembrava del tutto plausibile e naturale la ricaduta della preghiera nella vita di ogni giorno. Nessuno può negare questo stretto legame di liturgia e diaconia fino alla martiria, ma con le dovute cautele e distinzioni. Un conto è dire che tra le due dimensioni vi è una stretta correlazione, altro è dire che la verità dell’una dipende dalla coerenza con l’altra. Si stabilisce insomma un vincolo analogo al rapporto tra fede e morale, che si richiamano ma non coincidono. Un uomo di fede può essere anche un peccatore e viceversa. La non perfetta reversibilità dell’una nell’altra, impedisce di tenere come criterio della celebrazione fruttuosa la prassi morale del cristiano. Questo sillogismo tra liturgia e vita coerente è stato così convincente, che è la più diffusa obiezione per
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non frequentare i sacramenti. Se chi frequenta la chiesa è poi uguale agli altri, nel senso che si comporta come tutti, allora è del tutto inutile e controproducente andare in chiesa. Inutile perché non dà i risultati previsti, controproducente perché alimenta una sorta di superiorità dei fedeli nei confronti degli altri. Questa mentalità ha preso piede, incoraggiata da diversi fattori concomitanti. Intanto il clima culturale, che in Occidente e nel Sud-America ha risentito fortemente della critica marxista sui fattori reali della storia rispetto alle sovrastrutture oppiacee come il cristianesimo. Esse non avrebbero nessuna efficacia nel togliere i poteri oppressivi e alienanti, ma sarebbero panacee illusorie, che mantengono e alimentano le discriminazioni e le ingiustizie. Il fenomeno massiccio del volontariato cattolico e le prassi di liberazione politica all’indomani del concilio sono la più chiara risposta a questa provocazione culturale del mondo marxista, contrario al cristianesimo. Si potrebbe definire questa linea pastorale della «promozione umana», secondo il titolo del convegno di Roma (30 ottobre-4 novembre 1976) come una nuova apologetica sul registro pragmatico rispetto al metodo semantico tradizionale. Un secondo fattore che ha favorito questa mentalità etica della fede è la specifica incomprensione del fenomeno rituale nel mondo ecclesiale. La «questione rituale» è la nuova frontiera del nuovo Movimento liturgico, già ventilata da Romano Guardini alla conclusione del concilio, quando ammonì, in una lettera a monsignor Wegner, sulla difficoltà di insegnare «l’atto liturgico fondamentale». La questione liturgica non si è esaurita nella riaffermazione di SC del valore teologale della liturgia, peraltro mai messo in discussione dalla tradizione ecclesiale, si è piuttosto spostata sulla affermazione teandrica dell’atto liturgico. È come se la chiesa avesse disimparato lungo i secoli a celebrare i riti per i motivi storici che sono stati in parte ricostruiti dalla ricerca teologica73. Il rito nella mentalità prevalente non ha consistenza autonoma, non è autotelico, non sembra avere una pregnanza propria, se non in vista della vita nuova in Cristo, 73 Cf. R. Tagliaferri, La «magia» del rito. Saggi sulla questione rituale liturgica, EMP - Abbazia di Santa Giustina, Padova 2006, 17-89.
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cioè della morale. Inoltre il suo carattere pragmatico di azione simbolica è malinteso e continuamente rinviato a una semantica dei significati dottrinari, che sembrano il vero obiettivo della liturgia per un cristianesimo adulto e consapevole. Questa serie di fraintendimenti ha alimentato il riduzionismo della liturgia, o meglio la funzionalizzazione della liturgia alla morale. Una prima difficoltà di questa linea pastorale consiste nell’identificare l’atto di carità, che ha il tratto dell’anticipazione escatologica ed è difficilmente identificabile da criteri storici. Già san Paolo registrava questo paradosso in 1Cor 13,1-3, assecondando la parola di Gesù di Nazaret, che invitava a non giudicare perché il giudizio spetta solo a Dio alla fine dei tempi (cf. Mt 25,31s). Può diventare pericoloso affidare il Vangelo alla prassi morale dei cristiani, non solo per l’ambiguità delle scelte storiche, come ampiamente documenta la storia della chiesa, ma per una igiene teologica, che mette in guardia dal pericolo di saturare l’eccedenza della grazia con le opere di giustizia Il rito liturgico al contrario intende spezzare questo cortocircuito infernale, che ha portato Paolo a identificare nella Legge il meccanismo della perversione della fede (cf. Rm 7). Il rito, soprattutto con la liminalità, diventa anomico; si mette al di là del bene e del male per evidenziare un diverso livello di realtà, che è trascendente rispetto a ogni opera della legge e a ogni comandamento. Per portare i fedeli alla comunione con Dio, il rito deve spezzare tutti i legami proiettivi dell’uomo, che si immagina Dio sulla sua misura. La frantumazione di ogni omologia provoca un rovesciamento simbolico in cui il fedele si sente egli stesso piuttosto una proiezione dall’alto e dall’altro e soprattutto è inibito nella sua volontà di controllo del mondo e di Dio in nome di Dio. È questo il più complesso meccanismo della religiosità che, per sfuggire alla trappola autoimplicativa della istituzionalizzazione della memoria dell’evento fondante, trova nel rito lo strumento più idoneo per destrutturarsi ed essere rimodellata sull’origine della teofania o della cristofania. La liturgia quindi, prima di essere funzionale all’efficacia storica della sua prassi di liberazione per rendersi credibile al mondo e fare proseliti, è totalmente dedita alla violazione del mondo, compresa la dottrina e la prassi morale ecclesiale. Senza questo
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fondamentale meccanismo liminale, la chiesa non sarebbe più in grado di convertirsi e di rinnovarsi, ma semplicemente tenterebbe di affermare la sua visione del mondo eventualmente col malinteso potere conferitole da Dio. Sappiamo che questa strategia ha segnato dolorose pagine della storia e ha costruito quel «sistema-mondo» imperialista74, che è una delle maggiori obiezioni al cristianesimo occidentale da parte delle altre culture. La liminalità rituale interrompe i flussi normali dell’evangelizzazione e opera una sorta di liquefazione dell’istituzione nella sua scaturigine carismatica e spirituale. Non si può dunque usare il rito come amplificazione delle dottrine codificate e delle strategie pastorali pianificate. È questo uso impertinente del rito, che rende la liturgia cristiana moraleggiante con quelle logomachie omiletiche, che infastidiscono i fedeli per la genericità e riduttività degli slogan retorici proclamati con la pretesa di attualizzare la parola di Dio. Tra rito e vita si crea una vera interruzione e quasi una smentita di tutti i paradigmi ordinari. Senza questa rottura di livello il rito diventa semplicemente una cinghia di trasmissione di ideologie e di interessi di parte. Il rito sovverte, sconvolge, manomette, rovescia esattamente come fece Gesù quando sosteneva con pubblico scandalo che i primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi. Il rito diventa così il garante non dell’ortodossia e dell’ortoprassi, ma della possibilità per un’istituzione religiosa di mantenere vivo nel tempo il ricordo dell’evento fondante, senza avvilirlo nelle secche del degrado storico-istituzionale. Su questo punto la riforma non è mai stata avviata perché la liminalità è intesa come stato permanente della chiesa e non c’è più il gioco rituale della interruzione dei flussi consueti. La chiesa continua a richiamare i fedeli a vivere santamente in quell’esercizio retorico dei pii sentimenti e dei santi propositi, che non conoscono mai una vera frattura nella percezione del sacro e un vero attraversamento di frame. Talvolta si ritiene che si possa vivere una sorta di escatologia realizzata, modulando la Cf. I. Wallerstein, Comprendere il mondo. Introduzione all’analisi dei sistemi-mondo, Asterios, Trieste 2006; La retorica del potere. Critica dell’universalismo europeo, Fazi, Roma 2007. 74
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propria esistenza ai dettami del magistero. Questo protocollo ecclesiologico non solo è disastroso per la spiritualità cristiana, ma diventa pericoloso per la stessa chiesa, tutta autoreferenziata sulla sua capacità di essere dalla parte giusta voluta da Dio. 3.5. I meccanismi liminali della liturgia cristiana Quali dovrebbero essere allora le scelte liminali da adottare nella liturgia per una chiesa istituzione, che ritrovi il gusto di rigenerarsi come comunità messianica degli ultimi tempi? Prima di rispondere a questa domanda vogliamo rapidamente raccogliere due obiezioni, che si opporrebbero alla liminalità del rito e che sono il rapporto tra liminalità e sacrificio e tra liminalità e ripetizione rituale. Il sacrificio infatti crea comunione, familiarità, non rottura. Non va dimenticato tuttavia che questa comunione del sacrificio nasce «dal colpo d’ascia», come dice W. Burkert, quindi nasce dalla rottura violenta e traumatica tra vita e morte e non da pii sentimenti75. Sarei propenso a dire che la dimensione sacrificale combacia con la liminalità, che essa potrebbe essere la quintessenza della liminalità nella sua rottura fondamentale che scambia vita e morte. Per questo si potrebbe dire che ogni rito è sacrificio76. In fondo anche l’eucaristia, che è comunione conviviale attorno allo stesso altare, è sacrificio non solo perché allude alla morte di Cristo, ma perché scambia la vita divina della grazia con la nostra creaturalità mortale e di peccato. Circa la seconda obiezione per cui la ripetizione rituale sembrerebbe smentire la continua innovazione della liminalità, che per definizione non mantiene mai i livelli precedenti, siamo di fronte al paradosso opposto: la ripetizione attiva la differenza, come G. Deleuze ha ampiamente documentato77. La connessione tra i due fenomeni deriva proprio dalla singolarità della ripetizione rituale, che non tende tanto a ripristinare l’identico, ma Cf. W. Burkert, Homo necans. Antropologia del sacrificio cruento nella Grecia antica, Boringhieri, Torino 1982. 76 Cf. R. Tagliaferri, La tazza rotta. Il rito: risorsa dimenticata dell’umanità, EMP - Abbazia di Santa Giustina, Padova 2009, 407s. 77 Cf. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano 1997. 75
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attraverso l’atto ossessivo della ripetizione vuole rendere passivo il soggetto e ristrutturarlo in modo differente e innovativo78. Il vero problema della liminalità rituale sta piuttosto nel suo stesso meccanismo di elusione perché espone al pericolo di confondere la rottura simbolica, che attiva la dinamica di sacro e profano, con lo scontro dualistico tra bene e male. Il rito non è interessato a sostituire manicheisticamente un ordine morale con un altro ordine più perfetto e religioso, ma attraverso lo scarto simbolico è teso a procedere da un «gioco linguistico» a un altro. L’obiettivo non è costruire una contro-società più perfetta, ma accedere ad altro, Æij ¿lloj ge¢noj, dove la defamiliarizzazione non è un giudizio di condanna verso il punto di partenza, ma la piattaforma per attingere un’esperienza altra. Il rito deve tenere in grande considerazione il primo livello simbolico, non può mai eliminarlo perché è la condizione per attingere l’altro livello nella rottura liminale. Si dovrebbe dunque sottolineare la liminalità del rito, anziché affidarsi alle pratiche omologiche, che tentano un’improbabile familiarità con la vita nel tentativo di rendere il cristianesimo alla portata della sensibilità moderna. Non è il caso di inventare procedure strane, si tratterebbe di valorizzare quelle già previste dalla liturgia riformata del Vaticano II ed eventualmente aggiungere qualche elemento dimenticato. Innanzitutto andrebbe ripristinata la festa nel giorno del Signore con l’attenzione alla liminalità del tabù da lavoro, del vestito festivo, dello spreco di tempo e di risorse, del digiuno eucaristico. In secondo luogo l’edificazione di nuove chiese dovrebbe mantenere i criteri di liminalità dettati dai sagrati, dei portali, dei luoghi battesimali e penitenziali, dei gradini che separano, ecc. In terzo luogo durante le celebrazioni si dovrebbe dare più attenzione al sacro silenzio, alla musica, al canto, che sono dimensioni liminali per antonomasia. Durante l’anno liturgico potrebbero essere ripristinate alcune pratiche liminali come la penitenza pubblica in quaresima, il vegliare tutta la notte di Pasqua. 78
Cf. Tagliaferri, La tazza rotta, 337-338.
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della liminalità liturgica sulla teologia
Il tenore del discorso fin qui svolto sostiene che la liminalità sia una dimensione fondamentale per la liturgia, al punto tale che senza di essa si manomette irrimediabilmente la mediazione rituale. La liminalità presiede la dinamica religiosa perché ogni teofania è un’esperienza-limite, è un’uscita dal quotidiano. Questo momento sorgivo di grazia presto si appesantisce, non regge l’usura del tempo; la istituzionalizzazione viene in soccorso per impedire che si perda la ricchezza dell’evento fondante per le generazioni successive. In caso di mancata strutturazione il movimento sorgivo lentamente scompare. Il problema è che ogni inevitabile istituzionalizzazione rischia di irrigidirsi e di trasformarsi in integrismo. Il meccanismo rituale con la sua capacità liminale rimedia questa inesorabile deriva ripristinando il carisma originario79. Da questo punto di vista la liminalità rituale gode di un’invidiabile posizione strategica perché è l’unico linguaggio istituzionale in grado di liquefare l’istituzione e riposizionarla nel suo stato nascente. Ovviamente le dinamiche carismatiche sono ampie e complesse in ogni istituzione, non si riducono solo a ritualità, tuttavia esse sono incontrollabili e imprevedibili e non godono di stabilità. La qualità specifica del rito invece è garantire istituzionalmente la destrutturazione dell’esistente. Se guardiamo alla storia del cristianesimo molti episodi carismatici hanno restituito vigore all’istituzione ecclesiale, ma sono stati eventi speciali, che in larga misura non hanno retto alla loro carica profetica, istituzionalizzandosi a loro volta in una marginalità altrettanto irrigidita. In alcuni casi il contrasto tra carisma e istituzione ha prodotto conflitti insanabili, rotture e condanne nella chiesa per la loro difficile compatibilità. Il vantaggio della liminalità rituale è che agisce nel contesto della stessa istituzione e, se non è da essa depotenziata con una strategia immunizzante, mantiene lo straordinario potere di rigenerare la struttura. Ovviamente questo meccanismo è apprezzato quando la chiesa riesce a mantenersi in una tensione tra il già e il non ancora e non intende proporre la sua istituzionaliz79
Cf. Tagliaferri, Carisma e istituzione, in La natura del rito, 81-125.
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zazione come escatologia realizzata. L’equivoco nella chiesa sta proprio qui perché da una parte sostiene un’autocomprensione ecclesiologica che non si identifica con la parusia (cf. LG n. 8), d’altra parte agisce come se tenesse in serbo le soluzioni definitive ai problemi del mondo. Da questo punto di vista la storia del cristianesimo diventa la falsificazione di fatto dell’annuncio del regno, ma spesso la chiesa ne ha fatto solo una questione di uomini indegni e non di una impossibilità intrinseca di saturare l’éschaton. Specialmente nella fase odierna in cui la chiesa tende a tradurre il Vangelo in termini etici è facile il rischio dell’integrismo e la rinuncia a una liminalità liturgica per la conversione. Qui il problema si fa teologico in tutta la sua pregnanza. È indubbio che il cristianesimo di Paolo tende a sottolineare la novità del cristianesimo nella sua liminalità quotidiana come vita nuova in Cristo. Ma ben presto prevale il senso dell’ambiguità della comunità messianica immersa col battesimo nella morte e risurrezione di Cristo e con fatica si ammette una «seconda tavola di salvezza» per i peccatori. La variabile è sicuramente escatologica, come abbiamo più volte sottolineato. Nel quadro di una escatologia rinviata sbiadisce l’entusiasmo di un messianismo realizzato dai discepoli di Cristo. La chiesa, pur portando l’autocoscienza di continuare la missione di Gesù, deve realisticamente convenire che tra i tempi domina l’ambiguità e non è sempre facile distinguere il grano dalla zizzania. In questo travaglio si innestano quasi subito nel cristianesimo meccanismi liminali come la penitenza canonica e il catecumenato. Lo stesso giorno del Signore assume caratteri liminali della festa come il riposo e il divieto di lavori servili. In ogni caso nella storia del cristianesimo si è sempre mantenuto un certo margine di tensione tra un’ecclesiologia dei tempi penultimi con forti accentuazioni di liminalità rituale e un’ecclesiologia della societas perfecta, che rischia di eliminare la liminalità rituale perché si sente essa stessa come comunità messianica degli ultimi tempi perseguitata dal mondo. È quest’ultima tentazione di identificare la chiesa con il regno definitivo a modificare i termini della liminalità. Nel quadro pastorale odierno il tentativo della chiesa di trovare un linguaggio comune con i non credenti l’ha messa nella condizione di
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sottolineare i valori etici condivisi, riducendo inesorabilmente il cristianesimo a morale. La relazione paolina tra fede e morale, tra indicativo e imperativo è nota e da un certo punto di vista formale e di principio è ineccepibile. La difficoltà nasce quando si fa il percorso a ritroso dalla morale alla grazia. Nessuno infatti ha criteri sufficienti per identificare in un atto morale l’agape di Dio. Troppe interferenze conscie e inconscie impediscono il giudizio definitivo. Gesù inibisce ai discepoli la facoltà di pronunciare giudizi in questo mondo perché il giudizio spetta solo a Dio alla fine. Il potere di legare e sciogliere della chiesa non è assoluto, è relativo al giudizio di Dio e quindi diventa pressoché impossibile stabilire se un comportamento morale è sotto l’azione dello Spirito o no. Lo stesso Paolo mette in guardia nel famoso inno alla carità (1Cor 13) dall’identificare le buone azioni con la carità di Dio, in una sorta di psicanalisi ante litteram che non lascia spazio a dubbi sulla loro difficile reversibilità. In questo quadro la chiesa non può perseguire la via messianica della vita nuova in Cristo perché non ha nessuna garanzia di agire secondo la grazia di Dio. La storia del cristianesimo è stata un’eccezionale cartina di tornasole su questo inaccettabile criterio di morale escatologica, eppure le falsificazioni della storia sono state lette in prevalenza come errori di uomini, non della stessa chiesa. È stato Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo del secondo millennio che ha tolto la maschera e ha prodotto a mio parere una svolta di paradigma teologico epocale nella chiesa. L’appello in Incarnationis Mysterium (29 novembre 1998), la Bolla di indizione del Giubileo 2000 al n. 11, a «purificare la memoria» è stato un atto clamoroso, che da solo ha segnato questo trapasso ecclesiale e che ha scatenato opposte reazioni anche in campo curiale. La Commissione teologica internazionale si è sentita in dovere di offrire una sua lettura esprimendo la novità e lo sconcerto di tale passo del papa. I quesiti di carattere storico sull’ermeneutica del passato a partire dal presente si mischiano infatti con le preoccupazioni sul fronte missionario e del dialogo con le culture e le religioni. È su questo fronte che le problematiche si fanno più serrate perché da una parte l’ammissione dei peccati della chiesa non lascia spazio a una visione integristica e solamente profetica della chiesa che deve fare i conti con i suoi
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errori senza occultarli. D’altra parte la sua vocazione missionaria e universale non le consente un relativismo sui temi della religio vera e dei protocolli etici. In verità siamo di fronte a un vero rompicapo se non si accetta la relatività ecclesiologica fra i tempi in un quadro di tensione escatologica tra il già dato come in uno specchio e il non ancora realizzato della visione faccia a faccia con Dio. In questo modello non integristico la liminalità rituale soccorre come istituzione del cambiamento, che non si rivolge prevalentemente extra, ma all’interno del popolo di Dio. La liminalità liturgica costringe l’istituzione chiesa a rimodellarsi e a rigenerarsi in un processo anti-strutturale continuo, che sconcerta le sicurezze della propria narrazione teologica e riattiva la liquidità del carisma evangelico sempre minacciato. In questo senso la liminalità è tema teologico di primo ordine, che non riguarda solo il funzionamento corretto della liturgia, ma ingaggia tutto il corpo ecclesiale e l’autocoscienza della sua missione di proselitismo in un mondo plurale non riducibile alle nostre proiezioni religiose. Il cristianesimo odierno infatti viene inteso dalle altre religioni come lo spirito dell’Occidente imperialista, che tenta di imporre le proprie verità etnocentriche in nome del Dio di Gesù Cristo. Su questo fronte si giocherà gran parte del cristianesimo del terzo millennio. La preoccupazione di rimodulare le strategie pastorali su una visione di escatologia penultima dovrebbe ridare slancio ai meccanismi di liminalità liturgica, che permettano alla chiesa di ritrovare lo slancio apostolico della comunità nascente.
5. Conclusione A conclusione della ricerca vorrei raccogliere in breve sintesi alcuni guadagni di questa prospettiva. Innanzitutto si rileva che la dimensione liminale dei riti non è una sovraesposizione ideo logica dettata da una certa antropologia culturale, che tuttavia può venire facilmente ridimensionata da altri approcci meno «drammatici» e più distensivi sul rito in relazione alla vita ordinaria. Il senso profondo e anche problematico dell’intervento
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piega in modo netto e senza tentennamenti verso l’essenziale liminalità di ogni rito, compresa la liturgia cristiana. Il discorso è in linea con l’ipotesi di lavoro che c’è ancora molto da scoprire del rito e che forse l’essenziale ci sfugge, come ha bene indicato A.N. Terrin: Si dovrà prima o poi ammettere che il rito comporta di fatto una condensazione di significati che si muove «sopra», «sotto» e «oltre» la conoscenza esplicita. Si tratta di un tipo di espansione cognitiva che implica il superamento degli orizzonti di libertà degli individui e degli spazi della coscienza, per cui l’indicatore finale e l’istanza ultima del rito appare essere sempre «un di più», che coinvolge da una parte l’«antropologico» costruito su una simbolica eccedente rispetto a ogni significato immediato e, dall’altra, coopta l’evento fondante, che dice altro rispetto a tutte le formalità possibili80.
Il lavoro fenomenologico svolto in diverse culture e religioni orienta in questa direzione per cui dire rito è dire rottura simbolica con la quotidianità, ovvero liminalità. La stessa tradizione cristiana lungo i secoli si è dotata di meccanismi liminali come il riposo festivo, l’iniziazione, la penitenza, sebbene non abbia mai riflettuto compiutamente sull’importanza di questa dimensione. L’ambiguità della situazione liminale ha anche prodotto, in direzione opposta, una serie di interdetti ecclesiastici per ragioni morali, ma non ha liquidato in toto l’interruzione liminale. Va sottolineato che spesso la riflessione è caduta sul prima, cioè la separazione, e sul dopo, cioè la riaggregazione, mentre sarebbe molto più interessante soffermarsi sul «frammezzo» perché è la condizione di possibilità del passaggio e quindi ha una sua consistenza specifica nell’essere né di qua né di là. Come nella rottura simbolica della metafora, la liminalità non è la semplice transizione da una situazione all’altra, ma è la condizione della transizione, la soglia non varcata. È una sospensione sul vuoto, che dal punto di vista religioso potrebbe chiamarsi estasi, una essere fuori di sé per venire eventualmente riempiti dal Sacro. Il limen è l’atto del passaggio ed è il tuffo nel sacro per una transizione sociologica, o morale, o di altro genere. 80
Terrin, Introduzione, in La natura del rito. Tradizione e rinnovamento, 8.
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Commentando una poesia di Georg Trakl, M. Heidegger scrive a proposito del verso «il dolore ha pietrificato la soglia»: «La soglia è l’impalcatura che regge il complesso della porta. Essa costituisce il punto nel quale i Due, l’esterno e l’interno, trapassano l’uno nell’altro. La soglia regge il frammezzo. Alla sua fidatezza si adatta ciò che nel frammezzo esce ed entra»81. Il limen ha la caratteristica della «fidatezza» per ciò che entra ed esce nell’atto di deframmentazione della propria identità e del proprio status verso la differenza. Una sorta di sacralità durevole e solida, col «potere di reggere e comporre». Due le conseguenze per la stessa liturgia cristiana: non si può pretendere di partecipare volentieri al rito senza uno scarto rispetto alla vita ordinaria, che dia il presentimento della vertigine e della scommessa ludica; inoltre non si può mantenere la promessa dogmatica di efficacia della grazia senza la rottura estatica del rito. Due conseguenze che normalmente non stanno nell’agenda dei liturgisti e dei teologi, che sono piuttosto interessati a strategie omologiche tra rito e vita morale. Molte pertinenti osservazioni sono state formulate per capire la malattia oscura della riforma liturgica del Vaticano II. Non si è mai dato sufficiente peso alla dinamica liminale, inopinatamente dimenticata o piuttosto ancora sospettata per la sua ambiguità e pericolosità e il cui oblio forse ha davvero reso il cristianesimo, tra le religioni, la meno religiosa.
81
M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, 38.
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INCONTRARE IL SACRO. LIMINALITÀ E RITUALE Adriana Destro
Di solito concentrare l’attenzione sul sacro può sembrare un modo per entrare in un pensiero che è difficile da esplicitare, che comporta atteggiamenti dubbiosi o al contrario totalmente assertivi e rassicuranti. Per parlare di incontro col sacro è necessario ricordare la pluralità delle credenze che esistono e qualificano le culture. Bisogna ricordare anche la gamma delle tecniche umane che tale incontro richiede. In primo luogo va notato che i gruppi umani hanno immaginato una grande varietà di cosmologie, mitologie, meccanismi, codici e narrazioni all’ininterrotta ricerca di posizioni e di entità sacre. Hanno usato questi mezzi per organizzare e strutturare il loro rapporto con un mondo estremamente influente e agognato, ma visto da precise prospettive. L’uomo è, di fatto, stato ideatore e costruttore di utopie e di dogmi che per un verso o per un altro, lo hanno collocato e trattenuto dentro diversi «sistemi religiosi», cioè entro insiemi coesi di logiche, strategie e credenze1. In questo senso, egli rimane – ed è questo quanto sottolinea la lettura socio-antropologica – l’autorità che ordinariamente ha disegnato le proprie traiettorie religiose, che ha «firmato e realizzato» i progetti religiosi che lo riguardavano.
Per sistema religioso qui si intende – in modo durkheimiano – un insieme di forze, nozioni e relazioni con il sovrumano (non effimere) caratterizzanti un gruppo umano. 1
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Assunto questo sfondo, si è obbligati a tenere conto di uno stretto legame tra eventi religiosi e vicende concrete di popoli e di gruppi umani. Rispetto al sacro, dunque, a livello di scienze sociali, ci si può muovere a partire da condizioni non irraggiungibili e incontrollabili. Anzi, si deve ammettere che le diverse forme della sacralità trasmettono o contengono un invito a chiarire la natura, la forza e il richiamo dell’ultraumano senza dimenticare l’umano. Quotidianamente assistiamo a fenomeni di portata impressionante, che vanno dall’entusiasmo nei riguardi di qualche leader religioso ispirato e trainante al contrasto dottrinale o al conflitto mortale fra gruppi religiosi. Sono fenomeni che ci confermano nella convinzione che il desiderio religioso coincida con quello della vita stessa. Per mantenerci sul piano della concretezza, dobbiamo dire che le interrogazioni sui fenomeni religiosi, sulla loro incidenza, sui loro effetti, sono da prendersi come indicatori rilevanti dello sviluppo umano. Oggi sono segni eloquenti, vistosi, in espansione, che si articolano su un piano culturale pluralista. In questo senso, il sociologo Peter L. Berger, puntando i riflettori sulle differenze religiose e cercando di analizzare la pluralità delle credenze, fa una considerazione sul cristianesimo delle origini che ci serve a dare uno sfondo a questo discorso. Il cristianesimo nacque in una situazione simile sotto il profilo del pluralismo religioso, a quella odierna per lo meno nelle grandi città dell’impero romano. Anche allora la fede nel Dio della tradizione biblica non poteva essere data per scontata (a differenza di quanto avvenne in periodi successivi della storia cristiana [...]). Tuttavia, è ragionevole affermare che il pluralismo religioso odierno è un fenomeno unico per intensità ed estensione2.
Il problema si può formulare così: che cosa produce o sollecita il senso del sacro nell’esistenza di un individuo o nel sociale? Come ci si rapporta al sacro, in termini di fare reale e di costruzione dell’individuo? La ricchezza delle culture è tale che, appena individuata la questione del rapporto col sacro, ci troviamo sommersi da una 2
P. Berger, Questioni di fede, Il Mulino, Bologna 2005, 29.
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molteplicità di sensazioni e di percezioni, da modalità di vita ottimamente attrezzate per l’impresa di raggiungere il sacro. L’analisi antropologica è sicuramente impegnata nell’investigazione di azioni e pratiche di persone, di gruppi umani che tentano di «avvicinare il sacro». Rispetto a queste azioni, negli assetti culturali umani esistenti o esistiti, spesso capita di non saper dire fin dove le cose che avvengono sono da considerare come parte del mondo della sacralità, di pertinenza non-umana, risultato di intervento divino, o come esito di un percorso umano incerto e indistinto. Il rapporto col sacro ha a che vedere con le emozioni, con le pulsioni, le passioni laddove ci misuriamo con raffigurazioni del mondo che sovrastano il livello ordinario dell’esistenza umana. È bene far spazio subito a una considerazione sulle emozioni, su ciò che interiormente ci motiva e ci spinge. Sulla base di ciò che Martha Nussbaum ci dice su alcune tensioni o pulsioni3 possiamo affermare che ordinariamente esiste, a ogni livello dell’esperienza culturale e religiosa degli uomini, un appassionato e sincero desiderio di sacro. Una speranza di riflettersi in esso che comporta un inesauribile lavorio della vita interiore, ma ha radici in ampi scenari. La società o i gruppi differiscono nelle loro credenze metafisiche, religiose e cosmologiche4. Le nostre emozioni sono composte di elementi che non abbiamo creato noi stessi [...]. Sono costrutti intelligenti della attività normativa umana [...]. Una plausibile concezione della costruzione sociale deve fare spazio sia alla intelligibilità transculturale, sia alla libertà umana5.
Ciò significa che l’uomo, a tutte le latitudini, si spinge verso il sacro per il bisogno di uscire dall’incertezza personale e per affrontare l’instabilità del mondo contingente, ma non opera nel vuoto. In primo luogo, guarda al sacro con occhi attenti al sé, al proprio mondo limitato o addirittura minuscolo, perché questo M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna 2004. Ivi, 193. 5 Ivi, 217. 3 4
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è il suo modo di sentire e di vivere le emozioni: è «bene» ciò che egli può cogliere come suo bene, ovvero ciò che lo riguarda e lo coinvolge. Ma anche ciò che è condiviso e stabilito. Certo è che la complessità delle questioni religiose (dentro i sistemi e fra i sistemi religiosi), così come oggi si impongono alla nostra attenzione, acutizzano l’interrogazione sul sacro e ci fanno percepire la serietà di problemi che stanno al di là delle emozioni strettamente personali.
1. Modelli del religioso È opportuno fare un passo avanti e chiamare in causa alcuni modelli interpretativi a proposito del sacro. Innanzitutto, per le scienze sociali, il sacro può essere un campo emotivo molto incisivo. Sul versante esperienziale il rapporto con il trascendente e l’assoluto è intuitivamente delicato, pieno di luci e di ombre. Culturalmente è un «cantiere sempre aperto», una fucina di sentimenti e di forme espressive. Quale è la forza che viene attribui ta al sacro nella vita di un gruppo o di una società? Primo modello. Assumendo come punto di vista generale l’innegabile forza del sacro, si può, seppure in modo schematico, intenderlo e raffigurarlo entro un modello cosmocentrico. Il sacro è il punto focale o epicentro del cosmo. È il suo motore, l’energia trainante. In questa prospettiva, il sacro è stato spesso assunto come carattere inesauribile e insostituibile del mondo intero. G. Filoramo dice che questa lettura tende appunto ad assolutizzare il cosmo come «il luogo di manifestazione del sacro»6. Questa immagine viene trasmessa ricorrendo all’idea di una «legge preesistente e nel contempo immanente» che regge tutto ciò che esiste, a partire dal mondo divino per terminare a varie forme umane e del potere umano profano. In questa raffigurazione esisterebbe un ordine soggiacente, una legge, una sa6 Cf. G. Filoramo, Il sacro e il potere. Il caso cristiano, Einaudi, Torino 2009, 7.
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piente e diffusa «dominazione del sacro sul cosmo». Innegabili sarebbero le proprietà delle forze sacre, ma esisterebbe anche una certa «autonomia del sacro» che secondo Filoramo in qualche misura si rivela «ambivalente ed eticamente indifferente»7. In un secondo modello, sempre seguendo Filoramo, la configurazione del sacro è vista in termini o attraverso la lente dell’armonia o della sintonia con la volontà di Dio. Questa appare come un’immagine eticamente più definita o orientata. Saremmo di fronte a una «volontà rivelata», accolta attraverso o per la mediazione di figure religiose profetiche. In questa situazione, un preciso piano divino prende forma o si realizza. Il sacro è motore di questa realizzazione. Il contenuto della volontà divina coincide «con la verità stessa», e « il sacro coincide con la stessa divinità unica»8. Le due visioni possono coincidere? Possono intrecciarsi o sono non commensurabili? A mio avviso, spesso si crede che l’uomo religioso concepisca o concettualizzi il sacro, in figure e combinazioni varie, sia come motore dell’universo sia come realizzazione di un piano divino. Non necessariamente ciò avviene ovunque e con le stesse modalità. Il modello cosmocentrico è di fatto molto diffuso a ogni latitudine. Come si può rapportare l’esperienza di contatto col sacro al piano socio-antropologico in senso stretto? Certamente, si può individuare, con una certa sicurezza, un modello che abbia riferimento a percorsi storici delle società, al vivere aggregato della gente, agli scopi di individui e di gruppi. In questo senso, ci si può riferire a un possibile terzo modello che implica nozioni e rappresentazioni della vita come è vissuta, con non eccessivo riferimento al cosmo o alla rivelazione divulgata da profeti. Non è in opposizione agli altri due, ma ha il suo punto focale nell’individuo vivente. Per questo terzo modello, va fatto riferimento a un’idea (che risale a Blaise Pascal e Giambattista Vico9), ed è riconducibile in Ivi, 8. Ivi, 8. 9 Cf. C. Calame - M. Kilani (sous la direction de), La fabrication de l’humain dans les cultures et en Antropologie, Payot, Lausanne 1999, 21. 7 8
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antropologia a C. Geertz10 e a una certa antropologia dei simboli, che è quella della «incompletezza dell’uomo» e dell’impiego dei significati simbolici che lo contornano, in ogni società storica. In sostanza, si sostiene che l’uomo nasca debole e incompleto e che si perfezioni attraverso un intricato complesso di principi e nozioni culturali, spesso di natura religiosa. L’uomo si costruisce cioè un po’ per volta, dandosi forme e scopi. Vivrebbe sempre «impigliato» in una rete di simboli che gli stanno intorno, lo investono, che lo accompagnano lungo la vita. Questa situazione, va tuttavia sottolineato, non si basa o non si avvale di un assetto culturale generico, bensì di un ordine o impianto specifico e contingente, determinato da eventi appartenenti a «una storia in atto». La teoria che lega l’incompletezza e la debolezza dell’uomo alla nascita a un necessario processo di perfezionamento culturale e interiore, come è noto, si oppone alla visione dell’uomo come fatto di natura immutabile e uniforme, uguale a se stesso ovunque e in perpetuità. Al contrario gli uomini sperimenterebbero nella vita la necessità di irrobustirsi, di crescere e di far crescere gli altri. Il sacro, in questa prospettiva, diventa parte di un modello che disciplina l’uomo, che lo orienta e gli traccia un percorso. Gli aspetti essenziali di questo perfezionamento sono strettamente vincolati alla persona vivente, alla sua condizione reale. In quest’ottica, all’interno della varietà delle situazioni concrete e inevitabili della vita, si potrebbe vedere il sacro – nella sua forma più inclusiva e forte – come ciò che sospinge e trattiene, che protegge, che premia, oppure che corregge e punisce. Ma va anche detto che è qualcosa che scatena passione, amore, condivisione, elevazione, impegno. Appare dunque come la «linea disciplinare» sia fatta di tanti fili, e che sia difficile individuarli a priori. In questo modello «di disciplinamento» occorre dar spazio alla concreta strumentazione (materiali reali che vengono usati) che sicuramente entra nel processo costruttivo del sé e in quello interattivo dell’umano con l’extra umano. La strumentazione 10
Cf. C. Geertz, Interpretazioni di culture, Il Mulino, Bologna 1998, 47-50.
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dà forza ad azioni e processi concepiti per organizzare la vita religiosa e sociale, cioè per esprimere necessarie finalità che «completano» l’uomo. È evidente che, in ogni caso, il sacro assume fisionomie precise nella misura in cui emerge da specifiche società, o gruppi umani. Nel processo di fabbricazione dell’umanità, direbbe S. Tambiah, si sono dotati di precise forme di religiosità e costrui scono un preciso percorso dell’uomo dentro un preciso «sistema religioso».
2. La relazione dialettica sacro-profano Dobbiamo partire da alcuni principi o presupposti, che derivano dal nostro vivere in società, senza «pensare di sapere» o di possedere un quadro esaustivo. Se si segue la immaginazione di E. Durkheim ci si trova davanti alla proposta di «una visione oggettivante e collettiva della religione». Secondo questa visione, che è stata ampiamente discussa e con la quale dunque bisogna entrare in contatto, si deve assumere la religione (e dunque la religiosità delle persone) come parte organizzativa forte dell’esistenza, della vita concreta e aggregata degli individui. La religione corrisponderebbe, come si è detto, a un sistema solidale «di credenze e di pratiche» relative a cose sacre, che uniscono in uno stesso vincolo tutti coloro che le riconoscono e vi aderiscono. Nella visione socio-antropologica, sopra richiamata, della «costruzione disciplinata» dunque va individuata un’idea di aggregazione comunitaria. L’aggregazione ha una conseguenza. I suoi risultati sono legati a precisi fattori polarizzanti, le «cose sacre»: ogni nucleo di cose sacre porta, all’interno di un gruppo, comunità, a una distinzione o differenziazione fra cose umane e non umane, a una grande frattura nella esperienza dei soggetti reali. Esiste una distanza netta fra le forze contenute nelle «cose sacre» e il restante mondo delle energie comuni. In sostanza, l’uomo vivrebbe entro un mondo in cui alcuni oggetti o materiali – dotati di supporto concreto o a volte totalmente intangibili – sono di ordine superiore rispetto ad altri
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elementi meno speciali, o meno esclusivi. Le cose sacre non solo sono distinte ma sono protette, sul piano operativo ed emotivo, da speciali norme. Per di più al sacro, a monte, è spesso riconosciuta una specifica, un’origine, un’esistenza non dipendente da altri fattori. Concettualmente sarebbe, per così dire, una realtà che non acquisisce nulla da altre realtà. E questo sicuramente incide sulle percezioni e sulle emozioni che gli crescono attorno. Se il sacro è altro, è cosa contenuta in sé. Diventa oggetto di una ricerca di orizzonti, di un’aspirazione, di una tensione specifica e diversa rispetto ad altre emozioni. L’alterità rende la cosa sacra mai totalmente conoscibile. È la molla di un progetto per raggiungere un obiettivo conoscitivo ed esperienziale alto o supremo, ma piuttosto sfuggente. In definitiva, da questa visione di cose sacre e separate dall’ordinario deriva una relazione molto delicata, tra mondo illimitato e divino e mondo umano comune. Essa è un dato inglobante e coinvolgente. Si può ammettere che le misteriose immagini, che le cose sacre incarnano, stimolano l’uomo, lo spingono in un delicato percorso verso il soprannaturale. Il nesso oppositivo fra sacro-profano influirebbe però su ciò che l’uomo immagina, intende o vuole che sia la religione. È su queste premesse relative alla divaricazione-frattura sacro-profano, che vale la pena di soffermarci per cercare di individuare, fin dove è possibile, situazioni e procedimenti riguardanti il mondo sacro. Gli uomini si sono creati molti schemi culturali su poteri, effetti e vicissitudini di chi ha a che fare col sacro e di ciò che la sua efficacia può produrre. In genere tutto ciò che è considerato sacro è giudicato venerabile e da trattare con sommo rispetto. I suoi poteri sono sconfinati e sublimati. Su questo scenario, ogni evento o materiale sacro, di norma, è considerato inestinguibile ed eterno. Non si esaurisce, non si consuma, non è riducibile a qualcosa che termina e muore. Il profano è simmetricamente temporaneo, reversibile, può scadere e perire. Per sostenere i tratti di intoccabilità e di separatezza si riterrebbe necessario difendere il sacro mediante divieti e regole protettive che si condensano in non fare, non toccare, non mangiare, cibarsi in un certo modo, vestirsi in un altro ancora. Il fare
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profano è più libero, consentito, esposto (ma spesso protetto dal sacro). Le dualità di questo genere sono comuni a molti sistemi religiosi e hanno l’effetto di creare un costante e forte bisogno di raggiungere con determinazione il sacro inaccessibile. La mancata saturazione dello spazio che intercorre fra sacro e profano, il mancato raggiungimento del trascendente è visto comunque come la condizione normale dell’individuo (che è nella costante necessità di continuare ad aspirare al contatto con la sacralità). C’è di più. Connesso a tutto questo esiste un problema di confini e bipartizioni che intensifica il valore dell’alterità sacra. L’idea di una posizione sicuramente «a parte» del sacro rispetto al profano, genera nelle persone un pensiero polarizzato molto forte. È evidente che le doppie versioni della realtà implicano convinzioni di cui non si dubita, che si vogliono difendere. Fanno pensare che si possa definire una linea chiara tra ordinedisordine, vero-falso, lecito-illecito. È questo che accomuna i sistemi religiosi. Tutti desiderano che tale solco, tale asimmetria del positivo e del negativo si affermi e duri. Questo tipo di desiderio spesso non è conscio, ma non per questo non porta a molte emozioni e a molti giudizi. Sulla sacralità della vita, del sangue, di una terra si sono costruite impellenti necessità, a tutte le latitudini, di fissare confini, di separare persone e popoli, di scatenare competizioni, di condannare a morte per sacrilegio.
3. La sacralizzazione muta lo stato di oggetti e di persone
Alla lettura precedente viene da accostare un’altra prospettiva di analisi, nota e diffusa. Si tratta di un pensiero tipicamente antropologico che si incentra sulla trasformazione-traduzione di cose usuali, per nulla eccezionali, in cose sacre. In moltissime situazioni si può attribuire valore soprannaturale a oggetti comuni attraverso una performance regolamentata. Parlare di attribuzione di valore sacro a ciò che è comune o deperibile, significa ragionare a proposito di un processo difficile da schematizzare e catalogare. Nelle varie culture, il sacro è per così
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dire personificato (immesso in persone) e reificato (immesso in cose) all’interno di procedimenti formali, ritualizzati che hanno radici remote e recondite. In altri termini, il sacro risulta da un processo di individuazione e istituzione di specifiche qualità che vengono attribuite a persone, a luoghi, a oggetti attraverso procedimenti e meccanismi ai quali l’uomo attribuisce valore istitutivo. Il potere sacro è veicolato attraverso un oggetto non sempre eccellente o singolare, anzi spesso temporaneo e fragile, che viene esaltato. Nel processo di sacralizzazione, la naturalità della cosa scompare e si dà una qualità soprannaturale aggiunta. Se si sacralizza un oggetto ordinario (acqua, cibo, tessuto, o resti umani) si può pensare che il sacro non sia totalmente altro e integralmente indipendente. Si può immaginare di essere di fronte a una concezione o a una credenza in un «valore o potere» che transita, ed è incorporato in un determinato oggetto, in forma o come perfezionamento dell’esistente. Questo transitare di valore avviene, ad esempio, in un corpo morto, in un oggetto di vestiario, e perfino in un utensile (coppa, piatto, medaglie, corone). Si crede nella possibile trasformazione di qualcosa in oggetto sacrale, a manifestazione, a salvaguardia, o come estensione del mondo ultraumano. Inutile dire che molto problematica è la selezione degli oggetti che vengono sacralizzati; diversa è la loro fisicità e la loro natura. Da cultura a cultura, gli oggetti che vengono sacralizzati sono organizzati in classi e insiemi, distanziati in gerarchie, col fine di regolamentarne la forza di attrazione. Tutto questo crea un ampio campo di oscillazione semantica. Le terminologie usate per la sacralizzazione, in queste circostanze, sono complesse e non sempre raffinate, per non dire oscure. Si parla con poca attenzione di terra sacra, di acqua sacra, di abiti o di vasi sacri, di ossa sacre. Per le persone, a volte, si parla di invasione dello spirito, di possessione, di virtù miracolistiche. Sul piano culturale esiste il rischio di cadere in un «eccesso», un po’ ingombrante e ambiguo di attribuzione di caratteri sacri. Siamo invasi da procedimenti o da meccanismi che divulgano tipi di sacro «incorporato» in questo o in quel materiale. Ciò sta a dire che si creano terreni sdrucciolevoli in campo religioso. Si
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dà spazio a domande inquietanti sulle autenticità degli oggetti sacri, sul «carattere integerrimo» delle persone che entrano in queste procedure della sacralizzazione. Come vedere, nel tempo, questa sacralizzazione? Una volta che la cosa entra nel processo di sacralizzazione, è «rapportata» a entità supreme e costanti da parte del mondo reale. Attraverso norme precise si impongono speciali tipi di cura, di venerazioni e di verifiche. E la cosa sacra assume forma stabile. Ciò che è stato istituito, o investito di sacralità, in sé, non cambierà status. Avendo le forme dell’inviolabilità e dell’efficacia continuativa e non reversibile, la cosa sacra rimane nella condizione ottenuta, con tutta l’efficacia che le è stata riconosciuta. Il mistero della morte, tanto quello della vita, interessa tutti. Non riceve risposte equivalenti o comparabili da individuo a individuo. Si manifesta in sentimenti e tensioni diverse, più o meno legate al trascendente, sul quale si reggono i mondi delle relazioni reali. Proprio per questo si possono creare alcune situazioni molto influenti, nel senso che l’oggetto sacralizzato, accettato e venerato, cambia i riferimenti degli e tra i soggetti, siano essi credenti o non credenti. Le emozioni stanno al vertice di questo mutamento perché la configurazione del mondo appare o è percepita diversa, perché mutano gli orizzonti di senso, i poli di orientamento e le forme di autorità che dominano la vita umana. Per fare un esempio, una reliquia corporea che si ritiene possa guarire qualsiasi malattia, interviene sul significato dell’«essere ammalato», cambia le attese o vivifica le speranze di chi si affida al suo potere. Talora la fiducia in una reliquia o in altri strumenti sacri fa sospendere i processi di cura, i trattamenti medici e introduce devozioni e preghiere, pellegrinaggi, oboli. O trasforma tali protocolli in mezzi collaterali della forza inesauribile della cosa sacra. Una cosa sacralizzata, proprio perché durevole, illumina una serie di concatenazioni fra luoghi e tempi, nel momento in cui incrementa fiducia o affidamento al sovraumano. Per altro verso, l’oggetto sacralizzato può essere esposto ad abbassamento, manipolazioni, contestazioni. Gli atti di incuria o di depotenziamento di un oggetto sacro non sfociano necessariamente in un loro annientamento. Comportano specifici risanamenti e ripa-
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razioni. Implicano la necessità di ripristinarlo e eventualmente di affermare la sua specificità e il suo vigore. Si crea tutto un mondo di meccanismi, diritti e doveri, verifiche e prove che incrementano i processi istitutivi o definitori all’interno dell’area della sacralizzazione. Si può dire che il meccanismo di attribuzione di valore sacrale serve a chiarire alcuni aspetti della natura più intima o insospettata di soggetti e di oggetti e dei loro rapporti reciproci. Un tale meccanismo non è senza ricadute, presenti e future, del massimo interesse in campo materiale e spirituale. Una circostanza non passa inosservata. Le cose sacre hanno origine, si è detto, da materiali ordinari, usati tutti i giorni, che vengono risignificati. Il trattamento della sacralizzazione, pur multiforme, ha ovunque pressapoco lo stesso esito di innalzamento e potenziamento della cosa. Tutto questo per dire che laddove entrano in scena oggetti sacri, le aspettative e i comportamenti umani presentano alcune somiglianze, anche se oggetti e meccanismi sono distanti. La sacra pipa dei Sioux o il tamburo sciamanico siberiano sotto questi profili, stanno alla pari o in linea con le maschere amerindiane, con le pietre degli Orishà dei fiumi cubani. E ancora stanno insieme ad animali totemici tabuizzati e a utensili dalle più varie e stravaganti fogge e dai mille significati simbolici. L’uomo, in alcune circostanze o appena può, sacralizza: trasforma cioè l’ordinario in supremo e superumano per garantirsi un rapporto con la sfera del mondo supremo. In questo sta il valore estensivo e misterioso delle cose sacre. Si è detto che il materiale sacro, risultato da un processo cultural-religioso possiede valori intoccabili e che il suo «stato di sacralità» non può essere facilmente svuotato di senso o declassato. La desacralizzazione è spesso addirittura impossibile; urta contro molte resistenze e richiede contromisure. Un’immagine venerata non viene trasformata senza preoccupazione o senza urto cultural-religioso, in un oggetto privato dell’arredo familiare, in un soprammobile. In situazioni precise, gli oggetti sacralizzati sono conservati in luoghi chiusi e separati. Se sono esponibili al pubblico, vengono destinati a qualche collezione di oggetti d’arte preziosi, e protetti nei musei.
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Nelle culture umane, è la materialità stessa dell’oggetto che viene generalmente protetta. Molto protetta. Una volta avvenuta la sacralizzazione, in casi specifici, l’oggetto sacro va addirittura fisicamente distrutto affinché la sua efficacia non sia manipolata, dispersa o travisata. In questo caso, si trasforma la natura e la destinazione del materiale (che non sono più necessarie nelle loro forme iniziali) e si salva l’intimo senso sacro. In alcuni sacrifici cruenti, l’animale viene rivestito di caratteri eccezionali e poi viene dissanguato e reso cibo, oppure ucciso e bruciato per diventare cenere (materiale decontaminante). Tutto questo dà forza allo statuto simbolico del corpo, del sangue dell’animale, della sua materialità sacra. Alcuni processi specifici di sacralizzazione si applicano a entità scarsamente percepite come materiali (il fiato e il vento o l’aria, il tuono, lo stormire di fronde, il calore del sole) o che sono riconosciute come del tutto immateriali, ma non considerate inesistenti o false (spiriti dell’aria, della terra, anime dei trapassati, alcuni animali o esseri non visibili, ecc). Possiamo dire che tutti i gruppi umani si sono molto applicati, ciascuno a modo proprio, a trovare un modo per sacralizzare una parte non esigua del proprio mondo, anche quella poco consistente o impalpabile. Ciò induce a dire che senza sacro la vita perde molto sapore. O che senza un rapporto verificabile col sacro, l’uomo pensa di vivere sottotono, di non vivere in pienezza. Nei gruppi umani, il sentimento del sacro – comunque esso sia decifrato e assunto – è ritenuto essenziale e talora concretamente dominante.
4. Come si incontra il sacro? Quali sono le pratiche che consentono di avvicinare il sacro? Gli oggetti sacri sarebbero inerti senza l’intervento consapevole dell’individuo nella attività spirituale e religiosa. È opportuno, per restringere l’osservazione, evitare di parlare di ampi campi della religiosità: delle mistiche, delle esperienze visionarie e apocalittiche, dei millenarismi vari. Si può gettare un rapido
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sguardo sul rito, dato che in ogni evento spirituale esso gioca un ruolo non secondario. Quasi tutti i riti religiosi si organizzano attorno o per mezzo di oggetti, strumenti, la cui natura è definita dal fatto che incarnano, si è visto, qualche qualità del sacro. L’agire rituale accompagna l’esistenza di tutti noi: per abitudine, per obbedienza, per bisogno di affermare credenze. Tutti passiamo da un rito all’altro. I riti, in campo profano o religioso, invariabilmente affidano qualche tipo di potere, di funzione a precisi soggetti. Danno così struttura e segnalano i tempi di innalzamento o di abbassamento dell’uomo. Il «fare rituale» degli individui può essere rappresentato come una catena inesauribile di segni, gesti, di atti insegnati e tramandati perché ritenuti capaci di compiere ciò che dicono di voler compiere. In questa ottica, si può ritenere che i riti legano quando dicono di legare, sciolgono quando dicono di liberare. Questo è il segreto del grande successo dei riti. I riti hanno un’altissima incidenza sulla capacità interpretativa ed emozionale dell’individuo. Costruiscono una posizione, un ruolo, una memoria di sé. Una formula ritualizzata (ad esempio quella pronunciata posando una mano sulla Bibbia) istituisce un testimone attendibile e una memoria veritiera; un unguento versato con gesto irreversibile sulla testa di una persona istituisce un affiliato; un anello ritualmente infilato al dito (benché rimovibile) equivale o è un segnale che documenta un legame definitivo e colmo di conseguenze. Va ricordato che in campo religioso il processo rituale «costituisce una soglia tra il vivere profano e il vivere sacro»11. I riti non sono solo comportamenti decorativi o di contorno. Non sono atti di ambientamento, cornici della vita religiosa. Creano le condizioni per accettare ciò che si deve o si vuol far accettare. Creano una partecipazione delle persone a ciò che si ritiene la verità, la realtà. Costituiscono un modo per spostarsi o procedere – da grado a grado, da area ad area – nella cultura religiosa. Esiste una crescita costante, un accumulo progressivo e cumulativo di riti lungo l’arco della vita di tutti noi. Spesso i riti si 11
V. Turner, Antropologia della performance, Il Mulino, Bologna 1993, 81.
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combinano fra loro e a volte si giustificano reciprocamente: il rito del seppellimento chiama in causa o in vita altri riti di memorizzazione del defunto (a precisi intervalli, diciamo annuali, entro un preciso calendario). La posizione o la solidità di un soggetto rituale cresce attraverso un intenso «via-vai rituale», che spesso ha luogo in modo regolare o sintomaticamente prevedibile. Ciò che va tenuto presente, insomma, è che esiste una specie di patrimonio ritualistico personale, che creiamo nel tempo e al quale ricorriamo nelle più varie situazioni dell’esistenza via via, appunto, che si procede e si matura. Gli effetti di un’attività rituale possono essere automatici. In generale, non serve richiamarsi costantemente a precise performances, o riaffermarle giorno dopo giorno. Un atto di purificazione (tante le sue forme!) una volta compiuto, funziona senza che venga richiamato il perché e il come opera. Un’ultima osservazione. I riti non si elidono a vicenda. Gli effetti di un rito, tuttavia, dove è possibile o necessario si cancellano con un altro rito, non con meccanismi di altra natura e neppure mediante normative al di fuori dell’istituzione rituale. Se si è stati ritualmente ammessi a qualche culto, si è sempre liberi di uscire da questa condizione, per propria decisione. Ma esiste un residuo legame che permane. Qualche evento rituale è previsto e possibile e deve intervenire per annullare tale residuo. Laddove è in causa la sacralità, si tiene in vita un legame col mondo sacro fintanto che un altro strumento o rito interrompe tale nesso dipendenza. Questo è un punto delicato. La gestione dei riti è cosa complessa e ardua. Illumina l’effetto oggettivo che il rito produce, ma richiede osservanze inderogabili12. 5. Quali componenti entrano nel «fare rituale»? Per dare un contenuto più specifico al rito, essenzialmente a quello religioso, occorre indicare più esplicitamente alcuni dati che lo qualificano. Nelle attività religiose ha evidentemente Per cambiare la mia condizione rituale, già acquisita, devo tener conto della soglia di cui si è detto. Sul piano culturale questo implica un sistema di norme che preveda tale percorso. 12
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peso la posizione del soggetto implicato, del soggetto che opera o sceglie comportamenti religiosi. Nella propria formazione religiosa, l’individuo passa attraverso condizioni e influenze che l’ambiente gli suggerisce o gli impone. Esse servono a determinare la sua fisionomia, la parte che gli spetta all’interno del suo gruppo religioso. È nei riti che ci si sottrae a una concezione omogeneizzante e standard delle persone, e si dà il via a un’operazione di «collocazione socio-religiosa delle persone» usando segnali di differenza e di eccellenza. In alcune situazioni culturali il rito comporta marchiature forti, incisioni o mutilazioni del corpo, di parti anatomiche connesse alla riproduzione. Queste segnature forti, invasive fanno capire i contenuti e le qualità del corpo. Fanno capire che non si può assumerlo così come è, ma va trasformato. È questo un dilemma che affiora nei soggetti e conduce a pratiche di astensione dal cibo e dal sonno, dai rapporti sessuali, così come di assunzioni di precise posizioni (come flessioni, prostrazioni, immobilità e silenzio). Osserviamo bene il rapporto marginalità-liminalità, che non è sempre visto in modo sufficientemente sistematico. L’individuo, nel rito, è spesso in uno stato di «marginalità» e di «liminalità». I termini non sono equivalenti. In un tentativo strenuo di differenziazione, si può dire che la marginalità, in generale, ha segno negativo. Corrisponde a privazione o forzata rinuncia, sospensione di ruolo, carenza di radici o di funzioni, ed è spesso percepibile come debole presenza di alcuni soggetti nel mondo usuale. In ogni caso, la marginalità ha uno spettro di significati ampio e generico: marca una distanza, un rapporto insoddisfacente tra gradi di autorità, capacità, autonomia e presenza. Corrisponde a volte a un modo o a uno stato limbale. La liminalità corrisponde a una posizione positiva, a una disposizione, inclinazione e desiderio. La liminalità è usualmente scelta e non subita, indica una posizione di attesa, una aspettativa. Una speranza. Attribuisce intenzioni e desiderio di avanzamento verso una fase o area gratificante per l’individuo. Può essere concepita o definita come uno stato in mutazione, un passaggio stimolante, graduato da una condizione a un’altra che sta per essere formulata. Tra la marginalità e la liminalità
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esiste uno scarto ben percepibile. Una volta per tutte va detto che la seconda appare più dinamica o più aperta al divenire, a effetti costruttivi. Anche se nella vita ordinaria si è marginali, nella liminalità si può essere estremamente incisivi e influenti. Si può essere periferici o decentrati con grande o crescente forza e radicalità nella trasformazione. Ogni valutazione della distinzione fra marginale e liminale deve tener conto del «fare rituale» che accompagna spesso movimenti e adeguamenti di soggetti nell’immenso gioco della creazione religioso-culturale. Nel rito si cammina spesso verso un nuovo inizio, un migliore o più elevato stato di vita. Nel rito, dunque, non ci si immagina di stare fermi e incatenati in una posizione già detenuta, di subire una privazione di ruoli, di segnali, di forme simboliche. Al contrario, si attende il raggiungimento di mete alte. Nel rito si combatte proprio un «marginalismo senza via di uscita» e ci si proietta in una liminalità creativa. Si creano soluzioni alla marginalità stessa, alla condizione di deboli, scartati e avviliti. Si può entrare nel rito come marginali, ma il meccanismo liminale ha l’intento di spingere verso nuovi orizzonti e speranze nuove. Molte sono le forme di «uomo liminale» che l’etnografia ha rilevato. Si tratta sovente di individui che si definiscono per un volontario sradicamento, per la distanza da ogni forma di potere, per la mobilità o diversità di obiettivi ricercati. Nelle varie culture, tanti sono gli stili liminali di precisi individui. Essi, a volte, sono motivati da una volontaria uscita dalle logiche alle quali altri uomini sono soggetti. Essi indicizzano una tensione verso l’irraggiungibile potere supremo. Per dare più concretezza a questo quadro, richiamiamo la storia di Gesù. Le forme socio-culturali assunte dal movimento di Gesù, al suo sorgere, erano di tipo marginale, come si è sostenuto ne L’uomo Gesù13. Rispetto ai vertici della società giudaica in cui si era formato, il movimento occupava spazi e posizioni non istituzionali, tutt’altro che formalmente stabilizzati. Come si dice nel libro, Gesù non aveva fondato una scuola o altro di simile per collocarsi bene nella sua società. Quindi i «suoi», si 13
Cf. A. Destro - M. Pesce, L’uomo Gesù, Mondadori, Milano 2009.
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erano legati a un leader-maestro non appartenente ai livelli della ordinaria gestione sociale e tanto meno ai vertici religiosi. Erano agenti interstiziali. Gesù era un maestro indipendente, a volte solitario, mosso dal desiderio di vivere in modo personale rispetto ai sistemi in atto all’epoca. Aveva fatto una scelta radicale. Aveva scelto di vivere «senza mezzi», di agire senza istituzioni protettive. Si può definirlo sostanzialmente periferico o decentrato nel suo ambiente istituzionale. Aveva assunto lo stile di «predicatore» (diremmo oggi) che non possiede nulla, che si espone a tutti, che vuole incontrare ogni tipo di persona. E che per questo si muoveva costantemente da villaggio a villaggio. Era un uomo della campagna, che percorre le strade di campagna ed entra nelle case di coloro che gli offrono ospitalità14. Non cercava mezzi per stanziarsi o per diventare un capo-popolo con un seguito stabile e specializzato, capace di scalare il potere. Era in costante ricerca di interlocutori nuovi; non intendeva posizionarsi «al comando» di chi contava nel mondo in cui viveva. Quello di Gesù è uno stile non di semplice sobrietà, di astensione dai ruoli importanti. È uno stile in grado di affascinare chi aveva incontrato e di accendere un odio inestinguibile in chi lo aveva rifiutato e lo voleva togliere dalla faccia della terra. Un segno della sua radicale marginalità può essere visto nel fatto che Gesù non amava soggiornare o insediarsi nelle città. Non circolava, d’abitudine, nei centri urbani, deputati o sede del potere. Nelle città c’è stato (a Gerusalemme, ad esempio), anche se non si è comportato da cittadino e non si è posto a capo di processi di inurbamento e di collaborazione con i romani. Una persona che avesse desiderato assumere una buona posizione, avrebbe scelto di stare in città e di frequentare alcuni strati cittadini importanti. La radicalità di Gesù è sicuramente alla base della sua figura «autorevole». È proprio perché egli è in una condizione estranea ai giochi socio-politici, o dell’usuale dominio di ceti e strati, che è in grado di inaugurare uno stato liminale che riguarda la gente comune, i drammi e le aspettative di tutti. La sua margina14
Cf. ivi, 128-156.
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lità gli consente di non rinunciare all’autonomia, di non trovarsi mai alle dipendenze di qualcuno. Gli consente di stare con ogni tipo di persona, in un faccia a faccia molto caratteristico. Gesù è imprevedibilmente o scandalosamente vicino a poveri e ricchi, uomini e donne, gente sradicata, oppure radicata nelle case, contadini e pescatori, viandanti, stranieri, perché è marginale. L’utopia si fa strada dove esistono relazioni e contatti umani in evoluzione. La liminalità di Gesù non si concretizza solo in uno stare alla pari con la gente, bensì nello stare con le persone comuni al fine di rimanere in attesa del regno di Dio, della condizione più gratificante, estrema e definitiva. Intervenendo nella vita di chiunque, Gesù è in grado di dar vita a uno stato di liminalità in coloro che lo seguono. È così che egli, con una azione diretta, intende fare loro oltrepassare una soglia, sanare una situazione, perseguire un salvataggio («non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele»: Mt 15,24). In altri termini, la marginalità socio-culturale del predicatore-maestro appena descritto offre strade per istaurare ampie relazioni liminali di tipo orizzontale, non offre mezzi per scalate o per dare energia a puri verticismi15. Se come marginale non legato ad alcun luogo direttivo, ad alcun ruolo imperativo, un leader religioso può essere in grado di varcare soglie e passaggi, aprire strade, se ha la libertà e l’autonomia per farlo, per compiere imprese di sconvolgenti liminalità, inaugura un mondo nuovo16. In sostanza, la marginalità, condizione assolutamente bassa o poco incisiva nelle valutazione di individui e gruppi, è fra i mezzi più efficaci per salire molto in alto. Più in basso ci si colloca più alta è la ricompensa e più alto può essere il livello religioso che si può raggiungere. 15 Una precisazione. Di altro genere è la marginalità subita e l’estraniazione dal «mondo degli altri» per incapacità, o per cause di ingiustizia: si tratta di stati di privazione che difficilmente consentono mosse od operazioni costruttive. 16 In sede religiosa, la liminalità può essere poi istituzionalizzata, tradotta in un modello stabile e obbligatorio (voti di astinenza, povertà, dovere di obbedienza, elemosina, preghiera obbligatoria, ecc). Tutto questo si traduce e comporta lontananza dall’ambiente mondano che conta, significa essere nella marginalità. Ma avvicina al sacro o a ciò che culturalmente lo incarna o lo rappresenta, o lo riproduce.
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6. Liminalità iniziatica La liminalità normalmente è espressa e messa a frutto in un rito. Nel rito la ricerca del contatto soprannaturale è spesso alimentata, come si è visto, da tecniche performative accurate. Di solito non si raggiunge il livello o la condizione del sacro se non si è passati attraverso qualche evento rituale formativo e segnaletico: laddove questo evento ha la forma di «prova» (ossia di esperienza educativa confermata) si parla di iniziazione. Il caso iniziatico è dunque paradigmatico ed eloquente rispetto alla liminalità. Il meccanismo dell’iniziazione può essere interiormente vissuto, può essere condiviso con altri, subito per dovere, richiesto da qualche autorità. Ma è sempre accettato come segno di miglioramento, di perfezionamento (anche nei casi in cui si interviene sul corpo fisico con manipolazioni e segni indelebili e inquietanti). L’iniziato è un liminale perché parte dalla convinzione di entrare in una situazione più corretta. Lo fa attraverso il digiuno, la segregazione, la purificazione, restrizioni e prove, mortificazioni corporali, silenzio, ma anche con canto, parole, dialoghi, danze, feste. Con questo intento ogni iniziando si prepara e cerca il contatto con divino, cerca di varcare la soglia tra umano e sovraumano. Sta sul punto di assumere una nuova dimensione. In altre parole, cercare il sacro nella iniziazione spesso significa assumere la posizione di liminale e accettarne le conseguenze. Per rimanere all’esempio di Gesù, va detto che nel Vangelo di Giovanni, il Gesù in scena non è tanto quello marginale, non inserito, che transita dai villaggi. È quello che parla e si mette in relazione faccia a faccia con tutti quelli che incontra. Come discusso prima17, è un soggetto che crea un passaggio dei suoi da una condizione a un’altra. Egli si muove entro atti iniziatici (scelta, istruzione, condivisione di vita «eccentrica») come soggetto agente che costruisce nuovi individui transitando e andando al di là delle loro abitudini. Ecco l’evento narrato da Giovanni: Gesù una certa sera invita i suoi in un luogo priva17 Cf. A. Destro - M. Pesce, Come nasce una religione, Morcelliana, Brescia 2000, 41-63.
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to e separato. La narrazione di Giovanni mette in luce un atto simbolicamente complesso. Siamo di fronte alla scena di una «cena», un’occasione tipica, come si usa in certi gruppi religiosi. Si sta mangiando insieme. Il mangiare è un segno di comunione di intenti e di progetti. Nel testo di Giovanni, Gesù interrompe la cena e sottopone i discepoli a un vero rito iniziatico. Li costituisce in aggregato con caratteri liminali, compie gesti che indicano distinzione, ideale capovolgimento del mondo. Gesù istruisce i suoi con una gestualità specifica, col rito della «lavanda dei piedi», pieno di significati multipli. Gesù qui è maestro che si veste da schiavo e che capovolge il suo ruolo e quello dei suoi seguaci, momentaneamente, per la durata di un rito esclusivo (sono coinvolti solo i membri del gruppo di Gesù). È evidente che la transizione o trasposizioni dei seguaci inquadra una situazione creata apposta e diretta a un mutamento cognitivo ed esperienziale. Suggerisco di dare attenzione, per illuminare la liminalità, alla questione della differenza culturale, che non va mai sottovalutata. Le culture sono molte. Pertanto nell’area della «procedura iniziatica» entra una grande quantità di varianti, di concetti relativi a identità, a partecipazione ed esclusione. Per circoscrivere i contorni del fenomeno iniziatico qui non prendiamo in considerazione che pochi tratti o fenomeni, lasciando a lato temi sensibili (come la religiosità etnica, rivendicazione dei diritti di espressione, la legittimità della scelta personale dell’incontro con il sacro, ecc.).
7. Alcuni caratteri «estensibili» della liminalità Il paradigma dell’iniziazione non copre tutti i casi di rito, ma offre una griglia essenziale. È la punta di un iceberg. In ogni rito per contro esiste un tessuto, spesso o sottile, di eventi iniziatici. A. Da quanto detto si può ottenere l’idea chiave che l’attività rituale spesso nasce a partire da uno stato di «imprecisione», di incertezza identitaria e religiosa, all’interno di uno stato di scarsità, di marginalità. Diventa sinonimo di liminalità matura
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e attiva. L’uomo rituale si trova nella condizione di uscire da questa indeterminatezza ed entra in uno stato di chiarificazione, voluta e preparata con l’intenzione di distinguersi da ciò che lo contorna, dai fenomeni in corso. Ogni forma di iniziazione viene assunta come atto necessario, mezzo per dare un’alternativa, imprimere una svolta alla propria vita. In questo senso, liminalità è lo sfondo che esprime la tensione e sintetizza bene i processi iniziatici. B. La trasformazione iniziatica, in senso migliorativo, è influente (e constatabile) perché è di tipo corporale. Questo aiuta a capire l’efficacia di ogni rito. Non è limitata all’interiorità, al sé intimo. È del tutto comprensibile che incida sulle disposizioni personali intime, ma si imprime e si esprime nel corpo. Si sa, ad esempio, ed è un fatto fin troppo banale, che nelle società a noi più vicine per storia e idealità, può sintetizzarsi e rivelarsi attraverso un cambiamento della foggia dell’abito, a una variazione del colore di ciò che indossiamo (bianco, rosso, nero, marrone, grigio, arancione, viola). Come si usa dire, sul corpo dell’iniziato «si scrive» (con olio, acqua, succhi vegetali, polveri minerali). Si notifica, così, a tutti l’inizio di una storia personale e istituzionale. Un esempio: l’alterazione anatomica permanente. Una volta compiuta, essa segna una modalità di vita diversa per intensità o direzione. Ha valore probatorio, nel senso che in essa si rivela un preciso concetto di sé, del proprio destino, di una propria appartenenza. È il corpo che viene valorizzato, modificato, ripensato e perfezionato, come si dice all’inizio, in modo indelebile. Per visualizzare una volontaria modificazione del percorso cultural-religioso dell’individuo. Potremmo alla fine dire che, per essere efficace, l’azione rituale deve poter essere letta nel corpo anche attraverso formali simboli distintivi che si portano (una semplice catenina, un cordoncino, un nastro, bottoni e stellette, fasce, cappucci, ovvero capelli, barbe, tonsure). Sono tutti segni che devono trasmettere le qualità e le identità inaugurate con un qualche tipo di iniziazione. Vale la pena ritornare un momento sulla complessità del meccanismo iniziatico. L’iniziazione è spesso processuale, si concretizza in una sequenza di atti, che si accostano e si somma-
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no l’uno all’altro. È un’acquisizione parziale e graduale di requisiti e caratteristiche (relative a specifiche persone). Altri riti, non sono processuali. Possono essere ciclici, ripetitivi e segnano lo scorrere del tempo o precise porzioni-spanne di tempo, oppure scansioni, ritmi cadenzati (sono relativi a un intero gruppo o comunità)18. Tutti noi abbiamo, a più riprese, ricevuto iniziazioni su iniziazioni e abbiamo costruito così la nostra storia rituale. Quale è il significato che a questo punto possiamo dare alla ritualità religiosa e al suo apparato strumentale di cose sacre? Essa è la modalità attraverso la quale «siamo fabbricati» e ci fabbrichiamo. Percorrendo molte strade, non in modo monistico e assoluto.
8. Un quadro finale Difficile dare un quadro finale esaustivo. Si suggeriscono solo alcuni punti. Non si esce mai dalla necessità di intraprendere riti, di «stare dentro» i riti o di avviarne di nuovi. Questo dato conduce a dire che non possedere una storia o sequenza di riti personali o non poterli sperimentare, visto che sono stati ideati per costruire il destino di soggetto umano «completo», significa perdere molti punti di orientamento del mondo profano che tende al sacro. Si è detto che i riti sono mezzi istitutivi, utilizzati a tutti i livelli dell’esistenza umana. Esprimono la forza stessa delle pulsioni. Nella costruzione dell’umanità, per essere efficaci le azioni rituali devono essere riconoscibili in quanto tali. Devono essere caricate di simboli e di valori, devono essere solennizzate (anche se si maneggiano cose umili). È così che diventano contenitori di una vita emotiva e origine di specifiche tendenze. 18 Il problema è quanto spesso siamo passati attraverso perfomances liminali. In quale modo e con quale efficacia ci siamo entrati. Tutti noi siamo stati esplicitamente trasformati e ri-trasformati con acqua, vestizioni, strumenti delle luci (fuochi e candele), con annunci e parole, siamo entrati in manifestazioni rituali di vario genere con impiego di oggetti sacralizzati o semi-sacralizzati (teche e vasi, teli, piante, essenze vegetali).
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La ragione del rito, il suo impatto sulla vita, in sostanza, è legato alla possibilità di scatenare sensazioni, di poterle esprimere, assorbirle e metabolizzarle. Nel rito si apprende e si potenzia il cambiamento di prospettiva esistenziale che la ricerca del sacro implica. In altri termini, il rito si giustifica per il fatto che dipende dai segni che permettono di comprendere l’evento in corso, la traiettoria intrapresa dell’individuo. Pertanto il rito esplica e chiarifica significati impliciti: alla base di ogni rito esiste un canone, complesso e solido, di norme non alterabili o violabili. Si tratta di un codice che rende palese l’impulso interiore e lo rende comunicazione e fattore coesivo. Entro questo quadro unico, seppur sommario, va sottolinea to un punto cruciale. Nel rito si «esplicitano» principi di varia natura che guidano concreti aspetti della vita: la ricerca del sé, la ricerca del sacro, l’elevazione personale, l’obbedienza al piano divino o cosmico. Senza rituale un principio teorico-ideologico non dà effetti, è come se non esistesse. Una credenza o una nozione ordinatrice del rapporto umano-extraumano rimane inerte. Fuori del rito, tutto un apparato ideologico o tutte le forme emozionali (e costitutive dell’individuo) possono rimanere lettera morta. Il rito dunque non traduce linearmente, perfettamente o alla lettera un rapporto col sacro, una credenza in mondi futuri perfetti, o altro. C’è sempre un certo lavoro di traduzione, una parziale coincidenza fra contenuto di una credenza e sua «messa in vista» nel rito. Con il rito non si esprime tutto il senso implicito o l’orizzonte influente di una credenza. Con la «pochezza» di un rito non si esprime la vastità dell’extra-umano. Si trasmettono degli squarci, delle figure del sacro, del divino. Per inciso va detto che non di rado si corre il rischio di donare al rito più significato di quello che possa contenere e convogliare. L’antropologia che pure cerca di assumere le categorie umane dell’agire e del credere e cerca di capire le preferenze di chi «pratica un rito» o si esprime emotivamente nel rito, è ben lontana dal dare spiegazioni inappellabili al nesso che collega la base ideale-ideologica alla realizzazione rituale. Resta vero che il rito è una delle esplicazioni di una credenza-
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fede, una delle sue espressioni essenziali, delle sue emanazioni efficaci. È atto umano in cui sono esposte parole e sintetizzati gesti convenzionali, per avvicinare le verità in cui si crede. Il «fare rituale» conferma la forza di un dato religioso ma non esaurisce il suo senso. Insomma, da un lato non sfugge quanto il significato finale del rapporto rito-credenza sia incerto e difficile da definire. Dall’altro si deve accettare che i «principi ideali» possano motivare e mobilitare il fare rituale senza imporre «una singola soluzione rituale» onnicomprensiva e perpetuamente intoccabile.
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SECONDa parte _______________________________________________________________
LA LIMINALITÀ nel contesto cristiano _______________________________________________________________ R. Penna G. Laiti L. Soravito de Franceschi G. Mazza
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CHIESE DELLE ORIGINI E LIMINALITÀ Romano Penna
Se c’è un concetto che esprime bene il livello di collocazione delle prime comunità cristiane nel loro ambiente socio-culturale è quello di liminalità. Non sto qui a rifare la storia di questa idea, che è una acquisizione degli studi antropologici del XX secolo e che conosce soprattutto i nomi di Arnold van Gennep (1873-1957) e di Victor Turner (1920-1983)1. Ricordo soltanto che, secondo van Gennep, la liminalità costituisce il secondo di tre momenti nel cambiamento di uno status sociale (separazione – margine – aggregazione), dove il margine/limen rappresenta una fase di transito e quindi di sospensione, che relega l’individuo ai margini della società nell’attesa del suo ingresso in uno status sociale nuovo. Da parte sua, Turner ha focalizzato il suo interesse proprio sulla seconda fase, e la liminalità è considerata come la forza preposta a rompere e ricostituire i sistemi sociali nella loro dimensione collettiva. È proprio questa concezione che si attaglia correttamente al genere di comunità costituito dai primi gruppi cristiani. Secondo Turner, «l’essenza della liminalità consiste nella scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella loro ricomposizione libera e, talvolta, ludica»2; egli, dunque, stando alla sua terminologia, si serve del concetto di «dramma sociale» come designazione del momento di rottuCf. A. van Gennep, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1981 (ed. orig, Paris 1909); V. Turner, Il processo rituale. Struttura e anti-struttura, Morcelliana, Brescia 1972, 20012 (ed. orig., London 1969); Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986, 20072 (ed. orig., New York 1982). 2 Turner, Dal rito al teatro, 59. 1
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ra, che determina il passaggio da una struttura esistente a una struttura nuova3, e focalizza l’attenzione sull’idea di communitas e sui suoi meccanismi di cambiamento e ristrutturazione, intendendola basilarmente come società esistenziale, omogenea e non strutturata, che si sviluppa poi in communitas normativa e ideologica4. In questa prospettiva è inevitabile che la fase liminale di un gruppo comporti la perdita dei riferimenti sociali preesistenti. Da qui deriva il fatto dell’estraniazione del gruppo stesso, la quale tuttavia costituisce anche un fattore denso di virtualità creativa. Applicando il concetto alle origini cristiane, è ben documentato dai testi il fatto che la nuova collocazione identitaria dei discepoli di Gesù nella fase post-pasquale li espose all’ostilità dell’ambiente giudaico di origine. Essi infatti si trovarono in una condizione di indeterminatezza rispetto alla società in cui vivevano, costituendo una minoranza che rischiava di perdere la propria fisionomia ancora in formazione5. E intendo una liminalità non soltanto rituale, ma anche, se non soprattutto, culturale ed esistenziale. Ma dobbiamo riconoscere che lo stesso problema si poneva già per il Gesù terreno. È significativo il suo porsi in termini critici, almeno nei fatti, verso il suo ambiente sociale, come si vede nella prassi dell’itineranza, nella scelta della povertà, nella frequentazione di persone marginali, e nella libertà verso il potere tanto politico (cf. Mt 22,15-22: il tributo a Cesare; Lc 13,32: Erode Antipa qualificato «volpe») quando religioso (cf. Mc 11,15-18: il gesto nel tempio). Non per nulla alcuni autori degli scorsi decenni hanno accostato Gesù e il suo movimento a quello dei filosofi cinici. L’operazione è fortemente contesta bile6. Ma certo è che, come Gesù si collocò al margine/limen della società7, così fecero anche il cinismo e i suoi rappresentanCf. ivi, 86. Cf. Turner, Il processo rituale, 111-179. 5 Cf. A. Destro - M. Pesce, Come nasce una religione. Antropologia ed esegesi del Vangelo di Giovanni, Laterza, Roma-Bari 2000, 27. 6 Cf. R. Penna, Elementi di grecità in Gesù di Nazaret? I termini della questione, «Ricerche Storico-Bibliche» 2 (2011), 27-41. 7 Vedi il titolo dei quattro volumi sul Gesù storico di J.P. Meier, Un ebreo 3 4
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ti8. I giudizi critici su Gesù (cf. Mt 9,14-17; Mc 3,20-30; Lc 7,34) e la condanna da lui subita sono indice evidente di una crisi di rifiuto da parte di una società che ufficialmente non si riconosceva nelle sue posizioni. Analogamente i Cinici, connotati da un timbro di anarchia, tanto morale quanto politica, conobbero delle opposizioni di vario genere, a partire dal giudizio di Platone su Diogene di Sinope («un Socrate impazzito») a quello di Cicerone («il sistema dei Cinici va respinto in blocco perché contrario alla verecondia»), fino alla loro effettiva espulsione da Roma sotto Vespasiano (Dione Cassio 65,13). Dedichiamo però la nostra attenzione al caso della chiesa o meglio delle chiese che si costituirono dopo i fatti del «terzo giorno». Infatti, il passaggio della nuova fede pasquale in Gesù crocifisso-risorto verificatosi dall’ambito israelitico a quello gentile greco-romano comportò qualche novità almeno parziale sul piano della prassi cultuale dei suoi sostenitori. Ma la cosa è chiara fin dalla prima chiesa gerosolimitana.
1. La chiesa di Gerusalemme La differenza più evidente sul piano socio-religioso, che connota i primi credenti ebrei nella messianicità di Gesù riguarda la frequentazione del tempio gerosolimitano. Infatti, mentre i «cristiani» di Gerusalemme lo frequentavano ancora (cf. Lc 24,53; At 2,46a; 3,1; 5,42; 21,23-24), quelli presenti nelle altre città del Mediterraneo ovviamente erano impossibilitati a prendere parte alle sue liturgie; tuttavia, questa considerazione vale né più né meno anche per tutte le comunità giudaiche della diaspora per il semplice motivo della loro lontananza dalla «metropoli» del giudaismo. Quelle comunità riconoscevano certamente il tempio quale fattore di unità etnico-religiosa, come denota la prassi della tassa annuale, delle donazioni fatte, e dei pellegrinaggi per marginale, Queriniana, Brescia 2001-2009, che si sarebbero potuti anche intitolare Un ebreo liminale! 8 Cf. G. Reale, Storia della filosofia antica, III, Vita e Pensiero, Milano 1976, 25-54.
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le feste stabilite; però «se il giudaismo della diaspora sopravvisse alla distruzione del tempio è perché disponeva di altre risorse efficaci», sicché si deve pensare che quel tempio godesse di «un’importanza più simbolica che concreta»9. Ma anche i giudei/cristiani presenti a Gerusalemme non si sentivano più completamente agganciati al solo tempio. Se dobbiamo credere a Luca, infatti, dopo aver scritto che essi «ogni giorno frequentavano concordemente il Tempio» (At 2,46a = tò hierón, cioè l’area templare), ciò avveniva solo perché lo consideravano luogo tradizionale di preghiera (cf. anche Lc 24,53; At 3,1) e, certo sulla linea di quanto aveva già fatto Gesù, anche come possibile luogo di insegnamento (cf. At 5,21 [«nel Tempio»].42 [«nel Tempio e nelle case»]). Però Luca subito aggiunge: «Ma spezzavano il pane nelle singole case (kat’oíkon) prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46b). Sostenere che la loro frequenza al tempio documenta non soltanto la loro costante appartenenza alla religione dei padri, ma soprattutto il fatto che in quel modo essi quasi prendono possesso del tempio come fece Gesù, rivendicando così di essere il vero Israele10, può ben essere una tesi eccessiva. La cosa più importante, infatti, è segnalata dal sintagma greco kat’oíkon del v.26b: i discepoli di Gesù hanno ormai un altro luogo d’incontro, che è la casa, anzi una pluralità di case (come si deduce dal plurale kat’oíkous in At 8,3; 20,20)11! D’altronde questa pluralità, prima di Luca, è già ben documentata da Paolo, che un paio 9 M.G. Barclay, Diaspora. I giudei nella diaspora mediterranea da Alessandro a Traiano (323 a.C.-117 d.C.), ISB Suppl. 17, Paideia, Brescia 2004, 395. 10 Così J. Zmijewski, Atti degli Apostoli, Il NT Commentato, Morcelliana, Brescia 2006, 212. 11 La versione letterale «a casa» in At 2,46b equivale di fatto a «di casa in casa». È significativo che il codice D, sotto la forma verbale katoikousan, nasconda probabilmente la variante al plurale in senso distributivo kat’oíkous (con aggiunta superflua del suffisso -an); infatti il verbo, escluso che sia un participio aoristo femminile (che non concorderebbe con nessun sostantivo dello stesso genere), non corrisponde a nessun’altra forma verbale: la più prossima sarebbe quella di un aoristo ionico, che però dovrebbe essere katoíke¯ san (invece del più classico kato¯i ke¯ san), oppure la sua finale potrebbe denotare un imperfetto di tipo ellenistico (cf. BDR 84,3) a cui però manca l’aumento (cf. C.K. Barrett, The Acts of the Apostles, I, ICC, T&T Clark, Edinburgh 1994, 170).
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di volte nelle sue lettere parla de «le chiese della Giudea che sono in Cristo» (Gal 1,22; cf. 1Ts 2,14: «le chiese di Dio in Cristo Gesù che sono in Giudea»). In ogni caso, è appunto nelle case che si celebra un atto comunitario, che per quei cristiani è il più significativo e che nello stesso tempo è assolutamente distintivo nei confronti della prassi cultuale ambientale. Infatti, la prassi della fractio panis intesa come celebrazione eucaristica denota un nuovo genere di culto, poiché in quel momento si «riconosce» Gesù (Lc 24,35). Dunque, abbiamo qui il fenomeno nuovo di un gruppo di persone che si radunano in un luogo profano, ponendosi in continuità con l’ultimo pasto o comunque con i pasti di Gesù (cf. anche At 5,42; 8,3; 11,14; 16,15.31-32; 18,8; 20,20); già lo stesso Gesù, in effetti, aveva compiuto i suoi atti più significativi fuori da ogni spazio sacro, sia perché il tempio, a prescindere dai cosiddetti sacrifici di comunione12, non era un luogo in cui celebrare un pasto fatto solo di pane (e vino), e comunque non la cena pasquale, sia perché poi lo stesso Gesù «subì la passione fuori della porta della città» (Eb 13,12). Tuttavia, di queste chiese giudeo-cristiane, situate a Gerusalemme e comunque in Giudea, non sappiamo altro. Il fatto è che non possediamo scritti provenienti dal loro interno né altri che siano a esse indirizzati, per non dire della mancanza di altre notizie esterne oltre quelle scarse di Luca (e prescindendo dalle collette paoline). Le chiese meglio conosciute sono quelle paoline, essendo la documentazione più preziosa sulle origini cristiane quella diretta, fornita da Paolo, sulla prassi cultuale delle prime comunità cristiane di ambito geo-culturale greco13. Qui di seguito, Cf. I. Cardellini, I sacrifici dell’antica alleanza. Tipologie, Rituali, Celebrazioni (= Studi sulla Bibbia e il suo Ambiente, 5), San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 63-87. 13 Bisogna però precisare preliminarmente che Paolo non impiega mai in senso tecnico rituale o devozionale i termini greci che designano il culto religioso: non usa mai né therapeía e derivati (che peraltro in greco non ha solo un impiegao religioso [cf. però Platone, Resp. 427b-c: «“Ad Apollo di Delfi spettano le leggi più importanti e più belle, quelle fondamentali”. “Quali?”. “L’erezione dei templi, i sacrifici e gli altri culti degli dèi, dei demoni e degli eroi, e inoltre le tombe dei defunti e i riti che si devono compiere in loro onore per propiziarli [...]. Questo dio infatti è l’esegeta avito di tali questioni per tutti 12
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pertanto, stabiliremo anzitutto quale sia il concetto paolino di ekkle¯ sía come raduno di credenti in Cristo. In secondo luogo, si prenderanno in considerazione i rapporti esistenti tra le chiese paoline, sia con le istituzioni cultuali ufficiali del tempo, sia con le analoghe associazioni volontarie dell’ambiente greco-romano. Infine, si tenterà di stabilire quale fosse il culto specifico svolto in quelle stesse chiese domestiche.
2. Le ekkle¯ síai paoline e i loro rapporti con le istituzioni cultuali del tempo
Se le chiese di Gerusalemme e della Giudea erano liminali rispetto al giudaismo di origine, in quanto stavano varcandone la soglia nel senso del distanziamento, le chiese paoline (e ancor più quelle giovannee) erano liminali sia rispetto alla sinagoga sia ancor più rispetto al paganesimo circostante e ambientale. 2.1. La forma di queste chiese Diamo qui per scontato il concetto paolino di ekkle¯ sía, come pure il fatto che esso non ha ancora alcun valore generalizzante per indicare la chiesa universale, come invece avverrà a partire dalle pseudepigrafiche lettere ai Colossesi (cf. Col 1,18.24)14 e soprattutto agli Efesini (cf. Ef 1,22; 3,10.21; 5,23-25.27.29.32). Sicuramente, in ogni caso, il vocabolo non ha valore architettonico15! Il Paolo storico intende sempre la ekkle¯ sía come singola gli uomini”»]), né eusébeia/theosébeia (che Filone Al., Opif. 154, definisce «la più grande delle virtù»); invece il concetto di latreía, oltre che in riferimento al culto di Israele (cf. Rm 9,4) e ai culti idolatrici pagani (cf. Rm 1,25), è presente in riferimento a se stesso e ai cristiani solo in contesti profani (cf. Rm 1,9; 12,1; Fil 3,3), così come allo stesso modo avviene per leitourgein, e derivati (cf. Rm 13,6; 15,16.27; Fil 2,17.30; cf. anche spéndomai in Fil 2,17). 14 Ma nella stessa Col 4,15.16 il vocabolo ha ancora una valenza particolaristica, riferendosi rispettivamente alla sola chiesa domestica della casa di Ninfa e alla chiesa della città di Laodicea. 15 In questo senso, cf. R. Krautheimer, The Beginnings of Christian Architecture, in Early Christian and Bizantine Architecture, Penguin book, Har-
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comunità locale, sia che il luogo di riferimento corrisponda a una sola città (Cencre: Rm 16,1; Corinto: 1Cor 1,2; 2Cor 1,1; Tessalonica: 1Ts 1,1), o alle comunità di un’intera regione (la Galazia: Gal 1,2; 1Cor 16,1; l’Asia: 1Cor 16,19; la Macedonia: 2Cor 8,1; la Giudea: Gal 1,22; 1Ts 2,14), o a una riunione che si tiene in una singola casa (di Prisca e Aquila a Roma: Rm 16,5; di Aquila e Prisca a Efeso: 1Cor 16,19; di Gaio probabilmente a Corinto: Rm 16,23; di Filemone a Colosse: Fm 2; cf. anche Ninfa a Laodicea: Col 4,15). La stessa semantica localistica emerge poi all’evidenza nel frequente uso del termine al plurale, hai ekkle¯ síai (cf. Rm 16,4.16; 1Cor 7,17; 11,16.22; 14,33; 2Cor 8,18-19.23-24; 11,8.28 [Vg: sollicitudo omnium ecclesiarum]; 12,13), ma anche nel singolare distributivo «ogni chiesa» (en páse¯ ekkle¯ sía: 1Cor 4,17; cf. anche il sintagma «nessuna chiesa», oudemía ekkle¯ sía: Fil 4,15). Anzi, l’espressione che si legge in 1Cor 11,18 (synerchoméno¯ n hymôn en ekkle¯ sía, «quando vi radunate in assemblea») va intesa in senso modale (= radunarsi per un incontro, così da formare un’adunanza, un’assemblea)16. Questo significato è ben confermato sia da passi successivi della stessa lettera (cf. 11,20: «Quando voi vi radunate insieme/nello stesso luogo/epì tò autó»; 14,19: «In assemblea voglio dire cinque parole con la mia mente»; 14,26, dove Paolo lamenta una certa frantumazione dell’assemblea convenuta: «Quando vi radunate, ognuno ha un salmo, ha un insegnamento, ha una rivelazione, ha una lingua, ha una spiegazione»; 14,28: «Se non c’è chi interpreti, taccia nell’assemblea»; 14,34-35), sia anche da Did. 4,14 («Confesserai nell’assemblea [en ekkle¯ sía] i tuoi peccati»). mondsworth 19752, 23-38; H.W. Turner, From Temple to Meeting House: The Phenomenology and Theology of Places of Worship, Mouton, The Hague-ParisNew York 1977; P.C. Finney, Early Christian Architecture: The Beginnings (A Review Article), «Harvard Theological Review» 81 (1988), 319-339; e soprattutto L.M. White, The Social Origins of Christian Architecture; - I. Building God’s House in the Roman World: Architectural Adaptation among Pagans, Jews and Christians; - II. Texts and Monuments for the Christian Domus Ecclesiae in its Environment, HThS 42, Valley Forge PA 1996-1997. 16 Cf. il commento di G. Barbaglio, La prima lettera ai Corinzi, SOC, EDB, Bologna 1995, 575.
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Una pluralità di case di raduno per i cristiani è comprovabile anche per una sola città, come appare nel modo più chiaro a Roma. Qui si può dedurre l’esistenza di almeno tre case del genere: quella dei coniugi Prisca e Aquila (cf. Rm 16,3-5), quella di Asincrito, Flegonte, Ermete, Patroba, Erma «e i fratelli che sono con loro» (Rm 16,14), e quella di Filologo e Giulia, Nereo e sua sorella, e Olimpa «e tutti i santi che sono con loro» (Rm 16,15). A queste se ne aggiungono forse altre due, visto che si parla anche di «quelli che appartengono alla casa di Aristobulo» e di «quelli che appartengono alla casa di Narciso» (Rm 16,1011), probabilmente schiavi dei rispettivi padroni menzionati, i quali, come avveniva anche per altri culti, permettevano loro di radunarsi insieme17. Per calcolare il loro numero totale, bisogna tenere conto del fatto che una casa antica, stando alle informazioni forniteci dall’archeologia (si intende la casa di un benestante, a prescindere dalle insulae proletarie)18, disponeva in concreto come ambiente di raduno soltanto del triclinio, che poteva contenere più o meno una dozzina di persone (eventualmente raddoppiabili, se su di un letto/klíne giacevano due persone)19; se poi vi si aggiungeva per estensione anche lo spazio 17 Cf. P. Lampe, Die stadtrömischen Christen in den ersten beiden Jahrhunderten, wunt 2.18, Tübingen 19892, 301-302. 18 Vedi D.L. Balch, Paul, Families, and Hauseholds, in J.P. Sampley (a cura), Paul in the Greco-Roman World. A Handbook, Harrisburg 2003, 258292 specie 258-266 (esame delle case di Pompei, Delo, Pergamo); D.E. Smith, From Symposium to Eucharist. The Banquet in the Early Christian World, Minneapolis 2003, specie 13-46; su Corinto, cf. J. Murphy-O’Connor, St. Paul’s Corinth: Texts and Archaeology, GNS 6, Delaware, Wilmington 1983, 153172. In generale, cf. H.-J. Klauck, Hausgemeinde und Hauskirche im frühen Christentum, SBS 103, Stuttgart 1981; V.P. Branick, The House Church in the Writings of Paul, Wilmimgton DE 1989, 36-49; F. Craffert, The Pauline Household Communities: Their Nature As Social Entities, «Neotestamentica» 32 (1998), 309-341; R. Aguirre, Del movimiento de Jesús a la Iglesia cristiana. Ensayo de exégesis sociológica del cristianismo primitivo, Editorial Verbo Divino, Estella 1998, 79-110; Gehring, Hausgemeinde und Mission, 220-384. 19 Nel Simposio di Platone i convitati sono solo nove; nel Simposio di Senofonte sono undici; nel Satyricon di Petronio i partecipanti alla cena in casa di Trimalcione, a parte naturalmente i molti schiavi inservienti, sono tredici (con l’aggiunta di due donne: la moglie di Trimalcione e la moglie di un certo Habinna sopraggiunto al convito; per una lettura di questa cena come parodia
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dell’atrio (dove peraltro si doveva stare in piedi), si poteva arrivare a un totale di una trentina-quarantina di persone. Possiamo perciò quantificare il numero dei cristiani di Roma al tempo dell’apostolo Paolo in un arco compreso tra i cento e i duecento (su di una popolazione di circa un milione di unità, di cui ventitrentamila ebrei)20. Anche a Corinto doveva esserci più di un luogo di raduno, nonostante che in Rm 16,23 si legga che Gaio vi dava ospitalità a «tutta la chiesa», hóle¯ s tês ekkle¯ sías (cf. anche l’ipotesi formulata in 1Cor 14,23: «se tutta la chiesa si radunasse insieme...»)21. Infatti, va respinta l’esegesi di vari commentatori, secondo cui si alluderebbe al fatto che Gaio ospiterebbe tutti i cristiani di passaggio (sicché «tutta la chiesa» sarebbe una formula universalistica)22; piuttosto, con molti altri, si deve intendere l’insieme dei cristiani locali di Corinto: infatti, l’aggettivo hóle¯ «tutta» sarebbe inutile se si trattasse di un’unica comunità, mentre ha senso se allude al fatto che a Corinto esisteva più di un gruppo di cristiani che in certe occasioni si radunavano insieme in uno stesso luogo (epì tò autó)23 per formare appunto una comunità unitaria24; del resto, in 1Cor 1,16 e 16,15-16 si legge anche della casa di un certo Stefanas, che secondo il testo doveva svolgere mansioni di leadership all’interno della comunità corinzia. della cena eucaristica, cf. G.G. Gamba, Petronio Arbitro e i Cristiani. Ipotesi per una lettura contestuale del ’Satyricon’, BSR 141, Roma 1998). 20 Vedi anche J.S. Jeffers, Jewish and Christian Families in First-CenturyRome, in K.P. Donfried - P. Richardson (a cura), Judaism and Christianity in First-Century Rome, 128-150; inoltre J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’Impero, Laterza, Roma-Bari 19785, 32-56. 21 Si noti che il periodo ipotetico ivi formulato (protasi con eàn e apodosi con un indicativo presente) è quello della probabilità: doveva infatti essere più che possibile che, mentre il gruppo cristiano era radunato, giungesse nella casa un parente o un vicino o anche un estraneo pagani. 22 Così Lagrange, Lietzmann, Leenhardt, Käsemann, Schlier, Moo, Wilckens, Jewett. 23 Così Dunn, Fitzmyer, Ziesler, Schreiner, Haacker, Byrne, Légasse, Lohse; inoltre: Murphy-O’Connor, St. Paul’s Corinth, 158. 24 Si noti che il costrutto greco nei LXX a volte traduce l’ebraico yh. Had, «unità / insieme / nello stesso tempo» (cf. Sal 2,2; 4,9; 33,4; 36,38; 48,3) e che il gruppo di Qumran viene precisamente denominato hayh. ad, «la comunità» (1QS 1,1.12; 8,2; 9,2).
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2.2. Rapporti con le istituzioni cultuali del tempo r Nel
mondo greco «ogni luogo può diventare luogo di culto, un santuario o hieròn (spazio sacro). Basta che i Greci gli riconoscano un carattere sacro, carattere che deriva talvolta dalla maestà del paesaggio o dalla presenza di una tomba o di un qualunque altro segno della manifestazione del divino (rocce, un albero, una sorgente). Il terreno è allora delimitato: porta il nome di témenos, che significa: diviso (sottinteso: dalla terra che non è sacra). Numerosi santuari greci sono così semplicemente terreni circondati da una recinzione»25. Quanto al tempio vero e proprio, se è vero che esso resta il segno architettonicamente più spettacolare del mondo greco, dal punto di vista del culto invece non è un elemento indispensabile; infatti, avendo come funzione specifica solo quella di conservare la statua di un dio, i rituali si svolgono per lo più al di fuori di esso, o all’aperto o in ambienti appositi26. Anche la casa privata in quanto semplice ambito familiare è un luogo di culto, e Cicerone la esalta così: «Cosa c’è di più santo, cosa c’è di più sicuro per tutta la religione, della casa di ogni singolo cittadino? Lì ci sono gli altari, lì i focolari, lì gli dèi penati, lì sono conservate le cose sacre, i culti e le cerimonie»27. Addirittura Plutarco definisce la tavola (trápeza) che accoglie gli ospiti come «un altare (bo¯ mós) degli dèi dell’amicizia e 25 L. Bruit Zaidman - P. Schmitt Pantel, La religione greca, Laterza, Roma-Bari 1992, 44. Vedi anche W. Burkert, I Greci, I, Jaca Book, Milano 1983, 81-175; II, 399-437; l’autore peraltro non dedica attenzione alla casa come luogo di culto. 26 Per esempio, accanto all’Asclepieion di Corinto sono attestate tre dining rooms, ciascuna con undici posti (cf. Murphy-O’Connor, St. Paul’s Corinth, 162-165). Nel 1985 fu scoperto a Pergamo un ambiente di 24m x 14m, un cosiddetto Hestiaîon (probabilmente del II secolo) vicino al tempio di Hera, adibito ad adunanze cultuali e svolgimento di banchetti (cf. H. Schwarzer, Vereinslokale im hellenistischen und römischen Pergamon, in U. EgelhaafGaiser - A. Schäfer (a cura), Religiöse Vereine in der römischen Antike. Untersuchungen zu Organisation, Ritual und Raumordnung, STAC 13, Mohr Siebeck, Tübingen 2002, 221-260 specie 235-238). 27 De domo sua 41,109: «Quind sanctius, quid omni religione munitius quam domus uniuscuiusque civium? Hic arae, hic foci, hic di penates, hic sacra, religiones, caerimoniae continentur».
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dell’ospitalità»28. Ed è nell’ambito della casa che prende forma un particolare genere di culto, quello costituito dalle associazioni fondate a fini religiosi (distinte da quelle professionali o funerarie), i cui membri si radunano per venerare varie divinità29. Esse dovevano essere particolarmente numerose e vivaci, se hanno persino dato fastidio all’autorità romana30. Anche se i loro incontri potevano avvenire in luoghi specificamente deputati a questo scopo, è però ben documentato appunto il caso di riunioni cultuali anche in case private31. Al loro interno il principio dell’egualitarismo vigeva secondo le componenti sociali del gruppo: quanto più varia e bassa era la sua composizione sociale, tanto più i suoi membri erano gerarchicamente suddivisi32. Certo è che il momento peculiare dell’incontro era costituito da un pasto consumato in comune, eventualmente secondo norme molto precise e rigide33. r Sul versante giudaico, la casa poteva offrire una analogia solo
quanto alla prassi del banchetto pasquale, che però è a scadenza annuale, mentre invece i cristiani, a quanto risulta, si radunavano settimanalmente (cf. 1Cor 16,1; At 20,7; Ap 1,10)34. Quanto
Sept. sap. conv. 15 (= Mor. 158C). Cf. Egelhaaf-Gaiser - Schäfer (a cura), Religiöse Vereine in der römischen Antike. 30 Cf. W. Cotter, The Collegia and Roman Law. State restrictions on voluntary associations, 64 BCE-200 CE, in J.S. Kloppenborg - S.G. Wilson (a cura), Voluntary Associations in the Graeco-Romans World, London 1996, 74-89. 31 Cf. in particolare l’iscrizione che documenta il caso di un gruppo che si radunava a Filadelfia in Lidia nella casa di un certo Dionisio (vedine traduzione e commento in R. Penna, Chiese domestiche e culti privati pagani alle origini del cristianesimo. Un confronto, in Id., Vangelo e inculturazione. Studi sul rapporto tra rivelazione e cultura nel Nuovo Testamento [= SOC 6], San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 746-770, specie 757-763). 32 Cf. T. Schmeller, Hierarchie und Egalität. Eine sozialgeschichtliche Untersuchung paulinischer Gemeinden und griechisch-römischer Vereine, SBS 162, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1995, 50-53. 33 Cf. i casi documentati in Smith, From Symposium to Eucharist, 87-131 (specialmente quello degli Iobakchoi ad Atene e quello del collegium di Diana e Antinoo a Lanuvio). 34 Vedi anche Ignazio, Ad Magn. 9,1: «Se dunque coloro che vivevano secondo l’antico ordine di cose si sono rivolti alla nuova speranza, non più osservando il sabato (me¯ kéti sabbatízontes), ma vivendo osservando il giorno 28 29
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alle sinagoghe, esse non offrono una vera analogia con le chiese paoline, essendo luoghi diversi dalle case private e ufficialmente deputate al culto, anche se alcune di esse, dal punto di vista architettonico, risultano essere degli ampliamenti di case precedenti35; ciò avverrà anche per il cristianesimo, ma solo dopo il I secolo. Sembra comunque accertato che pure il culto sinagogale in certi casi potesse essere seguito da pasti in comune36. r Le
comunità paoline dovevano apparire agli occhi dei contemporanei del tutto equivalenti ai raduni delle associazioni volontarie37. Analogamente a quelle, infatti, i membri erano cooptati per loro libera decisione, non per nascita o per censo o per professione; inoltre, essi praticavano pasti comuni, a cui potevano contribuire gli stessi partecipanti; anche l’appellativo di «fratelli» è testimoniato tra i membri dei culti misterici o delle associazioni volontarie, anche se è rarissimo (per lo più post-cristiano) e vale in senso letterale solo per i maschi che sono gli unici membri delle associazioni cultuali38, non essendo del Signore (allà katà kyriake¯ n zôntes), nel quale è sorta la nostra vita mediante lui e la sua morte». 35 Così a Delo, Priene, Ostia, Sardi, Dura-Europos; cf. Klauck, Hausgemeinde und Hauskirche im frühen Christentum, 95-96. 36 Cf. M. Klinghardt, Gemeinschaftsmahl und Mahlgemeinschaft. Sozio logie und Liturgie frühchristlicher Mashlfeiern, TANZ 13, Francke, Tübingen 1996, 258-267. 37 Cf. W.A. Meeks, I Cristiani dei primi secoli. Il mondo sociale dell’apostolo Paolo, Il Mulino, Bologna 1992 (New Haven 1983), 212-219; E.W. Stegemann - W. Stegemann, Urchristliche Sozialgeschichte. Die Anfänge im Judentum und die Christusgemeinden in der mediterranen Welt, Kohlhammer, Stuttgart 1995, 237-271; W.O. McCready, Ekklesia and Voluntary Associations, in Kloppenborg - Wilson (edd.), Voluntary Associations in the Graeco-Roman World, 59-72; P.A. Harland, Associations, Synagogues, and Congregations: Claiming a Place in Ancient Mediterranean Society, Fortress press, Minneapolis 2003; E. Ebel, Die Attraktivität früher christlicher Gemeinden. Die Gemeinde von Korinth im Spiegel griechischer-römischer Vereine, WUNT 2.178, Mohr Siebeck, Tübingen 2004. Benché sostanzialmente ristretto al solo ambiente romano, cf. anche J. Rüpke (a cura), Gruppenreligionen im römischen Reich. Sozialformen, Grenzziehungen und Leistungen, STAC 43, Mohr Siebeck, Tübingen 2007. 38 Sul posto delle donne nelle associazioni, cf. Meeks, I Cristiani dei primi secoli, 78-85; C. Osiek - M.Y. MacDonald (with J.H. Tulloch), A Woman’s Place: House Churches in Earliest Christianity, Minneapolis 2006, specie 143-163.
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peraltro mai usato come appellativo diretto ma solo in notizie alla terza persona39. Naturalmente esistono anche delle differenze non trascurabili, di cui la più evidente è la ri-socializzazione in base a una comune fede di tipo sostanzialmente esclusivo, essendo caratteristica una certa idea tipica di salvezza; nelle ekkle¯ síai cristiane, inoltre, per la partecipazione al culto non è imposta nessuna limitazione né di sesso né di censo; in più, non è documentato nessun elenco di persone più ragguardevoli e non vige alcun titolo di onore40; d’altra parte, in nessun’altra delle associazioni contemporanee i membri erano definiti «santi / chiamati / amati da Dio» come nelle comunità paoline41. In ogni caso, rispetto alle associazioni religiose del tempo, c’è una forte differenza quanto all’impiego della casa come luogo di riu nione per le comunità cristiane: ed è che, mentre nella società greco-romana il culto domestico era comunque subordinato o addirittura coordinato ai culti pubblici della città, a cui non poteva non fare riferimento42, per le ekkle¯ síai paoline invece la casa La posizione negativa circa l’assenza o la tardività dell’appellativo, propria di alcuni autori (cf. R. Aasgaard, ’My Beloved Brothers and Sisters!’. Christian Siblingship in Paul, Early Christianity in Context, London-New York 2004, 109-112; Ebel, Die Attraktivität früher christlicher Gemeinden, 203-213), è parzialmente corretta da M. Öhler, Die Jerusalemer Urgemeinde im Spiegel des antiken Vereinswesens, «New Testament Studies» 51 (2005), 393-415, specie 399-400. In ogni caso, almeno per la nuova semantica e l’uso massiccio che se ne fa nelle lettere paoline, si può parlare di una vera novità; cf. P. Pilhofer, Perì dè tes filadelfias (1Thess 4,9). Ekklesiologische Überlegungen zu einem Proprium früher christlicher Gemeinden, in Id., Die frühen Christen und ihre Welt, WUNT 145, Mohr Siebeck, Tübingen 2002, 139-153. 40 Ma ciò avvenne già verso la fine del I secolo in ambito siriaco, stando ad Asc. Is. 3,21-31 (rapporto polemico tra episcopi e profeti). 41 Cf. A. Destro - M. Pesce, Forme culturali del cristianesimo nascente, Morcelliana, Brescia 2005, 49-66. Secondo le analisi di Ebel, Die Attraktivität früher christlicher Gemeinden (che analizza la prassi delle due associazioni più note, entrambe del II secolo: quella degli Iobakchoi ad Atene e quella dei cultores Dianae et Antinoi a Lanuvio), si deve aggiungere che la comunità cristiana non richiede il pagamento di alcuna «tassa» di partecipazione e che è praticamente aperta anche a degli estranei (cf. 1Cor 14,23: «se entrano dei non iniziati o non credenti»), mentre addirittura l’appartenenza a una associazione cultuale pagana non favoriva affatto l’ingresso in un’altra associazione. 42 Cf. in merito P. Schmitt-Pantel, Banquet et cité grecque. Quelques questions suscitées par les recherches récentes, «Mélanges de l’école française de Rome» 97 (1985), 135-158. 39
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(anche se poteva essere sostituita da locali affittati, forse suggeriti dalla distinzione accennata in 1Cor 11,34) era il solo e unico luogo possibile, dunque a sé stante, senza alcun coordinamento ad altri luoghi cultuali ufficiali. Proprio questo stato di cose conferma con chiarezza la liminalità delle comunità cristiane.
3. Il culto domestico dei cristiani Lo stato attuale della ricerca sul tema del banchetto antico, associato a quello sullo svolgimento delle assemblee cristiane (paoline), oltre alla trattazione di Meeks di un quarto di secolo fa43, è documentato da un buon numero di studi, di cui i maggiori sono quelli di M. Klinghardt, Smith, Wick, Stein e Taussig44. Distinguiamo gli aspetti maggiori della questione. 3.1. Linguaggio cultuale e liminalità Per connotare le riunioni cristiane dal punto di vista strettamente religioso, il dato più evidente da rilevare è la totale assenza di categorie sacrali, per quanto riguarda sia i presidenti del culto sia lo svolgimento del culto stesso. Nessuno dei responsabili viene mai qualificato con il titolo sacerdotale di hiereús o 43 Cf. Meeks, I Cristiani dei primi secoli, 353-404; per un bilancio su questo lavoro pionieristico, cf. T.D. Still - D.G. Horrell (a cura), After the First Urban Christians. The Social-Scientific Study of Pauline Christianity TwentyFive Years Later, T&T Clark, London 2009. Vedi anche Branick, The House Church, 97-116. 44 Cf. M. Klinghardt, Gemeinschaftsmahl und Mahlgemeinschaft. Soziologie und Liturgie frühchristlicher Mashlfeiern, Texte und Arbeiten zum Neutestamentlichen Zeitalter 13, Francke, Tübingen 1996; D.E. Smith, From Symposium to Eucharist. The Banquet in the Early Chrustian World, Fortress, Minneapolis 2003; P. Wick, Die urchristlichen Gottesdienste. Entstehung und Entwicklung im Rahmen der frühjüdischen Tempel-, Synagogen- und Hausfrömmigkeit, BWANT 150, Kohlhammer, Stuttgart 2003, 168-243; H.J. Stein, Frühchristliche Mahlfeiern. Ihre Gestalt und Bedeutung nach der neutestamentlichen Briefliteratur und der Johannesoffenbarung, WUNT 2.255, Mohr, Tübingen 2008; H. Taussig, In the Beginning was the Meal. Social Experimentation & Early Christian Identity, Fortress, Minneapolis 2009.
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simili (hierourgós, hieródoulos, therápo¯ n)45; anzi, non risulta che Paolo insediasse qualche specifico responsabile delle singole comunità, la cui funzione doveva invece spettare al padrone o alla padrona di casa (cf. le kyberne¯ seis in 1Cor 12,28; sul ruolo di un «simposiarca», vedi sotto)46. Così pure gli atti compiuti nelle assemblee non vengono mai definiti come tà hierá, «le cose sacre», o simili (hierateía, hiereîa, mystêria, ma neppure come leitourgíai e tantomeno thysíai), né vengono mai impiegati verbi sacrificali come thýo¯ , hierateúo¯ , hieráomai/hieróo¯ 47; anzi, secondo Paolo non ci sono neppure momenti o scadenze temporali che si debbano ritenere sacre (cf. Rm 14,5; Gal 4,10 !). È ben difficile, dunque, che le riunioni cristiane venissero comprese come eventi di una religione vera e propria48: o meglio, se ciò La presenza del verbo hierourgéo¯ in Rm 15,16 ha un mero significato metaforico, riferendosi in modo originale non a un atto cultuale bensì al semplice ministero apostolico di Paolo al servizio dell’Evangelo. 46 Cf. E.W. Stegemann - W. Stegemann, Urchristlihe Sozialgeschichte, 242; Wick, Die urchristlichen Gottesdienste, 219. Quanto alla notizia di At 14,23, secondo cui Paolo e Barnaba «costituirono nelle singole chiese degli anziani», essa va relativizzata; infatti: (1) Luca lo dice solo delle chiese impiantate durante il primo viaggio missionario nell’area anatolica centro-meridionale; (2) la qualifica di «anziani/presbìteri» non ha nulla di sacrale, alludendo a un compito di presidenza svolto da laici (cf. G. Bornkamm, in GLNT XI, 83-110); (3) la loro installazione ricalca la struttura della chiesa di Gerusalemme, che a sua volta si è conformata a quella della sinagoga; (4) la notizia di Luca «rispecchia l’organizzazione del suo tempo, nel quale questo tipo di responsabilià collegiale si era esteso in buona parte della chiesa» (G. Rossé, Atti degli Apostoli. Commento esegetico e teologico, Città Nuova, Roma 1998, 553); (5) la figura dei presbýteroi non compare mai nelle lettere autentiche di Paolo; (6) lo stesso verbo impiegato da Luca per indicare l’installazione autoritativa di anziani da parte di Paolo e Barnaba (cheirotone¯ santes) è impiegato invece da Paolo in 2Cor 8,19 per indicare una designazione dal basso e cioè da parte delle chiese (a proposito di Timoteo: cheirotone¯ theìs hypò tôn ekkle¯ siôn)! 47 Lo etýthe¯ di 1Cor 5,7 («Cristo nostra pasqua è stato immolato»), tutt’altro che come ripetizione cultuale di un sacrificio, va inteso come spiegazione metaforica della morte storica di Gesù paragonata all’agnello pasquale (cf. W. Schrage, Der erste Brief an die Korinther (1Kor 1,1-6,11), EKK VII/1, ZürichNeukirchen 1991, 283s). I termini thysíai, thýo¯ , e thysiaste¯ rion vengono invece usati nella stessa lettera a proposito dei sacrifici tanto giudaici quanto pagani (cf. 1Cor 10,18.20). 48 Certo bisognerebbe precisare cosa si intende per religione (l’impresa è difficile: cf. la voce «religione» nei dizionari specifici come quelli curati da H. 45
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poteva accadere da parte pagana, non sembra affatto che questa fosse la coscienza propria degli appartenenti alle ekkle¯ síai, che non avevano alcun rapporto istituzionale con i quadri cultuali della società. In effetti, per il credente in Cristo il distacco dalla Legge, richiesto al giudeo, e quello dall’idolatria, richiesto al gentile, non comportavano di dover aderire a un corpo di istituzioni già delineate! È a questo proposito che torna del tutto appropriato il concetto di liminalità 49; ancor più efficace potrebbe essere il concetto di interstitiality 50 per esprimere l’idea di una collocazione di persone, in senso pressoché diasporico, negli interstizi della società (vedi la definizione di interstizio nel Vocabolario Treccani: «Lo spazio, per lo più minimo, che separa due corpi»). Anche il concetto di interstizialità, dunque, servirebbe per designare adeguatamente i luoghi e le forme di raduno dei primi cristiani. Tutto ciò non significa che le chiese paoline non avessero la percezione di una dimensione propria del «sacro», la cui nozione, detto in modo sommario, si può esprimere in termini di consapevolezza di una esclusività intesa come nuova appartenenza e perciò come diversità non scambiabile51. Tuttavia, all’interno Waldenfels, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993; e da G. Filoramo, Einaudi, Torino 1993): se è intesa genericamente soltanto come un insieme di rapporti con esseri che trascendono il mondo o la storia, certamente il cristianesimo lo è. Bisogna però precisare, non solo che la grecità (come anche il giudaismo) non dispone di un termine del genere, ma soprattutto che là non esiste una «religione» a prescindere né dalla vita pubblica della città né da quella privata della casa (cf. E.W. Stegemann - W. Stegemann, Urchristliche Sozialgeschichte, 247). 49 Cf. anche Destro - Pesce, La “ekklesìa” di fronte a ’quelli di fuori’, in Antropologia delle origini cristiane, Laterza, Roma-Bari 1995, 21-38. 50 Suggerito da J.Z. Smith, Here, There, and Anywhere, in Id., Relating Religion. Essays in the Study of Religion, University Press, Chicago 2004, 323339, che propone una topografia della religione: lo «here» rende l’idea di una primitiva religiosità «fatta in casa» e anteriore a quella pubblica, lo «there» si riferisce all’instaurazione di luoghi, oltre a persone e azioni, esterni alla casa e pubblicamente riconosciuti, mentre lo «anywhere» denota associazioni private tipo club o figure carismatiche o anche praticanti magici che occupano un posto «interstiziale», certo non istituzionale, tra i due luoghi precedenti. 51 Cf. in merito le semplici pagine di B.J. Malina, The New Testament World: Insights from Cultural Anthropology, Louisville 2001, 161-164.
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del cristianesimo paolino, la categoria dell’«esclusivo/separato» come sinonimo di sacro/sacrale non appartiene né a luoghi né a persone ma semmai ad alcune azioni distintive che sono ritenute patrimonio proprio della comunità cristiana. A questo proposito, sarebbe interessante l’analisi dei verbi hagiázo¯ , «santificare», e aforízo¯ , «separare», che nella LXX indicano una vera e propria separatezza in funzione cultuale52; in Paolo invece, essi non solo rivelano un utilizzo scarso (per il primo, cf. Rm 15,16; 1Cor 1,2; 6,11; 7,14bis; 1Ts 5,23; per il secondo, cf. Rm 1,1; Gal 1,15; 2,12; 2Cor 6,17), ma denotano anche una semantica di altro genere, certamente non riferita ad atti cultuali, tanto che in Gal 2,12 la separatezza è oggetto di rimprovero a Pietro. Certo bisognerebbe tenere maggiormente in conto il concetto paolino di santità, ma in generale si deve dire che essa non è affatto vincolata a cose o persone o azioni specifiche, essendo invece intrecciata con altri concetti tipici della riflessione condotta da Paolo (cf. redenzione/riscatto, giustificazione, riconciliazione); in questo senso, essa è una proprietà comune a tutti i membri delle ekkle¯ síai senza alcuna distinzione e concretamente materiata dalla normale esistenza quotidiana (vedi la logike¯ latreía, «culto spirituale/razionale», in Rm 12,1)53. In ogni caso, non solo le persone o le cose o il tempo, ma neppure le azioni ritenute distintive vengono qualificate in senso «religioso». 3.2. Culto e/o filosofia Proprio questa apparente assenza di ogni elemento cultuale, tra l’altro, aveva spinto anni fa Edwin Judge a sostenere che non c’è alcuna analogia tra le associazioni cultuali del tempo e i gruppi paolini, i quali invece si spiegherebbero piuttosto in base a una somiglianza con le contemporanee scuole di filosofia (o di Cf. rispettivamente O. Procksh, in GLNT I, 298-304; e K.L. Schmidt, in ivi VIII, 1271-1276. 53 Cf. in generale H. Balz, in DENT I, 41-53; e P. Iovino, La chiesa comunità di santi negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di San Paolo, Ho Theologos, Palermo 1975. «Non si tratta né di tabù, né di divieti: si tratta della presenza di Dio, del Cristo, dello Spirito Santo in mezzo al popolo nuovo» (J. Ries, L’uomo e il sacro nella storia dell’umanità, Jaca Book, Milano 2007, 212). 52
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retorica)54. Nonostante le differenze già notate, è pur vero che, come scrive Stowers, «anche se il cristianesimo non derivava in alcun modo direttamente dalla filosofia ma dal giudaismo, tuttavia esso condivideva delle caratteristiche strutturali che lo rendevano simile a una filosofia», sicché «non sorprende se sotto molti aspetti il cristianesimo paolino ha molto di più in comune con le filosofie ellenistiche che con la religione tradizionale»55. In effetti, per non dire del giudaismo ellenistico56, basti pensare alle diffuse posizioni addirittura anticultualistiche proprie dell’epicureismo57, del neopitagorismo58 e soprattutto dello stoicismo59, senza volersi richiamare alla successiva nuova sofistica60. Non è un caso se, ancora nella seconda metà del II secolo, Luciano 54 Cf. E.A. Judge, The Early Christians as a Scholastic Community, «Journal of Religious History» 1 (1960), 4-15 e 125-137; inoltre: S. Mason, philosophiai: Graeco-Roman, Judean and Christian, in Kloppenborg - Wilson (edd.), Voluntary Associations in the Graeco-Romans World, 31-58, specie 47-48; S.K. Stowers, Does Pauline Christianity Resemble a Hellenistic Philosophy?, in T. Engberg-Pedersen (a cura), Paul Beyond the Judaism/Hellenism Divide, Louisville 2001, 81-102. Vedi anche T. Vegge, Paulus und das antike Schulwesen. Schule und Bildung des Paulus, BZNW 134, Berlin-New York 2006, passim. 55 Stowers, Does Pauline Christianity Resemble a Hellenistic Philosophy?, 100 e 102. 56 Non è un caso se Filone Alessandrino dice di Mosè che «raggiunse le altezze della filosofia» (Opif. 8) e che i Terapeuti proclamano «le dottrine della filosofia sacra» (Vit. cont. 26), mentre Flavio Giuseppe per presentare i vari raggruppamenti interni al giudaismo non trova di meglio che qualificarli come filosofíai (cf. Ant. 18,11). 57 Cf. almeno Lucrezio, De rerum natura, 1.101: Tantum potuit religio suadere malorum. 58 Cf. Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana 6,11: «Con le tue piccole offerte ti farai amare dagli dèi più di quanti versano in loro onore il sangue dei tori». 59 Cf. Seneca, Epist. 95,47: Deum colit qui novit, «venera dio colui che lo conosce»; Epitteto, Man. 31,1: «Quanto alla venerazione degli dèi, sappi che la cosa principale è di avere rette concezioni su di loro in quanto esistono e governano ogni cosa bene e con giustizia, e di disporre te stesso ad ubbidire loro e a cedere a tutti gli avvenimenti e a seguirli spontaneamente in quanto compiuti dalla migliore mente». 60 Cf. Luciano, Iupp. conf. 5: «Se le Parche sono signore di tutti, e se nessuno potrebbe mutare niente ai propri destini, perché noi uomini facciamo sacrifici a voi (o dèi), vi offriamo ecatombi, e vi preghiamo di darci i beni che desideriamo?».
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attesta una equiparazione tra «atei / cristiani / epicurei» (Alex. 38)! Al pari di quelle scuole, infatti, nelle riunioni delle chiese paoline si dibattevano verità di alto profilo sulla base di determinati testi scritti e nello stesso tempo ci si preoccupava di delineare un particolare stile di vita; in più si celebravano banchetti che avevano apparenti analogie con alcune di queste scuole61; inoltre, si deve tenere in conto il fatto che proprio durante i banchetti tra filosofi avvenivano conversazioni, discussioni e discorsi, la cui raccolta, secondo gli stessi filosofi citati da Plutarco (tra cui Platone, Aristotele, Epicuro), «è un’impresa degna di qualche sforzo»62. D’altronde, se accogliamo la illuminante triplice distinzione operata già nel secolo I a.C. da M.T. Varrone tra religione/teologia mythica/fabulosa (quella dei racconti mitologici dei poeti), civilis/politica (quella ufficiale e pubblica, e anche popolare, propria dello stato), physica/naturalis (quella dei filosofi, «disadatta alla piazza cioè alle masse, e ristretta alle pareti di una scuola»)63, si deve dare ragione ad Agostino il quale affermerà che senza ombra di dubbio è la religione filosofica e quindi sono i filosofi a essere più vicini a noi (eos omnes ceteris anteponimus eosque nobis propinquiores fatemur)64! 3.3. Lo svolgimento delle riunioni In ogni caso, le chiese paoline praticavano atti comuni del tutto particolari. La possibilità di delineare il concreto svolgimento di quelle riunioni dipende non da una specifica descrizione, che è inesistente, ma dalla interpretazione di indizi e allusioni. Se si vuole parlare di azioni esclusive, è comunque inevitabile chiamare in causa il concetto di «culto» e quindi di Nell’epicureismo, secondo una esplicita disposizione dello stesso fondatore, si celebrava una riunione (sýnodos) mensile (che doveva comportare un banchetto: cf. Ateneo 7,298d) «in memoria di noi e di Metrodoro» (Diog. Laerzio 10,18: eis te¯ n he¯ môn te kaì Me¯ trodo¯ rou mne¯ me¯ n); in merito, vedi anche Cicerone, De fin. 2,101: ut et sui et Metrodori memoria colatur. 62 Plutarco, Quaest. conv. I,612B. Cf. Smith, From Symposium to Eucharist, 47-65. 63 In Agostino, Civ. Dei 6,5,1; 6,9,5; 6,13; la citazione è da 6,5,2. 64 Ivi, 8,9. 61
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«rito». D’altronde, quando gli scrittori latini definiscono il nuovo fenomeno cristiano come superstitio65, si riferiscono precisamente non solo a credenze ma anche a prassi cultuali di origine estranea alla società romana, non tradizionali, e quindi giudicate in modo del tutto negativo; anzi, la superstitio può essere anche un eccesso di religione, così da essere considerata come l’esatto contrario dell’ateismo ma altrettanto detestabile66. Ebbene, ci sono due momenti che qualificano la riunione cristiana: il pasto e la parola. Si noti la loro successione, poiché bisogna stare attenti a non interscambiarli: il susseguirsi di una cosiddetta liturgia della parola e di una cosiddetta liturgia eucaristica, non solo non è attestato, ma è del tutto improbabile67. Vi si oppone sia la tradizione simposìaca greca, sia la prassi gesuana stessa, che, stando soprattutto al quarto Vangelo, consiste nel far seguire una serie di discorsi alla cena vera e propria (cf. Gv 13-17; ma anche Lc 22,21-30). In effetti, la successione pastoparola corrisponde più esattamente alla successione deîpnonsympósion, poiché il banchetto greco comprendeva prima il momento del pasto/deîpnon fatto di cibo solido di vario genere (pane, verdure, olive, formaggi, pesce, raramente carne)68, e poi il momento della bevuta/sympósion consistente nel bere vino (mescolato con acqua normalmente in rapporto di 1/3)69. Questa Cf. Plinio il Giovane, Epist. 10,96,8 (superstitio prava, immodica); SveNero 16,3 (superstitio nova ac malefica); Tacito, Ann. 15,44,3 (exitiabilis superstitio). 66 Vedi D.B. Martin, Inventing Superstition: From Hippocratics to the Christians, Harvard University Press, Cambridge MA 2004, specie 125-139. 67 Secondo Klinghardt, Gemeinschaftsmahl und Mahlgemeinschaft, 364, una pura liturgia della parola tra i cristiani prima del III secolo non è mai esistita. 68 Esso era anche detto sissítion, lett. «pane mangiato insieme» quindi «pasto comune» (cf. Aristofane, Eccl. 715; Platone, Leg. 625e), certamente tipico a Sparta (cf. Erodoto 1,65,5). 69 Vedi in specie Smith, From Symposium to Eucharist, 27-31; P. Wick, Die urchristlichen Gottesdienste, 120-126. Ma Anacreonte parla di «dieci parti d’acqua e cinque di vino» (fr. 43). Certo è che l’ubriacatura è considerata «dannosa per gli uomini» (Platone, Symp. 176d; sull’ambiguità degli effetti del vino, cf. Senofonte, Symp. 2,24-27). Si può notare in più che nel Vangelo di Filippo si legge: «La coppa di benedizione contiene sia acqua sia vino» (§ 100). Sul simposio in generale, cf. M. Vetta (a cura), Poesia e simposio nella 65
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struttura si vede bene nel Simposio di Platone (172a-223d), dove prima si cena (cf. 175c: «[Agatone] disse che potevano cenare/ deipneîn») e poi si passa al bere (cf. 176a: «Dopo che [Socrate] si sdraiò ed ebbe mangiato [kataklinéntos kaì deipne¯ santos], egli e gli altri fecero le loro libagioni e, cantato in onore al dio e compiuti i riti usuali, si volsero al bere [trépesthai pròs tòn póton]») dando subito inizio al lungo discorso sull’Amore/Eros70. Si deve però menzionare a parte il banchetto dell’associazione giudaica dei Terapeuti, descrittoci da Filone Alessandrino e che invece esclude esplicitamente il vino71. Comunque, «in senso lato il simposio è un rituale sociale, costituito da una serie di azioni codificate e programmate in precedenza. In senso stretto comGrecia antica. Guida storica e critica, Laterza, Roma-Bari 1983; F. Lissarrague, L’immaginario del simposio greco, Laterza, Roma-Bari 1989; O. Murray (a cura), Sympotica. A Symposium on the Symposion, Clarendon Press, Oxford 1990; D. Musti, Il simposio nel suo sviluppo storico, Laterza, Roma-Bari 2001. 70 Altrettanto avviene nel Symposio di Senofonte, dove è segnato lo stacco netto tra i due momenti con l’annotazione esplicita di quando «furono tolti i tavoli (afe¯i réthe¯ san hai trápezai ), fecero una libagione e cantarono un inno, [...] entrarono due danzatrici e un giovane citaredo» (2,1), e, dietro consiglio di Socrate, i versatori di vino servivano i commensali con piccole ma frequenti coppe (cf. 2,26-27). Questa dualità è implicita anche nella distinzione che si legge in Euripide: «Due sono le cose essenziali agli uomini: la dea Demetra, ossia la terra, che nutre i mortali con i cereali e il cibo asciutto, poi è venuto il figlio di Semele che scoprì l’umido succo dell’uva e lo introdusse tra gli umani per spegnere gli affanni degli infelici mortali» (Bacc. 274-281). Anche in Plutarco si distinguono ironicamente due diversi presidenti metaforici del banchetto: prima la fame e poi la sete (cf. Quaest. conv. V,6 [= 679a-b]). B isogna invece constatare che nel Satyricon di Petronio la cena in casa di Trimalcione procede combinando indistintamente varie portate di vivande con abbondanti bevute di vino (cf. §§ 31-78); ma il caso non è certo «canonico», tenuto conto anche del fatto che lo stesso Trimalcione divenne ubriaco fradicio (cf. § 78: ebrietate turpissima gravis). 71 Cf. Vit. cont. 40-63, dove si legge una polemica contro i banchetti pagani; invece, in 64-82 è descritto lo svolgimento del banchetto dei Terapeuti, tenuto ogni sette settimane anche con la presenza di donne vergini, con questa struttura: preghiera iniziale, servizio svolto non da schiavi ma da giovani liberi, pasto consistente solo in pane condito con sale (al più con issopo come spezia) e acqua pura (perché «il vino è un espediente di follia»: 74; accettano solo metaforicamente «il vino puro dell’amicizia divina»: 85), commento di qualche Scrittura da parte del presidente, canto di qualche inno da parte di ogni singolo partecipante (eccetto i ritornelli corali fatti in comune).
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porta un aspetto rituale autenticamente religioso, che consiste nella consacrazione agli dèi di una parte del vino consumato, ciò che i greci chiamavano libagione, e cioè un’offerta liquida fatta a uno o più dèi»72. Una celebre elegia del presocratico Senofane73 descrive gli elementi essenziali di un simposio ideale: la purezza dello spazio, la collocazione centrale di un cratere a cui attingere, il profumo dell’incenso, gli ingredienti del vino, dell’acqua, del pane, del formaggio e del miele, un altare coperto di fiori, il canto e le preghiere, la libagione, e i testi di riferimento della conversazione. Ebbene, in analogia almeno parziale con i banchetti greci doveva svolgersi anche il banchetto delle ekkle¯ síai paoline (detto poi agápe¯ in Giud. 12; Ignazio, ad Smyrn. 8,2), il cui specifico ordine, almeno per quanto riguarda il caso di Corinto maggiormente documentato, si può enucleare sostanzialmente nei quattro momenti seguenti74. r Messa a parte la previa lavanda dei piedi
, e conformemente a un uso non greco ma giudaico, si iniziava con la benedizione sul pane (cf. 1Cor 11,23)76: così avveniva almeno nelle chiese 75
72 Lissarrague, L’immaginario del simposio greco, 34. Cf. anche Vetta (a cura), Poesia e simposio nella Grecia antica, 11s. 73 Cf. Senofane B,1,19-23 (in I Presocratici, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2006, 298-299). 74 Cf. P. Lampe, Das korinthische Herrenmahl im Schnittpunkt hellenistischrömischer Mahlpraxis und paulinischerr Theologia Crucis (1Kor 11,17-34), «Zeitschrift für die Neutestamentliche Wissenschaft» 82 (1991), 183-213; H.J. De Jonge, The Early History of the Lord’s Supper, in J.W. van Henten - A. Houtepen (edd.), Religious Identity and the Invention of Tradition, Royal Van Gorcum, Assen 2001, 209-237, specie 215ss; Wick, Die urchristlichen Gottesdienste, 202-223; E. Genre, Gesù ti invita a cena. L’eucarestia è ecumenica, Claudiana, Torino 2007, 62-64; Stein, Frühchristliche Mahlfeiern, 115-123. 75 Cf. Platone, Simp. 175a; Petronio, Satyr. 31; Plutarco, Focione 18,3; inoltre: Gius. e Asen. 7,1,2; Romanzo di Esopo 62 (vedi in merito A. Destro M. Pesce, Un banchetto serale. Gesti e parole che avviano il processo iniziatico, in Come nasce una religione. Antropologia ed esegesi del Vangelo di Giovanni, Laterza, Roma-Bari 2000, 41-63, specie 45-52). Invece in Senofonte, Symp. 1,7, gli ospiti arrivano avendo già fatto, alcuni gli esercizi ginnici con unzione di olio, e altri il bagno. 76 Cf. tBer. 4,1: «Nessuno mangi qualcosa senza benedire, poiché è detto:
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paoline, poiché è possibile che altrove si anteponesse la benedizione sul calice (cf. Lc 22,17-19; Did. 9,2-3)77. r Si
proseguiva con il pasto vero e proprio, probabilmente aperto dalla consumazione del pane benedetto/consacrato. Nelle chiese paoline, ma non solo in esse, il pasto doveva esprimere al massimo grado la koinonía fraterna78. Infatti, il rimprovero che l’apostolo rivolge ai corinzi (cf. 1Cor 11,20-21) è di disgiungere il kyriakòn deîpnon, «cena del Signore», inteso come momento di comunanza vicendevole basata sulla comunione con Cristo, da un ídion deîpnon, «un pasto proprio», cioè un pasto che i più abbienti consumavano autonomamente senza curarsi degli altri. L’inaccettabilità di una simile prassi è ben formulata da una lapidaria sentenza che si legge in Plutarco, secondo cui «dove prevale ciò che è proprio si perde ciò che è comune»79! r Al
termine del pasto, dopo aver lavato le mani80, si proseguiva con la benedizione sul calice del vino81, a cui è conseguen-
“Del Signore è la terra e quanto essa contiene” [Sal 24,1] [...]. Chi mangia dei beni del mondo senza lodare, commette una trasgressione». 77 Il fatto che anche in 1Cor 10,16-17 si abbia questa inversione si può spiegare col fatto che alla menzione del pane/corpo Paolo collega immediatamente una riflessione sulla chiesa/corpo; così in genere i commenti (cf. A.C. Thiselton, The First Epistle to the Corinthians, NIGTC, Carlisle 2000, 764). 78 Di norma, del resto, «nella sala del banchetto ciascuno è disposto in modo tale da poter vedere tutti gli altri e da essere sempre in condizione di uguaglianza con tutti i suoi compagni, a portata di voce e di sguardo» (Lassarrague, L’immaginario del simposio greco, 25). «Solo nel simposio si concretizzava l’universitas membrorum; non meraviglia che il caposcuola dettasse leggi come simposiarca per la degna celebrazione della festa» (M. Vetta (a cura), Poesia e simposio nella Grecia antica, 27, a proposito del simposio tra i filosofi). 79 Plutarco, Quaest. conv. II,10,2 (= Mor. 644C: hópou tò ídion estin apóllytai tò koinón); tutta la Questione 10 dovrebbe essere letta. Cf. G. Theissen, Integrazione sociale e azione sacramentale. Un’analisi di 1Cor 11,17-34, in Id., Sociologia del cristianesimo primitivo, Introduzione di G. Barbaglio, Marietti, Genova 1987, 258-278, specie 261-262. 80 Cf. Klinghardt, Gemeinschaftsmahl und Mahlgemeinschaft, 48-49. 81 Nei pasti greci, prima di bere si faceva anche una libagione agli dèi o a qualche dio (cf. H.-J. Klauck, Herrenmahl und hellenistischer Kult. Eine religionsgeschichtliche Untersuchung zum ersten Korintherbrief, NA NF 15, Aschendorff, Münster 1982, 53-54).
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temente associata l’azione del bere (cf. 1Cor 11,25: ho¯ saúyto¯ s tò pote¯ rion metà tò deipnêsai). Nei testi antichi non è sempre chiaro se si bevesse tutti da una medesima coppa o se ciascuno ne avesse una propria82. Nei banchetti del tempo, questo momento comportava due componenti: uno erotico, consistente in musica e performances di danzatrici (ampiamente documentato dall’iconografia vascolare); e uno di conversazione su tematiche varie da convenirsi sotto la responsabilità di un simposiarca83. Le adunanze cristiane (in ciò simili a quelle dei Terapeuti; cf. sopra) dovevano però escludere il momento erotico84 e concentrarsi su quello della parola. In ogni caso, a differenza del costume ellenistico, le chiese paoline ammettevano la presenza delle donne anche in questa sezione del banchetto, per di più con una loro partecipazione attiva85. Una peculiarità tipicamente paolina concernente la celebrazione della Cena è che la partecipazione al pane e al calice In Platone, Fedro 223c, si afferma che «continuavano a bere da una grande coppa facendo il giro dalla destra»; ma l’iconografia attesta spesso il fatto che ogni convitato ha il suo proprio kýlix (come si vede nella Tomba del tuffatore a Paestum). Cf. anche Musti, Il simposio nel suo sviluppo storico, 56-59. 83 Il simposio vero e proprio, infatti, stava di norma sotto la conduzione di un symposiárch-os/-e¯ s (cf. Senofonte, Anab. 6,1,30; Plutarco, Apophth. Lac. 208b [cf. anche il sostantivo symposiarchía e il verbo symposiarchéo¯ , rispettivamente in Id., Mor. 620a.c]; Filone Al., Somn. 2,249; In Fl. 137; cf. anche l’árcho¯ n tês póseo¯ s in Platone, Symp. 213e; e l’architríclinos in Gv 2,9) e il momento della conversazione doveva essere a sua volta distinto rispetto a quello ludico (infatti, in Platone, Simp. 176e, si parla di una flautista che viene accomiatata prima di dare inizio ai discorsi). 84 È ben possibile che la raccomandazione di Paolo in Rm 13,13 («non in gozzoviglie e ubriachezze, non in impurità e licenze, non in contese e gelosie») si riferisca a questo momento del banchetto greco. 85 La loro separatezza nei simposi è attestata da Platone, Symp. 176e: qui, all’inizio del simposio vero e proprio, viene congedata la flautista «perché vada a suonare per conto suo o, se vuole, per le donne all’interno della casa (taîs gynaixì taîs éndon), così che noi oggi possiamo stare insieme fra noi per fare i nostri discorsi». Secondo P. Wick, però, Paolo in 1Cor 14,33-36 proibirebbe alle donne la possibilità di «insegnare» per evitare la dimensione erotica del simposio (cf. Die urchristlichen Gottesdienste, 218); ma allora non si capisce perché l’apostolo non proibisca loro anche di «profetizzare» (cf. invece 1Cor 11,5). 82
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comporta anche «una comunione al sangue di Cristo e [...] una comunione al corpo di Cristo» (1Cor 10,16-17: koino¯ nía toû haímatos toû Christoû [...] koino¯ nía toû so¯ matos toû Christoû). A questo proposito riprendo in breve ciò che già ebbi modo di scrivere altrove86, per dire che l’idea di una comunione con il «dio» cultuale può avere una ascendenza non biblico-israelitica ma soltanto greco-pagana87, come del resto suggerisce Paolo stesso quando ammonisce i corinzi: «Non voglio che siate in comunione (koino¯ noús) con i démoni; non potete bere il calice del Signore e il calice dei démoni; non potete partecipare (metéchein) alla mensa del Signore e alla mensa dei démoni» (1Cor 10,20-21)88. r La
conversazione. Al contesto del simposio apparteneva come peculiare il momento di un colloquio comune. Questa componente discorsiva, tipica del simposio greco, era già stata persino celebrata dalla succitata elegia di Senofane: «È da lodare tra gli uomini colui che, bevendo, pronuncia belle parole, secondo che gli detti la memoria e la sua aspirazione alla virtù (ho¯ s hoi mne¯ mosýne¯ kaì tónos amf’aretês), che non racconta lotte di Titani né di Giganti e neanche di Centauri, favole inventate dagli antichi, o violente lotte civili, in cui non c’è nulla di buono»89. In più, come sostiene un testo di Plutarco, «la conversazione (ho lógos), come il vino, non dev’essere commisurata in base alla Cf. R. Penna, Il vino e le sue metafore nella grecità classica, nell’Israele antico, e nel Nuovo Testamento, in Id., Vangelo e inculturazione, 145-179 specie 171-177. 87 Oltre al caso di Dioniso può entrare in conto anche Serapide (cf. Penna, Chiese domestiche e culti privati pagani, 767s). 88 «La cena del signore è il pasto cultuale cristiano, in cui il Signore Gesù ricopre un ruolo esplicitamente paragonato a quello delle divinità dei culti pagani [...]. Non si tratta semplicemente di un banchetto memoriale per un eroe defunto: Gesù è percepito come il kyrios vivo e potente, che è padrone del pasto e lo presiede, e col quale i credenti condividono una fraternità come con un dio [...]. Eppure [...] l’esaltazione esplicita di Gesù che si esprime nel pasto non era intesa come deviazione dalla tradizione monoteistica del culto giudaico» (L.W. Hurtado, Signore Gesù Cristo. La venerazione di Gesù nel cristianesimo più antico, I, Paideia, Brescia 2006, 153). 89 Senofane B,1,19-23 (cf. I Presocratici, a cura di G. Reale, 298-299). 86
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ricchezza o al rango, ma, come in una democrazia (ho¯ sper en de¯ mokratía), dev’essere suddivisa ugualmente fra tutti (ex’ísou pâsin némesthai) ed essere collegiale (kaì koinòn eînai)»90. In ambito cristiano e paolino, a ben vedere, il simposiarca, che altrove può anche essere idealmente un dio91, non è altro che il pneûma hágion, lo Spirito Santo92: è lui infatti che conduce la comunità riunita e fa parlare i suoi membri (cf. 1Cor 12,3), distribuendo i doni a ciascuno come vuole (cf. ivi, 12,711); Paolo, da parte sua, è semmai preoccupato della eukosmía o eusche¯ mosýne¯ , cioè che tutto si svolga con ordine (cf. ivi, 14,40) cosicché non si possa dire che i partecipanti sono fuori di sé (cf. ivi, 14,23)93. In quest’ultimo senso va la direttiva data circa il rapporto tra glossolalia e profezia con la preferenza accordata a questa seconda (cf. ivi, 14,15: «Pregherò con lo Spirito, ma pregherò anche con l’intelligenza; canterò con lo Spirito, ma canterò anche con l’intelligenza»!). D’altronde, lo Spirito è ritenuto addirittura la bevanda stessa: «Tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito» (ivi, 12,13b)94. In effetti, è dall’intervento dello Spirito che derivano i vari carismi, qualificati appunto come tà pneumatiká: non solo la profezia (cf. 1Cor 14,1.3), ma anche una serie di altre esternazioni, visto che «ognuno può avere un salmo, un insegnamento, una rivelazione, un discorso in lingue, il dono di interpretarle; ma tutto avvenga per l’edificazione» (ivi, 14,26). A questa prassi alludono anche alcuni testi di lettere deuteropaoline, come Col 3,16 («La parola di Cristo abiti abbondantemente in voi, insegnando con ogni sapienza ed esorPlutarco, Sept. sap. conv. 11 (= 154D-C). Poco prima vi si legge: «A un simposio non ci si reca come un vaso da riempire, ma per discorrere seriamente e per scherzare, per ascoltare e per esprimere considerazioni secondo che la circostanza richiede ai convenuti (kaì akoûsai kaì eipeîn ho¯ ho kairòs parakaleî toùs synóntas), se vogliono trarre piacere tra di loro» (ivi, 147F). 91 Cf. il Lógos in Filone Al., Somn. 2,249; e Serapide in Aristide, Or. 45,27. 92 Così giustamente Wick, Die urchristlichen Gottesdienste, 219. 93 Una preoccupazione analoga si trova anche negli statuti di alcuni collegia contemporanei, come quello di Diana e Antinoo a Lanuvio (cf. colonna 2, righe 22-23) e quello degli Iobacchi ad Atene (cf. righe 64-65). Cf. anche Klauck, Herrenmahl und hellenistischer Kult, 350 nota 85. 94 Così è anche il Lógos secondo Filone Al., Somn. 2,249. 90
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tandovi a vicenda, cantando a Dio nei vostri cuori con salmi, inni e canti spirituali») e ancor più Ef 5,18-19 («Non inebriatevi di vino, nel quale c’è sregolatezza, ma riempitevi di Spirito, parlando tra di voi con salmi e inni e canti spirituali, cantando e lodando il Signore con il vostro cuore»). Probabilmente, però, per prima cosa si leggevano testi di comune interesse: sia quello della lettera inviata da Paolo alla rispettiva comunità radunata (cf. 1Ts 5,27; Col 4,16), sia poi qualche passo delle Scritture bibliche, a cui dovevano seguire uno o più commenti dei partecipanti. D’altra parte, i numerosi riferimenti veterotestamentari presenti almeno in alcune delle lettere (cf. 1-2Cor, Gal, Rm) suppongono che i destinatari fossero istruiti nelle Sacre Scritture, e l’unico luogo ipotizzabile per una istruzione del genere (a meno che si trattasse di giudeocristiani provenienti già dalla frequenza delle sinagoghe) doveva essere il momento simposìaco della ekkle¯ sía riunita95. È altrettanto probabile che in questo stesso contesto simposìaco, oltre alle acclamazioni, alle dossologie ed euloghie, si siano formati anche i vari inni reperibili qua e là nelle pagine del Nuovo Testamento96, in modo particolare all’interno delle lettere paoline (cf. Fil 2,6-11; Col 1,12-20, 1Tm 3,16)97. 95 Su questa prassi, tuttavia, «di esplicito non abbiamo proprio nulla» (Meeks, I Cristiani dei primi secoli, 368). 96 Cf. R. Penna, Da Israele al cosmo. Ampliamenti dell’orizzonte cristologico nello sviluppo dell’innografia neotestamentaria, in P. Coda (a cura), L’unico e i molti. La salvezza in Gesù Cristo e la sfida del pluralismo, PUL-Mursia, Roma 1997, 49-66. Vedi anche E. Norden, Agnostos Theos. Untersuchungen zur Formengeschichte religiöser Rede, Darmstadt 1971 (= 1912), 250-263; Hurtado, Signore Gesù Cristo, I, 153-155 (con bibliografia). 97 A questo proposito si potrebbero stabilire dei confronti con la comunità di Qumran (cf. le Hodayot in 1QH) e con quella dei Terapeuti (cf. Filone Al., Vit. cont. 80-89: prima canta il solo presidente, poi ciascuno dei presenti, poi ancora si formano due cori distinti di uomini e donne, e infine tutti all’unisono); vedi anche le preghiere cantate dai giudei di Alessandria in seguito alla deposizione del governatore Flacco (cf. Filone Al., In Fl. 121-124). Sulla necessità di cantare incessantemente a Dio/provvidenza, si dovrebbe anche leggere la bella pagina di Epitteto, Diatr. 1,16,15-21! Quanto a Paolo, vedi anche A.M. Buscemi, Gli inni di Paolo, una sinfonia a Cristo Signore, Franciscan Printing Press, Jerusalem 2000.
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Verosimilmente, infine, «il bacio santo» doveva rappresentare la conclusione o comunque il saluto reciproco tra i partecipanti alla ekkle¯ sía (cf. Rm 16,16; 1Cor 16,20; 2Cor 13,12; 1Ts 5,26; e anche 1Pt 5,14)98. Lo svolgimento di altri momenti rituali propri della ekkle¯ sía si può supporre più che descrivere. Questo vale in primo luogo per il battesimo99. Di esso infatti Paolo ci offre una profonda riflessione teologica (cf. Rm 6,1-11; 1Cor 6,11; Gal 3,27), ma non ci suggerisce alcun elemento sulla sua effettiva attuazione rituale. Sapendo che doveva trattarsi di una immersione nell’acqua100, ci si pone la questione di sapere se nella casa dell’ospite c’era abbastanza acqua per consentire appunto una immersione. O forse il rito avveniva fuori casa presso qualche torrente? Certo è che, mentre la Tradizione Apostolica di Ippolito ci informa che a Roma agli inizi del III secolo i battezzandi praticavano nudi una triplice immersione101 (oltre che una unzione di olio), almeno un secolo prima la Didaché attesta che, se non ci fosse stata acqua sufficiente, si versasse per tre volte acqua sul capo del battezzando dopo aver digiunato102. Le metafore paoline dello svestirsi e rivestirsi e ancor più quella del morire e risorgere non alludono ancora, probabilmente, allo scendere e risalire dall’acqua, visto che non se ne fa alcuna menzione103; la stessa metafora pasquale del lievito e degli azzimi (cf. 1Cor 5,6-8) si aggiunge semplicemente alle due precedenti a confermare che il linguaggio impiegato è puramente metaforico, non simbolico. 98 Cf. R. Penna, Il bacio come forma di saluto nel cristianesimo delle origini, «Thauma» [Urbino] 0 (2006), 37-44. Secondo Giustino, I apol. 65,2, il bacio si dava all’inizio (così anche Stein, Frühchristliche Mahlfeiern, 122-123). 99 Cf. Meeks, I Cristiani dei primi secoli, 376-393. 100 Infatti, il verbo bápto¯ /baptízo¯ significa propriamente «immergere, sommergere, tuffare» (cf. per esempio Omero, Odissea, 9,392; Plutarco, De superst. 166a), anche in senso figurato (cf. Flavio Giuseppe, Bell.4,137: la città fu sommersa dalla folla). 101 Cf. § 21, dove si prescrive che sia «acqua che scorre in una fontana o che cade dall’alto». 102 Cf. § 7,1-4, dove si specifica che l’acqua va preferita fredda ma può anche essere calda. 103 Cf. R. Penna, Lettera ai Romani - II. Rm 6-11. Versione e commento, SOC 6/II, Dehoniane, Bologna 2006, 26-27.
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Altri riti ci sfuggono totalmente, come potrebbero essere quelli funerari (quanto al matrimonio, non esisteva alcun rito proprio).
4. Conclusione Ciò che indubbiamente colpisce nei momenti cultuali delle chiese paoline è la spontaneità, favorita anche dall’assenza di un quadro rituale eccessivamente rigido. Si vede bene che tra quei momenti e la vita quotidiana non c’è una grande cesura. Infatti, lo Spirito che presiede alla ekkle¯ sía, cioè al gruppo radunato, è lo stesso che informa tutta la concreta esistenza del singolo cristiano al largo della sua vita nella società. Per i credenti in Cristo, dunque, l’importante secondo Paolo non è tanto il momento di una prassi cultuale quanto piuttosto una vita comunionale/agapica (cf. Rm 13,8-10)104 condotta all’insegna della fede (cf. Gal 5,6) in un ineguagliabile «Dio per noi» (cf. Rm 8,31) sotto la esclusiva signoria di Cristo (cf. 1Cor 8,6b) «finché egli venga» (1Cor 11,26). Proprio in ciò consiste la liminalità della comunità cristiana. Ed essa evidenzia la sua irriducibilità tanto alla società giudaica di partenza quanto a quella pagana del nuovo inserimento. Qui sta la sostanza. Il resto, per dirla con Aristotele, sono per lo più accidenti.
104 Lo dice bene il titolo dello studio di Klinghardt: c’è per così dire un circolo ermeneutico tra il momento banchettante della comunità (Gemeinschaftsmahl) e la dimensione comunitaria che porta e deriva dal banchetto (Mahlgemeinschaft).
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LA LIMINALITÀ NEI PERCORSI DI INIZIAZIONE DELLA CHIESA ANTICA. LO STATUTO DEI CATECUMENI Giuseppe Laiti
1. Il tema: il catecumenato come struttura di conversione
Il divenire cristiani, l’accesso alla vita nuova che la fede offre e il battesimo sigilla, comporta, nella consapevolezza e nella pratica della chiesa antica, la assunzione della istanza di conversione sollecitata dal giudizio innovativo pronunciato da Dio sulla storia nella risurrezione di Gesù Cristo, costituito «Signore e Cristo» (At 2,37). Lo attesta limpidamente la sequenza prescritta in At 2,38: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo»1. Il conio del termine discepolato, maqhteía, discipulatus, per segnalare non solo la condizione fondamentale del cristiano ma già quella di chi è in cammino verso il battesimo lascia capire che per la chiesa antica il tirocinio dei discepoli di Gesù attestato dalle narrazioUn saggio autorevole di questa consapevolezza, anche come riflessione critica su un’esperienza ormai ben strutturata, si può riconoscere nel De baptismo di Basilio che così titola il primo capitolo del I libro: ðti deî prôton 1
maqhteuqênai tô� kuríw� kaì tóte kataciwqênai toû �gíou baptísmatoj (occorre prima essere resi/diventare discepoli del Signore e poi essere
ammessi/essere ritenuti degni di accedere al battesimo). Per il testo di Basilio si veda l’edizione curata da J. Ducatillon, Basile de Césarée, Sur le baptême (= SCh 357), Cerf, Paris 1985, che si appoggia sulla edizione critica di U. Neri, Basilio di Cesarea, Il Battesimo, Paideia, Brescia 1976.
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ni evangeliche funge da paradigma di riferimento2. Il vocabolo allude direttamente alla condizione nella quale si viene a trovare il destinatario di una proposta di vita nel momento in cui decide di accoglierla e di porsi in stato di apprendimento; il riferimento a Mt 28,19 è facilmente riconoscibile. Poiché la vita cristiana è un permanente apprendere dal Signore, occorre un tempo nel quale si apprende ad apprendere, un periodo di familiarizzazione con i riferimenti di fondo che strutturano la vita nuova, con la sua logica, con il dono che la genera e con la dinamica che le è propria dentro l’esistenza in questo mondo. Occorre anche tenere conto che questo processo avviene tramite la adesione alla comunità cristiana che è testimone e ministra della proposta evangelica, il che pone in evidenza come il divenire cristiani implichi una nuova appartenenza: si tratta di stare nel mondo come «corpo di Cristo», «chiesa di Dio», «nuovo Israele», «tertium genus». La pluralità delle formule di identificazione che la chiesa dei primi tre secoli conia per dirsi rispetto al mondo giudaico e alle diverse esperienze religiose del mondo greco-romano dicono con forza il carattere peculiare di questa appartenenza. Lo scopo di questa indagine è osservare come si configura la condizione di coloro che decidono di compiere il percorso dalla vita pagana alla fede (�pò e)qnikoû bíou ¿rti proelqóntaj tê� pístei) come recita il can. 2 del concilio di Nicea. L’evidente distanza tra il punto di partenza e l’approdo del percorso lascia ben capire l’esigenza di elaborare un nuovo modo di porsi nel l’esistenza. Non a caso il canone si propone di contrastare la tendenza ad abbreviare la durata del catecumenato, componente che invece il concilio ritiene non rinunciabile. Cercherò di avvicinare il tema attraverso tre percorsi: a) raccogliendo una serie di indicazioni sintomatiche che emergono dalle fonti che ci informano circa il catecumenato antico, b) analizzando la struttura di alcuni racconti di conversione, stesi 2 Per una recensione di questo vocabolario e del suo significato nella letteratura patristica si può vedere M. Dujarier, Devenir disciple du Christ. Catéchuménat et «Discipulat», in Historiam Perscrutari, a cura di M. Maritano, LAS, Roma 2002, 521-537.
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la liminalità nell'iniziazione della chiesa antica
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con trasparente intento paradigmatico, c/ indagando il nesso catecumenato-battesimo in due autori, preniceno ed occidentale il primo, postniceno ed orientale il secondo: Cipriano di Cartagine e Basilio di Cesarea.
1. Indicazioni sintomatiche offerte dal catecumenato antico
Il percorso catecumenale3, pur nelle sue variazioni tra chiesa e chiesa e nel passaggio dal secolo III ai secoli IV e V, prevede: r Un
tempo e uno spazio per i catecumeni: xrónou deî tô� xathxouménw� (concilio di Nicea, can. 2)4. Il testo canonico-li-
turgico denominato correntemente Tradizione Apostolica (TA) indica tre anni, come già Clemente Alessandrino, Str. II,95,396,2 a commento della prescrizione di Lv 19,23-24 circa la cura necessaria per gli alberi prima di poterne raccogliere i frutti. Agostino parla di un tempo proprio di coloro che portano il nome di catecumeni, segnato dall’apprendimento di quale debba essere la fede e la vita del cristiano; tale che caratterizza la loro condizione (gradus) nella chiesa (De fide et op. VI,9)5. Nell’as3 Il termine catecumenato non ricorre mai nelle fonti antiche, come del resto la sigla iniziazione cristiana. Si trova correntemente il sostantivo catecumeni e iniziati/non iniziati. In primo piano sta la condizione di un gruppo di persone rispetto alla fede e alla comunità cristiana, piuttosto che una istituzione ecclesiale. Giovanni Crisostomo distingue tra o(i ºcwqen, oi( Ællhnej (i pagani), oi( �múhtoi (catecumeni), oi( memuemÉnoi (i battezzati). Cf. ad esempio In Eph., hom 3,5 (PG 62,29C). Si può vedere per questo Ph. De Roten, Baptême et mystagogie. Enquête sur l’initiation chrétienne selon Jean Chrysostome, Aschendorff, Münster 2005, 137-152. 4 «Molte cose per necessità o per la pressione di qualcuno sono state fatte in contrasto con le norme ecclesiastiche. Infatti alcuni, venuti da poco alla fede dal paganesimo (�pò $qnikoû bíou), e istruiti in un tempo troppo breve, sono stati subito ammessi al lavacro spirituale e insieme sono stati promossi all’episcopato o al presbiterato. È bene che in futuro non accada nulla di simile perché è necessario del tempo per il catecumeno e una prova più lunga dopo il battesimo». 5 «A che altro serve tutto il tempo nel quale portano il grado e il nome di catecumeni, se non ad apprendere quale deve essere la fede e la vita del cristia-
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semblea per la catechesi e la preghiera i catecumeni hanno un loro posto: «catechumeni orent seorsum, separati a fidelibus» (TA 18). Tertulliano vi insiste criticando l’indistinzione che vige tra gli eretici (Praescr. 41). Ancora Giovanni Crisostomo ricorda che al posto diverso occupato dai fedeli rispetto ai catecumeni, deve corrispondere una condotta differente (In Mt. Hom 4,7). In ogni caso i catecumeni si differenziano dai battezzati lasciando l’assemblea dopo la liturgia della Parola: essi sono già cristiani ma non ancora fedeli (pistoí)6. Rispetto ai fedeli il catecumeno è ancora un �llótrioj, non ammesso ai misteri (In Ioh. Hom 25,3, PG 59,151D). La sua è una condizione provvisoria, tesa alla recezione fruttuosa della grazia battesimale: «Se uno è catecumeno, ma conosce il Cristo, conosce la fede, se comprende le divine parole [...], che motivo ha di rimandare il battesimo?» (In Heb. Hom 13,5). r Un
itinerario che si sviluppa tra due esami, che mirano a definire due soglie che devono risultare valicate (TA 15; Origene, Contro Celso III,51,2-5). Il contenuto della «virtus ad audiendum verbum», oggetto dell’esame d’ingresso, si trova precisato nel contesto (TA 15): si tratta insieme della motivazione che spinge a intraprendere il cammino verso il battesimo e delle condizioni di vita che consentano la pratica della Parola. Il tempo del catecumenato comporta una proposta propria di catechesi e di riti, segno di croce, esorcismi, imposizione delle mani, rito del sale, consegna del simbolo e del Pater. Si tratta di un insieme di elementi che, pur conoscendo variazioni da chiesa a chiesa e nel tempo, scandiscono un ritmo preciso del percorso. La preoccupazione della durata sottolinea come «i tempi dei riti» debbano corrispondere a «tempi della vita», a tempi che consentano la effettiva personalizzazione delle operazioni proposte7.
no, in modo che, solo dopo che avranno messo se stessi alla prova, mangino dalla mensa del Signore e bevano del suo calice?». 6 La stessa cosa si trova attestata in Agostino: ai cristiani appartengono catecumeni e «fedeli» (fideles; In Joh. Tr. 44,2). 7 Da questo punto di vista la riduzione del catecumenato effettivo al tempo
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r Un vocabolario indicativo della condizione del catecumeno come condizione di passaggio, tesa a un obiettivo che si configura come nuova condizione di vita rispetto a quella di partenza: un tempo di esercitazioni, di tirocinio (Tertulliano, Pen. VI,14), tempo di cura e potatura (Clemente Aessandrino, Str. II,95,396, Origene, In Joh. VI,28), simile a «chiamata alle armi», a «tempo di forgiatura» (Cirillo, Prot. 1,1.9), a «palestra e ginnasio» (Giovanni Crisostomo, Cat. Preb. I,16)8. La condizione dei catecumeni è simile a quella nella quale si trovano «i lottatori nello stadio, i corridori sulla pista, i pugili sulla palestra» (Agostino, Sermo 216,6). Si tratta di una condizione di apprendistato, di esercizio che intende abilitare alle esigenze di una nuova condizione di vita. r La
protocatechesi, chiaramente mirata a costruire una piattaforma di partenza. L’inizio del catecumenato è situazione delicata e opportunità unica. Si tratta di fare emergere le motivazioni che di fatto conducono a intraprendere il cammino verso il battesimo, sapendo che esse stesse possono essere disparate e non adeguate, bisognose di purificazione e talora profonda rielaborazione9. Insieme con le motivazioni necessarie la protocatechesi quaresimale, che diviene corrente nel corso del secolo IV porta con sé il rischio che i tempi liturgici non corrispondano più ai tempi del cammino umano (Cf. M. Dujarier, Breve storia del catecumenato, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 1984, 78). Anche se è pur vero che il catecumenato quaresimale non esaurisce tutto il catecumenato, che anzi rischia di diventare eccessivamente diluito, fino a risultare un tempo indeterminato. Per l’insieme dei riti e la loro evoluzione bastano due riferimenti: V. Saxer, Les rites de l’initiation chrétienne du IIe au VIe siècle. Esquisse historique et signification d’après leurs principaux témoins, Centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1988; G. Cavallotto, Catecumenato antico. Divenire cristiani secondo i Padri, Dehoniane, Bologna 1996; Iniziazione cristiana e catecumenato. Divenire cristiani per essere battezzati, a cura di G. Cavallotto, Dehoniane, Bologna 1996. 8 Seguo la numerazione di L. Zappella, Giovanni Crisostomo, Le Catechesi battesimali, Paoline, Milano 1998 (qui 158). 9 «Può darsi che un uomo venga qui per corteggiare una donna. Una cosa simile puo accadere anche per le donne. Inoltre può accadere che un servo voglia compiacere il suo padrone e un amico l’amico» (Cirillo, ProtoC. 5); «Ecco uno che viene nella chiesa perché cerca onori sotto gli imperatori cristiani, finge di domandare il battesimo con un rispetto simulato: si inchina,
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presenta la scansione del cammino e la sua logica. Con abile gioco retorico, Cirillo di Gerusalemme illustra il carattere liminare della condizione del catecumeno e la grazia che la qualifica: colui che si iscrive, dà il nome, per il cammino verso il battesimo passa dall’essere un «uditore dall’esterno», perihxoúmenoj, a un «udire dall’interno», #nhxoúmenoj, per l’azione dello Spirito che apre alla comprensione dell’annuncio della salvezza contenuto nelle Scritture (cf. ProtoC. 6). L’appello alla grandezza dell’evento battesimale conclude la catechesi d’avvio e stimola ancora una volta il desiderio del cammino (ProtoC. 16). La protocatechesi contiene una pedagogia precisa: essa si propone di collocare correttamente il catecumeno al «via», di renderlo effettivo uditore della Parola; gli presenta il cammino che lo attende, proposto dalla chiesa e suggerito dallo Spirito, il pregio che lo connota, la meta battesimale che il Signore offre. Essa adempie una funzione di raccordo necessario tra una simpatia per la fede già risvegliata e il cammino che conduce al sigillo della fede, al battesimo, che fruttifica poi nella vita cristiana. Senza tale raccordo, situazione del catecumeno, radicata nelle abitudini sociali e nella cultura del tempo, e offerta del Vangelo da parte della chiesa rischiano di venire a trovarsi in condizioni di permanente sfasatura il cui esito, esplicitamente temuto, sarebbe il carattere frammentario delle convinzioni di fede e della vita cristiana. r La
simbolica dell’esodo come rappresentazione privilegiata dell’itinerario che il battesimo implica e celebra; una simbolica che dà rilievo a una condizione da assumere perché si realizzi l’uscita dalla condizione pesante della schiavitù e l’ingresso in quella felice della libertà nella terra promessa (cf. Origene, Omelia IV su Giosuè, 1; SCh 71,148; Omelia XXVI sui Numeri; SCh 29,501)10. La traversata del deserto è necessaria perché
si prosterna, ma non piega le ginocchia con lo spirito» (Ambrogio, In Ps. 118,20,4). 10 «Quando dalle tenebre dell’errore si è condotti alla luce della conoscenza, quando da una vita terrena ci si converte agli inizi della vita spirituale, si esce dall’Egitto e si viene nel deserto, cioè a un genere di vita nel quale, in mezzo al silenzio e alla calma, ci si esercita alle leggi divine e ci si imbeve
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si realizzi l’abbandono dell’idolatria dell’Egitto e si possa celebrare l’ingresso nella terra della promessa. Il deserto assurge a paradigma del catecumenato, distacco dalla vita secondo il mondo per avvicinarsi alla novità offerta dallo Spirito. Le tappe del deserto sono immagine dei passi della vita spirituale che il catecumenato ha il compito di iscrivere nella memoria del battezzando (Omelia sui Numeri, XII,4; XXVII,12). L’insieme di questi elementi evidenzia il fatto che il catecumentato si configura come un «tra», una condizione provvisoria e però carica di implicanze perché mira a favorire il passaggio dalla vita omologata all’ambiente alla vita cristiana. Si caratterizza per un insieme di prese di distanza e di fondamentali iniziazioni, alla Parola, alla preghiera, alla carità, alla fraternità. Il rito del rinuncio a (�potássomai) e del credo in (pisteúw e%j), accompagnato dalla mimica del volgere le spalle all’Occidente per l’Oriente, è la focalizzazione celebrativa di questa figura del catecumenato. Possibili antecedenti giudaici di questa struttura di iniziazione sono reperibili nella prassi degli esseni secondo la testimonianza di Giuseppe Flavio (La guerra giudaica II, 137-142) e presso il gruppo di Qumran (1QS VI, 13-23), forse anche tra i Terapeuti di Alessandria (Filone, La vita contemplativa)11. Ciò che è nuovo del catecumenato è la motivazione e l’obiettivo a cui intende abilitare: si tratta della vita nel discepolato di Gesù come comunità cristiana. degli oracoli celesti. Poi, quando si è ricevuta la loro formazione e direzione, dopo aver superato il Giordano, ci si affretta fino alla terra promessa, e cioè mediante la grazia del battesimo si giunge fino ai precetti evangelici» (Hom IV su Giosuè, 1). Si può vedere Dizionario di spiritualità biblico-patristica, n. 18: L’Esodo nei Padri della chiesa, Borla, Roma 1997. 11 Si può trovare una presentazione e discussione di queste informazioni in M. Dujarier, Le parrinage des adultes aux trois premiers siècles de l’Église, Cerf, Paris 1962, 73-97; A. Laurentin - M. Dujarier, Il catecumenato. Fonti neotestamentarie e patristiche. La riforma del Vaticano II, Dehoniane, Bologna 1995 (Paris 1969), 65-69; L. Gusella, Esperienze di comunità nel giudaismo antico. Esseni, terapeuti, Qumran, Ed. Nerbini, Firenze 2003, 295-299. Per elementi di confronto tra iniziazione pagana e cristiana si veda O. Pasquato, Iniziazione pagana e iniziazione cristiana (I-III sec.): le vie della salvezza, «Augustinianum» 1 (2006), 5-23.
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2. Divenire cristiani nei racconti di conversione La letteratura patristica ci ha trasmesso alcuni racconti di conversione di notevole interesse: tra i più ampi e noti quelli di Giustino, Cipriano, Ilario, Agostino. La loro stretta attendibilità biografica ha avuto valutazioni differenti; il vissuto è calato in una forma letteraria che ne evidenzia il carattere «drammatico» e tende a conferirgli una valenza paradigmatica, insieme apologetica e missionaria, protrettica. L’aspetto personale non viene tuttavia emarginato, piuttosto è narrato secondo una forma che lo rende comprensibile nel quadro della cultura del tempo. Anche per questo risultano interessanti per il tema che ci occupa. In fondo questi racconti ci offrono un punto di vista certo particolare ma interessante per osservare il catecumenato non sotto il profilo della sua organizzazione ma del vissuto o della sua rappresentazione da parte di chi lo ha vissuto e intende comunicarlo. Essi mostrano che il divenire cristiani espone a una «soglia di rottura» evidenziata dalla distanza tra il «prima» e il «dopo» e strutturata da un insieme di fattori che sollecitano il passaggio e consentono una felice soluzione dei dubbi e del prezzo che occorre mettere in conto nella adesione alla fede cristiana. Prende corpo così una nuova appartenenza e una nuova identità. Nel resoconto che Giustino fa del suo approdo alla fede cristiana come «vera filosofia» (Dial. 2-8), è emblematica la scena del ritiro in un «luogo deserto» ove il desiderio iniziale del soliloquio, come condizione particolarmente adatta alla conquista della verità secondo il dettato della filosofia, viene mutato in dialogo dalla presenza di un «anziano» (presbites), probabile personificazione della comunità cristiana. Tramite il dialogo si snoda un percorso che conduce dalla vana aspettativa di vedere Dio attraverso la purificazione della mente (2,6), alla sorpresa della via di Dio a noi attestata dai profeti e adempiuta in Cristo. L’anziano contesta pacatamente le presunzioni che le filosofie, alla prova dei fatti, non sono in grado di mantenere, e annuncia la sorprendente iniziativa di Dio nei nostri confronti, riconoscibile in testimoni attendibili e definitivamente accreditati dalla venuta del Messia Gesù. Contestazione e annuncio coinvolgono in una profonda rielaborazione la ricerca della felicità e dell’agi-
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re virtuoso che spingono l’uomo a interrogarsi su Dio, su ciò che sta all’inizio e alla fine. Giustino vive un profondo mutamento di atteggiamenti: dalla ricerca all’ascolto, dall’argomentazione alla preghiera come invocazione di un dono e della capacità di accoglierlo. L’esito ci è narrato sinteticamente con grande intensità: Un fuoco divampò all’istante nel mio animo e mi pervase l’amore per i profeti e per quegli uomini che sono amici di Cristo. Ponderando tra me e me le sue parole trovai che questa era l’unica filosofia certa e proficua (Dial. VIII,1).
L’immagine della illuminazione improvvisa per esprimere l’esperienza dell’affacciarsi dei primi principi nell’anima ha una nota ascendenza platonica (Lettera 7,341c-d), tuttavia il riferimento ai profeti porta a pensare a Ger 20,9 ove il divampare del fuoco nel cuore sta a dire la forza della parola di Dio a cui invano il profeta opporrebbe resistenza. È dunque il pregio unico della parola udita e vista all’opera negli «amici di Dio» che provoca in Giustino nuove valutazioni fino alla scoperta di trovarsi di fronte «all’unica filosofia solida e feconda», ossia in grado di generare un modo di vivere virtuoso e di rispondere al desiderio di felicità. Sorpresa, ponderazione e assenso dicono il percorso interiore di Giustino verso la fede (Dial. VIII,2). Motivi che strutturano la tradizione culturale a cui Giustino appartiene e che fanno perno attorno alla categoria di «filosofia» si trovano sottoposti a un processo di disarticolazione e riarticolazione: la ricerca non comanda più il percorso ma si attiva attorno all’ascolto della parola giunta sorprendentemente a noi, la argomentazione non ha la sua forza nel sillogismo ma nella affidabilità della testimonianza degli «amici di Dio». La filosofia si dà ormai nella adesione alla rivelazione di Dio nel suo Verbo fatto uomo, è dono da accogliere invocando la capacità di aprirsi a esso. Nulla della strumentazione culturale è gettato via, ma tutto viene riposizionato secondo la nuova prospettiva aperta dalla attestazione profetica adempiuta nel Cristo Gesù. Così Giustino rende conto al suo interlocutore, l’ebreo Trifone, della posizione da cui prende la parola nel dialogo che sta per iniziare. E così intende probabilmente presentare la fede cristiana e il suo peculiare rapporto con il giudaismo al «carissimo Mar-
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co Pompeo» destinatario del suo scritto (Dial. 141,5)12. Il fatto che il testo di Giustino si presenti come un dialogo (GiustinoTrifone), in funzione di un dialogo (Giustino-Marco Pompeo), per raccontare l’esito di un dialogo (Giustino-presbites), lascia capire come la proposta cristiana trovi in questa forma comunicativa una modalità congeniale di proporsi, innovandone il contenuto: si tratta ora di rendere conto della testimonianza che Dio ha dato di sé nella nostra storia. Se nel racconto di Giustino la novità cristiana si presenta prevalentemente sotto l’angolatura della verità che si offre a noi come rivelazione in Gesù messia, in Cipriano il campo è dominato dalla qualità della vita resa possibile all’uomo dall’accesso alla fede. Onorando l’invito dell’amico Donato a rendere conto della propria fede, Cipriano descrive il tempo dell’orientamento e del discernimento (A Donato 3-5) come situazione tesa tra una percezione di impotenza rispetto a un mutamento di vita troppo grande e profondo e l’affidamento alla forza che viene da Dio. Egli si descrive afferrato da una duplice angoscia: quella prodotta dalla insoddisfazione per i vistosi limiti della vita corrente, dal senso di vuoto e di esaurimento che essa porta con sé, e quella derivata dalla altezza delle esigenze poste dal Vangelo. Il quadro delinea un netto contrasto tra i modi della vita corrente e quelli propri della esistenza cristiana; esso è narrato successivamente attraverso un contrappunto di immagini, tenebre-luce, poi di abitudini di vita, opulenza-sobrietà, infine di valori, successo/ potere-fraternità/servizio. La tensione viene sciolta dalla fecondità della grazia sperimentata come luce e nuova generazione: Ma dopo l’aiuto dell’acqua rigeneratrice, detersa la macchia della vita passata, nel mio animo purificato e mondato si diffuse dall’alto Per una lettura di Dial. 1-9 si può vedere G. Otranto, Note sull’itinerario spirituale di Giustino. Fede cultura in Dialogo 1-9, in Crescita dell’uomo nella catechesi dei Padri (età prenicena), a cura di S. Felici, LAS, Roma 1987, 29-39. Per lo specifico tema della conversione si può fare riferimento al bilancio tracciato da S.J.G. Sánchez, Justin, apologiste chrétien, Gabalda, Paris 2000, 68-109 (le problème de la conversion de Justin martyr). Per il rapporto tra filosofia e fede in Giustino rimando alla presentazione di G. Visonà, Giustino, Dialogo con Trifone, Paoline, Milano 1988, 32-57. A questo lavoro qui mi ispiro e da esso ho tratto la versione del testo di Giustino (104-105). 12
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la luce; ricevuto dall’alto lo Spirito celeste, la seconda nascita mi trasformò in un uomo nuovo. Improvvisamente ciò che era dubbioso divenne meravigliosamente certo, ciò che era impenetrabile diventò palese, ciò che era oscuro mi apparve luminoso, ciò che prima pareva difficile diventò facile, ciò che prima appariva impossibile divenne possibile; compresi allora che apparteneva alla terra quanto prima, nato dalla carne, viveva soggetto al peccato mentre iniziava ad appartenere a Dio ciò che lo Spirito Santo già vivificava [...]. È di Dio ogni nostra possibilità (A Donato 4).
Il mutamento tra il prima e il dopo non può essere espresso in termini più netti, né in modo più chiaro può esserne formulato il motivo. Le immagini bibliche della seconda nascita (Gv 3,5) e dell’uomo nuovo (Col 3,10; Ef 4,24) sono eco della catechesi battesimale nel vissuto di Cipriano. Evocano la sorpresa di poter contare su un nuovo patrimonio di vita, quello della paternità di Dio rivelata in Gesù e resa accessibile nel dono del suo Spirito. Sull’orizzonte ecclesiologico che il racconto di Cipriano suppone tornerò tra poco. Ilario di Poitiers si presenta nelle prime pagine della sua opera maggiore, finalizzata a proteggere la fede battesimale a rischio nella polemica ariana, ricordando il suo approdo alla fede cristiana (Tr. I,1-14). Prende le mosse dalle domande che si poneva un uomo colto del suo tempo: come non accodarsi semplicemente alla opinione corrente che vede nell’abbondanza dei beni da godere tranquillamente il massimo della felicità possibile? Le provocazioni della filosofia che invita alla virtù (effettiva differenza dagli animali) senza tuttavia dare soddisfazione alla domanda attorno al destino ultimo dell’uomo rendono acuta la «fatica dell’anima» (Tr. I,10), «l’ansietà e la trepidazione della mente» (Tr. I,13). La sorpresa della autorivelazione di Dio nella profezia dell’AT (Es 3,14) e finalmente nell’incarnazione del Verbo (Gv 1,1-14) apre la strada verso una «nuova nascita», la grazia dell’essere figli. Tutta la vita terrena prende i connotati dell’apprendistato e della guarigione, inizio effettivo della vita piena a cui apre il passaggio la risurrezione da morte. Il cammino verso la fede si presenta come originale risposta alla ricerca del senso della vita, punta di nobiltà di ogni cultura. Esso si snoda tra la chiesa che annuncia il venirci incontro di
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Dio «secondo le Scritture» e la ricerca di vita plausibile che prima o dopo interpella ogni persona. Certo il racconto di Ilario può dare l’impressione di un percorso fatto quasi totalmente di riflessione; esso però lascia ben intravedere la cornice ecclesiale che lo sostiene, attraverso la parola delle Scritture e la elaborazione di un modo di vivere che vi corrisponde. È interessante che Ilario ci segnali la sequenza di stati d’animo, di emozioni, di scoperte e di operazioni interiori che scandiscono il suo cammino: egli è via via cercatore, affaticato, turbato, sorpreso dalla bellezza di Dio, in ascolto delle Scritture, rallegrato, in pace, fermo nella fede. Il suo mondo interiore si va riformulando in risposta all’annuncio cristiano che lo porta a collocarsi in modo nuovo nel suo mondo, secondo il ministero che la comunità ecclesiale gli affida. Il racconto di Agostino è fin troppo noto perché occorra sostarvi a lungo. Basta qui accennare al fatto che, secondo la celebre scena del giardino, l’ultima resistenza da superare è quella che deriva dal fascino esercitato dal tipo di vita fino ad allora inseguito, la carriera del cursus imperiale (Conf. VIII,12,29-30)13. A quest’ultima spiaggia Agostino è condotto dall’ascolto della Parola spiegata da Ambrogio: essa gli consente di annodare l’affetto per il nome di Gesù respirato nella prima educazione ricevuta dalla madre (Conf. I,11.17), con il disegno della vita fraterna, raccolta attorno all’unico servizio del Signore. Nel celebre canto di Conf. X,27,38, Agostino celebra la «vittoria» di Dio nella sua vita come pieno ripristino della funzionalità della sua struttura umana: ora egli è in grado di ascoltare, vedere, sentire, gustare, toccare ogni realtà secondo la sua verità. Il percorso verso la fede è effettivamente l’apprendistato di un nuovo modo di situarsi nel mondo di cui tutta la vita cristiana sarà esercizio, fino alla risurrezione della carne. I «racconti di conversione» ci consentono qualche lettura del catecumenato dal punto di vista del vissuto, rivisitato dall’interessato in retrospettiva. Siamo così messi al corrente non Per questo aspetto si può vedere C. Lepelley, Un aspect de la conversion d’Augustin: la rupture avec ses ambitions sociales et politiques, «Bulletin de littérature ecclésiastique» 88 (1987), 229-246. 13
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tanto del funzionamento di una istituzione ecclesiale rilevante, quanto degli stati d’animo, dei problemi, delle resistenze e delle attrattive che essa intendeva accompagnare e guidare verso la vita nuova offerta dal battesimo. La rielaborazione del proprio mondo interiore e del proprio modo di vivere risulta legata alla proposta contenuta nelle Scritture che la comunità cristiana presenta. Come questi racconti lasciano allusivamente capire, questa proposta mette in campo funzioni ecclesiali, include formazione a nuovi atteggiamenti come l’ascolto e la preghiera, la pratica della carità e la vita fraterna. Come tutti attestano, si tratta di lasciarsi ridisegnare dalla grazia del Signore che il rito battesimale presenta come una nuova nascita, il venire dotati di un nuovo patrimonio di vita: quello che viene dalla paternità di Dio tramite la solidarietà del Figlio Gesù. Esso stabilisce in una nuova identità e appartenenza, come ci consente di sottolineare l’orizzonte ecclesiologico ed escatologico a cui rimanda il percorso verso il battesimo. A questo orizzonte cerco di fare ora attenzione sondando rapidamente le prospettive di Cipriano e Basilio.
3. Cipriano di Cartagine e Basilio di Cesarea: l’orizzonte ecclesiologico 3.1. Cipriano L’approccio di Cipriano al battesimo e al percorso che a esso approda è determinato dalla sua visione della chiesa, forse più precisamente dal modo con cui egli intende il rapporto tra chiesa e saeculum che porta vistosi segni di senescenza, di prossimo esaurimento14. La chiesa è domus salutis et spei, la comunità che consente il passaggio da questo mondo, dal saeculum, al regnum Dei. Essa è caratterizzata da un paradigma delimitativo (intusforis) e aperto (via al regnum). La chiesa è spazio permanente di adesione, conversione al regno di Dio. Il popolo dei credenti 14 Per il tema si veda E. Zocca, La «senectus mundi». Significato, fonti e fortuna di un tema ciprianeo, «Augustinianum» 35(1995), 641.677.
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non si presenta come alternativa o possibilità parallela rispetto ad altre appartenenze, ma come esclusivo, unica via di salvezza, e al tempo stesso provvisorio, poiché la sua realizzazione piena come popolo di Dio concerne il futuro escatologico15. Il lavacrum battesimale è inizio di un progressivo distanziamento dal saeculum e di una crescente approssimazione al regno, caratterizzata da un modo di vivere che desume motivi e orientamenti dal regno. Per accedere al regno è necessario passare attraverso la chiesa. Essa è un interim tra saeculum et aeternitas; una condizione transitoria di liminalità, che è anche marginalità, un modo vigiliare di vivere nel mondo. La chiesa vive una condizione di liminalità nel saeculum. Da questa condizione si può regredire al saeculum (regressio); ciò produce crisi nella chiesa e trova il suo rimedio (medicina) nella disciplina penitenziale che rinnova la grazia e l’appello a progredire verso il regno vivendo già secondo i valori che fanno la ricchezza della vita del mondo futuro: renati imitemur quod futuri sumus (Or. 36). La chiesa è una peregrinatio che implica due grandi passaggi: dal saeculum alla ecclesia e da questa al regnum. In quanto via salutis, la chiesa è un «tra» che la rende marginale rispetto al saeculum e ingresso/soglia alla pienezza del regno. Di tale condizione è atteggiamento adeguato anzitutto la patientia, perseverantia16. Di questa natura della chiesa il catecumenato è apprendistato. Esso è esercitazione per un passaggio di stato, ben marcato dallo schema prima-dopo (prius-nova vita, Ad Don. 3-5). Secondo la descrizione che ne dà Cipriano, esso porta con sé un momento di sospensione interiore, segnato da 15 Mi servo per questa lettura del lavoro di I. Pereira Lamelas, Una Domus et Ecclesia Dei in saeculo, Didascalia, Lisboa 2002. Nell’introduzione (24-27), lo studioso dichiara esplicitamente di assumere come prospettiva di lettura la strumentazione concettuale messa a punto da V. Turner per lo studio delle religioni e dei gruppi sociali. 16 S. Deléani segnala come Cipriano usi volentieri termini di valore incoativo in riferimento al battesimo (esso è inizio, ingresso alla vita cristiana), e termini durativi per la vita cristiana (vigilanza, perseveranza), interamente orientata al regno (Croissance et progrès spirituel du baptême au royaume selon Saint Cyprien, in Le temps chrétien de la fin de l’Antiquité au Moyen Age, IIIeXIIIe siècles, Éditions du Centre National de la Recherche Scientifique, Paris 1984, 327-343).
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un lato da una percezione di impotenza rispetto al mutamento richiesto (qui possibilis tanta conversio?), dall’altro dalla attrattiva della vita nuova17. 3.2. Basilio Basilio scrive il suo perí baptísmatoj18 per rispondere a presbiteri e catechisti che gli chiedono illuminazione circa il significato del battesimo. Inizia ricordando significativamente che l’incarico di battezzare è la seconda consegna del Risorto ai discepoli che non può stare senza la prima, fate discepoli tutti i popoli (Mt 28,19). Perciò scandisce il primo libro in tre discorsi dedicati rispettivamente al discepolato, al battesimo, all’eucaristia19. Il metodo che Basilio segue è quello del commento di un dossier di passi neotestamentari relativi al tema in questione. Fanno da perno Mt 28,19, Gv 3,5, Rm 6,3-11. Interessa qui in modo particolare il primo discorso dedicato al discepolato come condizione indispensabile per il battesimo. Divenire discepoli comporta l’accostarsi al Signore per seguirlo, il che consiste nell’ascoltare le sue parole, credere, ubbidire a lui come padrone, re, medico e maestro di verità (I,1,45-49). Secondo Basilio le parole del Signore delineano un itinerario preciso, che deve seguire un ordine (tÈn tácin fulássesqai �nagkaîon), esemplificato ad esempio in Mt 19,21 (I,1,145). Il discepolato comporta un percorso di distacco che rende poi possibile l’adesione al Signore, al suo percorso pasquale secondo Rm 6,3ss. Il distacco prende corpo in un movimento di allontanamento che comprende tre gradini: dal peccato, dalle convenienze che hanno l’apparenza di essere ragionevoli, e dall’attaccamento alla propria vita. Attraverso questo percorso si accoglie la grazia della libertà dal peccato, ciò che è necessario per vivere Cf. Lamelas, Una Domus, 104. Il testo si trova in PG 31,1513b-1628c, in appendice agli Ascetica. Edizione critica con introduzione, traduzione e commento a cura di U. Neri, Basilio di Cesarea, Il Battesimo, Paideia, Brescia 1976. 19 Il secondo libro contiene tredici risposte ad altrettante domande: le prime tre riguardano obblighi derivanti dal battesimo e il modo di ricevere l’eucaristia, le altre temi diversi di vita cristiana (interpretazione delle Scritture, rapporto con i peccatori, lo scandalo, ecc.). 17 18
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la grazia di accostarsi alla Parola, e%j tò dúnasqai proselqeîn tô� lógw� (I,1,143), portando la propria croce, pronti per divenire concrocifissi, conmorti, consepolti, etc., con Cristo. La formula prôton - tóte/$peíta ricorre spesso come sintomatica della dinamica del discepolato. Analogamente l’analisi della formula battesimale, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito (I,2) consente a Basilio di descrivere il climax ascendente della grazia battesimale: generati nello Spirito, rivestiti di Cristo, proclamati figli dal Padre. Avviene così che, generati di nuovo, si è in grado di «cambiare il luogo e il modo di vivere e coloro con i quali vivere» (I,2,1008-1009). Il senso della riflessione basiliana è chiaro: la missione di battezzare affidata alla chiesa comporta previamente l’impegno di introdurre al discepolato del Signore. In esso consiste la condizione specifica della chiesa a cui il battesimo introduce. Tale condizione chiede un apprendistato fatto di distacchi e di familiarità da acquisire. Questo apprendistato ha un suo ordine che le Scritture richiamano. Così è la natura della chiesa come stabile discepolato del Signore a connotare il catecumenato come apprendistato di un nuovo modo di vivere20.
4. Rilievi conclusivi I tre approcci al tema, esperiti a modo di rapidi e parziali sondaggi, sembrano offrire concordemente alcune indicazioni di fondo che insieme danno al cammino verso il battesimo una collocazione e configurazione precisa: a) la consapevolezza di una distanza/differenza tra vita corrente e vita cristiana. Essa è fatta risaltare dall’annuncio del Vangelo ed emerge nel desiderio di chi si identifica nella speranza di vita che l’annuncio accende; In riferimento a questa forma fondamentale della fede cristiana si trovano analisi e riflessioni pregevoli in M. Mariani, Semplicità e forma battesimale della fede nel «corpus» ascetico di Basilio di Cesarea, «Annali di Studi religiosi» 4 (2003), 441-503 (le pagine 471-481 fanno diretto riferimento al De Baptismo). 20
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b) il superamento di questa distanza comporta un percorso che conosce tappe e passaggi ordinati, in grado di tenere conto dei tempi della vita che l’intervento rituale conduce a riconoscere come abitati dalla grazia del Signore; c) l’individuazione di un insieme di fattori che guidano la traversata e tengono desta l’attrattiva dell’approdo: la Parola, l’azione dello Spirito, i ministeri della comunità cristiana che visibilizzano il servizio del Signore, il suo accompagnamento. Anzi la comunità cristiana diviene il luogo ove il percorso è reso visibile come possibilità dischiusa dalla grazia; d) il percorso verso il battesimo sollecita in profondità il vissuto delle persone e ha in questo il suo punto critico. Tale sollecitazione si situa tra le domande di senso, di ricerca di forma di vita plausibile, che una cultura porta con sé, e la novità della proposta evangelica che chiede operazioni appropriate per essere accolta, come l’ascolto delle Scritture tramite l’annuncio della chiesa, l’apprendistato della preghiera come riconoscimento della precedenza dell’azione di Dio, del suo Spirito. Ulteriormente la grazia battesimale chiede di riplasmare la propria speranza per il mondo (Cipriano), di cui la pratica della fraternità diventa profezia (Basilio). e) la celebrazione battesimale risulta il paradigma sintetico della grazia e del cammino che essa sollecita (�pò - e%j). Il battesimo cristiano è il «glorioso battesimo secondo il Vangelo», appartiene al suo annuncio e ha nell’annuncio del Vangelo ciò che ne custodisce e rende accessibile la grazia. La consapevolezza della natura profonda della chiesa, stabile discepolato del Signore, e del suo rapporto con questo mondo dà al catecumenato il suo orientamento, gli indica la sponda di approdo e l’esigenza di presa di distanza. In definitiva, nel modo con il quale la chiesa conduce al battesimo palesa la consapevolezza di sé e della sua posizione nel mondo in nome del regno di cui porta l’annuncio e di cui è anticipazione e via di accesso. L’evidenziazione o l’attenuazione del carattere «liminale» del catecumenato riflette il modo con il quale la chiesa legge la sua condizione nel mondo.
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LA CRISI DELLA DIMENSIONE INIZIATICA NEL CONTESTO ATTUALE Lucio Soravito
de
Franceschi
Quando parliamo di iniziazione, noi cristiani siamo portati a pensare alla prassi iniziatica che ci è più consueta: l’iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi: una iniziazione che, fino ad alcuni anni fa, da un punto di vista antropologico, si riduceva a un processo di socializzazione o di inculturazione religiosa. In realtà al termine «iniziazione» oggi si danno vari significati. Per alcuni, «iniziare» vuol dire «consumare esperienze»; per altri vuol dire «addomesticare» le persone a determinati modelli di vita (iniziazione sociale); per altri vuol dire «inculturare» le persone in un certo contesto ambientale (iniziazione culturale); per altri ancora vuol dire «introdurre» le persone in una certa professione (iniziazione professionale). Di per sé l’iniziazione è un processo complesso che aiuta una persona ad acquisire, all’interno di un determinato gruppo, una nuova identità personale; per alcuni è un’azione particolarissima, simile alla gestazione e alla successiva generazione di una nuova creatura1. In realtà, che cos’è l’iniziazione? 1. Concetto di iniziazione 1.1. Natura dell’«iniziazione» L’iniziazione consiste nel passaggio di una persona da una determinata condizione di vita a una nuova condizione, attraCf. A. Fontana, “Iniziare”: che significa in realtà, «Catechesi» 78 (5/20082009), 27-41. 1
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verso il superamento di una soglia (limen), dalla quale non è possibile tornare indietro2. È un’esperienza che ci introduce («inizia») a un nuovo modo di vivere3. Nella vita di ogni uomo ci sono dei passaggi critici, che pongono fine a un certo modo di vivere e che costringono a dare un senso nuovo alla vita: pensiamo al momento in cui un giovane si sposa, o a quando un giovane sceglie di intraprendere la via del sacerdozio; o a quando una donna sposata rimane vedova, ecc. Il raggiungimento di questo nuovo stato di vita passa attraverso una fase di «gestazione», di «margine», di «soglia», a volte lunga e faticosa. Ma questa fase di gestazione dà la possibilità di rielaborare il passato e di assumere il futuro, alla luce di un principio di vita che fa appartenere in modo nuovo alla comunità. Il passaggio iniziatico avviene in tre tempi: 1. c’è innanzitutto una fase di separazione dal gruppo, un distacco segnalato anche dall’andare altrove rispetto al luogo normale di vita (fase pre-liminale); 2. poi c’è la fase di soglia (limen), nella quale si passa attraverso varie prove e vengono trasmessi gli insegnamenti fondamentali su cui si regge la vita del gruppo (fase liminale); 3. segue infine la fase di riaggregazione, con la quale si viene reinseriti e accolti nel gruppo secondo la nuova condizione personale (fase post-liminale). 1.2. L’iniziazione cristiana Anche l’iniziazione cristiana è un processo complesso: essa è un passaggio da uno stato di vita che «prescinde» da Dio a una «vita nuova», resa partecipe della vita di Dio. Ma questo pasCf. L. Girardi, Iniziati alla Pasqua del Signore, in Diventare cristiani. I passaggi della fede, a cura di R. Paganelli, Dehoniane, Bologna 2008, 89-93. 3 Cf. Girardi, Iniziati dalla Pasqua, 90. Il termine «iniziazione» è già noto alle religioni pagane (Origene, Contra Celsum, 3,59) prima del cristianesimo e significa l’ingresso (in-eo, da cui initium) di una persona in un dato gruppo religioso o sociale, attraverso tre momenti: la separazione dalla primitiva posizione, l’emarginazione dalla nuova posizione, l’ingresso definitivo con investitura. L’iniziazione ha assunto una qualificazione «cristiana» fin dal secolo IV, sotto l’influsso del mondo religioso ebraico e del linguaggio misterico (ad es. nei misteri Eleusini: cf. N. Turchi, Fontes historiae mysteriorum, Romae 1930). 2
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saggio, prima di essere iniziativa della persona o della comunità cristiana, è frutto dell’iniziativa di Dio. È Dio che vuole entrare in relazione con l’uomo e vuole renderlo partecipe della sua vita divina, perché l’uomo sia felice4. 1. L’uomo, creato a immagine di Dio, porta nel cuore il desiderio di una vita piena e felice. Egli è assetato di felicità; la cerca nelle cose e nei rapporti con le persone. Ma nonostante il suo affannarsi, non trova né oggetti né persone in grado di saziare la sete del cuore. Non sono le cose o le persone troppo piccole. È il suo cuore che è stato fatto da Dio troppo grande: «Il mio cuore è fatto per te, Signore, ed è inquieto finché in te non si riposa» (sant’Agostino). 2. Questa sete di felicità non è destinata a rimanere insoddisfatta, perchè Dio si è fatto vicino all’uomo per rispondere al suo bisogno di «vita pienamente riuscita», anche se l’uomo spesso non se ne accorge o non lo sa riconoscere come suo unico Signore. Dio si è fatto incontro all’uomo nella persona di Gesù Cristo: in Cristo l’umanità e la divinità si sono unite e formano una sola Persona; in lui, uomo e Dio, si è realizzato il «sogno» dell’uomo: la sua partecipazione alla «vita piena» di Dio5. In Cristo crocifisso e risorto Dio ha rivelato il suo amore, ha voluto entrare in comunione con noi e donarci il suo amore. 3. Questa partecipazione alla vita di Dio parte da questo annuncio unico e straordinario: «Gesù di Nazaret, il figlio di Maria, profeta potente in parole e opere, morto per noi sulla croce, è risorto». È l’annuncio che può generare la fede e suscitare la domanda che è sorta nella folla accorsa ad ascoltare gli apostoli il giorno di Pentecoste: «Che cosa dobbiamo fare?». «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo» (At 2,37-38). 4 Cf. a questo riguardo l’articolo di C. Biscontin, «Va’, la tua fede ti ha salvato», «Via, Verità e Vita» 152 (1995), 38-43. Ogni discorso sull’iniziazione cristiana deve partire da questo dato fondamentale: è Dio che prende l’iniziativa e, attraverso i suoi «mediatori», chiama l’uomo a «stare» con lui. 5 Cf. GS 22: «Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo (quodammodo) ad ogni uomo».
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4. Chi, sotto l’azione dello Spirito, si fa attento e docile all’annuncio dell’amore di Dio per noi, manifestato in Cristo Gesù morto e risorto, e riceve i sacramenti del battesimo, confermazione ed eucaristia, viene reso partecipe del mistero pasquale di Cristo. Per mezzo di questi sacramenti Dio stesso genera, alimenta e fa crescere la «vita nuova» in coloro che hanno accolto con disponibilità piena la sua parola. 5. Per partecipare alla vita di Dio, però, non basta ricevere i sacramenti; è necessaria la libera adesione dell’uomo. Ora questa adesione non è automatica e non è neppure facile. L’uomo da solo fa fatica a scoprire la presenza di Dio e fa ancora più fatica ad accogliere il suo progetto, a collaborare nella sua realizzazione e a vivere in comunione con lui. 6. Per questo Dio, per mezzo di Gesù Cristo, ha istituito la comunità cristiana: per aiutare gli uomini a cogliere la sua presenza e ad accogliere il suo progetto6. La comunità cristiana svolge questa missione, offrendo agli uomini la possibilità di percorrere un cammino di «apertura» e di «accoglienza» del dono di Dio: è il cammino di iniziazione cristiana, un itinerario di conversione a Dio, di affidamento alla sua volontà, di conformazione a Cristo, di solidarietà nella chiesa, di «vita nuova» nel mondo. 7. L’iniziazione cristiana, però, non è riducibile a un fatto educativo o a un itinerario didattico, né a una semplice appartenenza giuridica o religiosa a una comunità; essa si realizza mediante un’azione rituale, che introduce l’uomo nella «vita nuova»: — trasformandolo nel suo essere (initia = sacra = gratia), — impegnandolo a una scelta di fede per vivere come figlio di Dio, — integrandolo in una comunità che lo accoglie come membro (battesimo), lo ispira nell’agire (cresima), lo nutre con il pane della Parola e il pane della vita eterna (eucaristia). 6 Nell’iniziazione cristiana è fondamentale la mediazione della comunità ecclesiale, che ha il compito di aiutare le persone a cogliere i segni dell’iniziativa di Dio e ad accondiscendere alla sua chiamata; cf. a questo riguardo il citato articolo di Biscontin, «Va’, la tua fede ti ha salvato», 41.
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2. Crisi del processo di iniziazione cristiana L’iniziazione cristiana tradizionale, che da un punto di vista antropologico avveniva grazie a un processo di socializzazione religiosa, oggi, nell’attuale contesto socio-culturale secolarizzato, è del tutto inadeguata e insufficiente. Infatti, con l’iniziazione cristiana tradizionale: 1. solo una minima parte di coloro che iniziano il cammino per diventare cristiani e per crescere nella vita di fede, arriva effettivamente a diventarlo; man mano che il cammino di fede avanza, diminuisce sensibilmente il numero dei partecipanti; 2. i battezzati che perseverano nella vita di fede rimangono troppo spesso: — immaturi, dipendenti dalle cure pastorali dei pastori; — muti e infanti (infans = non parla), incapaci di rendere ragione della loro fede; — rifugiati, chiusi in un cristianesimo privato e invisibile (intimismo ecclesiocentrico); — passivi, in un atteggiamento perenne di delega, incapaci di prendere l’iniziativa. Perché questa «insufficienza»? Perché questa crisi del processo di iniziazione cristiana? 1. La realtà socio-culturale odierna non è più una «cristianità stabilita», ma è una realtà pluralista: in essa coesistono molti modelli di vita concorrenziali tra di loro; domina una mentalità tecnico-scientifica. Per di più questo contesto socio-culturale è scristianizzato; i valori cristiani per molta gente sono diventati marginali (si parla da anni di religione dello scenario). Molte famiglie continuano a chiedere i sacramenti per i figli, ma il più delle volte lo fanno per tradizione o per conformismo o per una concezione magica dei sacramenti. Questo contesto socio-culturale non solo non favorisce l’apertura al mistero, ma la contrasta. 2. Le comunità ecclesiali in questo contesto scristianizzato tendono a ripiegarsi su se stesse in atteggiamento di difesa; l’azione pastorale sembra essere più preoccupata di «conservare» l’esistente che di aprirsi alla missione sul territorio; la stessa ca-
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techesi degli adulti rivela questa tendenza a formare cristiani «per la chiesa», anziché per il mondo. A causa di questa chiusura, gli itinerari di iniziazione cristiana non sono integrati nella vita della comunità parrocchiale (che è il «grembo materno» necessario per far nascere il cristiano) e perdono la loro efficacia. È impresa destinata a fallimento ogni proposta di iniziazione cristiana, anche rinnovata, che non abbia come referente la comunità nel suo insieme. Ma come ridare fiato al soggetto comunitario? Non è questione di organizzarsi meglio, ma paradossalmente... di parole e di Parola. Custodire la capacità viva di parlare il vangelo e di parlare evangelicamente, in modo che il linguaggio della fede cristiana sia vivo e non morto: ecco la sfida della chiesa7.
3. Gli itinerari di iniziazione cristiana molte volte sono incompleti: spesso manca la mistagogia; oppure si fermano nella preadolescenza, quando il ragazzo non è ancora in grado di abbozzare un progetto di vita e di fare delle scelte personali; oppure sono occasionali, più finalizzati a ricevere i sacramenti che a «convertire» la vita (si pensi, ad esempio, alla catechesi rivolta ai genitori che chiedono il battesimo per i figli). Molti cristiani pensano che questi itinerari abbiano il compito di iniziare ai sacramenti; invece gli itinerari di iniziazione cristiana hanno il compito di iniziare alla vita cristiana con i sacramenti. Molte volte questi itinerari sono ridotti alla sola catechesi, anziché essere un percorso globale di iniziazione, che prevede una molteplicità di esperienze ecclesiali: ascolto della parola, celebrazione, vita di comunione, impegno di carità. Il processo di iniziazione cristiana spesso è ridotto a semplice «insegnamento» che arricchisce l’intelligenza, ma non è in grado di educare la fede e di cambiare la vita; di qui la sua inevitabile insufficienza8. La posta in gioco è dunque delineata in questi termini: arrivare a far sì che l’universo simbolico cristiano – condensato paradigmaticamente nelle Scritture, celebrato ritualmente nei sacramenti, trasmesso vitalmente nella tradizione della chiesa – ritorni ad essere grembo entro il quale possa avvenire la rinascita della fede, Cf. D. Vivian, Iniziati dai sacramenti, in Sul sentiero dei sacramenti, a cura di C. Corsato, EMP, Padova 2007, 83-93. 8 Cf. CEI, Lettera dei Vescovi italiani per la riconsegna del RdC, n. 6. 7
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teologicamente dono dello Spirito e antropologicamente mediazione operata da questo stesso universo simbolico9.
4. All’interno dell’itinerario di iniziazione cristiana anche le celebrazioni liturgiche sembrano aver perso la loro funzione di iniziazione al mistero. Si nota una forte spinta a eticizzare la celebrazione, a farla diventare luogo di istruzione, di catechesi, oppure di incontro e socializzazione. A volte si scivola verso una prassi celebrativa scialba, ripetitiva, dilavata, non qualificata, che cerca particolari condizioni per manifestarsi in forme più intense; altre volte si cade in esagerazioni contrarie che trasformano la liturgia in trattenimento, in interminabile rappresentazione, sfigurando le native possibilità contenute nel linguaggio del rito. Occorre imparare «la lingua madre della Chiesa che ci introduce nell’universo simbolico della fede cristiana e che nel sacramento ha un atto linguistico per eccellenza (culmen et fons)10. Non che la liturgia esaurisca in sé tutto il “dire” della comunità cristiana; tuttavia teologicamente si tratta della dimensione fontale e, dal punto di vista del linguaggio della fede accedere ai sacramenti significa inscrivere la parola di Dio nel corpo e nei corpi, naturalmente per azione anzitutto dello Spirito. Infatti l’atto linguistico sacramentale segna indelebilmente sia il corpo ecclesiale sia quello personale, siglando così l’alleanza eterna tra Dio e il suo popolo nella pasqua di Cristo in una dinamica addirittura nuziale»11.
5. Occorre riscoprire il valore antropologico della ritualità, all’interno dei temi del «sacro», del «mito» e del «rito». Alla secolarizzazione, prodotta dalla razionalità strumentale come modalità di istituzione del senso, è seguita una più attenta considerazione del carattere cognitivo del simbolo e della sua ripresentazione nel rito. In questa ottica il rito viene visto come simbolo in azione, come gioco e come festa, regolato da leggi e tuttavia disponibile Cf. Vivian, Iniziati dai sacramenti, 87. Cf. anche D. Vivian, Quando la chiesa è madre e figlia, «Evangelizzare» 32 (3/2002), 185-188. 10 «La liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù» (Sacrosanctum concilium, n. 10). 11 Cf. Vivian, Iniziati dai sacramenti, 88-89. La «dinamica nuziale», citata da Vivian, è la prospettiva di lettura dei sacramenti scelta da G. Mazzanti, I sacramenti. Simbolo e teologia, voll. 1-2, Dehoniane, Bologna 1997-1998. 9
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a esprimere la gratitudine dell’uomo di fronte al mistero dell’esistenza. Si assiste così a forme promettenti di valorizzazione della festa, della gratuità, della condivisione fraterna, come luoghi in cui la libertà ritrova se stessa, supera le forme razionalizzanti delle società secolarizzate, introduce a una esperienza della libertà e della vita che non sia dominata dal fare e dal produrre. Si fa fatica però a raccordare il senso antropologico del rito con la sua intenzione cristiana, con la sua capacità di introdurre nel mistero salvifico di Cristo e della chiesa. 3. Quale iniziazione cristiana oggi? Di fronte all’insufficienza del processo di iniziazione cristiana «tradizionale», la chiesa, nell’attuale realtà socio-culturale secolarizzata, ha proposto un processo di iniziazione cristiana analogo a quello dei primi secoli del cristianesimo. Esso consiste nel graduale passaggio da una mentalità scristianizzata a una mentalità di fede, in un rapporto di continuità-rottura-superamento rispetto alla cultura dominante nell’ambiente. Questo «processo educativo», che potremmo descrivere come un processo di acculturazione, è stato delineato dalla chiesa nel Rito di iniziazione cristiana degli adulti (RICA), che i nostri vescovi indicano come «modello» normativo per ogni forma di iniziazione alla vita di fede12. Gli elementi che compongono l’itinerario di iniziazione cristiana sono l’annuncio-ascolto-accoglienza della Parola, la celebrazione liturgica, l’esercizio della vita cristiana, l’inserimento nella comunità. In tal modo ogni itinerario di iniziazione diventa un tirocinio di vita cristiana. Il nuovo processo di iniziazione cristiana accompagna i catecumeni: 1. a prendere parte ai momenti di ascolto-interpretazione-attualizzazione della parola di Dio, in modo che si sviluppi in loro il sensus fidei e possano incarnare la Parola nella vita; 12 Scrive la CEI nella Presentazione dell’edizione italiana dell’Ordo: «L’itinerario, graduale e progressivo, di evangelizzazione, iniziazione, catechesi e mistagogia è presentato dall’“Ordo” con valore di forma tipica per la formazione cristiana» (12).
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2. a inserirsi nell’assemblea liturgica, partecipando consapevolmente e attivamente alle celebrazioni, apprendendo gli atteggiamenti del celebrare cristiano, riconoscendo il dono di Dio attraverso i segni sacramentali e rispondendo con la vita concreta («diventa ciò che sei»); 3. a introdurre nel quotidiano alcuni comportamenti cristiani anche impegnativi, che a poco a poco trasformano il nostro modo di essere, creando in noi «abitudini» cristiane di vita: amore e solidarietà verso i sofferenti, perdono delle offese, gioia nel dare più che nel ricevere, ecc.; 4. a discernere nella vita quotidiana e nei momenti straordinari ciò che conviene fare, per essere fedeli al Vangelo e compiere la volontà di Dio, e quindi essere capaci di partecipare al cammino di revisione e conversione permanente della comunità cristiana. In tempi più recenti i vescovi italiani hanno offerto alla chiesa che è in Italia tre Note pastorali sull’iniziazione cristiana in cui hanno chiarito ulteriormente il senso di questa «iniziazione»: sono le Note sull’iniziazione cristiana degli adulti (1997)13, dei fanciulli e ragazzi (1999)14 e dei «ricomincianti»15. Esse presentano l’iniziazione cristiana come un percorso globale, dove: — l’azione di Dio trasforma la vita mediante il dono dello Spirito; — la comunità annuncia, celebra e testimonia; — la persona si lascia plasmare dall’azione dello Spirito. Non bisogna dimenticare i tre protagonisti dell’iniziazione cristiana: Dio, la comunità cristiana e la persona. Se si lascia in ombra uno solo di questi protagonisti noi travisiamo l’iniziazione cristiana, la facciamo diventare qualcos’altro che non ci riguarda, perché diventa formalismo rituale o chiacchiera inconcludente o benevolenza umana. 13 Consiglio permanente della CEI, L’iniziazione cristiana. 1. Orientamenti per il catecumenato degli adulti. Nota pastorale, Roma 1997. 14 Consiglio permanente della CEI, L’iniziazione cristiana. 1. Orientamenti per l’iniziazione dei fanciulli e dei ragazzi dai 7 ai 14 anni. Nota pastorale, Roma 1999. 15 Consiglio permanente della CEI, L’iniziazione cristiana. 3. Orientamenti per il risveglio della fede e il completamento dell’iniziazione cristiana in età adulta. Nota pastorale, Roma 2003.
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Iniziazione cristiana non è soltanto il sacramento: questo non agisce in maniera magica o automatica; né è soltanto l’azione ecclesiale, come se bastasse agire bene pastoralmente per ottenere ottimi cristiani; né è la sola decisione personale di una persona di intraprendere un nuovo stile di vita. La «globalità» del percorso esige tutte e tre queste dimensioni. La riscoperta dell’iniziazione cristiana nel suo senso globale comporta alcune conseguenze pastorali. 1. Anzitutto non si può separare la realtà sacramentale oggettiva dall’esperienza progressiva dell’itinerario di fede del cristiano, che inizia con il battesimo, si perfeziona nella cresima, si compie con l’eucaristia e si attua in tutta la vita, manifestandosi anche attraverso gli altri sacramenti. Il ricupero dell’importanza della fede elimina ogni rischio di sacramentalismo magico e automatico. 2. L’itinerario di fede, però, non può essere ridotto all’apprendimento di verità da credere o a un concetto da sapere, ma deve essere un incontro con il Vangelo, un’esperienza di vita cristiana da vivere, una relazione comunitaria rigenerante e significativa, all’interno della quale occorre ridare ai riti liturgici il loro spessore. Essi sono capaci di evocare e di implicare simbolicamente tanto la storia della salvezza quanto la nostra vita, così da racchiudere l’esistenza cristiana nella sua interezza: siamo morti e risorti con Cristo16. 3. Infine la dinamica interna di questo itinerario iniziatico, che investe la successione organica dei tre sacramenti e la risposta di fede del soggetto, si svolge essenzialmente dentro una comunità, in una interazione genetica con la chiesa (che acquista il titolo di «madre»). Questa dimensione ecclesiale esige uno sforzo di responsabilizzazione della comunità di fronte ai nuovi membri che si integrano in essa. 4. La liturgia componente «fondamentale» nel processo di iniziazione cristiana
Le varie componenti dell’iniziazione cristiana hanno ciascu16
Cf. Girardi, Iniziati dalla Pasqua, 92.
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na una loro funzione, sono tutte necessarie. Tuttavia quella liturgica viene detta «fondamentale». Lo affermano gli stessi vescovi italiani nella Nota 2: «Componente fondamentale dell’itinerario di iniziazione, anche se non prima in ordine cronologico, è quella liturgica, dove emerge chiaramente che l’iniziazione è opera di Dio, che salva l’uomo, suscita e attende la sua collaborazione»17. Con il termine «fondamentale» si vuole evidenziare che l’iniziazione cristiana: — non è un semplice fatto educativo che cerca di sviluppare e far maturare la persona nelle sue varie dimensioni; — non è nemmeno un fatto didattico, scolare, culturale, cioè soltanto un itinerario catechistico; — tanto meno è un fatto giuridico, anagrafico, richiesto dalla situazione sociologica cristiana; — non è neanche un semplice fatto rituale, formale, per indicare l’inizio di un’appartenenza a una comunità e l’assunzione di determinati impegni nel suo interno; — non è nemmeno un itinerario per apprendere un sistema morale e determinati tipi di comportamenti personali e religiosi. Certamente l’iniziazione cristiana è anche questo insieme di realtà, ma ciò che la qualifica è di essere un «mistero» nel senso liturgico del termine, in cui operano Dio, la chiesa e l’iniziato: è il compiersi del mistero pasquale di Cristo sotto forme simboliche diverse e concorrenti. Dicendo che la liturgia è una componente fondamentale si vuole evidenziare che l’attore principale è Dio. Seguendo il Decreto conciliare Ad gentes, l’Introduzione generale al rito del battesimo dei bambini afferma: Per mezzo dei sacramenti dell’iniziazione cristiana, gli uomini, uniti con Cristo nella sua morte, nella sua sepoltura e risurrezione, vengono liberati dal potere delle tenebre, ricevono lo Spirito di adozione a figli e celebrano, con tutto il popolo di Dio, il memoriale della morte e risurrezione del Signore18. 17 Consiglio permanente della CEI, L’iniziazione cristiana. 1. Orientamenti per l’iniziazione dei fanciulli e dei ragazzi dai 7 ai 14 anni. Nota pastorale, Roma 1999, n. 36. 18 CEI, Rito del battesimo dei bambini. Rituale romano riformato a norma
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Nell’Introduzione al RICA si ribadisce: Questi sacramenti [...] sono l’ultimo grado, compiendo il quale gli eletti, ottenuta la remissione dei peccati, sono aggregati al popolo di Dio, ricevono l’adozione a figli di Dio, sono introdotti dallo Spirito Santo nel tempo del pieno compimento delle promesse e anche pregustano il regno di Dio mediante il sacrificio e il banchetto eucaristico (RICA 27).
In questi due testi, non a caso, i verbi sono usati nella forma passiva: l’iniziazione cristiana infatti è principalmente opera di Dio. Di qui l’importanza della liturgia e la scelta di celebrare ogni momento o tappa di avvicinamento alla celebrazione ultima. L’accento posto sull’aspetto liturgico, cioè su quello oggettivo dell’intervento divino, non deve però far perdere di vista gli altri aspetti; la celebrazione dei tre sacramenti è certamente il punto centrale, ma si esige anche un adeguato apprendistato alla fede e alla vita nella comunità alla quale si viene incorporati. Il concilio e il RICA includono perciò nell’iniziazione anche il catecumenato, che rappresenta il primo farsi del sacramento: infatti già nell’ammissione al catecumenato «Dio largisce la sua grazia» (RICA 14). Proprio perché l’iniziazione è un evento fondamentalmente liturgico, la celebrazione ne accompagna ogni tappa o momento: La celebrazione non è collocata solo al termine del percorso iniziatico, quale punto culminante costituito dai tre sacramenti dell’iniziazione; essa accompagna tutto l’itinerario, diventando espressione della fede, accoglienza della grazia propria di ogni tappa, adesione progressiva al mistero della salvezza, fonte di catechesi, impegno di carità, preparazione adeguata al passaggio finale (Nota 2, 36).
Celebrazioni sono previste per il periodo che precede l’entrata del catecumenato19 e poi per tutto il periodo del catecumedei decreti del Concilio Ecumenico Vaticano II e promulgato da Papa Paolo VI, Edizioni Pastorali Italiane, Roma 1970, Introduzione generale, n. 1. 19 «Coloro che hanno ricevuto da Dio, tramite la chiesa, il dono della fede in Cristo siano ammessi nel corso di cerimonie liturgiche al catecumenato» (AG n. 14).
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nato fino alla sua conclusione20. Secondo quest’ultimo dettato conciliare, è attraverso la celebrazione liturgica (i riti sacri) che si è introdotti alla vita di fede e di carità; di più, anche alla liturgia si è introdotti o iniziati attraverso la celebrazione, per cui si può dire anche che «la liturgia educa alla liturgia». 4.1. Caratteristiche delle celebrazioni Le celebrazioni che si fanno nell’iniziazione, pur diverse tra loro, non sono slegate; ciascuna, a modo suo, concorre alla realizzazione dell’itinerario. Prese globalmente possiamo dire che hanno le seguenti caratteristiche21. r Unitarietà
degli elementi che costituiscono l’iniziazione cristiana. Con il RICA la chiesa propone un modello di iniziazione cristiana incentrato sulla celebrazione liturgica, facendo convergere verso di essa sapientemente la progressiva conoscenza del mistero della salvezza, l’impegno di conversione, l’assunzione di un nuovo stile di vita. Con questa scelta si è arrivati a costruire un equilibrio tra elementi oggettivi (primato dell’azione di Dio espresso dalle celebrazioni liturgiche della chiesa) ed elementi soggettivi (apporto del singolo, risposta personale all’azione di Dio attualizzata dalla chiesa). Le celebrazioni non sono qualcosa a parte, ma devono «giocare» con gli altri fattori costitutivi dell’itinerario.
r Celebrazione
e comunità. La scelta della liturgia come momento unificante di tutta l’iniziazione comporta che la comunità cristiana sia in vario modo sempre presente e partecipe in ogni passaggio e tempo dell’itinerario: essa è il soggetto dell’iniziazione, non solo nel senso che opera l’iniziazione, ma nel senso che si pone essa stessa in stato di continua iniziazione.
20 «I catecumeni siano convenientemente preparati al mistero della salvezza e alla pratica delle norme evangeliche, e mediante dei riti sacri da celebrare successivamente, siano introdotti nella vita religiosa, liturgica e caritativa del popolo di Dio» (AG n. 14). 21 Cf. G.F. Venturi, La liturgia negli itinerari di iniziazione cristiana, «Credereoggi» 161 (5/2007), 62-73.
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L’iniziazione dei catecumeni si fa con una certa gradualità in seno alla comunità dei fedeli, i quali, meditando insieme con i catecumeni sull’importanza del mistero pasquale e rinnovando la propria conversione, li incoraggiano col loro esempio a corrispondere più generosamente alla grazia dello Spirito Santo (RICA 4).
La Nota 2 della CEI ribadisce che la chiesa «come vera madre, nella cui fede il ragazzo è iniziato, deve saper mettere in atto tutto quanto favorisce l’iniziale chiamata alla salvezza fino al suo compimento». Essa realizza questa sua missione in particolare attraverso il gruppo: Il contesto in cui viviamo non porta facilmente i fanciulli e i ragazzi alla fede né li sostiene nel loro cammino; è necessario quindi creare un ambiente adatto alla loro età, capace di accompagnarli nella loro progressiva crescita nella fede, in un autentico cammino di conversione personale e di adesione a Cristo. Questo è possibile attraverso l’inserimento del fanciullo e del ragazzo in un gruppo «catecumenale», con la presenza di alcuni adulti (catechisti, accompagnatori, padrini), della famiglia e, almeno in alcuni momenti più significativi, della comunità tutta (Nota 2, 26)22. r Partecipazione
progressiva alla liturgia della comunità. Il RICA prevede che gli iniziandi partecipino progressivamente alle celebrazioni della comunità cristiana, culmine delle quali è la celebrazione dell’eucaristia (cf. RICA 314). È una scelta molto sapiente, che rispetta, da una parte, il necessario tempo per la maturazione nella fede e, dall’altra, non procrastina il relativo inserimento pieno nella comunità di salvezza. Il catecumeno non può entrare subito nella celebrazione della comunità; occorre una certa gradualità. Per questo la Nota 2 suggerisce di partire da celebrazioni in cui non è presente l’intera comunità, ma solo alcuni adulti (genitori e altri). Non sono solo gli iniziandi che devono adattarsi alle celebrazioni della comunità, ma è anche la comunità. In questo modo la comunità viene re-iniziata – in un certo qual modo – alla vita di fede e all’eucaristia.
22 Si vedano anche i nn. 27 (Il gruppo, luogo dell’incontro con la chiesa), 28 (L’opera degli adulti e della comunità locale) e 29 (Il ruolo della famiglia).
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r Celebrazioni
con al centro la parola di Dio. Le celebrazioni dell’itinerario dell’iniziazione sono costruite attorno alla Parola (cf. RICA 19). In questo modo il catecumeno riceve una formazione biblica autentica. La Parola che egli avvicina non è più quella di un libro scritto, ma quella viva e attuale, grazie alla presenza del Signore nella comunità che celebra. Interpellato personalmente e attualmente dal Signore, egli è in grado di entrare in un dialogo vivo con lui e di fare con lui la strada che lo porta alla salvezza, in un atteggiamento di vera sequela di discepolo. Anche l’incontro catechistico dovrebbe assumere la forma di una liturgia della Parola. Il modo migliore per arrivare all’incontro vivo con Cristo e con la Chiesa, è quello di far assumere al momento dell’annuncio una certa qual configurazione di liturgia della Parola [...]. In questo modo il momento dell’annuncio segue una dinamica propria della Chiesa antica, quella della traditio-redditio (Nota 2, 33).
r Celebrazioni con riti appropriati ed espressivi. Le celebrazioni
proposte non si riducono a elementi verbali (letture, canti...) o a catechesi fatte sotto forma di celebrazione; l’annuncio della salvezza trova il suo compimento nelle molteplici forme rituali utilizzate. I riti hanno la capacità di rendere presente quanto la Parola va dispiegando; hanno un valore sim-bolico, cioè hanno il potere di mettere insieme, a contatto con l’evento che la Parola attesta presente.
r Celebrazioni
che iniziano al mistero di Cristo nel tempo. Le celebrazioni mirano principalmente a inserire nel mistero di Cristo, che la chiesa vive nel tempo; trovano perciò il loro momento culmine nella celebrazione del mistero pasquale e nella partecipazione all’eucaristia. Le celebrazioni sono pertanto inserite nello svolgersi dell’anno liturgico, in stretta relazione con la celebrazione del giorno del Signore e di tutte le feste. L’anno liturgico fa da sfondo e da ispirazione a tutto l’itinerario dell’iniziazione.
r Celebrazioni che iniziano gradualmente alla preghiera personale. Attraverso l’ascolto della Parola, la partecipazione alle diverse celebrazioni e la testimonianza della comunità il candidato
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viene iniziato a una solida vita di preghiera, ispirata alla liturgia e alla parola di Dio. La riconsegna del Credo e del Padre nostro sono il punto rituale più significativo di una preghiera che manifesta la fede in Dio, padre di Gesù e padre nostro. r Celebrazioni
che abilitano gradualmente alla partecipazione liturgica. Attraverso le diverse celebrazioni avviene l’iniziazione alla liturgia. Esse infatti abilitano gradualmente al celebrare cristiano, introducono ad accogliere la parola di Dio come attuale annuncio di salvezza, a scoprire – proprio grazie alla Parola – il senso e la pregnanza dei riti che si compiono, in modo che la partecipazione diventi consapevole e piena. Riassumendo possiamo dire che l’iniziazione cristiana è un itinerario costituito da tre componenti: Parola, liturgia e vita; la liturgia, in forza della sua identità, ne è una componente «fondamentale». Essa però non vive e agisce da sola; entra nel «gioco» iniziatico insieme alle altre componenti. Dal loro mutuo rapportarsi danno vita al mistero.
5. La dimensione iniziatica della liturgia Come abbiamo detto all’inizio di questa riflessione, l’iniziazione cristiana rende partecipe l’uomo credente di ciò che sta all’origine della sua identità di figlio di Dio e quindi all’origine della comunità degli iniziati: l’amore di Dio donato a noi in Cristo Gesù morto e risorto. Questa partecipazione alla vita divina non è frutto di un atto di volontà del soggetto, né deriva da una concessione della comunità, ma è dono dall’alto. «Se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio», dice Gesù (Gv 3,5). Il dono che «viene dall’alto» e si manifesta nella vita dell’iniziato, è sempre un dono eccedente: non coincide mai del tutto con il modo di vivere personale o comunitario, né si può racchiudere in una definizione concettuale o in una forma culturale. Per questo il dono che «viene dall’alto» è consegnato agli iniziandi attraverso azioni di tipo rituale. Il rito rimanda a un ordine istituito che ci precede, un ordine
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«diverso» di azioni in cui si deve «entrare» e in cui ciascuno è chiamato a occupare il posto che gli è assegnato. Essendo un agire di tipo simbolico (non di tipo funzionale), il rito ci distanzia dalla realtà immediata, da ciò che riteniamo di possedere. Consente agli iniziandi di stare davanti al dono nell’atto di riceverlo e alla comunità iniziatrice di stare davanti al dono nell’atto di trasmetterlo. Con i riti dell’iniziazione cristiana ci affidiamo a Gesù Signore e passiamo nella condizione di chi appartiene a lui: con lui morti al peccato, possiamo vivere la vita dei figli, guidati dallo Spirito (cf. Rm 6,3-11; 8,9-17). Questo è il dono che gli iniziati ricevono e che li accomuna nella Chiesa: «Infatti noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, giudei o greci, schiavi o liberi» (1Cor 12,13a)23.
Cerchiamo di cogliere il senso più profondo e più autentico dei riti liturgici, di cogliere la dimensione iniziatica di queste esperienze simboliche, che costituiscono la parte fondamentale dell’iniziazione24. 1. Una delle categorie più idonee per riscoprire questa dimensione iniziatica è quella della alterità. I riti liturgici fanno vivere l’esperienza dell’«alterità dello spazio» e dell’«alterità del tempo». La persona, per potersi integrare pienamente nel tessuto sociale e per comprenderlo correttamente, deve «uscire» da quel tessuto. Ciò significa che il fondamento della vita della comunità è «oltre», è «altro». La stessa cosa avviene con l’iniziazione cristiana. Mediante i riti liturgici il catecumeno vive «memorialmente» gli eventi fondamentali e fondatori della salvezza. In altri termini, «esce» dal presente e, nel «far memoria» di ciò che è «altro» rispetto al presente, si apre a una concezione della vita quale «orizzonte aperto». Girardi, Iniziati alla Pasqua, 92. Cf. a questo riguardo l’articolo di A. Catella, La «logica catecumenale» dell’anno liturgico, «Credereoggi» 89 (5/1995), 78-87. Cf. inoltre A.N. Terrin, Il rito come scansione del tempo. Per una teoria del rito come “indugio simbolico”, in Liturgia delle ore. Tempo e rito, C.L.V. - Edizioni Liturgiche, Roma 1994, 15-44. Cf. anche A. Toniolo, Il tema “liminalità” in Victor Turner. Un contributo antropologico-culturale alla riflessione sulle forme di iniziazione religiosa, «Rivista Liturgica» 79 (1992), 86-105. 23 24
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2. I riti liturgici fanno vivere al catecumeno l’esperienza del «separarsi» per «riaggregarsi», del «morire» per «vivere», del «lasciare» per «possedere». Queste esperienze lo portano a «invocare» la salvezza da un Altro. Il nome di questa salvezza è «comunione» con l’Altro e con gli altri. Attraverso questa esperienza celebrativa il catecumeno entra in contatto con il «mistero», che è la Pasqua di Cristo; fa esperienza di incontro, di comunicazione, di cammino verso la comunione piena. 3. I riti liturgici fanno vivere al catecumeno – in quanto «iniziando» – l’esperienza di non essere già arrivato, ma di essere in cammino. Pertanto lo aprono alle novità, al futuro, a una «escatologia» intesa non solo come «fine della storia», ma come continuo compiersi, nella storia, dell’incontro tra il mistero di Dio e il mistero dell’uomo. 4. I riti liturgici educano a vivere il tempo come festa. Il tempo dell’uomo di solito è tempo dell’«impegno», tempo del «lavoro», tempo «feriale». La ferialità del tempo, però, prima o poi si interrompe; il negotium perde la sua negatività e diventa otium. È il giorno della festa, dove il tempo non si misura sul «principio del dovere», ma sul «principio del piacere». Nei giorni feriali si lavora perché si «deve» lavorare; nel giorno festivo si fa festa perché «piace» far festa. La festa risponde alla «pretesa» di far «entrare l’uomo in contatto» con il «mistero», che è la Pasqua di Cristo e «pretende» di operare questo attraverso l’esperienza celebrativa, simbolica. Il rito è fondamentalmente un momento di festa e ci aiuta a capire che il tempo non è nostro; non ne siamo i padroni; esso è «dono» da accogliere e da vivere nella gratuità e nella libertà. 5. I riti liturgici educano i cristiani a fare comunità, a non essere più uno accanto all’altro, ma a essere l’uno con l’altro, l’uno per l’altro. Fanno sperimentare un dinamico «stare di fronte agli altri» e un «fluire» insieme verso un Tu. I riti liturgici fanno sì che la comunità si faccia «evento» di salvezza, sacramento di Cristo risorto. È evidente che la «comunità» è a un tempo in continuità e in discontinuità con la struttura sociale; ne consegue che la comunità viene a essere in una situazione e in una modalità «liminale».
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6. I riti liturgici fanno vivere l’esperienza della «liminalità», cioè una esperienza in cui i rapporti spazio/temporali e interpersonali sono vissuti in maniera «altra», fuori delle regole usuali. Nei riti liturgici i rapporti con la realtà, con gli altri e con Dio, non sono in contrapposizione con la società, la cultura, le istituzioni, le regole; ma questi rapporti non si identificano né con la società, né con la cultura, né con le situazioni, né con le regole; questi rapporti – vissuti in maniera «altra» nel tempo liturgico – trascendono queste realtà, le giudicano, le criticano e, proprio per questo, le possono «fondare». I riti liturgici evidenziano tale carattere «liminale»: il loro «tempo» è un tempo «altro», un tempo «straordinario», che si connota per il suo mettere in rapporto con l’evento fondamentale e fondatore, il mistero di Cristo. 7. I riti liturgici non «teorizzano» la trascendenza, ma «fanno» la trascendenza, in quanto «fanno» spazio e «danno» tempo all’alterità di Dio e aprono l’uomo ad accogliere l’Altro. La liturgia – sotto questo profilo – è un’esperienza nella quale la logica abituale del mondo ordinario, con le sue dinamiche e i suoi significati, viene regolarmente smentita e sovvertita. Per la dinamica simbolica del rito, la liturgia immette in un ordine «altro»: nell’ordine dell’eccedenza, là dove è possibile intuire che non c’è solo la logica del possedere, ma che c’è anche la logica del donare, che è esattamente l’«agàpe» di Dio. 8. I riti liturgici, nella loro alterità e diversità di linguaggio, non costituiscono una sorta di fuga dalla vita, non sono una sorta di tempo mitico fuori dalla storia. Rapportati con l’evento storico della Pasqua e della vicenda storica di Gesù di Nazaret, di cui sono «memoria», i riti liturgici, lungi dall’estraniare, rimandano alla storia e all’assunzione di responsabilità in essa. Le celebrazioni sacramentali sono vissute «nel tempo intermedio», tra il già e il non ancora, tra la «memoria» e l’«attesa». Celebrando i sacramenti la chiesa vive protesa verso la seconda venuta del Signore, vive nell’attesa di lui che ha promesso di ritornare. Nel medesimo tempo, aspetta uno che esiste, che è vivo; uno che, invocato, tiene fede alla sua promessa e dona un’ineffabile «pregustazione» della sua presenza.
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6. Conclusione Abbiamo iniziato questa riflessione, segnalando la crisi dell’iniziazione cristiana «tradizionale» e la difficoltà di far vivere esperienze iniziatiche autentiche agli uomini del nostro tempo. Concludiamo riconoscendo che la liturgia possiede questa dinamica iniziatica e proprio per questo i riti liturgici, se celebrati correttamente, costituiscono l’esperienza fondante e fondamentale dell’iniziazione cristiana. Essi sono il luogo privilegiato per fare esperienza di novità e dell’eccedenza del Vangelo. Qui la comunità cristiana riconosce le leggi del suo cammino, gli aspetti decisivi della sequela di Cristo, del discepolato cristiano, dell’esperienza del vivere nella logica dello Spirito e non in quella della carne. Nel Sermone 272 rivolto ai neofiti che partecipano all’eucaristia, sant’Agostino vuole «spiegare» il mistero in cui sono introdotti: «Vos estis corpus Christi [...], si ergo vos estis corpus Christi et membra, mysterium vestrum in mensa Domini positum est: mysterium vestrum accipitis. Ad id quod estis, Amen respondetis, et respondendo subscribitis»25. Mi sembra che Agostino offra qui una significativa «comprensione» dell’azione liturgica: un’esperienza capace di instaurare un singolare «circolo comunicativo». Troviamo, infatti, un Mittente che ha l’iniziativa... ma che non annulla il destinatario; anzi, questo è necessariamente e completamente coinvolto. L’azione liturgica è questa: un circolo comunicativo caratterizzato da un continuo incremento di senso, fondato sul vissuto di fede della comunità cristiana, che si conforma sempre più, lungo la storia, a un progetto che sta all’inizio e insieme attende un compimento escatologico.
Sermo 272 in die Pentecostes ad infantes, de sacramento, in Agostino, Discorsi IV/2 (Nuova Biblioteca Agostiniana, XXXII/2), Città Nuova, Roma 1984, 1042-1045. 25
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La prassi pastorale più ordinaria ci offre continue esemplificazioni di una ritualità al limite. A considerarla tale non è soltanto un certo tradizionalismo, che legge nell’eterodossia della forma l’esaltazione dell’eccesso e il vezzo – più o meno moderno, più o meno à la page – dell’esotico e dell’alternativo. Esiste una ritualità al limite che denuncia anzitutto un emblematico carattere euristico dell’atto celebrativo: una ritualità, cioè, che si ripropone come sperimentazione o stress test dell’estremo, ovvero come verifica puntuale e tenace dei limiti di ogni forma rituale, con l’intento di valorizzarne non tanto e non solo l’implicito invito a non procedere, ma – paradossalmente – proprio quella propensione al rimando che fa del limite una celebrazione dell’eterotopia: la forma dell’essere in altro, ospitale domiciliarità dell’ulteriore, rinvio che significa e contiene. Parlare di liminalità rituale significa quindi proporre qualcosa di ben diverso da una (peraltro comunissima) rassegna dei rituali del kitsch, vere e proprie antologie del cattivo gusto e del nonsenso. Significa anzitutto riconoscere la pertinenza teologica di un discorso sul e al limite proprio laddove una medesima sentenza di inagibilità sembra ormai accomunare il concetto di limite e il suo opposto. Significa pronunciarsi su qualcosa di cui, con Wittgenstein, si preferisce tacere: del limite si dice spesso poco, della sua presente assenza si fa mercato nero, della sua incorporeità ci si limita a non dire.
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1. Tra ferialismo e oscurità Nel perimetro circoscritto dai suoi inevitabili limiti, ogni forma rituale si trova sempre a oscillare tra i due margini estremi del criptismo, che esprime un’ingestibile eccedenza mediante i codici della ridondanza, e del ferialismo, che sopprime lo scarto simbolico nel disincanto di una ritualità implicita e/o anonima1. Si tratta di due frontiere invalicabili, nella problematicità delle loro prerogative e dei rischi che una loro eccessiva (e univoca) frequentazione inevitabilmente comporta. Se il limite del criptismo rivendica i diritti della differenza, ovvero dell’incolmabile interruzione che ogni ritualità celebra per rapporto al quotidiano sì da ricavarvi l’occasione per un vero e proprio shock autogenetico2, il suo opposto risponde alle esigenze di continui 1 Per ulteriori approfondimenti, ci permettiamo di rimandare a G. Mazza, La liminalità come dinamica di passaggio. La rivelazione come struttura osmotico-performativa dell’inter-esse trinitario, PUG, Roma 2005, 602 e passim. 2 È quanto garantisce, a un livello più generale, lo stesso linguaggio simbolico da cui tale interruzione viene a essere circoscritta. Suo compito è quello di significare in partenza l’insuperabile distanza del reale e in tal maniera farla morire come cosa bruta per farvi accedere il soggetto come presenza, in un continuo processo di autoattuazione eterogenetica. Può riuscire in questo intento solo mediante un brusco «cambiamento di livello», lo stesso che percepiamo nel linguaggio poetico e metaforico: esso crea una specie di «cortocircuito» (un’interruzione, appunto) che dà voce a una breccia antropologica preesistente, a quell’incolmabile senso di mancanza-di-essere dinanzi al quale il simbolo dischiude un vuoto capace di liberare all’uomo uno spazio di accesso «verso una regione diversa a cui manca ogni accesso. Attraverso il simbolo vi è dunque salto, cambiamento di livello, cambiamento brusco e violento; vi è esaltazione, vi è caduta, non passaggio da un senso a un altro, da un senso modesto a una più vasta ricchezza di significati, ma a ciò che è diverso, a ciò che appare diverso da ogni senso possibile» (M. Blanchot, Le livre à venir, Gallimard, Paris 1978, 130). Si tratta, secondo Chauvet, di «uno “shock” salutare per cui, colti di sorpresa, all’improvviso ci rendiamo conto che il paradiso delle nostre certezze, delle nostre evidenze e di tutti i nostri “va da sé” potrebbe essere un’illusione» (L.-M. Chauvet, Linguaggio e simbolo. Saggio sui sacramenti, Elle Di Ci, Leumann 1982, 77). Si tratta, ancor di più, di uno shock necessario: niente è più urgente che perdere questo paradiso immaginario, a costo di investire paradossalmente su una nuova e più devastante assenza. E infatti, come la poesia, anche il simbolo rappresenta il vessillo di peregrinazione nel deserto infinito della dimenticanza, rendendo palpabile la legge dello scarto, della perdita, del «posto vacante» dove il reale pertiene a un
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tà dell’identità personale: in tal senso, destabilizza l’esclusività del celebrativo per ritualizzare l’ordinario e il feriale. Se la cifra della differenza, annaspando nel tentativo di parafrasare l’indicibile, finisce per esporre la simbolica dell’eccedenza all’arbitrio individuale, la prosodia del ferialismo di fatto la dissolve nelle cose d’ogni giorno3. Entrambe, sebbene in modo diverso l’una dall’altra, rendono indisponibile l’essenza del rituale: e, trattandosi di frequentazioni del limite, è quanto di più ovvio ci si possa aspettare. Il loro scarto, però, è estremamente funzionale alla dinamica celebrativa, di cui articolano l’implicita polarità: solo nella tensione tra indicibile e (ri)detto, tra odierno ed eterno, tra presente e assente può essere messo in scena l’«ordine occulto del desiderio»4, che riconosce nell’atto celebrativo la ricerca del proprio oggetto perduto. Una parziale risposta alle esigenze di bilanciamento tra i due margini è rappresentata dalle pluriformi e immarcescibili teologie della presenza reale: la loro articolazione storica ha lasciato spazio a riflessioni complesse, diverse per presupposti e per rilevanza. In genere, la teologia sacramentaria ha contribuito a dare alla stessa nozione di presenza una qualificazione peculiare: il concetto di «vicinanza», che da sempre le è associato in quanto relazione esistente tra individui in qualche modo tra loro prosordine diverso dal dato immediato o dal valore disponibile. Precisamente, il simbolo «addomestica l’assenza: non la scava che per meglio riempirla. Lavora la Differenza e la Morte che ci attraversano, in maniera produttiva: travaglio del parto di noi stessi. Distorcendo il linguaggio, pietra angolare di ogni cultura, in figure-shock, tenta di manifestare quale ne sia l’originaria e dimenticata posta in gioco» (ivi, 84). 3 D’altra parte, non è però proprio il confronto con la «piccola» teologia delle cose d’ogni giorno a invocare, per dirla con Rahner, una sorta di risveglio epocale? Esso dovrà condurre a ribadire con coraggio che «non si può e non si deve convertire in festivo il giorno feriale, neppure mediante gli elevati pensieri della fede e la sapienza eterna. Esso deve restare senza addolcimenti e senza idealizzazioni. Solo allora è proprio quello che dev’essere per il cristiano: l’ambito della fede, la scuola della sobrietà, l’esercizio della pazienza, lo smascheramento salutare delle parole grosse e degli ideali fittizi, l’occasione silenziosa per il vero amore e per l’autentica fedeltà, il misurarsi su la realtà, che è seme della sapienza definitiva» (K. Rahner, Cose d’ogni giorno, Queriniana, Brescia 1966, 19943, 9-10). 4 J.Y. Hameline, Aspects du rite, «Media Development» 119 (1974), 108.
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simi, è andato via via a collocarsi come determinazione ulteriore della «realtà» della presenza stessa: tante sono le presenze reali quanti sono i «fondamenti» della vicinanza; tanto più reali e perfette sono le presenze quanto più perfetto è il fondamento della loro relazione di contatto o di vicinanza. È su questa base che la dottrina conciliare e postconciliare ha potuto differenziare tra loro le presenze «reali» della liturgia, subordinandole tutte alla presenza per antonomasia, quella eucaristica, e completando, attraverso la nuova chiave ermeneutica della prossimità, quella variegata casistica teologica che, in età scolastica, aveva contribuito a distinguere i gradi e la natura delle realtà evocate dalla praesentia Christi 5. Ma la storia del pensiero ha visto anche altri orizzonti e sposato anche altre prospettive. Attraversando gli ambiti della spiritualità, della pneumatologia e dell’antropologia teologica, ha fronteggiato l’angoscioso «Cur non video praesentem?» di Anselmo con gli strumenti concettuali del sacramento e della rappresentazione, approdando a sintesi talvolta ardite e comunque originali6. Una di esse può senz’altro essere suggerita dalla struttura concettuale che chiamiamo «liminalità rituale». Ce ne occupiamo ora più da vicino.
2. La liminalità: una risorsa inedita In un’età che fortunatamente si avvia verso una reintegrazione del rito nella fede e nella teologia – dopo una fase classica di Così, la presenza «in mysterio» viene riconosciuta in maniera analogica per l’assemblea liturgica, il ministro sacro, la proclamazione della Parola, la preghiera, gli elementi costitutivi dei sacramenti e dei sacramentali (cf. SC 7). La nuova «classificazione» ha come fulcro la presenza eucaristica, e costituisce così un quadro di riferimento complementare alla (spesso arida) nomenclatura classica, troppo preoccupata delle distinzioni (che pure avevano il loro valore) circa ciò che concerne la presenza di Cristo come uomo e ciò che invece lo riguarda come Dio, o ancora del valore sostanziale e di quello operativo, transitorio o permanente della sua presenza (cf. S. Th., I, 6, 3c; III, 64, 3c). 6 In epoca recente, si veda ad esempio l’aísthesis mistica del George Steiner di Real presences. 5
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(fin troppo) ovvia presupposizione e dopo la rimozione del periodo moderno7 – è oggi finalmente possibile riscoprire, grazie anche ai suggerimenti che offre in questo campo l’antropologia culturale, le diverse dimensioni che nel rito risultano di rilevanza per la teologia8. La liminalità è una di esse. Nell’ottica della fenomenologia religiosa, la sua principale cifra ermeneutica è rappresentata dalla virtualità performativa, oggetto essa stessa di consolidato interesse9 e all’opera in ogni determinazione di ordine sim7 Cf. A. Grillo, Teologia sacramentaria, teologia liturgica e teologia fondamentale, in A. Grillo - M. Perroni - P.-R. Tragan (edd.), Corso di teologia sacramentaria, I, Queriniana, Brescia 2000, 108-138, qui 128-129. 8 Andrea Grillo (cf. ivi, 130) ne evidenzia almeno quattro: la dimensione socio-funzionale (É. Durkheim, N. Luhmann, V. Turner), in cui il rito va a strutturare un ambito sociale nelle sue determinazioni e trasformazioni; la dimensione psicologico-strutturale (S. Freud, C. Lévi-Strauss), che riconosce nel rito l’articolazione dell’identità personale dei soggetti in rapporto a sé e agli altri; la dimensione linguistico-comunicativa (F. Boas, E. Sapir, S.J. Tambiah), che inquadra il rito al limite del sociale e del linguistico; la dimensione fenomenologico-simbolica (M. Douglas, M. Eliade, F. Staal), che rende conto della «non funzionalizzazione» del rito, della sua impermeabilità e gratuità evocativa. L’utilità dell’antropologia per rapporto al rito consiste proprio nella sua peculiare attenzione ad affermare l’irriducibilità del rito ad altro. Il rito può essere «cristiano», cioè può essere liturgia che media la presenza e l’azione di Dio in Cristo, solo se non nega la dimensione «autoreferenziale» del rito stesso, anzi se riesce a cogliere in e mediante essa il luogo di un’apertura «ad altro». In questo senso, «il sacramento non può essere fondato se non all’interno della teologia fondamentale, ma la teologia fondamentale non può fondare il sacramento senza assumere in sé la sporgenza antropologica del rito, in tutta la sua irriducibilità all’ordine del “riflesso”» (ivi, 131-132). Cf. anche Id., Teologia fondamentale e liturgia. Il rapporto tra immediatezza e mediazione nella riflessione teologica, EMP - Abbazia di Santa Giustina, Padova 1995. 9 Lo testimonia l’ingente mole di studi pubblicati in merito sin dagli anni Settanta. Citiamo, solo a titolo di esempio, J. Ladrière, La performativité du langage liturgique, «Concilium» 9 (1973), 53-64; A.P. Martinich, Sacraments and Speech Acts, I, «Heytrop Journal» 16 (1975), 289-303; Id., Sacraments and Speech Acts, II, ivi, 405-417; G. Lardner, Communication Theory and Liturgical Research, «Worship» 51 (1977), 299-307; I. Dalferth, Religiöse Sprachakte, «Linguistica Biblica» 44 (1979), 101-118; G. Hornig, Analyse und Problematik der religiösen Performative, «Neue Zeitschrift für systematische Theologie und Religionsphilosophie» 24 (1982), 53-70; A.N. Terrin, Leitourgía. Dimensione fenomenologica e aspetti semiotici, Morcelliana, Brescia 1988; Comunicazione e ritualità. La celebrazione liturgica alla verifica delle leggi
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bolico. Non è difficile dimostrarlo: in seno alla ricerca di un quadro globale di senso, la mediazione dei simboli – assorbiti tanto dall’immaginario quanto dall’universo religioso – opera sempre una fusione di orizzonti, «immaginificando» il reale e realizzando l’immaginario: il «sovraccarico simbolico» permette uno spostamento di asse che trasforma e apre l’individuo in vista di più ampie coordinate di significazione, a partire dalle quali egli si ritrova come homo religiosus. Si tratta, di fatto, della medesima dinamica performativa che sta a cuore a Victor Turner10, nelle cui posizioni Terrin riconosce «la maggiore concessione che l’antropologia contemporanea è disposta a fare», in quanto «tentativo molto serio di capire l’“intero” dell’esperienza rituale, in maniera che essa non sia ogni volta prevenuta, e prestabilita»11. La radice simbolica meta-sociale dei riti permette di connotarli come polarizzazione di significati saturanti (simboli di condensazione), in grado di innescare un processo di transizione a tre fasi: una destrutturazione delle coordinate personali di innesto sociale, una fase intermedia di liminalità decentralizzata e un reinserimento strutturale originale. È nella fase intermedia, secondo l’autore inglese, che è possibile riconoscere lo spazio per un’esperienza religiosa non più surrogatoria di altro: lo stato di allontanamento, privazione, nudità, differenza e riqualificazione processuale offre una possibile alternativa alla tradizionale tesi sociologica dell’antropologia funzionalista, in ordine al riconoscimento, nel capovolgimento delle strutture sociali cristallizzate proprio dello scarto liminale, di un’attestazione propriamente religiosa. L’originalità di Turner sta esattamente nell’aver della comunicazione, a cura di L. Sartori, EMP - Abbazia di Santa Giustina, Padova 1988; J.-J. Schaller, Performative Language Theory, «Worship» 62 (1988), 415-432; G. Venturi, Partecipazione e comunicazione, «Rivista liturgica» 80 (1993), 192-221. 10 Di particolare interesse sono qui La foresta dei simboli (ed. orig. New York 1967) e Il processo rituale (ed. orig. Londra 1969). 11 A.N. Terrin, Esperienza di Dio e ritualità. Prospettiva antropologicofunzionalista e tesi fenomenologica, in Nuove ritualità e irrazionale. Come far rivivere il «mistero» liturgico?, a cura di A.N. Terrin, EMP - Abbazia di Santa Giustina, Padova 1993, 95-135, qui 126.
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identificato il momento di eventuale contatto con il religioso non nella positività di un assetto sociale precostituito, eventualmente da difendere e da giustificare, ma nell’antistruttura che lo squalifica e decostituisce. È infatti nel «no» pronunciato sulla soglia della transizione che si può riconoscere un’autentica affermazione religiosa12. Incoraggiati da questa intuizione, vorremmo qualificare la triplice dimensione liminale del rito proprio a partire dalla determinazione tensionale che gli è propria: preparandoci a cogliere nel rituale le qualifiche del passaggio e della prossimità, ci accosteremo anzitutto alla sua più stridente connotazione: quella antistrutturale.
3. Crimini e discrimini: il rito come violazione Il rito ci interessa anzitutto in quanto violazione che sostanzia – a ben vedere – la radicale originalità del credo cristiano. In virtù di questa stessa originalità, il cristianesimo reagisce all’eterna logica omologante che globalizza il credere e il sentire, proponendosi come crimen e discrimen, affronto e provocazione, vaglio e interpellanza: come crimen innanzitutto, come offerta di senso che contravviene alle massificazioni del mercato globale del sacro, che sfida le «medie» e le «statistiche» per proporsi come unicum, violazione della regola, singolarità inderivabile, differenza che si fa sfida, novità che si fa contestazione, originalità rivoluzionaria e incontenibile; come discrimen, ovvero come biforcazione che invoca la grazia e la libertà di una scelta, imprescindibile esperienza di contrasto13, punto d’equilibrio sul quale Si veda in proposito V.W. Turner, La religione nell’antropologia culturale attuale, «Concilium» 16 (1980), 136-144. 13 Una tale esperienza, come annota Kasper, «tocca l’uomo fin nelle radici e in tutte le fibre della sua esistenza, fa vibrare tutte le corde dell’essere umano. Non s’incontra Dio da osservatori distaccati ma come persone che lui stesso interpella. In termini biblici: l’esperienza di Dio avviene con il cuore, cioè al centro della persona umana. Ciò che conta di più in questa vicenda soggettiva è l’essere-coinvolti, anzi il venir-travolti da una realtà. E questo vale anche per l’esperienza religiosa» (W. Kasper, Il Dio di Gesù Cristo, Querinia12
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sta o cade tutta la verità dell’essere umano, giudizio e profezia, rischio e scommessa. Questo cristianesimo, ben lontano dalle facili devozioni da supermarket religioso, svolge un’implicita funzione critica verso il sacro «di massa» nel momento stesso in cui si propone come eccedente novità dell’Estremo orientata, tutta e per intero, verso il picco più alto dell’Unico e del Vero. Religione della grazia, il cristianesimo è testimonianza di un puro dono, indeducibile verità di una consegna la cui prima origine è sempre trascendente e ulteriore. Chiedendoci quanta parte abbia, nella promessa di tale originalità, il rito in quanto violazione non facciamo altro che mantenerci aderenti alla distinzione che richiamavamo in apertura: se infatti la ritualità offre l’eventualità della differenza e dell’interruzione, può ben qualificarsi come anticamera della violazione. Dando visibilità a ciò che della fede è fons e culmen, può ben disporsi a essere picco, eccezione, estremo confine che impone il vaglio di una scelta. Discriminante e discriminato, il rito denuncia quindi l’imbarazzante crimen della propria trasgressività: non lo dimostra solo la sua eventuale dimensione sacrificale (e il complesso di colpa e pena che vi è legato), ma anche il suo fuoriuscire dai margini dell’appartenenza e dell’identificabilità. La violazione del rito si esplica infatti anche nella precaria extraterritorialità che esso inaugura, legittimando un’enclave trascendente entro le geografie profane del tempo umano. L’eccedenza di cui parliamo si realizza nella sospensione della trama del quotidiano attraverso le brecce che apre in essa la logica stridente della differenza: non solo quella, per intenderci, dell’immaginario e dell’onirico, ma anche quella che avversa sul piano della storicità più concreta l’omologazione e l’isotropia del reale. Vinte le proprie forze inerziali, la realtà è davvero capace di scavalcare se stessa e di trovare, alle sorgenti del suo na, Brescia 19976, 118), che è sempre esperienza «a caro prezzo», esperienza discriminante. Facciamo esperienze veramente degne di nota «soltanto quando sperimentiamo la resistenza e la renitenza della realtà di fronte ai nostri precedenti schemi concettuali od operativi», sicché è possibile affermare che «le esperienze portanti non sono mai esperienze di tutto e di ogni cosa, bensì esperienze di contrasto, le quali esigono una decisione» (ivi, 120).
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stesso essere, la forza di procedere verso un senso ultimo che fa capolino tra le nebbie oscure del tempo. L’eccedenza appare così come un «oltre» di realtà, un «oltre» che «non opprime con troppa realtà perché lascia spazio a ciò che è irrimediabilmente al di là del reale, di “questo” reale. Possiamo dire che la realtà è salva proprio quando può giocare con l’altro da sé, con l’irreale»14. Eccedenza ed eccesso di realtà non sono quindi la stessa cosa: per scorgere l’irreale è necessario che non tutto sia (troppo) reale, che tutto – come si vedrà anche più avanti – non sia pesantemente «presente» e disponibile. L’eccesso di realtà è infatti «eccesso di presenza, mentre l’eccedenza gioca sull’assenza, ossia sull’“oltre” la presenza»: più esattamente, su un «oltre» che non si sostituisce al reale, ma, una volta individuatene le sorgenti, riconduce a esso. È precisamente ciò che realizza la dimensione del rito, il cui incanto sta tutto nel suo porsi «oltre» e non «al posto di». L’irrealtà del rito è annuncio di una realtà «altra»: non di una realtà conosciuta, simulata, emulata, ma di una realtà alternativa, differente. Mentre l’eccesso di realtà è simulazione dell’identico, un «delitto in cui la realtà soccombe a se stessa», l’eccedenza è condivisione della differenza, speranza e sogno che lasciano proliferare «mondi possibili e irriducibili a quello “reale”, e dai quali, forse, il cosiddetto mondo reale può rinascere»15. I riti, insomma, sono «sempre in posizione liminale, in margine all’ordinario e alle soglie del sacro. Il loro topos è diverso da quello di tutti i giorni. Eterotopici, essi lavorano su di un’altra scena. Bisogna trovare la giusta distanza»16. È attraverso la distanziazione, cui il rito induce in virtù dei suoi processi eterotopici, che la presente gratuità di Dio può essere colta con maggiore evidenza. Attraverso il suo uso non utilitario di oggetti, spazi, tempi e linguaggi, la ritualità realizza uno sganciamento G. Bonaccorso - A. Grillo, La fede e il telecomando. Televisione, pubblicità e rito, Cittadella, Assisi 2001, 126. 15 Ivi, 129. 16 L.-M. Chauvet, Simbolo e sacramento. Una rilettura sacramentale dell’esistenza cristiana, Elle Di Ci, Leumann 1990, 228. 14
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decisivo rispetto al mondo ordinario. Si crea così «un vuoto, spazio di respirazione, di libertà, di gratuità in cui Dio può farsi presente»17. La rottura simbolica (l’interruzione, la violazione che si fa spazio interposto) permette di fare esperienza di un mollare la presa, del lasciar-essere attraverso il quale la ricchezza di un novum può finalmente irrompere. Ma con questo abbiamo già detto tutto della violazione rituale? Certamente no, poiché se ci limitassimo a focalizzarne l’esito (la scelta, la diversificazione, l’eterotopia) rischieremmo di trascurarne il carattere dinamico e propulsivo, altrettanto rilevante. Il rito – diremmo – è violazione anzitutto in quanto enérgheia, passio che si fa agone, divincolarsi di potenziali forme inespresse che risolve in uno stato tensionale fluido quello stesso displacement di criticità che pone in essere. In questo senso le passioni del limite sono quanto di più essenziale possa comunicare la liminalità del rito: sono la sua forza motrice, la sua stessa ragion d’essere. E questo per tutta una serie di motivi. a) Innanzitutto ne esplicitano il carattere trans-gressivo, che arricchisce il linguaggio teologico di un pregevole filtro ermeneutico: quello che consente di cogliere nelle prerogative del dialogo umano-divino quell’indole alternativa e paradossale che è sovente esplicitata dai racconti biblici e da quelli parabolici in particolare. Nella violazione rituale il focus – come si è detto – è gettato anzitutto sull’antistrutturale, sull’inutile che diviene paradigma cruciale di una salvezza inattesa: nella logica della pietra angolare, scartata ma imprescindibile per la stabilità dell’edificio, scorgiamo la medesima dinamica incarnatoria che sovverte, mediante quella che Turner direbbe un’attenzione liminoide, i nessi stringenti della necessità e dell’interesse. La violazione liminale è, in questo senso, uno spazio di autoirrisione – infamante, come può esserlo stato per un Dio nascere in una stalla o morire tra malfattori – in cui l’evasività di ciò che appare sotto le vesti dell’alternativo e dell’esiziale diviene la forma più autentica dell’indisponibilità della trascendenza18. Ivi, 238. Proprio in questo modo, diviene «un’azione “incompiuta” e per certi aspetti “inconcludente”, perché nel momento della sua realizzazione non si 17 18
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b) Analogamente, e in senso positivo, ciò garantisce una legittimazione altrimenti impensabile: quella del diritto di puntualità dell’essere creato. Nell’ecceitas che circoscrive quanto esiste qui e ora il pensiero cristiano non coglierà quindi un pretesto per idolatrare il frammento, ma l’invito (imperativo) a rispettarne, pur nella perenne transitività, la dignità e verità intrinseche. c) La consapevolezza della puntualità del precario e del contingente, della loro piena dignità e dell’assoluto diritto del loro esserci impone infine un ulteriore passaggio: l’infrazione del regime della perfectio, nel senso di compimento totale e definitivo. Il rito non persegue questo ordine di perfezione «a tutto tondo», ma lo nega continuamente, sciogliendone le dispotiche pretese in un flusso processuale antagonistico rispetto alle stasi dello scrupoloso purismo di una certa devozione e all’aridità di un certo funzionalismo ecclesiastico. Ciò che invece ne deriva è una galvanizzante propulsione verso l’itineranza, l’invito a un cammino inesauribile che non si accontenta di facili rimandi «fuori campo» e di illusorie deleghe escatologiche. La violazione rituale si esprime infatti proprio nella squalifica delle comode certezze di uno spiritualismo sbalzato su prospettive ultraterrene, come anche nella contestazione dell’aberrazione teologica che ne deriva: l’idolatria rubricista che fagocita il concetto di Dio nel circuito magico di un cerimoniale, ritenuto capace di evocarne la presenza e i favori con il solo ausilio di una corretta configurazione della forma celebrativa. La violazione rituale, insomma, non ha pace e non dà pace. Il suo dinamismo non celebra un morto (passus), ma il morire (passio), il continuo disgregarsi di egoistiche certezze che spiana il sentiero al fiorire della vita pasquale; il suo riferimento obbligato non è quindi la statio crucis, ma la via crucis, il cammimantiene alla logica delle cose e dei gesti che la mediano, ma si sbilancia simbolicamente ottenendo un effetto espressivo, intenzionale, estemporaneo, totalizzante nella visione d’apertura e nell’orizzonte di senso che si propone, ma al tempo stesso divenendo non logico o non tematizzabile a livello sillogistico o inferenziale o deduttivo» (A.N. Terrin, Il rito tra razionale e irrazionale, in Nuove ritualità e irrazionale. Come far rivivere il «mistero» liturgico?, 229-270, qui 246-247).
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no verso la trasfigurazione del dolore, che scarnifica e rinnova: non l’imago, dunque, non il santino o la nicchia, ma l’actio che sa evadere dalle rassicuranti geometrie del sacro «domestico», sfratta il facile riposare del senso – spesso condensato in simulacri, feticci, amuleti – e abbatte gli altari secolari della compiacenza, del servilismo e del conformismo. In questo senso, compie il suo destino di liberazione: si fa riscatto, esodo, passaggio.
4. Dis-soluzioni della forma: il rito come passaggio L’immagine del passaggio si appoggia alla radicale ambiguità che è comune a ogni processo del sottrarsi: ciò che è di passaggio risente dell’ineffabilità del vago e dell’indeterminato, richiama la caducità e la finitezza, il trascolorare e il dileguarsi. Il cristianesimo, in fondo, potrebbe essere anche questo, ma è di certo molto di più. Il mondo latino aveva già colto la natura «proiettiva» del passaggio quando lo esprimeva con la complessa voce del trans-ire: un «andare attraverso», un attraversare che implica un cambio di coordinate, uno spostamento di accenti e di prospettive, la forzatura (se necessario) di una migrazione che infrange e squarcia, spesso dolorosamente (il passaggio che si fa passio, il ferire che si fa con-ferire). Passaggio e limite sono dunque classicamente sempre gemellati, in ordine a un camminoverso che ne connota la dimensione traspositiva, il loro vivace e connaturale essere-in-e-per-altro. Il rito si offre come passaggio proprio in virtù di quella che potremmo chiamare un’ontologia traspositiva: il suo stesso essere è essere-in-e-per-altro, sicché il suo esodo non si risolve in una blanda transizione funzionale, ma diviene via di accesso per l’erranza in quanto tale: il punto terminale del pellegrinaggio rituale non è il riposo di una Gerusalemme conquistata, ma il principio stesso di un nuovo vagare. La capacità figurativa della forma coelebrandi vive quindi di un’irrisolta tensione. Da un lato, infatti, essa designa circuendo, descrive confinando, evoca invocando precise formule e rigo-
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rosi codici rituali; dall’altro lato, proprio la sua figuratività è all’origine di ciò che potremmo chiamare la sua drammaturgia irrisolta. Il limite rituale segna la cesura ineludibile tra essere e non essere, e per questo impone il ritmo della crisi, del discernimento, della scelta, dell’infrazione e della violazione: sorgente di ogni distinzione, il limite propone il superamento come legge fondamentale e, per questo, è all’origine del racconto della vita e della fede in tutte le sue forme ed espressioni. Il limite origina il racconto, dimensiona e qualifica la catena di determinazioni esistenziali che scaturisce dall’evento celebrato, le prevede e accompagna nel loro sviluppo processuale. Proiettato verso la mobilità delle sue stesse conseguenze, contrassegna l’esperienza credente in quanto «dramma», storia di un’azione in divenire, rapporto sulle scelte fatte o da fare, dinamica di passaggio. Alla luce di queste considerazioni, si capisce perché possa apparire così intuitivo (eppur paradossale) il fatto che la più autentica forma rituale sia quella che va dissolvendosi: la risoluzione della forma rituale è la sua dissoluzione, il suo passaggio obbligato verso una nuova forma o una non-forma. In tal senso, è sempre annunzio di uno sfiguramento: incensando la croce, ne addita la non-forma, muovendosi al contempo verso un superamento del mistero di morte che rappresenta, per inseguire la vita. Ma le conseguenze teologiche sono anche altre. Esse impattano anzitutto sulla natura stessa del rituale che, proprio in virtù della sua indole transitiva, non rappresenta mai un tentativo di reductio ad unum, né va a incarnare quella sintesi dogmatica che sopperisce nostalgicamente alla sparizione delle grandi summae. Rappresenta invece un compendio della pluralità, che «funziona» simbolicamente solo nel quadro di un più ampio sistema di segni (cosmici, estetici, sociopolitici, antropologici), andando a costituire un territorio ibrido connaturalmente esposto alle contaminazioni e alla trasversalità. La liminalità rituale, in questo senso, non intende mettere ordine su una complessità che recepisce e accoglie come tale, ma solo gettarvi luce; è parimenti falsa l’affermazione per cui le ritualità sfumino e stilizzino la realtà, astraendone una serie ordinata di moduli concettuali da ricomporre in forme varie (ma numericamente finite) e reitera-
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tive. La varietà del rituale è tanto più vera quanto più agevola, senza banalizzarlo, l’accesso alla complessità. Da quest’ultima prerogativa deriva l’indole iniziatica del rito come passaggio: un tema che, dopo l’impulso dell’antropologia culturale di Turner, continua senz’altro a suscitare interesse. Nell’apertura al mondo come complessità, il rituale testimonia una marcata attitudine propositiva, in mancanza della quale l’identità del credente che celebra la propria fede collasserebbe su di sé e ipotecherebbe la propria crescita. Esiste invece una «morte rituale» che, al pari di quanto dicevamo precedentemente circa la dissoluzione della forma, innesca la vita: in linea con l’evangelico chicco di grano che, caduto in terra, muore e porta frutto, il credente muore come «sé» e si rigenera come «sé-inaltro». Il rituale permette questa trasmutazione, esponendo il soggetto al fatale cortocircuito innescato dalla mancanza-diessere (orientamento alla non-forma) del suo stesso simbolismo. Qual è, però, l’approdo del passaggio rituale? A che cosa inizia il rito? Si risolve forse in uno sfratto a senso unico, a un moto migratorio che sa di esilio e di crescente lontananza? Probabilmente no. D’altra parte, rispondere a queste domande significa ancora una volta prendere in seria considerazione il tormentato quesito sulla natura e sugli effetti di quella presenza reale che si vuole implicita nelle dinamiche rituali.
5. Mediazioni domiciliari: il rito come prossimità Chiudiamo quindi il cerchio e chiediamoci più direttamente: quale presenza reale si trova inclusa (o esclusa) nella liminalità rituale? Nel suo carattere eversivo (violazione) e proiettivo (passaggio), il rito si fa anzitutto garante di un recupero eziologico di primaria importanza: con esso e per esso l’individuo è posto in contatto con una forza originaria, forse archetipale, cui si trova immancabilmente rimandato. Nel complesso gioco dei suoi segni, il rituale imbastisce lo spazio di una Presenza: ne articola le linee tensionali, ne sviluppa i margini ermeneutici, ne adombra le incommensurabili (e parzialmente inaccessibili) ric-
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chezze. Questa capacità referenziale costituisce la vera e propria intelaiatura di un essere-in-presenza, ma – e qui vi è ampio spazio al paradosso – ne rappresenta anche il principale limite. Ciò che infatti viene dato a conoscere – la percezione di una Presenza, il suo offrirsi come dato esperibile e come esistenza condivisa – viene anche circoscritto dalle stesse modalità conoscitive che, con innegabili condizionamenti, lo rendono presente. La diffidenza di molti, in proposito, riguarda proprio il fatto che dietro a tale dinamica di accesso vi sia un rischio eclatante: quello di recepire solo l’elemento mediatore della conoscenza, e non anche l’elemento mediato. La posizione di Chauvet in proposito è emblematica. Secondo l’autore, nel contesto della sacramentaria la mediazione diviene di fatto la dimensione «più immediata» di una struttura simbolica: a essa non c’è alternativa alcuna; non esiste alcuna possibilità di una presa immediata sull’oggetto teologico di cui si significa la presenza; la mediazione stessa funge da confine invalicabile, insostituibile condizione a priori di ogni discorso teologico. Su queste basi, Chauvet critica l’approccio del pensiero classico, che tenderebbe a risalire da una fede «immediata» a una dimensione sacramentale «mediata» e ridurrebbe il sacramento a espressione accessoria e dispensabile di un concetto formale, trascurando una «mediatezza» originaria di qualunque dato della fede. In realtà, la mediazione è l’unico «immediato» possibile. L’argomentazione di Chauvet, come ci si può immaginare, non ha mancato di suscitare reazioni critiche. Ci si è infatti chiesti se possa veramente esistere una teologia che accetti di partire da un dato mediato – quello sacramentale – come unico elemento «immediato» e fondante. L’errore di Chauvet sarebbe quello di aver rifiutato di assumere a priori un’immediatezza come fondamento e di aver poi finito per fare della mediazione un criterio ultimo, fondamentale e «immediato» esso stesso. Il simbolo, che dovrebbe indicare il fondamento, si situa al posto di esso. Il rifiuto del fondamento diviene così esso stesso fondamento; la mediazione «immediata» e il simbolo che la realizza sono essi stessi, a tutti gli effetti, un’immediatezza: appunto ciò che Chauvet tenta di scalzare, come suo intento primario, affermando l’invalicabilità della mediazione. Il rischio grave appare dunque
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quello di «dissolvere ogni possibile comprensione del momento teologico sul piano di una precomprensione antropologica a dir poco soffocante»19: la grazia, realtà in sé extra-linguistica e quindi indeducibilmente e originariamente presacramentale, viene compresa dall’autore solo secondo il meccanismo «intralinguistico» del simbolo, non come quid esterno e donato, ma come «lavoro simbolico del ricever-si»20. È dunque il gioco una sorta di neo-nominalismo a oltranza, fautore di una più o meno consapevole «cattura gnostica» dell’alterità divina21? Il rischio è reale, soprattutto perché vi è in gioco la traduzione più o meno suadente di un concetto che fa da cerniera tra la sacramentalità e la spiritualità: quello della domiciliarità del divino, il suo essere con e per noi, nell’esperienza di una familiarità che si fa così prossima da rendersi disponibile. C’è forse da trasalire – lo dicevano, stupiti, anche i Padri – dinanzi alla vulnerabilità del Dio che si fa pane tra le mani indegne dei peccatori. Senz’altro non c’è da meravigliarsi se la cattività di Dio si lascia declinare anche nei termini della prigionia dei segni e dei simboli: la stessa che può renderlo irriconoscibile, eppure continua a veicolarne la presenza. Come evitare di trasformare la domiciliarità «spirituale» della Presenza in una bestemmia? Come coniugare la prossimità e l’inevitabile (e necessaria) distanza? La singolare evocazione di questo connubio metonimico da parte di J.-L. Nancy può suggerirci alcune piste di riflessione.
6. A distanza: sul levarsi del corpo Se la fede non fa che celebrare la prossimità sconcertante del Dio vicino, se «in un certo senso nulla e nessuno è intoccabile 19 Bonaccorso - Grillo, La fede e il telecomando, 60. Cf. più in esteso le considerazioni di A. Grillo, Ragioni del simbolo e rifiuto del fondamento nella sacramentaria generale di L.-M. Chauvet. Spunti per una critica “in bonam partem”, «Ecclesia Orans» 12 (1995), 173-193. 20 Cf. Chauvet, Simbolo e sacramento, 99. 21 Cf. Bonaccorso - Grillo, La fede e il telecomando, 62.
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nel cristianesimo, posto che il corpo stesso di Dio è dato da mangiare e da bere»22, lo stridere tra l’hoc est corpus meum della Cena e il noli me tangere dell’apparizione a Maria Maddalena non può non lasciare stupiti. Il brano giovanneo marca il passo di un’inattesa, eppur necessaria distanza: colui che risorge dà la misura dell’unico con-tatto possibile con il suo stesso ritrarsi, sicché la sua vera presenza non è quella immediata, quella che crede a ciò che impugna e trattiene, bensì quella che parte, che si dilegua, che segna «la separazione grazie alla quale il tocco e la presenza vengono a noi»23. L’indisponibilità del Vivente satura la cromatica della risurrezione, sovraesponendola – nelle tinte mattutine dell’apparizione – ad abbacinanti contrasti: la luce del Risorto è così una cosa sola con il vuoto nulla del suo sepolcro; la morte quasi non sembra «vinta», ma si dilata oltre ogni misura, come partenza indefinita, congedo di colui che continuamente si ritira; la gloria della risurrezione quasi non è ritorno alla vita, ma «levarsi» (anástasis) sul sepolcro senza che questo sia abbandonato, stazione eretta in seno alla morte, certezza della «tenuta», in essa, dell’Intoccabile e dell’Inaccessibile24. È la verità dell’Intrattenibile, che invita a lasciare, a sciogliere, a non (at)tentare il legame: chiama per nome, ma avvolge l’ascolto nell’angoscia del non-lasciar-riconoscere; la visione non rivela nulla, la theoría non offre alcun appiglio, eppure l’unica risposta possibile alla verità che parte è partire con lei, amarla separandosi, amare che se ne vada25. Non è vedendo attraverso il sepolcro, ma solo sapendo vedere nel sepolcro che si può cogliere l’Assenza: aprendo gli occhi nelle tenebre, facendo sì che essi ne siano invasi, si può arrivare a sentire l’in-sensibile sino a esserne presi26, per testimoniarlo corpo a corpo. 22 J.-L. Nancy, Noli me tangere. Saggio sul levarsi del corpo, Bollati Boringhieri, Torino 2005, 25. Riprendiamo le riflessioni che seguono dal nostro Incarnazione e umanità di Dio. Figure di un’eternità impura, San Paolo, Cinisello Balsamo 2008, 212-213. 23 Nancy, Noli me tangere, 27. 24 Cf. ivi, 30-31. 25 Cf. ivi, 48.54.65. 26 Cf. ivi, 61.
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Si dischiude qui il probabile spazio di una domiciliarità rispettosa della distanza e dell’assenza. Essa scaturirà, come rupture instauratrice27, dallo stesso limite che la pone in essere (il sepolcro, il non-essere, la morte, il silenzio rituale) e ne consente un ampio ventaglio di forme celebrative: la struttura del limite – ancora una volta – assicura la pluralità, mentre la dinamica della prassi celebrativa ne garantisce la mobilità, il passaggio, il trascolorare in continue transizioni che migrano le une verso le altre, facendo leva su ciò che di inter-detto esse, simbolicamente, custodiscono28, proprio nel momento in cui sembrano perderlo per sempre: la presenza reale che si dissolve, le specie che si consumano, gli inni che affogano nel silenzio dell’adorazione o nell’oblio post-cerimoniale.
7. Oltre le ritualità anestetiche Proprio in questo senso, però, consentire (al)la perdita significa imparare a riconoscere la presenza nell’assenza: significa sbarazzarsi dell’onnipotente signoria del sapere che domina il suo oggetto di conoscenza, liberarsi dal desiderio di vedere-toccare-trovare per accettare di ascoltare una parola che ci è data in un corpo simbolico e – proprio perché simbolico! – più reale del reale. Non sta forse qui – nell’ansia di celebrare una tangibilità abbacinante, totipotenziale, assoluta; nella bramosia di una presenza inequivocabile, apologeticamente incontrovertibile, riscattata anche a prezzo di magismi e di superstizioni; nell’agorafobica indisponibilità verso presenze meno ovvie, più negoziali, diluite – il fallimento di tante dossologie rituali gratuitamente riservate al sacro-qui-e-ora? Non è forse immediato il passaggio da tante liturgie (e pastorali) anastatiche all’effetto anestetico che esse stesse sortiscono, nel medio come nel lungo termine? È la teologia (oltre che la fenomenologia) dell’atto rituale a dimostrarlo: la presenza di Cristo nella liturgia non è mai un 27 28
Cf. M. de Certeau, La faiblesse de croire, Seuil, Paris 1987. Cf. ivi, 226.
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semplice esse statico; è al contrario ad-esse, venuta-in-presenza che contiene già in sé i segni della resistenza verso l’assenza da cui, costitutivamente, risulta «bloccata». In questa maniera, ciò che ci è presente è anche sacramentalmente ciò che ci sfugge, ciò che è vicino è anche tutt’altro e altrove, ciò che procede anche recede. Se quindi la riflessione teologica può ricercare nell’eucaristia il sacramento della presenza, essa deve parimenti anche prendere in considerazione la figura dell’assenza che – ci ricorda Chauvet – il sacramento del pane e del vino sostiene. L’eucaristia stessa, infatti, è la figura paradigmatica della presenza-della-mancanza di Dio: presente in un «qui» corporeo, storico, culturalmente localizzato, il sacrificio dell’altare visibilizza la singolarità di uno spazio eminentemente inscritto – come lo era quello tra le ali dei cherubini, sull’arca dell’alleanza veterotestamentaria –, ma sempre aperto. La gloria di Dio che vi abita, che abita l’eucaristia come un tempo l’arca, riproduce la presenza chiaroscurale della nube dell’esodo, l’inabitazione fumigante della tenda del Convegno. La presenza divina ne risulta «veramente inscritta, ma mai circoscritta». Essa convoca e sospinge: inafferrabile, è per definizione ciò che deve essere perennemente cercato. Ecco perché – lo si è visto – la presenza evoca l’esodo, il riposo suscita l’erranza. È l’esperienza dei patriarchi e dei profeti: quando incontrano Dio, si vedono consegnati a un lungo cammino di itineranza. Ma, come per il popolo nel deserto, lo scopo definitivo dell’esodo non è mai veramente raggiunto, poiché «è il fatto stesso di essere in cammino che permette a Israele di riconoscere in verità il “qui” della presenza di Dio. In mancanza di questo, quando Israele si riposa sulla presenza del suo Dio nel Tempio come su di una garanzia incondizionata di salvezza, la Gloria di Iahvè abbandona il luogo santo per andare ad abitare altrove (Ez 8-11; cf. Ger 7)»29. L’eucaristia realizza il mistero dell’inscrizione della presenza, la presenza nell’assenza che provoca l’erranza. Il corpo glorioso del Risorto si offre in essa come realtà compatta, eppure sempre destinata alla disseminazione, all’apertura: è infatti presente solo in quanto pane da spezzare. Nella frazione del pane viene svela29
Chauvet, Simbolo e sacramento, 78.
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ta la sua realtà ultima ed essenziale, il simbolo per eccellenza dell’ad-esse di Cristo che si offre (si apre) per tutti30. Consentire (al)l’assenza è consentire a quel regime simbolico che ribalta il vuoto in una presenza vivente. In questo modo, sottratta a una miope possessività tattile e individuale, la presenza stessa è «virtualizzata» oltre i limiti della conoscibilità spaziotemporale. Chi non accetta la dimensione della mancanza, finisce per forzare il rovinoso putrefarsi della stessa presenza che si illude di inseguire31: è forse il primo e più importante guadagno di un accesso consapevole alla liminalità rituale. Ritrovare, attraverso di essa, il valore della mancanza come nuova presenza è un compito impegnativo. Esso passa necessariamente attraverso la paziente scrutatio degli «spazi alternativi» dell’essere, non però alla ricerca forsennata delle ennesime impronte di un sacro in fuga, bensì per il gusto – e forse mai parola fu più idonea – di riscoprire l’anfratto e la scissura come spazio affettivo originario del nostro essere coinquilini di Dio nel mondo.
8. «Semeîon» ed «exousía» È questa la domiciliarità che occorre riscoprire. La liminalità rituale ne descrive le coordinate di prossimità critica, ma proprio quando traduce le modalità della distanza e della differenza con il vocabolario del rimando (del semeîon, del segno che indica e distingue), al contempo le interpreta alla luce di quell’enérgheia che connota le sue dimensioni eversive (il rito come violazione) e transizionali (il rito come passaggio). Separare i tre aspetti della liminalità rituale significa snaturarla. Celebrare il segno della presenza trascurandone il carattere transizionale e trasgressivo Cf. ivi, 279. Chauvet applica questa intuizione alla chiesa, corpo simbolico della parola del Risorto: essa «radicalizza la vacanza del posto di Dio. Accettare la sua mediazione significa accettare che questa vacanza non sia mai colmata [...]. È proprio nel rispetto della sua radicale assenza o alterità che il Risorto può simbolicamente essere riconosciuto. Questa è la fede, questa è l’identità cristiana secondo la fede: chi fa morire la mancanza di Cristo rifà di lui un cadavere» (Simbolo e sacramento, 126). 30 31
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significa allestire necrofilie liturgiche, sterili e blasfeme. Significa – per esprimerci in termini biblici – dimenticare che ogni segno divino è sempre anche espressione della sua exousía. L’intima unione di semeîon ed exousía, di rappresentazione simbolica e potenza di presenza, fa sì che nello spazio celebrativo possano coabitare intuizione e rito, affetto e ragione, in un graduarsi osmotico nel quale «Orfeo e Davide sono i maestri “teologici” che trasformano l’evento in metafora, la metafora in poesia, la poesia in musica, la musica in un’invocazione del nome divino; e tutto questo processo poetico incide sulla vita, la definisce come luogo ed evento epifanico»32. Questo rito diviene coestensivo con la vita, senza smettere di celebrare l’ineludibile eccedenza che ne costituisce il conturbante mistero.
32 E. Salmann, I ritmi dell’esperienza simbolico-liminale: verso una teoria dello stile di vita cristiana, in Mistica e ritualità: mondi inconciliabili?, a cura di G. Bonaccorso, EMP - Abbazia di Santa Giustina, Padova 1999, 393-407, qui 394.
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TERZa parte _______________________________________________________________
I LINGUAGGI LIMINALI DEL RITO _______________________________________________________________ F. Leto L. Girardi
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1. Premessa Con questo contributo desidero mettere in luce come lo spazio sacro, «spazio della rinascita»1, sia determinante per l’efficacia dell’esperienza che svela e conduce al divino, poiché «non si celebra una liturgia in uno spazio, ma lo stesso spazio è elemento costitutivo della celebrazione liturgica. Lo spazio ha efficacia sacramentale perché partecipa al complesso rituale»2. Questo dato appartiene alla più genuina riflessione del Movimento liturgico, già dagli scritti di Romano Guardini, per il quale le categorie legate allo spazio e al tempo non vanno ritenute elementi ad solemnitatem (come intendeva la Scolastica) quanto piuttosto elementi ad necessitatem: «I tempi, i luoghi e le cose relativi all’azione non sono ornamenti esterni, ma elementi dell’atto complessivo e come tali dovrebbero essere realizzati»3. Il rito ha, tra i suoi primari compiti, quello di dare ordine allo spazio, per far passare dal caos al cosmos l’abitare, stabilizzandolo in un abitato. Lo spazio, che l’uomo costruisce, è imago 1 R. Tagliaferri, Luogo sacro, religione e liturgia, in Lo spazio sacro. Architettura e liturgia, a cura di V. Sanson, EMP, Padova 2002 (Quaderni di Rivista Liturgica, 4), 80. 2 R. Tagliaferri, L’adeguamento degli spazi celebrativi, in L’edificio cristiano, a cura di V. Sanson, EMP, Padova 2004 (Quaderni di Rivista Liturgica, 5), 88. 3 R. Guardini, Lettera sull’atto di culto e il compimento attuale della formazione liturgica, «Humanitas» 10 (1965), 86. Vedi inoltre R. Tagliaferri, La violazione del mondo. Ricerche di epistemologia liturgica, C.L.V., Edizioni liturgiche, Roma 1996, 124-125, 127-128.
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mundi, imitazione dell’universo tramite un simbolismo specifico, che permette all’uomo di collocarsi nella complessa trama delle sollecitazioni che lo circondano secondo un orizzonte di senso che permette di riconoscere il luogo del vivere. Le caratteristiche dello spazio sacro possono essere individuate nella scansione di alcuni elementi chiave: «un centro, un asse verticale, la croce delle direzioni, il cerchio e il quadrato»4. Eppure, queste astrazioni non ci danno la possibilità di comprendere dove stia l’efficacia sacramentale perché, nelle categorie euclidee di spazio, a fronte dell’universalità e purezza geometrica, si sconta la perdita dell’effettiva e polisemica gettatezza dell’uomo nel mondo. È perciò necessario indagare lo spazio come fonte d’esperienza semiogenetica preordinata, ma non predeterminata, capace di una propria forza «modificatrice». Schermann osserva come la potenza legata a un luogo sacro, nella sua materialità, dipenda dalla capacità eterotopica del costruito: «Ogni ambiente impedisce oppure genera significati: questi vengono rafforzati, distrutti o resi ambigui per il modo in cui le abituali attese spaziali vengono disattese»5. Nello specifico è necessario individuare quale interrelazione spaziale permetta in modo efficacie la «rinascita» e dove invece, pur nella corrispondenza formale a un tipo architettonicamente analogo alla liminalità, essa si dia fallimentarmente. I coniugi Turner, nel testo che pubblica le loro ricerche sul pellegrinaggio, osservano come nelle cerimonie liturgiche cristiane, nonostante sia possibile distinguere frammenti di fasi liminali, non trovammo nulla che ripetesse l’ordine e la complessità della liminalità come si presenta nei grandi rituali di iniziazione delle società tribali [...]. Una differenza evidente emerse in riferimento alla collocazione spaziale della liminalità6. 4 A. Snodgrass, Architettura, Tempo, Eternità. Il simbolismo degli astri e del tempo nell’architettura della Tradizione, a cura di G. Bilancioni, Bruno Mondatori, Milano 2008 (Sintesi), 54. 5 J. Schermann, Il linguaggio nella liturgia. I segni di un incontro, Cittadella Editrice, Assisi 2004 (Leitourgia, Sezione antropologica), 111 e in A.N. Terrin, Leitourgia. Dimensione fenomenologica e pastorale del rituale e della liturgia, Morcelliana, Brescia 1988 (Le scienze umane), 136. 6 V. Turner - E. Turner, Il pellegrinaggio, Argo, Lecce 1997. Nel testo s’i-
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Questa «carenza» emerge di certo nella maggioranza delle chiese costruite dopo la seconda guerra mondiale, costrette a evidenti e penalizzanti compromessi di tipo urbanistico. Ma se volessimo assolutizzare questa annotazione non correremmo il rischio di stringere il campo della «liminalità» alla sola esperienza dell’«entrare» in uno spazio sacro? Il concetto di liminalità è, architettonicamente, più ampio e complesso, e ha bisogno di non perdere mai di vista quell’«ordine e complessità» non riconducibili a un’univoca e predeterminata collocazione spaziale. Sarà dunque necessario applicarsi in una vera e propria fenomenologia dei tipi liminali, prendendo le mosse dai santuari per i pellegrinaggi7, che in modo «potente» ci aiutano a focalizzare nell’esperienza dell’«arrivo» la primigenia caratterizzazione della «rinascita». dentifica la liminalità in ambito cristiano con il pellegrinaggio verso un luogo sacro o santuario. Viene precisato a pagina 80 dello stesso testo che attenendosi alla definizione di van Gennep sarebbe preferibile considerarlo stato «liminoide» o «quasi liminale», poiché non è un «meccanismo sociale obbligatorio». 7 Come esempio paradigmatico è utile riferirsi al santuario di Lough Derg in Irlanda, descritto dai coniugi Turner nel libro Il pellegrinaggio. Approdato con la barca a remi, dopo un percorso a piedi, sul lato sud dell’isola circondata dalle celle adibite ad alloggi, il pellegrino si trova di fronte l’antica chiesa di San Patrizio; sulla sponda opposta, a nord, si trova la chiesa di Santa Maria in uso per le confessioni. In questo spazio intermedio si trovano i cosiddetti «letti penitenziali» (anche letti di pietra o cerchi penitenziali). All’estremo nordovest, costruita su una sorta di struttura a palafitta, c’è la grande basilica di San Patrizio. È stata rilevata una precisa simbolica topografica del SantuarioPurgatorio di San Patrizio: una caverna su un’isola, entro un lago circondato da una catena di basse montagne collocata a nord-ovest di un’isola (Irlanda), a ovest dell’Europa. Andare verso ovest è considerato il cammino verso la Terra dei Morti. L’anima umana richiede la penitenza, i morti, il purgatorio e il pellegrinaggio al Purgatorio di San Patrizio realizza entrambe le cose. In questo luogo, notano i coniugi Turner, abbondano i «significanti» e si moltiplicano i «significati» tutti al servizio della conversione e della penitenza da attuarsi tramite il sacrificio personale della durata in termini temporali di tre giorni (cammino, esercizi penitenziali, digiuno e preghiera). La forza performativa di un pellegrinaggio è strettamente connessa all’estensione del tempo e dello spazio. Lo spazio costruito dall’uomo costringe determinate azioni che seguono determinate caratteristiche; la ripetizione. Si cammina ripetutamente girando attorno, alla chiesa, ai letti penitenziali, all’esterno e all’interno. Si prega centinaia di volte ripetendo le stesse tre preghiere per cui si passa dalla «struttura» al «flusso». Se le stesse preghiere fossero recitate immobili all’interno di una
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2. Liminalità Esiste un preciso punto di passaggio tra il sacro e il profano, tra interno ordinato ed esterno senza ordine, tra ciò che è strutturato e denso di significato e ciò che è amorfo8: la soglia, il limen, che segna il «tempio» come luogo che si prende carico della differenza generata dagli irriducibili opposti del sacro. Se lo stato liminale è uno stato di passaggio, in cui deve avvenire l’incubazione di uno stadio successivo che conduce necessariamente a qualche cosa d’altro, la dimensione spaziale dovrà partecipare all’efficacia del processo. L’elemento comune a ogni dinamica rituale è il prendere l’uomo dal suo stato mondano, per ricollocarlo nuovamente nel mondo, trasformato9. Da questo punto di vista, per poter parlare di spazio liminale come componente di un edificio o contesto sacro, dobbiamo assumere come dato che le liturgie in esso celebrate siano riti di passaggio ripetibili (come la messa, intesa nella sua permanente valenza iniziatica), riti compiuti una volta nella vita (come il battesimo, dato una volta per tutte) o riti occasionali (i pellegrinaggi)10. Ma che cos’è un rito di passaggio? Van Gennep ne dà definizione distinguendolo in tre momenti distinti: «riti preliminari i riti di separazione dall’ambiente precedente, i riti liminari i riti eseguiti durante lo stadio del margine e riti postliminari i riti di aggregazione al nuovo ambiente»11.
chiesa non si avrebbe la stessa efficacia perché non si avrebbe coinvolgimento totale (ivi, 184). Il corpo risulta coinvolto perché sta in ginocchio, cammina, gira ripetutamente all’esterno o all’interno di luoghi, a piedi nudi su un suolo roccioso, all’aperto con qualsiasi tempo, digiunando e combattendo con il sonno. Ma è la struttura dello spazio che permette di girare, nei cerchi, a causa della loro forma, attorno alla chiesa, perché è stata costruita una piattaforma sull’acqua che lo consente, di sostare davanti alle varie croci che si trovano all’interno dell’area. 8 M. Eliade, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino 1973 (Saggi), 22. 9 V. Turner - E. Turner, Il pellegrinaggio, 300. 10 Si veda anche la questione dell’obbligatorietà del rito di passaggio, ivi nota 6. Inoltre M. Eliade, Il sacro e il profano, 118. 11 A. van Gennep, I riti di passaggio, Boringhieri, Torino 1981 (Universale scientifica, 220), 7.
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3. Liminalità e spazio Partendo dal presupposto dello spazio sacro come centro12, si giunge a mostrare la sua funzione come punto di comunicazione tra cielo e terra, lo spazio in cui gli dèi hanno rivelato se stessi e dove gli uomini vanno incontro alle loro divinità. Le molte forme concrete e idee associate che manifestano questa funzione possono essere raggruppate entro quelle concernenti l’entrata dell’uomo nel regno del sacro e quelle rappresentanti una connessione tra le sfere divine e umane13 [...]. L’ingresso e l’avvicinamento verso un «centro» non possono quindi essere trascurati, necessitano di particolari attenzioni: «questo punto d’incontro deve essere salvaguardato da casuali o inappropriati rapporti con tale centro di forza»14.
L’avvicinamento avviene in quella che van Gennep definisce «zona neutra», che può avere l’estensione più diversa: da un grande territorio (una città, un monte), a un’area (un sagrato, una scalinata diretta a un santuario), fino alle parti costitutive di un edificio (pronao, nartece, vestibolo), ma anche «una semplice pietra, una trave, una soglia»15. Non si può definire con precisione quasi matematica cosa sia liminale in una chiesa; dipende dalla scelta progettuale e poi dall’esperienza di colui che «abiterà» quello spazio. Il sagrato, ad esempio, potrà ora essere luogo di separazione, ma anche avere funzione liminale e anche riaggregativa; dipenderà dalle sensazioni che sarà in grado di produrre lo spazio interno e dalla scansione rituale. La stessa chiesa può essere definita luogo liminale. Questo dipende dal fatto che qualsiasi spazio sacro è dotato di almeno u na soglia: può esserci una soglia posta sull’asse orizzontale (o una serie di soglie) oppure una soglia sull’asse verticale. La prima, vede gli spazi come successioni di esperienze sulla linea del «Lo spazio definito dalla forma costruita è sacro e cosmico in virtù del fatto di possedere un centro» in A. Snodgrass, Architettura, Tempo, Eternità, 55. 13 H.W. Turner, From Temple to Meeting: the Phenomenology and Theology of Places of Worship, The Hauge, Mounton 1979 (Religion and society), 22. 14 Ivi, 22. 15 Van Gennep, I riti di passaggio, 17. 12
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movimento, secondo il codice odologico e cinetico (dal sagrato all’abside), la seconda considera l’edificio stesso nella sua interezza come liminale e sarà accentuata «l’apertura superiore» [...] permette il passaggio da un modo di essere a un altro, da una situazione esistenziale ad un’altra [...] significa la direzione di ascesa verso il Cielo, il desiderio di trascendenza. La soglia delimita concretamente sia il «di fuori» e il «di dentro», sia la possibilità di passare da una zona all’altra16.
I concetti di soglia e margine in van Gennep e Turner sono ampi e si prestano a varie applicazioni, tanto analitiche quanto progettuali. La porta è «il limite tra il mondo profano e il mondo sacro [...]. Perciò “varcare la soglia” significa aggregarsi a un mondo nuovo»17. Van Gennep definisce i riti compiuti sulla soglia come riti di margine che prevedono una separazione dal l’ambiente precedente, ad esempio riti di «purificazione». Si pensi ai neofiti dei riti di Eleusi che una volta introdotti nell’Eleusinon si bagnavano con acqua contenuta in vasi posti vicino alla porta d’ingresso, si pensi alla fontana al centro del quadriportico di epoca paleocristiana o più semplicemente alle acquasantiere che si incontrano varcando la soglia di tutte le chiese. Gli oggetti rituali, appartenenti proprio ai riti della soglia, hanno lo scopo di aggregare il fedele al mondo sacro tramite le azioni che si compiono: s’intingono le dita della mano, si esegue il segno di croce e ci si genuflette. Quindi a questo punto si è «aggregati», ammessi al sacro e quindi proiettati, sospinti verso un nuovo ordine, verso l’azione celebrativa. Sono definiti «riti di preparazione all’alleanza preceduti essi stessi da riti di preparazione al margine»18. Prendendo infine in esame la prossemica, secondo le osservazioni di Hall, si possono fare alcune considerazioni. Gli spazi d’accesso fanno parte degli spazi preordinati: essi guidano e condizionano il comportamento dell’uomo, «imprimendosi nel Eliade, Il sacro e il profano, 114. Van Gennep, I riti di passaggio, 18. 18 Ivi, 18 e anche Turner, From Temple to Meeting: the Phenomenology and Theology of Places of Worship, 23. 16 17
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suo intimo»19. Gli spazi d’ingresso non sono accessori e la loro presenza non è indifferente perché orientano e introducono in nuovo ordine, producono esperienze. Banalizzarli o tralasciarne la progettazione significa precludere in parte la possibile efficacia dello spazio in cui si svolgerà l’azione liturgica vera e propria. L’idea d’ingresso, atrio, vestibolo è quasi scomparsa dalle abitazioni comuni: lo spazio è contratto al minimo in base al principio riduttivo dello strettamente necessario. Ciò che per secoli è stato un elemento fondamentale, la separazione tra pubblico e privato, ora è quasi scomparso. Ma il «funzionalismo ottuso» e l’«indifferenza funzionale»20 hanno perso il senso originario di funzionalismo per cui «un’opera veramente funzionale non può che soddisfare anche i nostri sentimenti. Non è infatti errato dire che ciò che è funzionale è anche bello, quando si intenda il “bello” come espressione vitale concreta»21.
4. Tipi liminali Abbandonando l’assiomatico binomio forma-funzione riusciamo ad approdare a una ermeneutica tipologica che riconosce nell’opera architettonica «modi di essere che si manifestano in figure»22. Questi elementi «si esprimono in spazio e forma e, malgrado il flusso dei mutamenti, si manifestano nella figura come qualche cosa di durevole, ossia come una Gestalt»23. Il notevole vantaggio di questa metodologia sta nel considerare come fondante il rapporto tra uomo-ambiente, che nel tempo è contemporaneamente costante e mutevole24. Qui intendiamo 19 E.T. Hall, La dimensione nascosta, Bompiani, Milano 19882 (Tascabili Bompiani, 281, Saggi), 131-132. 20 A. Cornoldi, L’architettura della casa. Sulla tipologia dello spazio domestico, con un atlante di 100 abitazioni disegnate alla stessa scala, Officina Edizioni, Roma 19913 (Manuale di progettazione architettonica, 2/1), 36. 21 C. Norberg-Schulz, Architettura: presenza, linguaggio e luogo, Skira, Milano 1996 (Architettura. Saggi), 7. 22 Ivi, 133. 23 Ivi. 24 Vedi a proposito la teoria di Giedion in Norberg-Schulz, Architettura:
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prendere in considerazione la corporeità tutta dell’uomo che percepisce uno spazio e ne ricerca un senso. Affronteremo perciò lo studio dei tipi fondandoci sulla struttura propria dell’ambiente, ossia sul rapporto terra-cielo, sui principi (uguaglianza, vicinanza, chiusura, continuità) propri della Gestalt e, infine, sulle strutture dell’uso [...], avere luogo [...] si concretizza in tre Gestalt basilari: il centro (in cui si raduna), il percorso (in cui vive) e il campo d’azione (in cui si manifesta nei suoi limiti)25.
Sono a questo punto evidenziabili delle strutture: percorso, soglia e meta26. I percorsi hanno una Gestalt definibile come direzione. La soglia, il passaggio sono spazi e hanno forme ben definite e sottolineano l’ingresso, la direzione verso qualcosa (ovviamente vi si può anche uscire, ma l’entrare è dominante). La meta è un centro, un omphalós. Percorso, soglia e meta sono strutture comuni a tutto il costruire, ma nello spazio sacro tutto questo assume un nuovo ordine, un nuovo senso, secondo la relazione simbolica che intercorre tra oggetti nel campo. Lo spazio definito dalla progettazione è caratterizzato dalla chiusura del confine. La chiusura di uno spazio può essere accentuata o allentata dalle aperture (i vuoti), ma anche dalla luce, dal colore, dalla materia [...]. Sono dunque gli spessori, i materiali, il colore, le aperture a definire lo spazio, e non la forma geometrica in sé27.
Questo significa, ad esempio, che in una stanza quadrata si avrà di volta in volta una percezione completamente differente modificando solo l’apertura d’accesso. Del fatto che essa sia geometricamente un quadrato perfetto, l’osservatore non avrà coscienza, ma saprà che tipo di carattere ha quella stanza. È in base a queste caratteristiche che analizzeremo gli spazi della liminalità. presenza, linguaggio e luogo, 10. 25 Ivi, 141. 26 Ivi, 148ss. 27 A. Marcolli, Teoria del campo. Corso di educazione alla visione, Santoni, Firenze 1983, 226-227.
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5. Lemmario dello spazio liminale La liminalità è spesso paragonata alla morte, all’essere nell’utero, all’invisibilità, all’oscurità, al viaggio, al deserto, all’illuminazione; è l’essere sospesi tra due mondi28. Lo spazio liminale ha un uso, una funzione che è lontana dal nostro contemporaneo concetto funzionalista di uno spazio: deve principalmente saper produrre un’esperienza corporea capace di introdurci nell’azione liturgica o semplicemente nello spazio sacro. Si tratta quindi di chiedere allo spazio d’essere efficace nel produrre sensazioni, stati, nel «predisporre a». Dovrà raccogliere-accogliere, separare, condurre, confinare, mostrarsi diverso dal mondo, introdurre al silenzio, al pudore. Quando si esce, recuperata la differenza, si deve ri-allacciarsi col mondo. Norberg-Schulz parla di accordo che viene a crearsi solo là dove il ritrovo diviene comunità. Questi luoghi li definisce istituzioni e tra questi quelli che si riferiscono al sacro hanno per lui un ruolo speciale. Non rappresenta soltanto un accordo ma un chiarimento, che coordina il luogo con un contesto cosmico. Con il termine «contesto» si vuole indicare qui una credenza e una visione del mondo che si esprime quale «luogo per eccellenza» [...]. Il rapporto fuori-dentro diventa rappresentazione cosciente di un intendimento unitario in cui la facciata è porta coeli e l’interno un’immagine della Jerusalem coelestis29.
5.1. Arrivo L’arrivo in un luogo prende significato se quel luogo ha una sua identità, quindi se esso è definito, recintato. «Da un punto di vista umano l’arrivo comporta l’aspettativa [...]. Il luogo d’arrivo deve poter essere rapportato a quello della partenza, per avere funzione di traguardo»30. L’arrivo coincide con la separazione da ciò da cui si proviene, poiché una volta arrivati alla meta si crea una rottura con la partenza. Quando si può finalmente entrare, l’aspettativa si concretizza nella soglia. Il luogo sacro amplifica la quotidiana esperienza dell’arrivo, anche quando questo è ripeNorberg-Schulz, Architettura: presenza, linguaggio e luogo, 16. Ivi, 38-39. Questo chiarimento consiste nell’heideggeriano gettar luce. 30 Ivi, 35. 28 29
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tuto nel tempo. L’arrivo accade in un centro, denso di significati, attraversando lo spazio disomogeneo, amorfo dei luoghi naturali e dei luoghi fatti dall’uomo per il quotidiano. Arrivare è, quindi, orientare a un luogo, nello specifico del sacro è orientare verso un axis mundi, verso un omphalós. L’arrivo al sacro, dunque, non potrà deludere, non potrà disattendere le aspettative. Il monaco benedettino-architetto dom Hans van der Laan rimase quasi «folgorato»31 dal monumento megalitico di Stonehenge che studiò e ricostruì accuratamente come dimostrano i suoi numerosi schizzi32. Nell’arrivo si aprono due possibilità: scoprire il luogo all’improvviso, dopo un percorso faticoso, oppure goderne la presenza forte e decisa già da lontano. La scelta dipende dall’esperienza che si vuole produrre. Nella prima soluzione, liminale sarà anche e soprattutto lo spazio percorso per arrivare, nella seconda la liminalità è spostata all’interno dell’edificio che dovrà avere le caratteristiche di luogo «proiettante» verso l’Altro, verso il cielo. I santuari, meta di pellegrinaggio, sono un modello paradig matico per quanto concerne l’arrivo. Turner definisce il pellegri naggio come fenomeno liminale33 poiché ne possiede gli attribu31 A. Ferlenga - P. Verde, Dom Hans van der Laan. Le opere, gli scritti, Electa, Milano 2000 (Documenti di architettura, 128), 23. Van der Laan scrive a tal proposito: «Nell’area sacra si penetrava dall’inizio del viale, a oltre 500 metri dalla corte circolare, da cui si scorgeva in lontananza il monumento di pietra. Una volta percorsa questa via di accesso, si entrava in un nuovo spazio, la corte circolare, e finalmente si passava all’interno della cella» (in Ferlenga - Verde, Dom Hans van der Laan. Le opere, gli scritti, 184) e ancora: «Questo insieme si trova al centro di un vasto campo circolare circondato da un terrapieno che attualmente raggiunge circa un metro d’altezza, ma doveva probabilmente essere più alto [...]. Il terrapieno si interrompe proprio davanti al trilite principale per permettere l’accesso all’area sacra, e quest’ingresso era in origine collegato a un lungo viale di cui sono ancora visibili le tracce. L’accesso era anche costeggiato su entrambi i lati da un terrapieno» (ivi, 183). 32 Lo spazio è formato da trenta monoliti disposti in cerchio del diametro di circa trenta metri collegati sulla sommità da elementi orizzontali, architravi di pietra. All’interno di questa sorta di muro alto circa quattro metri è collocato uno spazio chiuso da dieci monoliti più grandi ravvicinati due a due e ogni coppia è sormontata da un architrave. Queste cinque porzioni di muro costituite da triliti formano uno spazio quasi quadrato aperto su di un lato. 33 V. Turner - E. Turner, Il pellegrinaggio, 304.
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ti, le caratteristiche. Non è un semplice passaggio ma una potenzialità, «ciò che potrebbe essere»34; un partire da uno stato, aperti alla possibile trasformazione, che potrà avvenire. Il luogo di destinazione del pellegrinaggio è un luogo speciale, denso. Ha caratteristiche peculiari: un monte, un’isola, una grotta, una caverna, una fonte, una sorgente, ecc.; spesso luogo di manifestazioni, teofanie, ierofanie del passato. In qualche modo è isolato dal mondo tramite un percorso, una lunga scalinata, un vasto sagrato, anche se un mondo denso gli si fa intorno. Si decide di intraprendere un pellegrinaggio, si fa dunque un viaggio; ci si separa per accedere a un potenziale cambiamento. Già qui si entra in una prima fase liminale; poi la fase successiva, l’accesso agli spazi che circondano, che conducono al santuario vero e proprio. Il pellegrino è partito con un atteggiamento «marcatamente liminale» di obbedienza, di spoliazione, è disposto alla fatica fisica, alla privazione. Giunto al margine del santuario, s’inerpica per una lunga e ripida scalinata, percorre in ginocchio un grandissimo sagrato, ecc., il tutto accompagnato da formule di preghiera ripetute. Potremmo definirla un’esperienza di flusso, esperienza olistica di coinvolgimento totale, in cui sono attivi molti codici. La performatività dello spazio si manifesta in tutta la sua forza. Nel libro dei coniugi Turner Il pellegrinaggio, viene descritto il santuario di Lough Derg in Irlanda e il relativo pellegrinaggio. Analizziamo il genius loci del santuario: si trova in un’isola entro un piccolo lago isolato circondato da basse montagne. La strada che da Dublino vi conduce è lunga circa cento miglia. Il pellegrino vi giungeva/giunge a piedi, dunque, attraversa il lago a bordo di una barca a remi. Analizziamo ora due esempi di santuari mariani: Madonna di San Luca a Bologna e Madonna di Monte Berico a Vicenza. Fu la pratica dei pellegrini a suggerire la costruzione del lunghissimo portico bolognese verso la fine del XVI secolo. Questi avevano appeso agli alberi lungo il percorso delle immagini votive distribuite in quindici soste, una per mistero, poiché il bisogno di un arrivo efficace è naturalmente sentito. Quindi si rese necessario 34
Ivi, 37.
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strutturare lo spazio, costruendolo, dandogli ulteriore ordine in un portico di 666 arcate (numero non casuale a simboleggiare il serpente diabolico vinto dal calcagno della Vergine); la sua conformazione impedisce la vista della chiesa finché non ci si trova nelle immediate vicinanze. Si incede, faticosamente, dominati dalla ripetizione ossessiva del modulo architettonico dell’arco, ripetendo le stesse preghiere nella recita del rosario e solo alla fine si apre la vista alla chiesa. Tutto questo fa parte integrante del santuario stesso, anche se si è fuori dall’edificio vero e proprio; siamo in uno spazio liminale per eccellenza in cui molti codici secondo le proprietà tipiche del rito sono già attivi35. A Vicenza, invece, gli accessi più antichi sono due. Il primo è segnato da un arco (1574-1576) sul modello dell’arco di trionfo36 e fu progettato da Andrea Palladio; questo introduce alla cosiddetta «via delle Scalette» che, terminata, procedeva in una salita pavimentata fiancheggiata sul lato sinistro da quindici cappelle, una per mistero. Nel 1746 iniziano i lavori di costruzione dei nuovi portici per dare un collegamento più diretto tra città e santuario. Sono simili alla struttura bolognese e constano di 150 archi, interrotti da più ampie campate per la recita dei misteri. Un progetto, interessante ai nostri fini, che si sviluppa lungo un arco di tempo che va dal 1916 al 1968 è il cimitero di Malmö (Stoccolma) di Sigurd Lewerentz. Il progetto di concorso portava significativamente il motto «Crinale»; per dirla alla NorbergSchulz, questa architettura visualizza il genius loci 37. Costruisce il cimitero senza alterare i caratteri del luogo, ma anzi esaltandoli38 ponendo grande attenzione ai percorsi, dunque al giungere. 35 Cf. R.A. Rappaport, Rito e religione nella costruzione dell’umanità, EMP - Abbazia di Santa Giustina, Padova 2002 (Caro Salutis Cardo, Studi/testi, 3). 36 Precisamente l’arco di trionfo di Traiano ad Ancona; vedi F. Barbieri R. Cevese, Vicenza. Ritratto di una città. Guida storico-artistica, Angelo Colla Editore, Vicenza 2004, 114. 37 Vedi per il concetto di genius loci, C. Norberg-Schulz, Genius loci. Paesaggio, Ambiente, Architettura, Electa, Milano 20099 (Documenti di architettura, 4). 38 «L’emergenza visiva del crinale fu l’elemento utilizzato per offrire un riferimento visivo atto a orientare i visitatori attraverso una serie di percorsi [...] e circondò l’intero cimitero con un “muro” di faggi [...] avevano la funzione di isolare il cimitero dall’ambiente agricolo circostante e di infondere la
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5.2. Attimo È il momento buono, opportuno per agire; momento in cui l’uomo è pronto per l’azione liturgica. Non è un momento qualsiasi e deve portare naturalmente verso un’azione: lo stato dell’uomo sempre desto, vigilante e anche questo è uno stato liminale. Il luogo sarà un luogo vigiliare dove non si sosta a lungo, un luogo che non deve alludere a pace e sicurezza; conterrà in sé una tensione forte verso ciò che dovrà accadere, capace di costringere al passaggio. Questa tensione dovrebbe avere una valenza escatologica e l’attimo sarà coincidente con l’hic et nunc della celebrazione stessa, tutta protesa verso l’alto, verso il dopo, verso il non-ancora. La facciata e il suo essere attraversata, proprio in un attimo, può essere in grado di catturare il fedele con la sua forza, con la differenza dalle altre facciate, con la sua identificabilità. Ne è un esempio il fronte riprogettato della piccola chiesa di sant’Antonio a Genesterio in Svizzera (1999-2003), opera di Mario Botta. Tutta la piccola facciata è assimilata a un grande portale strombato che sembra quasi voler attrarre con forza al suo interno colui che, decidendo, si accinge a entrare. 5.3. Decisione In Gen 32,23-33 ci s’imbatte dapprima in una decisione: Giacobbe decide di attraversare lo Jabboq (assonanza con il verbo ebraico «lottò») in piena notte. È un attraversare rischioso che prelude un evento altrettanto rischioso, terribile. La lottaincontro col divino, lotta per il nome (Israele, «che Dio si mostri»); è il luogo dell’incontro col divino faccia a faccia, Penuel («davanti a Dio»). Il viaggio-attraversamento precede, come in una fase liminale, l’incontro con Dio in un luogo sacro. Non può distrarre, deve far concentrare su ciò che accadrà. Là si decide di rischiare; è uno spazio di possibilità, nel senso di spazio che contiene una possibilità in atto, un’attitudine. Il luosensazione di distacco dalla quotidianità che il luogo intendeva comunicare», in C. Constant, Il cimitero est di Malmö. La lenta scoperta del valore assoluto della semplicità, «Casabella» 659 (1998), 42.
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go in cui si decide se fare esperienza di apertura a ciò che verrà, di pre-disponibilità al dono. Non si decide con forza di affrontare qualche cosa di ordinario, di comune, si decide per qualche cosa di straordinario, di rischioso. La liturgia chiede questo. Qualche cosa di tremendum deve caratterizzare l’accesso al sacro. La facciata, più di ogni altro elemento, può essere in grado di suscitare tutto ciò, oppure la capacità del luogo di far sentire l’uomo sul punto di una decisione rischiosa tramite l’irrompere improvviso di uno spazio del tutto inaspettato: lo stupore. Lo stupore e la paura del trovarsi faccia a faccia con Dio. Lo stupore è ciò che colpisce in un attimo e questo è ciò che si prova stando sotto l’imponente facciata della chiesa per Grundtvig (1921-1940) a Copenaghen di Peter V.J. Klint. C’è una profonda conoscenza e maturazione della lezione gotica, ma non è figlia del revival gotico. La grandiosa facciata di mattoni (e non di pietra come le chiese gotiche) fa sì che si decida di entrare, fa intuire che dentro ci sarà qualcosa di ancora più grandioso. E per farlo non ha bisogno di narrazioni, ma solo di usare un materiale in tutta la sua potenzialità e una forma che dipende in gran parte da questioni strutturali. Così facendo, fa sentire l’uomo in tutta la sua finitezza e limitatezza. La St. John Abbey (1953-1961) di Marcel Breuer nel Minnesota ha una struttura a parallelepipedo vetrato con una maglia a nido d’ape in calcestruzzo sulla facciata; ma, staccata da questa, si erge una struttura che funge da ulteriore grandiosa facciata su arco poggiante su quattro strutture rampanti che sostengono una parete trapezoidale forata al centro per alloggiare le campane e, ancora più sopra, per la grande croce. Qui il tema del tremendum dato dal «fuori scala» si unisce al tema dell’arco come passaggio obbligato: il tutto diventa un grande arco di trionfo. 5.4. Differenza Liminale è lo spazio che prelude alla differenza con l’Altro, una differenza tra disordine e ordine del mondo e nuovo ordine dato dal celebrare; diverso da ciò che ci circonda, diverso dall’ordinario, capace di rottura, d’interruzione. La costruzione del santuario, la tenda prima e il tempio poi,
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avvengono su precise prescrizioni divine. E di prescrizione divina è anche il recinto (Es 27,9-19; 38,9-20; 40,33) e quindi lo spazio sacro assume valore di invalicabile, non trasgredibile se non da parte di chi ne ha accesso secondo permesso divino. Entro il recinto, oltre la tenda e l’altare, era collocato il bacino per le abluzioni: sono riti necessari per accedere al luogo sacro senza morire (Es 30,17-21; 40,38). Il sacro è velato, nascosto: Dio non si può vederlo faccia a faccia. Ma ecco con lo squarciarsi del velo del tempio (Mc 15,38), la rimozione del velo è insieme accesso a Dio per i non sacerdoti e i pagani (professione del centurione) e rivelazione della maestà di Dio. L’accesso al sacro cristiano è possibile per tutti dopo lo svelarsi nella croce del Figlio39. L’accesso è possibile, poiché sacro è ciò che si compie nel luogo, non il luogo stesso. Infatti i luoghi sono liberi da leggi divine per la loro costruzione, i luoghi sono innumerevoli, poiché l’accoglienza di tutti fa parte del messaggio. Si mantiene però una gradualità d’avvicinamento; il catecumenato, le catechesi mistagogiche, tutto questo avviene in spazi e tempi precisi. È questa un’attenzione alle caratteristiche universali del rito che fanno sì che esso mantenga la sua specifica connotazione mediante l’«eccettuatività simbolica»40. Il passaggio dal mondo alla chiesa ha così ricevuto una forma rituale, dove per forma rituale s’intende un gesto rituale condizionato, plasmato da uno spazio specifico. Non è un semplice passare da un luogo a un altro, ma il passaggio dal regime delle certezze e della necessità al regime aperto delle possibilità saturabili dalla grazia si attua attraverso il metodico sconcerto operato dal simbolismo liturgico41.
Varcare la soglia della chiesa è una novità: prima non era permesso a nessuno, eccetto che ai sacerdoti: attraversare l’ingresso della chiesa ha le caratteristiche di una dossologia: per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te Dio Padre 39 Cf. J. Gnilka, Marco, Cittadella, Assisi 1988 (Commenti e studi biblici), 893. 40 R. Tagliaferri, La «magia» del rito. Saggi sulla questione rituale e liturgica, EMP - Abbazia di Santa Giustina, Padova 2006 (Caro Salutis Cardo, Studi/testi, 17), 380. 41 Ivi, 394.
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Onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo... Esperienza di introduzione al mondo dei legami con Dio che ha le sue scansioni e le sue procedure42.
La cappella di Bruder Klaus (1998-2007) di Peter Zumthor a Mechernich, Eifel, costruita per volere di due agricoltori per ringraziare Dio della lunga vita loro concessa («una sorta di ex voto»43), è dedicata al patrono della Svizzera. L’esito di questo particolarissimo progetto che si basa fondamentalmente sul carattere evocativo, mediante l’uso di elementi naturali, aria, acqua, terra, fuoco e luce, è davvero suggestivo; un potentissimo contrasto tra l’esterno luminoso di cemento giallo (con gli evidenti segni della costruzione artigianale degli stessi committenti nelle linee di sovrapposizione) e l’interno quasi nero fatto dalla «memoria» dei centododici pali bruciati, tratti dagli alberi del vicino bosco, il pavimento di piombo fuso sul quale cade la pioggia dall’apertura posta sulla sommità; alle pareti trecento perle di cristallo soffiato chiudono i fori nel cemento e brillano colpite dalla poca luce che entra. La differenza quasi «sconvolge» colui che varca la soglia (porta triangolare, sormontata da una piccola croce), colui che, entrato, trova un luogo per la preghiera personale, fatto di una panca, un contenitore con la sabbia con le candele e una scultura in bronzo. L’apertura sulla sommità a sua volta è la soglia verso il Cielo, espressa secondo l’asse verticale, il più immediato e arcaico, punto di irruzione del sacro nel profano44. Un’altra piccola chiesa mostra la «differenza» tra sacro e profano, tramite elementi tipici del delimitare, nonostante essa abbia quasi caratteri domestici; è la cappella di San Nicolas a Heer- Agimont (1961) di R. Bastin e G. van Oost45. Il carattere G. Zanchi, Lo Spirito e le cose. Luoghi della liturgia, Vita e Pensiero, Milano 2003 (Sestante, 19), 37-38. 43 Dalla parole dello stesso architetto rilasciate in un’intervista pubblicata in C. Baglione, Costruire col fuoco: la cappella nell’Eifel. Chiara Baglione intervista Peter Zumthor, «Casabella» 747 (2006), 65. 44 Opera citata anche in F. Debuyst, Il battistero: fonte di vita, di luce, di perdono, in Il Battistero, a cura di G. Boselli, Atti del V convegno liturgico internazionale (Bose 31 maggio-2 giugno), Edizioni Qiqajon, Magnano 2008, 31. 45 H. van Bergeijk - O. Mácel, Guida all’architettura del Novecento, Bene42
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di chiesa-casa è quello perseguito dagli autori, ma di fatto l’alto muro che circonda il sagrato, la scalinata e il sottile campanile, posto adiacente all’ingresso, ripropongono i tipici temi della «differenza» di un luogo sacro; la posizione sopraelevata (l’altura), il recinto e l’elemento verticale (ora di collegamento al sacro, qui elemento apotropaico). Lo stacco si rende necessario, lo esige lo spazio sacro, là dove non c’è, lo spazio fallisce46. 5.5. Frammezzo È lo spazio di mezzo per eccellenza: lì, non apparteniamo né pienamente al mondo, né pienamente a Dio. Abbiamo risposto a una chiamata; ora serve la decisione. Il sagrato, spazio dalle grandi dimensioni, si apre all’improvviso nello stretto e spesso intricato tessuto urbano. La sua efficacia sta anche nella sorpresa, nella luce improvvisa che colpisce, dopo il buio dei vicoli, ma anche nella successiva calma data dal suo ordine, dalla sua misura. Regola il mondo tramite la sua forma geometrica, tramite il disegno del suolo. Un tempo, in alcuni casi, era uno dei pochi spazi pavimentati delle città. Conduce a un’esperienza di presentimento, di transizione47; apre e direziona verso l’ingresso della chiesa, come se non si potesse fare a meno di entrarvi. Il tempo «lungo» della sua percorrenza è necessario a creare lo stacco dalla mondanità, a diventare «uomini liminali», cioè in atteggiamento di transizione, di umile accoglienza, di abbandono fedele. Se è spazio potente, sa indurre al silenzio, caratteristica della liminalità. Il sagrato è spesso luogo di socializzazione, ma questa tende a essere posticipata al termine delle celebrazioni liturgiche. Alla liturgia si giunge alla spicciolata, spesso nella più piccola forma di comunità, la famiglia; ma si esce tutti insieme. Nel Medioevo, lo spazio antistante il fronte di una chiesa era considerato sacro come il cimitero che si trovava adiacente lux, Electa, Milano 1998 (Guide di architettura), 86. 46 Si veda la chiesa dei Santi Pietro e Gerolamo a Collina di Pontelungo di Giovanni Michelucci. La mimesi della chiesa con le case «dei contadini e dei poveri» fu rifiutata dagli stessi parrocchiani. 47 Cf. Zanchi, Lo Spirito e le cose. Luoghi della liturgia, 34.
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l’edificio vero e proprio. Vi si svolgevano anche attività profane, ma era come se il luogo ricevesse sacralità proprio nel momento in cui cominciava la sua funzione iniziatica. Altro elemento era il quadriportico, detto paradisus (evocazione dei giardini celesti), è un altro spazio di frammezzo; molto complesso e articolato, prevedeva una distinzione ben chiara in varie communitas che avevano raggiunto o dovevano raggiungere una certa posizione tramite l’iniziazione o le successive riammissioni48. C’è una chiara distinzione tra sacro e profano; non che il sacro non sia accessibile a tutti, esso lo è, ma con gradualità, dopo determinati riti d’iniziazione: il catecumenato prima e poi il battesimo. Motivo per cui i battisteri sono, per un certo tempo della storia, in edifici separati. Chi è nel peccato sta al margine prima di essere riammesso nella comunità, nella chiesa (edificio e chiesa coincidono). Il quadriportico della Basilica di San Pietro a Roma è descritto da Paolino di Nola, oltre che come insieme di manufatti architettonici, proprio come luogo rituale e simbolico: al centro dell’atrio, l’autore descrive la presenza di una costruzione poggiante su quattro colonne, sormontata da una cupola sotto la quale è collocata una fontana alla quale tutti si lavano le mani, simbolo del mistero di salvezza che si celebra all’interno49. 48 Il quadriportico ricalca la struttura dei modelli turneriani. Tutti coloro che decidono di entrare nello spazio sacro, salita la scalinata, accedono al quadriportico e, una volta entrati, praticano le abluzioni (ultimi retaggi delle abluzioni giudaiche) e una parte dei catecumeni deve fermarsi qui. Colui che si trova in una fase successiva del catecumenato, può sostare per gli ulteriori insegnamenti nel nartece-vestibolo a contatto della facciata. Qui, questi stessi catecumeni ritornano alla fine della liturgia della Parola, riaccompagnati all’esterno da un diacono. Anche i penitenti sostano in questo spazio per il tempo della penitenza. Questa differenziazione ha una sua efficacia antropologica: «la liminalità implica che l’alto non potrebbe essere tale se non esistesse il basso e che chi sta in alto deve sperimentare che cosa significa stare in basso» (in Turner, Il processo rituale. Struttura e antistruttura, 116). 49 G. Liccardo, Architettura e liturgia nella chiesa antica, Skira, Milano 2005, 67. Testo latino da J.-C. Picard, Le quadriportique de Saint-Pierre du Vatican, «Mélanges de l’Ecole française de Rome. Antiquité» 86 (1974), 856: «Videre enim mihi videor tota illa religiosa miserandae plebis esamina, illos pietatis divinae alumnos tantis influire penitus agminibus in amplissimam gloriosi Petri basilicam per illam venerabilem regiam cerula eminus fronte
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Nell’alto Medioevo si diffondono quelli che in tedesco prendono il nome di paradies, comprendenti il chiostro e un giardino con una fontana al centro: questo «insieme costituisce nel contempo una sorta di anticipazione (e, all’uscita, di ricapitolazione) dei grandi spazi interni»50. Il nartece è un altro spazio della liminalità e può essere interno all’edificio o esterno allo stesso (endonartece, esonartece); in epoca medievale sotto al nartece trovavano riparo i mendicanti, ma si svolgevano pure attività finanziarie. È interessante notare che il fatto di essere uno spazio tra il sacro e il profano era a garanzia che le attività di commercio e scambio fossero protette dalla frode e dal furto. Dal mercoledì delle ceneri veniva spesso allestita una «cella» tra le volte del portico d’ingresso. Qui su di un pagliericcio, giaceva, per tutta la durata della quaresima, il peccatore reo di gravi peccati pubblici che ricorreva alla penitenza solenne. La chiesa del Beato Odorico da Pordenone (1987-1992) nell’omonima città, progetto dell’architetto Mario Botta, ripropone l’uso del quadriportico. L’edificio si pone con l’asse lonridentem, ut tota et intra basilicam, et pro januis atrii, et pro gradibus campi spatia coarctentur [...]. Juvat etiam nunc in spectaculo et praedicatione tanti operis immorari. Non enim hominis, sed divina per hominem opera laudamus. Quam laetum Deo et sanctis angelis ejus de hac tua, ut dici solet, pera spectaculum sacer editor exibebas! Quanto ipsum Apostolum attollebas gaudio, cum totam ejus basilicam densis inopum coetibus stipavisses, vel qua sub alto sui culminis mediis ampla laquaeribus longum patet, et Apostolico eminus solio coruscans, ingredientium lumina stringit, et corda laetificat: vel qua sub eadem mole tectorum geminis utrimque porticibus latera diffundit; quave praetento nitens atrio, fusa vestibolo est; ubi cantharum ministra manibus et oribus nostris fluenta ructantem, fastigatus solido aere tholus ornate et inumbrat, non sine mystica specie quatuor columnis salientes aquas ambiens. Deceet enimingressum ecclesiae talis ornatus, ut quod intus mysterio salutari geritur, spectabili pro foribus opere signetur. Nam et nostri corporis templum quadrijugo stabilimento una Evangelii fides sustinet; et cum ex eo gratia, qua renascimur, fluat; et in eo Christus, quo vivimus, reveletur; profecto nobis in quatuor vitae clumnas ille aquae salientis in vitam aeternam fons nascitur; nocque ab interno rigat, et fervet in nobis: si tamen possimus dicere, vel sentire mereamur habere nos cor ardens in via, quod Cristo nobiscum in ambulante flammatur». 50 F. Debuyst, Il battistero: fonte di vita, di luce, di perdono, in Il Battistero, a cura di G. Boselli, Atti del V convegno liturgico internazionale (Bose 31 maggio-2 giugno), Edizioni Qiqajon, Magnano 2008, 30.
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gitudinale parallelamente alla strada e, sul prolungamento dei fianchi, una doppia fila di imponenti colonne, sormontate da un deambulatorio, chiude un cortile-sagrato a pianta quadrata. Al centro si trova una vasca verso cui scorre un piccolo rivolo proveniente da una fontana posta allo spigolo esterno del quadriportico. Alla chiesa si accede tramite un endonartece con due accessi ortogonali alla facciata ottenuti con l’avanzamento del corpo centrale. È un’operazione dal sapore un po’ archeologico (la fontana al centro, di fatto, non ha più la funzione del passato), ma l’efficacia di un sagrato racchiuso è innegabile; si è dunque scelto di non sviluppare il tema della porta in tutta la sua enfasi e invece si è accentuato un modo d’accedere per prospettive che si aprono man mano che ci si dirige verso il centro. Due «L» lievemente ruotate si intersecano e disegnano la pianta del convento delle suore francescane a Waasmunster-Roosenberg in Belgio (1972-1975) di dom Hans van der Laan; là dove avviene l’intersezione si crea una «piegatura» della facciata e, qui, è posto l’ingresso. Una volta varcata la soglia si accede a un piccolo quadriportico irregolare, con al centro un cortile; da un lato la chiesa e dall’altro l’ingresso al convento. La chiesa, a pianta quadrata, contiene un elemento interno a pianta ottagonale che fuoriesce da volume parallelepipedo con un ulteriore prisma finestrato. In pianta questo consente la creazione di un deambulatorio interno. Ecco dunque un «frammezzo» composito, costituito da soglie in successione, per compiere una certa gradualità al sacro51; prima il quadriportico, poi da un ingresso laterale, tipico delle chiese benedettine, una galleria in penombra che suggerisce la gradualità al sacro, prelude, prepara al «centro» luminoso dove è collocato l’altare. Ed è proprio l’accesso laterale ad aumentare l’effetto del passaggio dal buio alla luce. 5.6. Frattura La vasca battesimale scavata nella terra è una frattura; «O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, sia51 «The gradation of sanctity», vedi H.W. Turner, From Temple to Meeting: the Phenomenology and Theology of Places of Worship, 185-187.
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mo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,3-4). Tre gradini scendono e tre salgono, evocano i tre giorni, tempo stabilito da Dio. San Carlo Borromeo nelle Istruzioni sottolinea questo aspetto: «Il battistero di rito romano si organizzerà scavando il centro della cappella in modo da scendere almeno tre gradini giù dal pavimento e ottenere per questo sprofondamento la somiglianza con un sepolcro»52. Lo spazio evoca il tempo, il tempo della frattura, della liminalità. Una volta che si stabilirà definitivamente la pratica del pedobattesimo, ed eliminata dunque la vasca per immersione, verrà persa la simbologia battesimale del sepolcro. Paradigmatico, in questo senso, è il fonte battesimale della chiesa di San Pietro a Klippan (1962-1966) di Sigurd Lewerentz; sulla pavimentazione in mattoni scuri si apre una «frattura» vera e propria, delineata con un segno netto sui due lati lunghi della stretta vasca rettangolare, si ritaglia, invece, sulla forma dei singoli mattoni di cui è stata interrotta la texture, nei lati corti. Un semplice parapetto in ferro sostiene sei candele e una grande conchiglia per permettere oltre che l’immersione, anche l’infusione; una croce è incisa a terra. Si entra nella terra aperta, si è immersi nell’acqua e si esce alla luce. Ad accentuare questo effetto sono proprio i mattoni «interrotti» trattati come modulo indivisibile e quindi mai tagliati in nessun punto della costruzione53. 5.7. Grembo Il battistero, come luogo iniziatico per eccellenza, è definibile come grembo «perché esso dà alla luce e riporta alla luce, Valenziano, Architetti di chiese, EDB, Bologna 2005, 125. «[...] alcune delle regole costruttive che Lewerentz si impose. L’uso dei mattoni, ad esempio, prevedeva il rispetto rigoroso di tre principi: innanzitutto i mattoni dovevano essere utilizzati dappertutto (per i muri, i pavimenti, le volte, i lucernari, l’altare, il pulpito, le sedute); in secondo luogo, dovevano venir impiegati solo mattoni interi standard; infine, non dovevano mai essere tagliati», J.W. Colin St., Edifici e luoghi sacri, «Casabella» 687 (2001), 81. 52 53
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è insieme grembo fecondato che genera e sepolcro attraversato che rigenera; è alvus, “concavo” (tanto grembo quanto letto e sepolcro)»54. E il Benedizionale al n. 1167 della Benedizione di un battistero o di un fonte battesimale, afferma: «Il Battistero separato dall’aula della chiesa sia degno del mistero che in esso si celebra e venga riservato al Battesimo come si addice a un luogo dal quale, come dal grembo della Chiesa, gli uomini rinascono a vita nuova per mezzo dell’acqua dello Spirito Santo». Il battistero della chiesa di Cristo Operaio ad Atlantida in Uruguay (1952-1958) di Eladio Dieste è un grembo di mattoni rossi, come tutta la chiesa, ricavato sotto la stessa. Si entra da un accesso «come un prisma triangolare»55 che delimita un lato del sagrato, si scende in una «cripta circolare a cupola, coperta di terra, che si insinua a livello dell’ingresso, e viene illuminata da un lucernario di onice traslucido molto visibile»56 che all’esterno, sul sagrato, ha le sembianze di un pozzo, si risale poi attraverso una scala che dà all’interno della chiesa a lato dell’ingresso definendo lo spazio dei confessionali. Anche l’atrio è elaborato secondo le caratteristiche del grembo accogliente; l’autore se lo pose come questione fondamentale da affrontare: è stato molto impegnativo risolvere l’atrio e l’insieme che conforma l’ingresso alla chiesa; conseguire le ricercate gradazioni temporali nella lettura dello spazio interno (non completamente riuscite); articolare in un’unità l’atrio perché «accolga» realmente i fedeli57.
La facciata avanza con una sorta di ali avvolgenti e la parte inferiore si ripiega su se stessa curvandosi verso l’interno senza brusche interruzioni, ma mediante forme ammorbidite. Dopo il 1938, Emil Steffan lavora al progetto per Schlutup 2. La proposta è quella di una chiesa ipogea, non solo a motivo delle necessità causate dalla guerra, emerge infatti solo una grande torre campanaria troncopiramidale; la scelta è di ordine simbolico. Si scende come in una sorta di catacomba, un gremValenziano, Architetti di chiese, 121. Dal testo delle relazioni di E. Dieste, Chiesa. Atlantida, 1960, «Casabella» 684/685 (2000/2001), 72. 56 Ivi, 72. 57 Ivi, 71. 54 55
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bo, passando attraverso lo spazio battesimale dove è collocato il catino del fonte. C’è quasi un rapporto rovesciato, fuori la chiesa è evidenziata come elemento sacro nel campanile, sotto terra prende la forma di rifugio antiaereo e la differenza tra questo e lo spazio sacro viene reso evidente, immediatamente percepibile, tramite la semplice elaborazione di quello spazio ipogeo. Steffan riesce a farci cogliere l’impressione tramite uno schizzo in cui tutto, pareti, volta, pavimento, altare, è rosso, in mattoni. Crea così una sorta di organo corporeo (Körperorgan)58 che accoglie come in un grembo la comunità: uno spazio liminale per eccellenza in cui entrare e poi ri-emergere. L’uomo è posto, indirizzato, in uno spazio elementare fatto di ciò di cui da sempre fa esperienza, ma qui è come se lo spazio non fosse più fatto di pareti, tetto e pavimento, ma di un corpo architettonico in grado di proteggere il corpo dell’uomo, ma anche di produrre un’esperienza di totale immersione nel sacro. Questo spazio interno è chiuso e assoluto, uniforme per struttura, superficie e colore; questo riesce a renderlo sacro. 5.8. Illuminazione Photistérion, illuminatorio di luce: «Quelli, infatti, che sono stati illuminati e hanno gustato il dono celeste, sono diventati partecipi dello Spirito Santo e hanno gustato la buona parola di Dio e i prodigi del mondo futuro» (Eb 6,4-5). La luce della luna piena, che entrava dalla lanterna posta al centro della copertura dei battisteri, si rifletteva nell’acqua della vasca battesimale durante la veglia pasquale; in questa luce sono generati i figli di Dio. Ma quella del luogo del battesimo è ancora una luce fontale, non una luce piena che va riservata al luogo per l’eucaristia59. Questa luce piena solare inizia all’altare dei divini misteri. La progressiva illuminazione dal battistero all’altare, secondo un 58 U. Pantle, Leitbild Reduktion, Beiträge zum Kirchenbau in Deutschland von 1945-1950, Schnell & Steiner, Regensburg 2005, 183. 59 Cf. L. Crociani, Battistero una struttura architettonica per l’oggi, che “dice” la Chiesa. Per una progettazione dell’edificio battesimale, in L’architettura del battistero. Storia e progetto, a cura di A. Longhi, Skira, Conferenza Episcopale Italiana, Milano 2003, 193.
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percorso iniziatico della Sposa verso Cristo e di Cristo verso la sua Sposa, è la caratteristica dello spazio liturgico come luogo iniziatico delle Nozze60. Il battistero della chiesa del Sacro Cuore ad Audincourt (1954) ad opera di Jean Bazaine, con la sua vetrata totale con figurazione astratta, riesce a esprimere appieno cosa si può intendere per luogo per l’iniziazione come illuminazione. Colori caldi che si mescolano in un continuo combinarsi e riflettersi; uno spazio attraversato dalla luce che subisce una metamorfosi continua. Nella chiesa del Gesù Redentore a Modena (2001-2008) di Mauro Galantino il battistero è luogo di luce, ma non solo; è posto nei pressi dell’ingresso, in un volume con una sua identificabilità propria. Si affaccia mediante una vetrata a tutta altezza in una fontana esterna che è prosecuzione all’aperto (ma protetta alla vista da un lungo muro) dello stesso fonte. È in relazione immediata con l’ambone, per vicinanza effettiva e anche per vicinanza visiva; infatti, tramite una ulteriore grande vetrata che prosegue piegandosi sulla parete contigua a quella sulla fontana, la relazione tra i due resta evidente, anche per chi si trova nel lato opposto. Un grande pilastro cruciforme, ripetuto nei pressi dell’altare, pone il battistero in stretta relazione con quest’ultimo. Nell’acqua del fonte che prosegue all’esterno nella lunga vasca si riflette la luce e viceversa, l’acqua si riflette nelle pareti che la circondano, con un gioco cromatico ulteriore mediante il rosso della parete61. Il battistero della chiesa di Santa Maria a Marco de Canavezes (1990-1996) in Portogallo, di Álvaro Siza, situato in uno dei due avancorpi laterali, prende luce ed è visibile dall’esterno mediante una grande vetrata ed è ulteriormente illuminato da un’apertura sul soffitto, una sorta di «impluvio di luce»62 e da un’altra vetrata posta nella parte sommitale della torre, simmetricamente disposta rispetto alla struttura campanaria del corpo opposto. Ivi, 202. M. Bulgarelli, Il complesso parrocchiale del Gesù Redentore a Modena, «Casabella» 770 (2008), 62-77. 62 A. Angelillo, Álvaro Siza, chiesa a Marco de Canavezes, «Casabella» 640-641 (1996-1997), 130. 60 61
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Al centro dello spazio, il fonte, in marmo chiaro, fa scivolare l’acqua che scorre in una piccola vasca circolare sottostante, scavata sul piano di calpestio. Questo insieme è a sua volta inserito in una specie di «vasca» rivestita nello stesso marmo, posta a una quota lievemente più bassa rispetto al pavimento ligneo della chiesa. Le pareti del battistero sono rivestite in azulejo color crema «la cui superficie irregolare restituisce riflessi particolari non meno rilevanti di quelli prodotti dalle fughe che ne sottolineano la discontinuità rispetto alla parete intonacata»63. Lo spazio liminale prevede soglie successive e quindi illuminazioni crescenti delle stesse. Il giusto seguito, dunque, dovrebbe essere uno spazio per la liturgia inondato di luce piena e questo lo possiamo trovare nella chiesa di Baranzate a Milano, opera degli architetti Mangiarotti e Morassuti (1956). Materiali economici, tecnica della prefabbricazione che non si osavano applicare al sacro, riescono a rendere uno spazio di intensa forza simbolica. Dopo l’ingresso nella zona inferiore in cui è collocato il fonte si sale alla «camera alta»; le pareti di vetro a doppio involucro contengono materiale isolante bianco; questo rende l’involucro quasi immateriale. È come se si fosse fisicamente presenti alla liturgia celeste. La chiesa del Cuore di Gesù a Monaco (1997-2000) di All mann, Sattler e Wappner persegue la stessa ricerca utilizzando un volume di vetro traslucido e diaframmi mobili di legno chiaro inserito, lasciando un diaframma percorribile, in un «volume contenitore», in vetro blu. 5.9. Incontro Dopo aver attraversato la soglia si entra nel luogo, «l’aspettativa è soddisfatta, sia come scoperta sia come riconoscimento, perché attendere significa aspettarsi qualcosa che stranamente già si conosce»64. L’incontro avviene nell’aula liturgica: incon63 Á. Siza, La chiesa a Marco de Canavezes, in K. Frampton, Álvaro Siza. Tutte le opere, Prefazione di F. Dal Co, scritti di Á. Siza, Electa, Milano 1999, 380. 64 Norberg-Schulz, Architettura: presenza, linguaggio e luogo, 35-36.
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tro dell’individuo con il divino, incontro dell’individuo con gli altri65. Se l’incontro di più individui genera «accordo» questo deve avvenire in uno spazio speciale, spazio delle «istituzioni». Ma se questo avviene in ambito sacro, l’incontro-accordo per la comunità diventa chiarimento nel senso di gettar luce. Varcata la soglia, come porta del Cielo, si entra nella Gerusalemme celeste. È quindi molto più di un incontro in un punto preciso, è l’incontro in un nuovo ordine che ulteriormente proietta oltre. Si deve parlare di incontro dinamico, perché teso verso l’alto, verso il non-ancora. S’instaura una sorta di erranza; «tu vai e vieni, fino a che sei rimandato là dove non pensavi di andare»66. Il sogno di Giacobbe (Gen 28,10-22), che s’inserisce come irruzione verticale nel suo cammino, è assimilabile a un percorso iniziatico che sfocia in un incontro67. Il codice spaziale, in questo racconto, domina sugli altri e i vocaboli predominanti sono quelli di moto, sia in senso orizzontale (uscire, andare, tornare, viaggio) che verticale (salire, scendere); terra contrapposta a cielo e infine porta e casa. Giacobbe parte da un pozzo, presso Bersabea, là dove vive la sua famiglia, e si dirige verso un altro pozzo, presso Carran68, luogo sconosciuto: in mezzo, tra la partenza e l’arrivo, solo un luogo desolato. Nel deserto avviene il sogno che apre a una dimensione nuova, verticale: dalla terra al cielo, attraverso soglie successive. Poggiata a terra c’è una scala, popolata di angeli, che conduce al cielo e su di essa sta in piedi il Signore. Nell’originale ebraico è sottolineato il vocabolo «luogo», maqom, per ben sei volte69. Questo luogo non è un luogo qualunque, è luogo da temersi, perché «il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo», è la casa di Dio, bet Elohim, sulla Vedi concetto di accordo ivi, 36. J.Y. Hameline, L’accordo rituale. Pratiche e poetiche della liturgia, prefazione di P. Sequeri, Edizioni Glossa, Milano 2009 (Aestetica, 3), 76. 67 L.A. Schoekel, Dov’è tuo fratello? Pagine di fraternità nel libro della Genesi, Paideia, Brescia 1987 (Biblioteca di cultura religiosa, 50). 68 Presso Labano fratello di sua madre Rebecca che gli aveva ordinato questo viaggio per sfuggire all’ira di suo fratello Esaù. 69 «Nella tradizione rabbinica la parola ebraica per “luogo”, maqom, serve anche ad indicare Dio», in L. Kushner, In questo luogo c’era Dio e io non lo sapevo. Sette commenti a Genesi 28,16, Giuntina, Firenze 1994 (Schulim Vogelmann, 45), 29. 65
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terra, ma aperta al cielo. «E chiamò quel luogo Bet-El, casa di Dio». Non è un luogo per un atteggiamento qualunque: questo è il luogo dell’attesa dell’incontro «ed essere vigili e presenti “in questo luogo” significa incontrare Dio»70. Lo spazio liminale qui è un deserto che va attraversato partendo dalla casa paterna, lasciando quindi il mondo, per giungere a intravedere il cielo71. Questo è uno spazio di collegamento dell’umano al divino che si realizza praticamente secondo la dimensione verticale «come scale, pali e colonne, alberi e colline (alture)»72. La volta luminosa, la cupola, la vertiginosa altezza delle chiese gotiche, i canon a lumière di Le Corbusier, le absidi rivestite d’oro, l’irruzione della luce nella zona absidale, la smaterializzazione delle pareti per mezzo di vetrate, tutto ciò contribuisce all’esperienza di questo incontro dinamico che conduce verso l’alto, l’oltre. In questo senso la chiesa come edificio è tutta spazio liminale. Il percorso può essere assimilato a quello dalla terra al cielo, dal buio alla luce e la luce deve giocare un ruolo preponderante, là dove la struttura non assolve da sola a questo compito. Uno spazio senza queste tensioni-variazioni fallisce la sua partecipazione all’esperienza religiosa e all’azione liturgica che si compirà. Non può esserci immersione nella tensione escatologica in quell’uomo che celebra in uno spazio che non è in grado di suggerirla, o che addirittura la impedisce appiattendo tutto con una luce uniforme, con volumi privi di variazioni. Ivi, 30. Le antiche chiese siro-orientali presentano una sorta di corridoio rialzato che collega il bêma con il santuario, lo shqaqona. Questo negli antichi commentari viene letto come la scala di Giacobbe che poggia sulla terra, Gerusalemme e giunge al cielo oppure è letto come la via preparata dai profeti: il paradiso spazio di mezzo tra terra e cielo. Come nel sogno di Giacobbe questo è uno spazio di transito di diaconi e presbiteri, è lo spazio riservato alla processione introitale che qui procede dall’abside al bêma; è uno spazio iniziatico interno, spazio nello spazio, scala nel deserto. Questa interpretazione del luogo liturgico coincide anche con la seconda lettura midrashica del brano di Gen 28,10-22, in S. Janeras, Liturgia e architettura nelle antiche chiese siriache, in Assemblea santa. Forme, presenza, presidenza, a cura di G. Boselli, Atti del VI convegno liturgico internazionale (Bose 5-7 giugno 2008), Edizioni Qiqajon, Magnano 2009, 75-97. 72 Turner, From Temple to Meeting: the Phenomenology and Theology of Places of Worship, 24; vedi anche Gdc 6,28; 1Re 14,23; 2Re 10,26; 17,10. 70 71
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Il santuario è l’edificio sacro, come spazio di passaggio rituale (che) è direttamente legato a una transizionalità che si affronta in origine e alla fine. In altri termini, tutto ciò che, nella vita, si dipana dal movimento della separazione: nella triplice direzione che va dal soggetto verso se medesimo, verso i suoi simili e verso il volto di un Dio nascosto73.
Anche l’altare diventa «il portatore e il centro»74 dell’incontro, motivo per cui possiamo definire l’altare come soglia. L’altare «attende»75 l’incontro dell’uomo. L’incontro, dispiegantesi sulla linea orizzontale, quindi secondo un movimento verso l’altare o la zona a esso riservata è per Miguel Fisac la caratteristica peculiare di uno spazio sacro ed egli lo chiama dinamismo; «movimento materiale dell’ambiente verso l’altare. La sua argomentazione simbolica e funzionale è quella di sostenere l’idea che durante la celebrazione religiosa i fedeli muovano in processione verso la luce divina»76. È nella chiesa della Coronaciòn de Vitoria (1958) che porta a sviluppo questo tema. Due sono le linee murarie che disegnano la pianta; un muro obliquo, retto, di mattoni, «muro statico»77, interrotto da una serie di strette ferritoie verticali (celosias78), sovrapposte, sfalsate e un muro curvo, bianco, «muro dinamico»79, Hameline, L’accordo rituale, 75. F. Debuyst, L’altare: opera d’arte o mistero di presenza, in L’altare. Mistero di presenza, opera dell’arte, a cura di G. Boselli, Atti del II convegno liturgico internazionale (Bose 31 ottobre-2 novembre), Edizioni Qiqajon, Magnano 2005, 31. 75 «Esso attende» è riferito all’altare nelle parole di van der Meer riportate ivi, 32. 76 P. Gil, L’architettura di chiese in Spagna nel XX secolo, in Architettura e Liturgia nel Novecento. Esperienze europee a confronto, a cura di G. Della Longa - A. Marchesi - M. Valdinoci, Atti del II convegno internazionale (Venezia 7 e 8 ottobre 2004), Nicolodi, Rovereto 2005 (Arte, architettura, liturgia nel XX secolo, 2), 75. 77 E. Delgado Orusco, Le chiese di Miguel Fisac, in Architettura e Liturgia nel Novecento. Esperienze europee a confronto, a cura di G. Della Longa - A. Marchesi - W. Zahner, Atti del VI convegno internazionale (Venezia 6 e 7 novembre 2008), Alcion Edizioni, Lavis 2010 (arte, architettura, liturgia nel XX secolo, 5), 141. 78 Ivi, 141. 79 Ivi, 139. 73
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che lo avvolge là dove il primo s’interrompe, formando un’abside luminosa di cui non si percepisce la fine a causa di una grande apertura nascosta alla vista. Lo sguardo e l’attenzione del fedele sono costretti in questo movimento verso l’altare e oltre, verso l’abside: sono condotti all’incontro. Lo stesso tema, sviluppato sull’asse verticale, trova interessante soluzione nel crematorio Baumschulenweg a Berlino (19961999) dello studio Axel Schltes Architekten; qui alte colonne in calcestruzzo si stagliano non a sorreggere la copertura, ma si elevano al di fuori di essa, attraverso uno «sfondato» luminoso, conducendo oltre. 5.10. Oltrepassamento È il luogo del passare oltre: lì non si sosta a lungo. Si prosegue verso un’altra meta. Lo sguardo stesso non riesce a fermarsi: è in movimento, oltrepassa perché «incontrando una superficie o un oggetto, si trova deviato, dissestato»80. Lo spazio dell’oltrepassamento deve accentuare il desiderio di «scorgere ciò che rimane esteriormente precluso»81. Non deve, altresì, diventare un’affannosa ricerca, incapace di gustare ciò che, hic et nunc, gli è dato pre-gustare. La scala, la promenade per salire, per dirigersi verso l’alto, rappresentano alcune tra le efficaci possibilità. Romano Guardini nel suo I santi segni, descrive l’esperienza del salire i gradini in un capitolo a essi dedicato: Ecco ad esempio i gradini. Li hai saliti infinite volte. Ma hai penetrato quello che, in quel mentre, avveniva in te? Avviene infatti qualcosa in noi quando ascendiamo. Soltanto, è cosa molto delicata e silenziosa, che si può facilmente lasciar perdere senza percepirla [...]. Quando saliamo i gradini, non sale soltanto il piede, bensì anche tutto l’essere nostro82.
Strutture spaziali di chiesa che favoriscono quest’esperienza sono quelle che Schwarz definiva come Wegkirche; il «sacro viaggio», il cammino (Weg) è lo sviluppo dell’anello aperto. Hameline, L’accordo rituale, 77. Ivi, 77. 82 R. Guardini, Lo spirito della liturgia. I santi segni, Morcelliana, Brescia 2007 (Opere di Romano Guardini), 143-144. 80 81
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Il centro si sposta ulteriormente fuori, e quando poi alla fine il centro, il cuore si ritrae a distanza infinita, gli sguardi orientati verso l’infinito si volgono ad esso paralleli mentre perpendicolarmente si forma la fila [...]. La via della preghiera scorre dal tramonto verso il sorgere del sole. Pregando gli uomini tornano a volgersi ad Oriente. Essi rimettono [a Dio] la via della storia [...]. Così la sua marcia diventa preghiera e processione sacrificale83.
La chiesa a Hohenzollernplatz a Berlino (1930-1933), dell’architetto espressionista tedesco Friz Höger, riesce nell’intento di dare, mediante un profondo avancorpo – memoria e rilettura del Westwerk – il valore di oltrepassamento. Il primo tratto dell’elegante scalinata, esempio di uso magistrale del laterizio, fuoriesce con andamento circolare rispetto al volume dell’edificio, ripetendo il gioco dei due volumi semicilindrici che definiscono il fronte; poi un altro tratto si arresta all’imposta del grande e profondo arco acuto, quasi un nartece; entro questo spazio si sviluppa l’ultimo tratto di scalinata. Qui la parete di fondo è rivestita da una texture in mosaico dorato con inserti in blu di vago sapore neogotico. La forma dell’arco e la materia luminosa di fatto preludono a ciò che accadrà all’interno; una serie di grandi archi acuti intervallati da vetrate che riflettono luce su tutta la superficie interna (oggi colorata in seguito alla realizzazione delle vetrate a opera di Achim Freyer, 1991). Non c’è spazio di sosta qui: lo spazio è fatto per essere percorso, attirati verso una meta di cui si ha una sorta di anticipazione formale. 5.11. Silenzio È l’atteggiamento dell’uomo liminale: il luogo della liminalità deve favorire l’ascolto, l’accoglienza. Sarà vuoto, vuoto che fa spazio, che prelude al senso. Turner evoca l’invisibilità, l’oscurità, il deserto84. Il silenzio come «solitudine alla presenza dell’Altro, e degli altri; che integra in sé l’intervallo, e dunque permette R. Schwarz, Costruire la chiesa. Il senso liturgico nell’architettura sacra, Morcelliana, Brescia 1999, 141 e 155. 84 Turner, Il processo rituale. Struttura e antistruttura, 112. 83
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allo sguardo di cercare autenticamente, senza bramosia, come anche di ricevere senza possedere»85. In termini spaziali il silenzio è espresso dal vuoto. Romano Guardini ci dà una mirabile descrizione di cosa sia il vuoto in uno spazio sacro descrivendo la chiesa St. Fronleichnam ad Aquisgrana (1930) di Rudolf Schwarz. Guardini si pone dalla parte di colui che potrebbe considerarla una chiesa «vuota». Ma chi si ferma alla percezione di vuoto è forse colui che «non sente la calma silenziosa [...] il puro essere presenti di cose plasmate semplicemente»86. Costui, che necessita di uno spazio saturo di oggetti e immagini, è anche chi non «sopporta il silenzio»87. Dunque l’apparente vuoto dato dall’assenza di immagini e ornamenti coincide col silenzio, e «dal silenzio di queste ampie pareti può sbocciare un’idea della presenza di Dio»88. La chiesa di St. Fronleichnam di Rudolf Schwarz ad Aquisgrana, è stata una pietra miliare per l’architettura sacra tedesca, austriaca e svizzera. È un’ode al silenzio, un’architettura in grado di essere essa stessa soglia, tra la terra, il pavimento di pietra nera e il cielo, le nude e bianche pareti concluse in un «neutro», nella forma e nel colore, soffitto. Schwarz stesso scrive: «Ciò che è “terra” venne ricavato da una pietra naturale scura, mentre tutto ciò che aspira ad allontanarsi da essa divenne alto e luminoso»89. Non c’è mediazione fisica alcuna tra pavimento e pareti, queste sono «membrana in tensione»90, non chiusure: pareti nude che non sono vuote, sono silenzio e come tali presenza di Dio. L’assenza della struttura, nel senso del suo essere celata, va letta in questo senso; la struttura lasciata in tutta la sua evidenza, se non addirittura mostrata con esasperazione, di molta architettura sacra contemporanea o precedente, avrebbe impedito il silenzio. Per Schwarz «il silenzio dell’architettura» Hameline, L’accordo rituale, 77. C. Baglione, Il mondo sulla soglia. L’architettura sacra di Rudolf Schwarz, «Casabella» 640/641 (1996/1997), 40. 87 Ivi, 40. 88 Ivi, 40. 89 W. Pehnt - H. Strohl, Rudolf Schwarz, 1897-1961, Electa, Milano 2000, 84. 90 Ivi, 84. 85 86
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era fondamentale. L’assenza stessa diventa presenza potente: qui si situa la scelta della nudità, dell’aniconico. Nell’Antico Testamento troviamo questa possibilità di potenza del silenzio nell’oracolo di Balaam. Balaam è un uomo di Dio e prima di benedire Israele rivolse «la sua faccia verso il deserto» (Nm 24,1): verso il silenzio. Solo il silenzio, il vuoto fanno sì che egli possa avere uno sguardo che scruta le profondità (occhio penetrante), che possa udire le parole di Dio, che possa vedere la visione dell’Onnipotente che possa conoscere la scienza dell’Altissimo (Nm 24,3b-4; 15b-16). Solo nel silenzio «gli è tolto il velo dagli occhi» (Nm 24,16). Il monaco architetto dom Hans van der Laan, sul silenzio come assenza di decorazione, scrive: La bellezza di un edificio destinato a chiesa non attiene infatti all’eventuale presenza di elementi decorativi fittizi, ma è insita nella sua stessa composizione: sono gli elementi costitutivi dell’ordine di grandezza più piccolo a farsi ornamento di quello superiore – le gallerie a conferire bellezza a tutta la chiesa91.
Silenzio è anche lo spazio vuoto attorno all’altare o al centro delle disposizioni, Communio: «in tal modo il centro libero è anche espressione del totalmente Altro che si dona, che prenderà dimora nella comunità»92. Il centro dell’assemblea vuoto fa sì che l’assemblea sia comunque rinviata al suo centro eccentrico, cioè Dio cui essa si rivolge per mezzo di Cristo nello Spirito Santo. La distanza obbligata da un oggetto rende quell’oggetto desiderabile, stra-ordinario, sacro (l’altare). La distanza si materializza nello spazio vuoto, altrettanto denso di un pieno. Il vuoto, elemento progettuale di uno spazio sacro, diventa il luogo di possibilità del darsi del totalmente Altro: il vuoto, dunque come disposizione accogliente al dono. Il primo importante grande esempio nella storia è la chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli : i fedeli stanno nelle navate per lasciare il centro vuoto H. van der Laan, Liturgia e architettura. Delle forme in generale, in Ferlenga - Verde, Dom Hans van der Laan. Le opere, gli scritti, e in H. van der Laan, Liturgia e architettura, «Casabella» 640/641 (1996/1997), 83-85. 92 W. Zahner, L’architettura di chiese in Germania nel XX secolo, in Architettura e liturgia nel Novecento. Esperienze europee a confronto, 61. 91
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che corrisponde alla grande cupola centrale. Il vuoto accoglie al centro l’ambone monumentale. Il vuoto, qui permette di «sprecare tempo» (ad esempio, nel percorrerlo durante le processioni rituali), di rendere esplicito il tempo della festa, che è un tempo ludico, tempo gratuito93. È anche lo spazio del tempo dell’attesa dei tempi escatologici, il sabato santo. La chiesa del Gesù Redentore a Modena (2001-2008) di Mauro Galantino sceglie questa disposizione liturgica e crea un ellisse vuoto al centro tra altare e ambone che si fronteggiano e l’assemblea disposta attorno, ma aperta là dove sono collocati i due poli liturgici. La grande vela del soffitto bianca accentua l’effetto del silenzio che cala come presenza. Dom Hans van der Laan è l’architetto di una «architettura senza commento [...] vuoto creato per fornire alla realtà l’occasione di manifestarsi»94. La chiesa dell’Abbazia di Vaals, Olanda (1956-1986) è a pianta basilicale costituita da una navata centrale più alta, finestrata nella parte superiore, e da un deambulatorio più basso in penombra. Pochi elementi, sbarra, piastra, cubo, le tre forme principali secondo l’architetto, un numero limitato di materiali e colori, «gli scabri muri grigi, le architravi e i parapetti in cemento, il legno in tinta unita grigia stagionato all’aperto»95, tutto questo si compone in una sorta di silenziosa semplicità. Questo silenzio espresso nella misura, nell’ordine diviene possibilità di presenza. 5.12. Soglia È il passare da un luogo a un altro entrando: passare dall’esterno all’interno di un luogo. Turner parla di paragone con la morte, al fatto di essere nell’utero, analogie all’essere sulla soglia96. Quindi l’entrare in uno spazio liminale deve ricondurre a esperienze forti, potenti, di rottura, di interruzione. La soglia Cf. Guardini, Lo spirito della liturgia. I santi segni. W. Arets - W. van den Berg, Architettura senza commento, «Casabella» 634 (1996), 47. 95 Ivi, 49. 96 Cf. Turner, Il processo rituale. Struttura e antistruttura, 112. 93 94
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dà la possibilità di infrangere il recinto, la demarcazione di un luogo, là dove la demarcazione è ciò che concede identità a un luogo. Segna il confine tra il mondo terreno, soggetto al peccato, e il luogo sacro: da qui avverrà l’incontro con il luogo. Il portale romanico e gotico combina due elementi costruttivi, la porta e la nicchia97. Il primo con funzione di passaggio da un mondo a un altro, è varcare la soglia, è abbandonarsi a Cristo: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà troverà pascolo» (Gv 10,9). La promessa di salvezza è rivolta a chi attraversa la porta che è Cristo; questa è la condizione di salvezza. Il secondo, la nicchia è luogo di epifania divina, «un’iconostasi che rivela e nasconde al tempo stesso il mistero del Santo dei Santi; e in tal senso è anche un arco di trionfo e trono di gloria»98. Il termine a¡ ulh¢ (Gv 10,1) nella LXX assume vari significati e si riferisce anche alla zona sacra del tempio di Gerusalemme e questa stessa accezione cultuale è nuovamente sottolineata in «chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore» (Gv 10,2), quindi questa porta è quella del tempio «senza il quale non ci si può accostare alla presenza di Dio per ricevere vita e salvezza»99: il guardiano apre la porta e rende possibile l’incontro (Gv 10,3). La possibilità di relazione, dell’incontro è data dall’ascolto (atteggiamento dell’essere liminale) e poi la sequela a questo successiva: ecco dunque il luogo della Parola, l’ambone, come seconda soglia. Ma dalla porta si entra e si esce, con queste «si illustra la libertà di movimento nel ricercare e quindi nel trovare “pascolo” [...]. Se precedentemente era chiaro soltanto il luogo che le pecore dovevano abbandonare, l’ovile-recinto, adesso si rende noto anche quello che esse devono raggiungere, il pascolo (noCf. T. Burckhardt, L’arte sacra in oriente e in occidente. L’estetica del sacro, Bompiani, Milano 2003 (Tascabili Bompiani, 263), 71-72. 98 Ivi, 82. 99 S. Grasso, Il Vangelo di Giovanni, commento esegeticoteologico, Città Nuova Editrice, Roma 2008, 437, inoltre le citazioni Gen 28,17; Sal 78/77,23; 118/117,20; Mt 7,13-14; Lc 13,24; At 14,27; 1Cor 16,9; Ap 4,1; 1En 72-75; 3Bar 6,13. 97
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me¯ )»100; la soglia deve alludere sempre a una serie di incontri successivi, di cui l’ultimo sarà il pascolo; l’altare e più oltre il non-ancora. Un’attenta gradualità alla successione degli incontri la si trova nella cappella degli studenti in Peter Jordanstrasse a Vienna (1963) di Ottokar Uhl. Si entra lateralmente (prima soglia) in una zona oscura; questa è la zona riservata all’accoglienza-ascolto della Parola (seconda soglia). Da questo «recinto» costituito da quattro pilastri in calcestruzzo si accede al «pascolo» (terza soglia); l’altare, invaso dalla luce tutta proveniente dall’alto tramite un lucernario a soffitto che occupa questo secondo spazio. Sulla direzione verticale, ecco, il pregustare l’ultimo incontro, il Cielo. Il portale, lungo la storia, è diventato il primo «luogo» in cui si narrava, tramite la scultura la Scrittura; di solito gli episodi della vita di Gesù, ma non mancano anche alcune rappresentazioni cristologiche tipiche, Gesù in trono, tra gli apostoli, ecc. Ma l’istoriazione lapidea o pittorica avviene secondo «un simbolismo aggiunto conforme al simbolismo inerente all’oggetto»101. La capacità d’ordine inizia proprio nel punto di passaggio tra il fuori e il dentro. Il tempo prende ordine sulla soglia; nelle chiese romaniche Cristo è annus, al centro di un cerchio, al centro della ruota del tempo nei rilievi sopra il portale; varcare il portale della chiesa equivale a superare il confine del tempo, entrando nell’Eternità [...]. Entrando in chiesa attraverso il portale di Cristo Chronocrator, il pellegrino supera il confine del tempo; entra nel Presente di Cristo, di Lui che è «il Giorno veramente eterno e infinito» e «il vero Anno del mondo». Passa cioè nel regno dell’Eternità102.
Certe raffigurazioni mostruose ai lati e sopra il portale delle chiese gotiche o romaniche, gli arcangeli, hanno funzione apotropaica; sono «i guardiani della soglia»103. Ivi, 442. Burckhardt, L’arte sacra in oriente e in occidente, 72; 81. 102 Snodgrass, Architettura, Tempo, Eternità, 294. 103 Van Gennep, I riti di passaggio, 19. 100 101
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Il portale potrà quindi esasperare le dimensioni in altezza fino a occupare tutta la facciata accentuando l’esperienza della differenza con il totalmente Altro, oppure potrà esasperare la profondità facendola diventare spazio d’esperienza di passaggio che impiega un tempo determinato, o ancora assumere la valenza dell’accoglienza con le porte spalancate sovradimensionate. La facciata della chiesa di Christus Koenig a Leverkusen (1927-1928) o della chiesa di St. Camillus a Mönchengladbach (1931) di Dominikus Böhm sono disegnate in funzione del grande portale centrale; nella prima, l’apertura fortemente strombata, occupa gran parte della facciata a doppio spiovente, con la doppia anima di grande vetrata e portale; nella seconda il portale è ritagliato secondo un arco strombato, stretto e alto, affiancato da due finestre archivoltate più basse su di una facciata rettangolare dalla superficie di mattoni irregolare, con dei raffinati giochi di asimmetrie, consistenti in nove piccole forometrie ad arco a tutto sesto in alto a sinistra a cui fanno riferimento sulla sommità di destra un gruppo di tre croci. La facciata della chiesa di Santa Maria a Marco de Canavezes (1990-1996) in Portogallo di Álvaro Siza è incorniciata da due avancorpi simmetrici, quello di sinistra contiene il battistero, quello di destra è «l’ingresso quotidiano», sormontato dalla struttura campanaria inserita nel medesimo volume caratterizzato dalla presenza della scala. Da qui si accede all’aula, passando sotto alla cantoria (nartece). Questi due elementi di facciata racchiudono un’eloquente e potente soglia, un grande portale alto dieci metri, in ferro all’esterno e in legno all’interno; si staglia sul candore della superficie ancorata alla terra tramite il basamento in lastre di granito che qui si alza fino alla quota della porta laterale e della finestra del battistero. Il tema della porta si identifica totalmente nella facciata nella chiesa del Cuore di Gesù a Monaco (1997-2000) di Allmann, Sattler e Wappner; due grandi ante di circa venti metri di altezza di vetro blu si aprono all’esterno sul sagrato, come due braccia accoglienti. Ci sono soglie successive dopo la prima grande porta; le porte regali dell’iconostasi e poi l’altare stesso: «L’altare: la soglia» è il titolo di un capitolo del libro Meditazione prima di celebrare la
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Santa Messa di Romano Guardini. Frédéric Debuyst, in un suo saggio, riporta le parole del teologo tedesco per il quale l’altare è una soglia, segna un limite104, «una frontiera tra lo spazio del mondo e lo spazio di Dio, tra l’immediatezza dell’umano e la trascendenza del divino»105. Ne I santi segni, là dove parla dei gradini, afferma che «l’altare è la soglia dell’eternità»106. Analizzando il Rito di dedicazione dell’altare appare chiaro il simbolo altare-soglia, come luogo che dalla terra conduce al Cielo: «Concedi ai tuoi fedeli oggi raccolti intorno a questa mensa e a quanti in futuro vi celebreranno i santi misteri di giungere insieme nella Gerusalemme del cielo»107. Dall’altare riparte anche il cammino verso il mondo ed è quindi soglia verso il tornare; riaggregazione secondo i termini turneriani108. Nella chiesa di St. Maria Königin a Saarbrücken (1954-1961) di Rudolf Schwarz, l’altare è soglia. È posto al centro del transetto di una chiesa a pianta a croce latina in cui i bracci chiusi in quattro absidi formano una pianta a trifoglio. L’altare è al centro di ciò che l’architetto aveva definito come «anello aperto», ma la sua sopraelevazione su tre gradini e una ulteriore pedana, che è disegnata ricalcando la grande abside e protendendosi fino alla crociera, ne mantiene un grande spazio vuoto tutt’attorno. Grandi vetrate si aprono tra le absidi, a forma di parabole che si incontrano agli innesti del transetto; con il loro movimento non fanno altro che accentuare l’effetto ascensionale. L’abside dietro l’altare è potentemente profonda e vuota, nessun timore di «sprecare spazio»; è l’ultima soglia. 104 F. Debuyst, Chiese. Arte, architettura, liturgia dal 1920 al 2000, Silvana Editoriale, Milano 2003, 140. 105 Ivi, 140. 106 Guardini, Lo spirito della liturgia. I santi segni, 145. 107 Benedizione dell’acqua e aspersione. Rito di dedicazione dell’altare e anche in: Preghiera di dedicazione. Rito di dedicazione dell’altare: «Sia il centro della nostra lode e del comune rendimento di grazie, finché nella patria eterna ti offriremo esultanti il sacrificio della lode perenne con Cristo, pontefice sommo e altare vivente». 108 «Sia la mensa del convito festivo a cui accorrano lieti i commensali di Cristo e sollevati dal peso degli affanni quotidiani attingano rinnovato vigore per il loro cammino». Preghiera di dedicazione. Rito di dedicazione dell’altare.
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La cappella Kresge, MIT, Cambridge, Massachusetts (19501955) di Eero Saarinen è priva di aperture, aconfessionale. Eppure, architetto e artista (Harry Bertoia) in questa piccola cappella hanno realizzato un’opera di altissimo valore come efficace spazio liminale. Attraverso una bassa galleria vetrata posata sul terreno (frammezzo) si attraversa come su un ponte (decisione) una vasca d’acqua circolare da cui si erge un cilindro sorretto da basse arcate. Attraversata la porta (incontro), lo spazio interno è costruito come un secondo involucro ondulato tutto in mattoni (grembo), è dominato da un altare di marmo chiaro, posto su tre gradini (soglia); sopra l’altare, l’unica fonte luminosa colpisce dall’alto un guscio a nido d’ape dorato da cui scendono fili metallici a cui sono appese centinaia di piccole lamelle (soglia verso il Cielo). 6. Conclusione Con il proprio fare l’uomo conosce e abita il mondo che lo circonda, innescando il processo di «modificazione» del reale che costituisce uno dei principali significati a cui è possibile ricondurre non solo l’architettura costruita ma anche quella solo immaginata, per cui ogni progetto è «l’occasione per individuare un luogo nello spazio compreso fra terra e cielo»109.
Partendo da questa affermazione, tratta da un saggio introduttivo all’opera dell’architetto norvegese Sverre Fehn, ho inteso accomunare un «mondo» appena modificato dalla presenza dell’uomo con una architettura «solo immaginata»: i luoghi dell’incontro tra Dio ed Elia (1Re 19,4-12) e il progetto per la Basilica della Sainte-Baume di Le Corbusier su ideazione di Eduard Trouin110. G. Postiglione, Mellom jord og himmel. Fra terra e cielo, in C. Nor- G. Postiglione, Sverre Fehn. Opera completa, introduzione di F. Dal Co, Electa, Milano 1997, 53. 110 Per la storia di questo progetto rinvio allo studio di G. Gresleri, La cattedrale inghiottita, in Gi. Gresleri - Gl. Gresleri, Le Corbusier. Il programma liturgico, Editrice Compositori, Bologna 2001, 46-69. 109
berg-Schulz
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Lo spazio dell’architettura riservato al lavoro dell’uomo è lo spazio di mezzo111, spazio al quale «l’architetto assegna specifiche caratteristiche attraverso la manipolazione dei limiti orizzontali»112. Ma lo spazio che per eccellenza è «spazio di mezzo» è proprio quello della liminalità, luogo che si prende carico della differenza generata dagli irriducibili opposti del sacro. La sezione della cappella, schizzata da Le Corbusier, porta il segno della geniale intuizione di padre Couturier, e sembra disegnare i luoghi e i percorsi affrontati dal profeta Elia. Sono percorsi e luoghi originari del sacro. Questo spazio ipogeo, è recintato «rubando terra alla terra», non ha bisogno di aggiunte. Riprendo quindi alcuni termini del lemmario sopra illustrato, volendoli accostare agli spazi evocati dal racconto biblico, in una sequenza temporale che descriverà un vero e proprio cammino iniziatico. Egli s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino (lemma) Arrivo
(luogo) Deserto
Il profeta Elia fugge, lascia la città, Bersabea di Giuda, e arriva nel deserto. Luogo denso di significati per eccellenza: attraversarlo richiede fatica, un attraversare che fa presentire, perché lo si intravede, il luogo sacro, lontano e alto. Il pellegrino lascia la cittadina di Saint Maxime e giunge alla foresta della Saint Baume: da qui intravede il monte. La foresta come il deserto è tutta uguale, senza riferimenti, difficile, temibile. [...] Andò a sedersi sotto una ginestra
Frammezzo
Ginestra
Nell’illimitato di un deserto, privo di misura, inondato di luce, Elia si side sotto a una pianta, questa dà una misura e fa ombra. La ginestra è un elemento di transizione, dà una gradualità al percorso. È uno spazio in cui non si appartiene né al mondo né a Dio. Elia qui risponde a una chiamata: l’angelo gli 111 112
In norvegese, Mellomrom, ivi, 53. Ivi, 53.
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ordina di bere e mangiare (un cibo che viene dal Signore). Lo aspetta una decisione. Le Corbusier, abbandonata l’idea di costruire una immensa basilica alta 350 metri113, così come l’aveva immaginata Eduard Trouin, pensa a degli edifici circolari, forse edifici di sosta per i pellegrini. [...] camminò per quaranta giorni e quaranta notti Decisione Deserto Elia decide di attraversare il deserto, è una decisione rischiosa, ma ancor più rischioso sarà l’incontro col divino. Elia ha deciso di rischiare, prima aveva detto al Signore: «Prendi la mia vita, perché non sono migliore dei miei padri» e si era addormentato. Ora ha deciso di aprirsi a una possibilità di incontro, un incontro straordinario. Ora il pellegrino decide di percorrere il Plan-d’Aups, attraversando con fatica una grande foresta, «forêt d’Angleterre avec le ciel et le sol du Midi»114. [...] fino al monte di Dio, l’Oreb Incontro
Monte
Il cammino avvenuto secondo un movimento orizzontale ora cambia direzione e prende quella verticale. Elia sale sul monte, il monte di Dio; è andato dalla terra al cielo. Il monte, è uno spazio speciale della natura che collega l’umano al divino, da sempre scelto dall’uomo come luogo che conduce all’incontro. Il monte è un luogo dinamico, vi si sale e, una volta saliti, si è ancora condotti oltre. Ora il pellegrino è giunto ai piedi della cresta, le Pilon, che si erge quasi verticale di fronte a lui. 113 Trouin scrive: «Lei ha riconosciuto l’insostenibilità del luogo, ha rifiutato il mortale onore di innalzarvi un “segno”, ma mi ha gridato nel vento di marcare con tre pietre, il punto della giusta prospettiva [...]. “Piantiamo – lei rispose – qualche edificio, magari circolare, che lei sistemerà come pedine sulla scacchiera del suo altopiano”», in Gresleri, La cattedrale inghiottita, 61. 114 Ivi, 64.
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Là entrò in una caverna per passarvi la notte
Grembo
Caverna
Elia vi entra e, dopo la parola del Signore, esce. Spazio in cui si entra per riemergere, è lo spazio chiuso primordiale che ha protetto l’uomo da sempre (Elia vi passa la notte), e qui il Signore si rivolge a Elia come Parola. L’interpretazione esegetica di Jeremias, a partire da un testo di Qumran, parla infatti di presenza di Dio nel culto, di Dio presente nella sua parola115. Il pellegrino entra nella grotta santa mediante un ascensore tramite il quale giunge al «balcon du ciel»116. Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera
Silenzio Visione
Elia è uscito e di questo luogo non si dice nulla, solo si menziona il silenzio come un soffio simile a «una voce o suono di silenzio lieve»117. Solo nel silenzio è possibile percepire la presenza dell’Altro. Ora il pellegrino, uscito dalla grotta, entra in un percorso ipogeo, «le chemin de perfection»118 attratto nella «conçue à la manière des Arènes antiques». Il pellegrino è attratto dal cielo, l’ordine è dato dal legame col cielo. Infatti, Elia alla fine deve uscire dalla caverna, l’uomo che entra nella Basilica, invece, vi resta perché, alcuni condotti – dei canon a lumière – avrebbero introdotto nella «cattedrale inghiottita»119, il cielo. L’ordine del cielo, dato dai suoi elementi, sole, luna e stelle sarebbe entrato nella terra: il cielo tutto 115 M. Nobile, 1-2 Re. Nuova versione, introduzione e commento, Paoline, Milano 2010 (I libri biblici, primo Testamento, 9), 227-228. 116 Gresleri, La cattedrale inghiottita, 64. 117 Nobile, 1-2 Re, 227. 118 Gresleri, La cattedrale inghiottita, 64. 119 Ivi, 46.
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sarebbe entrato in contatto con il grembo in silenzio attorno all’uomo pronto ad accogliere il Signore. E di padre Couturier è l’intuizione della «sonorizzazione della luce»120, quasi avesse voluto evocare «il sussurro di una brezza leggera». Il cammino per-nel luogo sacro è segnato da una serie di soglie diverse, che possono essere in successione temporale e spaziale, che non necessariamente ubbidiscono a una logica di un prima e un dopo, ma alle volte è la logica del come condurre all’incontro. Lo spazio accompagna l’uomo alla soglia verso la meta plasmando, là dove esso risulta efficace, il suo modo di accedere, stare nel sacro e nel rito.
120
Ivi, 46.
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LA LIMINALITÀ DELLA MUSICA LITURGICA Luigi Girardi
Il significato dell’espressione musicale nella liturgia non è facilmente dominabile da un approccio riflessivo. «Le “funzioni” di un’azione di canto sono molteplici e difficilmente attribuibili», scrive Jean-Yves Hameline1. E se molteplici sono le funzioni, diverse sono anche le risorse strategiche con cui la musica globalmente persegue la sua efficacia; la quale, a sua volta, dipende da altre numerose e differenti variabili contestuali. Parlare, poi, della liminalità del canto e della musica nel momento rituale risulta ulteriormente complesso, almeno per questi due motivi : anzitutto per il fatto che la musica si intreccia con l’insieme dei linguaggi rituali che danno corpo alle azioni liturgiche e tale intreccio deve essere tenuto presente per interpretare adeguatamente la funzione rituale della musica; in secondo luogo per il fatto che, pur limitando l’attenzione alla liminalità dell’esperienza musicale nel rito, non si può separare nettamente questo elemento dalle altre funzioni che la musica pure esercita. In ogni caso, si cercherà di trattare qualche aspetto del tema mettendo in luce la capacità della musica di «trasferire» l’agire celebrativo a un ambito simbolico di esperienza che è il luogo proprio dell’esperienza rituale. Il fenomeno musicale potrebbe certamente essere accostato tenendo presenti molte distinzioni. In realtà, volendo individuare una caratteristica fondamentale della musica liturgica, ci si 1 J.-Y. Hameline, L’accordo rituale. Pratiche e poetiche della liturgia, Glossa, Milano 2009, 179.
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riferirà a essa in termini generali, includendo (salvo diverse specificazioni) sia l’espressione vocale sia quella strumentale (sia, naturalmente, il loro intreccio), così come la tradizione liturgica le ha progressivamente sviluppate2. 1. Tratti liminali dell’esperienza musicale nella liturgia Si può partire dalla considerazione che il linguaggio musicale è un linguaggio potente, capace di influire sulla persona, di indurre e condurre lo sviluppo di stati d’animo ed emozionali. Questa capacità è sempre stata riconosciuta alla musica, senza eccezione della musica cultuale. Anche gli interventi magisteriali più recenti hanno apprezzato la capacità della musica di contribuire alla «elevazione delle menti e, insieme, alla vera devozione» (Pio XII, Mediator Dei) dei fedeli. Pure alla musica strumentale, propriamente all’organo, si riconosce che «è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti» (SC 120). Tra i tanti riferimenti antichi, si può citare quello particolarmente illustre di Ambrogio, che è ritenuto il padre dell’innodia occidentale. Egli ammetteva volentieri l’accusa, rivoltagli dai suoi oppositori, di aver catturato il popolo con il fascino della confessione della Trinità che risuonava nel canto dei suoi inni: «questo è un grande incantesimo, il più potente di tutti»3. Agostino stesso dà testimonianza autobiografica di questo fatto4. E Non sarà presa in considerazione direttamente, invece, la componente strettamente testuale dei canti liturgici, che potrebbe richiedere altri percorsi per evidenziare la dimensione liminale dell’agire liturgico. Si terrà conto piuttosto del contributo che apporta al testo l’essere cantato. 3 Cf. Ambrosius, Ep. 75a, 34. Anche a proposito del canto dei salmi, egli notava (con enfasi retorica) la potenza della loro musicalità: «Al salmo anche i sassi rispondono; al canto del salmo anche i cuori di sasso s’inteneriscono: noi vediamo piangere i più insensibili, piegarsi anche gli spietati». Ambrosius, Enarr. in Psalmum I, 9: Ambrogio, Opere esegetiche. VII/I. Commento a dodici salmi (= Sancti Ambrosii Episcopi Mediolanensis Opera 7), Introduzione, traduzione, note e indici di L.F. Pizzolato, Biblioteca Ambrosiana - Città Nuova, Milano - Roma 1980, 49. 4 Agostino, Confessioni, IX, 7, 15. 2
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si potrebbe allargare, lungo la storia, l’elenco di queste preziose testimonianze che mostrano la capacità della musica di influire potentemente anche sull’esperienza della fede. Occorre chiedersi, però, quale tipo di potenza sia quella della musica. Facilmente se ne parla come di una potenza delle emozioni. La musica agisce indubbiamente nel campo dell’affettività. Da questo punto di vista, essa può (e forse deve) lasciare «non indifferenti» anche coloro che celebrano la fede. Ma la «differenza» che essa provoca è ambivalente. Per questo la potenza della musica (di certa musica) nella celebrazione può essere considerata anche rischiosa, se non addirittura pericolosa. Con la sua seduzione (o con il suo fastidio) è in grado di distrarre dall’azione liturgica e di catturare l’attenzione dei celebranti, deviando su di sé sola la loro attenzione, verso un piacere in sé conchiuso, non più realizzazione dell’intenzionalità della fede. Sono note le considerazioni dibattute che animavano Agostino al riguardo5. Senza inseguire l’ampiezza e la complessità di questo tema, cercheremo di mettere a fuoco più limitatamente alcuni aspetti di questo potere emotivo della musica liturgica, con l’intento di far emergere in quale modo essa genera o sostiene la dimensione liminale della celebrazione liturgica. 1.1. La musica «non necessaria» e la sua apertura sul simbolico Anzitutto si può osservare come, per certi aspetti, il canto e la musica nella liturgia appartengano al «non necessario»6. Con questa espressione non si intende indicare la necessità che può derivare dalla normativa rubricale, o che viene richiesta dalla solennità, o addirittura che è legata alla natura dell’atto liturgico. 5 Cf. Agostino, Confessioni , X, 33. Per un approfondimento complessivo sulla concezione della musica in Agostino, cf. P. Sequeri, Musica e mistica. Percorsi nella storia occidentale delle pratiche estetiche e religiose, LEV, Città del Vaticano 2005, 45-106. Una piccola rassegna storica sulla posizione ecclesiale nei confronti dell’ambivalente potenza emozionale della musica si trova in P. Gueydier, Émotion, «médiaculture» et musique liturgique, «La Maison-Dieu» 251 (2007/3), 40-47. 6 Cf. Hameline, L’accordo rituale, 177.
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Più precisamente, si vuole mettere in risalto la «gratuità» della forma musicale. Si potrebbe dire, paradossalmente, che al canto appartiene la necessità del gratuito. Canto e musica esprimono un «investimento sulla forma» dell’atto liturgico che (al di là dell’essere prescritto) sposta subito l’azione su un altro piano, quello del gratuito, aperto su molteplici orizzonti dell’estetica della fede. Nell’interazione liturgica la funzione di scambio di contenuti verbali, certamente presente, non è mai l’unica e non è esaustiva del senso dell’interazione stessa. Nella celebrazione, l’atto di dire è già anche un modo di agire (è un atto performativo), e il modo in cui si agisce appartiene al contenuto dell’azione che attua la relazione. L’investimento sulla forma, sul non verbale (e quindi anche sulla forma sonora) è necessario proprio per uscire dal livello puramente informativo dello scambio comunicativo7. Un caso particolarmente evidente di questo apporto arrecato dalla musica si ha nella proclamazione cantata delle letture o nell’intonazione dell’eucologia. Qui, infatti, a uno sguardo superficiale potrebbe sembrare che la cantillazione non aggiunga nulla al testo, sul piano del suo contenuto. In realtà, dal momento che la proclamazione del testo non si esaurisce affatto sul piano del contenuto, ma è ordinata a realizzare un atto di relazione tra Dio e l’assemblea, la cantillazione contribuisce a dare forma sacramentale a tale relazione, incidendo in ultima analisi proprio sul contenuto dell’atto stesso (contenuto non solo in senso semantico, ma anche in senso relazionale, implicante il coinvolgimento del soggetto). «“L’intonazione” di un testo dice immediatamente la sua simbolizzazione rituale e caratterizza, nello stesso tempo, tutto il contesto relazionale in cui viene inserita»8. Questa modalità di «presa di parola», che è tipica del contesto rituale, immette nella dimensione simbolica della liturgia e libera le potenzialità del «dire» liturgico su un altro 7 Cf. D.E. Saliers, Sounding the Symbols of Faith. Exploring the Nonverbal Languages of Christian Worship, in Music in Christian Worship. At the Service of the Liturgy, a cura di Ch. Kroeker, Liturgical Press, Collegeville (Minnesota) 2005, 17-26. 8 G. Genero, Il canto dell’eucologia: tradizione e prospettiva, «Rivista di Pastorale Liturgica» 275 (4/2009), 44.
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piano rispetto a quello della semplice recitazione. Così ne parla Jean-Yves Hameline: La proclamazione cantata di un testo [...] sposta quel testo e la sua enunciazione in una zona ambigua, metaforica. La funzione meramente assertiva è, come abbiamo detto, «turbata» emotivamente. È solo al di là di questa soglia, in quello spazio di sensibilità e di intelligibilità che occorre ben chiamare liminale, secondo Turner, o transizionale, secondo Winnicott, che il discorso musicale dispiega le proprie risorse e rimodella il rapporto fra l’enunciatore (fittizio) e il suo enunciato, fra il dicere e il dictum. Questo fa dell’atto di canto un’autentica esplorazione delle virtualità semantiche e liriche del testo9.
Un caso di particolare interesse, da questo punto di vista, è quello della liturgia in rito bizantino, che prevede l’esecuzione in canto di ogni sua parte e che non conosce un equivalente della «messa letta» della tradizione cattolica. Questo investimento sul canto è grandemente efficace per introdurre alla percezione del mondo simbolico proprio della liturgia, che grazie anche alla musica appare come un mondo «altro». In altre parole, in questo caso appare evidente che l’espressione musicale non esalta solo qualche elemento rituale della liturgia, ma contribuisce a far vivere la liturgia come un ambiente trasfigurato e trasfigurante, nel quale i celebranti partecipano di una nuova dimensione del loro mondo. 1.2. La musica come riorganizzazione delle condizioni di esperienza (tempo, spazio, corpo) Il potere della musica, dunque, si manifesta anche per la sua capacità di influire sull’esperienza vissuta del mondo. In questo Hameline, L’accordo rituale, 199-200. Lo stesso aggiunge: «Nell’enunciazione relazionale, a rigor di sintassi, il canto (questo “inganno del tempo”) sospende il tempo dell’utile e dell’efficiente, e si sottrae al semplice rapporto discorsivo. Il dire comunicativo, nel senso del discorso che trasmette significati, è senza memoria. Si tratta di rovesciare il rapporto fra il comprendere [comprendre] e l’udire [entendre], che lascia emergere ciò che, nel dire, è propriamente la voce; e, proprio grazie ad essa, la possibilità del canto [...]. In questa riserva di significazione, i significanti del testo sono messi nuovamente “al lavoro”» (ivi, 264). 9
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senso, il linguaggio musicale (come ogni altro linguaggio, ma in misura maggiore e certamente in modo peculiare) non è uno strumento per descrivere la realtà, ma un modo di sperimentarla. Nell’esperienza musicale le coordinate del tempo, dello spazio, del corpo subiscono una trasformazione, vengono collocate in una dimensione percettiva differente, in grado di introdurre a una esperienza «altra» della realtà10. La musica, infatti, ha potere sul tempo, nel senso che l’esperienza musicale è l’esperienza di un tempo altro rispetto al tempo pratico (quello delle decisioni e delle conseguenti possibilità operative) e al tempo della natura (quello del susseguirsi concatenato degli attimi)11. Il tempo di una musica o di un canto non è semplicemente un tempo che passa e scorre, è piuttosto una durata, che si sviluppa sospendendo il tempo cronologico e mantenendosi legata alla forma musicale. La musica non solo imprime un proprio ritmo al tempo, ma anche lo mantiene sempre come al presente: note, accordi, ritmi non succedono semplicemente l’uno all’altro, ma confluiscono l’uno nell’altro e tutti insieme condeterminano il loro senso. Questa durata che, pur svolgendosi, non passa, e nella quale c’è contemporaneamente sviluppo e simultaneità, rappresenta, secondo la felice espressione di Jeanne Hersch, una «miniatura d’eternità»12. E all’interno di questa miniatura, il tempo viene cesellato attraverso diversi espedienti musicali (ritmo, ciclicità, ripetizione, variazione, intensità...), i quali creano impressioni percettive che influiscono sulla qualità dell’esperienza in atto. Si pensi alla possibilità di ritagliare e istituire il tempo celebrativo che si può realizzare attraverso i preludi e i post-ludi alla celebrazione. 10 Cf. T. Ellingson, Musica e religione, in M. Eliade (a cura), Enciclopedia delle Religioni. Vol II. Il Rito. Oggetti, atti, cerimonie, Marzorati - Jaca Book, Milano 1994, 371-380 (in particolare 377-380). 11 Prendo questa distinzione dagli studi di J. Hersch, Tempo e musica. Con un saluto di Czesław Miłosz, Baldini Castaldi Dalai, Milano 2009. La specifica temporalità della musica è sempre stata rilevata ed è stata molto studiata, anche in ambito filosofico. Nell’ultimo secolo, in particolare, un punto di riferimento autorevole sono gli studi di Gisèle Brelet, che si rifanno esplicitamente al concetto bergsoniano di «durata». 12 Hersch, Tempo e musica, 77.
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Oppure si pensi alla forza della ripetizione: «talora la ripetizione e la ridondanza servono soprattutto a suggerire una sensazione di sicurezza e stabilità, che aiutino la concentrazione e provvedano difese contro la distrazione, oppure che, semplicemente, garantiscano la continuità di uno “stato musicale” capace di incoraggiare la celebrazione di un rito»13. La musica influisce anche sulla nostra esperienza dello spazio che abitiamo. L’interazione sonora ci introduce in una esperienza non solo di un presente perdurante, ma anche di uno spazio dinamico e affettivo, modulato dal suono che ne rende percepibile l’orientamento, la profondità, le connotazioni qualitative, le presenze che lo animano. L’intensità dinamica del suono (con le variazioni del suo propagarsi), la sua provenienza (e quindi la collocazione della fonte sonora), la saturazione acustica dell’ambiente, sono fenomeni che concorrono fortemente a definire lo spazio vissuto, e normalmente «lo spazio della cerimonia è pervaso dai suoni della musica che, più di ogni altro elemento, riempiono l’intera zona sacra di una energia tangibile e che testimoniano l’effettivo realizzarsi di una situazione speciale»14. Il suono, come la voce, è un modo con cui un corpo si rende presente. È un indice di presenza: una presenza attiva che produce onde sonore e che consegna a esse (rivelandosi) le proprie qualità intrinseche. Questa sonorità del corpo colma la distanza tra gli altri corpi presenti senza che uno si imponga fisicamente sull’altro, ma suscitando dinamicamente una risonanza in chi viene raggiunto dalle sue vibrazioni. In questo modo si crea quello «spazio acustico» che è determinato non da confini statici, ma dalle presenze attive che lasciano vibrante traccia di sé15. Il suono diventa come un «vibrante tessuto connettivo»16 che Ellingson, Musica e religione, 378. Ivi, 377. 15 Il concetto di «spazio acustico» è elaborato da W.J. Ong, La presenza della Parola, Il Mulino, Bologna 1970. Ma il tema può essere allargato dalle ricerche che si muovono in direzione di una ecologia della musica. Cf. Ecologia della musica. Saggi sul paesaggio sonoro, a cura di A. Colimberti, Donzelli Editore, Roma 2004. 16 D. Burrows, Sound, Speech, and Music, University of Massachusetts Press, Amherst 1990, 24. 13 14
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coinvolge e dilata lo spazio di presenza dell’individuo. È stato notato che il campo d’azione in cui ci situa l’esperienza musicale (e ciò si verifica in particolare nell’esperienza del rito) introduce a una consapevolezza di sé in stretta relazione con tutto ciò che è coinvolto nello spazio sonoro: si crea una sintonia che trascende l’opposizione tra soggetto e oggetto, tra l’io e gli altri, tra il centro (il sé) e la periferia (il mondo). «Tutto diventa centro» (Burrows), tutto risuona. Detto in altri termini, c’è un modo di vivere il suono e la musica (un modo non strumentale, non teso subito a identificare ciò che è al di là del suono) che situa l’uomo fuori di sé, lo fa coincidere con lo spazio che abita, lo immerge in esso. Come la voce è prolungamento sonoro del corpo, così l’ascolto è ampliamento sensoriale dello spazio corporeo17. Infatti la musica, come i suoni, le voci, i rumori che riempiono l’ambiente, modifica lo spazio corporeo di presenza di colui che ascolta, e ne modifica affettivamente le condizioni di presenza/esperienza. Egli non solo sente qualcosa, ma viene a trovarsi (come parte di un tutto) dentro una realtà che risuona e che influisce su di lui e alla quale si unisce. È con-vibrante e con-sonante con tutto ciò che lo circonda, è tutt’uno con esso. «Lo spazio musicale corrisponde in fondo allo spazio corporeo allargato, cioè si tratta di una esplorazione graduale dello spazio, formata e articolata dalla musica [...]. La musica in quanto tale è la modificazione dello spazio esperito a livello corporeo. La musica plasma lo stare-nello-spazio dell’ascoltatore, essa incide direttamente sulla sua economia corporea»18. In questo senso, è riduttivo pensare alla musica come uno strumento linguistico o all’ascolto come una funzione della comprensione concettuale, dove troppo in fretta e (apparentemente) senza residui si crede di poter lasciar cadere la dimensione sensibile del sonoro. Ascoltare i rumori, i suoni, le voci di un ambiente rivela anzitutto che noi siamo già parte di (coapparte17 Si possono ricordare a questo riguardo anche le riflessioni cui è approdato Roland Barthes sul «corpo in stato di musica» e sull’ascolto come un modo di vivere il proprio corpo nello spazio. Cf. R. Barthes, L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 2001. 18 G. Böhme, Atmosfere acustiche. Un contributo all’estetica ecologica, in Ecologia della musica, 108.
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niamo a) una realtà di elementi sensibili che premono su di noi e con i quali intessiamo una rete di rapporti sensoriali (prima ancora che si sia in grado di coglierne i significati). Il nostro corpo ci immerge nel mondo e ci fa «casse di risonanza» del reale19. Si può dire, anzi, che la musica è potente proprio perché agisce, prima che sul livello cognitivo delle idee, sulla risonanza affettiva del corpo, grazie alla quale si entra in una condizione percettiva di nuove qualità e connotazioni del reale. Prima di comunicare informazioni, la musica presenta la realtà sotto una veste particolare, la rende significativa, la rende familiare implicandoci nella sua rete di vibrazioni; sollecitando la nostra sensibilità, propizia la percezione di significati che altrimenti resterebbero privi di forza20. Nella dinamica della celebrazione, una buona valorizzazione della musica e del canto (sia da parte di chi esegue, sia da parte di chi ascolta) può veramente realizzare le condizioni per l’apertura a una esperienza simbolica della fede, che sospende il mondo abituale e riattiva in altra dimensione la capacità di percepire e di vivere la realtà in gioco. Un’assemblea che canta la lode di Dio non sta semplicemente dicendo la lode, ma è essa stessa la lode, è il mondo in festa che vibra e risuona davanti al suo Dio. 1.3. La musica liturgica nel ritmo della celebrazione e nella concertazione dei linguaggi Una condizione perché ciò avvenga è data proprio dal corretto inserimento della musica all’interno della dinamica celebrativa e dall’armonica composizione di essa con gli altri linguaggi rituali. La celebrazione, infatti, si presenta e dev’essere intesa come una forma unitaria e complessa di azione, dentro la quale ogni elemento e ogni linguaggio assume valore per rapporto all’insieme rituale21. 19 Prendo l’espressione da E. Lisciani Petrini, Risonanze del corpo. Verso un nuovo ascolto, in Filosofia e musica, a cura di C. Tatasciore, Bruno Mondadori, Milano 2008, 10. 20 E. Foley, Toward a Sound Theology, «Studia Liturgica» 23 (1993), 130132. 21 Per questa visione unitaria dell’evento celebrativo, mi permetto di ri-
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Si può ritenere quindi che nella celebrazione l’esperienza della liminalità non sia prodotta, in via normale, da un unico linguaggio o da una sola sequenza, ma sia frutto di una interazione complessa e rafforzata (o indebolita) da ogni componente della celebrazione. Celebrare significa comporre una sequenza di azioni dal giusto ritmo e concertare la pluralità dei linguaggi che innervano le azioni stesse. Perciò il varcare la soglia, che il rito chiede e rende possibile, deve avvenire e deve confermarsi su tutti i piani sensoriali della partecipazione. La musica dà e riceve il proprio contributo in questa interazione. La soglia architettonica dell’edificio chiesa e l’aula in cui si viene immessi devono riflettersi nello spazio acustico nuovo in cui ci si immerge (che impone anzitutto il silenzio, perché possa risuonare un’altra musica); questo, a sua volta, si accompagna alla differenza simbolica che viene introdotta dai movimenti processionali, dai gesti, dalle vesti... La musica liturgica è tipicamente una «musica d’uso» (nel senso più nobile del termine), in quanto è parte costitutiva di una azione complessiva e ha il suo senso pieno all’interno della pratica rituale. Va ascoltata o eseguita compiendo ciò che il rito nel suo insieme chiede di fare (ad esempio, un movimento processionale, la visione di un gesto, o un canto stesso come atto rituale specifico...). L’organizzazione e la performance delle sequenze rituali, dove tutti i linguaggi si armonizzano, è determinante per il senso simbolico della celebrazione stessa: Come la musica, il rito ha ritmi innati. Ciascun momento prepara il successivo e ciascun elemento sgorga da ciò che precede. Ancora, come la musica, il rito comporta la costruzione di tensioni e risoluzioni attraverso l’uso di suoni e di silenzio che crea un’esperienza auricolare di passaggio22. chiamare il mio contributo: L’ermeneutica dei libri liturgici e la comprensione del sacramento, in «La forma rituale del sacramento». Scienza liturgica e teologia sacramentaria in dialogo, Atti della XXXVII Settimana di studio dell’Associazione professori di liturgia, a cura di S. Ubbiali, CLV - Edizioni Liturgiche, Roma 2011, 207-230. In termini più fondativi, cf. A. Grillo, La musica e l’azione rituale: contesto liturgico del testo musicale e contesto musicale del testo liturgico, «Rivista Internazionale di Musica Sacra» 27 (2006), 7-23. 22 P. Collins, Bodying Forth: Aesthetic Liturgy, Paulist Press, Mahwah
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La presentazione e l’attraversamento di questa soglia rituale esige un equilibrio estremamente delicato. Da alcuni squilibri strutturali può derivare concretamente il rischio che tale soglia (anche nella sua componente musicale) venga vanificata o indebolita. Alcune esemplificazioni possono mostrare le forme di questo rischio. Un buon ritmo celebrativo prevede l’attivazione ma anche la sospensione dei codici comunicativi. Ciò vale anche per la musica liturgica, la cui efficacia è strettamente legata a un corretto rapporto con il silenzio23. Ciascuno dei due elementi (la musica e il silenzio) favorisce e supporta l’intensità dell’altro. Un uso della musica e del canto troppo invadente o fuori posto, rappresenta una specie di «inquinamento acustico» che disturba e distoglie i celebranti da una partecipazione intensa. Al contrario, il suono che giunge a tacere o che dà voce alla ricchezza sotterranea del silenzio consente il risuonare amplificato della Parola che la celebrazione consegna. Allo stesso modo, è importante che ogni gesto della celebrazione possegga una forma che, oltre a essere ben curata secondo la logica dei codici comunicativi che in esso vengono attivati, sia in armonia e all’altezza degli altri gesti, quanto a qualità, appropriatezza, equilibrio di gestione. Viene svilita la forza della celebrazione quando, ad esempio, all’intensità che è stata creata da un canto particolarmente espressivo, si accompagna un gesto trasandato o scomposto del celebrante; o viceversa, quando all’intensità di un silenzio meditativo fa seguito un canto sguaiato, o inappropriato al momento liturgico24. Qui è chiaro che il potere della musica viene sciupato o viene esercitato negativamente, creando una distrazione. È come se il livello liminale di 1992, 32 (cit. in M.S. Driscoll, Musical Mystagogy. Catechizing Through the Sacred Arts, in Music in Christian Worship, 35. 23 Sul tema del silenzio, si può vedere il fascicolo n. 4 di «Rivista Liturgica» 76 (1989), dedicato a: Silenzio e liturgia. 24 Da questo punto di vista, resta preziosa l’indicazione secondo cui, nella scelta delle persone e dei generi di musica da cantare, si deve tener conto delle capacità esecutive dei ministri e dell’assemblea (cf. Sacra Congregazione per il culto divino, Istruzione Musicam Sacram sulla musica nella sacra liturgia, 5 marzo 1967, nn. 8-9). Meglio una recita dignitosa che un canto indecoroso.
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esperienza cui si era giunti venisse infranto; è come se si uscisse dall’ambiente acustico in cui la soglia ci aveva introdotti25. Infine si può ricordare una difficoltà culturale tipicamente occidentale, che concerne la produzione e la recezione della musica, sviluppatasi per lo più negli ultimi due secoli. Quanto più è cresciuta (soprattutto in ambito colto) la consapevolezza e la ricerca della musica come fatto estetico in sé, tanto più si tende a fruirne isolandola da contesti di pratiche di vita (anche qualora fosse destinata a essere eseguita proprio in tali contesti). Più che la produzione musicale nella sua complessità (la pratica del fare musica in un contesto di vita), si apprezza il prodotto estetico, l’opera d’arte musicale riprodotta nel contesto del concerto e dell’ascolto isolato. Ciò indirizza (e talora questo vale soprattutto per chi ha una maggiore cultura musicale) verso un ascolto e un coinvolgimento basati prevalentemente su una percezione di tipo uditivo, non globalmente sensoriale e quindi corporeo. È come se, nel momento della celebrazione, si cercasse la massima qualità artistica del prodotto musicale, quasi esaurendo in questa dimensione l’atto religioso stesso, astraendo dal contesto globale dell’azione liturgica, che risulterebbe solo di contorno (se non addirittura di disturbo) alla percezione stessa della musica. Ciò pone l’esigenza di chiarire quale estetica sia propria della musica e del canto in quanto codici di una azione rituale26.
2. Prima conclusione I tratti di esperienza liminale che sono stati indicati possono rendere concreta l’affermazione sulla potenza ed efficacia del linguaggio musicale al riguardo. Esso è chiamato a introdurre una novità, un turbamento emotivo dell’ambiente sonoro che, 25 In verità, ciò può avvenire diverse volte e per diversi motivi, lungo una celebrazione di una certa durata. Questo chiede di saper offrire e cogliere in ogni momento della celebrazione l’occasione per riattingere (rientrare) al livello simbolico dell’esperienza della fede. 26 Il problema era stato messo bene in luce già da J. Gelineau, Evoluzione verso forme nuove nel canto e nella musica liturgica?, «Concilium» 2 (1970), 60.
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in unità e sinergia con gli altri elementi rituali, porta i celebranti a un differente livello simbolico di esperienza. Vi è un duplice versante d’azione di questo turbamento emotivo, da cui risalta in modo particolare la sua caratteristica liminale. Può essere espresso attraverso una serie di coppie di termini o di espressioni che indicano un movimento opposto. Il suono ha il potere di attrarci a sé con facilità e immediatezza (anche per il minor impegno interpretativo richiesto, essendo estremamente ridotta la sua funzione semantica), ma ciò avviene quanto più prima riesce a distrarci da ciò che pre-occupava la mente. Ci trasferisce in un paesaggio (atmosfera) differente e ci familiarizza con esso, introducendo però una sospensione o una rottura con la sonorità che ci è più abituale, ergendosi sul silenzio che la estingue. Proprio questa liberazione e questo distacco dal mondo nel quale si è normalmente immersi consentono un riorientamento e una intensificazione delle proprie capacità recettive su un altro fronte. Talora è in grado di provocare anche uno sconcerto, un disorientamento sonoro, per guidarci a una disponibilità meno trattenuta, più capace di meraviglia e di apertura incondizionata all’altro. Questo doppio versante consente di qualificare in senso liminale l’esperienza che la musica provoca. Tuttavia il rapporto tra i due versanti d’azione non è sempre uguale in ogni intervento musicale, né in ogni genere di musica. Se in qualche caso può prevalere l’aspetto di rottura del contesto sonoro familiare, in altri casi può diventare più rilevante la familiarizzazione con il nuovo contesto liminale (il quale risulta globalmente messo in atto dall’insieme dei linguaggi rituali). Questo ci porta a riaprire il tema sul piano più concreto del repertorio musicale.
3. Il repertorio musicale per la liminalità rituale Noi viviamo immersi in un mondo sonoro, e in gran parte non siamo noi a decidere cosa ascoltiamo. Soprattutto, siamo inseriti in una tradizione musicale, dentro la quale sono già codificati generi e forme musicali. Ciò significa che anche la mu-
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sica liturgica, con cui una celebrazione è chiamata a sviluppare i suoi tratti di esperienza liminale, non si offre allo stato puro. Inoltre vi sono diversi tipi di efficacia e diversi modi e stili con cui un intervento musicale può raggiungerli. Questa considerazione ci porta alla necessità di esaminare il modo di presentarsi dei caratteri liminali dell’esperienza musicale attraverso lo strumento del repertorio musicale di cui una tradizione si avvale. Il concetto di repertorio non vuole qui indicare un gruppo chiuso di stili e/o di opere che possederebbe di per sé tali caratteristiche; più semplicemente, indica il riferimento ai materiali d’uso di una tradizione liturgica27. Ora ci si chiede a quali condizioni l’uso di un determinato repertorio può configurare e sostenere l’esperienza della liminalità rituale. 3.1. Rimodulazione della distinzione tra musica sacra e musica profana Non è nostra intenzione affrontare o riprendere la questione della definizione di musica sacra. La distinzione tra sacro e profano in musica, infatti, è molto meno chiara di quanto potrebbe sembrare. E, lungo la storia, i continui interventi magisteriali che (con pochi risultati) ne raccomandano la salvaguardia, deplorando l’ingresso di profanità musicali nella liturgia, testimoniano anche della reale fatica a intervenire efficacemente su questo fronte. È noto, in ogni caso, il cammino che tale nozione ha compiuto in tempi recenti: se per Pio X la musica sacra poteva identificarsi per riferimento a un modello musicale (il gregoriano)28, in SC essa si riconosce per la sua aderenza a un modello celebrativo-rituale29. Ciò comporta in una certa misura uno spostamen27 Cf. J.-Y Hameline, La notion de «répertoire», «La Maison-Dieu» 251 (2007/3), 127-159. 28 «Tanto una composizione per chiesa è più sacra e liturgica, quanto più nell’andamento, nella ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto è meno degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme»: Pio X, Motu proprio Tra le sollecitudini sulla musica sacra, 22 novembre 1903, 3. 29 «La musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita
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to di accento: dall’oggettivazione del sacro in un determinato repertorio previamente stabilito (attraverso l’individuazione di caratteri stilistici o formali della musica in se stessa), a un suo reperimento in ragione della conformità alla natura e al senso dell’azione liturgica di cui è parte30. Tuttavia rimane una certa oscillazione nell’uso delle categorie di sacro e di profano. Lo si può riscontrare, ad esempio, quando si fa riferimento alla qualità della santità, una delle note distintive della musica sacra, pur definita spesso per via negativa (come esclusione di elementi profani). Così ne parlava, da ultimo, Giovanni Paolo II: Sulla scia degli insegnamenti di san Pio X e del concilio Vaticano II, occorre innanzitutto sottolineare che la musica destinata ai sacri riti deve avere come punto di riferimento la santità: essa di fatto, «sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica». Proprio per questo, «non indistintamente tutto ciò che sta fuori dal tempio (profanum) è atto a superarne la soglia», affermava saggiamente il mio venerato Predecessore Paolo VI, commentando un decreto del Concilio di Trento e precisava che «se non possiede ad un tempo il senso della preghiera, della dignità e della bellezza, la musica – strumentale e vocale – si preclude da sé l’ingresso nella sfera del sacro e del religioso»31.
In realtà, per compiere fino in fondo tale discernimento, ogni criterio prestabilito e puramente musicale, che volesse essere applicato previamente all’esperienza celebrativa, rimane penultimo, non conclusivo. Infatti la differenza tra sacro e profano non coincide semplicemente con la differenza di un prodotto musicale da un altro, ma in ultima istanza con la differenza che all’azione liturgica, sia dando alla preghiera un’espressione più soave e favorendo l’unanimità, sia arricchendo di maggior solennità i riti sacri»: SC 112. 30 Evidentemente anche il legame dell’espressione musicale con l’azione liturgica è in grado di fornire alcuni criteri oggettivi di riferimento, reperibili, ad esempio, nel rispetto che la forma musicale deve alle diverse forme liturgiche (un’invocazione è altra cosa rispetto a un’acclamazione; il canto di un inno ha altre caratteristiche rispetto alla cantillazione di un salmo...). 31 Giovanni Paolo II, Chirografo sulla musica sacra Mosso dal vivo desiderio (22 novembre 2003), n. 4.
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la musica può produrre quando si lega all’azione liturgica. Di conseguenza, non pare sufficiente dire che una musica può varcare la soglia perché è sacra; prima ancora, si dovrebbe dire che una musica, se fa varcare la soglia dell’esperienza liturgica, allora è sacra: è sacra perché fa varcare una soglia. Questo secondo criterio non è contrapposto al primo, perché ne è in fondo la ragione interiore, il vero motivo per cui si arriva a costituire un repertorio collaudato. Ma nello stesso tempo è anche il motivo per il quale tale repertorio non può che essere compreso come uno strumento, utile ma anche provvisorio e riformabile. Il criterio del legame della musica con l’azione liturgica, ossia della differenza che il canto produce in atto, non annulla quindi la distinzione tra sacro e profano né la rende irrilevante. Piuttosto sposta il campo di osservazione su aspetti più globali. r In
particolare, occorre riconoscere giusta importanza alla rilevanza culturale della musica32. Si tratta di favorire e custodire la possibilità che il canto compia questo aspetto del suo munus ministeriale (la sua funzione di differenziazione liminale) dentro ogni cultura e, di più, lungo l’evoluzione che il linguaggio musicale subisce all’interno di una stessa cultura. Prima che un problema di stili musicali prefissati, sta il problema di uno stile celebrativo che sappia assumere i contorni di una cultura per forzarne dall’interno i confini e introdurre quella differenza simbolica che apre l’agire celebrativo alla sua piena potenzialità. r In secondo luogo, sono rilevanti le diverse figure del sacro con le quali la musica viene a confrontarsi e a congiungersi all’interno del cristianesimo. Ogni elaborazione musicale connota solo alcuni tratti del nostro rapporto con il sacro, senza pretesa di esaurirne la presentazione. Gli stili musicali (come quelli artistici in genere), essendo propri di un’epoca culturale 32 Oggi il problema della rilevanza culturale della musica risulta particolarmente complesso, a motivo della facile e rapida contaminazione tra le culture che avviene anche in campo musicale. Cf. M.P. Bangert, La musica liturgica in sintonia culturale, in Liturgia e musica. Formazione permanente, a cura di R.A. Leaver - J.A. Zimmerman, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, 384-409.
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(e propri, inoltre, di una particolare esperienza e forma di vita religiosa), trascrivono sulla materia sonora i contorni del modo di sentire il rapporto con il Trascendente proprio di quell’epoca; per questo motivo è possibile attribuire anche agli stili musicali una determinata spiritualità. Probabilmente la stessa distinzione tra una musica d’arte e una musica popolare per la liturgia non è giustificabile solo in termini di diversa cultura musicale, ma anche in termini di una diversa figura del rapporto con il mistero di Dio che ciascuna espressione persegue33. r In terzo luogo, se è vero che la forma celebrativa raccoglie e unifica i diversi linguaggi e che questi devono essere compresi non isolatamente, ma alla luce di una sinestesia globale della celebrazione, allora anche la capacità del repertorio musicale di svolgere la funzione di musica sacra deve essere valutata in base a criteri che non considerino semplicemente il prodotto musicale in sé, ma la produzione musicale in atto, ossia ciò che avviene insieme e grazie all’azione liturgica musicale. Anche le pratiche di condotta contestuali al canto (il coinvolgimento corporeo, ad esempio, in una azione processionale) e la sua capacità di suscitarle sono rilevanti a tal fine. E non tutte le produzioni musicali hanno le stesse capacità o la stessa efficacia rispetto a questo obiettivo.
Interessante il contributo di Raffaele Pozzi, che propone di leggere le diverse tendenze musicali attuali riconducendole alle due figure di un «sacro trascendente» e di un «sacro secolarizzato». R. Pozzi, Liturgia d’arte o liturgia pop? La questione della musica contemporanea nel culto cattolico dopo il Concilio Vaticano II, «Musica e storia» XIII/3 (2005), 489-514. Suggestiva (ma da comprovare analiticamente) anche la tesi di L.I. al Faruqi, What Makes “Religious Music” Religious?, in J. Irwin (a cura), Sacred Sound. Music in Religious Thought and Practice (Journal of American Academy of Religion Studies, vol. 50, n. 1), Scholars Press, Chico (California) 1983, 21-34; l’autrice, evidenziando l’evoluzione riscontrabile nel canto della tradizione cristiana rispetto a quello della tradizione musulmana, motiva un certo sviluppo della musica religiosa cristiana con il passaggio da una concezione che enfatizza gli elementi di trascendenza del regno rispetto al mondo (la sua alterità) a una concezione che ne sottolinea l’immanenza (e quindi il suo legame con le capacità dell’uomo e le realtà di questo mondo). 33
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Questo allargamento della prospettiva non giustifica l’abbandono dei «tesori musicali» prodotti nel passato. Si può, anzi, affermare e ritenere giustamente che «la Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana» (SC 116). Ma la normatività del canto gregoriano può essere senz’altro valida anzitutto sul piano dell’esemplarità del processo messo in atto nella sua formazione, più che solo sul piano del prodotto realizzato. Del resto, risulta evidente che non è esattamente uguale l’effetto che una determinata realizzazione musicale produce quando è eseguita in un contesto diverso da quello di origine. Una musica che oggi ci richiama al «sapore dell’antico», è stata a suo tempo assaporata come «moderna»; un linguaggio musicale che oggi ci risulta strano e di rottura, potrà diventare (o forse è già stato) familiare e consueto. Non devono sorprendere, quindi, reazioni diverse come lo stupore e il rapimento dei contemporanei di Ambrogio nell’impatto con la «novità» degli inni da lui introdotti, e la sensazione di noia che potevano provare i fedeli di fronte alla monodia gregoriana che il movimento ceciliano cercava di riportare massicciamente e capillarmente in uso34. In ogni caso, si deve ammettere che la musica può contribuire alla creazione della giusta atmosfera rituale anche per la sua «riconoscibilità», come codice che identifica (e quindi separa, delimita) un preciso contesto di esperienza religiosa. Per questo l’espressione musicale interagisce anche con le attese (che, a loro volta, possono venire educate) che i celebranti portano con sé e alle quali i diversi contesti ecclesiali predispongono. Chi si reca alla celebrazione in un monastero di tradizione benedet34 Osservando i primi tentativi ceciliani di recupero del gregoriano come canto del popolo, Antonio Lovato annota: «L’assunto di ritornare all’antico “perché lo stile puro primitivo si riconosce più bello, più ragionevole, più artistico” doveva fare i conti con un’ampia frattura culturale e cozzava contro una sensibilità diffusa poco incline ad accettare una musica modale, avvertita dai più come “monotona, troppo compassata, dura, senza espressione, che non va all’orecchio, che non discende al cuore”» (A. Lovato, Il gregoriano melodioso di Lorenzo Perosi, in De ignoto cantu, Atti dei seminari di studio Fonte Avellana 2000-2002, a cura di P. Dessì - A. Lovato, Gabrielli Editori, Verona 2008, 389).
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tina, probabilmente si aspetta di sentire proprio un determinato genere di canti che identificano quel luogo; d’altra parte, proprio il recarsi in quel luogo, l’aver oltrepassato la soglia del monastero, gli assicura un distacco dal contesto abituale che lo introduce sulla soglia di quello stile celebrativo. In conclusione, è fondamentale che non sia trascurata la distinzione tra musica sacra e musica profana, ma ciò può avvenire puntando non tanto su una sorta di «catalogo del sacro» predefinito, quanto esattamente sulla capacità propria a un determinato repertorio di far vivere la celebrazione come esperienza liminale, ben consapevoli che nella liturgia ciò si dà attraverso un insieme complesso di linguaggi e attraverso diverse possibili strategie che ogni linguaggio (ivi compreso quello musicale) può mettere in atto. 3.2. Il caso dell’improvvisazione Può essere interessante, infine, proporre un pur breve accenno all’arte dell’improvvisazione, che ha sempre avuto un ruolo importante nella storia della musica in genere, e anche nella storia della musica rituale e liturgica. Solo negli ultimi due secoli, e solo all’interno della musica colta della tradizione occidentale, l’improvvisazione ha visto ridursi progressivamente il proprio spazio, venendo accreditato maggiormente il compito di interpretazione di una musica ormai consegnata all’esecutore nella scrittura sempre più sofisticata della partitura. Tuttavia, mai completamente eliminata, presente e viva nella musica di tradizione popolare, è riemersa con forza con l’avvento degli spirituals e soprattutto del jazz. Ma il fenomeno è pervasivo di ogni cultura e si riscontra ampiamente nella musica extra-europea. In ogni caso, la capacità di improvvisazione custodisce alcuni aspetti essenziali della creatività musicale, ed è significativa anche per l’esperienza liturgica. Non è il caso di definire con più precisione questo vasto campo di esperienza musicale, che spazia dall’improvvisazione libera all’improvvisazione su temi già dati, e che, pur essendo legata strettamente al processo esecutivo, conosce anche forme
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compositive che hanno esplicitamente carattere improvvisativo (ad esempio, le Toccate o le Fantasie). Pensando all’ambito della musica liturgica, si può limitare l’attenzione in particolare al genere improvvisativo della musica strumentale organistica, che ha una lunga e ricca tradizione all’interno del servizio liturgico reso da questo strumento e che ha bisogno di una competenza specifica35. Si deve tener conto, comunque, del fatto che l’improvvisazione musicale non è semplicemente sinonimo di spontaneità e tanto meno di impreparazione; l’esperienza dei musicisti sul campo conferma che l’improvvisazione è tutt’altro che improvvisata, ha bisogno di studio e di affinamento di tecniche specifiche (e di cui non occorre qui dare conto). Va da sé, quindi, che un intervento musicale estemporaneo non assurge necessariamente alla dignità di improvvisazione in senso tecnico, e non necessariamente assolve con pertinenza liturgica e con efficacia alla funzione propria di questo genere musicale. L’interesse di questa espressione musicale sta nel rapporto particolare che essa ha con il tema della liminalità36. Secondo Turner, le fasi liminali sono caratterizzate anche dalla loro radicale potenzialità, dalla scomposizione degli elementi culturali familiari che rende possibile una ricomposizione libera e creativa di altre configurazioni simboliche37. Ora anche l’improvvisazione organistica può apparire come una traccia, modesta ma a suo modo efficace, della particolare natura liminale del tempo rituale. Lungi dal fungere semplicemente da riempitivo di 35 Seppure in un’ottica differente, anche in Musicam sacram n. 67 mostra di presupporre negli organisti la necessaria competenza di saper improvvisare: «è indispensabile che gli organisti e gli altri musicisti, oltre a possedere un’adeguata perizia nell’usare il loro strumento, conoscano e penetrino intimamente lo spirito della sacra liturgia in modo che, anche dovendo improvvisare, assicurino il decoro della sacra celebrazione, secondo la vera natura delle sue varie parti, e favoriscano la partecipazione dei fedeli». Cf. anche Sacra Congregatio rituum, Instructio de Musica sacra et sacra liturgia (3 settembre 1958), n. 65. 36 Anche J.S. Begbie, Theology, Music and Time, University Press, Cambridge 2000, 179-270, dedica una parte del suo volume all’improvvisazione, mettendone in rilievo piuttosto la connessione con il tema della libertà. 37 Cf. ad esempio V. Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986, 49-111.
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spazi vuoti, l’improvvisazione all’organo può servire a creare le condizioni per entrare nel tempo della celebrazione, per intensificarne la durata (si pensi alle Toccate per l’elevazione), o per sigillarlo e concluderlo al termine della sequenza celebrativa. Ma la caratteristica peculiare che la rende significativa è il fatto che essa fa vivere (anche se spesso in modo inconsapevole, ma non per questo meno efficace) una figura particolare del tempo/ spazio celebrativo. Ogni intervento musicale di genere improvvisativo, infatti, si radica esattamente e in modo irreversibile nel tempo della sua esecuzione, e quindi anche nel contesto dell’azione celebrativa in cui si colloca. Vive di una occasionalità che non è affatto accidentale, bensì è incorporata a esso come elemento costitutivo (con tutte le variabili che può contenere e che diventano esse pure significative). Può tenere insieme, come tessuto connettivo, la durata di un’azione rituale, il contesto in cui avviene, le persone coinvolte, esaltando le caratteristiche di unicità e irripetibilità proprie di quanto si sta vivendo. Inoltre, poiché l’improvvisazione non ha una forma prefissata, ma si dà la propria forma nel momento in cui viene eseguita, essa assume carattere di esplorazione dello spazio sonoro, o anche di esplorazione delle virtualità di un tema che già connota una particolare situazione liturgica (si pensi alle improvvisazioni su temi gregoriani propri delle celebrazioni di determinate festività liturgiche). Pur assumendo il già-noto, ne forza i limiti per rinnovarne la freschezza o per aprirlo a ciò che è non-ancora-dato, risultando piuttosto sorprendente e spiazzante, non essendo assimilabile semplicemente a un prodotto già saputo e non essendo banalmente prevedibile38. Qui trova la propria ragione e da qui emerge la sua efficacia trasformativa. 38 In modo suggestivo, Arnold Davidson mostra che l’improvvisazione musicale può essere vista come una forma d’esercizio di un atteggiamento esistenziale o di un più ampio orientamento di vita critico e creativo rispetto all’attualità: una pratica filosofica, connotata non solo in senso estetico, ma anche etico e politico, che mette in gioco «una trasformazione del mondo e di noi stessi». A.I. Davidson, Improvvisazione come pratica filosofica, Prefazione a B. Derek, Improvvisazione. Sua natura e pratica in musica, ETS, Pisa 2010, 5-10.
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Il benedettino Cyprian Love (teologo, musicologo e organista) ha suggerito che questa figura di un tempo nuovo, creativo, non già-dato, sia una anticipazione di un «tempo altro», esercizio della speranza di un futuro possibile, icona sonora del tempo escatologico. In questo senso, il musicista che improvvisa metterebbe in atto una creatività teurgica. E se si può dire che la musica non solo si svolge «nel» tempo ma «fa essere» il tempo in una determinata forma di esperienza, allora si può immaginare che l’improvvisazione musicale nella liturgia contribuisca per la sua parte a far essere il tempo nel suo stato primordiale, sorgivo: il tempo in cui si dà forma sonora al nostro essere creature toccate e rinnovate dalla salvezza di Dio39. In ultima istanza, l’improvvisatore per eccellenza sarebbe lo Spirito Santo, vero animatore della novità cristiana oltre ogni limite; l’improvvisazione musicale sarebbe una funzione della sua ispirazione. E questo è un altro modo per ribadire l’importanza della vocazione ecclesiale degli artisti e dei musicisti i quali, proprio essendo tali, sono «anche ministri di Cristo Signore e collaboratori nell’apostolato»40 e con la loro attività compiono in un certo modo «una sacra imitazione di Dio creatore» (SC 127).
4. Seconda conclusione Se la costituzione di un repertorio di musica sacra per la liturgia rimane una operazione complessa e mai definitiva (sempre in progresso e in revisione), sottoposta alle variabili teologiche e culturali di una cristianità variamente distribuita nel tempo e nello spazio, in ogni caso ciò che non deve mai mancare ai canti e alle musiche che lo compongono è la loro capacità di sostenere e promuovere la caratteristica liminale del contesto celebrativo. 39 Cf. C. Love, Musical Improvisation and Eschatology: A Study of Liturgical Organist Charles Tournemire (1870-1939), «Worship» 81 (3/2007), 227249. 40 Pio XII, Lettera enciclica Musicae sacrae disciplina sulla musica sacra, 25 dicembre 1955, II (Enchiridion delle Encicliche. Vol. 6, EDB, Bologna 1995, 1188).
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Qualsiasi sia lo stile o il genere musicale utilizzato, la perdita di questa funzione sottrae alla musica stessa la sua qualità rituale e la rende inevitabilmente generica. Conseguentemente si può ritenere che il primo compito della musica liturgica (nella sua espressione sia vocale che strumentale) non sia propriamente e semplicemente quello di elevare l’animo dei fedeli, ma piuttosto quello di strapparli dal loro mondo (interiore e/o esteriore) per far percepire loro il mondo simbolico del rito e collocarli all’interno di esso. Il coinvolgimento e l’elevazione spirituale dei celebranti dovrà passare attraverso questa condizione di turbamento emotivo, grazie al quale il nostro essere presenti a Dio, agli altri, al mondo viene sospeso e riattivato in modo nuovo. Il legame armonico della musica con gli altri codici dell’interazione rituale contribuisce fortemente a delineare la figura complessiva dell’esperienza celebrativa; la corrispondenza di questa, poi, con la figura evangelica della fede consente di discernere la qualità e l’appropriatezza della musica stessa: essa sarà tanto più santa quanto più sarà unita all’azione liturgica e ne realizzerà il fine, che è la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli (cf. SC 112). L’attuazione di questo compito può prodursi in molti modi, attraverso le molteplici strategie di cui dispone la musica. L’atto stesso di cantare può essere una prima soglia che, implicandoci corporalmente, ci strappa da una condizione preordinata e ci getta in una nuova situazione emotiva e relazionale. Anche con l’ascolto può aprirsi questa breccia, purché sia un ascolto impressivo, un modo di lasciarsi raggiungere e toccare da ciò che ci circonda per diventare tutt’uno con questa realtà, e quindi sia un ascolto globalmente sensoriale, totalmente inserito nel contesto dell’azione rituale e saldamente legato a esso (non un atto intimistico). La ricerca pastorale della partecipazione dovrà guardarsi con più attenzione dal rischio di accontentarsi di compiacere il gusto di qualcuno (sia esso ritenuto conservatore o innovatore) o di assestarsi sul minimo di capacità esecutive o di fruizione (o, addirittura, di invenzione compositiva) della musica, per promuovere piuttosto, con l’aiuto di chi è competente, sia la ricerca delle forme musicali adeguate sia l’educazione a servirsene. È un aspetto importante dell’ars celebrandi.
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La posta in gioco non è di poco conto, come potrebbe far pensare una visione in cui la musica aggiunge solo solennità al rito. In realtà, se la musica è indice di presenza, il nostro fare musica nel rito, o meglio, il nostro fare musicalmente il rito è un modo di raccoglierci e renderci presenti a Dio. Non è semplicemente la musica a risuonare, ma è lo spazio-tempo che abitiamo, è il nostro corpo, il nostro essere credenti che diventa una fidei canora confessio41. E poiché la sonorità della fede è una risonanza della rivelazione, allora la musica liturgica che riesca efficace nel suo munus ministeriale (SC 112) si fa essa stessa traccia e testimonianza sonora della trascendenza di Dio.
41 Ambrosius, Enarr. in Psalmum I, 9: Ambrogio, Opere esegetiche. VII/I. Commento a dodici salmi (= Sancti Ambrosii Episcopi Mediolanensis Opera 7), Introduzione, traduzione, note e indici di L.F. Pizzolato, Biblioteca Ambrosiana-Città Nuova, Milano-Roma 1980, 44.
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DE LA LIMINALITé DU MONDE RELIGIEUX À LA LIMINALITé CHRéTIENNE POUR UNE IDENTITé PROFONDE Christophe Laurent Cakpo
La liminalité est un concept anthropologique qu’on peut récupérer favorablement dans le langage liturgique, surtout dans le discours de l’inculturation de la foi chrétienne en milieu africain1. Il est évident que face au drame du syncrétisme chrétien, l’urgence de faire une inculturation de la foi s’intègre à la vocation et à la mission même de l’Église en Afrique. En effet, l’inculturation, qui est à la fois une adaptation, un accueil, un dialogue de l’évangile avec la culture, vise une conversion intérieure de la culture, et a besoin d’intégrer, sur le plan liturgique, cette propriété propre au rite qui se caractérise par la liminalité. Ce qui suppose une prise en charge du chrétien dès son initiation à la foi en Jésus-Christ. C’est dire donc que l’initiation chrétienne a besoin de s’accorder, elle aussi, avec les réalités anthropologiques de la culture s’il veut assurer une rencontre opérante avec le Christ. Il ne peut d’ailleurs en être autrement puisque l’œuvre de l’inculturation resterait à mi-chemin sans cette démarche propédeutique. La thèse qui se profile ici est de réaffirmer que la liminalité, en tant que contexte et propriété du rite, participe à la construction de l’expérience religieuse à partir même du monde symL’étude initiale de cet article est basée sur le peuple fon. Les fon sont au sud du Bénin dans l’Afrique Occidentale principalement dans les diocèses de Cotonou et d’Abomey. La généralisation à partir de cette culture ne porte pas rigoureusement atteinte à la particularité qui demeure propre à chaque culture. 1
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bolique et rituel. En tant que contexte du rite, elle est le cadre performatif du rite, le lieu antinomique où il s’exerce. Car le rite a besoin d’un seuil où il crée lui-même une certaine marge pour être efficace. En tant que propriété du rite, la liminalité est intrinsèque au rite. Autrement dit, le rite crée lui aussi ses propres marges qu’il gère lui-même. En ce sens la liminalité participe de la même fonction communicative du rite qui opère non de manière verbale mais plutôt de façon non-verbale. C’est dire donc que la liminalité est l’horizon sur lequel est récupéré l’authentique signifié du culte chrétien pour construire une expérience stable en suscitant une croyance et une appartenance véritable. Grâce à elle l’initiation chrétienne parvient à promouvoir l’engagement personnel de la foi sans lequel la vie chrétienne serait fictive. Mais cette transformation est opérée grâce à la capacité symbolique du rite. Car c’est grâce au symbole que le rite a une propriété liminale qui lui soit propre. Envisager le rôle du symbole ici, c’est alors relever essentiellement cette valeur qu’elle a relativement au rite. L’importance de la liminalité dans le processus de l’inculturation, revient alors à penser, sous un nouveau jour, les enjeux symboliques cognitifs et rituels de toute initiation, pour que l’initiation chrétienne soit efficiente ; voilà donc le but ultime de cette étude. Pour l’atteindre, l’analyse se mettra sur la ligne directrice du concept anthropologique de la liminalité qui reste aujourd’hui un manque à gagner de l’initiation chrétienne2. Il En effet, depuis le Concile Vatican II, la nouvelle dimension de la régie rituelle avec le changement de la position du prêtre et du déplacement de l’autel, n’a pas favorisé une nette délimitation de l’espace sacré. Les fausses interprétations de la participation active ont-elles aussi confondu le profane avec le sacré et ont contribué à une mauvaise compréhension du Concile qui n’a pas voulu porter atteinte à la dimension extra verbale du rite. Cf. l’interprétation de SC 48. Même si le texte français utilise le verbe comprendre, il importe de préciser qu’il ne s’agit pas d’une compréhension du rite au sens d’une conception qu’on pourrait avoir sur elle (du latin capire) mais de l’intelligence à partir du rite (du latin intellegere). Le rite se prête à l’intelligence de celui qui le célèbre comme de celui qui y participe. D’où l’importance du cadre liminale où s’opère la distinction du sacré d’avec le profane et où le rite devient opérateur de sens et d’identité. 2
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s’agit de montrer à travers diverses analyses, en tenant compte des données historiques et de quelques référents culturels, la position contradictoire et opératoire qu’occupe l’africain en instance d’initiation traditionnelle et comment cette position paradoxale intégrée dans l’initiation chrétienne lui permet l’acquisition d’une identité chrétienne stable. Car le processus instable que crée la liminalité permet la redéfinition d’un «soi» individuel et collectif sans lequel le chrétien perd l’un de ses repères culturels importants pour opérer efficacement un passage identitaire cohérent. Mais il faudrait faire remarquer que ce discours sur l’importance de la liminalité dans le processus de l’inculturation ne se trouve pas dans le rapport d’une identité rêvée et d’une altérité posée comme radicale, mais plutôt sur un mode paradoxal de comprendre l’être humain dans son aspiration à la transcendance. 1. L’initiation chrétienne comme expérience de la liminalité
1.1. L’initiation chrétienne comme une expérience symbolique et rituelle L’expérience religieuse est avant tout une expérience symbolique. L’homme en tant qu’esprit ayant un corps et vivant en communauté est un être symbolique. Il n’y a pas d’expérience humaine, ou surtout religieuse, qui ne soit symbolique ; car elle est médiatisée à travers de symboles. Une action qui implique la communication dans un groupe humain est médiatisée par des symboles parce que c’est le groupe qui lui en donne un sens spécial en connotation avec le contexte qui lui est lié. Ainsi une action sociale peut devenir une action symbolique. Quand il s’agit de l’expérience de Dieu, de l’être suprême, il se fait d’une manière particulière, unique en son genre, et de façon personnelle, même si elle pourrait avoir une valence sociale. L’expérience du divin est souvent vécue, exprimée et communiquée à travers des symboles. Et de telles expériences s’authentifient souvent par elles-mêmes, puisque les preuves ou les démonstrations ne peuvent pas induire une telle expérience. Ainsi les
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symboles ne sont pas des produits arbitraires et conventionnels comme des signes. Ils sont souvent en rapport de sens et de relation avec la réalité expérimentée, le contexte d’expérience et la personne qui, en communauté, fait cette expérience. L’initiation religieuse s’inscrit dans certaines expériences religieuses primordiales qui forment les fondations de la religion et qui voudraient porter l’initié aux mythes ou aux récits fondateurs et aux rites qui font l’essence même de la religion. L’initié s’insère dans la tradition religieuse qui est une expérience sociohistorique enracinée dans une communauté particulière, une expérience où la mémoire joue un grand rôle. Mais puisque, l’expérience religieuse, en tant qu’expérience historique, est limitée, le recours au symbole lui permet de transcender les contingences et les limitations spatio-temporelles et fait d’elle une expérience véritable de l’absolu dans le relatif. Car chaque symbole manifeste une corrélation entre la réalité expérimentée et la personne qui, dans la communauté, fait cette expérience. C’est un rapport qui met en tension la réalité expérimentée et la communauté qui en fait l’expérience3. Chaque symbole a donc une dimension apophatique qui, construite en lui-même, renvoie à la réalité qui est au-delà du symbole, sans être relativisé par celui qui en fait l’expérience. En faisant une telle expérience symbolique, l’initié est appelé à dépasser les limites de l’expérience et à rechercher de nouveaux symboles dans sa propre vie. L’initiation chrétienne devient ici un processus dans lequel l’individu fait son expérience religieuse personnelle à travers l’expérience d’un groupe de croyants ; une expérience symbolique à travers un procès rituel préparé par l’annonce kérygmatique et la catéchèse et vécu dans les sacrements de l’initiation. Cette initiation l’insère dans un univers symbolique où le chrétien doit retrouver ses propres repères pour la mission. Les symboles des rites d’initiation ont donc un rôle clef pour l’expérience religieuse du chrétien. Ces symboles, peuvent être des activités, des objets, des mots, des relations, des événements, Sans être un relativisme qui est normalement subjectif, cette relation suppose toujours un lien avec un objet qui tient en échec la pure créativité du sujet. 3
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des gestes ou des unités spatiales. Ils se révèlent non seulement dans leur capacité d’être des vecteurs de l’expérience religieuse et de valeurs sociales, mais aussi comme des facteurs de transformation des attitudes et du comportement humain, en raison du fait qu’ils se réfèrent au mystère du salut en Jésus Christ. L’usage des symboles dans le contexte rituel de l’initiation porte alors le sujet rituel à entrer dans la grâce du mystère de Dieu en Christ pour susciter en lui une conversion. Le symbole apparaît de fait comme le vecteur de sens du rite. L’initiation appartient au genre des rites, elle se définit dans l’ordre de la ritualité. Elle vient à travers une célébration qui apparaît par des langages verbaux et non-verbaux. Dans le cas de certains rites d’initiation en Afrique4, la dimension ethnographique met devant une complexité de langage verbal et extraverbal, le tout organisé en un processus rituel dans lequel sont harmonisées les différentes formes symboliques avec des structures logiques et cognitives particulières et des systèmes de communication propre. Ce qui donne à l’initiation un caractère poétique et esthétique, dramatique et instructif, linguistique et extralinguistique, verbal et non-verbal, en un mot, symbolique, dans la transmission des secrets propres et les informations concernant la vie et le comportement éthique. Chacun de ces aspects ont leurs composantes didactiques et cognitives qui résultent en syntonie avec l’ensemble. Ce qui saute aux yeux dans l’initiation en Afrique est que toute la personne de l’initié soit bouleversée dans sa corporéité. Ainsi on peut oser affirmer que la corporéité est la fondamentale condition d’une initiation authentique. Dans le cadre de l’initiation chrétienne, le but de la ritualité est de conduire aussi à cette dimension de la corporéité où dans l’expérience du corps, avec tout ce qu’elle comporte de sentiments, de volonté, d’émotion ou de désir, l’agir humain est porté à son accomplissement. Terrin le montre très bien : «il rito è un mettere in esercizio la sensiblità, i sensi : è la possibilità che ci è data di creare un tipo di communicazione attraverso il corpo»5. Cette généralisation résulte d’une étude phénoménologique et structurelle de l’initiation vodoun. 5 A.N. Terrin, Religione visibile. La forza delle immagini nella ritualità e 4
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D’ailleurs, la progressive structuration du procès rituel dans la Tradition de l’initiation chrétienne s’est réalisée dans le bouleversement de la personne de l’initié dans toute sa corporéité. On comprend donc, à juste titre, que le RICA considère que le processus de l’initiation soit fait dans le respect du candidat et dans le discernement de l’action de l’Esprit Saint, parce que c’est un cheminement exigeant de conversion et de croissance dans la foi. Un tel cheminement, qui tire son origine de l’action de Dieu, est vécu dans la communauté ecclésiale qui accueille et soutient le nouveau croyant jusqu’à l’engendrer à une vie nouvelle ; ceci est fondé sur une série d’engagements personnels de réponse à Dieu et de progressif changement de mentalité et de coutume6. Le processus de formation est donc soutenu par l’écoute de la parole de Dieu et de la catéchèse, par les rites et célébrations, par des exercices ascétiques et pénitentiels et par l’accompagnement ecclésial7. Cette transformation de la personne s’opère comme un rite de passage d’un état à un autre, comme expérience symbolique de la mort à de la vie, dans une dimension liminale où se fait une autre expérience de l’espace et du temps. 1.2. L’initiation chrétienne comme expérience du passage de la mort à la vie Le schéma des rites d’initiation que présente van Gennep permet de lire l’initiation chrétienne sous le prisme d’un rite de passage, en s’appuyant sur la structure la plus antique de l’initiation chrétienne telle qu’elle a été reçue de la Tradition Apostolique et que la RICA a rendu opérative en répartition en trois phases : in questo itinerario, oltre ai tempi della ricerca e della maturazione sono previsti vari «gradi» o passaggi per i quali il catecumenato nella fede, Morcelliana, Brescia 2011, 7 : «Le rite est une mise en exercice de la sensibilité et des sens : c’est la possibilité qui nous est donné de communiquer avec le corps». 6 Cf. RICA n. 19. 7 Cf. Consiglio permanente della CEI, L’iniziazione cristiana. 1. Orientamenti per il catecumenato degli adulti. Nota pastorale, Roma 1997, n. 26.
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avanzando passa, per così dire, di porta in porta o di gradino in gradino. Il primo grado si ha quando uno, dando inizio alla conversione, vuol diventare cristiano ed è accolto dalla Chiesa come catecumeno . Il secondo grado si ha quando, cresciuta la fede e quasi terminato il catecumenato, viene ammesso a una più intensa preparazione ai sacramenti . Il terzo grado si ha quando, compiuta la preparazione spirituale, riceve i sacramenti che formano il cristiano8.
Trois sont donc les grades qui doivent être retenus comme les moments les plus importants de l’initiation et qui sont marqués par trois rites liturgiques : le rite d’admission au catéchuménat pour le premier grade, le rite d’élection pour le deuxième et la célébration des sacrements pour le dernier. Mais au-delà d’un rite de passage, l’initiation chrétienne est elle-même un passage de la mort à la vie. Car si l’état d’être sur un seuil donne au rite d’initiation chrétienne le caractère d’un rite de passage, cette initiation suppose ce grand moment liminal qui permet de se détacher de l’ordinaire de la vie quotidienne pour vivre en profondeur le mystère de la mort et de la résurrection du Christ. Et si ce moment liminal vient à en manquer, le rite d’initiation sera toujours moins efficace au risque de perdre de son sens et de ne jouer plus son rôle de construction de l’identité chrétienne. En suivant fondamentalement la tripartition de van Gennep, certains auteurs comme Simone Vierne ont proposé un autre aspect de l’initiation en mettant l’accent sur l’une ou l’autre dimension. Au sujet de l’initiation, Simone Vierne cite Mircea Eliade en disant que: l’initiation équivaut à une mutation ontologique du régime existentiel. A la fin de l’épreuve, le néophyte jouit d’une toute autre existence qu’avant l’initiation : il est devenu autre [...]. L’initiation introduit le novice à la fois dans la communauté humaine et dans le monde des valeurs spirituelles. Il apprend les comportements, les techniques et les institutions des adultes, mais aussi les mythes et les traditions sacrées de la tribu9. 8 9
Cf. RICA n. 6. M. Eliade cit. in S. Vierne, Rite, roman, initiation, Seuil, Paris 1971, 10.
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Cette dimension philosophique de l’initiation met l’accent sur le changement qui se traduit par une expérience de la mort à la vie. «Être initié, c’est apprendre à mourir», disait Platon. Dans cette perspective, l’expérience de la mort devient une expérience initiatique où la rupture et la séparation sont symboliquement vécues. Le cheminement initiatique selon Simone Vierne est donc perçu comme un passage de la mort à la vie qui se fait en trois (ou quatre) étapes. La première étape, une étape préparatoire, se constitue dans le choix d’un lieu sacré qui sépare de la communauté et permet au candidat de se purifier. Cette préparation comporte trois aspects distinctifs, dont le dernier seulement est toujours attesté. Le lieu d’initiation, lieu sacré, doit être aménagé selon des rites précis [...] ; le myste doit être purifié ; enfin, il doit être séparé des profanes et ce dernier aspect constitue à la fois le terme de la préparation et le début de l’initiation10.
La séparation avec la famille ou la communauté constitue déjà une expérience de mort initiatique mais à un degré primaire. C’est à la deuxième étape que se fait l’expérience véritable de la mort initiatique. Cette expérience comporte deux moments : d’abord un moment rituel où le néophyte fait rituellement son entrée pour radicaliser la séparation soit dans un rapt symbolique ou dans une perte de connaissance en prenant une potion ; ensuite un moment où le candidat fait les voyages initiatiques en subissant des épreuves. Selon Simone Vierne, ces voyages se déclinent sous quatre modes différents : soit une mise à mort rituelle, soit un retour dans le sein maternel, soit un voyage sur une île enchantée, soit une descente en enfer. Il s’agit surtout d’un voyage intérieur, d’un état de rêve dont le novice va se réveiller dans la dernière phase de l’initiation. Le voyage initiatique est donc constitué par une série d’images archétypiques essentielles, puisqu’elles intéressent le statut de l’homme, en ce monde et au-delà de la vie. Le voyage apporte une réponse mystique [...] à la question que l’homme se pose toujours sur son statut d’être humain, sa place dans le cosmos, et son destin11. 10 11
Vierne, Rite, roman, initiation, 14. Vierne, Rite, roman, initiation, 38
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La dernière étape réside dans la renaissance où le sujet fait sa sortie, se réveille, prend un nouveau nom et rejoint définitivement sa communauté pour y prendre sa place. Si on peut dire que l’initiation constitue une dimension spécifique de l’existence humaine, c’est surtout parce que seule l’initiation confère à la mort une fonction positive : celle de préparer la «nouvelle naissance», purement spirituelle, l’accès à un mode d’être soustrait à l’action dévastatrice du temps12.
Ainsi, à travers ce passage de la mort à la vie, l’homme sait qu’il devra vivre dans un monde profane et que l’initiation lui donne les moyens d’y vivre autrement et mieux. L’initiation chrétienne vue sous l’angle du passage de la mort à la vie, met alors l’accent sur le changement et le renouveau nécessaire à toute démarche initiatique et qui conduit le néophyte de l’état de créature à celui de filiation divine dans une renaissance par l’eau et par l’Esprit, dans la mort et la résurrection du Christ. L’initiation chrétienne sous cet aspect de l’expérience de la mort et de la vie radicalise sa finalité dans l’événement fondant qui trouve sa source dans le mystère pascal. Mais l’efficacité du changement que produit l’initiation réside aussi dans la nouvelle dimension qu’elle donne au temps et à l’espace.
2. La liminalité comme facteur de conversion et remède au syncrétisme : la structure de l’identité chrétienne dans la médiation symbolique de l’église 2.1. Le rapport de l’expérience religieuse avec le corps social ecclésial La médiation symbolique rituelle passe par la corporéité pour renvoyer à l’altérité. Mais au même moment, la notion de la corporéité reste solidaire d’un héritage culturel et social. Le corps M. Eliade, Naissances mystiques, Corti, Paris 1959, 274, cit. in S. Vierne, Le voyage initiatique. In : Romantisme, 1972, n. 4 : «Voyager doit être un travail sérieux.», 37-44. 12
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propre, s’insérant dans ce réseau symbolique de son groupe d’appartenance se constitue en un corps social et culturel. Le rapport à la communauté donne à la corporéité d’être non seulement un corps propre, mais aussi un sujet situé à travers le triple rapport avec la nature, la tradition et la culture. La corporéité inclut un triple aspect du corps dans la nature, la tradition et la culture. C’est dans ce triple aspect que l’être est constitué comme sujet situé dans le temps et dans l’espace. Un sujet dont l’ipséité13 s’articule dans ces trois aspects de la corporéité, à la jointure de l’historicité, de la contemporanéité, et de l’altérité. Envisager le rapport de la liminalité avec la corporéité, c’est montrer le lien entre l’efficacité symbolique et l’efficacité somatique. Turner le montre d’ailleurs bien dans le long rituel Ihamba14 où l’extraction d’une dent hors du corps remédie à l’animosité qui existe entre le malade et son village. Par ce rituel, la guérison somatique «refait la santé du corps social»15 non dans l’ordre de la causalité mais dans l’ordre symbolique. Ce rapport à la corporéité met en valeur la médiation d’une langue, d’une culture, d’une histoire, comme le creuset où se fonde la vérité du sujet. Car toute pratique sociale est une mise en jeu du corps parce que le corps est le lieu privilégié où se nouent les rapports anthropologiques fondamentaux16. C’est donc aussi par le corps que l’appartenance sociale s’opère et que l’identité sociale est acquise. A partir du triple aspect de la corporéité, le corps social ecclésial s’apparente à un élément essentiel de la liminalité en ce qu’elle crée une communitas qui déstructure les valeurs fondamentales de la société originelle pour mieux les reconstruire. Il ne faudrait pas oublier que la société se crée à partir des seuils qu’elle gère elle-même. Ainsi l’Église aussi se développe à partir Le fait d’être situé dans le temps et l’espace. Heidegger entend la corporéité comme une ipséité du sujet dans son triple rapports avec l’être au monde (in-der-Welt-sein), l’être avec (mit-sein) et l’être déjà. Cf. M. Heidegger, L’être et le temps, Gallimard, Paris 1964, 85. 14 V. Turner, Les tambours d’affliction. Analyse des rituels chez les Ndemba de Zambie, Gallimard, Paris 1972, 192-193. 15 Turner, Les tambours d’affliction, 300-302. 16 Le rapport entre la nature, la culture, et l’individu et le rapport entre la société, le pouvoir et l’individu. 13
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de l’expérience liminale qu’elle assure dans l’initiation chrétienne. La force de la liminalité entre en jeu lorsque l’initiation chrétienne permet au corps propre du sujet de tirer vraiment parti du processus en ajustant ces liens avec le corps social ecclésial. C’est dans ce rapport que le sujet, situé dans l’espace et le temps, réalise une transformation comportementale durable. En réalité, l’identité chrétienne se construit par la médiation symbolique de l’église. C’est l’église qui médiatise l’expérience religieuse pour le chrétien. «Le passage à la foi requiert le consentement à l’Église, car c’est en elle que le Seigneur Jésus se donne à rencontrer»17. Un tel consentement permet la performance du passage à la foi, de sorte que, par elle et en elle, est réalisée l’insertion dans un ordre symbolique propre à elle et qui répond à ses critères, ses rites, ses célébrations liturgiques et son engagement éthique. C’est à partir de là qu’en elle l’expérience religieuse personnelle s’ouvre à l’universalité, car cette expérience personnelle du sujet est limitée par les structures symboliques et le contexte historique et socioculturel de sa célébration. Il y a donc une articulation entre l’expérience personnelle et celle ecclésiale. Si l’expérience de l’initiation chrétienne est une expérience symbolique, il importe de noter que c’est une expérience dans laquelle le rite, dans la perspective de Durkheim, est un moyen avec lequel le corps social ecclésial se réaffirme périodiquement18. A vouloir identifier avec Durkheim le «sacré» avec le «social», il va sans dire que cette réaffirmation du rite par le groupe ouvre sur l’expérience du sacré. Il faudra noter tout de suite que l’objectif ici n’est pas de réduire le religieux au social, mais surtout d’entrevoir, à travers la médiation du corps social, la relation que la structure sociale ecclésiale entretient avec la fonction rituelle dans les rites religieux19. De même, dans la perspective de V. Turner, les aspects de la liminalité et de la communitas peuvent se retrouver dans la 17 L.-M. Chauvet, Symbole et sacrement. Une relecture sacramentelle de l’existence chrétienne, Cerf, Paris 1987, 177. 18 Cf. E. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Newton & Compton, Roma 1973, 388. 19 Cf. A.R. Radcliffe-Brown, Struttura e funzione nella società primitiva, Jaca Book, Milano 1975, 140-167.
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vie de l’Église dans la célébration des sacrements. Le rite sacramentel a un aspect liminal qui pousse le fidèle à s’engager de l’intérieur. La célébration de l’eucharistie, par exemple, crée une communauté anomique qui dépasse les distinctions de statut et de classe ; ce qui fait de l’eucharistie une célébration de la communitas. Le rite est une action symbolique, et, en tant que telle, cette action, par la liminalité, s’exprime à partir d’une communauté, et par un sujet situé dans un temps et un espace performatif. Le rite de l’initiation chrétienne met donc en jeu l’espace et le temps initiatique, le corps du sujet initié et la communauté chrétienne. La médiation symbolique de l’église met en valeur le rôle de la communauté chrétienne dans la performativité rituelle par la structuration de l’identité de l’initié. Deux éléments sont donc rigoureusement en jeu : le corps propre du sujet et le corps social, le rite en rapport avec le corps, et le rite en relation avec la communauté. Ce qui fait de l’initiation chrétienne une expérience corporelle dans l’espace et le temps. 2.2. L’initiation chrétienne comme expérience corporelle dans le temps et dans l’espace La mort symbolique qu’opère l’initiation crée une relation originale entre le ciel et la terre. Elle permet, en effet, à l’initié d’ouvrir sa conscience sur les horizons de l’espace et du temps pour découvrir le chemin qui conduit à la transformation et à la perfection. Car le but de l’initiation est de donner vie à l’homme converti ; c’est un chemin d’accomplissement qui doit permettre à l’être humain de s’ancrer définitivement dans le spirituel. Ceux qui suivent le chemin de l’initiation savent bien que le «vieil homme» doit mourir pour laisser la place à l’«homme nouveau» entièrement régénéré. C’est donc à juste titre que Mircea Eliade définit l’initiation comme «une mutation ontologique du régime existentiel. A la fin des épreuves, le néophyte est devenu un autre»20. Il s’agit d’un changement de régime ontologique qui 20 M. Eliade, Initiation, rites, sociétés secrètes, Gallimard, Paris 2004 (Collection «Folio»), 12.
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est la conséquence de la nouvelle dimension spatio-temporelle qu’expérimente le corps dans l’initiation. L’initiation chrétienne offre à la notion du temps et de l’espace une valence performative et sacrée pour la pratique rituelle. En effet, la liturgie ne peut pas se comprendre sans cette référence au temps parce que le rite avec son processus rythmique et répétitif constitue une des antiques pratiques de mesurer le temps. De même la relation que le rite entretient avec le corps accorde d’expérimenter la rencontre de l’événement historique du mystère du salut avec les sacrements qui célèbrent cet événement21. L’initiation chrétienne permet donc à l’initié d’intégrer le sens de l’histoire du salut et de pouvoir opérer le passage de la temporalité à l’éternité, à travers la dynamique du temps liturgique qui le conduit de la linéarité du temps à une vision circulaire ou cyclique, dans la répétition rituelle. La relation au temps permet ainsi à l’initiation de s’inscrire au cœur du mystère du salut qui est le fondement de la vie religieuse. De même, le rapport de la liturgie avec le temps sous-entend son rapport avec l’espace comme lieu sacré où se réalise pour l’homme l’événement du salut. L’espace sacré est surtout un lieu défini, distinct des autres espaces et qui focalise l’attention sur le sens religieux des actions à accomplir ou des objets présents en ce lieu. L’espace sacré comporte des symboles et des éléments qui, non seulement, visent la communication du monde humain avec le divin, mais aussi constitue le lieu de sa manifestation et de sa représentation22. Cet espace opère en soi une rupture avec l’ordinaire du temps pour ouvrir à une dimension nouvelle du temps et de l’espace23, tout en étant un lieu de la représentation du monde. Ainsi dans l’espace initiatique, se réalise la rencontre du visible et de l’invisible, où l’humain s’unit à la transcendance, G. Bonaccorso, Celebrare la salvezza. Lineamenti di liturgia, EMP Abbazia di Santa Giustina, Padova 2003, 183-187. 22 Cf. J.P. Brereton, Spazio sacro, in M. Eliade (a cura), Enciclopedia delle religioni, vol. 1, Marzorati - Jaca Book, Milano 1993, 523-534. 23 Bonaccorso, Celebrare la salvezza, 199- 204. 21
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pendant que le temporel se transfigure en intemporel. Autrement dit l’initiation chrétienne s’ouvre au mystère de l’incarnation pour laisser le Verbe s’incarner dans le néophyte sans faire économie du temps et en créant l’espace adéquat pour l’intégration de l’évangile. Cette intégration des valeurs évangéliques tisse l’identité chrétienne. L’initiation chrétienne s’illustre alors comme une initiation à l’Église qui a son temps et qui requiert un degré de participation à l’initié. Dès lors, la formation catéchuménale dans ses dimensions à la foi théorique et pratique offre un temps et un espace qui permettent l’intégration harmonieuse de la foi dans ses différentes dimensions rationnelle et affective, théorique et pratique, spirituelle et matérielle. Une telle initiation, déterminée par les rites, a un début et a une fin et s’ouvre réellement à une dimension liminale24. Avec cette nouvelle découverte de la liminalité, l’initiation chrétienne retrouve toute son efficience. Elle met en jeu non seulement le cadre anomique de l’initiation, qui a pour finalité de créer une continuité et une rupture par rapport à l’ordinaire de la vie, mais aussi la propriété propre du rite à créer des sentiments et des émotions fortes qui font émerger l’initié dans le flux de l’initiation et opèrent la transformation requise pour une expérience religieuse authentique. En réalité, par la liminalité, l’initiation chrétienne construit l’identité chrétienne de manière durable, d’abord en renforçant l’appartenance à la communauté ecclésiale. Et comme elle a surtout un aspect symbolique, elle assure ensuite une performance du rite en permettant à l’initié d’intégrer le symbolisme religieux et de parfaire sa première expérience religieuse chrétienne. Ceci se réalise sous une nouvelle dimension de la corporéité qui est un aspect important pour les structures symboliques de la vie chrétienne. Le contexte clos de l’initiation joue, en effet, un rôle symbolique qui, en séparant l’individu du monde ordinaire, l’intègre dans le monde où les valeurs chrétiennes prendront sens peu à peu. Cette liminalité est indissociable de l’ensemble du processus de l’initiation chrétienne avec lequel il forme un tout dans 24 Bien que d’autres espaces peuvent être offerts au chrétien pour l’approfondissement de la foi et la pratique spirituelle.
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la construction de l’identité du chrétien. Mais cette identité ne s’édifie qu’au milieu des incertitudes que crée la liminalité. Car elle est le fruit d’une conversion dont la liminalité est le moyen en raison du cadre anomique et de la symbolique rituelle qu’elle permet. La liminalité en tant que lieu d’incertitude devient un lieu de conversion, parce qu’il est le cadre où le symbole prend corps. Lieu où le symbole est intériorisé et porté aux limites de sa capacité de transcendance et de porter au tout-autre. On aurait pu dire qu’à travers la liminalité on fait l’expérience de l’exil où le sujet est porté à opérer un dépassement de soi pour assumer sa nouvelle condition et espérer un avenir meilleur. Par exemple, le peuple de Dieu en exil est porté à négocier avec le nouveau monde dans lequel il vit, à intérioriser la loi du Seigneur et à se fier au Dieu de la grâce. C’est là qu’il acquiert une identité nouvelle25. Ainsi les étapes rituelles de l’initiation chrétienne ont besoin de ce cadre physique liminale pour que les rites célébrés aient toute leur performance. L’église, par son architecture, représente déjà symboliquement aussi ce cadre liminale ; mais le rôle paraît insuffisant si les catéchumènes ne sont pas auparavant plongés dans un contexte de rupture avec l’ordinaire de leur vie. Car c’est à partir de cette rupture qu’ils pourront réussir leur immersion dans le rituel de l’initiation chrétienne. Au cœur de cette immersion rituelle, l’opération de la médiation symbolique est réalisée. Puisque c’est en corrélation avec les autres éléments de la séquence rituelle qu’un élément rituel fonctionne comme symbole et opère la médiation d’identité. Le symbole, dans ce rôle de médiation d’identité, s’étend sémantiquement à tout élément ou objet qui, au sein d’un groupe permet de se reconnaitre et de s’identifier. Ainsi, par exemple, dans l’initiation chrétienne, la croix, la Bible, le sel, l’eau, le pain et le vin sont des médiateurs d’identité chrétienne en ce qu’ils introduisent le néophyte dans le monde chrétien auquel il est initié. Cette médiation du symbole, à travers la corporéité, fait du rite de l’initiation chrétienne une articulation des sentiments qui ne se pose pas au moyen du discours, mais à travers des 25
Cf. Jer. 29.
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actes qui visent à exprimer des expériences primordiales et originaires de la vie. Ce qui est en jeu c’est l’expérience religieuse qui, dans la liminalité rituelle, est une transformation symbolique de l’expérience humaine fondamentale. Il s’agit surtout d’un être-corps, d’une mise en exercice du corps qui, dans le rite, agit sur le réel en opérant une transformation sur les représentations du réel. Le corps se découvre ici comme une expression primordiale du rite. Car «les sacrements nous attestent que le plus vrai de la foi ne se réalise pas ailleurs que dans le concret du corps»26. Dans l’initiation chrétienne, l’entrée dans la foi se joue donc sur une mise en scène rituelle où le corps propre de l’initié est un lieu d’articulation symbolique, à travers l’expérience primordiale du chant, du silence, de la danse, des gestes et postures. Cette articulation se fait dans un rapport avec le corps social et le corps traditionnel et le corps cosmique. Dans le cas de l’initiation chrétienne, le corps social ecclésial, avec ses symboles propres, permet au catéchumène d’avoir une lecture riche et originale de l’histoire, de la vie et de l’univers. Le corps traditionnel, au cœur de l’église, soutient l’édifice symbolique et rituel à travers les références aux gestes et aux paroles du Christ. Le corps cosmique de l’univers, comme don de la création, utilise les éléments naturels (eau, pain vin, huile,) comme «fragments symboliques» de la médiation sacramentelle. Les sacrements sont ainsi faits de matérialité signifiante : celle d’un corps qui ne peut les vivre qu’en s’y soumettant par une démarche déjà programmée, par un geste dûment prescrit, par une parole institutionnellement prévue [...] ; celle d’une régulation par la tradition apostolique vivante référée aux livres des écritures reconnus comme canoniques ; celle d’une manipulation d’éléments et d’objets qu’il n’est pas loisible à chacun de choisir selon ses convenances27.
La performance de l’initiation chrétienne ne s’acquiert donc pas par voie doctrinale mais par le biais de la symbolique rituelle en faisant une articulation de la sensibilité, et des sentiments de 26 27
Chauvet, Symbole et sacrement, 148. Chauvet, Symbole et sacrement, 159-160.
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l’initié en rapport avec les valeurs fondamentales de la communauté des croyants. L’expérience religieuse chrétienne met ainsi en jeu le sujet dans sa situation concrète de corps propre et le fait intégrer dans le langage de l’église et de la culture. Et ce faisant, il construit efficacement l’identité chrétienne. 3. Une structure de l’identité à partir du contexte 28
socioculturel africain
pour une réforme de l’initiation chrétienne
Envisager ici la structure de l’identité chrétienne est non seulement une étape méthodologique pour analyser les implications de l’initiation traditionnelle dans l’initiation chrétienne, mais aussi un stade logique où la notion de la liminalité se confronte avec la réalité de la religiosité post moderne. La liminalité restera une notion abstraite si elle ne s’arrime pas au contexte d’inter culturalité dans lequel se trouve actuellement la culture africaine. Si elle articule la croyance avec l’appartenance pour affermir l’identité chrétienne, il faut reconnaître que le contexte social postmoderne ne lui concède plus ce rôle. Car il met la religion non plus sur la sphère de la communauté mais sous un mode privé qui dissocie la croyance de l’appartenance. Sans oser ici un diagnostic sociologique, psychologique ou culturel du problème de la sécularisation qui dans le contexte africain s’allie à la globalisation pour porter un coup à l’identité culturelle et religieuse, il faudra reconnaître qu’une théologie pastorale passerait pour une œuvre vaine et non avenue, si elle n’intègre pas dans ses analyses les acquis des sciences humaines et des sciences de la nature. L’exposé d’une structure de l’identité chrétienne, se basant sur les analyses précédentes, se circonscrit donc ici dans le cadre de la résolution du problème du syncrétisme à partir de la recherche de la liminalité. On y découvre une identité construite sur trois piliers que sont la famille, la communauté de base et la célébration rituelle sacramentelle. Ceci implique une ecclésiolo28
Rappeler qu’il s’agit d’une étude à partir du contexte socioculturel fon.
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gie de communion et d’appartenance29 à partir de laquelle l’initiation se réforme, et sous laquelle la liminalité apparaît comme un élément catalyseur de la croyance, de l’appartenance et de l’identité chrétienne. 3.1. La famille comme élément fondamental de l’identité chrétienne La notion de la famille renvoie à l’idée qui est aux origines de la vie personnelle et sociale. La famille est la cellule de base de la société, le lieu naturel de la première éclosion de la vie, lieu originel de la vie sociale. Si l’homme est un être social, la première communauté à partir de laquelle il apprend les valeurs essentielles de la vie, est la famille. En effet, elle est le lieu de la première éducation aux valeurs fondamentales de la société, centre où l’on s’initie à la vie et à la morale sociale. Par elle, l’homme s’enculture et acquiert son identité personnelle et sociale. Ainsi la famille a un caractère primordial pour la personne et pour la société. Mettre la famille comme élément fondamental de la structure de l’identité chrétienne, c’est donc recourir à sa fonction première d’enculturation. Une fonction qui d’une part tisse l’identité personnelle de l’individu, et d’autre part, étoffe cette identité en l’articulant avec le social. Déjà l’importance de la famille pour l’individu réside avant tout dans le climat d’affection qui éduque l’enfant à la responsabilité, en structurant de l’intérieur sa personnalité dans l’éducation au vrai et au bien et dans l’apprentissage à l’amour. De même, en tant que première structure ou société humaine, la famille offre à la société les meilleures garanties contre l’individualisme et le collectivisme en construisant une communauté qui dans l’identité sociale vise à considérer la personne comme une fin et non comme un moyen. Ici la personne communie à un idéal de vie qu’il a reçu 29 Ce terme de l’ecclésiologie de communion et d’appartenance ne s’inscrit pas dans le discours théologique du rapport de l’église universelle avec l’église particulier. C’est un emprunt qui met en relation l’église domestique comme noyau de l’église paroissiale en passant pas la communauté ecclésiale de base.
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dans la transmission d’une tradition qui crée de l’intérieur son appartenance au groupe. C’est donc sous cette double fonction d’élément structural de l’identité personnelle et sociale que la famille construit l’identité chrétienne. Et elle le fait à partir de sa dimension culturelle et ecclésiale. Si le schéma du contexte social en milieu africain30 part de la famille nucléaire (hennu) pour s’ouvrir à la maisonnée ou collectivité (xwédo), puis au clan ou à la tribu (ako), le rôle de la famille se fait principe d’individuation pour une meilleure appartenance et une réelle identification.
Schéma 1 : Structure de la société traditionnelle africaine.
L’identité en milieu africain part de la personne en lien avec son ancêtre éponyme ou totémique. De la même manière, l’identité chrétienne fondée sur le Christ, part de la famille comme Église domestique31 pour s’ouvrir à l’Église comme famille de Dieu. 30 31
Rappeler qu’il s’agit d’une généralisation à partir de la culture fon. Cf. Jean Paul II, adhort. apost. Familiaris consortio, n. 21.
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L’église domestique L’église communauté de base L'église famille de Dieu
Schéma 2 : Structure de l’ecclésiologie de l’Église famille de Dieu.
Une ecclésiologie de l’Église famille de Dieu part de la parole de Dieu comme lieu de convergence de tous les rapports parce qu’en elle, les vrais liens de fraternité se tissent et s’ouvrent à une dimension universelle. C’est vers la Parole de Dieu que convergent tous les rapports dans l’église-famille de Dieu et c’est à partir d’elle que se constituent de vrais liens de fraternité aux dimensions universelles. Il en ressort que l’église-famille de Dieu enracinée dans le terreau de la culture africaine est le lieu où le Christ-Proto-Ancêtre et Parole de Dieu incarnée occupe le centre des rapports et de la vie communautaires. Devenir membre de cette famille exige une démarche d’écoute d’ordre kénotique et extatique, laquelle vise à un accueil favorable de la Parole de Dieu dans sa vie, au point d’en être transformé et de devenir soi-même une parole capable de renvoyer à la source de la Parole qu’est le Christ, Verbe de Dieu fait chair. C’est au cœur de ce nouveau rapport au Christ que la parole pourra circuler librement et de façon saine au sein de la communauté, et être à
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même de créer de vrais liens de fraternité et de solidarité entre les membres de la nouvelle famille32.
La famille devient alors le lieu fondamental où se construit l’identité chrétienne dans la communication de la vie de foi. Elle le fait avant tout en créant un réseau de relations entre la personne et les autres membres de la famille et entre la personne et la communauté de base. Ces relations sont basées sur la référence à une mémoire collective qui se vit dans une histoire commune et qui se célèbre à travers des rites. Dans ce contexte interculturel où le postmodernisme semble avoir le dessus, l’initiation chrétienne en intégrant le rôle de la famille, recherchera la place de l’enfant à partir des valeurs culturelles. Les rites de socialisation ou d’enculturation du nouveau-né comme le vidéton33 (rite de sortie d’enfant dans la culture fon) deviennent alors des lieux d’inculturation où l’initiation chrétienne peut déjà trouver un point d’ancrage dans la culture africaine. Mais ici, l’initiation devra opérer un rapport entre les symboles classiques de l’initiation chrétienne et ceux qui dans la culture peuvent être inculturés. A partir de là, elle pourra jouer pleinement son rôle dans la communication de la foi34. Une communication qui ne se réduit pas seulement à l’acte de communiquer, mais qui aide la famille à rendre «possible l’accomplissement de l’acte de foi qui structure l’identité croyante du sujet et de l’Église»35. Ici l’initiation chrétienne est appelée à prendre en charge l’individu dès la naissance. Comme quoi, la famille, comme «espace fondamental et original»36, Cf. R. Houngbedji, L’Église-Famille de Dieu en Afrique : selon Luc 8,1921 : problèmes de fondements, http ://books.google.fr/books?id=N8LdFxhiv3 EC&dq=Roger+Houngbedji+L’Église-Famille+de+Dieu (le 7 Janvier 2012, 18H35). 33 Cf. T.P. Apovo, Le symbolisme du sel dans le videton en milieu culturel fon. Une possibilité d’interpréter l’initiation chrétienne pour une liturgie adaptée au Bénin, Tesi di licenza presso l’Istituto di liturgia pastorale, Padova 2010, 144-160. 34 Cf. OICA 75. 35 B.S. Babelet, L’initiation chez les Gbaya kara. Consolider l’appartenance et donner une forte identité chrétienne, Tesi di dottorato presso l’Istituto di liturgia pastorale, Padova 2010, 145. 36 Cf. Babelet, L’initiation chez les Gbaya kara, 145-147. 32
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prépare le baptême de l’enfant parallèlement à l’attente de la naissance. Le recours au sacramental de la bénédiction de la grossesse est, dans ce sens, très suggestif. Si la famille est le lieu privilégié de l’initiation chrétienne, la communauté ecclésiale de base en est le lieu structural. 3.2. La communauté ecclésiale de base comme un élément structural de l’identité chrétienne La structure sociale africaine ouvre la cellule familiale (hennu) à la communauté de résidence ou parentale (xwedo) qui est un ensemble de cellules familiales déterminées dans une relation de parenté. Cette instance apparaît comme charnière essentielle à l’identification de la famille nucléaire. Parallèlement, l’église domestique trouve dans la communauté de base un appui fonctionnel dans la réussite de son rôle d’espace d’identification de la personnalité chrétienne de la personne. Elle tire sa cohésion sociale de l’exemple culturel ; dans le même temps, elle est appelée ici à dépasser la dimension clanique et tribale. Dans ce cadre, le chrétien apprend à intégrer la foi chrétienne à sa vie ordinaire pour une expérience religieuse plus profonde. Il est éduqué non seulement par les paroles mais aussi par l’exemple dans une prise en charge sociale et concrète de son groupe de vie. C’est au cœur de la communauté de base que l’on pourrait comprendre le rôle des parrains comme garants de l’appartenance du chrétien à son milieu de vie chrétienne. Du point de vue sémantique l’expression «Communauté Ecclésiale de Base» renvoie à une réalité endogène de l’Église qui, dans son adaptation à la réalité sociale de chaque peuple, voudrait être visible dans l’existence de chaque couche de la société et surtout dans le soin au plus pauvre. Déjà le terme «communauté» évoque la double tendance à vivre en groupe tant dans la société, en général, que dans l’église, en particulier, où elle n’a été manifeste que dans la vie monacale37. On n’ignore pas l’influence que la communauté de base a dans l’éclosion 37 Cf. M. Azevedo, Communautés ecclésiales de base. L’enjeu d’une nouvelle manière d’être Église, Le Centurion, Paris 1986, 234-236.
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de la religiosité populaire qui est un aspect essentiel pour l’expression de la foi. La communauté ecclésiale de base constitue donc une force pour la transmission de la foi. Car c’est à partir d’elle que dans le contexte africain la communauté paroissiale se forme. Le pape Jean Paul II disait d’ailleurs à propos des communautés de base : Les communautés ecclésiales de base [...] sont en train de faire leurs preuves comme centres de formation chrétienne et de rayonnement missionnaire [...]. Elles sont un signe de la vitalité de l’Église, un instrument de formation et d’évangélisation, un bon point de départ pour aboutir à une nouvelle société fondée sur la «civilisation de l’amour». Ces communautés décentralisent et articulent la communauté paroissiale, à laquelle elles demeurent toujours unies ; elles s’enracinent dans les milieux populaires et ruraux, devenant un ferment de vie chrétienne, d’attention aux plus petits, d’engagement pour la transformation de la société. Dans ces groupes, le chrétien fait une expérience communautaire, par laquelle il se sent partie prenante et encouragé à apporter sa collaboration à l’engagement de tous. Les communautés ecclésiales de base sont de cette manière un instrument d’évangélisation et de première annonce ainsi qu’une source de nouveaux ministères, tandis que, animées de la charité du Christ, elles montrent aussi comment il est possible de dépasser les divisions, les tribalismes, les racismes. Toute communauté doit en effet, pour être chrétienne, s’établir sur le Christ et vivre du Christ, dans l’écoute de la Parole de Dieu, dans la prière centrée sur l’Eucharistie, dans la communion qui s’exprime par l’unité du cœur et de l’esprit, et dans le partage suivant les besoins de ses membres (cf. Ac 2,42-47). Toute communauté – rappelait Paul VI – doit vivre dans l’unité avec l’Église particulière et l’Église universelle, dans une communion sincère avec les Pasteurs et le magistère, dans un engagement à se faire missionnaire en évitant tout repli et toute exploitation idéologique. Et le Synode des Evêques a déclaré : «Puisque l’Église est communion, les nouvelles “communautés ecclésiales de base”, si elles vivent vraiment dans l’unité de l’Église, sont une authentique expression de communion et un moyen pour construire une communion plus profonde. Elles constituent donc un motif de grande espérance pour la vie de l’Église»38. 38
Jean Paul II, Littera encyclica Redemptoris missio, n. 51.
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Ce souci de faire de la communauté ecclésiale de base un lieu propre d’évangélisation et de la vie de foi, au-delà de toutes les barrières39, conduit à rechercher son rôle dans l’initiation chrétienne surtout dans la dimension catéchétique. Dans le contexte culturel africain, en effet, le rôle structurel de la communauté ecclésiale de base, dans l’identité chrétienne, se trouve réellement dans son lien avec la catéchèse. Le rapport qu’elle entretient avec cette dernière est à la fois vital et constitutif dans la mesure où c’est de la communauté de base que l’ordinaire de la vie chrétienne prend corps. Et en tant que telle, elle est la source, le lieu et le terme du cheminement catéchétique. Le Directoire Général de la Catéchèse le dit donc à juste titre : La pédagogie catéchistique n’est efficace que dans la mesure où la communauté chrétienne devient la référence concrète et exemplaire du cheminement de chaque personne. Cela se produit si la communauté se propose comme la source, le lieu et le terme de la catéchèse40.
A partir de la communauté de base, la catéchèse, loin d’être un lieu d’appréhension et d’acquisition de connaissance religieuse devient un acte où l’Église se dit elle-même au cœur de la communauté41. Un acte qui naît de la volonté de la communauté de base à s’identifier à la parole qu’elle a reçue. De sorte qu’elle devient elle-même «une catéchèse vivante». Ainsi, «en vertu de ce qu’elle est, elle annonce, célèbre, agit et demeure toujours le lieu vital, indispensable et premier de la catéchèse»42. Si dans ce rôle structural de l’identité chrétienne la communauté de base apparaît comme le tenant et l’aboutissement de la catéchèse, la célébration du rite religieux prend un rôle plus caractéristique en ce qu’elle est l’élément de performance qui ordonne l’identité chrétienne de l’intérieur à partir de l’expérience personnelle du chrétien. Jean Paul II, Adhort. post syn. Ecclesia in Africa, n. 89. DGC 158. 41 Cf. DGC 78. 42 DGC 141. 39 40
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3.3. Le rite comme l’élément primordial de l’identité chrétienne L’accession à l’identité chrétienne ne s’auto détermine pas. Cela suppose une initiation à la foi chrétienne par laquelle on devient membre de l’Église. Cette identité implique le sujet qui accède à la foi et son rapport personnel avec l’Église dans laquelle cette identité est mise au jour. Le cadre naturel de la famille la prédispose, alors que le cadre structural de la communauté la modèle. Le recours au rite vise, avant tout, à dépasser le cadre institutionnel dans lequel la référence culture africaine pourrait enfermer l’identité chrétienne. Car même si l’identité n’advient qu’à travers un processus institutionnel, elle ne peut s’y réduire, parce qu’elle embrasse la possibilité d’existence comme sujet, mais aussi celle de la reconnaissance comme croyant. «Son identité à lui est liée à la confession de foi qu’il fait sienne, et donc au sens que, sur cette base, il donne à sa propre vie. Il est personnellement engagé dans son identité»43. Mais ce sujet croyant ne peut s’octroyer lui-même cette identité chrétienne. D’où le rôle du rite qui, dans la médiation symbolique de l’Église, confère cette identité chrétienne. Une phénoménologie des rites chrétiens met en évidence deux grands types de rites : les sacrements et les sacramentaux. Selon Louis Bouyer, «les premiers apparaissent comme des rites où c’est une action proprement divine qui se trouve comme mise à la portée, offerte à la mystérieuse participation des fidèles. Dans les seconds, au contraire, ce sont les actions ordinaires de la vie humaine qui sont introduites dans la sphère du sacré»44.
Les sacrements sont donc d’essence divine et, comme tels, ils font entrer le sujet dans le mystère divin et lui permet de faire son expérience religieuse, en lui communicant la vie même de Dieu. Cette expérience, à la fois religieuse et mystique, est «celle qui attire l’homme au-delà de son propre monde, qui le pousse à s’intégrer et le dépayse, le monde où Dieu ne règne pas 43 Cf. L.-M. Chauvet, Les sacrements. Parole de Dieu au risque du corps, Les éditions de l’Atelier - Éditions ouvrières, Paris 1997, 37. 44 L. Bouyer, Le rite et l’homme. Sacralité naturelle et Liturgie, Cerf, Paris 20092, 98.
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seulement en maître, mais où il est seul»45. Par le rite l’identité se construit alors dans le vécu intérieur où le sujet accède à une instance qui le transcende, et où sa réaction est à la fois celle de la peur et de la stupeur, telle l’expérience religieuse chez Otto du mysterium tremendum et du mysterium comme fascinans46. La configuration au Christ qu’opère le sacrement devient alors un élément important. Mais ce sentiment complexe de l’expérience religieuse accorde au rite un caractère ambivalent qui fait du sacrement une source et une ressource pour le sacramental. En effet, le sacrement, d’institution divine, agissant ex opere operato47 a une efficacité rituelle qui fait de lui la source et la ressource du sacramental48. Ce dernier, devenant en quelque sorte un prolongement du sacrement, se révèle comme le recours que le fidèle a de la médiation symbolique de l’Église. A partir de ce rôle primordial du rite qui joue dans un mode de configuration au Christ, l’initiation chrétienne devient une conduite symbolique ecclésiale et sociale à partir d’actes rituels qui permettent à la transformation de la personne et son insertion plénière dans le groupe des croyants. Le rite du Baptême, en permettant l’immersion dans la pâque du Seigneur, relie l’initiation à l’événement fondant de la foi. Si dans le baptême, tous les rites de purification par l’eau depuis l’aspersion d’eau bénite jusqu’aux lustrations les plus variées orientent vers la participation purificatrice à la mort et la résurrection salvatrice de Jésus49, les rites traditionnels de purifications, même s’ils Ivi, 99. Cf. R. Otto, Il sacro. Sull’irrazionale nell’idea del divino e il suo rapporto con il razionale, Morcelliana, Brescia 2011. 47 Ex opere operato est cette formule de Saint Thomas qui indique que la grâce est produite par l’opération de l’acte rituel lui-même ; elle ne dépend pas de l’état de grâce de l’opérateur. Autrement dit, l’efficacité des sacrements réside en eux même, en vertu de l’acte sacramentel et par le fait même qu’est accompli le rite qui les constitue. Cf. Saint Thomas, Somme théologique, III, q. 68, a. 8. (DS1608). Cf. Saint Thomas, In IV sent. d..2, q. 1, a. 4, sol. 4, ad 2. 48 Les sacramentaux prolongent d’une certaine manière les sacrements puisque, comme eux, ils cherchent à signifier le salut et que, comme eux, ils disent la sacramentalité de l’existence, c’est-à-dire la possibilité de chaque acte humain à recevoir la grâce de Dieu. On ne peut donc vraiment les comprendre qu’en lien avec les sacrements. 49 L. Bouyer, Le rite et l’homme, 100. 45 46
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sortent parfois du cadre initiatique, pourraient trouver ici une approche d’adaptation dans l’utilisation qu’ils font de l’eau lustrale. En clair, on pourrait bien remplacer cette eau lustrale par l’eau bénite et donner au rite traditionnel de purification une valeur chrétienne, sans qu’il prenne le pas sur le sacrement de la Réconciliation. De la même manière, le sacrement de la confirmation en continuité avec le don de l’Esprit Saint au Baptême, assure une configuration parfaite au Christ et un attachement plus solide à l’Église. Le problème majeur de la confirmation n’est pas seulement son adaptation aux réalités culturelles du milieu africain dans le renforcement des liens avec la communauté, mais surtout la redécouverte de sa place et de son lien direct avec le Baptême, dont il est l’achèvement. En effet, la place que le sacrement de la confirmation a actuellement laisse l’idée d’un sacrement diplômant qui libère de la pratique et de l’engagement de la foi. Quant à l’Eucharistie, sacrement de la présence réelle où le Christ, dans la célébration de son sacrifice pascal, est mangé50, elle est le lieu du mémorial. Tout en conservant la nouvelle vie reçue du baptême, elle réalise l’unité du corps mystique du Christ en incorporant pleinement le chrétien à l’Église. C’est ici le sommet de l’identification où le sujet communie à la divinité en mangeant Dieu. Si à partir de l’Eucharistie, on peut fonder la sacralité de tout repas, dans la bénédiction du pain, du vin, de l’huile et des fruits de la terre en général51, les rites traditionnels des fêtes des moissons, des prémices des récoltes, peuvent trouver aussi un sens dans l’Eucharistie. Le sens de l’offertoire, dans la liturgie Eucharistique trouve même déjà ici des éléments d’adaptation liturgique. Les rites de l’initiation chrétienne, même si leur efficacité rituelle et sacramentelle ne dépend pas du sujet, supposent une implication personnelle du sujet pour la réalisation objective de ce qu’ils signifient. Car le rôle du rite est l’insertion existentielle du sujet dans l’ordre symbolique de l’Église. Cet ordre implique la redécouverte de la liminalité comme un vecteur de l’efficacité rituelle et d’identité profonde. 50 51
Cf. SC 47. Cf. L. Bouyer, Le rite et l’homme, 99.
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4. La liminalité dans l’initiation chrétienne : l’implication totale du chrétien dans la communication de la foi
L’initiation chrétienne est l’expression d’une communauté qui éduque avec toute sa vie et qui manifeste son action au cœur d’une expérience concrète et ecclésiale. En ce sens, elle n’est pas une activité parmi tant d’autres, mais celle qui traduit l’expression propre de l’Église dans son essence de communiquer et d’engendrer à la foi, et dans sa vocation d’être mère et maîtresse. Le recours à la liminalité donne à l’initiation chrétienne de retrouver sa caractéristique anthropologique d’acte de se réaliser, de mourir à soi pour devenir ce à quoi on aspire : devenir homme et femme nouveaux, acquérir une personnalité et une identité nouvelle dans le Christ. Car la dimension pascale de la vie chrétienne suppose une restructuration de l’expérience initiatique dans le passage de la mort à la vie. C’est dans ce passage que les rites sacramentels de l’initiation sont opérateurs. Mais cette efficacité requiert une mise à jour de l’espace et du temps initiatique. Le temps du catéchuménat devient alors un temps où se vit une expérience liminale, et il s’ouvre sur une nouvelle dimension de l’espace et du temps sacré pour redonner aux rites sacramentels toute leur portée symbolique. 4.1. La redécouverte du temps du catéchuménat comme une période liminale La catéchèse constitue une étape importante dans la maturation de la foi. Elle s’appuie d’abord, sur la responsabilité du catéchumène ou sur l’éducation à la responsabilité pour entrer dans un cheminement de conversion qui transforme ses manières de croire et de vivre. La foi s’inscrit, de fait, dans la trame de l’expérience humaine dans toutes ses dimensions sociale, cognitive et psycho affective. Le catéchuménat permet ainsi une expérience existentielle et dynamique de la foi où la communauté de base essaie de gérer ses seuils pour mieux se structurer. La perspective, même si elle est éducative, insère le catéchumène dans un cheminement religieux et spirituel dont le devenir et l’avenir sont garantis par les sacrements de l’ini-
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tiation chrétienne. Le seuil recherché devient donc opérateur parce qu’il met les catéchumènes en instance anti structurale où ils créent spontanément une communitas. Aujourd’hui, la catéchèse apparaît dans le prolongement de l’école. Ce qui lui donne une liminalité faible basée sur les catégories de la camaraderie, l’appréhension et de l’acquisition de connaissance. Une telle liminalité ne répond pas à celui du catéchuménat qui pour sa part a besoin d’une liminalité de l’ordre initiatique, une liminalité, telle qu’elle a été décrite dans les rites de passage et qui donne au catéchuménat une dimension non seulement éducative mais surtout inductive dans l’ordre de la foi. Car il s’agira avant tout de rechercher dans le catéchuménat, comme aux premiers temps de l’Église, un mode de présence divine qui puisse donner à l’expérience ordinaire du catéchumène et du chrétien une valeur sacramentelle. Le premier élément que cela implique, c’est la gestion du lieu et du temps du catéchuménat. L’initiation chrétienne ne peut pas se résoudre à un parcours d’intégration à l’église. Elle constitue surtout dans un processus du devenir chrétien qui, dans la catéchèse, met le corps en situation dans le temps et dans l’espace pour le préparer à la liturgie qui l’introduit dans l’expérience de la révélation de Dieu. Le catéchuménat est donc une mise en œuvre de l’initiation chrétienne qui accorde le temps, le lieu, et l’espace nécessaire pour entrer dans le mystère de la foi. Le temps de l’initiation se détermine dans la durée. Sans être trop long ni trop courte, cette durée permet d’expérimenter intuitivement le mystère, de se laisser éclairer et d’être éprouvé par des seuils qui progressivement assurent la maturité de la foi. La recherche d’une juste durée fait de l’initiation un itinéraire où le rite de l’accueil ou de l’entrée au catéchuménat, réalisé au moins avec la participation de la communauté de base, délimite le moment liminal et implique le catéchumène à une attitude d’attente et de réceptivité. L’entrée au catéchuménat a ainsi une dimension ecclésiale et donne au processus de la foi une dimension publique. De même l’appel décisif, se faisant dans un cadre plus restreint et pendant le temps de carême, s’inscrit dans la recherche d’un seuil de maturité où le catéchumène est pris en charge spirituellement en accord avec le temps liturgique de l’Église. L’évêque,
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ici a un rôle qui n’est pas des moins importants, puisque c’est lui qui appelle les catéchumènes qui donnent leur adhésion personnelle dans un « me voici ». C’est à partir de cet appel décisif que les catéchumènes forment une communauté d’adhérents à la foi chrétienne, dont les structures pourraient, dans l’isolement du lieu de la catéchèse, s’apparenter à celle de la communitas dans les rites de passage. Le lieu de la catéchèse, dans cette optique pourrait rechercher dans l’isolement un lien avec ce passage que les catéchumènes sont appelés à faire. Si les moments de retraites spirituelles sont des moments forts et de ressourcements de la foi, les moments de la catéchèse, tel un temps d’initiation spirituel, pourront marquer dans la vie du catéchumène ce passage de la mort à la vie avec le Christ, dans le renoncement, le jeûne, et la prière. La conscientisation des exigences de la foi et d’appartenance à l’Église, auront là un aspect non seulement théorique, mais aussi pratique et rituel où certains rites des étapes du catéchuménat, tels les rites de l’exorcisme, de renonciation, de la reddition du Pater ou du symbole, pourront avoir toute leur importance pour renforcer le sentiment d’appartenance et l’identité chrétienne. C’est dans cet isolement que les catéchumènes, se retrouvant en une liminalité spatiotemporelle s’organisent en une communauté de foi qui apprend à vivre sur place les valeurs chrétiennes. Même si de manière logistique, cet isolement n’est pas possible pendant une longue durée, ou paraît impraticable pour le catéchuménat des enfants ou des adultes, il serait cependant important d’y recourir au moins pendant la préparation immédiate aux sacrements de l’initiation. Car aujourd’hui les moments de retraite de préparation aux sacrements de l’initiation, tels qu’ils se vivent dans le diocèse de Cotonou, ne comportent aucune rupture avec la vie quotidienne du catéchumène. L’exemple pastorale du diocèse de Diébougou, au Burkina Fasso, se révèle très enrichissant sur ce point : les catéchumènes en préparation aux sacrements de l’initiation sont appelés à tout quitter pour aller vivre la dernière partie de leur initiation dans un endroit isolé loin des occupations ordinaires et de leur milieu de vie. Ainsi le temps et l’espace du catéchuménat retrouve leur rôle dans la maturité sociale et psychologique de la foi.
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4.2. La redécouverte de la liminalité dans les rites des sacrements de l’initiation pour une eschatologie de l’initiation chrétienne La liturgie catholique est une action concrète et symbolique qui se déroule dans les limites de l’espace et du temps. Le lieu, c’est l’Église en tant qu’espace sacré. Le temps, c’est celui de la célébration. Mais ce qui fait la sacralité de ce lieu, et même du temps, ce n’est ni l’espace, ni le lieu comme tel, mais l’événement qu’il représente, la manifestation qui s’y déroule, le mystère qui s’y trouve ou s’y célèbre. C’est la dimension mystique de la manifestation divine qui donne la sacralité à l’espace et au temps. Cependant, la dimension chrétienne de la sacralité du temps et de l’espace s’ouvre à un horizon qui dépasse les limites spatiotemporelle et qui s’origine dans le Christ. L’Église, temple de l’Esprit Saint, ne fait qu’un avec le Christ «cet homme, de notre chair et de notre sang, surgi dans notre histoire, mais qui s’en est élevé, nous attirant après lui tout entiers, corps et âmes, auprès du Père, d’où il reviendra pour nous prendre avec lui. D’où cette nouvelle organisation de l’espace sacré dans l’église. La présence sur laquelle le culte s’y oriente n’appartient plus à la terre : le symbolisme et l’orientation nous y tourne vers les cieux nouveaux et la nouvelle terre où la justice habitera»52.
Les rites de l’initiation chrétienne, dans la recherche de leur sens ultime, dépassent donc le cadre ecclésiologique pour aller vers une dimension eschatologique. Le respect du cadre et de la fonction rituelle qu’offre la recherche de la liminalité, opère une rupture avec le monde ordinaire de la vie et une continuité avec l’action et la vie de l’Église. Cette vie chrétienne trouve sa source et son sommet se trouve dans la liturgie53. Dès lors, le rite du baptême, opère non seulement une rupture dans le temps mais aussi une rupture d’identité opérée par le passage par la mort et la résurrection du Christ. Ce passage engendre à une filiation nouvelle qui, dans la foi au Christ, intègre le baptisé dans la grande famille de l’Église et fait de lui un fils de Dieu. Le rituel d’eau symbolise un triple aspect du 52 53
Ivi, 235. Cf. SC 10.
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passage de la mort, de l’entrée dans la vie, et de purification rituel54. Un rite profondément liminal, dont l’effet essentiel est la naissance à la vie spirituelle55. Une naissance symbolisée par le geste de l’imposition des mains qui renvoie au geste biblique de bénédiction56 et d’adoption. Cette filiation est opérée dans le don de l’Esprit que symbolise le rite de la confirmation. Le rite de la confirmation, dans l’onction d’huile renvoie au geste biblique de l’onction royale (1S 10,1 ; 12-13 ; Ps 89,21), sacerdotale (Ex 29,4 ; Lv 7,36) et prophétique (1R 19,16). Si l’onction biblique a trouvé son accomplissement dans le Christ (Lc 3,16-19), on comprend pourquoi l’Église primitive faisait d’elle le geste symbolique qui fait le chrétien, parce que par l’onction il est configuré au Christ, «l’oint du Seigneur». L’onction du Christ comme Messie57 est inséparable de sa mission salvifique. Ainsi le rite de la confirmation retrouve cette dimension pascale qui porte le chrétien à un renoncement non seulement extérieur mais intérieur pour correspondre réellement à celui en qui il est configuré et, avec qui, il est appelé à entrer en un repas de communion. Dans rite Eucharistique, l’aspect ecclésiologique se rapporte aussi à celui eschatologique, dans le fait qu’à travers le banquet du mémorial de la croix le chrétien se rassemble en Église avec ses frères pour anticiper la venue du Seigneur. Le rite eucharistique permet, en effet au baptisé de s’unir en assemblée pour louer Dieu et rendre grâce, et pour prendre part au sacrifice en communiant à la table du Seigneur. Dans ce repas sacrificiel, il entre en communion intime avec le Christ, en anticipant déjà ici-bas, ce qu’il sera en lui. Ainsi dans le repas eucharistique, il expérimente la présence du Ressuscité non seulement avec lui dans la communion avec ses frères, mais surtout en lui. Le rite 54 G.-H. Baudry, Le baptême et ses symboles. Aux sources du salut, Beauchesne, Paris 2001, 1-11. 55 Cf. Saint Thomas, Somme Théologique, q. 69, a. 8 (trad. fr. Edition du Cerf, t. 4, 1986, 520). 56 Cf. Gen 48,14-17. 57 Luc et Jean annoncent que le parfum est versé sur les pieds de Jésus. Matthieu Marc et Jean traduisent cette onction comme une annonce de la sépulture de Jésus (Mt 26,6-13 ; Mc 14,3-9).
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eucharistique apparaît ainsi comme un repas rituel, qui éclate les limites de la liminalité à une dimension d’intériorité, pour initier à la communion avec Dieu et avec les frères en Église. C’est ici que se jouera le tout de l’identité et de l’appartenance chrétienne. Car le rite eucharistique a deux dimensions : il est à la fois initiatique et répétitif. Etant au sommet de l’initiation, il peut même apparaître comme un rite post liminal. Ce sont tous ceux qui ont été initiés qui participent pleinement au repas eucharistique. L’efficacité de l’eucharistie se trouve alors non seulement dans le respect du processus rituel, mais aussi dans la répétition, où elle ritualise non seulement les valeurs fondamentales de la communion à l’Église mais ramène à l’événement fondateur de la foi en Christ. Si l’initiation chrétienne trouve dans l’Eucharistie le sommet vers lequel elle tend, l’ordre inversé de Baptême - Communion - Confirmation se retrouve aujourd’hui mis en question et requiert une étude plus approfondie qui puisse revoir sa pertinence dans la pastorale aujourd’hui. En tout cas, de nos jours, la question ne peut plus se poser à partir du rôle de l’évêque, qui ne se réduit pas à la confirmation, mais qui est présent dans toute l’initiation chrétienne58. De plus, le respect du processus rituel implique une pastorale adaptée qui tienne compte de l’Eucharistie comme le sacrement vers lequel tend toute l’initiation chrétienne. Car «l’Église accueille au baptême en vue de l’eucharistie qui l’édifie dans sa phase historique et terrestre. Il importe donc de signifier davantage la dimension commotionnelle de l’eucharistie comme repas des initiés en le célébrant après la confirmation»59.
La répétition de l’Eucharistie fait d’elle le sacrement de l’identité chrétienne par lequel le chrétien persévère dans la foi. Les outils de cette persévérance lui sont donnés dans la dernière phase de l’initiation où il apprend à comprendre et à intérioriser le mystère du salut. 58 Les rites de l’élection ; et de l’imposition des mains peuvent aussi être faits pas l’évêque. Le sacrement de la confirmation est de nos jours aussi délégué au prêtre, même si le ministre ordinaire est l’évêque. 59 Cf. Babelet, L’initiation chez les Gbaya kara, 167.
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4.3. La mystagogie comme communication de la foi pour une identité profonde Phase de réagrégation et post liminale, la période mysta gogique est celle où le chrétien fait sa première connaissance, sa première entrée dans les mystères qu’il a vécus au cours de l’initiation chrétienne, et surtout dans la nuit de Pâque. La mystagogie réalise cette conduite au mystère et redit que le cheminement de l’initiation s’ouvre sur l’horizon ouvert de la contemplation de ce mystère. L’intelligence de la foi contenue dans les rites opère le passage du néophyte, de la conversion à la révélation de Dieu. Seul un cœur véritablement converti, purifié par le baptême, sanctifié par l’onction de l’Esprit, et habité par le Christ peut accéder à une certaine connaissance du mystère de Dieu en Jésus-Christ. Ainsi la mystagogie, tout en révélant l’importance de la liturgie, et surtout des sacrements de l’initiation, redonne valeur à la médiation de l’Église dans le rôle de la grande communauté qui accueille le néophyte. En réalité, ici c’est toute la communauté paroissiale, et non la communauté ecclésiale de base, qui prend en charge le néophyte, comme elle l’a été au cours des sacrements de l’initiation chrétienne ou au cours de la catéchèse dans la présence de l’évêque ou du prêtre. Ainsi c’est la vie chrétienne du néophyte qui est en jeu et qui reçoit le soutien de la communauté. De même, la communauté par ce soutien et par la présence du néophyte se renouvelle et se reconnecte à l’expérience à laquelle la conduit l’initiation chrétienne et qui consiste à mieux inscrire la foi dans l’engagement de la vie. La liminalité recherchée donc n’est plus seulement dans l’ordre spatiotemporel, ni de l’ordre rituel, mais des deux. Car elle prend en charge le chrétien tout entier pour un réel accès à la foi personnelle. Il s’agit donc d’une recherche ou d’une construction de l’identité chrétienne à partir du «sanctuaire intérieur» de la conscience et de l’engagement personnel60. Le remède au syncrétisme ne réside pas dans une religiosité populaire mais dans la recherche d’un équilibre entre ce que la religion apporte et le meilleur que la culture donne à l’individu. 60
Cf. GS 16.
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Si le meilleur d’une culture se perçoit, par-delà de l’utopie collective, dans le projet éthique qu’elle se donne, le meilleur d’une religion s’entrevoit dans la construction intérieure qu’elle réalise à partir de la vision du monde et de Dieu. La mystagogie introduit dans une ecclésiologie de communion où la communauté de l’Église s’implique dans la conduite aux mystères, comme un peuple qui rend témoignage au néophyte de la communion qu’il vit. Cette implication conduit à une dépossession généreuse de l’expérience ordinaire pour entrer, encore une fois et avec le néophyte, dans le projet d’une expérience nouvelle fondée sur le Christ. Une expérience qui, dans l’écoute de la parole de Dieu et dans la liturgie, structure l’identité de foi du néophyte et de l’Église. Cette expérience toujours renouvelée dans le Christ, est appelée à s’ancrer dans le vécu culturel du néophyte où l’identité chrétienne pourra trouver des repères pratiques qui, pour la plupart, se trouvent dans l’ordre rituel et éthique. Sous cette perspective, l’œuvre de l’inculturation se perçoit comme un processus de l’évangélisation des profondeurs culturelles à partir du rite et de l’intériorité de la conscience. Déjà, dans le cas de la culture africaine, vivre en segbedji (vivre selon la voix créatrice de Dieu), appelle à une éthique d’intériorité où la conscience a un rôle primordial. De même l’engagement chrétien auquel conduit l’initiation chrétienne se réalise sur l’autel du sacrifice du Christ qui appelle le néophyte à un sacrifice qui, au-delà de l’éthique, implique la totalité de la personne. Ainsi, le témoignage issu de la communion avec le Christ n’a autre repère qu’une imitation du Christ dans la vie, et dans l’agir moral. En fait, «si la religion est le lieu de l’agir divin en faveur des hommes dans le Christ, l’éthique est le prolongement de cet agir salvifique. La morale chrétienne [...] présuppose l’agir de Dieu concrétisé dans les sacrements de la foi»61. Dès lors, la réagrégation socioculturelle et liturgique opérée par la mystagogie appelle le néophyte à rechercher du fond de son sanctuaire intérieure les limites indéterminées de son B. Adoukonou, Construire l’Église-famille de Dieu à partir du ’sanctuaire intérieur’, in Christianisme et humanisme en Afrique, Karthala, Paris 2003, 252. 61
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engagement personnel et total pour adorer, contempler, et vivre à partir de cette conversion intérieure son engagement et son adhésion au Christ. Si une société se construit à partir des seuils qu’elle gère elle-même, une conscience se construit, elle-aussi, à partir des limitations qu’elle se donne. Et ces limitations la fait vivre en une instance permanente de rupture et de distance par rapport au donné quotidien, pour mieux s’identifier et se configurer à celui qui se donne à elle dans les sacrements. Le plus grand remède du syncrétisme est donc dans la recherche de la liminalité comme cadre du rite dans la gestion de l’espace et du temps, comme propriété du rite dans le respect du processus rituel pour une efficacité symbolique. Ceci conduit à une conversion des profondeurs de la conscience qui dans l’identité acquise au prix d’une appartenance soutenue par la famille, la communauté de base et tout le corps ecclésial.
5. Conclusion La réforme de l’initiation chrétienne, face au défi du syncrétisme, a essentiellement pour but d’assurer la reconstruction de l’identité du chrétien. Cette identité chrétienne se construit à partir de la capacité du chrétien à prendre une part active dans la vie de sa communauté. Mais ceci dépend aussi de la capacité d’engagement de la communauté dans l’initiation de l’individu. Cette implication de la communauté est garantie par la liminalité qui est à la fois contexte et propriété du rite. L’analyse anthropologique révèle, en effet, deux aspects de la liminalité : la liminalité comme espace initiatique et la liminalité comme propriété du rite. Dans un cas comme dans l’autre, elle opère une rupture avec l’ordinaire de la vie, permet une immersion dans le processus rituel, pour forger un sujet rituel à partir des valeurs qui structure la communauté. Chaque initiation se structure à travers le mythe et le rite. La dimension rituelle a pour but de donner sens au mythe, car le mythe sans le rite ne peut s’inscrire ni dans le corps personnel ni dans le social et le rite sans le mythe devient coque vide.
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Dès lors, l’initiation chrétienne est appelée à se structurer sans perdre de sa spécificité, qui est une initiation au mystère pascal du Christ où le chrétien passe par l’expérience initiatique du passage de la mort à la vie en Jésus-Christ. Une expérience à la fois symbolique et rituelle qui s’inscrit dans un corps ecclésial et intègre la vie chrétienne dans la participation sacramentelle. Ainsi devenir chrétien comporte une évangélisation qui, sans perdre de vue le primat de la Parole de Dieu, intègre le chrétien à la vie chrétienne à travers la médiation du rite. Cette médiation du rite, considérée dans l’initiation chrétienne, suppose aussi un cadre qui la rende performante. Ce cadre, ce liminal, marque le seuil opératoire du rite qui, dans le contexte culturel africain est, assurément, un manque à gagner pour une évangélisation des profondeurs culturelles et une conversion profonde.
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Giorgio Bonaccorso (curatore), specializzato in teologia liturgica, si occupa dei riti religiosi e cristiani con particolare attenzione all’aspetto antropologico. Docente presso l’Istituto di liturgia pastorale di Santa Giustina (Padova) e altri Istituti teologici, collabora con alcune riviste e associazioni. Tra le sue pubblicazioni recenti ricordiamo: Celebrare la salvezza. Lineamenti di liturgia (2005); Il corpo di Dio. Vita e senso della vita (2006); Il dono efficace. Rito e sacramento (2010); La liturgia e la fede. La teologia e l’antropologia del rito (2010); Il rito e l’altro. La liturgia come linguaggio, tempo e azione (2012); L’estetica del rito. Sentire Dio nell’arte (2013). Christophe Laurent Cakpo, del Benin, si è licenziato presso l’Istituto di liturgia pastorale di Santa Giustina in Padova, con una tesi su L’initiation du vodounsi et le problème du syncrétisme chrétien en milieu f cn. Redécouvrir la liminalité pour une authentique identité chrétienne (2012). È dottorando presso il medesimo Istituto. Adriana Destro, docente di antropologia culturale e di antropologia delle religioni presso l’Università di Bologna, ha condotto ricerche sul terreno in aree mediterranee, Medio Oriente e Messico. Ha lavorato nel campo delle comunità locali e della globalizzazione. Vanta una lunga esperienza nell’analisi dei testi e delle tradizioni religiose scritte. Sulle tematiche culturali e religiose ha pubblicato: Complessità dei mondi culturali. Introduzione all’antropologia (2001, 2003); (a cura) Antropologia dello spazio (2002); Antropologia e Religioni (2005); (a cura) Antropologia dei flussi globali (2007); (a cura) Rappresentare (2012); I volti della Turchia (2012). Insieme a Mauro Pesce ha pubblicato Antropologia delle
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profilo degli autori
origini cristiane (1995, 2008); Come nasce una religione (2000); Le forme culturali del cristianesimo nascente (2006, 2008); L’uomo Gesù (2008). Luigi Girardi insegna teologia liturgica e sacramentaria a Verona ed è docente di liturgia presso l’Istituto di liturgia pastorale di Santa Giustina (Padova). Ha offerto diversi contributi, in particolare sull’iniziazione cristiana e su tematiche di teologia liturgica in rapporto alla questione rituale. Tra le sue pubblicazioni più recenti ricordiamo: Il rito in Sacrosanctum Concilium. Status quaestionis e spunti propositivi, in (a cura di A.N. Terrin) La natura del rito. Tradizione e rinnovamento (2010); L’ermeneutica dei libri liturgici e la comprensione del sacramento, in «La forma rituale del sacramento». Scienza liturgica e teologia sacramentaria in dialogo (2011). Giuseppe Laiti, docente di antichità cristiane allo Studio teologico San Zeno di Verona e all’Istituto superiore di scienze religiose della stessa città. Tra le ultime pubblicazioni: La chiesa nell’economia di Dio secondo Ireneo di Lione, in (a cura di E. Cattaneo - L. Longobardo) Consonantia salutis. Studi su Ireneo di Lione (2005; con C. Simonelli, Chiesa e sinodalità. Coscienza, forme, processi tra il II e il IV secolo, in R. Battocchio - S. Noceti (a cura), Chiesa e Sinodalità (2007); Basilio e la pratica della carità, «Communio» 220 (2009); Il corpo tra interiorità e relazione, in D. Alborello et Alii (a cura), Il corpo nell’esperienza cristiana (2011). Francesca Leto, architetto, si è licenziata presso l’Istituto di liturgia pastorale di Santa Giustina (Padova), con una tesi su Percorso, soglia, meta: lo spazio al limite. L’antifona esequiale “In paradisum...” tra rito e architettura (2012). È dottoranda presso il medesimo Istituto. Giuseppe Mazza insegna attualmente sociologia della religione e filosofia della comunicazione presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma. Ha insegnato comunicazioni sociali, teologia fondamentale e dialogo interculturale presso la Pontificia Università Gregoriana. Svolge un’intensa attività di ricerca a livello internazionale, collaborando con gruppi di studio e istituzioni universitarie in Europa e negli Stati Uniti. Ha all’attivo un cospicuo numero
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di pubblicazioni di carattere scientifico, edite e tradotte in varie lingue, su tematiche di filosofia, antropologia, sociologia, teologia, media e comunicazione. Tra i suoi lavori: Dio al limite. Prospettive per un cristianesimo di soglia (2009); Incarnazione e umanità di Dio (2008); La liminalità come dinamica di passaggio (2005). Romano Penna è professore emerito di Nuovo Testamento alla Pontificia Università Lateranense di Roma. È stato anche professore invitato, oltre che al Pontificio istituto biblico, in altre Università pontificie romane (Gregoriana, Urbaniana, Seraphicum) e allo Studium biblicum franciscanum di Gerusalemme. I suoi interessi vertono in modo particolare su san Paolo e il paolinismo, compreso l’ambiente storico-culturale, giudaico ed ellenistico, delle origini cristiane. Tra le sue molteplici pubblicazioni, ricordiamo in special modo due volumi sulla cristologia neotestamentaria (Ed. San Paolo), un grande commento alla lettera paolina ai Romani (Dehoniane), un volume sulle prime comunità cristiane (Ed. Carocci), uno sul Gesù storico (Dehoniane); è in uscita una raccolta di studi neotestamentaristici dal titolo Parola, fede e vita (Borla). Lucio Soravito de Franceschi, è vescovo della diocesi di Adria-Rovigo dal 2004 e segretario della Commissione episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi della Conferenza episcopale italiana. Licenziato in liturgia con specializzazione pastorale presso l’Istituto di liturgia pastorale di Santa Giustina (Padova), ha conseguito la laurea in Teologia con specializzazione pastorale presso l’Università pontificia salesiana (Roma). Roberto Tagliaferri è docente di teologia all’Istituto di liturgia pastorale di Santa Giustina (Padova). Si interessa di problemi epistemologici riguardanti la teologia e la liturgia in rapporto all’antropologia del rito. È autore di numerosi saggi e articoli sulla architettura dello spazio sacro e sui linguaggi estetici. Tra le sue pubblicazioni: La violazione del mondo (1996); La magia del rito (2006); Percorsi d’arte. «Per non morire di verità» (2007); Il matrimonio cristiano. Un sacramento diverso (2008); Liturgia e immagine (2009); La tazza rotta. Il rito risorsa dimenticata dell’umanità (2009); Saggi di architettura e di iconografia dello spazio sacro (2011); Il travaglio del cristianesimo. Romanitas christiana (2012).
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profilo degli autori
Aldo Natale Terrin, docente all’Università Cattolica di Milano, all’Università di Urbino e all’Istituto di liturgia pastorale di Santa Giustina (Padova), ha pubblicato varie opere tra cui ricordiamo: Il rito. Antropologia e fenomenologia della ritualità (1999); Mistiche dell’Occidente. New Age, Orientalismo, Mondo pentecostale (2001); Religione e neuroscienze. Una sfida per l’antropologia culturale (2004); L’Oriente e noi. Orientalismo e postmoderno (2007); La religione. Temi e problemi (2008); ha curato, di R. Otto, Il sacro. Sull’irrazionale nell’idea del divino e il suo rapporto con il razionale (2011).
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indice
Introduzione (Giorgio Bonaccorso) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 5 Prima Parte
la liminalità come origine del sacro e forma del rito
Il valore della liminalità nel contesto di una prospettiva rituale plurisemantica
(Aldo Natale Terrin) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 17
I. Il «limen»: la radice stessa della nostra esperienza religiosa?
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 17
1. Introduzione: il «limen» come «peak experience» e
punto d’incontro di esperienze religiose e simboliche . » 17 2. «Tras-gressione», alienazione, marginalità ed esperienza di morte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 19 3. Significato del termine in ambito antropologico-rituale » 22 4. Caratteristiche della communitas come status . . . . . . . . » 23 4.1. La spontaneità e la solidarietà . . . . . . . . . . . . . . . . . » 25 4.2. Allontanamento e distacco dalla società e dai suoi valori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 26 4.3. Visione dicotomica della realtà . . . . . . . . . . . . . . . . » 28 4.4. La consapevolezza di condurre un’esistenza liminale/marginale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 30 4.5. Accentuazione dell’esperienza religiosa interna ed emergenza del capo carismatico . . . . . . . . . . . . . » 31 4.6. Delineazione conclusiva: il bisogno di «margine» nella «communitas» rituale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 33
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II. Allargamento e approfondimento della liminalità
a livello di storia delle religioni . . . . . . . . . . . . . . . pag. 34
1. Il contesto rituale a livello di storia delle religioni:
dalla liminalità alla marginalità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 34
2. La marginalità come «una forma di dualismo» presente
nel mondo delle religioni. Una «differenza di mondi» . » 36
3. Per una teoria dell’«ascetismo»: fenomeno complemen-
tare alla liminalità. La nascita del mondo metaforico . . . » 38 3.1. Caratteristiche comuni della liminalità e dell’ascetismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 38 3.2. Il mondo simbolico e metaforico figlio della liminalità e dell’ascetismo? . . . . . . . . . . . . . . . » 40 4. Esemplificazioni a partire dalla storia delle religioni . . » 43 4.1. Dioniso e Shiva come divinità capaci di creare marginalità a livello mistico-esoterico . . . . . . . . . . . » 43 4.2. Il dio Dioniso con i riti dionisiaci . . . . . . . . . . . . . . » 44 4.3. Il dio Shiva nella tradizione indù . . . . . . . . . . . . . . . » 46 5. Breve excursus. Il pellegrinaggio: figura di liminalità e marginalità nello stesso tempo . . . » 48 5.1. Il pellegrino e il centro del mondo . . . . . . . . . . . . . » 49 6. Conclusione. Il «liminale» di cui dovrebbe farsi garante il rito in ordine all’esperienza religiosa . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 51
Elementi fondamentali della liminalità del rito
(Roberto Tagliaferri) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 53 53 60 62 69 72 74 77
1. Premesse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 2. La fenomenologia della liminalità rituale . . . . . . . . . . . . » 2.1. La liminalità dei riti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 2.2. Il pellegrinaggio fenomeno liminoide . . . . . . . . . . . » 2.3. Liminale e liminoide . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 2.4. Liminalità e pericolo rituale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 3. La liminalità nella liturgia cristiana . . . . . . . . . . . . . . . . » 3.1. Breve sondaggio storico sulla controversa vicenda
della liminalità nella liturgia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 79
3.1.1. Il riposo festivo della domenica . . . . . . . . . . . . » 80 3.1.2. Lo scrutinio e la catechesi morale
nell’iniziazione cristiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 84
3.1.3. La liminalità della penitenza canonica . . . . . . . » 86
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3.2. I divieti ecclesiastici contro la liminalità anomica
dei riti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 90
Vaticano II: una vicenda controversa . . . . . . . . . . . » 93
3.3. La liminalità secondo la riforma del concilio
3.4. Liturgia e vita: un rapporto senza soglia . . . . . . . . . » 95 3.5. I meccanismi liminali della liturgia cristiana . . . . . . » 99
4. Ripercussioni della liminalità liturgica sulla teologia . . » 101 5. Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 104
Incontrare il sacro. Liminalità e rituale (Adriana Destro) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 107 1. Modelli del religioso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 110 2. La relazione dialettica sacro-profano . . . . . . . . . . . . . . . » 113 3. La sacralizzazione muta lo stato di oggetti
e di persone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 115
4. Come si incontra il sacro? Quali sono le pratiche
che consentono di avvicinare il sacro? . . . . . . . . . . . . . . » 119
5. Quali componenti entrano nel «fare rituale»? . . . . . . . » 121 6. Liminalità iniziatica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 126 7. Alcuni caratteri «estensibili» della liminalità . . . . . . . . . » 127 8. Un quadro finale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 129
Seconda Parte
la liminalità nel contesto cristiano
Chiese delle origini e liminalità
(Romano Penna) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 135 1. La chiesa di Gerusalemme . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 137 2. Le ekkle¯ síai paoline e i loro rapporti con le istituzioni cultuali del tempo . . . . . . . . . . . . . . . . » 140 2.1. La forma di queste chiese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 140 2.2. Rapporti con le istituzioni cultuali del tempo . . . . . » 144 3. Il culto domestico dei cristiani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 148 3.1. Linguaggio cultuale e liminalità . . . . . . . . . . . . . . . . » 148 3.2. Culto e/o filosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 151 3.3. Lo svolgimento delle riunioni . . . . . . . . . . . . . . . . . » 153 4. Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 163
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La liminalità nei percorsi di iniziazione della chiesa antica. Lo statuto dei catecumeni (Giuseppe Laiti) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 165 1. Il tema:
il catecumenato come struttura di conversione . . . . . . . » 165
1. Indicazioni sintomatiche
offerte dal catecumenato antico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 167
2. Divenire cristiani nei racconti di conversione . . . . . . . . » 172 3. Cipriano di Cartagine e Basilio di Cesarea:
l’orizzonte ecclesiologico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 177 3.1. Cipriano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 177 3.2. Basilio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 179 4. Rilievi conclusivi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 180
La crisi della dimensione iniziatica nel contesto attuale (Lucio Soravito de Franceschi) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 183 1. Concetto di iniziazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 183 1.1. Natura dell’«iniziazione» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 183 1.2. L’iniziazione cristiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 184 2. Crisi del processo di iniziazione cristiana . . . . . . . . . . . » 187 3. Quale iniziazione cristiana oggi? . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 190 4. La liturgia componente «fondamentale»
nel processo di iniziazione cristiana . . . . . . . . . . . . . . . . » 192 4.1. Caratteristiche delle celebrazioni . . . . . . . . . . . . . . . » 195 5. La dimensione iniziatica della liturgia . . . . . . . . . . . . . . » 198 6. Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 202
Liminalità rituale e pensiero teologico (Giuseppe Mazza) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 203 1. Tra ferialismo e oscurità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 204 2. La liminalità: una risorsa inedita . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 206 3. Crimini e discrimini: il rito come violazione . . . . . . . . . » 209 4. Dis-soluzioni della forma: il rito come passaggio . . . . . » 214 5. Mediazioni domiciliari: il rito come prossimità . . . . . . . » 216 6. A distanza: sul levarsi del corpo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 218 7. Oltre le ritualità anestetiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 220 8. «Semeîon» ed «exousía» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 222
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Terza Parte
i linguaggi liminali del rito
La liminalità dello spazio sacro (Francesca Leto) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 227 1. Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 227 2. Liminalità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 230 3. Liminalità e spazio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 231 4. Tipi liminali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 233 5. Lemmario dello spazio liminale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 235 5.1. Arrivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 235 5.2. Attimo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 239 5.3. Decisione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 239 5.4. Differenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 240 5.5. Frammezzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 243 5.6. Frattura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 246 5.7. Grembo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 247 5.8. Illuminazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 249 5.9. Incontro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 251 5.10. Oltrepassamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 255 5.11. Silenzio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 256 5.12. Soglia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 259 6. Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 264
La liminalità della musica liturgica (Luigi Girardi) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 269 1. Tratti liminali dell’esperienza musicale nella liturgia . . » 270 1.1. La musica «non necessaria» e la sua apertura
sul simbolico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 271
di esperienza (tempo, spazio, corpo) . . . . . . . . . . . . » 273
e nella concertazione dei linguaggi . . . . . . . . . . . . . » 277
1.2. La musica come riorganizzazione delle condizioni 1.3. La musica liturgica nel ritmo della celebrazione
2. Prima conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 280 3. Il repertorio musicale per la liminalità rituale . . . . . . . . » 281 3.1. Rimodulazione della distinzione tra musica sacra
e musica profana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 282
3.2. Il caso dell’improvvisazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 287
4. Seconda conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 290
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appendice
De la liminalité du monde religieux à la liminalité chrétienne pour une identité profonde (Christophe Laurent Cakpo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 295 1. L’initiation chrétienne
comme expérience de la liminalité . . . . . . . . . . . . . . . . . » 297 1.1. L’initiation chrétienne comme une expérience symbolique et rituelle . . . . » 297 1.2. L’initiation chrétienne comme expérience du passage de la mort à la vie . . . . . . . . . . . . . . . . . » 300 2. La liminalité comme facteur de conversion et remède au syncrétisme : la structure de l’identité chrétienne dans la médiation symbolique de l’église . . . . . . . . . . . . » 303 2.1. Le rapport de l’expérience religieuse avec le corps social ecclésial . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 303 2.2. L’initiation chrétienne comme expérience corporelle dans le temps et dans l’espace . . . . . . . . » 306 3. Une structure de l’identité à partir du contexte socioculturel africain pour une réforme de l’initiation chrétienne . . . . . . . . . » 311 3.1. La famille comme élément fondamental de l’identité chrétienne . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 312 3.2. La communauté ecclésiale de base comme un élément structural de l’identité chrétienne . . . . . » 316 3.3. Le rite comme l’élément primordial de l’identité chrétienne . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 319 4. La liminalité dans l’initiation chrétienne : l’implication totale du chrétien dans la communication de la foi . . . » 322 4.1. La redécouverte du temps du catéchuménat comme une période liminale . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 322 4.2. La redécouverte de la liminalité dans les rites des sacrements de l’initiation pour une escathologie del l’initiation chrétienne . . . » 325 4.3. La mystagogie comme communication de la foi pour une identité profonde . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 328 5. Conclusion . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 330
Profilo degli autori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 333
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Finito di stampare nel mese di febbraio 2014 Villaggio Grafica – Noventa Padovana, Padova
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