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Italian Pages 240 Year 2021
Carlo Grassi La facoltà di giudicare Sociologia dell’agire normativo Con la prefazione e un testo di Jean-Luc Nancy
G u l l i ve r
Collana diretta da Francesco Valagussa
Gulliver | 10
Carlo Grassi La facoltà di giudicare Sociologia dell’agire normativo
Con la prefazione e un testo di Jean-Luc Nancy
Jean-Luc Nancy, Fraternity, in «Baltic Words», VIII, 1-2, 2015, traduzione di Carlo Grassi
© 2021, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Gulliver ISSN: 2499-7676 n. 10 - maggio 2021 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-224-5 ISBN – Ebook: 978-88-5529-225-2 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Due grandi mani proteggono un gruppo di persone uomini e donne dalle minacce esterne. © Hurca! – stock.adobe.com
A mia sorella Mia
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Avvertenza
Una versione ridotta di alcuni capitoli di questo libro è stata pubblicata nell’articolo Dissidio, stasis e società dipolari, in A. Condello - C. Grassi (a cura di), Law and the faculty of judgement, «Rivista di estetica», LVII, n. 65, 2017, pp. 120-142; e nell’introduzione Jean-Luc Nancy or Justice as Ontology of the ‘With’, in J.-L. Nancy, Dies Irae (1982), a cura di A. Condello, C. Grassi, A. Philippopoulos-Mihalopoulos, University of Westminster Press, London 2019, pp. 1-26. All’interno del volume viene pubblicato il testo Fraternità irremeabile, tr. it. di C. Grassi, versione ampliata di J.-L. Nancy, Fraternity, in L. Hagedorn (a cura di), On solidarity, sez. in «Baltic Worlds», VIII, n. 1-2, 2015, pp. 98-100. Tutti i passi ripresi da testi citati in edizione non italiana sono stati tradotti da Carlo Grassi. Quando la traduzione citata è stata modificata è stato sempre riportato tra parentesi quadre il passo in lingua originale.
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Prefazione di Jean-Luc Nancy
Come rispondere alla sollecitazione di redigere una prefazione per questo libro? Il quale a sua volta già contiene un’introduzione molto pregevole di Carlo Grassi1. Quest’ultimo non si è limitato a introdurre la versione inglese del mio testo Dies Irae, ma ne ha formulato ulteriori approfondimenti: lo ha prolungato e condotto più avanti. Per esprimere riconoscenza a lui, nonché ad Angela Condello e Andreas PhilippopoulosMihalopoulos, gli altri co-editori della pubblicazione inglese, ho ritenuto opportuno mantenermi non tanto sul piano del preambolo quanto piuttosto su quello retrospettivo. In modo tale da intenderlo come un serio motivo per spingermi ancora più avanti – foss’anche di molto poco – a partire dal lavoro qui raccolto. Un tale tema o motivo l’ho trovato – uno tra i vari possibili – nella “fraternità” a cui Carlo Grassi fa riferimento citando alcuni miei testi e a proposito della quale sono ritornato re-
1. Il riferimento è ai capitoli 15, 16 e 17, che riprendono e ampliano il saggio Jean-Luc Nancy or Justice as Ontology of the ‘With’, intr. a J.-L. Nancy, Dies Irae (1982), a cura di A. Condello, C. Grassi, A. Philippopoulos-Mihalo poulos, University of Westminster Press, London 2019, pp. 1-26.
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centemente pubblicando un altro piccolo saggio perché questo argomento mi sembra importante2. Dunque, a ciò che Carlo Grassi ripensa e commenta molto bene, è forse possibile aggiungere questo. La famiglia non è per antonomasia il luogo della giustizia? È importante, in effetti, che i figli siano trattati in modo equo – e questo indipendentemente dal contesto culturale e giuridico, nonché dalla composizione o dalla struttura di ciò che è nominato con la parola “famiglia”. I sistemi di parentela sono, come è noto, molto vari. Le differenze di genere (figli e figlie, fratelli e sorelle) sono trattate in molte maniere diverse, così come le differenze riguardo all’ordine di nascita (primogenito, secondogenito, ultimogenito), i ruoli di padre e di madre differiscono tra loro (e con quelli di zio, cugino, ecc.), ma ovunque l’ordinamento familiare contempla un problema di giustizia. Questo dilemma relativo alla giustizia può essere intrecciato in vari modi con quello della società: resta il fatto che nella maggior parte dei casi sussiste indubitabilmente un’asimmetria tra i due. Sbilanciamento che risiede nel fatto che la giustizia familiare non è sottomessa a delle leggi, ma è presupposta rispondere a un ordine naturale, esso stesso collegato al genere e alla generazione. La famiglia costituisce, o ha costituito (poiché oggi è in piena mutazione), la rappresentazione di un ordine “naturale”: quello per il quale il padre e la madre, in modo concertato o disgiunto, persino eterogeneo, incarnano la fonte o le fonti di un diritto che è anteriore a ogni diritto sociale perché nasce dalla rappresentazione di un’origine, vale a dire di ciò di cui il diritto sociale è sprovvisto. (Talvolta, una cauzione divina ne rafforza l’originarietà). 2. Fraternity, versione inglese di un testo scritto per una pubblicazione turca, pubblicato su «Baltic Worlds», VIII, n. 1-2, 2015, pp. 98-100. Una redazione più estesa di questo testo, intitolata Fratérnité irréméable, è tradotta qui in italiano in chiusura di volume.
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La concezione tradizionale della famiglia nella società occidentale prevede che un buon padre sia un padre giusto, una buona madre una madre giusta (il che non impedisce affatto che le due forme di giustizia differiscano, e anche di molto, ma qui non mi soffermo su tale questione). Il più delle volte, a prescindere dalle differenze di nascita e di sesso precedentemente menzionate, questa giustizia obbedisce all’amore paterno o materno. L’amore di cui qui si parla è di principio e gioca in definitiva il ruolo di legge della legge. Si tratta di ciò che attesta il vecchio proverbio: qui bene amat, bene castigat (“chi vuol bene come si deve, punisce come si deve”). Questo amore non comporta necessariamente una stretta uguaglianza. Tuttavia, le preferenze per un figlio o per un altro, che, entro certi limiti, possono essere considerate naturali, possono anche, in talune situazioni, essere vissute come gravemente inique. La giustizia o l’ingiustizia sono così presentite in un rapporto con l’origine tale da presupporre che quest’ultima debba essere compresa in quanto petizione di un’uguaglianza fondamentale, foss’anche complessificata o fuorviata da ogni sorta di fattori sociali o affettivi. La famiglia è il luogo in cui l’origine è la stessa per tutti e dove operare differenze tra i bambini procura delle torsioni o delle ferite di questo dato primordiale. Il che significa che la fraternità consiste prima di tutto nel fatto di essere tutti scaturiti da una stessa provenienza. L’autorità di questa provenienza è al di sopra di quella del padre o della madre (ancora una volta, trascurando qui le loro differenze). La famiglia è quindi il luogo di un acuto senso di giustizia e di una giustizia che consiste nel conferire ad ogni esistenza il riconoscimento della sua provenienza identica a quella degli altri. Ascendenza a partire dalla quale le rappresentazioni del Padre o della Madre come istanze supreme si scontrano di fatto con un’istanza più profonda e più antica: quella dell’origine, sia pure celata o cancellata proprio dalle figure paterna e materna. I fratelli e le sorelle sono quelli e quelle che sanno
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che non c’è nulla tra di loro, né essere comune, né legge comune, ma unicamente il fatto di ritrovarsi insieme in un certo spazio-tempo di esistenza. La fraternità/sorellanza (senza stare qui a considerare lo scarto tra le due) consiste nell’aver luogo nello stesso luogo. Il che vuol dire anche: non tanto isolamento né fuoriuscita dal mondo, ma situarsi di volta in volta in una situazione particolare in cui s’iscrive l’indeterminatezza originaria della loro provenienza (hasard, incontro, perfino sorpresa – ci si rammenti i casi, a questo titolo esemplari, del concepimento di un poeta secondo Mallarmé oppure di quello di Tristram Shandy3). Dunque, tutti i fantasmi di sangue, di lignaggio, di razza, nonché quelli di Paternità o di Maternità sacre, cedono il passo davanti a questo sapere inerente alla condizione stessa di “fratelli” e di “sorelle”. E, se resistono con forza, è evidentemente perché con questi fantasmi si cerca di ammantare l’indeterminatezza delle origini. In conclusione, tale indistinzione contiene anche il senso più semplice e più necessario di una giustizia per tutti o del pari diritto di esistere per ogni esistenza, in quanto tutte provengono dal nulla e nel nulla ritornano. Strasbourg, agosto 2020
3. Cfr. i versi di Stéphane Mallarmé, Parce que la viande était à point rôtie… (Sonnet [1862-1863], in S. Mallarmé, Œuvres complètes, a cura di H. Mondor e G. Jean-Aubry, Gallimard, Paris 1992, p. 22), e il romanzo di Laurence Sterne, Vita e opinioni di Tristram Shandy (1760; tr. it. di G. Aldi Pompili, pref. di A. Brilli, BUR, Milano 2014). A proposito di questi due testi e del loro significato più generale nella riflessione teorica di Nancy, cfr. Fraternità politica, ultimo capitolo del presente volume [N.d.T.].
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1 Koinós kósmos e idios kósmos: società del giorno e società della notte
L’universo ha una propria soggettività che, appunto, non è più antropomorfica, ma cosmica. Non una teodicea, ma una cosmodicea; non una somma di ingiustizie da espiare, ma la giustizia come legge di questo mondo. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia (1962)
Nel trattato La condizione umana, riprendendo un’analisi del filologo Werner Jaeger1, Hannah Arendt scrive: Secondo il pensiero greco, la capacità degli uomini di organizzarsi politicamente non solo è differente, ma è in diretto contrasto con l’associazione naturale che ha il suo centro nella casa (oikia) [οἰκία] e nella famiglia. Il sorgere della città-stato significò per l’uomo ricevere, “oltre alla sua vita privata, una sorta di seconda esistenza, il suo bios politikos [βίος πολίτικός]. Ora ognuno appartiene in un certo qual modo a due ordini; l’elemento privato (idion) [ἴδιον] e il comune (koinon) [κοινόν] nella vita del cittadino si dividono nettamente l’uno dall’altro”.2
L’uomo non è dunque, conclude Jeager nel testo originale, «solo “idiotico”, ma anche “politico”». 1. W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, vol. I, L’età arcaica. Apogeo e crisi dello spirito attico (1936), tr. it. di L. Emery, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 215. 2. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), tr. it. di S. Finzi, intr. di A. Dal Lago, Bompiani, Milano 1991, p. 59.
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Rielaborando le riflessioni di Arendt e indirettamente di Jaeger, Jean-François Lyotard distingue tre forme paradigmatiche di organizzazione sociale. (i) La prima, ancorata all’ideale dell’autarchia, «che caratterizza il pensiero occidentale, e che ritroviamo continuamente a livello politico», richiede una «stretta correlazione tra l’autonomia e l’autodeterminazione». All’interno di questo sistema ognuno «si dà da sé le sue proprie leggi»3 generalizzando le sue prerogative locali senza fare ricorso ad alcun’altra cauzione. (ii) La seconda fa perno sull’obbligazione, sul dovere, sul debito: «valorizza il polo del destinatario del messaggio» e propone un quadro nel quale «nessun enunciatore è mai autonomo» perché ogni «enunciatore è sempre al contrario qualcuno che è innanzitutto un destinatario e un destinato. Cioè qualcuno che, prima di essere l’enunciatore, di una prescrizione, è stato lui stesso ricettore di una prescrizione, di cui costituisce semplicemente il relais, e in tal modo è stato l’oggetto di una prescrizione»4. L’obbligazione prevede «tutto il contrario dell’autonomia, l’eteronomia»5. Quando, infatti, si «riceve un racconto che ci è stato raccontato», si è tenuti «a ri-raccontarlo, perché rifiutarsi di ri-raccontarlo vorrebbe dire che non lo si vuole condividere»6. In altri termini, nell’organizzazione sociale fondata sulla prescrizione, il fatto che «qualcuno mi parli, al contempo mi obbliga». Mi obbliga a cosa? «Mi obbliga a ri-raccontare». Non m’impone di restituire la narrazione al mittente. Mi costringe, invece, a doverla propagare, a promuoverne i contenuti, pena entrare in conflitto con la società
3. J.-F. Lyotard, Au juste. Conversations, con J.-L. Thébaud, Bourgois, Paris 1979, risp. pp. 90 e 78. 4. Ivi, risp. pp. 90 e 78. 5. Ivi, p. 84. 6. Ivi, risp. pp. 81 e 85.
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stessa, nonché essere da essa discriminato e perseguito: «non sono obbligato a renderglielo, non si tratta di questo, ma sono obbligato come un relais che non può conservare il suo carico, che è forzato a trasmetterlo»7. (iii) La «terza organizzazione», intessuta sull’accettazione del dissidio, è «popolare, propriamente pagana, “paesana” nel senso di pagana (e non l’inverso). Le genti del pagus (che non sono le genti del villaggio) sono delle genti le quali non raccontano che in quanto qualcosa è stato loro raccontato», ma che, inoltre, «sono esse stesse raccontate in ciò che raccontano»8. Il che significa che «si è sempre nell’opinione, che sulla situazione non è possibile fare un discorso di verità. E, se un tale discorso non è possibile, è perché si è in se stessi presi in una storia, non si può fuoriuscire dalla storia in cui si è per prendere una posizione metalinguistica e dominare l’insieme»9. L’analisi di Lyotard rimescola le carte e connette in modo inedito il rapporto tra obbligazione e autonomia, interdipendenza e autoreferenzialità, apertura e chiusura. In primo luogo, collega l’ideale di autosufficienza non con un sovrappiù di risorse, ma con l’idios kósmos. Con un ordine personale, ristretto, chiuso: intimamente privato perché strettamente singolare e dunque difficilmente condivisibile. In secondo luogo, associa il sentimento del vincolo con il koinós kósmos, lo spazio aperto della πολιτεία (politéia): lì dove degli uomini, estranei e quasi sconosciuti l’uno all’altro, si riuniscono, si riconoscono in un’azione comune, nonostante la disuguaglianza e le differenze reciproche. E, in terzo luogo, lungi dal distaccare, isolare o contrapporre manicheisticamente monade psichica e insieme sociale, Eigenwelt e Mitwelt, lascia 7. Ivi, p. 85. 8. Ivi, pp. 90 e 91. 9. Ivi, p. 98.
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trasparire dalla loro risonanza un momento pagano di στάσις (stásis): divergente accordo in correlazione con il quale idios kósmos e koinós kósmos si completano escludendosi, si avvolgono vicendevolmente pur a prezzo di confutazione e contestazione reciproca10. Ritroviamo l’intersezione di koinós e idios nel frammento di Eraclito secondo il quale «per coloro che sono svegli [εγρηγο ρόσιν, egregorósin] il mondo è uno e comune [κοινόν κόσμον είναι, koinón kósmon einai], ma quando prendono sonno [κοι μωμένων, koimoménon] si volgono [αποστρέφεσϑαι, apostré phesthai] ciascuno al proprio [ἕκαστος εις ίδιον, ékastos eis idion]»11. Da una parte, socialità, sfera pubblica, consensus gentium si accompagnano all’ovvio sociale e agli automatismi che concorrono alla genealogia delle formazioni di soggettività loro malgrado, istituendo un livello metalogico di senso comune: forgiando una concordia razionale di fatto su di uno sfondo di certezze non problematizzate. E fanno appello, in tal senso, 10. «Bisogna anche comprendere che la natura ci ha in un certo qual modo provvisto di due personalità [duabus quasi nos a natura indutos esse personis]: una, comune, è quella per la quale siamo partecipi della ragione e della sua superiorità, ci distinguiamo dalle bestie [antecellimus bestiis], ricaviamo ogni onestà e dignità [honestum decorumque trahitur] e acquisiamo il modo per prendere coscienza del dovere [qua ratio inveniendi officii exquiritur]; l’altra, invece, è quella assegnata specificamente ai singoli [proprie singulis est tributa]» (M.T. Cicerone, De officiis, in Id., Opere politiche e filosofiche, vol. I, Lo Stato, Le leggi, I doveri, tr. it., con testo lat. a fronte, di L. Ferrero, riv. da N. Zorzetti, UTET, Torino 1974, I, 107, pp. 646-647). 11. «Τοις εγρηγορόσιν ένα και κοινόν κόσμον είναι, των δε κοιμωμένων έκαστος εις ίδιον αποστρέφεσϑαι [tois egregorosin hena kai koinon kósmon einai, ton de koimomenon hekaston eis idion apostrephesthai]» (Eraclito, I frammenti e le testimonianze, tr. it. di C. Diano, Fondazione Lorenzo Valla- Mondadori, Roma-Milano 1989, fr. 9, pp. 10-11; Eraclito, Testimonianze imitazioni e frammenti, tr. it. di R. Mondolfo, L. Taràn, M. Marcovich, Bompiani, Milano 2007, gr. V, fr. 24, pp. 445-446).
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alla voce scaltra della comunità (della cultura) che non ha pace finché non riprende in seno quegli stessi che l’avevano sfidata. D’altra parte, il riferimento a «sapienza particolare [ἱδίαν ἔχον τες φρόνησιν, idian echontes phronèsin]»12, «idioletto privo di trasmissibilità», «monogramma», «fantasma incomunicabile»13, si declina in sonno e sogno, ὕπνος (húpnos) e ὄνειρος (óneiros): buio diurno e luce notturna, dormiveglia, nebbia del delirio, movimento cieco, azione senza pensiero né volontà. Da un versante, lucidità, attenzione, vigilanza, comunità dell’armonico, dell’unisono: società come verità, come mondo dell’integrazione sociale e dell’agire collettivo. Dall’altro versante, apoteosi dell’amor proprio, insensibilità verso il bene comune, solipsismo notturno di chi ascolta solo se stesso, non si spiega con nessuno, esce dall’ordine del dialogo per entrare nel miraggio onirico dove recitare: viviamo in un mondo tanto strano che vivere è soltanto sognare: e l’esperienza m’insegna che l’uomo vivendo sogna se stesso, fino al risveglio. Sogna il re d’esser re e vive in quest’inganno comandando, disponendo, governando; e gli onori che riceve glieli dà in prestito, scritti sul vento, e li converte in cenere la morte. Sogna il ricco, tra le sue ricchezze che gli dàn tanti crucci; sogna il povero, tra i patimenti, la sua povertà; sogna chi comincia a prosperare, sogna chi tenta e s’affanna, sogna chi oltraggia e offende, e nel mondo in conclusione, sognano tutti quel che sono, e mai nessuno lo intende. Sogno anch’io, qui oppresso in questo carcere; e sognai d’essermi
12. «Benché il Logos sia comune, i più vivono come se avessero una sapienza particolare [τοῦ λόγου δ᾽ ἐόντος ξυνοῦ ζώουσιν οἱ πολλοὶ ὡς ἱδίαν ἔχοντες φρόνησιν, tou logou d’eontos xynou zoousin hoi polloi hos idian echontes phronèsin]» (Eraclito, I frammenti e le testimonianze, cit., fr. 7, pp. 8-9; Id., Testimonianze imitazioni e frammenti, cit., gr. I, fr. 1, pp. 381-389). 13. J.-F. Lyotard, Il dissidio (1983), tr. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 91, 169.
20 visto in altro stato migliore. Cos’è la vita? Un delirio. Cos’è la vita? Un’ombra, un’illusione. E il più gran bene è niente; perché tutta la vita è un sogno; e i sogni sono sogno.14
È necessario quindi problematizzare l’antinomia tradizionale tra personalismo egoista e viva coscienza del dovere civile per la quale non appena ci si sottrae all’ordine comune si sprofonda nel disordine sfrenato e nel non-senso. Occorre, infatti, mettere in evidenza come insignificante non sia sempre e solo ciò che non ha significato, ma anche spesso valori e contenuti in grado di discernere senza pretendere di essere né universali né eterni: senza volere per forza assumere «una posizione metalinguistica e dominare l’insieme». Si giunge così a comprendere che, nell’interazione reciproca tra gli individui, mentre ci si espone e ci si apre agli altri, ci si separa violentemente da se stessi: che le due cose non sono mai interamente distinguibili. Che assumere l’orientamento verso il fuori e verso le cose prevede il movimento paradossale di affermare simultaneamente se stessi e il proprio contrario: che attivare una corrente relazionale in virtù del quale più corpi separati si auto-osservano come un insieme coordinato con un aspetto e una sfera di azione specifici, richiede di sperimentare la propria autonegazione e la propria auto-destituzione. E rilevare, inoltre, come sonno e sogno spoglino il mondo comune della sua pretesa alla totalità perché istituiscono dei πείρᾰτᾰ (peírata), dei legami limitanti che sfidano l’ἄπειρον (ápeiron): che si sottraggono al carattere sconfinato del calcolo razionale inteso come regula veri, senza, tuttavia, contraddirne l’infinitezza. Come scrive Michel Foucault: Il soggetto del sogno, o la prima persona onirica, è il sogno stesso, è il sogno tutto intero. Nel sogno, tutto dice “io”, an-
14. P. Calderón de la Barca, La vita è un sogno, tr. it. di V. Ludovici, G. Pacuvio, C. Pavolini, Il Dramma, Torino 1943, p. 54.
21 che gli oggetti e le bestie, anche lo spazio vuoto, anche le cose lontane e strane, che ne popolano la fantasmagoria. Il sogno è l’esistenza che si scava in spazio deserto, che si frantuma in caos, che esplode in baccano, impigliandosi, bestia che respira ormai solo a stento, nelle reti della morte. Il sogno, è il mondo all’alba della sua prima esplosione quando esso è ancora l’esistenza stessa e non è ancora l’universo dell’oggettività.15
Il sociologo canadese Fernand Dumont elabora tale dissidio prendendo in considerazione la vita sociale a partire dalla linea d’ombra che connette e distingue «società del giorno» e «società della notte». «Società come verità», come comunità che riconoscono nel compimento dell’agire il loro senso più proprio e per le quali «l’oggettività si costruisce a partire dall’intersoggettività»16. E «società come sogno»17, come mondo offerto all’immaginario. A un capo, le prime si sostengono su rappresentazioni collettive intese come nozioni tipo alle quali gli attori sociali sono tenuti a partecipare e all’interno delle quali s’inseriscono tutti quei dispositivi metalinguistici che intervengono stabilendo scale prescrittive di valutazione, piani d’inclusione e d’esclusione, gradi di normalità e di devianza: disegnando una rete mobile di forme, modelli e istituzioni che orientano le dinamiche di aggregazione e di disgregazione delle soggettività sociali attraverso un sistema di sanzioni e di gratificazioni. All’altro capo, le seconde intendono «rendere conto del mondo in altro modo che attraverso il sapere o l’azione»18 e si riferi-
15. M. Foucault, Introduzione (1954), in L. Binswanger, Sogno ed esistenza, tr. it. di L. Corradini e C. Giussani, SE, Milano 1993, p. 60. 16. F. Dumont, L’anthropologie en l’absence de l’homme, Puf, Paris 1981, risp. pp. 337 e 27. 17. Ivi, p. 336. 18. Ivi, p. 341.
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scono, quindi, a ciò che Lyotard, definisce un «pensiero-corpo (o infantia)»19: a beni e valori appartenenti alla sfera privata e intraducibili in moneta di scambio. Entità che non possono in alcun modo fungere da equivalenti generali perché appartengono alla dimensione delle certezze personali, degli affetti, della salute e del benessere psicofisico di ciascun individuo: la cui portata non riguarda la conoscenza ma la vita, il suo estremo, l’esperienza stessa. Il punto di vista delle “società della notte”, delle “società come sogno”, introduce un processo di dissipazione che interrompe l’equivalenza tra dire e significare: agglutina le parole con le cose rendendo sensibile il dissidio che anima il loro rapporto. Mette così in conflitto ciascuno con se stesso proiettandolo contro i limiti del linguaggio. Duplica ogni corpo, lo espone a ripetizione e variazione, lo espropria di se stesso convertendo il familiare in estraneo e in intimo lo sconosciuto. Mobile frammentazione che, mentre aiuta a stabilire una relazione speciale con sé sotto forma dell’essere affetti dalla propria auto-affezione, traccia una curva di espansione atta a far sperimentare con crescente durezza i confini del mondo, la loro forza di gravità. Tale da lasciar avvertire l’impermeabilità degli argini che circoscrivono «quella quasi-frase che è il dato sensibile» il cui valore referenziale rimane, «se non proprio sempre sospetto, almeno sempre sospeso a operazioni di convalida»20, al punto da scombussolare la nozione tradizionale di luogo come territorio stabile, uniforme, definito dalla sua topografia. La grammatica onirica, infatti, sostituisce al discorso le immagini, alla causalità la contiguità. Separa ciò che è unito e con19. J.-F. Lyotard, Il fatto pittorico oggi (1993), in Id., Rapsodia estetica. Scritti su arte, musica e media (1972-1993), tr. it. di D. Cecchi, pref. di H. Parret, Guerini scientifica, Milano 2015, p. 136. 20. J.-F. Lyotard, Il dissidio, cit., pp. 87, 88.
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fonde ciò che è separato: considera come solo mondo reale il mondo interiore composto da parole nude, ψιλοί λόγοι (psiloi logoi), e da cose che parlano da sole (res ipsa loquitur). In tale situazione l’ordinamento spaziale non coincide con una distribuzione di stati: non segue le leggi di permanenza, successione e simultaneità, ma le modalità particolari dell’avvolgimento e della fusione. Non serve più a separare e distinguere: non è altro che flusso e riflusso di figure in continua rototraslazione risultante dal movimento delle loro apparizioni intermittenti. In un mondo captato attraverso i veli opalescenti del sogno anche la temporalità non ha più un aspetto stabile. Senza inizio né fine né punto di ancoraggio ben definiti, disegna una curva dinamica di scorrimento e concatenamento il cui tragitto segue moto discontinuo e velocità variabili.
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2 Sistema dipolare, dissidio e pagus
Il terzo prototipo di società descritto da Lyotard prende in considerazione e incorpora il dissidio. In questo modello, koinós, regime collettivo concernente la totalità ordinata, l’impersonale, la norma, il generale; e idios, sistema individuale della contingenza e del sogno, fluente, instabile, disordinato, imprevedibile; benché reciprocamente irriducibili, non risultano completamente dissociati l’uno dall’altro, ma si ritrovano insieme, emuli e antagonisti, ciascuno in prima linea sul pagus come fronte di battaglia. Per spiegare tale prospettiva per la quale l’antinomia non si risolve in mutua esclusione, dobbiamo introdurre la nozione di momento dipolare. È necessario dispiegare i kósmoi koinós e idios all’interno di un modello di organizzazione sociale che si auto-descrive come un “campo magnetico”: come un parallelogramma di forze le cui intensità costituiscono linee di flusso in cui origine e termine si susseguono indefinitamente e, pertanto, conservano sempre una certa distanza che rende loro impossibile disgiungersi o unificarsi completamente. Anche se, infatti, un magnete viene spezzato in due, non è possibile separare le cariche opposte, ma ognuna delle due metà
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dà vita a un campo di dipolo. Questo fenomeno persiste qualsiasi sia il numero di pezzi in cui viene tagliata la calamita. Tutti i magneti sono quindi detti dipoli, vale a dire, con due poli opposti; perché descrivono una coppia di forze magnetiche di eguale valore, di segno opposto, rigidamente connesse e poste a una certa distanza tra di loro. In natura non è possibile trovare un polo magnetico isolato, senza che, da qualche parte, non ci sia un altro polo a bilanciarlo per ricostituirne il momento dipolare1. In un complesso di tipo dipolare, che dispone di “due principi anziché di uno solo” e la cui trama quindi, come spiega Alfred
1. La nozione di campo magnetico è stata impiegata nella ricerca sociologica in particolare de Pierre Bourdieu, il quale lo definisce «al contempo come un campo di forze la cui necessità s’impone agli agenti che vi si trovano impegnati, e come campo di lotte al cui interno gli agenti si affrontano, con mezzi e fini differenziati a seconda della loro posizione nella struttura del campo di forze, contribuendo così a conservarne o a trasformarne la struttura» (P. Bourdieu, Spazio sociale e campo del potere [1994], in Id., Ragioni pratiche. Sulla teoria dell’azione, tr. it. di R. Ferrara, Il Mulino, Bologna 1995, pp. 54-55). Nella prospettiva qui adottata gli attori e le forze non sono intesi in quanto autonomi e indipendenti, ma come dipolari, cioè separati e congiunti da un intervallo: come i punti focali di un campo ellittico di forze. Le intensità di campo non sono quindi considerate come totalmente distinte dalle forme su cui intervengono. Sono concepite piuttosto come emergenti a partire dalle relazioni reciproche degli individui, tra di loro e con l’ambiente in cui sono immersi, e interagenti con le azioni sociali singolari e collettive a cui pongono limiti e condizioni. Per Bourdieu, invece, si tratta di «trovare delle “particelle” che sono sotto l’imperio di forze d’attrazione, di repulsione, ecc., come in un campo magnetico. Parlare di campo significa accordare il primato a questo sistema di relazioni oggettive sulle particelle stesse. Si potrebbe dire, usando la formula di un fisico tedesco, che l’individuo, come l’elettrone, è un Ausgeburt des Felds, un’emanazione del campo» (P. Bourdieu, Finalità della sociologia riflessiva. Seminario di Chicago (inverno 1987-88), in Id. - L.J.D. Wacquant, Risposte. Per un’antropologia riflessiva, tr. it. di D. Orati, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 76).
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North Whitehead, intesse incessantemente «una natura primordiale e una natura conseguente»2, un “da dove” e un “verso dove”; parti e controparti sono contrarie, ma non contraddittorie. Una tale costituzione implica che l’incontro-scontro tra i due poli non possa mai finire con la negazione dell’uno o dell’altro. Né con una sintesi dei due né con l’inglobamento di uno da parte dell’altro: né Auflösung né Aufhebung. Le due sponde infatti sono correlate non da una linea pomeriale, ma da un campo vettoriale di forze: da una punteggiatura che di volta in volta ne fissa il perimetro di estensione e ne delimita l’arco cronologico di espansione nei termini della sovrapposizione di molteplici possibilità ognuna con un diverso grado di probabilità. Come scrive Lyotard, sono «i passaggi che circoscrivono i domini di legittimità e non i domini che preesistono ai passaggi e li tollerano. Cos’altro facciamo, qui, se non navigare fra le isole per poter dichiarare paradossalmente che i loro regimi o i loro generi sono incommensurabili?»3. Riprendendo e rielaborando la teoria di Lyotard, possiamo aggiungere che, considerando l’insieme come un sistema dipolare, la composizione-scomposizione tra idios e koinós si ordisce, come detto più sopra, attorno a «un pagus, una zona di confini», e fa in modo quindi che le parti in causa «entrino in conflitto sul modo di concatenamento. Guerra e commercio. È sul pagus che si fa la pax, il patto, è ancora sul pagus che la si disfa»4. Infatti, la parola latina «pagus designa in generale il paese, la regione, in opposizione ad Heim, home, cioè il villaggio. È del resto una parola molto bella, poiché è la parola
2. A.N. Whitehead, Processo e realtà. Saggio di cosmologia (1929), tr. it., con testo ingl. a fronte, di M. R. Brioschi, intr. di L. Vanzago, Bompiani, Milano 2019, p. 1303. 3. J.-F. Lyotard, Il dissidio, cit., p. 172. 4. Ivi, p. 190.
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da cui proviene pax, compagno, ecc. Si tratta giustamente del luogo dove si fanno i patti con qualcosa d’altro»5, dato che deriva dal verbo latino pango (piantare, conficcare) in riferimento alla cerimonia del clavum pangere: il conficcamento rituale del chiodo per segnalare le delimitazioni territoriali. Posto tra i kósmoi idios e koinós, all’interno del campo magnetico formato da questi ultimi, il pagus s’iscrive dunque in veste di μικρός διάκοσμος (mikrós diákosmos), a titolo di ambito intermedio (dia-kósmos): zona d’intermittenza e d’influenza che esclude ogni relazione armoniosa e ben calibrata per mettere in evidenza il loro concatenamento in termini di modulazione dissonante e smisurata. Linea d’ombra impercettibile discriminante l’intervallo secondo un’espansione non circolare ma ellittica: attribuendogli una configurazione virtuale che, invece di possedere un centro intorno al quale gravitare, prevede due fuochi che la tengono costantemente in tensione. A un vertice, l’insieme delle frasi ammesse come plausibili nel pubblico dibattito; all’altro, un termine d’intrattabilità, intransigenza, intransitabilità. Il primo circoscrive e assedia il secondo da tutti i lati, persino dal suo interno, ma è arginato dalla parzialità e dal partito preso dell’altro, che retroagisce su di lui e non gli è mai totalmente riducibile. In base alla sua etimologia, diákosmos designa l’ordine al suo stadio primario di dispersione, dissociantesi dal cosmo e scompaginantesi al proprio interno. Il prefisso διά significa attraverso, mediante, tra, fra, e fa riferimento al sanscrito dā e dvi, due, tagliare, dividere, attraversare. Denota quindi un valore separativo tra due elementi: introduce un senso di diversione, distinzione, differenza, rivalità, stasis. In breve, come spiega il filologo Alexander Mourelatos, il rimando a diákosmos spinge a considerare «la convocazione di tutti i contrari» in modo tale 5. J.-F. Lyotard, Au juste, cit., p. 98.
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che «il significato di ordine in -κοσμος viene ribaltato in “segregazione, divisione, scarto, conflitto”. Il κόσμος dei mortali è ora un campo di battaglia»6. Dunque, all’interno del campo d’interazione dipolare in seno al quale le estremità esercitano una forza repulsiva nei confronti dell’uguale e una attrattiva verso il diverso, il mikrós diá kosmos viene a occupare la posizione di arbitro che le correla in quanto rivali nel teatro di combattimento. Delineando così dei contorni di demarcazione e un’area d’interferenza instabili tra i due μόνομάχοι (mónomáchoi) che sono incommensurabili perché non posseggono le medesime regole di condotta né seguono la stessa direzione. Fino ad accendere una forza d’inerzia che, senza alterarne il carattere di figure a se stanti, li attrae in un mosaico di ricorsività7 per il quale, di volta in volta, quando l’uno diventa rilevante come campo tematico di esperienza e spazio positivo, l’altro riveste a il ruolo di cornice, spazio negativo e orizzonte di attesa, e viceversa: tensione di reciprocità nella quale non c’è più alcun prius né posterus. Riaccendendo il conflitto e restituendo legittimità al dissidio tra il «livello degli individui» e il «livello degli Stati», questo nuovo ambito d’intersecazione rende kantianamente «“più aperti 6. A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides (1970), Parmenides Publishing, Las Vegas-Zurich-Athens 2008, p. 231. 7. «Una figura si dirà tracciabile corsivamente se il suo sfondo è semplicemente il risultato accidentale del gesto grafico. Una figura si dirà ricorsiva se il suo sfondo può essere visto, a sua volta, come figura a sé stante. […] Il “ri”, in “ricorsivo”, sta ad indicare che sia la figura sia lo sfondo sono tracciabili corsivamente: la figura è “corsiva due volte” […]. Un “insieme ricorsivo” è come una figura il cui sfondo è ancora una figura: non solo esso è r.e. [recursively enumerable], ma anche il suo complemento lo è» (D.R. Hofstadter, Figura e sfondo, tr. it. di B. Veit, in Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante. Una fuga metaforica su menti e macchine nello spirito di Lewis Carroll [1979], ed. it. a cura di G. Trautteur, Adelphi, Milano 2007, pp. 74, 79).
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alle idee” in quanto costituisce la condizione che apre al pensiero degli incondizionati»8. Questo spazio vettoriale chiama in causa, in effetti, non solo l’essere, ma il divenire, non solo la posizione, ma anche la direzione: l’interminabile che non può essere integralmente percorso né compiutamente misurato perché sussiste in un processo di addizione e di divisione non numerabile. Che non è intero giacché fuori da esso resta sempre qualcosa di ulteriore che è mancanza, privazione, στέρησις, (sterēsis): che, in quanto tale, è aperto alla duplicità interno-esterno poiché ha dei confini, delle limitazioni, delle ianuæ Lethes (porte dell’oblio, dal greco Λήϑη, Léthê, oblio), ma non un punto finale che possa arrestarne la dinamica. In quanto formano un momento dipolare, dunque, consistenza e successione di idios e koinós sono antinomici, ma non alternativi. Di soglia in soglia, il loro divenire non è altro che correlazione reciproca di due poli irriducibili l’uno all’altro, ma indivisibili. Tuttavia, pur non tagliati, non spezzati, privi di debito, sciolti dall’obbligo, senza incarico, senza impiego; tali singoli ἄτομοι (átomoi, privi di τόμος, tómos, taglio) sono tuttavia porte. Hanno/sono due battenti, e uno sguardo diairetico, dialogico, biunivoco, bilineare9.
8. J.-F. Lyotard, Il dissidio, cit., p. 213. 9. Come scrive il fisico danese Niels Bohr, nella meccanica newtoniana «lo stato di un sistema di corpi materiali è definito dalle posizioni e velocità istantanee di questi» (N. Bohr, Fisica quantistica e filosofia; causalità e complementarità [1958], in Id., I quanti e la vita. Unità della natura. Unità della conoscenza, tr. it. e pref. di P. Gulmanelli, Bollati Boringhieri, Torino 2016, p. 100). Quando si passa, invece, all’interpretazione di «fenomeni elettromagnetici nei quali si osserva una propagazione di forze con velocità finita, una descrizione deterministica può venir data includendo nella definizione dello stato non solo le posizioni e le velocità dei corpi carichi a un dato momento, ma anche la direzione e l’intensità delle forze elettriche e magnetiche in ogni punto dello spazio a quell’istante» (ivi, p. 101). Tuttavia, «mentre l’energia e la quantità di moto sono legate al concetto di particelle
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Non avendo natura intrinseca, non essendo in grado, cioè, di essere funzionale a se stessa, ma sempre eteronoma, diretta a e da qualcos’altro, la cerniera di collisione-collusione tra i kósmoi idios e koinós mette infine in gioco una strategia strumentale, si fa diakosmētike technè. Convertita in macchina, possente ma disciplinata, titanica ma sottomessa, ricusa la specularità soggettiva in favore di permutabilità ricorsiva e duplicità combinatoria, implicanti al contempo uguaglianza e diversità: orchestra un incontro con il non io, l’ignoto, l’inconoscibile e manda così in frantumi l’universo logico costruito per porsi al riparo. Consente pertanto di testare antinomie e ambiguità razionalmente irriducibili: di averne libero accesso nell’ambito dell’esperienza. Si tratta di una pratica o di un’occasione che infrange la simmetria dell’osservazione ed espone al rapporto reciproco di dualità e unità tra forma dialogica e antilogica. Con la conseguenza che ci si ritrova scaraventati contro il proprio ingombro, i propri margini, il proprio minimum sensibile, le proprie frasi discendenti da facoltà eterogenee: contro il proprio essere disposti in un universo di frase, la propria stessa finitudine.
e possono perciò venire caratterizzate secondo il punto di vista classico mediante coordinate spazio-temporali, il periodo di vibrazione e la lunghezza d’onda sono relativi a un’onda armonica piana di estensione spazio-temporale illimitata [non numerabile]» (N. Bohr, Il postulato dei quanti e il recente sviluppo della teoria atomica [1927], in Id., Teoria dell’atomo e conoscenza umana, tr. it. di P. Gulmanelli, Boringhieri, Torino 1961, p. 328). Dunque, seguiamo ancora Bohr, a differenza delle particelle prive di carica, nel caso di particelle elettricamente attive «occorre tener conto anche della carica elettrica» ovverosia del momento dipolare «delle particelle che caratterizza l’interazione in questione: tutta l’importanza della carica elettrica appare qui evidente» (ivi, p. 331). Quando un campo ha influenza su una particella allora si dice che la particella è accoppiata al campo. La carica elettrica non è altro, infatti, che l’accoppiamento di un elettrone o di un protone con un campo elettrico o magnetico.
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3 Correlazione di personalità, sensus communis, diakosmētike technè
Émile Benveniste sostiene che «la coscienza di sé è possibile solo per contrasto. Io non uso io se non rivolgendomi a qualcuno, che nella mia allocuzione è un tu. È questa condizione di dialogo che è costitutiva della persona, poiché prevede reciprocamente che io divenga tu nell’allocuzione di chi a sua volta si designa con io»1. Tale situazione dipende da una peculiare concordanza che abbina “la coppia io/tu”: «si potrà quindi definire il tu la “persona non soggettiva”, di fronte alla “persona soggettiva” rappresentata da io; e queste due “persone” si opporranno insieme alla forma della “non-persona” (egli)»2. Adottando questa prospettiva si può dire che la prima e la seconda persona del verbo compongono un idios kósmos guidato da pulsioni singolarizzanti e assimilatrici mentre la terza abita il koinós kósmos delle intimazioni emananti dall’ambiente politico e sociale. Le prime due, infatti, continua Benveniste,
1. É. Benveniste, La soggettività nel linguaggio (1958), in Id., Problemi di linguistica generale, tr. it. di M.V. Giuliani, il Saggiatore, Milano 2010, p. 312. 2. É. Benveniste, Struttura delle relazioni di persona nel verbo (1946), in Id., Problemi di linguistica generale, cit., p. 277.
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sono congiunte da una solidarietà del tutto esclusiva che non riguarda in nessun modo la terza: «io-tu possiede il demarcatore di persona, egli ne è privo»3. Sono vincolate da una corrispondenza reciproca «in quanto membri di una correlazione, la correlazione di personalità»4, rispetto alla quale egli è del tutto avulso. In quanto estraneo alla relazione io/tu, egli si configura specificamente come privo di referente, una “non-persona” a “referenza zero”: «la “terza persona” ha la caratteristica e funzione di rappresentare, dal punto di vista della forma stessa, un’invariante non personale, e nient’altro»5. Si riescono così a distinguere due fuochi di riferimento tra i quali affiora una piega, emerge un campo ellittico di curvatura. (i) Sulla prima focale di “correlazione di personalità” si situa un processo di commutabilità tra l’io-tu e il tu-io: condensamento di γένεσις (génésis) e φϑορά (phtorá), generazione e corruzione, ὄρϑρος (órthros) e δύσις (dúsis), crescita e ripiegamento, fatticità dell’io e disparità del tu, unilateralità monistica e duplicità riflessa, cosalità dell’io che diventa tu del tu. Rapporto impossibile con il proprio doppio, i propri fantasmi: non coincidenza del sé con se stesso, processo di sdoppiamento (Entzweiung), amplificazione e demoltiplicazione del proprio nell’improprio.
3. Ivi, p. 276. 4. Ibidem. 5. Ibidem. «La terza persona può essere tutto ciò di cui si parla, cosa, animale o essere umano: lo confermano gli usi tra di loro incoordinabili del pronome “il” – il pleut, il faut, il y a, ecc. [piove, deve, c’è, ecc.] – così come la molteplicità delle espressioni alla terza persona – si, ciascuno, ciò, ecc. Se la terza persona è tanto inconsistente grammaticalmente, ciò dipende dal fatto che essa non esiste come persona» (P. Ricœur, Sé come un altro [1990], tr. it. di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 2005, p. 126).
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(ii) Sulla seconda focale, la serie sensus communis, spazio pubblico, riferimento comune a un’appartenenza condivisa, legame sociale, intersoggettività istituita, prevede una sorta di απάϑεια (apátheia): affrancamento dall’espansione cinesica soggettiva a beneficio di una forza attrattiva impersonale, che avviluppa gli omnes, e di una spinta repulsiva nei confronti delle singularitates considerate come forme degradate non integralmente distinte dall’animalità. Su questo capo, la logica della comunità, la sua vocazione al ben ordinato e armonizzato scartano come false apparenze e rigettano come dissennato tutto ciò che non s’integra nell’ordine compiuto di un mondo sensato. (iii) Mentre la prima focale si riferisce a delle entità catturate in un incessante tourbillon e la seconda ne concerne altre che hanno vocazione a tentare di bloccarsi mutualmente in una condizione di fissità; un piano di flessione dipolare, relativo alla diakosmētike technè, apre una ferita nel cuore di entrambe introducendo una zona in-between: un anello di concatenazione che coincide con l’operazione stessa di connessione-distanziamento. Azione per la quale, i due fuochi sono al contempo distinti-piegati in un interno-esterno, sopra-sotto, superioreinferiore; e congiunti-dispiegati in un nastro di Möbius: un doppio cappio formato da una semi-torsione che può essere ri-distesa in una superficie con un solo lato e un solo bordo. Tale soglia di adiacenza correla il flusso inevitabilmente antonimico dell’“Io-tu”, che procede a spirale e in modo indefinito; con un campo di permanenza che cerca ostinatamente di riportare tutto a una disposizione preventivamente stabilita. E lo fa conservando tra i punti focali lo scarto d’identità-differenza del principio di contrarietà: cioè, lasciando che si riflettano l’uno nell’altro senza fondersi né slegarsi definitivamente. Questa componente intermedia non indica, infatti, un semplice residuo, un puro resto differenziale, ma una fatticità
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concreta che gioca un ruolo attivo perché svolge l’intervento tangibile d’innescare e mantenere delle forze di attrazione e di repulsione tra le due sponde. Ciò gli consente di allestire una relazione di continuità-discontinuità che, trasmettendo e amplificando il loro movimento, fornisce una propulsione supplementare: una tensione dinamica in grado di garantirne e stabilizzarne l’interdipendenza; nonché, in tal modo, di condizionarne l’orientamento e di forgiarne l’alleanza possibile. In definitiva, correlando le due sequenze eterogenee, cercando di rendere ragione della assonanza-dissonanza che le unisce e le separa; questo trait d’union, da un lato, trattiene la prima dal trincerarsi nella propria autosufficienza; mentre, d’altro lato, rende discernibile una contraddittorietà non intelligibile al senso comune né al ragionamento ordinario.
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4 Ichlosigkeit: triangolazione e decorso storico
«Prolungando le analisi sull’identità narrativa» presentate in Tempo e racconto e contrapponendosi drasticamente alla «tradizione di pensiero scaturita da Hume, per la quale dover essere si oppone ad essere senza alcuna conciliazione possibile»1, Paul Ricœur s’interroga sulla genealogia logica e cronologica del «soggetto morale d’imputazione» descrivendola nei termini del triangolo «medesimezza» (mêmeté), «ipseità» (ipseité), «alterità» (altérité)2. Per fare ciò sostiene il «primato della mediazione riflessiva sulla posizione immediata del soggetto, quale si esprime alla prima persona del singolare»: in modo tale da «opporre “sé” a “io”» e così introdurre «la pluralità nella costituzione stessa del sé»3. Differenzia, quindi, una «identità-idem», dotata di un carattere resistente e stabile nel tempo; da una «identità-ipse», che abita la dinamica temporale della «storia di una vita», della «coesione di una vita», e «offre un profilo di concordanza di1. P. Ricœur, Sé come un altro, cit., p. 263. 2. Ivi, p. 92. 3. Ivi, p. 75.
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scordante» in grado di declinare «permanenza e mutamento senza una regola evidente»4. La natura equivoca dell’identità riguarda, spiega Ricœur, la «sinonimia parziale tra “medesimo” [même] e “identico” [identique]»5. È per sciogliere questa vera e propria aporia che si rende necessario considerare «la medesimezza [mêmeté] come equivalente dell’identità-idem alla quale giustapporre l’ipseità [ipseité] per riferirsi all’identità-ipse»6. Il rimando, spiega Ricœur, è ai termini latini idem e ipse per i quali «due significati differenti si sovrappongono. Secondo il primo, nel senso di idem, “identico” [identique] è sinonimo di “estremamente simile”, “analogo”»7. Il medesimo (idem o même), in effetti, implica una qualche forma d’immutabilità nel tempo la cui antitesi sarebbe «diverso», «mutevole». Con il secondo significato, nel senso di ipse [invece], «identico» [identique] è legato al concetto d’ipseità, di un se stesso. Un individuo è identico a se stesso. L’opposto sarebbe «altro», «straniero». Questo secondo significato non implica alcuna fissazione quanto alla persistenza, alla perseveranza, alla permanenza nel tempo (Beharrlichkeit in der Zeit), come dice Kant. Piuttosto pone il problema di esplorare le possibilità multiformi dei legami tra permanenza e cambiamento che sono compatibili con l’identità intesa nel senso d’ipseità.8
4. P. Ricœur, Ipséité/Altérité/Socialité, in «Archivio di filosofia», LIV, n. 1-3, 1986, pp. 17-33: p. 28. 5. P. Ricœur, Sé come un altro, cit., p. 77. 6. Ibidem. 7. P. Ricœur, L’identité narrative, in «Revue des sciences humaines», XCV, n. 221, 1991, pp. 35-47: p. 35. 8. Ibidem.
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Tale polarizzazione «tra un’identità sostanziale o formale e l’identità narrativa» non introduce, infatti, due referenti separati e autonomi, ma contempla un movimento nel tempo storico con un solo referente multipolare la cui orbita e relativo campo gravitazionale dipendono anche dalla terza persona e non «esclusivamente dai pronomi della prima e della seconda persona del singolare»9. E da cui pertanto scaturisce una serie plurale di disposizioni dispiegantisi «da un polo estremo, che ricopre l’identità del medesimo, fino all’altro polo estremo, che se ne dissocia interamente»10 minacciando il disfacimento dell’identità stessa (Ichlosigkeit). Seguendo la riflessione di Ricœur, possiamo dunque dire che, dischiusa nel fatto stesso di essere “esposta” agli effetti di spazio-temporalizzazione della storia, la prima persona non ancora “io” si dilata nella seconda non ancora “tu” perché, impotente a distinguersene, non la riconosce nella sua discontinuità. Integra, in breve, una “proposizione di esistenza”, una “proposizione di mondo” che fanno segno a un sé più vasto di quello della certezza dell’io che si congiunge a se stesso nella libertà: l’esatto contrario di una costituzione di cui il soggetto avrebbe la chiave. Ciò impone di conseguenza, prosegue Ricœur, «un limite a qualsiasi tentativo di ricostruire il legame sociale esclusivamente sulla base di una relazione dialogica strettamente dia dica»11: costringendoci a prendere in considerazione, invece, «l’estensione dei rapporti interumani a tutti coloro che il faccia a faccia tra l’“io” e il “tu” lascia fuori a titolo di terzi»12.
9. P. Ricœur, Tempo e racconto, vol. III, Il tempo raccontato [1985], tr. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano 1999, p. 376. 10. P. Ricœur, Sé come un altro, cit., p. 249. 11. Ivi, pp. 291-292. 12. Ivi, p. 291.
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In tal senso, riprendendo Ricœur, è possibile dire che, nell’embrione di una «commistione instabile tra affabulazione ed esperienza viva», l’irruzione dell’ipse spezza «la chiusura del me desimo»13 confutandone l’irresolutezza. Accende in tal modo il dissidio tra «la permanenza nel tempo» e «ciò che sembra esserne il contrario, ossia la diversità, la variabilità, la discontinuità, l’instabilità»14. Tuttavia, lungi dal concludere il gioco sociale, l’ingresso della seconda persona non si limita ad espandere la prima aprendola alla spazio-temporalizzazione, ma funge da detonatore per un movimento ulteriore che si traduce in una vera e propria ri-duplicazione. «Tra il polo del carattere, nel quale idem e ipse tendono a coincidere, e il polo della conservazione di sé» nell’apertura temporale, «in cui l’ipseità si affranca dalla medesimezza», emerge, quindi, un’ulteriore vertice che decide i primi due: che, come un giudice, mette a confronto le iniziative rivali, «assegna a ciascuna delle parti concorrenti ciò che gli appartiene»15, ascrive ognuna a un determinato ambito di pertinenza e imputa loro una responsabilità specifica. Ne viene fuori una triangolazione in cui, nella costituzione concettuale dell’identità personale, io, tu ed egli risultano coestensivi e strettamente interrelati. Al momento dipolare tra vita (Lebens), in cui c’è sovrapposizione tra “identità-idem” e “identità-ipse”, e coesione di una vita (Lebenszusammenhang), in cui ciascuna identità prende una figura distinta, si aggiunge infatti un nuovo moto di distanziazione. La spaziatura tra, da un lato, l’autoreferenzialità dell’io-tu, che è in sé e per sé (an sich und für sich), e, d’altro lato, il racconto di una vita, che dona una coerenza all’esistenza aprendola al divenire della sto13. Ivi, pp. 255, 262. 14. Ivi, p. 232. 15. Ivi, risp. pp. 207, 194.
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ria, intesse la loro dinamica di convergenza-divergenza solo in virtù dell’incontro con “egli”: unicamente grazie alla concordanza discordante dell’io-tu con la terza persona. L’apertura al decorso storico, primordio di spazio-temporalizzazione, non descrive altro, in effetti, che l’accesso a un «fuori in cui niente copre niente, la non-protezione, il rovescio della piega, il senza domicilio, il non-mondo, la ripartizione senza sicurezza»16 per i quali l’alleanza dello stesso con l’altro, l’abbinamento che associa e dissocia l’io con il tu, si biforcano ancora in una «metamorfosi del mondo» che comporta a sua volta «un momento di distanziazione fin nel rapporto di sé con sé»17. La teoria di Ricœur ci consente dunque di distinguere un triplo passaggio18. (i) In primo luogo, la distinzione tra “identità-idem” e “identità-ipse” smantella l’unità del sé: consente di riconoscere la primordialità del divenire, del differire, del momento dipolare. E mette fuori gioco la possibilità di fare i conti con una curva di prospezione unica e univoca: la vita sociale, infatti, non è confinabile «né in orizzonti chiusi né in un unico orizzonte». Il nostro spazio di esperienza non è il solo possibile né è contenuto entro limiti strettamente prestabiliti giacché «ci si può trasportare in un altro punto di vista e in un’altra cultura». L’arco parabolico dell’esistenza si piega e ripiega in «vicino, lontano e aperto» in correlazione imprescindibile con la presenza di un altro e della finitudine che reciprocamente ci si elargisce: emerge come un campo spazio-temporale che si 16. P. Ricœur, La fonction herméneutique de la distanciation (1975), in Id., Du texte à l’action. Essais d’herméneutique II, Seuil, Paris 1986, pp. 117. 17. P. Ricœur, Science et idéologie (1974), in Id., Du texte à l’action, cit., p. 329. 18. Cfr. P. Ricœur, Herméneutique et critique des idéologies (1973), in Id., Du texte à l’action, cit., pp. 347-348.
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forma allacciandosi a un altro campo spazio-temporale in una relazione di accoppiamento e disaccoppiamento selettivi per i quali un flusso si deve agganciare a un altro flusso per nutrirsi della risonanza prodotta. (ii) In secondo luogo, tale situazione non solo non «ci limita integralmente», ma soprattutto si alimenta della «finitudine del vicino» proprio in virtù della sua facoltà di «apertura al distante». Sutura e squarcio di protensioni e ritenzioni, di prospezioni e retrospezioni, quindi, raddoppiano ancora esplicitando un momento dipolare tra l’asse orizzontale del vicino e del lontano di converso con l’asse verticale del passato e del futuro: «in un flusso avvolgente in seno al quale ognuno di noi non ha solo contemporanei, ma predecessori e successori». (iii) E, in terzo luogo, in conclusione, lungo «i concatenamenti della vita [l’enchaînement de la vie]», l’insieme io-tu si declina come «intersoggettività esposta [intersubjectivité exposée]» a un terzo livello che si sovrappone alla collisione-collusione di “medesimezza” (mêmeté) e “ipseità” (ipseité), cioè alla nascita di idem a partire dallo sdoppiamento idem-ipse. Tuttavia, se in questo incontro ci si riconosce, accredita, valorizza e attribuisce reciprocamente un “carattere”, entrambi, idem e ipse, devono fare i conti con una terza persona pubblica che è la narrazione stessa. «Non esiste racconto eticamente neutro». Le maglie della narrazione costituiscono «un vasto laboratorio dove vengono messe alla prova stime, valutazioni, giudizi di apprezzamento e di riprovazione»: un vero e proprio tribunale che investe incessantemente il dialogo che noi siamo, la combinazione solidale ma rarefatta di io e tu, con una tela diacosmica, con un piano d’orizzonte, che non smette di ridursi e di espandersi19.
19. Cfr. P. Ricœur, Tempo e racconto, cit., p. 112.
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5 Esperienza del viso e dell’esteriorità: il rapporto sociale
Intersechiamo ora la riflessione di Ricœur con quella di Emmanuel Lévinas, per il quale «il fatto che non abbiamo scelto di nascere sembra costituire il grande scandalo della condizione umana. Fa scandalo proprio in ragione del prestigio eccezionale di cui gode l’idea del potere e l’idea di libertà che la sottintende. L’impotenza sull’origine appone la marca del destino su ognuna delle nostre iniziative»1 e ci mette sotto scacco, inermi e vulnerabili nei confronti di quanto ci precede ed è più antico di noi perché sappiamo che, se discendere da qualcosa significa ereditarne forza e prestigio; d’altra parte, slegarsi, separarsi e affrancarsene equivale a perderne il favore e la protezione. In tal senso, scrive Lévinas, la potenza delle origini «precede l’iniziativa – che un soggetto volontario prenderebbe – di esporsi» poiché, come prezzo imposto per essere sottomesso all’autorità dei principi, «il soggetto non si trova, come luogo, nel suo proprio volume, né nella notte. Esso si apre nello spazio, ma non-è-al-mondo. Il senza quiete della respirazione,
1. E. Lévinas, Poteri e Origine (1949), in Id., Parola e silenzio. E altre conferenze inedite al Collège Philosophique, ed. it. a cura di S. Facioni, Bompiani, Milano 2012, p. 99.
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l’esilio in se stesso, l’in sé senza quiete, non è un’impossibilità di risiedere che si farebbe già movimento da qui a là; è un sussulto, un fremito della sostanzialità, un al di qua del Qui»2. È una «temporizzazione prima del verbo – o in un verbo senza soggetto, o nella pazienza del soggetto che giace come “all’inverso” dell’Io attivo»3, «denudato e privo, come uno o come qualcuno, espulso al di qua dell’essere, vulnerabile, cioè precisamente sensibile»4. Tuttavia, prosegue Lévinas, consegnati a un incondizionato originario immobile e incorruttibile, nella «esposizione che non arriva a prendere forma»5, mutamento e permanenza nel tempo si sovrappongono senza coincidere e generano in tal modo un’antinomia. Accade dunque che nella «prossimità», nella «intimità del faccia-a-faccia»6 con la mater-materia della natura, un “intervallo” separi l’uno dall’altro e che «l’altro – che in quanto altro mi esclude»7 – distenda l’«identità in diastasi»8: situazione contrassegnata da uno smembramento irrimediabile di due forme adiacenti. Detto altrimenti, l’idea di desumere tanto il sé quanto il mondo da figure, forme ed eventi eterni e ingenerati, non riesce ad essere totalmente sciolta da ogni limitazione e affrancata da ogni ragione. Finisce invece inevitabilmente per far esplodere un conflitto: per imbastire un «sistema di relazioni reversibili –
2. E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974), tr. it. di S. Petrosino e M.T. Aiello, intr. di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1983, p. 223. 3. Ivi, p. 69. 4. Ivi, pp. 68-69. 5. Ivi, p. 223. 6. Ivi, p. 200. 7. Ivi, p. 207. 8. Ivi, p. 144.
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se non reciprocabili»9 tra l’origine stessa e chi all’origine intende riferirsi per trarne potere e autorità. Determina quindi una torsione in cui la prossimità si manifesta come «una differenza – una non coincidenza, una aritmia nel tempo»10: una ferita il cui dispiegarsi è decorso storico. Si tratta di una frattura che si presenta sia come corpo a corpo con me stesso, «fissione dell’ultima sostanzialità dell’Io»11; sia come frattura tra me il mio prossimo, tra io e tu. Un’inspirazione-espirazione e un pneuma che investono e dissestano, in «una dualità non ricomponibile»12, la dimensione nativa, crea turale, nella quale, come sottolinea Claude Morali, «io posso essere costituito da altrui e ricevere dal suo sguardo allo stesso tempo la mia realtà oggettiva e la mia alterità, come ciò per cui sfuggo a me stesso»13. Il processo di questa diacronia introduce, infatti, una dissimmetria ulteriore che si schiude attraverso la seconda persona, il cui «volto si s-figura [le visage se dé-visage]»14. Dunque, nella contingenza della relazione matriciale, materna, tu si rivolge a io in modo sollecito, premuroso, amorevole; oppure si distrae, si occupa d’altro, si assenta per un tempo più o meno lungo e indeterminato. Nell’attenzione non c’è che contatto, continuità, prolungamento. Inversamente, introducendo un taglio, l’assenza verso cui ci si protende invano, fraziona il flusso in due. Non si tratta più solamente della “fissione dell’Io”: è l’altro, il tu, che ora si spezza e si biforca. 9. Ivi, p. 120. 10. Ivi, p. 207. 11. Ivi, p. 180. 12. Ivi, p. 86. 13. C. Morali, Qui est moi aujourd’hui?, intr. di E. Lévinas, Fayard, Paris 1984, p. 71. 14. E. Lévinas, Altrimenti che essere, cit., p. 198.
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Che recede dall’incorporazione nella corrispondenza d’amorosi sensi: dalla batailleana «approvazione della vita fin dentro la morte»15 relativa all’esclusività inoperosa dell’io-tu. E si ritrae nella contestazione, nella «sfida alla morte lanciata dall’indifferenza [défi, par indifférence, à la mort]»16: nell’estraneità dell’egli, donante trama e tessuto a un fuori. Con il manifestarsi di tale seconda evenienza l’intimità del viluppo io-tu defluisce e si svuota. Mentre, parallelamente, le origini non risultano più in grado di far valere le loro prerogative e di esigere imperiosamente dei tributi. Tra l’uno e l’altro, tra l’origine e ciò che ne discende – ma anche nell’intimità tra io e tu, in seno alla solitudine del rapporto tra me e il mio prossimo – s’intromette qualcosa come un’interruzione, come un morire: «la presenza del terzo, dell’umanità intera»17. Questa nuova figura non è altro che il frutto della scissione del tu scomponentesi in due serie distinte e discordi: l’una, che riguarda il campo semantico attenzione-interessamento-cura, metamorfosantesi nel tu della vita quotidiana; l’altra, quello distrazione-disinteressamento-noncuranza, che istituisce la terzietà dell’egli. Accade quindi che, a partire da questo momento, a partire dall’instaurarsi della doppia polarità tra l’immersione affettiva della risonanza e la presa di distanza dell’ἐποχή (epokhế), l’intero universo creaturale non si riduca più al flusso indisturbato della comunione io-tu, ma giunga a individuarsi nelle tre figure separate corrispondenti ai tre pronomi personali io, tu, egli. 15. G. Bataille, L’erotismo. Il comportamento e le più segrete mozioni dell’homo eroticus (1957), tr. it. di A. dell’Orto, a cura di P. Caruso, Mondadori, Milano 1969, p. 17. 16. Ivi, p. 29. 17. E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità (1971), tr. it. di A. Dell’Asta, Jaka Book, Milano 1987, p. 218.
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A questo punto, sottoposta a un vero e proprio processo di centrifugazione che lascia insorgere una nuova tripartizione per la quale nessun’entità risulta più autosufficiente e arroccata in se stessa a prescindere da tutto il resto, la condizione monadica e narcisistica dell’io-tu deflagra suscitando molteplici conseguenze socialmente decisive. In primo luogo, «invece di annientare l’Io, la messa in questione lo rende solidale con l’Altro, in modo incomparabile e unico»18. In secondo luogo, come commenta Jean Greisch, «per traumatica che sia, questa disposizione comporta, se così si può dire, un “beneficio secondario”: l’io, fino ad allora nascosto sotto l’invisibilità fornita dall’anello di Gige, diventa qualcuno, e non uno qualunque. Diventa un “eletto” altrettanto singolare quanto il volto che lo guarda»19. In terzo luogo, imputando questo io, designandolo come responsabile e facendo appello «alla singolarità insostituibile che giace in me»20, tale dinamica lascia emergere sia «l’accusativo non assumibile in cui l’Io sopporta gli altri [l’accusatif non assumable où le Moi supporte les autres]»21; sia, correlativamente, l’istruzione corrispondente a quello che Paul Ricœur definisce «il termine “cultura” inteso nel senso», «proveniente dall’illuminismo e approfondito da Hegel, di educazione alla ragione e alla libertà»22.
18. E. Lévinas, Esistenza ed etica (1963), in Id., Nomi propri, ed. it. a cura di F.P. Ciglia, Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 330. 19. J. Greisch, «Tiercer»: la catégorie du tiers et l’idée de raison, in «Archivio di filosofia», LXXIV, n. 1-3, 2006, pp. 37-57: p. 47. 20. E. Lévinas, Altrimenti che essere, cit., p. 239. 21. Ivi, p. 149. 22. P. Ricœur, Sé come un altro, cit., p. 369.
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Non è insomma guardandomi allo specchio, nella comunione del σύμβολον (súmbolon), nel «riposo nell’Unità [repos dans l’Unité]»23, come lo definisce Blanchot, prolungandomi nella carne di un tu anonimo in quanto estensione da cui non sono ancora emancipato, che “sono” io. Sono prima persona solo a partire dal momento in cui la seconda persona, cessando di guardarmi, smettendo di prendersi cura di me, mi designa all’accusativo come l’autore delle mie azioni. Allora, nel vuoto dell’accrescimento, nell’inferno dell’astinenza forzata, soccombo tragicamente, perisco nello spasimo e nello strazio dell’angoscia. Oppure resisto e divento αϑάνατος (athánatos), immortale, giacché ho vinto il potere della morte: l’ho posta sotto i miei piedi, sono passato dalla morte alla vita, a una nuova condizione di esistenza. Entrando nell’aporia del dolore che è insegnamento – «τὸν πάϑει μάϑος [tòn páthei máthos]» –, istituisco io stesso il mio dies natalis24. Aprendomi, al contempo, un «πόρος [póros], un passaggio», che «dissipa l’oscurità regnante nella notte delle acque primordiali»: un cammino «mai precedentemente tracciato, sempre cancellabile, da ripercorrere ogni giorno in modo nuovo»25. Abbandono così l’innocenza: nonché la violenza muta, la riconciliazione delle contraddizioni e l’ascensione all’eternità ch’es-
23. M. Blanchot, L’esperienza-limite (1962), in Id., La conversazione infinita. Scritti sull’«insensato gioco di scrivere», tr. it. di R. Ferrara, intr. di G. Bottiroli, Einaudi, Torino 2015, p. 226. 24. «Zeus che conduce i mortali / sulla strada della saggezza/ e decretò il principio sovrano: / “soffrendo conoscere” [τὸν πάϑει μάϑος]» (Eschilo, Agamennone, in Eschilo - Sofocle - Euripide, Tutte le tragedie, tr. it., con testo greco a fronte, a cura di A. Tonelli, Bompiani, Milano 2013, vv. 174177, pp. 246-247). 25. S. Kofman, Comment s’en sortir, Galilée, Paris 1983, p. 18.
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sa comporta. Scelgo il presente non in quanto esito e antitesi del passato, ma come attualità, metamorfosi, antesi (ἄνϑησις, ánthēsis, fioritura). Come momento dipolare: uniforme-difforme, connesso-sconnesso, complementare-supplementare. Mi metto in ascolto, abbraccio l’attesa come sfida, accolgo l’afflizione più aspra come salutare per la crescita, accetto la contrarietà dei rapporti di forza, e rinuncio all’ignoranza a beneficio del gioco, del lavoro: in favore dell’intermediazione intesa come facoltà di giudicare. A vantaggio di «comprensione, conoscenza, logos», grazie alla cui determinazione particolare, concreta e storica, sono μεταφορά (metaphorá). “Sono” come «carattere transitivo del verbo esistere» per il quale «non soltanto si pensa qualcosa», ma «si esiste qualcosa». «Esistere diviene al contempo un verbo transitivo come “prendere” o “afferrare”, e riflessivo come “sentirsi” o “tenersi”»26. Al pari della morte «che non è un’idea della fine, ma il fatto di finire», «non data ma compiuta dall’evento del finire»27, allo stesso modo, vita non è un’idea dell’esistenza, ma il fatto di esistere, non data ma compiuta dall’evento dell’esistere. L’esistenza è – in tal senso – «movimento verso l’avvenire»28: «libertà che volge in responsabilità e che chiama l’avvenire»29. Prosa, azione pro-versa, protesa in avanti anche quando osserva indietro, da cui emerge una propriocettività più o meno governabile per sottrazione da un’eterocettività che resiste e delude il mio sforzo: che non è padroneggiabile e che svanisce incessantemente.
26. E. Lévinas, Lévy-Bruhl et la philosophie contemporaine, in «Revue philosophique de la France et de l’étranger», CXLVII, 1957, pp. 556-569: p. 566. 27. E. Lévinas, Poteri e Origine, cit., p. 116. 28. Ivi, p. 117. 29. E. Lévinas, Parola e Silenzio (1948), in Id., Parola e silenzio, cit., p. 93.
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È in questi termini che la prossimità dell’io-tu «è turbata e diviene problema a partire dall’entrata del terzo»30. Che «c’è peso, pensiero, oggettivazione [il y a pesée, pensée, objectivation]»31. Che «la coscienza nasce come presenza del terzo»32 «che interrompe il faccia a faccia dell’accoglienza dell’altro uomo – che interrompe la prossimità o l’approssimarsi del prossimo – del terzo uomo attraverso il quale comincia la giustizia»33: mediante il quale, congiunta a quest’ultima, prendono avvio la configurazione sociale della comunità politica, nonché la conformazione esistenziale del coraggio e del disagio della libertà. Non essendo definitiva, se non in casi sporadici, ma in generale solo intermittente, l’assenza altrui si presenta come dilazione, improvvisa perdita di controllo. E non solo. Da un lato, la disponibilità del prolungamento muta a seconda delle condizioni date e, d’altro lato, l’avvicendamento si protrae in modo irregolare. Si prospetta quindi una situazione particolare tesa a differenziare una maggiore da una minore misura di fruibilità, un proprio da un altrui. Così, mentre io sto errando in una selva oscura, guadando l’orrore, attraversando da vivo la morte, all’improvviso tu ritorna: disinvolto, impudente, sfrontato, come se niente fosse. A questo tu «che mi si offre allo scoperto, nella franchezza dello sguardo, nella nudità di un accostarsi»34 senza ritegno, sottolinea Blanchot, Lévinas dà il nome di viso. E, continua, quando accade che «un altro si rivela a me come ciò che è assolutamente al di fuori e al di sopra di me, non perché sia il 30. E. Lévinas, Altrimenti che essere, cit., p. 196. 31. Ivi, p. 198. 32. Ivi, p. 200. 33. Ivi, p. 188. 34. M. Blanchot, Conoscenza dell’ignoto (1961), in Id., La conversazione infinita, cit., p. 77.
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più potente, ma perché là cessa il mio potere, allora c’è il viso»: «diciamolo cautamente e con ponderazione, giacché è possibile che» quanto Lévinas descrive come esperienza del viso o dell’esteriorità «debba intendersi prima di tutto (per conto mio direi: solamente) a proposito del rapporto sociale»35. L’esperienza del viso in quanto alternanza di contatto-distaccori-contatto, pulsazione di continuità-secessione-ri-continuità, intermittenza di presenza-assenza-ri-presenza (rappresentazione), insomma, mi giudica. Mi avverte che, al di là di un certo punto, non sono più accolto senza remore nel mio che si propaga indefinitamente. Mi segnala un limite, un margine, una soglia, oltre i quali mi è sottratto il timone: non ho più alcuna presa e sono estromesso da ogni potere. Fissa la continuità plastica della dinamica relazionale relativa alla sequela io, tu, egli, assegnando a ciascun polo una posizione appropriata a partire dal mettermi in discussione e dall’imputarmi la responsabilità nell’ottenimento: (i) sia di delusione, smarrimento, afflizione, riconoscimento dell’abbandono in quanto presa di posizione di qualcuno che mi giudica e identificazione di un terzo distante, un egli, come legittimo intestatario della critica; (ii) sia di conforto, ristoro, consolazione e conquista di un altro, il tu, in quanto prossimo, in quanto esperimento della prossimità. In conclusione, trasformando il passaggio nel deserto in dialogo metaforico, l’esperienza del viso si presenta come negazione a-dialettica: come nihil privativum, στέρησις, (sterēsis) e non come nihil negativum, ἀπόφασις (apophasis). Movimento per il quale l’attraversamento dell’abisso e dell’agonia mobilitano delle forze: fanno appello al gioco dell’interlocuzione che oltrepassa l’antinomia tra dentro e fuori, l’incompatibilità 35. Ibidem.
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tra incontro e separazione. Giacché parlare e ascoltare non si avvicendano, non si danno il contraccambio, ma sono coincidenti, consonanti, simultanei. La solitudine estrema che ci isola, scrive Bataille ne L’esperienza interiore, è passività e distanza: rinuncia alla messa in forma, alla sculpture de soi, all’unicità di un soggetto artefice e donatore di senso. È sospensione del toccare grazie alla quale si apprende a non porre se stessi unicamente nella modalità dell’opporsi a tutti gli altri. A non ricavare il proprio essere dalle proprie frontiere, dalla propria definizione: a non trarre dialetticamente la propria identità dall’antagonismo con gli altri corpi e dalla resistenza che vi si contrappone. In tal modo, non più negazione della totalità dell’altro, non più messa in scena dell’io-tu come totalità, la separazione si presenta come una privazione feconda e attiva che favorisce le condizioni dell’ascolto e della benevolenza: che si attua, come ben spiega Lévinas, «positivamente, senza ridursi ad una negazione dell’essere da cui si separa. Ma proprio così essa può accoglierlo. Il soggetto è un ospite»36. E, quindi, tale discriminazione positiva di io, tu, egli, prepara al momento dipolare di exhortatio premiorum e metus poe narum, istruisce sulla convergenza-divergenza tra premio e sanzione, inizia alle regole di distribuzione di credito e debito: espone all’interazione asincrona di rispondere di e rispondere a, cioè alla iustitia premiandi et puniendi37. 36. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 308. 37. A proposito dell’interazione asincrona, riportiamo quanto scritto da Maurice Blachot: «Trovo un’indicazione in proposito nel libro di Judith Robinson, L’analyse de l’esprit dans les Cahiers de Valéry, Corti, Paris 1963. Il matematico Paul Montel riferisce il seguente aneddoto: “I matematici usano uno strumento chiamato superficie di Riemann: è un taccuino ideale composto di tanti fogli quanti ne occorrono; essi hanno uno spessore totale sempre nullo e sono uniti insieme secondo certe regole. Su questa super-
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Come scrive Deleuze, il rapporto creditore-debitore esprime l’attività della cultura nel suo processo di addestramento e di formazione. Questo rapporto corrisponde all’attività preistorica, ed è il rapporto dell’uomo con l’uomo, «il più antico e originario rapporto tra persone che esista», anteriore persino «alle origini di qualsiasi organizzazione sociale». Anzi, esso funge da modello «ai più primitivi e più rozzi complessi sociali». È nel credito, non nello scambio, che Nietzsche identifica l’archetipo dell’organizzazione sociale.38
Proseguiamo con le parole di Nietzsche: Il sentimento della colpa, della nostra personale obbligazione, per riprendere il corso della nostra indagine, ha avuto, come abbiamo visto, la sua origine nel più antico e originario rapporto tra persone che esista, nel rapporto tra compratore e venditore, creditore e debitore: qui, per la prima volta, si fece innanzi persona a persona, qui per la prima volta si misurò persona a persona. Non si è ancora trovato un grado di civiltà tanto basso in cui non si lasciasse porre in evidenza già qualcosa di questo rapporto. Stabilire prezzi, misurare valori, escogitare equivalenti, barattare – ciò ha preoccupato il primissimo pensiero dell’uomo in una tale misura, che in un certo senso pensare è tutto questo: qui è stata coltivata la più antica sorta di perspicacia, qui si potrebbe supporre il primo avvio dell’umano orgoglio, del suo sentimento di prima-
ficie a fogli essi scrivono dei numeri, parecchi dei quali allo stesso posto su fogli diversi. Nel corso di una conversazione, Valéry mi disse: ‘Non vi sembra che il dialogo avvenga su una superficie di Riemann? Il discorso che vi faccio è scritto sul primo foglio, ma nello stesso tempo preparo sul secondo quello che vi dirò in seguito e arrivo a scrivere, su un terzo foglio, quello che verrà dopo. Voi, da parte vostra, mi rispondete sul primo foglio, ma intanto predisponete su altri fogli ciò che contate di dirmi in seguito’”» (M. Blanchot, L’interruzione. Come su una superficie di Riemann [1964], in Id., La conversazione infinita, cit., p. 155). 38. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 192.
54 to rispetto agli altri animali. Forse la nostra parola «Mensch» (manas) esprime ancora qualcosa appunto di questo senso di sé: l’uomo si caratterizzava come la creatura che misura valori, detta valori e stabilisce misure in quanto «animale apprezzante in sé». Compera e vendita, unitamente ai loro accessori psicologici, sono più antiche degli stessi cominciamenti di qualsiasi forma d’organizzazione sociale e di qualsivoglia consociazione: il germogliante sentimento di scambio, contratto, debito, diritto, dovere, compensazione, si è invece in primo luogo trasferito dalla forma più rudimentale del diritto personale ai più grezzi e più primitivi complessi comunitari (nei loro rapporti con complessi simili), assieme alla consuetudine di confrontare potenza a potenza, di stabilirne la misura e farne il computo.39
In questo senso, per poter esistere, le organizzazioni collettive devono necessariamente entrare in correlazione con l’avatar o l’ipostasi di colui di fronte al quale, o di ciò davanti a cui, bisogna rispondere: devono costituire un momento dipolare con la nominazione della perdita, la personificazione dell’assenza, il valore dello scambio simbolico che, presentandosi come complemento antagonista, gl’impediscono di cadere nell’unilateralità distruttiva e autodistruttiva della ὕβρις (húbris). Si tratta di una emergenza che non si determina a partire dalla resistenza o dal rifiuto di qualcosa, che sfida ostinatamente la tensione tra limes/frontiera e limen/soglia per situarsi oltre l’opposizione essere-divenire: che si espone dipolarmente in un insieme plurale di presenza-assenza, Anwesenheit-Abwesenheit, παρουσία-ἀπουσία (parousía-apousia). Una disposizione che equivale a un primo movimento di giustizia perché permette anche di adattarsi gli uni agli altri e di trovare un’intesa mediante un compromesso: di riconoscere la legittimità
39. F. Nietzsche, Genealogia della morale (1887), in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI/II, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1972, pp. 268-269.
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delle differenze e quindi di imparare a coabitare senza rinunciare alla propria identità. Punto di rottura, ma anche di alleanza: nodo e snodo allo stesso tempo. Scansione che intreccia, in questo modo, il momento dipolare sogno-realtà, a livello individuale; e interno-esterno, a livello collettivo. Spazio-temporalizzazione che delinea infine una narrazione concatenante il processo sociale di produzione d’identità con la polarizzazione orizzontale dei piani focali intrinseco-estrinseco del “io-tu/egli” e del “noi-loro”; e la stratificazione verticale degli assi di simmetria centrifugo-centripeto “noi nel presente” e “noi nel passato”.
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6 Oreste e il nómos basileus: alleanza tra diritto magico e diritto fiduciario
Questo stesso movimento relativo alla continuità plastica della dinamica relazionale concernente la sequela io, tu, egli, è ben descritto nell’Orestea di Eschilo, trilogia interamente imperniata sulla complessa problematica della vendetta. La prima delle tre tragedie che compongono l’opera s’intitola Agamennone e racconta il ritorno in patria del protagonista, capo supremo di tutti gli Achei e ἄναξ (ánax, guida politica e supremo sacerdote) di Argo, dopo aver combattuto la guerra di Troia, per vincere la quale ha immolato la propria figlia Ifigenia sull’altare della dea Artemide. Lo attende la moglie Clitemestra che, per vendicare la morte di Ifigenia, gli tende un tranello e l’uccide. La seconda s’intitola Coefore, da χοηφόροι, khoêphóroi, sacerdotesse che portano le offerte ai morti, parola composta da χοή (khoê), offerta, e φόροι (phóroi), portatori. Per placare la sete di vendetta delle Erinni (Ερινύες) del marito da lei assassinato, Clitemestra invia delle coefore sulla sua tomba dove le vede suo figlio Oreste, ritornato ad Argo dieci anni dopo l’omicidio del padre. Guidato dal dio Apollo, Oreste vendica il genitore ammazzando, a sua volta, la propria madre e il suo amante Egisto, dopodiché lascia la città e parte per Delfi per espiare la sua terribile colpa. La terza parte della trilogia,
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Eumenidi, racconta dell’istituzione di un tribunale che, dopo regolare processo, assolve Oreste: salvandolo dalla rappresaglia vendicativa delle Erinni della madre, sottraendolo alla legge del contrappasso e ponendo infine un termine alla spirale inesauribile della legge del taglione. Per interrompere la legge arcaica dell’occhio per occhio dente per dente (ὀφϑαλμὸν ἀντὶ ὀφϑαλμοῦ ὀδόντα ἀντὶ ὀδόντος, ophthalmòn antì ophthalmoû odónta antì odóntos), è necessario che, da Δίκης επίκουροι (Díkēs epíkouroi, ministre di Dike) che erano, le Erinni si metamorfosino nelle benevolenti Eumenidi (ἵλαι, hílai, propizie; σύμφρονες, súmphrônes, favorevoli, comprensive; εὐϑύφρωνες, eùthúphrônes, benevoli, benefiche; σεμναί, semnai, venerabili)1. Sono proprio le «lugubri figlie della Notte [Νυκτὸς αἰανῆ τέκνα, Nuktòs aiané tekna]»2 che, divenute Eumenidi (Ευμενίδες: εὖ, prefisso indicante buono, conveniente + μένος, ménos, volontà, animo), si erigono a custodi delle leggi della città e dell’Areopago, il «grande tribunale istituito da Atena [Αϑηναίας μέγαν ϑεσμὸν, Athenaias mégan thesmòn]»3.
1. Cfr. Eschilo, Eumenidi, in Eschilo - Sofocle - Euripide, Tutte le tragedie, cit., vv. 1040-1041, pp. 454-455. 2. Ivi, v. 416, pp. 422-423. 3. Ivi, vv. 614-615, pp. 432-433. «In dialetto attico, ci sono tre parole per quello che oggi chiamiamo leggi: ϑεσμός [thesmos], νόμος [nomos] e ψήφισμα [psephisma]. Thesmos significa qualcosa di “stabilito”: ed è la parola più antica delle tre. La distinzione tra thesmos e nomos è puramente cronologica: le leggi di Dracone del 621 e di Solone del 594 erano thesmoi, ma quelle di Clistene del 507 furono chiamate nomoi. La nuova parola è stata probabilmente introdotta proprio da Clistene quando ha instaurato la democrazia ad Atene. Nell’Attica classica, quindi, due parole principali indicano la legge: nomos, che significa originariamente “distribuzione”, poi “consuetudine” e infine “legge”; e psephisma, che designa una decisione presa per mezzo di ψῆφοι [psephoi], ciottoli, come in uso negli scrutini all’inizio del V secolo a.C.» (M.H. Hansen, The Athenian Democracy in the Age of Demosthenes.
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È, infatti, presso l’acropoli di Atene, sull’Αρειος πάγος (Areios págos), sul «colle di Ares»4, sulle spoglie del dio della guerra e della distruzione, precedentemente «sede delle amazzoni»5, guerriere di ferocia leggendaria a cui si imputa di praticare l’automutilazione del seno destro per poter meglio sostenere l’arco (ἀμαζών = senza seno; μαζός = seno); che, come una vera ϑεσμοϑέτης, thesmothétês, la dea Atena propone un nuovo patto tra Οὐράνιοι (Ouránioi) e Χϑόνιοι (Chthónioi), tra dei celesti (οὐρᾰνός, ouranós, cielo), paterni, istituzionali, apollinei, e dei sotterranei (χϑών, chthṓn, terra) intimamente sodali del mondo materno: mondo originario senza inizio e senza fondo dove vivono le Erinni, queste «vergini decrepite nate in un tempo remoto [γραῖαι παλαιαὶ παῖδες]»6, «abitanti le tristi tenebre e il Tartaro sotterraneo in odio agli umani e agli dèi dell’Olimpo [κακῶν δ᾽ ἕκατι κἀγένοντ᾽, ἐπεὶ κακὸν / σκότον νέμονται Τάρταρόν ϑ᾽ ὑπὸ χϑονός, / μισήματ᾽ ἀνδρῶν καὶ ϑεῶν Ὀλυμπίων]»7. Patrona della nuova alleanza è giustamente proprio Athena Poliás (Ἀϑηνᾶ Πολιάς, protettrice della città), dea guerriera e civilizzatrice (ϑεά της σοφίας, της ελιάς, της στρατηγικής και του πολέμου), in quanto, come racconta la Teogonia di Esiodo, è il frutto di una gravidanza congiunta di Zeus e di Metis, la «prima sposa [πρώτην άλοχον]»8 del re di tutti gli dèi. Dopo il periodo della gestazione, infatti, mentre la madre Metis è «sul Structure, Principles, and Ideology [1977-1981], Blackwell, Oxford-Cambridge [Mass.] 1991, p. 161). 4. Eschilo, Eumenidi, cit., v. 690, pp. 436-437. 5. Ivi, v. 685, pp. 436-437. 6. Ivi, v. 69, pp. 404-405. 7. Ivi, vv. 71-73, pp. 404-405. 8. Esiodo, Teogonia, in Id., Tutte le opere e i frammenti con la prima traduzione degli scoli, a cura di C. Cassanmagnago, Bompiani, Milano 2009, v. 886, pp. 168-169.
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punto di partorire Atena [Ἀϑηνην τέξεσϑαι]», il padre «Zeus l’ingoia nel suo ventre / perché la dea gli desse consigli sul bene e sul male [Ζευς πρόσϑεν έην έσκάτϑετο νηδύν, / ώς οί συμφράσσαιτο ϑεά ἀγαϑόν τε κακόν τε]»9. In modo tale, come spiegano Detienne e Vernant, da assimilare «le virtù di Metis e divenire lui stesso, ingoiandola», il «μητίετα [metieta], l’Astuto, la misura dell’astuzia, il dio fatto μῆτις [métis]»10. Ora, «da solo, dalla sua testa, dona alla luce Atena dagli occhi azzurri [αυτός δ’ έχ κεφαλής γλαυχώπιδα γεινατ’ Ἀϑηνην]»11. Non è più, quindi, «come Crono o gli altri dèi, una semplice divinità dotata di métis»12. È ormai «anche il μήστωρ ὕπατος (méstor húpatos). La sua métis è la misura di tutte le altre»13.
9. Ivi, risp. vv. 888-889 e 899-900, pp. 168-169. 10. M. Detienne - J.-P. Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia (1974), tr. it. di A. Giardina, Laterza, Roma-Bari 1984, risp. pp. 77 e 52. 11. Esiodo, Teogonia, cit., v. 925, pp. 170-171. 12. M. Detienne - J.-P. Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Gre cia, cit., p. 52. 13. Ivi, p. 5. A proposito della μῆτις (métis) vale la pena riportare quanto scrive Carlo Diano. «Se l’eroe dell’Iliade è un eroe della forma e però della forza, l’eroe dell’Odissea è un eroe dell’evento e, come tale, dell’intelligenza: perché la forma è immediabile, ma l’evento è tutto nella mediazione. Ed anche qui bisogna distinguere, perché, come la forza della forma è nel suo principio kratos e non bia, così questa intelligenza è μῆτις [métis] e non vόoς [nóos], un’intelligenza che calcola, non contempla, e non è inattiva, ma fa: non ha altro fine che il fare. È l’intelligenza che più tardi sarà detta σοφία [sophía] e φρόνησις [phrónesis], ξύνεσις [xúnesis] e γνώμη [gnōmē], che Aristotele definirà, in opposizione all’intelletto e alla scienza, come facoltà del calcolo o raziocinio, e chiamerà τό λογιστικόν [tó logistikón], riprendendo, senza saperlo, nel nome l’idea a cui l’etimologia di metis rimanda, e che è quella di misurare. E come il raziocinio, quale comune principio dell’attività pratica e poietica, si specifica nella “prudenza” o φρόνησις e nell’“arte” o τέχνη [technè] – che non è l’arte quale l’intendiamo noi, che dai Greci è detta “musica” (μουσική, mousikê) e rientra nella forma, ma la tecnica, – e la prudenza, a sua volta, cade sotto il medesimo genere della πανουργία (panourgia) o furberia, altrettanto è della metis, ed Ulisse che ne è l’eroe, è insieme prudente, furbo,
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Il linguista e antropologo Georges Dumézil spiega come sia precisamente da questa nuova alleanza tra Chthónioi e Ouránioi, tra «un diritto spietato e un diritto conciliante, un diritto magico e un diritto fiduciario [un droit terrible et un droit souple, un droit magique et un droit confiant]»14, che sorge il primato della legge: νόμος ὁ πάντων βασιλεὺς (nómos ho pántōn basileùs), secondo la celebre definizione di Pindaro15. Per rovesciare la parola magico-religiosa del mondo arcaico e sostituirla con la parola-dialogo della città, infatti, non serve a nulla demonizzarla o bandirla: proscrivere parole, immagini, atti, provoca in genere unicamente la loro ricomparsa sotto altra veste. Come spiega bene lo storico delle religioni Klaus Heinrich: «un pensiero orientato all’idea dell’alleanza deve includere nell’alleanza anche la potenza delle origini, altrimenti è destinato all’impotenza»16. Per esempio, nell’ambito del diritto, uno dei travestimenti tipici delle potenze arcaiche risiede nel concetto astratto di æquĭtas giacché, come sottolinea Emanuele Severino, «Dike, la giusti-
ed artefice» (C. Diano, Forma ed evento. Principi per una interpretazione del mondo greco [1967], Marsilio, Venezia 1993, p. 59). 14. G. Dumézil, Mitra-Varuna. Essai sur deux représentations indo-européennes de la souveraineté, Gallimard, Paris 1948, p. 123. 15. «La Legge, regina fra tutti / mortali ed immortali, / lo spinge con la sua mano sovrana / giustificando tutta la violenza. L’attestano le opere di Eracle. / Poiché spinse le vacche di Gerìone / al protiro ciclopico di Euristeo / senza averle né chieste né comprate [Nόμος ὁ πάντων βασιλεὺς / ϑνατῶν τε xαὶ ἀϑανάτων / ἄγει δικαιῶν τὸ βιαιότατον / ὑπερτάτᾳ χειρί. τεκμαίρομαι / ἔργοισιν Ἡρακλέος· ἐπεὶ / Γηρυόνα βόας / Κυκλώπίων ἐπὶ προϑύρων Εὐρυσϑέος / ἀναιτήτας τε xαὶ ἀπριάτας ἔλασεν]» (Pindaro, Frammenti di sede incerta, in Id., Tutte le opere. Olimpiche-Pitiche-Nemee-Istmiche-Frammenti, tr. it., con testo greco a fronte, a cura di E. Mandruzzato, Bompiani, Milano 2010, fr. 49, pp. 600-601). 16. K. Heinrich, Parmenide e Giona. Quattro studi sul rapporto tra filosofia e mitologia (1964), tr. it. di M. De Carolis, Guida, Napoli 1988, p. 38.
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zia che annienta, inesorabile, ogni prevaricazione, governa il Tutto attraverso l’ingiustizia»17. Facendo derivare la nozione di legge (nómos) dal verbo nemein, che indica l’atto del suddividere, dell’aggiudicare, nel De legibus, Cicerone spiega che i Greci ne incardinano il senso a partire «dalla questione della distribuzione dovuta a ciascuno di ciò che gli appartiene». I Romani, continua, si comportano in modo diverso perché la fanno provenire da lego (eleggo, scelgo). «Per questa ragione, gli uni fanno riferimento all’equità [æquĭtas] e gli altri alla decisione [vis delectus] entrambi intrinsecamente connessi con la legge»18. Benché Cicerone li consideri entrambi intrinsecamente connessi con la legge (proprium tamen utrumque legis est), vogliamo qui sottolineare come tali principi differiscano enormemente tra di loro e vi si correlino quindi in modo molto diverso. Infatti, anche se la distinzione proposta non implica una dissociazione tra parti autonome contrapposte, ma solo un’articolazione interna tra componenti eterogenee, la preminenza dell’uno o dell’altro non è affatto irrilevante giacché introduce una concezione e una pratica del diritto del tutto differenti e, per molti versi, radicalmente in contrasto tra di loro. Nel caso in cui a predominare è il principio di equità, l’æquĭtas si manifesta come condizione preventiva e come aspetto preponderante da cui deve discendere ogni decisione giuridica. In questo frangente il verdetto non mira più al giusto ma lo presuppone. Ogni sentenza risulta anticipata e in qualche modo
17. E. Severino, Interpretazione e traduzione dell’Orestea di Eschilo, Rizzoli, Milano 1985, p. 13. 18. «Graeco putant nomine [νόμον] suum cuique tribuendo appellatam, ego nostro a legendo; nam ut illi aequitatis, sic nos dilectus vim in lege ponimus, et proprium tamen utrumque legis est» (M.T. Cicerone, De legibus, in Id., Opere politiche e filosofiche, cit., I, 6, 19, pp. 428-429).
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predeterminata da una teoria che impregna di sé il sistema delle regole e stabilisce un livello di realtà a cui il giudizio deve sottostare per essere considerato accettabile. Esprime, quindi, un punto di vista che trascende il caso concreto e con cui quest’ultimo è costretto a misurarsi senza essere in grado di farlo. Nella condizione in cui, viceversa, prevale la decisione presa e assunta nella forma della norma stabilita, è la legge stessa a porsi come obiettivo l’equità la quale, lungi dall’essere presupposta, appare unicamente come l’oggetto da perseguire nell’esercizio concreto del giudizio e, in quanto tale, si presenta nelle vesti dell’occorrenza contingente e dell’indeterminazione. Poiché ciò che è giusto in generale non è giusto sempre e comunque ma solo nella maggior parte dei casi, il giusto per legge non si presenta come incondizionato: ha bisogno invece di essere temperato dal principio della moderazione di cui non può non tenere conto e con cui deve necessariamente commisurarsi. Lo spiega bene Aristotele nel Libro V dell’Etica Nicomachea, quando scrive: «l’equo è giusto, anzi migliore di un certo tipo di giusto, non del giusto in senso assoluto, bensì del giusto che è approssimativo per il fatto di proporsi come generale». Là «dove il legislatore ha omesso e errato, parlando in generale», ossia esprimendosi mediante una norma generale e astratta, è quindi cosa retta correggerne le lacune, integrarlo facendo ricorso all’equità (ἐπῐείκεια, épieikéia): sforzarsi di dire ciò che lui stesso avrebbe detto «se fosse stato presente, e che avrebbe incluso nella legge se avesse potuto conoscere il caso in questione». La natura dell’equità va rilevata pertanto nell’intervenire a posteriori per integrare «la legge là dove essa è insufficiente a causa del suo esprimersi in generale»19.
19. Aristotele, Etica Nicomachea, in Id., Le tre Etiche, tr. it., con testo greco a fronte, a cura di A. Fermani, pres. di M. Migliori, Bompiani, Milano 2008, V, 1137b 18-27, pp. 676-677.
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Prendendo in tal modo la forma di un percorso la cui meta non è prevista in anticipo, il giudizio si approssima il più possibile a ciò che si presenta in un modo, ma potrebbe anche essere differente. Ci si trova così nella posizione del prudente aristotelico, che giudica del giusto e dell’ingiusto senza un criterio univoco e definitivo: senza poter dedurre il suo giudizio da un principio metagiuridico. Prudenza (φρόνησις, phrónesis) che, aggiungendosi ai tratti della scelta (προαίρεσις, prohaïresis) e della deliberazione (βούλησις, boúlêsis), completa e costituisce per Aristotele la ragione pratica come intelligenza impegnata nel divenire. Un’organizzazione sociale in cui il presupposto dell’æquĭtas esercita la sua pressione sulle deliberazioni giuridiche in modo prioritario e indipendente delle disposizioni normative stesse, si presenta sotto l’aspetto di una società chiusa e monocratica, fondata sull’insicurezza e sulla paura, in cui la giustizia, la δίκη (díkē), vive separata e posta in contraddizione con lo stesso rispetto, αἰδώς (aidôs), delle regole. La situazione in cui, invece, l’equità non si pone come criterio sostanzialmente metagiuridico, come pregiudizio istituente e legittimante, ma come complemento della giustizia atto a mitigare l’iniquitas riscontrabile nella sua applicazione alle circostanze particolari, rinvia piuttosto a una società a carattere dipolare: atta a rispettare la diversità delle idee, a contare sulla responsabilità e a fare affidamento nella reciprocità. Con l’introduzione del regime dell’alleanza, che mette in gioco al contempo cooperazione e conflitto, infatti, al pari della gestazione comune di Metis e di Zeus, l’applicazione della legge materna consente di accordarsi e congiungersi con il punto di vista del padre: nel senso che la giustizia rinuncia alle prerogative totalizzanti di un’origine generatrice, istituente e legittimante, nonché alla credenza nel carattere inviolabile delle consuetudini e delle tradizioni tramandate da tempo immemorabile; per essere concepita a partire da un ordinamento
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giuridico instaurato in un momento storico preciso, dotato di una validità circoscritta a un periodo di tempo limitato e volto alla realizzazione della utilitatis communio. In questi termini, come scrive Roberto Esposito, «legge, Nomos, non parla più il linguaggio etico-teologico dell’assoluto, ma quello giuridicopolitico del limite. È limite, non arbitrio, a definire autorità e a condizionarne la legittimità alla soddisfazione del bonum commune»20. Il che vuol dire stabilire un momento dipolare tra scissione e forma, tra distanziazione e lotta corpo a corpo, tra complemento e antagonismo, tra coesistenza e dissidio, che coordini: (i) i diritti e doveri fondamentali che trascendono la dimensione della temporalità e appaiono come indipendenti da ogni concreto ordinamento della comunità politica senza tuttavia per questo pretendere di essere considerati validi sempre e comunque; (ii) con i precetti giuridici e le pratiche normative intesi come espressione del giudizio e della decisione e quindi differenti a seconda dei popoli che li hanno formulati e delle epoche storiche in cui sono stati messi a punto. Prospettiva che, in quanto tale, implica la conformità al principio di legalità come criterio primo e fondamentale di legittimazione del potere politico. In modo tale da porre come funzione principale dello Stato la produzione del diritto e l’azione a tutela della sua osservanza. Fino al punto da farlo coincidere quasi integralmente con unitarietà e coerenza del proprio ordinamento giuridico il quale, a sua volta, detiene «il potere di costituire e imporre come universale e universalmente applicabile nell’area di competenza di una nazione, vale a dire
20. R. Esposito, Ordine e conflitto. Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento italiano, Liguori, Napoli 1984, p. 61; cfr. anche E. Resta, La certezza e la speranza. Saggio su diritto e violenza, Laterza, Roma-Bari 1992.
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entro i limiti delle frontiere di un paese, un insieme comune di norme coercitive»21. In altri termini, l’alleanza dipolare preclude alla società: (i) la presenza simultanea di molteplici diritti diversi per origine, disparati per campi di applicazione, differenti a seconda che si riferiscano a tradizioni etniche o religiose particolari; (ii) l’esistenza di un sistema organico di categorie di persone ciascuno con privilegi, diritti e immunità discordanti e alternativi. Perché ciò significherebbe: (i) impedire ai singoli individui di raggiungere gli scopi che liberamente possono prefiggersi e di operare le scelte più consone alle loro aspirazioni; (ii) subordinare la parità di diritti e doveri per tutti gli attori sociali all’appartenenza a ceti, corporazioni, organizzazioni o collettività particolari; (iii) favorire o sfavorire un gruppo sociale rispetto a un altro; (iv) in conclusione, tornare a soggiogare la legge a una pretesa condizione naturale, arrestare il divenire e sottomettere di nuovo lo stato di diritto alla supremazia delle origini. L’alleanza dipolare tra uomo e bestia, tra norme giuridiche determinate e accettazione di un certo grado di brutalità, vuol dire rifiutare la condizione di “anima bella” e accettare di “sporcarsi le mani”: non poter non abitare dentro la natura ma, allo stesso tempo, porsi risolutamente contro di essa. Significa rinnegare la mera forza, la forza bruta, che coincide integralmente con la βία (bía): il vigore che è solo violenza perché riconosce unicamente la forza come regola e la società come naturale. Vuol dire contestare il potere di fatto in nome del potere di diritto, cioè di un potere limitato dalla supremazia della legge:
21. P. Bourdieu, Finalità della sociologia riflessiva, cit., p. 80.
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legittimo solo se collettivamente riconosciuto, pubblicamente accettato e accompagnato da un consenso esplicitamente espresso. Si tratta di una concezione per la quale la forma stessa della legge risiede nella massima della generalizzabilità: nella sua prerogativa inderogabile di riferirsi a tutti gli individui e a tutti i casi senza esclusione alcuna. Facoltà per la quale essa si risolve, in definitiva, in una convenzione suscettibile di limitare tutti i poteri ancorandoli irrevocabilmente al paradigma di bilanciamento del diritto-dovere e al postulato dei diritti simmetrici per il quale ognuno ha verso gli altri gli identici diritti e doveri che gli altri hanno verso di lui.
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7 Momento dipolare tra diritto (ius) ed enunciazione (dictio)
Così, pur commesso contro la madre, il delitto di Oreste è giudicato secondo una legge comune a padre e madre. Con l’introduzione del regime dell’alleanza, infatti, l’applicazione della legge materna consente di accordarsi e di essere convertita nel registro paterno: nel senso che la giustizia rinuncia a ogni prerogativa originaria per essere concepita a partire da un ordinamento giuridico instaurato in un momento storico preciso e con una validità circoscritta a un periodo di tempo limitato. Non si parla naturalmente di madri e padri concreti, di donne e di uomini, di principi femminili o maschili. Ciò che è in questione è, grazie alla tragedia eschilea e alle sue metafore, il prendere in considerazione l’alleanza tra, da una parte, il principio matriciale della Natura mater generationis tenebrosa e indecifrabile, della terra patria, del ventre materno della famiglia, degli affetti indecidibili e inestricabili. E, d’altra parte, del suo alter ego della cultura. Del suo polo reciproco e rivale relativo alla società e allo stato di diritto: di un diritto che non dipende da una concezione astratta e pregiudiziale di bene, ma registra e ripete il cos’è giusto sulla base delle decisioni collettive prese dai cittadini e dai loro rappresentanti (valentior pars) riuniti in assemblea secondo la formula del coram proceribus aliorumque fidelium infinita moltitudine.
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È così, possiamo dire, parafrasando Jean-Luc Nancy, che è nata la politica: là dove, un giorno, non ci fu più un essere-insieme predeterminato in una forma o in un’altra (clan, tribù, lignaggio, territorio, totem, mito, regole e autorità divine in generale). Si deve intendere con questo che il “divino” non rappresentava altro che il carattere predeterminato del vivere-insieme. La politica nasce nel ritrarsi del divino, nel ripiegarsi del nostro essere-con in quanto predeterminato, non solo d’altronde degli-uni-con-gli-altri, ma anche con il resto del mondo.1
Allora, perché si possa compiere la commutazione della giustizia fondata sulla vendetta, sulla rivalità mimetica dell’iotu inscindibilmente incatenati, in quella incardinata su legge, terzo, Πολιτεία (Politeia), Res publica, Stato, distribuzione tra io, tu ed egli in quanto entità distinte; Oreste disconosce la potenza delle origini a favore di quelle dell’alleanza in modo tale che anche il legame con genitori e progenitori non venga concepito come una garanzia di potenza per la quale il presente trae legittimità dal passato da cui proviene, ma come una libera decisione di accordo e disaccordo per cui non si è in balia dell’autorità di antenati e predecessori, ma si devono mettere in gioco se stessi e le proprie capacità. Sconfessa quindi il legame di sangue dato dalla nascita, rinuncia a seguire la voce del proprio, là dove la terra e il cielo sono dialetticamente congiunti: dove terra e cielo non sono connessi-sconnessi dall’intervallo dell’alleanza. Rinnega il πρϖτον οἰκεῖον (prôton oikeîon), l’οἰκείωσις (oikeiosis), la parentela originaria e fondamentale con se stesso: taglia il cordone ombelicale che lo lega indissolubilmente alle sue radici, al ventre materno. Rifiuta l’aut aut tra fedeltà e tradimento: contesta l’idea che l’allontanamento dall’origine riveli sradicamento, snaturamento, 1. J.-L. Nancy, Politique et/ou politique (2012), in «Lignes», n. 47, 2015, pp. 310-323: p. 318.
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degenerazione. Rinasce dalla propria inizialità declinando la relazione genealogica a favore del momento dipolare: si eleva, cioè, alla pari della natura e del destino, negoziando con loro invece di sottomettersi alla loro forza prepotente e oscura. Come scrive Walter Benjamin, infatti, «il destino è il contesto colpevole di ciò che vive. Esso corrisponde alla costituzione naturale del vivente»2. E Oreste, emancipandosi dalla «costituzione naturale», trasforma il δεινόν, il terrore insormontabile, in φόβος (timore governabile) seguendo l’incoraggiamento di Apollo che lo ammonisce: «non farti vincere dalla paura [μὴ φόβος σε νικάτω φρένας, mè phóbos se nikáto phrénas]»3 in modo tale che il rispetto degli altri cittadini (σέβας ἀστῶν, sébas astón)4 e il timore della legge (νόμος και φόβος, nómos kai phobos) costituiscano una buona «sentinella dell’animo umano [φρενῶν ἐπίσκοπον, phrenôn epískopon]»5, senza però ingabbiarne le aspirazioni impedendogli di agire. È proprio il fatto che l’assoluzione di Oreste non giunga da un perdono privato o pubblico, ma dalla decisione legittima di un tribunale, ciò che permette d’interrompere il circolo vizioso della vendetta, perché sottrae il giudizio alla complicità rivale dell’io-tu. Strappare il potere di deliberare alla prossimità esclusiva e gelosa dell’io-tu consente, infatti, di comprendere che, non solo la vendetta non compensa del danno subito, ma, soprattutto, è del tutto criminale e criminogena in quanto innesca una sequela sanguinosa e inesauribile di controreazioni reciproche. Delinquenti e disonesti devono essere perseguiti: questo compito, però, spetta a un giudice, a un rappresentante
2. W. Benjamin, Destino e carattere (1919), in Id., Opere complete, vol. I, Scritti 1906-1922, ed. it. a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2008, p. 455. 3. Eschilo, Eumenidi, cit., v. 88, pp. 404-405. 4. Ivi, vv. 690-691, pp. 436-437. 5. Ivi, v. 518, pp. 428-429.
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della legge, non a una ritorsione la cui violenza non è diversa ma identica a quella a cui si vorrebbe replicare. La giustizia non è tale, dunque, se non è temperata dalla sapienza. La giunzione tra giustizia e sapienza realizza infatti la strutturazione di una vera e propria propedeutica del diritto in grado di orientare ogni atto giuridico più verso l’equanimità che l’intransigenza, più in direzione dell’equilibrio che dell’inflessibilità draconiana. Ponendosi come obiettivo non la perfezione di una probità astratta, ma la nozione di preferenza ragionevole finalizzata all’ideale della vita buona, l’alleanza di giustizia e sapienza ha il suo caposaldo nella μεσότης (mesótēs)6. Tale correlazione, in altri termini, in quanto inseparabile dalla qualità personali del φρόνιμος (phrónimos), l’individuo dotato di senso della misura, è in grado di dare vita alla φρόνησις (phrónesis), l’attitudine a discernere, nelle circostanze difficili dell’azione, la giusta disposizione, l’ὀρϑός λόγος (orthós lógos). Essa consente, infatti, di tradurre la norma generale nel caso particolare senza fare ricorso a un’etica più fondamentale, né eccedere le risorse della norma stessa. I latini hanno ripreso la nozione aristotelica di phrónesis traducendola con il termine prudentia proprio per indicare che anche il giusto per legge non si presenta come incondizionato. Il giusto in generale non è giusto sempre e comunque, ma solo nella maggior parte dei casi e, quindi, l’esercizio concreto del giudizio ha bisogno di essere perennemente guidato
6. «La virtù, quindi, è uno stato abituale che orienta la scelta, consistente in una medietà [ἐν μεσότητι] rispetto a noi, determinato razionalmente e come verrebbe a determinarlo l’individuo saggio [φρόνιμος]. Medietà tra due mali [μεσότης δε δύο κακιών], l’uno secondo l’eccesso [καϑ’ υπερβολήν] e l’altro secondo il difetto [κατ’ έλλειψιν]» (Aristotele, Etica Nicomachea, cit., II, 1107a 36-39, pp. 500-501).
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dal principio della moderazione. Il che prevede tenere nel dovuto conto le situazioni concrete e particolari, mettersi in condizione di riconoscere il valore dell’individuo e delle singolarità, sapersi confrontare con l’emergenza del contingente e con l’indeterminazione Unificando dipolarmente le forze contrarie relative, da una parte, a desideri, sentimenti e ambizioni; e, d’altra parte, alla paura di essere giudicati responsabili, nonché di incorrere nelle sanzioni imposte dalle regole collettivamente stabilite; si passa da una concezione negativa del potere del diritto (diritto secondo la giustizia, secondario rispetto alla giustizia), forgiato sul modello dell’esclusione, sul paradigma del mors tua vita mea e sul bisogno di legittimazione da parte di un principio superiore; a una concezione positiva definita dalla sua immanenza e legata, quindi, alle sue conseguenze: alla forza delle norme in vigore strettamente coestensiva a un ambito specifico di applicazione in quanto forma storicamente mutevole e contingente. In altri termini, quando non si fonda sul bene come principio preliminare e superiore, quando il suo ordinamento non ha più i caratteri dell’irrevocabile e del necessario, quando la sua validità si misura con la correttezza formale delle sue procedure e non con la scelta di contenuti particolari, la giurisdizione può far corrispondere il diritto (ius) con l’enunciazione (dictio): in un momento dipolare per il quale la generalità a cui si fa appello risulta una generalità concreta, priva di concetto. Adottare la prospettiva dipolare significa, dunque, che la giustizia non si presenta come una sostanza naturale sussistente allo stato potenziale in attesa di essere attualizzata di fronte a colui che non la onora o non la riverisce, ma non può non riportarsi ostinatamente alla sua enunciazione: si esaurisce semplicemente disponendosi nella duplice forma della sentenza che sanziona o scagiona in seguito a un procedimento conforme alle
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norme vigenti e legalmente corretto. Giudica senza dover né poter pregiudicare un campo del normale e uno dell’anormale. Interessandosi al delitto e non a chi lo compie, al reato e non alla colpa, all’atto e non alla morale, alle modalità dell’agire e non allo stile di vita; la legge rinuncia a designarsi come depositaria del compito d’indicare dove sia il bene e dove il male, cosa sia meglio e cosa peggio, cosa sia preferibile e cosa non lo sia. La norma, la legge, la legalità, la legittimità non si prospettano così come l’occultamento di una violenza originaria e fondatrice, né sono a loro volta fondatrici di un mondo senza violenza: definiscono semplicemente il gradiente di violenza accettato in una data società. Svelando nel diritto null’altro che un accordo precario e momentaneo. La giurisprudenza che si presenta, sotto il segno dell’alleanza, come un accordo stabilito in comune, rovescia così il rapporto tra validità e legittimità ed evita di fondare la propria effettività sulle basi inamovibili di un’autorità che la trascende. Impara ad abilitarsi in base alla propria capacità di rendere valida ed effettiva la generalizzazione di un sistema di aspettative che consentono di distinguere non tra ciò che è bene o ciò che è male, bensì unicamente tra ciò che è collettivamente accettato come giuridicamente lecito e ciò che è considerato come inaccettabile e pertanto vietato a norma di legge: con particolare riferimento all’uso legittimo e illegittimo della forza. Accordo che, proprio in quanto non preceduto da alcuna verità naturale, risulta in grado di legittimare il sistema di istituzioni, disposizioni, leggi, diritti e doveri, posto a salvaguardia dell’insieme di interessi, bisogni e aspirazioni degli attori sociali, individuali o collettivi. Giacché non c’è iubere senza parere, non diritto senza dovere, non libertà senza limiti. Tra gli uni e gli altri sussiste un momento dipolare: non è possibile scegliere gli uni senza accettare gli altri, rinunciare ai primi senza veder precipitare anche i secondi.
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Sono tali convenzioni, patti o contratti (agreements) che garantiscono il valore di legalità per tutti coloro i quali, una volta che li hanno sottoscritti, se non vogliono restare intrappolati nelle loro maglie ed essere sanzionati, devono attenervisi o, eventualmente, riuscire a modificarne i termini. Impegnarsi in prima persona nella loro stipula significa stabilire un’alleanza, una trama di condizioni basata sull’autodeterminazione delle parti e del loro agire pratico, in base alle quali chi suggella formalmente un’intesa si vincola a rispettarne le obbligazioni previste. Quello dell’alleanza, infatti, è un processo che nasce dall’antagonismo e, di fronte all’antagonismo, al dissidio, non ci sono né soluzioni né sintesi né salvezza possibili. Nient’altro che misurare le ragioni irriducibili delle controparti e rischiare un accordo. Dal quale accordo discendono degli effetti concreti e immediati, ma nessun esito irrevocabile, nessuna conclusione definitiva. Ne risulta un incontro-scontro per il quale la divergenza inevitabile viene attenuata da un minimo o da un massimo di convergenza momentanea. Processo al termine del quale le parti rivali non ritrovano come punto d’arrivo un corpo identitario che, pur destrutturato e dislocato, le soddisfi e in cui si possano rifugiare. Il traguardo cui giungono è, invece, un criterio normativo: la regola secondo la quale l’unica cosa veramente preziosa, la sola cosa che effettivamente conta, è che l’intesa raggiunta funzioni, sia pur solo temporaneamente. Viene estinto in tal modo ogni debito nei confronti della legge che risulta esautorata da ogni autorità superiore che non sia la trattativa negoziale e l’interesse prevalente di ciascuna singolarità: legge da cui quindi non bisogna attendersi alcun riscatto morale, né alcun riconoscimento simbolico di virtuosità, né alcuna definizione di fini trascendenti.
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8 Emanciparsi dalle potenze dell’origine. Il silenzio delle sirene e il terzo istituito dello spazio pubblico
Abbiamo fin qui distinto un campo ellittico di curvatura con due fuochi di riferimento separati e congiunti da una soglia. Tali fuochi, raccordati secondo un registro dipolare, descrivono la relazione ricorsiva tra, da un versante, il singolo individuo e il suo idios kósmos, formanti la diade io-tu; e, dall’altro versante, il gruppo, la comunità, il sensus communis, con il loro koinós kósmos esemplificato dalla serie io, tu, egli, in quanto entità distinte. Impedisce ai due kósmoi di superarsi dialetticamente, e di confondersi l’uno con l’altro, il ponte-porta di un intervallo: il mikrós diákósmos, la linea di forza del pagus, in quanto strumenti di tecnica sociale che li mantengono incessantemente in tensione in un’alleanza che è cooperazionecompetizione e sodalizio-conflitto. Nella Retorica Aristotele utilizza l’interrelazione di idios e koinós per distinguere due aspetti del genere giudiziario: «de finisco la legge sia particolare sia comune»1. Riferito al nómos, a ciò che è stabilito, alle norme giuridiche, idios riguarda la
1. «Lego de nomon ton men idion, ton de koinon» (Aristotelis Ars rhetorica, a cura di R. Kassel, de Gruyter, Berlin-New York 1976, I, 13, 1373b 4, p. 62).
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prerogativa di essere fissate «da ogni gruppo per i propri mem bri»2, mentre koinós rinvia al requisito per il quale «sembrano riconosciute da tutti»3. In questo caso, l’interferenza della diakosmētike technè su idios e koinós si riverbera sui modelli sociali, le forme di governo e le norme giuridiche che da questi discendono. Per spiegare questo passaggio è necessario fare ricorso al modello dello «spazio ternario del triangolo giudiziario»4, elaborato dal sociologo e filosofo del diritto François Ost e strutturato secondo «le differenti tappe dell’identità solipsista, dell’alterità, della pluralità e dell’egli normativo»5. Ost considera che soggettività e intersoggettività non siano degli oggetti, ma emergano come effetti di senso nell’attualizzazione di un processo sociale complesso: nell’intersecazione di due campi per la cui elucidazione si deve fare intervenire una terza area, la sfera del diritto, grazie alla quale la polarità delle due regioni si bilancia fino a trovare una zona di equilibrio stabile-instabile. Il suo schema presuppone che, prese nel loro stadio aurorale, «le “capacità” del soggetto» arrivino a tradursi in poteri reali, riescano a “ex-sistere”, unicamente a partire dalla «mediazione dell’alterità»6.
2. «Idion men ton ekastois orismenon pros autous» (ivi, I, 13, 1373b 4-5, pp. 62-63). 3. «Para pasin omologeisthai doxei» (ivi, I, 10, 1368b 9, p. 48). 4. F. Ost, Kafka, ou l’en deçà de la loi, in F. Ost - L. Van Eynde - P. Gérard - M. Van de Kerchove (a cura di), Lettres et lois. Le droit au miroir de la littérature, Presses de l’Université Saint-Louis, Bruxelles 2001, p. 114. 5. Ivi, p. 153. 6. Ivi, p. 112.
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Mentre, cioè, in prima istanza, si dilata nell’indefinito dell’afflusso di mondo, quello che è un sé ancora debolmente consapevole si ritrova improvvisamente, in seconda istanza, a fronteggiare la sottrazione di una parte di tale corrente copiosa e continua: finisce, quindi, per dover mettere a repentaglio la propria incolumità al fine di attraversare tale interruzione. In altri termini, nel flusso della vita che nasce, spiega Ost, quando è abbracciato da un tu, io ne rimane impigliato e avverte confusamente l’emergere di un noi quasi indistinto, di «un io a due», un io sovrano7. Ma questo non accade sempre. Infatti, come già sottolineato precedentemente con riferimento al pensiero di Emmanuel Lévinas e di Paul Ricœur, io può anche essere trascurato: tu può respingerlo e scollarsene in un moto che, per dirla con Jean-Luc Nancy, va descritto come «un battito che raddoppia il mio e lo accompagna contrariandolo, rimuovendolo dal suo semplice ritorno regolare in un’irregolarità irriducibile»8. Nel primo caso, relativo allo stadio solipsista, che è soliloquio, proiezione di olismo e autarchia; io non si distingue ma concresce con il flusso vivente: lasciando indeterminati i due poli io-tu e disponendoli ricorsivamente l’uno come succedaneo dell’altro. Nel secondo caso, invece, l’improvvisa e imprevista discontinuità si manifesta, prima ancora che nella forma di un’interruzione, in quanto vera e propria intrusione: come la presenza di un corpo estraneo e sconosciuto. Si tratta, prosegue Ost, dell’emergere di un terzo polo che «s’intromette tra il mondo e l’io»9 facendo fuoriuscire io e tu dalla minaccia viva
7. Ibidem. 8. J.-L. Nancy, Mais laissons là Monsieur Bataille! (Entretien avec Madeline Chalon), in «Le portique» (online), n. 29, 2012, p. 2. 9. F. Ost, Kafka, ou l’en deçà de la loi, cit., p. 112.
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dell’indifferenziazione e donando in tal modo a questi ultimi consistenza e personalità ben distinte. È a questo punto che il corpo estraneo e sconosciuto duplica il «momento del tu» scindendolo in un tu e in un egli: commutando il tu es in is est e liberando l’accesso a «l’altro come terzo (pluralità)»10. Ricapitoliamo l’itinerario percorso. L’ex-sistenza, spiega Nancy, comincia con l’evento dell’«essere esposto: fuoriuscito dalla semplice identità con sé e dalla sua pura posizione, esposto all’insorgenza, alla creazione, dunque al fuori, all’esteriorità, alla molteplicità, all’alterità e all’alte razione»11. Dunque, forze eterogenee prese nell’eufonia, io e tu istituiscono mutualmente localizzazione e soggettività dei loro propri corpi grazie al puro movimento estatico dell’oscillare nell’indeterminazione dentro-fuori: moto immobile che, riguardo a io, precorre la mediazione dell’intelligenza e della volontà in quanto spazio-temporalizzazione incurvata dal lato della spazialità. Così, scrive Lyotard: «io mi avventuro lontano da casa mia, in ostaggio, senza mai abitare a casa tua, senza mai essere tuo ospite, perché tu non hai dimora»12. Per lambire, proseguiamo con Blanchot, «un nuovo mondo dove si è al contempo a casa propria e a casa di un altro»13. Giacché «prima dell’intenzionalità fenomenologica e prima della costituzione egolo-
10. Ibidem. 11. J.-L. Nancy, Cosmos Basileus (1998), in Id., La creazione del mondo o la mondializzazione, tr. it. di D. Tarizzo e M. Bruzzese, Einaudi, Torino 2003, p. 115. 12. J.-F. Lyotard, Il dissidio, cit., p. 149. 13. M. Blanchot, L’idylle (1936), in Id., Après coup, précédé par Le ressassement éternel, Minuit, Paris 1983, p. 45.
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gica, ma anche prima della consistenza cosale in quanto tale, c’è la co-originarietà del con»14. Io e tu, tuttavia, non sono alla pari, non sono comparabili. Come spiega Charles Sanders Peirce, la loro binarietà (pairedness) appartiene in un modo al primo e in un altro al secondo: tale dualità, infatti, «non è mediata o trasmessa e, di conseguenza, non ha una natura comprensibile ma è assolutamente cieca»: «non ha razionalità possibile [It is not mediated or brought about; and consequently it is not of a comprehensible nature, but is absolutely blind… has no possible rationale]»15. Io e tu, conclude Peirce, «non sono binari», «non sono uno»16: semplicemente, nel prolungarsi l’uno nell’altro ognuno diventa ciò che è grazie all’alterità presente in esso (that of it which is another). Io e tu non sono equivalenti perché tu può sia approssimarsi, accostarsi, inclinarsi; sia deviare e risospingere indietro. Sia prodigarsi di cure e attenzioni, prestarsi alla consonanza, impegnarsi nell’euritmia, offrirsi alla coesione, esporsi all’incorporazione; sia, all’inverso, non prendere in considerazione, disinteressarsi, ignorare, ritenersi, distogliersi, distrarsi, allontanarsi. In corrispondenza diretta di proporzionalità, io lascia emergere lo stesso sentimento di comunione incondizionata propostagli dal tu, si sente toccato da una coestensione perfetta di percepito e percipiente. Oppure si strugge, e agonizza, mentre la prensione si protende, corre il rischio di una deiscenza, ma, a causa dell’in-
14. J.-L. Nancy, Essere singolare plurale, tr. it. di D. Tarizzo, intr. di R. Esposito, Einaudi, Torino 1996, p. 57. 15. C.S. Peirce, La logica delle relazioni (1898), in Id., Scritti scelti, tr. it. a cura di G. Maddalena, UTET, Torino 2005, p. 279; ed. ingl., Detached Ideas Continued and the Dispute between Nominalists and Realists, in Id., The New Elements of Mathematics, vol. IV, Mouton-Humanities Press, The HagueParis-Atlantic Highlands 1976, p. 333. 16. Ibidem.
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differenza del tu, resta senza risposta e precipita nel vuoto, nel «silenzio delle sirene» direbbe Franz Kafka17. In altri termini, se osserviamo le cose dalla parte dello stato creaturale, io e tu non giocano un doppio ruolo: costituiscono piuttosto due aspetti ricorsivi dello stesso insieme, l’interno e l’esterno incardinati l’uno nell’altro. Dominato da un’irrimediabile dipendenza dai sensi, in effetti, l’io nascente assume una posizione solo in quanto esposto a questo tu simile-dissimile, che raccoglie senza potersi né doversi aprire. Abbraccia ciò che viene, ma senza fini reconditi né connivenza o confidenza: si dona al doppio senza avvertirne la contraddizione. La sussistenza si prolunga al di là dei suoi limiti fisici e, oltrepassandolo, lo sottrae a se stesso, lo disloca: lo immette nell’altro, nell’infinità del tu. Io è accolto così nella coesistenza di pienezza e benessere, nel libero fluire dell’istante presente e nella sincronia del tenersi insieme: come se «avesse scoperto di poter fare qualcosa d’altro che volere e comprendere. Essere felice senza averlo mai chiesto né concepito. Un istante che potrà sembrare molto lungo, se misurato con l’orologio della conoscenza e dei suoi intrighi – i nostri intrighi, le nostre narrazioni, le nostre spiegazioni, tutti i nostri arrangiamenti di ogni specie – ma che non è integrabile nella sua sfera cronometrica» giacché, «non avendo idea della propria unità nemmeno come orizzonte», «non ha idea di ciò che vuole essere e deve essere»18. Al contrario, dal versante della posizione interlocutoria, quella ben consapevole della propria identità e della propria differen17. «Le sirene possiedono un’arma ancora più temibile del canto, il loro silenzio» (F. Kafka, Il silenzio delle sirene [1917], in Id., Racconti, tr. it. a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1970, p. 428). 18. J.-F. Lyotard, The Subject in the Status of Birth, in «Topoi», VII, n. 2, 1988, pp. 161-173: p. 163.
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za, la reciprocità io-tu è contrastata da un’altra ambivalenza. Come abbiamo visto, infatti, il suo orizzonte d’azione non può esimersi dall’entrare in una decussazione tragica per la quale tu è posto all’incrocio di una doppia apertura, di una duplice scena, di una strategia binaria. E finisce quindi per scindersi nella correlazione doppia di due forze particolari antitetiche. Il primo tu «è sonno, d’una passività che è accoglienza, of ferta»19. Il secondo, invece, abita un registro per il quale «un non-essere centrale minaccia in ogni momento di revocare il proprio consenso ad essere»20. Con questo secondo tu, infatti, una novità fa irruzione all’interno della condizione omogenea. C’è qualcosa, ma non si rivolge, non s’interessa a io, non gli è né indirizzata né destinata: lo evita, lo schiva, lo sfugge. E, nella presa mancata, io scivola dall’ardore alla caduta, dall’effusione all’annichilimento. La presenza di un vuoto, di un deficit, si manifesta come interposizione di un ostacolo: come emergenza di una contrarietà incondizionata che mette in gioco la vita stessa di chi vi è improvvisamente e inaspettatamente contrapposto. Lo slancio, alterato dalla paura, dal terrore di non trovare più ciò che si è toccato, introduce un dubbio, una piega, una ferita, un’incrinatura, una crepa, una fenditura, una discontinuità: un lavoro di smembramento, di sgretolamento, di caduta nell’indeterminato e quindi di morte. «A questo proposito, è proprio nell’esperienza del carattere irreparabile della perdita dell’altro amato che noi apprendiamo, attraverso una trasposizione dell’altro su noi stessi, il carattere insostituibile della nostra propria vita»21.
19. M. Blanchot, La comunità inconfessabile (1983), tr. it. di M. Antomelli, Feltrinelli, Milano 1984, p. 60. 20. M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile (1959-1960), tr. it. di A. Bonomi, a cura di M. Carbone, Bompiani, Milano 2007, p. 124. 21. P. Ricœur, Sé come un altro, cit., p. 289.
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S’impone perciò una decisione esistenziale che comporta l’entrare nel registro dell’esperienza e l’iscriversi volente o nolente nella diacronia degli stati successivi relativi al mutamento. Oppure approdare a una regione «i cui soli concetti costitutivi sono infelicità e colpa», entro la quale «non è concepibile via alcuna di liberazione»22, e lasciarsi morire. In tale frangente, drammatico oltre misura, dunque, si dischiude una biforcazione: il cul-de-sac letale dell’angoscia e del tracollo oppure il sopravvivere. Vi è un violento dissidio tra la legittima attesa che ciò che è stato continui ad essere per sempre e l’obiezione con cui la nέμεσις (némesis) pone incessantemente dei confini ad ogni desiderio illimitato: tra il rifiuto o il misconoscimento del principio di realtà e il riconoscimento delle sue prerogative sotto il peso del timore di dover affrontare la delusione, la smentita delle aspettative. In altri termini, a partire dall’incoerenza ostinata con cui il mondo interno-esterno avviene, a meno che io non precipiti, a poco a poco una linea di confine si tratteggia e costruisce due punti focali: uno circoscritto al corpo proprio, più malleabile anche se non sempre interamente padroneggiabile; l’altro nel fuori, rigido, indocile, talvolta irremovibile. Costante confronto di percezione e propriocezione, da un lato; e, d’altro lato, delle proprie impressioni con quelle degli altri: che blocca il rientro nell’io-tu di un’ori gine non materialmente originaria, ma solamente dedotta. Man mano che la tensione tra i fuochi io e tu si converte in competizione-cooperazione, il corpo in formazione di io si decentra e, da sede del sensibile, muta in fonte d’azione. La sua capacità di essere affetto, di provare affezioni, si raddoppia in una facoltà duplice che gli consente allo stesso tempo di compiere azioni: di addizionare l’intensità del sentire con l’estensione del fare. Di accrescere il prorompere del tempo 22. W. Benjamin, Destino e carattere, cit., p. 454.
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come permanenza fin nella durata, e di ampliare la delimitazione della polarizzazione nei termini di spazializzazione e oggettivazione, per iniziare ad abitare un mondo inteso come continuum ordinato di oggetti conoscibili. Io si avvia così ad aggregare l’inesauribile ripiegarsi delle apprensioni su se stesse che, come il verso poetico, vanno ogni volta a capo e reiterano interminabilmente le stesse sequenze; con il discorso in linea retta della prosa che volge in avanti e procede dritto di fronte a sé nell’incontro e nel conflitto. Assumendo i risultati di quest’operazione non come entità indipendenti e a se stanti, bensì come termini di relazioni: come forgiati dall’interazione di persone e prospettive distinte. Ciò a cui i kósmoi idios e koinós fanno appello è, dunque, il momento dipolare tra: (i) la «società a due», dove regna «la reciprocità dell’io-tu», «la baraonda iniziale di prima della creazione, la notte senza fine, il fuori, il subbuglio fondamentale»23; (ii) e la contingenza della privazione, «l’altra estremità dello spettro della sollecitudine»24. Là dove, infrangendo la felicità di un incontro; rifiuto, misconoscimento, neutralità o assenza svalorizzano drasticamente la possibilità di afferrare la natura come totalità indivisa. Là dove il tu trasmuta in egli: nel tu «implacabile che ora constata ora mantiene» l’io a cui si rivolge «in un’obbligazione che anticipa ogni legge»25. Rendendo effettivo il transito dall’alterità-identità alla pluralità, tale seconda differenziazione tra tu che ama e tu che giudica dona un’inedita profondità alla relazione duale: apre la strada alla terza persona, l’egli, e integra la mediazione riflessiva con ciò che François Ost definisce «l’istanza terza e imparziale della 23. M. Blanchot, La comunità inconfessabile, cit., p. 62. 24. P. Ricœur, Sé come un altro, cit., p. 286. 25. M. Blanchot, La comunità inconfessabile, cit., p. 59.
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legge»26: «l’istanza terza (giudizio, ragione) dell’istituzione» che funge da «riferimento al terzo istituito dello spazio pubblico»27. L’egli che sopraggiunge, prosegue Ost, non consiste in «una terza persona qualsiasi». Si tratta, infatti, di una «duplicazione riflessiva» che rappresenta «al contempo il ciascuno della pluralità anonima», il «riferimento comune a un’identità condivisa e, infine, l’embrione della costituzione di una comunità politica (al di là del clan familiare) dove, nello spazio pubblico, possono articolarsi le prime pretese di giustizia in riferimento a una legge generale e astratta»: una legge in grado «di essere generalizzata a tutti coloro che dicono io»28. Con questa seconda disposizione proiettata verso il futuro, che è «ricerca dell’uguaglianza attraverso la disuguaglianza»29, che ha un valore di iniziazione e che stabilisce anche una nuova relazione positiva con le origini, prende forma dunque “il terzo istituito dello spazio pubblico”: il doppio movimento della legge, in nome della quale è possibile giudicare perché ci si qualifica in quanto istanza terza; e della libertà, intesa come accettazione e persino rivendicazione della propria solitudine. Infatti, toccato dall’abbandono del tu che lo attraversa, messo alla prova del senza-espressione (das Ausdrucklose, lo chiama Walter Benjamin), al cospetto di indifferenza, disconoscimento, rifiuto, rigetto; io fa un’esperienza particolarmente significativa. Abbandona beatitudine e innocenza e scopre un’altra riva, tragica, molto lontana dal noi. Deformazione dello spazio corporeo, apertura all’esperienza aptica, grazie alle quali,
26. F. Ost, Kafka, ou l’en deçà de la loi, cit., p. 112. 27. Ivi, p. 121. 28. Ivi, pp. 112-113. 29. P. Ricœur, Sé come un altro, cit., p. 288.
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con una specie di chiasma, io comincia lentamente a discernere se stesso, gli altri, le cose, il diritto e il rovescio: li vede gradualmente diventare mondo. «Per Kant, – rileva Nancy – un piacere che non percepiamo più sarebbe all’origine del pensiero. È per questo che il pensiero sarebbe “originariamente appassionato”»30. E, allo stesso tempo, il tu assente trasmuta in egli. In una mancanza che ci giudica e rispetto alla quale si è soggetti di descrizione e di narrazione, di ragionamento e di deduzione, di astrazione e di concettualizzazione, in modo tale che il racconto del passato, a cui si è sopravvissuti e rispetto al quale ci si crede superstiziosamente superstiti, tessa una tela tra eventi trascorsi ed altri a venire. Quanto è accaduto viene considerato a partire dal punto di vista altrui: ciò che mi osserva e si dà in spettacolo è il comune, la regola, la legge. Questa dinamica esperienziale anticipa quindi ogni attività cognitiva o desiderante, di comprensione teorica o di ragione pratica. E ne pregiudica, in tal senso, i significati, perché li unifica in un comune processo generativo che, consentendo di sperimentare l’essere reputati e soppesati, dà vita alle sensazioni di avvicinamento e di messa a distanza, ai sentimenti di riguardo e di umiliazione, nonché all’ambito che sorge dalla loro costruzione sensibile: la facoltà di giudicare dove l’attenzione verso le persone e le cose si declina in responsabilità e in rispetto della legge. La responsabilità, in effetti, come osserva ancora Ost, «è la “risposta” di una libertà a un’altra: è perché io sa di essere interpellato da tu, che è come la voce dell’altro in lui, che decide di agire. Così, la legge morale (e successivamente giuridica)
30. J.-L. Nancy, Sens elliptique, in «Revue philosophique de la France et de l’étranger», CLXXX, n. 2, 1990, pp. 325-347: p. 327.
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non appare più unicamente, e nemmeno essenzialmente, in quanto il vincolo esterno di un terzo onnipotente e inaccessibile, ma piuttosto come l’inflessione di una libertà che ha interiorizzato l’appello del tu», trasponendolo in un egli esterno che nel bene e nel male ci riconosce e ci giudica. Il registro normativo risulta in tal modo «come una dimensione propria del sé – che è anche, paradossalmente, una dimensione»31 che è propria a tutti gli altri, presi ciascuno nella sua singolarità. Tale libertà prende corpo nel pervenire a trovare un tempo e uno spazio più vasti dove ottenere «la vittoria sui demoni»32. Nel riuscire a tornare dalla dispersione del fuori senza o con minor paura di perdersi: sconfiggendo il terrore di restare privi delle potenze dell’origine e, pertanto, emancipandosi da esse. Nell’affermare una rinascita dopo aver attraversato un labirinto sprovvisto di Minotauro e dopo aver superato una morte di cui non resta alcun caput mortuum. Nell’arrivare a strappare e ricucire l’esperienza nel doppio registro dipolare che la compone: sia come movimento del tessere e investirsi nel flusso del vivente, sia come orizzonte del suo progredire, suo punto di arrivo, sua destinazione. Orizzonte e destinazione che coincidono precisamente con il passo falso dell’investimento deluso. E che proprio per questo, in quanto frutto e cornice dell’esperienza stessa, al contempo la oltrepassano e la costituiscono: la pongono ricorsivamente in dissidio permanente con il proprio divenire. Oppure, per dirla più in generale con le parole del sociologo francese Dominique Wolton: tutti cercano comunicazione, relazione, scambio, comprensione, a livello individuale della coppia, della famiglia, della società e oggi della globalizzazione. E, il più delle volte, in31. F. Ost, Kafka, ou l’en deçà de la loi, cit., p. 113-114. 32. W. Benjamin, Destino e carattere, cit., p. 455.
89 ciampano nell’incomunicazione (dialogare senza comprendersi). L’altro non c’è, non risponde, non ascolta, si oppone o scappa. L’incomunicazione è quindi spesso l’orizzonte della comunicazione. Per evitare lo stallo nello scambio comunicativo ci sono due cose da fare: capire su cosa si basa l’incomunicazione e costruire la convivenza. Pensare l’incomunicazione e organizzare la convivenza vuol dire salvare la comunicazione: prendere atto delle sue difficoltà ontologiche e provare tuttavia a preservarne il valore. Pensare l’incomunicazione equivale a rispettare l’altro, capire su cosa riposa l’alterità. Pensare l’incomunicazione costituisce lo stadio supremo della comunicazione. Costruire la coesistenza significa riflettere sulle condizioni di un minimo d’interrelazione nel rispetto delle differenze. Il ciclo comunicazione-incomunicazione-coabitazione non è quindi la messa in mora della comunicazione, ma piuttosto il tramite per rispettarne nel modo migliore le dimensioni normative. Poiché, riconoscere l’incomunicazione implica l’ammettere la libertà dell’altro, con le sue differenze e le sue identità: comporta l’essere fedele all’idea dell’uguaglianza tra le controparti. Costruire la convivenza significa precisamente trovare le condizioni per un minimo d’inter-comprensione, che tengano conto dell’irriducibile alterità tra gli esseri, i gruppi, le società. Questo approccio in tre tempi è valido a tutte le scale, individuali e collettive, indipendentemente dalle culture, dalle lingue e dalle civiltà. È qui che la comunicazione tocca l’universale. Ammettere l’incomunicazione e costruire la coabitazione non sono sinonimi di fallimento, ma riflettono la volontà di viverne i valori in uno spazio rispettoso delle differenze e delle libertà. Questo fa parte del dibattito sulle condizioni da soddisfare per salvaguardare la comunicazione in una società libera e democratica. Come possiamo muoverci verso un ideale normativo in un mondo in cui individui, gruppi o popoli non vogliono o non riescono a comprendersi? In sostanza, il progresso dell’ultimo mezzo secolo non è stato tanto il trionfo del valore comunicativo, conseguenza logica di uno schema di emancipazione che ha attraversato due secoli, quanto piuttosto l’ineludibile scoperta dell’incomunicazione, e la volontà di organizzare,
90 malgrado tutto, delle situazioni di coesistenza che tengano conto contemporaneamente dell’ideale e della realtà. L’intera organizzazione della comunità internazionale si basa su questa constatazione d’incomunicabilità; e sulla necessità, a dispetto di ciò, di rendere tale comunità vivibile, e se possibile democratica, allestendo la convivenza.33
33. D. Wolton, Sauver la communication (2005), Flammarion, Paris 2007, p. 139.
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9 La facoltà di giudicare o la co-ipseità
Alla luce di quanto detto finora, possiamo concluderne che la duplice orbita benvenistiana della “correlazione di personalità”, per cui l’io diventa tu del tu, rivela l’interdipendenza dipolare dell’io-tu e l’irreversibilità entropica del campo vettoriale tu-egli. Mette quindi in evidenza che la matrice del dover essere non è avulsa dal divenire sé. Che, da un canto, le leggi fissate da ogni gruppo per i propri membri non provengono dalla ragione come ambito sopraindividuale né dall’indistinzione di un senso comune. Mentre, d’altro canto, queste stesse leggi cessano di essere legittime ed efficaci quando non sono più riconosciute come accettabili da una parte rilevante di chi deve osservarle. Il sé, dunque, non riguarda solo la terza persona in quanto “invariante non personale”. Come abbiamo mostrato grazie a Paul Ricœur, infatti, prendendo le fattezze dell’idem, dell’ipse o dell’alter, esso si presenta anche come la forma riflessa del pronome (pronomen, ἀντωνυμία, antōnumía) nella prospezione simultanea di genitivo soggettivo e oggettivo in quanto poli antonimici ma reversibili: un’eruzione che attualizza lo stesso sé senza mai esaurirne la dinamica. Questo sé, in altre parole, gode di uno statuto bicuspide relativo alla sua tendenza a intraprendere moti di precessione.
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Insegue senza posa, in effetti, un punto di regresso dove invertire bruscamente la direzione del suo movimento in modo tale che, come spiega ancora Benveniste, da «idiotes, essere sociale circoscritto a se stesso», può cambiare orientamento all’asse di rotazione e convertirsi in «sodalis»: membro di un gruppo sociale. Giacché descrive un’ellittica i cui fuochi sono «le due forme del se latino, divenute indipendenti: se riflesso, indicante “se stesso”, e se partitivo, sed, “ma”, marcante distinzione e opposizione»1. Quanto emerge non è una «dimensione sociale» o «comunitaria» che si aggiunge a un dato individuale primitivo – neanche a considerarla un’aggiunta essenziale e determinante. Si pensi alle tante forme e tante circostanze del discorso ordinario in cui ci viene imposto quest’ordine: prima l’individuo e poi il gruppo, prima l’uno e poi gli altri, prima il soggetto del diritto e poi i rapporti reali, prima una «psicologia individuale» e poi una «psicologia collettiva» e, soprattutto, come si continua a sostenere in maniera sorprendente, prima un «soggetto» e poi l’«intersoggettività». Non si tratta neppure di una socialità o di un’alterità che verrebbe ad attraversare, complicare, mettere in gioco – alterare – nel suo stesso principio l’istanza del soggetto inteso come solus ipse. È qualcosa di più ed è qualcosa di diverso. È ciò che, nel principio stesso, determina l’ipse qualunque («individuale» o «collettivo», se questi termini hanno un senso preciso) solo co-determinandolo con la pluralità degli ipse che sono tutti co-originari e co-essenziali al mondo, a un mondo che va definito ormai come una co-esistenza da intendere in un senso ancora inaudito, perché essa non ha luogo «nel» mondo, ma forma l’essenza e la struttura del mondo. Non una vicinanza o una comunità degli ipse, ma
1. É. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. I, Economia, parentela, società (1969), ed. it. a cura di M. Liborio, Einaudi, Torino 19812, p. 255. Cfr. anche A. Ernout - A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des mots (1932), nuova ed. a cura di J. André, Klincksieck, Paris 20014, p. 664.
93 una co-ipseità: ecco ciò che emerge, ma come un enigma sul quale il nostro pensiero inciampa.2
Se è certamente vero che, come recita la celebre massima ulpianea, «iura non in singulas personas, sed generaliter constituuntur [“le norme non sono stabilite per le singole persone, ma in generale, cioè, per tutti”]»3, tuttavia, come spiega bene Georg Simmel, «l’individuale non è necessariamente soggettivo e l’oggettivo non necessariamente sopraindividuale», giacché il vincolo prescrittivo «proviene dalla tua propria vita, non da un contenuto condizionato dalla possibilità di univer salizzazione»4. Se, infatti, l’attore sociale «è l’uomo intero e non il resto che rimane quando da questo si toglie ciò che condivide con altri», occorre mettere in discussione «l’equivalenza di legge e legge universale» al fine di ricusare «l’alternativa per la quale l’istanza etica o è ciò che si presenta come dovuto nella coscienza soggettiva, nella decisione personale della coscienza, oppure proviene da un momento oggettivo, da un ordinamento sopraindividuale»5. Si può, in tal modo, affermare che «la falsa appartenenza di individualità e soggettività deve essere sciolta come quella di universalità e legalità» e, infine, mettere in mora il principio kantiano per cui «solo il reale, e non il normativo-ideale, può essere individuale e solo l’universale, e non l’individuale, può essere legale»6.
2. J.-L. Nancy, Essere singolare plurale, cit., p. 62. 3. Ulpianus libro tertio ad Sabinum, 1.3.8, in De legibus senatusque consultis et longa consuetudine, in Th. Mommsen - P. Krüger (a cura di), Justiniani Digesta, in Corpus Iuris Civilis, vol. I, disponibile online: https://droitromain. univ-grenoble-alpes.fr/Corpus/d-01.htm#3. 4. G. Simmel, La legge individuale (1913), in Id., La legge individuale e altri saggi, tr. it. di G. Barbolini, a cura di F. Andolfi, Pratiche, Parma 1995, risp. pp. 120 e 128. 5. Ivi, risp. pp. 126 e 120. 6. Ivi, risp. pp. 123 e 134.
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Ne consegue che per accedere allo statuto di soggetti responsabili non è indispensabile rinunciare alla solitudine e al capriccio solipsista dei sensi individuali: che la libertà soggettiva indeterminata non costituisce un pericolo per la tela dell’intersoggettività ma, piuttosto, è il sistema normativo a perdere ogni legittimità e a non essere in grado di farsi rispettare quando non risulta più adeguato al sentire dei singoli individui. Dato che, come chiarisce Simmel, «il dover essere in generale non deriva da un fine. Non è a partire da tale fine, ma è a partire da noi stessi che abbiamo dei doveri»: non siamo, infatti, responsabili solo «per il fatto che obbediamo o meno a una legge vigente, ma già per il fatto che questa legge vale per noi solo perché siamo questi determinati individui, e il nostro essere si modifica in qualche modo per ogni azione compiuta modificando ad ogni istante lo stesso ideale del dover essere che da esso permanentemente scaturisce»7. Concepito come momento dipolare di co-ipseità, il sé «non è dunque attivo o passivo, è entrambe le cose, ma non è l’una e l’altra se non nella misura in cui, preso in un regime di frasi, obietta a se stesso una frase di un altro regime e va alla ricerca, se non della conciliazione, almeno delle regole del conflitto, in altre parole della sua unità sempre minacciata»8 e mai conchiusa. Allora, ponendosi sul crinale di composizione-scomposizione tra disposizioni discontinue ed eterogenee, crocevia di intensità il cui ordine risiede nella mancanza di misura, i kósmoi idios e koinós mettono in gioco prospettive differenti svolgentisi entro unità di esperienza specifiche che anticipano il significato politico (o anti-politico) che viene loro comunemente prestato. Non possono quindi – a meno di smentirsi – essere posti 7. Ivi, risp. pp. 116 e 131. 8. J.-F. Lyotard, Il dissidio, cit., p. 91.
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come principi separati né come sintesi: la loro lotta accanita è sempre al contempo anche un’alleanza. Come spiega bene, infatti, ancora Simmel, «noi non viviamo mai quali “esseri razionali”, bensì come una sorta di totalità unitaria, che solo in un secondo tempo scomponiamo secondo punti di vista scientifici, pratici, teleologici, in ragione, sensibilità, ecc.»: la ragione è e rimane soltanto «una parte di questa totalità, altre stanno accanto a essa e possono sviluppare l’elemento regolativo, che hanno ugualmente diritto di reclamare per i loro particolari ambiti di significato, solo a partire dal loro proprio essere e non a partire dall’essere, a loro estraneo, della ragione»9. Certo, in debito con «l’oscura ferinità della sua infanzia», come dice Lyotard, il registro μονότροπος (monotropos) è abitato da un «sentimento di abbandono e d’impotenza», da una «indeterminazione miserabile e ammirevole»10. Ma, «il suo ritardo iniziale rispetto all’umanità, che lo rende ostaggio della comunità adulta», costituisce «anche ciò che manifesta a quest’ultima il difetto di umanità di cui soffre, e ciò che la invita a divenire più umana»11. Di conseguenza l’incompatibilità e l’indecidibilità dei due kósmoi – continuiamo con Lyotard – ci interrogano: «cosa definisce l’umanità dell’uomo, la miseria iniziale della sua infanzia oppure la sua capacità d’acquisire una “seconda” natura che, grazie al linguaggio, lo rende idoneo alla condivisione della vita comune, alla coscienza e alla ragione adulte?»12. Affrancarsi del debito verso l’infanzia non è possibile, «ma basta non dimenticarlo per resistere e, forse, per non essere ingiusti.
9. G. Simmel, La legge individuale, cit., risp. pp. 95 e 96. 10. J.-F. Lyotard, L’inhumain. Causeries sur le temps, Paris, Galilée 1988, p. 11. 11. Ivi, p. 12. 12. Ivi, p. 11.
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È il compito di scrittura, pensiero, letteratura, arti, prendere il rischio di portarne la testimonianza»13. In questo consiste il lavoro svolto dalla diakosmētike technè, che si adopera per creare un piano di consistenza tra la legge impersonale e la libera decisione dell’ὑποκείμενον (hupokeimenon), del soggetto di fronte a lei. Confronto-scontro tra due eterogenei, vero e proprio duello, o meglio, μονομαχία (monomachia), perché include al suo interno il due in uno: monomachia, duellum, singulare certamen = μόνος (mónos, singolo, unico) + μάχομαι (máchomai, combattere, lottare, opporsi, contraddire). Collusione-collisione mediante le quali il dissidio tra idios e koinós può trasformare in giudizio un corpo di principi non ponderati secondo la legge generale e astratta. Raccordando l’autorelazione mediata di sé con sé e le regole in uso, tale technè appare difatti in grado di tracciare una corrente tensionale che, agendo da confine di demarcazione e d’interazione tra il dentro e il fuori, da pulsazione d’Innenwelt e Umwelt, chiama in causa «la facoltà di giudicare», «facoltà dell’elemento intermedio» – «Archepelagos, il mare principale», o «il campo, das Feld» – «in cui tutte le circoscrizioni di legittimità sono prese». Si tratta di una «potenza in grado di operare i “passaggi”»: una «forza di intervento» che «assicura piuttosto i passaggi» e, in tal modo, «grazie al commercio o alla guerra che alimenta», permette «di delimitare i territori e i domini»14. Che consente di «lottare incessantemente per assicurare la propria conformità alle istituzioni e persino per risistemarle in vista di un vivere insieme migliore» perché le coniuga con «la forza di criticarle, il dolore di sopportarle e la tentazione di sfuggirle»15. 13. Ivi, p. 15. 14. J.-F. Lyotard, Il dissidio, cit., pp. 166-167. 15. J.-F. Lyotard, L’inhumain, cit., p. 11.
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Il registro del sensus commmunis non deve pertanto essere ascritto a un’universalità astratta della ragione, anteriore agli attori sociali e celata all’interno del loro stesso corpo da dove li orienterebbe a loro insaputa verso il giusto e il bene, ma va piuttosto riferito a un operato pratico rivolto al futuro e a un modo di elaborazione del tempo incerto implicati nelle difficoltà e nei rischi della vita quotidiana. Non senso, ma sensibilità comune, κοινονοημοσύνη (koino noemosúne), da κοινωνός (koinonos): socio, compagno, associato. Non ambito pregiudiziale, ma effetto di un’intesa, risultato di una scelta deliberata. Condotta che si apprende nel concreto flusso storico del vivere collettivo e che dipende da una capacità contingente di distanziazione e riavvicinamento: dalla competenza a creare e organizzare forme di soggettività plurali e finite come associazioni, gruppi, compagnie. Tra il registro monotropos, la koinonoemosúne e la norma giuridica, nessuno può imporsi definitivamente sugli altri: il diritto, in particolare, non è chiamato a far ordine nel disordine delle passioni e a sedarne le forze. Nessuno dei tre possiede una relazione privilegiata con il bene o con il bello, un’originarietà tale in nome della cui ascendenza pretendere una priorità decisiva sugli altri. Il loro interagire ha carattere storico ed è arbitrario ricondurlo a una qualsiasi preminenza naturale che non sia la libertà della decisione. Quanto la decisione rende visibile non sono, infatti, le connessioni naturali tra i poli o il dileguare della connessione stessa. Piuttosto, il loro gradiente di affinità e di estraneità di volta in volta messo in campo. Gli uni a favore o contro gli altri, l’attualità della loro relazione pratica che non è σύμβολον [súmbolon], ma μεταφορά (metaphorá), μουσική (mousikê): non riunificazione d’intelligibile e sensibile, non contraddizione di profondità e superficie; piuttosto, congiunzione-disgiunzione, ricorsività, passaggio, verso altri orizzonti, altre decisioni.
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La posta in gioco è, infatti, il loro carattere aporetico, il dissidio che li attraversa, che deriva dalla domanda: a quali concatenamenti daranno forma? Dissidio che al contempo instaura, colma e libera l’intervallo tra i poli. Interspazio che funge da teatro (ϑέατρον, théatron) all’interno del quale le relazioni possono essere intessute: momento dipolare che delinea delle circostanze, che apre nuove opportunità ai modi di accordo possibile. Accordo per cosa? in nome di che? In ragione dell’alleanza stessa: a beneficio della concertazione in quanto tale e del cammino in direzione di qualcosa ai quali essa abilita.
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10 La preuve diviene épreuve: il giudizio (Urteil) precipita nell’ordalia (ordāl, ordæl)
Ciò a cui bisogna sopperire, protesta Jean-François Lyotard, è «l’assenza di un tribunale universale o di un giudizio definitivo davanti ai quali il regime della conoscenza e quello della libertà potrebbero essere, se non riconciliati, non lo saranno mai, almeno messi in prospettiva, ordinati, finalizzati secondo le loro differenze»1. Per compensare questa mancanza, lungi dal realizzare una giurisdizione della conoscenza credendo di poter appianare kantianamente (verglichen) il dissidio mediante la soddisfazione (Genugtuung) di tutti i contendenti, occorre sperimentare incessantemente la mossa del cavallo: consacrare la giusta rilevanza all’abisso beante dell’intervallo tra le serie eterogenee. È, infatti «a proposito di tale diversità che il giudizio deve esercitarsi. È quest’ultima che deve discernere e considerare. È il baratro esistente tra le frasi, la loro incommensurabilità, che deve riconoscere e far rispettare»2. È necessario, insomma, prosegue Lyotard, operare una drastica «rottura con la filosofia hegeliana del diritto e, indiretta1. J.-F. Lyotard, Judicieux dans le différend (1982), in A. Condello - C. Grassi (a cura di), Law and the faculty of judgement, «Rivista di estetica», LVII, n. 65, 2017, pp. 7-41: p. 22. 2. Ivi, p. 29.
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mente, anche con un pensiero della mediazione che riconcilia, con l’idea kantiana della Zusammenstimmung»3. Non è infatti possibile né auspicabile mettere fine ai dissidi: «l’ideale della riflessione non è solo, come pensava Kant (in parte contro se stesso), trasformare i dissidi in litigi, sostituendo il pretorio al “campo di battaglia” e l’argomentazione agli idiomi». Oggi, nelle società attuali, multiculturali e globalizzate, «la responsabilità riflessiva deve anche discernere, rispettare e far rispettare i dissidi, stabilire l’incommensurabilità delle esigenze trascendentali proprie alle famiglie delle frasi eterogenee, e trovare infine altri linguaggi per ciò che non può esprimersi nei linguaggi esistenti»4. La questione che si pone è dunque quella del rapporto tra il regime della conoscenza e quello della libertà. Nel trattato Vita activa Hannah Arendt scrive: la realtà della sfera pubblica si fonda nella presenza simultanea di innumerevoli prospettive e aspetti in cui il mondo comune si offre, e per cui non può essere trovata né una misura comune né un comun denominatore. Infatti, sebbene il mondo comune sia il comune terreno d’incontro, quelli che vi sono presenti hanno in esso diverse posizioni, e la posizione di uno non può coincidere con quella di un altro, più di quanto lo possa la posizione di due oggetti. L’essere visto e l’essere udito dagli altri derivano la loro importanza dal fatto che ciascuno vede e ode da una diversa posizione. Questo è il significato della vita pubblica.5
Tra gli uomini, in altre parole, esiste un dissidio permanente. Essi osservano le cose da un punto di vista diverso, ognuno con la sua testa e con il suo cuore: cercare di metterli d’ac-
3. Ivi, p. 34. 4. J.-F. Lyotard, Au juste, cit., p. 83. 5. H. Arendt, Vita activa, cit., p. 86.
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cordo è un’impresa disperata. Saranno d’accordo se e quando lo saranno. Ma cosa accade quando le strade dei dissidenti si incrociano? Il dissidio, che comporta odio e ostilità reciproci, li porterà a combattersi. Tuttavia, per potersi affrontare, non basta che ripetano di pensarla in modo diverso; devono anche arrivare a identificare un oggetto a cui ancorare il conflitto. E, una volta accesa, la disputa potrebbe estendersi fino alla distruzione e alla dissoluzione dell’organizzazione sociale stessa. A ciò si oppone la legge, il cui compito è di limitare la violenza diffusa per garantire in tal modo il perdurare della società. Tuttavia, per fare ciò, il diritto non deve in alcun modo cercare d’impedire il dissidio perché più cerca di neutralizzarlo più lo fomenta. Quello che può fare è semplicemente occuparsi della lite. Quando il tribunale regola una disputa, indebolisce le ragioni della contesa e consente di stemperarne l’inconciliabilità. Non interviene sull’antinomia recondita, ma solo sul contrasto esplicito: lascia la prima allo stato latente e fa in modo così che essa resti potenzialmente congelata. Poiché opera in ambiti parziali e a partire da una sfera parziale, infatti, il compito del giudice non è di tipo gnoseologico ma criteriologico e prasseologico: non consiste affatto nel comprendere le parti, ma nel dirimere praticamente le controversie trovando, all’interno del dettato della legge, la soluzione più efficace e meno sacrificale possibile. In tal senso, come ben spiega Lyotard, il giudizio deve prendere in considerazione «soltanto dei dati (nel migliore dei casi statisticamente regolari), mai dei segni»; soltanto «dei casi, i quali operano non come esempi, e meno ancora come schemi, bensì come ipotiposi complesse»6: meno cerca di penetrare le 6. J.-F. Lyotard, Il dissidio, cit., p. 215.
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motivazioni recondite degli attori delle cui azioni deve giudicare gli effetti, meno sacrificale è la sua deliberazione7. L’aspetto principale dell’azione del giudicare non riguarda pertanto l’ottenere una conoscenza minuziosa degli attori o delle cause latenti del conflitto, ma la possibilità di liberare la strada, di sciogliere le fissazioni e rendere possibile l’andare avanti: di disincagliare ciò che ostruisce la circolazione, occlude gli accessi, rallenta i flussi. Per questo motivo il giudizio è tenuto a esprimersi esclusivamente a proposito del litigio immediato e mai in rapporto alla molteplicità irretita in sé stessa dei suoi oscuri recessi che non sono mai pensabili al singolare e rispetto ai quali quindi non deve apporre altro che un silenzio eloquente. Là dove Kant è stato, ai miei occhi, insostituibile – prosegue Lyotard –, è nella distinzione tra i prescrittivi e i denotativi.
7. Nel paragrafo Della bellezza come simbolo della moralità della Critica del Giudizio (1790), Kant spiega che per lui «l’ipotiposi (presentazione, subiectio sub adspectum), in quanto traduzione in termini sensibili, è duplice: schematica o simbolica» (I. Kant, Critica del giudizio, tr. it., con testo ted. a fronte, a cura di M. Marassi, Bompiani, Milano 2014, § 59, pp. 400-401). Alla pari di «tutte le intuizioni che vengono sottoposte a concetti a priori», l’ipotiposi prende la forma di «schemi o simboli; nei primi la presentazione del concetto è diretta, nei secondi indiretta. I primi procedono dimostrativamente, i secondi per via analogica (per la quale ci serviamo anche di intuizioni empiriche); nel far ciò il Giudizio esercita una duplice funzione, applicando in primo luogo il concetto all’oggetto d’una intuizione sensibile, poi, in secondo luogo, applicando la sola regola della riflessione sopra tale intuizione ad un oggetto del tutto diverso, del quale il primo non è che il simbolo. Così uno Stato monarchico viene rappresentato come un corpo animato, quando è governato secondo sue proprie leggi popolari, ma come una semplice macchina (come una specie di mulino a braccia), quando è sotto il dominio del volere assoluto di uno solo: ma in entrambi i casi la rappresentazione è simbolica. Perché in effetti non v’è alcuna somiglianza tra uno Stato dispotico e un mulino a braccia, ma la somiglianza esiste tra le regole che guidano la nostra riflessione su questi oggetti e sulla loro causalità» (ivi, pp. 402-406).
103 Nel suo uso speculativo, la ragione determina perché procede per denotazioni, cioè per delle sintesi determinanti dei referenti. Nel suo uso pratico, la ragione non determina che una pragmatica, non determina alcun contenuto. La ragione lancia un ordine che nemmeno lui è valido per il suo contenuto, ma solo in quanto suscita obbligazione. Nessuna legge di natura obbliga. Solo la legge della ragione nel suo uso pratico è coercitiva.8
Nel gioco del prescrittivo, infatti, «il primo mittente è occultato. Non si sa chi obbliga, non se ne può dire niente, non si può farlo passare sul polo del narrato o su quello del referente». Si parla, cioè, «se posso esprimermi così, da ascoltatore e per niente da autore. Si tratta di un gioco senza autore»9. In questi termini, l’enunciato prescrittivo «non emana da nulla: la sua virtù pragmatica di obbligazione non risulta dal suo contenuto né dal suo enunciatore»10. Quella che presiede al ius dicere è dunque la ragione nel suo uso pratico, che non s’interessa ai contenuti ma alle procedure, le quali costituiscono in qualche modo la vera e propria ἀρχιτεκτονικὴ φρόνησις νομοϑετική (architektonikē phrónēsis nomothetikē): la saggezza direttrice che istituisce le leggi. È solo in quanto tale che può obbligare a rispettare la legge: il suo carattere prescrittivo si rivolge non a un soggetto particolare, ma alla prescrizione stessa. Ciò che rende sopportabile il vincolo all’osservanza delle leggi non è una promessa di giustizia, sempre vana, ma la correttezza formale dell’iter seguito dalla proposizione alla promulgazione che qualifica le norme e ne rende effettiva l’entrata in vigore. A imporre ch’esse siano rispettate da tutti fino a che non siano eventualmente modificate
8. J.-F. Lyotard, Au juste, cit., pp. 179-180. 9. Ivi, pp. 152-153. 10. Ivi, p. 154.
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in modo conforme alle procedure previste a tale scopo è, infatti, che siano stilate e applicate secondo un andamento pubblicamente stabilito di cui è stato seguito alla lettera il dettato. Possiamo quindi dire con Paul Ricœur che il formalismo deve essere giustificato, legittimato e difeso, perché questo formalismo è protettore della libertà degli individui e prima di tutto della loro uguaglianza di fronte alla legge. È grazie alla codificazione del processo che casi simili possono essere trattati allo stesso modo, il che riguarda il primo modo con cui l’imputato incontra la giustizia. È questo formalismo del processo che regola lo svolgimento del discorso, gli scambi di parole, gli scambi di argomenti.11
Al contrario, il pensiero nel suo uso speculativo, che procede per denotazioni, non può né deve obbligare, ma solo convincere, persuadere. Il dissidio fra speculazione e prescrizione riguarda il fossato incolmabile che unisce e separa principi etici, frasi teoretiche, leggi matematiche e fisiche, regole amministrative e norme giuridiche. Finché l’orbita in cui è iscritta la ragione speculativa investe la conoscenza e quella a cui è ancorata la pratica orienta l’azione, finché nella prima si adoperano unicamente le armi della persuasione e nella seconda solo quelle dell’obbligazione, le organizzazioni sociali conservano il loro carattere dipolare, si consolidano e perdurano nel tempo perché le linee di forza generate non interrompono il campo magnetico di polivalenza.
11. P. Ricœur, La Justice, vertu et institution (1997), in J.-A. Barash - M. Delbraccio (a cura di), La sagesse pratique. Autour de l’œuvre de Paul Ricœur, Centre régional de documentation pédagogique de l’Académie d’Amiens, Amiens 1998, p. 13.
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Quando invece le due regioni si confondono, (i) l’intellettuale vuole imporre il proprio punto di vista con la coercizione; (ii) il magistrato, piuttosto che impegnarsi a decidere sui conflitti, pretende di spiegarli e pronuncia le sentenze non in base all’ordinamento giuridico, ma ad un’idea astratta di giustizia; allora, (iii) le società si rinchiudono su se stesse e implodono: generando come loro correlato specifico riti sacrificali e terrorismo. Quando, infatti, i dissidi non possono dispiegarsi liberamente, una conflagrazione generalizzata erompe senza più remissione possibile. Per comprendere in che modo evitare la conversione del dissidio latente in conflitto deflagrante bisogna interrogarsi sulla relazione tra ragione e immaginazione. Il corpo strutturato della ragione, il cui «carattere battagliero è, non si può dubitarne, una saggia e benevola disposizione della natura»12, si esprime su di un piano più o meno comprensivo di aggressività tenue che si snoda su di un registro di convergenza-divergenza. La massa irregolare dell’immaginazione, le cui interazioni giocano su di una ciclizzazione statica o debole, attiva un livello tensionale di pulsazioni che le permette di governare il contrasto più drastico della conciliabilità-inconciliabilità. L’accordo-disaccordo dipende dall’interesse: dal comprendere che, anche nel conflitto, un’azione concordata offre più vantaggi che perdite. Le compatibilità-incompatibilità appaiono, invece, più totalizzanti. Derivano da un delirio di onnipotenza che pretende
12. J.-F. Lyotard, Judicieux dans le différend, cit., p. 13.
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tutto e subito e immagina le altre persone come un ostacolo al raggiungimento dei propri scopi e non come una risorsa: non come i possibili interlocutori con cui condividere qualcosa, quanto, piuttosto, come parti di sé a cui si è indissolubilmente fissati da una comune appartenenza o da cui si è definitivamente separati da un’irreconciliabilità radicale. In altri termini, il piacere solitario, congiunto con la libera espansione analogica dell’immaginazione, presiede all’emozione come movente dell’azione passionale; mentre il principio di concretezza, connesso con la ragione, dirige l’esperienza mediante la logica e produce come suo frutto la scelta ponderata in un quadro per il quale, come scrive Whitehead, «la coscienza presuppone l’esperienza, e non l’esperienza la coscienza [consciousness presupposes experience, and not experience consciousness]»13. Sprovviste di un centro di simmetria, nel campo diatomico dove fluttuano immaginazione e ragione sussiste un dissidio, un momento dipolare. Le loro frasi procedono lungo direzioni contrarie ed eseguono dei movimenti discordanti. La gamma di frequenza dell’una è, infatti, legata alla velocità e all’istantaneità, mentre quella dell’altra alla successione regolare e alla progressività. La prima, più ancorata alla simultaneità e alla concomitanza, privilegia similitudini e corrispondenze; la seconda, incardinata su concatenazione e consequenzialità, si focalizza su differenze e discrepanze. Speculazione e prescrizione appartengono, insomma, a regimi eterogenei: momento dipolare tra world-in-experience e experience-in-world. La prima ha un carattere costituente: è in grado d’istituire un universo autonomo ed esclusivo. La seconda è ricevuta. In quanto tale, anonimamente «mi parla e, poiché parlandomi mi prescrive o mi domanda qualcosa, non 13. A.N. Whitehead, Processo e realtà, cit., pp. 302-303.
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posso mai mettermi al suo posto»14: non posso in nessun caso identificarmi completamente con la posizione che occupa. Detto altrimenti, come non è possibile rendere commensurabili logica nominale e logica proposizionale, referenti e significati, allo stesso modo risulta del tutto illusorio pensare di poter mediare tra ideologie diverse. Le prospettive etiche, infatti, in quanto concezioni all’interno delle quali le verità sostanziali prevalgono sulle proprietà procedurali, costituiscono teorie che non possono, per loro statuto, essere sottoposte a un giudizio esterno al proprio controllo concettuale e non sono quindi riducibili né al processo della conoscenza e della ragione speculativa né a quello della prescrizione e della ragione pratica: hanno fini assoluti e indiscutibili che giustificano qualsiasi mezzo. Mettono in gioco un «dissidio reale, non illusorio, che oppone la frase della conoscenza e quella della moralità. Tale dissidio è reale non solo perché le due parti parlano due idiomi eterogenei, ma perché lo fanno ponendosi come oggetto lo stesso avvenimento»15. Nella terza sezione del Canone della ragion pura, secondo capitolo della Dottrina trascendentale del metodo, intitolata Von Meinen, Wissen und Glauben, si distingue tra opinare, sapere e credere. Sia l’opinione che il sapere e la fede riguardano un «ritenere vero [Fürwahrhalten]»16. Tuttavia, a differenza della prima, che è «insufficiente tanto soggettivamente quanto oggettivamente», e del secondo, che è «sufficiente tanto soggettivamente quanto oggettivamente», la fede è descritta come «sufficiente solo soggettivamente» ma non oggettivamente17.
14. J.-F. Lyotard, Au juste, cit., p. 91. 15. J.-F. Lyotard, Judicieux dans le différend, cit., p. 21. 16. I. Kant, Critica della ragion pura (1787), tr. it., con testo ted. a fronte, a cura di C. Esposito, Bompiani, Milano 2004, pp. 1152-1153, 1155-1157. 17. Ivi, pp. 1155-1157.
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Kant ritorna sul rapporto tra Meinen, Wissen und Glauben, nel capitolo nono dell’Introduzione alla Logica, secondo il quale, fondata su delle ragioni unicamente soggettive, «questa convinzione pratica o questa fede morale razionale è spesso più solida di tutti gli altri saperi»18. Das Glauben, infatti, esercita un’influenza risolutiva sulla capacità di decidere e agire in quanto mette in moto una «propensione all’uso passivo della ragione»19 che conduce a un eccesso di autoreferenzialità: a un monologo con se stessi che, non prendendo in considerazione riflessivamente il punto di vista altrui, elide ogni intermediazione e procede senza incontrare ostacoli all’esecuzione di qualunque proposito, anche il più azzardato o insano. Opinare, sapere e credere prevedono frasi a regime eterogeneo: il criterio che ne determina efficacia, estensione, sfera d’azione e perimetro di pertinenza, varia secondo la natura della legittimazione iscritta nel singolo ambito di competenza. Sono, cioè, frasi strutturate secondo un processo che si potrebbe definire adiabatico: un movimento di fluttuazione che lascia nessuno o pochi residui e in base al quale non è loro consentito contraddirsi reciprocamente perché non sono soggette a collisione possibile. Possono essere tutte vere allo stesso tempo: «possono persino – scrive Lyotard – non avere per niente il vero come posta in gioco, e la loro sintesi, il risultato, può non essere oggetto di un concetto». L’idea stessa della loro commensurabilità appare totalmente inconcludente: quando
18. I. Kant, Logica (1800) tr. it. di A.M. De Carlo, Migliaccio, Salerno 1874, p. 135; ed. or.: «Diese praktische Überzeugung oder dieser moralische Vernunftglaube ist oft fester als alles Wissen» (I. Kant, Logik. Ein Handbuch zu Vorlesungen, a cura di G.-B. Jäsche, Friedrich Nicolovius, Königsberg 1800, p. 110). 19. Ivi, p. 143; ed. or.: «Hang zum passiven Gebrauch der Vernunft» (I. Kant, Logik, cit., p. 118).
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però colui che opera «la sintesi pretende di amministrarne le prove, l’assurdità prepara il terrore»20. Questo il punto delicato. Il giudizio che vuole ricomporre il dissidio risponde non all’appello della legge ma a quello del vitello d’oro: alla vendetta, alla pretesa dell’individuo di farsi giustizia da sé. Coloro che mirano a unificare generi eterogenei sotto un unico regime si proiettano dunque in un monologo come quello della fede o dell’ideologia. Testimoniano, cioè, secondo le parole di Marcel Jouhandeau, «il gioco della vita, della loro attività vana, delle complessità successive dei loro stati d’animo, a me interdetti, che permettono loro di accostarsi all’assoluto, di giocare come assolutamente, di prendere quasi senza sosta, senza malessere e senza rimorsi, la vanità per la verità, il relativo per l’assoluto, il loro proprio assoluto»21. Entrano così in dissidio con tutti quelli che fanno lo stesso ma da una prospettiva diversa. In questo movimento qualcosa grida a proposito di un nome, una credenza, un’interpretazione che sa di essere di parte, e vuole scientemente esserlo; domanda di essere messa in frasi, richiede di essere comunicabile, riconoscibile dalle altre ideologie, e soffre del torto di non poterlo essere. Chi accetta la presenza inevitabile del dissidio sottoscrive, invece, l’assunto di Hannah Arendt, secondo la quale «il giudizio, dice Kant, è “valido per ogni singola persona” – für jedermann zu gelten – che giudica: non è valido per coloro che non giudicano, né per quelli che non sono implicati nello stesso spazio
20. J.-F. Lyotard, Judicieux dans le différend, cit., p. 37. 21. M. Jouhandeau, Algèbre des valeurs morales (1935), Gallimard, Paris 1969, p. 108.
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pubblico in cui gli oggetti del giudizio appaiono»22. E considera pertanto che, a differenza dell’autoreferenzialità implicita nelle fedi pratica o dottrinale, la facoltà di giudicare preveda la necessità di tenere conto dei punti di vista diversi di tutti coloro che direttamente o indirettamente sono coinvolti nella controversia. Certo, tutte le frasi, senza esclusione alcuna, comprese quindi anche quelle relative al giudicare, comportano, come sostiene Arendt, uno spazio pubblico locale: un piano di osservazione che prende in considerazione soltanto chi partecipa del loro determinato regime epistemologico. È possibile, tuttavia, limitarsi a procedere lungo l’unità-pluralità della propria coerenza particolare o cercare d’imporre i risultati ottenuti a sfere diverse ed eterogenee. Ciascuna delle opzioni è ipotizzabile. Solo che, quando si rinuncia alla logica dell’alternatività, governata dal principio di non contraddizione, si abbandona parallelamente anche l’ideale della bivalenza, il principio assolutistico del tutto o nulla, il postulato per cui ogni proposizione o è vera o è falsa, per sostituirlo con il modello della contrarietà delle forze e della contraddizione inclusa. Disposizione secondo la quale i poli non sono mutualmente esclusivi, non si negano l’un l’altro per dare vita a una sintesi, bensì affermano ciascuno la propria differenza. Si tratta di un modo di vedere – una logica, una politica – che ricusa il terrorismo dell’alternativa secca “o giusto o sbagliato”. Un piano per il quale non si è immediatamente, prima ancora di qualsiasi confronto e di qualsiasi inizio di discussione, legati
22. H. Arendt, Tra passato e futuro (1961), tr. it. di T. Gargiulo, intr. di A. Dal Lago, Garzanti, Milano 1991, p. 283. Cfr. I. Kant, Critica del giudizio, cit., Introduzione, sez. VII, XLVI, 191, pp. 52-53.
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al requisito del vero e del falso: «qui – come scrive Enzo Melandri – “vero” e “falso” non sono più termini contraddittori, ma solo contrari fra loro. Sono il limite massimo e minimo di verità, i due estremi fra cui possono sussistere tutte le gradazioni intermedie. Ed è chiaro che in praxi esistono solo delle gradazioni intermedie»23. Si mira, in breve, all’arco di parabola di maggiore convergenza possibile tra ambiti antagonisti che si confrontano senza potersi annichilire l’un l’altro fondendosi insieme. Giacché, al contrario, perseguire a tutti i costi la volontà di sintesi tra insiemi eterogenei significa ridurre al mutismo la pluralità dei regimi di frasi e, in fin dei conti, sopprimerla. Presume l’assunzione di un regimen per partem implicante un «accecamento» che «consiste nel mettersi al posto dell’altro, nel dire io al suo posto»: mobilita, così, «il ritorno del sacro con la sua Aufhebung sacrificale»24. Si tratta, dunque, di capire come nell’analisi delle forme sociali si debbano distinguere i rapporti di forza emergenti dalle strutturazioni in cui s’iscrivono. In modo tale da poter accordare la dovuta rilevanza sia al conflitto regolabile, dove le frasi sono traducibili, sia al dissidio insanabile, con i suoi eserghi inderivabili e non desumibili: sia al gioco degli interessi in lotta, sempre negoziabili, sia all’incompatibilità drastica dei codici simbolici, delle costellazioni semantiche e delle province di significato in dissonanza cognitiva non riconciliabile. Esistono, infatti, modi diversi di riflettere sulle cose e di ritenerle vere. Alcuni sono ubicabili sull’orbitale dell’idios kósmos,
23. E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia (1968), saggio intr. di G. Agamben, a cura di S. Besoli, R. Brigati, S. Limongi, Quodlibet, Macerata 2004, § 69, p. 377. 24. J.-F. Lyotard, Il dissidio, cit., pp. 143, 148.
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altri maggiormente su quello del koinós kósmos. Nel momento dipolare dell’eterogeneità non esiste una gerarchia assoluta che discrimina tra i differenti criteri. Sono tutti legittimi e ammissibili finché ognuno si attiene alla propria grammatica. Fino a quando, cioè, coloro i quali scelgono un parametro oppure un altro sono disposti a farsi carico delle frasi enunciate, sostenendo che le proprie concezioni sono più affidabili delle altre, ma senza esigere che l’angolo di visuale prescelto coincida con la natura intrinseca delle cose. Non reclamando, cioè, alcuna dispensa particolare che metta le proprie formulazioni al riparo da ogni critica e non pretendendo d’imporle a chi non le consideri valide o utili per il proprio modo di vedere. Fintantoché la coerenza di una frase segue il suo percorso, può presentare una maggiore o minore precipuità, ma rimane comunque valida e plausibile. Quando, al contrario, vuole farsi metanarrazione, quando vuole invadere lo spazio delle altre frasi e statuire su di loro, al posto loro, allora «prepara il terrore». Pretendere di sopprimere il dissidio, lungi dal frenarlo, lo inasprisce: «è proprio sperando di mettervi un termine, trasformando la guerra in processo e pronunciando un verdetto destinato a regolare il litigio, che un dissidio può essere dichiarato». Persino «riparare il danno può risvegliare il torto che si considera irreparabile. Il fine si elude così da solo, la pace permane uno stato armato»25. Quando, infatti, impugnato il criterio su cui una frase è incardinata, si tenta di applicarlo ad altre serie di frasi con la forza, e persino se lo si fa con la ragionevolezza, ricompare la barbarie, tornano scempi e supplizi: la preuve diviene épreuve, il giudizio (Urteil) precipita nell’ordalia (ordāl, ordæl), il riscontro si fa redde rationem, resa dei conti, jüngste Gericht, giudizio 25. J.-F. Lyotard, Judicieux dans le différend, cit., p. 34.
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universale26. Al dominio della legge, si sostituisce la gelosia. «La vendetta rode attorno ai nomi. Non precede i processi, li segue. Non può invocare un diritto, che è sempre quello di un tribunale, unico e che vuole delle prove, dei nomi, delle misure. Ciò che grida vendetta, sono delle frasi che non possono dichiararsi, che hanno subito un torto perché non possono fare appello che a dei sentimenti»27: a idiosincrasie, a «ragioni soggettive», a motivi partigiani, a interpretazioni non generalizzabili, a significati non condivisibili. Quando «l’autorità dell’idioma nel quale i casi sono stabiliti e regolati viene contestata», quando «vengono pretesi un altro idioma e un altro tribunale, che la parte avversa contesta e ricusa», allora «è la guerra civile del linguaggio con se stesso»28: allora riappaiono i sacrifici.
26. «Giudizio, ordalia (Urtheil, Ordâl, ordôl), è un’antica parola del ramo linguistico tedesco, che finì con l’essere utilizzata esclusivamente per le sentenze del giudice, pur non contenendo riferimento particolare ad operazioni logiche. Essa permetteva di individuare con sufficiente chiarezza i mezzi, un tempo ammessi e particolarmente apprezzati, utilizzati per produrre la sentenza (giuramento – Giudizio di Dio)» a cui fa riferimento la sua etimologia (O. Bülow, Legge e ufficio del giudice [1885], tr. it. e postfaz. di P. Pasqualucci, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», XXX, 2001, pp. 199-254: p. 206). 27. J.-F. Lyotard, Judicieux dans le différend, cit., p. 38. 28. Ivi, p. 39.
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11 Società dipolari e schematismo pragmatico
Nelle società chiuse e dispotiche la legittimazione del sapere risulta appannaggio di un’entità esterna all’ambito di elaborazione della conoscenza: una figura reale o un ente morale auto- accreditatisi a far da giudici in virtù di un’egemonia politica sorretta per lo più dalla forza militare. Soggetti che utilizzano questo stesso sapere per asservire il corpo sociale: per mettere in correlazione gli attori imponendo una particolare distribuzione di risorse e di significati conforme con il loro modo di vedere e corrispondente a un loro preciso tornaconto. In tali circostanze, il lavoro di ricerca vive in uno stato di minorità permanente in quanto sottoposto a una cauzione esterna che parla a suo nome e garantisce per lui. L’impianto del suo discorso appare dunque meticolosamente sorvegliato da una logica autonoma la quale, considerando che il vero non è indipendente dal giusto e attribuendosi il diritto di decidere cosa sia valido e cosa no, gli consente di volta in volta di avere corso legale. In tale situazione la legittimità di una frase non dipende dalla coerenza con le proprie premesse o dalla congruenza con i propri postulati, ma dall’essere gradita al potente di turno. O, meglio, dal non essere d’intralcio alle sue mire e ai suoi voleri. Ciò che, infatti, contraddistingue i modi della dominazione rispetto a quelli di un governo legittimo è che il potere
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tirannico si arroga il diritto di cancellare i dissidi, confondere gli enunciati e convertire il suo stesso corpo nella grammatica generale che li regolamenta, li uniforma e li fonde in una totalità compatta. Omologate da una metalogica che si auto-decreta in grado di sussumerle integralmente, le frasi prendono un’impronta duale, dicotomica, rigida e rinchiusa nell’opposizione secondo contraddittorietà: tendono cioè ad assumere un carattere radicale, incoraggiano le decisioni tra due alternative, sviluppano una propensione all’esclusività e si cristallizzano facilmente in dogmi. Il metadiscorso si pone pertanto come legibus solutus: si dichiara sciolto dal vincolo delle leggi per porsi al di sopra di esse. Si auto-investe del titolo di conduttore in grado di omologare l’eterogeneità dei generi e dei criteri. Si appropria arbitrariamente della facoltà di saturarne l’intervallo. Occupa il «centro vuoto in cui ha luogo la deliberazione, cioè il conflitto delle frasi»1. Le verità parziali, che in altri frangenti appaiono in grado di esigere dei tributi, nelle società qui definite dipolari non riescono a far valere le loro pretese come diritti: non sono capaci di ottenere una credibilità così generalizzata da fungere da archimedische Punkt per tutte le diverse forme della vita sociale. Queste organizzazioni, infatti, non contemplano niente a cui ci si possa tenere in modo risolutivo, nulla a cui basterebbe attenersi. Prevedono rapporti sociali basati sulla molteplicità dei giochi linguistici i quali, a loro volta, logorano e depotenziano le tesi che ambiscono a legittimare estrinsecamente la validità dei saperi, in quanto mostrano l’inadeguatezza di tali tesi a garantire pluralità e porosità. Ma quando l’autorità non è più prerogativa di un soggetto che impone la sua forza dall’esterno, cos’è che certifica l’attendibi1. J.-F. Lyotard, Il dissidio, cit., p. 179.
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lità della conoscenza? cosa ne avvalora il senso e ne indica la direzione? chi ne dirige la barra e governa il timone? Per rispondere bisogna ritornare alla discriminazione kantiana tra denotativo e prescrittivo, tra semantica ed etica, tra significato e norma. Giacché è in base a tale partizione che si può indicare come tratto distintivo delle società a carattere dipolare «il principio per cui l’eterogeneità deve esser rispettata positivamente»2, malgrado ciò irriti le differenti facoltà e ne precluda l’esercizio armonioso. Occorre ricominciare dalla celebre legge di Hume, per la quale bisogna ben distinguere tra, da un lato, enunciati indicativi che vertono su ciò che «è e non è [is and is not]»; e, d’altro lato, enunciati normativi «connessi con ciò che dovrebbe o non dovrebbe essere [connected with an ought, or an ought not]»3. Conclusioni di ordine morale non possono, infatti, essere automaticamente dedotte da premesse che provengono da ambiti differenti: nessun ragionamento all’indicativo può essere convertito all’imperativo senza un ulteriore passaggio logico in grado di fornire una valida argomentazione alla trasposizione. Da ciò deriva un corollario molto importante sulla libertà di espressione per il quale parlare di un argomento, illustrarlo pubblicamente, non significa affatto farne l’apologia o valorizzarne le ragioni. L’informazione, cioè, non si traduce meccanicamente in imperativo. Come ben spiega Paul Ricœur, essere e dover essere sono contrari ma non contradditori: pur se non può essere colmato, lo iato che li separa e li congiunge può certo essere scavalcato da una volontà deliberata a condizione
2. J.-F. Lyotard, L’entusiasmo. La critica kantiana della storia (1986), tr. it. di F. Mariani Zini, Guerini e Associati, Milano 1989, p. 35. 3. D. Hume, Trattato sulla natura umana (1739), tr. it., con testo ingl. a fronte, a cura di P. Guglielmoni, Bompiani, Milano 2001, libro III (Sulla morale), pp. 928-929.
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che chi lo fa se ne assuma la responsabilità. La responsabilità morale, infatti, non è altro che il doppio ricorsivo della libertà di scegliere: insieme alla quale descrive un momento dipolare. Una società dipolare presuppone dunque che, in primo luogo, non si possa far ricorso ad alcuna sintesi in grado di mediare tra norma e descrizione: alcun pontaggio tra discorso e fatti, tra significato delle parole e cose allo stato libero e selvaggio. E che, in secondo luogo, non sovrastato da un’istanza che si pretende conciliatrice, l’intervallo tra gli uni e gli altri si costituisca come semplice relazione: come trama di complementarità. Il fisico Werner Heisenberg riprende il concetto di complementarità introdotto nella teoria quantistica da Niels Bohr e scrive che «la situazione di complementarità non è confinata soltanto al mondo atomico; la incontriamo quando riflettiamo sopra una decisione e sui motivi di essa o quando ci troviamo di fronte alla scelta se gustar della musica od invece analizzarne la struttura»4. E, continua, «lo schema matematico della teoria dei quanta può essere interpretato come un’estensione o una modificazione della logica classica»5. La logica classica può in un certo qual modo essere considerata «come un tipo di caso limite all’interno della logica quantica, mentre quest’ultima costituirebbe il modello logico più generale»6. Dunque, è possibile introdurre il termine «complementarità» con la seguente definizione: ogni affermazione che non è identica all’una o all’altra delle due affermazioni alternative – nel nostro caso all’affermazione «l’atomo è nella metà sinistra» o «l’atomo è nella metà destra della scatola» – è chiamata
4. W. Heisenberg, Linguaggio e realtà nella fisica moderna (1958), in Id., Fisica e filosofia. La rivoluzione nella scienza moderna, tr. it. di G. Gnoli, intr. di F.S.C. Northrop, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 209. 5. Ivi, p. 211. 6. Ivi, p. 212.
119 complementare a queste affermazioni. Per ogni affermazione complementare la questione se l’atomo è a sinistra o a destra non viene decisa. Ma il termine «non decisa» non equivale in alcun modo al termine «non conosciuta». «Non conosciuta» significherebbe che l’atomo è «realmente» a destra o a sinistra, solo che noi non sappiamo dove è. Ma «non decisa» indica una situazione differente, esprimibile soltanto con una affermazione complementare.7
Il che modifica la prospettiva “classica” in quanto gli «“stati” corrispondenti alle affermazioni complementari sono allora chiamati “stati coesistenti”». Questo termine «“coesistente” esprime esattamente la situazione, sarebbe infatti difficile chiamarli “stati differenti”, giacché ogni stato contiene in certa misura anche gli altri “stati coesistenti”»8. Esposte a complementarità e coesistenza, le società dipolari non prevedono un ordinamento gerarchico tra play e game. Il loro angolo visuale biprospettico fa in modo che la prassi non abbia bisogno di essere legittimata da una teoria, che le leggi costituiscano esse stesse dei fenomeni e che il gioco valga solo come caso particolare. In tali circostanze, infatti, dadi e regole sono gettati con un unico lancio. Sintesi e rivendicazioni di oggettività sono accettate solo tenendo conto dei loro limiti e delle loro ambivalenze. Ogni insieme è plastico, cioè inseparabile dai casi particolari in cui si determina. Le generalizzazioni sono, in questo caso, compilazione di risultati dotati di valore a se stante. Costituiscono, in altri termini, insiemi dotati di un orientamento attivo che funge da alveo per le proprie parti e, al contempo, le mette in contrasto con sé perché l’uno e le altre si declinano autonomamente secondo le differenti temporalità di simultaneità per l’insieme e di succes-
7. Ivi, p. 214. 8. Ivi, p. 215.
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sione per le frazioni. Per esempio, l’insieme A (animali) raccoglie i gruppi non omogenei A-B (animale non-razionale, bestia) e A-C (animale razionale, essere umano) ed è in contrasto con essi giacché non coincide integralmente né con l’uno né con l’altro in quanto A indica simultaneamente tutte le sue parti, allorché A-B e A-C sussistono in quanto dispiegamento spazio-temporale delle loro stesse componenti. Allo stesso modo AB e AC (senza trait d’union) fungono da insieme simultaneo rispetto alle proprie parti che, a loro volta, sussistono in quanto momento di spazio-temporalizzazione: in una circonvoluzione virtuosa senza inizio né fine che riecheggia il trilemma di Munchhausen. Si tratta di unità che non sono in grado di unificare: di un tutto delle parti che non riesce mai a totalizzarle, ma si aggiunge ad esse, loro pari, al loro fianco. Se, inoltre, A federa alcune serie di frasi differenti, la solidarietà cui dà luogo non è assicurata dalla coerenza intrinseca al corpo complessivo o agli elementi associati, bensì dalla stessa procedura epistemico-strumentale che li raggruppa. A non costituisce quindi una categoria astratta che racchiude al suo interno i casi concreti A-B e A-C intesi come proprie declinazioni: non instaura un registro di pertinenza i cui valori e norme lo distinguono da ciò che è temporale e osservano quest’ultimo dall’alto in basso considerando movimento e divenire come dei livelli inferiori di realtà privi di valore. In tale quadro, in cui tra ordine astratto e situazione concreta vige una relazione dipolare di complementarità e non di subordinazione, la definizione generale appare sì più estesa del singolo evento che ingloba ma, allo stesso tempo, risulta meno significativa e meno cogente: di qui l’inutilità del tentativo di ricollegare momenti particolari a concetti generali credendo in tal modo di poterne spiegare il senso e le finalità. I fatti non sono subalterni al discorso: non sono deducibili dal dato già preformato di un’idea che li presuppone, ne cancella
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il disordine e li struttura integrandoli in un modo predefinito in base alle determinazioni categoriali che è in grado di generare. Allo stesso modo di come «l’individuo» e «le comunità alle quali l’individuo appartiene» hanno ognuno «la rispettiva identità narrativa», indipendente ed esclusiva9. In un sistema dipolare la frattura tra generale e particolare si presenta, dunque, tanto profonda da rivelarsi inutilizzabile per chi volesse installarvisi per imporsi sui contendenti. L’ambivalenza tra loro giunge tuttavia ad essere governata nel caso in cui, al posto di una filiazione genealogica, venga introdotto un altro tipo di giunzione imperniato sull’alleanza, in modo tale che il loro raccordo si manifesti sotto forma di un sodalizio federativo liberamente scelto. Libertà che riguarda sia la non subordinazione a una matrice originaria sia l’essere svincolati rispetto alle proprie parti. Tutto ciò in correlazione con un orizzonte per il quale non si deve presumere che, preventivamente dato, il quadro generale determini l’elemento specifico e/o il suo significato. La cornice di riferimento, infatti, non è data ma prodotta: la sua dinamica e il suo senso devono essere spiegati proprio come gli anelli che la compongono e in cui si distribuisce. Detto altrimenti, la profonda affinità, l’intensa complicità, sussistente tra i ciascuno e gli insiemi, prevedono ch’essi si accordino o si combattano reciprocamente, s’impongano a vicenda molteplici limitazioni, esigano mutue restrizioni, ma non diano adito ad alcuna sintesi giacché il loro rapporto non è di successione né di subordinazione, ma di coesistenza e di coabitazione. Non si può, in effetti, parlare di anteriorità o di preminenza della situazione rispetto agli agenti dinamici, non di un condizionante che precede e determina un condizionato, l’uno di-
9. P. Ricœur, Tempo e racconto, cit., p. 413.
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stinto e separato dall’altro, né di condizioni di possibilità atte a generare degli esiti particolari, perché quanto che si trova tra ὅλος (hólos) e μέρος (méros) non è meno concreto e affermativo di nodi, polarità e soglie che fungono da argine. Non vanno, insomma, (i) né appiattite le differenze tra le componenti nella fisionomia dell’unità in cui s’iscrivono; (ii) né ridotto l’insieme alla natura particolare delle entità che lo istituiscono. Giacché si tratta, in definitiva, di una doppia genesi simultanea in base alla quale si è al contempo determinanti e determinati, qualificanti e qualificati: una disposizione essenzialmente plastica per la quale l’insieme non è più voluminoso della parte, si metamorfosa con lei e con lei di volta in volta si compone e ricompone. Commentando Whitehead, Deleuze scrive: «Una simile connessione tutto-parti forma una serie infinita che non ha un termine ultimo né un limite (se trascuriamo i limiti dei nostri sensi)»10. Si tratta, continua, «di “una concrescenza” di elementi. È una cosa diversa da una connessione o da una congiunzione, è semmai una prensione»: e del «passaggio da un dato all’altro in una prensione, o da una prensione all’altra in un divenire»11, giacché «le prensioni entrano ed escono di continuo da composti variabili» facendo «direttamente presa le une sulle altre, o perché ne prendono altre come dati, formando con esse un mondo, o perché ne escludono altre (prensioni negative)»12.
10. G. Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco (1988), nuova ed. it. a cura di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2004, p. 128. 11. Ivi, risp. pp. 129, 130. 12. Ivi, risp. pp. 132, 134.
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A questo punto, non più dipendenti da uno sfondo contestuale né da componenti derivate, gruppo e singolarità paiono guidati da una determinazione esattamente opposta: dalla predisposizione a produrre nuove relazioni e nuovi processi, dalla propensione a modellizzare e riorientare il complesso della loro affiliazione. In breve, dalla capacità di essere, non indici dell’insieme, ma fattori delle connessioni ad esso relative: artefici di nuove inedite relazioni nelle serie in cui compaiono e in quelle a cui danno avvio. Giacché, come sottolinea Jean-Luc Nancy, considerare che «prima ancora di essere un reale», «il mondo è un possibile», «rovescia la prospettiva dal dato a ciò che dà, dal provenuto al proveniente»: amplia in tal modo il mondo di cose o di fatti integrandolo con possibilità e potenzialità. Si estende così «lo statuto del reale» con «quello del possibile, questa volta inteso non in forma limitativa, ma al contrario nella forma illimitante dell’apertura e dell’attività»13. La loro coesistenza […] è il dono e il ritegno, il soggetto e la cosa, la presenza e l’assenza, il pieno e il vuoto. E ciò che tiene insieme senza essere «uno» e senza essere tenuto da nient’altro o piuttosto essendo tenuto da niente: dal niente del con-, che non è nient’altro che il tra-due, nient’altro che il con dei singoli gli uni con gli altri. Questo niente-con e la non-causa del mondo, materiale. efficiente, formale e finale. Il che vuol dire al contempo che il mondo c’è, semplicemente (esso è o transita il suo «ci», la sua spaziatura), e che è la coesistenza, che esso non contiene, ma che al contrario lo «fa».14
Grazie alla presa in conto di un momento dipolare tra ἰδέα (idéa) e νόησις (nóêsis), forma e unità, intuizione e catego-
13. J.-L. Nancy, Della creazione (1999), in Id., La creazione del mondo, cit., p. 53. 14. Ivi, p. 65.
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rie, immaginazione e intellezione, μιμέομαι (miméomai) e ἐπί σταμαι (epístamai); è possibile, dunque, sostituire lo schema tismo trascendentale delle condizioni di possibilità con lo schematismo pragmatico delle linee di attualità e degli strati di consistenza. Disposizione per la quale gli stessi campi d’immanenza e processi di cristallizzazione emergenti non possono in alcun modo esaurire tutte le proprie potenzialità perché sono – casualmente, tendenzialmente, ma incessantemente – trasmodati dalle intempestività accidentali e dalle invenzioni imprevedibili nei cui fermenti e scaturigini vanno a iscriversi. L’unità plurale, πλῆϑος εἶναι (plêthos eînai), la dissimmetria a due facce e l’antinomia biprospettica, relativi al momento dipolare, possono κατὰ κόσμον (katà kósmon) rivolgersi simultaneamente a due orizzonti opposti e di conseguenza mettere in gioco, eōdem tempore, due mondi antitetici. Per descrivere, in tal senso, un moto di agitazione singolare-collettivo che si raccoglie disperdendosi e consente, quindi, di rinunciare alla necessità di una priorità trascendentale dello spazio e del tempo rispetto alla densità, alla corposità, delle serie io-tu e io-tu/egli incarnanti esse stesse la spazio-temporalizzazione del concreto-di-pensiero e dell’essere-movimento. Disposizioni secondo le quali, lungi dal definire la forma immobile del cambiamento, il tempo non è altro che il lemma con cui si nomina la modulazione delle morfologie concrete in cui la vita cosmica si inventa e reinventa senza sosta e senza mai raggiungere uno stadio definibile come omnitudo rerum. Vale a dire che non è l’agitazione del movimento a rispondere alla durata che lo misura, ma la spazio-temporalizzazione stessa a tradurre la pluralità delle dinamiche di fermentazione che la declina nella corrispondenza asimmetrica di simultaneità e successione, di vertigine e oscillazione. Tutto ciò diventa più chiaro se si comprende che unità non significa affatto uno, bensì unione. Alleanza che si dà solo at-
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traverso la disgiunzione, appartenenza che insieme include e distingue, interazione asincrona del tenersi insieme (quando l’uno è più, l’altro è meno, e viceversa): momento dipolare dell’io-tu. E, allo stesso tempo, pluralità non significa affatto moltitudine, bensì divisione, diacronia, dispersione. O, meglio, distanziazione, distensione, declinazione: momento dipolare tra io-tu e io-tu/egli. Il primo momento riguarda l’autonomia, l’autoreferenzialità, la forza centripeta dell’avvolgersi su sé stessi e sulla propria curvatura: dell’invilupparsi in una pura relazione. Il secondo concerne, invece, il declinarsi dell’io-tu nell’io-tu/egli: eteronomia, forza centrifuga del protendersi verso altro da sé nominandolo, di volta in volta, con l’appellativo di terzo, egli, legge, istituzione, società. Questo in un quadro per cui i due momenti non arrivano mai a formare il tutto di una tetrapolarità che li integri reciprocamente, ma non fanno altro che riprodurre interminabilmente lo spettro di un campo magnetico tra “forze primitive” e “forze derivative”. Le forze derivative non sono altro che le forze primitive, da cui differiscono soltanto per il loro statuto o aspetto. Le forze primitive sono le monadi o le sostanze in sé e per sé. Le forze derivative sono le stesse, ma poste sotto un vincolo, oppure colte nell’istante: nel primo caso, sono prese in massa e diventano plastiche; nel secondo caso sono prese in ammassi e diventano elastiche.15
Si tratta di ciò che Jean-François Lyotard chiama différend, Nicole Loreaux στάσις (stásis), Jean-Luc Nancy fraternité: l’insieme delle linee di forza relative al momento dipolare tipico del moto sincro-diacronico della spazio-temporalizzazione. Ogni frase è in via di principio la posta in gioco di un dissidio fra generi di discorso, quale che ne sia il regime. Questo
15. G. Deleuze, La piega, cit., p. 193.
126 dissidio deriva dalla domanda “Come concatenarla?” che accompagna una frase. E questa domanda deriva dal nulla che “separa” questa frase dalla “seguente”. Vi sono dei dissidi perché, o come, c’è l’Ereignis. Ma è una cosa che si dimentica per quanto possibile: i generi di discorso sono dei modi dell’oblio del nulla o dell’occorrenza, essi colmano il vuoto tra le frasi. Eppure è questo “nulla” che apre la possibilità delle finalità proprie dei generi.16
Maurice Merleau-Ponty definisce con il termine “chiasma” qualcosa di molto simile: nessuna cosa, nessun lato della cosa si mostra se non nascondendo attivamente gli altri, denunciandoli nell’atto di nasconderli. Vedere è, per principio, vedere più di quanto si veda, accedere a un essere di latenza. L’invisibile è il rilievo e la profondità del visibile, e il visibile non comporta positività pura più dell’invisibile.17
L’intervallo del momento dipolare può essere associato anche con il schibboleth, vocabolo appartenente all’ebraico biblico. Questo termine deriva da un episodio dell’Antico Testamento che racconta come la variazione nella dizione di una parola consenta di distinguere gli uni dagli altri gli appartenenti a due fazioni antagoniste. Donando rilievo alla soglia che unisce e divide denotazione e connotazione, il schibboleth mette bene in luce il momento dipolare in virtù del quale il significato letterale: (i) si raddoppia nel suo valore di tratto distintivo; (ii) crea una distanziazione critica tra se e se stesso; (iii) introduce un terzo termine di mediazione il cui correlato non è la produzione né l’attribuzione di un senso, ma la
16. J.-F. Lyotard, Il dissidio, cit., p. 175. 17. M. Merleau-Ponty, Segni (1960), tr. it. di G Alfieri, a cura di A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 44.
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definizione di un’alleanza, l’instaurazione di un rapporto di condivisione; (iv) descrive con chiarezza il movimento per il quale l’apertura e l’instaurazione sono più importanti della trasmissione stessa in quanto ciò che ci si scambia non è altro che lo scarto tra l’enunciazione e il suo retroscena invisibile. Come scrive Jacques Derrida: Un schibboleth, la parola schibboleth, se ce n’è uno, nomina, nella più grande estensione della sua generalità o del suo uso, qualsiasi marca insignificante, arbitraria, ad esempio la differenza fonematica tra shi e si quando diventa discriminante, decisiva e dirimente. Questa differenza non ha senso da sola, ma diviene ciò che bisogna saper riconoscere, e soprattutto segnalare, per compiere il salto, per attraversare la frontiera da un luogo o la soglia di un poema, per vedersi accordare un diritto di asilo o l’abitazione legittima di una lingua. Per non essere più fuorilegge. E, per abitare una lingua, occorre già disporre dello schibboleth: non soltanto comprendere il significato della parola, non solamente intendere questo significato o sapere come la parola dovrebbe essere pronunciata (la differenza di h, o di ch, tra shi e si: questo gli Efraimiti lo sapevano) ma poterlo dire come si deve, come si deve poter dire. Non basta conoscere la differenza, bisogna poterne disporre, poterlo fare, o saperlo fare – e fare significa qui segnalare. Questa marca differenziale non basta conoscerla come un teorema, ecco il segreto. Un segreto senza segreti. Il diritto all’alleanza non ha niente del segreto nascosto, come un senso occultato in uno scrigno. Nella parola, la differenza tra shi e si non ha alcun significato: definisce solo la marca cifrata che bisogna poter condividere con l’altro, e questo potere differenziale deve essere iscritto in sé, diciamo nel proprio corpo altrettanto che nel corpo della propria lingua, l’uno a misura dell’altro. Tuttavia, questa iscrizione della differenza nel corpo (per esempio la capacità fonatoria di pronunciare un suono o un altro) non è naturale, non ha nulla di una facoltà organica innata. La sua stessa origine
128 suppone l’appartenenza a una comunità culturale e linguistica, ad un ambiente di apprendimento, un’alleanza insomma.18
Si tratta di un collegamento tra parti nel quale può fungere da intermediario solo qualcosa che, pur emergendo singeneticamente e combaciando con esse, ad esse non appartiene e da esse non dipende: piuttosto vi aggiunge o vi sottrae un alcunché. Un’alleanza dei termini, e del momento in cui si decidono le loro distinzioni, che non si piega né si dispiega in un intero: che non compone né scompone un totus. Prodotta dal loro incontro e dalla loro separazione, questa componente ulteriore agisce come un campo vettoriale di forze: non segue un ordine bilaterale, ma radiale. Si tratta, cioè, di una forza d’inerzia attivante una prensione. Una congiunzione-disgiunzione la cui orbita corrisponde allo sviluppo di una spazio-temporalizzazione per la quale un “da dove” implica un “verso dove” e viceversa un “verso dove” un “da dove”, senza una precisa priorità dell’uno o dell’altro. Agente dinamico in grado di agire con ampia autonomia in allacciamento con il quale sia gli insiemi e le loro parti sia le parti tra di loro fanno sistema: in modo tale che non sia possibile concepire gli uni che servendosi delle altre. La logica delle relazioni (the logic of relatives) non considera, infatti, le diverse componenti come appartenenti a una classe omogenea composta in base a un unico tipo di connessione, la somiglianza o la differenza, «ma considera il sistema [considers the system]»19: raccorda, cioè, le entità eterogenee in costante interazione reciproca con l’attività per mezzo della quale esse stesse entrano in un processo di concrezione.
18. J. Derrida, Schibboleth pour Paul Celan (1984), Galilée, Paris 1986, pp. 50-51. 19. C.S. Peirce, La logica delle relazioni, cit., p. 288.
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Ciò che è aggiunto al processo di correlazione degli insiemi tra di loro e con il mosaico delle forze che li compongono è una soglia, un quoziente differenziale, un orizzonte degli eventi, una «intra-piega [entre-pli], lo Zwiefalt»20, per usare l’espressione di Heidegger ripresa da Gilles Deleuze. Là dove, invece di escludersi reciprocamente o ridursi l’uno all’altro, l’interno e l’esterno si concatenano in un processo di composizionescomposizione: in una spazio-temporalizzazione21. Si tratta di un elemento comune posto ἔς μέσον (es méson), riguardante tutti e nessuno. Che, come scrive Maurice MerleauPonty, consente di differenziare un corpo dagli altri, e in tal modo lasciarne emergere la singolarità, non grazie a una perimetrazione esterna, ma a un bordo interno, «non per ciò che specificamente esclude, ma per quanto eminentemente include»22. Il posizionamento interno del confine è un aspetto decisivo in quanto una relazione si dice interna a un termine quando, in sua assenza, quest’ultimo sarebbe diverso. Viene definita, al
20. G. Deleuze, La piega, cit., p. 198. 21. «Quando Heidegger evoca lo Zwiefalt come il differenziante della differenza, vuol dire innanzitutto che la differenziazione non rinvia a un indifferenziato precostituito, ma a una differenza che non smette di spiegarsi e ripiegarsi su ciascuno dei due lati. Non si spiega l’uno se non ripiegando l’altro, in una coestensività dello svelamento e del velamento dell’Essere, della presenza e del ritrarsi dell’essente» (ivi, p. 50). «Zwiefalt, la piega in due. Si tratta dell’essere in quanto doppio (essere ed essente), apribile, in opposizione a das Einfache, “il semplice”, l’unità in quanto non si apre né si sdoppia» (A. Préau, Nota 1, in M. Heidegger, Essais et conférences, tr. fr. di A. Préau, pref. di J. Beaufret, Gallimard, Paris 1958, p. 89 ; cfr. anche M. Heidegger, Moira [1951-1952], in Id., Saggi e discorsi, tr. it. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1991, pp. 158-175). 22. M. Merleau-Ponty, L’idée de nature chez Whitehead (1956-1957), in Id., La nature. Notes. Cours du Collège de France, a cura di D. Séglard, Seuil, Paris 1995, p. 166.
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contrario, esterna, quando la sua aggiunta o la sua sottrazione modifica la linea di condotta del termine senza pregiudicare in modo rilevante la sua forma e il suo contenuto: senza trasformare il termine stesso. Associare dei margini a tale rapporto vuol dire aprire uno spiraglio che consente di traversare l’abisso che separa il proprio dall’altrui per farli comunicare. Come scrive Hugo von Hofmannsthal: «il mondo intero è appena sufficiente a colmare il nostro cuore, quando lo guardiamo dal piccolo spiraglio di una casa sicura. Ma guai, se crolla il muro che ci divide!»23. Il limite emerge nell’intervallo, nel divergente accordo tra la separazione drastica e l’unione che avviluppa e nega ogni libertà: tra l’abisso senza fondo e l’abbraccio soffocante. Come scrivono Detienne e Vernant, limite, in greco antico πεῖραρ (peirar), «le cui affinità con il cammino πόρος [póros] sono sottolineate dall’uso del verbo attraversare περάο [peráo]»24, si giustappone a ἄπειρον (ápeiron), il senza limiti, che «oscilla tra le catene che nessuno può sciogliere e i cammini che nessuno può percorrere»25. In contrasto con «distesa abissale, caotica, priva di strade»26, apeiron viene designato come spazio απείριτος (apeìritos), ἂπειρος (àpeiros). E, questo, non in quanto mancante di limiti, bensì perché descrive la «distesa che non si può traversare» e, al contempo, il momento in cui «si viene brutalmente messi a contatto con “lega-
23. H. von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos (1901), tr. it., con testo ted. a fronte, di M. Vidusso Feriani, intr. di C. Magris, BUR, Milano 1974, p. 17. 24. M. Detienne - J.-P. Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, cit., p. 220. 25. Ivi, p. 223. 26. Ivi, p. 220.
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mi che non possono essere slegati [δεσμοῖς ἀλύτοις, desmois alutois]”»27. Dare forma a dei limiti significa iscriverli su di un sostrato, configurarli come segni riconoscibili. Ma vuol dire anche attribuire loro un senso e un valore i quali, spesso, innescano un processo di alienazione in un tempo inteso come grandezza indipendente ed esterna rispetto all’attualità degli eventi e in uno spazio che funge da conferitore d’identità. Processo che, da un canto, gode della propensione a conservare l’individuo solo a condizione di reprimerne il carattere singolare. E, d’altro canto, tende a trasformare i confini in una bandiera: a mutarli nel bastione di una fortezza da espugnare a tutti i costi o dalla quale gettare olio bollente sugli altri, sui nemici. Nel caso in cui, dunque, i tracciati di demarcazione vengano incorporati in significati, investiti in simboli semanticamente attivi, incarnati in una forma materiale identificabile dagli attori sociali, si apre un varco dal quale inevitabilmente s’introduce lo scatenamento smisurato della violenza. È dalla presa in conto di ciò che sorge la teoria sociale, incardinata sulle nozioni di momento dipolare, dissidio, stasis, fraternità, per la quale una punteggiatura elementare subentra alla mediazione e un campo di forze dipolare alla sintesi dialettica.
27. Ivi, pp. 223-224. Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, in Eschilo - Sofocle - Euripide, Tutte le tragedie, cit., v. 154, pp. 468-469.
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12 La concrezione o la triangolazione dell’esperienza
Costruire una puntuazione significa osservare la rete delle interazioni sociali nei termini di un campo magnetico le cui linee vettoriali, intervallate da un interstizio, non possono mai alienarsi l’una all’altra, divenire una, né emanciparsi l’una dall’altra, farsi completamente autonome. Come scrive Maurice Blanchot, «se è vero che c’è nella lingua cinese un carattere di scrittura indicante insieme “uomo” e “due”, è facile riconoscere nell’uomo colui che è sempre sé e l’altro»: il momento dipolare della concordia discorde e della comunicazione-interruzione, mai aurorali, mai definitive. «È meno facile, e più importante forse, pensare “uomo”, cioè anche “due”, come lo scarto al quale manca l’unità, il salto dallo zero alla dualità, l’uno dandosi allora come l’interdetto»1. È questo scarto che sugella dipolarmente l’alleanza ἙρμῆςἙστία (Hermês-Hestía): «Hermes l’esterno, l’apertura, la mobilità, il contatto con l’altro da sé»; «Hestia l’interno, il chiuso, il fisso, il ripiegarsi del gruppo umano su se stesso»2. Esso fa sì 1. M. Blanchot, Le pas au-delà, Gallimard, Paris 1973, p. 57. 2. J.-P. Vernant, Hestia-Hermes. Sull’espressione religiosa dello spazio e del movimento presso i Greci (1963), in Id., Mito e pensiero presso i Greci.
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che, invece di annichilirsi nella simbiosi o nel conflitto estremo con le loro repliche speculari, gli attori sociali attivino delle relazioni in grado di mutare la lotta in gioco e l’antagonismo irriducibile in disputa amichevole. Detto ciò, appare chiaro perché i sistemi sociali debbano essere pensati come dipolari. Questi ultimi, infatti, possono permanere nello spazio e nel tempo solo presupponendo nel proprio statuto il disaccordo multi-prospettico con se stessi, esclusivamente mettendo in atto un ordinamento positivo di pratiche sociali attraverso il movimento adiaforo della simultanea presa di distanza dal proprio interno e dal proprio esterno: attraverso la strutturazione della propria mobilità interna e, insieme, la distanziazione o la sospensione delle sue molteplici forme. Generando al loro interno la propria autonegazione e la propria autodestituzione: compiendo il movimento paradossale di affermare simultaneamente se stessi e il proprio contrario. Accettando che nel loro stesso corpo risieda qualcosa che non coincide con se stesso, ma con cui bisogna stringere un’alleanza. Qualcosa che, simultaneamente uno e multiplo, simile e dissimile, uguale e diverso, familiare ed estraneo, heimlich und unheimlich, contiene questo limes in se stesso: detiene la potenza di rovesciarsi, invertendo il proprio esterno e il proprio interno. Tale è nella tradizione ellenica la volpe che rigira il suo corpo quando l’aquila si precipita su di lei; o il polipo che dispiega i suoi organi interni, li gira all’esterno, spogliando il suo corpo come una camicia; o Hermes che, avendo rubato le vacche di suo fratello Apollo, confonde le tracce facendo procedere la mandria a marcia indietro.3 Studi di psicologia storica, tr. it. di M. Romano e B. Bravo, Einaudi, Torino 1978, p. 152. 3. J.-F. Lyotard, Pareti (1977), in Id., I TRANSformatori DUchamp. Studi su Marcel Duchamp, tr. it. di E. Grazioli, Hestia, Como 1992, p. 35. La riflessione di Lyotard è debitrice del famoso testo di M. Detienne - J.-P. Vernant, La volpe e il polipo, in Iid., Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, cit., pp. 16-37.
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Gli stessi legami sociali resistono unicamente se sono in grado di concedersi la possibilità di lasciare spazio a un moto chiasmatico che vada in direzione inversa: uno s-legame in cui si manifesti la distanza, lo scioglimento dei vincoli, la liberazione dagli obblighi di reciprocità. Le organizzazioni sociali di tipo dipolare invocano dunque il lucreziano multa rebus concurrere4. In modo tale da istituirsi al contempo come congiunzioni e come congiunture: come concatenazione tensoriale dei singoli operatori e come aggregazione contingente di forze concorrenti. Prediligono la policronia sull’armonia. Antepongono l’intreccio di temporalità della polifonia all’alternanza di voci all’interno dello stesso sistema tonale e della medesima logica monovalente: non dialogo, ma incontro, τύχη (túche). Compagini che, come scrive ancora Lyotard, non prevedono fuori scena in quanto per esse il fuori scena è «una componente della scena»: che non presuppongono «alcun occhio che conosce tutti i teatri insieme»5, nessun punto di vista che possa osservare le cose dall’esterno in modo distaccato e sereno come se non fosse parte in causa. Fanno appello con ciò alla prospettiva tripartita della prudentia ciceroniana, brunettiana e dantesca «ch’avea tre occhi in testa» (Purgatorio, XXIX, v. 132). Cioè, come spiegato ne Il convivio: «buona memoria delle cose viste, buona conoscenza delle presenti e buona previdenza delle future»6. Visuale
4. Cfr. Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, tr. it., con testo lat. a fronte, a cura di A. Fellin, UTET-De Agostini, Torino-Novara 2013, V, v. 849, pp. 382-383. 5. J.-F. Lyotard, La filosofia e la pittura nell’epoca della loro sperimentazione (1981), in Id., Rapsodia estetica, cit., p. 91. 6. Dante Alighieri, Il convivio, a cura di F. Chiappelli e E. Fenzi, in Dante Alighieri, Opere minori, vol. II, UTET, Torino 1986, IV, 27, 5, p. 309. Te-
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tripla indugiante sui confini tra memoria, conoscenza pratica ed esperienza teorica: diakosmētike technè grazie alla quale il passato non appare più come definitivamente trascorso e il futuro come integralmente imprevedibile. Struttura tripartita tra angeli, homines e demones per la quale, grazie alla memoria, da sonno il passato si fa sogno: messaggero che, con la sua testimonianza, interviene sui criteri con cui i dati dell’esperienza sono decrittati, rischiara il momento attuale ed emancipa il presente da una subordinazione rassegnata al tempo a venire. Movimento che Gianni Celati chiamerebbe di tipo “catagogico”: di «discesa nel tutto pieno del tempo»7, non per vegliare su di esso, ma per riscattarlo, estrarlo dalla guaina che lo avvolge e lo protegge. Per retroagire sui significati attribuitigli, sradicarlo dal suo contesto, strapparlo al flusso della durata dove riposa calmo, ben abbarbicato, definitivo. Al fine di attribuirgli un nuovo quadro di appartenenza in cui emerge sotto forma di sparse rovine: finestra attraverso la quale ogni dettaglio diventa una stilla carica di valore8. oria che Dante rielabora a partire dall’insegnamento di Brunetto Latini, il quale scrive che «come dice l’uomo saggio, la testa, che è albergo dell’anima, ha tre organi: uno che sta davanti per apprendere, l’altro in mezzo per conoscere, il terzo dietro per la memoria [Por ce dient li sage que le chief, qui est ostels de l’ame, a .iij. celles: une qui est devant por aprendre, l’autre el mileu por cognoistre, la tierce est derriere por la memoire]» (B. Latini, Li livres dou Tresor [1260-1267], a cura di F.A.P. Chabaille, Imprimerie Impériale, Paris 1863, I, XV, pp. 22-23). E che Latini riprende da Cicerone: «prudentia est rerum bonarum et malarum neutrarumque scientia. Partes eius: memoria, intellegentia, providentia» (M.T. Cicerone, De inventione, tr. it. a cura di M. Greco, Congedo, Galatina 1998, II, LIII, 160, pp. 300-301). 7. G. Celati, Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, Einaudi, Torino 1975, p. 198. 8. A proposito del rapporto tra Dante (Inferno, IX, vv. 112-117) e le rovine bisogna ricordare la descrizione di Dite, la città di Lucifero, che ha l’aspetto di un paesaggio archeologico: «sì come ad Arli, ove Rodano stagna, / sì com’ a Pola, presso del Carnaro / ch’Italia chiude e suoi termini bagna, / fanno i sepulcri tutt’ il loco varo, / così facevan quivi d’ogne parte, / salvo
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Come scrive Carlo Diano, «il passato, da regno della morte, si muta in tesoro dell’esperienza: è memoria, che, come madre della sapienza e dell’arte, fa che l’uomo “non affronti mai sprovveduto il futuro [ἄπορος ἐπ᾽ οὐδὲν ἔρχεται τὸ μέλλον]”»9, senza per questo diventarne il docile ausiliario. Logica concatenante non due, ma tre valori: ritaglio di spazio-temporalizzazione, attanti e quadro tecnico-concettuale che investe con una linea d’ombra ognuno con gli altri. Modo di agire in forma di attore-spettatore-testimone che non s’incardina in un corpo come incastonato in un centro privilegiato ed egemonico, ma vi ruota attorno come un viaggiatore, che non è subordinato a un luogo né a un sovrano: come un escursionista che avanza e procede senza itinerario e meta prestabiliti. Punto di vista composito in grado di abbracciare una pluralità di parole e discorsi, di momenti e circostanze, lasciando che si dischiudano gli uni accanto agli altri, senza che sia previsto alcun monopolio esclusivo, in un territorio che funge da soglia che fa posto a tante cose diverse: da res nullius appartenente a tutti e a nessuno dove ciascuno e ogni cosa possono trovare una collocazione più o meno duratura, più o meno temporanea. In altri termini, tra le famiglie e ciò che all’interno di esse le definisce può essere annoverata una terza natura: il rapporto di forze elementare iscritto nella punteggiatura.
che ’l modo v’era più amaro». Non più l’oltretomba invisibile e imperscrutabile, ma le lapidi delle necropoli romane di Arles o di Pola che, rendendo in qualche modo accessibili le cose e le persone scomparse, mitigano il lutto attraverso il permanere delle loro vestigia. Le due estremità dell’individuo e del cosmo non sono più isolate e contrapposte. A tradurre i due punti di vista si applica ora la cerniera della mediazione storica: il movimento interattivo incardinato su linguaggio, memoria e società. 9. C. Diano, Il concetto della storia nella filosofia dei Greci, in Grande antologia filosofica Marzorati, vol. II, Il pensiero classico, dir. U.A. Padovani, Marzorati, Milano 1954, p. 282. Cfr. Sofocle, Antigone, in Eschilo - Sofocle - Euripide, Tutte le tragedie, cit., vv. 360-361, pp. 786-787.
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I nessi A-B e A-C, correlazioni tra l’insieme denominato A e le sue parti, non risiedono in un significato X=A-B e Y=A-C, ma nel simbolo (-): il trattino d’interpunzione che separa e unisce A con B e C interrompendone la continuità identitaria. Tra il punto A e i punti B e C esiste una sorta di abisso: dissidio, stasis, fraternità. Una separazione destinata ad essere la misura di tutte le altre distanze e di tutti gli altri tempi. Diciamo, più precisamente, riprendendo le parole di Maurice Blanchot, che «la presenza di A introduce rispetto a B e di conseguenza anche rispetto ad A un rapporto di infinità tra tutte le cose». Infinità che esprime la sua intensità proprio nell’indice che nomina tale relazione: i contrassegni (-) o (.). Porsi dal punto di vista della «distanza infinita tra A e B» significa, infatti, «conoscere mediante la misura dell’“ignoto”, tendere alla familiarità delle cose senza intaccarne l’estraneità, riferirsi a tutto mediante l’esperienza stessa dell’interruzione dei rapporti»: lì dove «l’incommensurabile si fa misura e l’assenza di relazione rapporto»10. Ne consegue, prosegue Blanchot, che «la forma in cui questo rapporto si realizzerà deve, in un modo o nell’altro, avere un indice di “curvatura” tale che le relazioni tra A e B non possano essere né dirette, né simmetriche, né reversibili, non formino un insieme e non si collochino nel medesimo tempo; insomma non siano né contemporanee né commensurabili»11. E, come indirettamente conclude Lyotard: tutte le questioni di potere e di non-potere, qualunque sia il loro nome, riguardano il funzionamento di questa parete. L’astuzia si serve dello speculare e del riproduttivo, ingranaggi di terrore assimilatore, per creare del dissimile, per inventare delle singolarità.12
10. M. Blanchot, L’interruzione, cit., p. 65. 11. Ivi, p. 66. 12. J.-F. Lyotard, Pareti, cit., p. 46.
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L’introduzione del rapporto d’infinità fa sì che A non coincida con A (A ≠ A): succedendo al primo, infatti, l’altro A dovrebbe scriversi A’. La proposizione A = A lascia il posto dunque all’illimitatezza della reiterazione: alla proposizione A = B-CD-E… Il rapporto stesso tra loro che ne definisce al contempo origine e orizzonte è analogo e non coincidente con la serie alfabetica. Entrambi ne costituiscono non il modello preliminare, ma un raddoppiamento che è al contempo torsione, distorsione: sono ἰδέα (idéa) non παράδειγμα (parádeigma). Ciò comporta, inoltre, che non siano necessariamente né reversibili né chiasmatici: B-C-D-E… non è uguale ad A (B-CD-E… ≠ A). E, infine, …E-D-C-B non è uguale B-C-D-E… (…E-D-C-B ≠ B-C-D-E…). Si presentano come associazioni la cui durata è relativa al gradiente d’indipendenza delle componenti, che risultano responsabili non solo ognuna di sé stessa e della propria collocazione, ma anche tutte insieme del tutto, senza istanze superiori, senza oneri sottostanti, libere. Come denuncia Kant contro coloro che sostengono che «un certo popolo non è maturo per la libertà [ein gewisses Volk ist zur Freiheit nicht reif]». Se fosse così – continua – «la libertà non arriverà mai [wird die Freiheit nie eintreten] perché non si può diventare maturi per la libertà se prima non si è stati posti in essa [denn man kann zu dieser nicht reifen, wenn man nicht zuvor in Freiheit gesetzt worden ist]». Per concludere: «bisogna essere liberi per potersi servire convenientemente delle proprie forze nella libertà [man muß frei sein, um sich seiner Kräfte in der Freiheit zweckmäßig bedienen zu können]»13.
13. I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione (1794), tr. it. di P. Chiodi, UTET-De Agostini, Torino-Novara 2013, p. 229; ed. or., Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft (1793), s.e., Frankfurt- Leipzig 17942, p. 271.
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L’esperienza si domanda Kant è ciò che fa uno sperimentatore? Ci deve essere prima lo sperimentatore e poi l’esperienza? Ma, come si può essere sperimentatori prima di aver mai sperimentato? È il rapporto tra lo sperimentatore e il suo stesso fare esperienza di qualcosa che ne costituisce l’origine non originaria: la concrezione o la triangolazione dell’esperienza. In tale diversa condizione, che non è interamente dipendente né alla causalità né alla finalità, che ricusa un’origine determinata e un’unità teleologica, insieme e parti non equivalgono a generatore e generato, naturans e naturatus. Nessuno dei due funge da potenza iniziale che prefigura e anticipa l’altro, lasciandolo divenire ciò che è già previsto essere, né gli fornisce una linea d’orizzonte che, sottraendosi man mano che si avanza verso di lei, risucchia e inghiotte nel proprio gorgo di finalità costituente. Sono storia e narrazione del rapporto stesso tra loro che ne definiscono campo d’intersezione e linea d’universo fisici, origine e orizzonte sociali, archè e telos etico-politici. Non bisogna, infatti, prendere in considerazione le singole componenti secondo un unico tipo di rapporto, di differenza o d’identità. Occorre invece tenere conto di relazioni formanti un sistema di co-emergenza nel quale le condizioni di asincronia tra l’ordine delle protensioni e quello delle ritenzioni rende impossibile costruire un processo che prevede uno stato iniziale, un concatenamento fisso di fasi determinate e uno stato terminale perfettamente concatenati e definiti. L’interdipendenza dipolare, infatti: (i) non prevede la reintegrazione di un ordine originario; (ii) considera che la linea dell’orizzonte non è puncti evolutio; (iii) scorge in corpi e artefatti un’interazione e non un’identità; (iv) contempla che anche il dissidio costituisce una forma di correlazione rispettabile.
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Tuttavia, che il momento dipolare non risulti imprigionato nei processi di proiezione-introiezione o di razionalizzazione-regressione non vuol dire che il mondo fenomenico venga esautorato. Come scrive Georges Bataille: a ciò che si può ben chiamare la materia, poiché esiste al di fuori di me e dell’idea, mi sottometto interamente e, in questo senso, non ammetto che la mia ragione diventi il limite di quello che ho detto perché, se procedessi così, la materia limitata della mia ragione prenderebbe subito il valore di un principio superiore (che questa ragione servile sarebbe incantata di stabilire al di sopra di lei, per poterne parlare come funzionario autorizzato).14
Non sono gli enti a essere generati dal pensiero, ma l’entitàpensiero dagli enti: da altre entità e da se stesso in quanto entità. In tali termini, nel doppio nodo relazionale della spazio-temporalizzazione, tra le soglie indecidibili che delimitano referente e significato, presentazione (Darstellung) e rappresentazione (Vorstellung), realtà e pensiero (Welt e Menschenwelt), ἀπορία (aporia) e πόρος (poros), άπειρος δύναμις (ápeiros dúnamis) e τόπος νοητός (tópos noêtos), cose del mondo e loro estensione relativa al modo umano di selezionarne aspetti pertinenti alla propria forma di vita – «cioè la sua capacità di raccogliere le azioni che si esercitano su di lui (ciò che chiamiamo in terazioni)»15 –, la mente non funge da limite. Sono piuttosto il limite e la finitudine a torcersi, propagarsi, disperdersi: punteggiatura, spostamento-mutamento, interruzione, sospensiva e catalettica, chiamati processo body-mind. Disposizione che, ostruita dalle stesse parti che la compongono, le comprime ed
14. G. Bataille, Il basso materialismo e la gnosi (1930), in Id., Documents, tr. it. di S. Finzi, Dedalo, Bari 1974, pp. 102-103. 15. J.-F. Lyotard, L’inhumain, cit., p. 49.
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è investita dal loro feedback provocando in tal modo una reazione a catena: un lavoro di produzione, ri-orientamento e modellizzazione di se stessa e delle sue componenti che dà vita a corpi, mondi, conformazioni inedite. Si tratta – come sottolinea Gilles Deleuze rileggendo Processo e realtà di Whitehead – di una «concrescenza» di elementi. È una cosa diversa da una connessione o da una congiunzione, è semmai una prensione […]. Il vettore di prensione va dal mondo al soggetto, dal dato preso al prendente («supergetto»). I dati di una prensione si configurano allora come i suoi elementi pubblici, mentre il soggetto si configura come l’elemento intimo o privato, che esprime l’immediatezza, l’individualità, la novità.16
Con ciò aprendo quindi la strada a un trilemma per il quale a oggettività e intersoggettività viene aggiunto non un tertium quid, ma un tertius quis: il terzo polo della soggettività solipsista per il quale ontologia e noologia sono congiunti e separati dalla soglia e dall’intervallo di un’egologia. Infatti, lo ha saputo formulare bene Ludwig Wittgenstein, «il soggetto non appartiene al mondo, ma del mondo è un limite [Das Subjekt gehört nicht zur Welt, sondern es ist eine Grenze der Welt; The subject does not belong to the world but it is a limit of the world]»17. Malgrado, dunque, non possa garantire contro lo scatenarsi smisurato della violenza, l’opzione dipolare riesce comunque a prospettare una salvaguardia in quanto descrive la relazione come un doppio nodo ricorsivo: al contempo come arco e come freccia, come albero e come frutto, come curvatura spazio16. G. Deleuze, La piega, cit., p. 129. 17. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus (1921), tr. it. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1989, § 5.632, p. 135. Cfr. L. Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus, Side-by-Side-by-Side Edition, disponibile online: https://people.umass.edu/klement/tlp/).
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temporale, come παλίντονος ἁρμονίη (palintonos harmoniê) di estremità ricurve che si piegano in direzione d’irreversibilità, entropia, rischio; e come apertura ad altre interdipendenze. Indica quindi che proprio il tentativo di proscrizione del circolo virtuoso-vizioso configura il piège che scatena la guerra di tutti contro tutti. E prova così a ingannare l’impulso alla rivalità mimetica: trasformando l’irriducibilità assoluta in reciproco riconoscimento in grado di ricomporre la mutua alternatività in competizione agonistica, in disputa amichevole. Trasmutando la lotta in gioco, l’urto violento in negoziazione pacifica: spostando la misura della propria sopravvivenza dall’esclusione delle ostilità alla loro elusione, dall’evitare il conflitto all’addomesticarlo, dal rinunciare allo sforzo muscolare al calibrarlo. Per fare ciò tale processo enuclea i movimenti di stallo e ripresa non seguendo una linea di biforcazioni, ma una superficie curva di multiforcazione: prende in considerazione norma e anormalità senza ricondurli a uno snodo dicotomico, che li anticipa e li rende reciprocamente esclusivi, per iscriverli piuttosto in una correlazione inclusiva politomica. Non pretende tuttavia di pervenire al di qua della ripartizione tra linea e punto, tra continuo e discreto, tra permanenza ed emergenza. Momento dipolare è, infatti, il dispiegamento temporale di un presente gravido di avvenire, la prossimità, ciò che sta davanti, devia e ritorna: che riunisce in sé gli altri tempi i quali, tuttavia, lo scompongono indefinitamente scavandone il solco con i loro flussi pur senza mai arrivare a colmarlo. Movimento browniano, dispersione temporale nel mondo per la quale l’orizzonte vive in una diversità disgiuntiva tra recto e verso: è inaccessibile punto di fuga che ogni ravvicinamento allontana di pari misura, ma al contempo risiede qui e ora inseparabile dal processo di attualizzazione del gioco delle divergenze che si flette nella spazio-temporalizzazione, sincrona-asincrona, attuale-inattuale, zeitgemäß-unzeitgemäß.
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Intesa come espressione concreta e plurale della compossibilitas, in conclusione, la società dipolare disegna un’architettura booleana che, mettendo in mora il principio d’identità, articola insieme coesistenza, successione, congiunzione e coordinazione (e-o). Nel suo quadro, luce e ombra, ritmo e volume, frequenza e massa, onda e particella non sono incompatibili. Intrappolati l’uno nell’altro, nel momento dipolare di concreto e astratto, dimora e partenza s’iscrivono insieme e accedono simultaneamente al campo di collisione-collusione dove s’incontrano e si scontrano: dove si combattono ma non contraddicono, dove si affrontano senza porsi come mutualmente esclusive. Come scrive Enzo Melandri: Il vantaggio dell’opposizione per contrarietà su quella per contraddittorietà sta nel fatto che la prima è “di-polare” anziché mono-polare: prevede cioè l’impiego di due principi anziché di uno solo. L’opposizione per contrarietà, inoltre, ammette (“per sub-contrarietà”) qualsiasi gradazione intermedia, sia essa continua o no, fra i due estremi.18
18. E. Melandri, La linea e il circolo, cit., § 67, pp. 369-370.
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13 La legge di Jethro
Una società è di tipo dipolare quando non consente alle frasi denotative d’imporre le proprie leggi all’intero spazio del discorso e lascia ch’esse siano messe in discussione da quelle prescrittive le quali, a loro volta, non possono determinare il contenuto della norma, ma solo statuire sulle procedure in base alle quali si deve rispondere di qualcosa in quanto questo qualcosa ci risponde e ci corrisponde e, allo stesso tempo, se ne deve rispondere a e davanti qualcun altro. Le frasi prescrittive rinviano, infatti, «sempre alla responsabilità, alla responsabilità di ascoltare, di prestarsi all’obbligazione»1. Tuttavia, non più subordinate a una giustificazione superiore legittimante, sia le frasi denotative sia le prescrittive si ritrovano costrette ad assumersi le une la responsabilità degli enunciati proposti, le altre delle regole cui sottometterle per renderle accettabili: sono entrambe libere di scegliersi i propri metodi di valutazione, ma inderogabilmente sottomesse al dovere di enunciarli pubblicamente e di accettare che siano sottoposti a verifica e riscontro.
1. J.-F. Lyotard, Au juste, cit., p. 143.
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Il diritto di stabilire delle norme di giudizio circoscritte regionalmente, insomma, comporta una responsabilità che grava di un’obbligazione: un impegno che vincola al reciproco riconoscimento dei rispettivi ambiti e alla comune accettazione dei criteri attraverso i quali decidere riguardo la loro coerenza e cogenza. Rifiutando che un meta-discorso giudichi dall’esterno sulla validazione o sulla falsificazione dei saperi, le frasi denotative e prescrittive entrano in conflitto radicale con il potere politico. In particolare nell’ambito del diritto, ci si deve domandare chi sia titolare di regole e procedure: chi ha il diritto di redigerle e l’autorità per legittimarle. Il potere d’interpretazione normativa spetta al parlamento o ai tribunali? È pertinenza dei politici, dei giudici o degli studiosi di diritto? Riguardo al tema delle lacune implicite nelle leggi, il giusliberismo introduce la prospettiva per la quale il diritto non concerne solo ciò che emana dallo Stato e che si trova in una legge o in un codice. Rilevando che, nel corso del loro lavoro analitico, i giudici sono in grado di far emergere fattualmente delle norme extralegali esistenti nella realtà sociale solo a livello latente, il costituzionalista Paolo Grossi analizza i principi basilari del movimento del diritto libero (Freirechtsbewegung) il quale: (i) reputa che il principio di equità giustifichi un’applicazione del diritto non imparziale; (ii) pone, accanto al diritto dello Stato, un altro diritto emanante direttamente dall’attività dei magistrati; (iii) ritiene necessario che l’ordinamento normativo recepisca le differenti condizioni della realtà sociale e, affinché la sua rigidità non si spezzi nell’impatto con la mutevolezza degli eventi, con l’instabilità delle circostanze, propone una fluidificazione delle forme giuridiche che offra la possibilità di rendere flessibili leggi e decreti; (iv) ricusa la distinzione tra Costituzione e codici di procedura civile e penale e prospetta di riversare i principi costituzionali nella redazione delle norme stesse del codice;
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(v) propone di rivedere i meccanismi di rappresentanza politica in modo tale da superare il principio di maggioranza e l’elettività dei rappresentanti. Tale teoria, prosegue Grossi, sostiene che, in quanto dotato di «una sua intrinseca tecnicità», il diritto è «cosa da giuristi»: «una dimensione sociale da preservare il più possibile dalle grinfie della politica»2. E progetta, quindi, «un cospicuo spostamento di attenzione dal momento di produzione e dalla volontà consegnata e sigillata nel testo – momento, volontà, testo che avevano monopolizzato tutto l’ingenuo zelo dei vecchi giuristi plagiati da una ideologia coartante – alla vita della norma nel tempo e nello spazio»: in modo tale da cogliere «il processo normativo come non esaurèntesi nel momento di produzione ma inglobante al suo interno l’interpretazione/ applicazione»3. Come spiega Paolo Pasqualucci, richiamandosi alla dottrina del giurista tedesco Oskar von Bülow, la prospettiva della Freirechtsbewegung postula che «il diritto, nato dal popolo, consolidatosi organicamente nella consuetudine e nei costumi», riconosce «nel giudice un interprete e mediatore più valido della legge scritta» e rivendica la libertà di quest’ultimo a pronunciare un «giudizio individuale che si fonda in ultima analisi solo sulla coscienza del soggetto che lo emette»4. Von Bülow, in effetti, dopo aver rimpianto «un’epoca nella quale la formazione del diritto non era per nulla incatenata alle parole della legge, ma lasciata ancora alla libera creazione 2. P. Grossi, Il diritto tra norma e applicazione. Il ruolo del giurista nell’attuale società italiana, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», XXX, 2001, pp. 493-507: p. 506. 3. Ivi, p. 502. 4. P. Pasqualucci, Postfazione del traduttore, in O. Bülow, Legge e ufficio del giudice, cit., pp. 230-231.
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della giurisprudenza dei tribunali»5 che non deve essere «posto sotto la guida della legge»6, prospetta con chiarezza come consideri del tutto «insostenibile»7 che i giudizi del giudice debbano dimostrarsi necessariamente «conformi alla norma posta dal legislatore»8 e sostiene esplicitamente come «la dipendenza del giudice dalle norme di legge che non gli consente di optare per effetti giuridici diversi da quelli già previsti dalla legge»9 non rappresenti altro che una fictio, «una visuale erronea […] della quale siamo ancor oggi succubi»10. Il giudizio emesso, scrive, «si mantiene anche quando è contrario alla legge»11: vale legalmente «come realtà esattamente conforme alla legge, anche quando la contraddica»12. Per confutare le tesi giusliberiste ci riferiamo qui a una delle proposte che, con la definizione di una «“giurisdizione minima” contro una giurisdizione onnivora quanto inefficace», il sociologo del diritto Eligio Resta avanza in opposizione a «un’ipertrofica espansività del ruolo del giudice»13. La sua idea è che «un sistema giudiziario chiamato a decidere su tutto, e con poteri spesso discrezionali e, nei fatti, poco controllabili», occulti «quote forti d’irresponsabilità»14: realizzi l’esatto contrario di quello che deve essere fatto per evitare «che il diritto colonizzi tutta la vita e il giudice finisca per credere di dover
5. O. Bülow, Legge e ufficio del giudice, cit., p. 223. 6. Ivi, p. 228. 7. Ivi, p. 217. 8. Ivi, p. 201. 9. Ivi, p. 208. 10. Ivi, p. 225. 11. Ivi, p. 205. 12. Ivi, p. 209. 13. E. Resta, Il diritto fraterno, Laterza, Roma-Bari 2002, risp. pp. 68 e XI. 14. Ivi, p. 66.
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essere il decisore delle virtù e, quindi, l’unico suo legittimo detentore»15. Ritorniamo, quindi, alla distinzione ciceroniana tra æquĭtas e vis delectus. L’equità riguarda il potere di perfezionamento del diritto a cui il giudice ricorre per supplire alle mancanze della legge. Poiché vera iustitia misericordiam habet, il giudizio non coincide con un’applicazione stretta della legge, ma si manifesta piuttosto come la sua benevola interpretazione. In questi termini, l’æquitas diventa un punto di arrivo e non un punto di partenza. Il che vuol dire che, per essere legittime, le sentenze emesse dal giudice devono essere conformi non all’equità ma alla norma posta dal legislatore. Pur godendo di un margine di libertà interpretativa che consente di misurarsi con la specificità del caso particolare, i magistrati non possono in nessun caso, però, emettere dei giudizi che contraddicano lo spirito o la lettera della legge, oppure siano contrari all’ordinamento normativo. Perché la libertà interpretativa non si trasformi in abuso e ingiustizia, l’esercizio del potere giudiziario è subordinato al potere sovrano dell’assemblea popolare. La legge a sua volta non è prodotta dai magistrati, i quali governano secondo la legge, ma scaturisce dall’autorità del popolo: è un iussum populi che esercita il potere legislativo attraverso i suoi rappresentanti. Come enuncia con chiarezza Marsilio da Padova: Le persone implicate in un giudizio possono infatti essere amiche o nemiche, utili o nocive per chi giudica, e possono offrirgli doni o fargli promesse; e in tal modo possono far sorgere nel giudice un desiderio che perverte il suo giudizio. Di conseguenza, non si deve mai affidare per quanto è possibile 15. Ivi, p. XI.
150 nessun giudizio alla discrezione del giudice, ma dev’essere invece determinato dalla legge e pronunziato secondo la legge.16
Nel racconto La legge, in cui rivisita la storia dell’esodo del popolo d’Israele fuori dall’Egitto fino alla ricezione delle tavole con i dieci comandamenti, Thomas Mann rievoca il momento in cui Mosè fa erigere un tribunale dove poter dirimere le controversie. Ma, spiega, «per un giudice solo le cause erano troppe, il seggio alla fonte era assediato e se il Maestro istruiva un singolo caso anche solo con una certa cura, doveva lasciarne in sospeso troppi altri, nuovi casi continuavano a sopravvenire»17 e Mosè era sempre più avvilito. Per questo fu molto felice quando suo cognato Jethro gli donò un buon consiglio che non gli sarebbe mai venuto spontaneamente in mente. Se ti occupi solo degli affari più importanti, gli disse, questo basterà ampiamente. Cerca attorno a te «e vedi se in mezzo a codesta tua marmaglia ci sono uomini probi che godano di una certa stima; e allora ponili sopra il popolo, sopra mille, sopra cento, magari sopra cinquanta e sopra dieci: a giudicare secondo il diritto e le leggi che hai dato»18. Ma i giudici accetteranno dei regali, replicò Mosè sospirando, e giustificheranno gli empi. Perché i regali accecano la vista e compromettono la causa dei giusti. «“Lo so anch’io”, ribatté Jethro. “Lo so benissimo. Ma questo è inevitabile”»19. Purché bene o male si amministri la giustizia e le cose abbiano un loro ordine, non è grave se quest’ordine sia un po’ alterato dai regali. E, inoltre, se un affare è stato alterato da un giudice delle decine perché gli empi l’avranno comprato, bene, il querelante farà ricorso all’istanza superiore; 16. Marsilio da Padova, Il difensore della pace (ca. 1324-1326), tr. it. a cura di C. Vasoli, UTET, Torino 1960, I, XI, 1, p. 158. 17. Th. Mann, La legge (1944), tr. it. di M. Merlini, intr. di M. Dogliani, Baldini&Castoldi, Milano 1997, p. 94. 18. Ivi, p. 96. 19. Ivi, p. 97.
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si appellerà al giudice delle cinquantine, poi a quello delle centinaia e infine a quello delle migliaia. Quest’ultimo, «ricevendo più donativi di tutti gli altri, avrà una visione più libera»20 e presso di lui si otterrà soddisfazione, a meno che nel frattempo i litiganti non si siano stancati. Se si verificasse in concreto il passaggio “dal primato della legge al primato della prassi”, seguendo la prospettiva della Freirechtsbewegung, accadrebbe che, in nome di un principio meta-giuridico, ogni giudice potrebbe richiedere al querelante la giusta mercede per mostrare una “visione più libera”. Se è il giudice che fa la legge e al contempo la applica, se deve rispondere solo a se stesso, chi può impedire che il modello di Jethro non si estenda a dismisura? In questo caso il potere del giudice diverrebbe equivalente a quello che, nella definizione classica elaborata da Egidio Romano (De regimine principum, 1280) o da Jean de Paris (De regia potestate et papali, ca. 1302-1303), contraddistingue il tiranno. In questo caso, infatti, il giudice statuirebbe in modo arbitrario (secundum arbitrium), cioè, non conformemente alle leggi istituite dai cittadini (secundum leges quas cives instituerunt), ma riferendosi alle leggi che lui stesso istituisce (secundum leges quas ipse instituit). L’azione di chi interpreta la legge secondo un criterio e una misura che lui stesso si è dati corrisponde esattamente alla visione monologante messa in mora dal momento dipolare e da ciò che esso implica. Possiamo dunque distinguere tra società di tipo dipolare o meno secondo il modo in cui i magistrati si pongono nei confronti della legge. Nelle une rispettano il principio per cui i giudizi vanno emessi non totaliter nec simpliciter, sed secun-
20. Ibidem.
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dum ordinem iuris, non in modo totale e diretto, ma secondo l’ordine della giurisprudenza: sulla base della legge. Nelle seconde, invece, i giudici considerano che in ipsorum pectore sunt leges reconditæ: nei loro cuori e nelle loro menti ci sono leggi il cui spirito è inaccessibile a tutti gli altri. Il momento dipolare tra sentenza e ordinamento garantisce dunque un vivere libero perché impedisce a chicchessia di avere più autorità delle leggi stesse e impone che i verdetti giuridici vengano formulati in conformità con queste ultime. I magistrati sono responsabili di fronte al popolo e il loro operato deve essere in regola con le leggi il cui numero è meglio che non sia esorbitante perché la loro quantità eccessiva incoraggia la corruzione ed è causa di confusione e di arbitrio. Nelle società dispotiche, al contrario, si dissolve l’alleanza tra Ouránioi e Chthónioi: la legge è sottratta al Parlamento e affidata a un ceto di tecnici considerati come depositari di un sapere che nessun’altro può mettere veramente in discussione. Alla sottomissione al dettato delle leggi richiesta nel primo caso, si contrappongono, nel secondo caso, i giudici interpretimediatori considerati come gli unici autorizzati a decodificare la legge scritta, ma non ritenuti legibus astringuntur: non costretti a subordinarsi a quella che, nel Defensor pacis, Marsilio da Padova chiama la sovranità del legislator humanus posta all’interno di uno Stato retto dalla legge civile e governato con il consenso dei cittadini.
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14 Arte della parola come scienza civile e linea d’intrattabilità
Come abbiamo visto, le società di tipo dipolare comportano relazioni sociali in cui viene amplificata la sensibilità verso le differenze. Differenze non dialettiche, prive di negazione: che non negano e non implicano il negativo. A tali rapporti fa riferimento la trama invisibile di legami che intesse referenza e destinazione: il campo ellittico bifocale del “paganesimo”. Rispetto al profilo delle formazioni di soggettività artefici incontrastate di se stesse che riconducono l’alterità a determinazione interna dell’unilateralità e della parzialità del loro punto di vista, infatti, nel campo di sperimentazione sociale e politica chiamato «paganesimo, c’è l’intuizione, l’idea opposta. Cioè l’idea che nessun enunciatore è mai autonomo» in quanto è «qualcuno che è stato “parlato”»: qualcuno che «riceve un racconto nel quale è soggetto del racconto» ed è, al contempo, «colui al quale si è parlato»1. Svincolate dal principio dell’autosufficienza della volontà, le ragioni dell’enunciatore sono subordinate alla priorità del momento dipolare referente-destinatario connesso con il prendersi cura delle frontiere che accolgono e distanziano. E con 1. J.-F. Lyotard, Au juste, cit., risp. pp. 78 e 81.
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ciò, l’autorità di ciò che si reputa originario è controbilanciata da quella si nutre dell’alleanza: che è al contempo linea e circolo, prosa e poesia. Rivolgersi all’origine, concentrarsi sui principi, prefigura che il conflitto tra le generazioni non possa risolversi altrimenti che con la vittoria delle une sulle altre: con la scelta binaria che costringe a scegliere tra tradizione e innovazione, tra fedeltà e tradimento, tra salvaguardia e abbandono. «Kafka avrebbe forse detto»: tra «un relitto che […] tramanda» e «una staffetta che […] prepara»2. Fare attenzione ai limiti e ai confini significa, invece, immaginare il “provenire” come traccia di un momento dipolare. Da un lato, come legame covalente tra le generazioni: come l’aggregazione di due centri di gravità congiunti dalla distanziazione che li separa. E, d’altro lato, in quanto iscrizione in un campo di forze a carattere vettoriale: in cui, cioè, ogni generazione segue senza posa la traiettoria da un dove a verso un dove. Vuol dire, in breve, riprendere l’idea lucreziana per la quale le leggi di natura sono vincoli con-federativi (foedera naturai)3: per la quale la forza della natura d’istituire limiti e legami è anteposta alla sua potenza generativa. Si può dunque dire che le società di tipo dipolare seguono la trama della civitas popularis. Organizzazioni nelle quali la fonte di tutti i poteri risiede nel popolo inteso come nome comune in grado di descrivere il pagus in quanto soglia: come l’intervallo anonimo che abilita il transito tra le posizioni incommensurabili relative alla pulsazione enunciatore-destinatario- referente. La libertà degli indivdui è pertanto by the law e non 2. W. Benjamin, Franz Kafka. Nel decennale della morte (1934), in Id., Opere complete, vol. VI, Scritti 1934-1937, ed. it. a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2004, p. 138. 3. Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, cit., I, v. 586, pp. 100-101.
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from the law: non consiste affatto nel potere di fare il proprio comodo, ma nel diritto di muoversi senza impedimenti attraverso i passaggi che circoscrivono le frasi normative. La subordinazione alla forza della legge e non a quella degli uomini indica, infatti, che il popolo costituisce l’unico soggetto idoneo a designare l’assemblea legislativa e ad investirla di un mandato. È la sovranità popolare che legittima i governi e, quindi, la distinzione fra legislativo ed esecutivo implica la supremazia del primo sul secondo. Come insegna Cicerone: «lo Stato è la cosa del popolo [res populi, bene comune del popolo] e il popolo non è un qualsivoglia agglomerato di uomini riunito in un modo qualunque, ma una moltitudine associata in base all’accordo di osservare la giustizia e alla comunanza d’interessi»4. E, come espone limpidamente anche la Rhetorica ad Heren nium, «lege ius est id, quod populi iussu sanctum est»5. Ius, in altre parole, non indica una legge qualsiasi, ma unicamente le norme sancite iussu populi, secondo il volere del popolo6. La traccia di questo volere non costituisce però l’identità del popolo come una volontà di dominio: non costituisce il popolo stesso nella padronanza certa di un’identità determinata. Come scrive Jean-Luc Nancy: Ma che cos’e l’onnipotenza del popolo? Ecco il problema di fondo. Forse, è davvero necessario per la democrazia saper af-
4. «[…] res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus» (ivi, I, 25, 39, pp. 198-199). 5. M.T. Cicerone, La retorica a Gaio Erennio, tr. it., con testo lat. a fronte, a cura di F. Cancelli, Mondadori, Milano 1992, II, XIII, 19, p. 309. 6. «Democratica (così infatti si chiama) è quella città, nella quale tutti i poteri risiedano nel popolo [Illa autem est civitas popularis (sic enim appellant) in qua in populo sunt omnia]» (M.T. Cicerone, De re publica, in Id., Opere politiche e filosofiche, cit., I, 26, 42, pp. 200-201).
156 frontare questo problema mantenendo fermo il principio del nulla della sovranità. Essere nulla, o essere fondato su nulla, non significa non potere nulla: significa invece fondare e misurare il potere con quel nulla che è la cosa stessa della realtà del popolo: la sua natura di non-fondamento, di non-trascendenza (almeno nel senso usuale del termine), di non-sacralità, di non-naturalità, ecc. Res publica, summa res – nihil.7
Generato dal movimento incessante del raccontare e del ri- raccontare, dalla voce che lo reitera interminabilmente in parole sempre uguali, sempre diverse, e dall’ascolto che lo prolunga indefinitamente senza poterlo mai realmente identificare, riprodurre o riconoscere; il nome del popolo vive in tutti coloro che osservano il ius come un debito irremissibile che dissolve ogni rappresentazione perché non può essere ricomposto e unificato in una sintesi. Nel moto di andata e ritorno tra gli albori primordiali, anonimi e impersonali, a cui la presenza di tale popolo rinvia, e l’attualità decisa in comune in cui esso si prospetta al presente, il raccontare quello che esso è stato al suo avvenire che si profila, rivela così che una parte di se stesso scaturisce dall’obbligazione medesima. Procede dal suo essere iscritto ancestralmente nella legge e da essa letteralmente marchiato in quanto super fetazione tra volontà particolaristica della consapevolezza e voce interiore della coscienza morale: tra presenza chiara di sé a se stesso, scintilla conscientiæ, e con-scientia, sapere condiviso, tribunale della coscienza (συνειδότος δικαστήριον, suneidótos dikastêrion, συνειδότος νόμος, suneidótos nómos). Risonanza magnetica tra la memoria del subjectum proprium e la riflessione che ne favorisce l’incontro con il subjectum commune: momento dipolare tra limitatezza intellettiva dell’ἰδιώτης (idiótês) e limiti collettivi e condivisi del κοινόν (koinón). 7. J.-L. Nancy, «Ex nihilo summum» (Della sovranità) (2001), in Id., La creazione del mondo, cit., pp. 105-106.
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Ritroviamo così la definizione ciceroniana di stato di diritto come sistema che garantisce i cittadini con l’uso di norme che si definiscono giuridiche perché precise nella loro descrizione e decise in comune. Quando nel De re publica ci si pone la domanda «quid est enim civitas nisi iuris societas?»8, che cosa è infatti una società se non la partecipazione ad un diritto comune? La risposta data nel Somnium Scipionis è concilia coetusque hominum iure sociati, quæ civitates appellantur: si chiamano società (civitates, πολιτείες, politéies) le unioni e aggregazioni associate sulla base del diritto. Scoprendo la propria libertà come correlata con la legge e attraverso di essa con le norme sancite iussu populi, ognuno è posto al cospetto di altrui come ponte/porta, come propria soglia: è votato al momento dipolare dei kósmoi idios e koinós. Risulta quindi libero solo in quanto iscritto ricorsivamente nella presenza degli altri: unicamente in virtù del fatto di porsi consapevolmente delle limitazioni e scegliere liberamente di non oltrepassarle. È in questo senso che si può dire con Lyotard che la volontà non è mai libera e la libertà non è mai la prima. Che successivamente si possano dire altre cose, d’accordo, che successivamente ci sia volontà, d’accordo; ma questa volontà non si prende che sullo sfondo di un’obbligazione che è iniziale e che è molto più antica, molto più arcaica e che non è materia di legislazione, che non è stata decretata, che è letteralmente anonima.9
Questo significa che «si è presi in prima persona in una storia, non si può fuoriuscire dalla storia in cui si è per prendere una posizione metalinguistica e dominare l’insieme. Si è sem8. M.T. Cicerone, De re publica, cit., I, 32, 49, pp. 208-209; VI, 13, 13, pp. 392-393. 9. J.-F. Lyotard, Au juste, cit., pp. 85-86.
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pre immanenti a delle storie in corso di svolgimento, persino quando si sta raccontando una storia ad un altro»10. Inabissate nella tessitura del racconto, le genti della società dipolare non si caratterizzano tanto per le loro opere grandiose quanto, piuttosto, per le trame ordinarie in cui si strutturano, le linee e i tracciati in cui incessantemente s’iscrivono. Il che consente di considerarle come enti e come entità: in quanto persone e, al contempo, in quanto margini i cui versanti fluttuano nel campo magnetico referente-destinatario. Lì dove «nessun discorso si presenta come autonomo, ma al contrario sempre come un discorso ricevuto» la cui ripetizione «non fa che marcare la pulsazione πρότερον-ὕστερον [próteron-hústeron], uno due, uno due, che è la diade»11. Momento dipolare di sistole e diastole, arsi e tesi, apertura e chiusura, ποιήματα (poiemata) e πᾰϑήμᾰτᾰ (pathḗmata), ποιεῖν (poiein) e πάσχειν (páschein), creazioni e passioni: che procede dal pagus, di cui accoglie l’eco e rielabora le tracce, e prosegue nel páthos, che lo investe e con cui deve confrontarsi. Motilità sociale elementare secondo la quale «l’essere si autoinvita alla terribile danza che ha per ritmo di ballo quello della sincope»12. E che s’iscrive, continua Lyotard, come «emblema della vita indaffarata e ritmo sincopato della salute, l’ombra portata dalla condizione critica sull’esperienza, ciò che l’antropologia chiamerebbe la complessione giudiziosa. Giudicare, che significa scavare un abisso tra le parti, analizzando il loro dissidio»13. Ed è qui, proseguiamo con Jean-Luc Nancy, «che si profila, di nuovo, la politica: come luogo a partire da cui bisogna tenere aperta questa incommensurabilità e tenere aperta in ge10. Ivi, pp. 98-99. 11. Ivi, p. 84. 12. G. Bataille, L’érotisme, cit., p. 219. 13. J.-F. Lyotard, Judicieux dans le différend, cit., p. 9.
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nerale l’incommensurabilità della giustizia, così come quella del valore»14. Costituzione dipolare che esclude qualsivoglia neutralità: l’essere neuter, né l’uno né l’altro, il porsi al di sopra delle parti la cui illusione introduce solo confusione, dubbi, incredulità. E affianca l’affermazione del libero arbitrio, forza motrice dell’idea stessa che si possa decidere della propria posizione in modo deliberato, svincolati da ogni rapporto, con la retroazione del servo arbitrio: in quanto, indicando l’intermezzo all’interno del quale ci si può muovere senza alcun impedimento, l’ordinamento giuridico espone la determinazione individuale ai suoi propri confini e la trasfigura. Si tratta, in altri termini, della collusione-collisione tra la forza di sentire (πάσχειν, páschein) e la capacità di agire (δραμεῖν, dramein): la potenza di capovolgimento che scompone e ricompone l’ἐφήμερος (ephêmeros), che dura un giorno solo e vive nel momento presente, mutando istante dopo istante; e il πολύτροπος (polútropos), che è sovrano del tempo (maître des horloges) e padrone del movimento. In un’inversione della trama (περιπέτεια, peripéteia) per la quale misconoscimento (αγνωστικισμός, agnostikismós) e riconoscimento del (ἀνα γνώρισις, anagnôrisis) si scambiano le parti in modo che l’interno e l’esterno possano cooperare. Le minacce degli uni e le ritorsioni degli altri incedono allo stesso modo, in alternanza sincro-diacronica. Non si può dire che i secondi reagiscano ai primi o viceversa. Sono perfettamente affiatati, giocano lo stesso gioco della sega a nastro, in cui ognuno è zimbello degli altri, e si dettano reciprocamente le condizioni. Rispettare e far rispettare la presenza inevitabile del dissidio richiedono, infatti, che gli antagonisti conver14. J.-L. Nancy, in Id. e R. Esposito, Dialogo sulla filosofia a venire (2001), in J.-L. Nancy, Essere singolare plurale, cit., p. XVIII.
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tano congiuntamente l’impotenza della libertà senza regole in libertà secondo l’autorità impersonale dell’imperium legis, del δεσπότης νόμος (despotēs nómos)15. Ch’essi convengano che, per umana e imperfetta che sia, la legge rappresenta l’affermazione della vita di fronte alla morte, della civiltà di fronte alla barbarie. Testimonino insieme «non soltanto che delle leggi sono state date, ma che è necessario che delle leggi ci siano». Che «c’è un gioco linguistico facente appello all’ordinare e all’essere obbligati», e che «bisogna giocarlo». Che, infine, «ciò che è importante in questo gioco linguistico è l’obbligazione come relazione pragmatica e non il suo contenuto»16. Lex e nómos, riassume Lyotard, si affrancano così dall’orizzonte etico-politico che sfrutta la paura del dissidio come pretesto per incoraggiare un potere arbitrario incondizionato e procedono in direzione del linguaggio prescrittivo-pragmatico del limite: inteso come «forza cristallizzata» che «filtra e circoscrive», include ed esclude, secondo un ampio numero di giochi linguistici «il cui insieme definisce il perimetro della cittadinanza»17. Si emancipano, in altri termini, da un presupposto che si prospetta come auto-istituente per approdare a un ordinamento suffragato dalla validità di legislazioni legalmente promulgate, nonché dal diritto di governare unicamente da 15. Erodoto racconta che, interrogato da Serse il Grande, re di Persia e di Egitto, di cui è divenuto un ascoltato consigliere, l’ex re spartano Demarato risponde spiegando che «gli Spartani nel combattimento individuale non sono inferiori a nessuno e, messi assieme, sono i più valorosi di tutti. Questo perché, pur essendo liberi, non lo sono completamente: regna su di loro come sovrano assoluto la legge [δεσπότης νόμος, despotēs nómos], che temono molto più di quanto i tuoi uomini temano te» (Erodoto, Storie, 2 voll., tr. it., con testo greco a fronte, a cura di A. Colonna e F. Bevilacqua, UTET, Torino 1996, vol. II, VII, 104, 4, pp. 354-357). 16. J.-F. Lyotard, Au juste, cit., p. 141. 17. J.-F. Lyotard, La peinture comme dispositif libidinal (1973), a cura di P. Fabbri, Guaraldi, Rimini 2014, p. 55.
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parte di chi, traendo potere dalla legge, si sottomette alle sue disposizioni: si vincola, cioè, alla reciprocità del rapporto normativo fra coloro che governano e la popolazione di cui sono parte. Insieme di regole giuridiche e non giuridiche che costituiscono la pulsazione del potere politico e fungono da sua soglia dirimente. Sistema di direttive particolari che obbliga allo stesso modo chi amministra i pubblici poteri, i funzionari preposti e tutto il corpo sociale: gli universi cives al cui medesimo momento dipolare l’ordinamento stesso è allacciato. Prendersi cura dei margini che uniscono e separano definisce quindi l’autorità della legge e ne attesta la liceità. Ciò che garantisce libertà e rispetto dei diritti è, infatti, l’accento posto sulla relazione ricorsiva tra libero e servo arbitrio: misura d’interferenza tra, da un canto, rivendicazione d’intransigenza e perseguimento solitario della propria unicità; e, d’altro canto, piano relazionale della decisione politica e dell’obbligazione giuridica. Il che vuol dire che, nelle società dipolari, la strutturazione delle collettività non s’incardina unicamente sulle due focali di vis delectus e æquitas, scelta ed equilibrio, volontà e responsabilità; ma deve fare i conti con un elemento ulteriore: con una piega di dispersione diakosmica che schiva la sincronia del tenersi insieme e insegue delle zone di rifiuto e di leggerezza. Alla libertà di decisione (βουλή, boulé) e ai vincoli che instaura, alla sovranità sottoposta all’assunzione di un obbligo, al momento dipolare tra i kósmoi idios e koinós, si affianca pertanto la linea d’ombra del mikrós diákosmos assicurante un perdurante diritto alla fuga e alla diversione: piccoli spazi di non comunicazione, d’interruzione, per sfuggire al controllo e alla sua oppressione. Le società non costituiscono, in effetti, dei sistemi razionali, ma un’arena in cui tutte le componenti sono impegnate le une con le altre in un momento dipolare di divisione e di co-
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appartenenza che è al contempo di incontro-scontro e di corpo a corpo. Tra i poli congiunti dai conflitti reciproci, abbiamo fin qui preso in considerazione come particolarmente rilevanti i kósmoi koinós e idios: da un lato, il registro relativo alla βασιλεία (basileía), al potere di governo; e, d’altro lato, quello concernente la diversità degli attori, delle loro azioni e delle loro credenze. Immaginare un corpo politico non scisso nella sua pluralità costitutiva, ma unico e indivisibile, è una tentazione tipica dei sistemi politici autoritari. Il carattere più specifico di questi ultimi risiede, infatti, proprio nell’inibire il gioco sociale e limitarne l’arco di scelte possibili: nell’instaurare un orizzonte invalicabile e fissare un ordine che si vuole irreversibile all’interno dei quali arrogarsi il diritto esclusivo di statuire sulla propria legittimità. Invece di dissociare potestas in populo e auctoritas in senatu, sovranità popolare e governo come potere delegato, e di sottomettere al pubblico dibattito il processo decisionale relativo all’insieme delle opzioni politiche; i regimi totalitari circoscrivono la propria azione alla prassi legata alla comunicazione: si concentrano nel dissimulare la divergenza tra ordine normativo e spazio pubblico d’azione in grado di stabilire i suoi propri fini. Occultando lo scarto tra il condizionamento burocratico e il λόγος πολιτικός (logos politikos), concernente il libero dibattito e lo scambio di opinioni tra i cittadini, tali regimi danno vita a società senza apparenti divisioni al cui interno la politica è chiamata in causa per operare una sintesi delle forze contrastanti. Per istituire un sistema in cui il campo del sapere e l’intero ordine pubblico sono sottomessi a una gerarchia controllata dalla ragion di stato la cui espressione prende una forma assolutizzata di verità, compiuta, definitiva: un territorio extra-sociale per il quale il governo non necessita del consenso
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della collettività, ma è quest’ultima che è costretta a piegarsi manu militari alle decisioni del potere esecutivo. Contestando la logica d’identificazione e di unificazione, l’alleanza dipolare di cui stiamo parlando è accompagnata da un dislivello tra la sfera della conoscenza, che è anche quella del potere, e la sfera dell’azione che concerne il diritto: scarto che è l’esito temporaneo di un conflitto, di una tensione. Armonia dei contrasti, dissonanza, Auseinandersetzung, conflitto, divergenza, stasis, fraternità, in cui si mette continuamente in discussione ciò che si crede essere vero, e in gioco se stessi. Tale dissidio tra privato, pubblico e giuridico, apre un varco, infatti, nel cuore della politica, per ciò che non è politico: compone un interstizio dove può emergere la liberazione della parola, la capacità di giudizio, l’intelligenza della critica. Accordo- discorde, musicale, corale, interiore e inconfessabile, che si rivela poco a poco, che deve essere mantenuto il più possibile sgombro, come un nodo, come una nuda forma, come una semplice punteggiatura, come una condizione variabile implicante le posizioni di due o più corpi: come un ventaglio di vocali, consonanti e accenti, sussistenti in una forza orientata da un dove verso un dove, ma privi di una parola matrice in cui ritrovarsi insieme per formare una serie omogenea. La legittimità dello stato di diritto è, in conclusione, inderogabilmente ancorata a un campo dell’esperienza polifonico ed eterogeneo: a un momento dipolare tra parola e musica. Il che dà vita a un programma politico che promuove l’arte della parola viva e diretta, senza antecedenti né ripetizioni possibili: all’articolazione ricorsiva del corpo della lingua con il senso del linguaggio. Una parola mosaico che si dà, allo stesso tempo, come movimento di civiltà e diakosmētike technè, come con-cittadina e an-archica: vale a dire, senza origine né scopo predeterminati, non sottomessa né a un’ἀρχή (archè) né a un τέλος (télos) preventivamente stabiliti. Parola in grado di sal-
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vaguardare il dissidio tra le frasi conciliandola con il dibattito con-cittadino e con la libera circolazione delle idee. E d’introdurre così la possibilità sia dell’enunciazione, della presa di posizione, sia del μέλος (mélos), dell’interfacciamento plurale e della risonanza senza restrizioni. Piano d’intersecazione e distanziazione: doppio respiro dissonante, ma complementare, del diritto di fuga e della parola catturata nelle proprie stesse pieghe. Presenza di spazi fisici e simbolici dove opinioni politiche differenti, punti di vista contrapposti, interessi divergenti e discordanti definizioni di realtà possono liberamente emergere, presentarsi, fronteggiarsi e rispondere delle posizioni assunte. Ma dove può anche insorgere una singolare curva di distrazione tesa non ad affrontare i rapporti di forza ma a evaderli: piuttosto che a carezzare o impugnare il principio di realtà, a eluderlo e depistarlo.
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15 Non coincidenza del diritto con la legge di natura: bisogna trovare la legge
Nel testo Dies Irae1, uno dei suoi pochi scritti interamente dedicati alla tematica della giustizia, Jean-Luc Nancy si concentra su due domande principali: cosa reclama l’interrogativo come giudicare? In che senso chi giudica è allo stesso tempo giudicato dal suo stesso giudizio, incessantemente commisurato con il dovere di giudicare? Nell’affrontare tali questioni, esamina la descrizione della sfera giuridica in quanto bilanciamento armonico di componenti differenti. Un tale equilibrio, sottolinea, sarebbe possibile solo se la natura delle azioni sociali potesse essere dedotta direttamente da una logica riconoscibile e evidente per tutti: se non ci fosse un dissidio assiduo e ricorrente tra giudizi di esistenza e giudizi di valore, tra determinazione di un oggetto e formulazione di osservazioni ad esso relative, tra riconoscimento della presenza di qualcosa tramite la sua identificazione e costruzione di un quadro di appartenenza e di rilevanza atto a definirne i tratti distintivi: tra l’esistenza delle cose, la cui tangibilità è accettata allo stesso modo da tutti i membri 1. J.-L. Nancy, Dies Irae (1982), in A. Condello - C. Grassi (a cura di), Law and the faculty of judgement, cit., pp. 42-78.
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di un gruppo, e il valore delle cose, che è considerato da ciascuno in modo diverso. Oggigiorno dobbiamo accettare che i principi stessi non possono più essere desunti da un unico presupposto superiore a partire dal quale misurare tutti gli altri. E che, sprovvisti di postulati dotati di un valore incondizionato ai quali risalire, privi di un metalinguaggio generalizzato in grado di conciliare la divergenza tra diritti e poteri, la legge stessa si dissesta, si scompagina, si disarticola: perde la capacità di fungere da equivalente generale e si vota all’incommensurabilità. La giustizia non viene a planare dal di fuori (da quale fuori?) sopra il mondo, per ripararlo o per portarlo a compimento. È data col mondo, nel mondo, come legge della sua stessa donazione. Non c’è alcun sovrano o tempio o tavola della legge che non sia il mondo stesso, il tracciato severo, inestricabile e interminabile del suo orizzonte. Si sarebbe tentati di dire allora: c’è una giustizia per il mondo, e c’è un mondo per la giustizia. Ma queste finalità o intenzioni reciproche direbbero male ciò che va detto. Il mondo è per se stesso la legge suprema della propria giustizia: non il mondo dato, non il mondo «tale quale è», ma il mondo che sorge, come una congruenza propriamente incongrua.2
Non in grado di governare la dismisura, il diritto appare allora connesso più alla giustezza che alla giustizia: più all’aggiustamento che al μέτριον (métrion), la giusta misura, o al κοινὸν µέτρον (koinôn métron), la misura comune. Questa condizione, prosegue Nancy, non comporta tuttavia una maggiore libertà: non esautora dal dovere di decidere, non esime dall’essere tenuti a pronunciare e affrontare giudizi. Il manquement à la loi, il venir meno alla legge e della legge sono, al contrario, ciò che «condanna al giorno del giudi 2. J.-L. Nancy, Cosmos basileus, cit., pp. 117-118.
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zio»3. È proprio l’inderivabilità del giudizio, infatti, che decreta il dies irae: che spalanca le porte al momento dell’apocalisse, al verdetto finale, al giudizio definitivo. Questo perché bisogna fare i conti con il fatto che l’annuncio nietzschiano riguardo la “morte di dio” espone «il rilucere e lo scintillare di astri che si sono estinti»4: testimonia che gli uomini sono arrivati a «sciogliere questa terra dalla catena del suo sole»5. Ci troviamo a vivere, quindi, sprofondati nella condizione che Maurice Blanchot definisce del “disastro”: se il disastro significa essere separati dalla stella, il declino che segna lo smarrimento quando si è interrotto il rapporto con il caso del cielo indica allora la caduta sotto la necessità disastrosa. La legge sarebbe forse il disastro, la legge suprema o estrema, l’eccessivo della legge non codificabile: ciò a cui siamo destinati senza essere implicati.6
Questo comporta delle conseguenze molto particolari, proseguiamo con Gilles Deleuze: Le proposizioni speculative mettono in gioco l’idea di Dio dal punto di vista formale [mettent en jeu l’idée de Dieu du point de vue de sa forme]. Dio non esiste, o esiste, a seconda che la sua idea implichi o meno contraddizione. Ma la formula «Dio è morto» è di tutt’altra natura: fa dipendere l’esistenza di Dio da una sintesi, opera la sintesi dell’idea di Dio con il tempo, con il divenire, con la storia, con l’uomo.7
3. J.-L. Nancy, Dies Irae, cit., p. 76. 4. F. Nietzsche, La gaia scienza (1882), tr. it. di F. Masini, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. V/II, Adelphi, Milano 1965, III, § 125 [var. M III 5, 10], p. 544. 5. Ivi, III, § 335, p. 129. 6. M. Blanchot, La scrittura del disastro (1980), tr. it. a cura di F. Sossi, SE, Milano 1990, p. 12. 7. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 215.
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La formula «Dio è morto» comporta in effetti delle ripercussioni decisive per la facoltà di giudicare. Prevede la raggiunta consapevolezza che, prendere su di sé l’autorità d’imputare responsabilità determinate, di decidere delle ragioni e dei torti, esiga l’abbracciare inevitabilmente la condizione della finitudine: un modo di vedere per il quale, non c’è più un’imperscrutabile punto di vista esteriore che pone dei confini all’uomo, ma è l’umano stesso che adatta l’ambiente in cui vive alle proprie condizioni di senso e non senso, di vita e di morte, di affinità quiescenti e divellenti, imponendogli le maglie inviluppanti della storicità. Fino a quando ipostatizzano il sovrasensibile come un principio ordinatore onnisciente e onnipotente, gli attori sociali si considerano come sottomessi a un fato impossibile da eludere. E, al contempo, riscontrano in tale presupposto che li travalica un’origine in qualche modo benefattrice sotto la cui salvaguardia porsi al riparo. Sciolti dalle catene del loro sole, affidati principalmente o esclusivamente a loro stessi, invece, si trovano a sperimentare la natura come insensibile e silenziosa: come un paesaggio sordo e muto, indifferente alle proprie vicissitudini, e verso il quale, dunque, ogni captatio benevolentiae è perfettamente inutile. Scoprono che attribuirsi il diritto di assegnare un senso agli eventi non è un atto anodino e senza importanza. Richiede, infatti, di estendere la condanna inderogabile alla differenza e alla morte anche alla realtà non umana e all’intero esistente: conduce a contagiare i realia con il logoramento della durata, a votare la natura al disfacimento e alla caducità, a rinunciare all’incommensurabilità della circolarità chiusa, ciclica e immutabile, relativa al tempo e allo spazio siderali, rifrangendola nella limitatezza e computabilità della spazio-temporalizzazione degli uomini. Vuol dire inaugurare una concezione dell’esistenza per la quale, come scrive Massimo Cacciari, «l’oggetto e problema del
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quid est» lascia «il posto al quis est»8. «La domanda: Che cos’è l’Uomo? diventa quest’altra: Chi è l’uomo?, e Tu devi rispondere. Il ‘Che cos’è?’ mirava al concetto da realizzare; cominciando con il ‘Chi è’, la domanda cessa di essere tale, poiché la risposta è presente in colui stesso che interroga»9, il quale, in quanto soggetto dell’investigazione, non può più essere ricondotto a un’unità che ne totalizza i vari aspetti; ed è costretto a misurarsi con il fuori della propria singolare pluralità in quanto risulta egli stesso preso nelle pieghe della questione, raccontato in ciò su cui riflette: di volta in volta, emittente (colui che domanda); destinatario (colui a cui ci si rivolge, al quale la domanda è posta); referente (colui di cui si tratta, a chi la domanda si riferisce). Il che significa, in altre parole, dover spostare l’attenzione sul momento dipolare «Ego sum = ego cum»10. L’arcano punto di vista esteriore sentito come qualcosa che impone i suoi impenetrabili voleri al genere umano tracolla definitivamente. In vece sua, ora, è il soggetto stesso che si sforza di adattare l’habitat in cui è immerso alle proprie condizioni esistenziali. Si tratta di una prospettiva a partire dalla quale non sono gli enti in quanto tali ad avere qualità positive o negative, ma è l’uomo che accorda loro un valore, dissocia il normale dal patologico, prospetta la vita come capace di errore: annette il cosmo e il suo caos alla trama della storia. Oggettiva l’apparenza fenomenica e la converte in avvenimento contingente: in evento dotato di ragion d’essere perché collocato nel campo di batta8. M. Cacciari, Doppio ritratto. San Francesco in Dante e Giotto, Adelphi, Milano 2012, p. 15. 9. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 224; ed. fr., Nietzsche et la philosophie (1962), Puf, Paris 19836, p. 184: «La question: Qu’est-ce que l’Homme? devient: Qui est l’Homme?, et c’est à Toi de répondre. Qu’estce que? visait le concept à réaliser; commençant par qui est, la question n’en est plus une, car la réponse est personnellement présente dans celui qui interroge». 10. J.-L. Nancy, Essere singolare plurale, cit., p. 46.
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glia dove, nella declinazione di passato e futuro, valori diversi si scontrano e identità contrastanti prevalgono le une sulle altre. In altre parole, ciò che esiste viene posto all’interno di una teoria che lo concepisce come delimitato da tempo, spazio e significato. Si finisce quindi per fissare indissolubilmente la descrizione dell’uomo, e dell’ambiente interno-esterno di cui partecipa, alle nozioni d’irreversibilità cronologica e di flusso incompressibile del divenire. Il che comporta, come sottolinea Roberto Esposito, lo «slittamento logico-semantico da una dimensione etico-teologica» in cui il vero coincide con il puro e l’inalterabile, ad una «meccanicistico-biologica, ancorata al problema della dissoluzione, della corruzione e della morte dell’organismo»11: angolo di visuale che, innestando nel mondo naturale il paradigma nascita, crescita, declino, gli trasmette la possibilità di finire. E per il quale, di conseguenza, la congerie amorfa di una volta astrale precedentemente concepita come ordine eterno, illimitato e immutabile, viene insediata nella condizione della caducità e della realizzazione storica: vi è incisa così una cicatrice non rimarginabile con cui le si comunicano i vincoli umani e con ciò la si rende non più in grado di sovrastare la vita sociale e manovrare dall’esterno le sorti dell’uomo. In luogo dell’osservatore impotente che dall’esilio terreno cerca di decifrare un destino tragico, lontano e inintelligibile, dove senza appello si decide della sua sorte, esordisce l’attore sociale contemporaneo che, osservando la realtà ex occidente lux, s’imbarca sulla nave della storia e precipita nell’abisso della finitudine: accoglie l’idea di essere sottomesso allo spazio e al tempo e, in quanto tale, inderogabilmente compromesso con l’avvenire della morte. E, antropomorfizzando in tal modo l’universo, ascrivendogli l’oscuro e incomprensibile pathos che affligge l’esistenza umana, rende sensibile e, in un 11. R. Esposito, Ordine e conflitto, cit., p. 16.
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certo senso, più sopportabile, l’imponderabilità del vivere. Le due estremità dell’individuo e del cosmo non sono più isolate e contrapposte. A tradurre i due punti di vista si applica ora la cerniera della mediazione storica: il processo delle interazioni sociali incardinato su linguaggio, istituzioni e società. Il suo modello esemplare è impersonato ancora dall’Ulisse dantesco e dai suoi compagni che, una volta «giunti a l’occidente», per desiderio di esperienza, «l’ardore» di «divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore», si slanciano per «l’alto mare», nel «folle volo» irremeabile, che non conosce viaggio di ritorno, e si dirigono impavidi nel cuore delle tenebre: accettando, con il naufragio, i rischi della navigatio vitae (Inferno, XXVI, vv. 97-100). Convinti che solo affrontando l’esistenza presente come un’incessante sperimentazione, come un’ininterrotta circumnavigazione dei suoi limiti, si possono riallacciare i ponti col passato degli avi e con il futuro delle generazioni a venire. Dunque, una volta che la terra è nietzschianamente affrancata dalla catena del suo sole, una volta rinunciato al ricorso ad un prototipo normativo originario accreditato a conferire legittimità uniformando al proprio paradigma, la condanna a giudicare e all’essere giudicati risulta in ultima istanza: esclude ogni possibilità di deroga e di appello. Non solo rende evidente che ogni proposizione contiene un giudizio implicito, ma, per di più, obbliga a definire e dichiarare le regole di tale giudizio. In questi termini, non più garantita da alcun paradigma giuridico, politico o economico, la libertà finisce per coincidere con l’imperativo della responsabilità: «responsabilità per ciò di cui non c’è né conoscenza né rivelazione, per ciò che non è disponibile, per ciò che infine non ha concetto né significato»12. 12. J.-L. Nancy, Répondre de l’existence (1996), in Th. Ferenczi (a cura di), De quoi sommes-nous responsables? Huitième forum Le Monde Le Mans, Le Monde, Paris 1997, p. 39.
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La libertà coincide quindi con un’esigenza incondizionata e un impegno ineludibile rivolti verso la norma etica che espone l’individuo rilevandone la finitudine e circoscrivendone i limiti. Limiti e libertà che collidono nel senso che è sulla linea d’ombra dei primi che la seconda ha inizio. Esperienza della libertà che è rifiuto del lutto dell’origine e, in quanto tale, esposizione al morire, giorno del giudizio, ora del compimento: soglia che insiste, si ripete, si attualizza e riattualizza, incessantemente. È così che, per Nancy, si rende giustizia all’esistenza giacché, gli obblighi che limitano, al contempo, vincolano e uniscono: la libertà, come logos della partizione, è direttamente connessa all’uguaglianza, o meglio, è direttamente uguale all’uguaglianza. L’uguaglianza non consiste in une qualche commensurabilità dei soggetti rispetto a un’unità di misura. È l’uguaglianza delle singolarità nell’incommensurabilità della libertà.13
Incommensurabile, il mondo stesso ha una legge ed è una legge: la legge dell’essere allo stesso tempo singolare e plurale. Coesistenza di singolarità che incessantemente riaffermano e contestano se stesse in quanto confinate in questo mondo, senza reciprocità, senza misura, giacché, «sempre e mai toccato, il limite è al contempo inerente al singolare ed esterno a lui: lo ex-pone»14. Soglia inafferrabile in quanto traccia che espone le singolarità le une alle altre: giacché è solamente in rapporto ad essa che tali singolarità s’instaurano e possono prendere posto. Quello che ci tocca è, infatti, continua Nancy, che «la destituzione 13. J.-L. Nancy, L’esperienza della libertà (1988), tr. it. di D. Tarizzo, intr. di R. Esposito, Einaudi, Torino 2000, p. 74. 14. J.-L. Nancy, Rives, bords, limites. De la singularité (2000), in «Revue des sciences sociales», n. 31, 2003, pp. 20-25: p. 22.
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dell’essere supremo ha per conseguenza diretta e necessaria l’obbligo di creare un mondo»15. Un mondo che non può più essere inteso «come κόσμος (kó smos), secondo l’armonia che vi vedevano i Greci»; e neanche «come il mondo creato-separato da un creatore situato altrove». Si tratta piuttosto di «un ambiente in cui ci si trova e che non è afferrabile che dall’interno. Siamo in un mondo, e non davanti ad esso. Così si può dire che non si vede mai un mondo: ci si è, lo si abita, lo si esplora, lo si trova e lo si perde»16. Si può dire così «che questo mondo viene fuori dal nulla, che è senza preambolo e senza modello, senza principio e senza fine dati, ed è proprio questo che forma la giustizia e il senso di un mondo»17. Desunto e non costruito, il giudizio s’impone dogmaticamente al suo oggetto e costituisce quest’ultimo come un risultato la cui coerenza è subordinata a prerequisiti logici considerati validi sempre e ovunque: a necessità razionali che precedono, includono e governano questa stessa consequenzialità presupponendo di poterne illuminare i nessi reconditi senz’ombra di dubbio. Fa appello in tal senso a una totalità: nonché al terrore e totalitarismo ad essa connessi. Al contrario, il giudizio che ha luogo, sentenza effettiva e deliberata, iscritta in un corpus iuris di cui accetta di non conoscere tutti i presupposti e di non poterne avere un senso compiuto se 15. J.-L. Nancy, Préface à l’édition italienne de L’Impératif catégorique, in «Le portique» (online), n. 18, 2006, p. 4. 16. J.-L. Nancy, L’arte di fare un mondo (2005), in Id., Prendere la parola, tr. it. di R. Borghesi e C. Tabacco, postfaz. di F. Ermini, Moretti&Vitali, Bergamo 2013, pp. 195-196. 17. J.-L. Nancy, Urbi et orbi (2001), in Id., La creazione del mondo, cit., p. 41; ed. fr. in Id., Création du monde ou la mondialisation, Galilée, Paris 2002, p. 63: «Que ce monde sort de rien, qu’il est sans préalable et sans modèle, sans principe et sans fin donnés, et que c’est exactement cela qui forme la justice et le sens d’un monde».
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non enunciandolo, introduce, tra norme e fatti, l’ordine autonomo di un insieme bicefalo: il momento dipolare di regola e caso. In tale situazione, pur non eliminate, le aporie del diritto vengono rinviate dall’ideale della decisione alla decisione in atto. Sono rimesse, in breve, alla capacità di essere, non segni traducibili secondo un registro arcaico che ne custodirebbe il senso proprio, ma termini alla ricerca di nuovi nessi e correlazioni: figure portatrici di possibilità inedite nelle circostanze che le riguardano e nelle congiunture a cui prendono parte contribuendo alla loro strutturazione. Le controversie appaiono dunque rilevanti non più in quanto incasellabili in una rete di concetti definiti in anticipo, ma in base ai margini che, delimitandone l’estensione, ne configurano le condizioni contingenti. La relazione fatti e categorie appare così sfidata, confutata, dal rilievo che la pluralità indeterminata delle occorrenze acquisisce in opposizione all’estensione circoscritta delle norme. Osservata in tal modo, la questione posta da Nancy si piega in due margini che si bilanciano e si intersecano reciprocamente. Da un versante la legge assente. Aspetto negativo che corrisponde a una condizione positiva, al vantaggio di un vincolo, di un’obbligazione: bisogna trovare la legge. Secondo tale angolazione, «il concatenamento non è retto da una regola, ma dalla ricerca di una regola»18. Dall’altro versante, la non coincidenza del diritto con la legge di natura: dissolvimento di ogni cauzione preventiva che pretenda dalla facoltà di giudicare il trasformare la propria dismisura in unità di misura. Impossibilità di distinguere tra un senso in sé, un referente oggettivo; e un senso per sé, un referente definito dalla negoziazione emittente-destinatario.
18. J.-F. Lyotard, Il dissidio, cit., p. 128.
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16 Gruppi di concittadini fraternizzano nel rapporto sociale
Lo schema introdotto mette in corto circuito le norme giuridiche, che si riferiscono a un codice, e le regole dei giochi, che istituiscono programmi. Le une rinviano a uno specifico sistema in grado di abilitarle, le altre strutturano dei processi e sono giustificate dal gioco stesso: dal fatto che ne rendono possibile lo svolgimento. Le prime necessitano di una ragione da cui dipendere e a cui rispondere: una teoria o un’ideologia che ne sostengano l’autorità e ne garantiscano la legittimità. Le seconde, invece, sono autosufficienti: le basta la sola ragione di far svolgere il gioco che da esse scaturisce. È nel quadro di tale corto circuito, a seguito di tale incontroscontro, che non si tratta più di applicarsi a rintracciare una norma primigenia da riprodurre mimeticamente, ma di riconoscersi nell’obbligo di stabilire delle regole. Questa la legge della legge, che giudica la ragione, consegnandola al giudizio. I confini di differenziazione e i margini d’interdipendenza relativi al doppio registro del codice e del programma investono il principio per il quale non si può esprimere un giudizio su qualcosa se non si è preventivamente definito l’oggetto su cui emettere tale giudizio. Chiamano in causa il fatto che, perché comunità e disparità d’intenti, accordo e disaccordo, comunica-
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zione e negoziazione si rendano possibili, è necessaria una discriminazione preliminare e pregiudiziale tra due distinti piani d’interazione: tra accertamenti e apprezzamenti, realtà e pensiero, ontologia e noologia. Mettono in questione, in altri termini, la strutturazione incommensurabile tra, da un lato l’aspetto figurale, la designazione, la realtà stessa che c’interroga, ci chiede qualcosa; e, d’altro lato, l’aspetto discorsivo, il commento, la significazione, il desiderio di arrestare il flusso delle possibilità e inquadrarlo in una gerarchia concettuale più o meno stabile. Si mostra quindi una partizione – al contempo divisione e condivisione, articolazione interno-esterno – doppio movimento inverso di riduzione e amplificazione, tra norma legale e regola del gioco. L’una, scrive Jacques Derrida, «cerca di decifrare, sogna di decifrare una verità o un’origine che sfugga al gioco; l’altra, non più rivolta verso l’origine, afferma il gioco»1. Il τέλος (télos) di quest’ultima, concludiamo con Nancy, non insegue «dunque un modello dato in anticipo, un originale da ritrovare e attualizzare, ma obbedisce a un’altra disposizione, quella di “abitare il mondo”»2. Investito dal registro delle regole del gioco, il corpo della legge è costretto ad abiurare tutto ciò che in qualche modo vorrebbe trarre la sua liceità dalla sfera del sacro. Lex æterna e lex naturalis abbandonano quindi il terreno alla sola iniziativa della lex humana, lasciando quest’ultima esposta a una nuova autorevolezza perché ha finalmente trovato in sé la ragione pratica necessaria al suo ufficio. In tale contesto, la normatività procede da una doppia prescrizione.
1. J. Derrida, La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane (1966), in Id., La scrittura e la differenza, tr. it. di G. Pozzi, intr. di G. Vattimo, Einaudi, Torino 1990, p. 376. 2. J.-L. Nancy, La partizione delle voci. Verso una comunità senza fondamenti (1982), tr. it. di A. Folin, Il Poligrafo, Padova 1993, p. 18.
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Da un canto, nel giudizio viene introdotta l’infinita irraggiungibilità del suo télos che, al pari della linea dell’orizzonte, si sottrae man mano che si avanza verso di esso come un inaccessibile punto di fuga che ogni avvicinamento allontana di pari distanza. D’altro canto, rinunciando a giustificare l’efficacia di una sentenza su di un’autorità che la anticipa e la presuppone, il diritto finisce per accettare una giustificazione basata sulla sua semplice performatività. Vale a dire, sulla sua capacità di rendere valida e fattuale la generalizzazione di un sistema di attese con funzione di accomodamento e pacificazione. Priva di una fonte di autorità derivante da un potere preventivamente stabilito, la legge acquisisce l’onere di dover essa stessa legittimare tale potere: esegue questo compito affermandosi come suo limite dirimente. Convertiti per questo motivo ad essere legibus alligati, i rappresentanti delle istituzioni e i responsabili di governo vedono drasticamente imbrigliata la portata della loro azione. Esposti e subordinati alle leggi, si ritrovano installati in una restrizione generale e pregiudiziale che, in prima battuta, consiste in un’ipoteca che incombe su di loro perché statuisce riguardo alla loro revocabilità; ma a cui, in seconda battuta, devono il più possibile aderire per poter trarne l’eminente dignitas che ne assicura il riconoscimento, nonché la necessaria gravitas che li rende capaci di sopportarne il peso. L’emergere del punto di vista della lex humana consente quindi l’introduzione del momento dipolare tra ordo ordinatus e ordo ordinans, della congiunzione-disgiunzione tra l’aspetto del sistema politico incardinato sulla nozione di potestas e quello imperniato sull’auctoritas. Dinamica per la quale, come anticipava nel XIV secolo l’ingegno e la preveggenza di Marsilio da Padova, il mero potere che amministra i visibilia e mutabilia della vita pubblica viene subordinato agli invisibilia e inmutabilia e all’ambito di ratio, intellectus et vis delectus che
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li dirige e sovrintende al loro stato di cose. E, in quanto tale, è sottoposto all’imprescindibile riconoscimento da parte dell’autorità legittima mediante la quale la “moltitudine dei cittadini” esercita le sue prerogative: «il potere effettivo di istituire o eleggere un governo spetta al legislatore, il quale – come abbiamo detto spesso – è appunto l’intero corpo dei cittadini»3. La questione dell’origine del potere dà luogo pertanto a conseguenze molto importanti nell’organizzazione sociale. (i) Se la forza dell’autorità si alimenta da un’origine extra-umana, le società non possono scegliere liberamente di strutturarsi in un modo o in un altro: devono osservare ossequiosamente il dettato di una volontà trascendente. (ii) Quando, al contrario, si pone l’accento sul legislator humanus, la sua legittimazione viene affidata all’azione sperimentatrice (πρᾶξις, pràxis) dell’universitas civium: all’ordinarietà e alla banalità del co-esistere come matrice del sociale. Il che detiene, tra l’altro, il vantaggio di associare normatività e finzione perché introduce le modalità del “come se”. Il beneficio di godere, quindi, della modestia di un’ipotesi: di un punto di vista provvisorio che non smette di misurarsi con le pratiche sociali, che rinuncia alla teologia delle convinzioni, che non pretende di considerare oggettivi e necessari dei dati definiti dalla gerarchia di scelte propria all’osservazione stessa. Le cui caratteristiche sono, cioè, filtrate dal modo d’intendere tali dati e di farli funzionare nel quadro del sistema delle interazioni simbolicamente organizzate la cui logica risiede in ultima istanza nel criterio dei tornaconti che se ne traggono. Ponendo il principio di legittimità popolare a limitazione delle pretese di sovranità dei governanti, tale concezione rende irrevocabile l’idea che la volontà comune della collettività co3. Marsilio da Padova, Il difensore della pace, cit., I, XV, 2, pp. 194-196.
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stituisca un presupposto superiore a qualsiasi altra autorità. È pertanto nella scelta provvisoria e variabile dei cittadini che risiede il potere del Governo in quanto pars principans, parte che cioè governa tutte le altre parti. Potere che rimane sempre e comunque potere delegato ed è dunque subordinato alla volontà sovrana del popolo: vero detentore della potestas factiva institutionis e pietra angolare di tutto l’edificio politico. Potere e legge, ἐξουσῐ́ᾱ e νόμος (exousíā e nómos), quindi, si espongono a vicenda. In primo luogo, l’uno, che non è affatto automaticamente sinonimo di oppressione o di coercizione, abbraccia e sostiene l’altra. Mentre, in secondo luogo, quest’ultima, per quanto autonoma, non esiste separatamente dal primo e, dipende da esso. Lo strano intermezzo di questa associazione si espone: non a se stesso, ma al δῆμος (dêmos), fintanto che esso stesso vi è esposto. Una volta in vigore, in effetti, nómos e exousia non possono sottrarsi alle sue critiche e alle sue sfide. Giacché il dêmos, come scrive Nancy, «opera in una compulsione di dissoluzione/reinvenzione del legame (della legge). La dissoluzione apre sull’infinito e sull’assentarsi a se stesso. La reinvenzione non è tuttavia semplice identificazione determinata poiché la sovranità eccede la legge che contesta fondandola»4. E coincide piuttosto con la fraternità: una «“fraternità” come Legge e come sostanza: incommensurabile, inderivabile»5. In altri termini, si tratta di prendere posizione sia contro l’idea elaborata per prima nell’antichità classica che considera «la libertà un concetto esclusivamente politico, la quintessenza della città-Stato e della condizione di cittadino»; sia contro la tradizione di pensiero che sostiene che la libertà «comin4. J.-L. Nancy, La communauté désavouée, Galilée, Paris 2014, p. 80. 5. J.-L. Nancy, Le sens du monde, éd. rev. et corrigée, Galilée, Paris 1993, pp. 178-179.
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ci nel punto in cui si lascia il regno della vita politica, abitato dai molti, e che non possa sperimentarsi nella vita associata»6. Per poter, invece, considerare che, come afferma Nancy, «l’atto politico della libertà è la libertà (uguaglianza, fraternità, giustizia) in atto, e non l’obiettivo incarnato da un ideale regolatore della libertà»7. Una società dipolare, quindi, emerge nella collusione-collisione di coloro che si riconoscono reciprocamente nella fraternità. O, per essere più precisi, la volontà comune del corpo sociale agisce come fraternità ed è superiore a qualsiasi altra autorità nel senso che la fraternità, come spiega ancora Nancy, «non è un rapporto tra coloro che sono uniti da una stessa famiglia, bensì un rapporto tra coloro il cui Padre, o la sostanza comune, è scomparso, consegnandoli alla loro libertà e all’uguaglianza di questa libertà»8. Per ben comprendere l’ubi consistam di questa «fraternità senza padre né madre, anteriore e non posteriore a ogni legge e a ogni sostanza comune»9, facciamo riferimento a un’analisi di Émile Benveniste il quale, nel saggio del 1970 Due modelli linguistici della città, spiega che «la traduzione di civis con “cittadino” è un errore di fatto, uno di quegli anacronismi concettuali resi stabili dall’uso e dei quali col tempo non si ha più coscienza, ma che finiscono con l’impedire l’interpretazione di tutto un insieme di rapporti»10. In effetti, il significato proprio di civis è “concittadino”: 6. H. Arendt, Tra passato e futuro, cit., p. 210. 7. J.-L. Nancy, L’esperienza della libertà, cit., p. 79. 8. Ivi, p. 75. 9. J.-L. Nancy, Le sens du monde, cit., p. 178. 10. É. Benveniste, Due modelli linguistici della città, in Id., Essere di parola. Semantica, soggettività, cultura, tr. it. di T. Migliore, a cura di P. Fabbri, Bruno Mondadori, Milano 2009, p. 148.
181 Civis, nella lingua antica e anche in epoca classica, si costruiva spesso con un pronome possessivo: civis meus, cives nostri. Basterà a mettere in dubbio la traduzione “cittadino”? Che cosa potrebbe significare “mio cittadino”? La costruzione col possessivo rivela il vero senso di civis, che è un termine di valore reciproco, e non una designazione oggettiva: è civis per me colui per il quale io sono civis: di qui civis meus. Il termine più adatto a poter descrivere questa relazione è “concittadino”.11
Questo vuol dire che «il civis si può definire soltanto in relazione con un altro civis» e, in tal senso, la città, la civitas, «è innanzitutto la qualità distintiva dei cives e poi la totalità additiva dei cives. Questa “città” realizza una vasta reciprocità ed esiste solo come somma. Ritroviamo tale modello nei raggruppamenti, antichi e moderni, fondati su un rapporto di reciprocità fra persone»12: il presupposto principale è «quello che qualifica l’uomo secondo una relazione di reciprocità, civis». È solo a partire da questo rapporto sociale che prende forma il «derivato astratto civitas, nome della collettività»13. Come ribadisce Nancy, «singuli in latino si dice solo al plurale, poiché designa l’“uno” dell’“uno a uno”». Dunque, il «singolare è un plurale» e, ulteriore implicazione, «la “città” non è in prima battuta una forma di istituzione politica, ma l’essere-con in quanto tale». Allora, «con e nella co-esistenza “concittadina” (concitoyenne) come tale»14, gruppi di concittadini fraternizzano nel rapporto sociale e, parafrasando Nietzsche, dichiarano «vogliamo diventare quelli che siamo: i nuovi, gli irripetibili, gli inconfrontabili, i legislatori-di-se-stessi, i creatori-di-se-stessi!»15. 11. Ivi, pp. 148-149. 12. Ivi, p. 152. 13. Ivi, p. 153. 14. J.-L. Nancy, Essere singolare plurale, cit., risp. pp. 47 e 46. 15. F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., IV, § 335, p. 196; ed. ted., Die fröhliche Wissenschaft (1887), in Id., Sämtliche Werke. Kritische Studiengabe, a
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Cioè, in un quadro per cui l’interconnessione degli uni con gli altri si presenta come un corpo nel quale ἐνεργέω e κᾰταργέω (energéô e katargéō), opera e inoperosità, potere e non-potere costituiscono un momento dipolare e sono interdipendenti; in virtù della loro associazione consapevole e volontaria, le azioni contingenti di tutti i concittadini insieme e di ogni persona come tale elaborano e creano un corpo di diritti valido in un territorio e per un’alleanza di persone. Un insieme di regole la cui fondatezza non deriva dalla società intesa come totalità indivisibile, né dalla civitas in quanto ente astratto, Stato, origine, centro di autorità; ma, piuttosto, dall’azione concertata degli uomini stessi che lo producono, lo utilizzano, lo giudicano. Questi concittadini abitano un periodo storico di rottura e devono assumersi quindi anche la responsabilità di quest’epoca che li impegna in sfide decisive sul piano etico, giuridico e politico. Il che li conduce a voler sostituire le sedi tradizionali del potere con lo spazio pubblico dell’agorá fisica e digitale. E si sentono liberi di farlo perché osservano il passato con occhi che nessuna tradizione distrae: perché s’investono in un inizio che è più di un punto di partenza. «Nessuno comincia a essere libero, la libertà è il cominciamento, ed è senza fine il cominciamento»16, la creazione continua di una pluralità di origini: «al tempo stesso principio e insorgenza, e come tale essa si ripete, “creazione continua”, in ogni punto di ciò che essa origina»17.
cura di G. Colli e M. Montinari, vol. III, de Gruyter, Berlin-New York 1999, IV, § 335, p. 563: «Wir aber wollen Die werden, die wir sind – die Neuen, die Einmaligen, die Unvergleichbaren, die Sich-selber-Gesetzgebenden, die Sich-selber-Schaffenden!». 16. J.-L. Nancy, L’esperienza della libertà, cit., p. 80. 17. J.-L. Nancy, Essere singolare plurale, cit., p. 111.
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I concittadini aprono così una breccia nella quale possono prendere consistenza: (i) una libertà vissuta agendo e associandosi gli uni con gli altri; (ii) un’autorità dissociata da usi e costumi; (iii) norme stabilite empiricamente non più soggette a standard e modelli consacrati dal tempo e dalla tradizione. Non la libertà come proprietà di un soggetto (“il soggetto è libero”), ma la libertà come l’esperienza stessa di venire alla presenza, di essere consegnati, di essere necessariamente/liberamente consegnati a questo a: l’a del “verso”, del “per”, del “in vista di”, del “in prossimità di”, e dell’abbandono, dell’offerta, e del “a corpo perduto”, del “a proposito”, del “all’occasione”, del “al limite”, ma anche del “a torto e a traverso”, del “a fuoco e a sangue”, perché la libertà è ovunque sia necessario prendere una decisione per…18
18. J.-L. Nancy, Introduction (1988), in E. Cadava - P. Connor - J.-L. Nancy (a cura di), Who comes after the subject?, Routledge, New York-London 1991, p. 8.
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17 La responsabilità insostenibile dell’agire normativo
Iniziati, alla pari del Nietzsche dell’Aurora, alla caverna di Trofonio – per raggiungere la quale è necessario dissetarsi al contempo con l’acqua bollente che scorre nel Λήϑη (Léthê), fiume dell’inferno che cancella dalla mente il ricordo del passato, e quella gelata del lago di Μνημοσύνη (Mnêmosúnê), dea della memoria e madre delle muse, che consente di accedere «agli eventi futuri e a quelli passati [τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, tá t’ essómena pró t’ eónta]»1 – questi concives futuri, aperti all’adveniens, cercano il contenuto del loro accordo nella spazio-temporalizzazione relativa al moto del divenire: nel momento dipolare di φωσφόρος (phōsphoros) ed ἕσπερος (hèsperos), nunc stans e nunc fluens, «mondo e giocattoli», «pietra e corrente»2. O, per dirla con le parole di Emmanuel Lévinas, nella spaziatura «di un avvenire già presentito nel presente, ma che
1. Esiodo, Teogonia, cit., v. 32, pp. 116-117. 2. «Im Zwischenraume zwischen Welt und Spielzeug», «zwischen Strom und Gestein» (R.M. Rilke, Elegie duinesi, tr. it., con testo ted. a fronte, di M. Ranchetti e J. Leskien, a cura di M. Ranchetti, Feltrinelli, Milano 2006, risp. Quarta elegia, pp. 30-31, e Seconda elegia, pp. 16-17).
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lascia comunque ancora un pretesto per prendere una decisio ne»3: nell’onda vorticosa di un futuro concepito come una forza e non come un fardello. Vale a dire, come evidenzia Nancy, in un’emergenza intesa «non nel senso di qualcosa che “ci sarà sicuramente domani” ma, al contrario, nel senso di qualcosa di rischioso, alla maniera del carattere sconosciuto e imprevedibile di ciò che deve ancora venire»4. Che consiste in «un incontro, un’opera, un evento; e una volta che l’avvenire è diventato presente, una volta che l’incontro ha avuto luogo, l’opera realizzata, l’evento svanito, allora il senso – il loro stesso senso – si sposta di nuovo, va ancora oltre e altrove»5. Dove viviamo come se fosse “il Giorno del Giudizio”, il Dies Irae, il giorno della collera divina che, innegabilmente, «non è proprio più un “giorno” – è addirittura la notte di cui sono ostinatamente intessuti i nostri giorni»6. Da lì, riprendiamo Lévinas, inizia la congiunzione e l’adattamento tra memoria e immaginazione che testimoniano, «allo stesso tempo l’essere e l’esperienza dell’essere»: che assicurano «impresa e possesso, come un campo di forze in cui l’esistenza umana si mantiene, in cui è impegnata»7. Dove «il sé che ne è afferrato si decide, s’impegna, si assume la responsabilità»8. Dove «esistere diventa sia un verbo transitivo come “prendere” o “afferrare”, sia un verbo riflessivo come “sentirsi” o “tenersi”. La riflessività che questo verbo traduce non è una visione teorica, ma già un evento dell’esistere stesso; non un atto di 3. E. Lévinas, Lévy-Bruhl et la philosophie contemporaine, cit., p. 565. 4. J.-L. Nancy, Répondre de l’existence, cit., p. 41. 5. Ivi, p. 43. 6. J.-L. Nancy, La comparizione (Dall’esistenza del “comunismo” alla comunità dell’“esistenza”) (1991), tr. it. di M. Armano, in G. Agamben et al., Politica, Cronopio, Napoli 1993, p. 14. 7. E. Lévinas, Lévy-Bruhl et la philosophie contemporaine, cit., p. 559. 8. Ivi, p. 565.
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coscienza, ma già un impegnarsi, un modo di essere, qualificato da tutte le circostanze che si sarebbe tentati di scambiare per dei semplici fondali»9. E, in conclusione, questa prassi, «in cui l’esistente è sia separato da tutto che impegnato in questo tutto» deve essere associata «all’esperienza sociale in cui l’autonomia dell’esistenza personale non si separa dall’appartenenza al gruppo»10. I concives futuri rappresentano pertanto essi stessi una fonte di diritto locale che contesta la pretesa obiettività della lex generale. Formulano implicitamente, cioè, nella loro stessa costituzione fisica e simbolica, una lex singulare che conduce a una sconsacrazione dell’auctoritas in quanto trasforma quest’ultima in semplice dispositivo tecnico: negandone, così, la funzione di strumento taumaturgico e di equivalente generale. Rivendicano in tal modo la loro soggettività eterogenea, momento dipolare “singolare-plurale”, per la quale la legge risulta legittima solo quando rispetta e si prende cura dell’inevitabile presenza del dissidio: esclusivamente quando accetta i conflitti e la negoziazione tra posizioni distinte, differenti, antagoniste, persino antinomiche, cercando di incanalarli verso intese possibili, ma senza pretendere di poterne dirimere i contrasti insanabili. Detronizzano quindi il principio metagiuridico legato alla lex æterna e alla lex naturalis evidenziando come queste due non siano in grado di definire la mensura comune che addomestica la dismisura del “singolare plurale” perché anch’esse non consistono in altro che in pure e semplici scelte: non constano d’altro che della mera volontà di una decisione. Confutano infine la gerarchia che concede allo Stato il ruolo di fonte assoluta dell’autorità intesa come coscienza collettiva che sintetizza e salvaguarda gli interessi spirituali e materiali dei suoi membri.
9. Ivi, p. 568. 10. Ivi, p. 569.
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Vincolata dalla legge, soggetta alla legge, un’assemblea parlamentare può scrivere, approvare o cambiare leggi ma, dopo di ciò, deve sottomettervisi. Lo spiega con chiarezza già Cicerone: «colui che comanda […] non impone al popolo delle leggi alle quali egli poi non obbedisce [qui inpĕrat… nec leges imponit populo quibus ipse non pareat]»11. Un governo rimane privo di valida investitura e diventa usurpazione abusiva quando si attribuisce un potere superiore a quello consentito dalle normative in vigore, quando non tiene conto delle leggi, quando le interpreta contra rationem o quando, per preservare il suo esercizio, ricorre all’intimidazione, alla coercizione o alla restrizione dei diritti. L’istituzione della legge da parte della volontà – scrive Nancy – non è essa stessa designata che attraverso la sottomissione. Senza dubbio, il modo di questa sottomissione non è quello dell’asservimento sotto una costrizione estranea alla libertà.12
La legge non è un comando impartito dal potere a dei soggetti, ma ciò che mette in relazione i concittadini. Come spiega bene Hannah Arendt, «il significato originario della parola lex è “intima connessione” o relazione, ossia qualche cosa che collega due cose o due partners che le circostanze esterne hanno messo insieme»13. Pertanto, la legge non necessita «di una fonte d’autorità trascendente per la sua validità, ossia di un’origine che deve essere al di là e al di sopra del potere umano», ma solo una «moltitudine organizzata il cui potere è stato esercitato secondo le leggi e da esse limitato»14.
11. M.T. Cicerone, De re publica, cit., I, 34, 52, pp. 210-211. 12. J.-L. Nancy, Dies Irae, cit., p. 68. 13. H. Arendt, Sulla rivoluzione (1963), tr. it. di M. Magrini, Edizioni di Comunità, Milano 1983, p. 215. 14. Ivi, risp. pp. 217 e 187.
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Il populus e nessun altro che l’intero populus, senza eccezioni, cioè l’universitas concivium – «pluralità primordiale che com-pare», «simultaneità dell’essere-con, in cui non c’è alcun “in sé” che non sia immediatamente “con”»15 – costituisce il vero dominus superiorem non recognoscens in quanto detiene una sovranità esclusiva e non derivata. E incarna, dunque, la fonte ultima dell’autorità legale per il semplice fatto che quod omnes tangit, ab omnibus approbari debet, quello che tocca tutti, da tutti deve essere approvato: secondo la celebre formula di Bernardo da Pavia, giurista del XII secolo16. Ovviamente, se ciò che riguarda tutti deve essere approvato da qualsiasi altro attore, per estensione l’esercizio del potere politico è legittimo solo nei confini stabiliti: un potere politico a cui non sono poste limitazioni non è altro che tirannia o “impero”. Il governo è retto dalla legge che prescrive le forme e le procedure per la verifica dell’assenso popolare senza il quale lo stesso governo perde ogni legittimità. Questa prospettiva indica una nuova priorità alla molteplicità congiunta/disgiunta dell’esistenza come nodo politico imprescindibile per cogliere il quale e dargli voce occorre rinunciare al principio del negativo come motore del moto dialettico e fare ricorso al registro dipolare che consente di accettare, comprendere e abbracciare contraddizioni e paradossi. Il rischiare la fiducia nella responsabilità personale e nel fare assegnamento sull’iniziativa individuale diventa, dunque, il
15. J.-L. Nancy, Essere singolare plurale, cit., pp. 93, 94. 16. Questa formula è largamente ispirata al principio «quod omnes similiter tangit, ab omnibus comprobetur» iscritto in De auctoritate praestanda, 5.59.5, 2, in P. Krüger (a cura di), Codex Justinianus, in Corpus Iuris Civilis, vol. II, liber 5, disponibile online: https://droitromain.univ-grenoble-alpes. fr/Corpus/CJ5.htm#59.
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punto chiave dell’organizzazione sociale. Vale a dire che, incoraggiando una partecipazione attiva e interessata di ognuno e di tutti al dibattito pubblico, la comunicazione incessante resa possibile dai personal media favorisce la creazione di libere associazioni e di gruppi organizzati. E, in tali termini, offre la possibilità a tanti concittadini, che per lungo tempo sono stati praticamente esclusi dall’iniziativa politica, di strutturarsi in forma di affiliazioni specifiche che elaborano esse stesse i loro propri statuti: che introducono forme originali di autoregolamentazione, avviano modi inediti di correlazione tra autonomia e dipendenza, dirottano i termini classici dell’agire politico confutandone il complesso di norme di selezione dei quadri politici tradizionali e rifiutando le disposizioni con cui questi ultimi vorrebbero catturarli. Ciò che portano alla luce è, infatti, la presenza della moltitudine: il mondo osceno (fuori scena) dell’incalcolabile, non misurabile e non numerabile. Questa legge concittadina, che non ha il carattere di una codificazione, aggira le misure stabilite che non aspettano altro che di essere applicate. Si concretizza come il processo dinamico di una semplice tavola di corrispondenze che correla i fatti con le loro qualificazioni possibili. Attualizza un legame che privilegia l’innovazione sulla continuità e, piuttosto che inseguire le sue ragioni nell’anamnesi del passato, emerge come un programma al termine di uno sforzo collettivo di progettazione: debitamente circoscritto nel suo corso, nel suo punto di partenza e nella sua conclusione. Si tratta di un’enunciazione collettiva che, al di là di ogni differenza individuale, sociale e culturale, invita a creare alleanze non sulla base di un’origine comune, ma di obiettivi condivisi. Un programma che propone un’esperienza aperta della storia per la quale i simboli collettivi possano provenire indifferentemente dalle esperienze di tutte le tradizioni: anche da quelle mitiche, leggendarie, fantasmatiche o palesemente immaginarie. In modo tale che il passato si manifesti, secondo
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la formulazione benjaminiana, come carico di attualità: come scelta, ma anche come occasione. Come una memoria ininterrottamente cancellata e rinnovata all’interno della quale ciò che viene valorizzato è soprattutto la capacità di perseguire finalità liberamente scelte: di raggiungere obiettivi stabiliti in modo libero e sovrano. Non si tratta di privilegiare a priori il divenire sull’essere e sull’appartenere: di rivendicare a tutti i costi le prerogative della differenza, della varietà, dell’eterogeneità. Tuttavia, la preminenza dell’adveniens – ciò che emerge, sopraggiunge, irrompe – concorre a rendere più abitabile un mondo che ci sfida senza sosta, e ai cui enigmi non c’è soluzione certa, perché afferma l’alleanza possibile dell’attuale con le radici, del carattere proteiforme con la coerenza identitaria. Perché prospetta ci sia dissidio, stasis, fraternità, divergente accordo, dell’alterità con l’identità, della frattura con la convergenza: momento dipolare del singolare con il consueto, dell’emergente con il vigente. La legge custodisce nel suo corpus, in tal senso, una serie d’inevitabili antinomie. In primo luogo, fornisce descrizioni che non si riferiscono ad altro che a se stessa e alla propria configurazione: che non hanno bisogno di fare ricorso ad alcuna potenza iniziale arcaica, che le anticipi e le prefiguri, né devono necessariamente produrre un senso che risulti efficace anche all’esterno del sistema di obbligazioni nel quale sono confinate. Narrazioni che fanno riferimento a un moto dell’immaginazione che non tiene conto di nessun sapere preventivo, che non ha autore se non occasionale, che non è attivato in altro modo che collettivamente. Ma, in secondo luogo, contestualizzandone le azioni e stabilendone un significato univoco, finisce con il cristallizzare e sclerotizzare il paesaggio di principi e valori condiviso da una comunità data. Infatti, ancorandosi a una gerarchia di priorità che non possono non essere al contempo anche morali, si ri-
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trova a zavorrare la plasticità dei processi sociali: a porre delle limitazioni al corso delle azioni e al significato liberamente attribuitovi dagli attori sociali che le compiono. Così, la reciprocità del rapporto giuridico tra coloro che gestiscono temporaneamente gli affari pubblici e la popolazione a cui appartengono prende una piega particolare. Tale intersecazione prevede, in effetti, che la classe dirigente non detenga né un potere né una potenza, ma svolga piuttosto una funzione subordinata. Coloro che momentaneamente esercitano la qualità di amministratori sono sottoposti all’ufficio di cui sono responsabili perché non sono padroni, ma servitori del singolare-plurale di cui fanno parte e in cui risiede il vero dominus. Di conseguenza, attingendo dalla legge la sua potestas, il diritto di amministrare è subordinato alle sue disposizioni. Il che pone all’ordine del giorno una serie di questioni improcrastinabili relative a: (i) frequenza e modalità di verifica del pubblico consenso come istanza di critica e di delimitazione dell’azione governativa; (ii) incremento delle occasioni di partecipazione attiva alla vita politica dei gruppi di concittadini; (iii) assunzione risoluta e intransigente nell’affermazione dei diritti umani fondamentali. «Si tratta, certo, di una questione di diritti umani, ma, prima di tutto, del diritto degli esseri umani di tessere dei nodi di senso»17 in modo libero e senza prevaricazioni di nessun genere. La presente prospettiva ricusa dunque l’ideale della totalità a beneficio della pragmatica della singolarità-pluralità. Divenire concittadini vuol dire, in tal senso, mettersi in grado di giudicare, ma allo stesso tempo, accettare di essere giudicati. E, nel giudizio, non invocare un modello universalmente 17. J.-L. Nancy, Le sens du monde, cit., p. 179.
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giusto che si tratterebbe solo di applicare ma, di volta in volta, “comparire”: cioè, misurarsi con l’agire normativo inteso come il momento dipolare relativo al singolare-plurale. Si tratta di riconoscersi, come sostiene Jean-Luc Nancy, in quanto «responsabili dell’essere, di Dio, della legge, della morte, della nascita, dell’esistenza»18. Esercitandosi a «osare une “ra gione” (o una sragione), che si giudica tale per ciò ch’essa tenta o rischia. L’“esperienza possibile” è, in questo caso, l’esperienza stessa di questo rischio [oser une “raison” (ou une déraison), qui se juge ainsi par ce qu’elle tente ou risque. L’“expérience possible”, en ce cas, est l’expérience même de ce risque]»19. E, così facendo, esporsi alla libertà, alla volontà involontaria, alla volontà di chance, fin dentro il proprio stesso corpo inteso come res intensa, come spazio-temporalizzazione tragica di dissidi insanabili, di conflitti mai risolvibili: «sono giudicato sulla misura del mondo che sperimento, di cui mi prendo il rischio, e non sulla misura di un mondo precostituito. Questo è il mio giudizio definitivo, ogni volta ad ogni tentativo [je suis jugé à la mesure du monde que je tente, dont je cours la chance, et non à la mesure d’un monde installé. C’est mon jugement dernier, à chaque tentative]»20. Tutto questo mette a nudo come l’agire normativo sia gravato di un onere che è ai limiti dell’insostenibile perché, nella sua più intima costituzione, si trova a dover mettere in correlazione una pluralità costitutiva di fattori inconciliabili. La facoltà di giudicare, infatti, governa: (i) il passato, perché, decidendo a proposito delle conseguenze che ne risultano, ne fissa il significato in ultima istanza;
18. J.-L. Nancy, Répondre de l’existence, cit., p. 36. 19. J.-L. Nancy, Dies Irae, cit. p. 51. 20. Ibidem.
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(ii) il futuro, su cui poggia il peso delle attribuzioni di responsabilità derivanti dalle interpretazioni formulate e dai verdetti emessi di conseguenza. Ma dove la responsabilità della legge si attua in tutto il suo vigore è (iii) il presente che, fintantoché il giudizio non è stato emesso, viene squarciato da una breccia cronologica. Fino alla sentenza finale, infatti, i soggetti rimangono incapaci di uscirne e per loro il tempo resta come sospeso e pietrificato senza poter più andare né avanti né indietro. Tutti coloro che dipendono in qualche modo dalla sua pronuncia sostano sospesi come in un limbo da cui è impossibile fuoriuscire. Per questi ultimi, e ancora più drammaticamente nel caso dei minori, si apre un deserto temporale nel “cuore segreto dell’orologio”, come direbbe Elias Canetti. Il tempo trascorre senza passare realmente: paralizzato, in bilico sui margini di una decisione che stabilisca per loro da quale lato situarsi. Corpi e attori, sopravvissuti a se stessi e agli eventi, garantiscono, giudicano, arbitrano: sono inquisiti, soppesati, scandagliati. Danno vita a narrazioni in cui cercano di comporre un filo logico e di sciogliere dei nodi contraddittori associando l’asserzione della presenza di qualcosa con la descrizione di un contesto significativo. Tra documento e monumento, traccia e memoria, autopsia e archeologia, l’agire normativo mette in gioco le relazioni complesse tra chi riferisce, chi ascolta, chi riporta una storia: tra, da una parte, i reperti che attestano; e, d’altra parte, i referti che se ne traggono. I valori di fattualità e controfattualità a cui le testimonianze danno luogo appaiono vincolati al gioco verbale e visuale di cui queste ultime sono il frutto e al registro testuale e figurale in cui vengono iscritte. Chi depone davanti a un collegio giudicante è lui stesso raccontato in ciò che racconta, in ciò che
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intende, in ciò che omette, in ciò che tace, in ciò che gli altri hanno rievocato direttamente e indirettamente: chiaro, convinto, preciso, oppure, incerto, vago, confuso, esitante. La difficile ricerca di una descrizione accettabile, per tutti e per ciascuno, passa per una pragmatica narrativa per la quale sono presentati solo alcuni degli innumerevoli resoconti possibili di quanto accaduto e in virtù della quale, alla conclusione del processo, solo poche storie finiscono per prevalere: racconti compositi, agglutinazione coerente-incoerente di frammenti spezzettati, aggiustati, riadattati, incollati insieme, che non danno né possono mai dare vita a una totalità compiuta.
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Intermezzo
Fraternità irremeabile di Jean-Luc Nancy
Per Michel Surya, non perché questa parola gli appartenga, ma per ricondurla a qualche parola che lo riguarda.1
1 La Repubblica francese è forse l’unico Stato del mondo ad avere un emblema in cui figura la parola “fraternità”. Ad ogni modo, che sia davvero l’unico o meno, va rilevato che la fama di cui questo emblema ha goduto è dovuta al suo intimo collegamento con la Rivoluzione del 1789. E, dunque, al fatto che – dopo le rivoluzioni inglesi e americane contrassegnate da un carattere più strettamente nazionale – quest’ultima non abbia smesso di essere considerata il momento inaugurale della democrazia così come si è prospettata all’insieme di tutte le nazioni e di tutti i popoli. È in questo quadro che va preso in esame tale emblema, il quale, per essere precisi, non è stato quello della Repubblica sin dall’inizio, ma solamente a partire dal 1793; e non è entrato pienamente in vigore in tutta la sua incandescenza – se così si può dire – fino alla seconda Repubblica, nel 1. La parola che non fa parte del vocabolario di Michel Surya è “fraternità”, quella che invece gli appartiene è “irremeabile”. Riguardo alla nozione di “irremeabile” cfr. Fraternità politica, ultimo capitolo del presente volume [N.d.T.].
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1848. I fatti storici sono complessi e, su questo punto, non ben verificati, ma è certo che l’emblema con tre termini – quindi, da una parte, con l’inclusione della Fraternità accanto agli altri due e, d’altra parte, senza il complemento “o la morte”, impiegato nel 1793 – ha preso del tempo per essere pienamente adottato. Anche dopo questa scelta, ci sono stati ancora dei gruppi o delle persone che hanno proposto altri emblemi, in particolare all’interno dei movimenti operai. Infatti, per esempio, la Camera del Lavoro della città di Saint-Étienne, inaugurata nel 1888, porta l’emblema: “Libertà Uguaglianza Solidarietà Giustizia”. In una certa misura, il termine “fraternità” è stato chiaramente collegato a un registro che si può definire romantico in senso lato, e a un modo di pensare che oltrepassa il rigido quadro delle leggi e delle istituzioni dello Stato, per fare appello più al sentimento e all’idea di “comunità” che ai principi dell’organizzazione sociale. Questo spiega che si voglia distinguerlo da parole come “solidarietà” e “giustizia” che possono essere qualificate più specificamente come lo sviluppo delle implicazioni dei primi due termini, in particolare della “uguaglianza”. Oggi, la fraternità non è sempre presa in considerazione in modo benevolo – almeno non in Francia – in quanto sembra possedere un significato troppo sentimentale e, per di più, familista, in un’epoca in cui la famiglia non è più un punto di riferimento. Quando Maurice Blanchot ha usato talvolta la parola in un contesto in cui in cui si trattava per lui di mettere l’accento sull’aspetto affettivo della “comunità”, si è subito attirato una sorta di biasimo (rivolto anche a me) da parte di Jacques Derrida, che ha ripetutamente testimoniato la sua diffidenza verso un termine al contempo familiare, maschile, sentimentale e a risonanza cristiana. Del resto, nessuno, a parte i due autori appena citati, – sembra averne rivendicato l’espressione nel pensiero politico degli ultimi quarant’anni. Al contrario, l’uso di questo termine
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da parte di un candidato alle elezioni presidenziali francesi di qualche anno fa (Ségolène Royal), e la sua ripresa da parte dell’altro candidato che è stato poi eletto (Nicolas Sarkozy) ha risvegliato tutta la diffidenza possibile nei confronti di una parola ritenuta più morale che politica, piuttosto sdolcinata che non rispettabile. A monte di tutte le analisi è forse possibile trovare quest’unica argomentazione – che, per inciso, può essere diretta sia contro l’uso della parola sia, da parte di alcuni, in suo favore: mentre la libertà e l’uguaglianza enunciano dei diritti, la fraternità non è un diritto. Designa forse, allora, un dovere? Mettendo in gioco qualcosa che spesso non viene formulato, la nozione di fraternità tende insistentemente a cedere il passo all’espressione di un auspicio, di un’aspirazione, vale a dire a una realtà poco consistente se non, semplicemente, utopica e ingannevole. D’altronde, è senza dubbio possibile dire che tutte le controversie ben note relative all’idea di “utopia” sono implicite in quelle concernenti la “fraternità”. E vi si può riconoscere un’impronta durevole della tradizione anti-utopista proveniente da Marx, il quale riteneva che questa parola mascherasse un’illusione.
2 Per fissare su nuove basi la questione della fraternità dobbiamo cominciare col porre due postulati: (i) non solo non è ovvio che sia opportuno difendere questa nozione, ma, inoltre, si deve accordare un certo credito ai pregiudizi che suscita in virtù del suo carattere familista, cristiano e sentimentale; (ii) se, tuttavia, vi sono delle buone ragioni per fare assegnamento su tale parola, ciò deve avvenire con l’ausilio di un
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rinnovato esame del suo significato nonché, innanzitutto e preliminarmente, del significato di cos’è una famiglia. Il primo postulato raccomanda semplicemente un certo grado di cautela. Non è consigliabile adottare questa nozione senza aver precedentemente vagliato la possibilità di ritrovarsi prigionieri dei predicati “familista, cristiano, sentimentale”. Per quanto concerne la famiglia, il secondo postulato ci conduce a interrogarci su di essa. A proposito del cristianesimo e del sentimento – al contempo distinti e senza dubbio anche intrecciati l’uno con l’altro – è appropriato dire questo: questi termini designano delle realtà ben note, nel primo caso la religione dominante dell’Occidente non musulmano; nel secondo, la sfera incerta, persino conturbante e pericolosa, di ciò che si sottrae al controllo della ragione. Non è assolutamente certo che, infatti, malgrado non sia completamente impossibile attribuirli a ognuna delle rappresentazioni in questione, tali caratteri non abbiano bisogno di un esame più approfondito. Potrebbe dimostrarsi in effetti che essi stessi risultino determinati da certe abitudini di pensiero sedimentatesi nel corso della nostra storia. Ci torneremo sopra, quindi, dopo aver fatto il punto sulla nozione di “famiglia”. In primo luogo, va rilevato che la famiglia patriarcale, dalla quale deriva il sospetto che la fraternità coincida con il sessismo maschile, non è l’unica struttura possibile per quello che viene chiamato “famiglia” e che si può definire come il gruppo sociale minimo per quanto attiene la generazione e ciò che ne consegue (educazione dei figli fino all’acquisizione della piena autonomia). E, in secondo luogo, si deve anche tenere conto che forse è stato proprio il riflusso o il riflesso sulla famiglia di modelli
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socio-politici risolutamente maschili e paterni che ci ha abituato a mettere in primo piano il padre e la trasmissione da e verso i maschi. Ma, ad ogni modo, c’è un altro aspetto che è più importante: i “fratelli” non sono tali in quanto, prima di tutto, riuniti dallo stesso sangue. Il “sangue” non è nient’altro che il simbolo di una filiazione mediante trasmissione del seme (di un’identità o conformità naturale). E la filiazione stessa è rappresentata secondo uno schema arcaico per il quale la madre è esonerata da ogni azione propriamente generativa (ma interviene come un semplice incubatore)2. Il “sangue” è dunque ben lungi dall’essere sufficiente per pensare cosa sono la generazione e la filiazione. I figli e le figlie non sono tanto quelli uniti dal sangue – pater incertus recita il diritto romano – quanto piuttosto quelli uniti dalla comunità dell’allattamento materno – mater certissima. Per effettivo o simbolico che sia, l’allattamento non consiste nella trasmissione interna, continua e immediata di un principio vitale, ma nel dono esterno, discontinuo e mediato, di una sostanza nutritiva. L’alimentazione è un processo d’incorporazione di sostanze estranee che il corpo metabolizza come sostanza propria. Quello con la madre è un legame paradossale in cui l’incorporazione (certissima) si oppone all’identificazio2. Così recita il dio Apollo che, nella tragedia di Eschilo Eumenidi, deve difendere il matricida Oreste: «colei che viene detta madre non è generatrice del figlio [οὔκ ἔστι μήτηρ ἡ κεκλημένου τέκνου τοκεύς]: nutre soltanto il germe appena seminato in lei [τροφὸς δὲ κύματος νεοσπόρου]. Generatore è colui che la prende [τίκτει δ᾽ ὁ ϑρῴσκων], ed essa, come ospite ad ospite [ἡ δ᾽ ἅπερ ξένῳ ξένη], salva il germoglio [ἔσωσεν ἔρνος], a meno che un dio non lo annienti prima [οἷσι μὴ βλάψῃ ϑεός]» (Eschilo, Eumenidi, cit., vv. 657-661, p. 435; cfr. anche E. Cantarella, Gli inganni di Pandora. L’ori gine delle discriminazioni di genere nella Grecia antica, Feltrinelli, Milano 2019) [N.d.T.].
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ne (il bambino non si identifica, assorbe la sostanza materna nella propria sostanza autonoma). Quello con il padre è, invece, un legame d’identificazione: non con un corpo o una sostanza (incertus), ma con una figura o un segno. È da qui che occorre ripartire per riconsiderare le nozioni di famiglia e di fraternità. I fratelli – e le sorelle, ci torneremo – sono prima di tutto dei soggetti autonomi la cui coesistenza non è fondata su nient’altro che su di un compagnonaggio nutritivo (compagno è letteralmente colui con il quale si condivide il pane) e su di una mancanza di giustificazione riguardo la loro comunità di esistenza. La figura o il segno che identificano il padre, ciò che viene spesso chiamato “la legge del padre”, e che sarebbe meglio chiamare “il padre come legge”, non sono dati ab origine. È vero tutto il contrario: la figura è una cornice vuota o uno schizzo, il segno comporta un significato fugace, indeterminato. È certo possibile che il padre funga da figura piena, così come è possibile che la madre non nutra per niente, o lo faccia inadeguatamente (tutto ciò va inteso evidentemente su di un piano simbolico; e, inoltre, “padre” e “madre” non sono sistematicamente i procreatori naturali, né i genitori legali). Questa non è la norma, però: la norma, se si può usare questa parola, sarebbe piuttosto che nulla assicura il “comune” dei fratelli al di là del nutrimento. La transizione verso l’indipendenza, resa possibile dal nutrimento, indica anche la constatazione di trovarsi insieme per caso, in una comunità senza origine né senso. (Per dirla in termini freudiani: l’“uccisione del padre” precede il “padre” che si erge soltanto come figura della propria assenza).
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3 In questi termini, in quanto associazione senza necessità sostanziale (ontologica, originaria), la “fratellanza” è un modello per la “società”. Nei confronti della quale, quindi, si pone anche come modello di un “bisogna adattarsi a stare insieme” invece che di un “essere insieme”. Trovare o creare un equivalente o un sostituto del nutrimento materno è un compito al contempo superiore e inferiore rispetto a un’azione – o meglio a un desiderio – sociale: ciò che è in gioco è l’“essere” o il “senso” (che forse passano attraverso l’arte, la religione, l’amore, la celebrazione, il pensiero, ma non attraverso la sfera socio-politica). Ma dare un contenuto alla figura o al segno tramite i quali viene indicata l’istanza relativa a “la legge” è un’impresa inevitabile e urgente, poiché la loro primordiale mancanza di contenuto ci minaccia. Non è mia intenzione proseguire qui con le analisi che dovrebbero essere tratte da tali premesse e che potrebbero prendere molteplici direzioni. Quello che m’interessa è unicamente di mettere in risalto questo: la “fraternità” non reca con sé ipso facto i valori del maschile e del paterno come li intendiamo d’ordinario. La fraternità parla di coesistenza senza necessità di “natura” né di “destino” né di “fondazione” né di “origine”. Questa d’altronde è la ragione per la quale il motivo dei fratelli rivali svolge un ruolo così rilevante in ogni sorta di mitologia. Questa tematica, che è solitamente intesa come una specie di mostruosità morale, racconta la semplice verità di una relazione che è di per sé erratica, fuorviante, persino insensata. Allo stesso tempo, la fraternità porta con sé anche l’ombra o l’oscura memoria, e il desiderio, del nutrimento comune. Riguardo a ciò si tratta probabilmente piuttosto di “sorellanza”, e a questo proposito si deve ammettere che il fraterno privilegia
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una certa unilateralità maschile. La sorellanza costituirebbe la fraternità al di là o al di qua della legge, nella sfera o nelle sfere del nutrimento, vale a dire del “mangiare/rigettare” che sono al contempo anche le sfere dell’affettività. Fraternità e sorellanza s’intersecano, s’intrecciano persino: proprio come, più in generale, fanno maschile e femminile. I portatori di questi ruoli non sono mai strettamente identici alle singolarità complesse tanto degli individui quanto dei gruppi: nessuno è semplicemente, integralmente, “uomo” o “donna”, così come una fratellanza [fratrie] non è necessariamente una confraternita [confrérie] virile. Del resto, forse, questi due termini potrebbero aiutare a distinguere nella semantica dei “fratelli” due declinazioni distinte. La confraternita raccoglie soggetti tendenzialmente identici perché identificati da una funzione, un’occupazione, un ruolo. La fratellanza, invece, attiene alla famiglia che, come detto precedentemente, descrive solo la concomitanza di un caso (incontro) e di un abbraccio (desiderio) – dato per inteso che, da una parte, l’incontro è quasi sempre soggetto a determinati presupposti (sociali, geografici, ecc.) che lo precedono; e che, d’altra parte, il desiderio può anche essere stato sostituito in anticipo, in tutto o in parte, da ciò che lo precorre. L’idea di “matrimonio”, dal versante che fa riferimento alla legge (vale a dire non inerente alla spiritualità o a una mistica delle “nozze”), riassume bene la situazione: si tratta di padroneggiare il caso oppure – e allo stesso tempo – di legittimare i presupposti. Si potrebbe dire che è qui che si situano il vero luogo e l’effettivo atto di nascita del diritto. A questo proposito, sembra che nulla sussista del desiderio e che tutto sia sussunto nella configurazione socio-politica. Questo è vero solo indicativamente. Giacché non bisogna dimenticare che il diritto – la legge, lo Stato – non è fondato che sul ritrarsi di ogni principio fondatore. La figura o il segno del
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padre e, di conseguenza, anche la fraternità, offrono un vuoto che bisogna riempire in un modo o nell’altro. I fratelli sono, in origine, degli orfani di padre che niente consente d’identificare come associati per qualcosa – se non dall’assunzione del nutrimento materno, che li conduce all’emancipazione. Non appena il vuoto paterno – il “vuoto di potere”, come viene chiamato nel registro socio-politico – si manifesta come tale, si deve affrontare questa verità palese che nessuna mitologia fondatrice può più nascondere (funzione esercitata sempre imperfettamente, qualunque sia la mitologia). Questo è quanto toccato in sorte alla democrazia: dover farsi carico di tale vuoto senza poter fare appello a una mitologia. L’ambito, il registro, materno o femminile, non forniscono una mitologia. Almeno non per l’ordine della legge. E nemmeno per supplire al padre assente. Il desiderio non si lascia captare da alcuna rappresentazione. Agisce, gode, sprofonda o si getta nello spessore sensibile del nutrimento: la fame, la sazietà, di nuovo la fame – senza fine. O, ancora: la vita, la morte. E, anche: le arti, i pensieri, gli amori, gli scuotimenti dell’essere; nonché, se proprio li si vuole nominare, gli dèi. Questa è la lezione incessante che va da Antigone a Shahrazàd, e all’Ester de La lettera scarlatta, poi a Vera Figner, passando per Le Baccanti di Euripide3. 3. Shahrazàd oppone alla legge del Sultano la sua immaginazione, il suo spirito e il suo cuore; agisce anche con il sostegno di sua sorella Dunyazàd (cfr. Le mille e una notte, prima versione integrale dall’arabo a cura di F. Gabrieli, Einaudi, Torino 1949). L’Ester di Nathaniel Hawthorne (La lettera scarlatta [1850], tr. it. di E. Terrinoni, Feltrinelli, Milano 2014) si sottrae alla legge sociale della coniugalità, guadagnandosi la gogna e la “lettera scarlatta”. Gli anarchici russi, in particolare le donne (Vera Zassulitch, Olga Lubatovitch, ecc.), inizialmente concepivano la loro azione meno come politica che come umana – o, quindi, come “metafisica” – nel senso più ampio (il che è coerente con l’idea stessa di “anarchismo”). Vera Figner scrive: «la dottrina che
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Non è dunque sorprendente che la democrazia aspiri a gestire in sé e per sé – per quanto in essa eccede lo stretto registro della legge – una dimensione che regolamenti l’accesso al desiderio o all’affettività: a ciò a cui, in modo esitante, faccio appello qui per designare quel fuori della legge e del potere – vacante o meno – nel quale l’essere-insieme oltrepassa le sue proprie socialità e governamentalità. Se “libertà” e “uguaglianza” rappresentano – a condizione di essere perennemente ripensate – le condizioni minime di un’associazione civile priva di un fondamento determinato; la “fraternità”, a sua volta, può indicare l’orizzonte di questo fuori oltre la sfera socio-politica. A rigor di termini, non si tratta nemmeno di un orizzonte: in causa è piuttosto una breccia aperta in ogni forma di orizzonte e di delimitazione. Questa breccia è quella del senso: il senso in quanto rinvia costantemente altrove, verso un altrove, e non si annoda in alcun significato finale. Ma, per restare fedeli a quanto precede, devo riconoscere che questa fraternità dovrebbe essere intesa come sorellanza, oppure ancora come l’originaria mancanza di legame tra fratelli, nonché il riferimento che ciò implica:
promette l’uguaglianza, la fraternità e la felicità degli uomini mi aveva fatto perdere la testa» (V. Figner, Mémoires d’une révolutionnaire [1929], tr. fr. di V. Serge, Gallimard, Paris 2017, p. 285). Ne Le Baccanti, all’annuncio del ritorno di Dioniso, le donne di Tebe lasciano la città e si rifugiano nella foresta selvaggia. Va da sé che l’elenco potrebbe essere indefinitamente esteso... da Sarah che ride di Dio a Simone Weil, che può scrivere: «tutti i cambiamenti compiuti da tre secoli conducono gli uomini a una situazione nella quale non potrebbe assolutamente esistere altra fonte d’obbedienza nel mondo intero eccetto l’autorità dello Stato» (S. Weil, Le origini dell’hitlerismo [1939], tr. it. a cura di R. Revello, Meltemi, Milano 2017, p. 66). O, ancora, a quelle sorelle, figlie del generale Hammerstein, la cui storia è stata raccontata molto bene da Hans Magnus Enzensberger (Hammerstein o dell’ostinazione. Una storia tedesca [2008], tr. it. di V. Tortelli, Einaudi, Torino 2008; cfr. anche Politica e crimine. Nove saggi, tr. it. di D. Zuffellato, Bollati Boringheri, Torino 2008).
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(i) da un lato, alla legge come finzione di un legame (e come parola in cui s’iscrive questa finzione); (ii) d’altro lato, alla realtà della trasmissione e della condivisione del nutrimento: vale a dire, dell’affettività che ingurgita e rigurgita (impulso/espulsione, impressione/espulsione) la sostanza del mondo. La condivisione dell’im/espulsione, la comunicazione dell’affettività: si tratta, ancora una volta, del senso (sensibile, sensuale, sentimentale). Forse, allora, non si dovrebbe dire “fraternità” e, di conseguenza, nemmeno “sorellanza” – poiché servirsi di questo rovesciamento troppo semplice ridurrebbe le sorelle a controparte simmetrica dei fratelli. Ora, non ci sono affatto due sponde simmetriche: se i fratelli sono nettamente distinti dalle sorelle, le sorelle, da parte loro, possono fraternizzare con i fratelli su entrambi i modi del fraterno e del sororale. Non c’è simmetria tra i sessi, o ce n’è solo a condizione di considerare le cose esclusivamente dal punto di vista dei fratelli (secondo l’uguaglianza politica, sociale, ecc.). “Fraternità” è certamente un termine insufficiente, anche se non necessariamente pericoloso. Trasmette tuttavia un segnale: avverte che l’ordine sociale, giuridico e politico, non può farsi carico del registro del senso. Può solo governarne il perimetro circostante. Ma è assolutamente essenziale che lo faccia e che, per farlo, sia in grado lui stesso d’indicare come sia al di là della legge che emerge il senso.
4 Che il senso vada oltre la legge non significa che la sconfessi o che la denunci. Esso, piuttosto, la convalida in quanto, senza
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la sua eccedenza su di lei, non potrebbe produrre significato. Al contrario della legge che non fa eccezioni per nessuno, produrre un senso, in effetti, non ha luogo che tra molti. La legge sospende il senso: solo questa sospensione fa presentire l’inestinguibile incendio del senso. Ma l’instaurazione della legge, che non cessa di riverberarsi ovunque si esercita (in tutti i codici e in tutti i tribunali di ogni specie, civili o religiosi, tecnici o fantasmatici), comporta, come aspetto essenziale, l’indicazione della sua propria auto-limitazione. Il Padre deve essere abolito, e con lui la sua dominazione feroce, e la Madre deve essere interamente disciolta nel latte nutrizionale. I fratelli e le sorelle – separati e congiunti dalla condivisione stessa, dall’infinita scomposizione del desiderio, formano la dispersione casuale delle possibilità di senso. Queste ultime sono avvertite come eccessive in quanto costituiscono, sempre e comunque, possibilità dell’impossibile. La legge vi immette la necessità di un criterio di misura uguale per tutti. Sotto questo aspetto, la fraternità non è altro che il nome attivo dell’uguaglianza. (Il che non esclude che possa essere aggressiva, perfino omicida: l’attrito delle esistenze può condurre a tutti gli estremi, percorrendo tutte le figure possibili su cui si aprono le relazioni incommensurabili tra i sessi). La libertà che, d’altra parte, non appartiene a nessuno, è la comune dismisura del senso alla quale tutti sono esposti. Non è un potere. È in lei che fratelli e sorelle restano per sempre dei figli: allontanandosi indefinitamente da ogni provenienza e da ogni appartenenza, rivolti verso l’impossibile. È così ch’essi possono riconoscere quanto condividono in modo assolutamente uguale – vale a dire, nulla: un NULLA scritto in lettere maiuscole da Georges Bataille per attestarne la sovranità. Nulla o l’impossibile, ciò che non è fatto per essere posseduto e la cui condivisione è pertanto al contempo perfetta e
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inoperante4. La condivisione degli animali parlanti (ma forse altrettanto bene quella di tutti gli animali) non è redistribuzione di parti, è attribuzione di nulla: l’impossibile, l’irremeabile, il semplice assoluto al quale ogni esistenza è votata. È per questo che la verità del comune non può mantenersi in nessun tipo di politica né di socialità né di familismo: non pertiene che a un’anarchia essenziale. Da un capo all’altro, dall’infanzia fino al termine dell’esistenza, fratelli e sorelle testimoniano questa anarchia: gli uni e le altre, i fratellisorelle non smettono, cioè, di rimuovere, di destituire o di smentire ogni provenienza, ogni appartenenza e ogni destinazione – tutto ciò da cui sono, precisamente e fantasmaticamente, supposti essere investiti. Intervistato da Mathilde Girard in Défense d’écrire (Les Belles Lettres, Paris 2018), Michel Surya ha saputo trarre la parola “irremeabile” da un oblio profondo. Questo termine è per lui, a giusto titolo, la parola anti-dialettica per eccellenza, che designa l’impossibilità del ritorno, della rimediazione o del ricorso. Un supplemento del 1825 al Dizionario dell’Accademia dava come esempio: «l’inferno è irremeabile». Il dizionario della lingua francese Littré specifica la sua provenienza dal latino meare, passare, scorrere. Irremeabile è ciò che non dispone di alcun meato attraverso il quale tornare indietro. Questa è esattamente la condizione dei fratelli e delle sorelle, proprio come quella della parola che non appare oggi nel dizionario Robert, né in quello dell’Accademia, né in quello del Centre National Ressources Textuelles Lexicales, né nel Trésor de la Langue Française.
4. G. Bataille, La sovranità (1953-1954), tr. it. di L. Gabellone, il Mulino, Bologna 1990, p. 75 [N.d.T.].
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Ci sono parole all’abbandono come dei sensi all’abbandono. Così la parola “fraternità”, il cui utilizzo è diventato molto delicato nel linguaggio filosofico, teorico o politico, o anche semplicemente sociologico. Ma il senso in stato di abbandono costituisce sempre l’orizzonte lontano e inevitabile di qualsiasi tipo di significato poiché se «non vi è senso per uno solo» (si tratta ancora di Bataille), c’è sempre comunque qualcuna e qualcuno per accogliere l’abbandono stesso5.
5. «La mia condotta verso gli amici è motivata: ogni essere, credo, è incapace da solo di arrivare a capo dell’essere. Se tenta, annega in un “particolare” che ha senso solo per lui. Ora, non vi è senso per uno solo: l’essere solo respingerebbe da sé il “particolare” se lo vedesse come tale (se voglio che la mia vita abbia un senso solo per me, occorre che ne abbia per gli altri; nessuno oserebbe dare un senso che soltanto lui scorge, a cui la vita intera sfugge, salvo che a lui)» (G. Bataille, L’esperienza interiore [1943], tr. it. di C. Morena, postfaz. di E. Ghezzi, Dedalo, Bari 2002, p. 79) [N.d.T.].
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18 Fraternità politica
a) Indeprensus et inremeabilis error Nella versione del testo Fraternité pubblicata nel presente volume, Jean-Luc Nancy vi ha aggiunto il riferimento alla nozione di “irremeabile”, riprendendolo dall’idea di “letteratura irremeabile” coniata da Michel Surya, in segno di stima e di amicizia verso questo scrittore francese fondatore e direttore della rivista «Lignes» e della casa editrice omonima. A proposito della rilevanza che attribuisce a tale parola, Michel Surya si è espresso in questi termini: non si scrive di essere morti, o che lo si è stati. Si scrive per non esserlo – ancora. Si scrive contro la morte. Soprattutto contro. Scrivere appartiene al ritorno, che si tratta di eternizzare (eternizzazione che certo è, al contempo, impossibile). Tardi ho scoperto che una parola rara designava in modo molto preciso questo stato o questa situazione, l’irremeabile; cioè: «da dove non si può ritornare». Stato, situazione di chi ha conosciuto da dove non si torna indietro e da dove, tuttavia, ritorna. Ritorno senza tornare. Irremeabile, la parola stessa non ritorna, è dimenticata, come se dicesse troppo bene quello che dice: uno strato liminare, una terra intermediaria, ciò che Broch indicava come condizione dell’addio, ma che, allo stesso tempo, è quella del porgere i saluti.
212 Quanto ho chiamato letteratura dell’irremeabile – da dove, da cui, non si ritorna – è, in tal senso, un’aporia. L’irremeabile è la «contraddizione in termini» di tutta la letteratura. Una letteratura, tuttavia, vi si è formata, allo stretto, come tra la parete e il vuoto.1
Il riferimento a Hermann Broch concerne i versi de Le storie dopo. Voci, 1923, composizione poetica contenuta ne Gli incolpevoli. Romanzo in undici racconti. Questo commento lirico contiene l’invito rivolto dal poeta a un «fratello straniero, che nella mia solitudine / non ancora conosco»2. A cui domanda: «vogliamo – è tempo – metterci / in via per salire il monte Pisgah»3 dall’alto del quale guardare la «terra promessa dell’Addio, presagio di più fondi strati! [Verheißenes Land des Abschieds, oh Ahnung tiefrer Schichten!]»4.
1. M. Surya - M. Girard, Défense d’écrire. Entretiens, Les Belles Lettres, Paris 2008, p. 34: «On n’écrit pas qu’on est mort, ou qu’on l’a été. On écrit pour ne pas l’être – encore. On écrit contre la mort. Tout contre. Écrire appartient au retour, qu’il s’agit d’éterniser (éternisation en même temps bien sûr impossible). J’ai découvert plus tard qu’un mot de la langue française, un mot rare comme disent les dictionnaires, désignait très précisément cet état ou cette situation: l’irréméable; soit: ‘d’où l’on ne peut revenir’. État, situation de qui a connu d’où l’on ne revient pas et d’où il revient pourtant. Retour sans revenir. Irréméable, le mot lui-même ne revient pas, il est oublié, comme s’il disait trop bien ce qu’il dit: un entre-deux, un état intermédiaire, que Broch disait être celui de l’adieu, mais qui est en même temps celui de la salutation. Ce que j’ai appelé littérature de l’irréméable – d’où, ou ce dont, l’on ne revient pas – en ce sens est une aporie. L’irréméable est la ‘contradiction dans les termes’ de toute littérature. Une littérature cependant s’y est formée, à l’étroit, comme entre la paroi et le vide». 2. H. Broch, Le storie dopo. Voci, 1923, in Id., Gli incolpevoli. Romanzo in undici racconti (1950), tr. it. di G. Gozzini Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1981, p. 227. 3. Ibidem. 4. Ivi, p. 219.
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Sull’importanza della parola “irremeabile” nel rapporto tra linguaggio e tempo, nonché riguardo al detto che ne riassume concisamente il significato, volat verbum irrevocabile, volat tempus inremeabile (vola parola che non si può revocare, vola tempo che non può ritornare), va segnalato quanto scritto da Francesco Petrarca nella lettera del 9 dicembre 1343 al cardinale Giovanni Colonna, in cui mostra tutta la sua cultura antiquaria e il suo amore per il mondo classico, molto precoci e anticipatori per la sua epoca, con la descrizione commossa delle rovine della cittadina di Baia; e dove racconta: «ho visto la terra e la casa della Sibilla, quell’orrida spelonca, che per gli stolti è irremeabile e per i saggi inaccessibile [vidi Sibille patriam ac domum, et horrificum illud specus, stultis irremeabile, doctioribus inaccessum]»5. Riguardo a questa parola riportiamo anche la nota scritta il 20 agosto 1821 da Giacomo Leopardi: «le parole irrevocabile, irremeabile e altre tali produrranno sempre una sensazione piacevole (se l’uomo non vi si avvezza troppo), perché destano un’idea senza limiti, e non possibile a concepirsi interamente. E però saranno sempre poeticissime: e di queste tali parole sa far uso, e giovarsi con grandissimo effetto, il vero poeta»6. Il termine è già desueto al tempo di Leopardi, ma anche in quello di Petrarca: entrambi fanno riferimento a esempi più antichi e in particolare all’Eneide. Più esattamente al passo in cui Virgilio racconta come, per scendere nelle profondità dell’Aver no e incontrare il padre Anchise, una volta addormentato Cerbero, con passo veloce Enea si allontana dalle rive del fiume
5. F. Petrarca, Familiarium rerum libri, tr. it. di E. Bianchi, in F. Petrarca, Prose, a cura di G. Martellotti et al., Ricciardi, Milano-Napoli 1955, pp. 864-865. 6. G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Scelta, 4 voll., a cura di S. Solmi e R. Solmi, Einaudi, Torino 1977, vol. II, p. 329.
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che non si può attraversare due volte: «occupat Aeneas aditum custode sepulto / evaditque celer ripam inremeabilis undae»7. E, d’altronde, lo stesso aggettivo inremeabilis non rappresenta altro che, come scrive Giacomo Devoto, la trasposizione latina di «un attributo con cui gli antichi Greci solevano definire l’Ἀΐδες [Háidēs] άνόστητος άνέκβατος [ánostetos ánékbatos]»8. Il regno dei morti è, infatti, άνόστητος perché da lì non si può più ritornare in quanto pur dotato di porta d’ingresso, è tuttavia άνέκβατος, cioè, non possiede alcuna uscita e non offre pertanto salvezza possibile. Sul ciglio del quale, dunque, «lasciate ogne speranza, o voi ch’ intrate» (Inferno, III, v. 9), voi che ne varcate l’entrata, perché si tratta di un limen inremeabile. Come sa bene l’erudito Petrarca, che utilizza il lemma per indicare l’horrificum specus della Sibilla inaccessibile ai prudenti perché chi vi entra non ne fa più ritorno, irremeabile indica dunque la soglia del congedo: momento dipolare tra la condizione del rĕvertĕre, nella quale è sempre possibile tornare indietro, rivenire sui propri passi; e quella dell’irrediturus, della vita umana irredimibile, sprofondata senza requie nella sfera dell’«indeprensus et inremeabilis error [incomprensibile e irremeabile errare]»9. E designa infine anche che, affrancata «questa terra dalla catena del suo sole», ritrovatici, «via da tutti i soli», privi di sopra e di sotto, di alto e di basso, stiamo ora «incessantemente precipitando», «all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati», «errando come attraverso un infinito nulla»10.
7. Publio Virgilio Marone, Eneide, 2 voll., tr. it., con testo lat. a fronte, di C. Vivaldi, intr. di F. Della Corte, note di M. Rubino, Garzanti, Milano 20128, vol. I, VI, vv. 424-425, pp. 274-275. 8. G. Devoto, Storia della lingua di Roma (1940), Cappelli, Bologna 1983, p. 231. 9. Publio Virgilio Marone, Eneide, cit., V, v. 591, pp. 228-229. 10. F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., III, § 125, p. 129.
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In altri termini, parafrasando Jean-François Lyotard, possiamo dire che Nancy considera la fraternità irremeabile perché quest’ultima «reclama l’erranza, vale a dire, un complesso di consistenza e d’inconsistenza, la consistenza di mantenersi, ma sul bordo del vuoto che è l’inconsistenza»11.
b) Witz e ironia denunciano la subordinazione della libertà alla volontà Per spiegare la rilevanza della nozione di fraternità, inoltre, nella prefazione al presente volume, Jean-Luc Nancy fa appello ai moventi che presiedono alla nascita di un poeta nella descrizione che ne offre Stéphane Mallarmé e alle circostanze della procreazione di Tristram Shandy raccontate da Laurence Sterne. Ciò che con questi esempi intende mettere in evidenza è: (i) in primo luogo, la confluenza non scorporabile tra l’ordinamento sistematico di ogni composizione letteraria e quanto Mallarmé descrive come l’indeterminatezza originaria del concepimento di un poeta. Da una parte, come spiega lo stesso Mallarmé, «l’atto poetico», che «consiste nel vedere che una idea si fraziona all’improvviso in una molteplicità di motivi di uguale valore, e nel raggrupparli; essi rimano: per sigillo esteriore, la loro comune misura è apparentata dal tocco finale»12. E, d’altra parte, il poeta in carne e ossa, la cui genea
11. J.-F. Lyotard, Liminaire sur l’ouvrage d’Alain Badiou L’être et l’événement, con P. Lacoue-Labarthe, J. Rancière, A. Badiou in «Le cahier du Collège international de philosophie», n. 8, octobre 1989, pp. 201-268: p. 245. 12. S. Mallarmé, Crise de vers (1886-1892-1896), in Id., Œuvres complètes, cit., p. 365: «L’acte poétique consiste à voir soudain qu’une idée se fractionne en un nombre de motifs égaux par valeur et à les grouper; ils riment: pour sceau extérieur, leur commune mesure qu’apparente le coup final».
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logia non ha nulla di logico, ordinato, coerente, ma rinvia a una moltitudine indefinita di occorrenze incongruenti e spesso sconvenienti: Parce que la viande était à point rôtie / Parce que le journal détaillait un viol, / Parce que sur sa gorge ignoble et mal bâtie / La servante oublia de boutonner son col […] Et de ce qu’une nuit sans rage et sans tempête / Ces deux êtres se sont accouplés en dormant / O Shakespeare, et toi Dante ! il peut naître un poète.13
(ii) E, in secondo luogo, la ricostruzione della nascita di Tristram Shandy, la cui genesi totalmente strampalata lo situa sotto il segno del Witz: lo pone sotto il segno del carattere inesauribile della vita, del suo volto plurale e della sua polivalenza che rappresentano una sconfessione di qualsiasi origine giacché il Witz mira al cuore delle cose, ma non per raggiungerlo, solo per mancare il bersaglio. Ovverosia, esso sostituisce la libertà di associazione alla servitù dei legami naturali e, in tal modo, dà luogo a un disconoscimento più generale dell’identità stessa: ripetendo di sé, «sono il risultato di un gioco, di ciò che, se io non fossi, non sarebbe, o che poteva non essere»14. «Tristram, la cui identità è l’identità di un Witz», è il protagonista del romanzo di Laurence Sterne, Vita e opinioni di Tristram Shandy, su cui Nancy si è soffermato più volte e, in 13. S. Mallarmé, Sonnet, cit., p. 22: «Parce que la viande était à point rôtie / Parce que le journal détaillait un viol, / Parce que sur sa gorge ignoble et mal bâtie / La servante oublia de boutonner son col. / Parce que, d’un lit grand comme une sacristie, / Il voit sur la pendule un couple antique et fol / Et qu’il n’a pas sommeil et que sans modestie / Sa jambe sous le drap frôle une jambe au vol, / Un niais met sous lui sa femme froide et sèche / Contre son bonnet blanc frotte son casque à mèches / Et travaille en soufflant inexorablement. / Et de ce qu’une nuit sans rage et sans tempête / Ces deux êtres se sont accouplés en dormant / O Shakespeare, et toi Dante ! il peut naître un poète». 14. G. Bataille, L’impossibile. Storia di topi (1947), tr. it. a cura di S. Finzi, Guaraldi, Rimini 1973, p. 157.
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particolare, nel saggio Menstruum universale, redatto nel 1977 e ripubblicato recentemente a cura di Ginette Michaud, nonché nei testi de L’absolu littéraire del 1978 scritti insieme a Philippe Lacoue-Labarthe15. Tristram Shandy, chiosa Nancy, nasce evidentemente dal processo naturale della generazione, ma solo in seguito a un incidente – poiché, nel momento decisivo, la madre rimbambisce il padre domandandogli se si era ricordato di caricare l’orologio [«have you not forgot to wind up the clock?»; che tenevano in cima alla scala di servizio: «a large house-clock which we had standing upon the back-stairs head»] – vale a dire, come spiega Tristram, che il suo concepimento non è stato altro che il risultato di «una di quelle sfortunate associazioni di idee senza fondamento naturale [an unhappy association of ideas which have no connection in nature]». Il che lo porta immediatamente ad evocare John Locke: «il sagace Locke, il quale sicuramente comprendeva la natura di queste cose meglio della maggioranza degli uomini, afferma che tali strane combinazioni di idee hanno causato più azioni storte che qualsiasi altra fonte di pregiudizio [which strange combination of ideas, the sagacious Locke, who certainly understood the nature of these things better than most men, affirms to have produced more wry actions than all other sources of prejudice whatsoever]».16
Quello che Sterne intende contestare parodiandolo è il principio d’indifferenza che, secondo l’empirista John Locke, con-
15. Cfr. J.-L. Nancy, Menstruum universale, in Id., Demande. Littérature et philosophie, a cura di G. Michaud, Galilée, Paris 2015, p. 21; Ph. Lacoue- Labarthe - J.-L. Nancy, L’absolu littéraire. Théorie de la littérature du romantisme allemand, Seuil, Paris 1978. 16. J.-L. Nancy, Menstruum universale, cit., pp. 21-22. Cfr. L. Sterne, Vita e opinioni di Tristram Shandy, cit., risp. pp. 47, 54; ed. ingl., The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman. A Sentimental Journey Through France and Italy, Jürgensmeier, Munich 2005, risp. pp. 6, 9.
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traddistingue l’esperienza della libertà. Confutazione che Nancy rilegge come «dismisura della libertà», «condivisione dell’incommensurabile», «fraternità»17; e rintraccia nella figura obliqua e multifocale del Witz, reperendone esempi prototipici nello svolgersi tortuoso della nascita e dell’esistenza di Tristram Shandy e nell’ironia poetica di Mallarmé: «ironia dell’artista sull’uomo, o ironia dell’artista su se stesso…»18, come l’avrebbe definita Nietzsche. John Locke scrive che «la libertà è il potere di agire o non agire, secondo quanto ordina la ragione [liberty is a power to act or not to act, according as the mind directs]». Infatti, continua, malgrado il «desiderio generale di felicità operi costantemente e invariabilmente [general Desire of Happiness operates constantly and invariably]», «la soddisfazione di un desiderio particolare può essere sospesa [the satisfaction of any particular desire can be suspended]» in quanto l’azione è subordinata al libero esame delle scelte: «il risultato del nostro giudizio in base a questo esame è ciò che da ultimo determina l’uomo; il quale non potrebbe essere libero se la sua volontà» fosse «determinata solo dal suo desiderio» e non «guidata dal suo giudizio [the result of our judgment upon that Examination is what ultimately determines the Man, who could not be free if his will were determin’d by any thing, but his own desire guided by his own Judgment]». La libertà, in definitiva è, secondo Locke, «situata nell’indifferenza [Liberty is plac’d in indifferency]». In effetti, poiché sono «ugualmente in grado 17. J.-L. Nancy, L’esperienza della libertà, cit., p. 97. 18. F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., V, § 379, p. 259; ed. ted. cit., p. 632: «Quanto meno è umana la natura, tanto più l’amiamo, e amiamo l’arte, quando essa è la fuga dell’artista dinanzi all’uomo, o ironia dell’artista sull’uomo, o ironia dell’artista su se stesso… [Dass wir die Natur lieben, je weniger menschlich es in ihr zugeht, und die Kunst, wenn sie die Flucht des Künstlers vor dem Menschen oder der Spott des Künstlers über den Menschen oder der Spott des Künstlers über sich selber ist…]».
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di operare o di astenersi dall’operare [equally able to operate or to forbear operating]» indipendentemente dal desiderio, «i poteri operativi dell’uomo [the operative Powers of the Man]» sono caratterizzati da «uno stato che, se si vuole, si può chiamare indifferenza [a state, which, if one pleases, may be called indifferency]»: «e fin dove arriva quest’indifferenza, fin lì un uomo è libero, e non di più [and as far as this indifferency reaches, a Man is free, and no farther]»19. Witz e ironia contestano l’idea che con la volontà si possa sconfiggere l’arbitrario. Denunciano la subordinazione della libertà alla volontà facendone la caricatura e mettendo sotto accusa un’intera tradizione di pensiero che concepisce gli attori sociali come individui disinteressati dotati di due forme d’intenzionalità distinte come due organi separati. La prima che fa, senza poter prendere in considerazione le conseguenze delle proprie azioni; la seconda che sa, ma non può passare all’azione perché l’estrema consapevolezza le interdice di agire: l’una agente, incosciente e irresponsabile; l’altra inibente, ragionevole e assennata. Gilles Deleuze chiarisce questa posizione in modo estremamente chiaro quando spiega che ci facciamo un’immagine grottesca della forza e della volontà: separiamo la forza da ciò che essa può e la poniamo in noi come “meritevole” perché si astiene da ciò che non può, mentre la poniamo come “colpevole” proprio in quello in cui essa manifesta la sua forza. Dividiamo in due la volontà, inventiamo un soggetto neutro, munito di libero arbitrio, al quale concediamo il potere di agire e di esimersi dall’agire.20
19. Cfr. J. Locke, Saggio sull’intelletto umano (1690), tr. it. di M. Abbagnano e N. Abbagnano, UTET, Torino 1971, pp. 309-311; ed. ingl., An Essay Concerning Human Understanding, a cura di P.H. Nidditch, The Clarendon Press, Oxford 1975, pp. 282-284. 20. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 50; ed. fr. cit., p. 26: «Nous nous faisons de la force et de la volonté une représentation grotesque: nous
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c) Un’attesa che si risolve in nulla Separando apoditticamente voluntas, intentio e deliberatio, tale prospettiva riduce l’agire sociale alla facoltà di applicare all’atto degli strumenti sottoposti alla sola volontà in quanto mezzi da utilizzare al servizio dei suoi fini. Pretende in tal senso che «gli uomini debbano soggiacere all’oppressione della volontà; la volontà individuale con cui io costringo me stesso, o la “volontà generale” di un gruppo organizzato [they must submit to the oppression of the will, be this the individual will with which I force myself, or the “general will” of an orga nized group]»21. La volontà stessa viene, in questo senso, collocata alle dirette dipendenze dell’ambito cognitivo a cui è attribuita una totale supremazia non solo sulla regione conativa, ma anche e soprattutto su quella patica: abbracciando l’idea per la quale il carattere capriccioso delle passioni e dei desideri li rende dipendenti e inferiori rispetto alla scelta razionale allo stesso modo di come l’effimero e il contingente devono inchinarsi davanti al reale inteso come dato duraturo e necessario al quale sono dovuti ossequio e acquiescenza. Viene istituita così una stretta equivalenza tra la nozione d’identità e quella di proprietà: concependole entrambe come uno spazio blindato posto a rassicurante distanza di sicurezza dal caos informe del fuori, la cui rigida delimitazione ne compartimenta organi e funzioni e le delinea come una fortezza vuota. séparons la force de ce qu’elle peut, la posant en nous comme ‘méritante’, parce qu’elle s’abstient de ce qu’elle ne peut pas, mais comme ‘coupable’ dans la chose où elle manifeste précisément la force qu’elle a. Nous dédoublons la volonté, nous inventons un sujet neutre, doué de libre arbitre, auquel nous prêtons le pouvoir d’agir et de se retenir». 21. H. Arendt, Tra passato e futuro, cit., p. 214; ; ed. or., Between Past and Future. Six Exercises in Political Thought, The Viking Press, New York 1961, pp. 164-165.
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Questo angolo di visuale presume quindi l’egemonia totale della direzione attiva della volontà, ritenuta in grado di agire in modo autonomo e autosufficiente, senza tenere conto in alcun modo dell’aspetto passivo che interviene nella direzione opposta: dal lato degli impulsi, delle spinte emotive, della pluralità e della casualità di moventi e motivazioni. Mentre, continuiamo con Arendt, è proprio «il potere che affronta queste circostanze, quello che libera, per così dire, il volere e il sapere dal vincolo della necessità [the power that meets these circumstances, that liberates, as it were, willing and knowing from their bondage to necessity]»22. Contro il primo punto di vista, è necessario, dunque, prendere in considerazione i processi di soggettivazione non nei termini di una dinamica verticale e univoca di socializzazione grazie alla quale gli attori conquistano la loro identità differenziandosi da un’infanzia in cui vigono contorni sfumati e cornici indistinte e approdando a una maturità intesa come acquisizione di un ruolo socialmente definito. La volontà, infatti, deve fare i conti con una pluralità d’istanze che non rimangono sempre uguali a loro stesse e che non risultano pertanto sussumibili in un’unità determinata giacché attivandosi sono trasformate dalla loro stessa azione. Questa varietà di fattori, la cui eterogeneità non ha sintesi possibile, si compone e scompone incessantemente, orientata da una ragione pratica capace di tenere insieme la collisione-collusione del desiderabile e del ragionevole, piuttosto che da un io-sovrano inteso «come comandante del suo organismo nazionale [der als Volksführer seines Organismus]»23. È in tale quadro che va compresa l’importanza del Witz. Infatti, in quanto manifestazione della volontà di mutare e di dive-
22. Ibidem. 23. F. Kafka, Diari 1910-1923, tr. it. di E. Pocar, a cura di M. Brod, Mondadori, Milano 1959, p. 196.
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nire, «il Witz non lo si può volere»24, «il Witz non ci lascia né rilascia nulla: nella sua insistenza, segnala senza dubbio solamente, e quasi “suo” malgrado, la dissoluzione, avviata già da molto tempo, della nostra volontà»25. Fa questo contestando allo spirito di gravità – «uno spirito grave», «uno spirito che pesa quintali»26 – di accondiscendere al mondo così come si presenta: di assumere la realtà di quanto accade senza mai porlo in discussione. Mettendo in risalto il carattere intrinsecamente involontario di ciò che capita, Sterne e Mallarmé ridicolizzano dunque il soggetto indifferente di Locke, «ugualmente in grado di operare o di astenersi dall’operare [equally able to operate or to forbear operating]»27, smascherandone l’inanità. Distaccando la volontà dal desiderio, rendendola spassionata, disinteressata ad ogni pathos, Locke la rende, in effetti, negativa, reattiva, passiva: la trasmuta in volontà indifferente, in un nulla di volontà e, infine, in volontà del nulla. Al contrario, comprendendo con Deleuze e Nietzsche, che «il mondo non è né vero, né reale, bensì vivente»; che espone, cioè, «l’essere del divenire, l’uno del molteplice, la necessità del caso»28; e istituendo in tal modo un momento dipolare tra le sfere affettiva e volitiva, le differenti congiunture di progetto, decisione e scelta, si associano alla volontà di chance, modulando la volizione nei suoi aspetti compositi che integrano il desiderio e la pulsione: che percorrono in una direzione e nell’altra le scale da un minimo a un massimo di controllo e 24. Ph. Lacoue-Labarthe - J.-L. Nancy, L’absolu littéraire, cit., p. 77. 25. J.-L. Nancy, Menstruum universale, cit., p. 32. 26. F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., § 1039, p. 547. 27. J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, cit., p. 331; ed. ingl. cit., p. 283. 28. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., pp. 253, 258.
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d’impotenza, di azione sensata e insensata, di volontario e involontario, di volere e non volere. Questa condizione di non-indifferenza – «non-indifferenza per l’altro, per Altri» grazie alla quale, direbbe Lévinas, si può arrivare a eludere «lo schema del soggetto intenzionale – che è volontà, interiorità all’essere»29, sorge con la disgiunzione dell’intenzionalità dal conseguimento di un obiettivo: «Là dove falliscono la forza e la tensione della volontà, la chance ride […] e alza innocentemente il dito… [Où échouent la force et la tension de la volonté, la chance rit (…) et lève innocemment le doigt…]»30. Disposizione che coincide con una lacerazione inaugurante lo spazio per una nuova e più potente libertà. Accettando di affrancare la volontà dalla realizzazione di qualcosa, infatti, tale apertura risulta in grado di moderare la portata dell’intenzionalità stessa. Dissociazione che, permettendo di volere solo la libertà e non il comando, sottrae alla volontarietà il suo carattere impositivo, spinge a considerare gli altri senza avversione né eccessiva rivalità, rende possibile la disposizione insieme arcaica e futuribile che Hans Blumenberg descrive come di adesione all’«esperienza della libertà dallo scopo [das Erlebnis des Zweckfreiheit]»: La vita richiede utilità, però concede ai suoi favoriti l’esperienza della libertà dallo scopo [Zweckfreiheit]. È da qui che nasce ogni civiltà [Kultur]. Già nelle sue manifestazioni più primitive, negli ornamenti come nella decorazione sugli oggetti d’uso, è contenuto il gesto dell’acquisto della libertà dallo scopo [der Gestus des Gewinns von Zweckfreiheit], della
29. E. Lévinas, Altrimenti che essere, cit., p. 221. 30. G. Bataille, Su Nietzsche (1945), tr. it. di A. Zanzotto, SE, Milano 2006, pp. 130-131; ed. fr., Sur Nietzsche, in G. Bataille, Œuvres complètes, vol. VI, Gallimard, Paris 1973, p. 125.
224 sospensione dell’economia. Dall’esitazione come momentanea perplessità, come pura utilizzazione di un rinvio, può nascere la condizione che ha un valore di vita diverso da quello dell’esame delle scelte.31
L’esperienza della libertà dallo scopo (δῐᾰπόρησῐς, diapórēsis) non presuppone una volontà sicura, un ostinato perseguimento d’obiettivi, ma la forza di sospensione di una domanda d’intensità così smisurata da non potersi mai soffermare sulla soglia in cui al suo proprio movimento succede e gli si oppone quello dell’esaudimento: una richiesta tale da non cercare «ciò che vi porrebbe fine, bensì piuttosto l’eccesso di una mancanza che, a misura del suo colmarsi, s’approfondirebbe [ce qui y mettrait fin, mais plutôt l’excès d’un manque qui s’approfondit à mesure qu’il se comblerait]»32. Ma, come ribatte Georges Bataille, «cosa annuncia in me questa forza che rifiuta?». A cosa predispone questa rinuncia deliberata, questa consapevole riduzione della volontà? «Non annuncia nulla»33. Dispone a un accostamento alla condizione incoativa e amorfa relativa al nulla. 31. H. Blumenberg, Pensosità (1980), tr. it. di L. Ritter Santini, Elitropia, Reggio Emilia 1981, p. 7. La concezione della libertà esposta da Hans Blumenberg ha una precisa ascendenza nietzschiana: «“per caso”, questa è la più antica nobiltà del mondo, che io ho restituito a tutte le cose, liberandole dalla servitù dello scopo [“Von Ohngefähr” – das ist der älteste Adel der Welt, den gab ich allen Dingen zurück, ich erlöste sie von der Knechtschaft unter dem Zwecke]» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra [1883-1885], tr. it., con testo ted. a fronte, di S. Giametta, Bompiani, Milano 2010, III, Prima del levar del sole, 205, pp. 522-525). 32. M. Blanchot, La comunità inconfessabile, cit., p. 19; ed. fr., La communauté inavouable, Minuit, Paris 1983, p. 20. 33. G. Bataille, Il non sapere (1953), tr. it. di C. Grassi e M. Guareschi, in G. Bataille, Conferenze sul non-sapere e altri saggi, a cura di C. Grassi, Costa & Nolan, Genova-Milano 1988, p. 71; ed. or., Le non-savoir, in Id., Œuvres complètes, vol. XII, Gallimard, Paris 1988, p. 288: «Mais qu’annonce en moi cette force qui refuse? Elle n’annonce rien».
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Non si tratta di nichilismo, però. Ciò che viene prefigurato non è un nuovo ordine nel sistema sociale di valorizzazione in cui il ruolo di metro di misura e di unità di scambio venga affidato al niente. «L’essere indifferenziato non è nulla»34. Porre il nulla come limite dell’umano significa «tanto accelerare quanto rallentare il movimento, scandendolo, persino obbligandolo secondo una visione simultanea»35. E, così, appellarsi ai diritti imprescindibili del caso in quanto affermazione di una pluralità di forze che agiscono e patiscono a distanza affermando tutto ciò che può essere affermato, compreso il fortuito, compreso il nonsenso. Il momento dipolare non appare quindi come una determinazione, e nemmeno come il suo contrario. Piuttosto va fino in fondo all’una e all’altro: affermandone la differenza, ma senza poter fissare nemmeno quella. Ciò che una volontà vuole non è un oggetto, un obbiettivo, un fine. I fini e gli oggetti, e anche i motivi, sono ancora soltanto sintomi. Ciò che una volontà vuole è, secondo la propria qualità, affermare la propria differenza o negare ciò che differisce.36 Lo sforzo di negare le differenze fa parte di quella impresa più generale che consiste nel negare la vita, nello svalutare l’esistenza.37
Si tratta di scoprire o inventare nuove possibilità: atto spontaneo, semplice, inintenzionale, inutile, evento, caso. Indeterminazione, imprevedibilità, contingenza sono sempre in eccesso o in difetto rispetto alle cause. Un evento puramen34. G. Bataille, L’être indifférencié n’est rien (1954), in Id., Œuvres complètes, vol. III, Gallimard, Paris 1971, p. 366. 35. S. Mallarmé, Préface a Un coup de dés jamais n’abolira le hasard (1897), in Id., Œuvres complètes, cit., p. 455: «D’accélérer tantôt et de ralentir le mouvement, le scandant, l’intimant même selon une vision simultanée». 36. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 121. 37. Ivi, p. 78.
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te casuale non è riferibile a condizioni determinate, fa appello quindi a un «“voler-vivere” che deve essere esso stesso interrogato – e che potrebbe dipendere da una spinta (Drang) o da una pulsione (Trieb) anteriori a ogni “volere”»38. Dopo di che, prosegue Bataille, «eccedo la mia volontà mio malgrado» e «ciò di cui abbiamo ormai esperienza non è NULLA»: si tratta di oggetti che si risolvono in NULLA, che provocano il movimento dell’effusione quando l’attesa che li poneva come oggetto viene delusa. Il momento di risoluzione dell’attesa in NULLA ci è dato nell’esperienza soggettiva che ne abbiamo, ma l’oggetto stesso appare, nel campo della conoscenza positiva e pratica, almeno come un oggetto possibile – ma come un possibile che ci sfugge, e ci è sottratto. Naturalmente il NULLA in se stesso non appare, il NULLA è solo l’oggetto che svanisce.39
Questo ci riporta ancora una volta al Witz giacché Sterne rivendica, contro Locke, i diritti del Witz in quanto il Witz non padroneggia, non controlla, ciò con cui ha a che fare. La sua formulazione, come scrive Friedrich Schlegel, sfocia in una «attesa che si risolve in nulla»40: «al di là di ogni supposizione», παρὰ τὴν ὑπόληψιν (parà tēn hupólēpsis) o «contro ogni attesa» παρὰ τὴν δόξαν (parà tēn doxan), promessa votata a non essere mantenuta, avrebbe detto Aristotele41. Il Witz, in effetti, proseguono Lacoue-Labarthe e Nancy, congegna «combinazioni senza sapere, rimane eterogeneo alla ri-
38. J.-L. Nancy, Politique et/ou politique, cit., p. 310. 39. G. Bataille, La sovranità, cit., p. 75. 40. Ph. Lacoue-Labarthe - J.-L. Nancy, L’absolu littéraire, cit., Fragments de l’Athenaeum, § 220, p. 129. 41. Aristotele, Dell’arte poetica, a cura di C. Gallavotti, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Roma-Milano 1974, risp. Nodo e scioglimento, 18, 5a15, pp. 66-67, e Composizione ed elementi del racconto, 9, 6b35, pp. 34-35.
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unione degli eterogenei che produce»42. Questo a causa del fatto che costituisce in un certo senso «un raddoppiamento parodico di Wissen, conoscenza». E, pertanto, finisce per intersecare due registri contrastanti: la «possibilità doppia sorta dallo schisma e dal chiasma» relativa alla «forma conclusa del Sistema all’interno dell’incompiutezza del Caos»43. Espone, insomma, l’orditura inestricabile in cui s’intessono, da una parte, la quadratura, il piano di consistenza o di composizione, con cui si cerca di mettere ordine nella disposizione degli avvenimenti; e, d’altra parte, il flusso inconcluso della loro generazione. Interazione asincrona per la quale il polo dell’ἐπίστασις (epístasis), l’evento dell’arresto, in un istante fissa l’attenzione al volo, disvela un significato entrando in un momento dipolare con l’ἐπίσταμαι (epístamai), il polo del conoscere come processo ininterrotto, fecondo, mutevole, disordinato, del fare esperienza. E dà luogo, in definitiva, a «qualcosa come l’altro nome e l’altro “concetto” del sapere; o, meglio, il nome e il “concetto” del sapere altro: ovverosia del sapere altre cose rispetto alla discorsività analitica e predicativa»44.
d) L’origine e l’alleanza Nell’apatia del desiderio, «la nascita diventa allora un evento del passato che non esiste più, cosi come la morte diviene un evento del futuro che non ha ancora avuto luogo, e la coesione della vita un lasso di tempo inquadrato dal resto del tempo»45.
42. Ivi, p. 75. 43. J.-L. Nancy, Corps-théâtre, in Id., Demande, cit., p. 28. 44. Ph. Lacoue-Labarthe - J.-L. Nancy, L’absolu littéraire, cit., p. 75. 45. P. Ricœur, Tempo e racconto, cit., p. 112.
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Al contrario, rimettendo in gioco l’unità plurale di nascita, vita e morte, l’hasard sorprendente della nascita di Tristram Shandy o della generazione di un poeta così come messa in versi da Mallarmé, insiste Nancy, il fatto ch’essi sorgano «quasi da nulla, da un incontro, dal caso, da un clinamen di atomi, da un’inclinazione delle passioni»46, è condivisione di questo «NULLA». Un NULLA che non voglio e non posso conoscere «finché non ho restituito ai miei genitori quello per cui mi hanno messo al mondo – l’atto assurdo che attesta l’inanità della loro follia [je ne veux pas connaître le Néant, avant d’avoir rendu aux miens ce pourquoi ils m’ont engendré – l’acte absurde qui atteste l’inanité de leur folie]»47. Un NULLA che, «scritto in lettere maiuscole da Georges Bataille per attestarne la sovranità», mette in evidenza, cioè, una combinatoria analogica del pensiero concepito da un essere che ha smesso di aspettare un destino, una salvezza, un’ineluttabilità; per consegnarsi «non all’attesa, ma a quella disponibilità che non aspetta nemmeno e che solamente si dispone, si lascia disporre»48. Il Witz ci conduce così, nello stesso luogo – illic, in quel luogo, in quel tempo, laggiù – «così lontano che un luogo si fonde con al di là [aussi loin qu’un endroit fusionne avec au-delà]», dove hanno luogo fraternità e sorellanza: nella stretta intimità cui danno accesso. Non un luogo, piuttosto la spazio-temporalizzazione stessa. Evento, solitamente votato a farsi dimenticare, che non è semplice intervallo inerte, ma esposizione: lì dove «nulla avrà avuto luogo se non il luogo»49. 46. J.-L. Nancy, «Dans ma poitrine, hélas, deux âmes...» (2007), in Id., Demande, cit., p. 350. 47. S. Mallarmé, Igitur ou la folie d’Elbehnon (1869), in Id., Œuvres complètes, cit., p. 451. 48. J.-L. Nancy, «Dans ma poitrine, hélas, deux âmes...», cit., p. 350. 49. «RIEN / de la mémorable crise / ou se fût / l’événement / accompli en vue de tout résultat nul / humain / N’AURA EU LIEU / Une élévation ordinaire vers
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Nel momento dipolare, insomma, nel punto aleatorio a partire dal quale le serie divergenti avvengono producendo una risonanza, non c’è più origine, ma solo “inizialità”: che non è altro che alleanza possibile, eventuale, potenziale. Erewhon, per dirla con Samuel Butler50: spazio-temporalizzazione del no-where, il nessun luogo, congiunto-disgiunto con now-here, hic et nunc. La libertà, ci dice Nancy, espone «l’esistenza o, meglio, la libertà è il fatto che l’esistenza è esposta»51 alla finitudine del tempo e alla spaziatura dello spazio. Il che vuol dire prenderla in considerazione in quanto processo di spazio-temporalizzazione: «in quanto condivisione dell’essere, al fine di condividere indefinitamente la condivisione delle singolarità»52: al fine di condividere questa condivisione dell’incommensurabile che è fraternità. «Libertà: evento e avvento dell’esistenza come essere-in-comune delle singolarità»53, come «co-appartenenza essenziale dell’ex-sistenza con l’esistere di ogni cosa»54, come «essere iniziantesi (singolarmente)» e come «spazio-tempo specifico dell’inizialità»55. Libertà non «già acquisita, ma che si assume da sé nell’atto del suo cominciare e ricominciare»56.
l’absence / QUE LE LIEU / inférieur clapotis quelconque comme pour disperser l’acte vide / abruptement qui sinon / par son mensonge / eût fondé / la perdition / dans ces parages / du vague / en quoi toute réalité se dissout / EXCEPTÉ / à l’altitude / PEUT-ÊTRE / aussi loin qu’un endroit / fusionne avec au-delà» (S. Mallarmé, Un coup de dés jamais n’abolira le hasard, cit., pp. 474-477). 50. S. Butler, Erewhon. Ritorno in Erewhon (1872, 1901), tr. it. e intr. di L. Drudi Demby, Adelphi, Milano 1965. 51. J.-L. Nancy, L’esperienza della libertà, cit., p. 95. 52. Ivi, p. 73. 53. Ivi, p. 81. 54. Ivi, p. 167. 55. Ivi, p. 81. 56. Ivi, p. 82.
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Inizialità è quella di Oreste che rinasce declinando la relazione genealogica a favore del momento dipolare di concrescenza dell’identità disgiuntiva, dell’accordo-disaccordo. Che è causa sui in quanto produce il processo del proprio avvenire: auto-costituisce se stesso come accadere, come entità attuale. E, al pari di lui, ci sono: (i) Tristram Shandy, l’autore che racconta finanche la propria nascita; (ii) Mallarmé, il poeta che, per poter concepire versi, deve risalire a ritroso il suo stesso essere concepito in modo del tutto casuale, secondo un hasard produttore di senso e nella contraddizione inestinguibile di generazione, corruzione e della loro incessante autoaffermazione; (iii) Samuel Butler nel cui Erewhon non sono i genitori a mettere al mondo dei figli, ma sono i non nati che costringono le coppie a farli venire al mondo. Costoro indicano la libertà come «inizialità dell’essere»: momento dipolare di chi «genera se stesso mentre sta nascendo, che è non è altro che la sua nascita, nient’altro che nascita»57. È in questi termini, ribadisce ancora Nancy, che la fraternità si presenta come il cuore o la legge del “comune”: del “con” («l’avec de l’être plus encore qu’un “être-avec”») inteso come cuore e come legge58. Fraternità di cui il Witz, spiega Nancy, costituisce l’equivalente propriamente moderno: il «prodotto moderno specifico della crisi filosofica del giudizio», l’aspetto «d’indecidibilità della decisione», il «tomos [τόμος, coupure, taglio] che gli è irriducibile»59. Corrispondenza analogica che consente di met57. Ivi, pp. 81, 116. 58. Cfr. J.-L. Nancy, Politique et/ou politique, cit., p. 310. 59. J.-L. Nancy, Menstruum universale, cit., p. 23.
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tere in luce la piega e la piaga da cui sono entrambi intaccati: la fissione-fusione che dalla fraternità intesa come Witz – come «l’unione, la mescolanza (o la dissoluzione) degli etero genei»60 – viene trapiantata direttamente nell’atomo (ἄτομος, átomos) del giudizio. Il quale giudizio, ormai indissociabile dal doppio movimento della messa in gioco e della messa in questione – messa in gioco di se stessi e messa in discussione di ogni verità definitiva – riconosce di non essere innocente, ma lui stesso colpevole: coupable, che può essere tagliato, scisso in una miriade di frammenti non più unificabili in un tutto come i residui allusivi di un naufragio. Il giudice, infatti, può decidere della colpa solo perché è lui stesso colpevole: «il bene sarebbe la scure da macello del giudice, se non fosse di lui stesso che si tratta [le bien serait la hache d’abattoir du juge, s’il n’était de lui même en question]»61, se non fosse la stessa facoltà di giudicare a essere messa in discussione. Si riprende, si prolunga e si cerca di condurre più in avanti, dunque, quanto declina Jacques Derrida quando parla di «comunità della decisione, dell’iniziativa, dell’inizialità assoluta, ma minacciata, in cui l’interrogazione non ha ancora trovato il linguaggio che ha deciso di cercare, non si e ancora rassicurata in esso sulla propria possibilità. Comunità dell’interrogazione sulla possibilità dell’interrogazione»: giacché non ci sono «né legge né comandamento che non confermano e non includono – cioè che non celano presupponendola – la possibilità della interrogazione»62.
60. Ivi, p. 19. 61. G. Bataille, Il colpevole (1944), tr. it. di A. Biancofiore, Dedalo, Bari 1989, p. 110; ed. fr., Le Coupable, in Id., Œuvres complètes, vol. V, Gallimard, Paris 1973, p. 325. 62. J. Derrida, Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Lévinas (1964), in Id., La scrittura e la differenza, cit., pp. 100-101.
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In effetti, «la fraternità parla di coesistenza senza necessità di “natura” né di “destino” né di “fondazione” né di “origine”»63. Implica, in tal modo, un mondo e un’esistenza che decidono se stessi, che costituiscono essi stessi i loro principi e i loro fini: in cui, pertanto, non più concluso, il senso dello stare insieme appare pienamente aperto, possibile. Appunto per questo, la fraternità «indica anche la constatazione di trovarsi insieme per caso, in una comunità senza origine né senso»64. E che, pertanto, si è in cammino «verso il comune dell’essere – piuttosto che verso l’essere del Comune»65. Quello a cui è dato rivolgersi non è, quindi, la comunità come dato naturale, come prossimità data; bensì la comunità come problema, come interrogazione, sociale e politica. Piuttosto che a un essere in comune, alle circostanze difficili e a volte insostenibili del vivere insieme, ciascuno più meno vicino o distante dagli altri giacché la «prossimità proibisce la fusione (confusione o infusione). Al contrario, apre il rapporto: vale a dire, la doppia misura degli infiniti in atto e l’infinitezza della loro condivisione (nel doppio senso della parola: divisione e scambio)»66. Con ciò, in definitiva, «si potrebbe persino dire che è proprio questo il luogo e l’atto di nascita del diritto». Infatti, «il diritto – la legge, lo Stato – non è fondato che sul ritrarsi di ogni principio fondatore»67.
63. J.-L. Nancy, Fraternità irremeabile, supra, p. 203. 64. Ivi, supra, p. 202. 65. J.-L. Nancy in N. Poirier, Entretien avec Jean-Luc Nancy, in «Le Philosophoire», n. 7, 1999, pp. 11-22: p. 12. 66. J.-L. Nancy, Politique et/ou politique, cit., p. 310. 67. J.-L. Nancy, Fraternità irremeabile, supra, p. 204.
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In conclusione, il principio dell’autonomia della volontà viene subordinato al prendersi cura dei confini che uniscono e separano. E con ciò, le potenze dell’origine sono messe da parte in favore di quelle dell’alleanza. In tal senso, un’azione comune non ha bisogno di fare riferimento a qualcosa di esterno che ne garantisca la legittimità perché il suo altro dipolare non sussiste in un generale astratto che la precede, ma nella realtà concreta della collaborazione con i compagni di strada incontrati: intesa che non nasce in nome della stessa origine, ma di un obiettivo condiviso. Questa prospettiva considera, infatti, che le culture e le norme non potrebbero esistere senza un’incessante azione di composizione-decomposizione-ricomposizione e senza un’adeguata attenzione ai processi d’interazione simbolica in quanto in grado di valorizzare la problematica interculturale dell’alterità nella comunicazione: di evidenziare criticamente ciò che accade tra gli uomini, il vuoto che si trova tra di loro, lo sforzo sempre rinnovato affinché, dallo squarcio della loro origine assente, qualcosa che li impegna in comune possa prendere forma. Perché ciò che è certo è che il mondo comune non esiste in quanto già costituito, non è qualcosa che precede l’esistenza concreta. Piuttosto, questo comune è ciò che deve essere di volta in volta costruito: gradualmente, nel suo spazio e nel suo tempo, nel suo linguaggio e nei suoi discorsi, nelle sue rappresentazioni, nelle sue figure, nelle sue connessioni. È a partire da ciò che si può distinguere una fraternità biologica da una politica. La prima stabilisce dei legami sulla base di un’origine comune: come accade per i frutti di uno stesso albero. La seconda associa e mette in relazione in ragione di obiettivi fissati insieme in vista di un futuro più o meno prossimo: come una freccia e il suo bersaglio. Quest’ultima è, dunque, una fraternità dipolare perché indica che tutti gli attori sociali, senza eccezione, sono sempre connessi tra loro da un
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rapporto concreto che è al contempo virtuale e potenziale: dal momento dipolare di una scelta che è simultaneamente eventuale e incombente. Invocare i poteri dell’origine significa accettare e persino reclamare una frattura radicale tra le generazioni, tra genitori e figli: tra un nuovo che per affermarsi deve eliminare ciò che lo precede. Riconoscersi in un mondo ossessionato dall’origine: un’origine tanto generativa quanto divoratrice, generatrice in quanto divoratrice. Dal precedente verso il successivo ad infinitum: senza interruzione e senza fine. Fare appello a una fraternità politica vuol dire, invece, attivare un momento dipolare tra prosa e poesia: non smettere di guardare avanti rivolti verso l’adveniens e, al contempo, immaginare il “discendere” come il movimento ripetuto incessantemente di un vincolo di alleanza da costruire e rinnovare, giorno dopo giorno, con cura, tenacia e assiduità. Un modo di affermare se stessi che, rifiutando l’unilateralità distruttiva e autodistruttiva della ὕϐρις (húbris), non vuole sopprimere gli altri né renderli schiavi: in cui l’affermazione del sé non significa né la morte né la sottomissione degli altri, ma l’instaurazione di un rapporto di dialogo e di scambio. Dare consistenza alla propria persona grazie alla presenza di un altro corpo che ci limita, ma che lo fa come gli argini all’interno dei quali un fiume scorre: senza sopraffarci né distruggerci, dandoci tempo e spazio per partecipare alla progressiva edificazione dei nostri stessi limiti. Senza che il limite si alteri diventando illimitato, senza farci sprofondare nella vertigine del non-essere e del non-collegamento. Non si tratta in nessun modo di riprodurre mimeticamente le fattezze reali o simboliche del padre, né di prendere il suo posto. La questione è, invece, di rimuoverne il posto stesso. In nome della fraternità, cioè in nome della petizione di
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un’uguaglianza fondamentale: del riconoscimento di ciascuno da parte di tutti. Questo significa allontanare il più possibile il diritto dalla morale: non voler mai giudicare in modo universale o in nome dell’universale. Accettare il giudizio e le sue conseguenze giuridiche, ma considerarlo sempre provvisorio: come il parere di concittadini su altri concittadini, tutti uguali tra di loro.
Indice
Avvertenza Prefazione di Jean-Luc Nancy 1. Koinós kósmos e idios kósmos: società del gior no e società della notte 2. Sistema dipolare, dissidio e pagus 3. Correlazione di personalità, sensus communis, diakosmētike technè 4. Ichlosigkeit: triangolazione e decorso storico 5. Esperienza del viso e dell’esteriorità: il rappor to sociale 6. Oreste e il nómos basileus: alleanza tra diritto magico e diritto fiduciario 7. Momento dipolare tra diritto (ius) ed enuncia zione (dictio) 8. Emanciparsi dalle potenze dell’origine. Il silenzio delle sirene e il terzo istituito dello spazio pubblico 9. La facoltà di giudicare o la co-ipseità 10. La preuve diviene épreuve: il giudizio (Urteil) precipita nell’ordalia (ordāl, ordæl) 11. Società dipolari e schematismo pragmatico 12. La concrezione o la triangolazione dell’esperienza
p. 9 p. 11 p. 15 p. 25 p. 33 p. 37 p. 43 p. 57 p. 69 p. 77 p. 91 p. 99 p. 115 p. 133
13. La legge di Jethro 14. Arte della parola come scienza civile e linea d’in trattabilità 15. Non coincidenza del diritto con la legge di natu ra: bisogna trovare la legge 16. Gruppi di concittadini fraternizzano nel rappor to sociale 17. La responsabilità insostenibile dell’agire norma tivo
p. 145 p. 153 p. 165 p. 175 p. 185
Intermezzo Fraternità irremeabile, di Jean-Luc Nancy
p. 197
18. Fraternità politica
p. 211
Gulliver
Collana di Filosofia Contemporanea Diretta da Francesco Valagussa
1. Luca Basile, Morte della sovranità. 2. Daniel Innerarity, Un mondo di tutti e di nessuno. Pirati, rischi e reti nel nuovo disordine globale. 3. Federico Croci (a cura di), La logica non è tutto. Rileggendo Giovanni Gentile. 4. Leonel Ribeiro dos Santos, Melanconia e apocalisse. Studi sul pensiero portoghese e brasiliano. 5. Federica Buongiorno - Vincenzo Costa - Roberta Lanfredini (a cura di), La fenomenologia in Italia. Autori, scuole, tradizioni. 6. Charles-François Tiphaigne de la Roche, Giphantie. 7. Félix Duque, Gastrosofia divina. Il cibo dello Spirito nel l’èra tecnologica. 8. Gaetano Basileo - Giannino Di Tommaso (a cura di), Principio, metodo e sistema nella Filosofia Classica Tedesca. 9. Giulio Goria - Giacomo Petrarca (a cura di), Figure della crisi. 10. Carlo Grassi, La facoltà di giudicare. Sociologia dell’agire normativo.
Gulliver - 10
Collana diretta da Francesco Valagussa Comitato Scientifico Danielle Cohen-Levinas Georg Bertram Adriano Fabris Elio Franzini Thomas Harrison Luca Illetterati Valerio Rocco Lozano Giampiero Moretti Federico Vercellone Emanuele Vimercati
ISBN ebook 9788855292252
Cosa reclama l’interrogativo “come giudicare”? In che senso chi giudica è al contempo giudicato dal suo stesso giudizio, commisurato incessantemente con l’esigenza di dover giudicare? Tale questione si piega in due margini che si bilanciano e si intersecano reciprocamente. Da un versante la legge assente. Punto di vista negativo che corrisponde a una condizione positiva, al vantaggio di un vincolo, di una obbligazione: bisogna trovare la legge. Dall’altro versante, il diritto non coincide con la legge di natura: riguarda normative che la facoltà di giudicare si prescrive da sé. Questi aspetti si accordano e rilanciano reciprocamente nel rifiuto del principio di totalità in favore della regola della pluralità. Il che mette in gioco la questione della non derivabilità dei canoni del giudizio. Oppure, detto in altri termini: al fine di evitare la caduta nel totalitarismo e nella barbarie, il movimento del giudicare non può far altro che rinunciare ad imporsi ai suoi oggetti secondo un modello dato in anticipo che si tratterebbe solo di applicare. Con la prefazione e un testo di Jean-Luc Nancy.
Carlo Grassi è professore Associato di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi, Università Iuav, Venezia. Ha insegnato all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales e all’Université Sorbonne Paris Nord. Ha co-editato e introdotto Jean-Luc Nancy, Dies Irae, Westminster University Press. Ha pubblicato il manuale Sociologia della comunicazione, Bruno Mondadori; e le monografie La macchina e il caso, Postmedia; Sociologia della cultura tra critica e clinica, Mimesi; Georges Bataille sociologo della conoscenza, Costa & Nolan. Ha pubblicato in molte riviste scientifiche italiane e internazionali.
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