La filosofia politica di Schelling

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Claudio Cesa

La filosofia politica

di Schelling

Editori Laterza

Bari 1969

Proprietà letteraria riservata Casa editrice Gius. Laterza & Figli, Bari, via Dante 51

Alla cara memoria di Delio Cantimori

Introduzione

Nella abbondante letteratura su Schelling pochissimi sono gli studi dedicati al suo pensiero morale, e ancor meno quelli sulla sua filosofia politica. Se ci si limita ad una valutazione del tutto estrinseca, delle circa 10 000 pagine delle opere e delle lettere del filosofo solo una parte piuttosto modesta è dedicata espressamente a quella problematica. Se poi si fa, come è non solo inevitabile, ma anche legittimo, un paragone tra Schelling e i pensatori suoi contemporanei, di quello straordinario periodo della cultura tedesca che va dalla Aufklàrung alla rivoluzione del 1848, e si pensa alle grandi opere morali, politiche e giu­ ridiche di Kant, di Fichte e di Hegel, e poi di Schleiermacher e di F. Schlegel, di Górres e di A. Muller — per non parlare del filone democratico e socialista: Marx ed Engels! — non sembrerà ingiustificato che la storiografia abbia veduto in Schelling un filosofo e un intellettuale puro, e lo abbia studiato come il più illustre esponente della filosofia della natura, il continua­ tore e il critico dell’idealismo trascendentale di Fichte, il rin­ novatore dello spinozismo sotto la forma della filosofia dell’iden­ tità: uno dei più acuti studiosi ha parlato di « intermezzi » per quegli scritti che hanno affrontato una tematica morale, e giuridico-politica. Sono in molti ad aver scritto che soltanto dopo la svolta teistica (all’ingrosso: 1809) Schelling si dedicò ai pro­ blemi morali, stimolato da quella consapevolezza della crisi del pensiero europeo che è un tratto comune a quasi tutti i pensa­ tori dell’età della restaurazione. Come conseguenza di questa impostazione la personalità del filosofo è risultata impoverita, e spostata fuori dalle correnti più impegnate della cultura della fine del XVIII, e dei primi anni del XIX secolo; il che, tra l’altro, ha reso quasi incom­ prensibili alcuni dei suoi scritti, ed ha portato a lasciar cadere

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spunti e trattazioni che si trovano in altri. Non è soltanto dopo il 1809 che Schelling volle portare il suo contributo alla grande discussione sulla natura ed il destino dell’uomo, questo essere che vive sì nella natura, ma anche nella società e nella storia: anzi, è proprio nel periodo della sua precoce, ma faticosa e con­ torta formazione, e in quello nel quale egli brillò come il nuovo astro filosofico della Germania, l’erede e il superatore di Kant e di Fichte, che egli sentì, come suo ufficio, di studiare cosa te­ nesse insieme le società e ne promuovesse lo sviluppo, se fosse o no legittimata, dalla stessa natura, la diseguaglianza tra gli uomini, e come si potesse assicurare « un eguale sviluppo di tutte le forze ». Due autori della sua gioventù, Herder e Schiller, gli avevano dato spunti importanti sulla situazione dell’uomo in una società che stava diventando « borghese », e che aspirava al be­ nessere fisico e ad un ordine « meccanico », che non negava la religione, ma voleva renderla ragionevole ed utile, che era con­ vinta di esser tanto superiore alle epoche passate. Ed egli al­ l’inizio pensò, da buon razionalista quale era, che il modo mi­ gliore per uscire da quello stato così insoddisfacente fosse acce­ lerare i tempi, e utilizzare a fondo la funzione critica della ra­ gione: all’adesione al metodo « storico-critico », e, subito dopo, alla « rivoluzione filosofica » di Kant e di Fichte, corrisponde l’entusiasmo per la rivoluzione francese, di cui egli coglie non tanto le precise dimensioni politiche quanto il significato storico­ universale: essa è una lotta contro il dispotismo « che opprime gli spiriti », è volta, come la nuova cultura tedesca, a liberare l’uomo dal « cieco tremore » di fronte all’autorità, sia terrena che ultraterrena, ad aprire la strada ad una riconciliazione con la natura. Le grandi rivoluzioni, politiche e religiose, che hanno segnato la storia d’Europa hanno spesso suscitato l’idea che esse prelu­ dessero ad una trasformazione totale dell’uomo, alla instaurazione di una nuova dimensione culturale e morale del genere umano. E non è un caso che proprio nello scritto di Schelling nel quale si trovano i più radicali propositi politici si parli dell’esigenza di elaborare una « fisica in grande », che sappia soddisfare « uno spirito creatore come il nostro »; la vecchia fisica, tutta volta a stabilire le leggi eterne del cosmo, presentava un ordine defini­ tivo, nel quale l’uomo non poteva che inserirsi: ma come poteva considerarsi libero un uomo che fosse angustiato dall’incubo della necessità naturale? Sono queste preoccupazioni — e non una pre8

tesa tradizione di filosofia « sveva » — che spinsero Schelling ad occuparsi di filosofia della natura. Egli mise la « vita » e « l’organismo » al posto della tradi­ zionale concezione meccanica: ma quanto più approfondiva quei temi, tanto più ne derivavano risultati che erano in contrasto con l’aspirazione da cui era partito, di promuovere, per quella via, la libertà di tutti gli uomini; o, almeno, la rettificavano sensibilmente. Il movimento della vita si articola in generi e individui, ciascuno dei quali ha un proprio « egoismo » che lo stimola a farsi valere contro tutti gli altri. È una continua alter­ nanza di azione e reazione, nella quale ogni essere conquista quel tanto di spazio vitale che è compatibile con la sua natura. E quando si arriva alla più alta categoria degli esseri, la specie umana, anche qui, in ciascuno degli individui che la compongono, si nota lo stesso fenomeno: c’è chi (il « genio ») è dotato di un « istinto superiore », e c’è chi non ha questo istinto, ed è del tutto impossibile pretendere di comunicarglielo. Sarà un caso, ma c’è una significativa coincidenza tra l’avanzamento degli studi di filosofia della natura, e il raffreddarsi delle simpatie di Schel­ ling per gli ideali della rivoluzione francese. È comune a gran parte del pensiero controrivoluzionario eu­ ropeo di richiamarsi al ritmo della natura, e alla naturale diversità degli uomini, in opposizione alla pretesa di regolare con l’intel­ letto l’organizzazione della società. Dovettero passare molti anni, però, perché Schelling si trasferisse senza riserve su queste po­ sizioni. E si capisce benissimo il perché: le convulsioni che, in Francia, avevano accompagnato l’ultimo periodo del Direttorio, e poi il colpo di Stato del 18 brumaio, avevano chiuso la rivo­ luzione: per chi, come Schelling, la guardava, come si è detto, da una prospettiva « culturale », quelle vicende erano la prova del fallimento di un tentativo di liberare gli uomini che era partito da premesse teoriche sbagliate, e si era sviluppato in con­ seguenza. Si era abbattuto il dispotismo monarchico per met­ terne al suo posto un altro, quello della legge, o di una virtù che doveva essere inculcata a tutti; e poi era tornato un dispo­ tismo personale. Tutto ciò indicava che un’altra era la strada da battere — non la reazione, ma l’andare al di là di quei princìpi teorici ed etici che avevano retto la rivoluzione francese, l’affidarsi all’operare delle forze dell’individuo, un operare che attinga da se stesso, dalla sua « analogia » con le immani forze che plasmano la natura, il suo stimolo e la sua giustificazione.

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Ma presto questo attivismo naturalistico ebbe una correzione. Era una vecchia idea schellinghiana quella che tra la natura e l'uomo fosse necessaria la mediazione della cultura, anzi, della « mitologia ». E il terreno naturale dal quale può nascere la nuova mitologia è il popolo organizzato in Stato. È in questo quadro, ormai, che l’individuo deve disporsi ad operare, senza aspettare compenso che non sia l’azione stessa, sentendosi al­ l’unisono con un tutto cui egli dà il suo contributo ma che, d’altra parte, ne arricchisce infinitamente le forze. L’edificazione di uno Stato che renda possibile tutto questo è la « vera rivo­ luzione ». In maniera non molto dissimile da Fichte dopo il 1800, Schelling sostiene che per introdurre l’epoca nuova del genere umano non bisogna incominciare con la trasformazione delle strut­ ture esterne del vivere sociale, ma, al contrario, con un rinno­ vamento interiore dell’uomo. Il resto sarebbe venuto come con­ seguenza. Su questo tema, del rinnovamento interiore, il filosofo con­ tinuò ad insistere anche dopo la svolta del 1809: ma ormai l’at­ tivismo aveva ceduto il campo al quietismo, perché l’assoluto al quale l’uomo aspirava non era più un « ideale » presente nella storia, remoto eppure visibile, come potevano essere l’umanità o lo Stato, ma lo stesso Iddio. È per questa ragione che ritengo di poter affermare che lo Schelling che ha una dimensione « politica » non è il più tardo filosofo della mitologia e della storia, ma colui che, accanto a Fichte, e con maggior energia di lui, levò l’agire al di sopra dello speculare. E non mancano, a sostenere questa interpretazione, significative testimonianze di contemporanei. Basterà citarne due, di un amico e discepolo, e di un avversario. Il primo è E. Steffens, che udì le lezioni di Schelling a Jena, e, più di quarant’anni dopo, assistette all’esordio berlinese dell’ormai anziano filosofo. Steffens, che si era impegnato attiva­ mente nella lotta contro Napoleone, si incontrò, proprio nel 1813, col più autorevole dei « riformatori » prussiani, il barone von Stein, e dovette sorbirsi, da parte di questi, una tirata contro l’inattività degli intellettuali tedeschi, che si comportavano come spettatori nel dramma della loro patria; Steffens rifiutò questo giudizio, e fece notare che ad animare tanti patrioti era proprio la cultura nuova; e aggiunse: « Se Schelling domina questa pro­ fonda tendenza nazionale è perché, come tutti i dominatori, egli è uscito da lei ».

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Una ventina di anni dopo E. Heine, passando in rassegna quale contributo le teorie filosofiche avrebbero potuto portare ad una rivoluzione tedesca, scriveva: « Ma più terribili di tutti sarebbero i filosofi della natura, che si identificherebbero anche con l’opera di distruzione Il filosofo della natura sa en­ trare in contatto con le potenze primordiali, sa evocare le forze demoniache del panteismo dei germani antichi [...]. Il cristia­ nesimo — questo è il suo più notevole merito — ha in certo modo addolcito la brutale smania di combattere dei germani, ma non riuscì a distruggerla, e se mai un giorno andrà in pezzi quel talismano addomesticatore che è la croce, allora si udrà di nuovo il frastuono della barbaiie degli antichi guerrieri [...] ». Questo passo, come tante altre pagine di Heine, ha un tono di ironica esagerazione che non va ignorato. Ma contiene pur sempre ca­ ratteristiche e sostanzialmente esatte indicazioni. Soltanto la croce (cioè la religiosità teistico-cristiana di Schelling, e della maggior parte dei suoi discepoli) aveva potuto addomesticare un attivismo che era fine a se stesso. Esso non era specificamente « nazionale », ma col suo appello a modelli tedeschi — la fede piuttosto che le opere, Keplero piuttosto che Newton, la « reli­ gione » e la « mistica » piuttosto che il raisonnìren — aveva gettato le basi per una contrapposizione radicale tra la cultura « idealistica » e quella del razionalismo, e (molto al di là delle stesse intenzioni di Schelling) tra la Germania e le altre nazioni europee. Heine vide giusto anche su un altro punto: nell’additare, cioè, il carattere « distruttivo » di questo atteggiamento; il che può sembrare strano se si pensa che, a partire almeno dal 1802, Schelling criticò i suoi predecessori per aver soltanto « ne­ gato », e si propose il compito di additare lo sbocco « positivo » del travaglio dello spirito moderno. Ma si tenga presente che l’appello all’impegno individuale, un impegno col quale il sin­ golo attinge direttamente l’assoluto, fa sparire tutte le strutture ed i programmi intermedi. Il filosofo, personalmente, amava l’ordine, ed era per soluzioni moderate, quando non conserva­ trici. Ma non lasciò dubbi sul suo disprezzo per i programmi politici dell’epoca, e per gli uomini che li volevano realizzare, fossero essi progressisti o reazionari. Egli vagheggiava qualche cosa di radicalmente nuovo, e che fosse, insieme, un « ritorno » a quei valori originari che si erano via via corrotti col trascorrere delle epoche. La genericità stessa del proposito faceva sì che esso fosse incompatibile con ogni forma « empirica »: di qui quella 11

continua, tenace ostilità nei confronti dell’esistente — quel tratto per cui i romantici furono prima contro i governi del dispotismo, illuminato e no, e poi, pur sostenendo esteriormente l’ordine, ne­ garono ogni adesione interiore al sistema politico dell’Europa re­ staurata, contribuendo così a togliergli ogni credito tra le classi colte, e tra le giovani generazioni. In un famoso libro di quasi mezzo secolo fa, la Politische Romantik, Cari Schmitt negò che si potesse parlare di un « ro­ manticismo politico », come corpo compatto e preciso di dottrine. Non si vuol qui discutere la tesi centrale del libro, che del resto trovò subito, in Germania, autorevoli contraddittori. C’è molto di vero, però, nelle osservazioni con cui lo Schmitt concludeva la prefazione alla seconda edizione (1925): ciò che accomuna i romantici è l’essere espressione di una società che si è dissolta in individui, per cui l’uomo, isolato, abbandonato a se stesso, finisce per diventare il sacerdote del proprio io. Gli stessi valori universali a cui si richiama (Dio, la natura, il mondo e, si può aggiungere, il popolo e lo Stato) non riescono ad eliminare questo senso di isolamento della individualità, che può manifestarsi con l’abbandono quietistico, o con un attivismo sia individuale che volto a costruire una società compatta, « organica », nella quale inserirsi — proprio perché ne sente dolorosamente la mancanza. Questo schema può trovare una conferma nella storia intel­ lettuale di Schelling vista dall’angolo visuale delle sue idee morali e politiche. Nei capitoli che seguono si mostrerà il suo perpetuo oscillare tra la rivendicazione esasperata dei diritti dell’individuo, alla tutela dei quali si subordina il giudizio sulle istituzioni giu­ ridiche e politiche, e l’aspirazione a trovare un piano sopraindi­ viduale — la tradizione culturale, la natura, la mitologia, lo Stato — dal quale il singolo possa essere sostenuto, senza però sacrificare la radice ultima del suo essere, la sua vitalità. Si è fatto cenno, finora, dei tratti comuni tra Schelling e i romantici; ed è un fatto ben noto che nel primo romanticismo le tendenze ispirate ad un individualismo estremo, anzi, anar­ chico, sono molto diffuse: sullo scorcio del XVIII secolo sia F. Schlegel che Baader guardano con molta simpatia alla « anar­ chia ». Ma l’individualismo di Schelling è qualche cosa di diverso, molto più radicato e meditato: esso non è proponibile a tutti perché è in funzione di ciò che di grande può fare l’individuo che affermi la sua libertà — ispirandosi sia alle proprie qualità naturali che al commercio spirituale con le grandi opere e i grandi

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spiriti del passato. La « rivoluzione » è guardata con simpatia in quanto suscita le forze, non in quanto le livella, perché esalta a grandi cose, non perché garantisce a tutti una quieta esistenza. Il famigerato « aristocraticismo » ha la sua base proprio in questo motivo di fondo: perché chi sa creare o trasformare un mondo, sia esso artista, filosofo, o conquistatore, deve sottomettersi agli schemi mentali della « plebe », accettare le regole del « paradiso delle mediocrità »? La situazione ideale sarebbe quella in cui il « popolo » accettasse i valori che gli vengono offerti dalle per­ sonalità eccezionali. E Schelling si illuse, per qualche tempo, che la rivoluzione, politica e filosofica, e gli stessi sconvolgimenti che le guerre portavano in Germania, distruggessero la sicurezza della mentalità borghese, razionalistica ed utilitaria, e preparas­ sero il terreno per il governo dei « filosofi », o almeno di coloro che accettassero l’ispirazione delle « idee ». Quando si rese conto, definitivamente, che ciò era impossibile, allora rivendicò il di­ ritto dell’intellettuale di disinteressarsi della politica e dello Stato, e di esigere da quest’ultimo solo la possibilità di quell’o/zww che consente di dedicarsi tutto ai valori dello spirito. Egli sentì molto per tempo il pericolo del livellamento, non tanto sociale quanto culturale; e avrebbe potuto senza dubbio sottoscrivere, anche se attribuendo loro sfumature diverse, le parole di J. Burck­ hardt: « Saranno necessari grandi sforzi, e un grande spirito di rinunzia e di ascetismo, per poter rimanere, anzitutto, indi­ pendenti, e per potersi così dedicare al proprio lavoro produttivo e creativo ». Si tratta, come si vede, di una problematica troppo ricca e complessa perché ci si possa accontentare di ridurla allo schema tradizionale, quello di uno Schelling che, prima su posizioni « meccaniche », passò poi a quelle « organicistiche ». Anche se il filosofo ha scritto una Nuova deduzione del diritto naturale, è difficile che egli sia mai stato un giusnaturalista; ed anche se, per primo o tra i primi, ha applicato allo Stato il termine di « organismo », non ha mai dato un ampio e ragionato svolgi­ mento di questo principio. Il suo pensiero va colto, invece, in tutta una serie di interventi e di giudizi che muovono da una matrice culturale, o speculativa, per trarne conseguenze « poli­ tiche », sia in senso negativo, cioè di critica di schemi altrui, che positivo, cioè indicando le proprie soluzioni. Questa esigenza, di stabilire un legame tra « scienza » e atteggiamento pratico, era stata, prima di Schelling, enunciata da Fichte: ma mentre

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questi era stato indotto, dal suo rigore sistematico, a dare risul­ tati teorici che prescindevano spesso da un collegamento e da un confronto con la discussione « culturale », Schelling proprio in questo campo dette il meglio di sé, assimilando e fondendo in un discorso, non di rado teso e coerente, spunti che gli ve­ nivano da Schiller e da Herder, da Goethe e da Hòlderlin, da Kant e da Hegel. £ questo che mi ha indotto a tentare una storia intellettuale di Schelling dall’angolo visuale della sua filosofia « politica ». Per qualche decennio a Hegel si pensò come a un logico e a un metafisico pieno di astruserie; poi l’interesse tornò a volgersi al suo mondo morale, e la ricchezza di esso non è più ignorata da nessuno. Non mi ritengo certo pari ai grandi studiosi che hanno rinnovato la Hegel-Forschung, e del resto Schelling non è Hegel; ma ritengo che valesse la pena di mostrare una dimensione di Schelling che non è quella, più nota, del filosofo della natura, del metafisico, del filosofo della religione. E sarei lieto se l’aver chiarito quale sia stato l’atteggiamento di Schelling rispetto ai grandi conflitti ideali del suo tempo aiutasse a coglier meglio la sua personalità, e, di riflesso, anche gli altri aspetti del suo pensiero. Nel presentare al pubblico questo lavoro sento di dover rin­ graziare coloro che, con affettuoso interesse, ne hanno seguito l’elaborazione: ringrazio in particolare mia moglie Elena che mi ha aiutato, in più occasioni, a migliorare lo stile, e il prof. Mario Delle Piane, che si è generosamente preoccupato di assicurarmi tutto il tempo libero necessario per portare avanti la ricerca.

Siena, dicembre 1968.

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Nota

bibliografica

Per l’elenco delle opere di Schelling, e degli scritti su di lui e sul suo pensiero, rimando alla Schelling-Bibliographie di G. Schneeberger, Berna 1954, che non ha reso però del tutto superflua la precedente bibliografia di J. Jost, F. W. J. von Schelling, Bibliographie der Schriften von ihm und iiber ihn, Bonn 1927. Per le opere uscite dopo il 1953 si veda la Bibliografia filosofica italiana, e, soprattutto, il Répertoire bibliographique de la pbilosophie di Lovanio. Un’ampia raccolta di titoli, però, in W. Kasper, Das Absolute in der Geschichte, Magonza 1965, pp. x-xxvm. Per la bi­ bliografia giuridico-politica si veda A. Hollerbach, Der Rechtsgedanke bei Schelling, Francoforte sul Meno 1957, pp. 341-50. Le opere di Schelling sono citate secondo i Sàmtntliche Werke, Stoccarda-Augusta 1856-61, ad esse ci si riferirà indicando il volume e la pagina, senza altra indicazione. Per l’epistolario si citerà con Plitt lo Aus Schellings Leben. In Briefen, ò voli., Lipsia 1869-70, e con Fuhrmans, I, lo F. W. J. Schelling, Briefe und Dokutnente, Bd. I, a cura di H. Fuhrmans, Bonn 1962. Kant è citato secondo le Gesannnelte Schriften (G. S.) dcll’Accademia di Prussia; Hòlderlin secondo la Kleine-Stuttgarler-Atisgabc dei Sànitliche Werke (S. W.); con la stessa sigla si indicheranno an­ che le opere di Fichte (Berlino 1845-46), di Herder (ediz. Suphan) e di Hegel (fubilàurns-Atisgabe}. Per gli scritti e le lettere di Schelling, Fichte e Hegel non compresi in queste raccolte si darà di volta in volta l’indicazione precisa.

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mito e la società umana

1. Il peccato e la storia del genere umano.

Gli interpreti, anche i più autorevoli, del pensiero schellinghiano hanno considerato i primi lavori a stampa del filosofo 1 come poco più che esercitazioni accademiche, dalle quali si po­ teva, al massimo, stabilire l’ampiezza della sua erudizione, e il conto che egli faceva di autori come Lessing, Herder e Kant2. È mancata finora una ricerca che mirasse a definire esattamente la posizione che Schelling veniva assumendo, nell’ambito stret­ tamente teologico, su temi che erano centrali in una discussione che si svolgeva tra teologi ed esegeti biblici: la possibilità di applicazione del concetto di « mito » alla Sacra Scrittura, l’at­ tribuzione a Mose del I libro del Pentateuco, l’interpretazione del racconto del peccato originale.

1 Si tratta della dissertazione del settembre 1792 Antiquissimi de prima malorum humanorum origine philosophematis Genes. Ili explicandi tentamen criticum et philosophicum (S. W7., I, 1-40) e dell’articolo Ueber Mythen, bistorische Sagen und Philosopheme dcr àltesten Welt, scritto nel­ l’inverno 1792-93 e pubblicato nel 1793 (I, 41-83). 2 È tipico, per es., che i due maggiori storici della filosofia moderna della scuola idealistica, J. E. Erdmann e K. Fischer, accennassero rapida­ mente a questi scritti solo in quella parte della loro trattazione che era dedicata alla vita ed alle opere del filosofo. L’esposizione del « pensiero » di Schelling incomincia, per Erdmann, con la filosofia della natura, per K. Fischer, invece, col primo scritto del periodo « fichtiano », cioè con la Moglichkeit, che è del 1794 (lo stesso K. Fischer, però, afferma più avanti che solo con la filosofia della natura « inizia l’autonomo svolgimento del pensiero di Schelling »); una posizione analoga si ritrova nel noto manuale del Windclband. Valutazioni per lo più generiche nelle opere del Rosenkranz, del Noack c dello Haym. 17 2. Cesa

Ma è mancato anche il tentativo di vedere il quadro più ge­ nerale, la piattaforma « ideologica », se si vuole, della quale que­ gli studi sono l’espressione3: discutere sul «mito» voleva dire, per Schelling e per i suoi contemporanei, cercare i fili condut­ tori per una ricerca sulla più antica storia dell’umanità; e così, interpretare la Genesi voleva dire anche studiare come l’uomo fosse uscito dal paradiso terrestre e quale fosse stata l’origine della vita associata e della civiltà; tutti questi problemi conflui­ vano poi, secondo il vicino esempio del secondo discorso di Rousseau, in quello della natura dell’uomo e del carattere della società, e del destino dell’uomo e del genere umano — di quello che Herder chiamava, con un termine già carico di implicazioni teologiche e speculative, la Bestiminung dell’uomo. Queste discussioni sono l’esatto corrispettivo di quelle che, in linguaggio « laico » e, anzi, spesso violentemente antireligioso, si svolgevano contemporaneamente in Francia, e di cui i tedeschi erano bene informati; ma mentre lì era preso di mira lo stesso racconto biblico, criticato ora dal punto di vista della sua in­ verosimiglianza storica, ora da quello della sua non idoneità a valere come spiegazione scientifica delle origini del mondo, o ad­ dirittura respinto perché pieno, dal punto di vista della morale naturale, « d’absurdités et d’horreurs » in Germania gli sforzi dei pensatori anche più avanzati ’ erano rivolti ad una reinter­ pretazione, ed anche ad un ridimensionamento, di esso: rein­ terpretazione, da chi continuava ad attribuire alla Bibbia il si­ gnificato di libro che, ispirato o no, doveva servire da principio e modello per una vita cristiana, e, in genere, per una vita ci­ vile; ridimensionamento, da chi se ne serviva come semplice te­ stimonianza storica, anche se particolarmente autorevole e signi­ ficativa, da utilizzarsi accanto ad altre, e della quale andavano ricostruite le fonti delle tradizioni caldaiche, egiziane o persiane. Ma è sotto la diretta influenza di Rousseau che il riferimento al racconto biblico diventa spesso un semplice pretesto: così, 3 Per la dissertazione si possono trovare però utili indicazioni in E. Mùller, Holderlin, Stoccarda 1944, pp. 96-98. * D. Mornet, Les origine: intellectuelles de la revolution franqaisc, Parigi 1954 5, p. 106. 8 L’unica eccezione è Reimarus; non vale la pena, invece, di ricordare alcuni « estremisti », come Bardht o Edelmann, la cui influenza fu assai limitata, anzi, quasi nulla in ambiente accademico, dove cioè quelle discus­ sioni trovavano il naturale pubblico.

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per es., per Kant e per Schiller. E come il ginevrino aveva insi­ stito sulla distinzione tra ciò che era originario e ciò che era artificiale nella natura individuale dell’uomo, per individuare i tratti di un « état qui n’existe plus, qui n’a peut étre point existé, qui probablement n’existera jamais, et dont il est pourtant néces­ saire d’avoir des notions justes, pour bien juger de notte état présent » ® così molti pensatori tedeschi — basta fare il nome di Herder — si soffermano sullo stato anteriore al peccato, per ricercare lì il vero carattere della natura umana, opera di un Dio buono e paterno, che si è servito, per istruire gli uomini, dell’esempio e non del comando e della legge. Herder non solo distingue, ma contrappone la libertà e l’amore che spirano dal primo libro del Pentateuco, e la rigida legge (« tu devi, se no morirai ») che Mosè pese alla base della sua opera di organiz­ zatore e capo del popolo 1. E, come è ben noto, questo schema biblico finì per dilatarsi, e per avvicinarsi sensibilmente a posi­ zioni rousseauiane, con la contrapposizione tra il selvaggio o il barbaro, che vivono semplicemente, in conformità alla natura, e l’uomo di oggi, che trascorre la sua esistenza nelle città, sotto il controllo di quelle « macchine » che sono gli Stati. Anche in Germania, come in Francia, questa impostazione reca con sé una serie di critiche, implicite o esplicite, contro la società del proprio tempo. E, come in Francia, la critica diventa sempre più gravida di conseguenze, anche sul piano politico, quando si tende ad incarnare l’ideale di una vita libera non tanto nei pro­ genitori prima del peccato, o nei selvaggi americani, o nei « bar­ bari del Nord », ma invece nella Grecia classica. E non bastò ad arginare il diffondersi di questa tendenza la pesante ironia di Herder contro i Neugriecben, tanto più quanto l’immagine della Grecia venne rievocata e diffusa tra le giovani generazioni dagli inni e dagli scritti di Schiller. Questi accenni mostrano come non sia ozioso porsi il pro­ blema della piattaforma « ideologica » dei primi scritti schellinghiani: piattaforma che potrà esser meglio delineata mostrando le

Rousseau, Oeuvre! complète!, Parigi 1832, I, 152. 7 « Anche un bambino sa che presso tutti i popoli questi due periodi cono stati sempre separati, e talvolta per lungo tempo; che in certo senso l’epoca delle costumanze patriarcali, nella quale si viveva secondo antichis­ sime usanze, saghe, costumi c tradizioni era in certo senso in radicale con­ trasto con quella della legislazione formale, dei doveri civici, dei codici e delle sanzioni pubbliche » (Herder, 5. W., VI, 327-28). 19

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vicinanze e le differenze tra le affermazioni di Schelling, degli autori da lui espressamente richiamati, e dei suoi compagni di studio del collegio teologico di Tubinga. Converrà innanzi tutto dare un rapidissimo riassunto della dissertazione del 1792, prima di passare all’analisi dei punti più interessanti di essa. In tutti gli uomini — scrive Schelling — è radicata l’idea di una primitiva felicità: e il domandarsi come questa sia andata perduta, e donde abbia preso origine il male, è comune ai miti più antichi di tutti i popoli. La risposta alla domanda si può trarre da un semplice chinarsi sulla natura umana, nella quale è perpetuo il conflitto tra la tendenza a cercare la felicità (sensi­ bile) e quella ad andare al di là dei limiti dei sensi: a determi­ nare l’allontanamento dalla tutela della natura fu un desiderio sproporzionato, la cui motivazione non era ignobile, perché era il desiderio di sapere; ma dal contrasto tra la grandezza del de­ siderio e la infirmila: della natura umana, agitata dal dissidio tra sensibilità e ragione, prende origine il predominio sregolato (cioè avulso da ogni tutela e norma) delle passioni sensibili; nasce l’egoismo {amor sui) ed è esso che spinge gli uomini alla divi­ sione del lavoro, alle lotte, alla costituzione della società, al ri­ conoscimento dell’autorità. Si è costituito così uno stato interme­ dio, nel quale la spontaneitas 8 umana agisce sotto lo stimolo dei sensi, e non sotto la guida della ragione, è orientata non dalla virtù, ma dalla prudenza: tutti i mali dello stato di civiltà sono però serviti a disciplinare gli stimoli dei sensi, e a preparare l’animo « ad supremum solius rationis dominium »; e se finora ha dominato la sensibilità, si sta però preparando il dominio della ragione, che è del resto il fine supremo del genere umano: « E se mai ci fosse dato di giungere a questo fine, si avrà neces­ sariamente il dominio assoluto delle leggi del vero e del bene poste in noi stessi; la virtù sarà coltivata per se stessa, il bene sarà fatto perché è bene, il vero sarà amato perché è vero, e il falso respinto perché falso: si tornerà, per dirla in una sola

* Credo che la spontaneità! di Schelling sia la traduzione letterale della parola Spontaneitat adoperata da Kant nell’articolo (citato da Schelling) sul male radicale, che poi divenne il I capitolo della Religione nei limiti della semplice ragione (cfr. G. S., VI, pp. 24, 50 n., 143). Il concetto di sponta­ neità indica, in Kant, la necessità che ogni impulso, da qualsiasi parte pro­ venga, debba diventare una massima, per essere un motivo di azione. L’au­ tonomia può volgersi solo al bene, mentre la spontaneità può essere volta indifferentemente al bene o al male. 20

parola, nella primitiva età dell’oro, sed sola duce et auspice ra­ tione ». La prima cosa che balza agli occhi, in questa trattazione, è la pratica eliminazione del motivo della disobbedienza al comando divino, e quindi della « colpa » dell’uomo. Ma si tratta di un atteggiamento che, nella cultura tedesca, stava diffondendosi or­ mai da parecchi decenni. Le furenti polemiche contro il « raziona­ lismo », etico e teologico, condotte dalla generazione della Goethezeit non devono far dimenticare che a metter da parte il con­ cetto della caduta (ed a ridurre a poco o nulla, implicitamente, il ruolo della « grazia ») erano stati proprio i cosiddetti neologi. Quello che è forse il maggior esponente della corrente, Joh. Fr. W. Jerusalem (1709-1789) aveva considerevolmente corretto l’in­ terpretazione corrente del racconto biblico, affermando che era già costitutivo della natura dell’uomo il lavorare e il produrre — non erano, cioè, conseguenze della maledizione seguita alla caduta —, e che il peccato era nato dallo squilibrio tra sensibi­ lità e ragione: dallo scatenarsi della sensibilità erano poi nati tutti i mali, che avevano indebolito il corpo; di qui la fatica del lavoro, e il dolore del parto *. Per chi, come Jerusalem e i suoi amici, veniva concludendo la faticosa elaborazione dell’etica non confessionale della borghe­ sia tedesca nello Stato illuminato, l’attività umana era essenzial­ mente lavoro, e lavoro produttivo, ispirato dal sentimento del dovere, regolato dalla legge, utile agli altri uomini. Per la ge­ nerazione seguente il concetto di attività umana subisce una ti­ pica trasformazione, assumendo anzitutto una carica polemica che si rivolge contro l’edificio dello Stato della Aufklàrung, e contro l’accomodamento della religione alle esigenze di esso; il principale protagonista di questa polemica è Herder: le cui po­ sizioni andranno analizzate anche perché egli viene più volte ci­ tato da Schelling. Herder ammetteva la colpa dell’uomo: ma in­ sisteva — ed è qui che la sua differenza dagli Aufklarer è mani­ festa — sulla nobiltà 10 dei motivi che avevano indotto l’uomo a peccare ,l. L’uomo, allevato in un giardino, con le mani monde 0 Su Jerusalem v. K. Aner, Die Theologie der Lessingzeit, Tubinga 1929, pp. 64-79 e 158 sgg.; i suoi scritti furono spesso citati in tono elo­ giativo anche da Herder, per cs. nei Briefe, das Stiidiuni der Theologie betreffend (S. W., X, 35 e 41). 10 Cfr. H. A. Korff, Gcist der Goethezeit, I, Lipsia 19574, p. 35. ’* Herder, 5. \V., XIII, 434.

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del sangue degli animali, non poteva essersi ancora imbarbarito: « Ogni imbarbarimento delle stirpi umane è degenerazione, a cui esse sono state trascinate dalla miseria, dal clima o dalla inca­ pacità, divenuta abitudine, di regolare le passioni: dove cessa questo stimolo esterno, l’uomo conduce la sua vita terrena in modo più mite, come dimostra la storia delle nazioni. Solo il san­ gue degli animali ha reso barbaro l’uomo: ed inoltre la caccia, la guerra, e purtroppo anche certe angustie della società civile » ,s. Così nelle Ideen (1784-1791). Nella Aelteste JJrkunde des Menschengeschlechts (1774-1776), dove la polemica contro il razio­ nalismo è molto più immediata e vivace, Herder non solo re­ spingeva ogni tendenza a considerare il racconto biblico una fa­ vola o una allegoria *3, ma riprendeva l’interpretazione tradizio­ nale: il discorso del serpente (veduto, allusivamente, come il rappresentante dello spirito « critico » o del « buonsenso » dei filosofi) ha lusingato la donna e di qui è nata l’incertezza, l’inca­ pacità di resistere alla tentazione, il peccato. A questo seguì il rovesciarsi del rapporto tra l’uomo e la natura: prima gli animali erano amici dell’uomo, ora ne vengono uccisi; prima il lavoro era gioia, ora è fatica senza fine: certo, da questo nacquero le scoperte e le invenzioni, ma Herder non vede in esse alcun motivo di esaltazione della « potenza » dell’uomo: non sono che rimedi ai mali della vita Sul piano non più « storico » ma teoretico il peccato è veduto come la prova della animalità dell’uomo: ciò che distingueva l’uomo dalle fiere, nel paradiso terrestre, era unicamente il fatto che queste ultime non erano soggette ad alcuna proibizione; solo l’uomo lo era, e vio­ landola egli si è reso simile ad esse Sul problema che ci interessa Kant si distacca nettamente da Herder. Il punto di partenza, anzi, è esattamente opposto: non una perfezione originaria, suscettibile di corruzione, ma uno svolgimento delle disposizioni naturali mirante a sviluppare com­ pletamente la ragione (nel genere, se non nell’individuo) E l’uscita dal paradiso non fu altro che il passaggio « dalla roz-

52 Jbid., XIII, 430-31. 13 Ibid., VII, 70-72. “ Jbid., VII, 108. 15 Ibid., XI, 331. ,c Nello scritto Ideen zu einer allgemeinen Geschichle in weltbiirgerlicber Absicht (1784), G. S., Vili, 18-19.

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zezza di una creatura meramente animale all’umanità, dalle dande dell’istinto alla guida della ragione, in una parola, dalla tutela della natura allo stato di libertà » Ma se questo ha rappre­ sentato senza dubbio un progresso per la specie, lo stesso non può dirsi per l’individuo; dal punto di vista morale l’animalità, abbandonata a se stessa, senza che ancora la ragione sia adeguata al compito suo, porta alle passioni ed ai vizi. Nel saggio del 1792 Kant insiste sulla « impurità » della natura umana e, coerentemente, vede la caduta come un « met­ tere in dubbio il rigore del comando morale »; e dato che la trattazione si svolge tutta sul piano dell’individuo, la possibilità di salvezza è riportata alla presenza, nella nostra anima, della « voce del comando » che continua a risuonare « con forza non diminuita » 18 mentre viene ammesso, anche nel singolo indi­ viduo, un « progresso morale », che segue alla « rivoluzione nel modo di pensare » ,0. Da questa sommaria delineazione si può vedere come sia ge­ nerica, e fuorviante, l’indicazione di molti studiosi, che si sono limitati a dire che nelle pagine di Schelling si riscontra l’influenza di Herder e di Kant: senza rendersi conto che, sulla questione, i due pensatori erano su posizioni quasi antitetiche; e che si tratterebbe semmai di stabilire se e come Schelling abbia cercato di mettere d’accordo indicazioni così diverse. Ma prima di passare a questo, è il caso di ricordare un altro testo, anteriore di pochi mesi alla dissertazione di Schelling, che è dedicato allo stesso argomento: si tratta del saggio di Schiller La prima società umana secondo la norma della legge mosaica 20. Mentre ancora alcuni anni prima Schiller aveva dipinto con vivaci colori, servendosi in parte anche di materiale rousseauiano, il contrasto tra la barbarie primitiva e la storia dei popoli civiliz­ zati 2l, ora sembrava propendere per l’idealizzazione dello stato di innocenza, un « paradiso » nel quale l’uomo viveva « da per­ fetto discepolo della natura ». Eppure, sosteneva Schiller, quella

17 Cfr. il Mtttmasslicher Anjattg der Menschengeschicbte (1786), G. S., Vili, 115. ’• G. S., VI, 45 (utilizzo la trad. di G. Durante, Torino 1945). ’• G. S., VI, 47-48. 20 Pubblicato nel fascicolo XI di « Thalia » nel 1791. Cito dalla trad. it. di L. Mazzucchetti, F. Schiller, Scritti storici, Milano 1959, pp. 79-98. 21 Nella prolusione Che cos'è e a qual fine si studia la storia univer­ sale?, trad. cit., soprattutto le pp. 64-66.

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che il « maestro di scuola » chiama caduta è « l’evento più fortu­ nato e meraviglioso della storia umana », « un passo decisivo verso la perfezione » (qui è evidente la ripresa di motivi kan­ tiani). L’antinomia tra lo stato di felicità iniziale e quello suc­ cessivo viene risolta mostrando come da tutte le fatiche e da tutti i pericoli a cui l’uomo dovette sobbarcarsi nacquero per lui nuove acquisizioni e nuove gioie; ed egli « era ormai troppo nobile per il paradiso, e non conosceva se stesso quando, in duri frangenti e sotto il peso degli affanni, desiderava di ritornarci ». Ci si trova qui su una piattaforma che, per quanto riguarda l’ispirazione di fendo, è molto vicina a quella di Schelling (tanto da far pensare che egli abbia letto il saggio schilleriano, anche se non lo ha citato). Schelling, come si è visto, respinge l’idea di una disobbedienza alla legge divina: questa spiegazione, egli dice, è stata elaborata in ambiente sacerdotale 22, da cui l’anti­ chissimo autore del uvdog l’avrebbe ricavata. La radice del « male » è da ricercarsi piuttosto nella consapevolezza (presente in forma confusa nell’animo di ogni uomo) che è l’aumento del sapere che ha prodotto l’infelicità: e anche l’idea di una felice condizione primitiva è qualche cosa velut ex ipsa nostra infantia nobis servatami basta sentirne parlare perché si trovi in essa nescio quid amabile et verum. Ma il fondamento reale è la presenza in noi di una doppia serie di motivi di azione: da una parte l’aspirazione alla felicità, che però, essendo solo sensibile, non riesce a soddisfare appieno nessun uomo, e dall’altra « la voce imperiosa della ragione » che esige una illimitata obbe­ dienza. Lo stato di natura non rappresenta quindi per nulla una compiuta realizzazione della natura umana; è piuttosto un’esi­ stenza parziale, caratterizzata dal non conoscere (inscitia) la pro­ pria autentica destinazione: di qui la protesta contro l’idea di una perfezione attribuita ai primitivi, ai quali, secondo il filo­ sofo, si può tuttalpiù attribuire l’innocenza 23. È una infanzia del

32 « Diximus, haec philosophemata profecta esse a sacerdotibus [...], quos omni tempore impietatem improbitatemque naturae humanae acerbis querelis accusavisse constai, quos scimus etiam omnis hominum miseriae [...] in violatione divinarum legum posuisse » (I, 16-17). In nota Schelling richiama un luogo di Kant, che è poi quello con il quale si apre l’articolo sul male: « Il mondo va di male in peggio: tale è il lamento che si alza da ogni parte, così vecchio come la storia, così vecchio, infine, come la più vecchia di tutte le leggende poetiche, la religione dei preti » (G. 5.» VI, 19). 23 I, 19, n. 4.

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genere umano « ex qua egressi in humanae miseriae communionem pervenimus, simulac, nostri conscii facti, quid bonum, quid malum sit perspicientes, rationis auspicia sequi coepimus » 24. Questa delineazione è sufficiente a mostrare come, per Schel­ ling, non si presenti neanche il problema di un « ritorno » né di una « conciliazione » che ristabilisca in qualche modo l’unità e l’armonia originaria delle facoltà dell’uomo. Quella dello stato primitivo non è neanche una ipotesi, come poteva essere per Rousseau 20 o per Kant, è semplicemente un mito, e ci si limita a prendere atto del fatto che esso sembra essere profondamente radicato nell’animo degli uomini. Ma non viene però neanche escluso il motivo di un punto di arrivo definitivo (è questo il « ritorno all’età dell’oro » con cui si conclude la dissertazione) e che si avrà quando la ragione avrà finalmente potuto imporsi, senza resistenze27. Il fondo teorico di questo atteggiamento è da ricercarsi nella rigida opposizione tra sensibilità e razionalità, che fa sì che ci sia un vero e proprio salto tra il medius quasi cuiturae gradus 2‘ — cioè la storia della civiltà umana, con i = ' I, 26.

24 « Enimvero si nobis ad illum statum redeundum foret, nunquam ab eo discesissemus » (I, 31). 20 Non intendo negare ogni influenza di Rousseau nella redazione di questo scritto; ché, anzi, proprio qui (e, per Schelling, ciò è quasi ecce­ zionale) il ginevrino c espressamente citato. Cfr. anche R. Fester, Rousseau und die deutsche Geschichtsphilosophie, Stoccarda 1890, soprattutto le pp. 161-64. 27 Occorre chiarire subito, a scanso di equivoci, che qui « ragione » non ha nulla a che vedere con un principio immanente alla storia umana; è invece la facoltà di giudicare sulla base di princìpi puri, al di fuori della influenza di motivi determinanti empirici. Ciò è detto chiaramente, del resto, dallo stesso Schelling verso la fine della dissertazione: « Universum autem genus humanum in id quasi educatum, eumque ultimum esse historiae humanac universae terminum, ut ad solum rationis imperium rcs hominum omnes redeant, ut leges rationis purae et ab omni sensuum imperio alienae rebus humanis universis exprimantur, ipsius nobis nostrae rationis vis in­ finita persuader » (I, 38-39). Sulla portata pratica della «ragione» di Kant importanti osservazioni in C. Lacorte, Il primo Hegel, Firenze 1958, pp. 186 sgg. — La « ragione » della quale parla Herder è invece il risultato dello svolgimento delle nazioni, piuttosto che una forza che agisce e libera; cfr. W. Lùtcert, Die Religion des deutseben Idealismus mtd ihr Ende, I, Gutersloh 1923 3, p. 158; il Liitgcrt continua osservando che Herder non ha idea del Reich Gottes, del quale parla invece Kant (c che diventerà poi uno dei motti dei tubinghesi). 28 Schelling vuole palesemente evitare di dar l’idea che il progresso del quale egli parla conduca senza scosse al dominio della ragione: e scrive

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suoi vizi, i suoi travagli e le sue conquiste, condizione nella quale ancora oggi ci si trova — e il punto di arrivo finale. È uno schema kantiano radicalizzato e irrigidito, che elimina radical­ mente ogni possibilità di conciliazione tra il mondo dell’uomo sensibile e la razionalità. Se si paragona questa posizione con la mitizzazione di uno stato di armonia e di felicità, quella della Grecia, data da Schiller col famoso inno Gli dei della Grecia, e da Hólderlin con l’inno Alla libertà, ci si potrà render conto di come il mito di una umanità bella, felice, e non travagliata non significasse nulla per Schelling. Mentre invece, quando egli parla del « grado intermedio di civiltà » esalta, con frasi piene di pathos, il progresso che in certi campi, per es. quello artistico, ha imitato, e infine ha superato, la stessa natura. Anche se, come si è detto, non è posto un passaggio graduale tra questo e il regno della ragione, (la cui realizzazione, peraltro, è rimandata « a tempi più felici ») si dice espressamente che la storia dolorosa degli uomini ha molto contribuito alla realizzazione dei « sommi ini del genere umano ». Perché la violenza stessa di quei tra­ igli « ci costringe a cercare in noi stessi il sollievo di quei mali, e a volgere la mente dalla sola considerazione di essi alla ricerca di una più alta e felice perfezione ». Qui trova la sua radice l’esaltazione della forza e della capa­ cità degli uomini; mentre Herder aveva spesso accennato ad una guida provvidenziale, che aveva retto il genere umano fino dalle sue origini, e che l’aveva condotto sulla sua strada =#, in Schelling espressamente: « [...] quei mali ci fecero uscire dalla rozzezza naturale, repressero gli impulsi selvaggi dei sensi, prepararono l’animo (non nel senso che si fosse fatto migliore, ma in quello che era sempre più preparato al­ l’umanità) ad supremunì solius rationis dominiti™ » (I, 37). 29 Si potrebbero facilmente moltiplicare le citazioni; per es. S. W., VII, 120: « Forse che l’esito non dimostra che un padre che non poteva sbagliare aveva tutto provveduto, meditato e preparato? ». La provvidenza divina sembra però, nel pensiero di Herder, affiancarsi a quella che era la destinazione del genere umano: la saggezza del Padre, insomma, ha creato le condizioni per cui quello che doveva avvenire ha potuto accadere: « Il suolo doveva essere coltivato, tutta la terra doveva essere abitata e (questo è il più bel passo del processo progressivo) proprio per l’opera e p-er la colpa dell’uomo» (VII, 117). Così nel 1776, nella Aeltestc Urkunde; e nel 1782, nel Votn Geist der ebràiseben Poesie (anche questo libro è ci­ tato da Schelling) si afferma che la prima colpa dell’uomo si trasformò in nuova direzione della condizione umana, e che la punizione di Dio diventò una nuova benedizione, anche se più dura per chi la provava (S W XI, 337). 26

non c’è alcun accenno in questo senso: si parla, una sola volta, del « sapientissimum rerum humanarum consilium »; e si afferma energicamente che a questa altezza si è giunti non « per la beni­ gnità non meritata di una qualche fortuna, ma in grazia delle nostre forze ». Anche se si riprende l’espressione kantiana dei « fini » del genere umano, questi sono più un obiettivo da realiz­ zare (e che in parte lo è stato) che una finalità in senso metafisico che abbia guidato da lontano tutto il processo. Lo « stadio intermedio di civiltà » è quello nel quale si forma la società umana e l’organizzazione politica. Anche qui viene ripresentato il dualismo — che si era visto prima — tra sensi­ bilità ed intelletto; con la spontaneitas applicata al mondo sensi­ bile, e che ha spinto gli uomini alla scienza ed alla società, il motivo ispiratore delle azioni umane è la prudenza 30, e non una virtus comune a tutti gli uomini, che li guidi dall’interno, e fa­ cendo a meno di leggi esteriori. La conseguenza è che si cono­ scono non schemi di relazioni universali tra gli uomini, ma solo relazioni tra singoli, tra singoli e società, e tra società. Dal primo tipo di rapporti prende origine e si radica la diseguaglianza tra uomo e uomo (da cui nascono luxuria, invidia, dolus), dal se­ condo le forme di organizzazione all’interno degli Stati (forme di governo, legislazione, tecniche politiche, e da ultimo hominum in homines saeva tyrannis), dal terzo la pace e la guerra, le riva­ lità e le alleanze. Questa elencazione è tutt’altro che originale: nell’interpretare così il testo biblico Schelling ha senza dubbio attinto a piene mani dai suoi modelli, da Herder e da Rousseau. È interessante però rilevare che da Herder egli ricava sostanzialmente solo la valutazione negativa delle forme giuridico-politiche di vita asso­ ciata, e non le premesse da cui questa critica prende le mosse. Herder, cioè, vede nelle forme esterne che reggono la vita degli uomini null’altro che « costose macchine statali » che non hanno alcun carattere « naturale », e che proprio per questo decadono 30 « Enimvcro erat hic mcdius quasi culturae gradus, malis hominum eo magis invalentibus, quo magis valere coeperat hominis spontaneitas, non summo rationis arbitrio, sed sensuum maxime conditionibus constans, non virtutis, sed prudentiae Icgibus gubernata » (I, 37). Prudentia è qui evi­ dentemente un termine tecnico, traduzione della Klugheit kantiana (per es. G. S., IV, 416); ma il termine si ritrova anche nella Logik tind Metapbysik di J. G. II. Feder, che fu uno dei primi libri filosofici che Schelling ebbe tra le mani (Plitt, I, 25).

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in forme negatrici della « umanità ». A queste egli oppone la piccola comunità naturale, retta dall’amore tra tutti i suoi mem­ bri; egli opponeva questo amore, rivolto ad oggetti precisi e determinati, e quindi sentito ed attivo, all’atteggiamento dello « ozioso cosmopolita », il cui preteso amore per tutti gli uomini non è altro che un « fantasma immaginario ». Schelling invece è molto più schematico: per lui tutto ciò che impedisce l’unione tra tutti gli uomini viene riportato all’egoismo ed alla « pru­ denza », a cui viene opposta invece la « filantropia »: l’amore, cioè, che ha per confine solo la terra, e per oggetto l’intera fa­ miglia umana; la filantropia potrà affermarsi, naturalmente, solo quando a dominare sarà la virtù, e non la prudenza, la sponta­ neità della ragione, e non quella della sensibilità. Il suo « amore per gli uomini » non ha nulla di sentimentale; e anche in questo egli segue il modello kantiano31. Vale la pena di soffermarsi un momento su questo aspetto per misurare su un punto fondamentale la differenza — che va fin d’ora registrata, perché interessa un aspetto importante del successivo processo intellettuale di Schelling — tra il nostro autore e l’ambiente nel quale viveva: è ben noto, infatti, il ruolo che « l’amore » ha assunto (sotto la diretta influenza di Schiller) nelle formulazioni teoriche del gruppo tubinghese, e proprio a proposito di una serie di problemi molto vicini a quelli di cui egli si stava occupando. Sarebbe superfluo parlare qui di Hegel ”; è il caso, invece, di accennare a Hólderlin: nel già ricordato Inno alla libertà (1792) l’amore è posto come il tratto più caratteristico dell’innocenza naturale; e lo « staffile della legge » che, dopo la fine del paradiso, volle sostituire quei vin­ coli che l’amore aveva creato, non servì che a far sentire all’uomo la miseria e la schiavitù; e si conclude con il ritorno dell’amore, che è insieme un ritorno al « seno della madre », cioè alla na­ tura 33. Il motivo è ripreso e arricchito da Hólderlin in un altro

31 Con questo non intendo escludere che nella « filantropia » schellinghiana ci siano anche dirette reminiscenze schilleriane: basta ricordare lo « Ich liebe die Menschheit » del marchese di Posa nel dialogo con Fi­ lippo Il (Don Carlos, atto III, scena X). 32 V. Lacorte, Il primo Hegel cit., alla voce, nell’indice analitico. 33 Kehret nun zu Lieb’ und Treue wieder — Ach! es zieht zu lang entbehrter Lust Unbezwinglich mich die Liebe nieder — Kinder! kehret an die Muttcrbrust!

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scritto di poco posterrore: « Ci sono due ideali del nostro esi­ stere: uno stato di suprema semplicità, nel quale i nostri bisogni sono in reciproca armonia con se stessi, con le nostre forze, e con tutto ciò con cui noi siamo in rapporto — e ciò solo me­ diante l’organizzazione della natura, senza la nostra collabora­ zione —, ed uno stato di suprema cultura, dove si verifica la stessa situazione con bisogni e forze infinitamente rafforzati e moltiplicati — e mediante l'organizzazione che noi siamo in grado di dare a noi stessi » 34. Ora, anche se è patrimonio co­ mune del gruppo tubinghese la delineazione dei punto di arrivo come un ritorno c'e’J'armonia del punto di partenza, ciò che distingue Schelling dagli altri suoi compagni di studio è la sepa­ razione, tutta kantiana, della razionalità da tutto il resto, ivi compreso il processo per cui ci si è arrivati. « L’amore », come continuo arricchimento della singola personalità, c armonizza­ zione di essa con le altre — secondo il concetto schilleriano — non trova, di fatto, alcun posto 3S. Ed è quasi certamente dipen­ dente da questo un altro fatto: che Schelling, almeno in questi anni, non si riferisce nemmeno una volta, come modello, alla civiltà greca ed alle sue forme di organizzazione politica e reli­ giosa; egli giungerà anzi, nelle Lettere filosofiche, a respingere la possibilità di applicare un?, schema etico greco agli uomini del­ l’età presente. In questo modo alla legge ed all’ordinamento poli­ tico particolare viene attribuito un significato del tutto negativo, senza che però sia nemmeno accennata una condizione nella quale, prima di arrivare al dominio della ragione, le istanze della vita

Ewig sei vergessen und vernichtet, Was ich zùrnend vor den Gottern schwur; Licbc hat den langen Zwist gcschichtet, Herrschet wieder, Herrscher der Naturi (5. TF., I, 144). 34 È l’inizio del frammento dello Iperione pubblicato nel 1793 nella « Neue Thalia » di Schiller (S. IF., Ili, 169); e più avanti: « La sempli­ cità c l’innocenza della prima età si spengono, ma per ritornare quando la cultura sarà giunta a compimento, c la santa pace del paradiso tramonta perché ciò che era soltanto dono della natura torni a rifiorire come pro­ prietà che il genere umano ha acquistato con il proprio impegno » (S. W., Ili, 187). 38 Cfr. anche E. Staiger, Der Gelsi der Liebe und das Schicksal, Frauenfeld-Lipsia 1935, p. 27; è noto il detto di Schleiermacher (che si riferiva, peraltro, a scritti successivi) che quella di Schelling era una « sag­ gezza senza amore ».

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comunitaria, o del rapporto degli individui tra loro, trovino anche solo un accenno di soluzione.

2. Tra Heyne e Herder. Al « popolo », come nozione intermedia tra l’uomo e l’uma­ nità, Schelling venne avvicinato dalla sua analisi del concetto di mito. Ai fini della presente ricerca non interessa tanto soffermarsi sulle definizioni e sulle classificazioni che di quel concetto il filosofo elaborò, quanto vedere il contesto nel quale il « mito » è collocato, il terreno dal quale esso trae origine: che poi non è altro che il problema del carattere delle società primitive, e della loro civiltà. Come risulta dalle note di tutti gli scritti di questo periodo, oltre che, naturalmente, dal contenuto delle trat­ tazioni, Schelling si è largamente ispirato alle posizioni della cosiddetta «scuola mitica» di Gottinga36, il cui iniziatore è, come è noto, C. G. Heyne 37. È appena il caso di licordare quale era, nella cultura tedesca del ’700, il ruolo della « Georgia Augusta »: università — come è stato detto — « che partecipava del vincolo spirituale, ormai allentato, della coscienza imperiale tedesca, ma contemporanea­ mente rendeva onore al re d’Inghilterra, che ne era rettore, e così si sentiva aperta alle spalle tutta l’estensione di un impero mondiale, quello inglese » 3*. E ciò valeva non solo per gli studi di scienze politiche: Gottinga fu una dei canali principali attra­ verso cui si diffusero in Germania le idee e gli scritti del pre­ romanticismo inglese ”: basta ricordare, infatti, che fu proprio 36 II primo ad aver parlato, anche se rapidamente, della influenza di Heyne è stato L. Noack, Schelling und die Philosophie der Romanlik, Berlino 1859, I, 92. Ad aver richiamato l’attenzione di Schelling sul me­ todo e sui risultati della scuola di Gottinga era stato probabilmente lo stesso Ephorus dello Stift, C. F. Schnurrer, illustre orientalista, che era stato a Gottinga ed era in buone relazioni con gli studiosi di colà (cfr. W. Bòi-im, Hòlderlin, I Bd., Halle a. S. 1928, p. 73). 37 Su Heyne e la « scuola mitica » è da vedere adesso l’importante studio di V. Verrà, Mito, rivelazione e filosofia in J. H. Herder e nel suo tempo, Milano 1966, che si cita qui una volta per tutte. 38 W. Kaegi, Meditazioni storiche, a cura di D. Cantimori, Bari 1960, p. 277, e C. Antoni, La lotta contro la ragione, Firenze 1942, pp. 109-12. 39 Cfr. F. Meinecke, Le origini dello storicismo, Firenze 1954, pp. 202 sgg. e 231 sgg.

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ad opera di un professore di Gottinga, J. D. Michaelis che venne stampata in Germania la famosa opera del Lowth, De sacra poesi hebraeorum, che tanta influenza ebbe su Herder, e che un figlio del Michaelis tradusse in tedesco lo Essay on thè Originai Genius and Writings of Hotner del Wood che avrebbe provocato, come si disse, una « rivoluzione » nel modo di intendere l’antichità clas­ sica e contribuito a porre in termini nuovi la questione omerica. Già all’indomani della prima edizione inglese del libro del Wood, Heyne ne aveva redatto una recensione molto elogiativa, dove si afferma che l’europeo moderno, che vuol giudicare tutto col metro della civiltà contemporanea, farà bene ad astenersi dal leggere un poeta come Omero; per capirlo la cosa più utile è ispirarsi « ai libri di viaggio che descrivono i paesi abitati dai selvaggi, e da quei popoli che vivono in un ordinamento sociale e politico ancora primitivo ». Però per grande che sia stata, come è testimoniato dallo Heeren “, l’influenza del libro del Wood su Heyne, va pur detto che egli fu in grado di darne quella valu­ tazione, e di spingere altri a diffonderne le idee, proprio perche era già arrivato per proprio conto a rappresentarsi un quadro non convenzionale delle società primitive; il suo errore, era, semmai, di paragonare le comunità elleniche dei tempi descritti da Omero con le tribù canadesi e irochesi descritte dai viaggiatori suoi con­ temporanei. Come nei fanciulli, egli scriveva, così « in populis barbaris et agrestibus » il primitivo linguaggio è inseparabile dai movimenti del corpo e della bocca; danze e canti accompagnano tutte le manifestazioni di vita di un popolo 4=, ed i componi­ menti dei primi poeti non servono, come adesso, « ad ingeniosam aliquam voluptatem »43 ma alla reale necessità del popolo, dando espressione (nelle forme possibili, in una comunità di uomini dal linguaggio elementare, ed ignari di concetti astratti) a quelle che sono le credenze comuni. Il terrore per le catastrofi e le intemperie, la meraviglia per i fenomeni naturali, e per le imprese degli uomini, doveva essere tanto più grande quanto più limitato,

40 Cfr. R. Volkmann, Gescbichtc tind Kritik der wolfschen Prolegontena ztt Homer, Lipsia 1874, pp. 23 sgg. 41 A. L. Heeren, Cbr. H. Heyne, biograpbisch dargestellt, Gottinga 1813, pp. 210-12. 42 De efficaci ad disciplinam pttblicam privatamene vetustissimortim poetarti/» doctrina (1764), in « Opuscula academica », I, Gottinga 1785, p. 168. 43 Ivi, p. 178.

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nel tempo e nello spazio, era l’ambito dell’esperienza vissuta; accadde così che l’animo « ad comparationes et similitudines confugit, figuras et allegorias adscivit, magnifica et splendida oratione omnia exornavit, resque ipsas, quae si a mente composita et sedata considerarentur, nihil adeo insoliti et inauditi haberent, forte etiam tenues essent et obviae, in mythos et fabulas mutavit » 4\ E le lotte degli elementi, a cui gli uomini primitivi assi­ stettero, vennero trasfigurate in lotte degli dèi tra loro, la dipen­ denza degli uomini dai fenomeni naturali fece pensare ad un continuo intervento degli dèi nelle cose umane, che era il pen­ siero più idoneo a stimolare la poètica vis. « Discernenda in his omnibus est oratio mythica, quae in ornamenta poètica abiit, a vetere aliquo facto, quod narratione gentilium seu popularium ad hominum memoriam propagatum erat. » 45 Su uno dei problemi più dibattuti nei due secoli precedenti — quello, cioè, del carattere dei primi uomini — Heyne non aveva un atteggiamento preciso 4‘; la questione, in fondo, gli era indifferente perché egli prendeva le mosse dalle piccole comunità già costituite47; e quello che gli importava era insistere sul fatto che le tradizioni ed i miti di ogni popolo si tramandano nella sua storia successiva. È vero che la peculiarità della civiltà dei greci è da ricercarsi nel fatto che essi « ad tantum litterarum fastigium erecti » hanno conservato legami strettissimi col loro passato; ma se nei greci questo è accaduto in forma particolar­ mente intensa, ciò vale per ogni popolo, perché non c’è epoca che possa troncare del tutto con le vestigia delle credenze e dei costumi pristini4*. Né questo processo avviene quasi fosse un mero fatto biologico di ereditarietà: anzi, nel trapasso tra le epoche primitive e quelle di più sviluppata civiltà, quando con

44 De caussis fabularum seu mytborum physicis (1764), ivi, p. 188. 43 De origine et caussis fabularum homericarum, in « Novi commen­ tarli soc. regiae scient. gottingensis », t. Vili (1778), pp. 45-48. 46 Nonnulla in vitae humanae initiis etc. (1765), in « Opuscula », cit., I, 208-9. 47 C’erano, su questo punto, precedenti illustri; anzitutto quello di Grozio, De jure belli ac pacis, 1. II, c. 2, 2, n. 4-6. Anche Pufendorf sostiene che « lo stato naturale non è mai esistito se non temperato o parziale, vale a dire nel caso in cui alcuni uomini si siano riuniti tra loro in uno stato civile o in uno stato analogo, ed abbiano continuato a mante­ nere lo stato di libertà naturale verso gli altri » (cito dalla antologia curata da N. Bobbio, Princìpi di diritto naturale, Torino 1952, p. 68). 44 De caussis eie., in « Opuscula », cit., I, 205-6.

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le stesse parole si intendono cose molto diverse da quelle della antiquior mythologia, la religione del popolo non consiste che nel conservare i costumi dei padri, quali che essi fossero: « Interea communis omnium, publica privataque fuit, religio, morem patrium, qualiscumque tandem ille esset, servare; relictumque philosophiae, ut de divina mente, universi caussa, quaereret; vulgo satis habitum, eorum saltem rerum, quae ad se suasque utilitates spectarent, caussas seu a deo patrio, seu omnino a diis, notione parum explicita, repetere » 10. Si giunge così all’affermazione della individualità di ogni popolo, e di ogni tradizione mitica; è significativo che nello scritto che Heyne redasse pochi anni prima della morte, e nel quale si trovano ordinatamente esposti i risultati della sua più che quarantennale meditazione sul problema del mito 50, egli si levasse, con una durezza inusitata in un uomo così accademica­ mente urbano, contro le tendenze della nuova mitologia roman­ tica 51 a raccogliere in un tutto organico i miti di popoli diversi per ribadire invece che la tradizione mitica di ogni popolo va stu­ diata separatamente, e che solo dopo che questo enorme lavoro fosse sufficientemente avanzato si sarebbero potute tentare delle comparazioni, stabilire gli strati più antichi, e parlare di eventuali influenze M. La mitologia romantica, quale si era già manifestata nei primi anni del XIX secolo, voleva andar sotto la scorza dei miti olimpici per enuclearne una dottrina religiosa, e cercare l’imma­ nenza del divino nei misteri, nelle iniziazioni, nelle credenze or­ fiche. Per Heyne queste forme « simboliche » non erano che la degenerazione della vera religione antica, che non ha bisogno di una dottrina esoterica, ma è tutta contenuta nei riti e nelle ceri-

40 Ivi, p. 206. 00 Sermonis mythici seu symbolici Interpretatio ad caussas et rationes ductasque inde regtdas revocata, in « Commentationes s.r.s. gottingensis », t. XVI (1808), pp. 285 sgg. 51 Le indicazioni bibliografiche essenziali sulla storia del problema nel voi. del Verrà, op. cit.; da tener presente anche l’antologia, curata da K. Kerényi, Die Eròffnung des Zugangs zttm Mythos, Darmstadt 1967, pp. 1058. Più tardi anche Schelling prese posizione contro Heyne e la sua scuola (per es. V, 409 e XI, 30 sgg.); il Noack, op. cit., II, 329 riferisce la voce che Schelling non avesse pubblicato la sua Filosofia della mitologia per timore delle critiche dei dotti di Gottinga. flS Sermonis ctc., cit., pp. 287-89.

3. Cesa

monie M. Né diceva questo soltanto allora: in uno degli scritti citati anche da Schelling egli affermava che atti di culto si hanno presso popoli « qui de divina natura ne cogitasse quidem videntur; sunt adeo athei, etsi cultum religiosum apud eos agnoscere licet ». Quando i germani antichi, egli continua, avevano per dèi il sole e la luna, come si può pensare che quei barbari « omnium rerum ignari » pensassero a simboli della natura divina, o a cause fi­ siche del mondo? M. Heyne si era sempre astenuto dall’estendere le sue conside­ razioni sul mito al Vecchio, e, a maggior ragione, al Nuovo Testamento travagliato, nella prima gioventù, da una crisi religiosa ne era uscito decidendo di non occuparsi più di que­ stioni dogmatiche o scritturali; ed aveva mantenuto il proponi­ mento con la stessa tenacia con cui, dopo la sua chiamata al­ l’università di Gottinga, aveva smesso di seguire la letteratura contemporanea per dedicarsi tutto al mondo antico. Ma non è irbitrario, credo, affermare che il suo silenzio sulla religione ebraica — che poteva esteriormente essere inteso come il rico­ noscimento di una posizione privilegiata di essa rispetto alle altre ** — in realtà non significasse affatto questo, perché il pa­ radigma al quale riferiva le religioni del mondo antico non era affatto il monoteismo ebraico, ma una istanza razionalistica: aver 43 « Religiones vulgi non doctrina aliqua, sed ritibus aut caeremoniis continebantur, in quorum caussas et origines vulgus aut omnino non in­ quini, aut quoties de iis quaeritur, narrationibus a patribus acceptas... homines indocti memorant » (Scrmonis etc., cit., p. 304). 44 De caussis etc., in « Opuscula », cit., I, 200-1. 44 « Quamvis enim Heynius ipse nunquam de rebus theologicis com­ mentari voluerit [...] » (Memoria C. G. Heynii commendata etc., di A. H. L. Heeren, Gottinga 1812, p. 16). A quanto ho potuto controllare, questo è rigorosamente vero: per es. nelle Ad Apollodori Atheniensis bibliothecam Notae, Gottinga 1783, anche quando lo stesso argomento — per es. Deucalione e il diluvio (I, 91 sgg.) o la mite vita degli arcadi (II, 656 c 668 sgg.) — avrebbe reso ovvio un riferimento al diluvio biblico o al pa­ radiso terrestre, Heyne se ne astenne scrupolosamente. Un accenno, però, alla possibilità di applicare i suoi princìpi metodici agli « scrittori sacri » nella sua prefazione allo Handbuch der Mythologie di M. G. Herrmann, Berlino e Stettino 1800 2, I, p. xvi. 44 Che è poi la tesi sostenuta, con maggiore o minore intima convin­ zione, da molti autori; cfr. per es. Hobbes, Sul cittadino, trad. Bobbio, Torino 1948, p. 341 e Vico, La scienza nuova seconda, Bari 1953 ’, cpv. 313: « Perche le genti n’ebbero i soli ordinari aiuti della provvedenza; gli ebrei n’ebbero anco aiuti estraordinari dal vero Dio [...] ».

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ie idee chiare de divina natura. Secondo lui a questo grado erano arrivati, nel mondo antico, solo alcuni filosofi, e non sono mol­ tissimi neanche quelli che vi sono giunti nel mondo moderno: a nessuno potrebbe venir in mente — egli scriveva — di con­ siderar davvero religione certi atti di culto dei popoli cattolici. Il suo razionalismo era però fortemente improntato dal senso della individualità dei popoli e delle epoche storiche; era per questo che egli si staccava dalla concezione così diffusa nel XVIII secolo che, nelle cerimonie dei popoli primitivi, voleva veder adombrato una sorta di deismo; ma proprio in base allo stesso principio veniva meno ogni possibilità di « rivivere » in qualche modo le esperienze « religiose » del passato. Se non era stato senza commozione che egli, liberandosi da una immagine con­ venzionale, aveva intravisto nel mondo classico i lineamenti della mentalità primitiva, e la genesi « necessaria » del mito, ciò non significava affatto che egli ammettesse, di quel mondo, qualche cosa di più di una conoscenza storica.

Dopo quanto si è detto su Heyne può sembrare strano par­ lare di Herder; eppure è necessario farlo, sia perché — come si è detto — i titoli dei suoi libri ricorrono spesso alle note degli scritti schellinghiani, sia perché è un giudizio tante volte ripe­ tuto da esser quasi pacifico che sullo Schelling di questi anni, e in particolare sullo scritto sui miti, l’influenza herderiana sia stata determinante5T. Questo errore, del resto, è nato da un altro errore: quello per il quale Herder, appunto, sarebbe stato il primo ad applicare il metodo mitico alla interpretazione del mondo antico in genere, e di quello ebraico in particolare, e che i dotti di Gottinga si sarebbero ispirati a lui; quando semmai, e non fosse che per ragioni cronologiche, potrebbe esser vero il contrario 58. Però il problema delle influenze reciproche è del tutto mar­

47 Per es.: R. Haym, Die romantische Schule, Berlino 1870, p. 557; K. Fischer, Geschìchte d. neuern Philosophie, VI, Heidelberg 1872, p. 17; K. Rosenkranz, Schelling, Danzica 1843, p. 17, e H. Zeltner, Schelling, Stoccarda 1954, p. 218. Piuttosto confusa la trattazione in A. Allwohn, Der Mythos bei Schelling, Charlottenburg 1927, pp. 13-18 e in F. Strich, Die Mythologie in der deutschen Literatur von Klopstock bis Wagner, Halle a. S. 1910, I, pp. 371 sgg. 58 Hartlich-Sachs, Der Ursprung des Mythosbegriffes in der niodernen Bibelwissenschajt, Tubinga 1952, pp. 47 sgg. e appendice III (pp. 172-75). 55

r ginale. Il fatto che discepoli di Heyne come Eichhorn o Gabler citassero Herder con rispetto 59 e che Herder, per parte sua, citasse Heyne, lodasse « la dottrina » e « il gusto » di Eichhorn, e ne raccomandasse i libri ai giovani teologi, si spiega, più che per le posizioni comuni, per il fatto che essi avevano in comune gli avversari: da una parte le tendenze più nettamente anticri­ stiane, o addirittura atee, della Aufklàrung-, e dall’altra l’ortodossismo legato all’interpretazione letterale o allegorica della Scrit­ tura. È stato detto che l’unica cosa che c’è in comune tra tutti questi studiosi è « la volontà di comprendere storicamente, di cogliere un testo o un documento nella sua particolarità e condizionatezza storica, e partendo dallo spirito dell’epoca a cui esso appartiene » 00. Ma non va dimenticato che se per gli altri questo è praticamente tutto, per Herder è invece solo il mezzo per qualche cosa che per lui è infinitamente più importante: la pos­ sibilità di rinnovamento se non dell’umanità, almeno del sin­ golo o della piccola comunità a contatto con le fonti auten­ tiche e vive dell’esperienza del passato. Anche Herder, quando passa in rassegna le civiltà e i po­ poli, attribuisce a ciascuno di essi un posto ben individuato: anch’egli sostiene (come Eichhorn e Gabler) che la Bibbia va letta come un libro umano, scritto per gli uomini. Ma il senso che egli ha della « tradizione » e dei « miti » che l’hanno tra­ smessa è ben diverso dalla freddezza razionale con la quale Heyne descriveva la genesi della mitologia antica. Non è per gusto arcadico che egli nega che la prima umanità sia vissuta nello stupore e nel terrore, e che di lì abbia tratto le sue storie di fatti miracolosi, di dèi e di eroi; e non è per ossequio al cottsensus gentium che egli si appella al fatto che nelle leggende di tutti i popoli si trovano accenni al paradiso terrestre 61 : ciò avviene perché egli pensa ad una umanità una volta innocente, e poi imbarbarita e corrotta, una volta quieta e felice, e poi

59 Del resto Io stesso Heyne accettò di curare, dopo la morte di Herder, alcuni volumi delle opere di questi nell’ediz. Cotta, accompagnan­ doli con prefazioni piene di affetto e di ammirazione per il defunto. co Hartlich-Sachs, op. cit., p. 49. •* 5. W., XI, 249, ove, in polemica col Boulangcr, sostiene che rap­ presentano « evidentemente » un’eccezione quei popoli che hanno ricevuto una religione nel terrore e nel timore (sulla polemica di Herder contro Boulanger v. F. Venturi, L'antichità svelata e l’idea del progresso in N. A. Boulanger, Bari 1947, pp. 144-47).

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travagliata dalla fatica e dalla paura. Anche Heyne aveva pa­ ragonato la mentalità dei primitivi a quella dei fanciulli: ma non voleva dir altro, con ciò, se non che non si può giudicare il passato con la mentalità del moderno, cioè dell’adulto; per Herder, invece, le immagini e i pensieri della fanciullezza del genere umano hanno una immediatezza che li fa sentire veri, anche oggi, da chi abbia un animo incorrotto. Per lui non è stata, insomma, una necessità sociale o naturale ad aver spinto gli uomini a sentire e ad esprimersi in quel modo, ma una ne­ cessità che è Dio stesso: così, a proposito delle particolarità della lingua ebraica, egli scrive: « Un Dio, si potrebbe dire, l’ha inventata per uomini-fanciulli, onde giocare insieme a loro a fare i primi passi della logica » °2. E a proposito del « genio della poesia »: « Lo si può chiamare umano e divino, perché è entrambe le cose. Fu Dio che creò nell’uomo la fonte del sentire, che dispose intorno a lui l’universo, con le sue cor­ renti vitali, che diresse queste correnti verso l’uomo, mesco­ landole con i sentimenti che muovevano dal petto di lui; fu Dio, insomma, a dare all’uomo forza e linguaggio poetico, ed è per questo che la genesi della poesia è divina. È però anche umana per la misura, la peculiarità del sentire, ed il modo con cui le si dà espressione: a gioire e a parlare sono infatti solo organi umani » M. È in questo senso che la tradizione di ogni popolo è reli­ giosa: e qui si vede che malgrado tutte le analogie esterne con Heyne, che talvolta giungono a formulazioni quasi identiche, la posizione herderiana ha un suo tratto ben preciso. È il so­ strato religioso che rende sacre le memorie degli antenati, non sono le memorie e le tradizioni come tali che diventano reli­ gione “■*. Tanto più che, per Herder, la « sensibilità » delle rap­ presentazioni ebraiche non toglie affatto che in esse ci sia un sostanziale nucleo di verità, anche in mezzo al rivestimento di leggende orientali; c’è di più: se fosse lecito dar forma espli-

5. 1K, XII, 28. ìbid., XIT, 6. Sul rapporto tra l’opera del creatore e gli « organi » umani v. il discorso più generale in XIII, 343 sgg. ni Ibid., V, 484 sgg. e XIII, 390: « È innegabile che sia stata soltanto la religione a portare ai popoli, dappertutto, la prima civiltà e la prima scienza: queste, anzi, non erano, originariamente, che un genere di tradizione religiosa. Ancora adesso quel poco di civiltà e di scienza che hanno i popoli selvaggi è legato alla religione ». «2

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cità e compiuta a molti accenni che ricorrono qua e là negli scritti di Herder, si potrebbe dire che ogni tradizione religiosa, quando è originaria, ha un suo nucleo di verità, almeno fin­ tanto che il « simbolo », cioè ciò che esprime con una parola il pensiero, continua ad essere inteso dai credenti, o almeno dai sacerdoti: perché è solo quando ciò non accade più che la religione diventa superstizioneBa. In un modo che è caratte­ ristico di tutto il suo pensiero Herder identifica così il « vitale » ed il « vero »: e il susseguirsi delle tradizioni dei singoli po­ poli finisce per ricevere la sua legittimazione nella economia uni­ versale dell’« andar verso la ragione » cioè verso una educazione non del popolo singolo, ma dell’intero genere umano. Questo, come è noto, è un po’ il punto d’approdo di tutta la filosofia herderiana della storia: ma quando scriveva le Aelteste Urkttnde o il Geist der ebràischen Poesie egli era tutto preso dall’idea della particolare sacertà di una civiltà, di quella che è la prima e la più ingenua, quella ebraico-orientale che, idealizzata, diventa un po’ il paradigma di tutte le tradizioni. E ci si accorge, considerando queste opere, che l’appello al di­ vino non è un modo di dire retorico: è solo perché espressioni di una sorta di rivelazione originaria, non mediata da un pro­ cesso discorsivo, che i documenti della fanciullezza del genere umano acquistano quel carattere di « eternità » che consente loro di essere sempre vitali; e quando il « buon senso » o Io « spirito critico » *7 falliranno sotto il peso delle loro contrad­ dizioni e delle loro insufficienze, ecco che sarà possibile appel­ larsi ancora ai monumenti del passato, al racconto biblico, e, di esso, alla parte che va da Adamo a Mosè, dal primo inse­ gnamento che Dio dette all’uomo attraverso la sua stessa opera all’insegnamento codificato in un corpo di prescrizioni e di san­ zioni, nonché di racconti « storici » Ed è in questo contesto che compare, in Herder, la figura es 5. W., XIII, 356 sgg. e 388 sgg. ** Ibid., V, 483 sgg. e 498. ° Ibid., VII, 83. •• S. W., V, 562; e invece, poco più avanti: « La loro [dei greci 1 età seppe compiere tutto ciò, ma lo compì una volta sola: quando l’uma­ nità, con tutte le proprie energie, volle evocarlo una seconda volta, lo spi­ rito era ormai polvere, il germoglio restò cenere: la Grecia più non ri­ nacque » (cito qui dalla trad. di F. Venturi di Ancora una filosofia della storia ere., Torino 1951).

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del savio legislatore che opera la rigenerazione del popolo non tanto imponendo ad esso determinate norme, quanto ristabi­ lendo il contatto con la sua tradizione. Mosè « raccolse verosi­ milmente le antiche storie e le antiche saghe del suo popolo, e le premise, come un sacro documento degli antenati, anzi, come base della sua legge [...] alla storia»69. Anche a propo­ sito dei profeti si osserva che essi si comportarono come chi « esprime un pensiero nuovo servendosi di una antica e ben nota forma espressiva »70. Ora, potrebbe sembrare che qui Herder applichi ai legislatori e ai profeti il canone della Akkommodationstheorie, o che egli riprenda una figura, quella del savio legislatore, che era cara a gran parte della tradizione il­ luministica; in realtà il suo atteggiamento è completamente di­ verso; perché, come egli spiega altrove, è l’arca dell’alleanza (simbolo del richiamo alla tradizione) che « custodì un tesoro dei progenitori ed insieme il mezzo più efficace per l’incivili­ mento del popolo ». Non c’è arte di legislatore, insomma, che possa supplire alla mancanza di vitalità di una tradizione. Il caso classico, sul quale ha giustamente richiamato l’attenzione il Meinecke, è quello del tentativo dell’imperatore Giuliano: « Una religione infatti, in tutta la pienezza e forza di questo termine, era indispensabil­ mente richiesta dal secolo in decadenza; e questo l’imperatore come ogni altro lo vedeva benissimo [...] Ed egli s’attaccò al­ lora a tutto, dove poteva, alla più viva e antica delle religioni a lui note [...] chiamò in aiuto il più possibile di filosofia [...] pose il tutto sul carro trionfale più sfarzoso, trainato da due bestie indomite, la potenza e il fanatismo, guidato dalla più sottile arte di governo; ma invano! Logora e sovravvissuta, questa religione s’accasciò, povero travestimento di un cada­ vere che in altri tempi aveva saputo operare miracoli » 71. Mosè

Cioè: alla vera e propria parte storica della Genesi, all’ingrosso dal diluvio in poi (S. W., XI, 457). Quella del «legislatore» che sa racco­ gliere in un « popolo » nuclei dispersi ed oppressi è una figura che ricorre nel pensiero politico di Herder: basta pensare al suo appassionarsi per l’opera di Pietro il Grande e di Caterina II (sull’argomento è da vedere il capitolo relativo in D. Groh, Rtissland tmd das Selbstverstàndnis Etiropus, Ncuwied 1961). 70 5. W., XII, 197. 71 Ibid., V, 518 (trad. Venturi); cfr. Meinecke, Le origini dello sto­ ricismo, cit., p. 329. 39

e i profeti, si può concludere, riuscirono ad educare (cioè a rin­ novare) il popolo perché si richiamarono ad una tradizione vera, e perciò vitale. Giuliano fallì perché volle imporre come tradi­ zione un complesso di credenze e di costumanze che erano ormai morte. Ma, vien fatto di chiedersi, riteneva Herder ancora possi­ bile riunire e « riformare » un popolo appoggiandosi alla tra­ dizione? Dai suoi scritti, e limitatamente alle grandi nazioni « civili » dell’occidente, si può trarre solo una risposta nega­ tiva. Quando egli cerca che cosa resti del passato in una società, come quella del suo tempo, tesa verso la creazione di una uma­ nità nuova, e pure segnata dalla « frivolezza » e dal « dispo­ tismo », non trova che la piccola comunità familiare, quella che esisteva anche al tempo dei patriarchi, e che ora è ridotta ai margini della società, condannata a non poter realizzare che una minima parte della sua potenzialità educativaTS. E pure questo nucleo può esercitare un ruolo importante: non si può escludere, infatti, che al « dischiudersi di una grande scena nuova » si debba arrivare attraverso « il corrompersi di tutto », e in questo caso i valori della tradizione dell’umanità saranno conservati in queste isole « naturali », nelle quali famiglia e religione costituiscono un tutto indissolubile

3. Mito e tradizione. È stato giustamente osservato che mentre la scuola mitica poteva fornire a Schelling precisi schemi di classificazione, ed una definizione scientifica del mito, da Herder, il cui lato forte non consisteva certo nella esatta elaborazione di concetti, egli non poteva aver derivato niente di tutto questo 74. Ma c’è senza 73 Ibid., V, 571-73, e XIII, 384: «Die Natur erzieht Familien [...] ». 73 Ciò che rende salde le società naturali è la « simpatia organica » che è imitazione reciproca, ed insieme sentire all’unisono: da questa fonte comune si alimentano, senza la mediazione del pensiero, le passioni e i sentimenti, che sono così un fatto collettivo della comunità familiare e patriarcale. Di qui trac origine, come è noto, la polemica di Herder contro « l’innaturale ingrandimento degli stati, la scomposta mescolanza di specie umane e di nazioni sotto un solo scettro ». Dentro quella « fragile mac­ china » che è lo Stato non c’è « vita interiore ne simpatia » a tenere in­ sieme le parti. 74 Allwohn, Der Mythos cit., pp. 20-21.

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dubbio un altro motivo, più profondo, che separa il giovane stu­ dioso da Herder: ed è che egli mostra di non accettare in nessun modo quello che è il fondo di gran parte delle considerazioni herderiane: il nucleo di verità permanente di certe storie mitiche (come, per es., la storia mosaica) e la possibilità che esse parlino ancora oggi a chi si dispone ad ascoltarlo. Si può però dire che se non accetta il contenuto del pen­ siero herderiano, Schelling ne riprende la forma: la tradizione, nella forma mitica, è elemento costitutivo di ogni civiltà, ne­ cessaria ad ogni popolo, e non solo ai primitivi. La prima ap­ plicazione pratica, gravida di conseguenze, di questo principio è l’affermazione che si può parlare di storia mitica anche quando esiste già una tradizione scritta: il che doveva aprire la strada alla applicazione dei canoni mitici al Nuovo Testamento 7*. In questa sede però non interessa seguire o approfondire questa tematica: importa piuttosto rilevare che accanto al filone « dotto » ci sono state probabilmente altre influenze che hanno indotto Schelling a fermare la sua attenzione sull’importanza della tra­ dizione nella storia e nella vita dei popoli. Queste influenze derivano dall’ambiente nel quale egli vi­ veva. È stato osservato, dal primo biografo di Schelling, ma anche da altri studiosi70 che egli veniva da una famiglia i cui membri, da secoli, ricoprivano cariche ecclesiastiche, e qualche volta anche civili. Ed è anche noto che la borghesia tradizio­ nale del ducato resisteva da lungo tempo alla politica dispotica del duca Carlo Eugenio. La resistenza si esercitava su due piani: da una parte attraverso un rinnovo di religiosità ispirato da mo­ tivi pietistici, profetici e teosofici — rinnovo di religiosità che aveva un esplicito significato di opposizione nei confronti delle tendenze che gli organi centrali della Chiesa, sotto la spinta delle autorità statali, cercavano di imporre a tutti i livelli, dall’uni­ versità alle parrocchie di campagna — e, su un altro piano, nella richiesta del ristabilimento del « buon vecchio diritto », il che, teoricamente, significava la difesa dei diritti degli Stati TA II primo ad aver messo in evidenza questa osservazione di Schelling fu D. F. Strauss, Das Leben Testi, Tubinga 1835, I, 38-39; cfr. anche Hartlich-Sachs, op. cit., pp. 57-58. 7pIITT> i> i Sgg . j Klaibf.r, Hòlderlìn, Hegel urici Schelling in ihren schioàbischcn Jtigendjahrcn, Stoccarda 1877, pp. 106-9; R. Schneider, Schelling*s und Hegel's schwdbische Geistesahnen, Wiirzburg 1938, p. 29.

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(Stènde), di un ordinamento, cioè, vagamente rappresentativo, mentre era, in pratica, lo sforzo di conservare i privilegi, che spesso erano enormi abusi, del ceto impiegatizio (gli « scrivani »), di poche famiglie di notabili e dello stesso medio e alto clero. Si era venuta così alimentando una sorta di retorica anti-assolutistica, che aveva i suoi punti di forza nella protesta contro gli arbìtri e le spese, spesso pazzesche, del duca e della sua corte, senza però sviluppare una carica non diciamo rivoluzio­ naria, ma neppure modestamente riformatrice. Contro lo svi­ luppo dello Stato assolutistico, contro gli stessi tentativi di di­ sporre un più razionale reclutamento dei funzionari (la fonda­ zione della Karlsschtde, di struttura militaresca, ma aperta in­ sieme allo studio delle scienze naturali) la borghesia del du­ cato si appellava alla « tradizione ». Questo movimento di opposizione aveva ricevuto un forte stimolo dalla rivoluzione francese, soprattutto dopo i primi ro­ vesci subiti dalle armate imperiali. E si venivano curiosamente mescolando rivendicazioni dei diritti dell’uomo, e dei privilegi degli Stànde del ducato; ci si entusiasmava per il contratto so­ ciale, ma insieme per il ristabilimento di un rapporto sostan­ zialmente feudale tra il principe e i corpi dello Stato territo­ riale ”. Anche nell’atteggiamento « giacobino » di molti degli stessi studenti di Tubinga non manca mai il richiamo alla « li­ bertà tedesca »: l’esaltazione per « l’umanità » va di pari passo, insomma, con la speranza di ristabilire forme di « libertà » tra­ dizionali, di tipico stampo corporativo 78. Né questo accadeva

Cfr., per es., nella raccolta Jacobinische Flugschriften aus dem deulschen Siiden, curata da H. Scheel, Berlino 1965, il n. 23 (Ueber das Petitionsrecht etc., pp. 188 sgg.) ove, accanto a discorsi generali sulle costi­ tuzioni, e sulla necessità di aggiornarle in corrispondenza degli Zeitbediirfnisse, ci si richiama a editti del XVI secolo e al « santo nome » degli antichi duchi. Sull’argomento v. anche E. Hòlzle, Das alle Rechi und die Revolution, Berlino-Monaco 1931, pp. 171-74 e J. Droz, L’Allemagne et la revolution fran