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Italian Pages 160 Year 2011
Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta”
Kant: La capacità di giudicare Sul ruolo del Giudizio nell’organon della ragione pratica
COLLANA
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Salvatore Principe
T INCIPIT Giannini Editore
INCIPIT
5
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Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta” dell'Università degli Studi di Napoli “Federico II”
5 INCIPIT COLLANA DI TESTI E STUDI DIRETTA DA
FABRIZIO LOMONACO
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SAlvATore PrINCIPe
KANT: lA CAPACITà DI GIUDICAre Il rUolo Del GIUDIzIo Nell’organon DellA rAGIoNe PrATICA
Giannini editore
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Avvertenza All'interno del testo sono stati presi in considerazione prevalentemente i testi kantiani di cui già esiste una traduzione in lingua italiana indicata volta per volta in nota. In alcune occorrenze debitamente segnalate in nota le traduzioni sono state lievemente riviste. Per i testi manchevoli di una traduzione ufficialee la traduzione è mia. Per tutti i testi citati in traduzione si riportail riferimento alle opere originali di Kant per le quali ci si è avvalsi della akademie-augabe von immanuel Kant gesammelte Schriften, der Preβischen Akademie der Wissenshaften, in XXIX Banden, Berlin, 1900 (d'ora in poi segnalata in nota con la sigla AA, seguita dal numero del volume, dalla pagina, dalla riga corrispondente).
Copyright © 2011 by Giannini editore via Cisterna dell’olio, 80134 Napoli www.gianninispa.it ISSN: 2037-9706 ISBN e-book: 978-88-6906-019-9
Questa pubblicazione si avvale di un contributo finanziario del Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta” dell’Università degli Studi “Federico II” di Napoli (Prin 2007-2008)
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a Fabrizio Lomonaco, amico e maestro per la sua fiducia e la sua guida
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vI
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Indice
Presentazione di Fabrizio lomonaco
IX
Prefazione di Marco Ivaldo
XI Xv
introduzione CAPITolo PrIMo il giudizio nella morale kantiana 1. la morale tra intenzione e azione 2. Il ruolo della facoltà di giudicare nell’organologia della ragione kantiana 3. legge morale e Giudizio 4. la Urteilskraft come capacità di distinguere, discernere ed orientarsi nel mondo reale, il territorio dell’attività giudicante (il terzo molteplice di Scaravelli)
1 6 17 25
CAPITolo SeCoNDo il giudizio morale 1. Il soggetto e l’oggetto del giudizio morale 2. Il giudizio morale 3. Schema, Simbolo, Disegno: la capacità ermeneutica del giudizio riflettente 4. Il giudizio morale come giudizio prospettico 5. Sulla inaccettabilità del difetto e della sospensione di giudizio 6. errore, Sospensione di giudizio e “Giudizio provvisorio” nella Logik 7. Sillogismo pratico e giudizio problematico: La ratiocinatio polysyllogistica 8. Sull’educazione del giudizio
31 40 43 49 60 63 81 92
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CAPITolo Terzo Per una Dottrina trascendentale del giudizio morale 1. Giudizio morale e coscienza morale 2. Il giudizio, come ermeneutica della situazione ed euristica d’azione, quale apertura pragmatica dell’orizzonte pratico 3. Per una Dottrina trascendentale del giudizio morale a) Dottrina degli elementi del giudizio morale b) Dottrina del metodo del giudizio morale
101 104 106 109 115
Bibliografia primaria
121
Bibliografia secondaria
123
indice dei nomi
133
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PreSentazione
Ci sono significati del giudizio kantiano in ambito morale inespressi, eppure ricavabili dai testi del filosofo di Königsberg? È a questa intelligente domanda che risponde la documentata ricognizione di Salvatore Principe, giovane e attento conoscitore dei testi kantiani e della loro complessa ricezione in Fichte, oggetto della sua tesi di dottorato. Con Kant si tratta di riconoscere il rapporto tra intenzione e azione e il tipo di giudizio, quali siano il suo oggetto e le conseguenze sul piano storico. Già nella parte prima del lavoro il lettore si trova subito a contatto con noti testi (dalla Fondazione della metafisica dei costumi alla religione entro i limiti della sola ragione) e, in particolare, con quelle riflessioni attente a porre la valenza morale dell’azione in merito alla complessa questione del «male radicale». Centrale nelle due prime Critiche è il problema del rapporto tra il mondo della libertà del volere e quello della necessità della natura che impegna la ricerca di una “legge della natura” in grado di diventare il “tipo” del giudizio delle azioni. la questione è compromessa fino alla Critica del giudizio dall’impossibile coesistenza nel soggetto umano finito di un modo di pensare e di un altro, quello di spiegare. Il problema di Kant – che le pagine di Principe bene documentano – è come “togliere” quest’altro non nel senso dell’esclusione ma dell’assunzione nel nuovo discorso di fondazione trascendentale. lo avvertono già le prime pagine del lavoro quasi a tenere insieme il punto di arrivo della speculazione e i suoi concordanti esordi, dalla Dissertatio del 1770 all’importante lettera a Marcus Hertz del 1772, dalle Lezioni di etica fino all’antropologia del 1798 che, come la terza Critica, pone dal suo punto di vista «pragmatico» le prerogative del «pensare da sé» (che fa propria la legge e ne individua il caso) e del «pensarci al posto degli altri» che rappresenta l’ampliamento dell’orizzonte individuale, la pubblicità del giudizio e il suo ruolo nell’agire pratico. Qui viene da pensare a tutto Kant, al sistema non dogmatico delle sue connessioni teoretiche e pratiche presenti anche negli scritti di filosofia della storia per quell’«uso pubblico della ragione» che impegna la libertà esterna e quella morale in una dimensione segnata dal fine della storia dell’uomo. Ai temi e ai problemi della finalizzazione e dell’universalizzazione
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X
della massima Principe dedica particolare attenzione, avvalendosi di importati osservazioni della Arendt e offrendo schemi riassuntivi assai esplicativi sul rapporto tra legge, massima e regola pratica quale specificazione della legge sulla base di un caso contingente. Il che implica anche il confronto con il formalismo etico al centro di ben note reazioni novecentesche, richiamate dall’Autore (e certo più estese delle discusse tesi di Scheler e Petruzzellis) prima di affrontare il grande tema della terza Critica: l’uomo come soggetto e oggetto del giudizio riflettente morale nella sua capacità ermeneutica (per schemi, simboli e disegni) e prospettica. Quest’ultima non è solo la parte centrale dell’intelligente ricostruzione del Principe ma, a mio giudizio, la dimensione che permette al lettore attento di cogliere l’intenzione kantiana di applicare i princìpi della morale all’antropologia anche in vista di quella «Dottrina trascendentale del giudizio morale» cui l’A. dedica le pagine della parte terza e conclusiva del suo lavoro, trattando delle «dottrine» degli elementi e del metodo del giudizio morale per un’«etica situazionale» (tema assai rilevante per capire la riflessione filosofica del primo Novecento che guarda a Kant quando si interroga sul nesso di teoria e prassi). e qui credo si possano rilevare le conseguenze della svolta del criticismo e dell’uso trascendentale nell’’uomo come soggetto di conoscenza e soggetto-oggetto della vita morale nella sua «necessità» che implica l’inaccettabilità del «difetto e della sospensione del giudizio» e, insieme, l’«educazione» all’Urteilskraft. Ad essa nel senso di Bildung si sta intellettualmente formando Salvatore Principe con serio impegno negli studi, non solo kantiani. Fabrizio Lomonaco
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XI
PreFazione
Alla fine del secondo capitolo dell’Analitica della ragione pura pratica troviamo un significativo paragrafo intitolato “Della tipica del giudizio puro pratico”, che tratta dello statuto del giudizio morale. Kant vi sostiene che per decidere se un’azione, che ci è fattualmente possibile, stia o meno sotto la regola della ragione pura pratica – cioè sia moralmente lecita o doverosa, ovvero illecita e proibita –, è richiesta una capacità pratica di giudicare (praktische Urteilskraft) mediante la quale ciò che nella regola viene affermato in maniera universale (in abstracto) venga applicato in concreto a una azione. In questo modo Kant solleva un problema di grande rilevanza sistematica per la teoria morale, quello che con una espressione di Paul ricoeur potremmo designare come il problema, e lo statuto, del “giudizio in situazione”, un problema che nella ricerca morale contemporanea sollecita per lo più a riprendere e valorizzare le sollecitazioni che provengono dalla tradizione aristotelica della phronesis e del sillogismo pratico. orbene, senza voler sottovalutare questa tradizione aristotelica, una tesi fondante di questo libro di Salvatore Principe sul “ruolo del Giudizio nell’organon della ragione pratica” è di affermare, e di documentare, che anche Kant, anzi proprio Kant offre un contributo epistemologico del massimo livello per pensare lo statuto del giudizio morale. Tuttavia, la teoria kantiana del giudizio “è stata guardata troppe volte – come rileva l’autore – solo da un punto di vista teoretico o estetologico, lasciando in ombra le sue ricchissime implicazioni in ambito morale”, sicché è richiesta, per cogliere e valorizzare il contributo di Kant alla comprensione del giudizio morale, una rinnovata e comprensiva ermeneutica kantiana, che faccia interagire, come fa questo libro, le diverse figure del giudizio che sono attive nella sua opera. Per restare al paragrafo sulla Tipica del giudizio Kant osserva che è vero che il giudizio della ragione pura pratica, cioè della ragione morale, incontra nel suo esercizio le stesse difficoltà del giudizio della ragione pura teoretica, quelle che emergono nella determinazione del rapporto fra la regola e il caso. Con una differenza però: il giudizio teoretico può, per trarsi fuori dalle difficoltà, riferirsi a intuizioni empiriche, cui
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XII
applicare i concetti puri, mentre al concetto pratico dell’“incondizionatamente buono” non può venire sottoposta nessuna intuizione sensibile, e quindi nessuno schema, per la sua applicazione in concreto. ora, nel caso del giudizio della ragione pura pratica, ove difetta l’intuizione, la legge morale non ha altra facoltà che l’intelletto che ne medi l’applicazione a eventi nel mondo fattuale empirico, e l’intelletto può a sua volta sottoporre a un’idea della ragione come quella dell’incondizionato pratico, in vista della sua applicazione a casi, soltanto una legge applicabile a oggetti sensibili, cioè una legge naturale e, precisamente, non i contenuti di questa legge stessa, ma la sua forma. Si comprende da qui la definizione di Kant: questa legge naturale è tipo della legge morale, cioè tipizza, porta a una immagine, la legge morale stessa; così come si comprende la regola del giudizio morale che Kant qui formula, e che egli – secondo un tratto caratteristico della sua filosofia – non ritiene possesso esclusivo dei dotti e dei sapienti, ma considera la regola con cui giudica “anche l’intelletto più comune”, che l’ha sempre alla mano: Domanda a te stesso se l’azione cui miri la potresti considerare possibile mediante la tua volontà, se essa dovesse accadere secondo una legge della natura della quale tu stesso fossi parte. In questa struttura spontanea del giudizio morale la legge naturale, o meglio la sua forma, funge da tipo della legge della libertà, ovvero la natura empirica funziona da tipo della natura intelligibile, in quanto sottopone al giudizio il modello (la forma) di quella che chiamerei una relazione ordinata fra enti, che a sua volta deve essere – mediante la libertà – istituita e custodita fra gli esseri ragionevoli. In questo senso l’azione morale sarebbe quella che incarna una massima che consente il sussistere di una relazione ordinata (giustizia!) nella quale l’agente avrebbe parte e sarebbe parte. Questo però non è tutto quanto Kant ha da dirci sulla struttura del giudizio morale. Finora non abbiamo usato la capitale distinzione fra giudizio determinante e giudizio riflettente. Una tesi fondamentale di questo libro di Salvatore Principe è invece che questa distinzione, e l’interazione fra le due forme del giudizio, contribuisce decisivamente a far apprezzare il contributo kantiano alla teoria del giudizio morale. Una brillante studiosa come Béatrice longuenesse ha osservato che anche se Kant non usa esplicitamente la distinzione fra giudizio determinante e giudizio riflettente allorché parla del giudizio morale, nondimeno essa sembra illuminante per caratterizzare rispettivamente l’applicazione della legge morale nella determinazione dell’azione buona (giudizio determinante), e la valutazione di una azione data (giudizio riflettente)1. In 1
Cfr. Béatrice longuenesse, Kant: le jugement moral comme jugement de la
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XIII
un saggio apparso nel 2004 Silvestro Marcucci – scomparso prematuramente e al quale moltissimo deve la Kant-Forschung, non solo in Italia – si interrogava significativamente Sulla natura del giudizio morale: determinante o riflettente? 2. e rispondeva che un giudizio pratico in generale e morale in particolare può essere definito sia come determinante che come riflettente, a seconda della prospettiva in cui ci poniamo: «quando si guarda alla determinazione della legge universale (morale) costitutivamente presente in noi […] il giudizio che ne deriva è un giudizio determinante; quando invece si guarda all’oggetto dell’imperativo categorico e si considera l’uomo come fine […], sia l’uomo come oggetto che l’uomo come soggetto dell’azione morale […], allora avremo sempre a che fare con un giudizio riflettente»3. In definitiva – concludeva Marcucci – il giudizio morale è contemporaneamente, ma sotto diversi rispetti, giudizio soggettivamente determinante e giudizio oggettivamente (o meglio, praticamente) riflettente. Dunque longuenesse, se intendo bene, afferma che al giudizio morale spetta una caratterizzazione determinante o riflettente a seconda che guardiamo al giudizio che stabilisce l’azione da porsi o al giudizio che valuta l’azione effettuata. Marcucci sostiene che il giudizio morale è insieme determinante e riflettente, benché sotto diversi rispetti: è determinante se mira ad applicare la regola pratica secondo la prima formulazione dell’imperativo categorico; è riflettente se mira alla realizzazione dell’uomo come soggetto e oggetto dell’azione (seconda formula dell’imperativo). ebbene la ricerca di Salvatore Principe introduce, mi sembra, in questo campo di indagini, assai promettente e oggi in sviluppo, un accento peculiare. essa verte su quello che chiamerei il dinamismo trascendentale della formazione del giudizio morale, e sostiene la tesi che esso è un giudizio riflettente-determinante. In altri termini: la formazione del giudizio morale è un processo riflessivo ed è insieme un processo di determinazione: è riflessivo perché il soggetto valutante e agente nel giudizio considera la situazione contingente e le sue esigenze alla luce della legge morale, elaborando una diagnostica morale e il progetto di un’azione possibile; è determinante perché il medesimo soggetto, sempre nel giudizio, confronta se l’azione progettata (l’evento da porsi), o raison, in Michèle Cohen-Halimi (cur.), Kant. La rationalité pratique, Puf, Paris 2003, p. 17 nota. 2 In Cinzia Ferrini (cur.), eredità kantiane (1804-2004). Questioni emergenti e problemi irrisolti, Bibliopolis, Napoli 2004, pp. 389-399. 3 Ivi, p. 398.
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XIv
meglio questa stessa azione in quanto espressione della massima della volontà, sia effettivamente sussumibile sotto la legge morale. la determinazione dell’azione da porsi è pertanto il risultato di un processo della ragione pratica, nella quale un ruolo decisivo ha la capacità di giudicare, come capacità di riflessione sul molteplice empirico pratico e capacità di stabilire massime suscettibili di valere come leggi. Direi che l’Autore più che considerare il determinante e il riflettente come aspetti del giudizio, o punti di vista sull’azione da farsi o compiuta, li consideri come momenti di un unico processo giudicativo per arrivare alla deliberazione. l’Autore realizza questo suo programma di ricerca ricostruendo la variegata morfologia del giudizio attraverso una ermeneutica dei testi di Kant che sono significativi al riguardo, non solo la Logica e le tre Critiche, ma anche i testi di antropologia e di pedagogia. egli avanza poi anche la sintesi teoretica di una dottrina del giudizio morale che si ispira ai testi di Kant, ma procede oltre con una autonoma elaborazione. Sia per la prima che per la seconda caratteristica questa ricerca si presenta perciò assai idonea a richiamare l’attenzione e sollecitare la discussione non soltanto da parte degli studiosi di Kant, ma anche da parte di lettori e ricercatori interessati a riflettere su quel momento fondamentale e indispensabile dell’esperienza morale che è il “ben giudicare”. Marco ivaldo
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Xv
introDUzione Non è per niente insolito, tanto nella conversazione comune quanto negli scritti, mediante il confronto dei pensieri che un autore espone sul suo oggetto, intenderlo, magari, meglio che egli non intendesse se medesimo, in quanto egli non determinava abbastanza il suo concetto, e però talvolta parlava, o anche pensava, contrariamente alla sua propria intenzione4.
Questa, che da molti è stata chiamata la teoria del “comprendere meglio”, – e che Kant menziona nella Dialettica trascendentale (par. Delle idee in generale) come a far valere il suo diritto di interpretazione su Aristotele –, sembra un orientamento ermeneutico applicabile allo stesso Kant, che spesso – come molti hanno evidenziato – nelle sue opere e soprattutto nella prima Critica “non determinava abbastanza il suo concetto” e “talvolta parlava, o anche pensava, contrariamente alla sua propria intenzione”. voglio semplicemente offrire spunti di riflessione e avanzare suggerimenti che spero interessanti riguardo all’opera kantiana e in particolare alla sua teoria del giudizio in campo pratico, sollecitandone i testi per cogliere intenzionalità non sempre espresse (ciò che io chiamo il “non detto del testo”), ma che in ogni caso devono essere fondate sui testi stessi. Non v’è dubbio che la teoria del giudizio di Kant è stata guardata troppe volte solo da un punto di vista teoretico o estetologico, lasciando in ombra le sue ricchissime implicazioni in ambito morale. la prevalenza accordata al fine gnoseologico, presentando una tappa necessaria quale meta definitiva, falsa il processo di elaborazione e deforma le linee costitutive del criticismo. Nel processo induce a cercare un indipendente sviluppo dei principi gnoseologici, a trascurare quelle incrollabili convinzioni eticoreligiose, che sono le più costanti e le più attive forze sollecitatrici del processo5.
I. Kant, Critica della ragione Pura, tr. it., roma-Bari, 2000, p. 247; Cfr. AA III, p. 246, 18-23. 4
5
A. renda, il Criticismo, Fondamenti etico-religiosi, Palermo, 1927, p. 44.
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XvI
Se la Kritik der Urteilskraft nelle intenzioni di Kant, completava il programma critico e con esso il suo assunto critico, come egli stesso ci dice nella Prefazione e nella Introduzione ad essa, allora la terza Critica deve contenere tanto la risoluzione di quei problemi di ordine teoretico, che a Kant stesso sembravano lasciati senza riposta nella Kritik der reinen Vernunft, quanto la risoluzione e il completamento dell’assunto critico-morale. Quest’ultimo sembrava infatti lasciare senza adeguata risposta il problema dell’attuazione della legge morale nella realtà contingente, e richiamava il problema del passaggio dal mondo intelligibile al mondo sensibile, un problema che, come cercheremo di mostrare, Kant non era riuscito a risolvere né nella grundlegung zur Metaphysik der Sitten né nella Kritik der praktischen Vernunft, lasciando così in uno stato “provvisorio” il suo assunto morale. Il livello attuale degli studi, almeno in Italia, intorno al tema del Giudizio in Kant sembra corroborare quanto abbiamo appena detto; ad esempio la rivista “Studi Kantiani”, della Società Italiana di Studi Kantiani, conta dal 1988 ad oggi numerosi articoli sulla Kritik der Urteilskraft ed intorno agli argomenti che riguardano la teoria del giudizio6, ma la maggior attenzione in questi studi è rivolta alle implicazioni della teoria del giudizio in ambito teoretico ed epistemologico più che all’ambito pratico, quand’essi non sono esclusivamente rivolti all’ambito estetologico interpretando la Critica del giudizio come una teoria critica del bello e dell’arte. essa sicuramente va letta secondo questi punti di vista, ma non solo secondo essi. Già Fichte, per certi versi prosecutore di Kant, aveva posto in quest’ottica particolare attenzione alla Critica del giudizio. Proprio nell’anno in cui essa vedeva la luce il giovane Fichte che si trovava a lipsia come precettore iniziava la stesura di un commentario esplicativo dell’opera kantiana che tanto clamore aveva fatto in quell’anno. Detto commentario, che oggi troSi veda per esempio: S. Bacin, Sul rapporto tra riflessione e vita morale in Kant: le dottrine del metodo nella filosofia pratica, in «Studi kantiani», Pisaroma, 2002; P. Faggiotto, L’Urteilskraft nella formazione delle leggi empiriche secondo Kant, in «Studi kantiani», Pisa, 1995, pp. 31-38; A. Ferrarin, esistenza e giudizio in Kant, in «Studi kantiani», Pisa-roma, 2002; S. Marcucci, Kant e l’immaginazione conoscitiva nella “Critica del giudizio”, in «Studi kantiani», Pisa, 1990; Id., analogia, bellezza e moralità nel §59 della “Critica del giudizio”, in «Studi kantiani», Pisa, 1994; I. raimondi, L’antropologia Pragmatica kantiana: «Lebenswelt», «prassi» o «autocoscienza storica»? note su alcune interpretazioni recenti dell’antropologia di Kant, in «Studi kantiani», Pisa-roma, 2002. 6
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XvII
viamo nell’edizione completa delle opere di Fichte, va sotto il nome di Versuch eines erklärenden auszugs aus Kants Kritik der Urteilkraft7, e in Italia non è ancora edito mentre in Germania è quasi del tutto sconosciuto come testimonia la quasi completa mancanza di riferimenti ad esso, se non per qualche isolatissimo caso8. Questo scritto fichtiano mai pubblicato e dalla avvincente vicenda editoriale rappresentò per Fichte la fucina entro la quale forgiare le idee che sarebbero giunte ad ulteriore maturazione in un successivo manoscritto anch’esso rimasto inedito fino agli anni ’50 del secolo scorso noto come Practische Philosophie9, che fissava chiaramente la Urteilskraft come potenza etico-tetica dell’Io, ovvero come facoltà dello Streben, declinandola quindi in chiave eminentemente pratica come ho avuto modo di esporre in modo diffuso altrove10. Ciononostante l’attenzione degli epigoni di Kant per la Critica del giudizio fu sempre di tipo spiccatamente estetologico forse soprattutto per l’interpretazione e l’utilizzo quasi ideologico che di essa fece la nascente corrente romantica dello Sturm und Drang. Un approccio “non convenzionale” e per certi versi “decostruttivo” J. G. Fichte, Versuch eines erklärenden auszugs aus Kants Kritik der Urteilkraft, in GA nachgelassene Schriften 1780-1791 Band 1, herausgegeben von reinhard lauth und Hans Jacob unter Mitwirkung von Manfred zahn, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1962. 8 F. Fabianelli, La prima lettura fichtiana della “Kritik der Urteilskraft” in alcuni studi del nostro secolo, in «Giornale critico della filosofia italiana», serie vI, vol. XvI, anno lXXv (lXXvII), pp. 266-280; Numerosi sono anche i passi pareysoniani in cui viene citato questo testo di Fichte. M. Ivaldo nel suo i principi del sapere. La visione trascendentale di Fichte, sottolinea la centralità dell’orizzonte della terza Critica nel determinare l’approccio fichtiano a Kant e nella genesi concettuale primordiale del sistema della Wissenschaftslehre; Cfr. M. Ivaldo, i principi del sapere. La visione trascendentale di Fichte, Napoli, 1987, pp. 33-74. 9 J. G. Fichte, Practische Philosophie, in GA nachgelassene Schriften 17931795 Band 3 herausgegeben von reinhard lauth und Hans Jacob unter Mitwirkung von Hans Gliwitzky und Peter Schneider, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1971. 10 Mi riferisco alla mia relazione La condizionalità estetica della filosofia trascendentale, tenuta in occasione del convegno “La filosofia trascendentale di J. g. Fichte tra indagine storica e prospettive teoriche” (Napoli 5 e 6 novembre 2010) promosso dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e dal Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta” dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. 7
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XvIII
della terza Critica kantiana potrebbe essere dunque la strada da percorrere per enuclearne ulteriorità ancora celate. In tal senso, a proposito di Descartes, l’olgiati osservava acutamente: Se prima ancora di tuffarsi in questo mare cartesiano, si è già decisi a priori di incoronare Descartes capostipite della dinastia che sogettivizza il reale, tutto è finito; allora, anzi, è superfluo e dannoso studiarne la vita, analizzarlo, approfondirlo; basta il cogito ergo sum col commento di un idealista hegeliano e tutto è fatto11.
È facile intuire come un discorso di questo tipo possa essere condotto anche riguardo alla storiografia filosofica tradizionale su Kant e la sua Critica del giudizio. Tuttavia in Italia si è già fatta strada in qualche modo una visione della teoria del giudizio di Kant più attenta anche alle sue implicazioni morali, come è possibile notare nelle opere che, intorno a questo tema ha prodotto, Francesca Menegoni12, e nel saggio attento alle recenti interpretazioni francesi sulla Critica del giudizio di Maria Antonietta la Torre13, ed anche nell’opera di renata viti Cavaliere14. All’estero, soprattutto in Francia, sotto la spinta di studiosi come lyotard15 o Deleuze16, già da tempo si guarda con interesse alle implicazioni morali F. olgiati, il criterio distintivo nella storia della filosofia, in rFN, 1927, pp. 371-375; citato da P. rossi, Storia e filosofia. Saggi sulla storiografia filosofica, Torino, 2002, p. 7. 11
F. Menegoni, Critica del giudizio. introduzione alla lettura, Carrocci editore, roma, 1998; Id., Finalità e destinazione morale nella critica del giudizio di Kant, in «verifiche» 3, Trento, 1988, pp. 327-351. 12
13 M. A. la Torre, L’etica nella terza critica / il «giudizio» kantiano e le recenti interpretazioni francesi, Napoli, 1996; da qui in poi citato come “L’etica nella terza critica”. 14 r. v. Cavaliere, il giudizio e la regola: Saggi e riflessioni, loffredo, Napoli 1997. 15 J.-F. lyotard, L’enthousiasme. La critique kantienne de l’histoire, Paris, 1986; tr. it. di F. M. zini, L’entusiasmo. La critica kantiana della storia, Milano, 1989.
G. Deleuze, La philosophie critique de Kant (Doctrine des facultés), Paris, 1963; tr. it. di Marta Cavazza e Antonella Moscati, La filosofia critica di Kant, Napoli, 1997. 16
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della teoria del giudizio di Kant, e oltreoceano con la Arendt e la sua teoria del giudizio politico17 si presta attenzione anche alle sue implicazioni politiche. restano poi sicuramente punto di riferimento per chiunque volesse avvicinarsi in quest’ottica alla terza Critica gli studi di Horkheimer18. Tuttavia per quanta attenzione vi sia stata posta da tali studiosi, mi sembra rappresenti un programma ancora aperto19 e interessante cercare di chiarire come agisca il Giudizio in ambito morale e di individuare perciò il possibile ruolo del Giudizio nell’‘organologia’ della ragione pratica. È quanto tenterò di fare di seguito. Interrogherò il filosofo a partire dai testi, lasciando parlare i testi H. Arendt, Lectures on Kant’s Political Philosophy, The University of Chicago 1982, a cura di ronald Beiner; tr. it. di P. P. Portinaro, teoria del giudizio politico/Lezioni sulla filosofia politica di Kant, Genova, 1990. 18 M. Horkheimer, Über Kants Kritik der Urteilskraft als Bindeglied zwischen theoretischer und praktischer Philosophie, Frankfurt am Main, 1925; tr. it., Kant: la Critica del giudizio, Napoli, 1981. 19 Mi pare rilevante a tal proposito il contenuto di alcune relazioni tenute al recente XI Kant Kongress di Pisa 2010, cfr. T. rosenkoetter, a non-embarrassing account of the Model Functions of Judgment; A. esser, Die Urteilskraft in der Praxis: reflexion und anwendung; D. Ferdori, La saggezza del politico morale; J. Karásek, Synthetische einheit des Mannigfaltigen; K. Wille, Moralische Kompetenzen des Weltbürgers. Die drei ebenen der praktischen Urteilskraft; A. Newton, Kant on the Form of aesthetic Judgment; I. Goy, Über die Beurteilung der natur als System der zwecke; H. Klemme, organisierte Wesen, das Übersinnliche und die teufel. zum zusammenang von reflektierender Urteilskraft und Vernunft in der „Kritik der Urteilskraft“; l. Amoroso, Primat der ästhetischen Vernunft?; J. Kaag, “Merely” aesthetic: The Centrality of aesthetic Judgment; B. Pérer, Die kantische Ästhetik und das Denken der endlichkeit; J. Garrison, revolution in Kant’s relation of aesthetics to Morality: regerding negatively Free Beauty and respecting Positively Free Will; D. Huseyinzadegan, teleology and ist risks for reason: a Closer Look at the antinomy of teleological Judgment; A. Nuzzo, Moral Space and the orientation of Practical reason; A. Marques, The imputation Judgment in Kant’s Practical Philosophy; M. S. rodriguez, Witz und reflektierende Urteilskraft in Kants Philosophie; G. P. Basile, Die ausgangsfrage des Übergangsprojekts und die reflektierende Urteilskraft; r. Brandom, Kant on Judgment and representation; F. Gonnelli, teologia morale e giudizio riflettente nella “Kritik der Urteilskraft”; P. Gamberini, Sense of guilt and repentance. Kant on the experience of Moral responsability in the retrospective evaluation of actions; S. Marino, giudizio estetico e giudizio etico-politico: gadamer e arendt interpreti della “Critica del giudizio”; J. Kneller, aesthetich reflection and Cultural Judgments. 17
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stessi, per ascoltare dalla loro voce quanto ancora di inedito hanno da dirci, ovvero per enuclearne il potenziale semantico e logico ancora inespresso. A questo modo di procedere analitico-filologico-testuale è dovuta l’abbondanza di citazioni dai testi kantiani20. Mi piace giustificare questo modo di procedere con le parole con cui Adorno ricorda il celebre proposito di Benjamin secondo cui «la sua opera fondamentale non avrebbe dovuto consistere che di citazioni»21. l’opera di chi si appresti a ricostruire un pensiero, a mettersi sulle tracce di esso per rintracciarlo mediante piccoli segni sparsi qua e là entro il vasto terreno di un sistema di pensiero svolto e sedimentato entro il quale essi si celano e attendono di venir svelati, è come il lavoro di un investigatore o di un archeologo della filosofia che si trova a dover ricostruire dalle tracce sparse sul campo d’indagine scenari possibili di avvenimenti verosimilmente accaduti. e come Benjamin non si fa qui un uso meramente esornativo della citazione, né accidentale o incidentale; tanto meno vi si ricorre per motivo d’erudizione. Il “citazionismo”, se così lo si può chiamare, è coessenziale al tipo di discorso, e di espressione della verità, che si persegue, e all’idea di costruzione del saggio che si intende realizzare. Il «cumulo di citazioni» – sottolinea Hannah Arendt riguardo a Benjamin – non era per lui qualcosa di preliminare, di meramente preparatorio alla vera e propria scrittura; non aveva il fine di «facilitare la stesura, ma rappresentava proprio il lavoro principale, di fronte al quale la stesura era di natura secondaria»22. Citare, in fondo, è uno strumento dello storico della filosofia, di colui che si appresta ad un’azione ricostruttiva di un pensiero, che non può che svolgersi mediante una pratica decostruttiva che devii e differisca il pensiero preso in considerazione dal suo corso apparentemente fissato in tradizioni e interpretazioni sedimentatesi come canoniche. I concetti e le idee, come anche le dottrine dei filosofi non sono morti Si prenderanno qui in considerazione i testi kantiani editi che verranno citati in traduzione italiana nelle edizioni indicate volta per volta. la scelta di citare in lingua italiana ha un fine didascalico. Questo lavoro infatti vuole essere aperto al grande pubblico e non rivolto solo agli studiosi specialisti della materia. 21 Th. W. Adorno, Profilo di Walter Benjamin, tr. it. di C. Mainoldi in Th. W. Adorno, Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Torino, 1972, p. 245. 22 H. Arendt, Walter Benjamin: L’omino gobbo e il pescatore di perle, in H. Arendt, il futuro alle spalle, a cura di l. ritter Santini, Bologna, 1981, p. 166. 20
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documenti polverosi conservati in antichi archivi, ma vive espressioni dello spirito dell’uomo e come tali in esso dimorano, lo edificano culturalmente, che egli ne sia o meno consapevole, e un uomo di oggi, per esempio, porterà con sé quei concetti di libertà e di uguaglianza che prima dell’illuminismo erano assenti allo spirito dell’uomo. Questa materia mobile, fatta di eterei concetti, trova momentanea fissazione solo nei sistemi e nelle dottrine dei filosofi codificate in volumi cartacei e perciò avvicinabili ad una prova documentaria della storia di quei concetti. e tuttavia questi volumi sono documenti altrettanto mobili quanto i concetti che li compongono, poiché nel tentativo di fornire risposte – quando il loro tentativo sia questo e non la sola problematizzazione di una questione, il che è tradizionalmente il ruolo fondamentale della filosofia – essi danno luogo ad altre domande, oppure, prendendo posizione su determinate questioni accendono obiezioni sulla questione stessa. le pagine che seguono si articoleranno in tre momenti: in un primo momento, partendo dal problema del rapporto tra intenzione e azione nella morale kantiana, proverò a mostrare come proprio una tematizzazione del ruolo della facoltà di giudicare nel suo rapporto con la legge morale renda possibile il passaggio dall’intenzione all’azione morale; in un secondo momento, posto che sia il Giudizio a rendere possibile il passaggio dall’in abstracto all’in concreto, cercheremo di chiarire che tipo di Giudizio sia quello che opera in ambito morale e quali siano le sue caratteristiche, quale sia il suo soggetto, quale il suo oggetto e in quale situazione esso venga ad operare; infine in una terza fase concentreremo la nostra attenzione sul modus operandi del giudizio in ambito morale e sulle conseguenze che tale operare implica sul piano storico concreto.
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CAPITolo PrIMo IL GIUDIZIO NELLA MORALE KANTIANA 1. La morale tra intenzione e azione Nella prima parte della grundlegung zur Metaphysik der Sitten Kant, nell’indagare il principio della morale come indipendente da ogni inclinazione sensibile, sostiene che: la volontà buona è buona, non per ciò che produce o costruisce, non per la sua attitudine a raggiungere un qualsiasi scopo prestabilito, bensì per il volere come tale […]. Quand’anche per un particolare sfavore del destino o per l’avarizia di una natura matrigna, alla volontà mancassero completamente i mezzi per raggiungere le sue intenzioni; quand’anche, nonostante i suoi sforzi più grandi, nulla se ne riuscisse a cavare, e solo rimanesse la volontà buona (da non intendersi certo come mero desiderio, bensì come un mettere in atto tutti i mezzi, nella misura del possibile); pure questa volontà risplenderebbe per sé stessa come un gioiello: come qualcosa che ha il suo pieno valore in sé. Nulla potrebbe aggiungere né togliere, a questo valore, il fatto di riuscire utile o infruttuoso1.
In base a queste affermazioni – e ad altre nelle pagine successive come: «il valore morale dell’azione non si trova, dunque, nell’effetto che ci si attende da essa, e neppure, quindi in un qualsiasi principio dell’azione che possa trarre motivo da questo effetto atteso»2, o ancora: «un’azione compiuta per dovere trae il suo valore morale, non dalla finalità che persegue, bensì dalla massima in base alla quale si decide: quindi non dipende dalla realtà dell’oggetto dell’azione ma solo dal principio del volere in base a cui si compie l’azione, prescindendo da qualsiasi oggetto
I. Kant, Fondazione della Metafisica dei costumi, tr. it., Milano, 1994, p. 57; AA Iv, p. 394, 13-27. 2 Ivi, p. 73; AA Iv, p. 401, 03-06. 1
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della facoltà di desiderare»3 – la morale kantiana è stata vista da una certa esegesi4, come è ben noto, come una morale della sola intenzione o un puro volontarismo etico. Ma davvero per Kant l’azione conseguente all’intenzione morale è così poco rilevante ai fini della moralità? Davvero il soggetto morale kantiano può basare la sua moralità e virtuosità solo sulla moralità della propria intenzione? A ben vedere già nella pagina della grundlegung zur Metaphysik der Sitten citata all’inizio, Kant, in un inciso tra parentesi, riferendosi alla volontà buona con lo scopo di specificarne il concetto, dice che la volontà buona è: «da non intendersi certo come mero desiderio, bensì come un mettere in atto tutti i mezzi, nella misura del possibile»5. Già questo dovrebbe segnalarci che per Kant ha valore non solo la purezza morale dell’intenzione, che deve essere scevra da ogni condizionamento empirico, ma anche il fatto che questa intenzione moralmente valida venga trasformata in azione conseguente all’intenzione, azione che è perciò moralmente valida come moralmente valida era l’intenzione. A difesa di questa nostra tesi notiamo che Kant, nella più tarda religion innerhalb der grenzen der blossen Vernunft, dice sì, in modo ancora più chiaro, che: «poiché le leggi morali obbligano per mezzo della semplice forma, consistente nell’universale legittimità delle massime – da adottarsi secondo detta forma – come condizione suprema (essa stessa incondizionata) di ogni scopo; la morale allora non ha assolutamente bisogno, in genere,di un motivo materiale per determinare il libero arbitrio, non ha bisogno cioè di un fine, né per conoscere ciò che sia dovere, né per indurre l’uomo a compierlo; ma essa può benissimo e, quando è questione di dovere, deve fare astrazione da ogni fine»6, il che darebbe conferma alla tesi secondo cui quella kantiana sarebbe un etica della sola intenzione e un puro formalismo etico. Però al capoverso successivo Kant dice: Tuttavia la morale, sebbene non abbia bisogno, a proprio sostegno, della rappresentazione di un fine, che sarebbe giocoforza precedesse la determinazione della volontà, può 3
Ivi, p. 71; AA Iv, pp. 399-400, 35-03.
Cfr. M. Scheler, il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, San Paolo, Milano, 1996. 5 Cfr.: «[…] (freilich nicht etwa als ein bloßer Wunsch, sondern als die Aufbietung aller Mittel, so weit sie in unserer Gewalt sind) […]» Kant, AA Iv, p. 394, 23-24; tr. it., cit., p. 57. 6 I. Kant, religione entro i limiti della sola ragione, tr. it., roma-Bari, 1995, pp. 3-4; AA vI, pp. 3-4, 14-3. 4
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darsi che abbia un rapporto necessario con un fine di questo genere, considerato cioè non come il fondamento, ma come la conseguenza necessaria delle massime, adottate conformemente alle leggi. Difatti, senza nessun rapporto finale, non può aver luogo nell’uomo alcuna determinazione volontaria, perché questa non può essere senza un qualche effetto, la cui rappresentazione bisogna che possa essere intesa se non come una ragione determinante l’arbitrio e come un fine intenzionalmente presupposto, certo come una conseguenza della determinazione presa dalla volontà, secondo la legge e per un fine (finis in consequentiam veniens). Senza il quale, un arbitrio, che all’azione progettata non aggiunga affatto l’idea di un oggetto obbiettivamente o soggettivamente determinato (che l’arbitrio ha o dovrebbe avere), conoscendo bene come, ma non per quale scopo, esso debba agire, non può bastar a se stesso. Così la morale non ha affatto bisogno di un fine per agire bene, ma le basta la legge, che contiene in generale la condizione formale dell’uso della libertà. Ma, posta la morale, è posto pure un fine; perché è impossibile che alla ragione resti indifferente la risposta che può essere data alla domanda: che cosa derivi da questa nostra buona condotta 7.
Perciò nella legge morale in senso kantiano, a mio giudizio, non è compreso solo: “sii moralmente intenzionato”, ma anche: “fai oggetto della tua volontà buona la sua piena realizzazione”, il che va oltre il momento dell’obbedienza alla legge e introduce un finalismo praticoetico. la volontà sussunta dalla moralità richiede un fine, altrimenti si avrebbe una volontà che non vuole nulla, e questa non sarebbe una volontà. Ciò detto, non solo si evince l’importanza morale del fine (o scopo) dell’intenzione moralmente buona e il significato dell’azione morale il cui risultato effettivo viene visto “come la conseguenza necessaria delle massime, adottate conformemente alle leggi” e “come una conseguenza della determinazione presa dalla volontà, secondo la legge e per un fine (finis in consequentiam veniens)”, ma addirittura si coglie che la non consequenzialità e non corrispondenza di intenzione ed azione, o quantomeno l’assenza di un impegno per l’azione che corrisponda all’intenzione, vengono viste da Kant, nella religion innerhalb der grenzen der blossen Vernunft, come una prima espressione della tendenza al male che, in base alla dottrina del male radicale, è propria dell’uomo. 7
Ivi, pp. 4-5; AA vI, pp. 4-5, 11-4.
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Infatti, riguardo alla tendenza al male nella natura umana Kant osserva: Si possono pensare tre gradi diversi di questa tendenza: in primo luogo v’è la debolezza, in generale, del cuore umano nel mettere in pratica le massime adottate, o la fragilità della natura umana […], la fragilità (fragilitas) della natura umana è espressa anche nel lamento di un apostolo [san Paolo]: «Io ho certo, la volontà, ma l’esecuzione fa difetto»; cioè: Io assumo il bene (la legge) nella massima del mio arbitrio; ma questo bene (che è la legge morale), il quale oggettivamente, nell’idea (in thesi), è un movente invincibile; soggettivamente (in hypothesi), quando la massima deve essere eseguita, è il più debole movente (paragonato all’inclinazione)8.
ora, se in tal modo per Kant è convalidata la valenza morale dell’azione, ci domandiamo cos’è che fa passare questo bene, cioè la legge morale, dalla thesi alla hypothesi, cioè dalla teoria alla prassi morale, dalla legge in abstracto alla sua realizzazione in concreto. Mi pare che Kant affidi, pur tematizzandolo appena, questo compito alla Urteilskraft, la nostra capacità di giudicare. Già nella Kritik der reinen Vernunft, e nella Ia (1781) e nella IIa edizione (1787), Kant presenta la Urteilskraft come: «la facoltà di sussumere sotto regole, cioè di distinguere se qualche cosa stia o no sotto una regola data (casus datae legis)»9, ovvero come la capacità di comprendere l’universale in abstracto, ma anche di saper decidere se in concreto un caso particolare vi rientri. Precedentemente nella Dissertazione del 1770, De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, Kant aveva legato significativamente l’uso del Giudizio all’ambito morale parlando di «filosofia morale, in quanto fornisce i principi primi del giudicare»10. Nella grundlegung zur Metaphysik der Sitten, poi, Kant nella Vorrede, a proposito del ruolo del giudizio nell’agire pratico, dice chiaramente: Non solo le leggi morali, con i loro principi, si distinguono essenzialmente da tutte le altre, che hanno in sé qualcosa di empirico, ma tutta la filosofia morale riposa interamente sulla sua parte pura, e pur applicandosi all’uomo, non trae nulla dalla conoscenza dell’uomo (antropologia), bensì dà a lui, come Ivi, p. 29; AA vI, p. 29, 16-30. Id., Critica della ragione pura, cit., pp. 133; AA III, p. 131, 14-16. 10 Id., De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, tr. it., Milano, 1995, pp. 85-87; AA II, p. 396, 5-6. 8 9
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essere razionale, leggi a priori. Queste [cioè le leggi morali] richiedono, sia pure, un giudizio [qui Kant usa Urteilskraft, e non solo Urteil] aguzzato dall’esperienza: sia per distinguere in quali casi vadano applicate, sia per dare ad esse accesso alla volontà dell’uomo ed energia nell’esercizio: infatti l’uomo, affetto come tale da tante inclinazioni, è bensì capace dell’idea di una ragione pura pratica, ma non riesce facilmente a renderla efficace in concreto nel suo comportamento11.
Più avanti nella stessa grundlegung zur Metaphysik der Sitten, Kant approfondisce il rapporto tra facoltà di giudicare e principio della moralità così: Abbiamo così toccato il principio della conoscenza morale della comune ragione umana: principio che essa non isola, è vero, in questa forma universale; ma che, tuttavia, ha costantemente davanti agli occhi, e usa come criterio del suo giudizio. Facile sarebbe mostrare come, con questa bussola [che è il criterio del giudizio] in mano, essa [la comune ragione umana] sia perfettamente in grado di distinguere, in tutti i casi che si presentano, che cosa è bene e che cosa è male, che cosa è conforme a dovere e che cosa col dovere contrasta12.
Questa capacità della ragione di distinguere in ogni caso concreto che cosa è bene da che cosa è male è la Urteilskraft di cui ha parlato nella prima Critica. Purtroppo però Kant non ci mostra in che modo questa bussola ci aiuti a distinguere tra bene e male, lasciando la tal cosa qui solo accennata. Tuttavia, come vedremo in seguito, nella “Tipica del Giudizio morale” contenuta nella Kritik der praktischen Vernunft Kant specifica ulteriormente il ruolo del Giudizio in ambito morale. Interessante è la formulazione che Kant dà alla soluzione di tale questione nello scritto del 1793 Über den gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht für die Praxis, dove Kant tenta di chiarificare il rapporto tra teoria e prassi individuando il ruolo di mediazione tra questi due poli appunto nella capacità di giudicare, la Urteilskraft.
11 Id., Fondazione della Metafisica dei costumi, cit., pp. 45-47, aggiunte mie tra parentesi quadre; AA Iv, p. 389, 24-35. Il comportamento riguarda qui evidentemente l’azione e non solo l’intenzione. 12
Ivi, p. 81, aggiunte mie tra parentesi quadre; AA Iv, pp. 403-404,
34-3.
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Si dice teoria un complesso di regole, anche pratiche, quando tali regole vengano pensate, secondo una certa universalità, come principi, e si astragga perciò da una quantità di condizioni che pure hanno necessaria influenza sulla loro esecuzione. viceversa, non si dice prassi una qualsiasi pratica, ma solo quell’attuazione di un fine che venga pensata come applicazione di certi principi dell’agire, rappresentati in generale. Che tra la teoria e la prassi sia richiesto anche un termine medio di congiunzione e di passaggio dall’una all’altra, per quanto perfetta sia la teoria, è evidente: infatti al concetto intellettuale che contiene la regola deve aggiungersi un atto della facoltà del giudizio grazie a cui il pratico distingua se qualcosa appartenga al caso della regola o no13.
È da questa precisa individuazione del ruolo del Giudizio nel passaggio dalla teoria alla prassi che vogliamo ora muovere per determinare quale sia il modo in cui la facoltà del Giudizio attua questo passaggio nell’ambito della ragione pratica. 2. il ruolo della facoltà di giudicare nell’‘organologia’ della ragione kantiana. il giudizio come Übergang tra natura e libertà Abbiamo notato come per Kant non solo l’intenzione ma anche la realizzazione dell’intenzione morale abbia importanza per caratterizzare la dignità, cioè la capacità di moralità del soggetto agente. ora però proprio il passaggio dall’intenzione all’azione, dalla teoria alla prassi, ci pone di fronte ad un problema che per lungo tempo Kant stesso sembra aver sottaciuto, a volte menzionandolo appena, ma senza darne una soluzione, essendo dal suo punto di vista un problema incomprensibile per la ragione dell’uomo. È il problema del passaggio dal dominio del concetto della libertà al dominio dei concetti della natura, dal mondo intelligibile al mondo sensibile, pertanto dall’intenzione morale, che appartiene al dominio del concetto della libertà, alla sua realizzazione nel mondo sensibile, che è il dominio dei concetti della natura.
13 Id., Über den gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht für die Praxis, (1793); tr. it. a cura di Filippo Gonnelli, Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi, in Scritti di storia, politica e diritto, roma-Bari, 2002, p. 123; AA vIII, p. 275, 1-13.
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Chi lancia una pietra o una bomba, può fare questo gesto in quanto entra a far parte del gioco delle cause naturali, il lancio avviene secondo determinate leggi fisiche e le conseguenze si verificano come effetti determinati da una qualunque causa. Ma la decisione del lancio o l’astensione da esso sono atti liberi che non trovano esauriente giustificazione nel determinismo delle cause naturali o sociali14.
Tra i due dominii, quello dei concetti della natura e quello del concetto della libertà, Kant nella Kritik der Urteilskraft dice esservi un abisso. Certo per trovare menzione di questo problema del passaggio fra mondo intelligibile e mondo sensibile – che troviamo già tematizzato nel titolo della dissertazione del 1770, De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis – non dobbiamo aspettare fino al 1790 con la terza Critica. Già nella grundlegung zur Metaphysik der Sitten Kant, a proposito della giustificazione del concetto di libertà, esprime chiaramente la difficoltà del “passaggio” e la sua ripercussione sullo statuto della filosofia pratica, ed è costretto perciò a delimitare, quello che egli chiama, un confine esterno di ogni filosofia pratica. Kant, infatti, dice: «la volontà è un tipo di causalità proprio degli esseri viventi in quanto razionali, e la libertà sarebbe una proprietà di un tale modo di causare, per cui esso agisce indipendentemente da cause esterne che lo determinino. Corrispondentemente, la necessità naturale è la proprietà della causalità di tutti gli esseri razionali di esser determinati ad agire dall’influsso di cause esterne»15. Perciò «tutti gli uomini si pensano liberi nella loro volontà. […] eppure questa libertà non è un concetto d’esperienza, né può esserlo, poiché rimane salda nonostante che l’esperienza mostri il contrario di quelle esigenze, che il presupposto della libertà rende necessarie. D’altro canto, è altrettanto necessario che tutto ciò che avviene sia immancabilmente determinato da leggi di natura: e questa necessità naturale non è neppur essa un concetto d’esperienza, appunto perché comporta il concetto della necessità e, pertanto, di una conoscenza a priori. Tuttavia, il concetto della natura trova conferma nell’esperienza, e dev’essere, anzi, inevitabilmente presupposto, se un’esperienza – cioè una conoscenza degli oggetti dei sensi coerente 14 N. Petruzzellis, Saggezza di Kant, in «rassegna di Scienze Filosofiche», Napoli, 1969, pp. 285-319, p. 309. 15 I. Kant, Fondazione della Metafisica dei costumi, cit., p. 185; AA Iv, p. 446, 7-12.
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secondo leggi – ha da essere possibile. Pertanto la libertà è soltanto un’idea della ragione, la cui realtà oggettiva è in sé dubbia; mentre la natura è un concetto dell’intelletto, che dimostra, e deve necessariamente dimostrare, la propria realtà in esempi tratti dall’esperienza. […] la libertà, che si attribuisce al volere, sembra entrare in contrasto con la necessità della natura»16. Qualche riga più sotto Kant ci dice anche quale è la risposta che la filosofia può, e deve dare a questo problema. la filosofia deve dunque presupporre che nessun effettivo contrasto si trovi tra la libertà e la necessità naturale delle medesime azioni umane, non potendo la ragione sacrificare, né il concetto della natura, né quello della libertà. Frattanto, tale contraddizione apparente deve, per lo meno, venire attenuata nel modo più persuasivo, quando anche non si riesca mai a comprendere la libertà. Infatti, se il pensiero della libertà fosse addirittura contraddittorio rispetto alla natura, che è necessaria anch’essa, la libertà dovrebbe essere sacrificata alla necessità naturale17. le due proposizioni [cioè quella della libertà del volere e quella della necessità della natura], non soltanto possono ben coesistere, ma devono, anzi, venir pensate congiuntamente nel medesimo soggetto: perché, altrimenti non si capirebbe perché noi dobbiamo caricare la ragione con un’idea [quella della libertà] che, se anche si lascia congiungere senza contraddizione con un’altra, sufficientemente accertata, pure ci avvolge in un problema da cui la ragione, nel suo uso teoretico, viene posta abbastanza a mal partito18.
Si tratta, qui, dice ancora Kant, nella stessa grundlegung zur Metaphysik der Sitten, a proposito della libertà, di uno speciale tipo di causalità per la quale, però, non fornendoci nessuna relazione di causa ed effetto, come avviene tra due oggetti dell’esperienza, la spiegazione del come e del perché l’universalità della massima come legge, e pertanto la moralità, ci interessi, è per noi uomini del tutto impossibile. Presupporre una tale libertà del volere senza, per questo, cadere in contraddizione col principio della necessità naturale della connessione dei fenomeni Ivi, pp. 207-209; AA Iv, p. 455, 11-31. Ivi, p. 209; AA Iv, p. 456, 3-6. 18 Ivi, pp. 209-211; AA Iv, p. 456, 20-27. Tra parentesi quadre mie aggiunte esplicative. 16 17
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nel mondo dell’esperienza è perfettamente possibile come la stessa filosofia speculativa può mostrare – asserzione questa alla quale però Kant non fa seguire alcuna dimostrazione della possibilità di tale pretesa congiunzione tra libertà della volontà e necessità della natura –, non solo, ma è anche, senz’altra condizione, praticamente necessario, per un essere razionale conscio della propria causalità mediante la ragione, e perciò della sua volontà19. Come però avvenga questa congiunzione moralmente necessaria, come sia possibile questa coesistenza della libertà della volontà accanto alla necessità della natura Kant non lo tematizza qui, e anzi dice che «è una cosa assolutamente impossibile da spiegare per qualsiasi ragione umana: ed ogni fatica e lavoro che mirassero a ciò andrebbero perduti»20. Kant parla in questo punto solo di “attenuare nel modo più persuasivo questa apparente contraddizione”, ma non ci dà nessuna ragione criticamente plausibile di questa congiunzione. evidentemente egli ancora non pensava alla soluzione “sistematica” del Giudizio; resta il fatto però che si era già posto il problema dell’accordo tra necessità della natura e libertà del volere, seppur liberandosi in maniera forse troppo sbrigativa da tale problema. Nella Kritik der Praktischen Vernunft, nella sezione “Della tipica del giudizio puro pratico”, Kant tematizza in modo più accurato il problema del rapporto-passaggio tra la legge della libertà e la legge della natura, e qui fa la sua comparsa, nel rapporto fra i due tipi di legge, la facoltà di giudicare, che agisce nella sussunzione del caso concreto sotto la legge morale per verificare se in intenzione tal caso concreto sia conforme alla legge morale. Tale sussunzione viene operata dalla procedura dell’universalizzabilità della massima. Nel suo rapportarsi al caso concreto, però, la legge pratica diventa regola pratica. Tale regola pratica è, per Kant, la regola del Giudizio nel suo uso pratico. I concetti del bene e del male determinano, anzitutto, un oggetto per la volontà. Ma essi stessi sono soggetti a una regola pratica della ragione, la quale, se è ragion pura, determina a p r i o r i la volontà relativamente al suo oggetto. ora per decidere se un’azione, a noi possibile nel mondo sensibile, sia o no il caso soggetto alla regola, si richiede un giudizio pratico [praktische Urteilskraft] mediante il quale, quel che in una regola Cfr. I. Kant, Fondazione della Metafisica dei costumi, cit., pp. 219-223 AA Iv, pp. 460-461. 20 Ivi, p. 223; AA Iv, p. 461, 33-35. 19
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fu detto in modo universale (in abstracto), venga applicato in concreto a un’azione21.
Una decisiva funzione mediatrice, ovvero tipizzante, in questo Giudizio pratico svolge la “legge della natura”, la quale è «tipo del giudizio delle azioni secondo principi morali. [Il che vuol dire che] Se la massima delle azioni non è tale da reggere al confronto con la forma di una legge naturale in genere [la quale forma è universale e necessaria], essa è moralmente impossibile»22. Per cui, la forma della legge della natura serve al giudizio come tipo per produrre una regola pratica a partire dalla legge morale. Anche l’intelletto (in senso lato) più comune, dice Kant, nel giudicare «la causalità della libertà, fa di quella l e g g e n a t u r a l e semplicemente il tipo di una l e g g e d e l l a l i b e r t à, perché se non avesse sotto mano qualcosa capace di servirgli d’esempio nel caso empirico, non potrebbe procurare alla legge di una ragione pura pratica l’uso nell’applicazione»23. Seguendo tale procedimento, che vede la legge della natura come tipo della legge morale per il Giudizio, nella formazione della regola pratica, «la regola del giudizio sotto le leggi della ragione pura pratica è questa: Domanda a te stesso se l’azione che tu hai in mente, la potresti considerare possibile mediante la tua volontà, se essa dovesse accadere secondo una legge della natura, della quale tu fossi una parte. Secondo questa regola, infatti, ciascuno giudica se le azioni [proprie] sono moralmente buone o cattive»24. Nella “Tipica del giudizio puro pratico” Kant tematizza perciò un rapporto tra natura e libertà caratterizzandolo come necessario per la realizzazione della legge morale, e pone il Giudizio come termine medio della questione. Tuttavia non manca di rivelare che la questione non ha ancora trovato un assetto soddisfacente. Difatti Kant, sempre nella “Tipica del giudizio puro pratico”, dice: Pare assurdo voler trovare nel mondo sensibile un caso che, mentre come tale è sempre soltanto soggetto alla legge naturale, pure ammetta l’applicazione a se stesso di una legge della
21 I. Kant, Critica della ragione pratica, tr. it., roma-Bari, 2000, p. 147; AA v, p. 67, 25-32. 22 Ivi, p. 151 aggiunte mie tra parentesi quadre; AA v, pp. 69-70, 35-1. 23 ibid. 24 ibid.
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libertà, e al quale possa essere applicata l’idea soprasensibile del moralmente buono, che in esso dev’essere manifestata in concreto25.
Nella Kritik der Praktischen Vernunft, allora Kant sembra lasciare per il momento parzialmente irrisolto il problema del passaggio dal dominio della natura al dominio della libertà rispetto alla problematica morale sollevata dal ‘caso concreto’. È con la Kritik der Urteilskraft che sembra voler dare una soluzione più articolata a tale problema, che ha percorso, come vedremo più avanti, tutto il suo impianto critico fin dai primi progetti. Il cuore problematico della terza Critica è costituito dalla relazione tra questi due dominii, dal passaggio dal determinismo riscontrabile nel mondo naturale, fenomenico, esplicabile mediante rigorose leggi scientifiche della fisica newtoniana, alla libertà che sta a fondamento delle azioni umane, compreso lo stesso pensare. Mentre l’indagine critica condotta da Kant anteriormente alla Critica del giudizio è caratterizzata, come abbiamo visto, dal fatto di isolare e contrapporre due ordini di realtà: il mondo della natura da un lato e il regno della libertà dall’altro, nella terza Critica tematizza lo Übergang tra necessità e libertà e radica questo passaggio in una prospettiva trascendentale. la possibilità di pensare senza contraddizione, la coesistenza dei due ordini nel medesimo soggetto è un problema che Kant aveva già affrontato nella Critica della ragione pura, ma pensare alla coesistenza dell’ordine fenomenico e dell’ordine noumenico vuol dire solo dimostrare l’incontraddittorietà dei due ordini riferiti ad un medesimo soggetto, la qual cosa non significa però ancora spiegare se e come il primo possa accordarsi con il secondo. e proprio questo passaggio da un modo di pensare all’altro costituisce il tema dell’ultima Critica, la quale non affronta tale questione sul piano sistematico della connessione tra le tematiche proprie della filosofia della natura e quelle della filosofia morale, ma sul piano della fondazione trascendentale, la quale verte sul modo di pensare secondo canoni della necessità e sul modo di pensare secondo la libertà. Tutta la Critica del giudizio è espressione di quella fondazione trascendentale: in essa non si tratta né di una scienza del bello né di una scienza del vivente. Ciò di cui si fa questione è il rapporto che le facoltà conoscitive del soggetto intrattengono con questi oggetti, al fine di individuare il passaggio che consente di connettere due diverse forme 25
Ivi, p. 147; AA v, p. 68, 5-10.
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di riflessione, ovvero come avvenga il passaggio dal modo di pensare (Denkungsart) secondo principi che valgono nel mondo fenomenico al modo di pensare secondo principi validi nel mondo noumenico delle cose in sé. Si tratta perciò di un’indagine che non considera direttamente oggetti, ma quelle strutture conoscitive o esperienziali a priori che consentono al soggetto conoscente, senziente e agente di accedere a determinati oggetti: essa è in tutto un’indagine trascendentale in senso stretto. Infatti, nella Kritik der Urteilskraft, Kant dice che: sebbene vi sia un immensurabile abisso tra il dominio del concetto della natura, o il sensibile, e il dominio del concetto della libertà, o il soprasensibile, in modo che non è possibile nessun passaggio dal primo al secondo (mediante l’uso teoretico della ragione), quasi fossero due mondi tanto diversi, che il primo non potesse avere alcun influsso sul secondo; tuttavia il secondo d e v e avere un influsso sul primo, cioè il concetto della libertà deve realizzare nel mondo sensibile lo scopo posto mediante le sue leggi, e la natura, per conseguenza, deve poter essere pensata in modo che la conformità alle leggi, che costituiscono la sua forma, possa almeno accordarsi con la possibilità degli scopi, che in essa debbono essere realizzati secondo le leggi della libertà. – Sicché vi deve essere un fondamento dell’u n i t à tra il soprasensibile, che sta a fondamento della natura, e quello che il concetto della libertà contiene praticamente; un fondamento il cui concetto è insufficiente, in verità, a darne la conoscenza, sia teoreticamente che praticamente, e quindi non ha alcun dominio proprio, ma che permette nondimeno il passaggio dal modo di pensare secondo i principii dell’uno al modo di pensare secondo i principii dell’altro26.
Qui finalmente Kant individua chiaramente il ruolo mediatore del Giudizio ed anche la modalità del passaggio tra i due domini, passaggio che deve avvenire dal dominio della libertà al dominio della natura e non viceversa, cosa quest’ultima che invece, determinerebbe la vittoria dell’eteronomia in ambito pratico. Qualche pagina dopo, sempre nella Introduzione alla Kritik der Urteilskraft, al par. IX (Del legame tra la legislazione dell’intelletto e quella della ragione mediante il giudizio), I. Kant, Critica del giudizio, tr. it., roma-Bari, 2002, p. 21, il grassetto è una mia aggiunta; AA v, pp. 175-176, 36-15. 26
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Kant riprendendo il concetto da noi appena citato dal par. II, non solo ribadisce il ruolo di termine medio del Giudizio e la modalità di tale passaggio, ma specifica anche come tale passaggio avvenga e in che modo in tale passaggio interagiscano i principi a priori delle tre facoltà in gioco. l’intelletto è legislatore a priori per la natura come oggetto dei sensi, in vista di una conoscenza teoretica di essa in un’esperienza possibile. la ragione è legislatrice a priori per la libertà e per la sua propria causalità, in quanto elemento soprasensibile del soggetto, in vista di una conoscenza pratica incondizionata. Il dominio del concetto della natura, che è sottomesso alla prima legislazione, e quello del concetto della libertà, sottomesso alla seconda, sono interamente separati, contro ogni influsso reciproco che potrebbe avere (ciascuno secondo le sue leggi fondamentali), dal grande abisso che divide il soprasensibile dai fenomeni. Il concetto della libertà non determina niente riguardo alla conoscenza teoretica della natura; e proprio allo stesso modo il concetto della natura non determina niente riguardo alle leggi pratiche della libertà; sicché è impossibile gettare un ponte tra l’uno e l’altro dominio. – Ma, se i principii che determinano la causalità secondo il concetto della libertà (e la regola pratica che esso contiene) non risiedono nella natura, e il sensibile non può determinare il soprasensibile nel soggetto, il contrario nondimeno è possibile (non relativamente alla conoscenza della natura, ma rispetto alle conseguenze che il soprasensibile può avere sul sensibile); e questo è già contenuto nel concetto di causalità della libertà, il cui e f f e t t o secondo le leggi formali della libertà stessa, deve attuarsi nel mondo; sebbene la parola causa, usata a proposito del soprasensibile, indichi soltanto il m o t i v o che determina la causalità delle cose naturali a produrre un effetto in conformità alle proprie leggi, ma insieme anche in accordo col principio formale delle leggi della ragione; certo non si può comprendere la possibilità di questo fatto, ma si può sufficientemente confutare l’obbiezione di chi pretende di scorgervi una contraddizione. – L’effetto prodotto secondo il concetto della libertà (o il fenomeno ad esso corrispondente nel mondo sensibile) è lo scopo finale, che deve esistere, e che a ciò è presupposto come possibile nella natura (del soggetto, in quanto essere sensibile, cioè in quanto uomo). Il Giudizio, che presuppone questa possibilità a priori e senza riguardo al pratico, fornisce il concetto intermediario tra i concetti della natura e quello della libertà, concetto che rende possibile il passaggio dalla ragione pura teoretica alla ragione pura pratica,
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dalla conformità alle leggi [Gesetzmässigkeit] secondo l’una, allo scopo finale [Endzweck] secondo l’altra, ponendo il concetto di una f i n a l i t à [Zweckmässigkeit] della natura; perché in tal modo si conosce la possibilità dello scopo finale, che può essere realizzato soltanto nella natura, e d’accordo con le sue leggi27.
Ciò è spiegato dal nostro autore anche attraverso lo schema riassuntivo che presenta al termine della Introduzione alla Kritik der Urteilskraft e da noi qui riportato solo in parte: Intelletto
Gesetzmässigkeit
Conformità a leggi
Giudizio
zweckmässigkeit
Finalità (o Conformità al fine)
ragione
endzweck
Scopo finale
Come si vede chiaramente, anche a livello meramente linguistico, il concetto di finalità, che sarebbe meglio chiamare “conformità al fine”, per correttezza di traduzione, è effettivamente il medio tra la “conformità alle leggi” e lo “scopo finale”, in quanto del primo conserva la conformità, mentre del secondo conserva la posizione di un fine, che può essere un fine relativo, e allora sarà oggetto di un imperativo ipotetico, o un fine assoluto ed incondizionato quale è quello della legge morale, e che è oggetto dell’imperativo categorico. Per cui posto che per Kant «il fine è un oggetto del libero arbitrio, la cui rappresentazione determina questo a un’azione atta a realizzarlo»28, e posto che in questo caso lo scopo finale della ragione sia la realizzazione completa del concetto della libertà secondo la legge morale, la cui rappresentazione determina il soggetto ad un’azione atta a realizzarlo, il Giudizio pratico, posto tale scopo finale, vaglia, entro la realtà contingente, la conformità al fine della situazione data (ed in ciò è riflettente), in modo da determinare (ed in ciò è determinante) l’azione che conformemente alle leggi della natura da un lato ed in vista dello scopo finale dall’altro realizzi quest’ultimo nel mondo sensibile, compiendo così, attraverso l’utilizzo del concetto 27 I. Kant, Critica del giudizio, cit., pp. 61-63, il grassetto è una mia aggiunta; AA v, pp. 195-196, 4-11. 28 I. Kant, La Metafisica dei costumi, tr. it. a cura di G. vidari, roma-Bari, 2001, p. 234; AA vI, pp. 384, 33-34.
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di finalità, il passaggio dal dominio della libertà a quello della natura. Perciò «il ponte che quest’opera [la Kritik der Urteilskraft] intende gettare […] sull’abisso che separa il dominio della ragione speculativa da quello della ragione pratica, non è altro che un tentativo di spiegare come un essere finito e condizionato, radicato nella sensibilità e quindi assegnato alla temporalità, quale è l’uomo, faccia esperienza in sé di valori che si sottraggono a condizionamenti spazio-temporali e si presentano con il segno dell’assolutezza e incondizionatezza»29. Concediamoci ora una breve digressione, che ci aiuterà ad inquadrare ulteriormente il ruolo del Giudizio all’interno del sistema kantiano. A conferma della complessità del discorso circa il rapporto tra natura e libertà nell’equilibrio delle tre facoltà, è da notare che già nella lettera di Kant a Marcus Herz del 21 febbraio 1772 leggiamo: Già molto tempo fa avevo anche delineato in modo per me assai soddisfacente i principi del sentimento, del gusto e delle facoltà di giudicare insieme ai loro effetti: il piacevole, il bello, il bene. ora progettai il piano di un’opera che avrebbe potuto portare un titolo come il seguente: i limiti della sensibilità e della ragione. Pensai di suddividerla in due parti, una teoretica ed una pratica. la prima, divisa in due sezioni, conteneva; 1. la fenom[en]ologia in generale; 2. la metafisica, e precisamente solo secondo la sua natura ed il suo metodo. la seconda, parimenti in due sezioni, conteneva: 1. I principi generali del sentimento, del gusto e dei desideri sensibili; 2. I fondamenti primi della moralità30.
Si potrebbe dire, e penso a ragione, che Kant già nel 1772, a soli due anni dalla Dissertazione, avesse in mente, almeno nella delineazione degli oggetti di indagine, il sistema così come sarebbe apparso poi nell’ultimo paragrafo della Introduzione alla Kritik der Urteilskraft nel 1790, ben diciotto anni dopo. la Kritik der Urteilskraft appare qui quasi come opera intermedia, che si trova in mezzo tra la Kritik der reinen Vernunft (filosofia teoretica) e la Kritik der praktischen Vernunft (filosofia pratica) e, anche se scritta dopo la Kritik der praktischen Vernunft, risulta essere antecedente ad essa nell’ordine qui datole da Kant a partire dalla filosofia teoretica. Ma perché questo? È legittimo il parallelismo da noi ipotizzato tra la lettera a Marcus Herz e lo schema delle facoltà F. Menegoni, Critica del giudizio. introduzione alla lettura, cit., p. 28. I. Kant, Lettere, tr. it. di v. D’Agostino e G. Piccoli, a cura di A. Pastore, Torino, 1924, pp. 23-25; AA X, p. 129, 24-35. 29
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nella Kritik der Urteilskraft? e, altra domanda, il sistema della ragione sviluppantesi nelle tre Critiche con le rispettive due metafisiche (Metafisica della natura e Metafisica dei Costumi) avrebbe nel risultato finale la simmetria forse prospettata da Kant in base a quello spirito di sistema da lui tanto ammirato nel suo maestro Wolff? Per dare risposta a queste domande, cerchiamo ora di mettere a confronto lo schema riportato da Kant stesso nella Kritik der Urteilskraft e quello che noi possiamo ricavare dalla succitata lettera a Marcus Herz: Tab. 1.1 dalla Critica del giudizio Principi a priori
Applicazione alla
Facoltà di conoscere Intelletto
Conformità a leggi
Natura
Sentimento di piacere e dispiacere
Finalità
Arte
Scopo finale
libertà
Facoltà dell’animo
Facoltà di conoscere
Giudizio
Facoltà di desiderare ragione
Tab. 1.2 dalla lettera a Marcus Herz Teoretica
C.r.P.
{
Pratica
I principi generali del sentimento, Fenomologia del gusto dei desideri sensibili. Dialettica Metafisica I fondamenti della moralità.
estetica e Analitica
C. G.
C. r. Pr.
Se ora rimodelliamo la tabella 1.2 tenendo conto che nel prospetto dato da Kant nella lettera a Marcus Herz la parte teoretica è menzionata come prima parte, e la pratica come seconda parte avremo:
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Tab. 1.3
C. r. P.
{
Teoretica estetica e Analitica
Fenomologia
Dialettica
Metafisica Pratica
C. G.
I principi generali del sentimento, del gusto dei desideri sensibili.
C. r. Pr.
I fondamenti della moralità.
la tabella 1.3 riporta lo stesso ordine, nel rapporto reciproco tra le tre Critiche kantiane, di quello riportato dalla tabella 1.1, quindi a ragione possiamo dire che già nel 1772, nella lettera a Marcus Herz, Kant pensava all’insieme dell’opera critica così come lo menziona nella Kritik der Urteilskraft con la articolazione delle facoltà. Posto che il Giudizio è la facoltà-ponte tra natura e libertà Kant, seppur vi accenni come abbiamo visto in linea generalissima, non spiega bene come agisca questa capacità nello specifico dell’ambito pratico, né vi dedica una apposita trattazione. Certo parla di un sensus communis e di un certo libero gioco delle facoltà in ambito estetico, ma non tematizza a pieno come gli sviluppi della teoria del passaggio dal dominio della libertà al dominio della natura, che egli espone nella Kritik der Urteilskraft, entrino o possano entrare in rapporto con quella tipica del giudizio puro pratico esposta nella Kritik der Praktischen Vernunft, e come esprimano il passaggio dall’in abstracto all’in concreto, dalla legge alla regola, attraverso la visione innovativa di un disegnoprogetto. Su questo punto vertono le considerazioni che seguiranno, nelle quali cercherò di valorizzare alcuni assunti kantiani in vista di una teoria del giudizio pratico-morale. 3. Legge morale e giudizio È la legge morale stessa, in quanto movente che mi chiede di giudicare, cioè di mettere in atto la facoltà del Giudizio. la legge morale nella forma dell’imperativo categorico dice, come è noto: «Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni
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tempo come principio di una legislazione universale»31. la legge morale mi chiede cioè di sottoporre la massima (potenziale) della mia intenzione al test della universalizzabilità. ora, la mia ipotesi di lavoro è che questo porre la massima (potenziale) della mia azione sotto il test della universalizzabilità sia una procedura giudicativa, e ciò mi è suggerito dal fatto che la regola del “pensare allargato” è una delle tre regole del Giudizio e del Senso Comune, e tal regola allude appunto ad una procedura di universalizzazione. Nella Kritik der Urteilskraft, infatti, Kant (nel §40, Del gusto come una specie di «sensus communis») pone tre regole, che egli chiama le massime del senso comune e che menziona perché riguardo al Giudizio “possono servire alla spiegazione dei suoi principii”. esse sono: «1) pensare da sé; 2) pensare mettendosi al posto degli altri; 3) pensare in modo da essere sempre d’accordo con se stesso. la prima è la massima del modo di pensare l i b e r o d a i p r e g i u d i z i i, la seconda del modo di pensare l a r g o, la terza del modo di pensare c o n s e g u e n t e»32. Nella anthropologie in pragmatischer Hinsicht abgefasst, riguardo al Giudizio Kant parla della maturità come sviluppo della capacità di giudicare e della saggezza come più alto livello di maturità del Giudizio, e dice che riguardo alla saggezza intesa in tal modo «Tre sono le massime per giungere ad essa: 1) Pensare da sé; 2) Pensarci al posto degli altri (nelle relazioni con gli altri); 3) Pensare sempre in accordo con se stesso»33. Di queste tre massime – menzionate nella Kritik der Urteilskraft e nella anthropologie in pragmatischer Hinsicht abgefasst – quelle che ci interessano qui più da vicino, sono la prima e la seconda. la prima può essere detta anche regola del pensare in autonomia, che porta in sé la caratteristica autonomia dell’agire pratico kantiano, e che per ciò che riguarda l’attività di giudicare nella forma del giudizio riflettente diventa eautonomia, in quanto essa non solo si dà regola autonomamente (ed in ciò è autonoma), ma ricava questa regola da se stessa (ed in ciò è eautonoma). Per ciò che riguarda le seconda massima del modo di pensare, […] si tratta […] del modo di fare un uso appropriato della facoltà della conoscenza; per cui un uomo, per quanto siano piccoli in lui la capacità e il grado delle doti naturali, mostrerà I. Kant, Critica della ragione pratica, cit., p. 65; AA v, p. 30, 38-39. Id., Critica del giudizio, cit., § 40, p. 265; AA v, p. 294, 16-19. 33 Id., antropologia dal punto di vista pragmatico, tr. it. a cura di P. Chiodi, Milano, 1995, p. 83; AA vII, p. 200, 34-37. 31
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di avere un l a r g o m o d o d i p e n s a r e, quando si elevi al disopra delle condizioni soggettive particolari del giudizio, […], e rifletta sul proprio giudizio da u n p u n t o d i v i s t a u n i v e r s a l e 34.
rispetto alla prima massima l’autonomia dell’agire pratico diventa, riguardo alla attività del giudicare, eautonomia perché il Giudizio, fatta propria la legge morale, applica la legge (sicché può esser detto giudizio determinante) e individua il caso della legge (sicché può esser detto giudizio riflettente). Il Giudizio fa propria la legge morale perché è lo stesso soggetto kantiano, le cui tre facoltà superiori sono Intelletto, Giudizio e ragione, che, facendo propria la legge morale, la fa diventare principio costituente del proprio agire. Perciò quando il Giudizio cerca entro di sé, cioè entro il soggetto, il proprio principio per il Giudizio pratico, trova la legge morale non come comandata dalla ragione al soggetto, ma come già fatta propria dal soggetto stesso autonomamente, in quanto è la ragione stessa che, senza considerare alcuna inclinazione, si è data la legge morale ed ha accettato la legge morale. Questo – e tale vuole essere una mia ipotesi innovativa di interpretazione del lessico kantiano – rende il giudizio determinante morale autonomo, e il giudizio riflettente morale eautonomo perché esso non si limita ad assoggettare la volontà ad una legge data, ma è sollecitato dalla realtà contingente a trovare da sé questa legge nello specifico, cioè a trovare da sé il caso della legge nel rispetto della legge. ora un principio costituente dell’agire non è una semplice regola che dice: “fai questo” o “fai quello” ma è una forma universale dell’agire che stabilisce i limiti entro i quali è legittimo agire, cioè i limiti entro i quali l’agire è moralmente valido sia de iure che de facto; sta a noi volta per volta, nello specifico del caso contingente, dare contenuto a questa forma, il che vuol dire dare determinazione a questa forma, ed è la capacità del giudizio nella modalità del giudizio riflettente che interviene per individuare il caso della legge e dare volta per volta contenuto alla forma universale della legge morale; e il giudizio riflettente fa questo “mettendosi al posto degli altri”, il che vuol dire “ponendosi da un punto di vista universale” ogni volta che stiamo per attualizzare una massima dell’agire, sottoponendo, in questo modo, la massima (potenziale) dell’agire al suddetto test della universalizzabilità. rispetto alla seconda massima non si tratta di assumere un ipotetico punto di vista “superiore”, ma di ampliare il proprio orizzonte, mediante l’uso dell’immaginazione, includendo gli altri “in uno spazio 34
Id., Critica del giudizio, cit., § 40, p. 267; AA v, p. 295, 3-12.
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potenzialmente pubblico”, la qual cosa non va confusa con una sorta di «empatia dilatata fino all’inverosimile, grazie alla quale sarei in grado di sapere che cosa effettivamente passa nella testa di tutti gli altri»35, né con un escamotage per sottomettersi ad un modo di pensare estraneo, bensì indica la capacità di oltrepassare i limiti del proprio giudizio personale e del proprio interesse particolare, per accedere ad un punto di vista “trascendentale”, ovvero di pervenire ad una prospettiva universale ma concreta. «la pubblicità – dice Hannah Arendt in teoria del giudizio politico, commentando la richiesta di universalizazione della massima presente nella seconda Critica – è già nella filosofia morale il criterio della legalità. […] le massime private debbono essere sottoposte a un’indagine che mi dica se le posso rendere pubbliche. la moralità è qui data dalla coincidenza del privato e del pubblico»36. All’imparzialità-universalità, quindi alla possibilità di formare un giudizio “giusto”, si perviene dunque mediante l’assunzione di una prospettiva che tenga conto della presenza degli altri, della loro esistenza e dei loro giudizi: una concezione molto vicina, appunto, alla massima del “pensare allargato” della terza Critica. la pubblicità, come in La pace perpetua, è ‘principio trascendentale’, che deve governare ogni azione. ogni azione che ‘necessita della pubblicità’ per non compromettere il proprio scopo, e la cui pubblicità intesa su livello universale non ne compromette lo scopo, è un’azione moralmente valida senza dubbio. l’universalizzazione della massima (ipotetica) dell’intenzione si attua, perciò, con una ‘politicizzazione’ dell’attività giudicante. Nel suo universalizzare la massima pubblicizzandola il Giudizio di gusto, qui preso come esempio di Giudizio riflettente nella sua attività universalizzante, tiene in considerazione i giudizi altrui, ma, non semplicemente i giudizi reali, quanto quelli possibili (nel senso non della possibilità necessaria dei giudizi determinanti, ma della possibilità contingente dei giudizi riflettenti). Insomma, l’aspirazione del Giudizio all’universalità, che
H. Arendt, teoria del giudizio politico, cit., p. 68. Cfr. H. Arendt, Crisis in Culture: its Social and Political Significance, in Between Past and Future: eight exercises in Political Thought, New York, 1961; tr. it., tra passato e futuro, Firenze, 1970, p. 238: «Anche se nel prendere la decisione io sono del tutto solo, il mio giudizio si esplica in una comunicazione anticipata con altri con i quali devo infine arrivare a un certo accordo. Da questo accordo potenziale il giudizio deriva il proprio valore». 36 Ivi, p. 77. 35
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rende il senso comune lo scopo, oltre che il presupposto, del Giudizio medesimo, è fondata sulla capacità di pensare ponendosi al posto dell’altro. Che Kant intenda il ruolo del Giudizio nell’agire pratico in questo modo lo notiamo a partire già dalla grundlegung zur Metaphysik der Sitten in cui dice: «Si deve poter volere che una massima della nostra azione divenga legge universale: questo è il canone del Giudizio morale dato su di essa»37, e più avanti afferma: «Il progresso avviene, qui, quasi passando attraverso le categorie dell’unità della forma del volere (sua universalità), della molteplicità della materia (degli oggetti, cioè degli scopi), e della totalità del loro sistema. In verità è preferibile, nel giudizio etico, procedere sempre secondo il metodo rigoroso, e porre a base la formula generale dell’imperativo categorico: agisci secondo una massima che possa farsi al tempo stesso legge universale. Ma, se si vuole offrire accesso alla legge morale, è molto utile far passare una medesima azione attraverso tutti i tre concetti elencati, in modo da avvicinarla, per quanto possibile all’intuizione»38. Sempre nella grundlegung zur Metaphysik der Sitten, parlando della dignità dell’uomo, Kant dice: «In altri termini la sua dignità (prerogativa) rispetto a tutte le altre creature meramente naturali comporta che le sue massime debbano sempre essere assunte dal punto di vista suo proprio, ma anche, insieme di tutti gli altri esseri razionali»39. Con la sua capacità di ‘politicizzazione’ della massima particolare dell’intenzione attraverso la sua possibilità di essere resa pubblica, e perciò di sottostare al test dell’universalizzabilità, il Giudizio compie il passaggio dalla massima alla legge e dalla legge alla massima. la legge è il principio universale della ragione, è l’imperativo categorico. la massima è il principio soggettivo dell’intenzione del soggetto agente. Come la legge universale della ragione riesce a particolarizzarsi, cioè a divenire massima del soggetto agente che ne trae una regola d’azione? In ultima analisi, come abbiamo visto nello svolgersi di questo paragrafo, solo per mezzo della attività combinata del Giudizio riflettente e del Giudizio determinante, dove però la maggior parte dell’attività giudicativa è svolta dal Giudizio riflettente, in quanto preparatorio rispetto al Giudizio determinante; tutto il movimento giudicativo precedente alla determinazione della 37 I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 131; AA Iv, p. 424, 1-3. 38 Ivi, p. 163; AA Iv, p. 436, 26-4. 39 Ivi, p. 167; AA Iv, p. 438, 12-16.
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regola pratica è di tipo riflessivo; insomma il passaggio dalla legge alla massima e dalla massima alla legge, per mezzo della procedura di universalizzazione della massima, è di tipo riflettente, ed anche la tipizzazione della legge morale sulla forma della legge di natura per la formazione della regola pratica è di tipo riflettente, solo la determinazione ultima di tale regola pratica è di tipo determinante. Data la legge morale ed un caso in concreto nel quale ci troviamo ad agire secondo la massima soggettiva della nostra azione, si viene a creare uno iato tra l’in abstracto della legge morale e l’in concreto della situazione data e della nostra massima soggettiva d’azione (quello che Kant nella Kritik der Urteilskraft chiama “un abisso”); qui, in questo iato, opera il Giudizio, che come Giudizio riflettente trova il principio universale per il caso concreto, cioè universalizza la massima soggettiva della nostra azione, e fa ciò sul tipo della legge morale. Solo dopo aver svolto questo lavoro di riflessione tra i vari fattori, cioè solo dopo aver valutato il caso concreto e la massima soggettiva da un lato e aver sottoposto tale massima secondo l’imperativo della legge morale al test della universalizzabilità sul tipo della legge di natura dall’altro lato, il Giudizio – stavolta come Giudizio determinante – si volge alla determinazione della regola pratica. Questo perché, come abbiamo tentato di dire, il principio cioè la legge morale diventa massima nella misura in cui la massima può diventare legge universale della natura; il che vuol dire nella misura in cui la massima “si spoglia” di tutta la sua soggettività e si rende universalizzabile, cioè si lascia pervadere dalla legge morale e ne fa propria la forma universale e necessaria, che la tipica “prende a prestito” dalla legge della natura, in quanto questa è considerata nell’azione del Giudizio come tipo per la legge morale. Perciò, il principio della legge diventa massima del soggetto qualora la massima particolare del soggetto sottostia al canone dell’universalizzabilità della legge morale. Poiché, come abbiamo dimostrato, è la facoltà del Giudizio che elabora la procedura della universalizzabilità, allora è il Giudizio riflettente e poi determinante che, nel considerare la legge, quale principio universale (determinante), formale e “abstracto”, “in concreto” (riflettente), compie il passaggio dalla legge alla massima e dalla massima alla legge, ed in ciò tenendo presente la legge della natura come tipo della legge morale produce, cioè determina, la regola pratica per il caso concreto, presente nella situazione attuale.
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riassumiamo schematicamente:
Kant, infatti, in una nota a fondo pagina nella grundlegung zur Metaphysik der Sitten osserva: Così come la pura matematica si distingue dalla matematica applicata, o la logica pura dalla logica applicata, si può, volendo, distinguere la pura filosofia dei costumi (metafisica) dalla filosofia dei costumi applicata (applicata cioè alla natura umana). Con questo modo di esprimersi si ricorda anche, immediatamente, che i principi etici non si fondano sulle proprietà della natura umana, ma devono sussistere per se stessi a priori. Tuttavia da essi si devono desumere regole pratiche, come per ogni natura razionale, così anche per la natura umana40.
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Ivi, p. 97; AA Iv, p. 410, in nota a piè pagina.
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Perciò si richiede nel caso concreto una genesi della regola pratica a partire dai principi etici a priori, cioè dalla legge morale, genesi deduttiva alla quale è preposta la facoltà del giudizio. Kant dice infatti che dai principi etici a priori si devono desumere regole pratiche, il che vuol dire che, data la premessa maggiore costituita dal principio etico a priori, e la premessa minore costituita dalla situazione contingente entro la quale realizzare la legge morale, c’è bisogno di desumere la conclusione costituita dalla regola pratica che permette, appunto, l’applicazione della legge al caso concreto; e a svolgere questo “sillogismo morale” è il Giudizio. ora il passaggio dalla legge alla massima nella elaborazione della regola pratica nella situazione contingente, ci dà la possibilità di scagionare la morale kantiana anche dall’accusa di formalismo, oltre che, come abbiamo già fatto, da quella di essere una morale della pura intenzione. Nel par.1, infatti, abbiamo tentato di mostrare come per Kant non solo l’intenzione ma anche l’azione conseguente all’intenzione abbia importanza per determinare la moralità del soggetto; avevamo tuttavia lasciato senza risposta l’accusa di formalismo. A tal proposito, oltre a quanto già detto sul rapporto legge/massima/ regola, che ci sembra già rispondere esaurientemente all’accusa di formalismo in quanto pone in evidenza come per Kant nel passaggio dalla legge alla regola, mediato dal Giudizio, la forma astratta e vuota di contenuto determinato venga gradualmente riempiendosi di contenuto determinato pur nel rispetto della legge, è interessante quanto è stato detto a riguardo da Nicola Petruzzellis in un articolo apparso sulla “rassegna di Scienze Filosofiche”. Petruzzellis infatti, tenendo presente la critica di Max Scheler, diceva che: la legge è formale, ma, appunto perché tale, informa la materia psicologica (rappresentazioni, idee, impulsi, istinti, calcoli) e storica (situazione etc.) per dominarla e determinare una sintesi da cui scaturisce l’azione concreta. Kant ha lasciato in ombra la funzionalità della legge, intento soprattutto a formularla in modo che non s’insinuasse surrettiziamente in essa alcun movente utilitario. Ma, per quanto questa funzione della legge non sia stata illuminata e sviluppata esplicitamente, se non c’inganniamo a partito, essa è implicita nelle pagine kantiane e specialmente in quelle nelle quali si illustra l’applicabilità della legge ai singoli casi concreti. […] l’universalità della legge e il giusto rigore della medesima non escludono affatto i fattori di concretezza dell’azione. Il problema filosofico e pratico è un problema di equilibrio: bisogna, in altri termini, trovare il
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giusto rapporto tra l’elemento razionale e formale della legge e le circostanze determinate dell’azione. Se pecca di indebita astrazione chi si rifiuta di tener conto di queste, nello stesso errore, ma in senso inverso, cade chi pretende di sacrificare l’esigenza universale e inderogabile della legge morale alla indefinita labilità delle situazioni e delle reazioni psicologiche che possono insorgere nella coscienza empirica. Nel primo caso si ignora la realtà nella quale l’uomo è chiamato ad operare, nel secondo si nega all’uomo stesso ogni direttiva valida e costante e si soffoca la sua libertà nel determinismo psicologico, sociologico o naturalistico41.
Per cui possiamo affermare con Petruzzellis che la legge dev’essere universale e perciò formale, perché se tale non fosse e fosse esposta a fattori di variabilità, non sarebbe più certa e vincolante e finirebbe per risolversi e dissolversi in suggestioni di comodo, in fluttuazioni psicologistiche e storicistiche. Garantire questa pura universalità della legge significa escludere, nella formulazione di essa, ogni fine determinato, suscettibile di far scattare il meccanismo utilitario. Tuttavia escludere un fine particolare dalla formulazione della legge, non significa pretendere l’ateleologicità dell’azione umana, il che sarebbe controfattuale. Per questo Kant aveva pensato alla regola pratica in quanto specificazione della legge sulla base di un caso contingente. Ma fermiamoci un attimo per quanto riguarda le ulteriori specificazioni su come il Giudizio realizzi il passaggio dall’in abstracto all’in concreto della legge morale, per guardare più da vicino le caratteristiche di questa facoltà in ambito morale, riguardo però al suo oggetto e al suo soggetto. ogni Giudizio, infatti, ha una forma generica “S è P”; per ora noi ci siamo soffermati sulle particolari modalità dell’ “è” del Giudizio in ambito pratico, ora vogliamo rivolgere la nostra attenzione anche al “S” (soggetto) e al “P” (predicato). Arricchiti da queste ulteriori specificazioni torneremo poi a guardare all’ “è”, per specificarlo ulteriormente in base alle nostre rinnovate conoscenze sul “S” e sul “P”. 4. La Urteilskraft come capacità di distinguere, discernere ed orientarsi nel mondo reale, il territorio dell’attività giudicante (il terzo molteplice di Scaravelli) la Capacità di giudicare (Urteilskraft), potrebbe essere anche definita, nel rapporto con le due altre facoltà conoscitive, intelletto e ragione, 41
N. Petruzzellis, Saggezza di Kant, cit., pp. 294 e 296.
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come capacità di orientarsi. Così Kant la descrive nel saggio Che cosa significa orientarsi nel pensiero: letteralmente, orientarsi significa: determinare a partire da una certa regione del mondo (una delle quattro in cui suddividiamo l’orizzonte) le altre, in particolare l’oriente. Se vedo il sole alto nel cielo e so che è mezzogiorno, sono in grado di determinare il sud, l’ovest, il nord e l’est. A questo scopo bisogna tuttavia che io senta una differenza nel mio stesso soggetto, quella fra mano destra e sinistra. lo chiamo sentimento, poiché esteriormente, nell’intuizione, i due lati non presentano alcuna differenza percettibile. Se non possedessi la facoltà che nel tracciare il cerchio, e senza che al riguardo sia necessaria una qualsiasi diversità degli oggetti, mi consente ugualmente di distinguere il movimento da sinistra a destra da quello in direzione opposta, e, quindi di determinare a priori una diversità nella posizione degli oggetti, non saprei se collocare l’ovest a destra o a sinistra del punto dell’orizzonte indicante il sud, né se per completare il cerchio e raggiungere nuovamente il sud devo passare per il nord e per l’est. […] Ma ecco che, grazie al sentimento della mano destra e sinistra, gli viene in aiuto in modo del tutto naturale la facoltà di distinguere che, posta dalla natura, diviene abituale in virtù di un frequente esercizio42.
Questa facoltà di distinguere, del tutto naturale, è secondo me proprio la capacità di giudicare, che risulta avere in questo caso un ruolo ‘quasi-conoscitivo’, ovvero di un orientamento che ci prepara alla effettiva conoscenza e che, in questo orientare o regolare il soggetto per la conoscenza, sembra ricordare quel regolarsi in base al come se (als ob), proprio delle idee regolative della ragione. Questa capacità di distinguere la mia mano destra dalla sinistra risulta essere la capacità che mi rende possibile orientarmi conoscitivamente nel molteplice empirico reale intorno a me, e non nel molteplice empirico in generale proprio della “unità analitica del pensiero” (inteso cioè in maniera astratta e formalmente generalissimo dove esistono cause ed effetti in generale, ma non questo tal fenomeno A che è causa di quel tal effetto che è il fenomeno B e non di quel tal fenomeno C). Sarebbe quella capacità di orientarsi che ci dà la possibilità di avere a che fare in modo conoscitivo sintetico con quello che luigi Scaravelli, nelle sue osservazioni sulla I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, tr. it., Milano, 2000, pp. 47-48, il grassetto è una mia aggiunta; AA vIII, pp. 134-135, 22-27. 42
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Critica del giudizio, chiama il Terzo molteplice: Un molteplice il quale è costituito dalle “molteplici forme della natura” e dalle molteplici “modificazioni dei concetti trascendentali generali della natura”[…], molteplice di cui le leggi trascendentali determinano solo la costituzione – o intima tessitura – in quanto esso fa parte di una natura in generale, ma lasciano invece indeterminato, e del tutto indeterminato, quello che forma la sua particolare natura di molteplice43.
Questo terzo molteplice è ciò che Kant nella Prima Introduzione alla Kritik der Urteilskraft chiama «l’inquietante e infinita diversità di leggi empiriche, assieme all’eterogeneità di forme naturali»44; è insomma l’esperienza reale in tutta la sua infinita varietà, laddove ogni singolo fenomeno ha una sua individualità che lo distingue da un altro fenomeno. Ci troviamo, nella Kritik der Urteilskraft dinanzi alla centralità del “fattore contingenza”, «l’elemento della singolarità e dell’accidentalità, imbrigliato entro le categorie e i principi puri dell’intelletto nella prima Critica e confinato nella sfera dell’arbitrio nella seconda, diviene ora centrale nella terza. Il singolare e l’individuale sono ciò che la Critica del giudizio pone a tema»45; quello che Kant chiama Mannigfaltigkeit, termine comunemente tradotto con “molteplicità”, ma che secondo me andrebbe tradotto come “multivarietà”, che rende meglio la infinita varietà caratteristica del reale, cioè del terzo molteplice. e questo terzo molteplice ad uno sguardo attento risulta essere il territorio (Boden) comune delle tre facoltà superiori dell’animo, territorio su cui l’intelletto da un lato e la ragione dall’altro fondano i loro rispettivi domini (gebiet) su cui esercitano ognuno la propria legislazione. Difatti il territorio che è inteso da Kant come «sempre soltanto l’insieme degli oggetti di ogni esperienza possibile, in quanto essi non sono considerati se non come semplici fenomeni»46 e risulta essere comune a tutte e tre le facoltà in quanto «l’intelletto e la ragione hanno […] due legislazioni differenti su di un solo e medesimo territorio dell’esperienza»47; e il Giudizio, pur l. Scaravelli, osservazioni sulla “Critica del giudizio” (1955), in Scritti kantiani, vol. II delle opere, Firenze 1990, p. 364. 44 I. Kant, Prima introduzione alla Critica del giudizio, tr. it., roma-Bari, 1984, p. 83; AA XX, p. 209, 26-28. 45 F. Menegoni, Critica del giudizio. introduzione alla lettura, cit., p. 39. 46 I. Kant, Critica del giudizio, cit., p. 17-19; AA v, p. 174, 27-29. 47 Ivi, p. 19; AA v, p. 175, 5-6. 43
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non avendo alcun dominio in base al suo principio a priori, ha però un territorio, che è lo stesso su cui poggiano i due distinti domini di natura e libertà, ed entro il quale ha validità il suo principio a priori, che è il concetto di finalità, per mezzo del quale il Giudizio è termine medio tra intelletto e ragione. Per cui il terzo molteplice rappresenta la situazione in cui il Giudizio si trova a mediare tra intelletto e ragione, ossia tra il dominio della natura e il dominio della libertà, per realizzare la libertà entro il mondo sensibile; qui il terzo molteplice è la situazione concreta in cui il soggetto agisce. Infatti, se l’intelletto ha un suo dominio entro il territorio dell’esperienza possibile su cui ha validità legislativa a priori il concetto della natura, cioè la conformità a leggi; e se la ragione ha un suo dominio entro il territorio dell’esperienza possibile su cui ha validità legislativa a priori il concetto della libertà, e se tra i due dominii non c’è rapporto perché i loro principii a priori hanno validità legislativa, cioè costitutiva, solo entro i limiti del proprio dominio, si richiederà allora la presenza di una facoltà particolare, la quale abbia un principio a priori che non costituisca un dominio a sé, ma che valga all’interno di tutto il territorio e, non avendo un proprio dominio, non sia costitutivo ma regolativo. Sia dalla Prima Introduzione alla Kritik der Urteilskraft che dalla Introduzione definitiva, infatti, si può trarre facilmente la conclusione che l’esperienza, nella sua multivarietà, richiede il Giudizio: Solo il Giudizio rende possibile, o meglio necessario, di pensare nella natura, oltre alla sua necessità meccanica, anche una finalità, senza il cui presupposto non sarebbe possibile l’unità sistematica delle forme particolari secondo leggi empiriche! […] Così, la facoltà di giudicare consente di organizzare una molteplicità sempre diversa, contingente, e anche casuale in una unità che anch’essa è sempre contingente, e che, nella sua assolutezza, si presenta solo come un fine48.
Perciò data la legge morale, quale premessa maggiore costante, la situazione concreta costituente la premessa minore risulta essere la variabile del sillogismo morale. Tale situazione concreta in ogni momento diversa è quella in cui la libertà per mezzo della sua causalità può dar vita ad una nuova catena di effetti, e da cui il soggetto agente deve recepire i l. Anceschi, Considerazioni sulla Prima introduzione alla Critica del giudizio di Kant, introduzione a I. Kant, Prima introduzione alla Critica del giudizio, roma-Bari, 1984, pp. 47-48, corsivo mio. 48
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dati da sottoporre al Giudizio che in vista dello scopo finale della legge morale, che è un’idea regolativa della ragione, lo orienterà su ciò che, data la situazione, sarebbe il caso della regola. Facile sarebbe mostrare come, con questa bussola [che è il criterio del giudizio] in mano, essa [la comune ragione umana] sia perfettamente in grado di distinguere, in tutti i casi che si presentano, che cosa è bene e che cosa è male, che cosa è conforme a dovere e che cosa col dovere contrasta49.
49
I. Kant, Fondazione della Metafisica dei costumi, cit., p. 81; AA Iv, p. 404,
1-3.
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CAPITolo SeCoNDo IL GIUDIZIO MORALE 1. il soggetto e l’oggetto del giudizio riflettente morale* Abbiamo visto quale è la situazione entro la quale si esercita il Giudizio; volgiamo ora lo sguardo al soggetto e all’oggetto del Giudizio. la prima questione da affrontare è chi sia il soggetto del Giudizio morale, Giudizio che si realizza non solo attraverso la “tipica”, ma anche mediante la capacità riflessiva di orientarsi e pensare in modo allargato. È l’io, non però solo come soggetto trascendentale, ma come io che si trova a vivere nel mondo, e che nel suo agire si trova a dover attuare il proprio dovere morale incondizionato (in quanto comandatogli incondizionatamente dalla legge morale), nel condizionato/condizionante (in quanto la realtà ci preme con la sua insistenza e urgenza di decisione per l’azione) della realtà fenomenica multivaria del mondo, non in idea bensì in concreto. l’io, perciò, come soggetto morale concreto, esposto anche all’impulso naturale, quindi l’uomo1. * Cfr. S. Principe, L’Uomo di Kant. note in margine all’antropologia kantiana, in «logos», n. 6, Napoli, 2011, pp. 293-310. 1 A proposito della trattazione della problematica antropologica nella filosofia di Kant si vedano: P. Salvucci, L’uomo di Kant, Urbino, 1963; I. raimondi, L’antropologia Pragmatica kantiana: «Lebenswelt», «prassi» o «autocoscienza storica»? note su alcune interpretazioni recenti dell’antropologia di Kant, in Studi kantiani, Pisa-roma, 2002; J. Concill, La antropologìa y antroponomìa de Kant, in Pensar lo humano, actas del ii Congreso nacional de antropologìa Filosofica, Madrid, Septiembre de 1996, iberoamericana, Madrid 1997, Madrid, 1997, pp. 281-285; J. Didier, La Question de l’homme et le fondement de la philosophie (réflexion sur la philosophie pratique de Kant et la philosophie spéculative de Fichte), Paris, 1964; P. escudero, l. Fernando, antropologìa Filosofica y acciòn humana, in Pensar lo humano, actas del ii Congreso nacional de antropologìa Filosofica, Madrid, Septiembre de 1996, Madrid, 1997, pp. 287-290; P. r. Frieson, Freedom end anthropology in Kant’s Moral Philosophy, New York, 2003; T. Japaridze, The Kantian subject. Sensus Communis, Mimesis, Work of Mourning, New York, 2000.
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Nella sua analisi delle “faccende umane” si intrecciano, in realtà, tre accezioni differenti dell’uomo e dell’umanità in generale: Kant si riferisce ora al genere umano nel suo insieme (connotato in maniera essenziale dalla tendenza al progresso della specie), ora all’uomo come soggetto morale, ora agli uomini quali esseri concreti viventi sulla terra. Nella seconda parte della terza Critica, il riferimento è all’umanità nel primo senso; la seconda definizione contrassegna la riflessione delle prime due Critiche [in special modo della seconda], ove l’uomo è concepito e descritto come “essere ragionevole, sottoposto alle leggi della ragion pratica, che egli dà a se stesso, autonomo, scopo in sé, appartenente ad un ‘geisterreich’, regno degli esseri intelligibili”; la terza accezione, infine, è adottata nella Critica del giudizio estetico, ove gli uomini vengono rappresentati, appunto, non come individui razionali astrattamente presenti o possibili nell’universo, bensì come “creature legate alla terra, viventi in comunità, dotate di senso comune, sensus communis, senso della comunità; non autonomi, bisognosi di socialità anche per pensare2.
l’uomo di cui qui si parla è il soggetto della interpellanza morale, ma nel contempo anche il soggetto empirico, fatto di corpo, che sottostà alle leggi della natura e che, in questa radicale duplicità tra legislazione della natura e legislazione della libertà, vive una profonda contraddizione, o meglio un’antinomia, a cui solo il Giudizio può rimediare, come abbiamo cercato di dimostrare nel secondo paragrafo. È il soggetto di cui Kant parla nella grundlegung zur Metaphysik der Sitten laddove, data la distinzione tra mondo sensibile e mondo intelligibile, tale distinzione sussiste anche a livello dell’essenza del soggetto, il quale si trova anch’esso ad essere fenomeno e noumeno, dimensioni che sottostanno a due legislazioni diverse, quella della natura e quella della libertà: Considerandosi, dunque, come appartenente al mondo sensibile in relazione alla pura percezione e recettività delle sensazioni, e come appartenente al mondo intellettuale o intelligibile in relazione a ciò che può essere in lui attività pura (che egli non coglie mediante l’affezione dei sensi, bensì mediante la coscienza immediata): anche se, di questo mondo intelligibile, non sa null’altro. […] In considerazione di ciò, un essere razionale, come intelligenza (quindi non sotto l’aspetto delle sue 2
M. A. la Torre, L’etica nella terza critica, cit., p. 134.
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facoltà inferiori), deve considerarsi come appartenente, non al mondo sensibile, bensì all’intelligibile. Pertanto, egli dispone di due punti di vista, da cui considerare se stesso e riconoscere le leggi dell’uso delle sue facoltà e, pertanto, di tutte le sue azioni: da un lato, in quanto appartiene al mondo sensibile, si riconosce sottoposto a leggi di natura (eteronomia); dall’altro lato, in quanto appartiene al mondo intelligibile, si riconosce sottoposto a leggi che, indipendentemente dalla natura, non si fondano sull’esperienza, ma esclusivamente sulla ragione3. Se noi ci pensiamo come liberi, ci trasponiamo, come membri, nel mondo intelligibile, e riconosciamo l’autonomia del volere insieme con la sua conseguenza, che è la moralità; se, per contro ci pensiamo come obbligati, ci consideriamo come appartenenti al mondo sensibile, ma anche al mondo intelligibile nello stesso tempo. […] l’essere razionale, come intelligenza, si ascrive al mondo intelligibile, e chiama volontà la propria causalità solo come causa efficiente che appartiene a un tal mondo. D’altro canto, esso è consapevole di sé anche come elemento del mondo sensibile, in cui s’incontrano, bensì, le sue azioni come meri fenomeni di quella causalità, ma la loro possibilità non può venir desunta da quella, causalità che non conosciamo; mentre, al contrario, quelle stesse azioni, in quanto appartenenti al mondo sensibile, devono esser viste come determinate da altri fenomeni, e cioè dai desideri e dalle inclinazioni. Come proprie di un puro membro del mondo intelligibile, dunque tutte le mie azioni sarebbero perfettamente conformi al principio dell’autonomia della volontà pura; come proprie di un elemento del mondo sensibile, esse dovrebbero essere assunte come interamente conformi alla legge naturale dei desideri e delle inclinazioni, e, perciò, alla eteronomia della natura. (le prime si fonderebbero sul principio supremo della moralità, le seconde su quello della felicità). Ma poiché il mondo intelligibile contiene il fondamento del mondo sensibile e, perciò, anche delle sue leggi, e perciò dà immediatamente la legge alla mia volontà (che appartiene interamente al mondo intelligibile), e come tale deve anche venir pensato, così io, nonostante che per un altro verso appartenga al mondo sensibile, come intelligenza mi riconoscerò sottoposto alla legge del primo, cioè della ragione, che racchiude la sua legge nell’idea della libertà e, quindi, della
I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 197 e 199; AA Iv, pp. 451-452, 30-36 […] p. 452, 23-30. 3
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autonomia del volere: sicché le leggi del mondo intelligibile devono essere considerate, rispetto a me come imperativi, e le azioni conformi a questo principio come doveri4.
Sappiamo, secondo quanto precedentemente detto, che il passaggio dalla legislazione della libertà alla legislazione della natura, cioè la realizzazione spazio-temporale dell’imperativo morale, è operato dalla capacità di giudicare in quanto “termine medio”. ora la Kritik der Urteilskraft nel porre a tema l’unità della ragione (in senso lato), come unità del sistema in quanto unità della ragione nel suo uso teoretico e della ragione nel suo uso pratico, e perciò unità del mondo sensibile e del mondo intelligibile nel passaggio tra natura e libertà, pone a tema in ciò anche l’unità del soggetto, per cui il soggetto del Giudizio non è solo colui che spera, cioè il soggetto della domanda “che cosa posso sperare?”, né è solo colui che è obbligato dalla legge morale, cioè il soggetto della domanda “che cosa mi è lecito fare?”, e neanche solo colui che conosce, o il solo Io penso, cioè il soggetto della domanda “che cosa posso conoscere?”, ma è l’uomo, non semplicemente un soggetto astratto, ma il vivente in tutta la sua complessità che risponde alla domanda, proprio perciò sintetica di tutte le altre, “chi è l’uomo?”, e vi risponde col proprio vivere che non è solo conoscere, né solo sperare, né solo agire moralmente, ma è tutto questo e insieme anche molto altro. e non è neanche il solo essere razionale di cui Kant parla in ambito morale, come nella precedente citazione, per fondare la universalità della legge morale valida per ogni essere razionale, ma è l’uomo il soggetto del Giudizio. In questo modo la terza Critica dischiude, a partire dalla riflessione su una specifica facoltà dell’animo umano, un accesso privilegiato alla domanda sull’essenza dell’uomo, un accesso al chi è questo singolo individuo, la cui conoscenza si scontra con una datità originaria che gli impone limiti insormontabili, la cui azione è continuamente esposta all’accidentalità, allo stravolgimento di ciò che era nell’intenzione dell’agente in qualcosa di radicalmente diverso. È quest’opera di riflessione e comprensione, in cui si armonizzano le diverse facoltà dell’animo umano, ciò che consente all’individuo di dare un senso al suo essere e operare nel mondo. l’uomo perciò risulta essere non solo il soggetto ma anche, in un certo senso, l’oggetto del Giudizio, lo scopo finale della sua azione. l’uomo in quanto unione antinomica di I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 201- 203; AA Iv, pp. 453-454, 11-5. 4
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natura e libertà è il soggetto del Giudizio, e l’uomo in quanto unione realizzata e risolta di natura e libertà, in quanto realizzazione della libertà nella natura, è lo scopo del Giudizio. Per cui l’uomo realizza se stesso nell’attività di giudicare. risolvendo il problema dell’attuazione della libertà nella natura attraverso il Giudizio, infatti, l’uomo realizza se stesso in quanto risolve la sua essenza antinomica. Nell’adempiere alla legge morale nella realtà sensibile per mezzo del giudizio, l’uomo non solo si realizza in quanto risolve la sua natura antinomica, ma si avverte, realmente e non solo intenzionalmente, come scopo finale, come fine in sé, della legge morale, ed in ciò realizza la sua autentica libertà in quanto la sua volontà sottostà ad una legge che si dà da sé per (cioè con lo scopo di) sé, per cui il motivo (non movente) dell’azione morale dell’uomo è l’uomo stesso e la formula, in fondo un po’ viziata e frustrante, “il dovere per il dovere” potrebbe trasformarsi in quella “il dovere dell’uomo in vista dell’uomo” propria di una moralità realizzata secondo lo “scopo finale della creazione”5 che è appunto l’uomo in quanto essere dotato di “dignità”, cioè morale, perciò libero. Già nella grundlegung zur Metaphysik der Sitten lo scopo finale della legge morale è l’uomo. Gli esseri razionali son chiamati persone […]. Questi non sono, dunque, scopi puramente soggettivi, la cui esistenza, come effetto della nostra azione, abbia un valore per noi: sono scopi oggettivi, cioè cose la cui esistenza è un fine in sé, tale che al suo posto non se ne può mettere nessun altro, e del quale i fini soggettivi dovrebbero stare al servizio, come semplici mezzi, perché senza di esso non vi sarebbe, in generale, nessun valore assoluto. […] Se ha da esservi, dunque, un principio pratico supremo, e un imperativo categorico che comanda alla volontà dell’uomo, questo deve derivare dalla rappresentazione di ciò che è necessariamente uno scopo per ognuno, essendo fine in se stesso: e, come tale, costituire un principio oggettivo della volontà, che serva di legge pratica universale6.
A proposito dei concetti di scopo e di finalità della natura si vedano: P. Menzer, Kants Lehre von der entwicklung in natur und geschichte, Berlin, 1911; K. Düsing, Die teleologie in Kants Weltbegriff, Bonn, 1968; F. Menegoni, Finalità e destinazione morale nella “Critica del giudizio” di Kant, Pubblicazioni di verifiche 12, Trento, 1988. 6 I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 143; AA Iv, pp. 428-429, 21-2. 5
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Perciò l’uomo in quanto fine in sé è sia principio soggettivo che principio oggettivo di tutte le leggi della volontà. l’imperativo pratico sarà, dunque, il seguente: «agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche al tempo stesso come scopo, e mai come semplice mezzo»7. Nella Kritik der Urteilskraft, poi, riguardo all’uomo come scopo ultimo della natura, da un lato, e come scopo finale della creazione dall’altro, Kant osserva che «l’uomo […] è lo scopo ultimo della creazione, perché è l’unico essere, tra quelli che qui si trovano, il quale possa farsi il concetto di uno scopo»8, mentre dall’altro lato «come l’unico essere che sulla terra abbia un’intelligenza, e quindi una facoltà di porsi volontariamente degli scopi, egli [l’uomo] è, in verità, il ben titolato signore della natura; e, se questa si considera come un sistema teleologico [quello che Kant chiama regno dei fini nella grundlegung zur Metaphysik der Sitten], egli ne è, per la sua destinazione [morale], lo scopo ultimo [della natura]»9. Ma il rimando alla destinazione morale risulta essere ancor più chiaro nel §84 della terza Critica: ora noi non abbiamo nel mondo se non un’unica specie di esseri, la cui causalità sia teleologica, cioè diretta a scopi, e tali tuttavia che si rappresentino la legge secondo cui debbono determinare i propri fini, come posta incondizionatamente da loro stessi e indipendentemente dalle condizioni della natura, eppure come in se stessa necessaria. l’essere di questa specie è l’uomo, ma considerato come noumeno; è l’unico essere della natura in cui possiamo riconoscere, come suo carattere proprio, una facoltà soprasensibile (la libertà) ed anche la legge della causalità e l’oggetto di questa che egli si può proporre come fine supremo (il sommo bene nel mondo). ora, dell’uomo (e così di ogni essere ragionevole del mondo), in quanto essere morale, non si può domandare ancora per qual fine (quem in finem) esiste. la sua esistenza ha in se stessa lo scopo supremo, al quale, per quanto è in sua facoltà, egli può sottomettere l’intera natura, o, almeno, rispetto al quale non c’è alcuna influenza contraria della natura, a cui l’uomo debba ritenersi soggetto. – ora, se le cose del mondo, in quanto esseri condizionati relativamente alla loro esistenza, abbisognano di una causa suprema che agisca secondo fini, l’uomo sarà lo scopo finale della creazione: perché senza di esso la catena dei fini subordinati l’uno all’altro Ivi, pp. 143 e 145; AA Iv, p. 429, 10-12. I. Kant, Critica del giudizio, cit., p. 539; AA v, pp. 426-427, 35-1. 9 Ivi, p. 547; AA v, p. 431, 3-7.
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non avrebbe un vero principio, e solamente nell’uomo, ma nell’uomo in quanto soggetto della moralità, si può trovare questa legislazione incondizionata relativamente ai fini, che rende lui solo capace di essere uno scopo finale, cui la natura sia teleologicamente subordinata10.
Perciò considerando entrambe gli aspetti, tra loro complementari, di scopo ultimo della natura e di scopo finale della creazione, Kant può concludere che «senza uomini, tutta la creazione sarebbe un semplice deserto, vano e senza scopo finale»11. l’uomo da qui viene fuori come quell’essere capace di porsi degli scopi (vedremo in seguito come faccia l’uomo a porsi tali scopi), scopi però che siano tali da essere conformi alla rappresentazione di quella legge, la legge morale che è “posta incondizionatamente da loro stessi e indipendentemente dalle condizioni della natura”, eppure “necessaria”, secondo cui gli uomini devono determinare i propri fini. ora però, come abbiamo già visto, nella realizzazione della propria intenzione in vista di uno scopo l’uomo si trova a dover operare nel mondo sensibile, caratterizzato da una multivarietà individuale e accidentale che rischia di farlo cadere in fallo. Quella multivarietà che nel paragrafo precedente abbiamo chiamato “fattore contingenza”, e che viene a caratterizzare l’essere dell’uomo nel mondo, e che richiede di essere compresa perché sia possibile in essa la realizzazione dell’intenzione. Quest’accesso alla comprensione del significato dell’individuale e dell’accidentale, che caratterizzano l’essere dell’uomo nel mondo, viene affidato non alla facoltà di giudicare in generale, ma ad una sua specifica modalità: il Giudizio riflettente12.
Quando abbiamo individuato il Giudizio come ciò che permette l’unione della parte sensibile e di quella soprasensibile nell’uomo, abbiamo toccato il proprium dell’uomo. Solo l’uomo è infatti l’essere capace di giudicare, nel senso di porsi programmaticamente dei fini e trovare dei mezzi per realizzare questi fini. Il Giudizio allora non è il punto di unione tra sensibile e soprasensibile solo a livello morale, ma anche a livello teoretico. l’io-penso riesce ad unirsi alla sensibilità dell’io-empirico solo nel giudizio per mezzo dell’immaginazione in quell’accordo delle Ivi, pp. 555-557; AA v, pp. 435-436, 15-2. Ivi, p. 571; AA v, p. 442, 20-22. 12 F. Menegoni, Critica del giudizio. introduzione alla lettura, cit., p. 40. 10 11
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facoltà che è il senso comune, come osserva Deleuze13. ed è proprio del Giudizio in quanto accordo delle facoltà nel loro utilizzo nella conoscenza che Kant parla nella prima parte dell’antropologia pragmatica, dove egli fa una ricognizione di tutte le facoltà superiori (Intelletto/ragione/ Giudizio/Immaginazione/Sensibilità) nel loro utilizzo corretto, e nelle loro patologie osservate nei diversi tipi di uomini. ed è in virtù di questo accordo delle facoltà che nelle prime pagine a proposito dell’unione dell’io-penso e dell’io-empirico Kant può dire che: Io, in quanto essere pensante, sono un unico e stesso soggetto con me in quanto essere sensibile; ma in quanto oggetto dell’intuizione empirica interna, cioè nella misura in cui sono internamente affetto dalle sensazioni nel tempo, siano esse simultanee o successive, io mi conosco soltanto come appaio fenomenicamente a me stesso, non come cosa in sé14.
Ciò che caratterizza primariamente l’uomo come essere unitario di Persona/Sensibilità/Io-penso è il Giudizio riflettente, che è la capacità di raziocinio e di discernimento. A proposito del Giudizio come capacità di porsi scopi di qualsiasi tipo, non solo morali ma, che determinino l’unità e la natura dell’uomo e che rappresenti come tale il suo prius, nel saggio del 1786 dal titolo “inizio congetturale della storia degli uomini” il filosofo scrive: la prima volta che egli disse alla pecora: il vello che tu porti, la natura non te lo ha dato per te, ma per me, la spogliò di esso e se ne vesti (Genesi III, 21), egli ebbe coscienza di una prerogativa che, grazie alla sua natura, aveva su tutti gli altri animali, i quali da allora non considerò più come i suoi compagni nella creazione, ma come mezzi e strumenti lasciati al suo volere per il raggiungimento degli scopi che preferiva15.
l’uomo è, perciò, l’unico essere sulla terra capace di ragionare e di porsi degli scopi e finalizzare cose. In tal senso Kant, nell’ultima parte della antropologia pragmatica può concludere che: 13 Cfr. G. Deleuze, La filosofia critica di Kant, tr. it. di M. Cavazza e A. Moscati, Napoli, 1997. 14 I. Kant, antropologia dal punto di vista pragmatico, cit., p. 24; AA vII, p. 142, 3-7. 15 Id., inizio congetturale della storia degli uomini, in Scritti di storia, politica e diritto, cit., pp. 107-108; AA vIII, p. 114, 7-13.
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Per classificare l’uomo nel sistema della natura vivente e poterlo così definire, si può dire semplicemente che egli ha un carattere che si forgia da sé perché è capace di perfezionarsi secondo fini scelti da lui stesso; a causa di ciò egli, in quanto animale fornito di razionabilità (animal rationabile), può fare di se stesso un animale ragionevole (animal rationale); così egli: in primo luogo conserva se stesso e la sua specie; in secondo luogo esercita, istruisce ed educa questa specie in vista di una società domestica; in terzo luogo la governa come un tutto sistematico (ordinato secondo principi razionali) qual è richiesto dalla società. […] Fra gli esseri viventi che abitano la terra l’uomo si distingue nettamente per la sua attitudine tecnica (attitudine meccanica congiunta a coscienza) a manipolare le cose, per la sua attitudine pragmatica (impiego degli altri uomini ai propri fini) e per l’attitudine morale (agire nei confronti di se stesso e degli altri secondo il principio della libertà in conformità a leggi); ciascuno di questi tre gradi è sufficiente a caratterizzare l’uomo nei confronti degli altri abitatori della terra16.
e in seguito, sempre riguardo alla capacità che l’uomo ha di utilizzare le cose per i propri fini, Kant dice: la caratteristica dell’uomo in quanto animale ragionevole si vede già nella forma e nell’organizzazione della m a n o , delle dita e delle falangi e consiste in parte nella loro struttura e in parte nella delicatezza della loro sensibilità; mediante ciò la natura ha reso l’essere umano capace di ogni tipo di manipolazione, quindi capace di impiegare la ragione, dimostrando così che la sua attitudine tecnica e la sua abilità sono quelle di un animale ragionevole17.
Arricchiti dalle informazioni sul “S” e sul “P” del Giudizio, torniamo ora all’ “è” del Giudizio per tentare una specificazione ulteriore delle sue caratteristiche, per capire quale tipo particolare di Giudizio riflettente sia quello che agisce in ambito morale, e poi, di nuovo, come opera in tale ambito.
Id, antropologia dal punto di vista pragmatico, cit., pp. 206-207; AA vII, pp. 321-322, 29-20. 17 Ivi, p. 208; AA vII, p. 323, 14-20. 16
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2. il giudizio morale Nel par. 3 del primo capitolo siamo giunti alla conclusione che il tipo di Giudizio che opera in ambito morale il passaggio dall’in abstracto all’in concreto è il Giudizio riflettente (in quanto preparatorio per il Giudizio determinante la regola pratica secondo la “tipica”), ma che tipo di Giudizio riflettente è quello morale? È più simile al giudizio riflettente estetico o più simile al Giudizio riflettente teleologico; e quanto spazio lascia tale giudizio riflettente al Giudizio determinante in ambito morale? Se pensavamo di essere arrivati ad una conclusione che ci sottraesse finalmente all’incalzare del metodo critico, ecco che ci accorgiamo della precarietà di quella conclusione come di tutte le conclusioni, mai definitive, in ambito critico-problematico. Proviamo a dare risposta a queste nuove domande. Delle definizioni date da Kant del Giudizio riflettente la più esauriente ci sembra sia quella, da lui mai pubblicata, contenuta nella Prima introduzione alla Kritik der Urteilskraft. In tal luogo infatti, a differenza che nell’Introduzione ufficiale e poi in tutto il corpo della Kritik der Urteilskraft, Kant dedica uno specifico paragrafo, il paragrafo v, al Giudizio riflettente. leggiamo: riflettere significa comparare e congiungere rappresentazioni date o con altre o con la propria facoltà della conoscenza, in relazione ad un concetto reso possibile da questa. Giudizio riflettente è quello che è chiamato anche facoltà di giudicare (facultas diiudicandi). Il riflettere (che si rinviene anche negli animali, sebbene solo come riflettere istintivo, cioè non in relazione ad un concetto che si potrebbe ottenere per suo tramite, ma in rapporto ad un’inclinazione che esso determina approssimativamente), ha bisogno da parte nostra d’un principio, così come lo ha il determinare, nel quale il concetto posto a fondamento dell’oggetto prescrive la regola al Giudizio e fa così le veci del principio18.
Il Giudizio riflettente, secondo quanto detto, perciò, può essere considerato «come la mera facoltà di riflettere secondo un principio certo su una rappresentazione data, in vista d’un concetto mediante questa possibile»19. Questa definizione sembra descrivere perfettamente I. Kant, Prima introduzione alla Critica del giudizio, cit., pp. 86-87; AA XX, p. 211, 14-24. 19 ibid.; AA XX, p. 211, 8-10. 18
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il tipo di Giudizio da noi descritto finora nel suo operare in ambito morale; difatti, esso risulta essere «la facoltà di riflettere [il Giudizio] secondo un principio certo [la legge morale] su una rappresentazione data [il caso particolare della situazione data], in vista d’un concetto [lo scopo finale] mediante questa possibile»20. Un Giudizio di questo tipo, cioè riflettente secondo un principio ed in vista di un concetto come scopo, è un Giudizio riflettente teleologico. ora il Giudizio teleologico viene esposto da Kant nella Prima introduzione sotto il rispetto speculativo come la capacità di «costruire proprio a priori forme finalistiche dell’intuizione, qualora le inventi per l’apprensione, in modo che questa possa adattarsi all’esibizione di un concetto»21. Questa definizione del giudizio teleologico ci sembra ben diversa da quella che Kant dà nella Kritik der Urteilskraft dove descrive il Giudizio teleologico come «la facoltà di giudicare la finalità reale (oggettiva) della natura mediante l’intelletto e la ragione»22. Nella Prima introduzione al Giudizio teleologico viene attribuita la capacità di porre dei fini, di «costruire forme finalistiche», il che ci sembra avvicinarsi molto alle caratteristiche del Giudizio riflettente che abbiamo visto agire in ambito pratico. Andando avanti nel definire il Giudizio teleologico, infatti, Kant specifica che il Giudizio può costruire a priori forme finalistiche, «ma fini, ossia rappresentazioni che sono considerate come condizioni della causalità dei loro oggetti (quali effetti), in generale devono essere dati da qualche parte, prima che il Giudizio si occupi delle condizioni del molteplice per accordarvisi, e se devono esserci scopi della natura, bisogna che certe cose della natura possano essere considerate come se fossero i prodotti d’una causa la cui causalità possa essere determinata solo mediante una rappresentazione dell’oggetto […]. Il giudizio teleologico […] presuppone un concetto dell’oggetto e giudica la possibilità di esso secondo una legge della connessione di cause ed effetti»23. Tale descrizione calza perfettamente a quella ricostruita nei precedenti paragrafi circa il Giudizio riflettente che agisce in ambito morale. Come abbiamo detto, tale Giudizio, dato un fine come scopo ripresa della citazione precedente con mie aggiunte esplicative tra parentesi quadre. 21 I. Kant, Prima introduzione alla Critica del giudizio, cit., p. 113; AA XX, p. 232, 18-20. 22 Id., Critica del giudizio, cit., p. 57; AA v, p. 193, 21-23. 23 Id., Prima introduzione alla Critica del giudizio, cit., pp. 113 e 115; AA XX, p. 232, 21-28 […] p. 234, 3-5. 20
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oggettivo che è quello della legge morale, e data una situazione e uno scopo soggettivo, universalizza questo per vedere se sta sotto quello ed in ciò è Giudizio riflettente secondo fini dati (quello oggettivo della legge morale) in vista di un concetto come scopo soggettivo da realizzare, di cui giudica la possibilità d’essere, secondo una legge della connessione di cause ed effetti, a partire sempre dalla legge morale data ed utilizzando l’universalità e necessità formale della legge naturale come tipo della regola pratica. ed è nella formulazione della regola pratica d’azione e nell’applicazione di essa che il Giudizio morale è determinante. In ambito morale perciò abbiamo una Urteilskraft überhaupt che si articola in riflettente e determinante; non due giudizi distinti, ma un unico Giudizio, cioè un’unica capacità di giudicare la cui attività si articola in due momenti, uno riflettente l’altro determinante, laddove il primo è propedeutico, preparante, rispetto al secondo, in quanto media e discerne tra i diversi fattori costituenti la problematica morale in vista di una deliberazione determinante che è quella operata nella formulazione della regola pratica dal momento determinante del Giudizio morale. Per chiarire ulteriormente il rapporto tra momento riflettente e momento determinante, nell’attività del Giudizio morale, ci sembra adatto un esempio riportato da Deleuze: Prendiamo il caso di un medico che sappia che cos’è il tifo (concetto), ma non lo riconosca in un caso particolare (giudizio o diagnosi). Saremmo inclini a vedere nella diagnosi (che implica un talento e un’arte) un esempio di giudizio determinante, perché si suppone che il concetto sia conosciuto. Ma in rapporto al caso particolare dato, il concetto non è dato: è problematico o del tutto indeterminato. la diagnosi, in effetti, è un esempio di giudizio riflettente. Se vogliamo trovare nella medicina un esempio di giudizio determinante, dobbiamo pensare piuttosto a una decisione terapeutica [la prognosi]: qui, effettivamente, il concetto è dato in rapporto al caso particolare, ma la difficoltà sta nell’applicarlo24.
Il medico perciò, prima riflette sul caso concreto e lo raffronta con i concetti generali della scienza medica, e poi determina la regola pratica secondo cui operare nel caso concreto. Prima facie egli non può sussumere il caso particolare sotto un universale dato perché il concetto che egli ha della malattia è ancora troppo generico ed indeterminato; riflettendo sul caso concreto e confrontandolo con i concetti generali 24
G. Deleuze, La filosofia critica di Kant, cit., pp. 101-102.
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che egli possiede (questo è il momento riflettente) riesce finalmente a determinare una regola d’azione che conservi la forma della regola generale di cura, basata sui concetti generali, ma che sia meno generica e astratta rispetto a quella, e che perciò riesca a sussumere sotto di sé il caso concreto (questo è il momento determinante). Abbiamo detto che il Giudizio nel fare tutto ciò ha sempre in vista uno scopo; ma come fa il Giudizio ad avere il concetto di uno scopo come qualcosa che deve essere e che non c’è ancora, come qualcosa cioè che non è né un fenomeno né un noumeno come oggetto teoretico, ma è l’attuazione moralmente necessaria della legge morale, cioè l’attuazione di un noumeno come un fenomeno? Tale nozione non è né un concetto puro, né un concetto empirico, né un’idea della ragione, come concetto vuoto, ma è ciò che Kant chiama disegno. Il disegno non è né un fenomeno né un noumeno (idea della ragione), ma è il proposito (monogramma evanescente) di realizzare l’idea come un fenomeno. Del disegno e della capacità ermeneutica e creativa e propositiva del giudizio riflettente morale parleremo di seguito. 3. Schema, Simbolo, Disegno. La capacità ermeneutica del giudizio riflettente Intelletto Conoscere
ragione Pensare e Desiderare
Giudizio Discernere e Comprendere
Schema
Simbolo
Disegno
la capacità ermeneutica del Giudizio riflettente si evince anzitutto dalla capacità di interpretazione del Simbolo per mezzo dell’Analogia, che Kant più volte richiama a proposito del Bello come simbolo del Bene (§59 della Kritik der Urteilskraft). Questa capacità estetica di simbolizzazione e di interpretazione, cioè di produzione ed interpretazione di simboli è marcata ancora di più nelle osservazioni sul sentimento del Bello e del Sublime, dove la capacità simbolica è estesa anche alla rappresentazione dei caratteri tipici e dei comportamenti umani. Non solo, ma Kant attribuisce proprio all’uomo fra tutti gli esseri questa capacità di produrre ed interpretare simboli, quando ad es., nella Kritik der Urteilskraft, sottolinea che se su un’isola deserta trovassi un segno regolare nella sabbia potrei star certo della presenza lì di un essere razionale. Per cui in tal modo da Kant viene attribuita
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all’uomo non solo la capacità estetica di interpretazione simbolica di aspetti naturali, ma anche la capacità di produrre ed interpretare segni artificiali. ora, per Kant la capacità ermeneutica del Giudizio, guidata dal senso comune, è non solo utile ai fini della conoscenza nella simbolizzazione delle idee della ragione, ma addirittura per la “libera determinazione” dell’agire morale dell’uomo. A tal proposito Kant nella grundlegung zur Metaphysik der Sitten parla non solo di simbolo ma di “disegno” (espresso col termine tedesco entwurf, che significa anche progetto), che la ragione fa del suo scopo, e dice che questo “disegno” (da Kant non meglio determinato) guida il Giudizio25. Se lo schema rappresenta il medio tra intelletto e mondo sensibile, e il simbolo il medio tra mondo intelligibile e ragione, il disegno è ciò che ravvicina simbolo e schema facendo giungere a “congiunzione” il mondo sensibile e il mondo intelligibile finalisticamente intesi. Quando l’idea della ragione assume la valenza pratica di una idea regolativa della ragione, allora, regolandosi su tali idee, postulandole, la ragione (intesa in senso lato) disegna. Disegna in quanto progetta aprioricamente regolandosi finalisticamente/a priori sulle idee della ragione. Il disegno è gettare il simbolo nel mondo. Il disegno della ragione, è il disegno di una volontà libera agente nella legge morale. Ma guardiamo più da vicino che cosa è lo schema e che cosa è il simbolo per vedere se da ciò riusciamo a determinare ulteriormente anche cosa sia il “disegno”. Dello schema Kant parla nella Kritik der reinen Vernunft come risultato dell’immaginazione trascendentale nella sua attività di mediazione delle categorie dell’intelletto con le forme pure a priori della sensibilità, per cui lo schema costituisce una temporalizzazione delle categorie e la figura una spazializzazione delle categorie; e nello stesso luogo della Kritik der reinen Vernunft, Kant presenta due tipi di schema: lo schema trascendentale e lo schema empirico. Ci sembra molto chiara la messa in relazione tra schema e simbolo nel par. 59 della Kritik der Urteilskraft, in cui Kant fornisce una limpida definizione di che cosa è lo schema e di come agisce, e anche di cosa sia il simbolo e di come agisca. egli, infatti, osserva che una ipotiposi, come esibizione sensibile, è di due tipi: «schematica, quando l’intuizione corrispondente ad un concetto dell’intelletto è data a priori; simbolica, quando ad un concetto che può essere pensato solo dalla ragione, e a cui non può esser Cfr. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 93; AA Iv, p. 408, 28-37. 25
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adeguata alcuna intuizione sensibile viene sottoposta un’intuizione nei cui confronti il procedimento del Giudizio è soltanto analogo a quello dello schematismo»26, e che i simboli «procedono per mezzo di una analogia in cui il Giudizio compie un doppio ufficio, in primo luogo di applicare il concetto all’oggetto di una intuizione sensibile, e poi, in secondo luogo, di applicare la semplice regola della riflessione su quella intuizione ad un oggetto del tutto diverso, di cui il primo è il simbolo»27. Pertanto mentre nello schema i concetti dell’intelletto vengono messi in rapporto con l’intuizione sensibile corrispondente, nel simbolo le idee della ragione sono messe in relazione con un’intuizione sensibile, tuttavia ad esse inadeguata, che è rapportabile ad esse solo per analogia. Tutto ciò ha una certa qual incidenza sul piano pratico circa l’attività del Giudizio riflettente morale nella realizzazione della legge morale. Come sottolinea lyotard «quando la legge è teoretica, lo schema si prende carico dell’applicazione al dato intuitivo, e guida il giudizio, il quale determina se: È il caso. Ma sul piano pratico il giudizio deve regolarsi sull’Idea del bene e non vi sono schemi per tale Idea [lyotard a tal proposito, infatti, cita Kant quando, nella tipica del giudizio puro pratico, dice]: “Ma alla legge della libertà (come legge di una casualità non condizionata sensibilmente), e quindi anche al concetto dell’incondizionatamente buono, non può essere sottoposta nessuna intuizione, e quindi nessuno schema per la sua applicazione in concreto”»28. Pertanto con l’ausilio di nessuno schema possiamo realizzare la libertà. Ma allora come si fa? Deve pur esserci un modo per realizzare la libertà, un modo per compiere il passaggio dal mondo intelligibile della legge morale, al mondo sensibile della realtà contingente. «Ad operare il passaggio non è la forma dell’intuizione o schema ma la forma della legge o piuttosto della gesetzmässigkeit. Il giudizio etico prende a prestito tale forma dal teorico per orientarsi quando si tratta di stabilire il caso: “Domanda a te stesso se l’azione che tu hai in mente, la potresti considerare possibile mediante la tua volontà, se essa dovesse accadere secondo una legge della natura, della quale tu fossi una parte”. Il tipo della legalità guida formalmente la massima della volontà nella formulazione dell’imperativo categorico e anche nella valutazione dell’azione giusta. Bisogna dunque intendere il so dass dello Handle so dass dell’imperativo come un come se piuttosto che come un di modo che: I. Kant, Critica del giudizio, cit., p. 381; AA v, p. 351, 24-29. Ivi, p. 383; AA v, p. 352, 11-16, per questo passo ho leggermente riadattato la traduzione cui faccio riferimento. 26
27
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J.-F. lyotard, L’entusiasmo. La critica kantiana della storia, cit., p. 33.
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infatti l’universalità non può essere effettivamente tratta come conclusa dalla massima, bensì solo presentata indirettamente alla valutazione che ne viene fatta»29. Ma ciò che viene prodotto dalla tipizzazione non è né uno schema, né un simbolo. In quel “come se” che deriva dalla tipizzazione notiamo qualcosa di nuovo rispetto al simbolo e allo schema; è qualcosa che forma il simbolo sul tipo dello schema; disegna qualcosa di inedito sul tipo dello schema; qualcosa di inedito, tenendo sempre in vista le idee della ragione. Kant, nella Kritik der reinen Vernunft, dice che tale disegno è simile a ciò che i pittori hanno in mente prima di eseguire l’opera; il progetto di ciò che si realizzerà, e che tuttavia in quanto progetto non è ancora perfettamente definito; è come un “monogramma” ancora indeterminato che andrà a definirsi in tutte le sue parti nel momento stesso della sua realizzazione entro la realtà del mondo sensibile. È il simbolo, o l’insieme di simboli che rappresentano per es. un discorso oppure un’azione nel suo essere raccontata, o meglio nel suo essere pensata prima di essere compiuta; è il simbolo con la prospettiva di essere realizzato; appunto, come abbiamo detto all’inizio di questo paragrafo, il simbolo gettato nel mondo. Quando la legge è teoretica, lo schema si prende carico dell’applicazione al dato intuitivo, e guida il giudizio, il quale determina se: È il caso. Ma sul piano pratico il giudizio deve regolarsi sull’Idea del bene e non vi sono schemi per tale Idea […]; quel particolare “passaggio” che Kant si arrischia a presentare nella prima Critica come un “ Ideale della sensibilità” denominato monogramma (Krv, p. 453). Si tratta di “un disegno ondeggiante in mezzo a esperienze diverse”, di un “fantasma incomunicabile” nei giudizi di pittori e fisionomisti, di “un modello irraggiungibile di possibili intuizioni empiriche”, e pure non offre “nessuna regola suscettibile di spiegazione e di esame” (Krv, p. 453). Un che di evanescente, Kant ne fa una creazione dell’immaginazione. eppure tale immaginario non è un’Idea dell’immaginazione ma un Ideale della sensibilità, dato che si tratta di una specie di schema, uno “schema come se” dell’Idea dell’immaginazione nel dominio (o nel campo?) dell’esperienza sensibile. Qui ancora non è proprio una regola, ma una “regola come se”, una trasposizione regolatrice, dall’immaginazione alla sensibilità. Inoltre, più semplicemente, l’Idea dell’immaginazione stessa si costituisce solo con un passaggio per rovesciamento dalla ragione all’immaginazione: intuizione senza concetto al posto del concetto senza intuizione. 29
Ivi, p. 33.
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È un “passaggio” decisamente importante ai fini della comunicazione fra la teleologia soggettiva e quella oggettiva30.
Il passaggio, dunque, verrebbe attuato da questo “quasi schema” che è il disegno. È un “Ideale della sensibilità”, cioè un noumeno (ideale) fenomenizzantesi (della sensibilità); è un quasi-schema non costitutivodeterminante, ma regolativo-prospettico; è un “Ideale (regolativo) della sensibilità”, cioè un “Ideale” che è nella prospettiva di essere realizzato nella “sensibilità”. Il disegno, perciò, si trova ad essere, come abbiamo affermato all’inizio del paragrafo, una via di mezzo tra lo schema e il simbolo; pertanto sembra essere una via per garantirci, nel momento dell’azione morale, da un lato la conoscenza della situazione contingente entro la quale ci troviamo ad agire, ciò che è proprio dello schema, dall’altro il tentativo di realizzazione di quella idea della ragione che è la libertà e che noi possiamo conoscere in via preliminare solo per analogia attraverso ciò che viene a costituirne il simbolo. Anche nel disegno, come nell’idea della ragione, speculativamente davanti a noi non c’è nulla, né come oggetto né come concetto determinato, ma nel disegno questo è un nulla gravido di divenire, è un nulla nel momento in cui si propone di divenire per essere qualcosa, è il nulla positivo del progetto. In questo senso al disegno si addice ciò che Kant dice quando precisa che cosa intende con segno storico, vale a dire: «signum rememorativum, demostrativum, prognosticum». la Begebenheit ricercata dovrà “presentare” la causalità libera secondo le tre direttrici temporali, passato, presente e futuro. ora l’interpretazione del disegno come segno storico ci apre un nuovo orizzonte di interrogazione circa la capacità prospettica del giudizio di previsione, ma qui non vogliamo anticipare nulla di ciò che sarà oggetto del prossimo paragrafo, intendiamo invece continuare a parlare del disegno nel suo rapporto con lo schema e l’idea della ragione. A tal proposito è interessante la teoria del rapporto tra schema, simbolo e disegno espressa da Giannetto nel suo scritto Pensiero e disegno in Leibniz e Kant. Secondo l’autore l’attività del disegnare spiegherebbe ciò verso cui il pensiero si rivolge, cioè un oggetto nuovo rispetto a quanto presenta l’esperienza. il disegnare svolgerebbe dunque un ruolo predominante a fondamento dell’uso delle categorie – per noi anche delle categorie della morale e poi delle idee pratiche – e del rapporto con cui queste entrano con aspetti spaziali e temporali.
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Ivi, p. 34.
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il pensiero [inteso come Denkungsart] cioè, come attività di disegnare, agisce sulla struttura categoriale che, posta in relazione con modalità spazio-temporali, dà vita, seguendo un progetto, a un oggetto non dato dall’esperienza. Il pensiero, in tal modo, appare come un ripensare che, assumendo se stesso ad oggetto della propria azione, è in grado, non operando solo come riflessione, di produrre oggetti nuovi e diversi rispetto a quelli presentati dall’esperienza. Il ripensare poi, che è un nuovo pensare, non procede in modo casuale e disordinato, perché è guidato da un disegno che fissa i limiti e le modalità con cui il soggetto agisce. Il ripensare, in tal modo, ha, come appare evidente, un carattere inventivo […]. Il pensare diventa un disegnare, ove il disegno non è interpretabile come unità architettonica o come unità tecnica, o come procedimento schematico. Il pensiero così va oltre sia il conoscere fenomenico che è la sua traduzione nell’intuizione sensibile per mezzo degli schemi, sia l’illusione trascendentale che, portando il soggetto a mutare l’esigenza dell’incondizionato nella sua presunta conoscenza, gli impedisce di teorizzare altri strumenti concettuali che non hanno un significato necessariamente metafisico31.
A creare il disegno nel rapporto tra intelletto e ragione, tra schema e simbolo è l’immaginazione, quella particolare facoltà che con il suo “libero gioco” riesce a mediare nel giudizio intelletto e ragione (rispettivamente e insieme) con la realtà sensibile. l’immaginazione che disegna non è l’immaginazione “trascendentale” (cioè l’immaginazione produttiva nel suo uso trascendentale), che opera nel temporalizzare le categorie ma è “l’immaginazione produttiva” nel suo uso empirico, che non crea schemi trascendentali, ma schemi empirici. Tale immaginazione produttiva, per certi versi in Kant assai misteriosa, non è tanto da intendere come spontaneità in grado di dare rappresentazioni legate, da una parte, con l’intelletto, dall’altra, con la sensibilità, la qual cosa è propria della immaginazione trascendentale, quanto come spontaneità che dà rappresentazioni conformi al nesso parte-tutto che sta sullo sfondo del suo operare. Il disegno resta un che di indeterminato finché non è posto sotto le idee della ragione. il disegno ondeggiante cui Kant fa cenno [nella Kritik der reinen Vernunft] […] è interpretabile come essenzialità della figura non desunta dalle immagini fornite dall’esperienza: l’ondeggiamento G. Giannetto, Pensiero e Disegno in Leibniz e Kant, Napoli, 1990, pp. 201 e 210. 31
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del disegno esprime un abbozzo indeterminato solo in senso relativo – quando venga inteso rispetto alle singole immagini sensibili, alla staticità delle categorie e all’articolazione propria delle idee della ragione – e non in senso assoluto. l’indeterminazione del disegno è propria di ogni delineazione essenziale che individua, con pochi tratti, l’insieme di un oggetto, senza specificare tutti i suoi particolari: l’indeterminazione, concepita in questo senso, è ciò che può essere ulteriormente determinato quando il soggetto dà una veste particolare a quei pochi tratti lasciati volutamente non definiti, nel suo precedente abbozzo. […] Il disegno [infatti], essendo legato a un’idea della ragione, che rappresenta il fine che dà ordine alle diverse parti costituenti l’unità architettonica, in questo caso, è determinato e segue un nesso parte-tutto presente in primo piano e non, secondo quanto apparso per il disegno dell’immaginazione, sullo sfondo32.
Perciò il disegno, da monogramma evanescente può diventare progetto certo d’azione reale in base ad un’idea che, in ambito morale sarà l’idea del Sommo Bene, come regno dei fini, cioè regno degli esseri intelligibili liberi sotto la legge morale, realizzato entro il mondo sensibile. Apprestiamoci ora ad interrogarci circa la capacità prospettica del giudizio di previsione, a vedere cioè se e come questa capacità di disegnare possa influire sulla determinazione dell’azione nel suo progetto. 4. il giudizio riflettente morale come giudizio prospettico Quanto ha a che fare il disegno con il progetto sull’avvenire? Quanto incidono il disegno e la sua funzione di monogramma prospettico nel passaggio sempre in avvenire dall’intenzione all’azione? Il Giudizio riflettente morale può in questo frangente avere rilevanza sul piano storico? Abbiamo detto che il Giudizio, nel mediare intelletto e ragione dà vita al disegno, che viene prodotto dall’immaginazione in vista, da un lato, della situazione contingente, per mezzo degli schemi empirici, e regolandosi, dall’altro, sulle idee della ragione, simbolizzate, per realizzarle; abbiamo detto, inoltre, che questo quasi-schema, che è il disegno, è come l’insieme di simboli che rappresentano per es. 32
Ivi, pp. 229-230.
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un discorso oppure un’azione nel suo essere raccontata, o meglio nel suo essere pensata prima di essere compiuta. e abbiamo sottolineato che, in questo senso, al disegno, che viene reso da Kant col termine tedesco “entwurf” che significa progetto33, si addice ciò che Kant dice quando precisa che cosa intende con segno storico, vale a dire: «signum rememorativum, demostrativum, prognosticum»; la qual cosa già darebbe una preliminare risposta alle domande appena poste. Nella anthropologie in pragmatischer Hinsicht abgefasst, tuttavia, Kant, nel tentativo di dare una sintesi organica e completa del suo sistema dello spirito umano, fa una nuova trattazione di tutte le facoltà, e nel trattare dell’immaginazione dice qualcosa che può sembrare in contrasto, e perciò far cadere, quanto da noi esposto nel paragrafo precedente, sulla scorta degli stessi testi kantiani. Qui, infatti, nel trattare dell’immaginazione, Kant, fa innanzitutto una precisazione terminologica: l’immaginazione (facultas imaginandi) come facoltà di intuire anche senza la presenza dell’oggetto, è di due specie: p r o d u t t i v a o facoltà di presentazione originaria dell’oggetto (exhibitio originaria) precedente l’esperienza; r i p r o d u t t i v a o facoltà di presentazione derivata (exhibitio derivativa) che riporta nell’animo un’intuizione empirica già avuta. le intuizioni pure dello spazio e del tempo appartengono al primo tipo di presentazione, tutte le altre presuppongono invece l’intuizione empirica34.
Perciò l’immaginazione produttiva è solo quella che prima chiamavamo immaginazione produttiva nel suo uso trascendentale, mentre quella che prima chiamavamo l’immaginazione produttiva nel suo uso empirico è detta ora immaginazione riproduttiva. la precisazione/variazione terminologica non sconvolgerebbe più di tanto quanto detto sopra se non per il fatto, che Kant precisa, che l’immaginazione riproduttiva, nel suo lavoro, parte sempre da una intuizione empirica già avuta. Inoltre, e questo è ciò che sembra minare dalla base le nostre precedenti conclusioni, Kant qualche riga più giù, sempre nella anthropologie, riprendendo il concetto precedentemente espresso, dice che: 33 Cfr. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 93; AA Iv, p. 408, 28-37. 34 Id., antropologia dal punto di vista pragmatico, cit., p. 50; AA vII, p. 162, 20-25.
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In altre parole, l’immaginazione è o i n v e n t i v a (produttiva) o r e i n v e n t i v a (riproduttiva). l’immaginazione produttiva non è però c r e a t r i c e , cioè non è in grado di fornire una rappresentazione sensibile che precedentemente non sia mai stata data alla facoltà di sentire perché deve sempre rifarsi ad una qualche materia […]. l’immaginazione, per quanto abbia poteri artistici, anzi magici, non è però creatrice e deve prendere la materia delle sue immagini dai sensi35.
Ciò detto sembrerebbe del tutto da escludere che il disegno in quanto progetto di creazione di qualcosa di nuovo rispetto all’esperienza sensibile possa essere prodotto dalla immaginazione produttiva, come invece avevamo sostenuto nel par. 2 di questo secondo capitolo. Tutto ciò sconvolge non poco l’ordine raggiunto precedentemente, e fa nascere nuovi quesiti, che urgono una risposta: a) Il disegno è un risultato del lavoro della immaginazione produttiva o della immaginazione riproduttiva?; b) e, se è un risultato del lavoro della immaginazione produttiva, allora in che modo il disegno, in quanto progetto ex novo, si accorda con la presunta non creatività della immaginazione produttiva?; c) Se, invece, è un risultato della immaginazione riproduttiva, allora il disegno, in quanto progetto basato su un’idea regolativa della ragione (appartenente al mondo intelligibile e perciò immateriale) atto alla realizzazione della stessa entro il mondo sensibile, in che modo si accorda col fatto che detta immaginazione riproduttiva nel suo lavoro parte sempre da una intuizione empirica già avuta, mentre il carattere inedito del disegno, in ambito morale ha a che fare con il concetto di libertà non preliminarmente rinvenibile attraverso l’intuizione sensibile? vediamo dunque se da una ulteriore lettura del testo kantiano riusciamo a tirar fuori da esso stesso le risposte a tali domande, e ad uscir fuori dall’impasse teorico in cui sembra ci siamo arenati. È pur vero che Kant, nella anthropologie, a proposito della immaginazione produttiva smentisce ogni attività creatrice, come abbiamo evidenziato, ma è pur vero, d’altro canto, che nel trattare l’immaginazione inventiva sensibile (cioè produttiva), che egli distingue in tre tipi, vediamo man mano ricostruirsi davanti a noi quella che prima abbiamo trattato come la nozione di disegno, ma che ora vien fuori maggiormente specificata proprio grazie a quelle distinzioni “nuove” fatte da Kant, e che in un primo momento ci erano sembrate mettere in crisi le posizioni precedentemente sostenute. Kant poi armonizza i tre 35
Ivi, pp. 51-52; AA vII, pp. 167-168, 34-3 […] 35-37.
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tipi di facoltà inventiva sensibile sotto un’unica capacità – del tutto nuova nell’ordine delle facoltà – che egli chiama “facoltà di rendersi presente il passato e il futuro per mezzo dell’immaginazione”, e che si specifica poi nella facoltà di previsione, la qual cosa sembra rispondere perfettamente alle domande poste precedentemente, gettando nuova luce sul ruolo del Giudizio in ambito pratico, e su quella presunta capacità prospettica del disegno, che stiamo cercando di dimostrare. Proviamo ora a ricercare come il nostro autore risponderebbe alle domande che ci siamo posti. Al par. 31 della anthropologie, dopo aver distinto nel par. 30 tra immaginazione produttiva e immaginazione riproduttiva, a proposito della facoltà inventiva, cioè della immaginazione produttiva, leggiamo: Ci sono tre diverse specie di facoltà inventiva sensibile. esse sono: quella che f o r m a l’intuizione nello spazio (imaginatio plastica), quella che a s s o c i a nel tempo (imaginatio associans) e quella dell’a f f i n i t à delle rappresentazioni in base alla loro origine comune (affinitas)36.
Questa imaginatio plastica ci richiama immediatamente alla mente la capacità formatrice della capacità di disegnare. I nostri sospetti che Kant, quando parla di questa imaginatio plastica, stia nascostamente pensando al “monogramma evanescente” cui pensano i pittori prima di mettere mano all’opera, cui egli dà il nome di disegno nella Kritik der reinen Vernunft, sono confermati proprio da ciò che Kant osserva nel punto A del par. 31, riguardo alla facoltà inventiva sensibile delle forme, dove riporta lo stesso esempio che abbiamo trovato accennato nella Kritik der reinen Vernunft a proposito del disegno. Prima che l’artista possa presentare una figura corporea (quasi tangibile) deve averla costruita nella sua immaginazione e questa figura è allora un’invenzione che, se è involontaria (come nel sogno) prende il nome di f a n t a s i a e non appartiene all’artista; quando invece poggia sulla v o l o n t à , è detta c o m p o s i z i o n e , e s c o g i t a z i o n e . Se l’artista lavora forme che somigliano alle opere della natura, i suoi prodotti sono naturali; se invece lavora su forme che non si trovano nell’esperienza (come il principe di Palagonia in Sicilia) si parla di bizzarrie, innaturalezze, caricature; tali capricci sono come sogni ad occhi aperti37. 36 37
Ivi, p. 57; AA vII, p. 174, 25-29. Ivi, p. 58; AA vII, pp. 174-175, 32-10.
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Questa capacità di escogitazione e di composizione volontaria ridescrive quanto esposto sul disegno nel paragrafo precedente, circa la sua caratteristica di essere progetto, inteso come un’azione nel suo essere pensata prima di essere compiuta. Kant, poi, dopo aver descritto la imaginatio plastica, passa alla definizione della imaginatio associans: la legge dell’a s s o c i a z i o n e è la seguente: due rappresentazioni sensibili che si sono succedute sovente producono nell’animo l’abitudine di richiamare la seconda quando si produce la prima38.
Questa descrizione della imaginatio associans insieme con quanto Kant dice a proposito della facoltà inventiva sensibile dell’affinità – dove l’affinità è intesa come «l’unificazione di un molteplice fondata sulla sua comune origine»39 per cui si produce un’unità tematica di comprensione e di azione; e dove «il termine a f f i n i t à (affinitas) ricorda qui l’azione reciproca (analoga a quella della congiunzione intellettuale) che si incontra nella chimica fra due sostanze corporee di specie diversa che agiscono intrinsecamente l’una sull’altra tendendo all’unità; la r i u n i o n e produce allora una terza sostanza le cui proprietà possono derivare soltanto dall’unione di due materie eterogenee»40 – ci richiama di nuovo alla mente la caratteristica del disegno di essere una creazione ex novo, a partire dai due poli assolutamente eterogenei della situazione contingente e della legge morale, e in quanto “signum rememorativum, demostrativum, prognosticum”. Inoltre, Kant, in una nota a fondo pagina, dopo aver parlato della affinitas, specifica che «i primi due modi di composizione delle rappresentazioni [cioè la imaginatio plastica e la imaginatio associans] potrebbero essere detti m a t e m a t i c i (di accrescimento), il terzo [cioè l’affinitas] invece d i n a m i c o (di produzione) perché vi si produce una cosa interamente nuova (come il sal neutro nella chimica)»41. Il che conferma le nostre supposizioni e ci dà modo di rispondere alla domanda posta all’inizio, se il disegno sia opera dell’immaginazione produttiva oppure sia opera dell’immaginazione riproduttiva. Infatti, in base alle sue caratteristiche, che abbiamo descritto nel paragrafo precedente, e in base al dettato kantiano dell’anthropologie circa Ivi, p. 59; AA vII, p. 176, 6-8. Ivi, p. 60; AA vII, p. 176, 26-27. 40 ibid.; AA vII, p. 177, 19-24. 41 Ivi, pp. 60-61in nota; AA vII, p. 177 in nota a piè pagina. 38 39
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la facoltà dell’immaginazione nella sua attività produttiva e riproduttiva, ci sembra di poter concludere che, il disegno non è il risultato né del lavoro della immaginazione produttiva (facoltà inventiva) né del lavoro dell’immaginazione riproduttiva (facoltà reinventiva), ma della facoltà inventiva sensibile, che si articola nelle sue diverse forme di imaginatio plastica, imaginatio associans e affinitas. Tale facoltà inventiva sensibile, che potrebbe essere detta anche “immaginazione produttiva sensibile”, o empirica, non va però confusa con quella che nel precedente paragrafo abbiamo chiamato “immaginazione produttiva nel suo uso empirico” e che ora viene identificata da Kant con l’immaginazione riproduttiva, ma è una nuova facoltà per cui il soggetto può lavorare con intuizioni sensibili, anche già avute in passato, ma può intuire anche senza la presenza dell’oggetto in quanto lo e s c o g i t a o c o m p o n e nella sua mente prima che esso sia, con l’intenzione di farlo essere mediante l’azione diretta alla sua creazione, e perciò può, in questo modo, precedere l’esperienza e avere a che fare con concetti che non si trovano nella realtà sensibile, quali il concetto della libertà, e perciò la legge morale, col fine di realizzarli nel mondo sensibile. Abbiamo così risposto solo alle domande intermedie che ci eravamo posti. Ci resta ora da rispondere alle nostre domande iniziali circa la capacità prospettica del Giudizio morale per mezzo del disegno. Cerchiamo di rispondere anche a queste domande facendo parlare i testi di Kant. Nella anthropologie Kant, al par. 34, nomina una nuova particolare facoltà collegata alla facoltà inventiva sensibile. Tale facoltà è detta facoltà di rendersi presente il passato e il futuro per mezzo dell’immaginazione. la facoltà di rendersi volontariamente presente il passato è la f a c o l t à d e l l a m e m o r i a ; la facoltà di rappresentarsi qualcosa come futuro è la f a c o l t à d e l l a p r e v i s i o n e . Ambedue, essendo sensibili, si fondano sull’a s s o c i a z i o n e delle rappresentazioni del passato e del futuro con quelle del presente; benché non siano esse stesse percezioni, servono alla connessione delle percezioni n e l t e m p o , cioè a congiungere in un’esperienza ordinata ciò che n o n è p i ù con ciò che n o n è a n c o r a mediante ciò che è nel p r e s e n t e . Si tratta delle f a c o l t à d e l l a m e m o r i a e d e l l a d i v i n a z i o n e (se è lecito usare queste espressioni) perché si è coscienti delle proprie rappresentazioni come tali da poter essere riscontrate nelle situazioni passate e future42. 42
Ivi, p. 65; AA vII, p. 182, 6-18.
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la memoria, però, chiarisce Kant, non è da confondersi con l’immaginazione riproduttiva, anzi «la memoria differisce dalla semplice immaginazione riproduttiva perché è in grado di riprodurre v o l o n t a r i a m e n t e la rappresentazione precedente»43, la facoltà della memoria invece è da accostarsi alla facoltà inventiva sensibile, visto che in essa agisce quella che, con Kant, abbiamo chiamato imaginatio associans ed anche la affinitas seppure l�autore non lo afferma esplicitamente. Della facoltà di prevedere (praevisio), Kant nel par. 35 dice che: Interessa più possedere questa facoltà che qualsiasi altra, perché è la condizione di ogni pratica possibile e dei fini a cui l’uomo indirizza l’uso delle proprie forze. ogni desiderio comporta una previsione (dubbia o certa) di ciò che è possibile per mezzo di essa. Il colpo d’occhio sul passato (il ricordo) non ha solo il fine di rendere possibile la previsione del futuro; perché noi, in generale, ci occupiamo del presente per deciderci o per prepararci a qualcosa. la previsione empirica è l’a t t e s a d i c a s i s i m i l i (expectatio causum similium) e non richiede alcuna conoscenza razionale delle cause e degli effetti, ma solo il ricordo dei fatti osservati e del modo in cui solitamente accadono; dalle esperienze ripetute nasce allora l’abilità […]. Per ciò che dipende dal destino che può incombere su di noi e non dalla nostra volontà, la previsione del futuro è p r e s e n t i m e n t o (praesensio) oppure p r e s a g i o (praesagitio); il primo è un senso arcano di ciò che non è ancora presente; il secondo una coscienza del futuro derivante dalla riflessione sulla legge di successione degli eventi (legge della causalità). È facile rendersi conto che ogni presentimento è una chimera: com’è possibile infatti percepire ciò che non c’è ancora? Ma se si tratta di giudizi tratti da concetti oscuri e concernenti rapporti causali non si può più parlare di presentimento; infatti è possibile sviluppare i concetti relativi e spiegare in qual modo si arriva al giudizio formulato44.
Tuttavia il prevedere di cui parla Kant non va confuso con la predizione o col vaticinio degli oracoli; infatti «prevedere, predire e vaticinare sono diversi in ciò: il p r i m o è una previsione conforme alle leggi dell’esperienza (quindi naturale); il s e c o n d o è un prevedere che contrasta con le leggi note dell’esperienza (contro natura); il t e r z o è un’ispirazione la cui causa è ritenuta diversa dalla natura 43 44
ibid.; AA vII, p. 182, 21-23. Ivi, p. 70; AA vII, pp. 185-186, 32-9 […] pp. 186-187, 36-10.
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(soprannaturale)»45, per cui solo il prevedere è ciò che ha rilevanza effettiva per la determinazione delle conseguenze della mia azione nel futuro e per la progettazione di essa. Con ciò abbiamo certamente fatto un passo avanti nel nostro tentativo di rispondere ai quesiti che ci siamo posti, riscontrando la comparsa di una nuova e importante facoltà legata alla facoltà inventiva sensibile e che ci permette di prevedere, limitatamente alla successione causa-effetto, le conseguenze delle nostre azioni, ma non abbiamo ancora effettivamente risposto alla domanda “quanto ha a che fare il disegno con il progetto sull’avvenire?”, e alla domanda “quanto incidono il disegno e la sua capacità di monogramma prospettico nel passaggio sempre in avvenire dall’intenzione all’azione?” Kant collega la facoltà di prevedere a quella che lui chiama facoltà di significazione, in quanto collega la capacità di prevedere con la capacità di creare segni significanti che stiano per qualcosa di passato o per qualcosa di futuro. Infatti «la facoltà di conoscere il presente come mezzo per connettere la rappresentazione di ciò che si prevede e di ciò che è passato è la f a c o l t à d i s i g n i f i c a z i o n e . l’operazione dell’animo che istituisce questa connessione è la d e s i g n a z i o n e (signatio) che è anche detta segnalazione […]. I segni possono essere divisi in a r t i f i c i a l i , n a t u r a l i e p r o d i g i o s i . […] in base al rapporto temporale con le cose i segni naturali si distinguono in d i m o s t r a t i v i , m e m o r a t i v i , p r o n o s t i c i . […] I p r o n o s t i c i sono i segni più interessanti perché, nella serie di cambiamenti, il presente non è che un istante e il motivo determinante della facoltà di desiderare influenza il presente solo in vista delle conseguenze future (ob futura consequentia) e fa volgere l’attenzione soprattutto a queste»46, e questi segni pronostici sono tali che guidano l’azione; per esempio «i segni pronostici naturali di una malattia o di una guarigione imminenti o della morte prossima (come la facies hippocratica) sono fenomeni che, per una lunga e ripetuta esperienza, servono da guida al medico nella cura, in base alla sua perspicacia nel cogliere la loro connessione di cause ed effetti»47. Arriviamo allora alla conclusione che nell’agire la capacità di discernere se è il caso o meno della regola per realizzarla, utilizza l’immaginazione per mediare ragione, intelletto e sensibilità (qui inteso come la realtà sensibile), in previsione dell’azione da compiere e delle possibili conseguenze di essa, e l’immaginazione per prevedere ibid.; AA vII, p. 187, 25-29. Ivi, pp. 73-76; AA vII, p. 191, 6-7 […] p. 192, 18-19 […] p. 193, 8-10 […] p. 193, 28-32. 47 Ivi, pp. 76-77; AA vII, p. 194, 1-5. 45 46
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disegna, e il segno è qui inteso, come avevamo detto nella nostra risposta preliminare, che è così riconfermata, come “signum rememorativum, demostrativum, prognosticum”. l’individuo si trova a dover scegliere presentificandosi il futuro e ricordando il passato; egli cioè si trova in una visione prospettica ad agire prevedendo le conseguenze possibili della sua azione, cioè del futuro, e tenendo conto nell’agire di tutti i suoi vissuti, cioè delle esperienze acquisite in passato. Proviamo a spiegare l’intero movimento della previsione con un esempio più dettagliato di quello offertoci da Kant. Devo togliere la pentola dal fuoco. lo sto facendo, senza molta attenzione, a mani nude. Proprio allora, in quell’istante che è il presente, la mia mente per mezzo della facoltà della memoria, utilizzando l’imaginatio associans e l’imaginatio plastica (in quanto ci facciamo anche un immagine mentale, un monogramma, dell’avvenimento passato), ricorda un passato avvenimento dello stesso tipo, ed in ciò utilizza la affinitas, in cui avendo preso la pentola senza presine mi sono scottato. Subito dopo avviene un ulteriore passaggio, la mente presentifica il futuro in base al procedere attuale dell’azione presente, ed in ciò opera la facoltà di previsione per mezzo del ricordo apportato dalla facoltà della memoria e per mezzo della “a t t e s a d i c a s i s i m i l i (expectatio causum similium)”, utilizzando ancora una volta l’imaginatio associans, ma in tensione prospettica e non rammemorativa, notando che: se prendo la pentola senza presine, come ho fatto l’altra volta, e come sto facendo, è molto probabile che mi scotti ugualmente, ed in quest’ultimo passaggio la facoltà di previsione si appoggia alla capacità di significazione per la produzione di un segno o disegno pronostico. A dire il vero durante tutto il movimento della attività previsionale sembra che sia la facoltà della memoria, sia la facoltà di prevedere, insomma l’insieme interrelato delle due che costituisce la più estesa facoltà di rendersi presente il passato e il futuro per mezzo dell’immaginazione, si appoggino alla facoltà di significazione per la produzione del segno-immagine mentale, cioè del disegno volta per volta richiesto, appunto dei segni dimostrativi, memorativi e pronostici. Questi passaggi appena esemplificati mi portano alla decisione per l’azione: per prendere la pentola userò le presine per evitare di scottarmi come l’altra volta; il che dimostra che, come ha detto Kant, la previsione è l’a t t e s a d i c a s i s i m i l i e richiede solo il ricordo dei fatti osservati e del modo in cui solitamente accadono, e che dalle esperienze ripetute nasce allora l’abilità. Ma potremmo ancora domandarci che cosa tutto ciò abbia a che fare con il Giudizio riflettente morale, dato che Kant non parla qui esplicitamente né di Giudizio, né di morale.
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la facoltà della previsione, come ulteriore specificazione della facoltà inventiva sensibile nel suo utilizzo, certo, è descritta da Kant qui innanzitutto nel suo uso pragmatico, non tanto nel suo uso pratico; ciò non toglie che tale facoltà possa essere e sia utilizzata dal soggetto anche in ambito morale, quando il soggetto discerne e giudica come agire per realizzare la legge morale. In questo senso, la ragione pragmatica si pone immediatamente sotto la ragion pratica, anch’essa è conoscenza degli scopi: ovvero, a partire dall’esperienza del mondo, cerca di individuare i punti in cui la ragione pratica può innestarsi per realizzarsi48.
Nel sistema kantiano, l’antropologia pragmatica si pone come momento di mediazione tra la filosofia morale, che considera l’uomo in quanto essere intelligibile (persona morale), e l’antropologia fisiologica, che si occupa dell’uomo da un punto di vista teoretico, ovvero nella sua natura fenomenica (essere naturale). In altre parole, il compito dell’antropologia pragmatica consiste nel considerare l’uomo, in quanto essere sensibile (dal punto di vista empirico-teoretico), a partire però dai principi della moralità, e quindi interpretare i prodotti dell’agire umano come forme della libertà. Questa mediazione consiste in quell’applicazione dei principi della morale all’antropologia, di cui Kant parla nella Fondazione della metafisica dei costumi. Nella prospettiva teoretica della Critica della ragion pura la mediazione è data dallo Schema, mentre nel campo pratico, nella Critica della ragion pratica, è data dal typus des Sittengesetzes, il tipo della legge morale. Tra questi due poli si pone la Critica del giudizio teleologico, nella quale Kant costruisce il concetto di “finalità” come schema, che consente di mediare tra loro, in un “sistema degli scopi”, meccanicismo naturale e idea della libertà. Nell’antropologia pragmatica questa mediazione viene concretizzata. la questione aperta in essa è, per l’appunto, quella del rapporto tra teoria e prassi e particolarmente urgente appare la fondazione di una prassi adeguatamente e normativamente fondata, quindi di un ampio sapere antropologico-empirico come medium per la trasformazione dell’etica normativo-critica in realtà concreta.
I. raimondi, L’antropologia Pragmatica kantiana: «Lebenswelt», «prassi» o «autocoscienza storica»? note su alcune interpretazioni recenti dell’antropologia di Kant, in «Studi kantiani», Pisa-roma, 2002, pp. 211-236, p. 220. 48
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l’antropologia pragmatica si applica proprio alla realizzazione ed al regolare sviluppo delle disposizioni originarie dell’uomo, individua le condizioni per la realizzazione della legge morale, ciò che contribuisce a civilizzare e a moralizzare l’uomo sino alla sua completa determinazione, in quanto membro della specie umana. l’antropologia in ultima analisi descrive la genesi storico-pragmatica dell’uomo, a livello psicologico, caratteriale, storico, e si prospetta come fenomenologia (in concreto) della facoltà di giudizio pratica. Affrontando la dialettica verità ed errore, essere ed apparire, l’antropologia pragmatica si pone il compito di individuare il terreno più idoneo sul piano psicologico, nonché storico, all’adozione della norma etica, di trovare cioè un ausilio soggettivo e un incentivo – non certo una condizione assoluta – al riconoscimento della legge morale. Possiamo perciò concludere che il Giudizio riflettente morale in quanto particolare tipo di Giudizio teleologico, nel porsi il fine della realizzazione della legge morale, per realizzare tale fine ha bisogno di prospettarsi questo fine disegnandolo nella sua mente come signum prognosticum, e di prevedere le condizioni della sua realizzazione e le conseguenze della sua realizzazione; ed in base a ciò decidersi ad agire o meno. Il «fine è un oggetto del libero arbitrio, la cui rappresentazione determina questo a un’azione atta a realizzarlo»49, perciò il Giudizio morale, in quanto Giudizio teleologico nel porsi il fine della volontà e la sua rappresentazione all’interno di un disegno (o visione) finale della natura per mezzo del concetto della libertà, implica anche l’attività di tutte le facoltà da noi appena descritte (facoltà della memoria, facoltà della previsione, facoltà della significazione). Pertanto, in tale movimento di posizione prospettica del fine, in quanto presentificazione immaginativa di un oggetto da realizzare e perciò non ancora sensibilmente presente, e nel movimento di previsione delle condizioni di realizzazione di questo fine, il Giudizio morale si presenta come Giudizio prospettico e Giudizio di previsione. Ciò detto ci sembra di aver risposto a tutte le domande che ci eravamo posti all’inizio di questo paragrafo, e ci sembra di aver salvato dall’impasse il nostro impianto teorico ed individuato il modo di agire del giudizio nella realizzazione dell’intenzione morale.
49
I. Kant, La Metafisica dei costumi, cit., p. 234; AA vI, p. 384, 33-34.
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5. Sulla inaccettabilità del difetto e della sospensione di giudizio. intra due cibi, distanti e moventi d’un modo, prima sì morria di fame, che liber’uomo l’un recasse ai denti; sì si starebbe un cane intra due dame: per che, s’i’ mi tacea, me non riprendo, dalli miei dubbi d’un modo sospinto, poi ch’era necessario, né commendo. (Dante Alighieri, Paradiso, iV 1-9). Posto fra due cibi, collocati ad uguale distanza e tali da stimolare il suo appetito, l’uomo dotato di libero arbitrio morirebbe di fame prima di risolversi a sceglierne uno; e così rimarrebbe immobile un agnello tra due lupi, paralizzato da due paure uguali, e un cane attratto da due daini non saprebbe indursi ad inseguirne uno piuttosto che l’altro; perciò se io, diviso fra due dubbi ugualmente gravi, tacevo senza saper decidere da quale dovessi cominciare per chiederne la soluzione a Beatrice, del mio tacere non mi do lode né biasimo, perché esso era necessario, e come tale sottratto ad ogni forma di valutazione morale; così parafrasando Dante. Il triplice esempio è assai simile a quello che va sotto il nome di Buridano, dell’asino che, posto fra due mucchi di fieno uguali ed equidistanti, non troverebbe un motivo per determinare la sua volontà a mangiare l’uno piuttosto che l’altro; e tutto il ragionamento si giustifica solo nel quadro di una dottrina che intenda il libero arbitrio come libero giudizio della ragione, non prevenuto dall’appetito, intorno all’operare. Persino Cartesio maestro del dubbio metodico e della sospensione di giudizio ci dice «che noi non dobbiamo usare di questo dubbio per la guida delle nostre azioni […] poiché è certo che, in quel che riguarda la nostra vita, noi siamo obbligati a seguire bene spesso delle opinioni che non son che verosimili, poiché le occasioni di agire nei nostri affari quasi sempre passerebbero, prima che noi potessimo liberarci di tutti i nostri dubbi. e quando su di uno stesso soggetto vi sono parecchie di queste opinioni, anche se noi non vediamo forse maggiore verosimiglianza nelle une che nelle altre, se l’azione non permette alcuna proroga, la ragione vuole che ne scegliamo una, e che, dopo averla scelta, la seguiamo costantemente, come se l’avessimo giudicata certissima»50. Tanto l’errore di giudizio, che Scaravelli sulla scorta dell’esempio 50
r. Descartes, i Principi della filosofia, tr. it., roma-Bari, 2000, art. 3, p.
22.
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kantiano chiama “difetto di Secunda Petri”, quanto la sospensione del Giudizio, sono inaccettabili in ambito morale. Nella Introduzione alla Analitica dei principi, nella Kritik der reinen Vernunft, Kant, in una nota a fondo pagina, osserva: Il difetto di Giudizio è propriamente quello che si chiama grulleria, difetto a cui non c’è modo di arrecare rimedio. Una testa ottusa o limitata, alla quale non manchi altro che un conveniente grado di intelletto e dei suoi concetti, si può ben armare mediante l’insegnamento fino a farne magari un dotto. Ma, poiché in tal caso di solito avviene che si sia sempre in difetto di quello (di secunda Petri), non è punto raro il caso di uomini assai dotti, i quali nell’uso della loro scienza lasciano spesso scorgere quel tal difetto, non mai abbastanza corretto. […] e così si vede che l’intelletto è bensì capace d’istruirsi e munirsi con regole, ma il Giudizio è un talento particolare, che non si può insegnare, ma solamente esercitare51.
Questo vuol dire che tutti o almeno la maggior parte hanno questa capacità di giudicare, ma essa va usata ed esercitata, e attraverso l’esercizio lasciata maturare, come dice Kant nell’anthropologie52, pena il diventare grulli, per cui, come dice più avanti, «un medico, un giudice, un uomo di stato può avere nella testa molte belle regole patologiche, politiche, giuridiche, da poterne essere egli stesso un profondo maestro, e tuttavia all’applicazione sbagliare facilmente, o perché manchi di Giudizio naturale (sebbene non manchi di intelletto) e comprenda bensì l’universale in abstracto, ma non sappia decidere se un caso particolare in concreto vi rientri, o anche per non essere stato sufficientemente indirizzato a un tal giudizio mediante esempi e casi pratici»53, esempi, definiti da Kant come le “dande” del Giudizio, che «acuiscono il Giudizio»54, ma che, pur nella loro utilità, tuttavia da soli non bastano a dare corretta applicazione nel caso concreto alle “molte belle regole” che abbiamo nella testa, se non c’è una facoltà di giudicare adeguatamente esercitata. Nell’anthropologie Kant fornisce un vasto campionario di tipi di 51 I. Kant, Critica della ragione pura, cit., p. 133; AA III, p. 132 in nota a piè di pagina. 52 Cfr. Id., antropologia dal punto di vista pragmatico, cit., pp. 91-93; AA vII, pp. 208-212. 53 Id., Critica della ragione pura, cit., p. 134; AA III, p. 132, 2-10. 54 Ivi, p. 134; AA III, p. 132, 11.
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grulleria55, che egli divide in volontaria e involontaria, ma non è chiaro se per Kant l’imputabilità morale del difetto di giudizio non valga per i casi involontari, cioè per i casi di demenza congenita, ma solo per i casi volontari, o valga in entrambe i casi; sembra però possibile affermare a ragione che Kant in base al rigorismo morale avrebbe posto come imputabili entrambe i tipi di grulleria, dato che anche quello involontario non potrebbe essere assunto in massime suscettibili di universalizzazione. Certo l’errore di Giudizio, come la sua sospensione è teoreticamente possibile, ma è praticamente inaccettabile in quanto non suscettibile di universalizzazione. l’uomo è continuamente interpellato dall’urgenza del movente pratico che gli chiede di agire e, per fare ciò, di giudicare. In Kant come in Cartesio non si può sospendere il Giudizio riguardo all’agire pratico. Non è ammesso che in ambito morale si eserciti una sospensione di Giudizio. la sospensione di Giudizio è tanto inaccettabile quanto “l’errore di Secunda Petri”. Per capire meglio i termini della questione è importante fissare alcuni esempi. Prendiamo il caso di un medico che sappia che cos’è il tifo (concetto), ma non lo riconosca in un caso particolare (giudizio o diagnosi), ciò porterebbe presto alla morte del paziente. oppure un magistrato che in base alle prove (concetto) non abbia la sagacia di capire che l’imputato non è colpevole, ma il colpevole è un altro, e condanni ugualmente l’innocente, che egli però crede colpevole per il suo errore di giudizio. ora per vedere se sia legittimo o meno un tal difetto di Giudizio, basta sottoporre il caso su indicato al test dell’universalizzabilità, e sarà facile rendersi conto che non essendo tal caso universalizzabile ne deriverà l’illegittimità del difetto di Giudizio in ambito morale. Perciò la sospensione e il difetto di Giudizio sono illegittimi in campo morale in quanto rientrano in massime d’azione non universalizzabili. e tuttavia però l’errore accade, e perciò è reale. Il problema allora diventa: come darne spiegazione ed evitare l’errore giudicando? Per evitarlo bisogna innanzitutto comprenderlo. Ma per comprendere la natura dell’errore, in generale, bisogna prescindere per un attimo dalla sua connotazione morale che lo inclinerebbe verso il peccato ed analizzarlo invece nella sua struttura gnoseologica di base, che ci aiuterà per converso a chiarire ulteriormente punti ancora oscuri del Giudizio. Nel prossimo paragrafo, perciò, tratteremo il Giudizio da Cfr. Id., antropologia dal punto di vista pragmatico, cit., pp. 85-103; AA vII, pp. 202-220. 55
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un punto di vista logico-gnoseologico, prescindendo per un attimo dalla problematica morale per poi ritornare nei paragrafi successivi, carichi delle nuove conoscenze acquisite a tematizzare il Giudizio morale a partire dalle scoperte che avanzeremo di seguito. 6. errore, Sospensione di giudizio e “giudizio provvisorio” nella logik Per chiarire cosa sia l’errore bisogna innanzitutto chiarire cosa sia la verità in relazione alla quale un errore è tale. A tale proposito ci serviremo delle Vorlesungen di logica tenute fin dal 1765, e riordinate ed edite poi per richiesta di Kant nel 1800 da Jäsche56. Non ci si meravigli se concentriamo la nostra attenzione su un testo che a prima vista può richiamare alla mente trattazioni irte di formule. Per questo testo infatti non si tratta di ciò, né era quello a cui Kant pensava quando nell’annuncio del programma delle proprie lezioni per il semestre invernale 1765-1766 scrisse: logica. Di questa scienza si danno propriamente due generi. Quella del primo genere è una critica ed una direttiva dell’intelletto sano, in quanto esso confina da un lato con concetti grossolani e con l’ignoranza e dall’altro lato, però, con la scienza e l’erudizione. È la logica di questa specie […] alla quale deve sottoporsi lo studente che voglia passare dalla terra del pregiudizio e dell’errore al dominio della ragione illuminata e delle scienze. […] le mie lezioni riguarderanno la logica della prima specie, che tratterò seguendo il manuale del Prof. Meier57, perché egli ha ben presenti i limiti e le prospettive suddette e, al tempo stesso, dà modo di comprendere, oltre alla cultura della ragione erudita e raffinata, la formazione dell’intelletto bensì comune, ma sano e attivo – la prima in vista della vita speculativa, la seconda in vista della vita attiva e civile. e nel contempo la stretta parentela delle materie dà occasione, Crf. I. Kant, Logik. ein Handbuch zu Vorlesungen, in I. Kant, Werkausgabe, a cura di W. Weischedel, Suhrkamp, Frankfurt 1968, vol. vI; AA IX, pp. 1-436; tr. it., Logica, a cura di l. Amoroso, roma-Bari, 2004.. 57 Georg Friedrich Meier (1718 - 1777), allievo del wolffiamo Baumgarten, pubblicò nel 1752 un�opera dal titolo Vernunftlehre [Dottrina della ragione] e, nello stesso anno, un compendio alla medesima, l�auszug aus der Vernunftlehre. È appunto quest�ultimo il manuale utilizzato da Kant per le sue lezioni di logica. 56
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trattando della critica della ragione, di gettare qualche sguardo sulla critica del gusto, cioè sull’estetica: le regole dell’una servono in ogni momento a chiarire le regole dell’altra e questo farle risaltare per contrasto è un mezzo per comprendere meglio l’una e l’altra58.
Come si evince dal passo appena citato per Kant logica non è solo una dottrina degli enunciati di tipo formale, ma è “una critica e una direttiva dell’intelletto sano” (il gesunder menschlicher Verstand, ed il sensus communis finora incontrati) che è preposta “alla formazione dell’intelletto bensì comune, ma sano e attivo”, in vista della vita attiva e civile, il che vuol dire che Kant vede la logica come una propedeutica a qualsiasi tipo di formazione e dottrina. la logica è qui intesa come quella dottrina che studia l’articolarsi inferenziale di intelletto, ragione e giudizio, in vista non soltanto e non tanto della vita speculativa, ma dell’agire pratico. Già a partire da questi brevi stralci notiamo come queste lezioni potessero racchiudere tutta la dottrina di Kant fusa insieme. Si ha infatti nelle Vorlesungen la possibilità di vedere all’opera, in modo interrelato quei concetti che Kant andava definendo nelle Critiche. le Vorlesungen sono sempre punto di partenza della meditazione kantiana e punto di nuova confluenza di quelle stesse tematiche specificate nelle Critiche, per cui attraverso di esse possiamo avere uno spaccato reale ed effettivo del pensiero di Kant. Nelle sue lezioni di logica, dunque, Kant, a proposito del problema da cui abbiamo preso le mosse all’inizio di questo paragrafo, dice che della verità si può rinvenire un criterio formale ma non un criterio materiale. Un criterio universale materiale della verità è impossibile, anzi contraddittorio in se stesso. Infatti, in quanto criterio universale, valido in generale per tutti gli oggetti, dovrebbe astrarre totalmente da ogni differenza fra questi ultimi e tuttavia, al contempo, in quanto criterio materiale, dovrebbe riferirsi appunto a questa differenza, per poter determinare se una conoscenza si accorda proprio con quell’oggetto al quale viene riferita e non con un qualche oggetto in generale (col quale, propriamente non si direbbe nulla). […] Perciò è assurdo richiedere un criterio universale materiale della verità, il quale Id., nachricht von der einrichtung seiner Vorlesungen in dem Winterhalbjahre 1765-1766, in I. Kant, Werkausgabe, a cura di W. Weischedel, vol. II, pp. 912-914. 58
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dovrebbe al contempo astrarre e non astrarre da ogni differenza fra gli oggetti59.
Se un criterio veritativo c’è, esso è e può essere solo un criterio formale, e non un criterio materiale che si contraddirebbe nel suo stesso darsi. Infatti «se ci si interroga sui criteri universali formali della verità, allora è facile stabilire che possono ben essercene. la verità formale, infatti, consiste esclusivamente nell’accordo della conoscenza con se stessa, astraendo interamente da tutti quanti gli oggetti e da ogni differenza fra di essi»60. Perciò la natura della verità è di tipo eminentemente enunciativo, e riguarda quella capacità in generale di produrre enunciati ovvero il Giudizio. Il criterium veritatis kantiano avrà perciò inevitabilmente a che fare con un certo atteggiarsi del Giudizio. Potremo dunque stabilire qui tre principi quali criteri universali semplicemente formali o logici della verità; essi sono: 1) il principio di contraddizione e d’identità (principium contradictionis et identitatis), col quale è determinata la possibilità intrinseca di una conoscenza per giudizi problematici; 2) il principio di ragion sufficiente (principium rationis sufficientis), sul quale si fonda la realtà (logica) di una conoscenza – il fatto che sia fondata in quanto materiale per giudizi assertori; 3) il principio del terzo escluso (principium exclusi medii inter duo contradictoria), sul quale si fonda la necessità (logica) di una conoscenza – il fatto che non si possa giudicare che così e non altrimenti, cioè che l’opposto sia falso – per giudizi apodittici61.
Posta la verità come l’accordo della conoscenza con se stessa per mezzo di questi tre criteri allora la falsità sarà il suo contrario, ed essa «viene detta errore, quando la si prende per verità»62. la falsità sarà allora la caratteristica di un giudizio errato, che sarà a sua volta un giudizio il cui enunciato non sottostà ai tre principi di ragione. l’errore allora consisterà nel tener-per-vero un falso. Il tener-per-vero, dice Kant più avanti nelle sue lezioni, è la caratteristica prima di ogni giudizio
59 Id., Logica, tr. it. a cura di l. Amoroso, roma-Bari, 2004, p. 44; AA IX, pp. 50-51, 32-2 […] p. 51, 6-8. 60 Ivi, p. 45; AA IX, pp. 51, 9-13. 61 Ivi, pp. 46-47; AA IX, pp. 53-54, 34-10. 62 Ivi, p. 47; AA IX, p. 53, 11-12.
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in generale63, per cui un giudizio erroneo è un giudizio che tien-pervero qualcosa che tale non è, ma che è falso. Difatti Kant nota che «un giudizio erroneo (l’errore, infatti come la verità, non ha luogo che nel giudizio) è quindi un giudizio che scambia la parvenza della verità per la verità stessa»64. Si badi bene però che anche per Kant, come per Descartes, l’errore risiede in un giudizio scorretto, ovvero in un giudizio che si è mal compiuto, e non nelle facoltà della mente per sé considerate. l’errore allora non risiede né nell’intelletto, né nella volontà, né nella sensibilità, né nell’immaginazione, ma in un accordo mal compiuto fra questi, ovvero, poiché il giudizio si identifica con tale accordo delle facoltà nella conoscenza del molteplice dell’esperienza sensibile in generale, allora l’errore risiede in un giudizio non rettamente condotto a termine. Perciò non è nell’intelletto stesso e nelle sue leggi essenziali che noi possiamo cercare il fondamento dell’errore, e nemmeno possiamo cercarlo nei confini dell’intelletto, nei quali si trova senz’altro la causa dell’ignoranza, ma nient’affatto quella dell’errore. […] Ma non è neppure nella sensibilità considerata in sé e per sé che può sorgere l’errore, perché i sensi non giudicano affatto65.
Detto ciò per Kant si pongono due possibilità di spiegazione dell’errore di cui poi la prima risulta essere in fondo soltanto una specificazione della seconda, la quale di contro risulta più originaria e perciò la vera matrice dell’errore. la prima possibilità di spiegazione è addotta da Kant in questo modo: «il fondamento d’origine di ogni errore dovrà venire cercato soltanto ed esclusivamente nell’influsso inavvertito della sensibilità sull’intelletto o, per parlare più precisamente sul giudizio. È questo influsso a far sì che noi, giudicando, prendiamo per oggettive ragioni solo soggettive e di conseguenza scambiamo la mera parvenza della verità per la verità stessa. Infatti, è per l’appunto in questo che consiste l’essenza della parvenza; quest’ultima, pertanto, è da considerarsi come un fondamento del prendere per vera una conoscenza falsa. Ciò che rende possibile l’errore è dunque la parvenza, a causa della quale, nel giudizio, ciò che è meramente soggettivo viene scambiato per ciò che è oggettivo»66. Cfr. I. Kant, Logica, cit., p. 59; AA IX, pp. 65-66. Ivi, p. 47; AA IX, p. 53, 12-14. 65 ibid.; AA IX, p. 53, 21-25 […] 29-31. 66 Ivi, pp. 47-48; AA IX, pp. 53-54, 32-7. 63
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riguardo la seconda possibilità di spiegazione Kant dice che: «solo la colpa dell’ignoranza dipende dai confini dell’intelletto, la colpa dell’errore dobbiamo imputarla a noi stessi. la natura ci ha negato indubbiamente molte conoscenze, essa ci lascia in un’ignoranza inevitabile rispetto a più d’una cosa; ma tuttavia non provoca l’errore. A quest’ultimo ci induce la nostra propria tendenza a giudicare e a decidere anche quando, a causa della nostra limitatezza, non siamo in grado di giudicare e di decidere»67. ora, se badiamo alla prima spiegazione addotta da Kant riguardo la natura e l’origine dell’errore – ovvero quello di prender per vero ciò che tale non è, ma che tuttavia così ci sembra a causa di un utilizzo che noi facciamo delle nostre facoltà pur dinanzi ad una loro evidente incapacità nel discernere in ogni caso il soggettivo dall’oggettivo – è indubbiamente evidente come essa sia una specificazione della seconda che perciò rappresenta la vera origine dell’errore. È a causa del fatto che ci ostiniamo a giudicare anche quando a causa della nostra limitatezza, non siamo in grado di farlo, che prendiamo per vero ciò che vero non è. ed è perciò a causa della nostra volontà spontanea di giudicare nonostante la limitatezza delle nostre facoltà che spesso noi incorriamo nell’errore. la componente volontaristica svolge perciò un ruolo importante in questo procedimento, ed è per questo motivo che Kant può affermare che se da un lato “la colpa dell’ignoranza dipende dai confini dell’intelletto”, dall’altro “la colpa dell’errore dobbiamo imputarla a noi stessi”, per cui fin da principio viene sancita una certa imputabilità dell’errore. Tale imputabilità (si badi bene l’imputabilità dell’errore, e non l’errore) è dovuta alla natura stessa del Giudizio, ed in particolare al ruolo che entro il Giudizio è assolto dalla volontà almeno come intenzionalità spontanea. Per cui l’imputabilità dell’errore di Giudizio viene ad assumere un “colorito” morale, quella sfumatura che rende facile il passaggio dall’errore alla colpa, ed apre la strada ad una imputabilità morale e giuridica dell’errore di Giudizio. l’imputabilità in sé ha sempre una connotazione morale dato che a livello meramente gnoseologico o teoretico l’errore non implica conseguenze effettive e reali. Tali conseguenze si hanno solo quando quell’errore dal piano teoretico–gnoseologico è trasposto al piano pratico-pragmatico; solo qui sorge l’imputazione della colpa.
ibid., si noti qui suggestivamente come, l’argomentazione qui condotta da Kant sia avvicinabile alla teoria dell’errore espressa da Descartes nella Iva Meditazione e nei Principia dall’articolo 31 al 35. 67
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All’interno della distinzione tra verità ed errore Kant distingue inoltre tra precisione e vaghezza, o meglio tra conoscenza precisa e conoscenza vaga68. In rapporto al vero e all’erroneo nella nostra conoscenza noi distinguiamo una conoscenza precisa da una conoscenza vaga. la conoscenza è precisa quando è adeguata al suo oggetto, ossia quando, in relazione al suo oggetto, non ha luogo il benché minimo errore; vaga quando possono esservi errori che però non sono propriamente d’ostacolo al suo intento. […] la determinazione lata [ovvero la conoscenza vaga] lascia sempre un margine per l’errore che tuttavia può avere i suoi limiti determinati69.
Ciò non significa che la conoscenza vaga sia necessariamente erronea. «la necessità di una determinazione vaga o precisa dipende sempre dall’intento di una conoscenza»70. Piuttosto, «l’errore ha luogo soprattutto quando una determinazione lata viene presa per una determinazione stretta, per es. nelle questioni della moralità, dove tutto deve essere determinato in modo stretto»71. Se noi teniamo ferma la distinzione tra conoscenza precisa e conoscenza vaga non cadiamo in errore perché non prendiamo una cosa per ciò che essa non è. Da quanto detto, e dall’analisi svolta circa la natura e l’origine dell’errore, Kant deduce due modi di evitare l’errore, così come due erano state le spiegazioni della natura dell’errore e, come quelle si risolvevano per essere l’una la specificazione dell’altra, così accade anche per i possibili modi d’evitare l’errore. Il primo modo generale di evitare l’errore ovvero quello tratto dalla spiegazione dell’errore come prendere la parvenza per verità è espresso da Kant in questi termini: Per evitare gli errori – e nessun errore è inevitabile, almeno in assoluto ossia in linea di principio, sebbene possa esserlo relativamente, nei casi in cui, anche a rischio di errare, è per Seppur può sembrare azzardato si pensi qui all’accostamento tra conoscenza precisa (Kant) e conoscenza chiara e distinta (Descartes) da un lato, e conoscenza vaga (Kant) e conoscenza oscura e confusa (Descartes) dall’altro. Nozioni a partire dalle quali Descartes esprime il suo criterium veritatis quale criterium evidentiae. 69 I. Kant, Logica, cit., pp. 48 e 49; AA IX, p. 54, 29-34. 70 Ivi, p. 49; AA IX, p. 55, 7-8. 71 ibid.; AA IX, p. 55, 10-12. 68
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noi inevitabile giudicare – per evitare errori, dunque, bisogna scoprirne e spiegarne la fonte: la parvenza72.
A livello più generale e che ingloba anche la posizione precedente, facendo luce su quanto da noi detto fin qui Kant osserva: Un contrassegno esteriore o un’esteriore pietra di paragone della verità è il confronto dei nostri propri giudizi con quelli degli altri, perché l’elemento soggettivo non sarà presente nello stesso modo presso tutti gli altri, cosicché la parvenza può venire spiegata passando per questa via. l’inconciliabilità dei giudizi degli altri con i nostri è perciò da considerarsi come un contrassegno esteriore dell’errore e come un cenno che ci rimanda a un’indagine del nostro procedimento nel giudicare, ma non per questo a rigettarlo subito. […] l’intelletto comune (sensus communis) è anche in se stesso una pietra di paragone per scoprire i difetti nell’uso tecnico73 dell’intelletto. Usare l’intelletto comune come termine di paragone per valutare la correttezza dell’intelletto speculativo è cosa che viene detta orientarsi nel pensiero, ossia nell’uso speculativo della ragione, per mezzo dell’intelletto comune. regole e condizioni universali per evitare l’errore in genere sono: 1) pensare in proprio, 2) pensarsi al posto di un altro e 3) pensare sempre in accordo con se stessi. la massima del pensare in proprio può essere detta modo di pensare illuminato; la massima di mettersi in altri punti di vista: modo ampio; e la massima di pensare sempre in accordo con se stessi: modo coerente o cogente74.
Insomma le regole per evitare l’errore non sono altro che i tre principi di ragione resi però come tre Denkungsarten, ovvero modi di pensare, ossia modi di condurre la ragione nei suoi giudizi e nelle sue azioni conseguenti. I tre modi qui elencati da Kant sono quelli che nella Kritik der Urteilskraft chiama massime del senso comune, che sono ibid.; AA IX, p. 56, 1-5. Qui è di notevole importanza a nostro avviso che nel testo tedesco non si presenti il termine “tecnisch” ma “künstlich”, insomma più che tecnico, artistico, o anche estetico nel senso del gusto, il che giustificherebbe ante litteram l’introduzione di queste stesse argomentazioni nella critica del giudizio di gusto all’interno della terza Critica. 74 I. Kant, Logica, cit., p. 50-51; AA IX, p. 57, 6-12 […] 15-27. 72 73
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le tre massime secondo cui la facoltà di giudicare, come abbiamo già dimostrato, si articola ed agisce. Trasposto ciò a livello morale, emerge che un giudizio morale, e perciò anche una conseguente azione morale, derivano solo da un procedimento tale che sottostia ai tre principi di ragione visti come modi di pensare. e tale procedimento non è altro che il noto test della universalizzabilità della massima. lo stesso concetto kantiano del dovere espresso dalla formulazione della legge morale, e la formulazione stessa della legge morale vanno in questa direzione. Cos’altro è infatti la legge morale kantiana se non l’espressione, in concetti di genere morale, dei tre principi di ragione? Prendiamo ad esempio la prima formulazione dell’imperativo categorico: «Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale»75. Questa norma mi impone di non farmi massime d’azione in sé contraddittorie, ovvero massime la cui azione corrispondente è in sé contraddittoria, in quanto introduce una contraddizione nell’agente. Posta infatti l’identità del soggetto agente con se stesso qualsiasi azione possa ledere questa identità e venga nel contempo promossa da questa identità stessa risulta logicamente contraddittoria e praticamente immorale. Sia che poniamo l’identità dell’uomo in quanto uomo e dell’umanità in generale, sia che prendiamo l’uomo come soggetto egoistico, per entrambe risulterà logicamente contraddittorio promuovere universalmente una azione che in sé abbia un connotato lesivo per il soggetto, in quanto distrugge l’identità dell’agente. A al proposito Kant fa degli esempi molto chiari. Poniamoci la questione: mi è lecito, quando mi trovo in difficoltà, fare una promessa con l’intenzione di non mantenerla? […] Sarei io contento che la mia massima (quella di trarmi d’impaccio mediante una falsa promessa) abbia da valere come legge universale (tanto per me quanto per gli altri), e potrei dire a me stesso: faccia chiunque una falsa promessa, se si trova in difficoltà e non può cavarsi d’impaccio in altro modo? ecco che mi rendo conto immediatamente che posso, bensì, volere la menzogna, ma non una legge generale di mentire. Secondo una tale legge, infatti, non potrebbe esservi propriamente nessuna promessa, perché sarebbe inutile fingere davanti agli altri di legare la mia volontà nelle azioni future, se a questa finzione nessuno credesse; o se anche, pur credendoci per leggerezza, uno fosse pronto tuttavia a ripagarmi con la stessa moneta. Non 75
Id., Critica della ragione pratica, cit., p. 65; AA v, p. 30, 38-39.
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appena, quindi, la mia massima divenisse una legge universale, si distruggerebbe da sé76.
ovvero sarebbe in sé contraddittoria e nel suo porsi contemporaneamente si toglierebbe. Questo perché per essere un’azione morale, ovvero valida in ogni momento e per ogni individuo in modo universale e necessario, la massima di un�azione tende ad assumere le caratteristiche di un enunciato vero, ossia un enunciato valido universalmente e necessariamente come gli enunciati della matematica. Se ciò non avviene l’enunciato risulta essere contraddittorio, e perciò non può assurgere alla categoricità e necessità caratteristica di un enunciato vero. e dunque non essendo universalizzabile non è morale. Nelle sue Lezioni di etica77 Kant dice: «la questione è dunque da Id., Fondazione della Metafisica dei costumi, cit., pp. 77-79; AA Iv, p. 402, 16-17 […] p. 403, 5-17. 77 È doveroso segnalare che quanto qui noi indichiamo come le Lezioni di etica di Kant, è la ricostruzione di un corso di lezioni di etica tenuto da Kant, quale risultava dalla composizione operata da Paul Menzer nel 1924 di tre copie di appunti eseguite, o fatte eseguire, da altrettanti studenti dell’Università di Königsberg e riproducenti il contenuto di un insegnamento verosimilmente impartito da Kant tra il 1775 e il 1780-1. Cfr. eine Vorlesung Kants über ethik, Im Auftrage der Kantgesellschaft, heraugegeben von Paul Menzer, Berlin, 1924. Naturalmente il fatto che si tratti di una ricostruzione postuma pone il problema della fedeltà della ricostruzione. oltretutto non si tratta della ricostruzione postuma di testi kantiani ma della ricostruzione di appunti di allievi di Kant, il che pone l’ulteriore problema della fedeltà con la quale gli studenti ne avessero riportato l’insegnamento nei loro appunti. Sappiamo come Kant stesso fosse contrario a che si prendessero appunti delle sue lezioni, evidentemente preoccupato che si omettessero le cose importanti e fossero invece messe su carta le meno importanti (Cfr. immanuel Kant. Sein Leben in Darstellungen von zeitgenossen. Die Biographien von L. e. Borowski, r. B. Jachmann und a. Ch. Wasianski, Berlin, 1912 p. 86; tr. it. di e. Pocar, con prefazione di e. Garin, Bari, 1969, pp. 78-79). Tuttavia nonostante Menzer fosse ben consapevole dei diversi problemi di completa attendibilità cui questa ricostruzione era soggetta, egli ritenne che il testo da lui ricostruito fosse di fondamentale rilievo per lo sviluppo dell’etica kantiana e per una comprensione approfondita di essa nel suo svilupparsi dato che la Vorlesung in questione conteneva molte cose non presenti, o non presenti allo stesso modo, nei principali scritti morali di Kant, come riporta A. Guerra nella sua introduzione alla edizione italiana del testo (Cfr. Kant, Lezioni di etica, a cura di A. Guerra, roma-Bari, 2004, p. XI). Pur nella consapevolezza del fatto che tali Lezioni siano attribuibili solo verosimil76
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formulare così: “Quali sono le condizioni sotto cui le mie azioni sono buone?”»78. Domanda alla quale Kant nello stesso testo aveva già risposto che: «la bontà morale consiste dunque nel governo del nostro arbitrio secondo regole mediante cui tutte le azioni dettate da esso si accordino in maniera universalmente valida. Quella regola, che costituisce il principio della possibilità dell’accordo di ogni libero arbitrio, è la legge morale»79. Qui perciò la legge morale viene identificata e non semplicemente esemplificata con una legge della universalizzabilità della massima, ovvero con una legge che impone, ogni qualvolta ci facciamo la massima soggettiva di un’azione, di sottoporla a verifica per vedere se essa sia potenzialmente universalizzabile, ovvero se quella stessa massima possa valere, in quella situazione in cui mi trovo, per ogni altro individuo. e ciò ha notevole significato a proposito delle argomentazioni esemplificative condotte precedentemente, se consideriamo che Kant, qualche riga prima di questa identificazione della bonitas moralis, osservava che la subordinazione del nostro volere a fini universalmente validi costituisce la bontà intrinseca e l’assoluta perfezione del libero arbitrio, perché in questo caso essa è in accordo con ogni fine possibile80. Perciò, ne consegue che la moralità è l’accordo delle azioni con la legge universalmente valida del libero arbitrio. ogni moralità consiste nella relazione che le azioni contraggono con la regola universale. In ogni nostra azione quel che si definisce come morale è ciò che risulta conforme alla regola. l’essenza della moralità sta in questo, che le azioni vengono compiute secondo motivi dettati dalla regola universale. Se si accoglie il principio che le nostre azioni debbano accordarsi con la regola universale, valida per ogni tempo e per ognuno, allora le nostre azioni trovano la loro origine nel principio morale. Per esempio, non mantenere una promessa per procurare soddisfazione alla nostra sensibilità non è morale perché, se non vi fosse alcuno che mantenesse le sue promesse, come si era proposto, alla fine il promettere non servirebbe a nulla. Qualora però, attenendomi all’intelletto, io consideri mente a Kant vogliamo, con le dovute cautele, prendere in considerazione il loro contenuto concettuale, rifarci al loro Spirito più che alla loro Lettera. 78 eine Vorlesung Kants über ethik, Im Auftrage der Kantgesellschaft, heraugegeben von Paul Menzer, Berlin, 1924; tr. it. Kant, Lezioni di etica, a cura di A. Guerra, roma-Bari, 2004, p. 30. 79 Ivi, p. 20. 80 Cfr. Kant, Lezioni di etica, cit., p. 20.
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se il mantenere le promesse costituisca una regola universale e quindi tenga fede alla mia promessa, augurandomi che tutti mantengano le loro verso di me, allora la mia azione s’accorda con la regola universale di ogni volere. o facciamo anche l’esempio [questo davvero di una chiarezza che non da spazio ad incomprensioni] della generosità. Poniamo che qualcuno versi in estrema miseria, che io sia nella condizione di aiutarlo e che tuttavia in tale circostanza io rimanga indifferente. Seguendo il mio intelletto cerco ora di vedere se costituirebbe una regola universale e se sarebbe inoltre conforme al mio volere che un altro, in circostanze analoghe di miseria, rimanesse altrettanto indifferente nei miei riguardi. Io m’avvedo che una condotta del genere sarebbe incapace d’accordo col mio volere, dunque essa non è morale81.
Dunque quando io mi faccio la massima di un�azione, per verificare se tale massima sia o meno morale, la sottopongo ad un processo di verifica che consiste nel verificare se tale massima possa essere una legge universale d’azione valida per quel momento per ogni uomo. Infatti «Io esamino con l’intelletto se l’intento dell’azione sia tale da poter diventare una regola universale»82. Analizziamo perciò innanzitutto l’intento dell’azione espressa nella massima sottoposta a verifica, ovvero l’intenzione di essa e tendiamo tale intenzione in senso universale per vedere se resiste o meno a questa ipotesi iperbolica d’azione. «In ogni giudizio morale è racchiuso questo quesito: “Qual è il carattere dell’azione, presa per se stessa?”»83, ovvero ci domandiamo quale è l’intenzione della massima e la domanda successiva è: “Tale intenzione è universalizzabile?”. Infatti «l’intento dell’azione è moralmente possibile se, una volta assunto come regola universale, non contraddice se stesso; esso invece è moralmente impossibile se, universalizzato, contraddice se stesso»84. Dunque, come abbiamo visto già negli scorsi paragrafi, è dall’attività del Giudizio, nel suo particolare uso riflettente, che è compiuta la verifica dell’universalizzabilità della massima. Perciò l’azione immorale, quando in generale alla sua base non c’è un intento meramente malvagio, è compiuta solo a partire da un giudizio errato. Infatti viene presa per universalizzabile, ossia per universalmente non contraddittoria a livello morale, ovvero per moralmente vera, una Ivi, pp. 48-49. Ivi, p. 49. 83 Ivi, p. 50. 84 ibid. 81 82
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massima che tale non è, e da ciò consegue una azione immorale. Unico metodo per non errare qui è il ben giudicare, a partire però, come vedremo in seguito, anche dagli “esempi significativi” che, come Kant sottolinea, sono rappresentati dalle esperienze dei santi e dei saggi del passato, e soprattutto da una educazione alla corretta conduzione dei propri giudizi. Ci troviamo tuttavia dinanzi alla situazione tautologica per cui il giudizio errato si evita solo ben giudicando. ovvero, stabilito che un giudizio corretto è solo un giudizio che sottostà ai tre principi di ragione, ovvero un giudizio che non sia contraddittorio e che abbia la capacità (o ragion sufficiente), proprio perché non in contraddizione, di sussistere per sé, e che identifichi per contro il suo opposto come un giudizio moralmente errato; un giudizio che tale non è sarà errato. Tuttavia Kant parla anche di “casi in cui, anche a rischio di errare, è per noi inevitabile giudicare”85, e osserva che in noi vi è una “tendenza a giudicare e a decidere anche quando, a causa della nostra limitatezza, non siamo in grado di giudicare e di decidere”. resta problematico, dunque, evitare l’errore se in noi vi è tale tendenza, e se vi sono ambiti come quello morale, in cui come abbiamo visto nel precedente paragrafo, ci troviamo dinanzi all’urgenza di una decisione per il compimento di un’azione. A tale proposito Kant introduce il concetto di Giudizio provvisorio, che pur non sospendendo in modo statico l’attività giudicativa, rappresenta un ponderante e riflettente rinviare il momento determinante del Giudizio pur cominciando in linea di massima a presentare una prospettiva di decisione che, in quanto vuole essere comprensiva di tutte le possibili opzioni d’azione, rappresenta un momento di sospensione e di analisi della situazione, che non significa perciò scettica negazione dubitativa di qualsiasi giudizio. Nel IX capitolo della sua Logica rifacendosi alla trattazione svolta nel capitolo vII riguardante il criterium veritatis e l’origine dell’errore, a partire dalla definizione per cui giudicare significa tener-per-vero qualcosa, ovvero affermare o negare qualcosa, ed in relazione anche al binomio conoscenza precisa-conoscenza vaga, per cui questa affermazione o negazione può essere precisa, ovvero certa, assertoria, necessaria, oppure può essere vaga, incerta, problematica, possibile, provvisoria, Kant dice: Il tener-per-vero in generale è di due tipi: o certo o incerto. Quello certo, o certezza, è accompagnato dalla coscienza della 85
Cfr. I. Kant, Logica, cit., p. 49; AA IX, p. 56, 1-4.
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necessità; quello incerto, invece, o incertezza, dalla coscienza della contingenza o possibilità del contrario86.
A partire da questo rapporto tra certezza ed incertezza, Kant identifica tre modi del tener-per-vero, che sono: l’opinare, il credere e il sapere. essi sono tre modi del giudicare in generale «l’opinare è un giudicare problematico, il credere è un giudicare assertorio e il sapere un giudicare apodittico»87. Questa distinzione risulta importante, per il nostro studio circa la natura del giudicare in ambito morale perché Kant proprio a proposito di questa distinzione qualche riga più sotto nella stessa pagina dice che: «questa distinzione del tener-per-vero secondo i tre modi appena indicati non riguarda che il giudizio88 in rapporto ai criteri soggettivi di sussunzione di un giudizio sotto regole oggettive»89. ed è a proposito dell’opinare che fa la sua comparsa, seppure per ora solo accennata, il concetto di giudizio provvisorio, mentre degli altri due modi di giudicare ovvero il credere e il sapere risulta proprio il giudizio determinante che è apodittico ed assertorio. l’opinare, ossia il tener-per-vero in base a un fondamento di conoscenza che non è sufficiente né soggettivamente né oggettivamente, può venir considerato come un giudicare provvisorio (sub conditione suspensiva ad interim), del quale non si può facilmente fare a meno. Bisogna cominciare con l’opinare prima di assumere e affermare, ma facendolo, bisogna anche guardarsi dal prendere un’opinione [ossia una conoscenza ancora vaga incerta e indeterminata] per qualcosa di più di una mera opinione [ovvero per una conoscenza precisa, la qual cosa ci farebbe cadere in errore]. È con l’opinare che noi cominciamo per lo più in tutte le nostre conoscenze. Talvolta abbiamo un oscuro presentimento della verità; una cosa ci sembra contenere note della verità; abbiamo già un presagio della sua verità ancor prima di conoscerla con certezza determinata90.
Ivi, p. 59; AA IX, p. 66, 3-7. Ivi, p. 60; AA IX, p. 66, 12-14. 88 È da notare che fin qui nelle sue lezioni di logica Kant ha parlato di giudizio come Beurteilung, e qui invece parla effettivamente di Giudizio come Urteilskraft, ed è anche da notare che il corsivo di evidenziazione qui è un originale di Kant. 89 I. Kant, Logica, cit., p. 60; AA IX, p. 66, 20-23. 90 Ivi, p. 60; AA IX, pp. 66-67, 32-4. 86 87
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Per Kant insomma dall’opinare al sapere vi è una certa diminuzione di vaghezza e al pari un incremento progressivo di certezza fino a giungere alla apoditticità di quella che egli chiama la convinzione quale certezza del tener-per-vero. Tuttavia dice Kant, la convinzione come risultato è sempre anticipata dalla persuasione. la persuasione è «un tener-per-vero in base a ragioni insufficienti di cui s’ignora se siano solo soggettive o anche oggettive»91; in ciò essa sta alla convinzione così come l’opinare sta al sapere. Spesso la persuasione precede la convinzione. Perciò, per poter pervenire dalla mera persuasione alla convinzione, noi dobbiamo dapprima riflettere, cioè vedere a quale facoltà conoscitiva pertiene una conoscenza, e poi indagare, cioè esaminare se le ragioni sono sufficienti o insufficienti in rapporto all’oggetto92.
Dinanzi alla persuasione ciò che assolve il servizio della riflessione e dell’indagine è il suddetto giudicare provvisorio. Tuttavia Kant dice che quando nell’opinare ci si persuade che qualcosa sia vero, ossia quando nell’opinare che tiene-per-vero il portato dell’opinione in quanto mera opinione ci persuadiamo di tener-per-vero questo portato come qualcosa di più che una mera opinione, ovvero quando la persuasione rischia di slittare irriflessivamente verso la convinzione e scambia opinione per convinzione, allora si erra. «ed è appunto per questo – dice Kant – che essa [ovvero la persuasione] si distingue dall’opinione, che è una conoscenza incerta che viene ritenuta incerta»93, mentre al contrario la persuasione è una conoscenza vaga che pretende di valere come convinzione. Ciò non significa che così non possa essere, tuttavia essa va sottoposta a riflessione ed indagine, sospendendo qualsiasi giudizio determinante a riguardo e fornendo giudizi provvisori. A questo punto Kant mette in relazione sospensione del Giudizio e Giudizio provvisorio, che ora viene tematizzato a pieno. Per quanto riguarda poi, in particolare, il rinvio o sospensione del nostro giudizio, si tratta del proposito di non lasciar diventar determinante un giudizio solo provvisorio. Un giudizio provvisorio è quello col quale mi rappresento che ci sono sì più ragioni a favore della verità di una cosa [verità che in ambito morale sta a significare la moralità di una massima soggettiva Ivi, p. 66; AA IX, p. 73, 1-3. ibid.; AA IX, p. 73, 4-10. 93 Ivi, p. 67; AA IX, p. 73, 19-21.
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d’azione, ovvero il suo accordarsi con la legge morale] che non contro di essa, ma che queste ragioni non sono ancora sufficienti per un giudizio determinante o definitivo, col quale decidermi senz’altro per la sua verità [ovvero in ambito morale per la sua moralità]. Il giudicare provvisorio è quindi un giudizio coscientemente solo problematico94.
Qui col prospettarsi del Giudizio provvisorio si profila ai nostri occhi una variazione “rivoluzionaria” del tema trattato nello scorso paragrafo. lì infatti avevamo affermato sulla scorta di quanto rinvenuto nel dettato kantiano, che una sospensione del Giudizio non era ammissibile, soprattutto in ambito morale. ora però vediamo questa idea mitigata alla luce del concetto nuovo di Giudizio provvisorio. Qualora infatti si reinterpreta il ruolo svolto dalla funzione del Giudizio riflettente come prospettico e progettante e si delega la sua funzione riflessivoindagativa al giudizio provvisorio, che è emesso durante la riflessione, e permette alla stessa riflessione di trasformarsi in progettazione e prospettiva, allora anche la sospensione di Giudizio viene ad assumere un significato diverso. Con essa infatti non si intenderà più una stasi nella quale il giudizio si arresta fino ad un momento di là da venire, e che perciò implicherebbe una stasi morale, ovvero una inazione, e una non soluzione della dilemmatica pratico-pragmatica in generale, che è infine stasi dei processi vitali in generale. essa, invece, in vista del nuovo concetto di Giudizio provvisorio, come abbiamo poc’anzi visto, è solo il “proposito di non lasciar diventar determinante un giudizio solo provvisorio”. Alla luce di questo nuovo significato «la sospensione del giudizio può avvenire con due diverse intenzioni: o per ricercare i fondamenti per il giudizio determinante oppure per non giudicare mai. Nel primo caso il rinvio del giudizio è detto critico (suspensio iudicii indagatoria), nel secondo è detto scettico (suspensio iudicii sceptica). Infatti lo scettico rinuncia del tutto a giudicare; il vero filosofo, invece, si limita a sospendere il suo giudizio quando non ha ragioni sufficienti per tenere qualcosa per vero»95. Dinanzi alla possibilità di dubitare, non avendo elementi sufficienti per avere una conoscenza precisa della situazione, attuiamo, dunque una suspensio iudicii indagatoria ovvero una sospensione di giudizio in vista della riflessione sulla situazione al fine di emettere un giudizio determinante. e tuttavia il dubitare che muove verso la sospensione del giudizio non è un dubitare per il dubitare 94 95
Ivi, pp. 67-68; AA IX, p. 74, 13-21. Ivi, p. 68; AA IX, p. 74, 22-29.
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al fine di distruggere ogni certezza, ma è un dubitare in vista di una determinazione ulteriore e più precisa. Anche in tal proposito Kant differenzia il suo dubitare critico dal dubitare scettico. C’è un principio del dubitare che consiste nella massima di trattare le conoscenze con l’intento di renderle incerte e di mostrare l’impossibilità di raggiungere la certezza. Questo metodo del filosofare è il modo di pensare scettico o scetticismo. […] Ma per quanto questo scetticismo sia nocivo, il metodo scettico è tuttavia utile e conforme al fine, se inteso solo come modo di trattare qualcosa come incerto e di condurlo fino all’incertezza più grande, nella speranza di trovare, su questa strada, le tracce della verità. Questo metodo96 è dunque propriamente solo una sospensione del giudicare. esso è assai utile al procedimento critico […]: [ovvero] un metodo che dà la speranza di pervenire alla certezza97.
ogni situazione nella quale ci troviamo pone sotto la nostra attenzione una pluralità di dati ed una infinità di opzioni, entro queste possibilità abbiamo il difficile compito di sceglierne una e soltanto una, e di questa scelta abbiamo piena responsabilità. la situazione ci preme da più parti, ed esige una decisione. Ma prima di decidere dobbiamo fare chiarezza tra la moltitudine di dati fornitaci dalla sensibilità, riflettere su di essi e, attraverso questa riflessione, verificare quale sia l’azione più consona alla situazione. Non possiamo scegliere semplicemente l’azione economicamente più adatta. Qui noi vogliamo trovare la soluzione morale, ovvero l’unica universalizzabile, o a livello logico l’unica certa. Per fare ciò lasciamo in suspenso la molteplice varietà di dati che ci vengono dall’esterno e ci muoviamo verso la riflessione. Insomma bisogna che noi riflettiamo, ponderiamo, meditiamo, soppesiamo, la situazione al fine di determinare il nostro atteggiamento entro di essa in modo conforme alla legge morale. Da un lato la situazione ci sovviene dall’esterno, dall’altro la legge morale ci comanda dall’interno. Sta solo a noi mediante il Giudizio riflettente prospettico, per mezzo dell’immaginazione produttiva, mediare questi due poli. e tuttavia «quando meditiamo su un oggetto [o una situazione, quale unità oggettuale d’esperienza], non possiamo non formulare già fin dall’inizio giudizi provvisori e, per così dire, fiutare già la conoscenza Qui il corsivo è una mia aggiunta. I. Kant, Logica, cit., p. 77; AA IX, p. 83, 30-33 […] p. 84, 9-15 […] 17-18. 96 97
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che acquisiremo grazie alla meditazione. e quando si mira a invenzioni o scoperte, bisogna sempre farsi un piano provvisorio; altrimenti i pensieri procedono a caso. I giudizi provvisori possono perciò venir considerati come massime per l’indagine di una cosa. Si potrebbe chiamarli anche anticipazioni, perché si anticipa il proprio giudizio di una cosa già prima di avere il giudizio determinante»98. Ciò vuol dire che col presentarsi di una data situazione e col profilarsi del problema che essa ci propone, noi ci facciamo prima facie già un’idea di quello che potrebbe essere il da farsi, e tuttavia, esprimiamo questo giudizio come provvisorio, vale a dire che lasciamo in sospeso se sia certamente quella o un’altra l’azione da compiere, e nel frattempo, a partire da questa massima anticipativa, compiamo la nostra riflessione che da un lato consisterà in un test della universalizzabilità della massima in questione, per vedere se essa è tale da sottostare ai principi della moralità, per avallarla o sostituirla prendendone in considerazione un’altra, e dall’altro lato consiste in un calcolo approssimativo e prospettico delle probabilità di realizzazione dell’azione espressa nella massima considerata. Il Giudizio provvisorio viene perciò ad identificarsi con una enunciazione anticipativa della massima d’azione che si vuole adottare e che va perciò sottoposta all’attività di verifica del Giudizio riflettente. Senza più usare i termini Giudizio provvisorio, Giudizio riflettente, Giudizio determinante, ci sembra adatto parlare di momento provvisorio, momento riflettente e momento determinante di quell’unica facoltà di Giudizio morale che è la praktische Urteilskraft. Qui abbiamo un iniziale nucleo problematico che tende verso una risoluzione apodittica. I problemi (problemata) sono proposizioni dimostrabili, bisognose di un’istruzione. esse, cioè, indicano un’azione il cui modo di esecuzione non è immediatamente certo. […] Un problema comporta: 1) la questione, la quale contiene ciò che deve venir fatto, 2) la risoluzione, la quale contiene il modo in cui può venir eseguito il da farsi e 3) la dimostrazione del fatto che, se avrò proceduto così, avrà luogo quanto richiesto99.
In ambito morale il problema si veste di un duplice aspetto, da un lato il principio morale che chiede rispetto, dall’altro la situazione che chiede soluzione. Abbiamo insomma un unico da farsi che chiede di soddisfare 98 99
Ivi, p. 68; AA IX, p. 75, 11-19. Ivi, p. 106; AA IX, p. 112, 6-8 […] 13-16.
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pienamente le due condizioni suddette. In effetti qualora si intenda la legge morale come ciò che è degno di essere fatto universalmente entro una situazione data, ecco che i due lati risultano essere uno. Alla posizione della questione, secondo quanto detto fin qui, ci sembra preposto il Giudizio provvisorio, mentre alla risoluzione e alla dimostrazione il Giudizio riflettente che si combina solo in ultimo, ovvero nell’enunciato conclusivo della dimostrazione, col Giudizio determinante. riguardo poi all’idea di disegno e di abbozzo che, secondo quanto precedentemente detto, il momento riflettente del Giudizio appronterebbe in una visione prospettica dell’azione mediante l’immaginazione, il Giudizio provvisorio non farebbe altro che fornire l’idea o la massima iniziale, a partire dalla quale si svilupperebbe il disegno dell’azione. volendo, infine, richiamare gli esempi della diagnosi medica e della sentenza giuridica a proposito del Giudizio provvisorio e del nuovo tipo di sospensione giudicativa da esso introdotta entro il processo giudicativo morale, dovremmo dire che il Giudizio provvisorio rappresenta quelle ipotesi diagnostiche che i medici propongono durante una diagnosi differenziale, e che in quanto ipotesi e nient’altro che ipotesi vanno a costituire il materiale su cui poi, mediante la riflessione sul caso particolare e la composizione di tutti i dati a disposizione, vagliando le più probabili ed escludendo quelle che meno si addicono al caso, si giunge alla diagnosi definitiva che porta alla cura del paziente. oppure nel caso del giudice rappresenta la pena in generale attribuita dalla legge ad un determinato reato, per il quale però prima di emettere una sentenza determinante, si ha bisogno di vagliare la situazione entro la quale si sono svolti i fatti, le sue modalità, le motivazioni, le aggravanti e le attenuanti di sorta, vagliando le quali il giudice dopo un periodo più o meno breve di camera di consiglio emetterà la sua sentenza definitiva. la struttura del giudizio fin qui analizzata mediante i momenti riflessivo e determinante, non subisce alcun decadimento a causa della identificazione del momento del Giudizio provvisorio, ma al contrario attraverso questa ulteriore specificazione del processo giudicativo morale, perveniamo ad una conoscenza più precisa del suo procedere, in modo dar poter condurre il nostro Giudizio in ogni situazione con una maggiore coscienza della sua portata, dei suoi limiti e delle sue capacità, in modo da avere, per quanto ci è possibile, entro il margine di errore comunque inevitabile, pieno controllo della situazione. Dopotutto la comprensione approfondita che fin qui si è tentata del processo giudicativo morale, ha come fine quello di venire a coscienza di come tale processo si sviluppi in generale, per poter, a partire da tale coscienza di
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esso, giudicare in modo quanto più possibile corretto in ogni situazione. In fondo questo secondo quanto diceva nell’annuncio del programma delle proprie lezioni per il semestre invernale 1765-1766 era l’autentico intento della Logik in quanto studio della facoltà di giudicare. Infatti lì Kant diceva che la logica, che per lui non è, o non è solo dottrina delle strutture formali dell’attività enunciativa, ma anche studio delle facoltà a tale attività preposte e delle dinamiche di queste facoltà, “dà modo di comprendere, oltre alla cultura della ragione erudita e raffinata, la formazione dell’intelletto bensì comune, ma sano e attivo – la prima in vista della vita speculativa, la seconda in vista della vita attiva e civile”100. Se e come a ciò si possa essere educati è argomento che tratteremo nei prossimi paragrafi. 7. Sillogismo pratico e giudizio problematico. La ratiocinatio polysyllogistica ovvero la struttura formale del giudizio morale Si è detto in precedenza di come il Giudizio, nella sua forma ancipite di Giudizio riflettente e Giudizio determinante, compia quello che si è chiamato il test della universalizzabilità. lo si è spiegato a livello di funzioni e ruolo delle varie facoltà che interagiscono all’interno di questo processo. Adesso vogliamo porre la nostra attenzione sulla struttura formale del processo giudicativo in questione. Dovremo dunque analizzare innanzitutto la struttura formale del principio a partire dal quale il Giudizio, in presenza di una massima particolare che sovviene da una particolare situazione, compie il suo test riflessivodeterminativo in vista della realizzazione di un’azione. Analizzeremo poi la struttura formale di una massima d’azione in generale e, a partire dalla composizione logica della prima, ovvero del principio morale, e della seconda, ovvero della massima, vedremo se è possibile parlare in proposito di un sillogismo pratico, e di che tipo di sillogismo si tratti quando si ragiona e giudica in ambito pratico, ossia in una situazione costituita da una molteplicità assai variegata di dati, da un lato, e comandata da una legge di ragione, dall’altro lato. Considerato come sola struttura logico formale, l’imperativo categorico è nella sua formulazione una inferenza della ragione. A tale proposito nelle sue lezioni di logica Kant, nel terzo capitolo della Dottrina generale degli elementi, osserva: I. Kant, nachricht von der einrichtung seiner Vorlesungen in dem Winterhalbjahre 1765-1766, cit., pp. 912-914. 100
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Un’inferenza della ragione è la conoscenza della necessità di una proposizione mediante la sussunzione della sua condizione sotto una regola universale data. […] l’inferenza della ragione premette una regola universale e una sussunzione sotto la condizione di questa. A tal modo si conosce la conclusione a priori non nel caso singolo, ma come contenuta nell’universale e come necessaria sotto una certa condizione. e questo elemento – che tutto stia sotto l’universale e sia determinabile secondo regole universali – è appunto il principio della razionalità o della necessità (principium rationalitatis s. necessitatis)101.
Notiamo come la legge morale sia “quell’inferenza della ragione [che] premette una regola universale”, che essa stessa è, e una sussunzione, ovvero lo svolgimento di un giudizio che sussume un qualcosa sotto altro, in questo caso qualcosa di non ancora ben specificato sotto una regola universale data; tale sussunzione avviene sotto, ovvero per mezzo, o a causa, della condizione fondamentale della regola universale data. e tuttavia questa descrizione kantiana sembra incompleta: abbiamo infatti la regola universale, l’atto del sussumere sotto tale regola, e la condizione sotto cui sussumere, che è poi la caratteristica primaria della regola data, e che nel nostro caso è l’universalizzabilità che ne costituisce la moralità; e però manca il sussunto, che nel nostro caso dovrebbe essere la massima particolare d’azione. Ma questo è presto detto. Al paragrafo successivo a quello da cui abbiamo tratto la precedente citazione Kant specifica ulteriormente gli elementi dell’inferenza: Di ogni inferenza della ragione fanno parte i seguenti tre elementi essenziali: 1) una regola universale che viene detta la maggiore (propositio major); 2) la proposizione che sussume una conoscenza sotto la condizione della regola universale e che si chiama la minore (propositio minor); e infine 3) la proposizione che afferma o nega il predicato della regola a proposito della conoscenza sussunta: essa è la conclusione (conclusio). le prime due proposizioni, nella loro connessione reciproca, vengono dette proposizioni antecedenti o premesse102.
e a proposito poi del rapporto che intercorre tra le tre Kant dice subito dopo che 101 102
I. Kant, Logica, cit., pp. 113-114; AA IX, p. 120, 4-6 […] 14-20. Ivi, p. 114; AA IX, pp. 120-121, 23-2.
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una regola è un’asserzione sotto una condizione universale. Il rapporto della condizione con l’asserzione, cioè il modo in cui questa sta sotto quella, è l’esponente della regola. la conoscenza del fatto che la condizione ha luogo (da qualche parte) è la sussunzione. la connessione di ciò che è stato sussunto sotto la condizione con l’asserzione della regola è l’inferenza103.
Abbiamo subito l’impressione di trovarci dinanzi alla descrizione di una struttura sillogistica. Abbiamo infatti una premessa o proposizione maggiore, che è qui la regola universale, ovvero la legge morale; abbiamo una premessa o proposizione miniore che sussume una conoscenza sotto la condizione della regola universale, ovvero verifica se il portato espresso da questa proposizione stessa rientra o meno sotto la condizione della regola; e una conclusione che afferma o nega il predicato della regola, ovvero la sua universalità e necessità, che ne costituiscono anche la condizione sotto cui sussumere, a proposito della conoscenza sussunta, ovvero afferma o nega se la conoscenza espressa dalla premessa minore sta o meno sotto la condizione della premessa maggiore. ora all’interno di tale ragionamento, se teniamo conto di quanto Kant dice all’osservazione successiva, poc�anzi menzionata, si vede come l’universalizzabilità costituisce ciò che Kant chiama l’esponente della regola. Difatti, se come abbiamo detto, una regola è un’asserzione sotto una condizione universale, ovvero l’universalità e necessità della regola; e, il rapporto della condizione con l’asserzione, cioè il modo in cui questa sta sotto quella, è l’esponente della regola – ovvero il rapporto dell’asserzione della regola con la condizione di universalità di essa è l’esponente della regola –, allora tale esponente è l’universalizzabilità, che è la condizione di universalità e necessità espressa in rapporto all’asserzione di una regola che, come tale, è universale e rappresenta la condizione universale della verifica di massime di conoscenza contingenti che sono entro la regola data solo se sottostanno alla condizione di cui essa stessa è asserzione ovvero, l’universalità, che in quanto esponente, ovvero criterio di verifica discriminante è universalizzabilità. Il modo di condurre tale ragionamento è l’inferire stesso della ragione (lato sensu). ora è chiaro che in questo sillogismo, se considerato dal punto di vista pratico, la premessa maggiore sarà costituita dalla legge morale, la premessa minore dalla massima particolare che si vuole verificare se stia sotto la condizione di universalizzabilità espressa dalla legge morale, e la conclusione è costituita dall’affermazione o dalla negazione di 103
Ivi, p. 114-115; AA IX, p. 121, 3-9.
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questa sussunzione della massima sotto la legge morale per mezzo della condizione dell’universalizzabilità. Naturalmente, se tutto il sillogismo di verificazione della sussunzione avrà la caratteristica della riflessività, la conclusione avrà la caratteristica della apoditticità e categoricità determinata. Difatti a tale proposito, riguardo alla conclusione, Kant parla di inferenza categorica della ragione e ne descrive gli elementi costituenti: In ogni inferenza categorica si trovano tre concetti principali (termini), vale a dire: 1) il predicato (nella conclusione), concetto che si chiama concetto maggiore (terminus maior), perché esso ha una sfera maggiore di quella del soggetto; 2) il soggetto (nella conclusione), il cui concetto si chiama concetto minore (terminus minor); e 3) una nota intermedia (nota intermedia), che si chiama concetto medio (terminus medius), perché per mezzo suo una conoscenza viene sussunta sotto la condizione della regola104.
Nella conclusione di un sillogismo avremo dunque un concetto maggiore costituente il predicato dell’enunciato, che è contenuto nella premessa maggiore, nel nostro caso la moralità; un concetto minore costituente il soggetto dell’enunciato, che è contenuto nella premessa minore, nel nostro caso la massima particolare d’azione; e un concetto medio, costituente il termine medio di congiunzione tra soggetto e predicato, che è contenuto in entrambe le premesse; e qualora esso abbia in entrambe le premesse senso affermativo allora anche la conclusione sarà affermativa, ma se avrà senso affermativo nella premessa maggiore e senso negativo nella premessa minore allora avrà senso negativo nella conclusione. Per giungere ad una conclusione corretta che abbia queste caratteristiche, ovvero per ben condurre il sillogismo precedentemente descritto, Kant dà inoltre alcune regole d’inferenza, che determinano i rapporti che le tre parti costituenti il sillogismo devono avere affinché esso risulti correttamente svolto. le regole elencate da Kant sono otto, e fanno luce su quanto fin qui detto: 1) In ogni inferenza categorica della ragione non possono essere contenuti né meno né più concetti principali (termini) 104
Ivi, p. 116; AA IX, pp. 122-123, 26-3.
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che tre; qui, infatti, devo congiungere due concetti (soggetto e predicato) attraverso una nota intermedia. 2) le proposizioni antecedenti o premesse non devono essere tutt’e due negative (ex puris negativis nihil sequitur); infatti la sussunzione nella minore dev’essere affermativa in quanto essa enuncia che una conoscenza sta sotto la condizione della regola. 3) le premesse non devono nemmeno essere tutt’e due proposizioni particolari (ex puris particularibus nihil sequitur); in tal caso, infatti, non ci sarebbe alcuna regola, cioè alcuna proposizione universale dalla quale potesse venir derivata una conoscenza particolare. 4) La conclusione concorda ogni volta con la parte più debole dell’inferenza; cioè con la proposizione negativa e particolare nelle premesse, che, in quanto tale, viene detta la parte più debole dell’inferenza razionale (conclusio sequitur partem debiliorem). Perciò, 5) se una delle proposizioni antecedenti è una proposizione negativa, allora anche la conclusione dev’essere negativa; e 6) se una proposizione antecedente è una proposizione particolare, allora anche la conclusione deve essere particolare. 7) In tutte le inferenze categoriche della ragione la maggiore dev’essere una proposizione universale (universalis), e la minore, dal canto suo, una proposizione affermativa (affirmans); e da ciò segue infine che 8) la conclusione deve concordare, per quel che riguarda la qualità, con la maggiore, ma per quel che riguarda la quantità, con la minore105.
Qui le regole dalla quinta alla ottava spiegano in modo più chiaro anche quanto esposto poc’anzi quando a proposito del termine medio dicevamo che, se in entrambe le premesse esso ha senso affermativo, allora anche la conclusione sarà affermativa, ma se ha senso affermativo nella premessa maggiore e senso negativo nella premessa minore allora avrà senso negativo nella conclusione. Proviamo ora a verificare se quanto descritto finora è assumibile in termini di logica formale. Si tratta naturalmente di un esperimento volto a verificare l’esistenza del quanto di ulteriorità ermeneutica che ci sembra messo in campo con l’articolazione in termini morali di una ratiocinatio polysyllogistica106. Ivi, pp. 117-118; AA IX, p. 124, 1-27. Cfr. S. Boetio, De hypotheticis syllogismis, testo, traduzione, introduzione e commento di l. obertello, Brescia, 1969; K. Dürr, The Propositional Logic of 105 106
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Dunque procederemo al tentativo di formalizzazione del discorso kantiano descritto nelle pagine precedenti, per farlo useremo i seguenti simboli: per ‘ogni’ useremo ‘∀’, ‘S’ ed ‘A’ significheranno rispettivamente ‘situazione’ e ‘azione’, tali che ‘(∀S)’ si leggerà ‘per ogni situazione’, con ‘M’ intenderemo ‘la massima’; useremo poi gli apici ‘g’ ‘p’ accanto ad S o A o M per significare la loro genericità o particolarità, tale che ‘Sg’ ad esempio sarà la situazione generica, mentre ‘Sp’ la situazione particolare. l’apice ‘deve’ sarà la funzione deontica esprimente il dovere. l’apice ‘U∞’ starà per la universalizzabilità. Per esprimere l’implicazione utilizzeremo il segno ⊇. Per l’implica-uguale useremo ⊃. Per l’implicazione necessaria utilizzeremo ⊇. Per esprimere il concetto di ‘morale’ useremo il lemma “Morale”. Per esprimere il comando ‘Agisci!’ useremo: “¡Aa….. !” Prendiamo perciò in considerazione la legge morale come premessa maggiore. «Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale»107.
Tentiamone la formalizzazione:
Il che significa: “Agisci moralmente!”, laddove:
che significa: “Morale implica ed è uguale che per ogni situazione generica S, per ogni azione generica A la massima generica M deve implicare necessariamente che M sia infinitamente universalizzabile”. Per cui volendo esprimere l’imperativo con il: “Sii morale!”, potremmo esprimerci in questo modo:
Prendiamo poi in considerazione la massima particolare d’azione e la verifica della sua universalizzabilità come premessa minore.
Boethius, Amsterdam, 1951. 107 I. Kant, Critica della ragione pratica, cit., p. 65; AA v, p. 30, 36-37.
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Che significa: “per ogni situazione particolare S, per ogni azione particolare A una massima particolare M implica necessariamente che M è infinitamente universalizzabile”. Perciò per ⊇ MU∞ ; ovvero per l’implicazione di universalizzabilità concludiamo che:
Che significa: “per ogni situazione particolare S, per ogni azione particolare A una massima particolare M” è implicata da “per ogni situazione generica S, per ogni azione generica A la massima generica M deve implicare necessariamente che M sia infinitamente universalizzabile” che è uguale o implicata da Morale. Per cui possiamo anche scrivere più semplicemente:
Che significa: “per ogni situazione particolare S, per ogni azione particolare A una massima particolare M” è uguale o implicata da Morale; oppure:
Che significa: “per ogni situazione particolare S, per ogni azione particolare A una massima particolare M implica necessariamente che M è infinitamente universalizzabile” è uguale o implicato da Morale; oppure:
Che significa: “per ogni situazione particolare S, per ogni azione particolare A una massima particolare M tale che M particolare implichi necessariamente che M è infinitamente universalizzabile” è uguale o implicato da Morale. e quindi abbiamo la conclusione:
Per cui possiamo scrivere in questi termini il sillogismo pratico:
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Sillogismo che sottende un secondo sillogismo di verifica della moralità della massima particolare a partire dalla condizione di moralità espressa dal secondo termine della premessa maggiore secondo il suddetto rapporto: Per cui
oppure laddove all’interno di questo sillogismo il termine medio è costituito appunto dalla capacità di essere universalizzabile, ovvero ⊃ MU∞, che qui abbiamo chiamato “l’implicazione di universalizzabilità”, che è propria della legge morale e della massima che ad essa è capace di sottostare. ora, se per semplificare poniamo (∀Sg) [(∀Ag)] = (∀φ); e poniamo (∀Sp) [(∀Ap)] = (∀φp); con ‘α’ intendiamo Mg mentre con ‘α p’ intendiamo M p; e con ‘β’ intendiamo ⊃ MU∞; con ‘γ’ intendiamo Morale; con ‘A…!’ intendiamo “Agisci!”; allora possiamo scrivere in modo più semplice sia in senso affermativo che in senso negativo, secondo le regole di inferenza dalla quinta alla ottava su elencate.
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Che verifica la condizione
oppure in senso negativo
Che verifica la condizione
Questa tuttavia è la struttura logica di un sillogismo pratico condotto come pura inferenza di ragione, ovvero considerando fattori solo interni alla ragione di per sé senza considerare l’apporto delle altre facoltà. Ciò che varia fortemente è la premessa minore, e perciò anche il tipo di conclusione. In un sillogismo “reale” in cui sono messi in questione i fattori reali che ci provengono da una situazione della realtà sensibile, non è infatti considerata una astratta “situazione particolare” “Sp”, per quanto ossimorica possa sembrarne la definizione; né tanto meno una astratta “azione particolare” “Ap”, e perciò nemmeno una astratta “massima particolare” “1Mp”, ma vengono considerate questa o quella particolarissima situazione e non altre, questa o quella particolarissima azione e non altre e questa o quella particolarissima massima d’azione e non altre. Il che non è così facile come sembra. Poiché essendo ogni situazione reale una Mannigfaltigkeit, essa è una molteplicità di eventi e di possibilità di eventi o azioni, e per ognuna di queste molteplici possibilità di eventi, ovvero per ognuna di queste molteplici eventualità, si danno parimenti molteplici opzioni o possibilità d’azione, che danno luogo a molteplici massime particolari d’azione. Per cui quel ragionamento
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che poc’anzi abbiamo formalizzato si complica enormemente, cosa che restituisce l’immagine stessa della realtà. A questa situazione soccorre nuovamente la facoltà di giudicare riflettente, che “rimette ordine” in questa Mannigfaltigkeit risalendo dai vari e molteplici fattori particolari a concetti universali. A tale proposito Kant sempre nella Logik dice che: «le inferenze del Giudizio sono certi modi d’inferire per arrivare a concetti universali partendo da concetti particolari. Non sono, dunque, funzioni del Giudizio determinante, ma di quello riflettente, a tal modo, esse non determinano neppure l’oggetto, ma solo il modo della riflessione su di esso, per pervenire alla sua conoscenza»108. e il Giudizio assolve questo ruolo mediante due particolari modi di inferire, ovvero l’induzione e l’analogia. Il Giudizio, procedendo dal particolare all’universale per trarre dall’esperienza, quindi non a priori (empiricamente) giudizi universali, conclude o da molte cose a tutte le cose di una specie, oppure da molte determinazioni e proprietà in cui cose della medesima specie si accordano alle rimanenti, in quanto esse appartengono allo stesso principio. Il primo modo d’inferenza si chiama inferenza per induzione; il secondo, inferenza per analogia. […] l’induzione conclude quindi dal particolare all’universale (a particolari ad universale) secondo il principio della generalizzazione: ciò che conviene a molte cose di un genere conviene anche alle altre. l’analogia conclude dalla somiglianza particolare di due cose alla somiglianza totale, secondo il principio della specificazione: le cose di un genere delle quali si conoscono molti punti d’accordo s’accordano anche in ciò che conosciamo in alcune cose di quel genere, ma che non vediamo in altre109.
In questo modo il Giudizio riflettente riesce a ricondurre i molteplici dati dell’esperienza sensibile, e le numerose possibilità d’azione entro di essa, a concetti generali, che permettano l’applicazione della struttura giudicativa precedentemente descritta. e tuttavia nell’universalizzare dal particolare, il Giudizio riflettente lascia inevitabilmente scoperte delle zone d’esperienza, dato che in questi casi l’infinità (almeno potenziale per noi) delle possibilità non s’adatta alla singolarità se non a costo di lasciare indeterminati ampi spazi d’opzione. e difatti Kant avverte che «le suddette inferenze del Giudizio sono utili e indispensabili in vista 108 109
I. Kant, Logica, cit., p. 126; AA IX, p. 132, 5-9. Ivi, p. 127; AA IX, p. 132, 23-29 […] p. 133, 01-08.
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dell’estensione della nostra conoscenza per esperienza. Ma giacché danno solo una certezza empirica, dobbiamo servircene con cautela e prudenza»110. e tuttavia è da specificare che pur nella semplificazione concettuale sulla realtà, applicata dal Giudizio riflettente, non perdiamo nulla della Mannigfaltigkeit della realtà, che si esprime nella pluralità delle inferenze che partecipano al sillogismo pratico. Difatti, considerata in questo senso la struttura sillogistica precedentemente descritta, pur restando invariata nella premessa maggiore, subisce un allargamento ad infinitum nella premessa minore che non sarà più soltanto una, ma ci troveremo dinanzi ad una pluralità di possibili massime particolari d’azione. Queste, che siano verificate una per una, ciascuna con un singolo sillogismo, o siano vagliate tutte insieme formulando una premessa minore di dimensioni elevate, costituiranno quella particolare struttura logica che Kant chiama raziocinatio polysyllogistica, ovvero «un’inferenza composta nella quale le molteplici inferenze della ragione sono congiunte l’un l’altra non per mera coordinazione, ma per subordinazione, cioè come fondamenti e conseguenze, [essa] viene chiamata una catena di inferenze della ragione (raziocinatio polysyllogistica)»111. Infatti per mezzo delle inferenze del Giudizio riflettente giungiamo da concetti particolari a concetti universali, che però, come ebbe a dire Scaravelli nelle sue osservazioni sulla Critica del giudizio, non sono semplicemente concetti universali, ma concetti universali di concetti particolari, che in quanto concetti universali danno luogo ad inferenze di ragione, e possono cioè rientrare nella struttura sillogistica che qui si è tentato di formalizzare. Tuttavia in quanto concetti universali di concetti particolari, conservano in sé la loro particolarità genetica dando luogo a una moltitudine di inferenze che la ragione non può far altro che porre in catena; catena di più sillogismi avente ognuno una differente premessa minore e perciò anche una differente conclusione, ai quali poi seguirà un ulteriore sillogismo valutante le varie conclusioni alla luce della premessa maggiore, e perciò considerando quelle conclusioni come premesse minori dando luogo ad una conclusione complessiva; oppure un unico sillogismo avente per premessa minore una catena di possibilità, la cui conclusione sarà complessiva di tutte le possibilità; dando luogo appunto in entrambe i casi ad una raziocinatio polysyllogistica.
110 111
Ivi, p. 128; AA IX, p. 133, 24-27. ibid.; AA IX, pp. 133-134, 34-2.
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volendo formalizzare la raziocinatio polysyllogistica avremo nel primo caso:
oppure nel secondo caso:
ovvero in termini imperativi:
8. Sull’educazione del giudizio Abbiamo più volte accennato fin’ora a quanto per Kant fossero importanti l’educazione e lo sviluppo del Giudizio per un corretto utilizzo di esso, e l’avvicinamento ad una soglia minima d’errore. Innanzitutto bisogna porre attenzione alla distinzione tra insegnare (Unterrichten) ed educare (Bilden). Il primo ha a che fare con l’impartire determinate nozioni, il secondo col formare le capacità dell’individuo nel continuo esercizio di esse. ed effettivamente i termini tedeschi che esprimono i rispettivi significati se analizzati attentamente sono uno il “sottodirezionare” ovvero “l’impartire una direzione o una nozione” (Unterrichten), e l’altro il “formare” o “l’allenare con esercizio”112 (Bilden) che ha più a che fare con un (entwickeln) (sviluppare nel senso dello svolgere un viluppo originario), che non con un (Lehren) (un indottrinare). e come dice Kant nella Critica della ragione pura, «il Giudizio è un talento particolare, che non si può insegnare, ma soltanto 112
Secondo le indicazioni del dizionario Langenscheidts.
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esercitare»113; dunque esso non si può insegnare, poiché non è un qualcosa che, possa essere insegnato come il leggere o lo scrivere, ma è una facoltà che, come l’intelletto e la ragione, è innata nell’uomo e perciò può essere solo educata ovvero condotta attraverso l’esercizio in modo che non si sviluppi in modo scorretto. In tale esercizio, formazione o educazione del Giudizio, Kant sottolinea subito l’ausilio degli esempi, e dei casi pratici per indirizzare il Giudizio. Gli esempi infatti vengono definiti le dande del Giudizio114, che lo aiutano a svilupparsi in modo corretto, seppure sia necesario presto farne a meno e cominciare a camminare da sé perché alla lunga risultano dannosi ed inesaustivi e inadatti per ogni situazione, così come le dande reali, che pur essendo utili, per far camminare i bambini è bene vengano presto tolte, perché alla lunga – dice Kant nella Pedagogia115 – provocano danno al torace del bambino e ne influenzano coattamente la postura; allo stesso modo è bene che il giudizio impari presto a far a meno degli esempi e a confrontarsi volta per volta con la situazione reale per evitare che la sua “postura” risulti coattamente inclinata dall’esempio, che in questo caso da esempio si farebbe pretenziosamente regola. Ma se è vero che il Giudizio non si insegna ma si educa, la domanda è: Come educarlo? Nella Critica della ragione pura, come abbiamo appena visto, Kant dice che lo si educa col continuo esercizio e lo si aiuta col buon esempio, mentre dal portato della tipica del giudizio pratico, nella Critica della ragione pratica, si deduce che esso debba essere condotto in modo analogo alle leggi di natura, ovvero che sia conseguente, ovvero non contraddittorio, e perciò di validità universale; nella Critica del giudizio infine viene sottolineato, a proposito del giudizio di gusto, come esso debba essere esercitato e sviluppato secondo il senso comune e vengono enunciate le sue tre massime, ovvero che esso deve essere esercitato in autonomia, liberalità o universalizzabilità e consequenzialità; sono le massime del giudicare da sé, mettendosi dal punto di vista degli altri e procedendo in modo conseguente. e tuttavia pur avanzando queste indicazioni di massima Kant nelle tre Critiche non entra mai nel merito più eminentemente “pedagogico” di un’educazione del Giudizio, e del Giudizio morale. Troviamo però qualche accenno in questo senso nelle Lezioni di etica, nella Metafisica I. Kant, Critica della ragione pura, cit., p. 133; AA III, p. 131, 27-28. Ivi, 134; AA III, p. 132, 18-20. 115 I. Kant, Über Pädagogik, tr. it. di F. rubitschek, La Pedagogia, Firenze, 1963; AA IX, pp. 437-501. 113
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dei costumi, e nella Pedagogia (testo stilato a partire dalle lezioni che Kant teneva sull’argomento). A partire dalle notizie contenute nelle tre Critiche e dagli accenni che ora riporteremo, tenteremo di ricostruire quello che potrebbe essere il modus educandi da tenere per sviluppare al meglio la capacità di giudicare e per ridurre al minimo, entro i limiti dell’umano possibile, il margine d’errore, pur nell’ampio margine di discrezionalità che sempre caratterizza il Giudizio morale. Negli insegnamenti morali sollecitazioni e incentivi sensibili non devono essere neanche accennati ma, dopo che le regole della moralità sono state accolte in maniera del tutto pura e si è appreso a stimarle come la cosa più preziosa, ci si può servire dei moventi indicati, non perché l’azione venga compiuta in loro nome, in quanto allora essa non sarebbe più morale, ma perché essi possono giovare come subsidiaria motiva116.
Tuttavia Kant osserva che, al di là di incentivi ed esempi, «il puro concetto della moralità produce, in colui che lo possiede, effetti straordinari: esso sprona più di ogni altro impulso sensibile. Abbiamo qui un notevole ausilio per raccomandare agli uomini la moralità, ausilio di cui si deve fare uso in sede educativa, perché l’uomo divenga capace, nella vita morale, di un giudizio e di un gusto puri. […] Come nessuno può gustare il vino puro, quando sia mescolato con altre bevande che glielo impediscono, così anche nella morale occorre respingere ogni intrusione, se si vuole badare alla sua purezza»117. Questo significa che, per ben educare il Giudizio morale, bisogna avviarlo per mezzo di esempi all’esercizio in ogni situazione, ma occorre evitare che esso si affidi a regole esemplari. Il Giudizio infatti deve volta per volta a seconda del caso trovare la regola d’azione più adatta a quel caso in vista della legge morale. Se al contrario il Giudizio si affidasse ad una casistica normativa di esemplari, ovvero ad un elenco di regole d’azione che si vogliano esemplari per vari casi, i quali sono sempre numericamente ridotti rispetto alle infinite possibilità di una situazione, esso non solo correrebbe il rischio di errare, perché il caso proposto non si confà alla regola determinata, ma oltretutto verrebbe meno al Giudizio qualunque effettiva intenzionalità morale, visto che esso si ridurrebbe alla facoltà meccanica di applicazione 116 117
Kant, Lezioni di etica, cit., pp. 88-89. ibid.
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di una regola data, senza alcuna sussunzione o verifica. Anziché un’educazione del Giudizio ciò determinerebbe un suo deterioramento fino all’istupidimento. l’uomo infatti, applicando meccanicamente una precettistica predeterminata di comandamenti, non avrebbe più alcuno stimolo a risolvere da sé autonomamente la dilemmatica morale propostagli dall’azione e perciò non avvertirebbe la necessità di una riflessione sulla situazione, il che alla lunga porterebbe ad un assopimento di tale facoltà. Se ne deduce perciò che per una corretta educazione del Giudizio l’esempio è una danda, ovvero solo un rinforzo momentaneo e per una casistica ristretta, che va subito abbandonato per far maturare il Giudizio. A parte questa funzione dell’esempio non abbiamo però qui ancora alcuna ulteriore specificazione sul come far maturare questo Giudizio, senza che esso si infiacchisca nell’utilizzo meccanico di una massima tipica d’azione. e tuttavia nelle ultime pagine delle sue Lezioni di etica Kant entra nel merito pedagogico di come, passo dopo passo, si possa educare moralmente l’uomo a ben giudicare. Nell’educazione vanno distinti due aspetti: lo sviluppo delle disposizioni naturali e gli apporti dell’arte. Il primo aspetto riguarda la formazione [Bildung] dell’uomo, il secondo il suo ammaestramento ovvero la sua istruzione [Unterricht oder Belehrung]118.
Ciò porta conferma alla distinzione precedentemente accennata tra educare e insegnare, per cui, per quanto riguarda le conoscenze tecniche, ovvero il bagaglio nozionistico di qualsiasi genere che l’uomo non ha dall’inizio nella sua testa, ma che impara per mezzo dello studio e dell’esperienza, abbiamo a che fare con l’insegnamento, mentre per lo sviluppo di tutte le capacità insite nella natura dell’uomo abbiamo a che fare con l’educazione. Quanto poi all’educazione e al suo svolgimento rispetto alle diverse età dell’uomo nell’ottica di uno sviluppo progressivo delle sue capacità, Kant aggiunge: Quanto all’età l’educazione è di tre specie, rispettivamente per il bambino, per il giovane e per l’adulto. l’educazione anticipa sempre, costituendo una preparazione all’età successiva. Nell’educazione come preparazione alla giovinezza viene sempre fornita una ragione di tutto, il che non avviene nell’educazione 118
Ivi, p. 283.
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che prepara all’infanzia. […] All’età della giovinezza invece appartiene già la ragione. Quando deve cominciare l’educazione per la giovinezza? All’incirca a dieci anni, quando per natura si è già nell’età della giovinezza, disponendo della capacità di riflettere. Un giovane deve avere già un idea della convenienza; un fanciullo, no e a lui si dirà soltanto: “Questo non si fa”. Un giovane deve avere già dei doveri verso la società civile ed è in questo modo che egli acquista una idea della convenienza e dell’amore per il genere umano. […] la terza epoca si profila quando il giovane deve venire educato al suo ingresso nell’età adulta.[…] Una volta entrati nell’età adulta si deve parlare agli uomini dei loro più veri doveri, della dignità umana nella propria persona e del rispetto dell’umanità negli altri119.
Perciò a partire dall’infanzia bisogna innanzitutto inculcare nell’individuo un senso del dovere, di cui egli ancora non capisce la ragione, e che perciò gli va inculcato con imposizione, il “questo non si fa” di cui parla Kant. e tuttavia tale imposizione non è nulla che l’individuo non possa scoprire come realmente proveniente da lui stesso quando sarà ragionevole a tal punto da comprenderlo. Tale maturazione comincia nella giovinezza in cui all’individuo la legge morale, che era stata presentata come comandamento, viene mostrata come principio morale razionale dell’uomo autodeterminantesi, dato che nella sua astratta formalità, che invece non sussiste per il comandamento che è già una regola determinata, richiede l’attività del Giudizio per essere applicata all’esperienza sensibile, Giudizio che viene a prima maturazione proprio nella giovinezza. In età adulta infine l’individuo stesso mediante il suo Giudizio può giungere all’identificazione dei doveri più alti che possono derivare dalla posizione della legge morale, e che equivalgono alla seconda formulazione dell’imperativo categorico, in cui si dice dell’uomo come fine in sé. Ciò significa anche che il momento primario dell’educazione morale in generale, e dell’educazione del Giudizio morale, nel nostro caso, pertiene soprattutto le età della fanciullezza e della gioventù, nelle quali dapprima si educa al dovere e poi al giudicare come rettamente realizzare questo dovere. Il modus di tale processo educativo è esposto in modo più definito nella Pedagogia in cui Kant dice che: «l’educazione consiste nello stabilire in tutto i giusti principi e farli intendere ed accettare dagli educandi»120 e che perciò «per formare nei fanciulli un carattere 119 120
Ivi, pp. 285-286. I. Kant, La Pedagogia, cit., p. 69; AA IX, pp. 492-493, 36-1.
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morale bisogna tenere presenti le seguenti regole: bisogna, per quanto possibile, far loro intendere i doveri da compiere mediante esempi e precetti»121. Dunque innanzitutto mostrare ai fanciulli cosa sia dovere, ed inculcare in essi il “senso” di esso, poi mostrargli, attraverso esempi di casi comuni relativi alla vita pratica, alcune possibili realizzazioni di tale principio di dovere. Kant chiama questo “catechismo morale”. Tuttavia contestualmente Kant lamenta anche come nella Prussia della sua epoca non tenessero in gran conto l’educazione morale del fanciullo, e dice che nelle scuole dell’epoca mancava «completamente ciò che occorrerebbe all’educazione morale dei fanciulli, vale a dire il catechismo del Diritto, il quale contemplasse casi comuni relativi alla vita pratica nei quali spontaneamente si presenta la questione: quel che è giusto oppure no. Per esempio, se una persona che deve pagare un creditore, commossa alla vista di un bisognoso, gli dà la somma di cui era debitore, fa cosa giusta o ingiusta? Ingiusta, poiché si deve essere liberi da altri impegni per fare la beneficenza»122. Infine, ne La metafisica dei costumi, in modo simile riferendosi all’insegnamento morale egli dice: «in questo insegnamento morale di tipo catechistico sarebbe di grande utilità per la coltura morale proporre, a proposito dell’analisi di ogni specie di dovere, qualche questione casistica e mettere alla prova l’intelligenza dei fanciulli riuniti, domandando a ognuno di essi come intende risolvere la questione insidiosamente proposta»123; a questo proposito in considerazione della casistica e del valore degli esempi Kant fa un�importante considerazione che ci riporta a quanto su detto a proposito dell’utilità e del danno degli esempi per il Giudizio. la parola tedesca Beispiel, che si adopera comunemente come sinonimo di exempel, non ha però precisamente lo stesso significato. Prendere un exempel e citare un Beispiel per la maggior chiarezza e comprensibilità di una espressione, sono due concetti affatto diversi. l’exempel è un caso particolare di una regola pratica, in quanto questa rappresenta un’azione come praticabile o impraticabile. Un Beispiel, all’opposto, è soltanto il particolare (concretum) rappresentato come contenuto nell’universale secondo concetti (abstractum), e l’esposizione puramente teoretica di un concetto124.
Ivi, p. 64; AA IX, p. 488, 23-26. Ivi, p. 66; AA IX, p. 490, 5-13. 123 Id., La metafisica dei costumi, cit., p. 363; AA vI, p. 483, 32-36. 124 Ivi, p. 358; AA vI, p. 479 in nota a piè pagina. 121 122
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l’exempel quindi è il caso particolare di una regola altrettanto particolare. Ad esempio, della regola pratica di restituire sempre quanto dovuto e di estinguere i propri debiti, la quale è di per sé già una regola particolare, ovvero una massima d’azione universalizzabile, e perciò sussumibile sotto la legge morale, e per tal motivo suscettibile di essere presa come regola d’azione, secondo la nota distinzione già ricordata tra legge, massima e regola, deriviamo l’exempel precedentemente citato da Kant, per cui “se una persona che deve pagare un creditore, commossa alla vista di un bisognoso, gli dà la somma di cui era debitore, fa cosa giusta o ingiusta? Ingiusta, poiché si deve essere liberi da altri impegni per fare la beneficenza”. e qui l’exempel serve appunto per esemplificare come l’atto giudicativo debba procedere in un caso particolare, come quello previsto dall’esempio stesso; esso appartiene perciò ad una precettistica, o ad una casistica d’azione. Nel caso del Beispiel, secondo la declinazione concettuale qui espressa da Kant, esso è nient’altro che un caso particolare in generale, trascendentalmente inteso su cui il Giudizio compie la sua riflessione e sussunzione. l’exempel dunque è una esemplare massima d’azione particolare, e può essere paragonato ai precetti che si traggono dalle vite dei santi; esso può essere d’esempio e di sprone alla vita morale. Il Beispiel è invece il caso particolare stesso in cui dobbiamo agire e risolverci a giudicare. Il primo è una danda del Giudizio, il secondo il concretum del Giudizio. Da quanto detto fin qui dunque è possibile in linea di massima ricostruire un certo modus educandi per il giudizio. l’educazione del Giudizio si concentrerà innanzitutto nell’età della giovinezza; propedeutica ad essa sarà l’educazione al dovere che sarà preminente dall’infanzia fino alla gioventù. Nella gioventù quello che dapprima era stato presentato come un comandamento, verrà mostrato come legge razionale d’azione, e ad esso saranno ispirate le azioni. l’educazione del Giudizio sarà graduale e progressiva. essa comincerà ponendo esempi (exempel) di grandi persone, saggi e santi, quali esempi di moralità, ed in questa fase l’educazione si baserà su un’esposizione acroamatica125, che si ha quando coloro a cui si rivolge il docente sono semplici uditori; essi ascolteranno e prenderanno esempio da quelle figure e azioni esemplari esposte loro dal docente. Superata la fase acroamatica, si passerà alla fase erotematica126, nella quale il maestro interroga i suoi alunni su ciò che egli vuol loro insegnare. Ciò avviene quando il maestro espone ai suoi alunni delle situazioni particolari d’azione e li sollecita 125 126
Cfr. I. Kant, La metafisica dei costumi, cit., p. 356; AA vI, p. 478, 6. ibid.; AA vI, p. 478, 7.
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a esprimere quali sarebbero le azioni particolari giuste da compiere in quelle situazioni alla luce della legge morale che ormai essi hanno fatto propria nel loro senso del dovere. Tali azioni esemplari per situazioni esemplari, ma non più nell’accezione dell’exempel, bensì del Beispiel, poiché esse non verranno più dal racconto di azioni esemplari commesse da santi o saggi (che sono i medievali exsempla virtutis), ma saranno frutto dell’attività giudicava stessa dell’alunno che, interrogato su come è giusto agire in una data situazione, dovrà riflettere su tale situazione alla luce della legge morale e dei dati provenienti dalla situazione per determinare un’eventuale massima d’azione possibile. «Con le sue domande il maestro guiderà i pensieri dell’alunno in modo da indurlo soltanto a sviluppare in sé, per mezzo dei casi che gli propone, l’attitudine a certe idee»127; in ciò l’alunno si libererà dall’ausilio della danda costituita dall’exempel e giungerà gradualmente alla più alta maturità del Giudizio per mezzo dell’esercizio costante secondo situazioni e azioni esemplari nell’accezione del Beispiel. Nel condurre il suo Giudizio l’individuo dovrà sempre avere presenti le tre massime del senso comune che gli verranno mostrate e diventeranno proprie del suo modo di pensare nel corso della sua crescita e dell’evoluzione delle sue capacità. Nell’infanzia, contestualmente al senso del dovere, gli saranno mostrati il principio di consequenzialità nelle azioni, e quello di identità; nella gioventù poi, quando la legge morale gli verrà mostrata non come comandamento ma come legge autonoma della ragione, gli verranno mostrati il principio di autonomia e quello di non contraddizione. Infine quando esso sarà pronto ed avrà maturato in sé queste disposizioni, gli verrà mostrato il modo di pensare allargato, ovvero il principio dell’universalizzabilità, che fa una cosa sola col principio del valore dell’umanità. Fatto ciò nessun errore sarà imputabile alla manchevolezza della natura umana ma unicamente alla responsabilità del soggetto giudicante. Questo è quanto è possibile estrapolare dal portato di Kant a proposito dell’educazione del Giudizio. Senza dubbio però l’esposizione della struttura del Giudizio, e la distinzione dei suoi momenti in provvisorio, riflettente e determinante, può far parte di un’educazione del Giudizio che succeda a quella or ora esposta. Attraverso la distinzione dei vari momenti del Giudizio, e dei rapporti che esso tiene nell’accordo con le altre facoltà, si arriva ad una ulteriore maturazione della propria capacità di giudicare che ci porta entro i limiti dell’umano possibile ad essere completamente padroni delle nostre facoltà e perciò pienamente responsabili nel successo o nel fallimento delle nostre decisioni. Successo 127
ibid.; AA vI, p. 478, 14-16.
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o demerito che non ci viene imputato dalla capacità di giudicare, che è una facoltà speculativa chiamata a riflettere su casi particolari in base ad una legge e a determinare l’azione che entro tale situazione è più appropriata, ma da quella che comunemente si chiama la propria coscienza. la coscienza ci chiama in causa dinanzi all’azione compiuta, ed in particolare dinanzi all’errore compiuto, essa è ben diversa dal Giudizio pratico in genere; in essa non vi è alcuna attività riflessivospeculativa, essa semplicemente rimprovera l’errore. Più che all’attività speculativa svolta dal giudice nella formulazione e nella emissione della sentenza, la coscienza è paragonabile all’istinto di giustizia e di rimprovero verso l’errore che il giudice ha nel pronunciare la sentenza. vedremo in modo più approfondito quale sia la differenza tra Giudizio morale e coscienza morale, e come essa rappresenti l’ultimo passo dell’educazione del Giudizio morale nel prossimo paragrafo.
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CAPITolo Terzo PER UNA DOTTRINA TRASCENDENTALE DEL GIUDIZIO MORALE 1. giudizio morale e coscienza morale Sul finire dello scorso paragrafo abbiamo distinto in prima approssimazione il Giudizio morale dalla coscienza morale, dicendo che mentre il primo si avvale di processi riflessivo-determinanti, quali sono stati fin qui esposti, la seconda invece risulta solo espressione di una forza istintuale che matura in noi a partire dal nostro senso del “morale” ovvero a partire dal sentimento di rispetto per la legge morale; inoltre mentre il primo pondera su una situazione data per fornire una decisione d’azione, la seconda arriva a cose fatte ad imputarci e condannarci per i nostri eventuali errori. A tale proposito con parole quanto mai chiare Kant, nelle Lezioni di etica, osserva: Noi abbiamo la capacità di giudicare se qualcosa sia giusto o ingiusto e questo vale sia per le nostre azioni che per quelle altrui. Tale capacità è propria dell’intelletto. Ma noi possediamo anche la facoltà di provar piacere o avversione, di distinguere in noi come negli altri ciò che piace da ciò che non piace: tale facoltà è il sentimento morale. Una volta dati il giudizio e la legge morali, noi troviamo in noi stessi una terza cosa, un istinto, un impulso involontario e irresistibile, che ci spinge ad esercitare sulle nostre azioni un giudizio avente forza di legge, tale da procurarci un intimo tormento per le azioni malvagie e un’intima gioia per quelle buone, a seconda del rapporto che l’azione contrae con la legge. Tale istinto è la coscienza, l’istinto di giudicare le nostre azioni e di pronunciare su di esse una sentenza1.
Qui è espresso in modo chiaro il sorgere della coscienza morale a partire dal sentimento morale. Per cui – una volta che in noi è maturato 1
Kant, Lezioni di etica, cit., pp. 77-78.
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il sentimento del rispetto verso la legge morale, che come tale è stata posta come principio direttivo delle nostre azioni, e contestualmente è gradualmente maturata in noi quella capacità di Giudizio morale che coniuga in sé la capacità di giudicare se qualcosa sia giusto o ingiusto, a partire dalla legge morale e dal sentimento di rispetto che noi ne proviamo, e il sentimento del piacere e del dispiacere, per cui la consonanza tra giustezza dell’azione e il sentimento della legge in noi ci provoca piacere o al contrario dispiacere – da tutto ciò nasce un istinto, “un impulso involontario e irresistibile” che agisce sulle nostre azioni e decisioni non in modo anticipativo, come il Giudizio o il sentimento morale, ma a cose fatte, “tale da procurarci un intimo tormento per le azioni malvagie e un’intima gioia per quelle buone, a seconda del rapporto che l’azione contrae con la legge”. Questo istinto che non è né una facoltà, né un sentimento, è di natura affatto involontaria ed irrazionale. Se la coscienza fosse una facoltà sotto il controllo della volontà non costituirebbe un tribunale e non potrebbe neppure esercitare su di noi una costrizione. Per costituire un tribunale interno, essa deve avere il potere di costringerci, di esaminare e sottoporre a giudizio le nostre azioni indipendentemente dalla nostra volontà2.
In questa involontarietà della coscienza risiede anche una sua notevole differenza dalla capacità di giudizio morale. Infatti, mentre, come abbiamo visto in precedenza, il Giudizio morale si svolge nell’accordo delle facoltà e in tale accordo comprende una forte componente volontaristica, la coscienza morale come tale è assolutamente involontaria. ognuno di noi possiede una facoltà di giudizio speculativa, che dipende però dal nostro arbitrio; ma vi è in noi qualche altra cosa, che ci obbliga a valutare le nostre azioni, che ci mostra la legge e ci costringe a comparire dinanzi al giudice, che ci giudica contro la nostra volontà ed è dunque un autentico giudice3.
In una sezione delle Lezioni di etica appositamente dedicata alla coscienza morale, Kant poi dice che:
2 3
Ivi, p. 78. ibid.
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la coscienza è un istinto, mediante cui condursi secondo leggi morali. essa non è tanto una facoltà, quanto appunto un istinto, e non per giudicare, quanto per regolarsi. Noi possediamo la facoltà di giudicare noi stessi in base alle leggi della moralità; di essa possiamo fare l’uso che meglio ci aggrada. la coscienza possiede invece la forza impulsiva di chiamarci in giudizio, contro la nostra volontà, in vista della conformità o meno alla legge delle nostre azioni. essa è dunque un istinto e non una semplice facoltà di giudicare, un istinto che si traduce in un indirizzo di vita e non in un giudizio4.
Qui è ribadita la distinzione tra coscienza e Giudizio, oltre che il carattere istintuale della stessa. essa si esprime come un giudice, e invero essa per Kant è il giudice del nostro tribunale interiore. Ad azione compiuta essa ci chiama a presentarci dinanzi ad essa imputandoci le nostre responsabilità. la coscienza è un istinto che ci consente di giudicare con validità legale secondo le leggi morali; il verdetto che essa pronuncia è quello di un giudice e come un giudice può soltanto punire o assolvere, ma non ricompensare, così anche la coscienza ci assolve o ci dichiara meritevoli di pena5.
essa giunge a cose fatte, ad azione ormai compiuta a giudicare della nostra azione, ma è pur vero che col reiterarsi di azioni e giudizi su azioni, noi cominciamo a sentire una certa “voce della coscienza” già prima di compiere un azione, nel mentre che avendo già determinato il nostro Giudizio, ci appropinquiamo a compiere l’azione. e infatti Kant sottolinea: Si può distinguere la coscienza prima, dopo e durante l’azione. Prima dell’azione la coscienza è sicuramente ancora capace di dissuadercene; durante l’azione, la coscienza è più forte e dopo lo è nel grado più elevato. Prima dell’azione la coscienza non è ancora abbastanza forte: l’azione non è ancora avvenuta e l’uomo non ha ancora forze sufficienti, perché l’inclinazione non è stata ancora soddisfatta e quindi possiede una potenza adeguata per resistere alla coscienza. Nel corso dell’azione la coscienza è già più forte, perché allora l’inclinazione ottiene soddisfazione e quindi diviene troppo debole per resistere alla coscienza; nel seguito, quindi, questa diviene fortissima6. Ivi, p. 149. Ivi, p. 151. 6 Ivi, p. 154. 4 5
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Quanto poi ad una certa educazione e ad un certo sviluppo della coscienza morale Kant dice che: Molti hanno sostenuto che la coscienza sarebbe opera dell’arte e dell’educazione e che giudicherebbe e assolverebbe in forza dell’abitudine. Se, però, le cose stesserò così, coloro la cui coscienza non avesse subito un tale esercizio e una tale educazione potrebbero liberarsi di ogni rimorso di coscienza, il che però non accade. Senza dubbio l’arte e l’istruzione soltanto possono conferire quelle capacità a cui già per natura possediamo una disposizione; perché la coscienza possa fornire un suo giudizio, dobbiamo avere prima una conoscenza del bene e del male, senonché, se il nostro intelletto è coltivato la nostra coscienza può non esserlo7.
Ciò vuol dire che se di educazione della coscienza morale si può parlare se ne può parlare sempre come formazione di una attitudine già propria della natura umana e non come insegnamento di una nozione. e tale formazione può avvenire solo su una precedente formazione del sentimento del rispetto per la legge morale, e del Giudizio morale, “perché la coscienza possa fornire un suo giudizio, dobbiamo avere prima una conoscenza del bene e del male”. Perciò essa rappresenta un livello ulteriore, che potremmo definire di secondo grado, della educazione morale dell’uomo. 2. il giudizio, come ermeneutica della situazione ed euristica d’azione, quale apertura pragmatica dell’orizzonte pratico Da quanto detto fin qui è possibile parlare del Giudizio nei suoi momenti di Giudizio provvisorio, riflettente e determinante come di una facoltà ermeneutica della situazione (contingente). Già precedentemente avevamo parlato della capacità ermeneutica del Giudizio riflettente, e avevamo notato come ogni interpretazione si trasformasse in breve in un “prospetto d’azione”. Tale capacità ermeneutica infatti risultava propedeutica e strettamente connessa alla capacità prospettica del Giudizio riflettente. Tale capacità prospettica esercitava l’immaginazione produttiva in vista della creazione di un “abbozzo mentale” dell’azione da compiere in quella data situazione, a partire dall’interpretazione fornitale dal lato ermeneutico del Giudizio riflettente. essa perciò si 7
ibid.
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proponeva di prospettare, alla luce di quell’interpretazione, la più adatta tra le azioni possibili in quel determinato frangente. In ciò essa risulta essere un’euristica d’azione, riempie, cioè, di un contenuto materiale il principio morale puramente formale. Come ciò avvenga è stato già detto nei paragrafi sulla capacità ermeneutica del Giudizio riflettente, ed è stato approfondito nel paragrafo sul Giudizio provvisorio. resta da fare qui quella che a prima vista può sembrare solo una specificazione terminologica, ma che tale non è, dato il contenuto concettuale da essa espresso. Parlare infatti del Giudizio morale come ermeneutica della situazione ed euristica d’azione, vuol dire porre al centro la situazione e la sua Mannigfaltigkeit; vuol dire legare l’attività del Giudizio morale alla situazione contingente nella sua “multivarietà”. l’attività fin qui descritta si dà infatti solo in presenza di una situazione reale che ponga al soggetto un dilemma morale o comunque, nel caso dell’educazione del Giudizio, dinanzi ad una situazione fittizia che esprima il problema tratto da una situazione reale tipica. la capacità ermeneutica del Giudizio riflettente morale si dà solo se può esercitarsi su una situazione reale, dalla quale vengono tratti i dati per giungere euristicamente alla determinazione dell’azione da compiere più adatta tra quelle possibili. Il Giudizio come euristica d’azione richiama poi la definizione del Giudizio come apertura pragmatica dell’orizzonte pratico. Infatti è a partire dall’incontro con la situazione che il piano del pratico, proprio dei concetti morali, riceve la sua declinazione pragmatica attraverso la quale esso trova la sua realizzazione, possedendo non più solo il concetto di un oggetto ma anche realizzando gli oggetti posti da quei concetti. Tale declinazione che mette in comunicazione il piano intelligibile con quello sensibile l’in abstracto con l’in concreto è data attraverso il Giudizio che, in quanto Übergang tra legge morale e situazione, costituisce l’apertura pragmatica dell’orizzonte pratico dischiuso formalmente dall’autoposizione della legge morale. e il Giudizio è tale solo se il suo ruolo si configura come realmente attivo, capace cioè di conferire realtà fattuale all’intenzione morale, prospettandole quali mezzi utilizzare entro la situazione data. Il che significa che il Giudizio si costituisce come effettivo Übergang tra legge morale e situazione se e solo se agisce, come fin qui descritto, attraverso una iniziale istanza ermeneutica che collega il sensibile con l’intelligibile e attraverso una successiva istanza prospettica che porta dall’intelligibile al sensibile, compiendo la realizzazione del primo nel secondo a partire dalla riflessione sui dati del secondo alla luce del primo.
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3. Per una Dottrina trascendentale del giudizio morale Preferisco concludere con una citazione, così come ho cominciato, e come – non me ne voglia chi legge – forse ho troppe volte continuato. Con la grande diversità delle menti quanto al modo di considerare i medesimi oggetti e i mutui rapporti, con il contatto reciproco, con l’associazione e la separazione, la natura prepara uno spettacolo mirabile che si presenta nella sua infinita varietà all’osservatore e al pensatore. Per i pensatori possono valere come precetti immutabili le seguenti massime (già citate come guida alla saggezza): 1) Pensare da se stesso; 2) Mettersi col pensiero al posto di ogni altro (nella comunicazione con gli uomini); 3) Pensare sempre in accordo con se stesso. Il primo principio è negativo (nulli addictus jurare in verba magistri) perché prescrive di l i b e r a r s i d a o g n i c o s t r i z i o n e ; il secondo è positivo, ed è il principio del pensiero l i b e r a l e che tiene conto dei concetti degli altri; il terzo è il principio del modo c o e r e n t e di pensare (conseguente). Di ognuno di questi principi, l’antropologia può offrire molti esempi, ma più ancora del loro contrario. la rivoluzione più importante nell’interno dell’uomo è “la sua uscita dallo stato di minorità” di cui è egli stesso responsabile. Mentre fino ad allora erano gli altri che pensavano per lui, ed egli si accontentava di imitarli e di farsi guidare con le dande, ora ha il coraggio di camminare coi propri piedi sul terreno dell’esperienza, nonostante qualche esitazione.8
Per il lettore avvertito da quanto fin qui segnalato questa pagina è eloquente e nel contempo sintetica del cammino di pensiero che abbiamo condotto sin qui alla ricerca del ruolo del Giudizio nell’attività della ragione pratica, a partire proprio da quelle tre massime del Giudizio che qui Kant riprende, e noi con lui, a mo’ di conclusione e di riepilogo. Il Giudizio, il saper giudicare e il ben giudicare altro non sono che espressione matura di quell’uscita dallo stato di minorità della ragione che ciascuno di noi deve compiere. l’uscita dalla minorità della ragione si configura come un dovere morale, come la via d’accesso obbligata per il raggiungimento di una coscienza morale che sia autenticamente I. Kant, antropologia dal punto di vista pragmatico, cit., p. 112; AA vII, pp. 228-229, 23-7. 8
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autonoma. Senza quest’atto graduale di affrancamento dalle dande dell’eteronomia le nostre azioni rischiano di essere quand’anche legali o giuste giammai completamente morali. Senza quella maturazione della capacità di dar contenuto alla forma della legge morale, rischiamo sempre di agire in modo moralmente imbarazzante rispetto alla situazione. la capacità di giudizio, come Giudizio riflettente morale, ci sembra infine incarnare a pieno in ambito morale l’aufklärung, quel procedimento critico, che sta nel connubio di metodo risolvente e metodo componente, che caratterizzò l’anima della mentalità dell’illuminismo e che come sottolinea Cassirer trovò in Kant la sua compiuta realizzazione.9 e tuttavia così come una storia senza problema storico non è una vera storia perché non è in sé contemporanea ma si risolve per essere pura erudizione, così anche qualsiasi ricostruzione o ricognizione storiografica intorno ai concetti di un filosofo finisce per essere pura erudizione o riproposizione sintetica di pensieri che potrebbero leggersi nel loro autore in modo più diffuso e spesso senza i fraintendimenti che inevitabilmente comporta la sintesi. Il problema che ha condotto fin dalla sua origine le riflessioni svolte nelle pagine precedenti è stato quello di comprendere come si potesse effettivamente applicare al mondo reale la teoria morale kantiana, come potesse compiersi quel passaggio dal mondo intelligibile al mondo sensibile, quel ponte sull’abisso che separa il dominio dell’intelletto dal dominio della ragione. Si tratta di un problema incredibilmente contemporaneo perché innerva la vita di tutti i giorni, nelle scelte che ciascuno di noi si trova a dover scegliere di compiere. e certo la nostra ricognizione del pensiero kantiano rimarrebbe un mero atto di erudizione se non si sostanziasse in conclusioni che riportino alla contemporaneità del problema iniziale che ha mosso queste riflessioni. l’aver enucleato dal portato kantiano ulteriorità ermeneutiche in esso celate circa il ruolo del Giudizio nell’ambito pratico rimarrebbe un esercizio di scuola, sarebbe solo una “pseudoriscrittura” decostruttiva del pensiero kantiano, la formulazione di una Critica del giudizio pratico. In effetti abbiamo fin qui condotto quella che potrebbe definirsi la premessa storiografica di una Dottrina trascendentale del giudizio morale. Ma una premessa è tale in quanto prelude a qualcosa di cui essa costituisce il presupposto. e dunque è necessario qui per completare il nostro percorso fornire una Dottrina trascendentale del giudizio morale, anche se di essa sarà possibile solo abbozzare per grandi linee il disegno generale, dare la stesura di un abbozzo che sarà da ampliare in futuro. 9
e. Cassirer, La filosofia dell’illuminismo, tr. it., Padova, 2004, pp. 8-9.
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Dottrina trascendentale del giudizio morale vuole essere una filosofia per l’uomo nel suo quotidiano agire, nel quotidiano svolgimento delle sue faccende. Certo, non un vademecum di comportamento formulato alla buona, quanto piuttosto una metodologia dell’agire umano. Se la filosofia non fa questo essa tradisce la sua propria vocazione, e non è più una amorevole ricerca della sapienza, quanto un civettare intorno a nozioni e concetti. e rimane come un romanzo scritto per altri romanzieri e non per il pubblico dei lettori, o un progetto di un edificio fatto per altri ingegneri, e non perché si realizzi l’edificio progettato. Beninteso, tali ricerche devono pur esistere per l’avanzamento specialistico-scientifico del sapere. e tuttavia esse non devono rimanere come l’unica prerogativa di studiosi e ricercatori. la filosofia deve tornare al suo compito educativo e didascalico. essa deve fornire il metodo per ben condurre la nostra ragione nelle nostre scelte. Per fare ciò essa deve fornirci la coscienza di come ragioniamo quando siamo posti dinanzi ad una scelta, e quali capacità o facoltà entrano in gioco entro questa attività. essa deve insomma condurre una delucidazione della conduzione della nostra ragione. Solo così, venendo a coscienza di come dobbiamo agire quando operiamo una scelta, riusciremo in presenza del caso concreto ad essere coscienti di come operare la nostra scelta. Dottrina trascendentale del giudizio morale, vuole essere, secondo la kantiana definizione di trascendentale, non indagine circa l’oggetto generale del Giudizio ma indagine circa i modi di possibilità e di svolgimento del Giudizio morale in generale. In ciò essa è autentica ricerca trascendentale. e nel contempo però vuole essere dottrina, e non critica; essa vuole non ricercare, ma esporre i risultati di una ricerca come base per una formazione del Giudizio morale. In ciò essa si rivolge primariamente non ai filosofi di professione ma agli uomini in generale. È per loro che il filosofo deve pensare. Per dare gli strumenti concettuali e giudicativi al medico per ben diagnosticare, al giudice per ben sentenziare, all’investigatore per ben investigare e valutare gli elementi di indagine, all’imprenditore per decidere se investire oppure no sulla base di una corretta valutazione dei rischi. Il filosofo deve pensare per dare agli uomini gli strumenti per ben giudicare e ben valutare, perché essi raggiungano la coscienza di come poter fare la cosa giusta, entro i limiti e i margini d’errore dell’umano possibile, in ogni particolare situazione. In ciò, infine, una Dottrina trascendentale del giudizio morale, sarà nient’altro che una propedeutica ad ogni futura etica situazionale. In quanto indagine circa le modalità di possibilità e di sviluppo del Giudizio morale essa si dividerà in una Dottrina degli elementi del giudizio morale, dove saranno analizzati nel complesso
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e singolarmente i vari elementi dal cui articolarsi risulta il Giudizio; in una Dottrina del metodo del giudizio morale, dove il Giudizio sarà indagato nelle sue modalità di sviluppo, e dunque nel suo svolgimento in relazione alla situazione, mediante una individuazione dei momenti fondamentali del suo svolgimento; una Dialettica del giudizio morale, nella quale verranno descritte le dinamiche entro le quali si articolano le varie modalità e i vari momenti del Giudizio precedentemente descritti; parte consistente delle due precedenti, e che perciò non dà luogo ad una trattazione autonoma ma consiste nella trattazione delle altre due precedenti. a) Dottrina degli elementi del giudizio morale giudicare Giudicare ovvero discernere, vagliare, soppesare, interpretare, riflettere e determinare, tra una moltitudine di possibilità d’azione quale sia la più idonea alla situazione nella quale ci troviamo ad agire. Giudicare è l’attività mentale generale dell’individuo umano vivente. È l’attività della mente (Mind, esprit, geist) che l’uomo svolge sempre. Sempre, in ogni momento in cui effettivamente, pensa o agisce l’uomo giudica, ovvero compie azioni mentali di tipo riflessivo-determinante grazie a cui distinguiamo e correliamo un soggetto e un predicato, cioè giudichiamo. Che asserisca o che neghi, che dubiti o esprima convinzione, che si indirizzi ad una scelta oppure a un’altra, l’uomo giudica. Giudicare è in generale l’attività mentale di articolare le capacità umane nella loro interezza, vale a dire quell’attività di articolazione delle capacità dell’uomo che si esprime nell’unità dinamica vivente e organica. Tale articolazione, se espressa, è parola e, se espressione articolata, è discorso, e da ciò asserzione o negazione, etc. Giudicare allora è quell’attività che l’uomo compie ad ogni istante e che esprime l’unità della vita. l’uomo infatti non solo sente, né solo immagina, né solo conosce, né solo pensa, ma compie tutte queste attività nella loro contemporanea articolazione a partire da e verso il suo vivere concreto sentendo, immaginando, conoscendo e pensando sempre in base alla emergenza della situazione entro la quale volta per volta si trova. Questa attività articolata delle varie capacità dell’uomo è il giudicare. Qui noi non introduciamo alcuna distinzione tra anima e corpo, sfera sensibile e sfera spirituale, perché l’uomo è tale solo nella sua unità. oppure se introduciamo tale distinzione, contestualmente
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affermiamo che non si dà uomo che non sia spirito e natura sempre e contemporaneamente, finché sia uomo. Altrimenti non abbiamo se non un corpo insensibile, morto, e neppure possiamo pronunciarci in modo certo su cosa ne sia di ciò che fittiziamente chiamiamo anima. Giudicare allora è l’attività generale dell’io umano vivente autocosciente, ovvero sapentesi come tale, ovvero sapentesi come io, il che vuol dire sapentesi come soggetto e oggetto, soggetto-oggetto o oggetto-soggetto, che nel contempo sente, immagina, conosce, pensa, riflette, agisce. Giudicare dunque è l’intero circolo, sempre aperto, tra conoscere e agire in generale, che costituisce la vita di ognuno di noi. Conoscere e agire che qui noi teniamo distinti ma non separati, essi infatti si danno sempre in rapporto di conseguenza complementare, nel senso che all’uno segue l’altro e viceversa. Dunque, giudicare consiste nell’articolare nella loro unità le capacità che sovrintendono tanto il conoscere in generale, quanto l’agire in generale. Gli elementi che intervengono in questa articolazione del Giudizio, e perciò gli elementi del Giudizio, sono allora quegli stessi elementi che sovrintendono al conoscere e all’agire. essi saranno allora quelli descritti di seguito. Capacità di sentire È quella che comunemente è chiamata sensibilità, e che è da distinguere dalla sensazione di cui al contrario essa è organo percettivo. Quando ad esempio io tocco una pentola rovente e mi scotto, i recettori tattili, che si trovano nella pelle della mia mano vengono stimolati in un determinato modo termico-elettrico: questa è la sensazione. essa è realizzata da me nella mia unità psico-fisica, come sentimento. la mia mano si ustiona, io avverto dolore. Attraverso questa capacità allora siamo in comunicazione con la realtà che ci circonda in quanto corpi. essa ci permette di percepire la situazione nella quale ci troviamo. Tuttavia essa ci mette a disposizione solo i dati sensibili ognuno per sé così come li percepiamo scissi e dispersi in una molteplicità caotica. Nulla di più. Per farcene una visione di insieme, ovvero per farci un’immagine della situazione abbiamo bisogno dell’intervento di un’altra capacità: la capacità di immaginare. la capacità di sentire, allora, in sintesi, è la capacità di percepire il dato sensorio attraverso gli organi di senso e di trasformare gli impulsi nervosi in dati sensibili, sì da riportarlo al cospetto dell’immaginazione che ne produrrà un’immagine complessiva unitaria (anche se certamente tutto questo processo avviene in un sol colpo).
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Capacità di immaginare È la capacità di produrre immagini unitarie complessive presenti, ri-presentative e anticipative-previsionali di una situazione data a partire dai dati sensibili elaborati dalla percezione sulla base del sensorio nervoso. essa si articola secondo due direzioni fondamentali: l’una che va dalla capacità di sentire alla capacità di comprendere in direzione del conoscere, e qui essa, grazie alla capacità di unificare in una sola immagine o abbozzo complessivo il molteplice del dato sensibile, è detta anche capacità di visualizzazione complessiva; l’altra è la direzione che dopo lo svolgimento della attività interpretativa e della relativa riflessione e determinazione d’azione, offre sulla base del dato sensibile precedentemente raffigurato, e a partire dalla presente intenzione d’azione, una immagine anticipativa dell’azione intenzionata; in ciò essa è anche chiamata capacità di visualizzazione anticipativa o previsione. Tale capacità accoglie i molteplici dati sensibili fornitigli dalla capacità di sentire in modo sparso e frammentario e ne formula un’immagine complessiva unitaria. È mediante tale capacità che mi costituisco, secondo l’esempio di prima, l’immagine complessiva di me che in cucina sto toccando la pentola bollente senza presine, e nel fare ciò mi scotto (sento dolore). Come si vede tale capacità condensa in un’immagine sentimentale sia la serie temporale delle azioni e reazioni, sia la serie spaziale dei luoghi e degli oggetti, fornendomene un’immagine complessiva (generica). Immagine complessiva che però in quanto tale per me non ha nessun significato determinato, se ad essa non applico la mia capacità di comprendere e spiegare e poi quella ulteriore di interpretare e più in generale pensare. Capacità di comprendere e spiegare È la capacità che comprende e spiega il portato immaginativo unitario complessivo dell’immaginazione in quanto capacità di visualizzazione complessiva. Tale capacità accoglie, com-prendendola, l’immagine fornita dall’immaginazione, com-prendendo in essa il molteplice del dato sensibile, fornito in una sintesi generica e “patica” dall’immagine complessiva, e poi lo spiega, ovvero lo analizza identificandone tutti i fattori e prendendo coscienza dei legami e delle relazioni che intercorrono tra i fattori costituenti la situazione. Mediante la capacità di sentire ci veniva fornito il molteplice del dato sensibile nella sua caotica frammentarietà disarticolata. Mediante la
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capacità di visualizzazione complessiva ce ne formavamo una immagine complessiva, che condensava sinteticamente in una immagine tutti i dati sensibili provenienti da una data situazione, consegnandoceli in una unità complessiva, come tale però ancora in parte disarticolata, in quanto a tale visione complessiva non corrispondeva una comprensione individuale di ogni oggetto e azione nella loro vicendevole articolazione costituente la data situazione. Tale risultato è ottenuto mediante la capacità di comprensione e spiegazione che com-prende, ovvero prende il complesso dei dati forniti in unità nell’immagine complessiva e li “dispiega” nella loro natura individua, fornendo in tal modo un quadro sintetico e articolato della situazione sul quale è possibile che si applichi la capacità di interpretazione. Capacità di interpretare e pensare Sulla spiegazione della situazione si applica poi la capacità di interpretare che sviluppa, a partire dall’analisi delle relazioni che intercorrono tra i fattori costituenti la situazione, il senso della situazione e ne enuclea richieste e problematiche, ovvero ne analizza la dilemmatica morale e, in quanto capacità di pensare ovvero di produrre concetti, si fa un concetto della situazione. D’altro canto essa, in quanto capacità dei concetti, è anche il luogo del venire in essere, nel pensiero, del concetto della moralità, ovvero il concetto della mia assoluta libertà e dignità.10 Si apre qui una duplicità che richiede una mediazione. Da un lato il concetto della situazione, dall’altro il concetto della moralità. Da un lato la situazione che chiede, relativamente a sé, ovvero a partire dalle condizioni che essa stessa pone, azione; dall’altro la legge morale che chiede azione incondizionatamente libera e autonoma in ogni situazione particolare e però formandosi intenzioni universalmente valide capaci di realizzare la libertà e conservare l’umanità in quanto tale come libera, ovvero formandosi intenzioni che pur agendo nel particolare prescindano nella loro universalità formale dalla particolare materialità contingente della situazione. Si crea perciò uno iato tra materia e forma, situazione e legge, iato che urge di essere colmato, pena 10 Qui lascio non trattato come vengano in essere un concetto della moralità ed una legge morale in me, per la cui spiegazione, in virtù anche della interazione soggettiva con una situazione, penso sia necessaria la formulazione di un’etica della situazione. Si accetti perciò per ora come un fatto il sovvenire in me di un concetto della moralità, a partire dalla considerazione complessiva dell’esposizione kantiana della legge morale.
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la stasi e l’irrisolutezza di qualsiasi attività umana. Su questa duplicità problematica si erge la capacità di riflessione, mediazione e determinazione come capacità riflessiva di mediazione determinante che è poi il Giudizio (strictu senso), nell’intento di risolverla e colmare lo iato in vista della realizzazione di una azione conforme alla legge e rispondente alle esigenze della situazione. Capacità di riflessione-mediazione-determinazione provvisoria Tale è la capacità che si erge sullo iato tra situazione e legge morale. essa a partire da un lato dal concetto determinato della situazione elaborato dal pensiero tenendo conto delle esigenze che la situazione data comporta e dall’altro dall’imperativo di farsi una intenzione d’azione che possa essere universalizzabile11, ovvero una intenzione la cui convinzione sia in accordo con il sistema delle convinzioni possibili 12, svolge, come si è detto, una mediazione riflessiva volta alla determinazione di una intenzione d’azione conforme alla legge e rispondente alle esigenze della situazione. essendo la legge morale formalmente determinata, ma materialmente indeterminata, tale capacità riflessiva, appreso il contenuto di senso determinato della situazione ovvero le esigenze che essa esprime, elaborate dalla capacità di interpretazione, a partire da tale contenuto, si fa l’immagine di una possibile intenzione d’azione rispondente alle esigenze della situazione mediante la capacità di visualizzazione anticipativa dell’immaginazione. Questa stessa capacità riflessiva poi sottopone tale immagine anticipativa, in quanto progetto eventuale di un’azione possibile, alla verifica morale della condizione di universalizzabilità testando se la convinzione proveniente dall’intenzione della sua azione è o no in accordo col sistema di tutte le convinzioni moralmente possibili. Se il risultato di tale test è positivo allora quell’immagine anticipativa in quanto progetto viene ritenuta come determinazione provvisoria d’azione. Se al contrario la massima della nostra intenzione risulta non universalizzabile e perciò Mi riferisco alla trattazione kantiana dell’imperativo categorico. Il riferimento è qui alla trattazione fichtiana della legge morale, cfr. Das System der Sittenlehre nach den Prinzipien der Wissenschaftslehre, in J. G. Fichte Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, hrsg. von reinhard lauth †, Hans Gliwitzky †, Hans Jacob †, erich Fuchs, Peter K. Schneider und Günter zöller, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1962, Band v, p. 146; tr. it. a cura di remo Cantoni, il sistema della dottrina morale, secondo i principi della dottrina della scienza, Firenze, 1957, pp. 177-178. 11 12
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incompatibile all’accordo con un sistema di tutte le convinzioni moralmente possibili, allora quell’immagine anticipativa deve essere rigettata e l’attività riflessiva si volgerà a un’altra tra le infinite possibilità d’azione, la cui intenzione verrà nuovamente sottoposta al processo di mediazione e verifica morale al fine di arrivare ad una determinazione provvisoria d’azione. Determinazione provvisoria, poiché per renderla effettivamente determinazione, vi è bisogno di quella particolare capacità di applicazione che è la volontà. Capacità di volere la determinazione provvisoria rendendola determinazione tout court Una cosa è scegliere riflessivamente una possibilità d’azione come propria intenzione, altra cosa è volere effettivamente questa intenzione come determinante l’azione. Il volere effettivo infatti applica sensibilmente alla realtà quella che nella riflessione è ancora soltanto una intenzione ipotetica o provvisoria. la volontà è insomma quella capacità che indirizza il mio corpo alla realizzazione dell’intenzione effettivamente come azione. In quanto determinazione provvisoria infatti l’intenzione prevista e progettata si trova ancora a livello immaginifico. Pur essendo, in quanto determinazione provvisoria d’azione, quell’intenzione che è moralmente lecito che divenga azione, essa esiste ancora solo come intenzione. essa esiste solo come intenzione immaginata, ovvero come intenzione di cui nel mio pensiero io posseggo il concetto, e nella mia immaginazione l’immagine anticipativa. Si richiede ora che tale concetto anticipativo diventi realtà, ovvero venga realizzato sensibilmente. ed essendo attivo nella realtà sensibile solo mediante il mio corpo, ho bisogno per la sua realizzazione di esso. ora la facoltà che è capace di indirizzare intenzionalmente il mio corpo, ovvero la capacità di intenzionare il corpo, dunque di trasmettere l’intenzione della determinazione provvisoria al corpo che la realizzi effettivamente è la volontà. essa muove intenzionalmente il corpo a realizzare l’azione. Situazione la situazione è anch’essa elemento del giudicare in quanto essa è elemento attivo-passivo al pari dell’uomo. essa infatti agisce sull’uomo chiedendogli d’agire, e ne patisce poi l’azione; al pari l’uomo patisce la richiesta d’azione e agisce l’azione. essa è l’attualmente determinato che
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richiede nuova determinazione a partire dalla sua infinita determinabilità. È il molteplice dell’esperienza sensibile nel quale l’uomo vive, e perciò si trova continuamente ad agire. La Legge morale essa è elemento del Giudizio morale ed anch’essa si trova ad essere attiva e passiva seppure in modalità diversa dall’uomo e dalla situazione. la legge morale si pone come un determinante chiedente determinazione. Infatti è formalmente determinante e materialmente indeterminata ed in ciò richiedente determinazione. In generale come si è detto essa, a partire dal concetto della libertà, chiede all’uomo a partire dall’uomo stesso, che la pone come legge a se stesso, di agire autonomamente, formandosi intenzioni d’azione suscettibili di universalizzabilità della loro massima, e in quanto tale di accordo della loro convinzione con l’intero sistema di tutte le convinzioni moralmente possibili. b) Dottrina del metodo del giudizio morale Se la Dottrina degli elementi del giudizio morale aveva il compito di chiarire quali sono gli elementi che costituiscono il Giudizio interagendo tra di loro nel loro articolarsi, compito di una Dottrina del metodo del giudizio morale sarà quello di chiarire quale sia il modo dello svolgimento del Giudizio, ovvero quale sia il modo nel quale quegli elementi precedentemente specificati interagiscono tra loro. esporremo qui di seguito il metodo del giudizio attraverso due differenti procedimenti espositivi uno sintetico e uno analitico, uno in cui i momenti costituenti il Giudizio saranno esposti in fieri e uno in cui essi verranno scandagliati in stasi. Il processo giudicativo è composto in generale di tre momenti: 1) un primo momento conoscitivo nel quale avviene la ricezione, la comprensione e interpretazione concettuale del dato sensibile della situazione, e ciò avviene, come si è visto, per mezzo della capacità di sentire e di immaginare, e per quella di comprendere e di interpretare; 2) un secondo momento riflessivo nel quale avviene la riflessione, da un lato, sul concetto della situazione esprimente il senso di essa e le esigenze e problematiche che essa pone e, dall’altro, sulla legge morale che viene in essere a partire dal concetto della libertà. Tale riflessione avviene, come si è visto, per mezzo della capacità di riflessione, mediazione e determinazione provvisoria, e per mezzo
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della immaginazione come capacità di visualizzazione anticipativa; 3) un terzo momento deliberativo o determinativo, nel quale avviene la determinazione sensibile effettiva come realizzazione sensibile dell’azione sulla e nella situazione, a partire dall’immagine anticipativa dell’intenzione proposta come determinazione provvisoria dalla capacità di riflessione, mediazione e determinazione e voluta dalla volontà. Ciò avviene per mezzo della volontà che, come si è visto, intenziona il corpo ad una azione determinata secondo l’intenzione prospettata dalla capacità di determinazione provvisoria. la volontà insomma mi determina alla determinazione della intenzione. Io sono sempre posto in una situazione determinata, che però mi si offre come ulteriormente determinabile, mediante la mia azione. Perché io possa determinarmi a determinarla devo però dapprima conoscere la situazione determinata per la quale la mia azione costituisce una determinazione ulteriore, e come tale va ad applicarsi ad un dato preesistente, che per essere manipolato, agito, ovvero ulteriormente determinato, richiede dapprima di essere conosciuto tal quale esso è nel momento iniziale nel quale io mi trovo in esso. ora io mi trovo in una situazione come me stesso, ovvero come uomo vivente. Qui non vi è alcuna preliminareità della sensibilità rispetto al pensare o al voler agire. Tutto ciò si dà contemporaneamente, perché io in quanto uomo sono presente con le mie capacità contemporaneamente, ed esse contemporaneamente interagiscono. “Io mi trovo in una situazione” significa che contemporaneamente 1) sensibilmente vedo questo oggetto, odo quel rumore, sento un sapore, tocco una superficie; 2) immaginativamente, mi formo l’immagine complessiva della situazione entro la quale percepisco le suddette sensazioni, ovvero dello spazio aperto o conchiuso nel quale sono e dell’oggetto (una pentola in cui sta cuocendo del buon ragù, per esempio, di cui odo l’odore, tocco la superficie calda ecc.); 3) razionalmente, mi penso come presente in una stanza dove mi dirigo verso una pentola dove sta cocendo del ragù di cui avverto l’odore, il rumore del ribollire e il calore; questo è il livello della comprensione razionale, ovvero quella in cui il dato sensibile unificato immaginativamente viene compreso ed espresso in un pensiero. Così ho avuto conoscenza della situazione determinata. Su questo dato complessivo fornitomi dall’interazione conoscitiva delle mie capacità sensibili, immaginative e razionali, la mia capacità di riflettere, mediare e determinare compie un movimento di doppia riflessione: 1) per formarsi un’eventuale intenzione d’azione; 2) per verificare se questa intenzione è consona all’azione. Questo procedimento di doppia riflessione e di proposizione dell’intenzione avviene, come abbiamo visto
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precedentemente, mediante l’ausilio dell’immaginazione come capacità di visualizzazione anticipativa. Io mi sono formato l’immagine complessiva di me che mi avvicino ad una pentola che scotta. A partire da questa immagine complessiva mi formo l’immagine anticipativa dell’intenzione che ho di afferrarla a mani nude. A questo punto soggiunge un attimo di stasi giudicativa, o meglio di sospensione del Giudizio. Il Giudizio dopo aver proposto un’intenzione d’azione ed averla immaginativamente visualizzata si ferma e osserva. In questo osservare pensante la sospensione è un momento di provvisorietà mediativo-riflessiva in cui la massima della mia intenzione viene sottoposta a verifica in base alle eventuali conseguenze che essa può provocare. In questo attimo di sospensione, alla memoria sovviene un’azione simile compiuta in passato, e con essa anche la presentificazione memorativa del sentimento di dolore provocato dall’ustione. In tal modo mi rendo conto dell’inadeguatezza della mia massima al caso presente e mi risolvo ad usare delle presine per afferrare la pentola. e così ci siamo determinati all’azione. Per quanto banale possa sembrare l’esempio, esso nella sua quotidianità è sicuramente efficace. Questo è in sintesi il modus operandi del Giudizio in generale. Analogamente vanno le cose in ambito morale dove la cosa risulta complicata ulteriormente dall’introduzione della legge morale entro la modalità fin qui esposta. Analizzeremo qui di seguito in modo puntuale i tre momenti conoscitivo, riflessivo e determinativo dandone un’esposizione per quanto riguarda l’ambito morale. Momento conoscitivo a) ricezione del dato sensibile È il momento iniziale della conoscenza, costituito dal rinvenimento della percezione della situazione nell’immagine complessiva di essa e dalla conseguente analisi comprensiva al fine di determinarne fattori e cause e problematiche inerenti. Qui a partire dalla percezione sensibile abbiamo il rinvenimento del dato intuito attraverso il sensorio corporeo. Tale molteplicità caotica del dato sensibile viene riunita dalla capacità di immaginare in un’immagine complessiva e tale immagine, nella quale il dato sensibile è sì unito ma in una unità ancora confusa e disarticolata, viene com-presa e spiegata in quanto analizzata nella singolarità dei processi che la costituiscono dalla capacità comprensiva di spiegazione. A questo punto come sappiamo l’immagine spiegata della situazione viene interpretata per
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enuclearne le problematiche e le esigenze, in tal modo il pensiero può farsi un concetto della situazione. Qui sovviene quello iato tra concetto della situazione ed esigenze della situazione da un lato e legge morale ed esigenze della ragione dall’altro. Momento riflessivo a) Diagnostica morale, Previsione, riflessione prima È il momento in cui sullo iato tra posizione della legge morale ed espressione dell’esigenza d’azione della situazione si libra la capacità di riflessione. essa valuta la situazione e le sue esigenze alla luce della legge morale, in ciò essa costituisce una diagnostica morale, essa infatti procura una diagnosi della situazione dal punto di vista morale, vale a dire che rivaluta riflessivamente il portato del momento conoscitivo nel concetto della situazione alla luce del concetto sovvenuto nel pensiero di una legge morale. In ciò la riflessione, mentre viene a coscienza dello iato tra legge morale e situazione, li media anche perché valuta la situazione a partire dalla legge morale e si interroga circa la soluzione della problematica pragmatica alla luce dell’imperativo morale. ora, essendo la legge determinante-determinabile-richiedente determinazione, ovvero essendo la legge formalmente determinante e materialmente indeterminata e in ciò determinabile e richiedente determinazione; ed essendo la situazione determinata-determinabile in attesa di determinazione, ovvero determinata materialmente e determinabile ulteriormente ed in ciò attendente determinazione; la riflessione mediante l’immaginazione tenta di colmare lo iato prospettando un’azione che risponda alle esigenze della situazione realizzando materialmente la legge morale. Prospettata l’immagine anticipativa di una siffatta azione, il Giudizio subisce dinanzi a questa immagine un arresto, una sospensione. b) Sospensione del giudizio la sospensione del Giudizio è un momento di arresto provvisorio della attività di Giudizio in vista della verifica dell’intenzione d’azione prospettata dall’immaginazione in un’immagine anticipativa. In verità ciò che è sospesa non è l’intera attività giudicativa ma solo la sua capacità deliberativa. Il Giudizio ha infatti per ora espresso una determinazione d’azione in prima approssimazione che non può neanche essere definita provvisoria, poiché essa ancora deve essere
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sottoposta alla verifica delle condizioni della sua moralità. Perciò per non incorrere nell’errore di affrettare la deliberazione e decidersi per una azione immorale il Giudizio sospende qualsiasi deliberazione, e medita sulla presentificazione immaginativa dell’intenzione proposta compiendo una seconda riflessione. c) riflessione seconda e determinazione provvisoria, Prognosi morale Questa seconda riflessione sottopone la massima della mia intenzione, presentificata nell’immagine anticipativa fornita dall’immmaginazione, alla verifica delle condizioni della legge morale. Tale riflessione infatti verifica se la massima della mia intenzione sia suscettibile di universalizzazione e se di conseguenza la convinzione che da tale intenzione proviene sia in accordo con il sistema di tutte le convinzioni possibili. Ciò avviene mediante un procedimento riflessivo diverso dal primo; lì si tentava di fornire materia alla legge, ovvero di determinarla entro la situazione concreta; tuttavia l’incontro con le esigenze della situazione insidia entro la formulazione di un’intenzione d’azione il rischio di un’eteronomia che renderebbe l’azione prospettata, e seppur legalmente corretta, tuttavia immorale. Così qui il passaggio è compiuto dalla formalità della legge verso la materialità presunta dell’intenzione prospettata. Il presente processo riflessivo, infatti, tenta di sottoporre l’intenzione precedentemente formata alle condizioni formali della legge per verificare se l’intenzione è o meno conforme a tali condizioni. Per fare ciò la riflessione ricorre nuovamente all’ausilio dell’immaginazione e si forma l’immagine, a partire dall’intenzione prospettata, di un mondo che agisse secondo quella intenzione; se ne vien fuori una immagine di caos incontrollato – conseguenza di una massima in sé contraddittoria, ovvero una massima che se universalizzata si annulla in quanto tale perché si contraddice –, allora la massima è immorale, difatti sarebbe impossibile che un uomo che ne esprimesse pubblicamente la convinzione si trovasse d’accordo con tutto il sistema delle convinzioni possibili. Se la massima invece regge al confronto, allora essa è morale. viene espressa così come intenzione determinata, in quanto determinazione provvisoria d’azione. Momento determinativo Alla determinazione provvisoria che si muove ancora a livello immaginativo-riflessivo deve sopraggiungere la determinazione reale, che è dovuta all’azione della volontà che effettivamente vuole quella
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determinazione. essa vuole effettivamente, significa che essa vuole come effetto, cioè realmente, quell’azione prospettata nell’immagine anticipativa. essa allora intenziona il corpo al compimento di quell’azione, realizzandola effettivamente. Si conclude così l’esposizione in breve, di una Dottrina trascendentale del giudizio morale. essa delucidando gli elementi e lo svolgersi del Giudizio ha voluto esporre il metodo corretto di conduzione del Giudizio morale, per quanto la sua esposizione possa risultare di tipo dogmatico. Dopotutto essa vuole essere dottrina e non critica. Nella sua brevità essa resta comunque un accenno di una più dettagliata e amplia Dottrina trascendentale del giudizio morale, da compiersi solo dopo il chiarimento della morale alla luce della tematica della situazione, ovvero solo dopo la stesura di una etica situazionale, che trovi nel giudizio il suo strumento primario di attuazione e che in quanto etica della vita sappia esprimere nella trascendentalità formale dei suoi asserti la sua continua provvisorietà come determinabilità infinitamente suscettibile di determinazione.
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inDiCe Dei noMi
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COLLANA INCIPIT Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta” dell'Università degli Studi di Napoli "Federico II"
1. Rosalia Peluso Logica dell’altro. Heidegger e Platone (2008) 2. Ulderico Iannicelli Le Ricerche Logiche di Martin Heidegger Logica e verità tra fenomenologia e filosofia trascendentale (2009) 3. Christian Vassallo La dimensione estetica nel pensiero di Plotino. Proposte per una nuova lettura dei trattati Sul bello e Sul bello intelligibile (2009) 4. Fabio Seller Scientia astrorum La fondazione epistemologica dell'astrologia in Pietro D'Abano (2009) 5. Salvatore Principe Kant: La capacità di giudicare. Il ruolo del Giudizio nell’organon della ragione pratica 6. Riccardo De Biase I saperi della vita. Biologia, analogia e sapere storico in Kant, Goethe e W. v. Humboldt
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