La doppia porta dei sogni. Scritti di cinema 1977-2001 9791280491039, 1280491035

Da Whitman a Griffith, incontrando sulla strada Allen Ginsberg; da Shakespeare alla sophisticated comedy, passando per K

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La doppia porta dei sogni. Scritti di cinema 1977-2001
 9791280491039, 1280491035

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INDICE

Note d'introduzione di Alessandra Calanchi e Paola Cristalli

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Le mani sulla culla Griffith e Whitman

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Gaio e tragico! Breve e interminabile! Le frontiere della commedia americana

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Andare al cinema negli anni Trenta (con un omaggio ai Dead End Kids)

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A piedi da Wielopole Note sul cinema yiddish

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Sul set, ad ali mozze Cinecittà e tentazioni americane

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Una merenda sull'erba e altri equivoci Questioni di calligrafia

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Gli occhi degli angeli

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Quando senti il sibilo di una bomba ... Il cinema inglese degli anni di guerra

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Hollywood in armi (al di qua e al di là dell'Atlantico)

173

Vincitori e vinti Il neorealismo italiano in America

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Come vorrei potermi fidare La voce over nel cinema classico americano

207

Hitchcock e la commedia

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Era proprio questo Lettere da Hollywood

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Viaggi verso la foce

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Una lastra invisibile Bassani e il cinema

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Quel fascio di raggi luminosi in movimento Lezioni calviniane

295

La signora contessa è in camera sua Teatralità del cinema italiano del dopoguerra

313

In cucina con Paolo Stoppa

329

Vedere i mostri Alcune soglie della science fiction

339

"Semo tutti cristiani"? Ebrei visibili e invisibili nel cinema italiano

359

La doppia porta dei sogni

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Note d'introduzione

Da Gorizia a Los Angeles

Cominciamo dall'inizio. Guido Fink nasce a Gorizia nel 1935. Ha tre anni quando suo padre perde il lavoro in seguito alle leggi razziali e la famiglia si trasferisce a Ferrara, dove vivono gli zii materni. Nella tragica notte del '43 che verrà poi rievocata dal racconto di Giorgio Bassani e dal film di Florestano Vancini il padre, insieme a tutti gli altri maschi della famiglia tranne Guido, viene arrestato e deportato ad Auschwitz, dove morirà. Nel 1958 Fink si laurea a Bologna in Lingua e letteratura inglese. Già dai primi anni Cinquanta scrive recensioni cinematografiche per giornali locali, poi nazionali; appena laureato, avvia una collaborazione con "Cinema Nuovo" che durerà quindici anni. Nel 1974 è tra i fondatori della rivista "Cinema e Cinemà', della quale sarà direttore (la testata si modifica in "Cinema & Cinemà') dal 1982 al 1987. Nei decenni successivi collabora a numerose riviste, con maggior regolarità a "Paragone/Letteraturà', "Bianco e Nero", "La Rivista dei Libri", "Studi americani" e, in qualità di critico teatrale, al "Mondo". Dal 1971 al 1988 tiene la cattedra di Letteratura angloamericana all'Università di Bologna; nel 1989 si trasferisce all'Università di Firenze. Trascorre lunghi periodi di studio e di docenza a New York (Columbia University), Los Angeles (University of California), Princeton, Berkeley e Northampton (Smith Colle-

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ge). Americanista tra i più autorevoli sul piano nazionale e internazionale, dal 1999 al 2003 viene chiamato all'incarico di direttore dell'Istituto Italiano di Cultura di Los Angeles. Guido Fink se n'è andato nel 2019. In un intervento del 2003 aveva ricordato come, appena laureato, il suo professore di inglese lo avesse spedito negli Stati Uniti, "nella speranza del tutto vana che smettessi una buona volta di occuparmi di cinemà'. In un'altra occasione, aveva parlato del suo "amore irriducibile per il cinema americano, che ho tentato di curare con iniezioni di neorealismo". È stato uno dei più profondi e raffinati studiosi della presenza e tradizione ebraica nel cinema americano e italiano. Nel 2020 la moglie Daniela Sani Fink, traduttrice, ha donato alla Cineteca di Bologna la collezione dei suoi scritti cinematografici. Dalla ricerca all'interno di quel corpus imponente nasce questa raccolta.

Presenze ingombranti

"Whitman è una presenza ingombrante nella letteratura americanà'. Così scrive Guido Fink in una delle prime pagine del saggio che abbiamo deciso di usare come porta d'accesso a questo volume, un saggio dedicato a Griffoh - un'altra presenza ingombrante e controversa - che ci spinge in medias res senza filtri, senza sale d'attesa; che ci butta nella mischia come era solito fare appunto Fink - mai ingombrante, lui, sempre in penombra, avvolto dalla modestia luminosa del vero Maestro seppur travestito da prestigiatore. Saggi come questi possono destabilizzarci. Possiamo sentire che ci manca una preparazione, un libretto di istruzioni, un decodificatore. Ma non c'è tempo. Siamo già dentro la ruota delle meraviglie, a leggere di Allen Ginsberg che si aggira nei supermercati, a spiare la giovane madre che culla il suo bambino - salvo poi trasformarsi, in Whitman, nell'inquietante vecchia che Griflìth ci fa invece solo intravedere sullo sfondo - , a districarci tra immagini, versi e storie che ci impongono di trovare una direzione; e invece no, brancoliamo apparentemente privi

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d'orientamento, perché chi dovrebbe prenderci per mano, mostrarci un oggetto alla volta, al contrario ci spalanca una dopo l'altra porte (e mille finestre) senza lasciarci il tempo di respirare. Ecco: così erano anche le lezioni di Guido all'università. Quasi trecento studenti entusiasti e avidi di conoscenza, accalcati a prendere appunti che, una volta a casa, si sarebbero rivelati indecifrabili. Silenzio assoluto. Solo la voce mite del professore rimbalzava da un angolo all'altro dell'immensa aula ad anfiteatro che ci accoglieva come profughi in cerca di una meta, mentre i suoi occhi di capitano - o di "naufrago dell'universo", avrebbe detto Hawthorne - fissavano un punto lontano dell'orizzonte sospeso sopra le nostre teste. E uscire, poi, dalle sue lezioni era come uscire da una palestra per la mente: eravamo stanchi e sudati, ma col cervello pronto a tutto. Magari avevamo capito la metà, forse il dieci per cento di quello che ci aveva detto; non perché parlasse in modo difficile, al contrario, ma per la qualità multimediale e iperbolica delle sue lezioni, per la quantità di citazioni, nomi, riferimenti che riportavano. ad altri contesti, situazioni, libri ... ma ormai eravamo incantati, ormai eravamo presi nella rete, e mentre sfogliavamo libri e divoravamo film, appena ci appariva un barlume, alla prima tenue epifania, ci .vedevamo già tutti critici o professori. Imparavamo, affamati, a memorizzare, a fare collegamenti, a intrecciare la tragedia e l'umorismo, e a vedere oltre, sempre oltre. E a lui andava la nostra eterna gratitudine anche solo se riuscivamo a superare l'esame.

Fondali di cartapesta Questo libro propone alcuni dei numerosissimi saggi di cinema scritti da Fink, che vanno in tante direzioni - cinema e letteratura, la screwball e la sophisticated comedy, il film yiddish e gli ebrei nel cinema italiano, il New Deal, il melodramma, il cinema 'ferrarese' di Antonioni e di Bassani, l'onirismo, la fantascienza - creando una continua rete

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di intrecci e di rimandi intere intratestuali, tanto più strabilianti considerando che al tempo in cui questi testi sono stati scritti non esisteva Internet, e i film si vedevano solo al cinema (e qualche volta in tv). Eppure, eppure ... Leggere, oggi, queste pagine scritte anche molti anni fa è un'esperienza sorprendente: il tempo sembra non essere trascorso affatto. Certe cose, magari, le avevamo dimenticate; ma le stupefacenti anticipazioni, la lucidità della visione sociale, la raffinatezza culturale degli incroci proposti rimangono come testimonianze di un modo unico e radicale di fare critica, ricerca e anche didattica; di un metodo basato su interrelazioni estreme, su una interdisciplinarietà cosmopolita e finanche olistica, e su un totale disinteresse (non parlerei nemmeno di insofferenza) per i confini tra i diversi insegnamenti. Americanista ma anche anglista, critico e storico di cinema ma anche di teatro, studioso internazionale ma anche strettamente legato a una comunità intellettuale che comprendeva i compianti Franco La Polla e Gianni Celati, Guido Fink lascia un segno indelebile e un' eredità che non può e non deve perdersi. Citando Terry Eagleton e il suo saggio The Idea of Culture, Fink nel corso di un'intervista rilasciata nel 2003 ricordava la radice latina della parola "culturà' - coltivare, venerare, proteggere - , che "si pone dialetticamente tra l'idea di mutamento e l'idea di identità, fra ciò che è dato originariamente e ciò che si creà'. È questa la chiave di lettura dei suoi scritti, di cinema come di letteratura come di teatro. Fink ci invita a guardare la cultura come un bene da proteggere, al di là dei confini e dei generi. A vivere l'identità come qualcosa da creare, non da distruggere. E a individuare nella "lingua franca di Hollywood" (il cinema) un terreno su cui possa verificarsi "il melting pot delle etnie". E l'Europa? Come Fink scrive in un altro dei saggi qui raccolti, "costruire e distruggere i fondali di cartapesta di quest'Europa immaginaria significa dunque raccontare, ancora una volta, la storia del distacco, di un viaggio, di un'integrazione difficile". Mentre si consuma, oggi, la tragedia dell'Ucraina che .scuote l'Europa e il

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mondo, sembra salire emblematica, da queste pagine, la riflessione su uno dei personaggi più misteriosi del cinema yiddish, il non meglio identificato Messaggero del fìlm Dybuk, "che non viene solo a piedi da Wielopole, e non porta solo vino". a.e.

Non ho mai conosciuto Guido Fink. Non sono stata sua allieva, e ripensandoci non sono state numerose nemmeno le occasioni in cui ho potuto assistere a una sua presentazione o conferenza o intervento a un convegno. Ma per me e per tanti altri che nei tardi anni Ottanta si scoprivano mossi da una doppia passione (amavamo il cinema, volevamo scrivere), Fink come nessuno rappresentava un aureo punto di riferimento, cui guardare s'intende da reverente e un po' abbagliata distanza. Perché Fink era certo un professore carismatico e uno studioso sopraffino, ma più di tutto e più di tutti (valgano, a rapida riprova, anche solo gli incipit di tutti i saggi che qui abbiamo raccolto), lui scriveva come uno scrittore. Con understatement e principesca (lubitschiana?) naturalezza, Fink faceva letteratura, e nutrimento della sua letteratura erano altra letteratura e, per quel che più ci stava a cuore, il cinema. Il cinema che amavamo (in quegli anni, soprattutto americano), dopo che lui ce lo aveva narrato, non sarebbe più stato lo stesso. Così lo accompagnava un'aura speciale, e nei suoi scritti ci sembrava rifulgere quella "bellezza inaccessibile" che lo stesso Fink evoca parlando di Visconti, in un saggio che comparve su "Cinema & Cinemà' nel 1986 e che è tra i tanti incolpevoli caduti di questa nostra selezione. La nostra selezione, appunto. In una lunga vita di lavoro Guido Fink ha pubblicato un solo 'vero' libro di cinema, Non solo Woody Allen. La tradizione ebraica nel cinema americano, uscito presso Marsilio nel 2001, che a mio avviso è semplicemente uno dei libri

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di cinema più belli che siano mai stati scritti, senza distinzione d' epoca o di lingua. E certamente qualcuno conserva sui propri scaffali (diversamente, trovarle sarà una caccia al tesoro) le piccole monografie su Lubitsch e Wyler, opere che recano chiara la traccia e il limite dell'epoca in cui furono scritte, quando l'accesso agli archivi era spesso un'impresa e di restauro si cominciava appena a parlare; e tuttavia apriamole di nuovo, e ancora saremo conquistati dall' esattezza e dalla rapidità, dalla molteplicità e dalla coerenza (lezioni americane) della sua visione. Per il resto, la produzione saggistica che Fink ha consegnato a tante testate e occasioni diverse si è rivelata, nella ricerca che abbiamo condotto, ancora più poderosa di quanto potessimo aspettarci. Quindi, per rubare parole finkiane (dall'introduzione a Non solo Woody Allen), "non potendo ovviamente includere tutto e non sentendoci autorizzate ad escludere a priori nullà', abbiamo finito per procedere con serena arbitrarietà, privilegiando gli scritti che più ci sono sembrati rappresentativi, o che più ci erano ~ari (nel mio caso, certo i tre saggi dell'epoca in cui era direttore di "Cinema & Cinemà'), o al contrario quelli che hanno costituito anche per noi una sorpresa, o quelli, penso soprattutto alla storia della commedia americana o della voce aver nel cinema classico (un inedito in italiano), davanti ai quali vien solo da commentare: ecco, tutto quello che c'era da dire è stato detto. For the records, sono nove saggi sul cinema americano, sei sul cinema italiano, uno sul cinema britannico, uno su Hitchcock, due espressamente dedicati al tema ebraico (ma l'attenzione alla cultura ebraica percorre questo intero libro come una sorta di "talmudica ironià', di vena che carsicamente emerge un po' dovunque, facendosi più commossa col passare degli anni), e due che si avventurano oltre ogni frontiera. I saggi coprono gli anni che vanno dalla fine dei Settanta all'inizio del nuovo secolo, con esclusione dunque dell'attività giovanile di critico quotidianista e soprattutto della lunga collaborazione a "Cinema nuovo": abbiamo voluto partire dal momento in cui ci è sembrato che la voce di Fink trovasse la sua vera misura, il suo pieno

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respiro, quello del saggio ampio (a metà, potremmo dire, tra short story e romanzo breve). Va da sé che la produzione precedente è comunque ricca e vivacissima, materia possibile per un altro volume. rordine che abbiamo dato all'indice non segue la cronologia delle stesure, ma vuole comporre un'ideale storia del cinema 'secondo Fink', che si apre con Griffith e si conclude con considerazioni, alle soglie del Duemila, sulla 'vocazione' del cinema ("doppia porta dei sogni") e sul suo possibile futuro. Naturalmente, è un ordine solo presunto, fatto per essere subito sparigliato: l'imitato e inimitabile stile Fink (o l'arte di usare una formidabile cultura con agilissima eleganza), fatto di continui rimandi e rilanci, di digressioni vertiginose, di tagliente ingannevole leggerezza, di lunghi paragrafi disseminati di sentieri che si biforcano e di porte che si aprono insospettate, ci condurrà in ardimentose arrampicate da Shakespeare a Hawks passando per Karen Blixen, da Antoniani a Celati a Grossman, da Northrop Frye a Hitchcock passando per Maria Corti, da Camerini a Joyce a Kubrick, da Poe a Lacan a Mankiewicz, da Paolo Stoppa a Woody Allen. E tuttavia saremo molto lontani dai fragorosi frullatori della postmodernità, verso i quali sospetto che Fink, 'assolutamente moderno', nutrisse un'istintiva (o meditata) diffidenza. Quella che ogni volta si dispiega ai nostri occhi è la carta segreta d'un territorio in cui ogni deviazione ha la sua precisa ragion d'essere, ogni eco la sua concreta fonte, e tutto era sempre stato lì (era proprio questo!) solo che noi non avevamo saputo vederlo. Ci sarà da perdersi e forse ritrovarsi. Ci sarà da divertirsi. Ci sarà da imparare, naturalmente. Ci sarà tanto da rimpiangere. E a libro ormai chiuso ci sarà, uso anch'io una parola già scelta dalla mia compagna di curatela, quella lieve beata gratitudine con cui sempre si esce dalle pagine di uno scrittore amato, o (ci auguriamo) gioiosamente appena scoperto. p. cris.

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Intolerance (1916)

LE MANI SULLA CULLA Griffith e Whitman

"Out of the cradle, endlessly rocking ..." Che cosa esce da questa emblematica culla, una volta che passa dai versi di Walt Whitman alle immagini di David Wark Griffìth, che la usa come leitmotiv del suo film più ambizioso e delirante, Intolerance (1916)? Chi è la giovane madre che per ventisei volte (nella copia disponibile al Museum of Modem Art di New York) si china su quella culla, la fa dondolare, accenna a un misterioso sorriso? Si tratta della "Eternal Mother" come afferma l'attrice Lillian Gish, scelta da Griffìth per interpretare questo ruolo apparentemente privo di sviluppi, riferendosi del resto alla didascalia che per la prima volta dovrebbe introdurre la sua immagine sullo schermo ("A golden thread binds the four stories - a fairy girl with sunlit hair - her hand on the cradle of humanity - eternally rocking") 1 ? Oppure è la "fierce old mother incessantly moaning", la "savage old mother incessantly crying", l'antica madre selvaggia che urla incessante e che viene citata, alla fine del canto desolato dell'uccello rimasto solo, nella poesia di Whitman? (Nel penultimo verso, chi dondola la culla non è affatto una fanciulla dai capelli dorati, ma "some old crone I swathed in sweet garments", immagine che più si adatta alle tre figure femminili, anziane e avvolte di paramenti vagamente preraffaelliti, che Griffìth presenta sullo sfondo, dietro la Madre, intente a chiacchierare fra loro). Su questa immagine ricorrente, la cui funzione è chiaramente diversa rispetto ai tableaux e ai facsimile

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di cui abbonda la precedente opera di Griffoh (per esempio, in The Birth ofa Nation o Nascita di una nazione, 1915, Lincoln che firma l'ordine di chiamata alle armi, la resa di Appomattox, il primo Parlamento nero), è stato scritto moltissimo: per Vachel Lindsay era il "geroglifico chiave" in un film che di geroglifici non era certo avaro, e di questa intuizione fa tesoro la densa, interessante analisi di Miriam Hansen 2 • Dal canto nostro, potremmo chiederci se l'invisibile bambino nella culla abbia un padre, e se questo padre sia sempre il poeta o sia divenuto il regista: o se invece non si tratti di un orfano, come quello di Myricae, la cui "zana dondola pian piano" mentre fiocca la neve, anche se nel caso di Pascoli, che come sappiamo ben conosceva e apprezzava Whitman pur trovandolo "informe", accanto alla culla non c'è una giovane madre vedova ma una vecchia, la quale nella sua ninna-nanna cerca di convincere il bimbo che intorno a quel lettino "c'è rose e fiori, tutto un bel giardino" 3 • E non certo, come in Griffìth, una serie di scene drammatiche desunte dal Libro dell'Intolleranza, la caduta di Babilonia, la Passione di Cristo, la Strage degli Ugonotti, la violenta repressione della classe operaia nell'America del primo Novecento: in breve, una specie di storia dell'umanità all'insegna della sofferenza e dell'Eterno Ritorno, o in attesa, perché no, della teoria delle catastrofi. Whitman è una presenza ingombrante, nella cultura americana. Moltissimi sono i poeti successivi che l'hanno avvertita in modo esplicito: da Hart Crane che vede la sua ombra a Cape Hatteras, a Wallace Stevens che lo incontra a Key West, con barba di fiamma e appoggiato a un bastone rovente; mentre Allen Ginsberg lo troverà in un supermark~t californiano, invecchiato e solitario, mentre palpa le carni nel banco refrigerato della macelleria, tiene d'occhio gli inservienti più carini, e a tutti rivolge domande: "Chi ha ucciso le costolette d'agnello? Quanto costano le banane? Sei tu forse il mio Angelo?" 4 • Gli uomini di cinema saranno più rispettosi: nella sua autobiografia, Lillian Gish affer-

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LE MANI SULLA CUL.LA

ma che "il signor Griffìth'' adorava Whitman, e "poteva citare a memoria pagine e pagine delle sue poesie" 5• Non c'è traccia peraltro, in nessuna delle copie da me visionate, della didascalia che, secondo l'attrice, doveva leggersi all'inizio del film, e che con tutta probabilità originariamente vi appariva: la Gish è di solito molto accurata, e il film, che durava circa otto ore nella prima versione licenziata dall'autore, doveva subire, com'è noto, tagli e rimaneggiamenti a non finire prima di venir ridotto a un metraggio più 'normale', eccezionale comunque per quei tempi. Quel che si legge in concomitanza con la prima apparizione della Madre con Bambino, illuminata da un raggio di sole mentre le altre tre figure femminili si distinguono a malapena sullo sfondo buio, è un sottotitolo che contiene soltanto il primo verso della poesia, "Out o( the cradle endlessly rocking"; mentre più tardi, per introdurre e commentare una delle sue apparizioni successive, il verso si modifica lievemente e ne vengono aggiunti altri due: "Endlessly rocks the cradle / Uniter of here and hereafter,/ Chanter of joys and sorrows", ovvero "Incessante dondola la culla/ che unisce il qui e il dopo/ cantore di pene e di gioie". Si tratta, senza dubbio, di una citazione in senso benjaminiano, creazione di una zona di silenzio e di iato, prima e dopo la sua comparsa, nel testo ricevente; ma che tende al tempo stesso a unificare le sparse fila di questo testo, almeno a livello metaforico. Sul piano letterale non ci sono certo problemi ermeneutici: anzi, se vogliamo, quest'immagine allegorica è fin troppo letterale, come del resto sosteneva S.M. Ejzenstejn in un saggio che pure rimane fondamentale, e non solo nell'ambito della fortuna critica del film: Griffith intendeva tradurre sullo schermo dei versi di Whitman ... ma non in una autentica struttura, non nell'armonico ripresentarsi di un'espressione raggiunta attraverso il montaggio, bensì in un'immagine isolata, col risultato che la culla non poteva assolutamente venire portata su un piano astratto, o suggerire l'eterno rinascere

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dell'umanità in epoche diverse: rimaneva, ed era inevitabile, una culla normale, una culla come tutte le altre, suscitando così risatine, sorpresa, o fastidio nello spettatore6. Sempre su un piano immediato, è pure evidente che nel film abbondino "joys and sorrows", e più i secondi delle prime; quanto poi allo "here and hereafter", si tratta di un' endiadi che esprime efficacemente la visione sincronica che unisce Babilonia alla Palestina, alla Francia medioevale e all'America del tempo. Di preciso però non si hanno molte testimonianze sulle ragioni di questa scelta, e delle lievi modifiche apportate al testo whitmaniano, se non queste poche righe, riportate da Paul O'Dell: A quanto pare, una dozzina o una quindicina d'anni prima, Griffìth stava passeggiando con Wilfred Lucas, ai tempi in, cui erano insieme in tournée, quando Lucas vide una donna che dondolava una culla, e ricordò a Griffith i versi di Whitman in Leaves ofGrass: "Out of the cradle endlessly rocking" e poi "Endlessly rocks the cradle / Uniter of here and hereafter" 7 •

In questo aneddoto, che risale evidentemente all'epoca in cui David Wark Griflìth faceva del teatro con il nome di David 'Belasco' Griflìth, e che O'Dell dichiara di aver ricavato da un manoscritto non meglio specificato, c'è dunque la radice della erronea citazione poi riportata nelle didascalie del film: non esiste, anzitutto, un verso che contenga le parole "Endlessly rocks the cradle", mentre "Uniter of here and hereafter" e "Chanter of pains and joys" (non "joys and sorrows") si trovano al verso 20 e non sono affatto riferiti alla culla di cui all'incipit, bensì all'io della poesia. (La possibilità che Griffìth si basasse sulla redazione precedente a quella de:6nitiva del 1881 non sembra probabile, fra l'altro perché quella versione, apparsa nel 1860 nella terza edizione di Leaves of Grass, presentava un incipit lievemente diverso, "Out of the rocked cradle") 8 • Anche se nessuno

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potrebbe affermare che Griflìth facesse parte di quegli americani che, a dirla con D.H. Lawrence, "non erano degni del loro Whitman", e "lo sorbivano come un cocktail, per divertimento" 9, bisogna comunque concludere che la citazione nasceva come prestito tutto sommato abbastanza casuale, tipico della tendenza del cinema dell'epoca a nobilitarsi con frasi poetiche e solenni prese qua e là; e non solo del cinema dell'epoca, se pensiamo al modo in cui altri versi whitmaniani sarebbero stati estrapolati dal contesto e virati in senso banalmente sentimentale in quel classico woman's film che s'intitola Now, Voyager (in italiano Perdutamente tua, di Irving Rapper, 1941) e che è peraltro una delle vette indiscusse del genere; o ai casi più recenti, ma forse ancora più discutibili, dell'uso piuttosto kitsch che ne hanno fatto registi come Peter Weir in Dead Poets' Society (L'attimo fuggente, 1989) o Wim Wenders in Bis am Ende der Welt (Fino alla fine del mondo, 1991). Uomo di molte ma forse approssimative letture, Griflìth certo non era un filologo, né poteva prevedere le querelle critiche che a proposito di questa poesia notissima avrebbero opposto Perry Miller a Richard Chase, il primo sostenitore di un'interpretazione 'positivà (ricostruzione del momento in cui il poeta bambino acquista coscienza della sua missione), l'altro più dubbioso, che vi avverte invece un senso in_eluttabile di sgomento e di morte 10 • Probabilmente, a Griflìth la poesia piaceva perché, come avrebbe detto Cowley11 , era legata all'amore di Whitman per il melodramma italiano, così "operatic with an ouverture, arias recitatives and a finale" (un discorso in chiave brooksiana sull'immaginazione melodrammatica in Griflìth e nel cinema anni Dieci e Venti sarebbe senz'altro proficuo); ma forse ne aveva letto soltanto l'inizio, e dato che conosceva il verso 20 avrà conosciuto anche il 6, che già sembra anticipare il cinema con quel "mystic play of shadows / twining and twisting as if they were alive". (Piacerebbe anche pensare che conoscesse il lungo segmento centrale, il lamento dell'uccello privato della sua compagna, ché colombe e altri "feathered guests" vengono spesso usati come simboli nel suo cinema, come più tardi in quello di Stroheim; e che vi avesse ritròvato

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qualcosa di un poeta a lui certamente più familiare, quello di The Raven, visto che l'uccello viene apostrofato come "demon or bird" e dice almeno un paio di volte "nevermore") 12 • Tutto questo, comunque, non oltrepassa il piano della curiosità, probabilmente oziosa: eppure è innegabile che, magari in modo confuso, Out of the Cradle suscitasse nell'autore di Birth ofa Nation la stessa impressione di totalità e di ampiezza d'orizzonti che di lì a cinque o sei anni avrebbe suscitato proprio in D.H. Lawrence, quando chiudeva un suo articolo su "Tue Nation" con queste parole: Out of the Cradle Endlessy Rocking Ave, America!1 3 Come Whitman, avv1cmato in By Blue Ontano's Shore da un fantasma "gigantesco e superbo", che lo incita, invero senza doversi troppo sforzare per convincerlo, a cantare il poema dell'America e le doglie del parto della democrazia, Griffoh intendeva certamente parlare di tutto nel suo film: e non solo dell'America e del suo Manifest Destiny, anche se fra le quattro storie d'intolleranza un lieto fine, con tanto di salvataggio all'ultimo minuto, viene riservato soltanto alla vicenda americana e contemporanea, quella intitolata "Tue Mother and the Law". Giustamente Miriam Hansen, parlando della genesi del film, ricorda una famosa frase di Ralph Waldo Emerson, tipica dell'ossessione imperialistica che caratterizzava l'interesse ottocentesco e americano per la Storia, e della tendenza a legare tale interesse al modus operandi dell'apparato psichico individuale: Tutte le ricerche sull'antichità, tutta la curiosità intorno alle Piramidi, agli scavi archeologici, a Stonehenge, ai cerchi di pietra dell'Ohio, al Messico, a Memphis, rispondono al desiderio di sbarazzarsi di questo selvaggio, assurdo, incomprensibile Là e Allora, e di mettere al suo posto il Qui e Ora. Significa bandire il Non Io e sostituirlo con l'Io. Significa abolire la differenza e restaurare l'unità14 •

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LE MANI SULLA CULLA

È dubbio, peraltro, che Griffìth intendesse realizzare questi scopi per mezzo della parola, e sia pure attraverso la parola di un poeta che amava: almeno se teniamo presenti certe sue dichiarazioni apparse su "The Editor" l'anno prima dell'uscita di Intolerance, una sorta di manifesto profetico per un onnivoro cinema del futuro: Verrà un giorno, e fra meno di dieci anni, in cui i bambini delle scuole impareranno tutto, ma proprio tutto, grazie al fìlm. Certamente non dovranno più leggere libri di storia[ ... ]. Per esempio, ammettiamo che un ragazzo voglia sapere qualcosa su un episodio della vita di Napoleone: basterà che si sieda di fronte a uno schermo apposito, in una stanza scientificamente preparata, e che prema un bottone: vedrà così veramente quel che è accaduto. Nessuna opinione, nessun giudizio. Sarà come essere presenti al farsi della storia 15 •

Non a caso del resto, esaminando l'opera griffìthiana successiva a Intolerance, ci troveremo di fronte a un vero e proprio rovesciamento del rapporto fra parola e immagine, magari all'interno dello stesso fìlm: a esempio, nel primo quarto d'ora di quel fìlm straordinario che è Orphans of the Storm (Le due orfanelle, 1923) occorre ancora spiegare, mediante lunghe didascalie e cartelli, i vari antefatti della vicenda d'appendice, e si ha l'impressione di trovarsi ancora di fronte a certi primitivi adattamenti letterari e teatrali, quando poche scene 'animate', poniamo di Uncle Tom's Cabin (fuga di Eliza, morte di Eva), venivano mostrate a chi presumibilmente già conosceva la 'tramà; ma ben presto è l'immagine sola a portare avanti l'azione, mentre la didascalia viene ridotta a un lusso, a un commento narrativamente superfluo, come dimostra il fatto che, nella maggior parte dei casi, i verbi, s'intende nell'edizione originale, assumono forma non finita, participiale (es. "Danton pronouncing his greatest speech'', nella scena del tribunale rivoluzionario). Nella sua lettura di Intolerance, è ancora la Hansen a collegare la caduta

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di Babilonia a una figura "possente proprio per la sua assenza: l'immagine della Torre di Babele" e ai molteplici riferimenti alla crisi e alla deperibilità della scrittura, come a esempio nella significativa didascalia che rimanda alle fonti utilizzate, i così detti cilindri di Ciro e Nabonidus: Questi cilindri descrivono il più grande tradimento della storia, per cui una civiltà antichissima è stata distrutta e una lingua scritta universale, quella cuneiforme, è divenuta un'accozzaglia di segni illeggibili sulla faccia della terra.

Dopo il tramonto della scrittura cuneiforme, sarà lecito ipotizzare un' eclisse della stessa galassia Gutenberg, a vantaggio di un linguaggio ancora più universale? Griffith, non c'è dubbio, ne era addirittura convinto; e può essere interessante ricordare che anche nel campo avverso, quello della letteratura, c'era qualcuno che condivideva la sua insofferenza nei confronti delle pastoie del linguaggio verbale, della scrittura, forse addirittura della cultura tout court-. penso all'ultima fase dell'opera di Mark Twain, quando esaltava !"'alfabeto fonografico" o la "stenografia fonicà', o il linguaggio dei segni, così rapido nei suoi passaggi, nei suoi veri e propri 'montaggi' (ci sono brani della seconda versione di The Mysterious Stranger, quella più largamente usata per la pubblicazione avvenuta postuma nel 1916, lo stesso anno di Intolerance, che ricorrono a una tecnica perfettamente 'cinematograficà per il cambiamento di scene e di fondali nel compendio di storia dell'umanità fornito da Satana; e che di tanto in tanto fanno pensare ai momenti più vibrati e predicatori del cinema di Griffith) 16 • Basterà comunque, per convincersi delle vere convinzioni e delle utopiche speranze del regista, così fiducioso nelle potenzialità di un medium cui pure si era accostato con riluttanza e sospetto, ricorrere un'altra volta a una testimonianza di Lillian Gish:

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A me, lntolerance ricorda le parole di Mr. Griffith: "Siamo andati al di là di Babele, al di là delle parole. Abbiamo scoperto una lingua universale, che può rendere gli uomini fratelli, e porre per sempre fine alle guerre. Non lo dimentichi, Miss Lillian! Se ne ricordi ogni volta che sta di fronte a una macchina da presa!" 17 •

Può sembrare ironico che proprio questo generoso pacifismo, affidato a una supposta universalità del linguaggio filmico rispetto a quello verbale, sia stata una delle cause determinanti del fallimento commerciale del film, apparso al momento sbagliato, l'entrata in guerra del paese (la stessa sorte toccava sempre nel 1916 a Civilization, un film di Thomas H. Ince che rivela per taluni aspetti lo stesso spirito, le stesse ambizioni me_ssianiche, e la stessa tendenza a contrapporre un sogno americano di universale fratellanza ai conflitti e agli orrori del Vecchio Mondo). Se visti in questa chiave, l'immagine della madre e della culla, e il relativo prestito whitmaniano, acquistano comunque un significato allegorico alquanto ovvio - amore materno contrapposto a lotte intestine, intolleranza, tradimenti - che sarebbe dovuto risultare perfettamente trasparente anche al pubblico cinematografico del tempo. Forse i versi, o la loro eco imprecisa, nascono dall'esigenza di assolutizzare l'immagine di quella madre e di quella culla, di renderle per così dire eterne ed emblematiche, svincolandole dalla 'letteralità' che tanto dispiaceva ad Ejzenstejn e che del resto non è facile a evitarsi, senza particolari accorgimenti, in un linguaggio immediatamente mimetico e referenziale come quello del film? Forse, al contrario, è proprio quell'immagine con la sua manifesta irrealtà, fuori dal tempo o da uno spazio precisi, che deve illustrare le parole di Whitman, far loro assumere il senso voluto? C'è anche la possibilità, s'intende, che quella immagine, più che 'traduzione', più che citazione, più che allegoria, sia, più semplicemente, una sorta di copula, un modo di collegare le quattro vicende parallele del film e - almeno nell'ultima parte - senza bisogno di ricorrere alla parola.

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Le parole sono pietre, ricordava uno scritto di Carlo Levi. Certamente lo sono in lntolerancè, dove spesso si stagliano sullo sfondo dei famosi 'cilindri' babilonesi o di facsimili delle Tavole della Legge. Ma sono pietre già nelle prime realizzazioni di Griffoh alla Biograph, le brevi pellicole in uno o due rulli basate su elementari situazioni di pericolo e di suspense, a partire da The Adventures of Dollie (1908). La meccanica della last minute rescue, del salvataggio all'ultimo minuto, prevede una costante accelerazione dei ritmi, un drammatico accorciamento delle sequenze parallele e contrapposte (i 'cattivi', banditi o zingari o comunque 'diversi', che minacciano una famigliola-modello, una casa, una ragazza in pericolo; i 'buoni', poliziotti o comunque salvatori, che accorrono per ristabilire l'ordine); e le didascalie, quando sono necessarie, di fatto rallentano l'azione, impongono tempi di lettura che vanno rispettati: tanto che, ove possibile, la comunicazione fra i personaggi - a esempio, la richiesta di soccorso da parte dell'eroina minacciata - viene sottintesa grazie a particolari accorgimenti che ne rendono comprensibile il tenore senza bisogno di riprodurla parola per parola: mediante il telefono ( The Lonely Villa, 1909) o il telegrafo (The Lonedale Operator, 1909; A Girl and Her Trust, 1911). Nell'ultima parte di lntolerance, si alternano in modo sempre più accelerato le ultime fasi della caduta di Babilonia e le drammatiche vicende del Ragazzo condannato a morte per un delitto che non ha commesso (a loro volta suddivise, proprio come le prime esperienze cinematografiche dell'autore, in una rapida serie di immagini girate nel braccio della morte, con l'intervento del sacerdote e i preparativi dell'esecuzione, e nella serie parallela dell'auto su cui viaggiano la moglie del Ragazzo e l'avvocato con la grazia firmata dal governatore dopo la confessione della vera colpevole). All'interno di questo epilogo sempre più convulso, gli ultimi interventi della madre che dondola la culla, una sorta di interpunzione o di frattura/sutura, sono anch'essi sensibilmente più brevi del consueto, a volte non più di un flash, e prescindono

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da ogni didascalia: le parole di Whitman non sono più necessarie, hanno esaurito il loro compito. È chiaro, a questo punto, che non si può parlare di vera e propria traduzione, anche perché, diceva Cleanth Brooks, "le comunicazioni della poesia sono così ricche e così dense di delicate sfumature che il poema viene danneggiato e deformato se cerchiamo di comunicarle con strumenti meno sottili del poema stesso" 18 • Proprio questa sorta di copula visiva che unisce e divide può farci ricordare, d'altronde, che Out of the Cradle è stato definito, e dallo stesso critico, "il canto supremo della separatezzà' e "la massima espressione dell'identità'' fra il poeta e il mondo 19 ; e che, nonostante tutte le intrinseche differenze, è comune ai due autori l'esigenza nevrotica e onnicomprensiva di abbracciare il mondo intero e di rapportarlo al qui e ora dell'espressione poetica o narrativa; di partire dai suoi lutti e dalle sue lacerazioni - dalla Differenza, come aveva detto Emerson - e di ricomporre i'brandelli del Not-Me in una superiore unità. Tanto che la mis-lettura da parte di Griffìth di Out ofthe Cradle, o di qualche suo verso citato imperfettamente a memoria, potrebbe addirittura sembrarci una riscrittura 'forte' nel senso bloomiano; o una sua radicale e revisionistica riduzione a "favola e vecchia canzone", in nome di quel diritto a "rovinare le sacre verità'' che Harold Bloom riconosce a ogni poeta vero, riprendendo, e rovesciando, un'espressione di Andrew Marvell20 • Strumento essenziale e vera chiave di volta risulta in questo senso il montaggio, che Grifnth secondo alcuni storici (non senza contestazioni e opinioni contrarie, che qui non interessano) avrebbe addirittura inventato, o comunque elevato a principio strutturale della narrazione filmica; e che senza dubbio si avverte nella smisurata fame di racconto, o di racconti plurimi, che anima Intolerance. Non dissimile, a ben vedere, è la struttura del verso di Whitman: quel verso che costringe il lettore a trattenere il fiato, e non solo per la sua lunghezza abnorme, ma perché ci troviamo di fronte a elen-

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chi di cose, immagini, corpi, pezzi anatomici, o, come in Out ofthe Cradle, a infinite ripetizioni di frasi secondarie sempre nell'attesa, per lo più vana o almeno prolungata oltre ogni limite, di una proposizione principale che valga a reggere il tutto: From the memories of the bird that chanted to me, From your memories sad brother, from the fìtful risings and fallings I heard, From under that yellow half-moon late-risen and swollen as if with tears, From those beginning notes of yearning and love there in the mist, From the thousand responses of my heart never to cease, From the myriad thence-aroused words, From the word stronger and more delicious than any [... ] Throwing myself on the sand, confronting the waves, I, chanter of pain and joys, uniter of here and hereafter, Taking all hints to use them, but swiftly leaping beyond them, A reminiscence sing2 1•

Più tardi, molti anni dopo la realizzazione di Intolerance, il montaggio conoscerà una sorta di eclisse: esaurita la fase della scoperta e della rivendicazione delle specifiche forme espressive del linguaggio cinematografico, verrà visto da un Bazin o da un Pasolini come violenza arbitraria e come morte del racconto. In questa fase aurorale, invece, e anche per merito di Griflìth, diveniva agli occhi di Èjzenstejn vera e propria concezione del mondo, massimo sviluppo della capacità costruttiva e mitopoietica dell'uomo, e punto d'arrivo di un processo che interessava non solo il cinema, ma tutte le altre arti. Pur facendo un'eccezione, come si è visto, proprio per l'immagine "troppo letterale" della madre e della culla - che sfuggiva al tempo, allo spazio, al Busso narrativo - e pur ravvisando nel montaggio alternato di Griffìth una visione non ancora dialettica

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del mondo, che "corre in due linee parallele di poveri e ricchi verso un'ipotetica riconciliazione", .Èjzenstejn sottolineava in più occasioni l'importanza seminale di Intolerance e di tutto il cinema griffithiano, a cui dichiarava di dovere moltissimo; e ravvisava modelli e precedenti dei suoi procedimenti narrativi nel montaggio inconsapevolmente praticato da Dickens, da Puskin, da Tolstoj; né mancava, in questa serie di ideali precursori del cinema, il Whitman della Song ofthe Broad Axe, dove l'ascia era un emblema, un"'Ascia on l'A maiuscolà', un'immagine che accoglieva in sé "l'immagine della giovane democrazia americanà': Come si comporta Whitman? Come un perfetto montatore. Egli scinde il piano generale dell'ascia-oggetto in una molteplicità di 'frammenti di montaggio' di ciò che può fare l'ascia, di ciò che si può fare con l'ascia: ne nasce un'interminabile enumerazione di singole possibilità accostate in modo complesso e tali da generare e richiamare in vita un mare d'associazioni che si infilano, una dopo l'altra, sul potente ritmo d'incarnazione di un'idea22 •

Al di là dell'incontro casuale fra Out of the Cradle e Intolerance, questo Whitman riletto da .Èjzenstejn acquista un colore e un sapore tipicamente modernisti, s'intreccia alle immagini di Griffith - pure in buona parte ispirate a posizioni tradizionali e ottocentesche - in una sorta di visione totalizzante e profetica dell'arte del futuro. Nel suo The Art ofthe Moving Pictures, Vachel Lindsay scriveva che lo Stato Mondiale era ancora lontano, ma che guardando dentro lo Specchio dello Schermo alcuni, come Griffith, osavano guardare oltre, "al tempo in cui le fiumane traboccanti degli uomini sarebbero divenute sacre le une agli occhi delle altre, nei film e nei fatti": e si ripensa alla processione di figure umane, e all'intreccio esaltante ed erotizzante degli sguardi, in tanta poesia di Whitman, a esempio in Crossing Brooklyn Ferry. D'altro canto, Hugo Miinsterberg, pur elogiando la capacità del

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cinema di far percepire simultaneamente ciò che accade in luoghi diversi ("Avvenimenti lontanissimi l'uno dall'altro, tanto che sarebbe impossibile essere fisicamente presenti a essi nello stesso istante, si fondono nel nostro campo di visione nella stessa maniera in cui vengono intrecciati dalla nostra coscienzà'), osservava che tali associazioni di idee non venivano percepite da noi spettatori "come creazione nostra, ma come qualcosa a cui dobbiamo sottostare" 23 • Anche Miinsterberg scriveva in quel cruciale anno 1916 in cui apparivano Intolerance, Civilization, e The Mysterious Stranger: l'anno in cui moriva, oltre a Henry James, un viaggiatore nel tempo e nello spazio come Jack London; e in cui Edward Arlington Robinson esprimeva lo smarrimento e la perdita di ogni senso di direzione in The Man Against the Sky. Forse era anche il momento - ben rappresentato dalla sorte di Intolerance - in cui il sogno di fare a pezzi il mondo per poi riscattarlo in un'utopica visione palingenetica raggiungeva il suo culmine e conosceva la sua sconfitta. Perché il montaggio è anche assenza: dopo averlo praticato senza suscitare particolari reazioni nei meccanismi a suspense di The Lone/,y Villa o di The Lonedale Operator, Griffith ne aveva fornito una versione più audace e immaginosa in Enoch Arden (1911), il suo primo film a due rulli e il primo in cui orgogliosamente si dichiarasse una matrice letteraria (il poemetto omonimo di Lord Alfred Tennyson, allora certo più popolare di Whitman): e può essere curioso che si trattasse in effetti di un remake, e che Griffith avesse già raccontato la stessa storia in After Many Years (1908). Lo scandalo di Enoch Arden (scandalo relativo, non certo paragonabile a quello futum di Intolerance) nasceva dal fatto che Griffith vi mescolava le visioni del protagonista, naufragato su un'isola deserta, e quelle della moglie Annie, solitaria e desolata nella sua casetta, che attendeva anni e anni prima di convincersi della sua morte e di risposarsi con il devoto Philip; e ai dirigenti della Biograph, timorosi che il

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pubblico non avrebbe capito come si collegassero quelle immagini lontane, quelle vere e proprie 'soggettive mentali' (proprio come, qualche anno prima, avevano reagito ai suoi primi piani sostenendo che il pubblico pagava per vedere gli attori interi, non a pezzi), Griffìth a quanto pare rispondeva, con parole che senza dubbio sarebbero piaciute a Ejzenstejn, che "anche Dickens scriveva così" 24 . Più rivoluzionario di quanto potesse sembrare, il montaggio di Enoch Arden non cercava solo, vanamente, di avvicinare gli sposi divisi da chilometri e chilometri, e di riportare il passato felice, al di là di un qui e ora sconsolato, alla promessa di un dubbio hereafter, ma sottolineava anche - quando Enoch invecchiato tornava, e poteva solo contemplare la moglie con la sua nuova famigliola attraverso una finestra - che la visione diretta poteva rivelarsi in realtà più dolorosa e frustrante della visione ipotetica, del sogno: "Things seen" scriveva Tennyson "are mightier than things heard" 25 , e la scoperta della nuova vita della moglie, tanto più crudele delle parole che poco prima gliel'avevano descritta a opera di un'anziana donna del villaggio, valeva anzitutto come conferma di un'esclusione, forse come vero e proprio campanello d'allarme per quel nuovo linguaggio delle immagini che pur sembrava promettere mistici incontri al di là del tempo e dello spazio. E forse varrebbe la pena - se il discorso non si fosse già disperso per mille rivoli - di indagare quanto venga anteposta, nel puritano e sessuofobico cinema di Griffith, l'assenza dei corpi alla presenza fisica; o quanto la sessualità venga in.effetti punita e rimossa, a esempio nei pericoli che continuamente minacciano l'eroina, la trepida fanciulla stile Lillian Gish, letteralmente schiacciata, a esempio nel mirabile e inquietante Broken Blossoms ( Giglio infranto, 1919), da due amori egualmente impossibili, il Padre e il Cinese, e 'messa a morte' con lo stesso sadismo che animava gli scrittori preferiti del regista, Poe e Dickens. Non ci saranno componenti analoghe nella ostentazione apparentemente opposta del proprio corpo da parte di Whitman, che d'altro canto non esita a farlo a pezzi, indugiando sul "vaporare del suo fiato", la sua

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"respirazione e inspirazione", il pulsare del suo cuore, il passaggio dell'aria e del sangue nei suoi polmoni, la stessa "profumata erbà' che osservava e celebrava sul suo petto? Forse, non a caso, nella culla che da lui Griffoh aveva preso a prestito, non si riusciva mai a intravedere il bambino: forse era già stato ucciso tante volte, nelle ripetizioni differenti e sempre crudeli del Libro dell'Intolleranza; forse la Gish, Madre dolcemente impazzita, o Madre-Morte come le tre parche ciarliere sullo sfondo e come là "old crone" avvolta in "sweet garments" della poesia, si chinava su una culla vuota. Anche un sudario, osservava un lettore di Whitman, a proposito di quegli "sweet garments", può essere dolce 26 • Eppure, diceva Éjzenstejn, il montaggio è come Dioniso: un dio fatto a pezzi, in un atto religioso e tribale, come strumento di rinascita e di riscatto 27 ; e forse, a modo loro, Whitman e Griffoh già lo sapevano o comunque lo speravano, traducendo il canto sconsolato di un uccellino rimasto solo o le pagine grondanti sangue della storia dell'umanità in un'immagine generale di perdita e di lutto da cui, con un atto di mostruoso e titanico egoismo, avrebbero visto derivare, in compenso, le molle ispiratrici del loro magnum opus. Era dunque questo il montaggio, la trasformazione dell'assenza e della scomparsa della vita reale nella vita fantasmatica della pagina o dello schermo? Per anni e anni il cinema americano avrebbe ignorato persino il termine, chiamando montage le rapide sequenze collegate di azioni successive, battaglie, incontri sportivi, treni sfreccianti su rotaie moltiplicate e intersecate, e continuando per il resto a parlare di editing, parola che rimandava all'atto crudo e meccanico di tagliare e incollare pezzi di pellicola; chi avesse tentato ardite operazioni in senso modernista - esempi lo stesso Griffìth, o Stroheim - sarebbe stato emarginato da un'industria affezionata a narrazioni più piane e prudenti; anzi, a dirla con il linguaggio delle didascalie griffìthiane, sarebbe stato intolerated away. Resta questo grande sogno utopico di liberazione e di riscatto, diffuso in modi e

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linguaggi diversi in tutta la cultura americana del tempo, e presente in Intolerance come triplice tentativo di riappropriazione e di superamento: dell'immagine nei confronti della parola, del qui e ora nei confronti del passato, dell'America nei confronti del Vecchio Mondo: una gigantesca sfida che non poteva, alla fin fine, non rientrare e non riassorbirsi nel tableau da cui aveva preso le mosse, quella culla che poteva anche essere una bara, e che comunque, nella sua staticità fuori dal tempo e fuori dal racconto, era la negazione di tutte le tensioni dinamiche e febbrili che avevano animato il film. Del resto anche in Whitman, con l'affannosa ricerca della Parola definitiva, la Parola superiore a tutte le altre, quella che avrebbe finalmente pacificato la proliferazione incessante dei versi ("O give me the clew! it lurks in the night here somewhere [... ]") 28 , era già successo qualcosa di simile.

1994

Note

1 "Un filo dorato lega le quattro storie - una ragazza dai capelli risplendenti di sole - la sua mano sulla culla dell'umanità- che dondola in eterno". Cfr. Lillian Gish (con Ann Pinchot), lhe Movies, Mr. Griffith and Me, Prentice Hall, New Jersey 1969. Le citazioni da Out ofthe Cradle provengono da Walt Whitman, Leaves ofGrass, New American Library, New York 1960. 2 Cfr. Miriam Hansen, Babel and

Baby/on. Spectatorship in American Silent Film, Harvard University Press,

Cambridge, Mass. 1991. 3 Orfano (1890) in Giovanni Pascoli, Poesie, a cura di Gianfranco Contini, Mondadori, Milano 1969. 4 Le citazioni da Allen Ginsbetg vengono dajukebox all'idrogeno, traduzione e cura di Fernanda Pivano, Guancia, Milano 1992. 5 Lillian Gish, op. cit. 6 Sergej M. Éjzenstejn, Film Form, a cura di Jay Leyda, Dobson, London 1951 (ed. it. in Forma e tecnica

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del film e lezioni di regia, a cura di Paolo Gobetti, Einaudi, Torino 1964). 7 Paul O'Dell, Griffùh and the Rise ofHollywood, Castle Books, New York 1970. 8 Sulle differenze fra A Word Out ofthe Sea (prima versione di Out ofthe Cradle) e la stesura definitiva, si vedano Roy H. Pearce, Whitman justified (1961), e Roger Asselinau, Style. From Mysticism to Art (1962), entrambi in Walt Whitman. A CriticalAnthology, a cura di Francis Murphy, Penguin, London 1969.

9 David H. Lawrence, Whitman (1921), in Walt Whitman. A Critica! Anthology, cit. 1O Richard Chase, "Out ofthe Cradle" as a Romance (1962), in Walt Whitman. A Critica! Anthology, cit. 11 Malcolm Cowley, lntroduction to "Leaves of Grass" (1953), in Walt Whitman. A CriticalAnthology, cit. 12 A vari racconti di Poe (e leggende sulla vita dell'autore) Griffoh si era ispirato per Ihe Avenging Conscience (1914), uno dei suoi film più ricchi di suggestioni oniriche. Per il fascino che Poe esercitava su Whitman, cfr. Richard Chase, op. cit. 13 David H. Lawrence, op. cit. Può essere interessante ricordare che nel suo famoso, e pionieristico, Studies in Classic American Literature (1921, ed. it. Classici americani, a cura di Attilio Bertolucci, Bompiani, Milano 1966), lo stesso Lawrence si rivolge al poeta rimproverandogli di aver

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voluto "abbracciare tutto", in "quelle Uste di cose messe a bollire in un gran salsiccione": "Oh Walter, Walter, cosa ne hai fatto del tuo io? Perché mi ha l'aria di essere scolato giù per tutto l'universo". E osserva anche che è un peccato che non abbia potuto conoscere Charlie Chaplin, "avrebbe potuto scrivere poesie, inni, canti della Cinematernità''. 14 Cfr. Miriam Hansen, op. cit. 15 David W. Griffith, Some Prophecies. Film and Iheatre, Screenwriting, Education (1915), in Focus on D. W. Griffith, a cura di Henry M. Geduld, Prentice Hall, New Jersey 1971.

16 Per le curiose somiglianze fra Ihe Mysterious Stranger, Intolerance e Civilization, cfr., di chi scrive, Mark Twain: in fondo al pozzo, in "Paragone/ Letteratura", n. 402, 1983. 17 Lillian Gish, op. cit. 18 La frase di Cleanth Brooks è in Ihe Well- Wrought Urn (194 7); cfr. Marcello Pagnini, Semiosi. Teoria ed ermeneutica del testo letterario, Il Mulino, Bologna 1988.

19 Il critico è Lione! Trilling. Cfr. Walt Whitman. A Critica! Anthology, cit. 20 Harold Bloom, Ruin the Sacred

Truths. Poetry and Belieffrom the Bible to the Present, New York 1987 (ed. it. Rovinare le sacre verità. Poesia efide dalla Bibbia a oggi, traduzione di Claude Béguin, Garzanti, Milano 1992). 21 "Dai ricordi dell'uccello che cantava per me / Dal ricordo di te, malinconico fratello, dal canto che a intervalli udivo

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crescere e svanire I Da sotto quella mezzaluna gialla, sorta tardi e gonfia come il pianto / Da quelle prime note di desiderio e amore nella nebbia/ Dalle mille risposte del mio cuore che mai cesseranno I Dalle miriadi di parole di là sorte I Dalla parola più forte e delicata d'ogni altra [...] Gettandomi sulla sabbia, di faccia alle onde / Io, cantore di pene e di gioie, che unisco il qui e il dopo / Raccogliendo ogni accenno per usarlo, ma sveltamente saltando oltre / Canto un ricordo". Dalla culla che dondola incessante, versi 8-22, in Foglie d'erba, a cura di Biancamaria Tedeschini Lalli, traduzione di Ariodante Marianni, Rizzoli, Milano 1988.

27 Sergej M. Éjzenstejn, Teoria generale

del montaggio, cit. 28 "Oh, dammi la chiave del mistero / si nasconde qui da qualche parte nella notte". Walt Whitman, Dalla culla che dondola incessante, verso 158, in Foglie

d'erba, cit.

22 Sergej M. Éjzenstejn, Teoria generale del montaggio, a cura di Pietro Montani, Marsilio, Venezia 1985 (per l'analisi del montaggio nel Whitman di Song ofthe

Broad-Axe). 23 Vachel Lindsay, 7he Art of the Moving Pictures, McMillan, New York (1915, ed. it. L'arte del film, Marsilio, Venezia 2008, ndr); Hugo Miinsterberg, 7he Photoplay: a Psychological Study (1916, ed. it. Film: il cinema muto nel 1916, traduzione di

Carlo Rosso, Pratiche, Parma 1980).

24 Cfr. Mrs D.W Griffith (Linda Arvidson), When the Movies Wére Young, Dover, New York 1969. 25 EnochArden, v. 763, in 7he Poems of Tennyson, a cura di Christopher Ricks, Longman, London 1969. 26 Lo afferma Richard Chase, op. cit.

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Vogliamo vivere! (1942)

GAIO E TRAGICO! BREVE E INTERMINABILE! Le frontiere della commedia americana

Fra le mille definizioni che si sono date della commedia, la più perfida - ma anche, forse, la più esatta - è quella data dalla scrittrice Angela Carter nel suo romanzo Figlie sagge: la commedia è "la tragedia che capita agli altri". La grande stagione della screwball, la commedia cinematografica americana felicemente nonsensical fiorita soprattutto negli anni Trenta, si lega per molti aspetti, a differenza di altri filoni peraltro confinanti come la più svaporata e mondana commedia sophisticated, o quella decisamente romantic se non addirittura dramatic, all'eredità del cinema comico muto ivi compresi capitomboli e torte in faccia 1 • E si basa appunto in gran parte sul piacere - forse non proprio sadico, ma non sempre partecipe o solidale - che lo spettatore prova di fronte alle disavventure e alle continue umiliazioni del personaggio, non compensato se non in ultima istanza da un tardivo e opinabile 'lieto fine'. I primi esempi che vengono alla mente potrebbero essere i protagonisti di Bringing Up Baby (Susanna!, Howard Hawks, 1938), Bluebeard's Eighth Wife (L'ottava moglie di Barbablù, Ernst Lubitsch, 1938) e Lady Eve (Lady Eva, Preston Sturges, 1941): ovvero l'infelice paleontologo Cary Grant, il miliardario pluridivorziato Gary Cooper, e il timido collezionista di rettili Henry Fonda, rispettivamente perseguitati da una scombinata ragazza dell'alta società (Katharine Hepburn), da un'aristocratica senza una lira in tasca (Claudette Colbert) e da un'avventuriera

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(Barbara Stanwyck), che in un modo o nell'altro (mai in modi ortodossi, comunque) li costringono a una resa incondizionata. Il fatto che le vittime siano spesso, e non sempre, di sesso maschile, non basta comunque ad assicurare autentiche vittorie alla parte per così dire avversa: negli ultimi tempi, la critica femminista non ha fatto molta fatica, in effetti, a dimostrare quanto apparenti siano in effetti quella supremazia e quei trionfi. E del resto, in molti casi, come per esempio nell'inarrivabile The Awful Truth (L'orribile verità, Leo McCarey, 1937), un marito (Cary Grant) e una moglie (Irene Dunne) che all'inizio decidono di separarsi e alla fine - pochi secondi prima che il divorzio diventi effettivo - abbattono la porta che divide le loro stanze e come abbondantemente previsto si riappacificano, dividono equamente fra loro il tempo precedentemente concesso per i litigi, i dispetti, e i feroci scherzi reciproci tesi a impedire 1rispettivi tentativi di trovare altri partner: prima è lui che manda all'aria il fidanzamento della moglie con un imbambolato giovanotto del West munito fra l'altro di una terribile madre, poi è lei che finge di essere una inesistente sorella di lui (una sorella, ovviamente, semi-alcolizzata e di facili costumi) per far naufragare nell'imbarazzo e nello scandalo le imminenti nozze del marito con una ragazza dell'alta società. La maggior parte dei film che qui ci interessano si basa dunque su una serie di conflitti legati per lo più al tema della coppia: ex coniugi separati destinati a riconciliarsi, o comunque a non poter fare a meno l'una dell'altro (modello Twentieth Century o Ventesimo secolo, Howard Hawks) o una coppia sbagliata che viene opportunamente sostituita da quella giusta (modello It Happened One Night o Accadde una notte, Frank Capra). Questi due film risalgono entrambi al 1934, anno in cui nasce appunto il genere secondo taluni 'sistem~atori' come il duo Duane Byrge-Robert Milton Miller, per i quali il filone comprenderebbe solo 57 film, non uno di più non uno di meno, e si esaurirebbe nel 19422, mentre non sarebbe difficile sostenere che, con gli opportuni aggiornamenti, il modello funziona ancora in film recenti

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GAIO E TRAGICO 1 BREVE E INTERMINABiL.E!

come When Harry Met Sally ... (Harry, ti presento Sally ... , Rob Reiner, 1989), se non addirittura in banali e fortunati ennesimi sfruttamenti di vecchie formule collaudate come Pretty Woman (Garry Marshall, 1990) e il suo seguito-fotocopia The Runaway Bride (Se scappi ti sposo, stesso cast e stesso regista, 1999). Fra l'altro, una delle più interessanti analisi della commedia screwball in chiave (moderatamente) femminista, quella di Kathleen Rowe, si basa sulla lettura di un film del 1987, Moonstruck (Stregata dalla luna, di Norman Jewison), che mescola appunto là commedia all'altro genere per eccellenza femminile, il melodramma: Alcune studiose considerano la commedia un genere femminile in senso tradizionale: un genere "antico, tribale, teso a celebrare i legami familiari come il matrimonio e ad annullare nel lieto fine tutti i conflitti": così, per esempio, Linda Jenkins. Ma Lisa Merrill si chiede: se la tragedia è associata a esperienze specificamente maschili, non si potrebbe dire che la commedia appartiene alle donne, come suggerisce il titolo dello studio shakespeariano di Linda Bamber, Comic Women, Tragic Men? Anche Thomas Schatz distingue i generi 'maschili' basati sulla necessità dell'ordine sociale (western, giallo, poliziesco, gangster film) da quelli basati sull'integrazione (musical, screwball, melodramma familiare) in cui dominano le donne e la coppia [... ]. Ma a dispetto della sua enorme popolarità (o forse proprio a causa di quest'ultima), la commedia non ha mai goduto del prestigio della tragedia e dei sottogeneri ad essa collegati [... ]. Perché la commedia è antiautoritaria, distrugge i tabù, esprime impulsi e bisogni al di fuori dell'ordine costituito [... ]. Simile in questo al carnevale, la commedia deride la virilità tanto esaltata dalla tragedia [... ]. E il sesso non è più un mezzo per arrivare alla conoscenza o al superamento del self, come appunto nella tragedia[ ... ], bensì sistematico attacco contro la repressione e glorificazione dei piaceri del corpo 3 .

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Anche se ormai non sembra più sostenibile che la commedia cinematografica sia sistematicamente sottovalutata (non lo è più, diremmo, almeno dal 1981, anno in cui il filosofo di Harvard Stanley Cavell dedica a quella che chiama comedy of remarriage un libro pionieristico e provocatorio, dove spiega It Happened One Night con Kant e mescola abilmente The Awfal Truth a frammenti di Parmenide)4, non stupisce, certamente, che molti fra gli stuqi recenti sulla commedia cinematografica affrontino il tema dei rapporti fra genere letterario (genre) e genere sessuale (gender), e che la critica femminista, in particolare (come dimostra la citazione precedente, in cui il povero Thomas Schatz resta solo accanto a un esercito di Linde Bamber, Linde Jenkins e Lise Merrill), prenda in esame l'aggressività del personaggio femminile e la sua conquista di una (relativa) autonomia nel campo sia economico sia sentimentale. Negli anni Trenta e Quaranta le ragazze-che-lavorano, interpretate da Jean Arthur, Irene Dunne, Ginger Rogers, Rosalind Russell o Barbara Stanwyck (tutte, fa notare Cavell, appartenenti alla medesima generazione, quella delle figlie di Nora Helmer e delle nipoti delle femministe di Seneca Falls, dunque pronte a raccogliere l'eredità delle eroine della commedia shakespeariana)5, sono sicure di sé, scattanti, spesso aggressive; e compensano così il bamboleggiamento e la regressione del maschio, disposto più che altro al gioco (pensiamo anzitutto al Cary Grant di Bringing Up Baby o di The Awfal Truth), se non addirittura ad assumere il ruolo tradizionalmente passivo di sex object (come Ray Milland o, ancor più, Fred McMurray nelle commedie copertamente omosessuali di Mitchell Leisen) 6 • Siamo in ogni caso lontani, secondo Cavell, dai canoni della commedia tradizionale, come sono stati delineati ad esempio da un moderno aristotelico come Northrop Frye, per il quale la Nuova Commedia, rituale 'primaverile', si basa sulla lotta dei giovani per affermare contro le vecchie generazioni il loro diritto alla scelta amorosa: un motivo che peraltro, e senza troppa fatica, potrem-

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mo ritrovare in talune commedie di Frank Capra, o in film come Easy Living (Che bella vita, Mitchell Leisen, 1937), in cui un padre detentore di enorme potere economico (Edward Arnold) resta intrappolato nei suoi avveniristici uffici da macchine misteriosamente impazzite, mentre il suo erede amabilmente scioperato (Ray Milland) distrugge involontariamente un ristorante automatico e provoca il panico a Wall Street nel tentativo di aiutare la ragazza povera (Jean Arthur) di cui si è innamorato; o anche in ½vacious Lady (Una donna vivace, George Stevens, 1938), dove una schiera di parenti terribili e vecchi accademici impedisce al povero assistente universitario James Stewart, fino alla lieta soluzione, di consumare le legittime nozze con la ballerina Ginger Rogers. Cavell, caso mai, individua maggiori legami con la Vecchia Commedia, quella basata sulle peripezie dell'eroina, che può travestirsi o morire in apparenza e rinascere nello scioglimento finale, anche se nella variante hollywoodiana appaiono dei riferimenti apparentemente realistici alle condizioni economiche dei personaggi e della società7• Ma forse dovremmo tener presente, più d'ogni altra, la citata definizione carteriana: quel che succede, ad esempio, in un film come My Man Godftey (L'impareggiabile Godftey, Gregory La Cava, 19 36: una ragazza ricca, Carole Lombard, si porta a casa per vincere un gioco di società un miserabile homeless, o, come si diceva allora, un forgotten man, William Powell) o in un film come My Favorite Wife (Le mie due mogli, Garson Kanin, 1940: una donna creduta morta in un naufragio, Irene Dunne, riappare dopo sette anni trascorsi in un'isola deserta proprio quando il ,marito Cary Grant sta per convolare a nuove nozze) può essere argomento comico, in quanto capita ad altri, i personaggi fittizi che abbiamo delegato a soffrire sullo schermo per divertirci, ma potrebbe essere benissimo tragico, o almeno melodrammatico, qualora accadesse a noi. Ci troviamo quindi su un crinale scivoloso, dove la commedia può trasformarsi nel suo contrario e viceversa: un doppio registro

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individuato felicemente, secoli fa, dai buffi artigiani dello shakespeariano Sogno di una notte di mezza estate quando vogliono mettere in scena, per le nozze del loro duca Teseo, la vicenda di Piramo e Tisbe e l'annunciano come "breve interminabile scenà' e "assai tragico divertimento": al che il duca commenta "Gaio e tragico! Breve e interminabile! Sarebbe come dire ghiaccio bollente e neve prodigiosa che fiammeggia! Come mettere d'accordo tutta questa discordia?" (atto V, scena I, 56-60). E Shakespeare, lo Shakespeare delle commedie basate su arditi travestimenti cross-gender e ancor più audaci giochi lessicali e linguistici, è senza dubbio più utile di quanto non lo siano Kant, o Parmenide, o lo stesso Ibsen di Casa di bambola per aiutarci a entrare nei meccanismi della cosiddetta comedy of remarriage. Ma il sottile confine fra "gaio" e "tragico" è un tema che ritroviamo anche in tanta narrativa moderna. In un racconto di Karen Blixen, ìntitolato Il campo del dolore, una vecchia contadina danese, per salvare la vita al figlio ingiustamente condannato, ottiene la grazia dal feudatario locale, un vecchio duca, purché riesca a mietere da sola, senza alcun aiuto, uno sterminato campo di segale dall'alba al tramonto: un compito sproporzionato, che riuscirà a portare a termine con la forza della disperazione e a costo della sua stessa vita. E il racconto non si occupa della donna o del figlio, oscure silhouette che rimangono sullo sfondo, bensì della rete di sguardi che s'intrecciano ai margini del campo: il vecchio feudatario sorveglia la sua vittima, un suo giovane nipote nutrito di principi illuministici (siamo nel Settecento) studia con orrore affascinato l'indifferenza dello zio; e il discorso cade sulla tragedia ("il più alto privilegio dell'uomo") e sulla commedia, che è invece appannaggio degli dèi. La tragedia - dice il vecchio zio - dovrebbe continuare a essere diritto delle creature umane, soggette all'atroce legge della necessità. Per loro la tragedia è salvezza e beatificazione. Ma gli dèi [... ] non possono conoscere il tragico [... ]. La vera arte degli dèi è il comi-

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co, condiscendenza del divino verso il mondo dell'uomo, visione sublime, che non può essere studiata ma deve essere celestialmente concessa [... ]. E qui sulla terra, noi che siamo i delegati degli dèi, dovremmo lasciare il monopolio della tragedia ai nostri vassalli e accettare con grazia, per noi, il comico. Infatti [... ] quella stessa fatalità che quando colpisce un borghese o un contadino diventa tragedia, con l'aristocratico si sublima nel comico8 • Questa lunga citazione può sembrare inadeguata all'oggetto del discorso, un tipo di commedia, quella cinematografica, che per forza di cose e anche ai livelli più raffinati e sophisticated si è sempre rivolta a vassalli, borghesi, masse indifferenziate di spettatori. Evero che secondo Truffaut un piccolo borghese come Lubitsch, già definito con disprezzo "figlio di un commerciante israelità' in tempi diantisemitismo e antiborghesismo militanti, era, in realtà, un principe9; e qualcosa della sua aristocrazia ideale può trovarsi in quel borghese sardonico e al fondo tenero che è Billy Wilder. Ma sarebbe disagevole distinguere, poniamo in Hawks, un coté aristocratico nei citati Twentieth Century e Bringing Up Baby dal momento plebeo di Scarface (1932) e dei suoi film d'azione; o sostenere, guardando in casa nostra, che la tragedia viscontiana sia meno nobile delle commedie di Pieraccioni. Le parole del vecchio duca della Blixen vanno evidentemente riferite non già a chi confeziona la commedia, ma allo stato d'animo di chi la recepisce, l'accetta, decide - esercitando, in sostanza, una sorta di potere - che il materiale presentato è comico e non tragico. Di qui un'ipotesi: se la commedia, con buona pace di Northrop Frye, non fosse affatto un genere a sé, bensì un altro modo di guardare alle stesse cose? Facciamo un esempio. Nella prima parte di Desire (Desiderio, Frank Borzage, 1936), commedia quasi romantica, non particolarmente graffiante, e per questo normalmente esclusa dal 'canone' della screwball, la situazione che viene rappresentata ci permette di capire come la logica stessa del 'genere' si basi su un esercizio del po-

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tere del tutto arbitrario. A Parigi, una ladra internazionale (Marlene Dietrich) inganna prima il gioielliere Duval, presentandosi come moglie di un famoso medico, il professor Pouquet; poi il professor Pouquet, presentandosi come signora Duval, infine mettendo le due vittime l'una contro l'altra e fuggendo con un ricco bottino: è ovvio che anche lo spettatore più benpensante, in quanto non direttamente danneggiato da quella abile e pericolosa signora, parteggia per lei, non certo per quei due pomposi professionisti che non meritano alcuna commiserazione. Nelle sequenze successive, la Dietrich in fuga verso il confine spagnolo con la sua macchina sportiva sorpassa, inzacchera, umilia il turista americano alla guida della sua Bronson 8, Gary Cooper; ma ne è umiliata a sua volta, in quanto solo quest'ultimo, tecnico di Detroit, sa far tacere il diabolico dackson che non smette di squillare, minacciando di attirare su di lei le non gradite attenzioni della polizia; e a questo punto le posizioni sono già più bilanciate, ci si prepara all'immancabile lieto fine, quello in cui l'uomo 'vincerà' e la donna sarà lieta di lasciarlo vincere, trionfando della propria sconfitta. Ma quando, dopo un gioco di dispetti reciproci e di dackson riparati e poi rimessi volutamente fuori uso, dalla macchina della donna parte inarrestabile e più squillante che mai il suono del dackson senza che nessuno lo abbia manomesso, ci rendiamo conto che entrambi i protagonisti sono stati, per cosi dire, esautorati; e che è intervenuto il caso, o Dio, o il produttore e supervisore Lubitsch (Borzage, regista ufficiale, preme in altra direzione, più moderata e sentimentale). Sleali, ingenerosi, noi spettatori siamo sempre stati dalla parte del più forte: era previsto, parte del gioco su cui si basava il film. Ma adesso, a nostra volta, ci rendiamo conto che qualcuno, in un angolo, tenendosi al di fuori del 'campo' come il vecchio duca del racconto della Blixen, o il perplesso duca Teseo shakespeariano, stava studiando e manipolando anche noi. Una teoria della commedia cinematografica non può non confondersi, a questo punto, con una teoria del potere e della supe-

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riorità: è la tesi sostenuta, sia pure in modo alquanto confuso e superficiale, anche da uno studioso di popular culture come Wes D. Gehring 10 • Solitamente nascosto dietro le quinte, il regista-burattinaio ordisce i suoi intrighi; altre volte appare in scena, ci mette a parte, strizzando l'occhio, dei suoi trucchi. Non occorre salire molto in alto, nella scala dell'aristocrazia: basterà dire qualche bugia, come la Carole Lombard finta moribonda di Nothing Sacred (Nulla sul serio, William A. Wellman, 1937) o mettere in moto un falso scoop giornalistico, come la Barbara Stanwyck di Meet fohn Doe (Arriva fohn Doe, Frank Capra, 1940). Ma è ovvio che entrando in scena e mescolandosi ai propri complici e alle proprie vittime, si finisca fatalmente per diventare elementi o pedine del gioco comico, esposti al rischio dello smascheramento o del rovesciamento della situazione: più consigliabile rimanere invisibili, come Addie (nella versione italiana Eva) Ross, la perfida signora del gran mondo che cerca di portare via il marito a una delle sue amiche nella commedia di Joseph L. Mankiewicz A Letter to Three Wives (Lettera a tre mogli, 1949), anche se poi alla fin fine verrà a sua volta sconfitta pur restando astutamente e prudentemente nascosta, facendosi solo sentire come voce over. L'arma dell'inganno (e a volte anche arma di difesa) è dunque soprattutto la parola: parola scritta in Nothing Sacred e in Meet fohn Doe, che sono due film di ambiente giornalistico; flusso ironico di oralità nel film di Mankiewicz, che affida il ruolo di protagonista alla voce di un'invisibile Celeste Holm (nella versione italiana, Tina Lattanzi). E basta questo per rendersi conto che la nascita della commedia cinematografica è strettamente legata all'avvento del sonoro.

Tutta la politica hollywoodiana dei generi, com'è noto, si rivoluziona profondamente quando Al Jolson pronuncia le sue prime e profetiche parole ("Aspettate un momento, aspettate un momento ... non avete ancora sentito niente!") tra un numero musicale e l'altro di The Jazz Singer (Il cantante di jazz, Alan Crosland, 1927).

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E forse è proprio il cinema comico, più di altri generi condizionato dalle caratteristiche del 'muto' (lo scrittore Theodore Dreiser aveva potuto parlare di una lingua interamente nuova di fronte al lavoro di Mack Sennett), quello che più risente dell'avvento delle nuove tecniche: alla gag puramente visiva e all'alfabeto gaiamente fisico dello slapstick (l'immediata comprensibilità e la funzione meramente ausiliaria della didascalia rimanevano requisiti essenziali anche in chi, come Chaplin, ambiva a complessità narrative di tipo 'romanzesco') si sostituiscono battute allusive, giochi di parole, situazioni canoniche del teatro leggero, qui pro quo. Certo, erano esistite anche commedie mute, nei primi decenni di vita del cinema: basterà ricordare Male and Female (Maschio e femmina, Cecil B. DeMille, 1919) o The Taming of the Shrew (La bisbetica domata, Sam Taylor, 1929), dove le battute originarie di James M. Barrie o di William Shakespeare, o quel poco che ne restava, erano affidate alla didascalia 11 • Ma la novità dei talkies invita ovviamente ad adottare la strada ben più agevole del teatro filmato. E la commedia, di per sé situata come si è visto in un equilibrio instabile, si pone anche su una frontiera d'altro tipo: quella, assai tenue nel periodo che più ci interessa, che unisce e divide cinema e teatro, o meglio Hollywood e Broadway. Con il sonoro, Hollywood ha ovviamente bisogno di nuovi testi, validi se possibile sul piano del dialogo e delle situazioni drammatiche: i maggiori successi teatrali di New York (ma anche di Londra e di Parigi) vengono rapidamente trasferiti sullo schermo, con ben poche modifiche o adattamenti, magari a volte con qualche isolata sostituzione nel cast, tanto per suscitare un clima di sotterranea competitività (sarà più sottilmente perfida Bette Davis o Tallulah Bankhead nel ruolo di Regina Hubbard, la protagonista di Piccole volpi?) non certo inutile al battage pubblicitario e al successo dell' operazione. The Front Page, una riuscita pièce d'ambiente giornalistico di Ben Hecht e Charles MacArthur, chiude i battenti nell'aprile del 1929 al Times Square Theatre di New York, e pochi mesi dopo

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iniziano le riprese della sua prima versione cinematografica (ce ne saranno altre tre). Ma accanto ai testi occorrono gli autori che li sappiano scrivere o adattare, gli attori in grado di pronunciare le battute in un inglese corretto; e da Broadway, duramente colpita dal crollo economico del 1929, comincia una migrazione spesso accettata per motivi puramente finanziari, con scarso entusiasmo e vari complessi di superiorità, anche se, per fortuna, non sempre con gli esiti catastrofici dipinti dai fratelli Coen in Barton Fink (1991). Broadway veniva rastrellata - ricorda Melvyn Douglas, uno dei più brillanti attori di commedia degli anni Trenta - e Basil Rathbone, Eddie [Edward G.] Robinson, perfino il mio ex compagno di scuola Ralph Bellamy se n'erano già andati sull'altra sponda a lavorare per la Paramount o per la MGM. Una volta, al trucco, incontrai uno dei miei vecchi amici e non lo riconobbi. Gli avevano fatto qualcosa al naso, incapsulato i denti, e ricostruito ex novo la struttura facciale: solo il suo modo di camminare mi fece capire che si trattava del mio ex collega Clark Gable 12 •. A questo sistematico dissanguamento - che peraltro in qualche caso si chiude rapidamente: un commediografo di successo come Elmer Rice, ad esempio, dopo un paio d'anni a Los Angeles torna per sempre nella sua adorata New York e pubblica quel Voyage to Purilia (1930) che anticipa Woody Allen, Gore Vidal, e tanti esperimenti di filmprose nel dipingere sarcasticamente il surreale ingresso di due esseri in carne e ossa nel mondo labile, bidimensionale e dolciastro della pellicola - Broadway risponde sparando a zero: commedie come Once in a Lifetime, del 1930, di George S. Kaufman e Moss Hart, o Boy Meets Giri, del 1935, di Sam e Bella Spewack, dipingono Hollywood come una gabbia di matti, dominata da incompetenti e da idioti; in Stage Door, del 1936, dovuta ancora a Kaufman ma in collaborazione con Edna Ferber, che si svolge invece ai margini del mondo teatrale, in una modesta pen-

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sione per aspiranti attrici, chiunque accetti proposte da Hollywood di fatto vende l'anima al demonio, in cambio delle vane speranze di pellicce di visone e di posta dei fan. Dal canto suo, Hollywood non perde occasione per prendere in giro, in innumerevoli film, le pretese, i capricci e l'ampollosità dei 'divi' teatrali, la polvere patetica del palcoscenico, le miserie dei camerini e delle quinte (un solo esempio: !'ingiustamente dimenticato It's Love Im After o Avventura a mezzanotte, Archie Maya, 1937 - dove Bette Davis e Leslie Howard sono appassionati Giulietta e Romeo sulla scena e nemici feroci nella realtà, cioè nel film). Ma a ben vedere non ha bisogno di ricorrere alla guerra aperta: Hollywood vince sempre e comunque, tanto che può permettersi persino di adottare il punto di vista dell'avversario, 'catturandolo' e trasferendolo su pellicola, per poi esibirlo come un trofeo e una prova di liberalità ( Once in a Lifetime, Boy Meets Girl e Stage Door vengono tutti portati sullo schermo, il terzo e ultimo con varie modifiche da Gregory La Cava in un film da noi Palcoscenico, 1937 - che rimane fra le più suggestive dramatic comedies del periodo). E quando il film 'tratto dà ha successo (lo ha quasi sempre) di fatto si trasforma in versione definitiva o editio princeps, di fatto relegando l'originale scenico a una sorta di prova generale o di fase intermedia: l'eventuale attrice che oggi voglia affrontare sulla scena, poniamo, il ruolo della Blanche Du Bois di Un tram che si chiama Desiderio dovrà automaticamente misurarsi con Vivien Leigh, interprete di Blanche nella riduzione cinematografica di Elia Kazan (1951), e non certo con la Jessica Tandy che per prima era stata Blanche a Broadway. Del resto Cavell, come sempre provocatorio, afferma che i copioni originari, nelle commedie hollywoodiane, non contano nulla, proprio come le vaghe e disparate fonti delle commedie shakespeariane; e anche James Harvey ha queste posizioni: Non c'era niente, o quasi niente nella screwball che non fosse già familiare al pubblico da tempi immemorabili, in quanto già visto

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e rivisto in teatro, nel vaudeville, nei romanzi popolari e in film precedenti. Ma guardando William Powell e Myrna Loy, o Fred Astaire e Ginger Rogers, il pubblico degli anni Trenta dimenticava automaticamente di aver già visto cose del genere; e in un certo senso quell'impressione era esatta. Il punto di partenza è il 1934, l'anno in cui film come The Thin Man, It Happened One Night e The Gay Divorcee e attori come Irene Dunne, Carole Lombard, William Powell e Cary Grant ripropongono le ricette più familiari in combinazioni così nuove, così fresche, così elettrizzanti e intrinsecamente cinematografiche, che quella familiarità si trasforma automaticamente in un senso di novità e di rivelazione 13 •

Una delle prime grandi commedie degli anni Trenta, Twentieth Century, che per il duo Byrge-Milton Miller è addirittura il prototipo del 'genere', si basa comunque sul viaggio da Est a Ovest, da Broadway a Hollywood: il titolo si riferisce al treno che collega il paese da costa a costa, e la vittoria, cioè la definitiva conquista della diva Lily (Carole Lombard), tocca proprio al vecchio e apparentemente superato teatro, grazie ai trucchi sfacciati e gigioneschi, ma efficaci, del diabolico regista Oscar Jaffe Qohn Barrymore), che poi è anche il suo ex marito (siamo anche davanti al primo esempio della comedy of remarriage cara a Cavell). Ma è frequente il ricorso, nella commedia cinematografica anni Trenta, allo spettacolo nello spettacolo, che consente una moltiplicazione di filtri e cornici e quindi un ovvio distacco ironico: nelle sue prime commedie musicali (la straordinaria The Love Parade o Il principe consorte, 1929, e la meno felice Montecarlo, 1930), Lubitsch inserisce dùe scene chiave in cui l'azione 'reale' si rispecchia, con le opportune deformazioni, nell'azione 'virgolettatà che appare sul palcoscenico; in Going Hollywood (Raoul Walsh, 1933), Marion Davies ripete con minore humour la conquista degli studios già effettuata in una delle più belle commedie del muto, Show People (Maschere di celluloide, King Vidor, 1928); Margaret Sullavan in The Good Fairy (Le vie del-

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lafartuna, William Wyler, 1934, sceneggiatura di Preston Sturges) è la 'mascherinà di un lussuoso cinema di Budapest suggestionata dai melodrammi che ogni giorno vede sullo schermo; e Mervyn LeRoy dipinge con eguale sarcasmo le intemperanze di una star del teatro e di una diva del cinema in Showgirl in Hollywood (1930) e in Fools far Scandal (1938). In quest'ultimo caso, dopo averci mostrato l'attrice (Carole Lombard) intenta per un'ora e mezza a tiranneggiare l'aristocratico che per amore si è fatto assumere da lei come maggiordomo (Fernand Gravey), rivela calando il sipario che tutto faceva parte di un'ulteriore finzione, cioè di una commedia. E il filone culminerà agli inizi degli anni Quaranta con le grandi commedie 'metalinguistiche' di Preston Sturges (Sullivan's Travels o I dimenticati, 1941) e di Lubitsch ( To Be or Not to Be o Vogliamo vivere!, 1942).

Altro tema ricorrente, e che del resto si riscontra fin dalle origini del teatro americano (per nulla dire dei vertici narrativi che raggiunge nei romanzi di Henry James) è il contrasto Europa/America. Certo l'inevitabile ritardo culturale fa sì che il cinema ci mostri una Parigi affettata e pretenziosa sacrosantamente sconfitta da rudi e schietti eroi tipicamente americani come Victor McLaglen e Will Rogers (rispettivamente in Hot far Paris, Walsh, e They Had to See Paris, Borzage, entrambi del 1929), proprio quando il teatro si allontana dai miopi pregiudizi nazionalistici e aspira a una elegante nonchalance di sapore 'europeo' con le commedie di S.N. Behrman e del futuro regista Preston Sturges. Ma c'è anche Lubitsch, che già dai tempi del muto ha imparato a solleticare le velleità trasgressive in modo sapientemente indolore: Venezia e Parigi, nelle immagini rilucenti di Trouble in Paradise (Mancia competente, 1932), sono una specie di zona franca, dove la ricerca di denaro, di piacere, e di vittorie in quel gioco al massacro che è ogni specie di rapporto interpersonale può svolgersi in una sua cristallina purezza, senza le remore moralistiche che la renderebbero impossibile 'vicino a casà:

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LILY: Quando sono venuta qui era per una piccola avventura, un giochetto da dimenticare il mattino dopo. Ma ora debbo farle una confessione. Caro barone, Lei è un ladro. Lei ha derubato il signore della stanza 253-5-7-9. GASTON: Contessa, mi creda. Le avrei rivelato tutto prima che Lei uscisse da questa stanza. E lasci che le dica, dal profondo del cuore: Contessa, Lei è una truffatrice. Il portafoglio del signore della 253-5-7-9 è ora in Suo possesso. Me ne sono accorto quando me lo ha levato dalla tasca, mi ha anche fatto il solletico. Ma il Suo abbraccio era così dolce ...

Più tardi, Lubitsch evocherà la sua Europa da operetta in modo più scopertamente nostalgico, con i colori dell'utopia, in Ihe Merry Widow (La vedova allegra, 1934), uno dei film più ricchi di cromatismo fra quelli realizzati in bianco e nero, e soprattutto con il tenerissimo Ihe ShopAround the Corner (Scrivimi fermo posta, 1940), che rivisita, con una sorta di cannocchiale rovesciato, il piccolo mondo di retrobottega e di commessi e fattorini dove, tanti anni prima, a Berlino, era cominciata la sua inarrestabile escalation. Ma il suo allievo Billy Wilder, che appartiene a una più tarda e meno nostalgica ondata migratoria, inizia una sceneggiatura, che scrive per il regista Mitchell Leisen, con una battuta più disincantata e self-reflexive. Un treno si ferma in un set della Paramount che rappresenta la Gare de Lyon; piove, fa freddo, e da una vettura di terza classe scende un'imbronciata Claudette Colbert: "E così questa sarebbe Parigi [So this is Paris, titolo di una famosa commedia muta lubitschiana]. A me sembra un pomeriggio piovoso a Dayton, Ohio". Al posto di "Europa'' e "America'' potremmo mettere Est e Ovest, opposte polarità dell'eterno psicodramma nazionale, in termini di genteel tradition contro la rude scuola della frontiera (ad esempio Merle Oberon e Gary Cooper in Ihe Cowboy and the Lady o La dama e il cowboy, da un'idea di Leo McCarey, diretto da Henry C. Potter dopo il ritiro di Wyler, 1938); oppure, senza più alcuna connotazione geo-

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grafica o regionale, il contrasto bachtiniano di Quaresima e Carnevale: l'austero paleontologo Cary Grant che, come già si è ricordato, vede la sua vita sentimentale e professionale sconvolta da una scatenata Katharine Hepburn in Bringing Up Baby; il timido professore di fonetica Gary Cooper, circondato e protetto da sette anziani colleghi come Biancaneve dai suoi nani, alle prese con Barbara Stanwyck, ballerina di night-club e amica di un gangster, dalla quale vorrebbe imparare un po' di slang in Ball of Fire (Colpo di fulmine, Howard Hawks, 1941, sceneggiatura di Billy Wilder); ancora la Stanwyck, avventuriera di non alto bordo, che assumendo varie identità fa perdere la testa a Henry Fonda, miliardario inibito con l'hobby dei serpenti, nel già citato Lady Eve. E all'estremo opposto rispetto all'Europa di Lubitsch, piacevolmente immorale e comunque perdonabile anche se disposta a svendere i resti della sua antica signorilità in cambio di dollari (è questo il sottofondo ricorrente da The Love Parade a Bluebeard's Eighth Wife) c'è la sana America rurale di Will Rogers e dei serial di Andy Hardy, amata e idealizzata da Henry King (State Fair, 1933) e tacitamente disprezzata da un intellettuale europeizzato come Preston Sturges nell'idillio apparente, e in realtà denso di veleni non troppo dissimulati, di The Miracle ofMorgan Creek (Il miracolo del vil/,aggio) e di Hail the Conquering Hero (Evviva il nostro eroe), entrambi del 1944. C'è anche un'America meno astratta e stilizzata, più calata nella realtà dei suoi tempi. Per Andrew Bergman, studioso del cinema della Depressione e del New Deal nonché, più tardi, regista a sua volta di commedie purtroppo non molto riuscite, la screwball comedy, inclusa quella così sensibile agli umori dell'epoca che ci ha dato Frank Capra, è una risposta mistificata alla crisi economica, in quanto ci propone una ricomposizione di tutto ciò che la crisi aveva frantumato e diviso: classi sociali, matrimoni falliti, città e campagna, capitale e lavoro 14 . Può darsi, ma è innegabile che il cinema di quegli anni ci abbia offerto una straordinaria ricchezza di documentazione e di riferimenti precisi alla realtà socioeconomi-

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ca. A parte opere di eccezione come il chapliniano Tempi moderni (1936), che ci parla di catene di montaggio, di alienazione operaia, di scioperi, dell'ironica impossibilità dei sogni piccolo borghesi, e della grande risorsa americana degli spazi e delle lunghe strade asfaltate e non, o il rovesciamento della storia di Cenerentola nel rapporto fra ereditiera e forgotten man nel citato My Man Godfrey, si possono ricordare film francamente minori, ma non privi di una salutare cattiveria, come The Dark Morse (Alfred E. Green, 1932), dove due cinici galoppini elettorali, Warren William e una giovane Bette Davis, riescono a portare alla Casa Bianca un innocuo minus habens capace solo di dire di sì e di no ("esattamente quello che vogliono gli elettori, è uno come loro"). O come il più sentimentale One More Spring (Ritornerà primavera, Henry King, 1935), dove la giovane e squattrinata aspirante attrice Janet Gaynor trascorre le notti su una panchina del Centrai Park, dove incontra il banchiere fallito Warner Baxter con il quale stringerà una sorta di patto di mutuo soccorso. E si può citare il modo svagato con cui il ricordo del giovedì nero di Wall Street viene esorcizzato, ma solo in apparenza, all'interno di un dialogo fra il falso aristocratico Fred MacMurray e l'avida golddigger Carole Lombard in Hands Across the Table (I milioni della manicure, Mitchell Leisen, 1935): Lm: È strano come la gente sia diversa. Per quanto cerchi di convincere il mio sarto che ho ancora del denaro, lui crede che non ne abbia. E per quanto cerchi di convincere Lei che non ne ho, Lei crede che ne abbia. Ah, perché non è Lei il mio sarto? Sa cucire? LEI: No. E Suo padre? Lm: Neanche lui sa cucire. Vive all'estero. Sa, una volta era bravissimo a convincere la gente a consegnargli il loro denaro. Purtroppo non è ereditario. Lm: Ma come può essersi rovinata una famiglia come la Sua? Lm: Ha sentito parlare di una cosa chiamata il Crollo di Wall Street? Beh, si trattava di noi.

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E poi c'è Capra, di cui tutto si può dire ma non che non faccia tesoro, per le sue favole allusive, del repertorio di ingiustizie, corruzione, sperequazioni desumibile dalle cronache dell'epoca. Lo stesso It Happened One Night, che come si è visto rappresenta per vari critici e studiosi l'archetipo e il paradigma del 'genere', ci fa conoscere un'America di vagabondi, autostoppisti, corriere stipate e miserandi motel, attraverso la storia di una capricciosa ereditiera in fuga da un matrimonio sbagliato (e dal padre capitalista), che poi troverà un'accettabile figura sostitutiva rispetto allo sciocco 'fidanzato' (e al padre stesso) in un giornalista finto-cinico che rifiuta le lusinghe di un capitale mostruosamente accumulatosi ma tiene a far quadrare i suoi modesti bilanci (non vuole, al finale, i diecimila dollari che potrebbe guadagnare vendendo ai giornali la storia del ritrovamento della ragazza, ma pretende la restituzione di 39 dollari e 60 cents, la sua 'nota spese'). Più acre la visione del giornalismo e del mondo dei media in Nothing Sacred, film fin troppo animato da puritano moralismo al di sotto dei suoi toni stridenti e dei colori pastello, che si apre con una significativa didascalia - "Questa è New York, regina dei grattacieli, dove i furbi vendono patacche l'uno all'altro, e la Verità calpestata risorge più falsa di un occhio di vetro" - e continua rivelando che la 'sanà America rurale è altrettanto corrotta della metropoli (il giornalista Fredric March sfrutta a fini professionali la malattia di una povera ragazza q_i campagna, ma questa, Carole Lombard, lo sta ingannando a sua volta: e ogni contrapposizione risulta dunque annullata, non proprio nel senso conciliante e mistificato denunciato da Andrew Bergman). Secondo Cavell, come si è già ricordato, lo schema classico della Nuova Commedia - quella basata sul felice passaggio da un certo genere di società all'altro, dall'oppressione di vecchi potenti su giovani desiderosi di affermare il loro diritto alla scelta amorosa - non è in questi casi applicabile, nonostante le accennate eccezioni; e forse la stessa labilità della struttura familiare, come si andava configurando in una società industrialmente avanzata qual era quel-

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la americana degli anni Trenta, nonostante le crisi e le nostalgie agrario-patriarcali, non poteva non influire in modo tipicamente revisionistico nei confronti di quello schema. Avviene spesso, ad esempio, che i padri, anche se inizialmente ostili, finiscano per allearsi con i figli o per comprenderne le ragioni (in Capra, per esempio, solo per il perfido Potter del più tardo e sofferto It's a Wonderfal Lift o La vita è meravigliosa, 1946, non ci sarà redenzione), e che i figli stessi, anche se ribelli, trovino quasi sempre alleati in qualche nonno sbarazzino o qualche zio burlone. Esempio perfetto - che difatti rimanda alla commedia shakespeariana e al romance - potrebbe essere Holiday (Incantesimo, 1938), che George Cukor deriva da un lavoro teatrale di Philip Barry, e che nella figura di Linda (Katharine Hepburn), ragazza ricca convertita dall'ex fidanzato della sorella Johnny (Cary Grant) a un vangelo di gaia e irresponsabile bohème, costruisce un vero e proprio monumento alla figlia ribelle: "Oh, provateci a fermarmi! Come vorrei che ci provaste!", dice con sovrumano disprezzo ai suoi familiari pavidi e conformisti, mentre abbandona per sempre la loro casa. Ma quel che può sembrare un rito di passaggio è in realtà una forma di regressione: Linda sente vicina, saltando una generazione, l'ombra affettuosa del nonno; e non a caso si chiude spesso con Johnny e con il fratello minore, vinto e alcolizzato, nella parte centrale della vicenda, in una 'stanza dei giochi' che potrebbe funzionare da metafora ricorrente per gran parte delle commedie del periodo. Né mancano famiglie intere che si chiudono felici e svaporate nello spazio magico (o nella 'stanza dei giochi') che è la commedia cinematografica, a cominciare dalla famiglia Lord nel successivo frutto della collaborazione fra Philip Barry, George Cukor, Katharine Hepburn e Cary Grant, The Philadelphia Story (Scandalo a Filade/fia, 1940), altro squisito romance illuminato da una fredda luce lunare; per nulla dire di un'altra famiglia, con una vena di follia in più, i Sycamore del 'classico' You Can't Take It with You (L'eterna illusione, Frank Capra, 1938, ispirato a un testo di Kaufman e Hart).

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Nell'ambito di un rituale borghese sostanzialmente accettato (Barry e Cukor hanno ormai smesso di criticare i 'ricchi'), la famiglia Lord di 1he Philadelphia Story è comunque disposta in blocco, chi più chi meno, a garbate forme di gioco e di teatro privato, magari a scapito dei giornalisti indiscreti che si sono infilati in casa; e di fronte a questo amabile romance non ha più senso parlare di contrasto generazionale, ma caso mai di quello, più 'orizzontale', fra uomo e donna. La donna, nella commedia cinematografica di quegli anni, non è soltanto ragazza in carriera, o ex moglie da riconquistare, o ereditiera capricciosa. Spesso, tradizionalmente, ha il compito di incarnare il mistero, l'indecifrabile, il Doppio: riallacciandosi a quel motivo inquietante dei travestimenti, delle somiglianze e degli scambi di persona che la commedia shakespeariana, basata fra l'altro sulla mancanza di attrici e su travestimenti di primo grado affidati ai boy actors, aveva già portato a vertici inarrivabili. Certo, la tradizione si era perpetuata in entrambe le direzioni, magari giocando sul doppio maschile e sul tema plautino dei gemelli; oppure arrivando a farse tipo La zia di Carlo in cui malcapitati ragazzotti venivano costretti a indossare vesti femminili. In una riuscita commedia del 1935, 1he Whole Town's Talking ( Tutta la città ne parla, tratta da un romanzo di W R. Burnette diretta da John Ford che peraltro sosteneva di non averla mai voluta vedere sullo schermo), Edward G. Robinson, timido impiegato, è il sosia perfetto di un terribile gangster, e le sue prevedibili disavventure finiranno solo quando accetterà di sostituirsi a lui, di incarnare cioè il Male e di renderlo parte di sé, come dovrà fare di lì a poco il barbiere ebreo di Chaplin diventando a tutti gli effetti, e sia pure sperabilmente non per sempre, quello Hynkel-Hitler che tanto gli somiglia. E più vicini a noi, e certo ben vivi nella memoria di tutti gli spettatori, sono anche Tony Curtis e il meraviglioso Jack Lemmon che, in sottana, parrucca e in pericolante equilibrio su tacchi a spillo, si mimetizzano per evitare una

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brutta fine fra le componenti di un'orchestrina femminile (Some Like It HotoA qualcuno piace caldo, 1959). Ma più spesso il gioco delle maschere è affidato alla donna, che nella commedia può essere misteriosa e inafferrabile come nel melodramma; e riesce senza troppa difficoltà ad avere più di un volto. Soprattutto agli inizi degli anni Quaranta, questo tema del Doppio che si ritrova onnipresente e latente in gran parte delle pellicole del genere (basta pensare alle strutture del cinema lubitschiano) raggiunge dei veri e propri vertici. Ci sono la Stanwyck avventuriera e gran dama di Lady Eve, la Rogers adulta e la Rogers (finta) bambina di The Major and the Minor (Frutto proibito, 1942, primo atto firmato in proprio della grande commedia degli equivoci e dei maliziosi travestimenti wilderiani), la duplice Garbo del non felice Two-Faced Woman (Non tradirmi con me, George Cukor, 1941), la duplice Dietrich del deludente The Flame ofNew Orleans (L'ammaliatrice, 1941): e meglio di quanto sappia fare qui un regista pure illustre come René Clair aveva già saputo duplicarla Lubitsch, e senzà ricorrere a trucchi (anzi, senza farle muovere nemmeno un sopracciglio), quando l'aveva proposta come raffinata lady e cali giri d'alto bordo nel gioco impalpabile e rarefatto diAngel (Angelo, 1937). Ma l'esempio più perfetto, vorremmo dire più sfacciato, resta pur sempre quello di Sturges. Come può il sia pur timido e impacciato Charles Pike (Henry Fonda) non rendersi conto che l'aristocratica lady Eva (Barbara Stanwyck) è anche la cinica avventuriera Jean, figlia di un emerito baro, che ha cercato in tutti i modi di imbrogliarlo e di derubarlo sulla nave in cui si sono conosciuti, dal momento che Eva-Jean non fa il minimo tentativo per mascherarsi, per apparire diversa, limitandosi a sostituire il suo abituale slang con un buffo e ovviamente artefatto accento britannico? Quale logica, magari deformata e distorta, ispira questa riscrittura volutamente assurda e follemente screwball della cacciata dal Paradiso, in cui un Charles innocente Adamo (ma collezionista di rettili, e affezionatissimo alla sua Emma, la piccola serpe che ogni notte si infila nel suo letto) riesce a

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entrare in un paradiso molto terrestre solo al momento in cui cede alla tentazione? Prima di tutto, non c'è dubbio che Charles, figlio del grande Re della Birra, sia un perfetto esemplare di vittima sacrificale, fatto apposta per la nostra abituale cattiveria di spettatori pronti a parteggiare spudoratamente per malfattori e affini. Poi, una volta che siamo disposti a entrare nel variopinto e chiassoso carnevale del mondo sturgesiano, dobbiamo appunto accettarne la fondamentale ambivalenza: o meglio, quella inarrestabile tendenza a far rispecchiare e scivolare cose e persone nel loro contrario, e a farle coesistere. The Great McGinry (I 940), primo film non solo scritto ma anche diretto da Sturges, comincia nello squallido bar di una repubblica sudamericana con il tentato suicidio di un uomo che è stato onesto per tutta la vita ed è venuto meno per un solo momento ai suoi principi, rovinando così se stesso e la sua famiglia; ma quest'uomo, che poi nel film resta solo un pretesto o un casuale narratario, cambierà idea quando il barista, McGinty (Brian Donlevy), gli avrà raccontato come nella sua carriera di politicante corrotto un solo minuto di onestà lo abbia irreparabilmente rovinato (inutile dire che questo film, oltre a giocare con la contrapposizione fra interpreti in carne e ossa e immagini riflesse, oppure fra corpi e ombre, abbonda in parallelismi rovesciati, ad esempio mostrando analoghi comizi e analoghe promesse da parte di candidati del governo e dell'opposizione). Nel successivo Christmas in july ( Un colpo di fortuna, 1940), Jimmy (Dick Powell), modesto impiegato che crede a lungo di essere diventato multimilionario grazie a un crudele scherzo dei suoi amici, alla fine scoprirà naturalmente di esserlo davvero; e in un eloquente scambio di battute la sua fidanzata, Betty (Ellen Drew), avendo chiesto al portinaio del casamento in cui vive se un gatto nero porti fortuna o sfortuna, si sente rispondere "Beh, signorina, sa com'è: dipende da quello che succede dopo". Quello che succede, prima o dopo, dipende ovviamente dalle decisioni arbitrarie del Fato, e di Preston Sturges: spettatori e personaggi non possono che abdicare, e dichiararsi impotenti. "Quella li è

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la stessa donna di primà', bofonchia sospettoso e ostinato, di fronte alla raffinata lady Eva, quel Muggsy (William Demarest) che del giovane Charles è guardia del corpo e balia asciutto. "Ha la stessa faccia, cammina nello stesso modo, e ti sta fregando esattamente come ha fatto l'altra voltà'. Ma Charles non è convinto: CHARLES: Non parla nello stesso modo. MuGGSY: Beh, chiunque può farlo. Se ti parlo in svedese ... CHARLES: Ma non aveva gli occhi un po' più vicini fra loro ? MuGGSY: No, erano proprio lì dove sono adesso, da una parte e dall'altra del naso. CHARLE_s: Ma perché mai dovrebbe fare cosi ? MuGGSY: Perché vuole imbrogliarti, come l'altra volta. CHARLES: No. MuGGSY: No cosa? CHARLES: Si assomigliano troppo. MuGGSY: Ecco, l'hai detto. Non possono esistere due tizie così perfettamente ... CHARLES: Non mi hai capito. Si somigliano troppo per essere la stessa persona.

Preston Sturges affronta dunque il mistero della somiglianza, quell'impressione indefinibile e del tutto soggettiva che non può, per definizione, coincidere con la copia o con l'identità. È il tema dei simillimi che Shakespeare affronta fin da quella Commedia degli errori che è probabilmente la prima delle sue commedie giovanili: "Tutti i film di Sturges potrebbero rientrare nella categoria delle comedies of errors" 15 • Ed è un tema già vecchio ai tempi di Shakespeare, che lo mutua da Plauto rispettandone lo schema ludico e farsesco ma immergendolo al tempo stesso in una strana luce d'acquario, fra viaggi per mare, naufragi, le speranze frustrate di raggiungere il porto, e la magnetica attrazione dell'altra goccia d'acqua:

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Sono una goccia d'acqua nell'oceano Che invano cerca un'altra goccia, e poi, non riuscendo a trovar chi le somigli, angosciata, non vista, si disperde. Così, in una traduzione lievemente 'tendenziosà, si esprime l' Antifolo siracusano, il primo e il più modernamente inquieto dei due gemelli che Shakespeare desume dai modelli classici. Ma anche uno dei due servi, anche loro gemelli, che Shakespeare aggiunge allo schema per raddoppiare il meccanismo degli imbrogli e dei qui pro quo, utilizzandoli più che altro per occasioni burlesche di botte e di capitomboli, conoscerà il momento del riscatto, quando rimarrà sbalordito di fronte alla scoperta dell'Altro identico a sé: Forse tu mi sei specchio, non fratello, e in te vedo che sono un bel ragazzo 16 . Per ovvi motivi, la Jean e la lady Eva del film di Sturges non si incontreranno mai. Ma può essere significativo che nel testo che ispira il film - un racconto del drammaturgo e sceneggiatore irlandese Monckton Hoffe (1880-1951), e anche in un primo progetto di riduzione cinematografica scritto nel 1938 da Jeanne Bartlett - la protagonista sia davvero al tempo stesso una e duplice, nel senso che ne esiste, o ne è esistita, una sorella gemella, la cui morte prematura è stata accuratamente tenuta nascosta dalla madre, per poter contare su un duplice assegno mensile di assistenza da parte della famiglia (che comunque non vuole più vedere né lei né le sue bambine dato che si è sposata contro la loro volontà con un giocatore di professione). Grazie a questo, la protagonista, Salomé, può assumere a piacere la personalità della gemella morta, Sheba, e a seconda dei casi e delle esigenze del momento comportarsi da donna sofisticata, ribelle e di facili costumi (Salomé) o da timida fa~ciulla remissiva (Sheba) 17 • E senza dubbio Sturges doveva ricordarsi di un escamota-

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ge di questo genere, al momento di trovare una conclusione qualsiasi a un gioco pericoloso che si era spinto troppo avanti, quello di The Palm Beach Story (Ritrovarsi, 1942), dove la coppia protagonista, quella dell'inventore (fallito) Tom Jeffers Qoel McCrea) e di sua moglie Gerry (Claudette Colbert) si è separata, pur continuando ad amarsi, e per disperato bisogno di denaro ha deciso di passare a nuove nozze, rispettivamente con una ricca signora soprannominata Princess (Mary Astor), abituata a comperarsi vigorosi e attraenti mariti, e con il fratello di lei, un multimilionario timidissimo di nome Hackensacker III (Rudy Vallee). All'ultimo momento, dato che siamo pur sempre di fronte a una comedy of remarriage, i due protagonisti ammettono di amarsi ancora, deludendo moltissimo i fratelli Hackensacker; ma qualcosa suggerisce al timido capitalista una soluzione brillante:

HACKENSACKER (a Gerry): Non è che per caso hai una sorella? GERRY: Ho solo una gemella. HACKENSACKER: Una gemella! GERRY: Non lo sapevate? Per questo ci siamo sposati, Tom e io. Avevamo scoperto di avere una cosa in comune: tutti e due avevamo un gemello o una gemella. ToM: Ma questo, si capisce, sarebbe un altro film [nell'originale: That's another plot entirely]. HACKENSACKER e PRINCESS (ai rispettivi partner): Tu hai ungemello/ gemella? ToM e GERRY (insieme): Sì. HACKENSACKER e PRINCESS: E cosa fa il tuo gemello/la tua gemella? ToM e GERRY: Beh, al momento, credo ... niente di speciale. Detto fatto, Tom e Gerry fanno scaturire dal nulla i loro 'doppi' (spiegando così, retrospettivamente, una rapida e altrimenti inesplicabile sequenza vista durante i titoli di testa, in cui apparivano due Colbert e due McCrea), e una triplice cerimonia nuziale assicura

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uno happy end peraltro minacciato da un inquietante e malizioso punto interrogativo. Non siamo lontani, sia sul piano dell'assurdo sia su quello della morale tanto difesa dal codice Hays, dal famoso "nessuno è perfetto" che alla fine di Some Like It Hot Joe E. Brown pronuncerà, rassegnato e ostinatamente innamorato, accanto alla sua amata Daphne che si è tolta la parrucca gridando "Sono un uomo!" La strada pericolosa della folle proliferazione dei 'doppi' porterà Sturges, nel successivo The Miracle of Morgan Creek, a offrirci addirittura un parto di sei gemelli ("È troppo, mi dimetto", dichiara allora secondo i giornali il dittatore di un paese in guerra con gli Stati Uniti e fanaticamente a favore di una politica demografica, Benito Mussolini): e intanto anche Lubitsch raggiunge il vertice nel suo gioco di specchi e di duplicazioni, mescolando attori e personaggi, nazisti veri e finti, barbe e baffi autentici e fatti con il carboncino, Hitler e il suo doppio, in quello straordinario film che da noi si è retoricamente chiamato Vogliamo viverei ma che nell'originale era To Be or Not to Be, falso aut-aut che si risolveva in un'ennesima coppia: essere e non essere, al tempo stesso, grazie alla magia del teatro (e del cinema). Non è difficile parlare di uno 'stile Lubitsch', a dispetto della sua regia discreta e allusiva, e del perfezionismo raggiunto dalla sua équipe, proprio come la presenza di Sturges, ormai pienamente rivalutato dalla critica americana, risulta immediatamente avvertibile sia nei film che ha diretto sia in quelli che ha solo sceneggiato. Allo stesso modo riconosceremmo subito l'horror vacui di Capra o la lieve ma insistente nevrosi che aleggia, elegante e svagata, intorno ai personaggi (specie femminili) di Cukor. I problemi, in un eventuale discorso sul rapporto fra autori e genere, nascerebbero già con Hawks, che alternava a commedie come Twentieth Century o Bringing Up Baby a film d'azione deliranti come Scarface (1932) o The Big Sleep (Il grande sonno, 1946), anche se a quanto pare dichiarava di aver sempre pensato, davanti ad ogni proposta di un nuovo sog-

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getto, alla possibilità di ricavarne, appunto, una commedia: "Posso farne un film drammatico solo se non c'è modo di fare altrimenti" 18 • Di qui le frequenti infiltrazioni di humour all'interno dei suoi film 'seri', come Only Angels Rave Wings (Avventurieri dell'aria, 1939) o To Rave and Rave Not (Acque del Sud, 1944), mentre Hitchcock firma solo una commedia nel periodo che più ci interessa (quel Mr. and Mrs. Smith, 1941, che in tonalità più leggera anticipa il latente sadismo di Marnie, 1964) ma in realtà ne realizza moltissime di clandestine, contrabbandandole nelle zone periferiche e in certi risvolti apparentemente irrilevanti dei suoi thriller; e John Ford, a parte certi bozzetti folcloristici come l'eccellente Steamboat Round the Bend (1935) e il caso della citata commedia urbana basata sul 'doppio', The Whole Town's Talking, appare disposto a concessioni ridanciane e a qualche buffonesco interludio da caserma nei suoi film western o di guerra. Ma nella commedia classica hollywoodiana la regia non si sente e non si deve sentire: almeno non quanto in altri generi confinanti, dove può sfoggiare tecnicismi e raffinate scelte stilistiche. Nelle commedie di Hawks, per esempio, come più tardi in quelle di Billy Wilder, la macchina da presa in pratica non si muove mai: l'impressione di vivacità scattante e spesso convulsa è data quasi esclusivamente dal gioco degli attori e dal fulmineo pingpong delle battute. "Esistono tanti modi di piazzare la macchina da presà' diceva Lubitsch "e in realtà ce n'è uno solo": nessuno, forse, ha fatto del cinema con tanta e tanto serena infallibilità, ma al tempo stesso è vero che tale sicurezza rimane implicita, non ostentata: critici e pubblico potevano benissimo non sapere che quello, e non altro, era il modo giusto. Il vero mistero è forse quello di Leo McCarey, che a partire dagli anni di guerra si specializzerà in dolciastri film d'ambiente religioso (My Wtiy o La mia via, 1944; The Bells ofSaint Mary o Le campane di Santa Maria, 1946) e firmerà anche un abominevole saggio di propaganda maccartista, My Son fohn (L'amore più grande, 1952), ma grazie a The Awfol Truth viene definito da James Harvey "un

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grandissimo artista nel genere screwball, forse il più grande di tutti", capace anche "di spingersi più lontano di Lubitsch e di Capra'' 19 • In effetti McCarey si era fatto una ricca esperienza di slapstick dirigendo negli anni Venti le migliori comiche di Laurel e Hardy (il che spiega anche un'altra acuta osservazione di Harvey: quella per cui ogni film di McCarey si può suddividere in una serie di 'numeri' e di gags basati sulla presenza e sulle reazioni di una coppia di personaggi) e più tardi doveva firmare un capolavoro folle e surreale come Dog Soup (La guerra lampo dei fratelli Marx, 1933), che peraltro aveva malvolentieri accettato di dirigere non ritenendosi adatto alla comicità basata su trovate verbali 20 • Né va dimenticato che nel 1937, lo stesso anno di 'Jhe Awfol Truth, McCarey realizzava anche un singolare melodramma, Make W"ay far Tomorrow o Cupo tramonto, affrontando un tema per quegli anni del tutto insolito come la malinconica sorte degli anziani, e anticipando l'Ozu di Viaggio a Tokyo (1953) per la sua trattenuta commozione. Al solito, la regia di McCarey è una regia che non si sente: eppure basta rivedersi la grande scena centrale di 'Jhe Awful Truth, quella in cui Cary Grant riesce subdolamente a rovinare in modo irreparabile il fidanzamento della moglie con l'ingenuo Ralph Bellamy, per rimanere ammirati dalla precisione con cui vengono orchestrate varie gags che di per sé potrebbero apparire scontate o troppo a lungo ripetute (c'è un maestro di canto rifugiatosi nel guardaroba per evitare scene di gelosia, ci sono due cappelli facilmente scambiabili, non manca un cagnolino troppo intelligente - e futuro interprete di Asta nella serie L'uomo ombra - che invariabilmente recupera e riporta in salotto con aria di trionfo quel che dovrebbe rimanere ben nascosto): forse Harvey ha ragione nell'osservare che McCarey, rispetto agli altri maestri della screwball, non esita ad andare oltre (o forse non riesce a fermarsi). Non è facile, comunque, anche per l'indispensabile saldatura fra gioco teatrale e impaginazione filmica, suddividere di fronte ai capolavori della commedia degli anni Trenta i meriti e le responsabilità del

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regista rispetto a quelli dello sceneggiatore: per anni, ad esempio, si è erroneamente pensato che Mitchell Leisen, di per sé, non avesse alcun talento particolare, e che le sue commedie fossero riuscite solo grazie alle sceneggiature di Sturges, Norman Krasna o Billy Wilder; mentre Gregory La Cava, l'autore di My Man God.frey e di Palcoscenico, in certo senso è ancora in attesa di rivalutazione21 • A lungo emarginata dal discorso critico in omaggio alla politique des auteurs, la figura dello sceneggiatore è stata comunque e giustamente ricondotta in primo piano dalla critica più aggiornata; e senza dubbio, nel genere che ci interessa, l'apporto di un Samson Raphaelson al cinema di Lubitsch, di un Robert Riskin a quello di Capra, o di scrittori quali Ben Hecht, Sidney Buchman, Garson Kanin e Ruth Gordon, Donald Ogden Stewart o Herman J. Mankiewicz, meriterebbe di essere a lungo analizzato. Ma lo stesso, in misura non troppo minore, potrebbe valere per gli attori, elemento determinante per la riuscita della commedia cinematografica; e in questo ambito, oltre a certi nomi che ci è accaduto di citare più volte, un lungo capitolo spetterebbe di diritto ai caratteristi: maggiordomi impeccabili e discreti, suocere ficcanaso, giudici bonari, medici brontoloni, madri svaporate e distratte, mariti gelosi, maniaci innocui e stralunati, tutta la pittoresca fauna che ritroviamo di film in film come vecchie conoscenze un po' buffe. Per non parlare poi di quegli attori:.. autori che riescono a prendere d'assalto schermo e platea, guardandosi intorno con aria insolente e trionfale, fino a che ogni logica resistenza finisce per cadere: pensiamo a WC. Fields e a Mae West, mai adeguatamente apprezzati nel nostro paese, forse per la loro intraducibilità, e felicemente appaiati al termine della loro carriera in My Little Chikadee (Eddie E Cline, 1940). Sulla commedia americana il sipario non è mai calato. Anche nel dopoguerra, per esempio, continua il suo discorso allegramente anacronistico: e un allievo ed ex collaboratore di Lubitsch, Billy Wilder, dimostra come si possa 'fare del Lubitsch' (s'intende in modo del tutto personale) in un mondo che ha conosciuto Au-

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schwitz e Hiroshima. Ma è innegabile che la stagione dorata della commedia, benché nata negli anni più duri della Depressione, cominci già a trovare toni più cupi e autunnali fin dal momento in cui gli orizzonti internazionali si addensano (la guerra di Spagna, il patto Molotov-Ribbentrop, le prime avvisaglie del conflitto europeo). Un film come Ninotchka (Lubitsch, 1939) si apre con una allusiva didascalia, "Il film si svolge a Parigi quando una sirena era una bella bruna e non un segnale d'allarme, e se un francese spegneva la luce non lo faceva per i bombardamenti aerei"; e fa pronunciare più avanti, a una Garbo militante sovietica, ma lievemente ubriaca, un accorato appello: "Compagni, la rivoluzione è in marcia, le bombe cadranno, la civiltà crollerà a pezzi. Ma per favore, non adesso". Cominciamo cosi a incontrare, nelle commedie hollywoodiane, americani che combattono da volontari con la Raf, turisti yankee in Europa che si fanno gioco dei nazisti, soldati in licenza (magari con il tempo contato, come nell'angoscioso e bellissimo The Clock, Vincente Minnelli, 1945). E negli anni di guerra la commedia ci farà conoscere, fra sorrisi e lacrime coraggiosamente trattenute, i problemi del fronte interno (The More the Merrier o Molta brigata vita beata, George Stevens, 1943; Since You WentAway o Da quando te ne andasti, John Cromwell, 1944), riservando a musical, farse scatenate e surreali contaminazioni di slapstick e di horror il compito di sollevare il morale delle truppe. Ma al di là di questi referenti la commedia degli anni Quaranta (ed è forse questo il segno precipuo del suo 'invecchiamento') comincia a riflettere su se stessa. Heaven Can Wait (Il cielo può attendere, 1943) è per Lubitsch un film-testamento, apologia non più irridente ma commossa di una allegra irresponsabilità e di un garbato edonismo ormai riconsegnati al tempo. E / dimenticati segna nell'ambito della commedia quel che Citizen Kane (1941) rappresenta nella storia del cinema tout court. Non a caso il film di Sturges si apre, come l'esordio di Orson Welles, con la proiezione di un filmato che risulta fallimentare, e viene criticato come incapace di

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rappresentare in modo adeguato l'oggetto del suo discorso (nella fattispecie, la lotta impari fra capitale e lavoro nella cornice tipica della Depressione): di qui il bisogno di ripartire da zero, di 'duplicare' la Depressione nella versione più accettabile (e più 'fintà) di una commedia nella commedia. Al finale il protagonista, un regista dalle velleità 'sociali', Gulliver-Sullivan precipitato nel sottobosco dei diseredati, capisce durante la proiezione di un altro filmato, stavolta accolto con entusiasmo da un pubblico di carcerati, come sia più importante (magari anche opportuno) far ridere il pubblico: e il film, al di là della ricchezza e della felicità della narrazione, acquista il valore di un manifesto e di una dichiarazione di poetica. Il secondo inserto, quello applaudito con gioia, è un cartoon di Walt Disney; e contro tutti quelli che affermano l'impossibilità e l'illegittimità del comico in un mondo stravolto (No Time far Comedy suona il titolo di un lavoro teatrale scritto da S.N. Behrman nel 1939 e portato anche sullo schermo da William Keighley nel 1940: se ne deve essere ricordato anche Woody Allen all'epoca di Stardust Memories, 1980), Sturges estende al suo stesso testo - che contiene il cartoon, e la Depressione vera, e la Depressione finta l'assoluzione non del tutto disinteressata che il cinema hollywoodiano apparentemente più cinico e irresponsabile vuole dare a se stesso. Del resto già Lubitsch, attraverso la dialettica del viveur parigino Léon, interpretato da Melvyn Douglas, aveva insegnato alla troppo rigida compagna Nina Jakusciova detta Ninotchka (Greta Garbo) quanto fosse importante almeno riuscire a sorridere: NINOTCHKA:

Perché?

LÉoN: Così, tanto per sorridere.

Di che? LÉoN: Di qualunque cosa. Dell'intero, ridicolo spettacolo della vita. Della gente che si prende così sul serio. E se non riesce a pensare ad altro, può sempre ridere di lei e di me. N INOTCHKA:

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La tendenza se/frefiexive continua ad avvertirsi, anzi si avverte sempre di più, nella commedia successiva agli anni della Seconda guerra mondiale. Di fronte alle minacce delle leggi antitrust e di una pericolosa nemica ormai alla porte, la televisione, il cinema comincia a ripensare al suo passato. Prima ancora che si parli di cinema nel cinema come di un vero e proprio filone, che ha i suoi classici mescolandosi ad altri generi come il noir (Sunset Boulevard o ½ale del tramonto, Billy Wilder, 1950) o il musical (Singin' in the Rain o Cantando sotto la pioggia, Gene Kelly e Stanley Donen, 1952), appare ad esempio la rievocazione sorridente della carriera di una regina del serial ( 7he Perils of Pauli ne o La storia di Pearl White, George Marshall, 1947); poco dopo ci sarà una commediola di Claude Binyon imperniata sui guai che capitano a un distinto professore universitario quando la Tv rispolvera alcune vecchie pellicole da lui interpretate in gioventù, quando era un divo del muto (Dream Boato Primo peccato, 1952). Man mano che il tempo passa, aumenta la nostalgia del vecchio cinema, che ispira rivisitazioni dello slapstick (It's a Mad Mad Mad Mad World o Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo, Stanley Kramer, 1963) e veri e propri omaggi suggeriti dalla più maniacale cinefilia a registi come Peter Bogdanovich (What's Up, Doc? o Ma papà ti manda sola?, 1972; At Long Last Love o Finalmente arrivò l'amgre, 1975), Stanley Donen (Movie Movie o Il boxeur e la ballerina, 1978) e-naturalmente, a livelli diversi di raffinatezza, Woody Allen e Mel Brooks. Ma volendo seguire via via lo sviluppo della commedia hollywoodiana degli ultimi decenni, ci si troverebbe di fronte a continue parodie dei generi collaudati, fra pallottole spuntate, aerei più pazzi del mondo, e misteri di cadaveri scomparsi: senza con questo voler dimenticare che è anche possibile incontrare su questa strada una commedia davvero riuscita come Back to the Future (Ritorno al futuro, Robert Zemeckis, 1985), fra la parodia del genere fantascientifico e la rivisitazione affettuosa ed edipica degli anni Cinquanta, il cui ricordo doveva purtroppo

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venire annebbiato da un paio di mediocri sequels (1989, 1990). E non mancano naturalmente i remake delle commedie più famose, in genere deludenti, come Switching Channels o Cambio marito (Ted Kotcheff, 1987) e You've Got M@il o C'è posta per te (Nora Ephron, 1998), che rispettivamente ripropongono il classico 1he Front Page di Milestone (1931), già rifatto splendidamente da Hawks (1940) e da Billy Wilder (1974), e l'inimitabile Lubitsch di 1he Shop Around the Comer (1939). Gli sviluppi della commedia hollywoodiana debbono molto, comunque, a due allievi di Lubitsch, Otto Preminger e Billy Wilder, nonché a un autore diversissimo (e, nonostante le sue origini europee, più 'americano') come Joseph L. Mankiewicz, che per taluni aspetti può considerarsi suo erede. Inizialmente, Preminger si limita a portare a termine, in modo alquanto scialbo, un paio di progetti lasciati a metà dal maestro, A Royal Scandal (Scandalo a corte, 1946) e Lady in Ermine (La signora in ermellino, 1947), e confeziona in modo intelligente ma freddo e meccanico un remake sonoro dello splençlido Lady Windermere's Fan lubitschiano (1he Fan o Il ventaglio, 1949); presto comunque troverà la sua vena anche nella commedia, con quel 1he Moon Is Blue (La vergine sotto il tetto, 1953) che incredibilmente avrà problemi di censura per qualche parola ancora considerata tabù. Wilder sbaglia, forse per l'unica volta nella sua carriera, quando cerca di riprodurre pallidamente il gusto operettistico del suo maestro in 1he Emperor "Waltz (Il valzer dell'imperatore, 1947), ma più tardi saprà rivisitare la commedia lubitschiana in modo personale, in un paio di commedie romantiche venate di malinconia non solo cinefila (Sabrina, 1954; Love in the Afternoon o Arianna, 19 5 7). Rispetto alla stilizzazione assoluta e alla felice astrattezza della commedia degli anni Trenta, che rimaneva chiusa in un suo mondo ovattato e impermeabile, anche quando si mescolava alla fisicità dello slapstick, la commedia postbellica

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di Wilder, di Preminger o di Mankiewicz è contrassegnata anzitutto da una diversa 'impressione di realtà': nell'eccellente A Letter to Ihree Wives l'invisibile Addie Ross di Mankiewicz impiega i primi cinque minuti di proiezione, prima di presentarci maliziosamente tre momenti della vita delle sue future vittime, per mostrarci gli scorci più significativi dell'anonima cittadina di provincia in cui la vicenda è ambientata: il treno del mattino che dal lunedì al venerdì porta gli uomini d'affari alla metropoli vicina, la Main Street con i soliti drugstore e le solite boutique, la scuola oggi chiusa perché è giorno di vacanza, il quartiere elegante dove vive il ricco Brad con la giovane moglie Deborah e il cameriere Tomassino; quanto a Wilder, saprà presentarci in modo ancor più incisivo e coinvolgente la New York grigia e solitaria del meraviglioso Ihe Apartment (L'appartamento, 1960) e la provincia addormentata del Midwest in Kiss Me Stupid (Baciami, stupido, 1964). E non si tratta soltanto di 'contenuti': in Wilder come in Mankiewicz, la commedia non si basa più, o non più soltanto, sul rituale scambio di fulminee battute ad effetto, ma si affida in buona parte alla narrazione ironica o partecipe di una voce off, che a quelle battute si sostituisce o si sovrappone, secondo una tecnica che fino ad allora era stata tipica del melodramma o del noir. Già nei primi anni del dopoguerra anche le commedie di George Cukor - che sotto l'egida di Lubitsch aveva realizzato negli anni Trenta One Hour with You (Un'ora d'amore, 1932), e alla fine del decennio gli era subentrato nella regia di Ihe Women (Donne, 1939) - appaiono lontane dalle modulazioni romantiche di Holiday o dai ritmi svagati e sophisticated di Ihe Philadelphia Story. Adam's Rib (La costola di Adamo, 1949) riunisce la classica coppia Spencer Tracy-Katharine Hepburn in un contesto che fin dal titolo allude, sia pure in modo scherzoso e con tanto di ricorso finale al vive la différance, agli inevitabili mutamenti nel rapporto tradizionale uomo/donna;

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le tre commedie che realizza subito dopo con Judy Holliday (già apparsa in un ruolo secondario in Adam's Rib) acquistano anche un'indubbia valenza politica e sociale, in senso accesamente democratico e ostile alla strapotenza del capitale e dei media (si tratta di Born Yesterday o Nata ieri, 1950; The Marrying Kind o Vivere insieme, 1952; e It Should Happen to You o La ragazza del secolo, 1954); mentre !'ingiustamente dimenticato The Model and The Marriage Broker (Mariti su misura, 1951) ha una sua cattivante tonalità crepuscolare se non proprio 'neorealistà. Certo, queste sono eccezioni: se si ripensa alla commedia degli anni Cinquanta vengono in mente il Technicolor, il grande schermo, la volgarità chiassosa del suono stereofonico, le regie in punta di piedi di Jean Negulesco, e gli interni dilatati e resi lussuosi dalle esigenze del Cinemascope anche quando dovrebbero servire a ragazze squattrinate in cerca di marito o a segretarie in trasferta europea, in How to Marry a Millionaire ( Come sposare un milionario, 1953) e Three Coins in the Fountain (Tre soldi nella fontana, 1954: "Il cambio in lire italiane ci è favorevole" spiega in questo secondo caso Dorothy McGuire, per giustificare il suo principesco appartamento a Trinità dei Monti). Ma sfogliando l'album dei ricordi - o rivedendo in Tv vecchie pellicole di quegli anni - ci si rende conto che il genere di cui stiamo parlando non si era limitato a una stagione effervescente e ineguagliata nei primi decenni del sonoro, per poi stancamente esaurirsi: stava solo cercando nuove vie, adatte alle, nuove tecniche e al rapido modificarsi del nostro modo di vivere. Limitiamoci a citare qualche nome: Minnelli, Frank Tashlin, Stanley Donen, Blake Edwards. Agli inizi degli anni Cinquanta il primo, momentaneamente lontano dal musical e dalle sue ricerche cromatiche, realizza un dittico familiare in bianco e nero, Father ofthe Bride (Il padre della sposa, 1950) e Father's Little Dividend (Papà diventa nonno, 1951), che può sembrare, e in parte è, il modello di innumerevoli serial televisivi a venire, ma in real-

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tà illustra perfettamente i problemi e le angosce ben dissimulate della piccola borghesia di provincia americana, alle soglie della falsa sicurezza dell'età eisenhoweriana, e isolata nella quiete illusoria del comfort, fra villette con giardino, elettrodomestici e almeno due macchine in ogni garage. Su Tashlin il discorso è più difficile: questo regista adorato dai francesi (e poi, di rimbalzo, da americani cinefili come Peter Bogdanovich, per cui le commedie di Tashlin sono la sintesi perfetta degli eccessi grotteschi e delle contraddizioni degli anni Cinquanta, proprio come quelle di Hawks, McCarey, Capra e Sturges erano emblematiche dei decenni precedenti) 22 , ha sempre dovuto mettere il suo talento di cartoonist al servizio di pellicole di serie, in questi limiti ottenendo comunque risultati spesso felici, in particolare nei suoi film con Jerry Lewis. Di una maggiore libertà, che si traduce in una vera e propria girandola di gags e di vignette satiriche sui miti del successo e l'onnipotenza dei media, Tashlin doveva godere nei due film che dovevano lanciare una Marilyn di seconda scelta e di grana grossa, Jayne Mansfield (The Girl Can't Help It o Gangster cerca moglie, 1956, e Will Success Spoil Rock Hunter? o La bionda esplosiva, 1957). Quanto a Blake Edwards, le sue commedie apparentemente tradizionali come Breakfast at Tiffany's ( Colazione da Tijfany, 1961) hanno sempre risvolti insoliti: persino quelle straordinarie macchine per far ridere che sono le varie avventure dell'immortale ispettore Clouseau di The Pink Panther (La pantera rosa, 1963, e relativi seguiti) o quella devastante serata di uno sciagurato attore indiano di quint' ordine, invitato per sbaglio nella villa di un ricco produttore hollywoodiano (Hollywood Party, 1968) comunicano allo spettatore, fra una trovata comica e l'altra, un innegabile senso di disagio e di vera e propria angoscia, grazie anche al talento inesauribile e sfaccettato di un attore come Peter Sellers. E se lo Stanley Donen delle commedie brillanti non è all'altezza del Donen autore di meravigliosi musical, è comunque indiscutibile che abbia

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saputo coniugare con eleganza i ritmi della commedia con le ricette del giallo e del film di spionaggio in Charade (Sciarada, 1963) e Arabesque (1966), e che abbia realizzato con Two far the Road (Due per la strada, 1967) quella che è forse l'ultima comedy of remarriage nel senso caro alle analisi di Cavell. Anche un genere tendenzialmente conservatore non può non riflettere i mutamenti del costume e le oscillazioni del gusto, e basterà definire commedie un paio di film del '68 e dintorni firmati da Mike Nichols e dedicati ai problemi e alle incertezze del mondo giovanile, 1he Graduate (Il laureato, 1967) e Carnai Knowledge ( Conoscenza carnale, 1971) per rendersene conto. Può far sorridere, in questo senso, ricordare che nei tardi anni Cinquanta venivano definite sexterns, e lanciate come se si fosse trattato di materiale osé, le innocue commedie interpretate da Doris Day con o senza Rock Hudson (primo della serie il divertente Pillow Talk o Il letto racconta ... , Michael Gordon, 1959, dove Hudson è un gran seduttore che, ironia della sorte?, viene creduto gay); e ancora per tutti gli anni Sessanta e Settanta è stato possibile vedere commedie che in modo più o meno felice seguivano il rimario tradizionale: non mancavano certe eccellenti interpreti, come Jane Fonda, Barbara Harris, Jack Lemmon o Walter Matthau, in grado di garantire il dovuto successo alle rituali trasposizioni delle pièce di Broadway, firmate spesso da un ottimo specialista come Neil Simon e dirette da Gene Saks (Barefoot in the Park o A piedi nudi nel parco, 1967, 1he Odd Couple o La strana coppia, 1968) o da altri non meno efficienti come il Robert Ellis Miller di Any Wednesday ( Tutti i mercoledì, 1966), l'Arthur Hiller di Plaza Suite (Appartamento al Plaza, 1972), o l'Herbert Ross di California Suite (1978). Anche ai nostri giorni, del resto, è possibile assistere a commedie assolutamente tradizionali, come ad esempio il piacevole Sleepless in Seattle (Insonnia d'amore, Nora Ephron, 1993), in cui un ragaz-

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zino orfano di madre riesce a convincere il papà (Tom Hanks) a risposarsi con Meg Ryan, proprio come vari decenni fa un altro ragazzino in un film di Minnelli convinceva Glenn Ford a sposare in seconde nozze Shirley Jones ( The Courtship of Eddie's Father o Una fidanzata per papà, 1963). Ma già ai tempi del mai abbastanza citato Some Like lt Hot appariva inevitabile che le ricette della commedia, apparentemente codificate fin da tempi remoti in modo ne varietur, potessero comunque prestarsi agiochi combinatori fino a poco prima impensabili. E non si sarebbe trattato solo di giochetti trasgressivi in direzione cross-gender, ben noti alla commedia fin dalle origini, e ancor oggi resuscitati in pellicole divertenti e tutto sommato innocue come Victor Victoria (Edwards, 1982) o Tootsie (Sydney Pollack, 1982), ma di discorsi del tutto inediti sui nuovi orizzonti della coppia nel mondo moderno, come quelli che Woody Allen avrebbe cominciato ad affrontare con Annie Hall (1977) e Manhattan (1979), o sulla sessualità femminile (per esempio Lola Darling di Spike Lee, 1986). E c'è di più: nel cinema freneticamente manieristico di autori dei nostri giorni, come David Lynch, i fratelli Coen o Quentin Tarantino, sprazzi sinistri e beffardi di commedia si insinuano fra ettolitri di sangue e dosi di violenza non proprio omeopatiche. Certo, l'umorismo nero è sempre esistito, fin da quando le dolcissime zie di Arsenic and Old Lace (Arsenico e vecchi merletti, Frank Capra, 1944) liberavano i vecchietti di loro conoscenza dal male e dalla solitudine assicurando loro un eterno riposo; e nell'America degli anni Sessanta, sconvolta dalla violenza dilagante e dall'assassinio divenuto quotidiano ingrediente del dibattito politico, anche i timidi e complessati personaggi del cartoonist Jules Feiffer potevano imbracciare il fucile (Little Murders o Piccoli omicidi, Alan Arkin, 1971). Ma oggi, nell'inarrestabile contaminazione dei generi, diventa difficile trovare definizioni sintetiche e onnicomprensive per film che ci fanno a un tempo sorridere e provare brividi di raccapriccio,

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come The Big Lebowski (Il grande Lebowski, Joel Coen, 1998) o American Beauty (5am Mendes, 1999). Il primo prende le mosse da un errore di identità, dunque ancora dal tema apparentemente esausto e in realtà inesauribile del Doppio; il secondo è l'ennesima rivisitazione velenosa e nichilistica della provincia americana, della famiglia-tipo e dei valori della piccola borghesia; ma a questo punto è diventato difficile distinguere il 'gaio' dal 'tragico', ormai saldati in una concordia discors che nessun Teseo shakespeariano o vecchio duca blixeniano può illudersi di ricondurre a categorie tradizionali; e addirittura impraticabile risulta la vecchia, tranquillizzante certezza che quelle disavventure così piacevoli a vedersi, sulla scena o sullo schermo, accadano esclusivamente agli altri, riservandoci il ruolo confortevole di spettatori. 1999

Note

1 Angela Carter, Figlie sagge, Rizzali, Milano 1992. Se nell'ambito teatrale la distinzione fra high e low comedy è abbastanza precisa (per esempio, da un lato le commedie eleganti e raffinate di Philip Barry e di S .N. Behrman, dall'altro quelle più scatenate e farsesche del duo Kaufman-Hart), per quanto riguarda la commedia cinematografica si riscontra una certa confusione. È chiaro il senso della parola slapstick, originariamente usata per la spatola di Arlecchino, e dunque riservata alle

farse basate su quello che in tedesco si chiamerebbe greifen (afferrare) contrapponendosi allo zeigen (mostrare): il termine si riferisce dunque alla comicità fisica, alla Mack Sennett o alla Laurei & Hardy. Di contro, per la commedia di tipo più elegante si dovrebbe usare sophisticated (raffinato, ma anche artificioso, adulterato), via via con varianti del tipo romantic, dramatic ecc. Ma il termine (esclusivamente americano) screwball, che di per sé sta a indicare un tipo mezzo matto

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e stravagante, e che nel 1936 è stato per la prima volta riferito al cinema da un anonimo cronista per definire il personaggio dell'ereditiera interpretata da Carole Lombard in My Man Godfrey (almeno cosi affermaJames Harvey), ha finito per erodere i confini semantici e per indicare tutto o quasi tutto il genere della commedia americana degli anni Trenta, imponendosi secondo Arthur Knight come una sorta di combinazione sintetica (o intermedia?) fra slapstick e sophisticated. D'altro canto, lo stesso Harvey, in Romantic Comedy

Ein~udi, Torino 1999). È questo, in ogni caso, il lavoro più importante, e senza dubbio il più personale, apparso finora sull'argomento.

in Hollywood from Lubitsch to Sturges,

9 François Truffaut, I film della mia vita, Marsilio, Venezia 1978.

Knopf, New York 1987, inserisce nella definizione romantic, e fin dal titolo, non solo Lubitsch ma anche Sturges (nonché Capra, McCarey ecc.). Per una più approfondita indagine terminologica, cfr. Andrew Horton, introduzione a Comedyl Cinema/7heory, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1991. 2 Duane Byrge e Robert Milton Miller,

7he Screwball Comedy Films. A History and Filmography 1934-1942, McFarland, Jefferson 1989.

3 Kathleen Rowe, Comedy, Melodrama and Gender. 7heorizing the Genres of Laughter, in Classica! Hollywood Comedy, a cura di Kristine Brunovska Karnick e Henry Jenkins, Routledge, New York 1994.

4 Stanley Cavell, Pursuits ofHappiness. 7he Hollywood Comedy ofRemarriage, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1981 (ed. it. Alla ricerca della felicità, traduzione di Emiliano Morreale,

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5 Stanley Cavell, op. cit.

6 Sulla vita e l'opera di Mitchell Leisen, cfr. David Chierichetti, Mitchell Leisen, Hollywood Director, Riverwood Press, Los Angeles 1994. 7 Stanley Cavell, op. cit.

8 Karen Blixen, Il campo del dal.ore, in Racconti d'inverno, Adelphi, Milano 1980.

10 Wes D. Gehring, Screwball Comedy. A Genre ofMadcap Romance, Praeger, New York-Westport, Conn. 1986. In particolare nel capitolo intitolato 7he Screwball Genre and Comedy 7heory, Gehring applica alla commedia cinematografica una teoria della 'superiorità' desunta in modo alquanto approssimativo da Aristotele e da Bergson. 11 Per un'interessante discussione sulle commedie precedenti al sonoro, cfr. Tom Gunning, Donald Crafton e Charles Musser in Classica! Hollywood Comedy, cit.

12 Melvyn Douglas (e Tom Arthur), ... e la Garbo non rise, in "Cinema & Cinema'', settembre 1986, n. 46. 13 James Harvey, op. cit. 14 Andrew Bergman, We're in the Money. Depression America and Its Films, New York University Press, New York 1972.

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15 James Ursini, Preston Sturges, An American Dreamer, Curtis Books, New York 1973. 16 William Shakespeare, La commedia degli errori, cura e traduzione di Guido Fink, Garzanti, Milano 1995. 17 Sui testi usati da Sturges per Lady Eve, cfr. gli esaurienti ragguagli nel volume a cura di Brian Henderson

Preston Sturges. Pive Screenplays, University of California Press, BerkeleyLos Angeles 1985. 18 Guido Fink, Tre prime pagine, in Professione reporter. L'immagine del giornalismo nel cinema, a cura di Alberto Barbera, Paolo Berretto e Sara Cortellazzo, Lindau, Torino 1994. 19 James Harvey, op. cit. 20 Cfr. Peter Bogdanovich, Who the Devii Made It. Conversations with Legendary Film Directors, Ballantine Books, New York 1997 (ed. it. Chi ha fatto quel film? Conversazioni con i grandi registi di Hollywood, Fandango Libri, Milano 2010). 21 Grazie a Vieri Razzini, che a Leisen e a La Cava ha dedicato eccellenti cicli di proiezioni su Rai Tre (fra l'altro in edizioni originali), l'attenzione di critici e storici non dovrebbe mancare, anche nel nostro paese. E sia concesso a chi scrive, a questo proposito, rimpiangere che alla Rai Tv non si parli nemmeno più di iniziative del genere. 22 Peter Bogdanovich, op. cit.

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Gli angeli con la faccia sporca (1938)

ANDARE AL CINEMA NEGLI ANNI TRENTA (con un omaggio ai Dead End Kids)

Chi scrive, purtroppo, deve essere entrato per le prime volte in un cinematografo nei tardi anni Trenta. Sono ricordi vaghi, di brutti tempi: un Biancaneve e i sette nani ripetuto a distanza di pochi giorni visto l'entusiasmo, un po' di telefoni bianchi con Lilia Silvi o Carla Del Poggio (le preferenze andavano però ad Assia Noris) e, vedi caso, Notte di nozze, un Vidor d'annata, o meglio uno degli infelici tentativi di Goldwyn per lanciare Anna Sten, non visto per intero causa censure familiari (gli accompagnatori si erano resi conto che il film doveva 'finire male'), ma che costituiva comunque un'eccellente introduzione alle tematiche americane anni Trenta e a quelle di Vidor in particolare. Il protagonista, scrittore in crisi improbabilmente affidato a Gary Cooper, abbandonava gli amici intellettuali, i parties cittadini e una moglie frivola e sofisticata ritrovando l'ispirazione a contatto con la natura, la campagna, una colonia di laboriosi ancorché primitivi immigrati russi; e in questo senso, nonostante il sacrificio della povera Sten, il film non finiva poi così 'male'. Questo mio autobiografismo impudicamente sciorinato sarà senz'altro irrilevante, ma non è isolato: da un po' di tempo a questa parte, agli anni Trenta non si guarda più come a un'epoca storicamente delimitata di tensioni, conflitti e compromessi, ma come a una specie di reservoir di illusioni e speranze in chiave di lessico familiare. Già un libro intelligente come We're in the Money (Andrew Bergman, 1971) rivelava una certa propensione ad andare

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al di là dei testi presi in: esame (i film americani della e sulla Depressione) per rievocare tutto un clima, anche 'politico', attraverso un'angolazione vagamente proustiana, una sorta di memoria collettiva sia pure non diretta: di fronte al Dave (Joel Mc Crea) del film di Wyler DeadEnd (Strada sbarrata, 1937), l'architetto disoccupato che sogna di costruire case decenti per i poveri e va ai concerti sinfonici gratuiti nel Central Park, Bergman scrive che non è difficile continuare a immaginare a ruota lib~ra: conferenze sulla Spagna minacciata dal fascismo, le code per un posto di loggione alla matinée di We, the People di Elmer Rice, i film sovietici, le discussioni accalorate nelle luncheonettes vicino al City College, insomma tutto ciò che il film non ci dice ma può far 'ricordare', anche a chi conosca la New York di quegli anni solo per sentito dire 1 • Col passare degli anni, la critica cinematografica si fa più professionale-accademica e meno fantasiosa, ma in un recente Films Qn the Left (1981), l'autore, William Alexander, può impunemente confessare che la vera molla della sua indagine sul documentario 'impegnato' degli anni Trenta è stata la ricerca di 'padri' politicamente accettabili, per reazione alla sua stessa famiglia di 'moderati' e in seguito a esperienze sessantottesche 2 • Oggi, poi, un film come l'ultimo di Robert Benton, Places in the Heart (da noi Le stagioni del cuore) presentato con successo (e qualche dissenso) al Festival di Berlino, rivede la crisi agraria nel Texas, le migrazioni forzate e il diffondersi dell'isteria del Ku Klux Klan come momenti di una Bildung privatissima, vere e proprie 'stagioni del cuore': c'è il nonno-sceriffo ucciso per sbaglio da un ragazzo nero ubriaco (subito linciato), c'è il coraggio della nonna che rimasta sola riesce a tirare avanti la baracca nonostante le pressioni spietate delle banche, c'è, in un angolo del quadro come i committenti nei polittici medioevali, un bambino che benché si chi;imi Frank e appaia spostato di una generazione (è figlio dei suoi nonni, per così dire), non è altro che un ritratto dell'artista da giovane. "È un film romantico, una serie di ricordi

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d'infanzia. Con Places in the Heart non mi sono basato su quel che so ora, da adulto, ma su quel che ricordo da bambino. E non m'interessa analizzare la tristezza di quei tempi" 3 • Naturalmente, la critica, almeno in parte, ha parlato di sentimentalismo, di melodramma; e di riflusso 4 • Per un discorso sull'America anni Trenta come ce l'ha raccontata il cinema, o anche soltanto sugli aspetti della città e della (embrionale) metropoli di quegli anni, ci può servire di più, paradossalmente, il cinema che si è fatto dopo: i film di Capra, di Vidor, di Cromwell e di Borzage, anche se girati negli studios (lo erano quasi sempre, tanto che sarebbe più facile parlare del look della città Warner o di quella Paramount anziché, poniamo, di New York o di Chicago) non si preoccupavano di sembrare autentici agli occhi ammirati dei posteri, accontentandosi invece che gli sfondi venissero automaticamente, meccanicamente 'riconosciuti' o comunque accettati da destinatari immediati. Ogni elemento della scenografia, ogni oggetto, ogni capo d'abbigliamento, deve invece 'fare anni Trenta' nel recente film di Benton, come già, negli anni Settanta, nell'Altman di Ihieves Like Us ( Gang) e ancora prima nel Kazan di Wild River (Fango sulle stelle, 1960): per noi spettatori si tratta dunque di un viaggio a ritroso, della possibilità di riconoscere qualcosa che in realtà non abbiamo mai conosciuto direttamente. Esiste in questi film, che pure nella fattispecie non appaiono affatto sovraccarichi o figurativamente troppo ricercati, un inevitabile eccesso di connotazioni spaziotemporali cui corrisponde un difetto nei così detti originali d'epoca (la cornice urbana, ove sia presente, è molto discreta, quasi implicita). Forse, come Andrew Bergman, non dovremmo partire dalle città nel cinema, ma dai cinema nelle città: "Per quanto ci riguarda'', egli scrive in apertura del suo libro, "l'America della Depressione sarà una nazione di Bijou, Gem, Orpheum, Strand, Riviera e Mystic. Ci occuperemo dei milioni di ore lavorative passate in quei locali - i lussuosi palazzi rococò

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costruiti negli anni Venti, e gli squallidi capannoni che si trovavano nei villaggi e nelle cittadine agricole. Erano luoghi importanti, durante gli anni Trentà' 5 • Può essere vero, addirittura, che proprio alle ore trascorse in quei palazzi o capannoni si debba in parte se il paese ha saputo uscire dalla crisi, ha smesso di avere paura, come è stato autorevolmente sostenuto 6; certo, l'andare al cinema, era negli anni Trenta un vizio diffuso, e il Bijou o il Riviera rappresentava un rifugio, un punto di partenza, dove lo spettatore dell'epoca poteva lasciarsi la città vera alle spalle, con i suoi problemi e le sue difficoltà quotidiane, e farsi trasportare in uno spazio comunque diverso, anche quando sembrava legato al primo da presupposti veristici o 'sociali'. Gli emarginati e i fuggiaschi, come Bowie e Keechie in 1hieves Like Us, dovevano accontentarsi della radio; il cieco Mr. Will di Places in the Heart ha il suo disco con il 'giallo' della serie Trent, o almeno ce l'ha finché Frank e Possum non glielo graffiano irreparabilmente; ma una commedia 'sociale' come Street Scene (Elmer Rice, 1929) ci mostra una giovane donna abbandonata dal marito con due figli a carico mentre la rappresentante dell'ufficio assistenza la rimprovera e la minaccia: non riesce a fare a meno del cinema, e spreca così parte del sussidio di disoccupazione7. Anche i personaggi di Clifford Odets, così ideologicamente agguerriti, citano continuamente attori o attrici di Hollywood, rivelando sia pure nel risentimento contro i miti del successo una sospetta familiarità8 ; e in ogni caso Walter Gifford, a capo della commissione istituita da Hoover per l'assistenza ai disoccupati, proclamava nel momento più nero della Depressione la necessità di distribuire biglietti del cinema gratuiti ai poveri, oltre a cibo e vestiti9 • Alla fine del decennio, l'immaginario regista 'impegnato' del film di Preston Sturges Sullivan's Travels (I dimenticati, 1941: l'interprete è ancora Joel McCrea) scopre che il cinema hollywoodiano tipico, quello d'evasione, possiede una sua funzione precisa, cui vanamente aspirerebbe il film politico-sociale: una silly symphony disneyana - genere nel quale spesso si sono trovate, a

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posteriori, precise consonanze con l'ideologia rooseveltiana, e con l'esortazione a non aver paura di nulla, se non della paura stessa - riesce infatti a divertire, e dunque a fare momentaneamente evadere, coloro che si trovano all'interno della struttura più tipica e meno mistificante della città moderna, ovvero della prigione. Se il cinema di quegli anni si presenta come una sorta di controcittà, non dovremo stupirci della rimozione che di fatto la città subisce all'interno di quel cinema. Le immagini più esplicite - quelle del traffico alienante, dell'indifferenza, della massificazione che circondano la coppia di The Crowd (La folla, King Vidor, 1928), e non solo quando la città uccide praticamente il loro bambino, ma fin da quando, in quell'inizio straziante, essi fanno un'innocente gita a Coney Island - sono immagini che presuppongono una fuga, una cancellazione, e la esigono: gli stessi protagonisti, nel successivo Our Daily Bread (1934), lasceranno lo squallore urbano per la sana rigenerazione di una comune agricola. Lo stesso può dirsi, sempre agli inizi del decennio, per le sequenze convulse del ristorante, della Borsa, della stazione nello splendido City Giri ( 19 30) di Murnau: la seconda parte ci trasferisce nella fattoria dei Tustine, dove peraltro, dopo un arrivo esaltante, la protagonista scoprirà che la campagna non è più 'pulita' e la gente non è più 'decente' di quanto non sia in città. In un caso, quello di King Kong (1932), che è indubbiamente (fra le altre cose) un grande film politico, la visione iniziale della metropoli ci prepara alla sua stessa distruzione: Kong, catturato nella parte centrale del film nel cuore segreto di un'isola non segnata sulle carte, fugge dal teatro in cui viene esibito per aggredire i simboli più vistosi della civiltà metropolitana (ferrovia sopraelevata, grattacielo). Tutto questo, dunque, avviene agli inizi del decennio, che non a caso è il periodo della Depressione, pars destruens di un discorso poi avviato sulla via della 'ripresa' e dell'ottimismo, a costo di cancellare o di edulcorare i termini del conflitto: l'unico modo di

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mostrare le peregrinazioni patetiche della coppia prigioniera nella città fredda e ostile - vero e proprio topos ricorrente nel cinema degli anni Trenta - sarà anzitutto quello di affidare la città stessa alla invisibilità, o a una visibilità minima, legata a pochi avari esterni e all'estetica del trasparente. Pensiamo a coloro che, a differenza della coppia vidoriana, rimangono a lottare e a soffrire all'interno dello spazio urbano. Fra stanze d'affitto modeste, negozi che non fanno credito, uffici dove non si ha il coraggio di chiedere un aumento al capo, o agenzie di collocamento che non danno speranze, s'intravede appena qualche rara strada troppo affollata di mendicanti e di bambini, qualche timida panchina nel parco o sul lungofiume, per i momenti di desolazione o di réverie. La ragazza può essere Janet Gaynor, che conserva ancora l'innocenza della provinciale precocemente inurbata, o la più fantasiosa Margaret Sullavan, o una Sylvia Sidney già provata dai turni di fabbrica o dalle giornate avvilenti negli slums; il suo compagno, malinconicamente consapevole dell'inutilità della sua forza fisica e della sua inguaribile buona volontà, è prima Charles Farrell, poi diverrà James Stewart o Henry Fonda, a meno che non sia un duro che nasconde la frustrazione sotto la maschera dell'aggressività, come Paul Muni o come era, allora, Spencer Tracy. Intorno a loro, poco o nulla: scenari quasi vuoti, la cornice sommessa della loro solitudine. O una promessa, come il fischio del treno lontano e le cartoline dei paesi stranieri per l'uomo-sandwich e la ragazza che ha raccolto nella sua baracca, Spencer Tracy e Loretta Young, nella visione romantica e crepuscolare che della Depressione ci dà Borzage in A Man's Castle (Vicino alle stelle, 1933). "In principio era Babilonia e Ninive; ed erano costruite in mattoni. Atene era tutta colonne di marmo e d'oro. Roma posava su grandi archi di tufo. A Costantinopoli i minareti fiammeggiavano come grandi ceri intorno al Corno d'Oro ... Acciaio, vetro, tegole, béton saranno i materiali del grattacielo. Stipati sull'isola angusta,

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gli edifici dalle migliaia di finestre si drizzeranno splendenti, piramidi su piramidi, simili a cime di nuvole bianche al di sopra degli uragani ...". Così John Dos Passos, già nel 1925. Ma se la città letteraria di Manhattan Transfer e della trilogia USA - la visione lirica di Whitman frantumata dalla lezione di Joyce - è già a tutti gli effetti una moderna metropoli, come del resto lo erano già state nell'ambito della narrativa la Londra di Dickens o la Parigi "capitale del XIX secolo" di Balzac o di Eugène Sue 10 , la città del cinema resta su posizioni più tardive e tutto sommato tranquillizzanti. Non hanno seguito, in questo senso, le immagini già labirintiche di Murnau, di Fejos, del Vidor di 1he Crowd (quelle chapliniane di City Lights sono un'altra cosa, la sublimazione della città duplice e complementare del melodramma, quella dei poveri e quella dei ricchi; e la matrice ideale è la stessa che suggerisce a Mamoulian, nello stesso anno, di dividere con wipes diagonali la Londra perbene di Jekyll da quella proibita di Hyde). Perché lo schermo ci inondi con le visioni angosciose del labirinto, ci faccia provare di nuovo gli chocs e le collisioni di cui parlava Benjamin a proposito di Baudelaire, ci costringa a inoltrarci in uno spazio che è invariabilmente tempo, e tempo dell'angoscia, della fretta, del troppo-tardi 11 , bisognerà saltare l'epoca tutto sommato ancora ottimistica della seconda metà degli anni Trenta, e arrivare a certi spaccati appareritemente 'neorealistici' e 'documentari' del decennio successivo (spesso una disposizione del genere si traduce nel suo contrario: pensiamo a Naked City o La città nuda, 1948, di Dassin e Hellinger) se non addirittura a certe epopee notturne del nomadismo e dell'erranza proposte dal cinema più recente, quello di Walter Hill o di John Carpenter. Esiste già, da poco inaugurato e ancora semivuoto, un "edificio dalle migliaia di finestre", che si erge "sull'isola angustà', !'Empire State Building, che il povero Kong cercherà di scalare proteggendo Ann con una mano e con l'altra cercando di afferrare quei fastidiosi velivoli: William Wyler, nel 1933, lo usa come set e come metafora

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di una escalation pericolante e reversibile in un film che s'intitola Counsellor-at-law (Ritorna la vita); ma dopo una sola visione dell' esterno, sovrimpressa a quella di un ascensore in salita e più che altro utilizzata per i titoli di testa, l'azione si svolge tutta all'interno di un solo appartamento, anzi di uno studio legale, situato in uno dei piani più alti, e munito di minacciose finestre sul vuoto da cui, come si sente dire fin dall'inizio, non ci sarebbe da meravigliarsi, visti itempi, se qualcuno decidesse di fare un bel salto. Esistono, come si accennava, le baracche dei poveri e degli emarginati di Borzage; e fra grattacielo e baracca si istituiscono presto forme di comunicazione o di provvisoria alleanza ( One More Spring o Ritornerà primavera, di Henry King, 1935: vale la pena di osservare come i titoli italiani aggiungono, in genere, tranquillizzazione alla tranquillizzazione). Ma tutto sommato è ancora un mondo ordinato e a misura d'uomo, nel quale non ci si potrebbe perdere, come invece si smarriscono regolarmente, appena escono dai limiti protettivi del quartiere o del ghetto, i piccoli protagonisti del romanzo ebraico-americano (e di altri romanzi del melting-pot) di quegli anni. Questo ritardo, questo momentaneo differimento di una problematica metropolitana, rimanda evidentemente a una serie di pregiudiziali 'ideologiche': a) l'ideologia della borgata, evidente in tutto il cinema della neighborhood, che cerca di ricostituire all'interno della città il rapporto 'negativo' (curiosità oziosa, invidia) ma anche 'positivo' (solidarietà embrionale) esistente all'interno del villaggio o della città di provincia; b) l'ideologia del trasparente, per cui i personaggi appaiono stagliati e alonati contro uno sfondo per certi aspetti intercambiabile, come negli atelier fotografici del primo Novecento (e si capisce subito come questo rimandi a sua volta all'ideologia dello studio, di cui costituisce elemento fondamentale: la Casa come grande famiglia, insomma); c) l'ideologia della frontiera, per cui ogni elemento dinamico e potenzialmente trasgressivo, sia ormai irrecuperabile (il gangster, la prostituta), sia capace di redimersi in ultima istanza (il giornalista

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ambizioso, la gold-digger) o addirittura connotato tutto in positivo (il provinciale di Frank Capra in lotta contro capitalisti gretti e politicanti corrotti) non fa che recuperare all'interno di uno spazio urbano posto fra parentesi il codice delle praterie e della vita libera, senza leggi o costrizioni, che ha caratterizzato la fase pionieristica della conquista del West. Proprio perché strettamente legata agli elementi 'ritardanti' e correttivi della borgata e del trasparente, questa terza matrice ideologica non è ancora quella, pur sempre romantica ma abbondantemente intinta nel postmoderno (e in Baudrillard, e in Virilio), di cui Paolo Fabbri ha parlato in un suo famoso intervento sulla città notturna come estensione dell'ultima frontiera, come sottrazione di sempre nuove 'fasce' al mondo diurno regolato dai semafori e dalla polizia, come città altra di emarginati e di pazzi e di drogati e di bande giovanili, che. ha le sue leggi basate sull'assenza di leggi 12. Unico elemento 'nuovo' nella città cinematografica degli anni Trenta sarà dunque la sua corsa verso il falso, verso il bisogno di specchiarsi e di raddoppiarsi: verso il Bijou e il Riviera per le folle dei disoccupati che sono 'fuori dal film', verso il particolare crocicchio o garage o night-club che sarà usato come sfondo della sparatoria e dello showdown per il gangster, verso il teatro dove si spera di superare l'audizione e di essere scritturate e di conoscere così la gloria delle luci della ribalta, per l'esercito femminile mobilitato da Berkeley nei suoi backstage musicals (penso a un famoso numero di Dames, 1934). Vale a dire che un'epoca tanto preoccupata di abbassare il tasso di finzione nel mondo dello spettacolo, nel ricondurlo a dimensioni 'familiari' e 'verosimili' (pensiamo ai fireside chats rooseveltiani e in genere all'uso 'domestico' della radio, ai toni intimi e dimessi di certo teatro, alla stabilizzazione dei generi cinematografici é della politica degli studios entro linee facilmente riconoscibili) finisce in realtà per contagiare con il falso quel mondo vero che al primo è stato improvvidamente accostato.

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Particolarmente interessante, al riguardo, sarebbe un discorso sui film tratti da esperienze teatrali per qualche aspetto definibili come 'teatro di strada' o comunque drammi fortemente caratterizzati dall'ambientazione urbana. Perché il teatro, negli anni Trenta, anche quando non è vero e proprio teatro di strada sul tipo degli interventi agit-prop di Hans Bohn o dei primi 'Cinegiornali viventi', s'illude di riprodurre sulla scena un esatto duplicato della città 'reale' che gli spettatori, entrando nella platea, pensano di essersi lasciati alle spalle. Ecco così il vecchio casamento in arenaria di Elmer Rice (Street Scene, 1929), davanti al quale nella vana speranza di trovare un po' di refrigerio, in una torrida serata estiva, si attarda un pittoresco campionario di umanità modesta e litigiosa, le vecchiette pettegole, gli italiani che non vanno troppo d'accordo con gli irlandesi, gli uni e gli altri che si coalizzano contro gli ebrei tanto più che in gran parte sono 'sovversivi'; e poi come mai la signora del secondo piano, quando il marito non c'è, chiacchiera tanto con l'impiegato della centrale del latte? Questo spaccato di melting pot in toni da campiello goldoniano (non privo peraltro di esiti drammatici) diventa più teso e più tetro nella strada a fondo cieco sull'East River messa in scena da Sidney Kingsley (Dead End, 1935): il fiume "denso di rifiuti e di avanzi galleggianti, dove cento cloache vomitano le loro viscere"; e poi da un lato case scure e cadenti, scale ami-incendio ostruite da materassi sventrati, bottiglie del latte, piante stentate in lotta per la sopravvivenza, dall'altro le case dei ricchi, con portieri gallonati, verdi cespugli, muretti verniciati di bianco, e al di là ombrelloni, chaises-longues, risatine e tintinnar di bicchieri: lo scontro è inevitabile. Ma c'è anche la città nebbiosa e irreale di Winterset (Maxwell Anderson, 1935), dove si aggirano, e purtroppo si esprimono in versi sciolti grevemente simbolici, suonatori d'organetto, vagabondi, emarginati, ombre del passato che ricordano o non ricordano o vorrebbero dimenticare un certo errore giudiziario (Sacco e Vanzetti, come non si tarda a capire); e c'è il dibattito

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animato sui problemi degli slums e della crisi degli alloggi, nel lavoro collettivo del Federal Theatre intitolato rooseveltianamente One Third ofa Nation (1937) 13 • Tutti e quattro questi testi trovano la via dello schermo, persino l'ultimo che la Paramount trasforma nella love-story fra il proprietario e una delle inquiline di uno stabile fatiscente (la regia è di Dudley Murphy); ma i primi due (prodotti entrambi da Samuel Goldwyn e affidati a King Vidor e a William Wyler) sono abbastanza fedeli agli originali; e il terzo, diretto da Alfred Santell, gode di una certa considerazione, anche nell'Italia fascista dove viene importato (dopotutto, le vittime sono italiane!) con il titolo Sotto i ponti di New York. Dalla realtà alle scenografie teatrali, dal palcoscenico ai modellini e ai trasparenti degli studios, le immagini cittadine subiscono un ovvio processo di stilizzazione e di astrazione, che non è privo di rilevanza in questa storia di progressivo scivolamento nel 'falso'. Se Vidor porta sullo schermo i tasselli del mosaico di Rice come se si trattasse di una serie di fotografie animate, e si sfoga nei montaggi connettivi (fra un atto e l'altro) che sono una specie di minidocumentari o di frenetiche sovrapposizioni di esterni cittadini, Wyler vorrebbe andare al di là del teatro di Kingsley, girando il suo film in un vero vicolo cieco del Lower East Side: ma si scontra con il divieto di Goldwyn, timoroso di perdere il controllo della troupe, riluttante all'idea di stabilire un pericoloso precedente: i film si fanno a casa. Lo scenografo Richard Day costruisce così un altro Lower East Side, più vero del vero, con tanto di fiume maleodorante, mattatoio, gasometro, case fatiscenti e nuove costruzioni eleganti; e il regista per nulla convinto, con l'aiuto della prodigiosa camera di Toland, traduce in una geometria allusiva e claustrofobica le tensioni contrastanti del film: i sogni dell'architetto disoccupato e dell'operaia in sciopero, la violenza e la mancanza di prospettive dei ragazzi abbandonati del quartiere, il pellegrinaggio impossibile del gangster che ritorna ai luoghi della sua infanzia infelice. Come non bastasse, il produttore non è mai contento: lo slum è troppo

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slum, troppo sporco e ingombro di rifiuti e sporcizia: "con tutti i soldi che mi costa, ho diritto di pretendere che non sembri uno slum come tutti gli altri" 14 • Ironicamente, quando esce il film Paramount tratto da One Third of a Nation, che è stato girato - unico della serie - fuori dagli studios, a New York, un critico, elogiando distrattamente le scene girate sulla riva del fiume e di fronte al New York Hospital, scrive che il setting è "fortemente indebitato" con quello di Dead End, che ricorda assai da vicino 15 • E proprio Dead End provoca una serie di interventi sul piano pratico e operativo, come ricordava, un poco perplesso, lo stesso regista: "Tutti si complimentavano per quel set, che a me sembrava fasullo lontano un miglio. Più tardi sentii dire che in seguito alle polemiche e ai dibattiti provocati dal film si era arrivati a interventi legislativi per ripulire gli slums e offrire migliori opportunità ai giovani emarginati: per me è stata una piacevole sorpresa, perché gli slums come si vedevano nel film non mi avevano mai minimamente convinto" 16 • Anche se può dispiacere dare ragione a Goldwyn e torto a Wyler, il film appare oggi sorprendentemente vitale non solo per il suo indubbio valore 'politico' ma anche per questo suo aspetto, per così dire, 'più che teatrale': la regia finisce per esaltare, o meglio ancora per iper-teatralizzare, ciò che appare già destinato al palcoscenico, insistendo sulla mimicry dei ragazzi che imitano i ricchi signori degli East Side Apartments, o creando microsituazioni spettacolari ("e voi, credete di stare a teatro?" grida a esempio Drina ai due gangster, che non sono intervenuti mentre i ragazzi sottoponevano a una sorta di violento rito iniziatico un nuovo adepto; più tardi, la prostituta chiede beffarda a Kay "beh, ora che mi ha vista?", e alla folla che al finale si assiepa intorno al cadavere di Baby Face il poliziotto parla di "circo finito"). Si tratta, in poche parole, di un saggio non solo di, ma anche sul teatro filmato; e lo schermocontenitore di Wyler minaccia di esplodere con una violenza che nel cinema di quegli anni non è davvero comune.

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È possibile vivere una vita piena, è possibile nascere e crescere in questa città falsa, che è anzitutto una città matrigna? Il vero mondo delle Madri è quello della terra, come riscopriranno in tempi più recenti Elia Kazan con la sua Ella Garth (Wild River) e Robert Benton con la Edna di Places in the Heart. Sulle contraddizioni della civiltà metropolitana, Lewis Mumford fa delle osservazioni rivelatrici: "Dal villaggio la città deriva la sua nat:ura di ambiente materno e vitale (il corsivo è mio), stabile e sicuro, radicato nei rapporti reciproci dell'uomo con altri organismi e comunità; e ancora dal villaggio trae le forme e i valori di una democrazia egualitaria nella quale ogni membro svolge le funzioni che gli sono proprie in ogni fase del ciclo vitale"; purtroppo la città è anche desiderio di supremazia, di dominio, di violenza, e in questo senso le viene a mancare la dimensione più sopra accennata 17 . E Benton, nel rievocare, a proposito dell'autobiografismo in Places in the Heart, il suo distacco dalla casa paterna in una zona agricola del Texas, l'esperienza universitaria e della città, la morte della madre, si esprime in termini non dissimili: "Non ero più un anello di quella catena, ero diventato parte della mobilità e del nomadismo dell'America urbanà' 18 • Nella città del cinema anni Trenta, i ragazzini hanno sorelle maggiori (in genere con il volto di Sylvia Sidney, che per curiosa coincidenza è la protagonista, in ruoli non dissimili, di Street Scene, Dead End, e One Third of a Nation); non possono avere una' madre, o se ce l'hanno (come nel primo di questi tre casi) la perdono tragicamente assai presto. E la coppia vittima della Depressione in genere non ha figli (Seventh Heaven o Settimo cielo; A Man's Castle; Little Man, What Now? o E adesso, pover'uomo?; You Only Live Once o Sono innocente), oppure ha un bimbo malato o morente (Made far Each Other, The Crowd). Questa famiglia-tipo è l'emblema della 'famiglià che si viene a creare all'interno degli studios, senza sesso e senza procreazione, una famiglia d' ombre: gli scandali, se ci sono, vanno accuratamente nascosti. Ma ecco, in questo mondo, la crescita abnorme dei Dead End Kids, che dalla commedia di Kingsley e dal film di Wyler, passando alla

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Warner e poi alla Monogram, danno vita a un vero e proprio sottogenere, fra i più curiosi e sintomatici nella storia del cinema minore di quegli anni. Si chiamano Leo Gorcey, Huntz Hall, Billy Halop, Bobby Jordan, Bernard Punsley, Gabriel Dell. I rispettivi personaggi - Spit, Dippy, Tommy, Angel, Milty, T.B. - sono stati creati da Kingsley con un linguaggio che a quei tempi suscita un vero e proprio shock; sono sporchi e cattivi, pronti a tutto per sopravvivere nella giungla del Lower East Side, sempre intenti ad azzuffarsi fra loro e con i ragazzi dei quartieri confinanti, a rubacchiare nei negozi, a tuffarsi nelle acque melmose del fiume, a passarsi sigarette alla "mahriwanna", a scappare dai poliziotti e dalle sorelle che vogliono mandarli a scuola o almeno spazzolarli finché non si staccano i pidocchi dalla testa. Potr~nno diventare, in futuro, dei sognatori onesti e falliti come l'architetto disoccupato Gimpty (Dave nel film), o gangster come la gloria del quartiere, Baby Face: Kingsley non si pronuncia, ma al finale, mentre il loro capobanda, Tommy, è trascinato in prigione, gli altri, in un raro momento di relax, cantano uno spiritual che uno di loro ha imparato durante una non dissimile esperienza, da un ragazzo nero compagno di cella: "If I had de wings of a angel / Ovuh