117 45 8MB
Italian Pages 130 [180] Year 2012
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eMedia books: l’editoria in rete Collana diretta da Alberto Abruzzese, Giovanni Boccia Artieri, Gino Frezza, Gianfranco Pecchinenda, Giovanni Ragone
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La strada di Fellini Sogni, segnacci, grafi, immagini e modernità del cinema a cura di
Gino Frezza e Ivan Pintor
Liguori Editore
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Questa opera è protetta dalla Legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive modificazioni. L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2012 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Settembre 2012 Frezza, Gino (a cura di) : La strada di Fellini. Sogni, segnacci, grafi, immagini e modernità del cinema/ Gino Frezza, Ivan Pintor (a cura di) eMedia books: editoria in rete Napoli : Liguori, 2012 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 5797 - 7 1. Storia del cinema
2. Multimedia
I. Titolo
II. Collana
III. Serie
Aggiornamenti: ——————————————————————————————————————— 20 19 18 17 16 15 14 13 12 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0
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Indice
IX 1
Presentazione Fellini, disegnatore e cineasta di Gino Frezza Il contesto del film italiano in cui si afferma Fellini autore 1; “La vecchia coppia” in Fellini: i disegni e il cinema 7; Costellazione grafico-dinamica del cinema-disegno felliniano 10; Stasi e movimento: il sublime inganno e il gioco tragico 16
21
Ricordi, sogni, pensieri: il sogno nelle immagini di Fellini di Ivan Pintor Ricordi 22; Sogni 26; Pensieri 31; Il cammino dell’alchimia 35
43
Lo Sceicco bianco e la mediazione immaginaria del desiderio di Raffaele Pinto
57
Nuovi spazi per sognare. La rappresentazione del desiderio nel cinema di Fellini di Nuria Bou La rappresentazione del desiderio nel cinema classico 57; Dialogare con l’espressione classica 58; Il desiderio fra la (neo)realtà e la modernità 60; La crisi della rappresentazione del desiderio 62; Un nuovo spazio per il desiderio 63; Filmare i sogni nella realtà 65
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VIII
Indice
69
Federico Fellini e l’Antichità inventata di Pilar Pedraza
81
Il realismo radicale di Fellini-Satyricon di Xavier Pérez
89
L’ambigua seduzione della merce. Fellini e la pubblicità di Sergio Brancato
99
Sul Casanova di Alfonso Amendola Premessa 99; L’incontro con Andrea Zanzotto 101; Contro Casanova 104
109
Segnacci di sogno di Paolo Fabbri
115
Bibliografia
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Presentazione
Questo volume parte dalla raccolta degli interventi – poi divenuti saggi – con i quali alcuni studiosi italiani e spagnoli (noi curatori, Raffaele Pinto, Nuria Bou, Pilar Pedraza) hanno introdotto i film di Federico Fellini nel corso di una rassegna catalana dedicata al regista italiano fra il 2010 e il 2011 a Madrid, Barcellona, Palma di Majorca. A questo nucleo si è aggiunto un altro gruppo di studiosi italiani interessati a rivedere in ottica nuova il cinema del grande regista riminese. Tutti, in ogni modo, indagano i diversi aspetti dell’opera dell’autore più discusso e osannato del cinema italiano fuori da ogni lettura celebrativa o da analisi solo meramente storico-critiche. Fellini e il suo cinema vengono considerati sul piano di una complessa entità creativa e di un’opera di immagini e suoni ancora piena di sorprese; la sua lunga carriera, dal neorealismo alle soglie postmoderne della fine del ventesimo secolo, dimostra le facce plurime di un sistema audiovisivo e narrativo (e altresì di una forma di pensiero) allo stesso tempo popolare, commerciale e sperimentale, riconosciuto sia in Europa che a Hollywood, amato-odiato, venerato e osteggiato, controverso, e in ogni caso marchio riconoscibile di una “macchina per immaginare”. Molti degli aspetti studiati dagli autori dei saggi di questo volume si rivelano, inoltre, grazie a varie interferenze di metodo nell’approccio al cinema di Fellini: dalla ricerca e dall’evidenza di quegli autori di letteratura che hanno nutrito molti elementi “forti” delle sue immagini (Dante, in primis), ai creatori dei fumetti che, sempre, hanno costituito un grande interesse per il regista riminese, agli elementi della psicologia junghiana del profondo che possono aiutare a comprendere certe impronte “di fondo” del suo cinema. I diversi testi raccolti in questo volume disegnano una traiettoria di indagine che recupera le radici dell’immaginario di Fellini (l’eredità del teatro barocco e il trompe l’oeil, l’onnipresenza dei fumetti americani e italiani, la costruzione del desiderio, la persistenza dei classici greco-
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X Presentazione
romani e il suono del dolce stil novo di Dante, l’universo dei sogni e la rete fra storia personale dell’autore e progettazione dei vari film, la molteplice creatività di Fellini come disegnatore e cineasta) secondo una chiave che infine scopre l’intrinseca duplicità felliniana: l’intenzione di colpire e incantare lo spettatore si accompagna a un disincanto tanto potente quanto critico e consapevole dei suoi “effetti”. Alcuni ringraziamenti per l’uscita di questo libro sono sentitamente dovuti. Anzitutto alla “Caixa Forum” di Barcellona e Madrid per aver consentito l’inizio di un percorso di analisi che trova in questo libro il suo positivo esito, e in particolare a Marta Rafols e ai suoi collaboratori per la tenacia e l’intelligenza con la quale hanno reso possibile la rassegna spagnola su Fellini; a Xavier Perez, Sergio Brancato, Alfonso Amendola, per aver voluto condividere l’interesse a una profonda revisione dello sguardo critico sul cinema di Fellini; last but not least, a Paolo Fabbri, vecchio amico e sodale di passioni sulle immagini filmiche, semiologo di grande e notissimo valore, che ha voluto disinteressatamente partecipare – pur nel ruolo di Presidente della “Fondazione Fellini” – a questa avventura di pensiero e di cinema.
Avvertenza La traduzione in italiano dei saggi spagnoli di Ivan Pintor, Nuria Bou, Pilar Pedraza, Xavier Perez è di Federica Antonella Sala. Non pochi saggi del presente libro contengono diversi riferimenti a immagini dei film di Fellini come ad altre immagini, disegni, grafi ecc. Non poteva essere altrimenti, essendo il libro stesso concepito in qualche modo come un “viaggio” all’interno della vasta e ricca opera audiovisiva del regista riminese. Il lettore che acquista questo libro ha a disposizione una password di accesso con la quale dal sito web dell’Editore – www.liguori.it – potrà accedere ai materiali visivi e audiovisivi richiamati nei vari saggi. Tali materiali costituiscono una documentazione integrata al presente volume e danno precisi riscontri alle analisi condotte su momenti specifici e su caratteristiche salienti dell’opera cinematografica di Federico Fellini.
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Fellini, disegnatore e cineasta di Gino Frezza
Il contesto del film italiano in cui si afferma Fellini autore A quasi vent’anni dalla morte, Federico Fellini si pone come una figura del cinema internazionale e del cinema italiano del dopoguerra al punto di essere ripensata radicalmente. Lo si può fare nella buona posizione di chi non è accecato o coinvolto dai clamori scatenati dalla netta affermazione dei suoi film di grandissimo successo (La dolce vita, 8½, Satyricon, Amarcord). Autore conclamato fra gli anni ’60 e ’70, poi a metà Ottanta rimesso in forse da una nuova generazione di spettatori, Fellini può godere, fuori dalle polemiche o dai preconcetti, di uno sguardo non condizionato, attento sia alle promesse realizzate che ai limiti incastonati nel suo modello di cinema. Oggi – per esempio – non può essere dimenticato come l’alveo storico – non solo esterno ma specialmente interno alla situazione del cinema italiano – dentro cui si è gradualmente formato il cinema di Fellini sia stato decisivo per la sua affermazione, per come il suo cinema si è gradualmente inserito e imposto in una posizione di apice nei tardi anni Cinquanta e nei primi Sessanta. L’habitat e il contesto interno a quel cinema italiano, se rivisto complessivamente, può fornire lumi di comprensione del ruolo a sua volta “critico” detenuto da Fellini entro quella generazione di cineasti del dopoguerra con la quale il nostro autore è maturato: una generazione comprendente registi più grandi di età e talvolta maestri decisivi per la stessa competenza cinematografica del nostro autore. Fellini, tranne che per alcuni suoi maestri e amici (Rossellini, Pietro Germi, Tullio Pinelli), non si è mai chiaramente pronunciato su questo.
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2
La strada di Fellini
Ciò non toglie che Fellini non sia autore da comprendere esclusivamente nella sua singolarità specifica, ma appunto da inscrivere dentro un più largo gruppo fatto di solidarietà creative, emerso fra fine anni Quaranta e primi Cinquanta. Non solo la collaborazione strategica ricevuta da Fellini da parte dei suoi grandi sceneggiatori: Tullio Pinelli, in primis, ma anche, finché in vita, da Ennio Flaiano; altresì le collaborazioni da Fellini fornite, come sceneggiatore, a Rossellini (il primo a spingerlo verso la regia), a Germi, a Lattuada (col quale, infatti, Fellini co-produce e codirige il suo primo film, Luci del varietà, e col quale Fellini collabora da sceneggiatore per due film come La storia di Giovanni Episcopio e Il mulino del Po). Si può sintetizzare brevemente l’apporto dato da questi autori a Fellini? Sicuramente: anzitutto, la condivisione di un grande mutamento della società italiana nei primi anni del secondo dopoguerra, l’assunzione di una presa di responsabilità del cinema verso l’immagine dell’Italia all’indomani della seconda guerra mondiale; uno sguardo critico ravvicinato al sentire dolente di una società in cui il cambiamento storico fa emergere disuguaglianze, violenze non solo collettive ma individuali, private, intime; e inoltre – non “ultimo” dato sensibile per Fellini – la posizione che in questo grande cambiamento strutturale, economico, culturale, del paesaggio urbano e sociale italiano, occupano gli umili, i deboli, gli ultimi, i più innocenti (che risultano vittime e tuttavia anche co-responsabili del nuovo scenario). Qual è la posizione di Fellini, non solo nella stagione del neorealismo ma anche e subito dopo (gli anni Cinquanta, quelli della ricostruzione, dell’Italia democristiana, dove emergono le disuguaglianze sociali, la povertà non redenta, il peso delle tradizioni familiari e gli schemi gretti della piccola e media borghesia asservita al potere)? Non è una posizione facile da cogliere. Fellini non ha il rigore morale di Rossellini (del quale è sceneggiatore dai tempi di Paisà e per il quale, fra altro, interpreta il ruolo di un “finto” San Giuseppe in Il miracolo) né il suo coraggio; da Rossellini – che Fellini reputa il suo vero maestro e dal quale riceve grande apprezzamento appena egli inizia la sua carriera di regista – Fellini apprende il senso di scandaglio della vita che il cinema si incarica di rappresentare. Fellini non ha la competenza spettacolare e il respiro mitologico di Germi (si ricordino film come Il cammino della speranza o Il brigante di Tacca del Lupo, ai quali Fellini appone un indubitabile contributo di scrittura). Mentre Germi dimostra di possedere un grande senso narrativo, ma nell’alveo di un respiro “classico” dell’esplorazione visiva che il cinema dispone sulla realtà e sulla storia – almeno fino a Divorzio
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Fellini, disegnatore e cineasta 3
all’italiana –, Fellini si libera di ogni vincolo alla tradizione e perlustra vie nuove del racconto e della rappresentazione filmica. Fellini, tuttavia, rispetta Germi anche se ne fornisce un giudizio globalmente limitativo (infra). Fellini non possiede la lucidità antropologica e lo sguardo smaliziato di Lattuada. Un regista, questi, che ha sei anni in più del nostro autore, ma ha già fatto i suoi – importanti – passi da autore prima che Fellini dia il suo originale contributo al cinema italiano del dopoguerra. I due si incrociano in modo significativo nelle rispettive carriere (infra), e mentre Lattuada mostra continuità nel lucido sguardo puntato a mostrare le disuguaglianze sociali dell’Italia sopravvissuta al fascismo, Fellini mostra – già da I Vitelloni – uno sguardo ambivalente, dentro il quale il passato ancora cammina, seppure non riconosciuto, nel presente. Cosa mostra di avere, per parte sua, Fellini, rispetto agli autori citati? Tre cose soprattutto: la malinconia sottesa provocata dalla riflessione sulla perdita d’innocenza in una società dove vince la sopraffazione; la realtà nitidamente fotografata dal cinema che d’improvviso assume la struttura di una giostra di apparenze, che pare sorvolare sul dramma intimo dei suoi personaggi eppure lo rende ancora più stridente e amaro; una attenzione specifica a quei piccoli mondi dello spettacolo (ancora resistenti negli spazi periferici della civiltà moderna) che pian piano si dissolvono nell’emergere della società tecnologica dello spettacolo di massa. Questo dato problematico di partenza – le relazioni che Fellini ha con gli autori coesistenti dell’epoca, con alcuni dei quali ha lavorato intensamente preparandosi al suo successivo percorso di regista – va assunto come una chiave che può, meglio di altre, far emergere la difficoltà di un giudizio univoco. Specialmente per i lati molteplici che ne caratterizzano i segni: 1. vi sono qualità positive di un tale rapporto. Una in particolare: la capacità di saper nutrire l’immaginario di artefici d’immagini così diversi l’uno dall’altro come Rossellini, Germi e Lattuada – con quest’ultimo, peraltro, Fellini co-dirige il suo primo film, Luci del varietà, e la duplicità della regia si nota sul registro simbolico rivestito dalle due attrici che giocano un ruolo importante nei confronti del protagonista, il capocomico Signor Checco interpretato da Peppino De Filippo: Carla Del Poggio, allora bellissima e valente attrice e moglie di Lattuada; Giulietta Masina, allora straordinaria attrice ancora emergente e già compagna di vita di Fellini. La Del Poggio è infatti
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La strada di Fellini
vettore della commedia tersa e disillusa di Lattuada, interpretando una figura di donna che usa la propria avvenenza fisica ed è disposta a sacrificare la generosità e la dedizione del signor Checco pur di affermarsi nell’ambiente dello spettacolo italiano; la Masina è, invece, una Cabiria in pectore, donna disponibile ad accettare tutto dal signor Checco, finanche un tradimento, per amore e affetto senza condizioni (ecco già emergere il tema dell’innocenza calpestata dagli altri…)1. Fra questi tratti positivi, si annovera senz’altro la serie delle diverse collaborazioni creative che Fellini tesse con autori di cinema coevi o anche più giovani. È utile ricordare, da un lato, che il soggetto di Lo sceicco bianco è firmato da Michelangelo Antonioni: da alcune dichiarazioni rese dal regista ferrarese, che omaggia Fellini per aver diretto un film bellissimo, si misura come egli avesse originariamente concepita una storia centrata sul personaggio del marito, Ivan (Leopoldo Trieste), che – nel senso tipico del cinema di Antonioni – gira a vuoto nella città in cerca della giovane sposa scomparsa, mentre da parte sua Fellini (che sviluppa e scrive la sceneggiatura con Pinelli e Flaiano) focalizza il film più attorno al personaggio di Wanda e alle sue fantasie romanticheggianti e “popolari”, ricamate nell’intreccio fra le fantasie di carta dei fotoromanzi e le immaginazioni ricadenti sulla sua vita, tali da portarla alla deriva, in cerca del suo eroe fiabesco (alla fine, dopo tante tribolazioni, rintracciato proprio nella figura di Ivan). Dall’altro, va ancora ricordato che Fellini chiamò a collaborare alla sceneggiatura di Le notti di Cabiria, divenendo da lì in poi suo amico e sodale, Pier Paolo Pasolini, almeno fino alle
1 In merito alla co-regia di Luci del varietà, Alberto Lattuada così risponde a Aldo Tassone che lo intervista fra il 1973 e il 1979 su tale film: “Fellini aveva collaborato alla sceneggiatura di tre dei miei film precedenti ed era l’autore dell’idea di Luci del varietà. Siccome nel film lavoravano le nostri mogli fianco a fianco, io dissi a Fellini: ‘Devi firmare il film come regista’. L’ordine dei nomi sui titoli di testa (un film di Lattuada e Fellini) rispecchia esattamente quello che è stato. Il film è stato interamente girato da me, affiancato da Fellini, al quale appartengono ovviamente i lati picareschi e fantastici della storia. Io ho sempre avuto un’enorme stima di Fellini, era una testa meravigliosa e con lui mi ero sempre inteso molto bene. Non capisco perciò perché in seguito Fellini abbia avallato l’idea che Luci del varietà sia una cosa più sua che mia, rubandomi in qualche modo la paternità del film. Con tutti i capolavori che ha fatto non ha certo bisogno di Luci del varietà per tenere in piedi la sua fama. Che l’allievo abbia superato il maestro (io gli spiegavo sempre le ragioni di quello che facevo, proprio come un antico maestro di bottega spiega agli allievi il segreto degli impasti di colore) è una cosa che mi rende molto contento. Sono molto fiero di aver ‘tenuto a battesimo’ uno dei registi più importanti del mondo. Ma la paternità di Luci del varietà, dalla carta scritta allo schermo, è assolutamente mia” (in Tassone 1979, pp. 157-158).
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Fellini, disegnatore e cineasta 5
disavventure produttive di Accattone2. Fellini lo incaricò di scrivere scene e dialoghi della Roma notturna abitata da prostitute, ritenendo che Pasolini conoscesse meglio quel particolare ambiente della città (giudizio che si era fatto dopo aver letto Ragazzi di vita), così come risale a Pasolini l’episodio, nel film felliniano, dell’amico di Cabiria che si reca in pellegrinaggio in una cattedrale cattolica sperando in un miracolo che lo salvi dalla disabilità fisica. I legami che Fellini tesse nel corso della sua carriera (dapprima come sceneggiatore, con Rossellini, Germi, Lattuada; poi come autore e regista, con scrittori e registi coevi) danno insomma il senso della posizione “chiave” da lui detenuta in uno snodo cruciale di sviluppo e di innovazione del cinema italiano, all’interno della più grande e problematica storia dell’emergenza del cinema moderno in ambito internazionale nei primi anni Cinquanta. 2. Vi sono altresì qualità che differenziano, in negativo, la posizione che Fellini esprime in rapporto con la sua formazione, come se l’avesse voluta da un lato ridimensionare, per esaltare dall’altro le sue capacità individuali; di questo aspetto del rapporto duplice, controverso e non senza pieghe talvolta spiacevoli, con vari autori coevi, si ricordano alcune tracce depositate in memorie di vari compagni di avventura. Ne è esempio il ritratto caratterizzante che Fellini racchiude in una breve definizione della figura e del talento di Pietro Germi; la testimonianza è di Alfredo Giannetti, che riporta una frase riferitagli da Marcello Mastroianni: Mastroianni giorni fa mi ha detto: Sai Fellini come lo chiamava Germi? “Il Grande falegname”. Lei pensi a Germi, fisicamente, il carattere e tutto. Se lei fosse un regista e dovesse fare un film da Zola – un ‘Gervaise’ – non lo vedrebbe come un artigiano con la bottega, accigliato, che lavora con il legno, con l’odore di spirito e di lucidatore di mobili […] mi pare proprio una definizione perfetta (Aprà, Armenzoni, Pistagnesi 1989, p. 120).
2 I rapporti personali fra Fellini e Pasolini sono ricordati e ricostruiti, seppure dalla prospettiva parziale di diverse testimonianze, in Fellini 1996, pp. 94-100. Vi si racconta, peraltro, di come Fellini, titolare della casa di produzione “Federiz”, diede un giudizio nettamente sfavorevole ai provini che Pasolini aveva diretto per Accattone, ritenendolo un film non meritevole di essere prodotto, decisione che minò da quel momento l’amicizia anche personale fra lui e Pasolini, il quale poi si rivolse ad Alfredo Bini per realizzare il suo primo film da regista.
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La strada di Fellini
Con la definizione di Germi “falegname”, Fellini sembrerebbe dare forza e autorevolezza a questo autore primario del cinema italiano – ritenuto da Billy Wilder un maestro – mentre d’altro canto la definizione può valere come un ridimensionamento sul livello di un magistero artigianale senza ulteriore respiro. Fellini non è generoso, spesso anzi è spigoloso e volutamente indecifrabile o alla sua parte talvolta attribuisce operazioni che trascendono le sue singolari capacità. Come dimostra un secondo esempio che ci riporta al giudizio di Vittorio De Sica su Fellini, un giudizio che fornisce una “critica reazione” d’autore, in risposta a un’intervista di Fellini apparsa sulla stampa italiana nel 1960 sul cinema italiano neorealista all’indomani della seconda guerra mondiale. Fra il 27 e il 29 luglio del 1960, mentre sta girando La Ciociara, De Sica scrive alla figlia Emi. Il 27 luglio: “Oggi sul ‘Messaggero’ è apparsa una mia interessante intervista. Te la spedisco a parte. […]” – il 28 luglio: Evviva il Cinema e Fellini. Hai letto la sua intervista sul ‘Messaggero’? Che altra categoria di uomo! Io tutto modestia e generosità, lui tutto presunzione e avarizia di giudizi specialmente sul mio conto. Tutti i meriti sono suoi, di Rossellini e di Zavattini. Il tempo però metterà a posto le cose […].
– il 29 luglio: Non so se avrai già letto l’intervista di Fellini, che sputa sentenze e dà direttive. Dice: la collaborazione di Zavattini con De Sica è difficilmente scindibile nelle componenti dei rispettivi apporti. Le qualità più tipiche di Zavattini sono restate sulla pagina teorica, negli appunti di poetica. E io dico: la collaborazione di Flaiano, Pinelli e Fellini è facilmente scindibile nelle componenti dei rispettivi apporti. Le qualità di limpido, sobrio narratore che è Flaiano si notano nei film di Fellini, distintamente. Il dialogo, un po’ teatrale, porta il segno di quell’abile uomo di teatro ch’è Pinelli e tutto il provincialismo, il manierismo, il simbolismo (mostro marino, Cristo in aria, angelo) lo charlottismo e l’ambiguità ideologica sono propri di Fellini (De Sica 1987, pp. 54-56).
Da questa duplice caratterizzazione di Fellini, positiva e negativa, emerge un ritratto complesso, sfaccettato, non privo di lati non sempre decidibili in un senso o nell’altro, e non soltanto per l’intrinseca difficoltà di pervenire a un’analisi compiuta e non parziale partendo da testimonianze che restituiscono solo specifiche versioni e maniere (per quanto legittime) soggettive di riportare fatti o eventi della vita e dell’opera di Fellini.
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Fellini, disegnatore e cineasta 7
Piuttosto, l’inquadramento di una tale complessa figura rimanda alla difficile focalizzazione (però chiaramente leggibile in Fellini) dell’avventura di una generazione italiana, cresciuta nell’Italia provinciale del fascismo e trovatasi immersa sia nell’agone drammatico della seconda guerra e, ancora di più, nella difficile e lunga opera di ricostruzione di un intero paese. Fellini in tal senso, seppure con una potenza espressiva decisamente singolare, può essere ritenuto rappresentativo di un’intera generazione di artisti, con proprie ambizioni e limiti; una generazione che ha dovuto reinterpretare complessivamente il reale, la maniera di percepire il legame del presente con la memoria individuale e collettiva, e che ha dovuto imprimere di un forte segno, profondo e coinvolgente, il modo d’essere di un medium, il cinema, capace di essere comune, universale e, insieme, estremamente profondo. Egli ha fatto ciò dentro il contesto del cinema italiano del secondo dopoguerra, un sistema disomogeneo nelle risorse e nelle prospettive generali, seppure molto vitale e capace di rigenerarsi tecnicamente più volte. Di questa disomogeneità, Fellini si è saputo nutrire forse meglio e con maggiore astuzia di altri, almeno fino agli anni Settanta, affermando così la sua singolarità di autore. Dentro questa chiave di lettura, segnalare la centralità del rapporto che Fellini ha sempre dichiarato e praticato con i fumetti e le forme popolari della visione e della fantasia significa ricondurre la sua figura artistica al crocevia di una generazione (anni Trenta, anni Cinquanta) che ha interamente e pienamente vissuto le potenzialità, i limiti e gli orizzonti del sistema dei media egemoni in quel periodo: cinema, fumetti, fotoromanzi, letteratura seriale, letteratura moderna e d’autore. Anche Fellini, come vari altri suoi coetanei (in letteratura, arti figurative, teatro, scrittura), ha dovuto fare i conti con il doppio piano consistente, per un verso, nel rispettare e conservare meccanismi di “genere” della narrazione audiovisiva (commedia, comicità, fantastico…) e, per altro verso, nella necessità di imprimere un salto di qualità alle forme narrativeaudiovisive. Questo doppio piano ha reso possibile, nella forma esclusiva del suo cinema, la definizione di un marchio autorevole e riconoscibile, da Fellini sentito come unico segno capace di corrispondere in modo adeguato alla coscienza del suo presente. “La vecchia coppia” in Fellini: i disegni e il cinema Figura non sempre facile da decifrare, e non senza ombre, Fellini mostra in tutte le pieghe della sua attività di autore di cinema alcuni fonda-
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La strada di Fellini
menti della sua angolazione espressiva, che possono essere illuminati dalla prospettiva per cui, oltre che uomo di cinema e regista di successo internazionale, egli è anche e soprattutto disegnatore. Sui disegni di Fellini esistono diverse testimonianze importanti e alcuni studi accurati. Oreste del Buono, scrittore italiano, romanziere e critico di letteratura e di cinema, forse il primo intellettuale a inaugurare in Italia gli studi sui fumetti, fin dagli anni Cinquanta (dall’epoca in cui collabora alla rivista “Politecnico” diretta da Elio Vittorini) fu amico di Fellini anzitutto per la comunanza di passioni e di interessi profusi attorno al repertorio delle tavole disegnate che si sviluppò fra il primo e il secondo Novecento. Del Buono, in uno scritto dedicato al rapporto fra disegno e film in Fellini, ne parla come di “una vecchia coppia”; e, per stabilire un paragone fra l’universo filmico felliniano e altri campioni dell’immaginario novecentesco, ne sceglie altri due, per comporre un ideale terzetto di “grandi viaggi figurativi e visionari”. E cioè fra: 1) il Fellini Satyricon del 1969; 2) i viaggi di Little Nemo in Slumberland nelle tavole a colori del grande Winsor McCay sul “New York Herald” dal 1905 al 1914; 3) gli albi di Flash Gordon disegnati da Alex Raymond per le pagine domenicali del King Feature Sindacate dal 1934 al 1946. Secondo il parere di Del Buono, i disegni e le caricature giovanili di Fellini già sono colmi dei segni e delle ossessioni che caratterizzano il suo cinema posteriore: per l’affilato studente di Rimini, che tramuta i guadagni giornalistici in omaggi floreali [O.d.B. si riferisce ai fiori comprati alla madre dopo la vendita del suo primo disegno]… nella sua mitologia personale le donnine, per l’esattezza le donnone, del pittore Barbara si ricollegano alla Saraghina vera o presunta, a quella immaginata o patita incarnazione di tutta la bieca potenza della donna (Del Buono 2004, p. 8).
Sia Del Buono che altri studiosi, giustamente, insistono sull’apprendistato compiuto dal giovane Fellini sia come caricaturista e collaboratore di importanti riviste satiriche e umoristiche italiane degli anni ’40 (il “420”, il “Marc’Aurelio”), sia l’esperienza redazionale compiuta presso l’editore Nerbini di Firenze, come soggettista e sceneggiatore di storie a fumetti avventurose che ricalcavano le avventure di Flash Gordon di Alex Raymond, avventure grafiche che Fellini adattava all’editoria autarchica dell’era fascista per i disegni di Giove Toppi. L’esperienza di sceneggiatore di fumetti e caricaturista ha segnato profondamente il giovane Fellini, al punto che la sua biografia personale
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Fellini, disegnatore e cineasta 9
non è mai stata aliena o distante dall’immaginario a tavole e strisce. La “vecchia coppia” a cui accenna O.d.B. non si è mai – dunque – sciolta, ma ha continuato a nutrire una trasversale passione per le immagini fisse e in movimento, dall’inizio fino alla fine della carriera del nostro autore. Fellini, nel tempo, non ha mai abbandonato né ha considerato marginale l’interesse per gli orizzonti visionari e per quelli di caratura generazionale e narrativa-drammatica del fumetto. Basti ricordare che Fellini non ha mai mancato – sia privatamente che con brevi interventi e dichiarazioni sulla rivista “Linus” e su altre che furono editate in Italia negli anni Settanta/Ottanta (Fellini 1979 consiste in una lettera scritta direttamente in francese da Fellini il 23 giugno del 1979 a Moebius/Jean Giraud, nella quale egli esprime tutta la sua grande ammirazione per l’autore francese) – di segnalare alcuni particolari apprezzamenti per vari autori di fumetto. Queste predilezioni evidentemente confermano in Fellini un gusto grafico-artistico ma anche talune forti solidarietà creative, sia sul piano narrativo che su quello della formalizzazione grafica dell’immaginario. I nomi da segnalare sono diversi, ma assai significativi risultano: – la preferenza segnalata esplicitamente per un autore grafico come Jean Giraud/Moebius, del quale Fellini apprezza la capacità di aver ampliata la quadratura del disegno racchiuso nella vignetta, e di rappresentare universi sospesi fra reale e immaginario, racchiusi o tessuti l’uno dentro l’altro come scatole cinesi o bambole russe; – l’ammirazione per un disegnatore, Vicente Segrelles, autore delle tavole fantasy della serie Il Mercenario, tavole che colpiscono Fellini per la forza incisiva di immagini che esprimono con evidenza iperreale un mondo del tutto sospeso in una fantasia libera da qualsiasi vincolo di verosimiglianza; – l’apprezzamento che più spesso Fellini dichiara verso il segno chiaroscurale di un autore come José Muñoz, e specificamente alle tavole di Alack Sinner ideate e create da Muñoz sulla base delle sceneggiature di Carlos Sampayo, per la capacità di raccordare immagini di una realtà metropolitana scura e violenta con altre che estrinsecano l’immaginazione psichica, interiore, del personaggio; – la preferenza accordata al segno grafico secco, essenziale e tuttavia capace di esprimere un sentimento fortemente generazionale, dei fumetti di Andrea Pazienza: autore scomparso giovane nel 1988 (cinque anni prima del più anziano Fellini) e che il regista volle non a caso coinvolgere nella realizzazione del manifesto cinematografico del suo La città delle donne;
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La strada di Fellini
– infine, la solidarietà creativa che l’ultimo Fellini, qualche anno prima di morire, ritrova con le tavole e l’universo grafico, a metà fra l’onirico e il demenziale, di un autore come Milo Manara, al quale accorda la traduzione, per una versione a fumetti, di una sceneggiatura inizialmente concepita per il cinema e a suo tempo girata in film solo per pochi frammenti, come Il viaggio di G. Mastorna (vedi infra). Dunque un’attenzione generale verso l’universo narrativo e immaginario dei fumetti che, dalle sue origini, accompagna Fellini per l’intero corso della sua attività; un’attenzione che trova corrispondenze dettagliate nei suoi film, e che si spargono dagli anni Cinquanta, fino alle ultime opere. Ancora: alcuni fondamenti dell’immaginario felliniano, che il grande pubblico conosce e riconosce, in realtà attengono a un universo ricostruibile geneticamente dai disegni di Fellini, da quelli fatti in gioventù a quelli risalenti alla sua maturità di artista. Sempre OdB riepiloga velocemente le connessioni generali fra universo grafico e universo filmico felliniano: Nell’immagine disegnata popolare che ha nutrito la biografia prefilmica del regista, fumetto avventuroso, caricatura, strip comica, vignetta umoristica, sta dunque la remota origine di caratteristiche essenziali dello stile felliniano. Innanzitutto la visionarietà, il ‘pensare in grande’, la costruzione dei film recenti, la presenza di creature anomale sino a sembrare extraterrestri, le prospettive allucinate nell’alterazione delle proporzioni, le scansioni per frammenti o a vortice della narrazione. Poi lo stereotipo femminile, dilatato, paradossale, esaltato e insieme reso mostruoso, gonfiato nei caratteri sessuali secondari, fatto di sensualità, maternità e terribilità, imperioso e seducente, esotico e allarmante, appena ridicolo. Poi la deformazione grottesca dei personaggi minori, delle figurette laterali, dei caratteristi: esasperati e facili, umani e non umani, classici e volgari, comici e semplici, come sono appunto le caricature. Poi la capacità di esser letto in ogni lingua, di parlare sentimentalmente e farsi intendere universalmente, che accomuna disegno popolare e segno felliniano (Del Buono 2004, p. 9).
Costellazione grafico-dinamica del cinema-disegno felliniano L’interesse di Fellini per il mondo dei fumetti muove e si sviluppa assieme alla disposizione originaria dell’autore riminese ad avere, e ad esprimere, competenze di artista grafico. Una memoria resa da Fellini consente di focalizzare meglio le esigenze profonde che ne stanno alla base e ne delimitano l’orizzonte “creativo”:
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Fellini, disegnatore e cineasta 11 Perché disegno i personaggi dei miei film? Perché prendo appunti grafici delle facce, dei nasi, delle borsette… delle persone che vengono a trovarmi in ufficio?... è il tentativo di fissare qualcosa, sia pure minuscolo, al limite dell’insignificanza, ma che mi sembra che abbia comunque a che fare col film, e velatamente mi parla di lui… (Fellini 2004, pp. 13-17, che ripubblica Fellini 1980).
Ecco un primo elemento da considerare: il disegno che blocca un dettaglio, lo esprime tirandolo fuori dall’insieme delle cose che colpiscono l’occhio, che l’attenzione e la memoria selezionano come significativo. Non a caso, in una sua specifica dichiarazione, Fellini rende merito e assegna un chiaro valore alla caricatura, una forma espressiva invece sottovalutata da altri; egli ritiene la caricatura un segno che, sinteticamente, fissa e restituisce l’idea di un “mondo” e, insieme, ne dà la versione “critica”! Ancora, Fellini aiuta a comprendere meglio la sua predisposizione a disegnare; si tratta di un quasi inconsapevole, involontario tracciare ghirigori, stendere appunti caricaturali, fare pupazzetti inesauribili che mi fissano da ogni angolo del foglio, schizzare automaticamente anatomie femminili ipersessuate ossessive, volti decrepiti di cardinali, e fiammelle di ceri e ancora tette e sederi, e infiniti altri pastrocchi, geroglifici, costellati di numeri di telefono, indirizzi, versetti deliranti, conti delle tasse, orari di appuntamenti; insomma, tutta questa paccottiglia grafica, dilagante, inesausta, che farebbe il godimento di uno psichiatra, forse è una specie di traccia, un filo, alla fine del quale mi trovo con le luci accese, nel teatro di posa, il primo giorno di lavorazione (Ibidem, p. 14).
Insomma, Fellini schizza e disegna bozze provvisorie di un immaginario (non solo personale, ma generazionale, talvolta capace di divenire collettivo e universale) che potranno “maturare” in un linguaggio più completo e in movimento: quello del cinema, appunto. Che i disegni di Fellini siano, nel tempo, capaci di esprimere una ricerca autonoma del segno grafico da parte del nostro autore, attento a molte derivazioni culturali della grafica novecentesca, è un fatto ricostruibile non solo dalla sua biografia giovanile ma anche dalle attenzioni che il regista riminese ha dedicato ad autori chiave dell’illustrazione del secolo scorso; per esempio a Saul Steinberg, del quale possono essere rintracciate alcune definite rievocazioni in vari schizzi e disegni del nostro regista (cfr. i disegni 18-21, alcuni di Steinberg e altri di Fellini. Fra questi, il disegno n. 18 riprende alcune tipiche ombreggiature di Stein-
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berg, come quelle che il lettore italiano ha potuto conoscere in Steinberg 1973 e 1976). In particolare, il disegno di una donna tipica dell’immaginario felliniano (dal seno grande) che esplicitamente contiene il titolo del film La città delle donne, rievoca varie immagini di Steinberg dove il segno del balloon contiene la scrittura delle lettere alfabetiche (cfr. il disegno n. 21). Anche Fellini, come Steinberg, mostra in tal modo il “corpo” specifico della parola, il suo peso, la dimensione e la monumentalità o la pervasività talora minacciosa, perentoria, o viceversa timida, debolmente accennata, che il suono della parola spesso possiede e che la scrittura restituisce servendosi dei propri tratti figurativi (corpo, stile, dimensione della lettera ecc.). Ma il percorso che Fellini compie dal disegno al film non è univoco e non è semplice; risulta invece complesso ed elaborato, e a sua volta dà luogo a un processo che situa, in maniera composita, diversa volta per volta, disegno e disegno. All’interno di tale processo creativo, Fellini passa non indifferentemente dal disegno allo schermo, o da questo alla carta e pennarello, carta e penna, lavorando sul crinale fra immagine fissa e in movimento, fra illustrazione di dettagli di un immaginario e visione completa tesa a caratterizzare personaggi o un arredo o un ambiente. Di questi, i tratti visivi apparentemente secondari del singolo schizzo forniscono una chiave di lettura profonda, uno stigma, un senso, spesso definitivo, che l’immagine propone senza bisogno di ulteriori ceselli. Pier Marco De Santi, studioso dell’opera omnia dei disegni di Fellini, ripropone, in un volume dedicato a tale produzione grafica, la classificazione stilata da Raffaele Monti, per il quale sono tre le fasi d’intervento del disegno nel cinema di Fellini: 1. La prima (relativa a una categoria di bozze) è costituita “da quei disegni che, per quanto eseguiti nel corso della ideazione e della lavorazione di un film, sono semplici appunti mnemonici o sacche di scarico di una più approfondita elaborazione visuale” (De Santi 2004, p. 23). Possiamo constatare la funzione e il senso mnemonico o di comando del processo creativo filmico in Fellini da alcuni casi: il primo disegno (cfr. il disegno n. 1) rimanda a Le tentazioni del dr. Antonio, film del 1962, dove Fellini condensa in una sola immagine il rapporto ossessivo che il personaggio interpretato da Peppino De Filippo vive nei confronti dell’immagine dell’Anitona pubblicitaria che giganteggia su di lui, lo deride e lo irretisce sul piano di quel desiderio che il Dr. Antonio moralisticamente rimuove da sé. Altri disegni riguardano la produzione e la regia di Amarcord, del 1973: il gruppo dei ragazzi che frequentano la scuola e sono amici del protagonista, per i quali il disegno di Fellini definisce
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Fellini, disegnatore e cineasta 13
esattamente l’abbigliamento (berretti, mantelle, calzoni alla zuava), poi precisamente ripreso dalla sequenza corrispettiva di ingresso nell’atrio della scuola; o ancora e soprattutto la caratterizzazione visiva e corporea dei professori (specialmente il professore di scienze e la spiegazione del pendolo, il professore di religione occhialuto e dal ciuffo rialzato a mezza testa, la professoressa di matematica e il suo sguardo, che Fellini nel disegno cerchia con una linea più corposa, per dare cenno evidente del suo (per quanto interdetto, tuttavia chiaro) potenziale aggressivo-erotico (cfr. comparativamente i disegni n. 2-7 con: la sequenza dell’ingresso dei ragazzi nell’atrio scolastico; le sequenze: a) del professore di scienze, b) del prete professore di religione, c) della professoressa di matematica e della confessione di Titta, il giovane protagonista di Amarcord). 2. La seconda (relativa alla categoria delle prefigurazioni) è rappresentata da quegli schizzi che anticipano visivamente i caratteri e gli episodi del film a venire, pur in una definizione ancora fortemente cordiale o violentemente grottesca ai limiti del provocatorio, carica di elementi volutamente extralinguistici, che sarà assente nel set nell’immagine cinematografica (De Santi 2004, p. 23).
Chiari esempi di tale categoria sono certi disegni che rinviano a Lo sceicco Bianco del 1952. Fellini tratteggia la corposità e il profilo dello Sceicco, l’abbigliamento che corrisponderà a quello del film, ma è evidente dall’immagine schizzata (cfr. disegno n. 10) che egli ancora non ha pensato ad Alberto Sordi, eppure già segnala la corposità pingue del personaggio, ambigua e non attraente, mentre nel film, con l’interpretazione di Sordi, il personaggio acquista un che di favolistico e immaginario che alimenta il desiderio del personaggio di Wanda, sua incondizionata ammiratrice finché non le apparirà chiara la piccola statura e l’amara verità del suo “divo”. Altresì Fellini ridisegna il personaggio dello “sposino” di Wanda, Ivan, e lo riporta nelle fattezze di quello straordinario interprete che fu Leopoldo Trieste (cfr. disegno n. 11). Per Le notti di Cabiria del 1954, Fellini prevede in un altro disegno il personaggio di Alberto Lazzari (nel film ha il volto e la fisionomia di Amedeo Nazzari), il divo che, nella Roma notturna dei primi anni Cinquanta, incontra la lunare e simpatica protagonista del film, portandosela a casa. Il divo, nel disegno, è già ben reso da Fellini nel suo abbigliamento ricercato ma disinvolto, o in atteggiamenti rilassati, o momenti privati (collo di camicia slacciata sul collo, vestaglia a pois, che nel film invece risulterà essere a quadretti – cfr. i disegni n. 8 e n. 9). Cabiria, personaggio forse da ritenere quello
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eminente dell’opera felliniana, è più volte disegnata con il volto e le fattezze corporee di Giulietta Masina. Figura dall’espressione birichina e gioviale, Cabiria in altri disegni è costantemente ripensata da Fellini, e qualche foglio disegnato a pennarello anticipa una terza e ulteriore categoria di disegni (infra), motivo per cui questi schizzi vanno anche intesi quali interventi terminali su personaggi e situazioni. Un particolare disegno di Cabiria schizza in modo inequivoco la figura, sottolineando gli elementi di abbigliamento: “bolerino di piume di pollo (leggerissimo), stivaletti di gomma” (cfr. disegno n. 13)… Fellini fissa, così, in una posa frontale, quel movimento nel quale già aveva reso dinamicamente il personaggio: sagoma con una “moda” specifica che ne marchia l’identità, ed è per questo che tale disegno corrisponde, singolarmente, a una bella e divertente sequenza di Le notti di Cabiria, in cui il personaggio è messo in evidente comparazione, nelle posture del camminare e nel mostrarsi, con altre due eleganti signore, presumibilmente escort d’antan, che “se la tirano” sul marciapiede di Via Veneto a Roma (cfr. la sequenza di Le notti di Cabiria, dove al termine della camminata durante la quale Cabiria s’infila fra le due signore e ne scruta smaliziata le figure, la stessa Cabiria, per un istante quasi inavvertito, sembra “guardare in macchina”, per poi rapidamente distogliere lo sguardo). Dello stesso livello, va segnalato un altro disegno che rifà in un solo quadro la sequenza forse più celebre di Lo Sceicco Bianco: in alto, verso il margine superiore destro, la figura dello Sceicco sull’altalena, spicca con tratti che, stavolta, richiamano Alberto Sordi, mentre di spalle e in basso, come alla stessa distanza d’ammirazione della nota sequenza, la figura di Wanda esclama: “ooooh… lo sceicco bianco!!!” (cfr. disegno n. 14). Null’altro, insomma (ma è davvero tantissimo) che la capacità di Fellini di raggrumare in un solo disegno il punto emozionale più forte di un racconto centrato sulla relazione fra lo sguardo innocente di Wanda (nel disegno tale sguardo è celato al lettore, per la posizione di spalle) e l’immagine dello Sceicco che ne proietta i desideri covati, talora inconfessati. Far vedere qui, nel disegno, Wanda di spalle (mentre, nel film, Fellini affida alla bravissima interprete, Brunella Bovo, un primo piano che risulterà memorabile) significa, infine, includere nella costruzione visiva lo sguardo stesso del lettore, che assume l’immagine dello Sceicco ammirato da Wanda come riflesso parallelo al proprio sguardo. Si tratta di un gioco di specchi celato e tuttavia amplificato fra disegno, lettore e personaggio, confermando, per l’ennesima volta, la pluridimensionalità dell’opera di Fellini. 3. La terza categoria (che esprime specchi autointerpretativi e alla quale appartengono, duplicemente, alcuni dei disegni appena ripercorsi e
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considerati nella categoria delle prefigurazioni) è composta da un “nucleo più articolato e spettacolarmente elaborato di disegni”, con i quali Fellini prende congedo dai suoi personaggi… rivisitandoli con il pennarello una volta per tutte […]. Sono… i più bei disegni di Fellini: un ironico, a volte anche struggente specchio autointerpretativo – sostiene Monti – nel quale il regista frantuma violentemente in una sorta di raptus grafico la propria esibita e amata storia giungendo a impaginare immagini che sono insieme il progetto e la lettura critica del film (De Santi 2004, p. 23).
In questo gruppo di disegni a mio avviso ne spiccano due in particolare. Il primo è riferito di nuovo a Le tentazioni del Dr. Antonio: nel disegno con pennarello nero e a colore rosso e blu (cfr. disegno n. 15), Fellini opera di nuovo una sintesi mirabile del racconto filmico del 1962. Il dr. Antonio è ridotto a un solo quarto di figura (il volto con cappello, baffi e occhiali) inserito e cullato dentro i grandi seni di una Anitona corpulenta e procace, oltre che sorridente; l’espressione dei due personaggi restituisce la differenza della loro diversa sensibilità: Anitona soddisfatta di aver colto la preda e di tenerla in grembo, il dr. Antonio sopraffatto forse suo malgrado, e tuttavia – come nel film – forse segretamente contento di occupare quella posizione. La malizia, il tenore e la misura della sessualità all’italiana secondo Fellini (il maschio o rapace sessuofobo o timido introverso, la donna o distante e irraggiungibile o corporalmente invadente e imprevedibile), che il film del 1962 tratta con pungente satira e umorismo, si ripropone, nell’immagine a pennarello, con una perentorietà indiscussa. Il secondo disegno si riferisce ad Amarcord, e in particolare alla figura e al carattere dello zio matto, nel film interpretato magistralmente da Ciccio Ingrassia (cfr. disegno n. 16). L’albero sul quale, nel film, si rifugia lo zio matto e dal quale grida un incontenibile “Voglio una donnaaaaa!”, è reso con tratti incisivi e reticolari, e lo zio matto quasi vi si adagia o si appoggia, spilungone dai piedi scalzi. Anche in questo caso, lo schizzo è molto più di una sintesi, celebrando l’acuto e insostenibile bisogno che, nel film, la famiglia di Titta non riesce a governare e che si esprime nella normalità impedita allo zio matto (che vive in un manicomio), il quale ne soffre non solo individualmente. Il suo, infatti, resta un “sentire” che definisce il “ritratto di costume” di un’epoca. C’è, però, ancora, una quarta categoria di disegni: si tratta di quei bozzetti o layout o storyboard che Fellini appronta e che riguardano o film mancati o idee creative che, per ragioni talora diverse fra loro,
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La strada di Fellini
protendono esplicitamente verso i fumetti. L’esempio lampante è il fumetto ricavato, alla fine degli anni Ottanta, da una sceneggiatura (Il viaggio di G. Mastorna) scritta da Fellini anni prima per un film messo da parte e poi, finalmente, consegnata ai disegni di Milo Manara (cfr. i disegni n. 22-27). Di quest’opera, Fellini esegue il layout con diverse tavole abbozzate, da lui fornite a Manara, il quale ne rispetta l’impostazione di fondo ma, nel contempo, sovrappone il proprio segno grafico a quello del regista riminese. Lo si vede dalla comparazione fra il layout felliniano e le tavole abbozzate e poi definitivamente completate e pubblicate da Manara. Sono evidenti alcune tipicità che differenziano i due “stili”: per esempio, in un layout di Fellini (cfr. disegno n. 22), si nota la figura del cameriere con il tipico segno del naso adunco con il quale il regista spesso schizzava il volto di Nino Rota, segno che Manara, nel proprio layout e nella tavola finale, elimina del tutto (cfr. disegni n. 2324). Altresì, in un altro schizzo di layout (cfr. disegno n. 25) del regista riminese, si riconosce visibilmente la figura di una danzatrice con seni e fianchi procaci che, ulteriormente, conferma l’espanso e corposamente abbondante universo erotico-femminile di Fellini, mentre il layout di Manara e la tavola finale vi sovrappongono la figura più snella ed elegante, tuttavia eroticamente maliziosa, di una delle ben note “donnine” create dall’immaginazione visiva del fumettista (cfr. disegni n. 26-27). Queste tavole – nella comparazione di due stili che si richiamano ma, nondimeno, si elidono vicendevolmente – mostrano la continuità di un immaginario che trapassa dallo schermo alla carta e, tuttavia, mantiene una cifra riconoscibile. Tra Fellini e Manara si spande l’alone tipico di uno specchio che riflette al quadrato le vicissitudini di un film concepito inizialmente con vari disegni, messo in produzione filmica ma interrotto e abbandonato e rimasto in pochi frammenti per poi, finalmente, a distanza di anni, essere realizzato, su un piano visivo-fantastico, da parte di un autore che più di altri (appunto Manara) è bravo ad incorporare l’immaginario di Fellini, ma rielaborandolo e deformandolo dentro il proprio corpus artistico. Stasi e movimento: il sublime inganno e il gioco tragico Il nodo cruciale, insomma, che riguarda la passione di Fellini nel fare film e, insieme, nel disegnare, consiste nella tensione espressiva che in un disegno si fissa sulla carta ma che sullo schermo apprende proprietà dinamiche, anzi risulta movimento autonomo. È una questione artistica e creativa che Fellini ha più volte messo in campo, talora per schegge
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o pezzi autonomi, talvolta con un progetto più cospicuo e organico, e che, anche se non sempre ha trovato risultati compiuti o concreti, ha però costituito un interesse costantemente vivo e centrale fra le sue “ossessioni” creative. Non può non essere menzionata, su questa linea dell’analisi, l’esperienza storicamente mancata di un film di Fellini tratto da Mandrake, il grande fumetto fantastico-avventuroso di Lee Falk e Phil Davis, che segnò, al pari di altre saghe del fumetto statunitense (Flash Gordon, Tim Tyler’s Luck, Dick Tracy ecc.), la cultura e la formazione della generazione italiana degli anni Trenta; si tratta di una occasione che illumina su come il regista sia stato sempre consapevole, anche in negativo, del compito che occorre portare correttamente a termine nel passaggio dal disegno dei fumetti all’immagine filmica. Il progetto del film su Mandrake, ruolo per il quale fu fatto il nome di Marcello Mastroianni nei panni dello stupefacente mago-illusionista (Fellini, dopo aver lungamente accarezzata l’idea di realizzare un film tratto dalle grandi tavole di Mandrake, la lasciò infine cadere nel vuoto) forse ha alcune ragioni dell’abbandono nel fatto che si trattò di un film da un lato troppo desiderato e agognato, e dall’altro di un’opera che si stagliava sull’orlo di una impossibilità genetica interna all’universo tematico di Fellini, impossibilità che si era già delineata con evidente precisione (lo si capirà meglio fra poco). L’abbandono del film su Mandrake può risalire all’acuta percezione, senz’altro avvertita da Fellini, della differenza tra spazio-tempo del cinema e spazio-tempo dei comics; a un certo punto della progettazione del film, Fellini deve avere avuto netta e chiara l’idea che avrebbe dovuto stravolgere, nel passaggio al grande schermo, l’inarrivabile modello fantastico di Lee Falk e, dunque, sia pure con amarezza, ha fatto cadere tutto nel nulla. D’altro canto, Fellini si è sempre risarcito della suddetta consapevolezza, nel corso di vari giochi e rimandi interni a molti suoi film, in quelle dilatazioni dei tempi narrativi, luoghi e immagini, “pazzie” e stravaganze dei suoi personaggi filmici, nei quali fulmineamente ha afferrata l’occasione di esprimere l’amore coltivato verso i fumetti (non a caso, il Mandrake di Mastroianni si ripresenta d’improvviso ne L’Intervista). Negli slanci compiuti e in quelli abbandonati da Fellini, interdetti rispetto alle opere poi effettivamente dirette dal regista riminese, emerge il senso del problema connesso alla definizione dell’immaginario tra film e fumetti, sovrastante la particolarità delle tecniche realizzative. Per Fellini questa caratterizzazione ha esplicitamente a che vedere con i temi dell’infanzia e dell’adolescenza, permanenti oltre l’età anagrafica, con un tratto ossessivo che va colto non solo nella sua singolarità ma
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La strada di Fellini
nel suo valore generale, nell’indicazione strutturale che contiene, e che riguarda sia tutti coloro che fanno cinema, sia tutti coloro che risultano immersi in un immaginario audiovisivo non solo filmico. E qui torna la domanda: perché Fellini disegna? Bisogna andare in profondità nel nucleo consistente nella relazione fra disegni e film. Non si tratta, meramente di un rapporto funzionale. Schizzi e fumetti, disegni e caricature non sono soltanto schemi, abbozzi, idee irriflesse o layout generativi delle immagini del cinema. È che Fellini possiede “quasi” istintivamente una predisposizione all’immagine statica dei fumetti pronta a balzare nel movimento che le è interdetto dalla pagina (è ben nota una frase del regista secondo cui i fumetti non sono altro che “farfalle immobilizzate con uno spillo sulla pagina”). Più che un istinto, quello di Fellini è un addestramento assai personalizzato a una fase di crescita dell’immaginario spettacolare di primo Novecento, entrato – per ragioni storiche incontrovertibili, sul crinale del secondo conflitto mondiale – in un punto di crisi e di rigenerazione. Fellini fa del bilico fra fumetti e film un’arma espressiva di grande fascino e di riflesso “critico”, seppure tenue o sedimentato, in sofisticate “chiavi” di lettura, nel corso di varie sequenze del suo cinema. Movimento e azione, blocco fotografico del gesto, disegno astratto delle movenze corporee, design ambientale reso vivido nelle sue linee di arredamento, compongono un ritmo interno di nuova definizione dell’immagine sonora. La mutazione fra statico e dinamico è una sponda su cui l’immaginario si rivede e si riguarda, sul limite fra incanto e disincanto. Basti riandare ad alcune sequenze, qualcuna breve, altre più lunghe e corpose, di vari suoi film. Per esempio, in Cabiria, poco prima che la simpatica e lunatica protagonista incontri il suo “divo”, Alberto Lazzari (Amedeo Nazzari), il nostro regista la inquadra agli spettatori su un marciapiede mentre, ascoltando una musica sincopata che proviene da un night, si mette a ballare da sola; ella si ferma sorpresa, e l’azione del ballo solitario si blocca in un surplace evidente, quando si accorge di essere osservata da un portiere che, infatti, l’apostrofa intimandole di smettere. Qui, Fellini “muove” e pare voler far transitare Cabiria appunto dallo schermo al disegno: dallo stato danzante, subito dopo la blocca in una posa da disegno. Ma anche l’incanto dionisiaco dei pochi istanti di ballo svanisce d’emblée e s’interrompe, nel disincanto estemporaneo di una qualsiasi notte romana. In Amarcord, il personaggio di Volpina (con il volto e la sagoma di Josiane Tanzilli) è una evidente evocazione, modernizzata, di Cabiria; nei suoi confronti, lo sguardo di Fellini è particolarmente amabile: il regista la inquadra spesso “incorniciando” i piani visivi con cui la coglie in istanti privilegiati; Volpina, la giovane prostituta
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Fellini, disegnatore e cineasta 19
(insieme ingenua e incorrotta) di una Rimini colta sul punto di trasformarsi irreversibilmente e di perdersi nel ricordo che ne trasforma tempo e forme di vita, è così una figura più volte “vignettata” nell’inquadratura filmica, attraverso porte, travi, telai che “disegnano” sul grande schermo l’alone permanente che la fissa in memoria. Infine, una sequenza resta definitiva nel dimostrare come Fellini abbia sempre tentata la carta di una via duplice e multipla nella produzione di immagini, estremamente significative, fra fissità e movimento. Si tratta della sequenza di Lo sceicco bianco durante la quale, finalmente, la troupe che si è recata sulle spiagge di Fiumicino “gira” le inquadrature fisse del fotoromanzo nel cui set Wanda (Brunella Bovo) si è introdotta, inseguendo, vanamente, il suo sogno immaginario. Qui Fellini eleva a ritmo di giostra (con la cadenza tipica di una marcia sincopata di Nino Rota) proprio il percorso in cui il movimento del cinema ridiventa fotografia, ossia la strada che, attraverso quest’ultima, accomuna in un uguale anelito creativo i due media ai quali egli è profondamente legato: cinema e fumetto. Ma, altresì, in questa sequenza, l’impressione di reale e l’esplosione del desiderio connessi al movimento rappreso dalla tecnologia del cinema si raggelano come in un vortice di profondità. È un avvitamento disvelante, perché esso, biunivocamente, o dissolve il fascino dell’immagine prodotta o ne espande e incrementa a dismisura il carisma conquistato negli spettatori. Infanzia e adolescenza, incanto e disincanto, sogno e risveglio, trauma e desiderio, e via dicendo. Queste immagini, doppiamente bilanciate in Fellini fra la luce pulviscolare del cinema e il segno raggelato dei fumetti, danno conto dell’aprirsi di un registro di significati talora amalgamati e talvolta contraddittori, sempre in grado comunque di riflettersi reciprocamente. Ecco aprirsi lo spazio fra commedia e tragedia (dallo sguardo stupefatto di Cabiria e di Wanda, al disincantato sguardo morente dei Clowns, travolti e quasi dissolti nell’epoca dello spettacolo tecnologico del cinema e della tv). La stessa Volpina, in cui riconosciamo un clone di Cabiria, o anche l’innocenza del sesso speso in modo naturale e spontaneo, in realtà è oggetto di predazione da parte dei maschi dell’Italia provinciale e fascista degli anni Trenta. L’incanto di Wanda, Cabiria e Volpina, costretto sempre a fare i conti con il proprio rovescio, ha d’altronde la medesima natura di quell’incanto definitivamente perduto di altri personaggi del cinema di Fellini. Come, per esempio, il Mastroianni di La dolce Vita e nel ruolo di regista in 8½: il cui sguardo (quasi sempre coperto da occhiali scuri, per un pudore non tanto segreto o per tutelare qualche sprazzo della libertà del vedere) esprime un pieno disincanto, la perdita di stupore di chi gestisce l’itinerario creativo dell’immagine
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La strada di Fellini
sonora e ne vive, ormai, il segno di una falsificazione incipiente e, forse, non eliminabile. Una buona parte del cinema di Fellini può essere compresa come tentativo di reincarnare ricordi e immagini dell’infanzia e dell’adolescenza nel grande gioco audiovisivo delle immagini proiettate su grande schermo. Tuttavia Fellini è sempre consapevole che un’immagine in grado di restituire lo sguardo incantato e innocente è destinata a fallire, a registrare lo svanire dell’incanto. La sua è quindi un’immagine quasi al limite del movimento che il cinema riesce a fissare e a restituire. Eppure il tentativo vale la pena. E se questo obbiettivo non può essere realizzato facilmente (come invece Fellini ha tenacemente tentato), dall’altro lato l’immagine che ne risulta è investita da una sottesa ma percepibile malinconia. Avanza, a questo punto, una buona spiegazione dell’abbandono del film tratto da Mandrake. Fellini senz’altro si è reso conto che la bellezza delle fantasie di Lee Falk e Phil Davis possedevano un carattere meraviglioso e straordinariamente positivo, chiaramente distante dall’umore profondo del suo temperamento di artista colpito invece dall’innocenza svanita a fronte delle violenze del reale. E cosa infine risulta da tutto ciò? Il cinema di Fellini, che pure si diverte a mostrare la realtà (anche quella dello spettacolo, ma non solo) con i segni di una giostra in perenne ricarica di movimenti ipersonori e danzanti, come marcia circense, o scena iperbolica, tuttavia, alla fine, rovescia l’impressione che si tratti di un gioco. Nei ritmi delle immagini felliniane si cela, piuttosto, uno sguardo impietoso sul mondo, travestito da nostalgico, disperato, desiderio. Ecco perché il cinema di Fellini ha la cifra di un inganno apparentemente sublime, ossia un inganno con le sembianze di un sublime gioco, che in realtà – benché spesso affettuosamente e memorialmente simpatizzante verso le miserie umane – risulta infine severamente tragico.
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Ricordi, sogni, pensieri: il sogno nelle immagini di Fellini di Ivan Pintor
Per il cinema di Fellini, il sogno e la memoria non sono una fonte di racconti ma una materia duttile davanti alla quale non esiste altro fuoricampo che non sia l’immaginazione. Qualche volta rivedendo, per caso, perché non li rivedo mai i miei film, a me è successo o di vedere una fotografia di un mio film oppure in televisione di vedere un pezzo di un mio film, il Casanova o il Satyricon, spessissimo mi è venuta spontanea la domanda: ma chi è che ha fatto questa cosa? Nel momento in cui faccio il mio lavoro, nel momento in cui divento un cineasta vengo abitato da un oscuro abitatore, un abitatore che non conosco prende le redini della baracca, dirige tutto quanto al posto mio e io metto a disposizione soltanto la mia voce, il mio senso artigianale, i miei tentativi di seduzione o di plagio o di autorità.
Dalla sessione fotografica nella quale viene coinvolta Wanda ne Lo Sceicco bianco (1951) fino al silenzio che colma il piano finale di La voce della Luna (1989), la domanda che solca il cinema di Fellini non è soltanto chi sia quell’oscuro abitatore al quale si riferisce nell’intervista-documentario concessa a Damian Pettigrew in Fellini, sono un gran bugiardo (2002), ma soprattutto: in che modo si consegna il cineasta a quell’abitatore oscuro? Che rapporto c’è fra l’immaginazione di Fellini e le immagini di cui si nutre? Come introduce le visioni del sogno nel cinema? Prima della macchina da presa, prima del volto degli attori e delle enormi scenografie di Cinecittà, i bozzetti prendono forma sulla carta, e, prima ancora di questi, in molti altri disegni e vignette lette durante l’infanzia in riviste degli anni Venti e Trenta come Il corriere dei piccoli, Il Travaso o Il Monello. In pochi tratti, i personaggi dei film di Fellini
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La strada di Fellini
emergono come risposte ad un ambiente storico passato al setaccio della cultura popolare e compaiono in mezzo a scenari minacciati dall’imminenza della scomparsa reversibile. Come in un rondò di Nino Rota, ogni piano va crescendo intorno al suo proprio germe, con la coscienza dei limiti discontinui della vignetta. Risponde ad altre immagini, se ne impossessa, le aspetta e anticipa il piacere in un viaggio di andata e ritorno verso una memoria malinconica che è quella del fumetto. Nel mezzo di questo tragitto appare questo oscuro abitatore nella cui natura si rivela la consapevolezza, che Fellini dichiara risultato del suo contatto con la psicoanalisi junghiana, che l’anima, la psiche, non esiste separata dalle immagini attraverso le quali si manifesta. Ricordi Come accadde anche, intorno agli anni Sessanta, ad un altro grande personaggio della cultura europea, Hergé, il creatore di Tintin, uno dei pilastri più significativi nella vita di Fellini fu il contatto con le ricerche di Carl Gustav Jung attraverso le sessioni di psicoanalisi iniziate con il Dr. Ernst Bernhardt, a partire dalle cui raccomandazioni Fellini iniziò un diario onirico, il suo Libro dei sogni (Fellini 2007). Il repertorio di forme, motivi e storie che Fellini dispiegò in più di trent’anni mischiando parola e immagine dilata il suo lavoro di caricaturista e disegnatore di fumetti e, nel suo insieme, ammette paragoni solo con il Libro rosso di Jung, che illustra con disegni d’ispirazione medievale l’insieme delle sue visioni organizzate intorno alla costruzione di un mito personale. Tuttavia, è soprattutto l’autobiografia di Jung Ricordi, sogni, riflessioni (Jung 1986) il modello col quale si fonde il cinema di Fellini a partire da Le tentazioni del dottor Antonio (1962). Mediante la sua attenzione verso la discontinuità della coscienza, il lavoro dell’immaginazione e il ricorso ad elementi presi dalla tradizione alchemica è possibile capire lo stretto vincolo che questo libro mantiene con opere come 8½ (1963), Giulietta degli spiriti (1965) e Toby Dammit (1968). La mia vita è la storia di un’autorealizzazione dell’inconscio. Tutto ciò che si trova nel profondo dell’inconscio tende a manifestarsi al di fuori, e la personalità, a sua volta, desidera evolversi oltre i suoi fattori inconsci, che la condizionano, e sperimentano sé stessa come totalità
scrive Jung all’inizio di Ricordi, sogni, riflessioni. Con la premessa di tale autorealizzazione attraverso le immagini lo spazio liminare sul quale si
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Ricordi, sogni, pensieri: il sogno nelle immagini di Fellini
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apre un film come Toby Dammit costituisce un intermondo fra vivi e morti, fra l’azione e l’intimità senza tempo: quando il suo protagonista, come prima di lui quello de Il testamento del dottor Mabuse (1933), di Fritz Lang, e più tardi quello di Lost Highway (1998), di David Lynch, nell’oscurità si lancia a tutta velocità lungo una strada secondaria, con la diritta via smarrita, penetra nel non-luogo dove si incontrano i vivi e i morti, in un purgatorio nel quale la morte violenta è anche causa dell’assenza di anagnorisis, per la quale il morto non conosce la propria condizione. La frotta di ombre che, dopo La dolce vita (1960), avrebbe portato Fellini a consultare il Dr. Bernhardt cerca, come in Toby Dammit, di creare una controfigura per 8½ nella sceneggiatura mai filmata di Il viaggio di Giuseppe Mastorna (Fellini 1995). Se, d’accordo con le parole di Vincenzo Mollica, Il viaggio di Giuseppe Mastorna è la pellicola non filmata più celebre della storia, essa è anche quella in cui il cinema di Fellini mostra per la prima volta l’intuizione di un aldilà le cui tracce non costituiscono un richiamo al chiarimento, ma un invito al mistero. Ciò a cui Fellini si è sempre riferito come alle “sue percezioni extrasensoriali” finisce per trovare un sostegno nel corpus teorico di Jung, la cui capacità di combinare discipline diverse come l’antropologia, la psicoanalisi, la filosofia e lo studio comparato delle religioni con la pratica ospedaliera si rivela persino in un libro così poco teorico come Ricordi, sogni, riflessioni. A differenza di Freud, Jung non legge l’insieme delle immagini e i meccanismi di visualizzazione dei sogni come un alter ego biografico patologico, o come un episodio significativo nello sviluppo della libido, ma sostiene che possegga una vita indipendente, la realtà di un abitante, un oscuro abitatore. Inoltre, dalla sua tesi dottorale Psicologia e patologia dei cosiddetti fenomeni occulti (Jung 1902) fino alle sue ultime ricerche sulla sincronicità o ordine a-casuale, la psicologia del profondo di Jung sottolinea la necessità di studiare tanto gli schemi o potenzialità condivise nell’inconscio collettivo, gli archetipi, quanto i fenomeni privi di spiegazione razionale. Come iati nella percezione letterale del mondo, per Jung esperienze come i sogni premonitori, le apparizioni o le visioni post-mortem esorcizzano lo spessore degli effetti e delle cause quotidiani. Per ciò, invocando quella doppia visione che risale a una catena aurea di filosofi e artisti che da Plotino a Dante, Blake o Yeats, hanno custodito la fiamma dell’immaginario, Jung propone di contemplare tali fenomeni a prescindere da qualsiasi pregiudizio, sulla soglia del crepuscolo, dove la luce ingannevole del giorno non riesce a dissolvere la doppia visione con la quale l’immaginazione permette di incorniciare l’impensabile.
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La strada di Fellini
Prima che il razionalismo confondesse il reale con il fisico e confinasse il mondo psichico all’interno dell’individuo, l’immaginario, come il sogno, avvolgeva tutti gli esseri, sostiene Jung: i greci non “avevano sogni”, ma “li vedevano”. Sono io colui che sogna o immagina? È, forse, una delle domande più conturbanti che una mente razionale e separatrice possa rivolgersi. Forse per questo, quando l’antropologo Lévi-Strauss si propone di indagare in che modo “i miti si pensano negli uomini” (Lévi-Strauss 1966) sembra avvicinarsi al medesimo fuoco segreto che porta Jung a rileggere alcuni miti in altri e a concentrarsi in momenti liminari come i riti di passaggio o la morte, che nelle culture tradizionali non è l’opposto della vita, ma suo corollario. L’origine di Mastorna come viaggio in un aldilà nel quale si amalgamano tanto Dante quanto i fumetti di Mandrake il mago, risale all’inizio delle sessioni di terapia con il Dr. Bernhardt, quando insieme a Brunello Rondi e Dino Buzzati, Fellini termina la prima versione della sceneggiatura. Seguendo i suoi stessi story-boards prima, e, più tardi, le tavole disegnate da Milo Manara per il fumetto nel quale la narrazione prese forma nel 1992 (Manara 2006), si racconta la storia di Giuseppe Mastorna, conosciuto anche come Fernet, un pagliaccio il cui numero più famoso è l’interpretazione di un pezzo al violino. Dopo un lungo giro e sulla verticale di una capitale centroeuropea, l’aereo a bordo del quale viaggia Mastorna è costretto ad operare un atterraggio d’emergenza in mezzo a una tempesta. Di fronte a una imponente cattedrale gotica – quella di Colonia –, su un letto di neve che anticipa quello di Amarcord (1973) e con la vista accecata dall’avanzare della notte, Mastorna viene evacuato e guidato da una hostess che lo fa accomodare su una slitta e lo conduce fino a un grande albergo in mezzo al bosco, dove ha l’occasione di assistere a uno spettacolo di danza nel quale è possibile leggere un riepilogo delle varie feste de La dolce vita. Al suono di un sitar e vari flauti, una bella ballerina indù entra in scena nella sala intorno alla quale si accalca un gran numero di invitati, fra i quali un vecchio amico di Mastorna. Protetta dal tremolio ondeggiante delle candele che illuminano la stanza a causa di un corto circuito, la rappresentazione, a metà strada fra i miracoli così caratteristici del cinema di Fellini e la rivelazione dei trucchi che vi stanno dietro, si dispone a incarnarsi nel corpo di Nity, la ballerina. Serpeggiando, dondolando le anche e il ventre, con un rivolo di sudore a causa dello sforzo, la danza raggiunge il suo apice quando Nity cade a terra fra le lacrime degli astanti e, senz’altre spiegazioni, inizia a partorire nonostante non fosse incinta. Mentre gli invitati prendono in braccio il bambino, Fernet attraversa un corridoio alla luce di una
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Ricordi, sogni, pensieri: il sogno nelle immagini di Fellini
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candela che evoca uno dei sogni raccontati da Jung in Ricordi, sogni, riflessioni e ne Il libro rosso (Jung 2010), nel quale lo psichiatra protegge una candela in piena notte, inseguito dalla propria ombra. Fernet riesce a svignarsela dalla festa e a raggiungere la sua stanza, dove decide di provare prima di coricarsi. Quando torna l’elettricità, si accende anche la televisione, alla quale una presentatrice annuncia in tedesco un disastro aereo in mezzo alle montagne nel quale non è sopravvissuto nessuno. Però Mastorna, che non capisce il tedesco, continua a provare, senza venire a sapere della propria morte. Con questa premessa e il volto di Marcello Mastroianni in mente, Fellini concepì la storia con l’intenzione di plasmare un purgatorio inteso come prolungamento della quotidianità e fece dell’albergo una residenza saturnale come quella de Il castello, di Kafka. Le poche immagini filmate per il progetto di Mastorna comprendono solo un parabrezza che procede in mezzo alla nevicata e lo scenario di un aereo in uno dei cui finestrini si staglia il profilo di Mastroianni, Snaporaz, sebbene alla fine Milo Manara avrebbe dato al personaggio il volto di Paolo Villaggio, protagonista anche de La voce della luna. Molto prima che film come Il sesto senso (The sixth sense, 1999), di M. Night Shyamalan o Mulholland Drive (2001), di David Lynch, la sceneggiatura di Mastorna è, potenzialmente, una storia post mortem, ciò che Michel Chion denomina un film-bardo alludendo al Libro dei morti tibetano, il Bardo-Thödol, che si riferisce al vagabondaggio dell’anima del defunto per un lungo periodo in cui crede di essere ancora vivo. Come Il castello, di Kafka, è il bardo del Joseph K de Il processo, cioè il suo inconscio ingresso in un aldilà dominato dall’attesa della conferma di una nomina, così Il viaggio di Giuseppe Mastorna è il purgatorio de La dolce vita e 8½; incarna qualcosa di così precario quanto il sogno ad occhi aperti di un morto e, se fosse stato girato, avrebbe costituito insieme a questi film la vera Commedia di Fellini. Entrare nel bardo, come affrontare la selva selvaggia e aspra e forte di Dante, richiede solo una lieve torsione, la strada perduta o l’incidente aereo che, fino ad arrivare a racconti così popolari come la serie televisiva Lost, ha in Mastorna il suo primo esempio. Come Kafka, Fellini azzarda in Mastorna, 8½, Giulietta degli spiriti e Toby Dammit un mondo che precede ogni distinzione, né sacro né profano né tutto il contrario, un cosmo che non ha ancora stabilito la scissione delle sue creature. In esso coesistono il regno e la gloria, la soglia di un mondo altro sospettato nel presente eterno dei personaggi. Privato del tempo, del fluire temporale, il bardo nel quale vivono le ombre che Fellini, come afferma nell’intervista a Pettigrew, si ostina ad ordinare in ogni nuova giornata di rodaggio,
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La strada di Fellini
costituisce una preistoria della vigilia carente, come il sogno e come le vignette dei comics, della continuità di tempo e di parola. In eccesso e in difetto, la costruzione dei racconti non solo si presenta come labirinto ma anche come un gioco che, lungi dall’essere strumento di dissacrazione, sorregge lo sforzo di sostenere un perenne gesto di re-incanto. Feste, miracoli, sfilate, naufragi, cene popolari in una via di Roma o improvvise apparizioni come quella di Anita Ekberg nella Fontana di Trevi mostrano la collisione fra la circolarità della scena carnevalesca e la frontalità della cassa teatrale all’italiana, espongono l’essenza del barocco come maniera di narrare dall’illusione stessa, senza caderci ma senza abbandonarla neppure. Quando, in un momento di lucidità, Mastorna si trova davanti a una selva oscura, di fronte all’albergo nel bosco, afferma nella sceneggiatura originale: “È questo il regno di Dio? Non è possibile! Non è possibile che la morte sia questa!”. La commistione, come ha scritto Roberto Calasso nel suo libro K. (Calasso 2005), è uno degli elementi che riguarda Kafka e sorge dalla fusione di metafisica e sporcizia. “La commistione si manifesta prima di tutto in questo: l’ordine sociale si sovrappone all’ordine cosmico fino a coprirlo e fagocitarlo. Ma conserva di questo la maestosità e le articolazioni, seppur cancellando la sua memoria”. Dal centro di questo miraggio in cui si confondono l’ordine sociale e quello cosmico, il racconto si interrompe giusto sull’uscio dell’aldilà. La condizione post-mortem del protagonista appare inoltre rafforzata dall’errore di stampa che, per una di quelle casualità tanto care a Fellini, introdusse al termine di una puntata della storia uscita sulla rivista “Il Grifo” la parola “fine”, quando, invece, il viaggio di Mastorna si dirigeva verso un Purgatorio inconsapevole. Fellini interruppe la pubblicazione. Sogni Il miglior risveglio, secondo Fellini, non avviene necessariamente dal sonno, dato che il sonno e la veglia, come indica Maria Zambrano, “non sono parte della vita, perché lei, la vita, non ha parti, ma luoghi e volti. E così, dal sonno e da certi stati di veglia ci si può svegliare in questo modo privilegiato che è il risveglio senza immagini” (Zambrano 2011). Come il viaggio che Dante intraprende ne La Divina Commedia, la maggior parte dei film di Fellini si apre a una tensione verticale fra l’archeologia e il volo spronata dalla promessa di un risveglio senza immagini. Quanto più in basso discendono i personaggi, addentrandosi in cantine, terme, botteghe o catacombe, tanto maggiore è il loro sforzo di liberarsi del proprio
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Ricordi, sogni, pensieri: il sogno nelle immagini di Fellini
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peso in cerca di un’immagine capace di illuminarli. La statua di Cristo appesa a un elicottero, abbracciando dal cielo il colonnato vaticano del Bernini nel prologo de La dolce vita, si solleva con la stessa leggerezza che spinge Sylvia (Anita Ekberg) a raggiungere la cima del campanile di San Pietro, lo zio matto di Amarcord ad arrampicarsi sui rami più alti di un albero centenario o Guido Anselmi (Marcello Mastroianni) a liberarsi, in 8½, da un ingorgo dell’autostrada di Roma grazie a un volo leggero al quale è strappato con uno strattone. Quando, dall’alto, Guido è restituito alla profondità del suo letto, estirpato dal sogno come Mastorna, si armonizzano in lui il senso di alcune immagini intese come vestigia, impronta, e il tentativo di sbarazzarsene rifugiandosi nell’intervallo, in questo spazio fra immagini, fra vignette, dove può allignare una “immaginazione senza immagini”, il luogo della trasfigurazione. Nel suo limite, questa visione che in 8½ sottolinea la negatività astratta, la notte di un mondo che bisogna reincantare di nuovo e dotare di leggerezza costituisce come il grande progetto di Kafka, una ”letteratura dell’assalto alla frontiera”, una “dottrina segreta, una cabala” che il fumettista Milo Manara affronta con abilità in Viaggio a Tulum, la sua seconda collaborazione con Federico Fellini (Manara 1990 e 2006a). Viaggio a Tulum è l’inverso e la continuazione di Il viaggio di Giuseppe Mastorna, la conversione delle immagini preesistenti del cineasta in archetipi, in forme inconsce e mutevoli davanti alle quali sfilano i personaggi, in un movimento ugualmente verticale di discesa e ascesa da un punto zero dal quale ricominciare il viaggio. Un giorno, Milo Manara, arrossendo, mi domandò se non mi avrebbe dato fastidio vedere tradotto in fumetto il mio racconto Viaggio a Tulum, che lui aveva letto sul “Corriere della sera” […]. Quel racconto pubblicato a puntate sul quotidiano milanese era l’intenzione di riferire, con gli stilemi della costruzione cinematografica, le avventure che avevo vissuto realmente in un viaggio realizzato in Messico tempo prima per incontrare Carlo Castaneda, i cui libri mi avevano sempre interessato e inquietato (Manara 1990 e Fellini 2000).
Sebbene il punto di partenza di Viaggio a Tulum è un viaggio di iniziazione, la parte più interessante sono le prime venti pagine, nelle quali lo schema essenziale della Commedia di Dante si fonde con il meccanismo della giustapposizione. Persi, come Dante insieme a un Virgilio senza bussola alcuna, una giovane giornalista e Vincenzo Mollica si addentrano in Cinecittà in cerca di Fellini, ma mentre si districano in uno spazio e un tempo di cui sfuma la continuità, assistono a una striscia di
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La strada di Fellini
vignette giustapposte. Prima di trovare il cineasta sul bordo di un lago, confrontano le immagini che costellano la sua psiche, che in conclusione sono il suo oscuro abitatore. Il mago e i clowns del finale di 8½, la bambina demoniaca di Toby Dammit, la diva Edmea Tetua, il rinoceronte e il cronista di E la nave va (1983), Gelsomina di La Strada (1954), il corpo ingigantito di Anitona in Le tentazioni del dottor Antonio, Gitone e i patrizi del banchetto di Trimalcione in Satyricon (1969), il bambino perso nella nebbia in Amarcord (1973), l’elefante e i pittori di fondali di Intervista (1987) insieme alla Suzy/Iris (Sandra Milo) di Giulietta degli spiriti e il vescovo che parla a Guido del canto del cuculo (diomedeo) in 8½ configurano, vignetta dopo vignetta, un sapere-montaggio dell’universo felliniano. Complice di Fellini, Manara crea una “doppia articolazione” o giustapposizione che impone, su qualunque criterio cronologico, la gerarchia della memoria. Questo spiega perché si impieghi, come nel fumetto di Manara Senza titolo (Manara 2006a, pp. 88-91), il leitmotiv ritmico come elemento unificante. Non si tratta del fatto che il tempo venga spazializzato ma del fatto che il nesso di continuità temporale si diluisca in uno schema spaziale e ritmico sincronico che illumina, dalle vignette, il modo di lavorare degli ultimi film di Fellini. Ciò che fa è, in effetti, sospendere i racconti mediante il ritmo, partendo da un continuo interrogare la temporalità dell’immagine. “Vedere passato, presente e futuro simultaneamente”, come vuole la mitopoetica di William Blake, è anche contemplarlo in forma di vignetta, distante ma prossimo e muto, trasformato in gesti. Nel cammino che va dall’ispirazione di Fellini nel fumetto fino alle altre vignette di Manara attraversando il suo cinema, ha luogo un fenomeno che equivale all’ecfrasi, la descrizione dettagliata di una immagine in letteratura, che basa la sua dinamica sul principio di mutabilità. Per lo scrittore russo Osip Mandelstam questo è l’elemento che caratterizza fondamentalmente la materia poetica di Dante, la condizione duttile con la quale delle immagini si lasciano attraversare e trasformare in altre, avanzano e si corrompono. Dante stesso, scrivendo la Commedia, osservò la sua natura pittorica e avvertì la necessità di infonderle il movimento in modo da non violare la natura sacra di certi motivi, da rispettare la distanza che si esigeva durante il Medioevo fra l’osservatore comune e le figure che mostravano l’esistenza di Purgatorio, Paradiso e Inferno. La consapevolezza di Dante su tale questione lo portò ad alludere a certe scene della Divina Commedia come visibile parlare, “parole visibili”, dato che le figure che i protagonisti osservano costituiscono una scenografia visiva ed esprimono con chiarezza il loro pensiero at-
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Ricordi, sogni, pensieri: il sogno nelle immagini di Fellini
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traverso il loro atteggiamento, senza impiegare la parola. Così lo indica il poeta descrivendo un bassorilievo che rappresenta l’Annunciazione nel Purgatorio: L’Angel che venne in terra col decreto / de la molt’anni lagrimata pace, / […] / dinanzi a noi pareva si verace / quivi intagliato in un atto soave, / che non sembiava imagine che tace. / Giurato si saria che el dicesse ‘Ave!’; / […] / e avea in atto impressa esta favella / ‘Ecce ancilla dei’, propriamente / come figura in cera si suggella (Purgatorio, X, 34-45).
Con queste semplici parole, Dante fa una osservazione doppiamente rivelatrice sulla pittura: in primo luogo riconosce la continuità della sequenza nell’arte plastica medievale e, in secondo luogo, la concilia con la ricerca di un pathos espressivo – un momento significativo, discontinuo – al fine di conferire una dimensione tragica alle situazioni rappresentate. Questo tentativo di potenziare la drammatizzazione con cui Dante introduce i prodromi di una delle principali aspirazioni della pittura che si preparava a nascere nel Trecento, che rinuncia ai repertori fantastici del Medioevo e opta per il dialogo con le tradizioni bizantina e classica, si riproduce nell’incontro fra l’immagine trattenuta e la durata cinematografica che sonda Fellini. Se La dolce vita o La città delle donne registrano una evidente ispirazione dantesca, anche un film come Amarcord è un viaggio fra i gironi della memoria in cui ognuna delle immagini si anima appena la cinepresa le si posiziona davanti e la interroga. Il fumetto, assicura Fellini, è l’incanto spettrale di quelle bambole di carta, di quelle situazioni fissate per sempre, immobili come marionette senza fili, e risulta incompatibile con il cinema, che ha il suo fascino nel movimento, nel ritmo, nella dinamica. È una forma essenzialmente differente di attirare lo sguardo, uno stile diverso, un altro modo di esprimersi. Il mondo del fumetto potrà generosamente prestare al cinema le sue scenografie, personaggi e storie, ma non la sua attrazione più segreta e ineffabile, che è la fissità, l’immobilità delle farfalle inchiodate con uno spillo (Fellini 2000).
Se la radice latina imago non solo designa l’immagine, ma anche gli insetti che hanno completato la metamorfosi, queste farfalle di cui parla Fellini, ciò che domina il dialogo animato/inanimato in tutto il suo cinema è l’idea che in ogni immagine statica sopravvivono i suoi stadi precedenti, le sue sopravvivenze. L’incontro con Fellini in Viaggio a Tulum, appisolato vicino a un laghetto dal quale spunta la testa di Venezia
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de Il Casanova (1976), si presenta così come la soglia di una discesa verso le immagini primordiali del suo universo onirico, il momento in cui la farfalla inizia a sbattere le ali. Portato via dal vento, il mitico cappello del regista conduce i protagonisti fino al fondo pieno di muschio del lago, dove giacciono affondati la corazzata di E la nave va insieme all’aereo di Mastorna, pronto a decollare – lo stesso aereo il cui incidente Fellini situa nel golfo di Napoli in una delle tavole del suo Libro dei sogni (Fellini 2007). È in questo punto che la metamorfosi, la sopravvivenza, trasforma il banchetto erudito di immagini felliniane della prima parte in un viaggio a senso unico verso la conquista dell’immaginazione aerea, leggera, che sposa il cinema di Fellini e le vignette di Manara con quelle di Moebius e quelle di Winsor McCay, come motore fondamentale di tutte le sue visioni. Chaplin, Keaton, Harry Langdon e Harry Semon, i grandi comici del cinema muto, devono molto a Happy Hooligan, al gatto Felix, al Capitan Cocoricò. E Spielberg, Lucas e io, non ci consideriamo forse tutti debitori, rendendo spesso e con molta voglia un festoso omaggio nei nostri film a Little Nemo, di Winsor McCay, e ai mondi allucinati e siderali di Moebius? (Fellini 2000).
Per entrare in questi mondi senza tempo, è indispensabile concepirli come universi in cui il sogno impone il suo carattere regressivo verso le immagini e le strutture psichiche evolutivamente anteriori. “Il soggetto si trova nei sogni privato di ciò che è nascita prima di tutto, anche prima della coscienza: tempo, il fluire temporale”, scrive Maria Zambrano, e aggiunge: “Mentre la atemporalità è la privazione del tempo nel movimento, i sogni sono l’immobilità di un movimento: c’è movimento in loro, ma non c’è tempo” (Zambrano 1998). La domanda fondamentale, che elude lo studio dell’immagine, fin da quando il Rinascimento diede più importanza alla mimesi temporale che alla mimesi narrativa che aveva supportato l’arte plastica precedente, è: come si carica di tempo un’immagine? Partendo da questo interrogativo, è possibile esplorare la maniera di consacrarsi al dialogo fra fumetto e cinema di Fellini, nelle ricerche del padre dell’iconologia, Aby Warburg. Qualunque immagine è, a suo dire, un organo della memoria sociale e un fenomeno antropologico totale da cui ipotizzare una cesura culturale che si proietti in tutte le direzioni, tanto temporali come sociali e psichiche, d’accordo con la logica di ciò che definisce come la vita (leben) delle immagini, la sua perpetua migrazione. Se il merito di Warburg non è tanto quello di aver trovato un nuovo modo
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di fare storia dell’arte quanto quello di aver forzato i limiti di questa disciplina per incubare una “scienza della cultura”, il sapere-montaggio che propone si articola intorno al suo grande progetto vitale, Mnemosyne (Warburg 2002), un atlante delle immagini fatto dalle immagini, una collezione di pannelli nella quale le immagini cercano, attraverso l’intervallo fra le une e le altre, di intensificare la distanza rispetto all’osservatore, di evocare ciò che lo osserva in ognuna delle immagini. Pensieri L’atlante Mnemosyne, con le sue ottanta tavole conservate, parte dalla volontà di uno scontro significante fra immagini e costituisce la migliore prospettiva dalla quale contemplare la possibilità di un pensiero visuale contemporaneo, il germe di esperienze come le Histoire(s) du Cinema di Jean-Luc Godard ma anche di quello che gli ultimi film di Fellini affrontano rispetto alla propria memoria visiva. Guidato dalla sagace intuizione antropologica che il principale problema di una società calda come quella occidentale, così ossessionata dalla storia da convertirla in motore del suo sviluppo, è quello della trasmissione, Warburg volle definire Mnemosyne come uno spazio di polarizzazione visiva nel quale mettere in rilievo le sopravvivenze dell’immagine. Così pertanto, come la farfalla e il suo continuo richiamo alla larva, le immagini trasportano anche impurità e sopravvivenze (Nachleben) di rappresentazioni anteriori che affiorano all’essere giustapposte ad altre immagini. Se per Walter Benjamin un’ipotetica scienza della cultura esige un avvicinamento all’inconscio ottico – “sognare”, diceva, “fa parte della storia”– dalla discontinuità dell’immagine dialettica, Warburg capisce che un progetto tale è possibile solo attraverso l’illuminazione di quell’inconscio del tempo che è la sopravvivenza, il punto di partenza del suo lavoro teorico, alla quale in una nota del 1929 allude come a una “iconologia dell’intervallo”. 8½, Giulietta degli spiriti, Mastorna o Viaggio a Tulum possono essere concepiti come finzioni dell’intervallo, nelle quali la cornice dell’immagine è una finestra aperta sul tempo, il sogno e la memoria, e non sullo spazio, nelle quali alla fine l’interno della vignetta è stato mutato con il bianco intericonico che separa, connette e lega le vignette. Che cosa ci guarda dalle immagini di Fellini? La stessa sopravvivenza, allo stesso modo in cui lo fa in un album di fumetti intitolato Période Glaciaire (de Crécy 2005), che per i suoi parallelismi con Roma (1972), Intervista e E la nave va, nel plasmare la storia e l’immaginario sarebbe sicuramente piaciuto tanto a Fellini.
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In Période Glaciaire, l’illustratore Nicolas de Crécy propone la storia di alcuni archeologi futuri che, dopo la glaciazione avvenuta a causa di un cambio climatico, cercano i resti della civiltà contemporanea. Sulle deserte steppe gelate, si svelano indizi sui quali si forgia una erronea ma suggestiva ermeneutica delle immagini. Per i membri della spedizione, i supermercati Tati sono templi e i graffiti sono iscrizioni di natura sacra. Durante una vibrazione sismica, in una immagine che fa pensare ai fragili affreschi delle catacombe scoperte in Roma, una parte del museo del Louvre emerge da un enorme ammasso di ghiaccio, e apre loro le porte di quella che giudicano una strana cittadella. Le tele, da Delacroix a Boucher, li portano ad azzardare un’anomala interpretazione. Disponendo in sequenza i dipinti arrivano alla conclusione che la civiltà sorta dal Rinascimento ed estintasi nel XXI secolo era illetterata, erotomane e capace di esprimersi solo attraverso immagini ambigue. Osservando le sale di pittura italiana concludono comunque che la catastrofe climatica venne accelerata dall’esplosione del Vesuvio e che si erano prodotte mutazioni capaci di generare creature con attributi sconosciuti, come ad esempio bambini paffuti con ali e misteriose facoltà di leggerezza o uomini e donne coronati da un’aureola luminosa. Di fronte alla ricerca che, nella sequenza pittorica, cerca di spiegare le immagini con un pregiudizio di tipo letterale, de Crécy monta le vignette come le tavole di Warburg o il gioco di Fellini in Amarcord sottolineando la collisione del racconto con una iconologia dell’intervallo: Amarcord è costruito e raccontato offrendo nuovamente la sobrietà delle inquadrature dei disegnatori americani degli anni Trenta. L’omaggio è evidente anche in La città delle donne, dove il protagonista si chiamava precisamente Snaporaz e il suo doppio Katzone per un consapevole tributo di affetto e gratitudine a Panciolini, Cagnara, Arcibaldo e Petronilla (Fellini 2000).
Delle tre disattenzioni principali degli archeologi di Période Glaciaire, la prima consiste nel considerare le immagini un documento piano, schiacciato, che non si apre a una spirale ermeneutica; la seconda nell’omettere la relazione fra immagine e tempo e la terza nel leggere il gesto pittorico come mimesi e non come incrocio fra l’espressione fisiognomica e la parola, come sopravvivenza di una formula di pathos (pathosformeln). Al domandarsi “Come si carica una immagine di tempo?” nel suo straordinario libro Ninfe (Agamben 2007), Giorgio Agamben istruisce un’indagine attraverso la scienza della cultura che fa emergere la teoria del fantasma come sostrato del sapere-in-movimento di Warburg. Dalla condizione di
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spazio di trasfigurazione che unisce i pannelli di Mnemosyne con il lavoro del videoartista Bill Viola e il suo lavoro sull’espressione della passione, Agamben osserva che in opere come Greetings un motivo iconografico come quello della Visitazione svolazza, muta e si trasforma nel ricevere l’alito del tempo, della durata. Di fronte alla tela del Pontormo alla quale si ispira, lo sviluppo di Viola manifesta, in ogni istante, un anticipo pieno dello stato successivo e una implicazione degli stadi precedenti, con cui il tema visivo si carica di tempo decisivo, di kairós. Tuttavia, non c’è in nessuna delle riletture di Bill Viola su quadri di tutte le epoche nessun approccio al motivo iconografico del sogno, che la grande pittura di cavalletto e anche quella che prelude al Rinascimento ha sempre mostrato da fuori. Da Il sogno di Costantino negli affreschi di Piero della Francesca per la cappella di San Francesco ad Arezzo fino a Il sogno di Giacobbe di Ribera, mostrano il dormiente, mai il suo mondo, che dovrà aspettare il XIX secolo con Goya e la comparsa delle avanguardie nel XX secolo per emergere attraverso la retorica surrealista. Solo la pittura narrativa medievale e le immagini di piccolo formato dei codici miniati o incisi come quello che apre la Hypnerotomachia Poliphili (1499) attribuita a Francesco Colonna figurano fra i tentativi di affrontare il contenuto del sogno. Ogni volta che il sogno irrompe nell’immagine la sdoppia, provocando la nascita di una seconda vignetta che accompagna quella del dormiente. Quindi sogno e narrativa sequenziale, come ben sa Fellini, procedono mano nella mano e il sogno rende la pittura fumetto, immagini incatenate capaci di articolare una sintesi di fuori-campo, immagini in tensione. Fellini inserisce la seconda vignetta e trasforma la prima, quella che si appoggia sulla sponda del sogno, quasi sempre ripresa dalla stampa, da fotografie popolari o anche dalle immagini dei fumetti della sua infanzia, con cui la domanda ‘Come si carica un’immagine di tempo?’ appare accompagnata da quella ‘Come si carica o scarica un’immagine di storia?’. Così, la prima pagina del 1° marzo del 1959 de La Domenica del corriere, con un elicottero che atterra a San Pietro in Vaticano, ispira il Cristo del prologo de La dolce vita. Diversi naufragi in quella stessa pubblicazione illuminano il passaggio della grande nave di Amarcord e confluiscono nella prima pagina del 27 aprile 1958 in cui, in mezzo a un mare in tempesta, due giovani pittori si avvicinano al transatlantico Costituzione per portare all’imperatrice Soraya un ritratto. L’immagine centrale di E la nave va, con la bobina da 16 mm della diva che si proietta mentre il vascello affonda sembra venir fuori proprio da quella tavola. Allo stesso modo, è la vignetta di un pranzo familiare sul Corriere dei Piccoli del 9 novembre 1913 che determina l’inquadratura e la logica
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compositiva del ritorno di Titta alla tavola familiare in Amarcord. E la discesa sullo scivolo de La città delle donne coniuga un viatico dantesco con la caduta iniziale del fumetto Superbone al castello incantato, pubblicata ne Il Monello nel novembre del 1933. La lista di corrispondenze risulta interminabile, oltre a serie di fumetti come Mandrake (dal 1934), di Lee Falk e Phil Davis, che sempre svelò il desiderio di Fellini di realizzare un adattamento, fino all’estremo di dedicargli un fotoromanzo e rendergli un affettuoso omaggio in Intervista. Tuttavia è in Amarcord che esibisce una delle sue proposte più rigorose. Una piccola conversazione fra Gradisca e il proprietario del cinema riproduce l’inquadratura e i costumi del fumetto Natale s’avvicina! pubblicato in un Corriere dei Piccoli del 1929. Il sacrificio di Gradisca nel Gran Hotel reitera la gestualità, il pathosformeln della regina Loana in La misteriosa fiamma della regina Loana, titolo di una delle puntate di Tim Tyler’s Luck, di Lyman Young, in Italia pubblicato con il titolo di Cino e Franco e anche ispiratore del fotoromanzo de Lo sceicco bianco e dell’omonimo libro di Umberto Eco. Gli avvertimenti allo spettatore del narratore di Amarcord, infine, si dispiegano come un omaggio agli sguardi complici di Yellow Kid di Richard Felton Outcalt in Hogan’s Alley (del 1895), serie dalla quale il protagonista si rese indipendente nel celebre spin-off, cioè Yellow Kid. Un altro dei pionieri delle strisce e pagine domenicali della stampa, George MacManus, appare evocato in La dolce vita, dove tutte le scene col padre, in particolare quelle che riguardano il cabaret, sono pianificate punto per punto a partire da alcune avventure della sua serie Bringing Up Father (in Italia Arcibaldo e Petronilla dal 1913). È, in ogni caso, la serie Little Nemo in Slumberland (1905-1914), di Winsor McCay, quella che influenza di più il cinema di Fellini, poiché non è utilizzata solo come riferimento iconografico ma anche come sostrato immaginario, come giustificazione di tutti i fuori campo, dell’intervallo che va creando la costruzione felliniana di una autentica anatomia o satira menippea (Frye 1969)1 1 Nella sua teoria sui generi letterari, Northrop Frye distingue un tipo di finzione in prosa, la anatomia, che si caratterizza per il fatto di offrire una visione esaustiva e panoramica di un determinato oggetto o tema, in conformità con un modello enciclopedico. La tradizione della satira menippea o verroniana fu certamente inventata da un greco chiamato Menippo. Sebbene le sue opere non si siano conservate, sono rimaste quelle del suo discepolo Luciano, alcuni frammenti delle opere di Varrone e, soprattutto, quelle dei suoi continuatori Petronio e Apuleio. La forma breve della satira menippea, impiegata da Erasmo o Voltaire, è solitamente il dialogo o colloquio, nel quale si dirime un conflitto di idee. La forma lunga è quella che hanno sperimentato Swift, Rabelais, Flaubert nel caso concreto di Bouvard et Pecuchet, Burton nella sua Anatomia della Malinconia e Lawrence Sterne in Tristam Shandy.
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delle immagini e della gestualità del XX secolo attraverso il fumetto. I clowns, il gigantismo, la gulliverizzazione, animali onirici come l’elefante e il pavone, la Venezia scenografica che darà luogo a Il Casanova, le architetture pallide del Grand Hotel e il volto gigante di Mussolini in Amarcord e, soprattutto, l’immagine del volo leggero sono distillati del sogno leggiadro di Little Nemo, che sempre, come Guido all’apertura di 8½, finisce con lo svegliarsi spaventato, chiamato da sua madre. Particolarmente interessante è notare come, nel suo ricorrere all’immaginario vivo del fumetto, Fellini, come Warburg in Mnemosyne, insiste meno sui motivi visivi tradizionali – la pietà, l’annunciazione, ecc. – che sulla fenditura fra loro. Per un approccio alla questione nel caso di Warburg, Agamben si avvale in Ninfe di una nozione che Warburg poté trovare studiando i costumi per gli intermezzi del 1589 oppure analizzando gli affreschi del Palazzo Schifanoia di Ferrara: i fantasmata, una delle prescrizioni che metteva in evidenza il maestro di danza Domenico da Piacenza, il Domenichino, nel suo libro Dela arte di ballare et danzare (XV secolo). Ma che cosa sono i fantasmata? Insieme alla precisione, la agilità o la maniera, il Domenichino definisce i fantasmata come una “prontezza corporea mossa dall’intelletto”, un “ratto” fra due movimenti, una immagine-affezione, un pathos della sensazione che Agamben identifica con questa stanza vuota che è l’intervallo. Cosa emerge dai fantasmata che compaiono nella distanza fra le immagini iniziali di Viaggio a Tulum? Solo dallo spazio fra le immagini che è il bianco intericonico fra vignette può partire il vero approccio al sogno. Il cammino dell’alchimia Nel 1515, il pittore Albrecht Dürer ricevette l’incarico di disegnare le decorazioni per un libro di preghiere destinato dall’imperatore Massimiliano all’ordine di San Giorgio. Oltre la mescolanza di sacro e profano, di grave e giocoso, sorprende la sua naturale fluidità e squilibrio così come l’uso ritmico delle asimmetrie visive, che provocano l’avanzamento dello sguardo, anche in apparente assenza dell’azione. Lo spirito che anima queste illustrazioni, come quelle di Winsor McCay, Moebius o il Libro dei Sogni di Fellini, è quello della trasformazione delle figure. La tradizione li chiama drôleries e grotesques, e Dürer parla di Traumwerk (lavoro di sogno): “Chi voglia fare lavoro di sogno deve mischiare assieme tutte queste cose” (Gombrich 1999). Questo termine, traumwerk, di cui dispone il lessico tedesco e che Freud e Jung recuperarono per lo studio del sogno, può allo stesso modo applicarsi alla grammatica onirica di Fellini.
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Al pari di disegnatori e sceneggiatori tipo Moebius, Jodorowsky, Hergé o lo stesso Dürer, Fellini seppe imbastire quel Traumwerk con modelli e strutture narrative della alchimia per mostrare il perpetuo divenire delle immagini, la concatenazione delle sopravvivenze, dei fantasmata. Solo studiando l’alchimia, Jung si rese conto – confessa in Ricordi, sogni, riflessioni (Jung 1986) – che essa era il nesso comune fra la filosofia medievale, lo gnosticismo e le correnti neoplatoniche dell’antichità, e nondimeno una maniera specifica di articolare archetipi che emergono durante il sogno. L’alchimia prolunga e consuma la brama dell’homo faber: collaborare al perfezionamento della materia e perfezionare sé stesso nel corso di questo lavoro. Un personaggio di Ben Johnson dice: “Il piombo e gli altri metalli si sarebbero fatti oro se gliene avessimo dato il tempo”. E un altro alchimista aggiunge: “Questo è ciò che realizza la nostra Arte”. In effetti, come indica Eliade in Guerrieri e alchimisti (Eliade 1974), ciò che fa l’alchimista, nei suoi forni e alambicchi, è precipitare il ritmo del tempo, tentare di accelerare processi che in natura richiedono lunghi periodi. Nel processo di consumazione dell’opera alchemica, l’uomo si sente capace di misurarsi con la natura, ma senza perder tempo. Riproducendo il passaggio dal Caos primordiale alla Cosmogonia negli stretti limiti del vas mirabile, l’alchimista assume e controlla la funzione del Tempo irreversibile. La ri-creazione libera l’alchimista dal Tempo, allo stesso modo in cui qualunque ritorno mitologico alle origini presuppone una rigenerazione di questo Tempo. Il tragitto chimico è, alla fine, una forma narrativa capace di esorcizzare il Tempo e per questo, argomenta Jung, permette di comprendere che l’inconscio non è una entità statica ma un processo. Nella ricerca della pietra filosofale si plasma in realtà il processo di individuazione, il cui oggetto consiste nell’unione di conscio e inconscio, nella congiunzione di tutti gli opposti psichici nel sé. Il sé si rivela, allora, come un proposito ipotetico di integrità psichica equivalente alla Pietra Filosofale. Allo stesso modo di qualsiasi sistema mitologico, le innumerabili descrizioni dell’Opus Magnus realizzate dai grandi maestri europei – Flamel, Paracelso, Ashmole, Sendivogius, Bacon, Ruland, Johan Rudolf Glauber – fra il 1200 e il 1660 offrono varianti di un ipotetico mito alchemico originale (Bonardel 1993). Quindi, nelle sue numerose varianti, l’alchimia mantiene una solida coerenza come sistema immaginario. Sebbene l’alchimia entrò in una fase di declino nell’Europa del XVII secolo, fu solo per rinascere più tardi, incorporarsi alla poesia e a buona parte delle grandi opere narrative di struttura enciclopedica dei secoli XIX e XX e alimentare le fonti della psicologia junghiana dell’inconscio. In ultima istanza, l’alchimia descrive il movimento dell’immaginazione
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mitopoietica, che, prima che nei frutti, si concentra nell’opera stessa, nel processo. Come l’artista, l’alchimista accelera questo processo, ma nella sua relazione con le immagini del Tempo non si limita a trasformare natura in cultura, ma la cultura in supernatura. Allo stesso modo, per avvicinarsi ai meccanismi dell’Immaginazione non risulta possibile utilizzare la ragione, ma è necessario applicare una fiamma coerente con quella supernatura: il “fuoco segreto” delle immagini. In questo senso, è importante osservare che le ricette alchemiche si leggono come veri psicodrammi, o come stagioni dell’itinerario eroico, che conciliano la conquista della luce col suo inverso: la necessità di una discesa dell’anima che le permetta di radicarsi nella natura e, più concretamente, nell’immaginario della materia. Quando, nell’apertura senza titolo di 8½, il silenzio dell’ingorgo di traffico lascia entrare una pulsazione in sordina, un pompare cieco e soggettivo che accompagna gli sguardi congelati di chi circonda la sua automobile, Guido Anselmi inizia a disperarsi come un eroe nato da questa materia. Ansima. Tira pugni per uscire mentre la cinepresa va creando lo spazio in una danza che si adegua al suo sguardo, unendo alcuni oggetti con altri, in un modello che si ripete nel carosello di immagini dell’entrata di Roma attraverso l’autostrada o l’arrivo in città di Toby Dammit. Colpisce i finestrini mentre il fumo riempie il cruscotto finché riesce a sormontare la capote. In silenzio, allora, scivola, ascende e, come si è detto, è restituito alla terra, quando dei personaggi lo tirano giù dalla spiaggia e si sveglia. “Avvocato, l’ho preso!” dice uno. “Giù, definitivamente!”, sentenzia mentre la camera, invece di accompagnarlo, lo lascia cadere. Tutta la sequenza emula l’angoscia uterina dai suoni smorzati e può essere letta, a un primo livello, come il trauma di una nascita, legato al cordone ombelicale. Il personaggio di Guido, alla fine della sequenza, è nato, ha fatto nascere sé stesso con un grido. Da questo momento, il film è presentato come l’estensione, lo sviluppo del risveglio senza immagini, un abbandonarsi ai fantasmata nei quali, come epilogo di tutte le donne di Guido, ha un ruolo fondamentale la figura della ninfa, incarnata nella sagoma di Claudia Cardinale. Bisogna segnalare che quasi nello stesso momento in cui Aby Warburg annotava nel suo diario il titolo provvisorio di Mnemosyne, “una storia di fantasmi per adulti”, polarizzava la psiche occidentale in due archetipi, il dio fluviale melanconico da una parte e, dall’altra, una ninfa. In una continuità che il teorico francese Georges Didi-Huberman ha sottolineato in Phalènes. Essais sur l’apparition II (Didi-Huberman 2007), l’apparizione (phasma), il fantasma e la fantasia manifestano una etimologia comune che si reitera nella farfalla notturna (falena). Nella realtà segreta della
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farfalla, che è tutta ali, come le fanciulle di Botticelli e Ghirlandaio nel pannello 46 di Mnemosyne sono tutte drappeggio, si rinnova un sistema notturno e luminoso della figurazione dell’anima (pscyché) comune alla ninfa. Quella tavola 46 mescola tele del Rinascimento con ritagli e anche una fotografia scattata dallo stesso Warburg di una bella ragazza in Toscana. La ninfa, diceva, non si incarna in nessuna delle immagini concrete. Si trova, invece, fra di loro. Sono i loro fantasmata. In quanto spirito elementare, la ninfa possiede solo un corpo sottile e solo nell’incontro con un soggetto vivace, con un essere umano, acquisisce anima completa, smette di essere crisalide e si trasforma in imago. Sempre nei pressi di fonti e fiumi, le ninfe incarnano il sapere fluido delle acque, la conoscenza attraverso le immagini. La storia della relazione fra umani e ninfe è la storia della difficile relazione fra l’individuo e le immagini. Perciò, quando, in una delle prime visioni di 8½, la banda sonora si interrompe e compare la ninfa, Claudia Cardinale, che dà da bere a Guido, Fellini mette in evidenza la consapevolezza di affrontare la relazione fra il lettore, lo spettatore e le immagini. “Claudia è l’opera, il fantasma che guida con la sua lampada l’artista attraverso il bosco oscuro della creazione. Non si tratta di una donna ma di una allegoria”, scrive Pilar Pedraza (Pedraza, Gandía 1993). Sulla figura di Claudia, si sviluppa un percorso che rispetta le forme dello psicodramma o della narrazione alchemica piuttosto che seguire altri criteri, come ad esempio la sequenza a colori. In altre parole, se a partire dal suo rapporto con uno psichiatra junghiano, Hergé decise di creare l’album Tintin in Tibet in funzione delle grandi fasi di colore del linguaggio metaforico dell’alchimia – dalla nigredo o fase oscura della materia alla albedo, lo stadio in cui il composto diventa bianco e infine la rubedo, il colore rosso della vita – Fellini si concentra su un’altra forma per esprimere il Processo dell’opera. Tappe come la calcinazione, la soluzione, la distillazione, la putrefazione, la sublimazione o la coagulazione appaiono trasformate in forme sequenziali molto concrete, che emergono quando sono comparate con una intera tradizione della costruzione emblematica, visuale e allegorica dell’alchimia in trattati come Atalanta fugiens (1617), del medico alchimista Michael Maier (Maier 2007). In questo primo libro interattivo della storia, nel quale gli emblemi appaiono associati a poemi, forme epigrammatiche e partiture musicali, compare una visione della narrazione sequenziale nella quale, di nuovo, si tendono gli spazi in bianco, i fantasmata con la finalità di creare Traumwerk, lavoro del sogno. Nel primo degli emblemi di Atalanta fugiens, “Emblema I dei segreti della natura. Il vento lo portò nel suo grembo”, sull’oscuro epigramma,
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che allude al ventre di Borea e all’embrione eroico che custodisce, l’incisione presenta un muscoloso titano anziano i cui capelli e le cui mani si fondono con le volute del vento. In fondo, un castello in rovina e due torri accanto a un lago, e lungo il corpo del colosso, Borea, il freddo vento del Nord nella mitologia greca, un drappeggio che occulta il suo sesso ma permette di vedere, nel grembo trasparente, un bambino in gestazione. L’“Emblema II dei segreti della natura. La terra è la sua nutrice” mostra ora un infante appena nato allattato da una figura allegorica del pianeta Terra, insieme ad altri tre bambini alimentati da una capra e da una lupa. A un primo livello si possono vincolare questi due epigrammi e le loro corrispondenti incisioni al prologo di 8½, ma il parallelismo sarebbe banale se si limitasse a questo. Fu solo quando abbandonò il suo Libro rosso (Jung 2010), verso il 1930, che Jung iniziò a tralasciare il suo stile profetico affine in alcuni punti a quello di Nietzsche e a utilizzare l’insieme delle sue visioni, cominciate subito prima della I Guerra Mondiale, come metafora alchemica della costruzione della psiche. Da quel momento, diventò criterio abituale in alcune pratiche dei suoi discepoli, e bisogna presumere che il Dr. Bernhardt svolse un ruolo di mediatore nella conoscenza che Fellini ebbe di questi materiali. Sebbene non sia possibile affermare che il cineasta conoscesse Atalanta fugiens, i parallelismi si moltiplicano, infatti nell’“Emblema III dei segreti della natura” è possibile osservare come una donna riscalda grandi catini di acqua per lavare i vestiti e il corpo, immagine che si ripete tanto nel rapido atterraggio dal sogno di Guido, quanto nella prima sequenza delle terme e, ovviamente nella figura di Luisa (Anouk Aimée) e il suo trascinare secchi d’acqua durante il sogno dell’harem. Con Carla (Sandra Milo), la sua amante, Guido si comporta in maniera simile all’Emblema V, nel quale il personaggio pone un rospo sul seno di una donna. La allontana dalle terme. La ignora anche in piena crisi. Nelle sequenze del bagno collettivo nella sauna risuona l’Emblema XXVIII, “Il Re si lava, seduto nel bagno laconiese; viene liberato della sua bile da Farut”. Ma è la questione dell’unione degli opposti, sulla quale insiste Atalanta fugiens, quella che domina 8½ ed è, soprattutto, la figura della ninfa quella che attraversa la conquista dell’equilibrio, l’inizio dell’Opera da parte di Guido. L’Emblema XLII indica “Che la natura, la ragione, l’esperienza e la lettura servano da guida, bastone, occhiali e lampada a coloro che versano nella Chimica”. L’incisione che la accompagna mostra una bella donna che avanza in piena notte, avvolta da un drappeggio simile a quello della dama che Warburg chiamava la ninfa del Ghirlandaio nella tela La nascita di San Giovanni Battista. La giovane va lasciando impronte sulle quali a sua volta cammina l’uomo,
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La strada di Fellini
illuminato da una candela, la stessa forse di cui si avvale Claudia dopo la fuga dalla sala di proiezione insieme a Guido. “Sono venuta per non andare più via. Voglio fare ordine, voglio fare pulizia”, insiste Claudia nella sequenza precedente, facendosi eco delle prescrizioni dell’Emblema III, e al riapparire in questo punto dell’azione, i dubbi sull’esistenza si accentuano. Guido parla con lei senza che risulti visibile la sua bocca, che resta in ombra, come se si trattasse di un discorso interiore. Il suono della sorgente sottolinea la sua essenza di ninfa. “La ragazza della fonte […]. Giovane e antica”, dice di lei Guido, fino a che non raggiungono una strada senza uscita, deserta, un vecchio palazzo davanti al quale si fermano. Una panoramica ascendente mostra allora Claudia vestita di bianco, come nella prima apparizione, davanti alla fonte. Porta la candela e quando riappare, in mezzo alla strada, completamente silenziosa, c’è un tavolo coperto da una tovaglia, appena prima che Guido scenda dall’auto, si sieda su uno scalino e continui il suo dialogo con la ragazza, ora vestita in abito da sera. “Per me, la faccenda potrebbe finire qui”, dice Guido rivolto a sé stesso, mentre i suoi collaboratori arrivano in macchina, gridando “Ma che fai? Dove sei scappato?”, al singolare e non al plurale che corrisponderebbe alla compagnia di Claudia, che va via in un’altra automobile. Solo allora, alla fine, le riprese possono cominciare; la circolazione dell’Opera può salvare l’ostruzione iniziale. Il banale avvertimento del critico Daumier “Se non si può ottenere il tutto, il nulla è la vera perfezione” e la minaccia del principe della chiesa “fuori dalla chiesa non c’è salvezza” si dissolvono davanti alla circolazione degli affetti e delle energie che permettono di compiere l’opera, sintetizzare rinuncia e accettazione. Le terme, il confessionale, l’hotel e il boschetto dei bagni, i sogni dell’harem, la tomba, la stanza e la sala cinematografica sono ora sostituiti da una visione luminosa intorno alla quale i ricordi, i sogni e le associazioni di idee possono apparire. Intorno all’enorme torre di impalcature sulla quale si simulerà il razzo che dà forma al racconto che Guido si dispone a filmare, i luoghi profondi sono sostituiti da un immaginario ascensionale. L’inferno della caduta iniziale di Guido, l’intermondo o purgatorio nel quale ha trascorso la parte centrale del film, sfuma in queste immagini davanti a un embrionale paradiso, il culmine dell’opera. Ma che cos’è questo lampo di felicità che mi fa tremare e mi ridà forza, vita? Vi domando scusa dolcissime creature non avevo capito, non sapevo, com’è giusto accettarvi, amarvi, e com’è semplice. Luisa, mi sento come liberato, tutto mi sembra buono, tutto ha un senso, tutto è vero
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Ricordi, sogni, pensieri: il sogno nelle immagini di Fellini
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dice a sé stesso Guido. Senza paura e seguendo la ninfa – solo due volte Dante parla di Beatrice come ninfa – raggiunge un nuovo punto di partenza, una redenzione capace di inaugurare un nuovo cammino, la fine dell’attesa kafkiana, l’inizio dello sbatter d’ali della farfalla che dà senso alla imago felliniana. È necessario considerare che, nell’alchimia occidentale, la traccia dei miti gnostici ed ermetici offre un complemento alla Redenzione dell’Uomo da parte di Cristo: la Redenzione della natura, della Creazione, dell’anima mundi. Perciò non risulta strano che uno dei nomi con cui si denomina la Pietra sia filius philosophorum, il figlio dei filosofi, la loro Redenzione. L’idea cristica di una divinità trasformata in materia sofferente attraversa tutto l’Opus Magnum, e si fa eco di tradizioni precedenti. Il corpo della prima materia si personifica come Rex (Re) o Sole e patisce l’equivalente dello smembramento dello sciamano nelle culture tradizionali, la frammentazione in immagini alla quale è sottomesso Guido prima di affrontare l’integrazione e la redenzione, una vita nuova in cui, sullo spostamento di tutti i suoi personaggi, si manifesta in maniera definitiva il loro tempo, un’esperienza discontinua delle immagini affine a quella dell’inizio di Viaggio a Tulum, alla fine di Mastorna. C’è, in questo senso, un segreto vincolo fra l’arenile delle immagini finali di 8½ e il finale de La dolce vita, poiché in questo, oltre alla ricomparsa di Marcello/Guido reinventato, Fellini prende come riferimento una delle opere fondamentali della narrativa sequenziale, la serie di Botticelli ispirata alla storia di Nastagio degli Onesti dal Decameron di Boccaccio. Questa sequenza pittorica che costituisce un autentico fumetto rinascimentale, in realtà vicino a uno stile in quel momento già arcaico per l’uso della sequenza, narra una storia tragica di amore e morte che costituisce una metafora perfetta della dialettica fra stasi e movimento nel fumetto e una commossa approssimazione alla figura della ninfa. Nella prima delle tavole, il giovane nobile Nastagio, rifiutato nelle sue proposte matrimoniali dalla sua amata Paola Traversari, porta a passeggio le sue pene per il bosco quando, improvvisamente, assiste all’apparizione spettrale di una ragazza nuda che fugge disperata da un cavaliere armato e dalla sua muta di cani. L’abilità di Botticelli nell’utilizzare la reinquadratura all’interno della sequenza e accentuare l’effetto schermo grazie agli alberi si ripete nella seconda tavola della serie, nella quale Nastagio guarda con orrore come i cani raggiungono la donna, che viene uccisa e sventrata dal cavaliere che offre le sue viscere agli animali. Finito il supplizio, la donna si rialza e l’inseguimento riprende, come si può osservare nella scena che si sviluppa in prospettiva. Questa condanna all’eterna ripetizione en
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La strada di Fellini
abyme che si avvicina alle fantasie di Adolfo Bioy Casares nel romanzo L’invenzione di Morel (1940) viene inoltre narrata, perché il pathosformeln del cavaliere richiama l’attenzione di Nastagio per spiegargli che la crudeltà della donna nei confronti delle sue richieste amorose fu ciò che provocò il suo suicidio e il tormento eterno di entrambi. Nel salto alla terza tavola, si produce la shakespeareana illuminazione di Nastagio, che decide di ricorrere alla forza della scena. Nastagio, che ha fatto tagliare gli alberi del bosco e aprire uno spiazzo nello stesso luogo dove assistette alla terribile caccia, convoca i suoi familiari e Paola per un lussuoso banchetto in attesa dell’apparizione, dei fantasmata, della sopravvivenza. In pieno banchetto, fra vivande copiose e ricchi baldacchini, il momento aspettato si fa realtà e l’orribile scena commuove e inorridisce i presenti. La sequenza ha, inoltre, la sua replica in una bella vignetta di Milo Manara nella serie HP e Giuseppe Bergman (Manara 1982), che riconosce la capacità di Botticelli di ripetere gli stessi intervalli che apre fra le tavole anche al loro interno. Quando Nastagio spiega la storia a Paola, lei si commuove e accetta di essere sua sposa. È la quarta tavola quella che raccoglie gli sponsali e il finale felice intorno a un’agape fastosa la cui versione moderna è, senza dubbio, questa discesa dalle scale di figure nel finale di 8½, la danza finale al ritmo della musica di Nino Rota. L’integrazione della realtà scissa di Guido, il suo distillato alchemico, l’equilibrio fra la vignetta e i fantasmata del movimento si costellano intorno a quella ninfa, Claudia, che apre, con i sogni e le visioni che la accompagnano, una via maestra all’inconscio del personaggio e creatore, al suo oscuro abitatore.
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Lo Sceicco bianco e la mediazione immaginaria del desiderio di Raffaele Pinto
Una lettura dello Sceicco bianco in termini di bovarismo fotoromanzesco illumina innanzitutto uno scenario di sociologia culturale del cinema recentemente messo in evidenza da Anna Masecchia in un eccellente studio sul personaggio della spettatrice cinematografica, che negli anni ’30-’40 attira l’attenzione di alcuni cineasti italiani, che ne fanno la protagonista delle loro trame (Masecchia 2010). È indubbiamente questo l’humus sociologico e culturale su cui il primo Fellini interviene, affondandovi il bisturi della sua precoce ricerca metafisica e superando la pura e semplice denuncia del fatto di costume attraverso una già spericolata esplorazione delle radici profonde dell’immaginario (specificamente cinematografico ed ampiamente letterario). Il film si presta quindi senz’altro ad una analisi che ricorra a categorie antropologiche ed ermeneutiche di ampio respiro ideale che illustrino non solo l’universo estetico felliniano ed italiano ma il cinema e la letteratura nei loro valori culturalmente fondazionali, nella prospettiva di una storia estetica della modernità. Un primo indizio della profondità di livello cui perviene il sondaggio antropologico felliniano ci viene offerto da un regista che, raccogliendo la sfida ermeneutica del riminese, ne mette a frutto le risorse espressive da questi originalmente reperite, dialogando con lo Sceicco bianco e traducendone la struttura romanzesca nel proprio discorso filmico: si tratta di Billy Wilder, che in Arianna (Love in the afternoon, 1957) ci presenta una protagonista (Audrey Hepburn) innamorata “per fotografia” di un popolare mito erotico femminile (Flannagan, un dongiovanni di successo interpretato da Gary Cooper). Indipendentemente dalle suggestioni che il romanzo francese (Ariane, Claude Anet 1924) e la relativa versione cinematografica (Ariane, Paul Czinner 1932) poterono eserci-
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La strada di Fellini
tare sul cineasta austriaco, i rapporti intertestuali con il film di Fellini sono inequivocabili1: come la protagonista felliniana, anche la giovane violoncellista transita dal mondo reale in cui vive (la umile casa piccolo borghese del padre, Maurice Chevalier, un investigatore privato specializzato in adulteri il cui archivio fotografico rappresenta per la giovane figlia una miniera di sogni romanzeschi visitata in segreto) al mondo ideale di romantico e leggendario erotismo del ricco dongiovanni americano: se Wanda (Brunella Bovo) diventa odalisca sul set dello Sceicco bianco, lei diventa femme fatale (ossia dongiovanni al femminile) nel lussuoso scenario della stanza d’hotel in cui viene ricevuta dal play boy. Rivelatore dello scrupolo con cui Wilder riprende nel proprio discorso il film di Fellini è la scena del bacio, in cui Arianna, confusa e frastornata dalle avances di Flannagan, esprime il proprio disagio con una battuta che traduce quasi letteralmente quella di Wanda, appena salita sulla barca in cui lo Sceicco (Alberto Sordi) cerca di sedurla2. Con geniale lucidità, Wilder ha colto il nucleo profondo del discorso felliniano, e cioè l’alterità di desiderio secondo cui l’io ridefinisce se stesso quando viene intrappolato dalla finzione immaginaria. Lo sdoppiamento dell’io fra ciò che è e ciò che vorrebbe essere, fra l’io reale e l’io ideale, è inoltre sottolineato da Wilder mediante una elementare metafora fotografica: la conversazione fra Hepburn e Cooper non viene rappresentata attraverso il normale procedimento del piano-contropiano, ma attraverso il primo piano fisso della donna, dietro la quale vediamo, riflesso nel vetro della imposta del balcone, il viso di Cooper: ulteriore colpo di genio (al di là della pur plausibile necessità di occultare le rughe di un Cooper troppo maturo) che ci mostra l’oggetto del desiderio sdoppiato nella sua persona reale, che non vediamo, e l’immagine di desiderio che esso rappresenta per il soggetto femminile, soggetto che fantasmagorizza l’altro come proprio ideale3.
1 L’elemento più clamoroso di tale intertestualità è l’allusione ad un mito letterario italiano che, come vedremo, è estremamente pertinente alla storia narrata da Fellini, e cioè la dantesca storia di Paolo e Francesca (Inferno, V), cui allude la comica rassegna di baci parigini con cui il film di Wilder si apre, che culmina con la rappresentazione scultorea del celebre bacio dei due cognati realizzata da Rodin. 2 Lo sceicco bianco: “Ho una confusione in testa. Che strano, mi sembra di non essere più io”; Ariane: “It’s all a little blurry. I am…”. Si osservi anche l’allusione, nel dialogo, a una Francesca del Corso sedotta da Flannagan, che stringe la rete dei riferimenti intertestuali evocando il personaggio dantesco nella imminenza del bacio fra i due protagonisti. 3 Il simbolismo identitario dei riflessi dell’altro culmina nella scena seguente, quando, dopo aver fatto l’amore, i due protagonisti giocano a indovinare il nome di lei, di cui vediamo il volto in uno specchio, mentre si pettina.
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Lo Sceicco bianco e la mediazione immaginaria del desiderio 45
Le intertestuali convergenze fra i due capolavori ci indirizzano immediatamente verso i grandi temi ermeneutici da essi mobilitati: la triangolazione del desiderio come struttura profonda dell’immaginario moderno e la tecnologia dell’immagine come potenziamento della funzione immaginaria nell’arte e nella cultura4. Con le osservazioni che seguono mi propongo di illustrare personaggi e motivi dello Sceicco bianco sullo sfondo di tali problematiche. Il bovarismo di Wanda va interpretato all’incrocio di due prospettive ermeneutiche, quella storico-letteraria che ne fa ulteriore incarnazione del personaggio mitico della “lettrice di romanzi”, che da Francesca da Rimini a Emma Bovary costella la tradizione moderna precinematografica, e quella dell’immaginario personale felliniano, nel quale la donna rappresenta uno dei più ossessivi temi di ricerca. Relativamente a questa seconda prospettiva, è utile partire dalle considerazioni che Fellini dedica al personaggio interpretato da Claudia Cardinale in 8½ (Fare un film, pp. 78-79): Il film dovrebbe essere anche la storia di questo interminabile favoleggiare sul continente donna, oscuro e affascinante. Protagoniste a parte, dovrebbero esserci molte altre apparizioni femminili, ho la sensazione che queste vaghe presenze profumino tutta la storia e che tutti gli avvenimenti convergano verso un unico problema, e cioè quell’intestardirsi del protagonista a chiarire se stesso attraverso queste magiche e indefinite proiezioni. La donna rispecchia e restituisce le nostre emozioni e i nostri bisogni, ce li restituisce con amicizia e comprensione, dà loro forma, ce li rivela. Il protagonista potrebbe anche dirle queste cose, magari comportandosi in maniera totalmente contraddittoria. Potrebbe dire che la donna è più sincera dell’uomo, che si rivela, si esprime e si consegna così com’è, non come vorrebbe essere, non ha la nostra finzione, la maschera del lavoro, dell’impegno, della ideologia, che inganna e copre la verità.
Chiaramente autobiografici, questi pensieri attribuiti al protagonista del film mostrano la profondità psicologica della esplorazione felliniana del “continente donna”, in gran misura raffigurato attraverso l’archetipo della “tettona-culona” che ha le sue più celebri espressioni nella Sylvia (Anita Ekberg) della Dolce vita (e poi Le tentazioni del dottor Antonio)
4 La distinzione lacaniana tra immaginario e simbolico sembra utilmente applicabile (a una storiografia culturale il cui oggetto sia l’evoluzione di questo rapporto) nella direzione moderna di una progressiva preminenza, nell’arte, dell’immaginario sul simbolico, o, in termini freudiani, del principio di piacere sul principio di realtà.
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La strada di Fellini
e nella tabaccaia (Maria Antonietta Beluzzi) di Amarcord 5. Ma prima di essere rappresentata come fantasma ossessivo di un io maschile, nelle grandi opere della maturità, la donna era stata esplorata da Fellini nella sua valenza soggettiva di ingenua spettatrice, capace di trasferirsi interamente nel mondo fittizio creato dall’industria culturale e cinematografica, come appare soprattutto in Le notti di cabiria e, appunto, Lo Sceicco Bianco, in un’esplorazione dell’immaginario femminile iuxta propia principia che avrà la sua più compiuta realizzazione in Giulietta degli spiriti. Nel film del 1952, l’antitesi tra l’autoinganno ideologico maschile e la verità immaginaria femminile (che leggevamo ora nel brano di Fare un film) è alla base della contrapposizione dei caratteri di Ivan (Leopoldo Trieste) e Wanda, lui tutto dominato dai rituali del ruolo pubblico da rappresentare nei confronti della famiglia e della società, lei interamente proiettata nel suo mondo di fantasie (un mondo di cui, però, lei ha la possibilità di riscontrare la oggettiva realtà nel rapporto ravvicinato che riesce a stabilire con gli attori sul set del fotoromanzo). La tensione narrativa del film dipende in gran parte dal progressivo cedimento di Wanda, che si lascia infine intrappolare dai trucchi pseudoromanzeschi dello Sceicco, che finge a sua volta di identificarsi con il ruolo che interpreta nella finzione della trama. Sul piano della peripezia romanzesca, il destino cui va incontro Wanda non è diverso da quello delle sue antenate letterarie, salvo il lieto fine imposto dal registro tragicomico secondo il quale il tema viene declinato. Su un piano diverso, di tipo storico-antropologico, il fenomeno letterario del bovarismo è stato descritto da René Girard, che, in un volume che è ormai un classico della ricerca letteraria (Girard 1965), ne ha messo in luce la natura specificamente romanzesca attraverso il concetto di mediazione del desiderio: la letteratura (in particolare il romanzo) viene concepita come lo specchio immaginario in cui il lettore vede riflessa la propria identità ideale, attraverso la figura di un ammirato protagonista; tale protagonista rappresenta l’ideale dell’io cui il lettore cerca di uniformarsi perseguendo oggetti di desiderio congruenti con tale identità. Don Chisciotte si dedica ad imprese cavalleresche per somigliare ad Amadigi di Gaula ed Emma Bovary si lascia sedurre da un dongiovanni e da un avvocato di provincia per somigliare alle eroine dei romanzi sentimentali che alimentano la sua immaginazione. Alle origini della letteratura moderna europea, la mediazione romanzesca del desiderio viene esemplificata dalla storia di Paolo e Francesca, nell’Inferno di Dante, che 5
2005.
Per un’analisi delle fonti dantesche dell’archetipo, rinvio al mio saggio: Pinto
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Lo Sceicco bianco e la mediazione immaginaria del desiderio 47
diventano amanti per somigliare agli ammirati protagonisti dei romanzi cavallereschi francesi, copiandone i comportamenti (sulla questione, cfr. Pinto 2007). Secondo lo studioso, il romanzo moderno mette in evidenza ciò che la letteratura e la mentalità del romanticismo normalmente dissimulano, e cioè il carattere mai originario ed autentico del desiderio, ossia, in linea con i postulati freudiani e lacaniani, la sua sostanziale alterità. L’intuizione di Girard risulta, infatti, ancora più utile e produttiva se la mediazione del desiderio viene analizzata a partire dallo stadio dello specchio descritto da Lacan6 e dalla triangolazione edipica descritta da Freud. La mediazione del desiderio ci appare allora come il protrarsi nella età adulta di quella finzione di sé che fin dal principio insedia l’altro nel cuore dell’io, e riproduce nel triangolo dell’adulterio (dentro e fuori della letteratura) la triangolazione edipica cui Freud attribuisce la definitiva orientazione delle pulsioni di desiderio, contemporaneamente verso un oggetto sessuale e verso un ideale dell’io. Nel personaggio di Wanda riconosciamo agevolmente le morfologie di desiderio e di identificazione cui ora si alludeva. Il fotoromanzo è infatti per la protagonista ciò che i romanzi sono per Don Chisciotte e per Emma (lei è quindi, come Gianfranco Contini scrisse di Francesca da Rimini, una “intellettuale di provincia” – Contini 1970b, p. 343). Il processo di identificazione immaginaria con l’ammirato protagonista, lo “Sceicco bianco”, si produce con l’idealizzazione del personaggio (attraverso metafore filmiche che sono state ben analizzate da Nuria Bou nel saggio raccolto in questo volume) e mediante le (freudiane) “pulsioni passive”, che la inducono a proporsi a lui come oggetto di desiderio. L’elemento più clamoroso di questa riduzione cinematografica della mediazione di desiderio è l’accesso di Wanda al set in cui viene fotografata la finzione romanzesca di cui lo Sceicco è protagonista: vestita e truccata da odalisca, lei realizza nella finzione, ed è sul punto di realizzare anche nella realtà, il desiderio che la lettura dei fotoromanzi ha suscitato in lei. La letteratura e il cinema (ed il fotoromanzo, che rappresenta la loro popolarissima fusione) si rivelano qui, con sorprendente chiarezza, come quella lacaniana “linea di finzione” sulla quale l’io si costruisce idealizzandosi e proiettandosi nell’Altro. Come farà Wilder qualche anno dopo, situando Ariane nel lussuoso scenario delle avventure erotiche 6 La forma di sé che il bambino riconosce nello specchio “situa l’istanza dell’io, prima ancora della sua determinazione sociale, in una linea di finzione, per sempre irriducibile per il solo individuo o, piuttosto, che raggiungerà solo asintoticamente il divenire del soggetto, quale che sia il successo delle sintesi dialettiche con cui deve risolvere in quanto io la sua discordanza con la propria realtà” (Lacan 1974, I, pp. 88-89).
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La strada di Fellini
del suo ricco rubacuori, spazio fittizio al quale la giovane donna accede spinta dal proprio desiderio, così Fellini rappresenta l’infatuazione della protagonista proiettandola materialmente nell’universo leggendario nel quale lei mentalmente si è già trasferita per vincere la noia e la volgarità della sua esistenza quotidiana. In entrambi i casi il bovarismo del personaggio viene rappresentato attraverso la sua fisica dislocazione nello scenario immaginario sognato, dove l’io si trasfigura (Wanda diventa odalisca, Ariane femme fatale) assumendo illusoriamente la propria sognata identità ideale. D’altra parte, come anche in Wilder attraverso il personaggio del padre di Ariane che fa da segugio di infedeltà matrimoniali, l’adulterio è, nello Sceicco, struttura romanzesca immanente alla peripezia, ed anzi boccaccesca risorsa comica, poiché l’avventura di Wanda si dispiega interamente nel corso della luna di miele a Roma: la donna abbandona nell’hotel il marito che fa la siesta, per portare al suo eroe un ritratto da lei realizzato (altra metafora del costituirsi del fantasma di desiderio nella mente del soggetto). Il doppio livello in cui la triangolazione del desiderio si dispiega, cioè l’adulterio come peripezia romanzesca e la finzione (foto)romanzesca come specchio ideale in cui l’io-lettore si proietta ed identifica, viene magistralmente articolato attraverso i due piani in cui il personaggio agisce: quello della realtà matrimoniale e quello della finzione adulterina. Il montaggio alternato delle due vicende incrementa l’effetto comico di entrambe, mostrandoci ogni volta i momenti dell’una in contiguità e contrapposizione con i momenti dell’altra. Particolarmente esilarante è il passaggio dalla sequenza del bacio frustrato nella barca, con cui miseramente si conclude il tentativo di seduzione dello Sceicco ai danni della improvvisata odalisca, con il duetto di Don Giovanni e Zerlina cui stanno assistendo, al teatro a Roma, il marito di lei con i parenti. Fra i momenti più memorabili del film, il rodaggio del fotoromanzo sulla spiaggia di Ostia è anche potente metafora di ciò che il cinema rappresenta per Fellini fin dall’inizio della sua carriera, e cioè un modo privilegiato di esprimersi entrando in contatto con le radici inconscie e visionarie (oniriche) dell’io. Il dispositivo del set (scenografico da una parte, tecnologico dall’altro) permette la liberazione e la documentazione dei fantasmi della mente, repressi fino al momento in cui la macchina produttiva si mette in moto e, agli ordini del regista, il grande baraccone interiore delle immagini e delle pulsioni si mette in movimento. Sul lavoro artistico come “operazione di sutura fra l’inconscio e il conscio”, ed anzi come vitale dialettica di malattia e salute, lo stesso Fellini ha spiegato bene il proprio personale atteggiamento:
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Lo Sceicco bianco e la mediazione immaginaria del desiderio 49 Per quanto mi riguarda, raramente mi capita di essere assistito da una sufficiente lucidità circa i meccanismi che attuano questo delicatissimo ambiguo passaggio; io non sono aiutato da alcun distacco critico… perché col cinema ho un rapporto di clandestinità psicologica, un rapporto fatto di reciproca diffidenza e disistima. Faccio un film come in fuga, come fosse una malattia da scontare. Insofferente e pieno di rancore guardo al film, come a un malanno di cui liberarmi; e mi illudo che la salute sia il momento nel quale mi allontanerò dal film; salvo poi a sentirmi nuovamente e diversamente malato quando dal film io sono fuggito, quando l’ho consegnato ad altri, quando cerco di riammalarmi con un film nuovo e diverso che mi dia necessità di riammalarmi nuovamente, di guarire nuovamente, e di una nuova e più ambigua complicità con me stesso. Come il sogno. Il sogno è anche espressione della nostra malattia, anche se, come la malattia, è ricerca di salute. Un film per me è veramente qualcosa di assai vicino a un sogno amico ma non voluto, ambiguo ma ansioso di rivelarsi, vergognoso quando viene spiegato, affascinante finché rimane misterioso (Fellini 1980, p. 159)7.
L’immaginario onirico mobilitato dal set descritto nello Sceicco bianco è certo infinitamente meno complesso di quello evocato nelle opere successive, soprattutto a partire dal suo avvicinamento alla psicoanalisi e all’opera di Jung. Esso è però adeguato al modesto universo culturale della protagonista e, soprattutto, collega Fellini alla grande tradizione del bovarismo romanzesco, di cui egli immediatamente intuisce la parentela con il cinema, ed anzi il fatto che questo rappresenta, del romanzo così inteso, il necessario sviluppo. E infatti di quel delirante carosello 7 Sulla parentela strutturale fra l’immaginario onirico e quello filmico, sono notevolissime queste osservazioni svolte riguardo alla differenza fra cinema muto e cinema sonoro (Fellini 1980, p. 100): “Il cinema racconta i suoi mondi, le sue storie, i suoi personaggi, con immagini. La sua espressione è figurativa, come quella dei sogni. Non ti affascina, non ti spaventa, non ti esalta, non ti angoscia, non ti nutre, il sogno, con le immagini? Nel cinema le parole e il dialogo, mi sembra, servono piuttosto a informarti, a permetterti di seguire razionalmente la vicenda e a darle un senso di verosimiglianza, secondo un criterio di realtà abituale; ma è proprio questa operazione che, riverberando sulle immagini riferimenti della cosiddetta realtà comune, toglie loro almeno in parte quel senso di irreale che è proprio dell’immagine sognata, del linguaggio visivo del sogno. Il film muto, infatti, ha una sua misteriosa bellezza, una potente seduzione evocativa che lo rende più vero del film parlato proprio perché è più vicino alle immagini del sogno, che sono sempre più vive e reali di tutto ciò che vediamo e tocchiamo”. Comprendiamo meglio l’acutezza di queste osservazioni se pensiamo alla freudiana priorità psichica dell’immagine rispetto alla parola: “Il pensare per immagini è un modo assai incompleto di divenir cosciente. Un tale pensare è inoltre in certo modo più vicino ai processi inconsci di quanto lo sia il pensiero in parole, ed è indubbiamente più antico di questo sia ontogeneticamente che filogeneticamente” (Freud 1980, p. 484).
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La strada di Fellini
di fotogrammi (gli attori, invece di muoversi e agire come per un film, devono immobilizzarsi in pose fisse per essere fotografati) l’elemento felliniamente sostanziale, quello che ci mostra l’esigenza interiore da cui il film è generato, è il ruolo del regista (Ernesto Almirante), che dall’alto, provvisto di casco, megafono e fischietto, ordina gridando le pose e gli scatti, con ferrea e militaresca autorità. Capiremo meglio il senso di stupefazione che avvolge quelle straordinarie sequenze se vi leggiamo in trasparenza la implicita rievocazione della prima esperienza di un set che fece Fellini (così come da lui stesso è narrata): Quella mattina era la prima volta che entravo a Cinecittà. Fingevo una gran disinvoltura, come Fred Mac-Murray nel film dove faceva il giornalista, ma in verità ero molto intimidito e sono rimasto sotto il sole a guardare a bocca aperta le torri, gli spalti, i cavalli, le torve palandrane, i cavalieri imbottiti di ferro e le eliche di aeroplani in funzione che sollevavano ovunque nuvoloni di polvere; richiami, grida, trilli di fischietto, il frastuono di enormi ruote in corsa, clangore di lance, spade, Osvaldo Valenti in piedi su una specie di biga dalle cui ruote spuntavano affilatissime lame e le urla terrorizzate di una gran massa di comparse, un caos tenebroso, soffocante… ma, al di sopra di tutta quella confusione, una voce potente, metallica, tuonava ordini che parevano verdetti: “Luce rossa gruppo A attacchi sulla sinistra! Luce bianca gruppo barbari retroceda in fuga! Luce verde cavalieri ed elefanti impennarsi e caricare! Gruppo E e gruppo F rovinare al suolo! IM-ME-DIA-TA-MEN-TE!!!”. Il timbro della voce attraverso il megafono e il genere degli annunci scanditi potevano anche suggerire l’idea di trovarsi alla stazione o all’aeroporto in un momento di grande catastrofe. Non riuscivo però a capire da dove provenisse la voce. Ero un po’ allarmato, il cuore mi batteva forte. Poi tutto a un tratto, in un silenzio improvviso, il braccio lunghissimo di una gru cominciò a sollevarsi nell’aria e a salire in alto, sempre più in alto, al di sopra delle costruzioni, al di sopra dei teatri di posa, oltre gli alberi, oltre le torri, su, ancora più su, verso le nubi, fino a fermarsi sospeso nel riverbero incandescente di un tramonto con milioni di raggi. Qualcuno mi prestò un cannocchiale e lassù, a più di mille metri, su una poltrona Frau saldamente avvitata alla piattaforma della gru, con i gambali di cuoio, scintillanti, un foulard al collo di seta indiana, un elmo in testa e tre megafoni, quattro microfoni e una ventina di fischietti appesi al collo c’era un uomo: era lui, era il regista, era Blasetti (Fellini 1980, pp. 43-44).
Nell’immaginario felliniano il regista è colui che dà ordine alle pulsioni, da una parte liberandole dalla prigionia dell’inespresso (l’inconscio), dall’altra fissandole in immagini dotate di senso. Il suo ruolo si sdoppia in funzioni apparentemente antitetiche, ma che in effetti sono
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Lo Sceicco bianco e la mediazione immaginaria del desiderio 51
condizioni l’una dell’altra, emancipatrice e liberatoria da un lato, dominatrice e ordinatrice dall’altro. La scena finale di 8½, in cui Fellini rappresenta se stesso come direttore di un circo, costituisce l’estrema stilizzazione di un ideale espressivo di sé che nello Sceicco ha la sua prima potente formulazione. E, d’altra parte, nelle sequenze finali della Città delle donne, in cui quella esperienza onirico-esistenziale viene di nuovo ricapitolata in altra chiave, la funzione emancipatrice e liberatrice viene certo attribuita ad un immaginario femminile inteso come grembo generatore di ogni esperienza figurale, ma il momento più intenso e clamoroso di tale epifania della Donna in tutto il suo terribile potere di suggestione è la masturbazione collettiva davanti ad uno schermo, su cui sfilano archetipi femminili cinematografici di clamoroso impatto sul pubblico. Il cinema (nella persona del regista) come controllo del desiderio dello spettatore: è forse questa la formula che meglio riassume il senso che tale linguaggio estetico ebbe per Fellini. Il radicalismo espressivo con cui Fellini intende il cinema e lo usa, è però non solo carattere specifico del suo genio personale. Esso è anche indizio del mutamento epocale che il cinema rappresenta nella storia estetica di Occidente e che affiora alla coscienza critica dei cineasti proprio negli anni in cui Fellini si forma come artista (e che coincidono, in Italia, con l’apparizione del neorealimo). Tale mutamento può essere descritto, nei termini di Girard, come un avvicinamento sostanziale del mediatore del desiderio. Se nella storia del romanzo è possibile distinguere una mediazione esterna da una mediazione interna, per cui modelli relativamente inavvicinabili o lontani (come sono Amadigi per don Chisciotte o l’aristocrazia parigina per Emma Bovary) si avvicinano, diventando modelli prossimi o addirittura rivali (come in Proust e in Dostojevsky, secondo Girard): la rivoluzione estetica che il cinema rappresenta significa un ulteriore e radicale avvicinamento di tale mediazione, che mette a disposizione del pubblico un immaginario finalmente transitabile nella propria realtà quotidiana. L’illusionismo cinematografico presenta, rispetto a quello letterario, un surplus di credibilità esistenziale che ne fa un potente strumento di mobilitazione immaginaria, offrendo allo spettatore persuasivi ed accessibili modelli identitari. Appunto su tale illusionismo si basa la funzione di propaganda con cui il cinema venne sfruttato dai regimi totalitari della prima metà del secolo. Su un piano più intimo e soggettivo, il potere persuasivo di tale illusionismo fu già intuito dal cinema italiano dei telefoni bianchi, come ha evidenziato Masecchia (2010), quindi lucidamente indicato e denunciato nei suoi effetti perversi da Visconti in Bellissima (1951) e poi sviluppato in tutte le sue implicazioni estetiche da Fellini. Tale effetto di
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La strada di Fellini
avvicinamento dell’immaginario alla dimensione esistenziale dello spettatore cinematografico è stato magistralmente descritto da Italo Calvino, in occasione, certo non casuale, della introduzione al libro di Fellini del 1980. Qui Calvino contrappone lo spaesamento che produceva in lui il cinema soprattutto americano frequentato durante l’adolescenza, al senso di prossimità del nuovo cinema italiano: Cos’era stato dunque allora il cinema, in questo contesto, per me? Direi: la distanza. Rispondeva a un bisogno di distanza, di dilatazione dei confini del reale, di veder aprirsi intorno delle dimensioni incommensurabili, astratte come entità geometriche, ma anche concrete, assolutamente piene di facce e situazioni e ambienti, che col mondo dell’esperienza diretta stabilivano una loro rete (astratta) di rapporti (Calvino 1980, p. XVIII). Ma ciò che il cinema dà adesso non è più la distanza: è il senso irreversibile che tutto ci è vicino, ci è stretto, ci è addosso. E questa osservazione ravvicinata può essere in un senso esplorativo-documentario o in un senso introspettivo, le due direzioni in cui possiamo definire oggi la funzione conoscitiva del cinema. Una è quella di darci una forte immagine d’un mondo esterno a noi che per qualche ragione oggettiva o soggettiva non riusciamo a percepire direttamente; l’altra è quella di forzarci a vedere noi stessi e il nostro esistere quotidiano in un modo che cambi qualcosa nei nostri rapporti con noi stessi. Per esempio l’opera di Federico Fellini è quel che più s’avvicina a questa biografia di spettatore che lui stesso m’ha ora convinto a scrivere; solo che in lui la biografia è diventata cinema a sua volta, è il fuori che invade lo schermo, il buio della sala che si rovescia nel cono di luce (Calvino 1980, p. XX). Il cinema della distanza che aveva nutrito la nostra giovinezza è capovolto definitivamente nel cinema della vicinanza assoluta (Calvino 1980, p. XXIV).
Si osservi la geniale intuizione della convergenza e affinità di Fellini con i maestri del neorealismo: lungi dal contrapporsi sull’asse reale/immaginario, gli universi estetici di, poniamo, Rossellini e Fellini procedono di conserva sull’asse prossimità/distanza, poiché entrambi avvicinano sostanzialmente l’immagine rappresentativa (quella che media il desiderio) al campo percettivo e conoscitivo dello spettatore, che senza alcuna difficoltà si riconosce in essa. La differenza consiste, semmai, nel campo percettivo immediatamente mobilitato: esterno nel caso di Rossellini, interno nel caso di Fellini. Considerazioni molto simili, e altrettanto rivelatrici dell’impatto che il neorealismo ebbe sulle coscienze della gente,
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Lo Sceicco bianco e la mediazione immaginaria del desiderio 53
troviamo nella rievocazione della propria infanzia newyorkina di Martin Scorsese, che nella sua Storia del cinema italiano contrappone il western americano che frequentava nelle sale, ai film del nuovo cinema italiano che vedeva alla televisione insieme ai suoi (i genitori, il fratello, i nonni). Alle irreali fantasmagorie di Hollywood, il cineasta oppone il ricordo della propria terra che nei suoi familiari suscitavano film come Roma città aperta e Paisà, che scatenavano nel ragazzo il sentimento prepotente delle radici familiari e della identità etnico-culturale, percezione non diretta ma mediata, poiché non erano le immagini viste in televisione ciò che mobilitava il suo immaginario, ma l’emozione che egli leggeva sul viso dei genitori e dei nonni siciliani. Straordinaria è l’osservazione che tale “riconoscimento” avveniva in silenzio, poiché gli adulti mai gli parlavano della Sicilia (per il timore di interferire negativamente col processo di integrazione del ragazzo nella società statunitense). E quindi il legame identitario e la scoperta delle radici si produce esclusivamente attraverso lo schermo televisivo, le cui immagini eloquenti riempiono con il loro prepotente significato il vuoto verbale che lo spaesamento dell’emigrazione ha creato. Quella prossimità che Calvino riscontra nel nuovo paesaggio immaginario che il cinema del neorealismo ha creato, si rivela, in Scorsese, prossimità ideale che ridefinisce i canali espressivi e comunicativi delle persone, mediante l’irruzione dello schermo televisivo nelle case, sconvolgendone i contenuti attraverso il fulmineo recupero della memoria. Degno di nota è poi anche il fatto che, attraverso la ricostruzione di Scorsese, scopriamo che la televisione funse inizialmente da lente di ingrandimento del cinema, incrementando ulteriormente quell’effetto di avvicinamento estetico all’immaginario dello spettatore che Fellini ha esplorato in tutte le sue pieghe psicologiche. È molto probabile che Calvino abbia dedotto la sua distinzione fra la distanza (del cinema classico) e la prossimità (del cinema moderno) dal saggio di Walter Benjamin sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, nel quale l’effetto che il cinema produce sulla percezione estetica dell’uomo occidentale viene descritto appunto nei termini di una radicale riduzione della distanza dell’osservatore dall’oggetto: Cade qui opportuno illustrare il concetto, sopra proposto, di aura a proposito degli oggetti storici mediante quello applicabile agli oggetti naturali. Noi definiamo questi ultimi apparizioni uniche di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina. Seguire, in un pomeriggio d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sopra colui che si riposa – ciò significa respirare l’aura di quelle montagne, di quel ramo. Sulla base di questa descrizione è facile comprendere il condizionamento sociale dell’attuale decadenza dell’aura. Essa si fonda su
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La strada di Fellini due circostanze, entrambe connesse con la sempre maggiore importanza delle masse nella vita attuale. E cioè: rendere le cose, spazialmente e umanamente, più vicine è per le masse attuali un’esigenza vivissima, quanto la tendenza al superamento dell’unicità di qualunque dato mediante la ricezione della sua riproduzione. Ogni giorno si fa valere in un modo sempre più incontestabile l’esigenza a impossessarsi dell’oggetto da una distanza il più possibile ravvicinata nell’immagine, o meglio nell’effigie, nella riproduzione. E inequivocabilmente la riproduzione, quale viene proposta dai giornali illustrati o dai settimanali, si differenzia dall’immagine diretta, dal quadro (Benjamin 1966, pp. 24-25).
L’effetto di approssimazione all’oggetto tecnologicamente riprodotto, rispetto alla distanza auratica del quadro, che qui descrive Benjamin, viene da Calvino riutilizzato sul piano della propria esperienza di spettatore, per distinguere l’illusione di avvicinamento che produsse l’estetica del neorealismo rispetto al cinema classico. Sono certamente diversi i piani del discorso: si tratta di una tecnologia artistica in Benjamin, di uno stile espressivo in Calvino. Credo però che entrambi, e Scorsese da parte sua, abbiano perfettamente messo a fuoco la linea di progressione estetica della modernità, che è quella di una tecnologia al servizio della esperienza estetica la cui vocazione epocale consiste in un progressivo avvicinamento del soggetto al mondo ideale delle sue identificazioni, vocazione che è descrivibile nelle sue diverse fasi storiche e la cui ultima stagione è quella che stiamo vivendo di una totale coincidenza della realtà esistenziale con il simulacro immaginario che attraverso la televisione e poi la Rete il soggetto costruisce di sé8. Si consideri d’altra parte, che tale decadenza dell’aura, tecnologicamente realizzata dal cinema, era stata già intuita, come lo stesso Benjamin mise in luce, dalle esperienze 8 Al di là del carattere fittizio di mondi paralleli, videogiochi e giochi di ruolo, in cui ciascuno sceglie la identità che meglio esprime il proprio ideale di sé, le reti sociali intervengono sul vissuto delle persone sradicandolo dalla dimensione quotidiana della loro esistenza e creando una socializzazione non parallela ma sostitutiva della esperienza quotidiana. L’espressione tante volte ripetuta: “Se non sei su Facebook non sei nessuno”, rivela, pur nella sua volgarità, la necessità ineludibile, se si vuole essere “normali”, di proiettarsi nella Rete (grande mediatrice del desiderio planetario) come immagine di sé per essere qualcuno. I maestri del cinema sono senz’alcun dubbio i creatori che nel XX° secolo più lucidamente hanno avvertito la necessità del soggetto moderno di “farsi immagine” (una immagine tecnologicamente riprodotta e socialmente diffusa) per aquisire una identità esistenzialmente rilevante. Un solo esempio clamoroso: le scene finali di The Cameraman (Edward Sedgwick-Buster Keaton, 1928) nelle quali la protagonista femminile (Marceline Day) riconosce l’innamorato (Buster Keaton) come proprio autentico oggetto di desiderio quando ne vede l’immagine su uno schermo cinematografico, in una ripresa realizzata da una scimmia all’insaputa di Buster.
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Lo Sceicco bianco e la mediazione immaginaria del desiderio 55
letterarie ottocentesche (Baudelaire e il simbolismo), e bisogna quindi intenderla non come elemento puntuale, come un evento rigidamente databile nel tempo, ma appunto come una “vocazione epocale”, cioè come una direzione che orienta lo sviluppo estetico della modernità fin da quando i suoi elementi definitori (la centralità estetica del desiderio eterosessuale e il primato della donna e del femminile nell’immaginario letterario ed artistico) sono rintracciabili nella storia culturale europea. Proprio la teoria girardiana sulla mediazione del desiderio ci permette di descrivere in termini concretamente storici il processo di costruzione fantasmatica del moderno simulacro dell’io: la sua distinzione fra la mediazione esterna e la mediazione interna, che definiscono, rispettivamente, l’inaccessibilità e l’accessibilità del mediatore immaginario del desiderio rispetto al lettore/spettatore, ci fa capire perfettamente che la prossimità ideale di cui parlano Benjamin e Calvino viene filmicamente rappresentata da Fellini attraverso la peripezia di Wanda che riesce ad entrare fisicamente in contatto col mediatore del proprio desiderio, l’eroe delle proprie fantasie, modificando in modo sostanziale e duraturo il sentimento di sé e il proprio rapporto col reale. All’interno di questo, l’immaginario e il desiderio da esso mediato possono stabilmente insediarsi come principio di significato interno ed organico all’esistenza, necessario perché questa possa essere accettata e verbalizzata dal soggetto, in una sorta di addomesticamento dell’eros (ed in linea con le considerazioni di Scorsese sulla funzione che la televisione ebbe in casa sua). Rivelatrici di tale insediamento dell’immaginario nel quotidiano sono le parole che nel finale del film Wanda rivolge al marito mentre si recano, disciplinatamente ordinati in processione, dal Papa: “Il mio sceicco bianco sei tu!”.
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Nuovi spazi per sognare. La rappresentazione del desiderio nel cinema di Fellini di Nuria Bou
La rappresentazione del desiderio nel cinema classico Quando si contemplano le più meravigliose espressioni del linguaggio cinematografico nella storia del cinema, immediatamente ci si accorge che la maggior parte di esse trasmette un movimento, gesto o pennellata dell’astratto universo dei sentimenti. Forse perché le emozioni non hanno forma concreta, è facile supporre che i creatori di immagini ebbero l’ambizione di visualizzare per gli avidi spettatori dell’epoca – e delle epoche venture – quello che, al principio, non aveva potuto essere visto – però sì, senz’ombra di dubbio, immaginato. Rappresentare il desiderio dei personaggi significò poter sperimentare in maniera creativa le risorse che il cinematografo offriva: i registi escogitavano diverse maniere di scrivere l’allegria e la delusione del desiderio che percorreva l’infinità di anime finte dei racconti audiovisuali. È che, in definitiva, nulla poteva meravigliare tanto l’umanità quanto lasciarsi sorprendere dalle forme del desiderio, questa liquida porzione di sogno ad occhi aperti che l’Uomo genera e trasforma in ogni istante della sua esistenza. Il genere melodrammatico del cinema classico di Hollywood, erede del teatro e del romanzo ottocenteschi, offrì ai cineasti delle origini la possibilità di abbozzare sulla celluloide i primi ritratti delle evanescenti emozioni amorose. Il cinema di David Wark Griffith, oltre a consolidare una maniera precisa di raccontare storie in immagini, parte essenzialmente dalla volontà di mettere in scena il paesaggio sentimentale dei suoi personaggi: perfino nel film La nascita di una nazione (The birth of a nation, 1915), in apparenza un affresco storico della guerra di secessione nordamericana, conquista lo spettatore con la sospensione drammatica delle love stories. In quel magma sentimentale che è il film, il desiderio
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La strada di Fellini
si manifesta naturalmente sullo schermo, per cui ci soffermeremo su una delle sue rappresentazioni, quella che consideriamo fondante: si tratta di una sequenza nella quale la protagonista Elsie Stoneman (Lillian Gish), una giovane nordamericana innamorata di un uomo del sud, Ben Cameron (Henry B. Walthall), dopo aver baciato per la prima volta il suo amato, ha bisogno di visualizzare i suoi sentimenti intimi. Una volta congedatasi dal suo promesso, Elsie entra in casa sua correndo, fin quando arriva allo spazio privato della sua stanza: salta, gesticola, gira su sé stessa, si muove freneticamente fino a lasciarsi cadere esausta sul letto. Un taglio in primo piano della giovane ce la mostra piangendo di felicità, ma quello che vogliamo evidenziare è che Elsie guarda verso l’alto, piegata sul bordo della ringhiera del letto. Cosa vede che la emoziona e la trattiene tanto a lungo con lo sguardo verso l’alto? Ci azzardiamo a rispondere che la ragazza sta assaporando le figure del desiderio che immagina. Elsie, messa di fronte alla passione che si è presentata, inizia a sognare, a costruire visibilmente uno spazio invisibile allo spettatore. L’esagerazione interpretativa di questo momento – in un regista famoso per il fatto di moderare l’espressività eccessiva degli attori del cinema muto – rivela fino a che punto Griffith aveva bisogno di sottolineare iperbolicamente l’irruzione del desiderio sullo schermo. E non solo Griffith. Da quel momento, possiamo osservare questo gesto, che paralizza l’azione nella narrazione, in tutti i film del cinema classico di Hollywood1: il canone della rappresentazione del desiderio si prefigura attraverso l’esaltata espressione di Lillian Gish che visualizza la propria immaginazione. Dialogare con l’espressione classica I registi della modernità misero in discussione, certamente, molti dei canoni espressivi che si istituirono durante l’Età dell’Oro di Hollywood, ma è affascinante notare che mantennero una linea di dialogo con la tradizione, sebbene sentissero il bisogno di trasformare il suo paesaggio narrativo e la sua messa in scena. È in questo senso che il percorso creativo di Federico Fellini è estremamente interessante, soprattutto in relazione alla rappresentazione del desiderio sullo schermo: filmare lo spazio mentale delle illusioni porterà il regista italiano a ripensare alcune 1 Per lo studio della rappresentazione del desiderio nel cinema classico cfr. il capitolo “Cuestiones sobre la representación del deseo femenino en la historia del cine”, in AA. VV. 2007, pp. 74-94.
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Nuovi spazi per sognare 59
questioni relative alla scrittura cinematografica del sogno, indagine che si trova già agli inizi della sua filmografia2. La maniera di visualizzare il desiderio che abbiamo visto nell’esempio di David Wark Griffith (che si conserva nel classicismo e si prolunga negli esempi neoclassici o postmoderni del cinema contemporaneo) si trova anche nei film di Fellini, un regista lontano in prima istanza dal cinema dell’Età dell’Oro, un creatore che, inquieto, si mosse fra il realismo e la modernità, la fantasia e la postmodernità. Tuttavia, qui non percorreremo i momenti in cui i personaggi di Fellini guardano in alto per esprimere il loro desiderio (sarebbe un catalogo tanto lungo quanto infine noioso), ma inizieremo decifrando alcuni passaggi nei quali il regista va oltre il canone griffithiano mediante elementi drammatici o di messa in scena che esagerano le forme classiche. In La strada (1954), per esempio, la protagonista Gelsomina (Giulietta Masina) scorge dalla strada, in alto, un giovane da cui è attratta. Egli è un funambolo che cammina lungo un cavo teso fra i tetti di due edifici. Gelsomina contempla i suoi movimenti col suo mento totalmente rivolto verso l’alto. Un contropiano inquadra la figura dell’equilibrista che, con le sue ali d’angelo, percorre il cielo delimitato dai due tetti; si direbbe che la protagonista non guarda solo le acrobazie del personaggio, ma oltre, percependo un universo che il funambolo le proietta. Così lo spettatore visibilizza che Gelsomina sta scoprendo più dell’immagine aerea di un artista; la protagonista sta scorgendo il suo proprio e affascinante paesaggio immaginario. Ma la formulazione più evidente del fatto che il desiderio si trova in alto si trova nel film La dolce vita (1960), nel personaggio di Sylvia (Anita Ekberg), una abbacinante presenza fisica che simbolizza per il protagonista (Marcello Mastroianni) la forma più perfetta del Desiderio. Sylvia arriva a Roma su un aereo, atterra, quindi, dall’alto fra i paparazzi che la ricevono all’aeroporto, intanto lei saluta dalla cima di una lunga scala. Sylvia, infine, dopo aver dominato altri spazi elevati, assumerà disinibita la forma di un uccello o di un aereo3, in un ballo durante il quale un giovane la alza sopra la sua testa; tenuta in orizzontale, apre le braccia 2 Una delle dichiarazioni più famose di Federico Fellini è quella di non saper raccontare una bella storia d’amore, fatto che, in principio, lo allontanerebbe totalmente dalla love story che si trova in qualunque film classico. Cfr. Grazzini 1994. 3 Raffaele Pinto in una conferenza svoltasi il 17 marzo del 2010 al centro culturale Caixaforum di Barcellona (di cui una parte in Pinto 2005) analizzò ermeneuticamente tutti gli spazi elevati che percorre Anita Ekberg in La dolce vita, dal suo arrivo in aeroporto fino alla posizione orizzontale aerea che assume nel ballo. Per lo studioso, il personaggio di Sylvia è quello di una dea sacra che contempla il mondo profano dall’alto.
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La strada di Fellini
a croce e, con un lungo sguardo verso il cielo, rivela la sua soddisfazione di trovarsi fisicamente nello spazio paradisiaco dell’illusione. C’è di più: in chiave più comica, nel film Amarcord (1973), un personaggio maschile, da poco uscito dall’ospedale psichiatrico, sale in cima ad un albero per proclamare ai quattro venti il suo desiderio: voglio una donna!, grida senza sosta. È evidente che il regista, cosciente che il desiderio si concentra in uno spazio superiore4, sceglie, in questo caso, una situazione burlesca. In un registro, al contrario, poetico, nell’ultimo film di Fellini, La voce della luna (1990), il suo protagonista, Roberto Benigni, che ha identificato la sua amata con la luna, segue l’astro della notte dai tetti e punti panoramici più elevati della città per poter sognare giorno e notte l’enigma femminile5. Il desiderio fra la (neo)realtà e la modernità Oltre ad osservare l’uso – o l’esagerazione – della canonizzata espressione classica, Federico Fellini, già nel suo primo film diretto da solo, Lo sceicco bianco (1952), prova una nuova formula di messa in scena per esprimere il desiderio. La protagonista Wanda Giardino (Brunella Bovo), da poco sposata con un noioso commerciante, spasima per un attore di fotoromanzo che interpreta il personaggio di un esotico sceicco, l’avventuriero Fernando Rivoli (Alberto Sordi). Wanda, in pieno viaggio di nozze, non può fare a meno di scappare dalla stanza nuziale per avvicinarsi al mito maschile che occupa i suoi pensieri. Trascinata dalla sua passione, si ritrova nel set dove si realizzano le fotografie per il romanzo a immagini, e, persa fra la boscaglia vicino ad una spiaggia, inizia a singhiozzare perché non sa come uscire dalla foresta. Improvvisamente, compare la figura di Alberto Sordi – vestito di bianco, con fascia ampia e turbante – che, da una altalena fissata ad un alto ramo d’albero, appare come una immagine aerea davanti alla protagonista. Il desiderio – la forma del desiderio – irrompe nel paesaggio nel piano in cui si trova Wanda. Non si tratta di un contropiano come succede in La strada e nemmeno di una sovrimpressione che illustra l’immaginazione 4 In La città delle donne (1980), Mastroianni si eleverà alla fine del film in un pallone che ha dovuto raggiungere per scoprire il volto femminile del suo desiderio. 5 Si noti che Fellini non distingue fra il desiderio maschile e quello femminile: i personaggi maschi citati di Amarcord o di La voce della luna – fra altri esempi che si troveranno nelle pagine seguenti – partiranno dalla canonizzata espressione classica di cui erano protagoniste le figure femminili.
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Nuovi spazi per sognare 61
o il sogno della ragazza: Fellini osa fotografare il desiderio e il soggetto desiderante nello stesso spazio. Come nel cinema classico, lei guarda verso l’alto, ma lo spettatore può osservare la forma concreta di ciò che lei vagheggia: in maniera semplice (e con quel soffio di magia che caratterizza le migliori scene di Fellini) penetriamo nel mondo mentale dei personaggi. Il regista teatralizza, con l’ingresso di una frase musicale esageratamente lirica, questo istante nel quale lo sceicco entra nel quadro cinematografico. Il fatto che l’attore discenda spavaldo da una altalena, mascherato da grande avventuriero, dà all’immagine un tono caricaturesco, distorto, quasi parodico: la genialità di Fellini consiste, per l’appunto, nel rendere manifesto che sebbene si tratti dell’irruzione Reale del desiderio della ragazza, questo si dà in maniera deformata come succede normalmente con le immagini sognate. Sottolineiamo che l’eccezionalità del piano si trova nel far convivere desiderio e soggetto desiderante in una unica inquadratura. Un formula simile la possiamo trovare nel regista di cinema fantastico Terence Fisher: se, secondo José Maria Latorre6, il creatore britannico rivoluzionò il genere fantastico per aver captato il mostro e la vittima in un solo spazio (quando il canone classico aveva stabilito che il terrore stava in un’altra inquadratura o nel fuori campo), possiamo anche dire che Federico Fellini innova l’espressione del desiderio nell’istante in cui per un momento non segnala nessuna scissione fra soggetto e oggetto. Ma insistiamo: per un momento. Ed è che Fellini inserisce, subito dopo, un piano/contropiano (la ragazza che guarda; poi, lo sceicco che la saluta da un’altra inquadratura); scinde, così, il reale (lei) e l’Immaginario del desiderio (lui), come se non potesse protrarre la tensione che produce la visione di un’immagine così complessa e insolita. Cinque anni dopo, Federico Fellini riprenderà la decisione di far convivere il soggetto desiderante con il desiderio in una bellissima scena che si trova ne Le notti di Cabiria (1957): la protagonista, interpretata da Giulietta Masina, si trova di fronte ad uno spettacolo di varietà quando un ipnotizzatore, maestro di cerimonie di un numero di illusionismo, la invita a salire sul palcoscenico. Il prestidigitatore la addormenta mentre narra la storia di un uomo bello, elegante ed educato che vorrebbe sposarsi con lei; Cabiria passeggia per il palco a braccetto con un uomo incorporeo, raccoglie fiori per lui e lo guarda con occhi da innamorata. Sebbene il volto del desiderio non si veda – non lo vedevamo nemmeno 6 Latorre 1987. Caso mai la relazione fra cinema del terrore e filmografia di Fellini non risultasse subito pertinente, si noti come Latorre dedichi ad essa un capitolo nello stesso libro considerando molti dei film di Fellini come fantastici.
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La strada di Fellini
nel cinema classico – occupa uno spazio visibile nella stessa inquadratura in cui si trova la protagonista: lei comunica col suo desiderio e vediamo esattamente quello che farebbe con l’uomo sognato. Senza scissione, senza piano/contropiano, Fellini inscena l’impossibilità di accomunare il reale con l’immaginario. L’incompatibilità di questi due universi è ancora più marcata nell’istante in cui, d’improvviso, lei si sveglia dall’ipnosi: Fellini con un travelling brusco verso la platea del teatro, ci mostra il pubblico che sghignazza, mostrando, così, lo scontro col reale che lei vive. L’elemento clamoroso dell’inserzione di questo violento avanzare della cinepresa è la chiarezza con la quale il regista esplicita che i desideri non formano parte della realtà. Ritroviamo lo stesso pensiero in un bellissimo gesto realizzato da Marcello Mastroianni nella famosa scena de La dolce vita in cui è protagonista insieme ad Anita Ekberg nella Fontana di Trevi: il personaggio, dopo aver ammirato da lontano la bellezza della donna che si fa il bagno, entra nella fonte con l’intenzione di avvicinarsi il più possibile al corpo della ragazza, ma nel momento in cui le sue mani stanno per accarezzarlo, le ritira con tanta prudenza quanto timore: con grande sottigliezza, Fellini insiste sull’idea della inavvicinabilità del desiderio; né abbracciarlo, né afferrarlo. Subito dopo, l’acqua della Fontana cessa di zampillare e si spegne la migliore scenografia che mai abbia fatto da cornice all’idea del desiderio che non si può raggiungere. La crisi della rappresentazione del desiderio A partire da questa scena Fellini inizia a prendere le distanze dal discorso classico, smette di credere nei miti (così ben costruiti dai creatori della fabbrica dei sogni) e, attraverso il personaggio di Marcello, inizia una dura ricerca espressiva in sintonia con i registi del nuovo cinema europeo. Il protagonista inizia a deambulare sul filo del rasoio dell’esistenza: il passare del tempo sul suo viso viene ritratto ora in modo angoscioso; la temporalità viene inserita nel testo attraverso una narrativa erratica, e la rappresentazione del vuoto, così apprezzata dagli artefici della modernità, filtra attraverso le inquadrature della seconda parte de La dolce vita. C’è una scena, dopo la sequenza della Fontana di Trevi, che illustra questo diverso modo di catturare i sentimenti umani. Marcello Rubini (Marcello Mastroianni), a una festa, è stato portato da Maddalena (Anouk Aimée) in una stanza chiamata la stanza dei discorsi seri. Lei gli chiede di restare un attimo da solo. Marcello, giusto al centro dell’inquadratura, si siede e aspetta. Dall’alto – come se Fellini volesse riprendere ancora il filo classico della tradizione – sente scendere la voce
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di Maddalena che, sensuale, pronuncia parole d’amore da uno spazio superiore. Attraverso una conduttura che mette in comunicazione le due stanze, il protagonista, di nuovo senza poter toccare l’amata, le confessa a sua volta la sua passione, ma l’isolamento del personaggio in mezzo alla sala, con lo sguardo perso verso l’alto, campeggia su vocaboli che diventano poco a poco incoerenti, o assurdi. Parallelamente, Maddalena smette di parlare con Marcello e inizia a baciare un altro uomo che le si è appena avvicinato. L’arbitrarietà dei sentimenti si mette così in scena in una raccapricciante sequenza – più antonioniana che felliniana – dove l’incomunicabilità, la distanza e la solitudine regnano fra i due amanti. Il campo semantico di questa sequenza non ha nessun rapporto con la variegata costellazione di immagini che il classicismo aveva fornito. Ci troviamo, poi, al polo opposto della rappresentazione di cui era protagonista Lillian Gish in Nascita di una nazione: nel classicismo, i personaggi festeggiavano l’epifania del desiderio, perché si trattava di un’azione senza tempo, proiettata verso una illusoria eternità; nella modernità, invece, la presenza del Tempo rende impossibile la fiducia nelle emozioni, istantanee condannate a scomparire7. Un nuovo spazio per il desiderio Alla fine de La dolce vita, un enorme animale morto che le onde hanno portato fino alla spiaggia dove si trova il protagonista, ha gli occhi aperti con lo sguardo fisso rivolto verso il cielo. Marcello sottolinea questo particolare affermando: “e questo insiste a guardare”. Effettivamente, solo una primitiva e mitica forma corporea che giace morta8 è capace di continuare a guardare verso l’alto, verso lo spazio del desiderio; è facile 7 Vogliamo ricordare il personaggio che interpreta Claudia Cardinale in 8½ (1963), una presenza che il protagonista (Marcello Mastroianni), un regista cinematografico in piena crisi creativa, adora, ma che invece vede sempre nell’atto di scomparire. Nello stesso modo, in La città delle donne (1980) il personaggio maschile (di nuovo Mastroianni) riesce a raggiungere una donna di plastica che si trova in alto, appesa a un pallone. Questa rappresenta il suo desiderio, ma, una volta raggiunta, una voyeur, con una mitragliatrice, spara per far cadere il protagonista. È anche assolutamente indispensabile ricordare il protagonista di Casanova (1976), un uomo che usa in modo meccanico il sesso e, quanto più esercita il suo corpo, meno conosce il sogno del desiderio. È evidente che l’oggetto del desiderio di questi protagonisti è una presenza che svanisce, o che si definisce alla fine come inesistente. 8 Pedraza e Gandía (Pedraza-Gandía 1993, p. 110) spiegano che Fellini voleva far finire il film esattamente con quest’occhio della creatura marina aperto verso l’alto, ma che alla fine il regista decise di addolcire il finale con una nuova scena.
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La strada di Fellini
confrontarla con le sepolte espressioni classiche del cinematografo. Subito dopo, una giovane, che Marcello aveva conosciuto nella prima parte del film, lo riconosce da lontano e lo chiama, ma lui, quando la scorge, non la riconosce. Ancora da lontano, lei cerca di fargli capire a gesti dove si erano presentati, ma lui non è disponibile ad un nuovo appuntamento col desiderio: il protagonista si allontana dalla figura femminile, svelando che non gli importa di non poter più comunicare. Il film termina, significativamente, con il viso della giovane che guarda in macchina. Cosa succede quando non si crede più nel desiderio, nel mondo ideale, nel mondo sublime della fantasia come succede al protagonista de La dolce vita? Dopo la scena della Fontana di Trevi con Anita Ekberg e la sequenza de la stanza dei discorsi seri con Anouk Aimée, sembra che Federico Fellini abbia bisogno di aprire un cammino di speranza sul viso di una giovane che, come la creatura marina morta sulla spiaggia, insiste a guardare. Si direbbe che Fellini, con l’inserimento di questi occhi femminili, stia cercando un nuovo territorio per il desiderio, come succede nel già citato finale de Le notti di Cabiria9. Pascal Bonitzer (Bonitzer 1977, p. 42) scrisse che lo sguardo in camera poteva significare sullo schermo l’espressione del desiderio. Marc Vernet (Vernet 1988, pp. 17-19) sostiene che quando i personaggi guardano in macchina, in un film narrativo, si costruisce un locus chimerico: afferma che lo spazio che si crea è la forma iconica e muta di un soliloquio in cui il protagonista non si rivolge a nessuno se non a sé stesso. Così, l’espressione del desiderio femminile crea un accapo, una particella invisibile – ma visibile per il protagonista della narrazione – che si costruisce oltre gli occhi dello spettatore. Capiamo, poi, che gli sguardi in camera10 che realizzano le protagoniste nei finali 9 Anche nel successivo Giulietta degli spiriti (1965), la protagonista chiude il film con uno “sguardo in camera”. 10 Nell’anno 1983, il regista di Rimini aggiungerà un ultimo appunto che chiuderà il discorso sullo sguardo in camera: nel film E la nave va... , quando la barca che trasporta i due protagonisti inizia ad affondare, uno dei personaggi più romantici della storia decide di naufragare con la nave e si chiude nella sua cabina per guardare le immagini in movimento di una amata cantante d’opera. L’acqua circonda il personaggio che, con lo sguardo alzato verso lo schermo, cerca di tenere a galla il suo desiderio; ma, come spettatori, possiamo capire che Fellini ci dà la sua immagine definitiva del naufragio del desiderio. Tuttavia deve resuscitarlo: subito dopo, la camera si allontana dal luogo e in piano sequenza arriva fino allo spazio di un set, senza dubbio, quello del film stesso. La camera riprende fuochi, scenari e tecnici finché arriviamo davanti all’occhio di un’altra cinepresa. Il regista si avvicina alla lente vitrea fino a che la camera guarda la camera. Il regista manifesta, alla fine, che il desiderio di filmare corrisponde alla necessità di re-inventare il locus chimerico. Anche per Fellini lo spettacolo deve continuare. È evidente che ci troviamo nel campo semantico che il regista inaugurò in 8½ (1963), il grande film della maturità dell’era moderna, in cui si
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di Le notti di Cabiria e La dolce vita rappresentano una prima ricerca per cercare di trovare un nuovo spazio per il desiderio11. Filmare i sogni nella realtà Il percorso creativo di Fellini è appassionante: quando arriva al limite della negazione dell’espressione classica, inserisce, come abbiamo visto, un inaspettato elemento di messa in scena per farla rivivere. È straordinario che sebbene lo sguardo in camera fosse, in linea di principio, bandito dal classicismo, Fellini gli sappia dare un senso narrativo: con l’obiettivo di continuare a raccontare storie, il regista utilizza strategie della modernità per ristabilire la tradizione. Perché, in definitiva, si accorge che senza desiderio non si può fare un film. Non è casuale che in 8½ (1963), il lungometraggio successivo a La dolce vita, il regista si proponga di interrogare apertamente il suo lavoro di creatore. E non c’è nemmeno da stupirsi che Fellini esponga in maniera disinibita la difficoltà che rappresenta per il suo protagonista, Guido Anselmi (Marcello Mastroianni) – appunto un regista in crisi –, costruire un immaginario che sia luogo prioritario del desiderio. Nella prima sequenza del film, Guido cerca di abbassare il finestrino della macchina, dopo essersi sentito a lungo angosciato in un ingorgo stradale; alla fine, una volta uscito all’esterno, il suo corpo si alza verso il cielo ed inizia un placido viaggio aereo fino a che sorvola una lunga spiaggia. Lì, un amico gli chiede di scendere e, di fronte al silenzio del protagonista, tira violentemente una corda fino a farlo cadere sulla sabbia. Guido grida spaventato e, con un taglio, passiamo ad un’altra scena nella quale lo vediamo risvegliarsi da un incubo. Come succedeva nella sequenza dell’ipnosi in Le notti di Cabiria, Fellini marca, con un taglio improvviso di montaggio, la differenza netta fra il sogno e la realtà. Intuiamo che il regista, in questo inizio, pone di nuovo il problema che gli rende impossibile far circolare il desiderio nei suoi film. Come rompere questa elabora una maniera di costruire la messa in scena che molto opportunamente i narratori hanno definito mise en abyme. 11 Se consideriamo La dolce vita come un film cardine nel quale il regista inizia a tracciare un nuovo cammino creativo, non ci sembra arbitrario che la successiva pellicola, un episodio di Boccaccio 70 (1962), intitolato Le tentazioni del dottor Antonio, inizi con un piano del protagonista che guarda direttamente in camera. Non è solo la rima con lo stesso gesto della giovane de La dolce vita. Narrativamente, questo episodio sembra anche interrogarsi sul tema del desiderio, giacché l’argomento gira intorno a un uomo che censura il suo desiderio e quello degli altri.
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La strada di Fellini
barriera? La risposta la offre verso la metà del film, con una delle scene più memorabili della sua filmografia, quella del protagonista maschile che vive in un harem, fra varie e belle donne. Crediamo che sia fondamentale il modo in cui il regista ci sommerge dentro l’illusione di Guido: in uno spazio reale, il protagonista è seduto in un parco discutendo con sua moglie perché lei gli rimprovera il fatto che la sua amante si è seduta vicino a loro; Guido interrompe la discussione e si rifugia silenziosamente nei suoi pensieri. Poco a poco, inizia ad adagiarsi sulla sedia, alza gli occhi sopra gli occhiali da sole e inizia il suo viaggio immaginario, guardando verso l’alto. Un dolce travelling si avvicina al volto del protagonista che, col mento in su, sorride, sicuramente per ciò che ha già iniziato a proiettare. Grazie a un taglio, passiamo alle immagini che il personaggio ha in testa: sua moglie, nello stesso parco, si dirige verso l’amante e le due donne iniziano a parlare in maniera fraterna, mentre seguono coi passi il ritmo di una musica che le accompagna ludicamente. Questo taglio non ha nessun rapporto con il carattere brusco che apriva il primo sogno del film (né con la violenza che chiudeva la scena dell’ipnosi de Le notti di Cabiria): Fellini impara a suturare il mondo reale con quello illusorio e lo spettatore può transitare, così, da un universo all’altro con estrema facilità. Se ne Lo sceicco bianco il soggetto desiderante e il desiderio si incontrano nello stesso piano solo per un istante, ora la convivenza è serenamente prolungata12. Nel momento in cui Fellini riesce, finalmente, a costruire un ampio spazio per l’espressione del desiderio, può conferire continuità al passaggio dal fantasioso nella Realtà. Questa formula, che caratterizza la scrittura felliniana, brilla in modo convincente lungo tutto Amarcord (1973), un film nel quale il regista realizza appunto un peculiare ritorno al passato, ricreando una serie di personaggi della sua infanzia. La messa in scena, confidando nella devirtualizzazione della memoria, prende una forma poetica nella quale non è già il reale o il desiderio ciò che visualizziamo, ma il movimento omogeneizzante dei ricordi. Così, nessuno si sveglia da nessun sogno. Né il regista ha bisogno di irrompere nella fantasia per ricordarci che la realtà abbatte ogni sogno ad occhi aperti. In Amarcord prevale l’illusione. Per questa ragione, i personaggi si comportano come se fossero permanentemente nell’universo della fantasia del desiderio: in una delle più 12 Non è casuale che il tono di scherno che già si avvertiva in Lo sceicco bianco arrivi anche qui: le due donne seguono il ritmo della musica in modo quasi buffonesco. È chiaro che siamo nella modernità e Fellini, proprio perché ha bisogno di resuscitare l’espressione del desiderio nei suoi personaggi, usa l’umorismo per distanziarsi dalla sua messa in scena, dalla sua decisione di poter far sognare i suoi protagonisti.
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sublimi scene del film, i protagonisti adolescenti si sono dati appuntamento all’hotel La Vecchia Signora, locanda che ha accolto le passioni più sfrenate degli amanti adulti del racconto. Tuttavia, i ragazzi, si trovano, di notte, davanti alle porte chiuse dell’albergo; è inverno e l’hotel rimane chiuso fino a primavera. I giovani cercano di vedere, attraverso il buco della serratura, cosa c’è nel recinto. Nell’istante in cui scoprono che è vuoto (senza mobili, senza vita), i ragazzi iniziano a ballare con lo sguardo verso l’alto e cominciano un disinibito viaggio immaginario collettivo. Con la lirica colonna sonora di Nino Rota, lo spettatore può spostarsi per magia – cioè grazie a Fellini – dalla fredda notte scura allo spazio del desiderio dei protagonisti. Infine, il regista italiano visibilizza che cosa sognano i suoi personaggi; i desideri vincono la realtà, introducendosi con fermezza e gracilità nel racconto. In felice continuità con la tradizione, queste immagini amplificano lo spazio immaginativo che offriva Lillian Gish agli inizi del classicismo: Federico Fellini non solo riscatta la rappresentazione del desiderio sullo schermo; intuisce che è la materia con la quale si creano i sogni della celluloide.
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Federico Fellini e l’Antichità inventata di Pilar Pedraza
Non molto tempo fa abbiamo avuto occasione di vedere sul grande schermo Titus (1999), film di Julie Taymor con splendido progetto di produzione di Dante Ferretti, un peplum shakespeariano (Titus Andronicus) crepuscolare che ci ha ricordato le trasgressioni di produzione e messa in scena dei film italiani all’antica degli anni Sessanta. Non è all’altezza di Medea o Edipo Re di Pasolini né del Satyricon di Fellini, ma li presuppone come ultimo anello di una lunga e cangiante catena di ciò che in teatro venne denominato comunemente “toga plays” (Solomon 2002). Il peplum, chiamato così dalla critica a partire dal film Le fatiche di Ercole di Pietro Francisci con fotografia di Mario Bava (1958), è un genere cinematografico dei primordi, di origine italiana e americana, i cui capolavori germinali sono Cabiria di Giovanni Pastrone (1914), Judith of Betulia di Griffith (1914) e, prima, Gli ultimi giorni di Pompei di Luigi Maggi (1908) o Maciste, film prodotti fra il 1914 e 1929, al gusto di Mussolini e della intellighenzia nazionalista italiana. Il matrimonio del regime con il genere storico antico raggiunse tale prestigio che Scipione l’Africano (1937), di Carmine Gallone, fu utilizzato per l’inaugurazione di Cinecittà e, lo stesso anno, fu premiato al festival di Venezia con la Coppa Mussolini. Il peplum ebbe il suo momento classico di splendore negli anni Sessanta, con opere tanto disuguali e, allo stesso tempo, simili come Cleopatra di Joseph L. Mankiewicz (1963), o Il colosso di Rodi di Sergio Leone (1961), in un contesto di rivalità tecnologica e spettacolare con la televisione, senza rinunciare alle sue radici teatrali (Brunetta 1995). Questo fu fondamentalmente l’obiettivo dei grandi maestri italiani del nuovo cinema degli anni Sessanta, che portarono il vecchio e consunto peplum teatrale dallo spettacolare al mitico, dalla distrazione alla riflessione sulla condizione umana e dall’ordinario disegno produt-
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La strada di Fellini
tivo hollywoodiano all’esotismo estremo, da un lato, e dall’altro lato a una estetica che è allo stesso tempo antica e anti-classica. Quando Fellini evoca, in un brillante esercizio di falsa memoria, la sua fanciullezza nel film Roma (1972), dà alcune “notizie” che gli erano giunte prima che si trasferisse nella capitale dalla città di provincia della sua infanzia. Una di queste “notizie”, l’ultima, ha un carattere cinematografico-politico in relazione al fascismo e al peplum. La cinepresa si fa largo attraverso uno spazio stretto e affollato. È l’entrata di un cinema: presto intravediamo un manifesto con Greta Garbo. All’interno regna una musica inconfondibile da peplum. Si sta proiettando un film di cristiani nell’arena della cui trama cogliamo, con un paio di inquadrature, un melodramma di amore e gelosia. La sala è sudaticcia e fumosa, come tutti i luoghi di intrattenimento popolare di Fellini, un ambiente denso, carico di emozione, dove si ride ma si incubano anche misteriosi litigi e lo spettacolo si trova non solo sullo schermo ma anche in platea, come nel Teatrino della Baraonda dello stesso film. Un contropiano dal basso ci mostra il padre di famiglia con la bocca smisuratamente aperta e la madre piangendo di emozione per le peripezie dei martiri, mentre i due figli osservano il film con occhio malizioso. Sullo schermo, una malvagia femme fatale si sta facendo un bagno mentre decide che manderà a morte la sua rivale cristiana nell’arena. Il patrizio che ama la cristiana la salva ed esce dal circo con lei, trionfante. È cinema muto ma felliniano, non c’è messa in scena muta di carattere primitivo né si tratta della ricostruzione di una pellicola degli anni Venti ma dell’evocazione dell’istituzione “cinema” con tutte le sue componenti, inclusi gli spettatori e le loro miserie. Accompagnano il film documentari dell’Istituto Luce su giochi atletici e attività infantili di propaganda fascista. Il bianco e nero sfuma nel colore in una scena immaginaria della memoria dei bambini sulla moglie del farmacista vestita da Messalina con una tunica di voile rossa alla maniera del Satyricon, circondata da corteggiatori in toga bianca, che poi giace in una macchina con tutti gli uomini del paese, perché il peplum per i ragazzi è acrobazia e sesso (Pedraza, Gandía 1993; Menean 1997; Bondanella 1992). La Roma di Fellini è un mito e uno spettacolo impastato con elementi eterogenei e anacronistici: cinema da peplum, retorica imperiale fascista, archeologia, cultura popolare, turismo, sesso, neorealismo, modernità, chiesa. Roma è la lupa e la vestale, popolare antica e hippie, appassionata e indifferente; Roma è Giulio Cesare, Alberto Sordi, Anna Magnani, Gore Vidal. Roma è il Vaticano e Cinecittà. Questi ultimi, grandi fabbriche della fantasia dove si rappresentano le storie sacre, le passioni dei martiri e gli eroi nei quali non si crede. E così sono le gio-
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Federico Fellini e l’Antichità inventata
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cose “notizie di Roma” che possiede il giovane alter ego di Fellini prima di lasciare la stazione di provincia dove tante volte ha visto passare il treno con destinazione alla città, per entrare nel magico – e non meno grottesco – mondo della Roma di Fellini, che custodisce segreti sopra e sotto terra. L’autore ha il potere di fare in modo che quelle cose si aprano e si manifestino, perfino nel vecchio stile peplum che tanto gli piaceva durante l’infanzia. È capace di creare su un set di Cinecittà i lavori della metropolitana che a loro volta contengono una villa romana decorata con affreschi. Conosciamo l’origine di alcuni, come il coro delle prefiche di Tarquinia, riprodotto abilmente dall’équipe artistica seppure non senza un velo di estetica degli anni settanta. Tutto sottoterra, ben protetto, decine di figure quasi tutte a grandezza naturale, che ci guardano... e che iniziano a svanire appena sono sfiorate dall’aria che arriva dall’esterno che penetra dall’orifizio prodotto da una grande fresa dei costruttori della metropolitana. Spettacolare avventura girata da una squadra di giornalisti tedeschi che assistono desolati alla scomparsa dell’arte sotto l’alito dell’inquinamento e della tecnologia, sebbene l’ingegnere e Fellini sappiano che cose simili accadono spesso e la vita dell’urbe deve continuare. Il peculiare realismo di Fellini – amalgama di neorealismo e surrealismo, se ciò fosse possibile – si manifesta in un minuscolo “colosso” che mai smette di lasciarci ammirati per la sua abile messa in scena. Ne Le tentazioni del Dr. Antonio (1962), secondo episodio della raccolta Boccaccio ’70, dove Fellini si burla della censura cattolica che aveva attaccato La dolce vita (1960), una diabolica bambina/cupido fra le risate ci mostra aspetti di una Roma che non è turistica né archeologica, ma autentica e moderna. Una delle cose che ci mostra è una scena peplum nello stile delle coproduzioni di Cinecittà con Hollywood, ma molto serie Z. Qui ciò che importa è che vediamo non il film ma la ripresa, con gli occhi divertiti di Fellini sul piccolo set, con il decrepito regista su una sedia a rotelle spinta da un tipo sudaticcio in maglietta, e con un forzuto che scaglia al suo nemico una pietra finta, e poi afferra la robusta eroina mentre alcuni dell’équipe chiacchierano di schedine. 8½ (1963) condensa miracolosamente tutto il cinema di Fellini in una miniatura sferica prodigiosa. Prelude ai film della nuova Antichità (Satyricon, Roma) nella sequenza della visita di Marcello al cardinale nelle terme dell’hotel dove entrambi alloggiano. La gente scende dalle scale verso i bagni di fango e la sauna avvolti in asciugamani e accappatoi che danno loro un aspetto “all’antica” – cristiani verso le fiere – soprattutto alla dama misteriosa (Caterina Boratto) che abbiamo sentito dire per telefono a qualcuno che “gli perdona tutto”. In questo film germinale
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La strada di Fellini
sono latenti le radici non solo del Satyricon ma anche di gran parte della sua opera successiva, inclusa la Città delle donne. Una nuova visione dell’antico, che ha poco a che vedere con il peplum classico, si inaugura con Satyricon di Fellini e Edipo Re e Medea di Pasolini. Di Pasolini risalteremo le rovine antiromantiche dell’Aqua Claudia nella borgata, in Mamma Roma. Ma tutto questo è solo il gorgheggio del cantante per scaldarsi. Poi verrà l’opera maestra, rispettivamente di Fellini e Pasolini: Satyricon e Edipo Re che non sono stati superati né raggiunti da una certa ondata peplum americana ricca di effetti e povera di contenuto e di messa in scena, che si è imposta nel XXI secolo con film come Il gladiatore di Ridley Scott (2000), etc. La moderna costruzione dell’Antichità da parte del nuovo cinema inizia alla fine degli anni Sessanta in una Italia che è stata martellata dal peplum classico a base di uso e abuso dei noleggi di Cinecittà per abbattere i costi. Partendo da questa base supercodificata e ripetitiva, Fellini e Pasolini si lanciano a decostruire e ricostruire una antichità non eroica ma mitica, non di gesta ma di tragedie. Il Fellini-Satyricon (1969) inizia con un monologo del giovane Encolpio (Martin Porter), che si lamenta, in uno spazio scenico neutro che si va trasformando in scenario teatrale, del tradimento del suo amico Ascilto (Hiram Keller), che gli ha rubato l’efebo Gitone (Max Born). In primo piano è la parete vuota, coperta di graffiti e di graffi. La cinepresa si allontana fino a lasciare in campo una figura laterale in ombra che si distingue appena, mentre una voce che sembra in off ma che è quella di Encolpio, recita in modo esplicitamente teatrale. Questo sarà il film: una pagina in bianco, una parete, una tela, un piano quasi impenetrabile, e non sarà solo uno spazio pittorico che possiamo soltanto osservare, bensì sarà lui che ci osserverà interrogandoci, come gli affreschi trovati durante i lavori della metropolitana nel film Roma. Lo spazio contiguo a quello di Encolpio, in questa prima scena originaria e costitutiva, discontinuo ma legato dalle voci, non appartiene allo stesso ordine. Si tratta di alcuni cubicoli laterali, in un palco superiore, in cima ad una scala, una scenografia cavernosa e oscura che sembra una cloaca sebbene risulti essere una fonte termale. Lì ha luogo il monologo opposto: quello di Ascilto sulla sua seduzione di Gitone. Ascilto, l’altro volto di Encolpio, il suo doppio irraggiungibile, sempre un passo avanti, si presenta procedendo a quattro zampe come un animale, sudato, accompagnato da strani rumori. Ascilto è privo di sentimenti e valori, è bello e vile, il suo viso ostenta una espressione sprezzante che trascinerà per tutto il film, esprimendo la sua concezione rudemente cinica del mondo. Poi i due amici si incontrano e combattono una breve lotta che è come un abbrac-
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Federico Fellini e l’Antichità inventata
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cio amoroso, accompagnata da rumori che paiono di bombardamenti, segno di quell’altro mondo che avvolge il film. Perfino lo spazio nel quale Encolpio si muove col suo amato Gitone, recuperato fugacemente, è ambiguo. Lì ha luogo il sacrificio di un animale e una cerimonia di aruspicina, per trasformarsi poi in una ombrosa scenografia teatrale, percorsa lateralmente mostrando cubicoli con scene postribolari nelle quali abbondano donne mostruose. L’isola dove si accampano è una torre di Babele alla maniera di Brueghel, fornita di atrio con compluvium e impluvium dove si abbevera un cavallo bianco. Ascilto ruba nuovamente Gitone ad Encolpio, il quale, disperato, sente la tentazione di suicidarsi. L’isola inizia a sgretolarsi come nelle scene catastrofiche dei pepla classici. C’è un piccolo dettaglio fugace molto curioso, quello di un uomo che resta appeso a un muro, ispirato a L’incendio di Borgo di Raffaello, e una statua “morta”, caduta bocconi al suolo. Encolpio esce dallo scenario che è crollato, e a partire da qui comincia la vera storia, come se tutto ciò che precede ne fosse stato il prologo. Encolpio vagherà sperduto per il mondo affascinante del film di Fellini, attraverso scene primitive che tornano nella forma dell’estraneo, il vuoto e il nulla messi in evidenza dalla perdita dell’oggetto del desiderio, dalla deriva e dalla possibilità di colmare questo vuoto con i modelli che gli offrono le forze del caso e di un destino precario, e la costante minaccia di un potere crudele e dispotico. Tutto ciò conduce continuamente l’eroe ad una fuga in avanti, mostrando nel suo percorso un inconscio mitico sepolto le cui impronte possono venire alla luce ma solo in maniera frammentaria e ridotte a pure immagini precarie. Nell’introduzione alla sua edizione spagnola del Satiricón di Petronio Arbitro (Petronio 1978), Lisardo Rubio segnala che non c’è affatto consenso sul tema che l’autore si propone di sviluppare. Per il suo carattere frammentario, questo romanzo è come il corpo di una statua trovata a pezzi in differenti luoghi ed epoche, e assemblata in modo artificiale nel corso della storia. Le mancano i piedi e la testa: il principio e la fine. Il suo protagonista si chiama ora Encolpio ora Polieno, e l’azione si situa in tempi e luoghi indefiniti, con un unico leit motiv: il desiderio di tutti nei confronti di Gitone, trasognato corpo senz’anima che è di tutti e di nessuno. Zuffe proprie di un romanzo picaresco si alternano a canti epici e digressioni sulla retorica. È un testo così lacunoso che per un lettore moderno risulta espressionista, surrealista, a volte semplicemente noioso, smaltato di descrizioni meravigliose che ricordano vivamente immagini felliniane, valga il paradosso. Un corpo così ferito ha attratto su di sé abusi e malattie. È stato saccheggiato ed imbottito di interpolazioni fin dal Rinascimento, di modo che risulta molto adatto il nome del film
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La strada di Fellini
Il Satyricon di Fellini, perché è il “suo” Satyricon. Non si tratta di una traduzione, ma di una ricreazione, come Il Casanova, seducente come sfida per lo stesso Fellini sebbene le rispettive opere letterarie non lo attraessero. Ad ogni modo, anche se Fellini e il suo co-sceneggiatore Bernardino Zapponi hanno agito liberamente, di fatto hanno lavorato sul corpo deforme di questo testo, e risulta rivelatore osservare quali parti hanno scelto e quali scartato. Mancano nel film, ad esempio, le note storie di terrore – uomo lupo, orchesse ruba bambini – che si raccontano durante il banchetto di Trimalcione, forse perché avrebbero dato all’insieme un tono “romantico” o ”gotico” poco sintonizzato con la brutale antichità che interessava a Fellini. Manca anche il matrimonio burlesco di Gitone con la bambina. I personaggi di Eumolpo e il retorico Agamennone sono fusi nel film in uno solo (Salvo Randone), mentre l’episodio della Matrona di Efeso è trasportato da Fellini dalla sua narrazione da parte di Eumolpo nella nave di Lica, di Petronio, alla falsa sepoltura di Trimalcione, in modo molto pertinente come intrattenimento di una veglia funebre. A Fellini appartiene tutto l’episodio del ratto dell’ermafrodito, il colpo di stato e la morte del giovane imperatore, e la celebrazione del giorno del riso con la lotta di Encolpio e il falso Minotauro, temi apparentemente classici che colmano con stupefacente naturalezza le lacune del testo. La frammentazione del film è consapevole, moderna, artistica, risponde a una logica interna, mentre quella dell’originale obbedisce a cause fisiche, archeologiche, di falsificazione. E mentre non conosciamo le intenzioni di Petronio, sappiamo molto bene l’intenzione di Fellini: creare un universo autonomo, a noi estraneo, un universo esistenzialista delle cui cause non siamo a conoscenza. L’antichità di Fellini è falsa quanto quella del peplum americano e italiano, ma contrariamente alle convenzioni di questo, possiede una entità propria ed implica uno sforzo di creazione, a partire da repliche, di tale qualità che il suo risultato è una antichità ricreata, evocata, non di genere (Lanouette 1971). Il fatto che Fellini abbia situato in affreschi cadenti i suoi personaggi nei titoli di coda del film, indica questa volontà di mettere in movimento i fantasmi del passato e dar loro una vita che è al tempo stesso intensa e funebre. La antichità come un dipinto impalpabile, inaccessibile al nostro mondo, appare anche in Roma sotto una più esplicita forma negli affreschi della villa romana sepolta e scoperta sotto i lavori della metropolitana. L’aria esterna li distrugge, il contatto con un tempo presente che non è il loro li cancella immediatamente. “Il film dovrebbe far contemplare un universo dissepolto, proporre immagini quasi cancellate dalla terra, un film rotto nella sua struttura diseguale”, ha scritto lo stesso Fellini, e
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Federico Fellini e l’Antichità inventata
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fa notare che i colori dei vestiti dei personaggi sono un po’ spenti, come se sopra loro cadesse continuamente una pioggia di cenere. L’aspetto artistico del film dipende dallo studio degli affreschi pompeiani e romani del Museo delle Terme e del Vaticano, dei mosaici bizantini e dei ritratti di El Fayum, ma non alla maniera di un pastiche archeologico ma cogliendo elementi, orme, indizi per una libera visione onirica. L’archeologia può restituire colori e forme, ma non gesti, toni di voce, musica o profumi. Il film di Fellini è un’esplorazione di un tempo immaginario e un luogo utopico di cui non possediamo le chiavi. Nemmeno il protagonista ci è vicino, non arriveremo a conoscerlo perché appartiene ad un mondo che non è il nostro. Ascilto è superbamente ricreato dal giovane attore sulla base di una perenne espressione cinica e brutale, accompagnata da risa stentoree anche nelle situazioni più compromettenti. Gitone è un giovinetto bianco come l’alabastro, delicato, di dolcezza morbida quasi repulsiva, che non parla, però gesticola abbondantemente. Tutti lo fanno nel film, accentuando una tendenza di Fellini e che in questo caso serve per conferire espressione propria a un mondo radicalmente estraneo a noi e al peplum classico, che tende alla ieraticità. I gesti del Satyricon di Fellini non corrispondono mai ai nostri codici, sebbene alcuni di essi hanno origini moderne – segnali del traffico aereo, linguaggio dei sordomuti –, come la bambina di 8½ che recita ASANISI-MASA. Abbondano i personaggi in primo piano che fissano con insistenza l’obiettivo, immobili, indifferenti o interrogativi, soprattutto al banchetto di Trimalcione. Non ci fideremmo di loro perché appartengono a un altro mondo. Non c’è nemmeno una morale – nessuna morale, nemmeno “all’antica” – nella antichità fantasmagorica di Fellini. Uno dei sintomi di questa carenza è la incomprensibile brutalità di scene come lo spettacolo di Vernacchio o la decapitazione di Lica. La sinistra perplessità di fronte alla morte che può arrivare in qualsiasi momento, senza causa e senza che si possa ubicare nel tempo, è espressa in modo magistrale nell’assassinio di Ascilto per mano del barcaiolo, cui assistiamo mentre Encolpio si sottomette ai riti di Enotea (Donyale Luna) per recuperare la virilità. Quando questi finiscono, Ascilto sta aspettando – ma non era morto? – Encolpio all’uscita della grotta. Poi, Encolpio lo perde senza sapere come e infine lo ritrova morto. La frammentazione della morte in tempi diversi per lo spettatore e per il protagonista produce un effetto di disorientamento in entrambi, ma allo stesso tempo risulta coerente con il carattere allucinatorio e intimo dell’iniziazione di Encolpio da parte di Enotea. Tuttavia, l’idea del banchetto cannibale degli eredi di Trimalcione appartiene, nonostante la sua brutalità, a un ordine di scam-
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La strada di Fellini
bi e condizioni testamentarie proprie di una civiltà a noi comune: quella dell’interesse. È fedelmente estratta dal testo di Petronio. Insieme a queste morti atroci, ce ne sono di poetiche, seppure non melodrammatiche né tenere, come quella dell’ermafrodito, annunciata o accompagnata da ululati di cani o lupi e quella dei patrizi, narrata con la dignità di un atto volontario e responsabile, sebbene si vede immediatamente commentata da una sequenza nella quale il piacere sessuale e lo scherno pongono un punto interrogativo. Quando i due amici entrano nella casa abitata dai suicidi, la prima cosa che fanno è prendersi gioco degli antenati. Il banchetto di Trimalcione è il piatto forte del romanzo e del film. È ambientato in uno spazio chiuso, dipinto di porpora alla maniera di Pompei, oscuro, untuoso. Il sudore, l’abbondanza carnevalesca di carni, lo scheletro d’argento che ammonisce sulla fugacità della vita, i delicati omeristi che cantano dei versi con voci cristalline prima della battaglia del gladiatore con un arrosto, le dame isteriche, creano un’atmosfera terribile di pittura che ha preso vita e divora oltre misura per riempire il suo vuoto. Un grande ritratto a mosaico di Trimalcione domina la sala. È in processo di realizzazione, perché le cose di Trimalcione sono in via di costruzione: la sua tomba, la sua effigie; lui si è fatto da solo. Non ha nulla dietro, la sua origine è la schiavitù. I bambini odiosi di cui si circonda, figli o amanti, sono bellissime figure di questo affresco soffocante del banchetto, come le donne di pesante bellezza bizantina o che ricordano i ritratti funebri di El Fayum: bellezze scure, lugubri, che guardano in macchina e la cui immobilità contrasta con la lussuriosa danza di Fortunata vestita da cortigiana greca. Una vecchia si asciuga le mani con la chioma di uno schiavo come fa Trimalcione nel testo di Petronio. I pezzi di carne che si arrostiscono sullo spiedo del forno nell’ultima scena della sequenza sembrano i resti forse degli stessi invitati in un inferno nel quale le risa degli schiavi fanno eco al terrore di Eumolpo, che ha osato mettere in evidenza la fatuità del liberto, il suo sfacciato plagio del poeta Lucrezio. Il liberto Trimalcione di Fellini è lungi dall’essere quello di Petronio. Fellini non lo vede come un semplice nuovo ricco ridicolo e reazionario, ma come un uomo che è riuscito a produrre ricchezza da solo, si è liberato e si è convertito in padrone che dà da mangiare a molta gente, fra familiari, clienti e schiavi. C’è in lui una sorta di umanità e un tratto benevolo da parte del regista. Le arti presiedono l’incontro di Encolpio con il retorico Eumolpo nello spazio del museo. Questo è contemporaneo, concettuale e allo stesso tempo archeologico. Le pitture ceramiche dei bicchieri sono in-
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Federico Fellini e l’Antichità inventata
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grandite a misura murale, c’è una testa di bronzo bendata, frammenti di affreschi che sembrano recuperati da scavi, oggetti di vetro ingranditi. Eumolpo parla al giovane del lamentevole stato in cui si trova la bellezza antica, in un discorso ripreso da Petronio, ma applicabile al mondo moderno. Parlando, parlando, giungono in un luogo dove gli invitati stanno facendo il bagno. Il percorso è brutale: bufali, fumo, vento, musica, fondali verdi e rossi, luogo sinistro atopico. Campane e trombe di cui ignoriamo l’origine fanno scattare i bagnanti come una molla perché saltino in acqua come i bambini di 8½ e nel letto-cinema di La città delle donne. Qui arriva Trimalcione nella sua lettiga. In un posto desolato e crepuscolare, scenario svuotato di qualsiasi dettaglio aneddotico, Eumolpo ed Encolpio giacciono nella polvere. Il poeta fa testamento ad alta voce: lascia al giovane il sole, le stagioni, la poesia. Il corpo di Encolpio, disposto in posa manierista e illuminato con quel “sole irreale, sbiadito, sognante” di cui parla lo stesso Fellini come auspicabile per questo film. Quando Encolpio si sveglia, Eumolpo non c’è. Alcuni banditi portano lui stesso e Gitone come schiavi sull’imbarcazione di Lica e Trifena, che stanno raccogliendo oggetti e persone belle dovunque vadano per portarle a Cesare sull’isola nella quale risiede. Un altro esempio di precarietà della fortuna è l’episodio dell’omicidio di Cesare. Le conseguenze del colpo di stato vengono mostrate con rapidi piani della sfilata della vittoria con grande allestimento di trombe, dal basso, stendardi, uomini crocifissi, elefanti, effigi rinascimentali, di gran ritmo e poca retorica militare. Una delle conseguenze di questo trionfo militare è il suicidio nella loro villa di campagna di un patrizio dell’altro partito e della sua sposa, dopo aver messo al sicuro i bambini e aver liberato gli schiavi. Nel Satyricon la realtà è così incerta che essa non esiste se non in forma di rappresentazione; ma, inoltre, la rappresentazione stessa appare a volte minacciata dalla fessura del reale perverso e psicotico, un potere crudele e diffuso che si manifesta per mezzo della castrazione. C’è una scena dal forte carattere teatrale, che incorpora o rappresenta la castrazione per sé stessa e l’umor nero come due facce della stessa medaglia: la farsa di Vernacchio; e un’altra come castigo o risultato dello scambio dei ruoli sessuali: il matrimonio di Lica con Encolpio e la decapitazione di Lica. Il pubblico del teatrino di Vernacchio è strano e degenerato. Il boia non rappresenta: amputa realmente la mano, della quale la vittima contempla il moncherino preso da un attacco di risa e isteria. Miracolo vano: il cesare la cura legando la mano al moncherino con delle bende. Encolpio sale sullo scenario e negozia la restituzione di Gitone con Vernacchio. Il pubblico dei patrizi è chi detiene il potere e l’ultima parola
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La strada di Fellini
in una rappresentazione che si riassorbe. Applaudono qualunque cosa sia abbastanza forte oppure, come una graziosa concessione, permettono che Encolpio recuperi provvisoriamente Gitone. In quanto al matrimonio di Lica ed Encolpio celebrato da Trifena, Lica è coperto da un velo color zafferano come una sposa romana, e recita la formula: “Ubi tu Gaius ego Gaia”. Il castigo di questa trasgressione non si fa attendere e ha luogo nella coperta della nave, dove precedentemente è stata trovata una balena putrefatta come segno premonitore. Lica viene decapitato con un colpo, con spada castratrice mossa da un potere nuovo ma tanto arbitrario quanto l’anteriore. Un paio di riprese dopo esser stata decapitata dal tronco, la testa affonda nell’acqua con lentezza sufficiente a permettere che componga un effimero quadro meduseo. Un’unica rappresentazione è legata alla morte con tratti festivi e gioiosi, non minacciosi, nella falsa sepoltura di Trimalcione. Si tratta di un rafforzamento della vita come teatro che esorcizza la morte, una specie di carpe diem indiretto attraverso il memento mori, più che di una manifestazione di cattivo gusto di un nuovo ricco. In ogni caso è un pretesto per introdurre il delizioso racconto della Matrona di Efeso, uno degli scarsi momenti comici del film. La morale della favola suscita un coro di risate fra gli invitati, come fra i passeggeri della nave nel racconto di Petronio. I movimenti del soldatino sono rappresentati in senso letterale, e si tratta di una scena di teatro più che di un racconto e ha qualcosa del cinema comico muto; non solo appaiono esagerati ma creano una gag, alterando lo spazio verosimile col suo ascolto impossibile dei gemiti della matrona sepolta viva. Questo effetto di rappresentazione-dipinto si accentua quando il soldato vuole uccidersi per aver trascurato il suo dovere: la vedova, divenuta sua amante, lo trattiene con un gesto ispirato al Giuramento degli Orazi di David. Al termine dell’episodio, ci sorprende l’unità di spazio del soldato e la matrona, da un lato, e del banchetto funebre di Trimalcione come cornice. Il narratore, già nel suo spazio, ripete la frase della protagonista: “meglio impiccare un marito morto che perdere un amante vivo”, come se invece di averlo raccontato lui stesso, avesse assistito a una rappresentazione e la commentasse. Altre volte il vuoto e la morte, come minacce simili alla castrazione, sono quelli che provocano un carpe diem disperato, la fuga in avanti e il vagabondaggio senza senso di Encolpio. Così, dopo il suicidio della coppia patrizia, Ascilto ed Encolpio irrompono nello scenario lasciato vuoto da quelle morti con vana agitazione, mossi solo dal desiderio di sentirsi vivi. Hanno perso l’oggetto del desiderio, il giovinetto Gitone, confiscato dagli sbirri del nuovo imperatore. Da quel momento diventa-
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Federico Fellini e l’Antichità inventata
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no più promiscui e giaceranno con donne, iniziando dalla giovane schiava nera della casa, con la quale avranno un menage à trois. Da allora ha luogo uno slittamento verso un mondo sempre più desolato. In una landa deserta percorsa da palle di spino, incontrano dei nomadi che trasportano in un carretto una ninfomane che sarà offerta ad Ascilto. Per la forma e il modo in cui è posto in scena, questo veicolo sinistro è una ridondanza del sesso della donna, nel quale Ascilto letteralmente penetra. Ne esce vincitore, non come Encolpio più tardi, impotente nel possedere Arianna dopo essere stato sconfitto vergognosamente dal falso Minotauro. Gli ermafroditi di Fellini sono creature fragili, inconsistenti e malate. Quello di Giulietta è una vecchia che deve essere assistita da infermieri e che si addormenta in piena sessione con le adepte: “è a colloquio con i suoi dei”, dice la sua badante indù. Poi compare in una vasca da bagno, nella cui acqua l’indiana lascia cadere alcune gocce di una pozione: gli ermafroditi felliniani sono igrofili. Quello del Satyricon è un semidio albino, debole, muto, giovinetto, quasi un vegetale. Ha bisogno di cure costanti, umidità e ombra. Intorno alla sua culla si trovano i due anziani che si prendono cura di lui, come corvi o avvoltoi, in una immagine di forza straordinaria, quasi espressionista. I due amici e un compagno di avventura rapiscono l’ermafrodito e uccidono crudelmente i due anziani. È la prima volta che commettono un crimine. Poi i tre scappano in una landa desolata e polverosa, procedendo a sbalzi con un carretto nel quale portano il povero semidio, che si secca fino a morire. Encolpio, da solo, senza che venga indicato cosa ne è stato di Ascilto, scivola su un terrapieno e cade in una terra solare la cui gente celebra il giorno della risata facendo scherzi agli stranieri. Lo fanno entrare in un polveroso labirinto di cartapesta per affrontare il Minotauro. Questo è un ragazzone con maschera da toro. La battaglia fra i due ha un che di gioco, di scherzo. Encolpio cade ai suoi piedi senza aver ricevuto danno, supplicando la clemenza e dichiarando di non essere alla sua altezza. “Non sono un Teseo degno di te”. Il Minotauro si leva la maschera e abbraccia Encolpio. Subito sopraggiunge un altro evento, terribile: l’incontro sessuale con Arianna, alla presenza di una statua obesa della dea della fertilità tutta corpo senza testa come le statue milesie arcaiche. Deve possedere una Arianna che lo disdegna ferocemente appena si rende conto della sua debolezza. Encolpio viene burlato in pubblico in questa corrida sessuale che si svolge all’aria aperta e sotto gli occhi di un popolo burlone e spietato. A Cortona si sottomette a cure contro l’impotenza. Le fruste rituali delle donne sono una versione poetica dei colpi di scopa che la vecchia
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La strada di Fellini
Proseleno gli propina, nel testo di Petronio, nel tempio di Priapo. Nella grotta di Enotea c’è un uccello dalle lunghe zampe che è una trasposizione felliniana delle tre oche che appaiono nell’episodio del romanzo, una delle quali becca la coscia al giovane che la uccide. Fellini evita l’episodio in cui Enotea mette un fallo di cuoio nell’ano ad Encolpio in presenza di Proseleno. Come nel romanzo, nel film manca il finale, ma ciò che nel primo caso è un accidente, nel secondo è una opzione, una struttura che ha forma di catena aperta. L’iniziazione di Encolpio non è finita. Un off infinito si apre più in là della pietrificazione dei muri dipinti dei titoli di coda, come le narrazioni milesie o delle Mille e una notte. Il potente effetto che produce questo film nello spettatore è il risultato del lavoro di un talento che si trova in piena maturità e che è animato dall’entusiasmo creatore, sempre a rischio di eclissarsi e affondare nell’impotenza, come Encolpio, l’artista. Fellini dice del film: “L’importante è che nel fare questo film scopro dentro un piacere, un gioioso fervore che temevo di aver perso. Mi sembra di sentire che il mio desiderio di fare cinema non si è esaurito”. Fellini è sempre stato molto lucido rispetto alla sua opera (Keel, Strich 1976), e lo stesso è successo a Pasolini, i cui esperimenti inventivi sui grandi miti riassumono un sapere non solo cinematografico ma anche filologico, antropologico e poetico. Entrambi hanno costruito una ricca antichità nella quale tutto è nuovo: dalla struttura fino alla messa in scena o al progetto di produzione. Sarebbe auspicabile che i nuovi anelli che si uniranno a questa catena non si limitino al guscio, come è successo finora, con eccezioni.
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Il realismo radicale di Fellini-Satyricon di Xavier Pérez
Fra i grandi doni che la modernità filmica offrì al rinnovamento delle narrazioni cinematografiche, non può essere ignorata la distruzione della sceneggiatura vettoriale che sosteneva lo scheletro narrativo delle pellicole classiche. Le storie che il film moderno prodiga si diffondono all’insegna del piacere deambulatorio dell’episodico, per cui l’imperativo aristotelico dei tre (o cinque) atti si vede rimpiazzato da un cumulo indeterminato e vago di episodi più o meno auto-conclusivi. La tensione drammatica che tutela la costruzione dell’ortodossia filmica – più debitrice di Shakespeare che di Dickens, per quanto Griffith lo dissimulasse – si tramuta, nella modernità, in un’ampia poetica del romanzesco. Questa allusione è da intendersi a partire dalle origini classiche del genere, precedenti l’esplosione fecondatrice dell’opera di Chrétien de Troyes, sebbene perfettamente compatibili col modello che questi trasmise alla narrativa successiva. Quello che intendiamo per romanzo originario ci trasporta ai tempi convulsi della decadenza imperiale romana, dei quali sopravvivono due opere esemplari, L’asino d’oro o Le Metamorfosi di Apuleio (che molto obliquamente Robert Bresson seppe tener presente in Au hasard Balthazar, 1966) e il Satyricon di Petronio. Pascal Quignard sintetizza la sostanza propria di quei capolavori con un suggestivo sillogismo filologico: Prima che satura significasse romanzo, il tipo di piatto chiamato lanx satura voleva dire pot-pourri di primizie di tutti i prodotti della terra. Quando Petronio, sotto l’Impero, compose la prima grande satura, fece un pot-pourri di storie oscene... (Quignard 1994).
Fra i cineasti della modernità che maggiormente trasferirono sulla nuova celluloide l’anima dei primi romanzi europei, episodici, pieni di
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La strada di Fellini
divagazioni, veri pot-pourri il cui interesse poco dipende dal senso del finale, e molto più dalla variopinta apoteosi dell’istante, i registi italiani, forse per genetica sottomissione ai loro antenati, hanno il primato. Il cinema italiano del dopoguerra, quell’arte che Milan Kundera, in una intervista lontana, sul quotidiano “El País”, considerava “ciò che di più importante l’Europa ha dato alla cultura dopo la seconda guerra mondiale”, fu un cinema nato da una radicale attrazione per la gestualità stravagante e per il piacere del movimento ambulatorio dei suoi personaggi. Al riguardo, forse Federico Fellini esemplifica come nessun altro le possibilità di un cinema che, fedele alle origini della satura imperiale, converte il pot-pourri in un cammino di conoscenza, e fa del racconto audiovisuale – naturalmente saturato –, un ricettacolo di eventi episodici variopinti, legati senza bramosia aristotelica di gerarchia, nel quale le “primizie dei prodotti (umani) della terra” si coagulano filmicamente in un possente banchetto di vitalità, frammentario, aleatorio, incerto e dotato di una estrema capacità di meraviglia. L’immaginario traboccante dell’autore de La dolce vita presuppone un apporto visuale di prim’ordine alla plastica della seconda metà del XX secolo, ma non si può ignorare quell’atavico istinto narrativo che lo stimola e che lo stesso Fellini riconosceva senza ambiguità: Io descriverei me stesso come un autore di racconti. Detto semplicemente, mi piace inventare storie. Dagli uomini delle caverne a Charles Perrault e Hans Christian Andersen, passando per Petronio e i trovatori, mi piacerebbe appartenere a questa tradizione... (Chandler 1995).
La deliziosa esuberanza di episodi che l’immaginario felliniano combina, in replica contemporanea delle origini del genere, può essere percepita in tutto il suo significato se consideriamo il seguito della precedente citazione di Quignard, in cui lo scrittore francese, a proposito del Satyricon di Petronio, afferma che il principale interesse di quel “pot-pourri di storie oscene” non era altro che quello di “risvegliare la mentula (il pene) indebolita del narratore del racconto per trasformarla di nuovo in fascinus (il fallo)”. Encolpio, in effetti, il narratore di questo romanzo misterioso di cui si conservano solo un paio di capitoli dei sedici che probabilmente aveva, vive l’angoscia di un’impotenza che lo allontana dal suo amato Gitone (consegnato allo splendore fallico dell’amico e rivale Ascilto). E anche se, alla fine delle sue peregrinazioni, recupera il vigore grazie ai poteri intercessori di Mercurio, tutta la lettura invita ad anticipare, attraverso la voluttuosità della parola, quel ritorno alla virilità minacciata dall’angoscia che suscita l’adiacenza del sesso alla (piccola) morte.
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Il realismo radicale di Fellini-Satyricon
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È chiaro che, come sostiene Quignard con la precisione di un filologo, esistono romanzi erotici e film pornografici, ma non possono esistere, per definizione, romanzi pornografici o film erotici. Quignard capisce correttamente che il cinema cerca di farsi carico del sogno proibito, che la pittura romana lasciava intravedere nella sua staticità spettrale e vigilante, ma che non riuscì ad attraversare in tutta la sua letteralità. Per questo Gerard Imbert, che ha vincolato con grande chiaroveggenza la poetica di Quignard non solo al fondazionale Satyricon di Fellini, ma anche ai molteplici ritorni a quella “fonte di insoddisfazione costante” che è l’erotica della postmodernità, afferma: Allo sguardo obliquo dei romani risponde il faccia a faccia del cinema attuale, ma l’angoscia è la medesima: il sesso è ciò che mette in discussione nel profondo la nostra identità e ci mette di fronte alla morte, soprattutto quando vengono eliminate le proibizioni, il tabù che grava sul vedere (Imbert 2010).
Questo dibattito fra parola e fotogramma ci conduce alla questione centrale che Federico Fellini dovette affrontare nella sua trasposizione alla celluloide dei frammenti conservati del Satyricon: come evocare con le immagini, senza saturare di oscenità pornografica l’inquadratura, la tensione fra ciò che si può vedere (la vita nella sua diversità frammentaria) e ciò che, se si vedesse (il Fascinus in tutto il suo devastante potere), implicherebbe la morte per puro eccesso di significazione. La soluzione felliniana obbliga a relativizzare la bramosia intrinsecamente romanzesca che dichiarano le frasi dello stesso regista che abbiamo citato prima. Il romanzesco funziona, nel Satyricon, come un dispositivo di prevenzione per evitare l’eccesso della rappresentazione teatrale. La risposta moderna alla drammaturgia shakespeariana-dickensiana del cinema classico fu, senza dubbio, una costruzione della sceneggiatura tendente al romanzesco pre-ottocentesco, ma siccome il cinema è sempre stato rappresentazione, quel prurito narrativo fu assunto a partire da un recupero dello spettacolo teatrale in tutta la sua radicale immanenza. L’immagine teatrale del Satyricon è tanto potente quanto discontinua, e questa discontinuità epica, lontana dall’illusionismo aristotelico, è ciò che protegge lo spettatore dall’incontro eccessivo con un godimento osceno. Il Satyricon di Fellini è un prolungato e delicatissimo viaggio verso la vita estrema – la vita fondata sul compimento radicale dell’erotico – nel quale il cineasta riminese, molto impegnato nelle sfide relative alla rappresentazione della malinconia, concorda con i suoi collaboratori – lo
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La strada di Fellini
sceneggiatore Bernardino Zapponi, il musicista Nino Rota, il fotografo Giuseppe Rotunno, lo scenografo Danilo Donati e, ovviamente, tutti gli attori – un protocollo rituale che gli permetta di avvicinarsi al massimo del Fascinus, ma conservando la distanza sufficiente affinché lo sguardo non si (ci) accechi. La sfida del Satyricon filmico consiste nel visualizzare il sogno della vita, fissato sempre, come un dipinto di Pompei, nell’istante minimo possibile prima dell’incendio devastatore, quello che cede il passo ai trionfi incontestabili della morte. Questo gioco fra il pudico e l’impudico, fra il pene e il fallo, fra il lutto e la festa, presuppone un tremendo sforzo, sopportabile solo grazie al suo carattere episodico, romanzesco, saturato, nel quale ogni nucleo di fascino che minaccia di paralizzare il sogno trova la sua immediata catalisi. Ciò che sta dietro (a) tale poetica è, senza dubbio, una fedele adesione a quella premonizione dello scoppio barocco della vanitas che fu l’epicureismo romano. Il Satyricon è un’esaltazione della necessità dei piaceri nata da una lucidità di fronte alla morte che il narratore, Petronio, si ostina a mettere continuamente in bocca ai personaggi. Fellini conserva il momento più esplicito di questo appello al carpe diem, quando, nella famosa cena di Trimalcione (il banchetto che offre il ricco liberto che accoglie puntualmente i protagonisti, e che costituisce il frammento meglio conservato del testo originale), questi riassume la sua filosofia, dopo che lo schiavo ha portato lo scheletro d’argento che, secondo una vecchia tradizione egizia, avverte i commensali che il loro presente piacevole ha una data di scadenza: “Ahi, che miseri siamo, che nulla a pesarlo è l’ometto! Così saremo tutti quel giorno che l’Orco ci involi. Perciò viva la vita, finché si può star bene!” (Petronio 1978). Nel film la violenza visiva dello scheletro che attraversa la sala orgiastica produce un effetto di collettiva sottomissione alla scatologia premonitrice del momento. Ci sono molti altri effetti simili, durante il film, perché questo accumula prefigurazioni del potere di Thanatos al centro stesso del dispositivo erotico. José Maria Latorre lo seppe raccontare, con sintetica chiaroveggenza, in occasione dell’anteprima in Spagna: Nel Satyricon è impossibile morire senza prima montare uno spettacolo che prelude alla propria morte: il matrimonio di Lica, la villa dei suicidi, Eumolpo. Il film è, così, lo spettacolo messo su da alcuni agonizzanti prima che il sole cocente o le dissolvenze in nero di Rotunno li isolino nel vuoto dopo il dileguarsi del loro contorno fisico (Latorre 1976).
Fellini fu, è chiaro, un barocco del XX secolo, e il suo legame con queste due precedenti geografie che ci identificano con la vanitas – il
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Il realismo radicale di Fellini-Satyricon
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secolo di Petronio e il secolo di Caravaggio – è coerente con la libera versatilità del suo discorso plastico. È celebre la sua affermazione che poteva concepire l’adattamento filmico del Satyricon solo a partire dai postulati della fantascienza (Chandler 1995 – ci si riferisce a quel genere convertitosi nel desiderio nascosto più costante dei registi della modernità, come già affermò lo stesso Fellini in 8½). Il mondo latino dei tempi di Nerone è troppo stravagante nelle sue routines per poter essere visualizzato nella chiave pseudo-realista del peplum classico, ragion per cui la risorsa di immaginare un pianeta extraterrestre chiamato romanità si impone come una trovata fertile e aperta a tutte le possibilità. La citazione archeologica della pittura è, in questo senso, piena di soggettività. Come sostengono Pilar Pedraza e Juan López Gandía, “i toni oscuri, ocra di terra e polvere puramente immaginari nel Satyricon rinviano alla pittura antica, ma non la copiano” (Pedraza, Gandía 1993). Fellini affronta, in ogni caso, la ripresa di ogni spazio festivo e i suoi conseguenti protocolli erotici come un prudente documentarista, rinunciando, così presto, al naturalismo nella visione tanto quanto all’aristotelismo nella drammaturgia. Fedele ai suoi lunghi movimenti di camera descrittivi, realizza il negativo perfetto del progetto di ricostruzione storica che Rossellini concepì nelle sue serie televisive, cercando, sia pure partendo da una volontà di intervento barocca smisurata, simili effetti di obiettiva e distaccata descrizione dell’ambiente. Questa sete testimoniale, paradossalmente affermata in un’opera di estrema fantasia, ha come conseguenza l’adeguamento della forma romanzesca e narrativa a un tempo rituale, di descrizioni particolareggiate dello spazio e dei suoi abitanti, nel quale la cinepresa non precede mai il gesto, ma lo accompagna. Il ritardo del racconto (che Fellini praticava con maestria dai tempi de La dolce vita) apre una temporalità che accentua l’autonomia sostenuta di tutti i frammenti, un po’ alla maniera che Pasolini esercitò nella lunga sequenza del sacrificio rituale della sua Medea, proponendosi di installare lo spettatore in uno stadio contemplativo per nulla frettoloso, che il piacere per la divagazione caratteristico di Petronio aiuta a canalizzare con estrema coerenza. E, tuttavia, (e anche qui ci avviciniamo all’estetica pasoliniana, che poi l’autore di Porcile avrebbe portato alle estreme conseguenze nella sua Trilogia della vita1), questo ampio sguardo descrittivo riprende, come gesto tanto più sintomatico quanto più insistente, il volto che restituisce lo sguardo. Sebbene la lateralità (la diagonale del piano/contropiano)
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Prodotta, non dimentichiamolo, dallo stesso Alberto Grimaldi.
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La strada di Fellini
non sia esclusa dall’estetica felliniana – si vedano gli approcci e le insinuazioni sessuali nella menzionata sequenza del banchetto, o lo scontro (quasi) iniziale dei due protagonisti –, la cattura frontale degli occhi che guardano in avanti implica una delle più belle interruzioni della narrativa classica del peplum e un incerto invito a penetrare in modo orfico negli enigmi di quel pianeta, extraterrestre quanto si voglia, però mai pensato in chiave futurista ma secondo le premesse di una archeologia del sinistro. Tutto il Satyricon sembra annunciare la famosa sequenza del seguente Roma, nel quale alcuni scavi nella metropolitana della città aperta svelano degli affreschi latini rimasti nascosti per secoli che, subito dopo essere apparsi alla luce, svaniscono per l’effetto devastante dell’ossigeno che le scopre. “Sembra che ci stiano guardando” dirà qualcuno, poco prima della devastazione figurativa. Anche i personaggi del Satyricon guardano avanti come se venissero scoperti da quella cinepresa che, intanto che li anima, li va condannando di nuovo ad una temporalità mortale, prodiga di metamorfosi. Ed è che in questo processo di effimera vivificazione di uno sguardo frontale verso lo spettatore, ciò che lo schermo contiene “non è solo qualcosa che possiamo guardare come una rappresentazione pittorica, ma anche qualcosa che ci guarda dalla sua estraneità, interrogandoci” (Pedraza, Gandía). La superficie ermetica e lapidaria sulla quale si inscrive detto processo di interrogazione è un muro. Il muro che permette alla figura di distinguersi fino ad assorbirla di nuovo in una immobilizzazione perenne (le immagini dipinte degli eroi, il loro destino ieratico alla fine del film) costituisce il grande supporto visivo della pellicola, il correlato obiettivo dello schermo in cui il sogno di Petronio si rende visibile per due ore. Il muro, supporto e limite, costituisce l’impalcatura visuale degli spettatori, il luogo dove lo sguardo può posarsi senza lasciarsi trascinare dalla vertigine. Nella prima sequenza Encolpio (il narratore del racconto di Petronio), lancia il suo monologo di lamenti dal muro che lo preserva dall’abisso; in quella parete misteriosa si vedono proiettate iscrizioni, graffiti che fondono e confondono l’arte moderna con lo spettro archeologico, il sogno di Fellini con quello di Petronio. Il Satyricon latino è, con tutta la sua stranezza, un racconto narrato in prima persona da qualcuno che, con la distanza ironica congenita del passato, ricorda le sue fantastiche peripezie. In Fellini, il narratore soggettivo si disfa: Encolpio lancia le parole fino allo spettatore, ma non lo fa con volontà narrativa, ma teatralmente espressiva, esattamente come istanti dopo lo imita Ascilto, sorto come un animale, a quattro zampe, da non si sa quale cubicolo del sottosuolo urbano, per proclamare le sue ragioni ed esporre pubblicamente la sua strategia. Dal racconto petroniano dei fatti
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Il realismo radicale di Fellini-Satyricon
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che si susseguono nel tempo si passa alla felliniana spazialità teatrale che si collega alla strana rappresentazione alla quale partecipa Gitone, l’amato dai due protagonisti, venduto da Ascilto al commediante Vernacchio. E da quel primo violento, scatologico, rituale nel rituale (la mano di un attore sembra esser amputata veramente nel pianeta misterioso della romanità), il film allaccerà, come descriveva Latorre, un insieme di azioni teatrali che esorcizzano, sul margine barocco, ludico e sacro, dal carnevalesco, il divenire mondano verso la morte. In tale rituale premonitorio, il muro non smette mai di essere presente, e le ombre degli esseri che eseguono la rappresentazione esemplificano il carattere lapidario, di contenitore di spettri futuri, che lo spettacolo reclama. L’ombra di Vernacchio, dissolvendosi sulla parete dello scenario man mano che l’attore procede in avanti, per esortare le autorità a non distruggere il suo teatro, è un esempio emblematico: più l’essere umano scivola verso l’affermazione del suo presente, più il muro ingrandisce la sua ombra per avvertirci del carattere effimero del suo tentativo. Questa coreografia di riflessi che Satyricon proietta dal suo inizio (e che ha forse il suo culmine estremo nella meravigliosa sequenza della visita alla villa del patrizio che si è suicidato, dove ogni spostamento degli eroi trova uno specchio acquatico o un’ombra fra le pareti per proiettare premonitoriamente il loro destino) ci avverte di quanto il film sia vicino al nostro mondo, nonostante l’artificio retorico che il regista ha utilizzato e pubblicizzato per esigere che esso venga ascritto ad un ipotetico codice fantascientifico. Gli eroi del Satyricon hanno strani e quasi indecifrabili comportamenti, ma la fraternità con lo spettatore contemporaneo è profonda: da lì il suo radicale realismo. Gli eroi si muovono dietro l’ Eros fuggitivo che inonda tutto, e la morte, come unica erede del paesaggio, non è per nulla distante da quella che circonda il resto dei viaggi della filmografia felliniana. I rituali del Satyricon non sono più stravaganti di quelli che Fellini documenta nei suoi strani viaggi nel contemporaneo, da La dolce vita e 8½ fino a E la nave va e La voce della luna. O tutti questi film sono (anche!) di fantascienza – e iconograficamente non c’è dubbio che si avvicinino al nucleo visuale del genere – o non lo è nessuno. La strategia consueta del regista fu proprio quella di servirsi di apparenti esagerazioni e deviazioni espressioniste per esplorare ritratti collettivi che hanno spiegato, come pochi altri registi, la fondamentale estraneità del mondo in cui viviamo. La strategia espressiva di Fellini per il Satyricon non prevede, quindi, nessuna rottura rispetto ai postulati del suo cinema precedente (o successivo), sebbene forse – come in parte succede nel Casanova – la libera scelta di un testo del passato gli permette di eluderli con una libertà anche maggiore. I codici del peplum
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La strada di Fellini
che più radicalmente decantarono le sue immagini verso l’esplorazione di mondi sotterranei (le opere maestre di Freda, Cottafavi o Bava) sono il magico sfondo sul quale il regista disegna i danteschi itinerari delle sue creature perdute in cerca della luce (in Satyricon, persino i pochi esterni sembrano uno spazio intestinale che trascina l’immaginazione verso un innominabile fondo). Sebbene Fellini sembri rinunciare alla lirica soggettività che anima la parte autobiografica dei protagonisti de La dolce vita, Toby Dammit o La città delle donne, il suo film continua ad universalizzare le grandi tensioni dello spirito umano, perso nella selva oscura, rapito dall’inestinguibile brama sensuale dell’Eros fuggitivo, che solo il muro lapidario della morte contiene, fino a dotarlo di senso. Quando le effigi dei personaggi del Satyricon restano paralizzate sulla pietra del muro romano, nella straordinaria caduta del sipario del film, il loro periplo diviene meno frammentario di quanto l’esperienza visiva della rovina aspiri a rivelare. Nel loro irrinunciabile incontro con la morte, esse continuano a parlarci come fossimo fratelli, eredi del medesimo destino, esorcizzato, ora come allora, attraverso gli eccelsi rituali che la barocca arte di Fellini mise in circolazione in tutti i suoi film. Come succede col Pasolini più incline alla celebrazione rituale della barbarie, il Fellini del Satyricon è molto più umanista di ciò che l’apparente stranezza delle sue immagini vuole farci credere. E il legame con suo “fratello” Petronio è qualcosa di più che un atto di prestigio culturale su scala mass-mediatica. Esclama Encolpio verso la fine del romanzo conservatosi: “Ma allora, che razza di follia è mai questa, fare cioè di tutto perché di noi non resti più nulla dopo la morte?”. La sensazione erronea che “qualunque cosa tu faccia, il risultato finale è lo stesso” è smentita sia dall’autore latino che dal suo emulo contemporaneo, artefici di due indistruttibili monumenti all’ostinato progetto umano della persistenza.
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L’ambigua seduzione della merce. Fellini e la pubblicità1 di Sergio Brancato
È ormai comunemente accettato che la cultura grafica a cavallo tra Ottocento e Novecento sia il vero luogo di nascita dell’immaginario felliniano (Bondanella 1992, p. 23). Più che il cinema americano o la memoria della tradizione nazionale dell’arte, è il disegno tecnicamente riprodotto dell’illustrazione popolare e del fumetto a costituire l’autentico polo magnetico nella formazione del regista riminese, che prima di divenire tale fu piccolo e precoce imprenditore della caricatura, realizzata da ambulante sulle spiagge adriatiche a uso e consumo dei bagnanti, negli anni in cui le pratiche del turismo di villeggiatura divenivano fenomeno caratterizzante della cultura di massa (sulla giovinezza del regista, oltre a Bondanella 1992, cfr. Borin 1999. Sulle culture del turismo cfr. Abruzzese 2011). Le tracce di questo periodo sono consegnate a due film fondamentali per accedere ai tratti più specifici della filmografia felliniana, due pellicole separate da un ventennio esatto, ovvero I vitelloni (1953) e Amarcord (1973), che esprimono – al contempo – due differenti età del cinema italiano e della stessa biografia espressiva del regista. Due modi diversi di abitare i medesimi luoghi dell’immaginario, in cui le spiagge di Rimini appaiono nel decadimento invernale del dopoguerra pre-boom e, poi, nel fulgore della loro edificazione come mitografia dei consumi moderni. Nel transito dalla provincia balneare alla vita metropolitana della capitale, avvenuto sul finire degli anni ’30, Fellini lavora come collaboratore a cottimo per le vignette umoristiche de La Domenica del Corriere e del Marc’Aurelio (Pieri 2000), partecipando a un’età nuova nei 1 Questo saggio riprende e approfondisce le tesi esposte dall’autore in un breve intervento pubblicato nella sezione Mysteriose pubblicità di Fellini in Fabbri, Guaraldi 1997.
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La strada di Fellini
processi di determinazione dell’opinione pubblica, fondata sull’audiovisione sincretica dell’illustrazione popolare e sulle interrogazioni critiche della satira di costume. Più che in riferimento a John Ford, Erich von Stroheim o René Clair, dunque, la sua fantasia si sagomò intorno alle ariose configurazioni architettoniche di Alex Raymond, il cui ardito stile liberty pare avesse contributo a falsificare negli anni del protezionismo culturale della legge Alfieri2, e soprattutto sulla metafisica dello spazio ristretto e lancinante dei comics di Frederick Burr Opper 3. Del resto, è egli stesso a confidarlo in un’intervista rilasciata a Renato Pallavicini e apparsa su “L’Unità” nel luglio del 1992: Il mio cinema non nasce dal cinema: se devo riconoscere delle matrici, le identificherei proprio nelle strisce americane. In alcuni miei film, non i primi, ho tenuto presente lo stile, l’atmosfera, la dinamica bloccata nella rigidità, tipici del fumetto: Amarcord, ad esempio, non è solo un omaggio all’infanzia, ma anche al mondo dei fumetti: è un film stilizzato, con inquadrature fisse, pochi movimenti di macchina… (Massa 1993).
Non fu certo l’unico italiano, Fellini, a crescere in un contesto comunicativo in cui l’infanzia cominciava a scoprire le fascinazioni ancora parzialmente interdette dei fumetti pubblicati, fin dal 1908, sulle pagine del Corriere dei Piccoli (sulla storia e l’incidenza culturale del fumetto in Italia cfr. Brancato 2008). Per Italo Calvino, ad esempio, questo aspetto visivamente esasperato del grafismo fumettistico è fondamentale per comprendere l’estetica grottesca e debordante del Fellini filmaker. Ma accettare questo punto di vista ci porta necessariamente a considerare la complessa geografia di un universo grafico che si estendeva – ancora parzialmente in salvo dal peso ideologico delle tassonomie artistiche – dalla ricerca più avanzata sull’immagine pittorica e sulle modalità della percezione (ovvero il nesso basico tra occhio e tecnologia) alla pratica 2 Sebbene nota soprattutto per le sue implicazioni protezionistiche inerenti la cinematografia straniera, la legge Alfieri – ovvero il regio decreto-legge del 4 settembre 1938, n. 1389, chiamato “legge Alfieri” dal nome del Ministro della Cultura Popolare – introdusse, oltre al monopolio dell’Enic (Ente Nazionale per le Industrie Cinematografiche) per l’acquisto, l’importazione e la distribuzione delle opere cinematografiche, una più generale visione autarchica della produzione e del consumo culturale in Italia che toccò tutti i settori, compreso quello delle pubblicazioni a fumetti, dove si affermò la consuetudine di pubblicare le strisce americane avendo cura di cambiare i nomi dei personaggi e degli autori, le ambientazioni, le ideologie manifeste. Non è irrilevante considerare che nello stesso anno furono promulgate anche le leggi razziali. 3 Sulle “reinterpretazioni” dei fumetti stranieri nell’Italia del protezionismo culturale, cfr. Pazienti, Traini 1986.
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L’ambigua seduzione della merce. Fellini e la pubblicità
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quotidiana della comunicazione pubblicitaria, la réclame veicolata dai manifesti che arredavano gli spazi inediti dello sguardo metropolitano. Sulla scena fortemente conflittuale dell’industria culturale al massimo della sua efficienza produttiva, figure ibride di un’arte in mutazione coprivano la distanza tra linguaggi espressivi e merce, rovesciando i ruoli della produzione e del consumo in un’estetica nuova, basata sulla lateralità e la commistione delle forme (Abruzzese 2011a). L’immaginazione di Fellini si modella su questo ribaltamento del nesso tra arte e merce, del quale gode gli effetti già nella provincia italiana che scopre l’energia frenetica dei consumi e l’abbattimento (almeno in parte) dei localismi in un flusso della comunicazione sempre più articolato. L’affiche si offre ai suoi occhi con la vivacità dei colori e le immagini inusitate che trascinano fuori dall’immanenza fenomenologica dell’esistenza, producendo processi di elevata astrazione delle forme simboliche. Mentalità e comportamenti mutano, trasformando la provincia italiana e caricandola di ombre ai margini del riverbero elettrico di una modernità illuminante. È questo lo scenario che motiva l’estetica di Fellini, sempre giocata negli spasmi tra contraddizioni forti, negli interstizi tormentati fra tradizione e innovazione, nell’inconciliabilità teorica fra locale e globale, ovvero nello spazio onnicomprensivo quanto paradossale delle comunicazioni di massa. Spostarsi a Roma, a ridosso di quei set di Cinecittà dove il paese affronterà – dopo le catastrofi del ventennio fascista e della guerra – la Ricostruzione e il difficile processo di riallineamento alla modernità industriale, significa conquistare e perdere nello stesso tempo. Le fasi del dopoguerra sono fatte, antiteticamente, di entusiasmi e rimpianti. Il cinema, soprattutto con le sue grandi narrazioni popolari, da Raffaello Matarazzo al cosiddetto “neorealismo rosa”, testimonia questa oscillazione emotiva che attraversa il paese e ne scandisce i ritmi di ripresa. Il tempo del boom economico ne è conseguenza, sospeso com’è in una husserliana epochè tra seduzione e disincanto, fantasmagoria della merce industriale ed estetica della nostalgia. Il salto verso la dimensione metropolitana e la compiutezza dei suoi linguaggi verrà congelato a metà della sua traiettoria: il Fellini autore, alla fine, resta impantanato in una fase dei conflitti di culture integralmente ancorata a un dibattito sulle forme estetiche che non contempla il passaggio benjaminiano tra qualità e quantità (Benjamin 1995), la rivoluzione liberatoria e festosa del consumo di massa che egli vivrà sempre, invece, come sottrazione e colpa. Eppure, nelle sue radici si inscrive quella contaminazione tutta contemporanea di un nuovo contratto sociale, dalla negoziazione non certo
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La strada di Fellini
pacifica, che segna la nascita del pubblico come entità mobile e sempre più centrale dei processi dello scambio economico e della comunicazione. Quello stesso pubblico che andrà a vedere i suoi film, troppo presto ipostatizzati nel midcult raggelante dell’opera d’arte, integrandoli nelle proprie strategie di massa e rendendoli parte di una pratica mediale multilingue e di un gusto ad ampio (per Fellini troppo) spettro di “sapori”. Quello stesso pubblico disegnato con astio perfino brutale, ai limiti dell’epiteto volgare, in un film come Ginger e Fred (1985), massima esemplificazione del contrasto cinema-televisione su di un piano, tuttavia, inesorabilmente attardato. Fellini, al fondo, non cessa di dolersi del transito, avvenuto sotto i suoi occhi e per questo ancor più doloroso, dalla solida centralità della società dello spettacolo a quella più scontornata e sfuggente della società dell’informazione. Dall’egemonia collettivizzante e perciò epica del cinema a quella molecolare e prosaica della televisione. Un attraversamento in cui il rammarico cresce costantemente da Le luci del varietà (1950) a Lo sceicco bianco (1952), fino a I clowns (1970) e Prova d’orchestra (1979), tutti film che si ricompongono in un quadro quanto mai omogeneo, autentica corrente carsica nella filmografia del regista, che culmina proprio nel film J’accuse del 1985, in cui la sua concezione della città come set si sfalda nell’impossibilità di un territorio urbano ormai esteso sulle direttrici immateriali di una comunicazione elettronica che prefigura l’imminenza della rete. Non è più possibile, a quel punto, ricostruire la fascinazione scenografica di una vita vissuta in modo pre-televisivo. La volgarità che Fellini coglie e stigmatizza nella televisione è sottolineata dall’ossessiva presenza di immagini e suoni della pubblicità, traduzione espressiva di un’opposizione idealistica alla merce e alle sue inevitabili conseguenze performative sul corpo. Ma, oltre il discorso palese, il rapporto tra Fellini e la pubblicità risulta intimo e profondo. Risale appunto a quelle figurazioni incrociate, pluri-livellari, cui ci si riferiva in precedenza: all’incidenza sulla sua formazione di quell’ambiguità discorsiva scaturita dall’universo grafico popolare, in cui la merce si fa seduttiva sino agli approdi dell’eros nelle configurazioni semiotiche della réclame. L’influenza su Fellini del nesso impuro tra arte e cultura di massa si esplica nell’immaginario dell’origine, non a caso provinciale e minore, di Amarcord, pura estetica della nostalgia che, tuttavia, è essa stessa meccanismo fondamentale delle forme estetiche di massa a partire dai fermenti della stagione romantica e della letteratura laboratoriale di Edgar Allan Poe. In Amarcord, gli arredi pubblicitari di una provincia italiana protesa verso contraddittorie dinamiche di modernizzazione
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L’ambigua seduzione della merce. Fellini e la pubblicità
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assumono il valore di un rimando di/sperato all’infanzia, alle emozioni irrisolvibili e irripetibili della scoperta del mondo attraverso la scoperta di sé, facendosi motore della visione di Fellini sulle cose, e dunque radice profonda dei suoi segni e delle sue rappresentazioni. La nostalgia e la ricerca della felicità convivono all’interno di un medesimo movimento, che il cinema italiano interpreterà a partire dal dopoguerra. Ma prima del ritorno a casa (o della sua “menzognera” edificazione) costituito da Amarcord, l’uso espressamente ideologico – perfino più che compiutamente estetico – della pubblicità da parte del regista riminese si esplicita in particolare intorno ad alcune pellicole. L’episodio intitolato Le tentazioni del dottor Antonio, episodio del film a più mani Boccaccio ’70 (1962), è esemplare al riguardo: la vicenda narra di un severo censore dalla morale (demo)cristiana, interpretato da un magnifico Peppino De Filippo, che impatta contro l’incontrollabilità del proprio desiderio rimosso quando gli viene montato davanti alla finestra di casa un enorme cartellone pubblicitario da cui l’immagine gigantesca di Anita Ekberg lo osserva, invitandolo allusivamente a “bere più latte”. La trama prende la strada dell’esplorazione onirica, fino a sfociare nella follia quando il severo Antonio Mazzuolo, minacciato e sedotto da una gigantesca Ekberg (esplicito il riferimento al corteggiamento di King Kong a Fay Wray), uccide in sogno l’oggetto del proprio inammissibile desiderio, per poi infine destarsi abbarbicato all’enorme affiche dalla quale non vuole più essere separato. Primo film a colori di Fellini, costoso e ricco di effetti speciali dal tono hollywoodiano, Le tentazioni del dottor Antonio risponde da un lato alle polemiche scatenate dall’uscita due anni prima de La dolce vita, dall’altro riprende il filo satirico sulla comunicazione pubblicitaria e sui suoi effetti sulla vita quotidiana che il regista aveva sviluppato negli anni del Marc’Aurelio. La questione diviene cornuta qualora si consideri quanto gli stessi meccanismi – fondati sull’ineludibile associazione tra desiderio e consumo – che funzionano all’interno di questa “operetta morale” siano esattamente gli stessi alla base del funzionamento di una pellicola di grande successo commerciale come La dolce vita. In altri termini, Fellini rifiuta di vedere quanto il proprio status autoriale si leghi alle correnti profonde della cultura di massa negli anni del boom economico. Non a caso, quando nel 1961 Pietro Germi gira Divorzio all’italiana, una delle scene pare sottolineare proprio questa condizione di irredimibile ambiguità del cinema felliniano: nel momento in cui gli amanti fedifraghi scappano dall’oppressiva chiusura della casa baronale, tutto il paese è distratto dalla visione collettiva – nell’unica sala cinematografica del luogo – de La dolce vita, fenomeno di costume
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La strada di Fellini
costruito, anche pubblicitariamente, intorno alle proprie sostanze “scandalose” e percepito dal pubblico come prodotto in cui si addensa la dialettica tra erotismo e consumo esattamente come in ogni altra merce4. Ancora oggi, le immagini dilatate sul grande schermo de La dolce vita mostrano Anita Ekberg ripercorrere i passi di una coreografia del desiderio che si sovrappone a tante altre della memoria collettiva, e il desiderio muove la macchina del consumo, la anima con le sue pulsazioni, le dà forma in costellazioni semiotiche connesse alla specifica natura tecnologica del linguaggio agito. Fino a divenire citazione diretta, richiamo immaginario e traccia narrativa per alcuni spot pubblicitari degli anni a venire. Se la pubblicità è una presenza costantemente rintracciabile nella definizione dell’immagine felliniana, elemento cardine della critica del regista alla società dei consumi di cui egli stesso è tuttavia un protagonista, interessante è anche il contributo diretto di Fellini alla comunicazione pubblicitaria attraverso la realizzazione di alcuni spot televisivi. Il dato rimarchevole è che questa decisione viene presa dal regista nello stesso periodo in cui la sua idiosincrasia anti-televisiva raggiunge l’apice. Come sostiene il suo più accreditato agiografo, l’americano Peter Bondanella: Dallo sguardo divertito degli anni ’30 rivolto ad un aspetto della cultura popolare come fenomeno ancora limitato alle riviste, giornali e cartelloni pubblicitari, Fellini è passato, negli anni ’80, al terrore per la pubblicità, vista come un mostro prodotto dalla società consumista e pericolosa al punto da essere in grado di distruggere, se inserita durante la proiezione televisiva, le peculiarità ritmiche e di tono di un film (Bondanella 1992, p. 19).
Nonostante il convincimento relativo alla negativa influenza delle grammatiche pubblicitarie sulla tessitura del linguaggio cinematografico, opinione per altro radicata in estesi settori della cultura italiana riguardo i processi di modernizzazione, nel biennio 1984/1985 Fellini firma ben due réclame televisive: la prima è per Campari (dal titolo Che bel paesaggio), la seconda per Barilla (Alta società, meglio nota come Rigatoni). Quando viene messo in onda, lo spot Campari ottiene un effetto spiazzante sul fruitore cinematografico. Quelli che vi riconoscono la mano 4 Memorabile è la battuta con cui, alla scena del rock’n’roll ballato da Anita Ekberg, un coinvolto ed eccitato Lando Buzzanca (qui al proprio debutto cinematografico) si rivolge alla propria ingelosita fidanzata, stigmatizzando in maniera palesemente ipocrita l’attrice definendola: “Un mammifero di lusso ma senz’anima… secondo me”.
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di Fellini, infatti, sperimentano una sostanziale dissonanza cognitiva tra l’estetica dell’autore e la sua visione politica della comunicazione, in apparenza irriducibile alle strategie commerciali di una televisione ormai proiettata verso il duopolio RAI-Fininvest. In un minuto, il filmato ci mostra – sulle note suggestive del commento musicale di Nicola Piovani in cui riecheggia lo stile di Nino Rota – l’interno di uno scompartimento ferroviario dove due personaggi, interpretati da Victor Poletti e Silvia Dionisio, guardano lo scorrere del paesaggio dal finestrino. L’uomo osserva la donna, sorridendo compiaciuto, mentre lei palesa il proprio fastidio e afferra un telecomando con cui comincia a “cambiare canale” al panorama. Davanti ai suoi e ai nostri occhi appaiono quindi immagini che scaturiscono dall’enciclopedia dell’immaginazione esotica, evidentemente “fasulle” ma proprio per questo assai suggestive, frutto della sapienza cinematografica dello scenografo Dante Ferretti, finché – stanca anche di quel nevrotico zapping – la fanciulla getta via il telecomando, accasciandosi sui sedili in preda a una sorta di spleen. L’uomo, allora, prende a sua volta lo strumento, rassicurando con un gesto la ragazza, e lo usa per sintonizzare immediatamente lo schermo del finestrino su una immaginaria Piazza dei Miracoli a Pisa, con la torre pendente accanto alla Basilica e una bottiglia di bitter Campari delle medesime dimensioni (quelle della finzione scenografica). Com’è nella logica del vecchio Carosello, il messaggio pubblicitario si esplicita alla fine, con l’ingresso nello scompartimento di una hostess che porta una bottiglia di Campari e due bicchieri su un vassoio. Poletti e la Dionisio, finalmente gratificati, brindano tra loro e con il pubblico, mentre una morbida voce femminile declama la marca del prodotto. Sceneggiato da Bernardino Zapponi, lo spot Campari di Fellini ha un tono molto cinematografico, grazie anche al direttore della fotografia Ennio Guarnieri. Fu realizzato in un periodo di grandi trasformazioni delle culture della comunicazione in Italia, all’interno di una iniziativa che tendeva a ridefinire – se non proprio ad abbattere – i consueti confini tra media audiovisivi differenti. Ovviamente, ognuno può cogliervi ciò che vuole. Per Bondanella la chiave di lettura è apocalittica: Questo breve spot contiene una critica implicita al fruitore previsto per il messaggio pubblicitario, dal momento che Fellini ritiene che proprio lo spettatore, in quel medesimo istante davanti alla televisione, telecomando in mano, abbia subito un’alterazione della propria capacità di giudizio critico, provocata dalla diffusione del potere uniformante della televisione commerciale in Italia (Bondanella 1992, p. 20).
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La strada di Fellini
In questa prospettiva, così, per Fellini (secondo Bondanella) la televisione avrebbe “limitato fino all’annullamento la capacità di interpretazione di un’opera, per così dire, seria quale quella cinematografica” (Ibidem). Il concetto di “opera” ricordato da Bondanella costituisce esattamente il punto in questione. Lo recuperiamo in parte anche nello spot successivo, quello realizzato per Barilla, in cui il regista riminese ci introduce in un immaginario ambiente del lusso occidentale d’inizio Novecento, un ristorante in cui estetiche e rapporti sociali corrispondono a quelli del cinema classico hollywoodiano alla Ernst Lubitsch. In un minuto, questo testo ci introduce così nella stessa materia della storia sociale del cinema come metafora del Novecento. Subito dopo un rifulgere di trasparenze, accompagnate dalla musica di Nino Rota e provenendo dall’esterno della vetrina del ristorante tutto fiori e specchiere, la macchina da presa inquadra il primo piano di una donna dal fascino un po’ desueto, che ricorda la bellezza austera di Silvana Mangano (in realtà è l’attrice Greta Vayan, protagonista del cinema italiano di genere negli anni ’70). Siede a un tavolo per due, di fronte all’attore Maurizio Mauri che flirta con lei mentre il maître (Franco Iavarone), capitanando un piccolo manipolo di attempati camerieri, recita con voce suadente il menu composto interamente da elaborate pietanze della gastronomia francese. La lista sembra proseguire all’infinito quando la signora, volgendosi regale verso di lui, sussurra: “Rigatoni”. A quel punto il registro muta radicalmente, con il maître che si lascia andare a una poco sofisticata esclamazione di stupore, manifestando approvazione per la scelta e collegando il tipo di pasta scelto al marchio Barilla, mentre tutti gli altri avventori si girano a guardare verso il tavolo della coppia. Meno interessante dello spot per Campari dal punto di vista ideativo, Rigatoni è tuttavia entrato a far parte della storia del costume italiano fino a divenire, per qualche tempo, un reiterato tormentone nelle conversazioni quotidiane. Entrambi i testi, comunque, ruotano intorno allo stesso nucleo tematico, ovvero l’affermazione di un brand nazionale in opposizione alla superiore pervasività (ma anche alla sottintesa minore qualità valoriale) dei prodotti esteri. Tuttavia, all’affermazione del made in Italy, assai esplicita ideologia di un Paese proiettato verso la fine catastrofica della prima repubblica, corrisponde sottotraccia un’altra linea di lettura, ossia l’impossibilità di contenere il portato di trasformazione della nazione (e dell’insieme delle trasformazioni in atto nel mondo) dentro i linguaggi logorati del cinema, un medium che si è strutturato intorno all’ideologia dell’opera d’arte ibridata alle strategie della fabbrica industriale. Di tale nesso, Fellini è insieme avversatore ma anche
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L’ambigua seduzione della merce. Fellini e la pubblicità
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interprete, impegnato nella critica contro un modello di comunicazione che tende a stravolgere gli assetti di potere del testo, declassando definitivamente l’autore al ruolo di comprimario in uno scambio simbolico regolato, in modi del tutto inediti, dal protagonismo del pubblico. Spalleggiato dagli ambienti culturalmente più conservatori della sinistra italiana, Fellini scagliava i suoi anatemi sull’attentato televisivo all’integrità dell’opera cinematografica proprio nel mentre realizza spot destinati a interrompere il flusso e le “emozioni” dell’opera stessa. In assoluta prossimità al manifesto anti-televisivo costituito da Ginger e Fred, il regista riminese risulta intriso di una Weltanschauung in cui la comunicazione pubblicitaria costituisce un elemento essenziale poiché si configura come conflitto senza soluzioni all’interno della moderna produzione culturale. Ha un sapore fatidico, quindi, che le ultime opere realizzate da Fellini siano proprio le tre réclame della “trilogia del sogno” realizzata tra il 1992 e il 1993 per Banca di Roma con l’interpretazione di Paolo Villaggio e Fernando Rey: tre piccoli film dalla struttura e dalla vocazione pubblicitaria esplicita e già retrò, come del resto tutto il cinema felliniano. Anche nella sua tarda impotenza autoriale, Fellini docet: nel gioco di oscillazioni tra grande formato del cinema anni Sessanta e piccolo formato del cinema post-televisivo, leggiamo il destino di una cinematografia incapace di affrontare la transizione verso un sistema mediale complesso, paradigmaticamente differente. Un destino di cui Fellini è un simbolo, un sintomo e un esito. Il suo décor programmatico, che ha il sapore di vecchie estetiche pubblicitarie, specchio di una Italia dalle solo accennate pulsioni moderniste, attraversa il tempo per fissarsi nelle piccole icone sequenziali dei fumetti di Milo Manara, realizzazione a basso costo e con spostamento di campo linguistico per alcuni tra quei progetti incompiuti e, pertanto, mitizzati del regista. Forse solo il fumetto poteva siglare, proprio là dove era iniziato, lo sguardo di Fellini nella narrazione del proprio tempo. Il viaggio di G. Mastorna e Viaggio a Tulum ripropongono una grafica densa di rimandi e citazioni, per molti versi “linea sporca” dietro l’apparente levigatezza della linea chiara di Manara. Operazioni marginali, forse decadimento delle possibilità originarie della visionarietà felliniana, questi ripiegamenti a fumetti ci restituiscono, in ultima analisi, l’attendibile interpretazione dell’immaginario di Federico Fellini, palesando le diverse sostanze che lo costituiscono e l’impossibile purezza delle fantasmagorie industriali.
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Sul Casanova di Alfonso Amendola
Premessa Tutto il cinema di Federico Fellini sembra muoversi come un leggero vagabondaggio tra maschere e caratteri, tra ipotesi e occasionalità. Ed è proprio l’accidentalità il tratto spesso evidenziato dallo stesso Fellini per spiegare il proprio cinema. Già a cominciare dall’incontro con colui che l’accompagnerà per mano verso la sua carriera: Roberto Rossellini. Il progenitore da cui Fellini pensa che discenda tutto il cinema successivo. Un’unione quasi casuale, naturale, il cui ricordo lo conforterà nei suoi primi lavori da regista. Fellini ha sempre dichiarato di non aver mai pensato a cosa fare da grande; da giovane amava costruire burattini e ideare vignette umoristiche, passione che l’ha avvicinato dapprima alla scrittura di rubriche radiofoniche, poi a radio-riviste ed infine alla sceneggiatura cinematografica. L’incontro e la collaborazione con Rossellini gli faranno scoprire l’Italia e la passione per la regia, per la quale non avrebbe mai pensato di essere tagliato a causa della sua timidezza e della sua scarsa autorità; amerà lo spirito collettivo dei suoi lavori, da viaggio tra amici, il modo di costruire i film a piccoli passi tra le macerie e le difficoltà di un’Italia che si stava, lentamente, ricostruendo. Fellini regista penserà al suo lavoro come a un’esperienza da vivere, certamente in maniera profonda, ma anche con uno spirito di scelta dopo scelta, senza troppa preoccupazione ed angoscia per il risultato finale. Con gli stessi attori si limitava a poche indicazioni suggeritegli dall’osservazione della loro vita, delle loro abitudini ed espressioni. L’espressività è proprio ciò che cercava, la capacità di raccontarsi naturalmente al primo apparire. I volti, i tic, le manie degli attori come delle comparse (le tante comparse che portava con sé ad ogni film come se si trattasse di una compagnia di giro, un circo, una giostra, una nave in rocambo-
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La strada di Fellini
lesca navigazione senza fissa meta, un disegno infinito popolato da una miriade di personaggi). Insomma Fellini è l’occasionale, il fortuito, il casuale, il vagabondare. Temi che, appunto, tante volte saranno il motore delle scelte del suo cinema. E lungo questa lineare, s’inscrive Il Casanova di Federico Fellini (Fellini, Zapponi 1976; oltre alla sceneggiatura cfr. Betti, Angelucci 1975, ma soprattutto Zanzotto 1976). Film da pochi apprezzato. E vero frutto di una casualità (nello specifico, inizialmente il film fu spinto da Dino De Laurentiis e poi il regista fu “costretto a fare” per obblighi contrattuali). Infatti, con Il Casanova il regista riminese realizza un film da lui stesso non molto amato (o per lo meno non immediatamente amato). Netta è la posizione dello stesso Federico Fellini che dichiara: I Mémoires li ho letti dopo aver firmato l’impegno per il film, e subito sono stato preso da un senso di vertigine e dal presentimento di aver fatto un passo falso. Bernardino Zapponi mi confortava ricordandomi che col Satyricon era successa un po’ la stessa cosa: avevo firmato il contratto e solo dopo avevo letto Petronio. È vero, ma con la sostanziale differenza che lì era nata subito un’emozione, un sentimento del film. Questa volta non è andata così e il progetto ha continuato a stare in piedi per il motivo puntiglioso e isterico che lo dovevo realizzare per forza; di conseguenza anche il punto di vista del film è nato per necessità, per disperazione, sovrapposto e completamente estraneo al libro, a Casanova, al Settecento e a tutto quello che è stato scritto sull’argomento. Dal punto di vista figurativo, il Settecento è il secolo più esaurito, esausto e svenato da tutte le parti. Restituire originalità, una nuova seduzione, una visione nuova di questo secolo è sul piano figurativo un’impresa disperata. E allora il film mi si confonde ancor di più, mi sento come uno che per motivi che non conosce è stato imprigionato, irretito in un disegno che gli sfugge, come il protagonista del Colpo al portone di Kafka; un atto irrilevante mette in moto un oscuro processo, un’inevitabile condanna. Il film come punizione, espiazione... Procedevo nello sconfinato oceano cartaceo dei Mémoires, in quell’arida elencazione di una quantità di fatti ammassati con rigore statistico, da inventariato, pignolesco, meticoloso, stizzoso, nemmeno troppo bugiardo, e il fastidio, l’estraneità, il disgusto, la noia, erano le uniche varianti del mio stato d’animo depresso e sconfortato (Fofi, Faldini 1984, pp. 254-255)1.
1 Si riporta questa lunga dichiarazione di Federico Fellini del 1980 per la chiarezza e la sincerità dei temi proposti e per come l’inquietudine di questa scelta “obbligata” traspiri in pienezza nel film, che probabilmente si ammanta di una differente aura proprio per il disamore del regista.
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Sul Casanova
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Un film che, seppur innervato di disamore, sicuramente ha delle persistenze precipuamente “felliniane” e che respira di differenti anime composite. Anime che ho voluto, seppur con inevitabile sintesi, sondare. Evidenziando (in particolar modo) una duplice (complementare) componente che a mio giudizio fortemente abita il Casanova: l’uso in funzione poetica del dialetto (la collaborazione con il poeta Andrea Zanzotto) e la rilettura in chiave negativa e dichiaratamente mortuaria del grande libertino del Settecento (Giovanni Giacomo Casanova, Venezia 1725-Dux, Boemia, Cecoslovacchia 1798). Insomma, almeno, due tracce entro cui leggere questo lavoro cinematografico del 1976. Film sicuramente eccentrico, sproporzionato, cialtronesco e che apre uno squarcio nell’opera di Fellini, a notarlo è Brunello Rondi, verso un’idea di cinema “mortuario-cimiteriale, in cui ha rilevato una visione del mondo estremamente tenebrosa e anche abbastanza impopolare, nonostante gli sprazzi di genialità che contiene” (Fofi, Faldini 1984, p. 241). L’incontro con Andrea Zanzotto Nasce grazie alla complicità di un amico comune (il poeta Nico Naldini, cugino di Pier Paolo Pasolini) il dialogo artistico, professionale ed amicale tra Federico Fellini e Andrea Zanzotto. L’incontro tra il regista riminese e il poeta veneziano fu inizialmente suggellato dalla proiezione de I Clowns del 1970 dove il regista, legato ai temi della fantasia e del sogno, conosce il poeta post-leopardiano2 che proprio qualche anno prima aveva pubblicato la centralità dei suoi lavori di preciso azzardo sperimentale e dal forte nervo “plurilinguistico” (Zanzotto 1968; Zanzotto 1969). Il dialogo con il cinema, in particolare con quello di Fellini, è una delle ulteriori anime che caratterizzano l’universo poetico di Zanzotto (De Giusti 2005)3. Spesso, infatti, la sua scrittura guarda al piano del visivo, al segno di una lingua che procede per tensioni d’immagini, ad 2 Non è questa la sede per analizzare nel profondo la linea poetica che da Giacomo Leopardi giunge fino a Zanzotto e la profondità dei temi che tornano, ma su questo cfr. almeno Zanzotto 1991, passim. Si rintraccia il poeta marchigiano in gran parte dell’opera zanzottina (soprattutto l’ultima da Meteo, 1996, a Sovrimpressioni, 2001). Per questioni collegate ad analisi critiche cfr. Papa 1978; Pezzin 1988. Ma è anche giusto ricordare che accanto al grande poeta dei Canti, troviamo in Zanzotto, sempre, espliciti riferimenti a Petrarca, Baudelaire, Hölderlin, Goethe, Blake. 3 Testo davvero fondamentale per cogliere il rapporto tra Zanzotto e il cinema (non solo verso l’immaginario felliniano. Infatti nel volume, accanto a Fellini, compaiono interessanti riflessioni sul cinema di Robert Bresson, Pier Paolo Pasolini e Nelo Risi).
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La strada di Fellini
una struttura verbo-visiva di grande impatto ed originalità. Una poesia come miscela di ritmo e totalità, dove tutto diventa atto di narrazione e di potente scenario di possibilità d’espressione, compreso “l’inafferrabile” e la “tenerezza”: Io mi sento lontano da coloro che sembrano abbacinati dalla necessaria frigidità di cui, nel loro stretto ambito, la scienza, e più la tecnica, tendono a permeare la loro espressione (o comunicazione). Perché non tener presenti piuttosto tutti i sottintesi, le irrequietezze di natura psicologica che stanno “al di sotto” della ricerca, pluriscintillanti e inafferrabili, o grossamente semplici, dall’entusiasmo, alla fede nella clavis, perfino alla tenerezza (o alle avarizie, alle paure, alle libidini più svariate)? (Zanzotto 1999, p. 1131)4.
Il desiderio in Zanzotto che passa “dal figurativo all’informale” (Gioanola 1986, p. 868) è tutt’uno con la repulsione, che giunge a farsi terrore, insicurezza, incapacità di sciogliere i lacci. La coscienza non è mai del tutto esautorata: portare la parola poetica alla sua origine, all’infanzia della lingua, dell’uomo e del mondo, equivale a lasciarla alla deriva, destinata ad un porto terminale, mortifero, afasico, per lo stesso gioco di contrari che è la sostanza della sua lirica. Il rischio è la cancellazione totale dell’atto poetico. Ma occorre pur rischiare qualcosa per rivitalizzare la scrittura. La lingua di Zanzotto si articola prima del silenzio finale e dopo un esordiente balbettio, adagiandosi sul limite, sull’orlo del baratro, ma senza precipitarvi. La semanticità, pur ridotta a forma residuale, è troppo importante per Zanzotto poeta e uomo: è quel poco che può ancora incidere sulla realtà. Tutti questi temi di massa e levità poetiche, di luminescenze ed opacità del sentire, di maturità ed infanzia, saranno un terreno (fertile) dove s’incontreranno il poeta e il regista. Facendo originare una preziosa collaborazione che si svilupperà attraverso la partecipazione a tre lavori cinematografici. A partire dal 1976 con la centralità de Il Casanova di Fellini, passando per La città delle donne (1980, del poeta veneto sono i dialoghi e alcune parti della sceneggiatura), attraversando E la nave va (dove Zanzotto firma i cori) fino al film “leggenda” e mai realizzato Il viaggio di G. Mastorna (Fellini 2008b). Ma è soprattutto con il Casanova che il rapporto tra la scrittura poetica di Zanzotto entra nel vivo procedere con Federico Fellini. Un rapporto ben denso di spunti e riflessioni. 4
Il testo è stralciato da un’intervista a Ferdinando Camon del 1972.
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Sul Casanova
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La scelta di Fellini verso Zanzotto nasce da un’esigenza di scavare nel profondo la lingua del libertino veneziano. Ma la scelta di lavorare con uno scrittore, in generale, è una posizione sempre attenta del regista riminese verso gli ambiti letterari del suo tempo. Pensiamo al suo importante rapporto con Pier Paolo Pasolini (in particolare per i dialoghi romaneschi de Le notti di Cabiria, 1957) o alla collaborazione con Dino Buzzati (ancora per il film-fantasma Il viaggio di G. Mastorna). Ma nello specifico la collaborazione con Zanzotto è un’esigenza di voler sondare, nell’ampiezza della lingua poetica, un dialetto come latte grammaticalizzato (per Zanzotto il latino è “lingua madre” per eccellenza). Un dialetto come fatale alfabeto per comprendere nel profondo. Un sintomo arcaico di una cultura materiale. Un ossessivo ritorno alle “origini” e alla “perduta innocenza”. Una vertigine esplicativa di articolata figuralità. Un dialetto, insomma, come lingua di “prima genitura” (tema da sempre caro al regista, emblematico riferimento su tutti è la lingua di ragazzi ed adulti in Amarcord del 1973). Un dialetto che è “lessico familiare”. È parola concreta. È il “vecio parlar” (per dirla con Zanzotto). E così, nel film, il dialetto diventa infrazione-adesione alla norma ed è l’unica possibilità di preservare la poesia e le sue parole estreme. La lingua di Casanova, che nella lettura felliniana amalgama assieme erotismo e morte, deve avere una duplice funzione: ricordare e distruggere. In entrambi i casi il dialetto è forza attiva. Lungo questo desiderio di composizione si definisce la collaborazione tra il regista e il poeta. Una collaborazione che scava dentro le parole di “memoria e distruzione” del libertino settecentesco. In particolare, il lavoro di Zanzotto lo ritroviamo (nel compimento della sua lingua poetica) in due precisi momenti del film: nel “Recitativo veneziano” e nella “Cantilena londinese” (Zanzotto 1976). Anche se lo stesso poeta precisa che I primi due componimenti li avevo già scritti, in qualche modo. Esistevano dispersi nei miei lavori di molti anni fa, anche lontanissimi [...] il discorso visivo di Fellini ha risvegliato per me alcune risonanze entro una certa aura linguistica da dirsi veneta (veneziana solo in parte) sia per eccesso che per difetto. Mi è capitato davanti un parlare perso nella diacronia e nella sincronia veneta (Zanzotto 1999, p. 539).
Ed è proprio nel principare del film (la sequenza dell’imperiosa testa di donna che nasce dal Canal Grande) che la poesia di Zanzotto si muove nell’ampiezza di una palpitazione e di una visionarietà che magicamente dialogano con la musica di Nino Rota (Perugini 2009). Una poesia dialettale che è battito di filastrocca quando il seduttore incontra la
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La strada di Fellini
“gigantessa” in quel di Londra. Insomma il rapporto tra i due è davvero riuscito e giocato su una compenetrazione puntuale. Nella raccolta Filò, Zanzotto non solo pubblicherà tutte le filastrocche presenti nel film ma arricchisce la raccolta con una lettera all’amico regista in cui ricostruisce tutti i temi che legano il poeta e il regista: dal rapporto con le immagini alle motivazioni di lavorare attorno all’arte, dai comuni interessi verso il ludico, il tema della luna, l’azzardo, le dichiarate “stanzialità” (Zanzotto quando parla della sua Pieve di Solingo definendola “orlo di mondo” sembra far riecheggiare il mondo riminese di Fellini) e senza dimenticare la sintonia di credere nel dialetto come illuminazione profonda. L’impegno di Zanzotto per Fellini è a dir poco devozionalmente totale. Vorrei tentare di rompere l’opacità, la convenzione del dialetto veneto che, come tutti i dialetti, si è raggelato in una cifra disemozionata e stucchevole, e cercare di restituirgli freschezza, renderlo più vivo, penetrante, mercuriale, accanito, magari dando la preferenza ad un veneto ruzantino o tentando un’estrosa promiscuità tra quello del Ruzante e il veneto goldoniano, o meglio riscoprendo forme arcaiche o addirittura inventando combinazioni fonetiche e linguistiche in modo che anche l’assunto verbale rifletta il riverbero della visionarietà stralunata che mi sembra di aver dato al film (Zanzotto 1976, p. 7).
E proprio seguendo questa linearità “infantile”, Fellini mostra il “suo” Casanova. Un Casanova piccolo, gretto, meschino, mediocre, vittima di se stesso, costantemente stralunato e in caduta libera verso il dirupo della finitudine, della consumazione e della morte. Un film in cui – ripristinando le scelte felliniane che sfidano l’iper osceno, il fantasmagorico e l’assurdo rappresentativo – ritroviamo ancora una volta “la raffigurazione simbolica – resa, non a caso, profondamente barocca, a parte il suo stile compositivo, a parte il carico decorativo dei set – del memento mori” (Abruzzese 2002, p. 51). Contro Casanova Federico Fellini, come abbiamo ben letto nella lunga citazione d’apertura, non nutriva alcuna simpatia per Casanova. Anzi aveva l’esigenza di mostrare il gran seduttore non tanto nella veste di un eroe libero e spudorato (né tantomeno di raccontare il letterato e la sua autorevole produzione di opere di vera raffinatezza e solidità) ma di costruirlo dentro una cifra di rappresentazione dai toni caricaturali, svuotati, la-
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Sul Casanova
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mentosi e buttato a precipizio dentro una viscerale degradazione umana e morale (appellandosi anche al castrante giudizio che di Casanova ne fece Giosuè Carducci). Infischiandosene francamente della ricca ed importante bibliografia su Casanova5, Fellini opera una scelta che indica una provocazione, sicuramente, ma è anche una traccia di stile, di genere e di adesione che alcuni hanno voluto interpretare come “autobiografica”. Può esser interessante leggere in che modo un attento studioso dell’autore delle Memorie, analizza il film di Fellini (nel tempo della dichiarazione, in fase di lavorazione): Non escludo che Fellini riesca addirittura a celare se stesso nel suo personaggio. Quindi questo odio apparente può nascondere, sotto sotto, un vero amore. Perché quando un artista del livello di Fellini sceglie un tema come Casanova, intende andare verso uno scontro frontale col personaggio. E questi scontri frontali senza un certo amore per il personaggio non sono possibili (Chiara 2008, p. 135).
Un amore distorto e “incompreso”. Più no che sì, verrebbe da dire. Sicuramente una sfida. Infatti, il film è anche un cimento per il regista de La dolce vita. Poiché, tra le altre cose, questo è il primo lavoro cinematografico di Fellini che orbita fuori dalle domestiche mura italiche e che insegue Casanova per l’Europa e va detto che il film è interamente girato in inglese. Fellini insegue il suo Casanova e lo mostra sempre più logorato dall’universo femminile, dove il sesso (e la sue pratiche) sono abisso di dolore e distruzione. Un sesso senza incantesimi né rapimenti estatici. Ma soltanto un atto di massacro, stanchezza e perdizione, dove la grandiosa figura (mi sia consentita un’adesione personale al mito casanoviano) dello scrittore veneziano6 viene recintata nel vizio e nella noia. Una scelta che, seguendo la lettura del suo sceneggiatore Bernardino Zapponi, fu anche dettata da una decisa antipatia “personale”: 5 Vasta la bibliografia sul grande scrittore veneziano, si vedano almeno: Croce 1914; Zottoli 1945; Abirached 1977; Ficara 1999; AA.VV. 2011. 6 Casanova è personaggio che non va analizzato unicamente nella sua veste di seduttore e libertino, ma bisogna analizzarlo nella sua complessità e trasversalità. Ovvero profondo conoscitore del suo tempo, grande provocatore, eterno fuggiasco (la Chiesa lo sospetterà costantemente di “disprezzo pubblico della Santa Religione”), attento editore di periodici (“Opuscoli miscellanei” e “Le Messager de Thalie”) e soprattutto prolifico scrittore che non attraversa solo le lettere ma anche la matematica, l’astronomia, la giurisprudenza, gli studi sociali, il teatro e, consentiteci, le teorie e tecniche della seduzione ed è l’annuncio di una sorta di dandysmo ante litteram. Cfr. Scaraffia 1981; Scaraffia 1989; Lanuzza 1999; Amendola 2002. Per una prima lettura dei lavori di Casanova, cfr. Casanova 1969; 1974; 1983; 1984.
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La strada di Fellini Casanova è esattamente l’opposto di un Fellini, perché è un uomo che si muove, agisce, mentre Fellini tende alla staticità, a non muoversi, a non uscire da Piazza del Popolo andando oltre Piazza San Silvestro. Casanova s’intende di tutto, s’intende di quattrini, sa giocare a carte, va a cavallo, è un maestro d’intrighi. Tutto all’opposto di Federico. Scopatore attivo più che riflessivo, pare che fosse dotato di mezzi fisici notevoli, di salute, di forza, di irruenza. Nonostante fosse un intellettuale, e non da poco, aveva un che di bestiale, di istintivo che Fellini sentiva estraneo al massimo. Non poteva compiere con lui quell’identificazione che aveva sempre compiuto con i personaggi precedenti, basta pensare a Mastroianni. Era uno che non avrebbe frequentato, con cui non avrebbe avuto niente da dirsi (Fofi, Faldini 1984, pp. 255-256).
E così neghiamo qualsiasi ipotesi di un “innamoramento” distorto tra Fellini e Casanova. Il discorso è chiaro. Abbiamo un Fellini che scardina radicalmente e si oppone al mito di Casanova, traducendolo in una continua scimmiottatura dongiovannesca. Le innumerevoli varianti erotiche e seduttive di Casanova trovano nella fisicità e nelle movenze di un voracemente eccentrico Donald Sutherland una riuscita realizzazione interamente giocata in teatralità e dentro una vertigine linguistica (che, come abbiamo visto, è corroborata dallo stile di uno dei più grandi poeti del Novecento). Il film, invero, nel giocare a far naufragare il mito di Casanova, porta avanti un’idea di teatralità che solidamente lo lega al cinema delle “origini” di Fellini: gli spazi della “messinscena” presenti in Luci del varietà (1951) o ne I Vitelloni (1953) ed ancora il teatro all’aperto ne La strada (1954); gli “artifici” del suo cinema degli anni Settanta: pensiamo alle ricostruzioni perfettamente scenotecniche del Fellini-Satyricon (1969) o dei Clowns (1970); fino allo svelamento della “macchina scenica” di E la nave va (1983). Pur non essendo questa la sede per affrontare le estensioni teatrali nel cinema di Fellini, piace sottolineare la connaturata finzionalità di questo film: dal Teatro della Balena al Teatro Automatico, dal Teatro delle ombre all’opera dei castrati, dal mare di plastica all’uso teatralissimo delle bambole fino alle sghimbesce sonorità che accompagnano l’uccello meccanico che annunciano le azioni amatorie di Casanova. L’attacco sistemico e canzonatorio di Fellini contro Casanova nell’utilizzare l’opzione teatrale e il disegno carnevalesco, sembra quasi fare il verso (Verdone 2002, p. 93) alle riscritture di Carmelo Bene quando “interpreta” Amleto, Otello, Pinocchio o Faust. Un teatro come inventio. Un teatro come linea di fuga, ulteriore, dal reale.
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Sul Casanova
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Se il soggetto prende spunto dalle avventure e dai tempi di Casanova, e in questo senso è legittimo che ne mantenga il nome, si potrebbe sostenere per assurdo che il film potrebbe, mutatis mutandis, prendere una piega consimile anche basandosi sul personaggio di Joe Grimaldi, di Capitan Fracassa, del Conte Francon o di Barnum. Si vuole mettere in evidenza, insomma, che al regista non interessa raccontarci la vita di Casanova, ma attraverso Casanova farci entrare in un paese dei miracoli, anche alla Collodi, (perché no?), dove ogni episodio è come un teatrino a sé (Ibidem).
Un azzardo scenografico. E ancora una volta un mascheramento sognante. Ancora una volta memorie sbiadite tra realtà e menzogna. Il tutto perfettamente scomposto tra la voglia di narrare storie, di svelarsi, di raccontarsi, di fuggire, di stupire, di meravigliare, di nascondersi. Ancora una volta il cinema che guarda al sogno (e viceversa). E ben al di là delle riflessioni felliniane, ancora una volta consapevoli che il vero sogno del cinema è quello di superare la perdita della morte, di ritrovarsi al di là della trasformazione della materia. Il sogno di un cinema che riproduca e conservi l’autenticità di un legame, di un contatto tra esseri separati. Il set del futuro, dunque, come relazione interminabile e tuttavia definita tra esistenze non più separate in stanze e ambienti ma internamente solidali, in cammino lungo lo stesso sogno (Frezza 1996, p. 94).
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Segnacci di sogno di Paolo Fabbri
I sogni ci insegnano che esiste un linguaggio per ogni cosa (Fellini, in Maraini 1994)
1 In una lettera a Federico Fellini, l’11 giugno del 1986, Tullio Pinelli, coautore di tanti progetti, trattamenti e sceneggiature, richiamava i romanzi di Thomas Mann su Giacobbe e Giuseppe. Per un possibile soggetto narrativo, suggeriva la figura di Giuseppe, che nell’opera di Mann è detto il “Sognatore di Sogni”. Pinelli sapeva a chi stava scrivendo: per Fellini infatti fare film era come vivere i sogni, passando con “convulsa lucidità” dal trattamento notturno della vita vigile a quello diurno delle attività oniriche. I sogni sono confusi e imprecisi e il loro scopo non è la comunicazione: forse li ricordiamo a ritroso, dalla fine verso il principio. Perché diventino un’opera è necessario dotarli del rigore e della flessibilità del segno linguistico e visivo. Una trasposizione creativa e fantastica che Fellini non ha mai smesso di disegnare e di scrivere. Questo quasi inconsapevole, involontario tracciare ghirigori, stendere appunti caricaturali, fare pupazzetti inesauribili, che mi fissano da ogni angolo del foglio, schizzare automaticamente anatomie femminili ipersessuate […] e infiniti altri pastrocchi, geroglifici, […] forse è una specie di traccia, un filo, alla fine del quale mi trovo con le luci accese, nel teatro di posa, il primo giorno di lavorazione (Fellini 1980, p. 68).
Traducendo i suoi sogni e i suoi incubi in un vasto affresco di parole e immagini e “scarabocchiando ghirigori” all’inizio di ogni opera, il grande regista infatti ha raccolto i materiali visivi per costruire il proprio labirinto e i fili d’Arianna per uscirne. Nei suoi stessi termini: film-pilota o lo spirito-guida per una copia di lavorazione “piena di segnacci”, con “la colonna sonora costellata dalla mia voce, dalle mie grida, dai miei suggerimenti” (Grazzini 1983, p. 176).
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La strada di Fellini
Gli schizzi e gli sgorbi, “paccottiglia grafica delirante” sono l’accurato resoconto verbo-visivo di trent’anni di vita onirica; non si tratta quindi di opere autonome, ma di fermo-immagini, iscrizioni situate per inseguire e decifrare il processo creativo. E poiché c’è anche una civetteria onirica, anche il Fellini notturno si meravigliava che Orson Welles stesse “osservando con interesse dei fogli: sono miei disegni. Li mostra agli altri con sincera ammirazione. Tento di moderare il suo entusiasmo che mi pare davvero sproporzionato per quegli scarabocchi” (Fellini 2007, Sogno del 24-6-77). Gli scritti e i disegni che compongono il Librone, come lo chiamava il suo autore, non meritano quindi la distrazione dell’occhio puro-visibilista e la disinvolta assegnazione critica al surrealismo. Questi “segnacci” si collocano al di là dell’estetica per interrogarci sul loro significato; sono composizioni pittoriche, certo, ma anche rebus, da leggere secondo il valore raffigurativo e la relazione simbolica. Un pensiero del sogno può essere espresso o inespresso, manifestato da molti segni; oppure un solo segno può essere “sovradeterminato” da molti significati. Anche le parole scritte vengono trattate come immagini: come nel sogno dove Fellini si rappresenta come “Unhappy” ed esita tra il senso inglese di “infelice” o “un” (italiano) “happy” (inglese): “uno felice”. Il sogno è il regno dei logogrammi: giochi di parole rese visibili. I segnacci di Fellini dunque sono ideogrammi colorati che traducono la lingua segreta dei pensieri del sogno. Immagini, diagrammi (cfr. I Ching 1997), fumetti e caratteri grafici di molte taglie e dimensioni che manifestano un significato onirico latente di per sé astratto e incolore. Due versioni in lingue diverse di cui è arduo scoprire i caratteri e le regole di sintassi: sono i modi di “raffigurabilità” che Fellini dava al suo sognare. Questa espressione pittorica e concreta è dotata d’una autonomia di identificazioni e di contrasti che riorganizza il materiale onirico, così come, nella poesia, la costrizione espressiva della rima e della prosodia ridistribuiscono con nuove emergenze il significato e il desiderio. È quanto accade a Fellini nella ricostruzione dei propri ricordi, i quali stanno tra loro “nello stesso rapporto di quei palazzi barocchi di Roma rispetto alle antiche rovine: pietre e colonne sono servite come materiale per le costruzioni moderne” (Freud 1973). Le visioni del sogno infatti non sono immagini-memoria: nel loro sovrapporsi – segni di segni, segni su segni – non c’è profondità. Nella loro compresenza costituiscono una loro segreta “internità” – diceva Deleuze – per opporla alla interiorità e all’eternità. Pur riferite al passato, sono serie di attimi senza padrone: in attesa di regia, danno tempo al tempo.
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Segnacci di sogno 111
Nella successione orizzontale della lettura, sciolti da ogni implicazione narrativa, i segni e i disegni sfilano e si susseguono come ritornelli semantici e visivi. 2.1 Con qualche eccezione, l’unità di raffigurazione del Librone felliniano è la pagina: il regista le dà la forma del manifesto cinematografico a cui ha prestato sempre molta attenzione compositiva (v. la nota lettera a Arnold Gehlen per l’affiche di Amarcord). Il manifesto infatti è una metonimia del modo “alveolare” della costruzione filmica felliniana: gabbie, nicchie, finestre, ritratti, fotogrammi, scritte – titoli e nomi – su scale e colori diversi. Tutti compresenti sulla stessa superficie, anticipando l’effetto cercato da Fellini nei suoi appunti di regia: “Finire con parti via via più monche, lacerate, frammenti […] per una magmatica liberazione di immagini” (Fabbri 2006, p. 96). Aprire e sfogliare il Libro dei sogni, come è stato intitolato il Librone, introduce al genere della Fantasmagoria, termine calcato su “allegoria”: dove “fanta” è “fantasia” e “fantasma” e “agorein” è “dire” e “parlare”. Una Parola pubblica quindi che conserva un sapore contraddittorio e di mistero, per esprimere una modalità peculiare del fantastico felliniano, tra il teatro del varietà, il gabinetto delle meraviglie e la privata esposizione universale. Il “vedere in maniera fantastica i paesaggi del mondo magico […] non un mondo conosciuto fuori di te, ma come un mondo dentro di te” (Fellini 1980, p. 91). I luoghi del sognare sono tropi, figure di sostituzione in una scena di metamorfosi. Nei sogni di Fellini tutto diviene impercettibile, diventa altro: animale o persona. Come “l’apparizione di una donna che camminava in un mattino luminoso per via Veneto, infilata in un vestito che la faceva somigliare ad un ortaggio” (Fellini 1980, p. 57), prima fonte d’ispirazione per la Dolce Vita. O il diventare cavallo di un internato nel manicomio delle Libere donne di Magliano di Tobino (Fellini 1980, p. 91). O il suo proprio sentimento di diventare un pioppo (Maraini 1994, p. 29). Il sognatore stesso può apparire di spalle come qualcuno che non finisce mai di guardare – non di guardarci! – in diversi momenti della sua vita – calvo o con una pettinatura a forma di cuore – oppure come la “canocchia” del suo soprannome di adolescente, nato in riva all’Adriatico (Fellini 2007, Sogno del 18-6-67).
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La strada di Fellini
2.2 il faudrait tout en se réveillant continuer à veiller sur les rêves. (Derrida 2003)
Molto, quasi tutto resta da fare a chi vorrà entrare ed orientarsi in questo labirinto grafico pieno di senso e difficile nel significato. Fellini, anche se ritrascrive e titola alcuni sogni (Fellini 2007, Il segno del Tao del 2712-60, e Fellini 1980, pp. 67-68) e ne azzarda sovente l’interpretazione, non ci sarà di aiuto. Ha sempre mantenuto il segreto su “la trasparenza enigmatica, la chiarezza indecifrabile” di quello che anche per lui è un mistero (Fabbri 2006). Azzardiamo soltanto qualche osservazione e progetto sulle figure dei Letterati e il senso dei Colori. I Letterati Con la necessaria precauzione ho analizzato alcuni sogni dove troviamo come figuranti “letterali” Picasso e Simenon (Fabbri 2001). Ma frequentano i sogni di Fellini: Boccaccio e Tolstoj, Pirandello, Borges e Simenon; nonché Buzzati, Manganelli, Palazzeschi, Parise e Tobino; oltre all’onnipresente Collodi. Per un confronto tra due protagonisti del cinema italiano, collaboratori e rivali, mi propongo per ora di stilare gli ambivalenti sogni in cui figura Pier Paolo Pasolini (Fellini 2007, Sogni del 6-2-1961; del giugno 1968; del 28-3-1975 – vivo Pasolini; del 3 giugno 1977 e del 26 settembre 1977 – dopo la sua morte). Nel primo, del 1961, il sognatore racconta di un “sentimento di tenerissimo affetto”, un rapporto “tra fratellini o forse come marito e moglie” in cui Pasolini esce seminudo dal suo letto di adolescente. Nel terzo sogno, del giugno 77, Fellini si figura tra Pasolini e uno dei suoi amichetti: una disposizione a tre che troveremo anche il settembre 77: “mi trovo in macchina con lui. Pierpaolo è seduto tra me e Titta. Le nostre mani si cercano e si allacciano scherzosamente con tenero affetto”. In una notte luminosa, seguito di spalle da una telecamera, il terzetto avanza chiacchierando, tra le pozzanghere d’una desolata periferia, lavata dalla pioggia e frequentata da enormi topi con ali di pipistrello (il colore blu del disegno sembra indicare Venezia e i suoi piccioni! Venezia, oggetto di molte immagini e progetti felliniani, è una città in cui camminando sentiamo che potremmo essere quello che essa
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Segnacci di sogno 113
sogna). Mentre nel secondo sogno, 1968, “Pasolini ridacchia con uno dei suoi tetri amanti”, ostacolando il suo lavoro di regista, nell’ultimo sogno invece è ”gentile simpatico, pieno di buona volontà”. Si domanda sospirando, “sorridente e malinconico”, come descrivere le mura romane incastonate di pietre antiche e marmi moderni che sfilano come una pellicola dal finestrino. Nel sogno, Pasolini fa una piccola parte in un film di Fellini e canta l’aria “festosa e lieta” del Trovatore: “È la vita anche la morte”. “Ho ancora nell’orecchio – scrive Fellini, al risveglio – quel canto, quelle note, e il senso misterioso eppure chiarissimo di quel verso”. Il sognatore si chiede se dovrà essere la scena finale del film, ma ricorda di dover fare un’ultima inquadratura a Pasolini e si accorda con lui per il giorno seguente. Il rapporto, sentimentale e artistico con Pasolini non è chiuso dalla morte: questa è solo l’interruzione d’un progetto in comune. I Colori “I colori naturali impoveriscono la fantasia” (Fellini 1980, p. 96). Oltre al repertorio delle immagini, che il gioco degli spostamenti e delle condensazioni rende talvolta grottesche e comiche – alcuni sogni hanno la struttura delle gag – nel Librone si trovano indicazioni inesplorate sull’uso “allucinatorio” del colore. Il Fellini notturno infatti sogna quadri e colori che prova a rendere nelle loro strane sfumature tonali. Perché “nel sogno il colore è concetto, sentimento, come nella pittura”. “Chi sogna può vedere un prato rosso, un cavallo verde, un cielo giallo e non sono assurdità. Sono immagini intrise del sentimento che le ispira” (Grazzini 1983, p. 123). Questa “inconsueta chiave cromatica” però, non si traduce alla lettera nel tableau vivant dell’inquadratura. Le esigenze narrative e i cambi di enunciazione della macchina di ripresa provocano un contagio generalizzato: “la luce cambia di intensità, i colori si esaltano o si mortificano, e tutti i valori cromatici non sono più gli stessi”. Per Fellini, “il regista di un film a colori è come uno scrittore che dopo aver scritto ‘la stanza era verde’ va in tipografia e si accorge sulle bozze che la stanza è diventata ‘grigiastra’” (Fellini 1980, p. 95). Solo tenendo conto di questa differenza, il colore può diventare il “mezzo con cui tradurre”, cioè rendere espressivi, la struttura e il sentimento una storia. E raccontare era il solo gioco che, per Fellini, soggetto medium e mediale, valesse la pena di giocare.
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La strada di Fellini
3 Carlo Emilio Gadda pensava che i sogni migliori fossero quelli inventati. In un racconto della Madonna dei filosofi, “Cinema”, dopo una lunga, esilarante descrizione di gremita sala di proiezione: “nella tenebra liberatrice in cui piombammo ad un tratto, ogni urto fu attenuato e il boato delle passioni umane svaniva. I silenti sogni entrarono così nella sala” (Gadda 1963). Per intendere in modo nuovo il rapporto tra reale, possibile e impossibile (Derrida 2003) e per suscitare, ripetiamolo con Fellini, altri sogni!
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La strada di Fellini a cura di Gino Frezza e Ivan Pintor
materiali visivi e audiovisivi per la lettura progetto grafico e multimediale di Stefano Perna
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Fellini, disegnatore e cineasta di Gino Frezza www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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Felllini, disegnatore e cineasta di Gino Frezza
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riferimento pagina:
Costellazione grafico-dinamica del cinema-disegno felliniano
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[...] Che i disegni di Fellini siano, nel tempo, capaci di esprimere una ricerca autonoma del segno grafico da parte del nostro autore, attento a molte derivazioni culturali della grafica novecentesca, è un fatto ricostruibile non solo dalla sua biografia giovanile ma anche dalle attenzioni che il regista riminese ha dedicato ad autori chiave dell’illustrazione del secolo scorso; per esempio a Saul Steinberg, del quale possono essere rintracciate alcune definite rievocazioni in vari schizzi e disegni del nostro regista [...]
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Felllini, disegnatore e cineasta di Gino Frezza
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[...] Fra questi, il disegno n. 18 riprende alcune tipiche ombreggiature di Steinberg, come quelle che il lettore italiano ha potuto conoscere in Steinberg 1973 e 1976. In particolare, il disegno di una donna tipica dell’immaginario felliniano (dal seno grande) che esplicitamente contiene il titolo del film La città delle donne, rievoca varie immagini di Steinberg dove il segno del balloon contiene la scrittura delle lettere alfabetiche (cfr. il disegno n. 21). Anche Fellini, come Steinberg, mostra in tal modo il “corpo” specifico della parola, il suo peso, la dimensione e la monumentalità o la pervasività talora minacciosa, perentoria, o viceversa timida, debolmente accennata, che il suono della parola spesso possiede e che la scrittura restituisce servendosi dei propri tratti figurativi (corpo, stile, dimensione della lettera ecc.). [...] www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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[...] Possiamo constatare la funzione e il senso mnemonico o di comando del processo creativo filmico in Fellini da alcuni casi: il primo disegno (cfr. il disegno n. 1) rimanda a Le tentazioni del dr. Antonio, film del 1962, dove Fellini condensa in una sola immagine il rapporto ossessivo che il personaggio interpretato da Peppino De Filippo vive nei confronti dell’immagine dell’Anitona pubblicitaria che giganteggia su di lui, lo deride e lo irretisce sul piano di quel desiderio che il Dr. Antonio moralisticamente rimuove da sé. [...]
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[...] Altri disegni riguardano la produzione e la regia di Amarcord, del 1973: il gruppo dei ragazzi che frequentano la scuola e sono amici del protagonista, per i quali il disegno di Fellini definisce esattamente l’abbigliamento (berretti, mantelle, calzoni alla zuava), poi precisamente ripreso dalla sequenza corrispettiva di ingresso nell’atrio della scuola [...] www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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[...] o ancora e soprattutto la caratterizzazione visiva e corporea dei professori (specialmente il professore di scienze e la spiegazione del pendolo, il professore di religione occhialuto e dal ciuffo rialzato a mezza testa, la professoressa di matematica e il suo sguardo, che Fel lini nel disegno cerchia con una linea più corposa, per dare cenno evidente del suo (per quanto interdetto, tuttavia chiaro) potenziale aggressivo-erotico [...]
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[...] Altresì Fellini ridisegna il personaggio dello “sposino” di Wanda, Ivan, e lo riporta nelle fattezze di quello straordinario interprete che fu Leopoldo Trieste (cfr. disegno n. 11) [...]
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[...] certi disegni che rinviano a Lo sceicco Bianco del 1952. Fellini tratteggia la corposità e il profilo dello Sceicco, l’abbigliamento che corrisponderà a quello del film, ma è evidente dall’immagine schizzata (cfr. disegno n. 10) che egli ancora non ha pensato ad Alberto Sordi, eppure già segnala la corposità pingue del personaggio, ambigua e non attraente, mentre nel film, con l’interpretazione di Sordi, il personaggio acquista un che di favolistico e immaginario che alimenta il desiderio del personaggio di Wanda, sua incondizionata ammiratrice finché non le apparirà chiara la piccola statura e l’amara verità del suo “divo” [...]
[...] Per Le notti di Cabiria del 1954, Fellini prevede in un altro disegno il personaggio di Alberto Lazzari (nel film ha il volto e la fisionomia di Amedeo Nazzari), il divo che, nella Roma notturna dei primi anni Cinquanta, incontra la lunare e simpatica protagonista del film, portandosela a casa. Il divo, nel disegno, è già ben reso da Fellini nel suo abbigliamento ricercato ma disinvolto, o in atteggiamenti rilassati, o momenti privati (collo di camicia slacciata sul collo, vestaglia a pois, che nel film invece risulterà essere a quadretti – cfr. i disegni n. 8 e n. 9) [...] 8
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[...] Un particolare disegno di Cabiria schizza in modo inequivoco la figura, sottolineando gli elementi di abbigliamento: “bolerino di piume di pollo (leggerissimo), stivaletti di gomma” (cfr. disegno n. 13)... Fellini fissa, così, in una posa frontale, quel movimento nel quale già aveva reso dinamicamente il personaggio [...] [...] cfr. la sequenza di Le notti di Cabiria, dove al termine della camminata durante la quale Cabiria s’infila fra le due signore e ne scruta smaliziata le figure, la stessa Cabiria, per un istante quasi inavvertito, sembra “guardare in macchina”, per poi rapidamente distogliere lo sguardo [...] www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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[...] Dello stesso livello, va segnalato un altro disegno che rifà in un solo quadro la sequenza forse più celebre di Lo Sceicco Bianco: in alto, verso il margine superiore destro, la figura dello Sceicco sull’altalena, spicca con tratti che, stavolta, richiamano Alberto Sordi, mentre di spalle e in basso, come alla stessa distanza d’ammirazione della nota sequenza, la figura di Wanda esclama: “ooooh... lo sceicco bianco!!!” (cfr. disegno n. 14). Null’altro, insomma (ma è davvero tantissimo) che la capacità di Fellini di raggrumare in un solo disegno il punto emozionale più forte di un racconto centrato sulla relazione fra lo sguardo innocente di Wanda (nel disegno tale sguardo è celato al lettore, per la posizione di spalle) e l’immagine dello Sceicco che ne proietta i desideri covati, talora inconfessati [...] www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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[...] Le tentazioni del Dr. Antonio: nel disegno con pennarello nero e a colore rosso e blu (cfr. disegno n. 15), Fellini opera di nuovo una sintesi mirabile del racconto filmico del 1962. Il dr. Antonio è ridotto a un solo quarto di figura (il volto con cappello, baffi e occhiali) inserito e cullato dentro i grandi seni di una Anitona corpulenta e procace, oltre che sorridente; l’espressione dei due personaggi restituisce la differenza della loro diversa sensibilità: Anitona soddisfatta di aver colto la preda e di tenerla in grembo, il dr. Antonio sopraffatto forse suo malgrado, e tuttavia – come nel film – forse segretamente contento di occupare quella posizione [...]
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[...] Il secondo disegno si riferisce ad Amarcord, e in particolare alla figura e al carattere dello zio matto, nel film interpretato magistralmente da Ciccio Ingrassia (cfr. disegno n. 16). L’albero sul quale, nel film, si rifugia lo zio matto e dal quale grida un incontenibile “Voglio una donnaaaaa!”, è reso con tratti incisivi e reticolari, e lo zio matto quasi vi si adagia o si appoggia, spilungone dai piedi scalzi. Anche in questo caso, lo schizzo è molto più di una sintesi, celebrando l’acuto e insostenibile bisogno che, nel film, la famiglia di Titta non riesce a governare e che si esprime nella normalità impedita allo zio matto (che vive in un manicomio), il quale ne soffre non solo individualmente. Il suo, infatti, resta un “sentire” che definisce il “ritratto di costume” di un’epoca [...]
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[...] L’esempio lampante è il fumetto ricavato, alla fine degli anni Ottanta, da una sceneggiatura (Il viaggio di G. Mastorna) scritta da Fellini anni prima per un film messo da parte e poi, finalmente, consegnata ai disegni di Milo Manara (cfr. i disegni n. 22-27). Di quest’opera, Fellini esegue il layout con diverse tavole abbozzate, da lui fornite a Manara, il quale ne rispetta l’impostazione di fondo ma, nel contempo, sovrappone il proprio segno grafico a quello del regista riminese [...] www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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[...] Altresì, in un altro schizzo di layout (cfr. disegno n. 25) del regista riminese, si riconosce visibilmente la figura di una danzatrice con seni e fianchi procaci che, ulteriormente, conferma l’espanso e corposamente abbondante universo eroticofemminile di Fellini, mentre il layout di Manara e la tavola finale vi sovrappongono la figura più snella ed elegante, tuttavia eroticamente maliziosa, di una delle ben note “donnine” create dall’immaginazione visiva del fumettista (cfr. disegni n. 26-27) [...] www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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Stasi e movimento: il sublime inganno e il gioco tragico
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[...] Fellini fa del bilico fra fumetti e film un’arma espressiva di grande fascino e di riflesso “critico”, seppure tenue o sedimentato, in sofisticate “chiavi” di lettura, nel corso di varie sequenze del suo cinema. [...] Basti riandare ad alcune sequenze, qualcuna breve, altre più lunghe e corpose, di vari suoi film. Per esempio, in Cabiria, poco prima che la simpatica e lunatica protagonista incontri il suo “divo”, Alberto Lazzari (Amedeo Nazzari), il nostro regista la inquadra agli spettatori su un marciapiede mentre, ascoltando una musica sincopata che proviene da un night, si mette a ballare da sola; ella si ferma sorpresa, e l’azione del ballo solitario si blocca in un surplace evidente . quando si accorge di essere osservata da un portiere che, infatti, l’apostrofa intimandole di smettere. Qui, Fellini “muove” e pare voler far transitare Cabiria appunto dallo schermo al disegno: dallo stato danzante, subito dopo la blocca in una posa da disegno [...]
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[...] una sequenza resta definitiva nel dimostrare come Fellini abbia sempre tentata la carta di una via duplice e multipla nella produzione di immagini, estremamente significative, fra fissità e movimento. Si tratta della sequenza di Lo sceicco bianco durante la quale, finalmente, la troupe che si è recata sulle spiagge di Fiumicino “gira” le inquadrature fisse del fotoromanzo nel cui set Wanda (Brunella Bovo) si è introdotta, inseguendo, vanamente, il suo sogno immaginario. [...] Qui Fellini eleva a ritmo di giostra (con la cadenza tipica di una marcia sincopata di Nino Rota) proprio il percorso in cui il movimento del cinema ridiventa fotografia, ossia la strada che, attraverso quest’ultima, accomuna in un uguale anelito creativo i due media ai quali egli è profondamente legato: cinema e fumetto [...]
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Ricordi, sogni, pensieri: il sogno nelle immagini di Fellini di Ivan Pintor www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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ricordi
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[...] Se, d’accordo con le parole di Vincenzo Mollica, Il viaggio di Giuseppe Mastorna è la pellicola non filmata più celebre della storia, essa è anche quella in cui il cinema di Fellini mostra per la prima volta l’intuizione di un aldilà le cui tracce non costituiscono un richiamo al chiarimento, ma un invito al mistero. [...]
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[...] Seguendo i suoi stessi story-boards prima, e, più tardi, le tavole disegnate da Milo Manara per il fumetto nel quale la narrazione prese forma nel 1992 (Manara 2006), si racconta la storia di Giuseppe Mastorna, conosciuto anche come Fernet, un pagliaccio il cui numero più famoso è l’interpretazione di un pezzo al violino [...] www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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[...] Dopo un lungo giro e sulla verticale di una 24 capitale centroeuropea, l’aereo a bordo del quale viaggia Mastorna è costretto ad operare un atterraggio d’emergenza in mezzo a una tempesta. Di fronte a una imponente cattedrale gotica – quella di Colonia –, su un letto di neve che anticipa quello di Amarcord (1973) e con la vista accecata dall’avanzare della notte, Mastorna viene evacuato e guidato da una hostess che lo fa accomodare su una slitta e lo conduce fino a un grande albergo in mezzo al bosco, dove ha l’occasione di assistere a uno spettacolo di danza nel quale è possibile leggere un riepilogo delle varie feste de La dolce vita. [...]
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[...] Serpeggiando, dondolando le anche e il ventre, con un rivolo di sudore a causa dello sforzo, la danza raggiunge il suo apice quando Nity cade a terra fra le lacrime degli astanti e, senz’altre spiegazioni, inizia a partorire nonostante non fosse incinta. Mentre gli invitati prendono in braccio il bambino, Fernet attraversa un cor-
ridoio alla luce di una candela che evoca uno dei sogni raccontati da Jung in Ricordi, sogni, riflessioni e ne Il libro rosso (Jung 2010), nel quale lo psichiatra protegge una candela in piena notte, inseguito dalla propria ombra. Fernet riesce a svignarsela dalla festa e a raggiungere la sua stanza, dove decide di provare prima di www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
coricarsi. Quando torna l’elettricità, si accende anche la televisione, alla quale una presentatrice annuncia in tedesco un disastro aereo in mezzo alle montagne nel quale non è sopravvissuto nessuno. Però Mastorna, che non capisce il tedesco, continua a provare, senza venire a sapere della propria morte.[...]
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[...] Viaggio a Tulum è l’inverso e la continuazione di Il viaggio di Giuseppe Mastorna, la conversione delle immagini pre-esistenti del cineasta in archetipi, in forme inconsce e mutevoli davanti alle quali sfilano i personaggi, in un movimento ugualmente verticale di discesa e ascesa da un punto zero dal quale ricominciare il viaggio [...]
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[...] Persi, come Dante insieme a un Virgilio senza bussola alcuna, una giovane giornalista e Vincenzo Mollica si addentrano in Cinecittà in cerca di Fellini [...] www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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[...] ma mentre si districano in uno spazio e un tempo di cui sfuma la continuità, assistono a una striscia di vignette giustapposte [...]
[...] Prima di trovare il cineasta sul bordo di un lago, confrontano le immagini che costellano la sua psiche, che in conclusione sono il suo oscuro abitatore [...]
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[...] Se la radice latina imago non solo designa l’immagine, ma anche gli insetti che hanno completato la metamorfosi, queste farfalle di cui parla Fellini, ciò che domina il dialogo animato/ inanimato in tutto il suo cinema è l’idea che in ogni immagine statica sopravvivono i suoi stadi precedenti, le sue sopravvivenze. L’incontro con Fellini in Viaggio a Tulum, appisolato vicino a un laghetto dal quale spunta la testa di Venezia de Il Casanova (1976), si presenta così come la soglia di una discesa verso le immagini primordiali del suo universo onirico, il momento in cui la farfalla inizia a sbattere le ali [...] www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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pensieri
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[...] Così, la prima pagina del 1° marzo del 1959 de La Domenica del corriere, con un elicottero che atterra a San Pietro in Vaticano, ispira il Cristo del prologo de La dolce vita [...] www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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[...] Diversi naufragi in quella stessa pubblicazione illuminano il passaggio della grande nave di Amarcord e confluiscono nella prima pagina del 27 aprile 1958 in cui, in mezzo a un mare in tempesta, due giovani pittori si avvicinano al transatlantico Costituzione per portare all’imperatrice Soraya un ritratto. L’immagine centrale di E la nave va, con la bobina da 16 mm della diva che si proietta mentre il vascello affonda sembra venir fuori proprio da quella tavola.[...]
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[...] E la discesa sullo scivolo de La città delle donne coniuga un viatico dantesco con la caduta iniziale del fumetto Superbone al castello incantato, pubblicata ne Il Monello nel novembre del 1933. [...] www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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[...] è la vignetta di un pranzo familiare sul Corriere dei Piccoli del 9 novembre 1913 che determina l’inquadratura e la logica compositiva del ritorno di Titta alla tavola familiare in Amarcord [...]
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[...] La lista di corrispondenze risulta interminabile, oltre a serie di fumetti come Mandrake (dal 1934), di Lee Falk e Phil Davis, che sempre svelò il desiderio di Fellini di realizzare un adattamento, fino all’estremo di dedicargli un fotoromanzo e rendergli un affettuoso omaggio in Intervista [...]
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[...] Tuttavia è in Amarcord che esibisce una delle sue proposte più rigorose. Una piccola conversazione fra Gradisca e il proprietario del cinema riproduce l’inquadratura e i costumi del fumetto Natale s’avvicina! pubblicato in un Corriere dei Piccoli del 1929 [...] www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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[...] Gli avvertimenti allo spettatore del narratore di Amarcord, infine, si dispiegano come un omaggio agli sguardi complici di Yellow Kid di Richard Felton Outcalt in Hogan’s Alley (del 1895), serie dalla quale il protagonista si rese indipendente nel celebre spin-off, cioè Yellow Kid. [...] www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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[...] Un altro dei pionieri delle strisce e pagine domenicali della stampa, George MacManus, appare evocato in La dolce vita, dove tutte le scene col padre, in particolare quelle che riguardano il cabaret, sono pianificate punto per punto a partire da alcune avventure della sua serie Bringing Up Father (in Italia Arcibaldo e Petronilla dal 1913). [...]
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[...] È, in ogni caso, la serie Little Nemo in Slumberland (1905-1914), di Winsor McCay, quella che influenza di più il cinema di Fellini [...] www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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[...] il gigantismo, la gulliverizzazione, animali onirici come l’elefante e il pavone, la Venezia scenografica che darà luogo a Il Casanova, le architetture pallide del Grand Hotel [...] www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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[...] e il volto gigante di Mussolini in Amarcord e, soprattutto, l’immagine del volo leggero sono distillati del sogno leggiadro di Little Nemo [...] www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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il cammino dell’alchimia Ricordi, sogni, pensieri: il sogno nelle immagini di Fellini di Ivan Pintor
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[...] Nell’apertura senza titolo di 8½, Guido Anselmi,in silenzio scivola, ascende e, come si è detto, è restituito alla terra, quando dei personaggi lo tirano giù dalla spiaggia e si sveglia [...]
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[...] Come epilogo di tutte le donne di Guido, ha un ruolo fondamentale la figura della ninfa, incarnata nella sagoma di Claudia Cardinale, quando, in una delle prime visioni di 8½, la banda sonora si interrompe e compare la ninfa, Claudia Cardinale, che dà da bere a Guido, Fellini mette in evidenza la consapevolezza di affrontare la relazione fra il lettore, lo spettatore e le immagini. “Claudia è l’opera, il fantasma che guida con la sua lampada l’artista attraverso il bosco oscuro della creazione. [...]
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[...] l’incisione presenta un muscoloso titano anziano i cui capelli e le cui mani si fondono con le volute del vento. In fondo, un castello in rovina e due torri accanto a un lago [...]
[...] L’“Emblema II dei segreti della natura. La terra è la sua nutrice” mostra ora un infante appena nato allattato da una figura allegorica del pianeta Terra, insieme ad altri tre bambini alimentati da una capra e da una lupa [...]
[...] nell’ “Emblema III dei segreti della natura” è possibile osservare come una donna riscalda grandi catini di acqua per lavare i vestiti e il corpo [...]
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[...] Con Carla (Sandra Milo), la sua amante, Guido si comporta in maniera simile all’Emblema V, nel quale il personaggio pone un rospo sul seno di una donna. La allontana dalle terme. La ignora anche in piena crisi [...]
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[...] L’incisione che la accompagna mostra una bella donna che avanza in piena notte, avvolta da un drappeggio simile a quello della dama che Warburg chiamava la ninfa del Ghirlandaio nella tela La nascita di San Giovanni Battista. La giovane va lasciando impronte sulle quali a sua volta cammina l’uomo, illuminato da una candela, la stessa forse di cui si avvale Claudia dopo la fuga dalla sala di proiezione insieme a Guido [...]
[...]Una panoramica ascendente mostra allora Claudia vestita di bianco, come nella prima apparizione, davanti alla fonte. Porta la candela e quando riappare, in mezzo alla strada, completamente silenziosa, c’è un tavolo coperto da una tovaglia, appena prima che Guido scenda dall’auto, si sieda su uno scalino e continui il suo dialogo con la ragazza, ora vestita in abito da sera [...]
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[...] C’è, in questo senso, un segreto vincolo fra l’arenile delle immagini finali di 8 ½ e il finale de La dolce vita, poiché in questo, oltre alla ricomparsa di Marcello/Guido reinventato, Fellini prende come riferimento una delle opere fondamentali della narrativa sequenziale, la serie di Botticelli ispirata alla storia di Nastagio degli Onesti dal Decameron di Boccaccio [...] www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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[...] La sequenza ha, inoltre, la sua replica in una bella vignetta di Milo Manara nella serie HP e Giuseppe Bergman (Manara 1982), che riconosce la capacità di Botticelli di ripetere gli stessi intervalli che apre fra le tavole anche al loro interno. [...] www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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[...] L’integrazione della realtà scissa di Guido, il suo distillato alchemico, l’equilibrio fra la vignetta e i fantasmata del movimento si costellano intorno a quella ninfa, Claudia, che apre, con i sogni e le visioni che la accompagnano, una via maestra all’inconscio del personaggio e creatore, al suo oscuro abitatore. [...]
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