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Italian Pages 300 Year 2006
DEMOCRAZIA La religione americana
di DIO
nell’era dell’impero e del terrore
CE)Editori Laterza
Gli Stati Uniti sono il più religioso e il più nazionalista fra i paesi industrializzati dell'Occidente. La religione americana considera la democrazia e il destino del proprio paese una manifestazione della divina provvidenza. Per questo l'attacco terrorista dell’11 settembre ha coinvolto l'atteggiamento degli americani verso Dio, la visione del bene e del male, il senso della missione nazionale. E ha provocato un'esplosione di religiosità e di patriottismo, fusi nella santificazione dell'America come nazione eletta. Con un'analisi originale, Gentile mostra come Bush ha rielaborato i miti della religione americana, identificandoli con l’integralismo della destra religiosa, per giustificare la guerra contro l’asse del male”.
Chi è con Bush, è con l'America; chi è con l'America, è con Dio: una nuova, inquietante esperienza di sacralizzazione della politica. Un libro coinvolgente, indispensabile per capire la ‘democrazia di Dio’ al culmine della sua potenza imperiale.
i Robinson / Letture
Di Emilio Gentile nelle nostre edizioni:
Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista Fascismo. Storia e interpretazione
Il fascismo in tre capitoli La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo Il mito dello Stato nuovo. Dal radicalismo nazionale al fascismo
Le origini dell'ideologia fascista. 1918-1925 Le origini dell’Italia contemporanea. L'età giolittiana Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi Renzo De Felice. Lo storico e il personaggio
Storia del partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia
A cura di Emilio Gentile nelle nostre edizioni:
L'Italia giolittiana. La storia e la critica
Emilio Gentile
La democrazia di Dio La religione americana nell’era dell’impero e del terrore
zioni Laterza
© 2006, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2006
© 2006, Emilio Gentile per la lingua inglese
Ricerca iconografica di Manuela Fugenzi Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari
Finito di stampare nel luglio 2006 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 88-420-8051-9
Introduzione
Questo libro studia le conseguenze che l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 ha avuto sulla religione americana, una religione civile fondata sulla credenza che gli Stati Uniti sono una nazione benedetta da Dio, sorta per un disegno della provvidenza, con la missione di difendere e diffondere nel mondo la «democrazia di Dio». Con questa espressione intendo definire la concezione americana della democrazia, che
ha una matrice religiosa e costantemente si ispira alla religione, sostenendo che la libertà è un dono di Dio. Dall’epoca del primo presidente George Washington, tutti i presidenti degli Stati Uniti hanno concluso i loro discorsi inaugurali invocando la benedizione di Dio sull’ America, e nessun presidente ha omesso di citare almeno una volta la fede nell’Onnipotente, nell’origine divina della democrazia americana, nella missione provvidenziale degli Stati Uniti. Il presidente americano non è solo il capo politico della nazione, ma è anche il pontefice della sua religione civile. Per comprendere la politica americana è utile studiare la religione americana, e ciò specialmente dopo l’11 settembre, anche se il compito non è facile per un osservatore europeo, il quale deve far fronte a varie situazioni, derivanti in gran parte dalla simbiosi fra religione e politica, che possono apparire paradossali. Gli Stati Uniti sono un paese di paradossi. Forse il più paradossale dei paradossi americani è l’alto grado di fervore religioso, che distingue il popolo della repubblica stellata da
altri popoli dei paesi più industrializzati e modernizzati nel mondo contemporaneo, mentre nei loro confronti gli ameri-
cani vantano il primato di aver sancito e rispettato il principio laico della separazione fra lo Stato e la Chiesa. Dopo il 2000, tuttavia, molti americani, sia laici che religiosi, temono
che il «muro di separazione» fra lo Stato e la Chiesa, secondo la metafora di Thomas Jefferson, possa essere gravemente lesionato dagli attacchi di una destra religiosa, che ha trovato nel presidente George W. Bush, eletto nel 2000 e rieletto nel 2004, un capo politico deciso a infondere nella società,
nella cultura, nelle istituzioni e nella politica interna ed estera degli Stati Uniti, i valori di una visione religiosa tradizionalista, conservatrice e integralista. In realtà, come risulterà
evidente da questo libro, il «muro di separazione» fra Stato e Chiesa non ha mai separato la religione e la politica, che negli Stati Uniti hanno sempre vissuto in simbiosi, con il pieno consenso della maggioranza della popolazione. La quasi totalità degli americani si professa cristiana, ma gli Stati Uniti, divenuti nel Ventesimo secolo la più grande potenza imperiale della storia umana, la più ricca economicamente e la più forte militarmente, non rappresentano la realizzazione delle Beatitudini predicate da Gesù nel Discorso della Montagna. Inoltre, fino al 1960, nessun candidato cattolico aveva la pos-
sibilità di essere eletto presidente. Fino al 2000, nessun ebreo era stato proposto come candidato alla vicepresidenza. Tutti i presidenti americani eletti finora hanno professato una fede in Dio, e appare impossibile, ai giorni nostri, e prevedibilmente lo sarà ancora per molto tempo, l’elezione di un ateo alla presidenza degli Stati Uniti. La maggioranza degli americani sarebbe oggi disposta ad eleggere alla massima carica dello Stato un cattolico, un ebreo, una donna, e forse anche
un nero o un omosessuale: ma rifiuterebbe assolutamente di votare per chi si professasse ateo, anche se la maggior parte degli americani è convinta che per essere un buon americano o una persona moralmente a posto non è necessario credere
in Dio. Anche questo è un paradosso americano. A questi paradossi si è aggiunta la tragedia dell’11 settembre. La nazione vincitrice di due guerre mondiali e della GuerVI
ra fredda, nel momento stesso in cui è divenuta l’unica e in-
contrastata superpotenza del pianeta, è aggredita, terrorizzata e umiliata, nel cuore del suo territorio, da diciannove gio-
vani fanatici musulmani, i quali, armati di taglierini, sequestrano quattro aerei americani, e, invocando il nome di Dio,
si scagliano in un attacco suicida contro il massimo simbolo della possanza militare degli Stati Uniti, il Pentagono, e contro le torri gemelle del World Trade Center, emblemi universali della civiltà americana. C'è chi sospetta oggi che tutto quello che è accaduto l'11 settembre in America sia il frutto di un complotto ordito ai vertici dell’amministrazione Bush. Questo libro non si occupa della storia dell’11 settembre né di complotti, ma del modo in cui gli americani credenti in Dio hanno reagito all’attacco terroristico. All’alba del Ventunesimo secolo, la nazione americana si è trovata a vivere improvvisamente e simultaneamente nel-
l’era dell’impero e del terrore, scoprendo di essere vulnerabile, pur essendo protetta da due oceani e da un apparato militare, il più possente nella storia dell’umanità, che non ha rivali nel mondo. Ma l’attacco terroristico dell’11 settembre non ha prodotto soltanto un profondo trauma psicologico e uno sconvolgimento politico: ha coinvolto anche la coscienza religiosa degli americani, cioè il loro atteggiamento verso Dio, il significato e il fine dell’esistenza, la visione del bene e del male. Milioni di americani sgomenti affollarono le chiese, le sinagoghe, le moschee, i templi, cercando di alleviare con la preghiera il dolore e la paura. Molti si domandarono se Dio aveva abbandonato l'America. Alcuni predicatori fondamentalisti sentenziarono che l’attacco terroristico era un segno, che Dio aveva tolto al popolo americano la sua protezione per punirlo dei suoi peccati. Invece, il presidente degli Stati Uniti dichiarò che l’America era una nazione buona, aggredita da uomini malvagi, che volevano distruggere la democrazia di Dio per instaurare l’impero del male. Bush dichiarò la «guerra alterrore» per liberare il mondo dal male, invocando la benedizione di Dio sul popolo america-
no, chiamato ancora una volta a combattere, come era av-
venuto nel secolo precedente, per la salvezza dell’umanità. I terroristi vogliono distruggere l’America in nome di Dio, il presidente americano ha iniziato la guerra contro l’«asse del male» sostenendo che Dio è dalla parte dell’ America, e la nazione americana combatte il terrorismo per assecondare i disegni della provvidenza. Anche questa è una situazione paradossale. La fusione tra religione e nazionalismo è una delle caratteristiche peculiari della democrazia di Dio. La tragedia dell'11 settembre ha prodotto un’inaspettata effervescenza di sentimento religioso e di sentimento patriottico, in un momento in cui molti intellettuali americani, di destra e di sinistra, lamentavano la crisi morale della nazione e temevano
per la sua unità. Da oltre un decennio la religione civile negli Stati Uniti sembrava ridotta ad un rituale senza fervore; dopol’11 settembre c’è stato un suo improvviso risveglio e principale protagonista ne è stato il presidente Bush, uno dei più religiosi fra i presidenti americani: come tale egli è protagonista di questo libro. Il tema centrale del libro è il tentativo della presidenza repubblicana e della destra religiosa di trasformare la religione civile americana in una religione politica «all'americana», utilizzando la tragedia dell’11 settembre per arrogarsi il monopolio della definizione del bene e del male e l’esclusiva prerogativa di definire i valori e i principi del «vero americano», promuovendo la rinascita dei miti della religione civile, dal mito del popolo eletto al mito del «destino manifesto» della nazione missionaria, secondo una visione tradizionalista e in-
tegralista della religione e della politica. Si tratta di un’esperienza nuova di sacralizzazione della politica, che ha suscitato critiche e opposizioni di laici e di religiosi, provocando un appassionato dibattito sulla natura, il significato e la funzione della religione civile in una democrazia. Anche i critici e gli oppositori della religione americana, nell'era dell’impero e del terrore, sono i protagonisti di questo libro. VII
Da questo punto di vista, il libro prosegue l’analisi sulle religioni civili e le religioni politiche nell'era contemporanea, svolta nel volume Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, pubblicato da Laterza nel settembre 2001. La coincidenza fra la pubblicazione di Le religioni della politica e la tragedia dell’11 settembre, per quanto accidentale, ha contribuito alla genesi di questo libro, frutto di un’esigenza intellettuale e di un’emozione personale. Da tempo stavo studiando la religione americana, cioè da quando mi accorsi della sua esistenza non attraverso i libri ma per esperienza diretta, durante i primi soggiorni negli Stati Uniti, nel 1974 e nel 1976. Negli anni successivi, durante altri soggiorni per vacanza, studio o insegnamento, la religione americana è stata per me un importante oggetto di osservazione, essendo una delle prime e più durature esperienze di sacralizzazione del-
la politica in una democrazia occidentale. Uno di questi soggiorni terminò la mattina del 10 settembre 2001, dopo la partecipazione ad un convegno sull’opera storica di George L. Mosse, organizzato dal Mosse Program nell’Università del Wisconsin a Madison. Era mia intenzione, alla vigilia del ritorno in Italia, fare una sosta a New York, ma non fu possibile. Il giorno successivo, al rientro in Italia, vidi in televisione l’attacco terroristico e le sue conseguenze. Se mi fossi fermato a New York forse avrei avuto la sorte di essere un testimone, una vittima o un sopravvissuto dell’attacco terroristico. Infatti, per oltre un quarto di secolo, ho avuto l’abitudine di andare sull’Empire State Building la sera dell’arrivo, e la mattina successiva su una delle due torri del World Trade Center, per salutare la città cui sono affezionato perché nel Novecento vi aveva vissuto per oltre cinquant’anni il nonno
materno, emigrante divenuto cittadino americano, figlio di un emigrante italo-americano, che è stato progenitore di fa-
miglie di americani di origine italiana giunte alla terza o alla quarta generazione. Durante l’infanzia, nella mia immaginazione, New York e l'America erano costantemente presenti,
attraverso i ricordi, i pacchi, le lettere, le cartoline illustrate, IX
le foto, le riviste, e, senza esserci mai stato, mi erano più fa-
miliari dell’Italia o di Roma. Di conseguenza, ho sempre provato nei confronti degli Stati Uniti e degli americani un’istintiva simpatia, che si è trasformata con gli anni in esigenza di conoscenza e di comprensione. Questo accenno personale intende avvertire il lettore che il libro non è solo frutto di curiosità intellettuale, ma reca l’im-
pronta di un coinvolgimento emotivo nella tragedia dell’11 settembre. L'emozione ha certamente influito sul modo in cui ho condotto questa indagine, ma mi sono sforzato di impedire alla simpatia di condizionare il tentativo di un'analisi storica, critica e razionale, dei miti della religione americana, nella
loro tradizione e nella loro attualità, per meglio comprendere l’America di oggi e del prossimo futuro. Giudicherà il lettore se tale sforzo ha avuto successo. EG: Scrivere un libro è forse l’unica circostanza in cui è gradevole far debiti ed è gradevole ripagarli, sia pure in modo inadeguato. In queste pagine è vivo il ricordo di Phil Cannistraro, che nel corso
degli anni, e fin quasi alla vigilia della sua prematura scomparsa, con la sua cultura, la sua esperienza e i suoi consigli, mi ha aiutato a studiare la religione americana, aspettando con curiosità il risultato finale, che è stato raggiunto senza il conforto del suo giudizio; resterà invece senza risultato un’immaginaria biografia parallela di Benito Mussolini e Adolf Hitler emigranti a New York, che avevamo iniziato casualmente a scrivere, concedendoci il divertimento di una storia finta, per distaccarci ogni tanto dalla tristezza della storia vera.
Gran debito ho verso Maria Fraddosio e John Tortorice, i quali, senza mai perdere la pazienza e con affettuosa partecipazione, mi hanno dato un aiuto prezioso nella ricerca di libri e articoli, arricchendola con la loro personale curiosità. Dopo aver letto il manoscritto, Stanley Payne, con consenso, e Walter Adamson, con dissenso, mi hanno dato utili suggerimenti per riflettere su giudizi e
interpretazioni che essi non condividevano: di ciò li ringrazio, esonerandoli naturalmente da qualsiasi responsabilità per il contenuto del libro. Ho discusso molto sulla religione civile americana con Mark Silk, e il mio debito nei suoi confronti è cresciuto dopo che ha letto e commentato il manoscritto: devo inoltre alla sua amichevole insistenza se sono riuscito a concludere il libro. A ciò ha contribuito anche Marina Cattaruzza, con l’amicizia, la fiducia e la sen-
sibilità per lo studio delle religioni della politica. Nel corso degli anni, parte delle ricerche per questo volume sono state rese possibili dai finanziamenti 60 per cento del Murst. Il maggior sostegno finanziario mi è stato offerto dall'Università di Berna, con il conferimento dello Hans Sigrist Prize 2003. Un ringraziamento particolare va ai direttori e funzionari delle biblioteche dove ho svolto gran parte delle ricerche: la Memorial Library of the University of Wisconsin, la Wisconsin Historical Society, la New York Public Library, la Biblioteca della Camera dei Deputati, la Biblioteca del Senato della Repubblica, la Biblioteca Alessan-
drina, la biblioteca del Dipartimento di Studi politici nella facoltà di Scienze politiche dell’Università di Roma «La Sapienza». I periodi di studio negli Stati Uniti come First Visiting Scholar del Mosse Program, presso l’Università di Madison (Wisconsin), e come Distinguished Visiting Fellow del Leonard E. Greenberg Center for the Study of Religion in Public Life presso il Trinity College ad Hartford, sono stati i più proficui per lo studio e l’osservazione della religione americana, prima e dopo l’11 settembre: ad entrambe le istituzioni, la mia gratitudine per avermi dato l’opportunità di lavorare in un ambiente propizio alla ricerca.
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Un’alba tranquilla Era iniziata con l’abituale frenesia a New York, in una matti-
na serena, la giornata di martedì 11 settembre 2001. Sulla costa meridionale dell’isola di Manhattan le due torri gemelle del World Trade Center si stagliavano bianche e luminose, in un limpido cielo azzurro, mentre cominciavano ad affluire, nei rispettivi centodieci piani, le schiere delle cinquantamila persone che vi lavoravano quotidianamente. Le torri ospitavano quindici piani commerciali, gli uffici di duecentottantacinque compagnie, nove cappelle e due ristoranti. Circa settantamila persone al giorno visitavano i due edifici, che dal 1973 dominavano nel panorama della città, orgogliosi simboli della potenza economica e commerciale americana. Anche nella capitale degli Stati Uniti, la giornata dell’11 settembre era iniziata col ritmo abituale. Al Pentagono, vasto e imperioso edificio costruito durante la seconda guerra mondiale, come sede del dipartimento della Difesa della più grande potenza militare della storia, inaccessibile come una fortezza, erano già al lavoro i suoi ventitremila impiegati. E lo stesso avveniva alla Casa Bianca, residenza del presidente degli Stati Uniti. Quella mattina, tuttavia, non era previsto il
rapporto quotidiano al presidente da parte del direttore della Cia, l’organizzazione del controspionaggio americano, per informarlo sulle ultime notizie raccolte in tutto il mondo dalla sua rete informativa. George W. Bush, inquilino della Casa Bianca da appena otto mesi, era in Florida a far propaganda per la sua politica scolastica.
Il tempo era bello ovunque, sulla costa orientale degli Stati Uniti. Gli aerei di linea decollavano regolarmente. Alle 7 e 59 partiva da Boston l’American Airlines 11 diretto a Los Angeles; per la stessa destinazione decollava alle 8 e 14 lo United Airlines 175; a Los Angeles era diretto anche l'American Airlines 77, decollato da Washington alle 8 e 20, mentre alle 8 e 42, con mezz'ora di ritardo, si levava in volo da Newark
per San Francisco lo United Airlines 93. Fra i passeggeri a bordo dei quattro aerei vi erano diciannove giovani arabi non americani. Erano negli Stati Uniti con un visto temporaneo. Sul volo AA11, in business class, viaggiava Mohammed Atta,
un ingegnere egiziano di trentanove anni, che si era laureato al Cairo e aveva perfezionato i suoi studi ad Amburgo. Atta era da oltre un anno negli Stati Uniti, dove aveva frequentato una scuola di pilotaggio aereo in Florida. Su ciascuno degli altri voli vi era un giovane arabo che aveva imparato a pilotare un aereo commerciale in una scuola americana. Per tutti era previsto un viaggio tranquillo, la mattina dell’11 settembre nel primo anno del terzo millennio. Il Ventunesimo secolo era iniziato come un «secolo americano»: gli Stati Uniti erano l’incontrastata superpotenza planetaria dopo il disfacimento dell’impero sovietico e la fine dell’Urss, decretata dagli stessi suoi dirigenti nel dicembre 1991. «Gli Stati Uniti — scriveva ‘The Economist’ il 23 ottobre 1999 — sovrastano il mondo come un colosso. Dominano negli affari, nel commercio, nelle comunicazioni. Hanno l’economia più forte del mondo e la loro forza militare non ha rivali»!. Oggi, affermava il ministro degli Esteri francese Hubert Védrine alla fine del 1999, «la supremazia degli Stati Uniti abbraccia il settore economico, finanziario e militare, lo sti-
le di vita, la lingua e i prodotti di massa, che sommergono il mondo, condizionando così il pensiero e affascinando persino i nemici»?.
All’inizio del terzo millennio, gli Stati Uniti erano un impero, il più grande che la storia abbia mai conosciuto: una «iperpotenza» che attraeva e impauriva, presente ovunque
nel mondo con la sua bandiera, i suoi soldati, la sua economia e la sua cultura, l’«American way of life», dinamica e seducente, sofisticata e popolare, emulata e odiata, che eserci-
tava il suo magnetismo su ogni popolo e in ogni continente, capace di insinuarsi in ogni cultura e società, per trasformarle con l'impronta del suo stile di vita. Anche chi odiava l'America ne subiva il fascino e la imitava per combatterla?.
L'impero della democrazia L’idea di impero è associata generalmente alla conquista di territori e di popoli da parte di una singola potenza, che li assoggetta e li sfrutta. L'America si considera una nazione democratica, fondata sul principio della libertà, dell’eguaglianza e della felicità come diritti inalienabili degli esseri umani, donati dal Creatore a tutti fin dalla nascita. Per questo, gli americani rifiutano di definire il loro paese un impero e respingono con sdegno l’accusa di essere imperialisti, cioè di essere un popolo che conquista, assoggetta e sfrutta altri popoli. Alla fine del Diciannovesimo secolo, nell’era dell’imperiali-
smo europeo, gli Stati Uniti imitarono le potenze coloniali del Vecchio Continente e conquistarono nuovi territori fuori dal loro continente, dopo la guerra contro la Spagna nel 1898-99, che procurò l'acquisizione delle Filippine, Hawaii, e parte. delle isole Samoa, Cuba e Portorico, ma il loro colonialismo
fu tuttavia limitato: Cuba divenne repubblica indipendente sotto protettorato americano nel 1899, le Filippine furono avviate all’indipendenza nel 1935, ottenuta definitivamente nel 1946, Hawaii divenne nel 1959 il cinquantesimo Stato. C'è tuttavia un’altra idea di impero, associata alla politica di espansione di una potenza, che esercita la sua egemonia senza conquiste territoriali, proponendosi come un modello superiore di civiltà e di sistema politico, sociale ed economico, da trapiantare in altri paesi per una missione civilizzatrice a beneficio dell’umanità. Ci sono oggi americani meno
recalcitranti a definire la loro potenza un impero, nella seconda accezione del termine, un «impero benevolo»4, perché si adatta a definire la visione che essi hanno del ruolo e del destino degli Stati Uniti nel Ventunesimo secolo. Questa visione ha le sue radici nelle origini degli Stati Uniti, sorti con la convinzione di essere una nazione scelta da Dio per essere un modello nel mondo e redimere il genere umano?. I Padri fondatori usavano la parola «impero» per definire l’autorità e la vocazione missionaria della nuova repubblica. All’insegna di questo mito avvenne l’espansione continentale degli Stati Uniti durante il Diciannovesimo secolo, dall’ Atlantico al Pacifico, dai confini del Canada britannico al Mar dei Caraibi°. La conquista del continente, realizzata attraverso trattati, ac-
quisti, guerre e sterminio di indiani americani, fu giustificata con diversi motivi, fra di loro intrecciati: la necessità di garantire sicurezza al «sacro esperimento» della democrazia, per renderla invulnerabile alla cupidigia della dispotica e corrotta Europa; l'esigenza di alimentare la fame di terra di una nazione sempre più numerosa; l’attuazione di un «destino manifesto», cioè la missione civilizzatrice affidata da Dio al
popolo americano”. La religione accompagnò e benedisse l’espansione degli Stati Uniti sul continente, e continuò a benedirla quando attraversò gli oceani8. I missionari americani precedevano o seguivano i mercanti e i soldati, lo spirito di evangelizzazione si coniugava con l'interesse capitalista e la strategia geopolitica. L’incitamento alla crociata in nome di Dio, per rendere il mondo sicuro per la democrazia, animò l’intervento americano nelle due guerre mondiali e nel periodo della Guerra fredda?. Le voci religiose contro le imprese belliche furono per molto tempo rare e fioche negli Stati Uniti; solo durante la guerra del Vietnam furono più frequenti!0, Dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti divennero una superpotenza in stato di «guerra fredda» con l’Unione Sovietica, l’altra superpotenza, per contendersi l’egemonia militare, politica, economica e culturale nel pianeta. Gli
Stati Uniti furono definiti allora un «impero senza imperialisti»!! perché rifiutavano di riconoscere il loro ruolo imperiale e continuavano a considerarsi una potenza benefica, non contagiata dalle ambizioni imperialiste e dalle aberrazioni totalitarie dei comunisti senza Dio. Eppure, durante mezzo secolo di Guerra fredda, gli Stati Uniti assomigliarono sempre più ad un impero, sia pure un impero della democrazia. «Chi potrebbe dubitare che esiste un impero americano», scriveva nel 1986 lo storico Arthur M. Schlesinger Jr., già consigliere del presidente John Kennedy: un impero «informale», precisava lo storico, «politicamente non coloniale, ma tuttavia ab-
bondantemente dotato di parafernalia imperiali: eserciti, navi, basi, proconsoli, collaboratori locali, sparsi dovunque sul-
lo sfortunato pianeta»!?. Alla fine del Novecento, sembrava che fosse veramente
giunta la «fine della storia», cioè «l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale quale ultima forma di governo dell’umanità», come affermò nel 1989 il politologo americano Francis Fukuyama!. Ma un altro politologo americano, Samuel P. Huntington, osservò quattro anni dopo che la possibilità di instaurare un nuovo ordine mondiale, fondato sulla
democrazia liberale occidentale, era minacciato dal pericolo di uno «scontro di civiltà» fra culture e religioni diverse, che avrebbe potuto provocare una guerra globale!4. Nell’ultimo decennio del Ventesimo secolo il futuro del-. l'America sembrava dipendere unicamente dalle sue scelte. Gli ultimi due presidenti degli Stati Uniti prima del nuovo millennio, il repubblicano George H.W. Bush (1989-1993) e il democratico William J. Clinton (1993-2001), non avevano nulla in comune, tranne la visione di un mondo fatto a im-
magine e somiglianza della democrazia di Dio. Dopo la fine dell’Unione Sovietica, Bush vagheggiò un «nuovo ordine mondiale» fondato sulla pace e l'armonia fra le nazioni. Clinton sognò un mondo di democrazie cooperanti. Tuttavia, in un mondo dove purtroppo erano ancora numerosi i regimi
che negavano la libertà e i diritti umani, entrambi i presiden-
ti dovettero decidere interventi militari!?. Nel febbraio 1991,
col consenso delle Nazioni Unite, Bush guidò una coalizione di forze militari occidentali, giapponesi e arabe in una guerra nel Golfo Persico per liberare il Kuwait occupato l’anno precedente da Saddam Hussein, ambizioso dittatore dell’Iraq che aspirava alla supremazia nel Medio Oriente. In quattro giorni le forze della coalizione scacciarono l’invasore dal Kuwait e invasero l’Irag, ma conclusero la guerra lasciando al potere il despota iracheno, che nei dieci anni successivi continuò a sfidare gli Stati Uniti e le Nazioni Unite con bellicosa protervia. Otto anni dopo, nel 1999, Clinton fece intervenire la forza aerea americana, sotto l’egida dell’ Alleanza Atlantica, per bombardare la Serbia e costringere il dittatore Slobodan MiloSevié a porre fine alla carneficina etnica nel Kosovo. Alla fine del Ventesimo secolo, la strada per diffondere la democrazia di Dio nel mondo e rendere il mondo sicuro perla democrazia, era ancora irta di ostacoli, ma la potenza incontrastata degli Stati Uniti sembrava capace di superarli.
L'incubo del millennio All’inizio del primo secolo del terzo millennio, gli americani erano convinti che la loro forza militare escludeva che potessero essere nuovamente minacciati da un nemico temibile,
quale era stato per mezzo secolo l'Unione Sovietica. «Gli americani celebrarono la fine della Guerra fredda con sollievo e soddisfazione. Il popolo degli Stati Uniti sperava di potersi godere i profitti della pace, ora che le spese per la sicurezza nazionale erano state diminuite con la fine della minaccia militare sovietica»!°. Nonostante le geremiadi di profeti millenaristi, religiosi e laici, che continuamente lamentavano e deprecavano la decadenza spirituale e morale della società americana, e preannunziavano incombenti catastrofi, gli americani erano entrati nel nuovo millennio abbastanza soddisfatti di essere la nazione più ricca e più forte del mondo. Si sentivano in-
vincibili e invulnerabili, mentre nuovi strateghi di politica internazionale, denominati «neoconservatori», sostenitori di un
realismo messianico, che non escludeva l’uso della potenza militare, progettavano l’avvento di un «nuovo secolo americano» dove la diffusione della democrazia avrebbe assicurato la stabilità planetaria di una pax azzericana. I neoconservatori ritenevano che gli Stati Uniti dovevano svolgere senza più reticenze un ruolo imperiale, cioè consolidare la loro incontrastata egemonia mondiale, prevenendo, se necessario anche con l’uso delle armi, la crescita di una qualsiasi altra potenza in grado di minacciare la supremazia planetaria dell’ America. Uno dei primi obiettivi della loro strategia era impedire che l’Iraq di Saddam Hussein potesse diventare una tale minaccia. I due ultimi presidenti degli Stati Uniti nel Ventesimo secolo furono sollecitati ad adottare la strategia per un «nuovo secolo americano», ma nessuno dei due prestò attenzione al progetto dei neoconservatori!. C'erano tuttavia timori, alla fine del millennio. Il passaggio dal secondo al terzo millennio fu atteso da taluni settori della cultura religiosa e popolare con profezie di catastrofi imminenti derivanti da una tradizione di visioni apocalittiche, che aveva le sue radici nelle origini puritane della nazione americana. La rivoluzione americana era stata interpretata come un
evento apocalittico, e per tutto il corso dell'Ottocento movimenti millenaristici avevano creduto nell’imminente ritorno
di Cristo. Il millenarismo apocalittico continuò nel Novecento, alimentato dagli eventi catastrofici della Grande Guerra, della Grande Depressione, della seconda guerra mondiale, e dagli incubi della minaccia nucleare durante la Guerra fredda. «Profezie e credenze millenaristiche non soltanto sono sopravvissute al ‘secolare’ Ventesimo secolo, ma mostrano vigorosi segni di rinnovamento mentre il secolo muore», scriveva nel 1992 lo storico della cultura americana, Paul Boyer!8. Secondo un sondaggio Gallup del 1995 il 61 per cento degli adulti e il 71 per cento dei giovani credevano che il mondo fosse prossimo alla fine o alla distruzione. L'umanità sarebbe stata
annientata da una valanga di catastrofi prodotte dall’effetto serra, dall’ Aids, dalla fame, dalla sovrappopolazione, dai virus e da altre inimmaginabili piaghe bibliche. L’industria cinematografica di Hollywood prosperava con la produzione di storie apocalittiche!?. Libri sulla fine del mondo occupavano il vertice nelle vendite: uno dei più grossi successi editoriali negli Stati Uniti è stato il libro The Late Great Planet Earth, pubblicato nel 1970 da Hal Lindsey, il quale sosteneva che le profezie bibliche sulla fine del mondo stavano per compiersi e la battaglia di Armageddon era prossima e inevitabile. Il libro vendette sette milioni e mezzo di copie negli anni Settanta, e fino agli anni Novanta ne furono vendute ventotto milioni in cinquantadue lingue. La credenza premillenarista, secondo la versione giudaicocristiana di alcuni movimenti religiosi, prevedeva che la società americana, depravata e corrotta, fosse destinata ad una
fine catastrofica, per preparare la rigenerazione, il ritorno di Cristo, l’avvento del millennio, la guerra finale tra le forze del Bene e le forze del Male, il giudizio universale, la fine della sto-
ria, e il trionfo eterno del regno di Dio. Il presidente Reagan era un cultore di profezie apocalittiche. Durante la guerra del Golfo nel 1991 il 15 per cento di americani dichiarò di considerare la guerra l’inizio dell'Apocalisse e l'approssimarsi di Armageddon. Un libro pubblicato nel 1974 da John F. Walvoord, col titolo Arzzageddon, Oil and the Middle East Crisis,
aggiornato e ripubblicato nel dicembre 1990, vendette fino al febbraio 1991 seicentomila copie?0. La credenza nella fine del mondo era diffusa specialmente fra gli evangelici fondamentalisti: Nutrita da una fitta rete di collegi, seminari, scuole bibliche, ca-
se editrici, librerie cristiane, programmi radiofonici e televisivi, e decine di migliaia di chiese che sostengono la vasta subcultura dell’evangelicalismo americano, la convinzione che i disegni di Dio per la storia umana sono iscritti negli antichi testi biblici è tuttora molto viva mentre il secolo volge alla fine2!, 10
Gli evangelici fondamentalisti erano rigidi sostenitori dei valori tradizionali dell'America cristiana e consideravano l'America secolarizzata, emersa dalla crisi e dalle trasforma-
zioni degli anni Sessanta, un paese materialista, edonista, pagano, che aveva scacciato la religione dalla politica e dalla vita pubblica, vietato la presenza dei simboli cristiani nelle istituzioni dello Stato, esclusa la preghiera dalle scuole, divulgato le teorie evoluzioniste, legalizzato l'aborto, favorito il femminismo, la pornografia e l'omosessualità. Per questo, l'America era ormai esposta ad un’immancabile, imminente punizione della collera divina, affermavano predicatori televisivi come Jerry Falwell e Pat Robertson, prevedendo che una guerra nucleare avrebbe portato a compimento le profezie bibliche. Secondo un sondaggio della rivista «U.S. News & World Report», pubblicato il 19 dicembre 1994, il 61 per cento degli intervistati non aveva dubbi sulla seconda venuta di Cristo, e di
questi il 53 per cento credeva che il mondo sarebbe finito nel Ventesimo secolo secondo la profezia biblica: «Nessun periodo della nostra storia è stato a lungo privo di rinnovate applicazioni di modelli apocalittici. [...] La fine del secondo millennio nell’anno 2000 (o nel 2001, come altri più accuratamente dicono) inevitabilmente creerà quel senso di svolta storica che stimola sempre il pensiero apocalittico», scriveva nel 1990 lo storico della cultura americana Garry Wills?2. Ma pochi anni dopo Daniel Wojcik, studioso dell’apocalitticismo americano, osservava che se «il 2000 e il 2001 passeranno senza incidenti, forse l’enfasi delle credenze millenariste americane si sposterà dalla visione di un mondo irrimediabilmente cattivo e inevitabilmente condannato, ad una visione più ottimistica»??. In realtà, alla fine del 1999 il disastro maggiormente temuto dagli americani era una catastrofe tecnologica, designata con la sigla Y2K. La sigla (che in inglese significa semplicemente Year 2000, dove K indica «mille») non si riferiva ad una
nuova arma di distruzione di massa né al virus di una micidiale pandemia, ma era usata per definire il rischio di un inceppamento generale dei computer in tutto il mondo, alla mezzaDi
notte del 31 dicembre 1999, perché la loro memoria non era predisposta per distinguere fra le cifre 1900 e 2000 nel calcolare la datazione di qualsiasi operazione, con conseguenze disastrose nel mondo finanziario, economico e sociale.
La possibilità di una catastrofe informatica, prodotta dal cosiddetto wsllennium bug, il baco del millennio, fu presa molto sul serio. Il governo americano istituì uno speciale President’s Council on Year 2000, per prevenire gli effetti rovinosi del millennium bug. Si paventava addirittura che i computer russi, per effetto dell’Y2K, avrebbero potuto lanciare missili nucleari contro l'America. Ma la catastrofe non avvenne. «Ricordate Y2K? Uno sguardo nostalgico al disastro che non c’è stato», era il titolo scherzoso con cui il popolare Tirze Almanac 2001 rievocava il willennium bug.
L'elezione della nota All’inizio del terzo millennio, la vita degli americani sembrava avviata a scorrere sui binari di una storia senza traumi. «Il 2001 sarà un anno durante il quale il mondo diventerà un luogo più ricco e decisamente più accettabile», prevedeva nel 2000 l’annuario della rivista inglese «The Economist»?4. Per gli Stati Uniti, le previsioni erano confortanti. L’economia americana era nel periodo della più lunga crescita della sua storia. La povertà e la disoccupazione erano al livello più basso nell’ultimo trentennio, il bilancio federale poteva contare su centinaia di milioni di dollari in attivo. «Militarmente, economicamente, culturalmente, l’America
è la potenza dominante nel mondo. Le sue compagnie e le icone della sua potenza economica sono ovunque, come i suoi soldati, i quali, anche se sono talvolta bersaglio di attentati terroristici, non sono impegnati in guerra in nessuna
parte del mondo»?5. Ma, aggiungeva la rivista, «c'è una nota stonata in questo paradiso. Quando il quarantatreesimo presidente presterà giuramento il 20 gennaio, molti ameri12
cani non si sentiranno in animo di condividere con lui la gioia del trionfo». Il 2000 era stato anno di elezioni presidenziali negli Stati Uniti, ma la maggior parte degli americani non si era appassionata agli scontri fra i due candidati, il democratico Albert A. Gore e il repubblicano George W. Bush. Gli otto anni di presidenza Clinton si erano conclusi fra il disgusto di molti americani religiosi e conservatori, offesi dalla condotta scandalosa di un presidente immorale e bugiardo, che aveva osato persino profanare, col suo comportamento sessuale, la sacralità dello Studio Ovale, l’ufficio del presidente degli Stati Uniti. Invano la destra religiosa si era battuta per ottenere la destituzione per incriminazione del presidente, lussurioso peccatore. Ma anche la nuova presidenza del repubblicano Bush era iniziata fra voci di scandalo, non sessuale ma elettorale, per
il modo molto controverso col quale egli aveva ottenuto la vittoria sul candidato democratico, che aveva ricevuto la maggioranza del consenso popolare con oltre mezzo milione di voti in più. Infatti, alla conclusione delle votazioni, il 7 novembre, era seguito un mese di risse politiche e giudiziarie, con una confusa riconta dei voti nello Stato della Florida, dove il governatore era fratello di Bush. Alla fine, il 9 dicembre, la Cor-
te Suprema federale, con un solo voto di maggioranza dei giudici che erano stati nominati da presidenti repubblicani, aveva posto fine alla contesa, assegnando la vittoria a Bush. Così, George W. Bush, figlio omonimo del quarantunesimo presidente degli Stati Uniti, era divenuto il quarantatreesimo presidente. I democratici contestarono la decisione della Corte Suprema e misero in dubbio la legittimità del nuovo presidente, ma il 13 dicembre Gore si rassegnò alla sconfitta, riconoscendo pubblicamente, con un pacato discorso televisivo alla nazione, la vittoria del suo antagonista. In tal modo si concluse la lotta per la presidenza, che il Tirze Almanac 2001 definì «l'elezione della noia».
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Il terrorismo non fa paura Nello stesso almanacco compariva due volte il nome di Osama bin Laden, «ricco militante estremista islamico protetto dai talebani in Afghanistan, per il quale il governo americano aveva chiesto l’estradizione ritenendolo coinvolto negli attentati terroristici del 7 agosto 1998 contro le ambasciate americane in Kenya e in Tanzania». L’almanacco, tuttavia, non ri-
cordava che dieci anni prima Bin Laden era stato appoggiato con armi e con denaro dagli Stati Uniti, quando combatteva nella resistenza islamica contro l'occupazione russa dell’ Afghanistan. Rampollo di una ricchissima famiglia saudita, Bin Laden aveva abbandonato la vita agiata per votarsi all’integralismo islamico e all’ascetismo guerriero, e si era convertito al terrorismo antiamericano dopo la guerra del Golfo, perché considerava sacrilega la presenza delle truppe americane in Arabia Saudita, la culla sacra dell’Islam.
Da allora, Bin Laden aveva iniziato a nutrire un profondo e spietato odio contro gli Stati Uniti, considerati dall’integralismo islamico il Grande Satana, una potenza malefica corrotta e corruttrice, che diffondeva nel mondo il suo veleno at-
traverso la depravazione dei costumi, la degradazione della morale, il dilagare della pornografia e della libertà sessuale, e, proteggendo lo Stato di Israele, cercava di distruggere la civiltà islamica nella sua stessa terra. Con la fondazione dell’organizzazione terroristica al-Qaeda, che aveva i suoi campi di addestramento nell’ Afghanistan dominato dal regime integralista dei talebani, Bin Laden aveva iniziato nel 1992 la campagna terroristica contro l'Occidente per liberare le terre arabe dalla presenza degli infedeli, ricostituire l’unità di tutti i credenti nell’Islam e instaurare una comunità musulmana rigorosamente fondata sull’integralismo religioso. Nel 1998, Bin Laden dichiarò la guerra santa contro gli
Stati Uniti, incitando i musulmani di tutto il mondo a guadagnarsi il paradiso uccidendo ovunque quanti più americani ed ebrei fosse possibile, senza fare distinzione fra civili e mi14
litari. E annunciò anche attacchi terroristici sul territorio degli Stati Uniti?6. Tuttavia, la mattina dell’11 settembre è probabile che la maggior parte degli americani, compresi quelli che erano in volo, non sapesse chi era Bin Laden. Il terrorismo islamico non li aveva allarmati più del r4/lenzium bug al momento del trapasso di millennio. Nel corso degli anni Novanta, i sondaggi mostravano che meno del 10 per cento, e spesso ancor meno del 5 per cento degli americani, indicava il tema della difesa o della sicurezza nazionale come il più importante. Di terrorismo avevano parlato poco anche i due candidati alla presidenza durante la campagna elettorale. Nel suo primo discorso elettorale, Bush aveva detto che «scoprire e reagire al terrorismo nel nostro territorio» sarebbe stata un’alta priorità della sua presidenza, ma nei tre dibattiti fra i due candidati il tema del terrorismo non fu discusso?7. Né il Congresso degli Stati Uniti né i media prestavano molta attenzione al pericolo terrorista?8. La voce «terrorismo» non appariva neppure nell’indice delle «parole chiave» del Tirze Almanac 2001.
Questioni del giorno Il terrorismo non era la principale preoccupazione degli americani, la mattina dell’11 settembre. L'estate stava per finire. A leggere la stampa, la notizia che più aveva turbato levacanze era stata l’insolita frequenza degli attacchi di squali ai bagnanti delle coste meridionali. Ma alla fine delle vacanze, la maggiore preoccupazione degli americani era probabilmente la situazione economica. Dalla fine del 2000, l'economia era entrata in una fase di recessione, il bilancio tendeva al rosso, la disoccu-
pazione aumentava, cresceva il prezzo del petrolio, mentre la nuova amministrazione, per tener fede al programma elettorale, proseguiva imperterrita col taglio delle tasse, che aveva già fatto affluire l’80 per cento dei suoi benefici nelle tasche del 2 per cento dei contribuenti più ricchi. «C'è un soffio di panico 15
nell’aria, eilpanico può condurre ad una cattiva politica», commentava «The New York Times» dell’ 11 settembre??. Di conseguenza, il presidente perdeva consensi. La sua «luna di miele» con gli americani, come viene definito il primo periodo di una nuova presidenza, era stata più breve che nel passato. I sondaggi della primavera e dell’estate avevano mostrato una costante erosione del livello di approvazione popolare, che era ancora in calo alla vigilia dell'11 settembre50. Quella mattina, tuttavia, l'autorevole giornale americano
dava rilievo ad altre questioni. Un gruppo di scienziati della National Academyof Sciences, eminente organizzazione scientifica, aveva presentato un lungo rapporto peî sostenere la necessità di finanziare con fondi federali la ricerca su nuove serie di cellule staminali estratte da embrioni umani, per poter sviluppare la loro potenziale efficacia nella terapia di gravi malattie come il morbo di Parkinson, il morbo di Alzheimer, il dia-
bete giovanile, il cancro3!. Secondo gli scienziati, oltre cento milioni di americani avrebbero potuto trarre beneficio da queste ricerche. La loro richiesta, secondo il giornale, avrebbe probabilmente infiammato il dibattito politico, perché il nuovo presidente, un conservatore evangelico molto religioso, era sostenitore della «cultura della vita» e perciò era contrario sia all’aborto sia alla ricerca sulle cellule embrionali umane, perché riteneva che ciò comportava l’uccisione di potenziali individui. «Ogni embrione umano è unico, con un unico potenziale genetico di un individuo umano», aveva detto Bush il 9 agosto in un discorso televisivo alla nazione: «Io mi sento moralmente obbligato, come presidente, a proteggere ed incoraggiare il rispetto per la vita in America e nel mondo»?2. Il presidente aveva deciso di non assegnare fondi federali, consentendo tuttavia il proseguimento delle ricerche sulle cellule già estratte. La nuova presidenza faceva sentire l'influenza del suo conservatorismo tradizionalista e religioso anche in altri campi. I passeggeri che erano in volo la mattina dell’11 settembre leggevano nel «New York Times» la notizia di un’agitazione fra gli studenti nello Stato di New York, perché il governo 16
aveva deciso di imporre a tutte le scuole pubbliche l’adozione di un «codice di condotta», che riguardava anche il modo di vestire: erano vietati gli indumenti succinti. Anche nel Massachusetts un distretto scolastico aveva vietato alle ragazze di indossare magliette troppo scollate?. Un analogo codice di condotta era stato adottato dal governo del North Carolina, con una legge che consentiva alle scuole di esporre i Dieci comandamenti. Notizia certamente più rilevante, la mattina dell’11 settembre, era la conclusione della competizione elettorale a New York fra sei candidati alla successione del sindaco Rudolph Giuliani, popolare ma discusso personaggio, famoso per aver fatto calare la criminalità in una delle città più violente nel mondo, adottando il pugno di ferro. La campagna elettorale si era conclusa il giorno prima, i seggi si aprivano la mattina dell’11 settembre. Intanto, il presidente Bush era sotto il fuoco dei democratici, che attaccavano il suo progetto di difesa missilistico. Secondo il senatore democratico Joseph R. Biden Jr., presiden‘ te del comitato del Senato per le relazioni estere, il progetto di difesa spaziale non solo sarebbe costato cifre astronomiche, ma avrebbe sacrificato «la sicurezza nazionale ad un cre-
do teologico» rendendo vani quarant’anni di sforzi nella politica di controllo degli armamenti; avrebbe messo gli Stati Uniti in contrasto con gli alleati e avrebbe provocato tensio-. ni con la Russia, mentre «non avrebbe affatto offerto la protezione che i suoi promotori promettono». L’amministrazio-
ne, concludeva il senatore, avrebbe fatto meglio ad impegnarsi nell’ammodernamento dell’aviazione militare?4.
Preoccupazioni imperiali Queste erano le principali notizie di cronaca interna che gli americani leggevano la mattina dell’11 settembre sul più autorevole dei loro quotidiani. Dall'estero non giungevano no17
tizie allarmanti, anche se lo stile del nuovo presidente e la politica estera della nuova amministrazione avevano creato maretta nelle relazioni internazionali degli Stati Uniti. Bush non aveva nessuna esperienza di politica internazionale, conosceva poco degli altri paesi e poco di geografia. «Non ho bisogno di nessuno che mi dica cosa credere. Ma ho bisogno che qualcuno mi dica dove è il Kosovo», aveva detto, e non per celia, durante la campagna elettorale??. A parte frequenti visite in Messico quando era governatore del Texas, dal 1994 al 1999, Bush aveva fatto oltre oceano solo brevi
viaggi.
Da candidato, Bush aveva detto che la sua politica estera sarebbe stata basata sulla priorità dell'interesse nazionale, con un’intonazione genericamente ispirata all’internazionalismo di Woodrow Wilson, dichiarando che gli Stati Uniti avevano «una grande meta che li guida: trasformare questa epoca di influenza americana in generazioni di pace democratica»36. Bush non accettava di considerare gli Stati Uniti una potenza imperiale. «L'America non è mai stata un impero», aveva detto nel 1999, e anche quando ne aveva avuto la possibilità, l'aveva rifiutata «preferendo la grandezza alla potenza, la giustizia alla gloria»?”. Negli accenni alla politica estera, che non fu tema prevalente nella sua campagna elettorale, Bush aveva promesso che avrebbe lavorato in collaborazione «con i nostri forti alleati democratici in Europa e Asia per estendere la pace», avrebbe promosso il pieno sviluppo della democrazia nell’emisfero occidentale, unito dal libero mer-
cato, avrebbe difeso gli interessi americani nel Golfo Persico e favorito il processo di pace in Medio Oriente, garantendo la sicurezza di Israele, e avrebbe tenuto sotto controllo la con-
tagiosa diffusione delle armi di distruzione di massa. Conquistata la presidenza, la nuova amministrazione mostrò di seguire un orientamento unilaterale nella politica estera, ispirato da un realismo che intendeva affermare il primato degli interessi americani sugli organismi e i concordati internazionali. 18
La mattina dell’11 settembre, il barometro della situazione internazionale non prevedeva tempi burrascosi per gli Stati Uniti, anche se nei mesi precedenti c’era stato qualche isolato e breve temporale, nei rapporti con la Russia e con la Cina, e qualche nuvola vi era stata anche sul versante dei rapporti con gli alleati occidentali, ai quali non era piaciuto l'esordio della nuova amministrazione per il suo orientamento unilateralista, il rifiuto di ratificare il protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di gas serra, e la decisione di riprendere il progetto di un nuovo sistema di difesa spaziale. All’inizio del 2001, in seguito all’arresto di un agente delFbi che per quindici anni aveva venduto informazioni ai dirigenti russi, si era accesa una contesa fra governo russo e gover-
no americano, che faceva ricordare i tempi della Guerra fredda. Washington aveva espulso cinquanta diplomatici russi accusati di controspionaggio, e un’analoga ritorsione fu adottata da Mosca. Poi le acque si erano calmate. Un altro confronto internazionale era avvenuto all’inizio di aprile, fra il governo americano e il governo della Cina comunista, in seguito alla collisione fra un aereo spia americano e un jet militare cinese. L’ae-
reo cinese era precipitato e il pilota era morto, mentre l’equipaggio dell’aereo americano, costretto ad atterrare sull’isola di Hainan, era tenuto prigioniero in una località sconosciuta. In quel periodo, le relazioni fra le due potenze nucleari erano già agitate, perché la Cina aveva minacciato ritorsioni militari se. Washington avesse accolto la richiesta di armi antimissile avanzata da Taiwan. L'incidente dell’aereo spia fece aumentare la tensione. Pechino accusò gli Stati Uniti di violazione della sovranità nazionale, esigendo le scuse ufficiali, oltre il risar-
cimento per i danni subiti e per la morte del pilota, mentre Washington protestò che l'incidente era avvenuto nello spazio internazionale, e quindi rifiutò di presentare le sue scuse, reclamando l’immediata liberazione dell’equipaggio americano. La crisi fra i due paesi avrebbe potuto aggravarsi, ma dopo una decina di giorni di faticose trattative, fu raggiunto un compromesso che salvava la faccia ad entrambe le potenze. Il presi19
dente degli Stati Uniti espresse il sincero rammarico perla morte del pilota cinese, e ottenne la liberazione dell’equipaggio americano.
Le principali notizie internazionali sul «New York Times», la mattina dell’11 settembre, riguardavano il Medio Oriente. A Istanbul, una donna si era fatta esplodere, nel centro com-
merciale e turistico della città: due ufficiali di polizia erano rimasti uccisi e pezzi sanguinolenti del corpo della donna erano stati scagliati dappertutto. «Il sangue era ovunque, è stato terribile», raccontava un’impiegata, che aveva visto la scena do-
po l’attentato. Altre notizie dal Medio Oriente: il governo iraniano respingeva l’accusa, rivolta dagli Stati Uniti, di essere alla frenetica ricerca di tecnologia straniera per produrre armi di distruzione di massa, ricordando di essere stato vittima di
armi chimiche durante la guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein, spalleggiato dagli Stati Uniti. Per parte sua, riferiva il giornale, il governo iracheno accusava l'aviazione americana e britannica di aver ucciso otto civili durante un attacco missilistico nella cosiddetta «zona di non volo», istituita dalle Na-
zioni Unite dopo la guerra del Golfo nel 1991 per tenere sotto controllo il bellicoso dittatore iracheno. Intanto, Israele proseguiva la costruzione del muro divisorio fra i territori palestinesi e i territori israeliani, decisa dal governo Sharon per prevenire gli attentati terroristici, mentre continuava il ciclo di bombe suicide palestinesi e rappresaglie israeliane. Più preoccupanti, per l’amministrazione americana, erano le notizie dall’ Afghanistan. La Casa Bianca, riferiva «The New York Times», non aveva informazioni sicure sulla morte di Ahmed Shah Massoud, il leader del Fronte Unito, l’ultima forza di opposizione al regime talebano. Massoud era rimasto vittima di un attacco suicida compiuto da due arabi che si erano presentati come giornalisti. «Questo è un dono inviato da Dio», commentò un comandante talebano. «Sono così felice». Ma il governo afgano negava di essere coinvolto nell’attentato. Tuttavia, commentava il giornale, un'eventuale «conferma
che gli assassini sono arabi darebbe ragione a chi sostiene che 20
arabi stranieri, come Osama bin Laden, hanno assunto un ruo-
lo decisionale sempre maggiore fra i talebani»38.
Rischio annunciato, ma non calcolato Dal 1992, Bin Laden era sotto il mirino degli Stati Uniti. Il governo americano lo considerava uno dei principali ispiratori del nuovo terrorismo antiamericano. Negli ultimi otto anni, c'erano stati numerosi attentati islamici contro obiettivi americani, in Africa e in Medio Oriente, ma solo un attentato
era stato compiuto in territorio americano. A New York, il 26 febbraio 1993, un camion bomba era esploso in un garage del World Trade Center. Le vittime avrebbero potuto essere migliaia, e la polizia considerò un miracolo se i morti furono soltanto sei, e i feriti poco più di un migliaio. Gli artefici dell’attentato furono scoperti e condannati. Ramzi Yousef, il terrorista che aveva piazzato la bomba, disse che aveva sperato di uccidere duecentocinquantamila persone, per vendicare il popolo palestinese e punire gli americani per il loro sostegno a Israele. Gli attentati alle ambasciate degli Stati Uniti in Africa avevano provocato duecentoventiquattro morti, di cui dodici erano americani. L’ultimo attentato del terrorismo islamico contro obiettivi americani era avvenuto il 12 ottobre 2000, con un attacco suicida contro la nave USS Cole in un porto dello Yemen, dove rimasero uccisi diciassette marinai. Il presidente Clinton aveva ordinato di dare la caccia a Bin Laden e ucciderlo, facendo bombardare le basi di al-Qaeda in Afghanistan??. Con la svolta del millennio, il r724//ennium bug aveva avuto ripercussioni anche sul problema del terrorismo: ci fu il timore che potesse cancellare gli archivi informatici e bloccare le comunicazioni delle agenzie antiterroriste, favorendo così l’azione terroristica‘. Il governo americano fu messo in allarme e tutte le agenzie del controterrorismo furono mobilitate. Furono arrestati alcuni terroristi islamici che progetta21
vano di compiere attentati negli Stati Uniti. Al confine con il Canada fu scoperto un arabo carico di esplosivo, destinato a far saltare l’aeroporto di Los Angeles. Poi, l’allarme antiterrorista fu ritirato e il terrorismo non fu più all’ordine del giorno. Nessuna organizzazione di sondaggi, né durante il 2000 né durante i primi otto mesi del 2001, ritenne che il tema del terrorismo fosse abbastanza importante da meritare un’inchiesta su scala nazionale. Tuttavia, durante la prima metà del 2001, le agenzie fede-
rali segnalarono il pericolo di nuove azioni del terrorismo islamico contro «interessi degli Stati Uniti». Il 30 giugno, un rapporto della Cia sosteneva che Bin Laden stava progettando un attacco in grande stile contro gli Stati Uniti per provocare conseguenze catastrofiche. E un altro rapporto, il 6 agosto, ripeteva che Bin Laden era deciso a colpire gli Stati Uniti nel loro stesso territorio. Tuttavia, nei giorni successivi, il pericolo im-
minente di un attacco terroristico non fu argomento di discussione fra il presidente e i suoi consiglieri. Da maggio a settembre neppure la stampa e la televisione se ne occuparono. Le principali notizie sulle iniziative antiterroristiche, nei giorni precedenti l 11 settembre, riguardavano le misure di sicurezza nelle istallazioni militari all’estero e gli avvertimenti agli americani a non compiere viaggi nei paesi arabi.
Terrore nel cuore dell'America Bin Laden è certamente nei pensieri dei diciannove arabi che sono in volo negli Stati Uniti la mattina dell’11 settembre. Sono passate da poco le 8. Il presidente Bush si sta recando in macchina ad una scuola elementare di Sarasota, in Florida, per assistere ad un esercizio di lettura degli scolari. Alle 8 e 50, mentre sta per entrare, è informato riservatamente che
alle 8 e 46 un aereo si è schiantato contro la North Tower del World Trade Center. Si pensa ad un incidente. Alle 9 e 5 il presidente è seduto in classe fra gli alunni, quando il suo ca22
po di gabinetto entra nell’aula e gli sussurra all'orecchio che un secondo aereo ha colpito l’altra torre: «L'America è sotto attacco». Mentre si sta dirigendo verso l'aeroporto, Bush apprende che alle 9 e 37 un aereo si è schiantato contro un lato del Pentagono squarciandolo. Più tardi, mentre è in volo, gli giunge la notizia che un aereo è precipitato alle 10 e 03 in un campo presso Shanksville, in Pennsylvania. Forse i terroristi volevano dirigere l’aereo contro la Casa Bianca o il Campidoglio, ma erano stati ostacolati da alcuni passeggeri i quali, dopo avere appreso dai telefoni cellulari l’attacco al World Trade Center, si erano ribellati, e l'aereo era finito schianta-
to al suolo. Gli artefici dell’attacco terroristico sono i diciannove arabi, a bordo dei quattro aerei, che hanno sopraffatto l’equipaggio e ucciso i piloti usando coltellini e taglierini, per scagliare gli aerei come missili contro i massimi simboli della potenza e della ricchezza americana. La televisione mostra in diretta,
all’America e al mondo, la sequenza del secondo attacco al World Trade Center mentre la prima torre colpita brucia come una torcia. Costruite in sei anni e otto mesi, dal 1966 al 1973, le torri
avevano una struttura capace di resistere all’urto dei più grossi aerei dell’epoca. «Quando erano state innalzate, trent'anni prima, commentò il 24 settembre Newsweek, furono saluta-
te come i primi edifici del Ventunesimo secolo: sono state invece le sue prime vittime»#!. Le due torri scompaiono dal panorama di New York in un’ora e quaranta minuti, il tempo trascorso fra il momento del primo attacco e il crollo della seconda torre. La prima a crollare, alle 9 e 59, è la South Tower.
Il crollo produce una gigantesca nube di polvere, fumo e detriti, che si propaga con la turbinosa violenza di un’eruzione vulcanica, oscurando il cielo e sommergendo in una tenebra soffocante, per circa mezzo chilometro, migliaia di persone che fuggono terrorizzate, sotto una fitta pioggia di frammenti e fogli sparpagliati, volteggianti con irreale leggerezza nel tumulto della coltre nuvolosa. L’orrenda scena si ripete iden23
tica alle 10 e 28, quando crolla su se stessa la North Tower. In poche ore, il World Trade Center è divenuto Ground Zero, termine col quale si designa il luogo dove è avvenuta un’esplosione atomica. Alle 10 e 30 dell’11 settembre, al posto delle bianche e slanciate torri gemelle, si erge una mostruosa e informe «terza torre», un ammasso fumante e fiam-
meggiante prodotto da un milione e ottocentomila tonnellate di detriti, blocchi informi di cemento, mescolati ad una sel-
va intricata di travi spezzate e contorte grate d’acciaio, che una volta costituivano l’elegante struttura esterna delle due torri, ed ora apparivano come monche carcasse toraciche di uno scheletro frantumato. Nel cumulo di rovine sono morte,
annientate, migliaia di persone, uomini e donne di ottanta nazionalità, centinaia di vigili del fuoco accorsi nei due edifici, insieme a decine di poliziotti, soccorritori e passanti”. Le operazioni di soccorso cominciarono subito e furono durissime e rischiose per le emanazioni di gas, le esplosioni, i continui franamenti e gli incendi, e proseguirono febbrilmente e ininterrottamente per giorni interi, ventiquattro ore su
ventiquattro, nella speranza di trovare superstiti. Poi, la speranza cedette alla disperazione e all’orrore. Scavando nella montagna di detriti, alta come sette piani, i corpi ritrovati furono pochi, mentre venivano continuamente estratti resti
umani disintegrati. I lavori per rimuovere le tonnellate di macerie continuarono per un anno, e furono compiuti con pieto-
sa cura, per cercare di rintracciare anche i più piccoli frammenti di resti umani e qualsiasi residuo che potesse permettere l’identificazione delle vittime. Subito dopo il crollo delle due torri, il sindaco Giuliani aveva ordinato trentamila bare, nell’ipotesi più orrenda che pochi fossero riusciti a fuggire prima del crollo. Poi, fortunatamente, la penosa contabilità delle vittime risultò molto inferiore. Dopo sei mesi, furono recuperati 287 corpi e 18.937 frammenti umani, che consentirono di identificare 972 vittime. Quando, nell’estate 2002, ebbero ter-
mine i lavori di sgombero, meno della metà dei resti delle vittime aveva avuto un’identità, mentre migliaia di resti aspetta24
vano ancora di essere sottoposti all'esame del Dna per l’identificazione: da quasi ventimila frammenti fu possibile risalire all'identità di 1092 vittime. I corpi di 1731 esseri umani si erano dissolti. Circa 3000 persone sono perite al World Trade Center, oltre 343 vigili del fuoco e 60 poliziotti. I morti al Pentagono erano stati 125, e 256 i passeggeri dei quattro aerei.
Dalle rovine del World Trade Center furono estratte vive solo 18 persone: dodici vigili del fuoco, tre poliziotti e tre civili, tutte salvate entro la giornata del 12 settembre.
Una comunità di dolore La mattina dell’11 settembre gli Stati Uniti erano «una nazione gravemente disorientata che barcollava sull’orlo del caos»44. Per la prima volta nella storia dell’aviazione civile, tutti gli aerei furono costretti ad atterrare, i voli cancellati, gli
aeroporti chiusi, come furono chiusi gli edifici governativi e pubblici, le sedi finanziarie, la borsa di Wall Street, gli uffici e le scuole. Gli Stati Uniti apparivano paralizzati. La prima reazione degli americani, quando appresero la notizia che un aereo si era schiantato contro una delle torri del World Trade Center, fu un moto di stupore e di sorpresa incredula. Racconta un testimone che si stava recando al lavoro quando sentì dire che un aereo aveva colpito il World Trade Center: Non ci fu panico, solo perplessità: come può un aereo andare a schiantarsi contro un grattacielo così alto, visibile a decine di miglia di distanza, in una giornata così limpida? Qualcosa non andava. Mi affrettai a salire le scale e accendere il computer e collegarmi alla Cnn. Pochi minuti dopo, vidi un aereo passare sullo schermo ed esplodere penetrando dentro la seconda torre.
Oltre duecento milioni di americani seguirono simultaneamente, attraverso la televisione, tutti imomenti della tragedia al World Trade Center dopo l’attacco del primo aereo. Anche 25
se le immagini producevano pena e orrore, più del 60 per cento di loro confessò di non aver potuto staccare gli occhi dallo schermo, che continuamente mandava in onda la sequenza degli attacchi terroristici e la replica del crollo delle torri e le scene di terrore, di panico e di orrore fra la gente che fuggiva. Così, come fossero testimoni sul luogo della tragedia, gli americani videro la cima della North Tower emanare fiamme e fumo, e il secondo aereo penetrare nella South Tower ed esplodere nel corpo del grattacielo generando un’enorme palla di fuoco. E videro gruppi di persone aggrappate alle finestre dei due grattacieli, circondate da fumo e fiamme, e uo-
mini e donne che si lanciavano nel vuoto per fuggire ad una morte atroce, precipitando verso una morte altrettanto atroce. Un testimone che lavorava in un edificio adiacente raccontò di aver visto almeno quattordici persone gettarsi nel vuoto. Corpi e oggetti precipitando dalle torri colpirono e uccisero anche alcune persone al suolo. E poco dopo, milioni di americani assistettero al crollo improvviso e inaspettato delle due torri, con migliaia di persone rimaste imprigionate negli edifici, mentre nelle vie adiacenti sciami di uomini e donne fuggivano alla ricerca disperata di un riparo, sotto una fitta pioggia di detriti e fogli di carta, sovrastati da un’immensa nube di polvere asfissiante, che li inseguiva e li investiva come un mostro assassino. E quando la nube cominciò
a diradarsi, lasciando intravedere l’agghiacciante spettacolo dell'ammasso di rovine che sovrastava il luogo dove era il World Trade Center, milioni di americani videro i vigili del fuoco, i poliziotti e i volontari civili muoversi simili a spettri imbiancati sulla montagna dei detriti, fra imperscrutabili voragini e pericolanti cumuli di cemento e travi di acciaio, alla ricerca di superstiti. Videro i volti insanguinati e i corpi martoriati dei feriti; e una fiumana di gente che si allontanava da Manhattan traversando il Brooklyn Bridge, come un esodo di diseredati che fuggivano gli orrori di una guerra. Poi, durante la giornata dell’11 settembre, la notte, il giorno successivo e nei giorni che seguirono, gli americani videro cen26
tinaia di uomini e donne di ogni razza e di ogni età, con i volti silenti o straziati dal dolore, mostrare le foto dei loro cari che
lavoravano nel World Trade Center, implorando informazioni, nella speranza disperata che qualcuno potesse rassicurarli che erano sopravvissuti. Le strade e le piazze attorno a Ground Zero furono trasformate in luoghi sacri dalla folla raccolta in preghiera, di giorno e di notte, vegliando con le candele accese, mentre ovunque apparivano, lungo i marciapiedi e le grate dei giardini, sulle pareti degli edifici e nelle stazioni della metropolitana, innumerevoli piccoli altari con l’immagine di una persona scomparsa nel World Trade Center, contornata da fiori, con la bandiera americana e messaggi di dolore, di ricordo e di fede. E mentre avvenivano i lavori di sgombero, gli americani assistettero al recupero dei resti umani fra le macerie, e seguirono le silenziose cerimonie di onore tributate dai vigili del fuoco e dai poliziotti alle salme dei loro compagni, avvolti nella bandiera stellata, salutati come caduti in guerra. Quando veniva recuperato il corpo di un pompiere, le macchine erano arrestate, cadeva «un silenzio di morte», tutti si toglievano il ca-
sco esalutavano il corpo avvolto nella bandiera americana, portato via religiosamente dai suoi compagni. Il rito si ripeté più volte nel corso della giornata, la notte e il giorno successivo. La visione simultanea della catastrofe e del lutto trasformò la popolazione americana in un’unica comunità di dolore, precipitata improvvisamente dall’orgoglio e dalla sicurezza di una nazione imbattibile al terrore di una nazione aggredita, orribilmente ferita nel cuore stesso della sua potenza, che si
scopriva vulnerabile. «Siamo tutti nella Terza Torre ora, costruita istantaneamente dal crollo delle altre due», scrisse la
giornalista del «Time» Nancy Gibbs.
L’invulnerabilità perduta AI terrore e all’orrore per la catastrofe, al dolore per le vittime, si aggiungeva l’umiliazione per la sorpresa e il succes24
so dell’aggressione terroristica. I terroristi avevano scelto i loro obiettivi con perfida sapienza simbolica, per infliggere al Grande Satana, in nome di Dio, non solo la pena di una
spietata carneficina di massa, ma un simbolico colpo mortale alla sua potenza, al suo orgoglio e al suo prestigio, umiliando nello stesso tempo la civiltà dell'Occidente infedele e blasfemo, che gli Stati Uniti rappresentavano. E probabile che nella scelta degli obiettivi da attaccare, i terroristi avessero visto nelle due torri i simboli della religione degli infedeli, per cui la loro aggressione voleva essere una sorta di punizione divina contro l’idolatria dell'Occidente. Del resto, la stessa stampa americana evocò dopo l’11 settembre il fascino prometeico che le torri del World Trade Center emanavano: Le torri — scriveva «Newsweek» il 24 settembre —, erano l’em-
blema delle nostre più profonde aspirazioni. I grattacieli sono una invenzione americana, e il World Trade Center era uno degli ulti-
mi che rifletteva in sé i visionari ideali del progresso e della tecnologia che hanno segnato così fortemente l’ultimo secolo. Quanto alto possiamo costruire, quanto in alto possiamo volare, possiamo raggiungere la luna?48
Con la loro maestosa imponenza, le due torri suscitavano un certo senso del sacro, «un sentimento di soggezione e di fascino»; erano «le cattedrali d’America», affermava il 16 set-
tembre il pastore di una chiesa di New York: «E ora le cattedrali sono sparite»*9. Fra le vittime dell’attacco terroristico al Pentagono e alle due torri, insieme a migliaia di persone ignare e innocenti, perì anche il senso di inviolabilità dell’ America. Il teologo Peter Ochs ha raccontato che per i suoi studenti, sei mesi dopo l’attacco terroristico, il trauma maggiore era la scoperta della vulnerabilità americana: «Non sapevo che zoî potevamo essere attaccati»?°, In poche ore, fu modificata radicalmente la percezione del mondo da parte degli americani: 28
Il mondo della nostra nazione, come noi lo intendevamo - sola e invincibile — non esiste più. Potenze straniere, comunque le si voglia definire, hanno infranto i nostri confini, e non c'è nessuna assoluta sicurezza che non lo faranno di nuovo. Dobbiamo ricostruire la concezione della nostra nazione e il suo significato nella nostra vita. Dobbiamo difenderla nella consapevolezza della sua nuova vulnerabilità?!
Così scriveva il 28 settembre Joanne B. Freeman, docente di storia all’Università di Yale, ricordando che solo nei primi anni della repubblica gli americani avevano vissuto con un analogo senso di vulnerabilità, temendo la potenza del nemico contro il quale avevano combattuto per conquistare l’indipendenza. Nel 1814, l’esercito britannico aveva occupato e messo a fuoco Washington. Da allora, tuttavia, gli americani non avevano più subito un attacco sul loro territorio. Protetta da due oceani e dal più possente apparato militare della storia umana, la nazione americana si sentiva inviolabile. Sol-
tanto nella cinematografia di Hollywood la fantasia catastrofica aveva immaginato attacchi bellici agli Stati Uniti, condotti da infiltrati sovietici, da folli aspiranti al dominio del mondo o da extraterrestri: ma gli Stati Uniti erano sempre vincitori. E invece, all’inizio del Ventunesimo secolo, nel mo-
mento stesso in cui gli Stati Uniti erano all’apogeo della loro potenza, con una superiorità incontrastata fra tutte le nazioni del mondo, diciannove terroristi islamici votati al suicidio,
armati di taglierini, erano riusciti ad impadronirsi di quattro aerei americani e avevano trasformato l’incubo apocalittico delle catastrofi immaginate in una terrificante realtà. «Ci eravamo abituati, nella nostra vita, a piccole dosi di paura: per atti criminali, per disastri naturali, persino per il terrorismo di casa, come era accaduto ad Oklahoma City. Ma 4 questo non eravamo preparati», commentava il 24 settem-
bre «U.S. News & World Report». Neppure l’aggressione giapponese a Pearl Harbour, citata da molti commentatori, aggiungeva la rivista, era paragonabile al trauma dell’11 set25
tembre perché «a Pearl Harbour conoscevamo il nemico, conoscevamo il suo indirizzo, ma ora non sappiamo chi è il nemico, non abbiamo il suo indirizzo. Questo è il terrore del terrorismo: che il nemico può lavorare accanto a te, con te». Nei giorni successivi, la morte di cinque persone, causata dal bacillo dell’antrace contenuto nella posta inviata a giornali e uffici del Senato, acuì la paura degli americani di essere esposti ad una minaccia terroristica, invisibile e letale.
«L’11 settembre», hanno scritto gli autori del rapporto della Commissione nazionale sugli attacchi terroristici, «fu un giorno di shock e di sofferenza senza precedenti nella storia degli Stati Uniti. La nazione era impreparata? Alle 8:46 della mattina dell’11 settembre 2001 gli Stati Uniti erano una nazione trasformata». Per gli Stati Uniti, osservò Fareed Zakaria, direttore di «Newsweek», 111 settembre era «la fine della
fine della storia»??. Il mito dell’invulnerabilità degli Stati Uniti era crollato, nulla sarebbe stato più come prima: queste frasi, continuamente ripetute, furono la rivelazione di un mondo
tragico ed ostile, una realtà alla quale gli americani erano stati violentemente risvegliati dalla tragedia dell’ 11 settembre.
Paura e collera Edward T. Linenthal, storico della religione e della cultura americana, paragonò la percezione della realtà dopo 11 settembre alla visione di un «paesaggio frantumato»: «Ho la sensazione che viviamo in un paesaggio alieno, presago e terrifi-
cante, e siamo in cerca delle risorse per affrontarlo», e trovare una «nuova normalità»?4. Un sondaggio condotto nelle prime settimane dopo l’attacco riferiva che sette americani su dieci si sentivano depressi e un terzo aveva problemi di insonnia. «Il nostro senso di sicurezza è stato profondamente scosso. La paura sarà a lungo fra noi», dichiarò alla fine di settembre uno
psicanalista di Kansas City??, Anche se il tempo tendeva a lenire la depressione, osservava 30
a novembre «U.S. News &
World Report», gli effetti traumatici avevano lasciato un forte senso di ansia nella percezione della realtà e nella immaginazione del futuro?6. «Quel che è accaduto in quel terribile martedì — osservava alla fine del 2001 lo psicologo Garland DeNelsky — ha cambiato moltissimo la nostra vita, l’ha cambiata immensamente, e probabilmente l’ha cambiata in modo irreversibile», perché la «nuova combinazione di tecnologia potenzialmente devastante, di estremismo ideologico e di gente fanatica, disposta al suicidio perla propria causa, rende concepibile qualsiasi scenario di morte di massa e di sofferenza perla nostra popolazione». Un’altra micidiale aggressione terroristica contro la nostra nazione, aggiungeva lo psicologo, «Dio non voglia, ferirebbe in modo ancor più profondo il nostro già diminuito senso di sicurezza». Secondo alcune stime approssimative, almeno quarantamila persone fra i sopravvissuti, i testimoni e i soccorritori soffrirono seri traumi psicologici a causa dell’attacco terroristico. Sulla base di precedenti esperienze traumatiche collettive, si prevedeva che almeno un terzo delle persone più direttamente coinvolte nella tragedia dell’11 settembre avrebbero sofferto per «disordini da stress dopo il trauma», con «ricorrenti incubi notturni e l’incapacità di rievocare l’esperienza della tragedia senza riviverla fisicamente»?8. Indagini effettuate nei mesi successivi mostrarono che 11 settembre aveva provocato in molti americani reazioni di sofferenza. emotiva, di paura, di depressione e di angoscia, naturalmente più acute fra gli abitanti di New York e i testimoni diretti, ma diffuse anche fra i milioni di americani che avevano visto la tragedia attraverso la televisione. Il 75 per cento degli intervistati, in una ricerca condotta fra ottobre e dicembre nel-
lo Stato di New York, nel Connecticut e nel New Jersey, lamentava sintomi traumatici, mentre il 48 per cento dichiarava di provare soprattutto rabbia e ira. Secondo un sondaggio «The New York Times» e Cbs News, nei giorni successivi all’11 settembre, l’85 per cento degli americani era favorevole ad una azione militare contro chi aveva organizzato l’at31
tacco terroristico, e il 75 per cento considerava giusta l’azione militare anche se ciò avrebbe comportato l’uccisione di innocenti59, Taluni esponenti della destra repubblicana furono brutali nell’esprimere la voglia di vendetta, come fece la scrittrice Ann Coulter, che aveva perso un amico nell’attacco al Pentagono: «Dobbiamo invadere i loro paesi, uccidere i loro capi e convertirli al cristianesimo. Non fummo troppo scrupolosi nel localizzare e punire soltanto Hitler e i suoi principali collaboratori. Abbiamo raso al suolo le città tedesche. Abbiamo ucciso dei civili. Questa è guerra. Questa è la guer-
ra»6°, Con linguaggio meno brutale, il senatore repubblicano John McCain, un eroe della guerra del Vietnam, che aveva conteso a Bush la candidatura repubblicana nelle elezioni del 2000, espresse la collera degli americani quando affermò che, dopo aver versato una lacrima per le future vittime della guerra, bisognava «impegnarsi ad uccidere quanti più nemici nel modo più rapido e spietato», perché erano stati loro ad iniziare una guerra non voluta dall’ America, e su di loro sarebbe ricaduta la colpa delle vittime innocenti®!., Due mesi dopo l°11 settembre, un’indagine su scala nazionale mostrava che quasi il 45 per cento degli adulti e il 35 per cento dei bambini continuavano ad avere sintomi di stress. Sei mesi dopo, gli effetti traumatici erano ancora presenti fra persone che non erano state coinvolte direttamente nella tragedia, manifestandosi soprattutto con un senso di ansia e di paura per nuove azioni terroristiche, che avrebbero potuto colpire direttamente loro e i loro cari. Ovunque la popolazione temeva la presenza di un nemico invisibile, capace di usare
persino ordigni nucleari e armi batteriologiche per seminare morte e distruzione negli Stati Uniti. Tuttavia, come ha osservato William Langewiesche, corrispondente di «The Atlantic Monthly», la paura degli americani nelle settimane dopo 1’11 settembre «nasceva non tanto dal terrore della morte, quanto dalla sensazione di una perdita di controllo collettiva, dall’impressione di essere trascinati a capofitto in un futuro apocalittico a cui la società non era preparata». 32
E il presidente parlò Per tutta la giornata dell’11 settembre il presidente degli Stati Uniti, prelevato in Florida, fu traslocato da una base militare ad un’altra, con l’aereo presidenziale scortato da aerei da guerra per timore di un’altra aggressione, mantenendosi in contatto con il vicepresidente che operava nel bunker antiatomico della Casa Bianca. Solo la sera il presidente rientrò nella capitale. Bush non ebbe dubbi, dopo aver appreso la notizia che un secondo aereo si era schiantato contro un’altra torre del World Trade Center, che l'America fosse sotto attacco, e decise che gli Stati Uniti erano in guerra: «Oggi, disse alle 9 e 30 dell’11 settembre, nel primo breve commento alla nazione trasmesso dalla scuola elementare di Sarasota, abbiamo avuto
una tragedia nazionale. Due aerei si sono schiantati nel World Trade Center in un evidente attacco terroristico al nostro paese. [...] Il terrorismo contro la nostra nazione non vincerà». Poche ore dopo, da una base aerea della Louisiana, il presidente assicurò gli americani che il governo stava facendo tutto quanto era necessario per proteggere l'America e gli
americani. «La fermezza della nostra grande nazione è alla prova. Nessuno si inganni: mostreremo al mondo che supereremo questa prova»%4. La sera, alle 20 e 30, dallo Studio Ovale, nel messaggio alla nazione, Bush disse che l'attacco terroristico era diretto contro «il nostro modello di vita, la nostra
libertà», con il proposito di «spaventare la nazione e gettarla nel caos e indurla alla ritirata. Ma hanno fallito, perché la nostra nazione è forte». L'America era stata aggredita perché «noi siamo il più luminoso faro di libertà e di opportunità nel mondo, e nessuno impedirà alla sua luce di splendere. La nostra nazione oggi ha visto il male, il peggio della natura umana. E noi abbiamo risposto con il meglio dell’ America». Il governo era pronto a perseguire e punire i colpevoli. «Non fa-
remo distinzione fra i terroristi che hanno commesso questi atti e quelli che li proteggono». L'America e i suoi alleati, indI
sieme «a tutti coloro che vogliono la pace e la sicurezza nel mondo», sono «uniti per vincere la guerra contro il terrorismo», In poche ore, la mattina dell’11 settembre, il presidente «accidentale», come era stato chiamato sarcasticamen-
te per il modo in cui aveva ottenuto la presidenza, fu trasformato in comandante supremo e capo della nazione in guerra. Per l’America violata, l’era dell’impero era diventata l'era del terrore®®.
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Dove era Dio?
Non era a Lisbona Il 1° novembre 1755, la città di Lisbona fu in gran parte distrutta da un terremoto e da un maremoto. Decine di migliaia furono le vittime fra la popolazione di duecentocinquantamila abitanti. Molti perirono mentre erano in chiesa per assistere alla celebrazione della festa di Ognissanti. Quasi tre giorni di incendio completarono la distruzione della città, accrescendo il numero dei morti. Non era la prima volta, nel Settecento, che accadevano simili catastrofi naturali, con migliaia
di vittime. Ventimila erano stati i morti nel terremoto che aveva distrutto nel 1746 Lima, la capitale del Perù, e dieci volte più numerose erano state le vittime di due terremoti avvenuti in Cina all’inizio del 1700. Forse la lontananza planetaria di queste catastrofi aveva attenuato l’impatto emotivo sulla coscienza europea, che invece fu profondamente sconvolta dalla distruzione di una delle più belle e prestigiose città d’Europa, ricca ed elegante capitale di un impero coloniale, che si estendeva dall'Oceano Atlantico all'Oceano Indiano, dal-
l’America Latina all'Africa e all’Asia. Come osservò Walter Benjamin il 31 ottobre 1931 in un programma radiofonico sulle catastrofi naturali, per l’Europa del Settecento dire «Lisbona distrutta era, per quell’epoca, un po’ come dire oggi, per noi, Chicago o Londra distrutta»). Dal terremoto di Lisbona scaturì una fiumana di riflessioni religiose, morali, filosofiche che cercavano di rispondere ad un quesito sorto drammaticamente nella coscienza euro35
pea: dove era Dio mentre migliaia di vite innocenti venivano annientate violentemente da una catastrofe naturale? Giansenisti e gesuiti, protestanti e cattolici, religiosi e laici cercarono di interpretare il disastro alla luce della loro teologia per tentare di conciliare la misericordia e l’onnipotenza divine con la spietata indifferenza della carneficina umana prodotta da forze naturali. Alcuni teologi spiegarono che la catastrofe di Lisbona era una manifestazione della collera divina, che si
era abbattuta su una città lussuosa e dissoluta, contagiata dall’illuminismo anticlericale; altri dissero che era un ammo-
nimento per tutta la società europea, che si era allontanata da Dio per seguire il culto della ragione umana. Anche gli illuministi, che erano allora all’apogeo, furono scossi dal terremoto di Lisbona. Voltaire, Rousseau, Kant
meditarono sul problema del male, sul destino dell’uomo e sulla divina provvidenza. Quale posto avevano, nei disegni divini, le migliaia di uomini, donne e bambini, vittime igna-
re, inermi, casualmente annientate dagli sconquassi imprevedibili della natura, mentre altre vite casualmente si salvava-
no? Come era possibile conciliare l’esistenza del male naturale con la concezione di un universo creato e regolato da un Dio buono, misericordioso, giusto, onnipotente? Il terremo-
to di Lisbona poneva brutalmente in dubbio la dottrina ottimistica della divina provvidenza, condensata nell’assioma «tutto è bene nel migliore dei mondi possibili», che pochi decenni prima era stata esposta nei Saggz di teodicea del filosofo tedesco Leibniz e nel poema Saggio sull'uomo del poeta inglese Alexander Pope. La teodicea aveva cercato di conciliare la presenza del male con la bontà divina, sostenendo che il male stesso, nei disegni della provvidenza, era una via che conduceva al bene. Contro questa dottrina si scagliò con sferzante ironia Voltaire. In un poema sul disastro di Lisbona, egli derise l’assioma «tutto è bene» di Pope e di Leibniz, smentito da una simile catastrofe naturale: «queste tremende rovine, / Queste macerie, questi brani di carne e queste misere ceneri, / Queste donne, questi fanciulli l’uno sull’altro 36
ammassati, / Queste membra disperse sotto i marmi in fran-
tumi delle macerie»?. Dinnanzi a tanta tragedia, ogni pretesa di giustificare il male in nome di una divina provvidenza, che sempre attua il bene, era per Voltaire un odioso insulto alle sofferenze umane e alla ragione, così come lo era l’immagine di un Dio collerico, che infligge morte e sofferenze a vittime ignare ed innocenti, per punirle di peccati che non hanno commesso. La conclusione del filosofo francese era un pessimismo che si rassegnava a non cercare risposte. La mente di Dio è insondabile, affermava Voltaire: «Il libro della sorte resta chiuso al
nostro sguardo. Ecco cosa mi insegna la voce della natura»?.
Il «nostro terremoto di Lisbona» Dove era Dio 111 settembre, fu la domanda che si posero molti americani. Nel commentare il primo anniversario dell’attacco terroristico, la teologa Carol Zaleski scriveva: «L’11 settembre è il nostro terremoto di Lisbona»4. Zaleski citava
la polemica di Voltaire contro la teodicea, osservando che il terremoto di Lisbona «fu l’esperienza conclusiva per la religione illuministica della ragione», perché dimostrò che «nessuna concezione di un disegno provvidenziale o di una preordinata armonia poteva accordarsi con tanto gratuito orrore». Il confronto fra la catastrofe di Lisbona e la catastrofe del World Trade Center si limitava alla carneficina di persone innocenti, perché vi era una differenza sostanziale fra le due catastrofi, più inquietante per la coscienza religiosa: la catastrofe del World Trade Center non era stata prodotta dalla naturama era la conseguenza di azioni volontarie, compiute «da fanatici religiosi votati alla morte, che invocavano Dio come loro prerogativa e ricompensa». Nonostante questa differenza, con la tragedia dell’11 settembre, osservava Zaleski, i proble-
mi morali e teologici che erano stati dibattuti dopo la distruzione della capitale portoghese «tornano attuali perché ci ren37
diamo conto di quanto siamo goffi quando ci accade di giustificare l’agire di Dio verso l’uomo, distinguendo il santo dal fanatico o spiegando le ragioni della speranza». In questo senso, l’11 settembre «ci ha reso nuovamente consapevoli, come accadde a Voltaire, della inadeguatezza di un ottimismo religioso che tutto tollera: c'è veramente il male nel mondo». Il confronto con il terremoto di Lisbona fu fatto anche dal sociologo Elemér Hankiss in una sommaria ma acuta analisi del significato, mitico e simbolico, che potevano assumere,
nella coscienza americana e occidentale, gli eventi dell’11 settembre, definiti un «miracolo in negativo», un «infernale prodigio di distruzione»: L’impossibile e l’inimmaginabile è accaduto davanti ai nostri occhi. [...] L’irrazionale ha fatto irruzione nel nostro mondo di razionalità cartesiana e kantiana. Il suo impatto può rivelarsi altrettanto distruttivo del terremoto di Lisbona nel 1755, che — secondo
la testimonianza di Voltaire — scosse in modo irreparabile la fede illuministica in un universo armonico e razionale.
Secondo Hankiss, la tragedia dell’ 11 settembre aveva profonde ripercussioni simboliche per quel che gli Stati Uniti rappresentavano nel mondo occidentale. Gli Stati Uniti erano diventati, negli ultimi decenni, il «centro del mondo», da
cui dipendeva il destino dell'Occidente. Con il crollo del World Trade Center, «simbolo di gloria del mondo occidentale», il trionfo dell'Occidente era minato per mezzo della stessa tecnologia di cui esso andava orgoglioso, come emblema della sua civiltà. Un simile evento, osservava Hankiss, evocava antichi miti
catastrofici, profondamente radicati nella cultura americana e occidentale. Milioni di persone avevano assistito alla «spaventosa metamorfosi di un argenteo elegante aereo, simbolo di pace, libertà e gioia, in una terribile arma di distruzione» simile alla «transustanziazione di un angelo argenteo in un feroce demonio». Il disperato volo verso la morte delle persone, che si 38
gettavano nel vuoto dalle torri in fiamme, era forse paragonabile al destino di Icaro, altro simbolo occidentale dell’orgoglio umano, che precipita nella distruzione per essere asceso troppo in alto con la sua volontà di potenza. La distruzione delle due torri evocava il mito della torre di Babele, l’intervento di
Dio per punire l'ambizione umana che pretende di rivaleggiare con la sua potenza. L’annientamento simultaneo di migliaia di vite umane di differenti condizioni, il potente e il ricco insieme al debole e al povero, rinnovava il mito dell’inflessibile e capricciosa ruota della fortuna. Gli eventi dell’11 settembre confermavano la «visione terrificante della caduta degli esseri umani dall’altezza della gloria e del successo nell’abisso del nulla», mentre un profondo senso di orrore del vuoto, di an-
nientamento della vita, emanava dall’assenza improvvisa delle due torri, che per trent'anni avevano giganteggiato nel cielo. E dall’orribile spettacolo di distruzione e di morte, il retaggio mitico della cultura occidentale, occultato dalla sua pretesa razionalità, faceva spontaneamente riemergere la figura di Satana: molti testimoni, ricordava Hankiss, avevano creduto
di vedere nel fumo e nelle fiamme delle due torri l’immagine ghignante del Maligno. Tutto ciò, secondo il sociologo, conduceva spontaneamente la coscienza giudaico-cristiana ad interpretare gli eventi dell’11 settembre attraverso il mito apocalittico della lotta fra Dio e il Demonio, fra la Luce e le Tenebre. «Dopo la fine della Guerra fredda avevamo sperato di esserci liberati per sempre da questo pericoloso e distruttivo dualismo. Invece, come conseguenza dell’11 settembre, esso è ritornato vigorosamente». E con il dualismo apocalittico riemergeva la pretesa manichea di «coloro che si identificano con Dio, identifi-
cardo i propri avversari con rità sia l’unica e assoluta», e sacrilegio mettere in dubbio tare di distruggerla». Infine, seguenza mitica e simbolica
il Male, e credono che la loro vepertanto giudicano «un orrendo questa verità, o addirittura tenHankiss indicava un'ultima condell’11 settembre nella coscien-
za americana, cioè «la fine dell’illusione di immortalità» col59
tivata dalla civiltà consumistica, la credenza che persino il problema fondamentale dell’esistenza umana, la morte, sa-
rebbe zione mente mente
stato risolto dal potere dell’uomo, attraverso la «negadella morte»6. L’11 settembre la morte si era nuovaimposta alla coscienza occidentale, mettendola brutala confronto con «la fragilità della vita umana».
Vivere in un mondo fragile La nuova consapevolezza della fragilità umana fu un tema dominante nelle riflessioni degli americani sùlle conseguenze dell’aggressione terroristica. Gli eventi dell’11 settembre furono percepiti da molti osservatori come un’apocalisse: non soltanto nel senso che il termine ha acquisito nel linguaggio comune, come sinonimo di catastrofe, ma nel senso proprio e originario del termine, cioè come la «rivelazione» di una incomben-
te svolta nella storia destinata a segnare una frattura profonda e radicale nel destino dell’uomo. Secondo Mary Marshall Clark, direttrice del centro di ricerca di storia orale della Columbia University, il significato più importante dell’11 settembre, nella percezione degli intervistati scelti fra i sopravvissuti e jtestimoni, era apocalittico: «un evento che pone fine alla storia come era intesa fino a quel momento»?. Ma il significato apocalittico dell'11 settembre, per molti teologi e studiosi di religione, andava al di là della percezione di una frattura nella storia, per essere inteso come rivelazione della precarietà della vita umana in un mondo fragile. L’11 settembre, scriveva Karen Armstrong, storica delle religioni, «è stata una rivelazione nel senso
originale della parola, perché ha ‘svelato’ una realtà che esiste da sempre ma che noi non abbiamo visto con sufficiente chiarezza. Le atrocità ci hanno mostrato l’estrema precarietà della nostra posizione in un mondo in cui la grande maggioranza della popolazione si sente diseredata e indifesa»8. L’11 settembre «ha messo in risalto la nostra infinita fragilità»?, ribadiva la filosofa Susan Neiman, che riproponeva 40
il confronto con il terremoto di Lisbona nelle riflessioni conclusive ad una storia del problema del male nella coscienza moderna. Dalla catastrofe di Lisbona alla tragedia dell’11 settembre, passando per gli orrori delle due guerre mondiali e dei genocidi, la coscienza moderna aveva abbandonato ogni riferimento al provvidenzialismo, riconoscendosi incapace a spiegare l’origine del male. La teodicea era stato un tentativo di dare un significato al male, per aiutare a far fronte alla disperazione. Ma il terremoto di Lisbona, come la catastrofe del World Trade Center, aveva mostrato la vanità di ogni tentativo di collegare il male naturale e il male morale con un disegno provvidenziale che gli conferisse una razionalità, nella pretesa di trovare nel volere divino una giustificazione alla sofferenza umana!°. L’attacco terroristico al World Trade Center, osservava Neiman, era simile alle catastrofi naturali,
perché l’aggressione del terrorismo non poteva essere prevista, il suo attacco non faceva distinzioni morali fra le vittime,
la differenza fra la vita e la morte, come nelle carneficine prodotte dalla natura, era affidata al caso: «ciò ha provocato una paura fino ad allora sconosciuta, perché non avevamo compreso il significato della parola terrore». La novità sconvolgente della catastrofe dell’11 settembre era la deliberata volontà di programmare, con anni di preparazione minuziosa e paziente, una azione terroristica per infliggere, attraverso un
attacco suicida, il massimo di morte e di sofferenza a persone innocenti. Per i terroristi non si poteva parlare di «banalità del male», come aveva fatto Hannah Arendt a proposito di Adolf Eichmann, perché quanto era accaduto l°11 settembre non era il prodotto di «agenti incoscienti» che si giustificavano sostenendo che il male causato dalle loro azioni non era intenzionale: i terroristi di al-Qaeda «sapevano esattamente quel che facevano. [...] Iloro scopi erano perfettamen-
te calcolati così come erano perfettamente malvagi»!!. Per questo motivo, concludeva Neiman, «divenne subito chiaro
che l’11 settembre era veramente un punto di svolta nella discussione sul male»!?.
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La violenza deliberata, consapevole e suicida dei terroristi aveva rivelato una dimensione del male che le categorie elaborate dalla coscienza moderna erano inadeguate a comprendere. Ed era ancora più difficile comprendere la nuova realtà del male, come era apparsa nell’attacco terroristico, per gli americani che da tempo avevano rimosso il problema del male dalla loro esistenza quotidiana. Come aveva scritto nel 1996 lo storico della cultura Andrew Delbanco, la coscienza america-
na pativa una «crisi di competenza nei confronti del male», mentre mai come nel mondo attuale immagini di orrore reale sono tanto diffuse e terrificanti. «Non abbiamo un linguaggio per connettere la nostra vita interiore con gliorrori che vediamo continuamente nel mondo. Gli orrori della guerra reale sembrano indistinguibili dalla guerra in videogame, e quando le scene orribili ci disgustano, cambiamo canale»!3. Alle origini della loro storia, gli americani avevano creduto nell’esistenza del male, come conseguenza del peccato originale, e per molto tempo il confronto con il male era stato una fonte basilare della loro identità; ma negli ultimi tempi, affermava Delbanco, la consapevolezza della realtà del male era venuta dissolvendosi: il male era diventato un’astrazione metaforica, «un problema epistemologico»!4, che non si osava più nemmeno chiamare con il suo nome, sostituendolo con espressioni tecnicamente neutre, prive di risonanza metafisica ed etica: Una volta, l’incandescente presenza del Diavolo, come origine e spiegazione del male, era presente nella vita di molti, ma dal Settecento è iniziato un processo che ha trasformato Satana in un vecchio simulacro di epoche passate, che non ha più alcuna parte nella nostra interpretazione e disincantata visione della vita. Il male di personaggi malvagi come Stalin e Hitler è attribuito a disordini mentali, che non è più corretto chiamare «il male»!5,
La perdita della coscienza del male, secondo Delbanco,
aveva incrinato l’identità americana, «lasciandoci senza pre-
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cisi e netti segni di orientamento da cui dipende la nostra consapevolezza di chi e dove siamo». Il male era stato rimosso dal presente e retrocesso nel passato, trasfigurato in immagini mitiche dell’epoca in cui la lotta contro il male aveva galvanizzato gli americani, infondendogli un comune proposito morale, come avvenne durante la seconda guerra mondiale, perché il male era allora facilmente riconoscibile e identificabile. Ricordando il presidente Clinton, uno della generazione del Vietnam che non aveva prestato servizio militare, passeggiare sulla spiaggia della Normandia, il giorno della commemorazione del D-Day, Delbanco commentava: «Guardavo la commemorazione con una certa dose di dubbio che gli americani siano ancora bene attrezzati per riconoscere il male se tornerà a colpirci»!6. La modernità aveva reso il diavolo invisibile. Satana era diventato una «caricatura del terrore». Secondo un sondaggio condotto nel giugno del 2001, solo il 17 per cento dei cattolici, il 18 per cento dei metodisti, il 20 per cento degli episcopaliani, il 21 per cento dei luterani e il 22 per cento dei presbiteriani credeva all’esistenza di Satana!”, In una intervista rilasciata il giorno dopo l’attacco terroristico al World Trade Center, Delbanco tornava a riflettere sul
problema del male nella coscienza americana: «Sarebbe ancora possibile per gli americani non prendere sul serio l’esistenza del male dopo la tragedia del World Trade Center?». La nuova realtà del male, di cui gli americani erano diventati consapevoli in modo improvviso e violento, spiegava ora Delbanco, era rappresentata da esseri umani capaci di convincere se stessi che c’è un bene, un ideale, al quale devono dedicare la
propria vita, e di fronte al quale il dolore e le sofferenze degli altri non contano e possono anzi essere un prezzo da pagare per raggiungere il loro scopo. Il male «è l’incapacità di vedere nelle tue vittime degli esseri umani e di considerarli invece soltanto come strumenti, ruote di un ingranaggio, numeri di una statistica. [...] Noi abbiamo visto il male, ieri. Noi dob-
biamo far fronte alla sua sfida, dobbiamo opporci ad esso»!8. 43
La realtà del male, per tanto tempo rimossa dall’ottimismo degli americani, convinti di vivere nel migliore dei paesi possibili, aveva fatto improvvisamente irruzione nella loro esistenza, incarnandosi in un’organizzazione terroristica che aveva pro-
vocato una carneficina di massa fra persone innocenti proclamando di agire in nome di Dio. Tale fenomeno non poteva non produrre, nella coscienza di un popolo che credeva di essere protetto da Dio, un senso vertiginoso di disorientamento, trovandosi improvvisamente in balia di oscure potenze maligne.
Dio ha abbandonato l’Amèrica? Il trauma prodotto nella coscienza americana dalla tragedia dell’11 settembre non fu solo psicologico, esistenziale e politico, ma fu, per molti americani credenti, anche un trauma re-
ligioso. «Molti che credevano di essere saldamenti fermi sulla Solida Roccia, dopo l’attacco terroristico furono scossi e sbigottiti [...] non tanto per l’inadeguatezza della loro fede, quanto per l’enormità della distruzione», ha scritto la teologa Martha Simmons nella prefazione ad una raccolta di prediche di pastori afro-americani dopo l’attacco terroristico!?. Gli americani sono un popolo religioso, il più religioso fra le nazioni più industrializzate. Più del 90 per cento della popolazione degli Stati Uniti dichiara di credere in Dio o in un essere superiore. Per oltre 1°80 per cento gli americani si professano cristiani. Soltanto l’8 per cento dichiara di essere ateo. Per un popolo così religioso, la tragedia dell’11 settembre ha inevitabilmente coinvolto la fede in Dio, specialmente considerando il modo in cui molti americani interpretano il ruolo di Dio nella storia e nel destino della loro nazione. Fin dalle origini della sua storia, è radicato nella cultura degli americani il mito che il proprio paese goda di una speciale benevolenza da parte della divina provvidenza, che ha assegnato agli Stati Uniti una speciale missione da compiere su
questa terra, a beneficio di tutta l’umanità?°. Questo mito era
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giunto nel Nuovo Mondo dall'Inghilterra, con i Padri pellegrini, e si era venuto rafforzando nel corso della storia degli Stati Uniti. Il loro rapido e prodigioso sviluppo in poco più di un secolo di vita, fino all’ascesa al rango di potenza mondiale,
rinsaldò la fede nella tutela provvidenziale, superando anche gravi momenti di crisi come la guerra contro la Gran Bretagna nel 1812, la Guerra civile di secessione, le dure lotte per i diritti civili contro il razzismo, l’assassinio di Kennedy e la fallimentare impresa bellica in Vietnam. La fine della Guerra fredda, il disfacimento dell’Unione Sovietica, il conseguimento di un’incontrastata supremazia imperiale confermavano che Dio continuava a benedire l'America anche nel primo secolo del terzo millennio. Poi, improvvisa e violenta, era avvenuta l’aggressione terroristica, la distruzione dei massimi simboli della civiltà americana e l’ecatombe di migliaia di persone, che, nella loro molteplicità etnica e religiosa, rappresentavano anch’essi la nazione americana, una nazione di nazioni e fedi di-
verse, fondata sulla libertà di religione. Il successo dell’attacco terroristico dell’11 settembre, facendo improvvisamente crollare il mito della invulnerabilità degli Stati Uniti, scosse nel profondo la coscienza religiosa degli americani credenti in un Dio onnipotente, giusto e misericordioso. Molti americani, sconcertati e sbigottiti, si domandavano come fosse possibile conciliare la divina bontà con un così mostruoso annientamento di vite innocenti, deliberatamente perpetrato da fanatici convinti di agire in nome di Dio. Dove era Dio mentre tante persone inermi venivano annientate in modo spietato? Forse Dio era assente, impotente 0
indifferente? Forse Dio non era buono? Erano queste le domande che si posero molti americani dopo l’11 settembre. Alcuni parenti delle vittime sentirono venir meno la loro fede, altri si sentirono in collera con Dio. «Non mi sento più di parlare con Lui, perché mi sento così abbandonata. So che Dio esiste, so che devo perdonare e andare avanti, ma non mi sento ancora preparata per questo passo», dichiarava ad un anno dalla tragedia la moglie di un pompiere morto al World Trade 45
Center. Una guardia di sicurezza, che conosceva molte persone fra le vittime, si esprimeva più duramente: «Penso di essere un buon cristiano, ma ora considero Dio un barbaro». E un
giovane prete della Chiesa episcopale, che era stato a Ground Zero fin dalle prime ore a benedire secchi contenenti frammenti di corpi recuperati dal cumulo delle rovine, affermava che da quel giorno per lui «il volto di Dio era come una superficie vuota»?!. Molti americani si domandarono come mai Dio lasciava libero il male di agire per causare morte e sofferenza fra innocenti esseri umani. «Ci sono momenti nella nostra vi-
ta nei quali realmente sentiamo più l’assenza che la presenza di Dio. In questo momento, noi sentiamo l'assenza di Dio. [...] Questa esperienza ha indotto taluni a sentirsi isolati da Dio», osservava il reverendo metodista afro-americano William Watley il 16 settembre?2. Forse, commentavano altri, Dio è
buono, ma impotente; oppure è onnipotente, ma indifferente. «Se egli è onnipotente, perché non ha fermato l’attacco terroristico? Può darsi che non ci ama. Forse ci sta punendo. Forse egli è debole. Siamo veramente soli di fronte al pericolo? Non possiamo avere fiducia in Dio? Siamo così terribilmente soli?», si domandavala scrittrice Federica Matthewes-Greene?3.
Erano questi i dubbi che ispiravanole riflessioni teologiche sulla tragedia dell'11 settembre, «un giorno buio della storia umana», come lo definì Giovanni Paolo II nell’udienza generale il 12 settembre. Anche il papa si domandava come fosse possibile «commettere atti di tale selvaggia crudeltà», i quali mostravano che «nell’animo umano ci sono profondità dalle quali emergono talvolta disegni di inaudita ferocia, capaci di distruggere in un attimo la vita normale di un popolo»?4. Credenti di ogni religione, in America e ovunque nel mondo, furono angosciati da questi dubbi, che investivano il significato dell’esistenza, il destino dell’uomo, e il ruolo di Dio negli eventi umani. Sembrava che Dio avesse abbandonato non solo gli americani, ma l’intera umanità di fronte al male: la tragedia dell’ America era una tragedia umana, perché, come osservava il teologo Leroy Rouner, «in un senso molto profondo, non fa 46
alcuna differenza dove vivi. Ognuno, ovunque, ha ora un nuovo senso di vulnerabilità. Il problema, per tutti, è come vivere con esso, senza esserne terrorizzati»??,
Nelle riflessioni di alcuni religiosi e teologi americani, il senso di vulnerabilità e di fragilità prodotto dall’attacco terroristico dell’11 settembre assumeva una dimensione esistenziale e universale: la consapevolezza di vivere in un mondo dove il male è una realtà, la sorte dell’uomo è un’avventura
esposta casualmente alla gioia o al dolore, alla vita o alla morte. In questo mondo fragile, Dio stesso è «fragile», affermava il teologo presbiteriano Frederick Buechner, riflettendo sul significato del crocefisso: Non è fragile solo il mondo nel quale camminiamo, esso sembra dirci, ma anche Dio è fragile. Non soltanto il mondo è vulnerabile a quanto di peggio l’essere umano può fare, ma è vulnerabile anche Dio. Le Torri Gemelle sono state ridotte ad una montagna di rovine fumanti, dove nessuno sa quante migliaia di vittime sono state sepolte morte, agonizzanti o vive, e ciò che la croce sembrava dirmi era che una delle vittime era Dio?.
Le voci di Dio Come era accaduto dopo il disastro di Lisbona, di fronte alla catastrofe americana non c'erano risposte razionali e teologiche alla domanda: come conciliare la realtà del male con l’onnipotenza e la bontà di Dio? «La teodicea ci irrita, ma in sostanza è irrilevante», dichiarava Matthewes-Greene: «L’unica
domanda utile in questo momento non è ‘perché’ ma ‘cosa fare ora’. Cosa dobbiamo fare ora, come possiamo trarre il meglio da quel che è accaduto?»?7. Nonostante ciò, molti teologi e ministri religiosi, commentando gli eventi dell’11 settembre, parlarono agli americani in nome di Dio, spiegando loro come dovevano interpretare, secondo il volere divino, la
tragedia di cui erano vittime. Anche se, osservava il patriarca
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latino di Gerusalemme il 17 settembre, «gli interpreti della Parola di Dio sono tanti e spesso sono contraddittori»: Alcuni trovano nella Parola del Signore amore e misericordia, altri morte e odio. [...] Oggi la parola di Dio è manipolata e si prega Dio per vincere il nemico. [...] La religione non può essere una causa di guerra. Dio non è il Dio dell’odio e della morte. [...] È responsabilità comune di tutti i capi religiosi di liberare se stessi, di non rimanere parti obbedienti di un sistema politico, per essere la voce di Dio, non degli uomini, del Dio di misericordia, di giustizia e amore per tutti?8. Nello stesso senso, un pastore americano criticava quanti
pretendevano di essere le voci di Dio, di parlare in suo nome per manifestare la sua volontà: Nelle settimane dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre abbiamo udito molte voci che pretendevano di parlare per Dio. I terroristi proclamano che la loro guerra santa contro gli Stati Uniti è la volontà di Dio. Parlano per Dio? Anche gli evangelici televisivi sostengono di parlare per Dio. [...] E allora, chi parla per Dio? Parlano per Dio i nostri politici che si radunano sui gradini del Campidoglio e cantano «God Bless America»? Parla per Dio il nostro presidente, che ha dato l’ordine di cominciare a bombardare l’Afghanistan? Parla per Dio il vostro pastore? [...] Chi parla per Dio? Dio parla per Dio!??
In effetti, a voler giudicare dalle voci di Dio udite durante e dopo gli avvenimenti dell’11 settembre, si doveva giungere alla conclusione che Dio era dovunque e con chiunque, quel giorno: con i dirottatori e con i passeggeri, con i carnefici e con
le vittime, con gli inquilini che erano rimasti imprigionati nelle torri in fiamme e gli inquilini che erano riusciti a fuggire e salvarsi; era con le persone che si lanciarono nel vuoto, e con
le migliaia di vittime del crollo delle due torri, con gli americani che piangevano e con gli arabi che gioivano per la carneficina di massa al World Trade Center; con Bin Laden e con il
presidente Bush, che lo invocavano alla guida dei loro eserci48
ti, schierati su fronti opposti, nella guerra contro il male. Fra tante voci che parlavano in nome di Dio, non era possibile che venissero ascoltate le parole di chi riteneva che il silenzio fosse l’unico atteggiamento compatibile con l’enorme disumanità della tragedia dell’11 settembre: Questo scriveva Linenthal il 24 settembre- è il momento di stare in silenzio e in riverente timore di fronte alla potenza del male e alla enormità della morte di massa, senza mettersi a cercare rimedi a
quanto è accaduto. Cercare di liberarsi da questo orrore vuol dire ingannarsi sul potere del male e disonorare i morti?0.
Quasi un anno dopo, recensendo un libro dal titolo Dove era Dio l'11 settembre, che riportava un dialogo fra un prete episcopale e un agnostico, Peter Steinfels, editorialista di «The New York Times», osservava che in altri popoli, in Asia e in America, di fronte a simili tragedie, nessuno si domandava dove era Dio. Dio, osservava Steinfels, non era presen-
te neppure nei messaggi d’amore inviati da alcune delle vittime ai loro cari prima di morire, perché il loro non era un linguaggio religioso, ma era il linguaggio di un amore semplice, spontaneo, umano. Il titolo dell’articolo di Steinfels era ancora più eloquente: «Dove era Dio? È una domanda che può essere posta ogni giorno, o forse non la si pone affatto»?!. Pochi, evidentemente, ascoltarono questi inviti all’umiltà,
mentre molte furono le voci che parlarono per Dio. Del resto, non si poteva pretendere il silenzio da persone la cui missione era rispondere alle domande dei fedeli tormentati dal dubbio, consolare gli afflitti, incoraggiare i disperati. Né potevano tacere coloro i quali erano dediti per vocazione e professione allo studio del bene e del male, alla meditazione sul mistero di
Dio, alla riflessione sulla imperscrutabilità dei disegni divini. Molti religiosi e teologi ritennero necessario riflettere ad alta voce sulla tragedia dell'11 settembre per confortare e far comprendere agli americani quel che essa poteva significare per il destino della nazione nei suoi rapporti con Dio, anche se 49
non tutti dichiararono di parlare in nome di Dio. Come, per esempio, il vescovo episcopale John Shelby Spong. Certamente pochi americani trovarono confortanti le sue parole, che annunciavano dopol’11 settembre la «morte del Dio teista», cioè del Dio concepito come un’entità paterna, che veglia sull’umanità e la protegge. Un Dio così concepito «non è che un fantasma della speranza umana. L'immagine degli aerei dirottati che si schiantano negli edifici uccidendo migliaia di vite, mette allo sbaraglio le pretese teologiche. I cieli sono vuoti: non c'è una divinità protettiva pronta a correre in nostro aiuto. Il Dio del teismo è morto. Questa è la dura conclusione creata dagli eventi dell’ultima settimana»??. Dio, come ùn essere soprannaturale «che vive al di sopra del cielo ed è intimamente coinvolto nelle vicende della storia umana, che miracolosamente
muta gli eventi per adattarli a qualche divino proposito, non è più credibile». La tragedia terroristica poteva essere l’occasione per liberarsi dall’illusione che Dio sia una «pozione magica fatta per salvarci» o una figura protettrice «che controlla il nostro destino o rende sicuro il nostro fragile mondo». Dobbiamo liberarci dalla pia illusione del teismo protettivo, concludeva il vescovo. «E una conclusione che spaventa, ma questa è la realtà in cui viviamo». Il vescovo, tuttavia, non consigliava la
disperata rassegnazione a vivere senza il conforto di Dio in un mondo senza senso. Come aveva fatto il filosofo ebreo Hans Jonas meditando sul concetto di Dio dopo Auschwitz?3, Spong esortava a comprendere Dio secondo un nuovo concetto, e proponeva di concepirlo come «un vento», che fluisce nella vita degli uomini, un’impersonale forza vitale mossa dal potere dell’amore.
I fustigatori Se le parole del vescovo episcopale, che dichiarava morto il Dio padre e protettore, erano poco confortanti per milioni di americani in cerca di risposte rassicuranti, moltissimi di loro 50
giudicarono oltraggiose le parole di alcune voci di Dio, che dissero di vedere nell’attacco terroristico la manifestazione della collera divina contro l'America peccatrice. Un coro di condanna accolse le dichiarazioni che il reverendo Jerry Falwell, uno dei principali esponenti della destra cristiana evangelica, fece durante un'intervista rilasciata il 13 settembre al programma televisivo condotto dal reverendo Pat Robertson, altro eminente esponente dell’evangelismo conservatore e presidente della rete televisiva che mandava in onda l’intervista. Falwell spiegava agli americani che la tragedia dell’11 settembre era avvenuta perché Dio aveva tolto agli Stati Uniti la sua protezione per colpa degli americani, che avevano tolto Dio dalla loro vita, dalla società, dalla scuola, dalla po-
litica. «Dio ci ha meravigliosamente protetti per 225 anni: dal 1812 questa è la prima volta che siamo stati aggrediti sul nostro suolo, la prima volta, e con risultati di gran lunga peggiori», né erano da escludere, aggiungeva il reverendo, nuovi attentati con ordigni più micidiali nelle mani di «questi mostri, gli Hussein, gli Arafat, i Bin Laden: quel che abbiamo visto martedì,
per quanto terribile sia, potrebbe apparire minimo se Dio continuerà a sollevare la cortina e permettere ai nemici dell’ America di darci quel che probabilmente ci meritiamo». Se Dio aveva tolto la protezione all’ America, proseguì Falwell, colpevoli erano gli abortisti, ipagani, le femministe, i gay, le lesbiche, e le associazioni liberali come l'American Civil Liberties Union,
che «hanno tentato di secolarizzare l'America»?4. Le parole di Falwell provocarono una tale ondata di proteste, anche da parte del presidente Bush, che il reverendo si sentì obbligato ad una pubblica ritrattazione, precisando che riteneva responsabile «nessun altro che i dirottatori e i terroristi per i barbarici eventi dell’11 settembre»??. Egli, tuttavia,
non ritrattò il suo giudizio sulle colpe dell’ America: Io — spiegò in un'intervista — mi rivolgevo ad un pubblico cri-
stiano, parlando teologicamente della necessità di un pentimento nazionale. Ripensando a quanto è accaduto, avrei dovuto parlare 201
dei peccati della nazione senza citare per nome organizzazioni e persone. Io esprimevo la profonda preoccupazione di milioni di evangelici americani per il grave declino spirituale durante la passata generazione?°.
La teologia flagellante di Falwell non era molto diversa da quella esposta dal reverendo Robertson nell’introdurre l’intervista. Robertson era stato molto più dettagliato nel denunziare i peccati commessi dagli americani avidi di beni materiali, interessati alla ricchezza, ai piaceri, al sesso, mentre la secolarizzazione incalzava, e 35 o 40 milioni di bambini non nati venivano sterminati in America, e la Corte Suprema scac-
ciava Dio dalle scuole, e i Dieci comandamenti erano espulsi dalle corti di giustizia, e ai ragazzi era vietato di pregare nelle scuole. «Abbiamo persino insultato Dio al massimo livello del nostro governo», concludeva Robertson riferendosi a Clinton, «e ci domandiamo: perché questo accade? Bene, accade perché Dio Onnipotente ci ha tolto la sua protezione. E una volta che la protezione è tolta, noi siamo tutti vulnerabili, perché siamo una società libera, e quindi siamo vulnerabili». Secondo il reverendo, vi erano già migliaia di terroristi arabi infiltrati in America, pronti a colpire. «E l’unica cosa che ci può difendere è il potere di Dio Onnipotente»??. Robertson non ritrattò questo giudizio. Anzi, una decina di giorni dopo, ribadì che la tragedia dell’11 settembre era avvenuta «anche perché Dio ha tolto la Sua protezione dalla nostra nazione»: noi dobbiamo pregare e chiederGli un risveglio di fede, così potremo essere di nuovo il Suo popolo, la pianta della Sua virtù, così che Egli possa tornare a difenderci e a proteggere la nostra nazione. Abbiamo bisogno di un risveglio spirituale. Le chiese devono essere piene. [...] Abbiamo peccato dinanzi al Signore, chiediamo perdono, e come nazione pentiamoci davanti a Dio, e chiediamoGli un risveglio spirituale per mondare la nostra nazione, e mondare il cuore del popolo di Dio?8.
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I consolatori Furono molti i religiosi e teologi che decisamente condannarono l’arroganza di chi si ergeva a giudice della nazione americana in nome di Dio, pretendendo di conoscere la sua volontà. La tragedia dell’11 settembre, disse il reverendo episcopale Peter Eaton, non era un giudizio divino, ma un atto barbarico di terrorismo umano, e pertanto non aveva alcun senso sostenere che Dio aveva «revocato» la sua protezione «a causa dei nostri peccati nazionali, come se Dio fosse solito, proteggere la nostra nazione con una sorta di celeste programma di Guerre Stellari»3?, Del resto, obiettava il teologo tedesco Jurgen Moltmann, affermare che Dio ha permesso l’attacco terroristico «per punire l’America secolare, liberale e omosessuale», equivale ad affermare che «il nostro Dio è il Dio del terrorismo, e i terroristi sono stati i servitori che han-
no adempiuto gli ordini di Dio». Invece di domandarsi dove era Dio fra quegli assassini di massa, aggiunse Moltmann, bisognava cercare la sua presenza fra le vittime: «Gesù pianse alla visione dell’imminente distruzione di Gerusalemme, co-
sì un Dio sofferente ha pianto per la morte delle sue amate creature a Ground Zero»40. Dio, spiegarono altri religiosi e teologi, non era assente l11 settembre, né indifferente, né impotente, ma era «da
qualche parte (il che nel suo caso significa in ogni parte) addolorato per le sofferenze dei suoi figli. Come ogni buon padre, Dio piange per i suoi figli. Non ne sappiamo abbastanza di Dio per comprendere quale sia la sua tristezza e come si manifesta. Ma Dio è triste, così le Scritture ci dicono conti-
nuamente, anche se i teologi hanno difficoltà a spiegarlo», affermava il reverendo Andrew M. Greeley, sociologo e politologo!. Nello stesso senso, molti religiosi e teologi spiegavano che l 11 settembre Dio era con i passeggeri a bordo degli aerei dirottati, nei loro messaggi d’amore ai familiari, era con le vittime della carneficina terroristica, con gli eroici pompieri che avevano perso la vita per salvare quella degli altri, con le 53
famiglie in lutto; era con i soccorritori e con i milioni di americani che facevano la fila per donare il sangue. Ed era con tutti gli americani che si rivolgevano a lui in preghiera per cercare il conforto nel dolore e la guida spirituale, confidando che Dio non li avrebbe abbandonati in un mondo divenuto improvvisamente estraneo e spaventoso.
Tuttavia, neanche dai consolatori gli americani sentirono solo parole di conforto e di speranza; udirono anche parole di ammonimento, certamente diverse, nel tono e negli argomen-
ti, dalle reprimende dei fustigatori, ma che egualmente esortavano gli americani a compiere un collettivo esame di coscienza, ad interrogarsi sulle proprie responsabilità per l’esistenza del male nel mondo, invece di rivolgere accuse o rimproveri a Dio perché non aveva impedito al male di operare contro l’America. A quanti si domandavano perché Dio non aveva fermato l’attacco terroristico, alcuni religiosi risposero che non si poteva pretendere che Dio fosse presente sempre e ovunque, pronto ad intervenire per impedire al male di agire, quasi fosse un agente di polizia in servizio permanente. Il problema del male non era il problema dell’impotenza o dell’indifferenza di Dio di fronte alle sofferenze dell’uomo, ma era il
problema della libertà dell’uomo, e quindi della responsabilità dell’uomo, al quale Dio aveva donato il privilegio del libero arbitrio per poter scegliere fra il bene e il male. Dio non poteva prevenire e impedire il male, se non togliendo all’uomo la sua libertà. La realtà del male, insomma, era la conseguenza della
libertà che Dio aveva dato agli esseri umani, perché la libertà dell’uomo era costantemente esposta alla tentazione del male, spiegavano pastori e teologi d’ogni confessione, ed era l’uomo che doveva scegliere. «Il ritorno al caos è una possibilità perpetua», osservò il teologo Buechner4?. Questo rischio dipendeva da scelte umane, non da responsabilità divina, e di questo rischio dovevano essere consapevoli soprattutto gli americani, proprio per la loro condizione di nazione la più ricca e la più potente della terra, che con la sua condotta condizionava, direttamente o indirettamente, l’esistenza dell’intera umanità. 54
Profeti d’America Ci furono religiosi e teologi i quali, pur profondamente sconvolti dalla tragedia dell’11 settembre, mentre cercavano di confortare gli americani, erano poco inclini ad incoraggiare in loro un atteggiamento di innocenza martirizzata. I terroristi incarnavano il male, ma il male non era soltanto in loro né
agiva soltanto attraverso di loro. Con la severità dei profeti biblici, puntando il dito verso la ricchezza e la potenza dell’ America, questi religiosi e teologi chiamarono in causa le responsabilità della politica americana nel promuovere o addirittura nel produrre le condizioni per l’esistenza del male nel mondo, provocando la diffusione di sentimenti ostili, fino all’odio radicale e spietato, che era sfociato nella carneficina terroristica. La condanna dei terroristi, che avevano deliberatamente provocato la morte atroce di tante persone innocenti, era assoluta e non am-
metteva nessuna giustificazione. Ma l’assolutezza inequivocabile della condanna non doveva impedire agli americani di interrogarsi sulle radici e i motivi dell’odio che portava a produrre nemici così spietati, per poter poi decidere consapevolmente la via da seguire per far fronte alla nuova, terribile realtà del male che l’attacco terroristico aveva rivelato. Invece di domandarsi dove era Dio quando i terroristi attaccavano l’America, gli americani avrebbero dovuto chiedersi, con maggiore umiltà nei confronti di Dio stesso, perché vi erano persone che nutrivano un odio così feroce contro gli Stati Uniti, considerandolo l’incarnazione del male, il Grande Satana”. La risposta, secondo Moltmann, non era difficile da tro-
vare: andate in giro e chiedete alla gente che soffre a causa della politica del vostro governo. Imparate a vedere voi stessi attraverso gli occhi di altri popoli, e specialmente attraverso gli occhi delle vittime. Ciò è penoso, e ferisce l’immagine di noi stessi che più amiamo, ma ci aiuta a destarci dai nostri sogni e a guardare in faccia la realtà*4. 55
Con analogo atteggiamento, il presidente della cattolica University of Notre Dame, Theodore Hesburgh, citando Paolo VI, ricordava che l’80 per cento delle risorse mondiali
erano nelle mani del 20 per cento della popolazione, e che «gli Stati Uniti non sono senza colpa per questa terribile situazione». Siamo bersaglio dei terroristi perché appoggiamo dittature, servitù e sfruttamento nel mondo, incalzava Ro-
bert Bowman, presidente dell’Istituto di studi per la sicurezza spaziale, in una lettera al presidente Bush: «Non siamo odiati perché pratichiamo la democrazia, la libertà e i diritti umani, ma perché li neghiamo ai popoli delle nazioni in via di sviluppo»#5. I più severi, fra i religiosi che esigevano dagli americani un esame di coscienza nel momento in cui ricorrevano a Dio per chiedere protezione, furono i teologi e i predicatori afro-americani. «Nel tempo del terrore dal pulpito afro-americano si è udita la voce più chiara. L'origine di questa chiarezza è nella grave e lunga storia di attacchi subiti, deriva da secoli di familiarità con l’intransigenza del male»#7. In un momento così grave, «il pulpito afro-americano deve essere la coscienza di questa nazione»48. E ciò significava dire agli americani che il male non era soltanto nei terroristi di Bin Laden, ma era dentro la stessa America, nella sua illusione di grandezza, nella sua carenza etica, nel suo senso di invincibilità??.
Gli americani, ammoniva il teologo Robert Franklin, si rivolgevano alla religione per avere una risposta alle loro domande angosciose, ma la cercavano unicamente nei riti e nel-
le pratiche religiose, mentre un’altra dimensione autentica di fede religiosa, che non doveva essere ignorata in quel momento, era la capacità di saper riconoscere i propri peccati individuali e nazionali, per capire quale parte di responsabilità poteva essere attribuita agli stessi americani. «In realtà, disse il teologo, proprio gli edifici che sono stati attaccati, il World Trade Center e il Pentagono, rappresentano l’opulenza e la potenza militare che hanno provocato povertà, morte e sofferenza nel mondo»?9. La tragedia dell’11 settembre era un am56
monimento profetico alla nazione americana, una esortazione a compiere un atto di umiltà e di pentimento per l'arroganza e l’abuso del suo potere nei confronti di altri popoli?!: Noi — disse Vashti McKenzie, il primo vescovo donna della Chiesa episcopale metodista africana — siamo ora costretti ad un lungo e duro esame su chi siamo, quali sono i nostri valori, che cosa è per noi importante. Siamo costretti a domandarci in che cosa e in chi veramente crediamo. [...] Il nostro modo di vivere è ora cambiato per sempre. Vediamo il mondo in modo differente, ora lo vediamo attraverso le lenti del terrore??,
Dalle riflessioni dei religiosi afro-americani emergevano i motivi di una teodicea senza ottimismo. Dio non era certo re-
sponsabile per l’attacco terroristico né «era andato in vacanza lasciandoci esposti alla distruzione demoniaca»??, ma si avvaleva di ogni evento per parlare alle nostre anime. C’era voluta una simile tragedia per fare comprendere agli americani che la loro nazione viveva con «l’arroganza che proveniva da un falso senso di superiorità». «Dio ha strani modi per umiliarci, ma noi sappiamo che Dio sta chiamandola nazione a pentirsi. [....] L'America ha peccati per i quali deve essere perdonata. Molti di noi non sono disposti a riconoscerlo, ma noi siamo stati una nazione corrotta, noi possiamo essere una nazione corrotta»,
disse il reverendo Charles Booth citando il caso del Cile e l’uccisione di Lumumba: «Noi abbiamo creato Osama bin Laden [...] eora tutto questo ricade su di noi e ci perseguita». «Colpevole nei confronti di Dio— aggiungeva il reverendo Cain Felder — è l'America materialista, che celebra apertamente l’avidità, innalzando templi all’egoismo e al materialismo», mentre pochi americani si rendevano conto del crescente divario fra ricchi e poveri e fra le diverse razze, che rivelava il declino del senso religioso e della visione biblica di una comunità fondata sull’amore. Erano queste le colpe dell’ America «bianca», che dopo l’11 settembre «è stata per così dire ‘negrizzata’, perché le masse nere in America vivono quotidianamente nella DI
paura, in una angoscia esistenziale, che deriva loro dell’essere state in America le vittime sociali e politiche di strutture oppressive basate su pregiudizi razziali»??.
Dio è tornato, tornate a Dio! E tuttavia, se ci furono americani che si sentirono in collera
con Dio, abbandonati o distaccati da Dio, nella maggior parte dei credenti non era venuta meno la fiducia nella bontà divina, nonostante l’enormità della carneficina prodotta dall’attacco terroristico e la mostruosità della sua ideazione e attuazione. «Dio non ha niente da fare con tutto questo», commentava un vigile del fuoco in pensione, cattolico, che aveva perso un figlio e molti amici e compagni di lavoro 111 settembre al World Trade Center: «C'era tanta più gente che poteva rimanere uccisa. Dio stava combattendo contro il male, quel giorno, come fa tutti i giorni». Egli ricordò che i pompieri chiamano il fuoco «il diavolo»: «Quel giorno noi combattevamo il demonio, e abbiamo salvato tanta gente... Ma il diavolo è il diavolo»?*. Gran parte degli americani cercò nella fede e nella preghiera il lenimento al dolore e alla paura. Il giorno dell’attacco terroristico, e nei giorni successivi, chiese, sinagoghe, mo-
schee, templi furono assiepati come non accadeva da oltre mezzo secolo. La mattina dell’11 settembre, quando il male si era manifestato nel modo peggiore, dissero vari ministri di culto, Dio si era manifestato nel modo migliore, attraverso un'intera nazione che si rivolgeva a lui in preghiera ovunque, nelle strade, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nelle sedi del
governo?7. «Dio è tornato», annunciava il 28 settembre Peggy Noonan, che aveva collaborato col presidente Reagan nella stesura dei suoi discorsi. «Nel 1964 ‘Time Magazine’ uscì col titolo sensazionale Dio è reorto. Io spero, ora, che vogliano fare una copertina che dica: Dio è tornato»?8. Dopo 111 settembre, osservò il teologo battista Peter Gomes, la gente ave58
va messo da parte astratte questioni filosofiche o teoriche, per tornare a gravitare in quantità sorprendente nei luoghi della fede: «Ogni rabbino, ministro, prete, imam o guida spirituale che io conosco ha riferito di questo incredibile ritorno di fede in questo momento di crisi. Non accadeva probabilmente dal tempo della seconda guerra mondiale un così considerevole ritorno alla fede nel nostro paese»??. Quasi il 70 per cento degli americani, secondo un sondaggio del 19 settembre, affermava di pregare più che in passato, La vendita della Bibbia ebbe un incremento del 45 per cento, furono vendute centinaia di migliaia di libri di conforto religioso, e aumentò del 50 per cento, rispetto all'anno precedente, la consultazione dei siti religiosi e spirituali sul web®!. Nel novembre 2001, il 78 per cento degli intervistati, rispetto al 38 per cento di otto mesi prima, riteneva che l’influenza della religione nella vita americana stava crescendo, una percentuale che rappresentava un forte balzo rispetto agli ultimi quattro decenni, quando non era mai andata oltre il 45 per cento, e risultava anche molto superiore rispetto ad un analogo sondaggio del 1957, quando gli americani che consideravano in crescita l’influenza della religione erano il 69 per cento. Inoltre, alla fine del 2001, il 49 per cento degli americani aveva un'opinione sfavorevole degli atei, contro un 32 per cento di parere opposto. Infine, il 73 per cento degli americani continuava a credere che Dio non aveva smesso di proteggere l America®?, | Molti teologi e pastori esortarono gli americani a saper trarre, dal male sofferto per il feroce attacco terroristico, nuo-
vi motivi per agire nel bene. L’11 settembre era «un appello alla conversione», affermava il reverendo Jose Gomez®. L’esperienza della tragedia sofferta doveva essere l’inizio di un ritorno ai valori religiosi che erano stati all’origine della democrazia americana. E ciò sarebbe stato possibile soltanto se gli americani avessero di nuovo ascoltato e messo in prati-
ca la parola di Dio. Solo tornando sulla via di Dio e assumendo la parola di Dio come guida, ripeterono molti religioD9
si e teologi, l'America avrebbe potuto superare il trauma dell’11 settembre e proseguire con rinnovato vigore morale la sua missione. Era questa l’esortazione che anche Giovanni Paolo II rivolgeva nel suo messaggio al presidente Bush il 13 settembre, tramite il nuovo ambasciatore americano presso il Vaticano. Il papa era convinto che la costante «guida morale dell’America nel mondo dipende dalla sua fedeltà ai principi della sua origine», ai valori della libertà, dell’autodeterminazione, e
delle eguali opportunità, che «sono verità universali ereditate dalle sue radici religiose», perché da queste radici «deriva il rispetto per la santità della vita e la dignità di ogni persona umana fatta ad immagine e somiglianza del suo Creatore». Ma, avvertiva il pontefice, per poter proseguire la sua missione democratica di fronte alla grave sfida con la quale era iniziato il nuovo secolo, l'America doveva rendersi conto delle ra-
dici spirituali della crisi, che stavano vivendo le democrazie occidentali, una crisi provocata dal diffondersi di «una visione materialistica, utilitaristica e sostanzialmente disumana, tragi-
camente staccata dalle fondamenta morali della civiltà occidentale». Il papa prendeva spunto dalla tragedia dell’11 settembre per chiedere alla democrazia americana e alle democrazie occidentali di compiere un esame di coscienza, per riconoscere la propria responsabilità nel promuovere una visione della vita che provocava la decadenza morale delle loro società, con chiari riferimenti alla condanna dell’aborto e dell’eutanasia come aspetti più gravi di questa decadenza. Per sopravvivere e diffondersi, ammoniva Giovanni Paolo II, le democrazie
dovevano essere guidate da una rigorosa visione morale: una visione che ha a fondamento la dignità e i diritti inalienabili dati da Dio a ogni essere umano, dal concepimento fino alla sua morte naturale. Quando alcune vite, comprese quelle dei non nati, sono soggette alla personale scelta di altri, nessun altro valore può essere garantito e la società finirà inevitabilmente con l’essere governata da interessi e convenienze particolari. 60
Era più urgente, concludeva il papa, «rinvigorire la visione morale e la determinazione essenziale per preservare una società giusta e libera»99. Il filo delle argomentazioni esposte dal capo della Chiesa cattolica, per invocare un ritorno dell’ America alle radici religiose della sua democrazia, si intrecciava con le geremiadi dei profeti protestanti d’America nel comune giudizio sulla decadenza morale del mondo occidentale. Il tema della decadenza morale non era nuovo nella cultura americana, sia
conservatrice che progressista, ma dopo l’11 settembre divenne uno degli argomenti principali nelle riflessioni sulle lezioni che l’America poteva trarre dalla tragica esperienza, che l'aveva messa brutalmente a confronto con la realtà del male. Dal dolore per la tragedia dell’11 settembre doveva scaturire un profondo esame di coscienza per la nazione americana e per tutto il mondo occidentale. In effetti, al di là della differenza di tono e di linguaggio, il motivo dei «peccati nazionali» degli americani fu presente in gran parte delle riflessioni religiose e teologiche sulla tragedia dell’11 settembre, sia pure modulato secondo criteri, argomenti e obiettivi diversi, sia da parte dei conservatori sia da parte dei progressisti. Così come fu comune, anche se diversamente interpretata e motivata, l’idea che l’esperienza della tragedia doveva essere per l'America l’inizio di un risveglio spirituale, di un rinnovamento interiore attraverso il ritorno ai valo-
ri religiosi fondamentali, che erano stati all'origine della democrazia americana.
Della necessità di un rinnovamento morale dell’ America si era parlato molto già durante la campagna presidenziale del 2000. I candidati dei due partiti si erano presentati agli americani come uomini di Dio, che volevano riportare Dio nella politica. L'avvento di Bush alla Casa Bianca fu interpretato dalla destra religiosa, che l’aveva fortemente sostenuto, come
un ritorno di Dio alla guida dell'America. E la tragedia dell’11 settembre diede al presidente Bush l'occasione per assumere il ruolo di teologo della religione americana, insieme 61
al ruolo di comandante in capo della nazione in guerra. Per comprendere come ciò sia avvenuto, e quali conseguenze ha avuto per la religione americana nella nuova era del terrore, è necessario ripercorrere il cammino che Bush aveva compiuto per giungere alla Casa Bianca. Un cammino, che il presidente era convinto di aver percorso fino a raggiungere vittoriosamente la meta, perché Dio lo aveva chiamato e lui, umilmente, aveva obbedito, considerando sua missione rea-
lizzare, con l’uso del potere e con l’ausilio della fede in Cristo, il ritorno di Dio nella politica per il rinnovamento della nazione.
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Alla Casa Bianca
Il figlio del padre Gli americani, in grande maggioranza, non si sentirono abbandonati da Dio quando i terroristi avevano attaccato il loro paese, provocando una carneficina di vittime innocenti e
distruggendo il mito della invulnerabilità degli Stati Uniti. Non pensavano neppure che Dio fosse rimasto assente, mentre avveniva l’attacco, o avesse lasciato il male libero di infierire sulla nazione americana, per punirla dei suoi peccati e in-
durla a pentirsi, come sostenevano i predicatori di una teodicea flagellante, che interpretava le migliaia di vite innocenti perite nell’attacco terroristico e il dolore dei familiari in lutto, come una giusta punizione per gli americani che avevano abbandonato la via del Signore. Un sondaggio condotto poche settimane dopo l°11 settembre mostrava che 1°89 per cento degli americani rifiutava di considerare l’attacco terroristico un segno che era venuta meno la protezione che Dio aveva dato in passato agli Stati Uniti!. E ancor meno lo pensava il loro presidente. Anzi Bush manifestò ai suoi collaboratori la convinzione che Dio continuava a vegliare sugli Stati Uniti, specialmente nel momento più tragico della sua storia, confortando e ispirando, attraverso la preghiera, il popolo americano e il suo presidente. Bush era un devoto credente?. Quindici anni prima della sua elezione a presidente, aveva ritrovato la fede in Cristo e aveva dedicato a lui la sua vita, portando la sua fede in politica e ispirando la sua politica alla fede. 63
Per quasi quarant'anni, la vita di Bush si era svolta all’ombra del padre, con una successione di eventi mediocri in ogni campo?. Bush padre, figlio di Prescott Bush, ricco finanziere e influente senatore repubblicano dalla fine degli anni Quaranta alla metà degli anni Sessanta, era stato uno studente brillante, eroe della seconda guerra mondiale a diciotto anni, imprenditore di successo nell’industria del petrolio, prima di intraprendere la via della politica, che percorse nel Partito repubblicano, pur con qualche sconfitta, fino alla Casa Bianca, dove arrivò come vicepresidente con Ronald Reagan nel 1981, dopo essere stato deputato al Congresso degli Stati Uniti, ambasciatore alle Nazioni Unite, capo»della legazione
americana a Pechino e direttore della Cia. Bush figlio, nato nel Connecticut nel 1946, primo di sei figli, fu trapiantato in Texas all’età di due anni, dove il padre si era trasferito dopo la laurea per lavorare nel settore petrolifero. La cultura conservatrice popolare e religiosa del Texas contribuì a formare la sua mentalità e il suo carattere molto più degli studi universitari fatti in prestigiose scuole del New England, ad Andover, Yale e Harvard, le stesse frequentate dal nonno e dal
padre. Il giovane George si distinse come gioviale animatore di feste più che come studente brillante. La rivolta giovanile nel 1968 non lo coinvolse né scalfì il suo conservatorismo texano,
che ne fu anzi rinforzato. Negli anni della guerra del Vietnam, Bush fece il servizio militare come pilota di combattimento nella Guardia nazionale aerea del Texas, così evitò di andare a combattere contro i Vietcong. Dopo il master in Business and Administration (paragonabile ad Economia e Commercio), nel
1975 tornò in Texas, e grazie alle amicizie del padre entrò negli affari del petrolio, costituendo una società per la trivellazione. Nel 1978 anche Bush figlio volle incamminarsi sulla via della politica, presentandosi candidato alle elezioni per il Congresso come rappresentante del Texas, ma fu sconfitto. Neppure nella trivellazione del petrolio ebbe fortuna, ma riuscì fortunosamente ad uscire indenne dal fallimento della sua società, rica-
vandone comunque un cospicuo guadagno.
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Durante questa parte della sua vita, la religiosità non era stata un tratto caratteristico della personalità di Bush. Nella tradizione della sua famiglia vi erano diversi rami del cristianesimo. Il bisnonno paterno era cattolico, il padre era affiliato alla Chiesa episcopale, ma divenne successivamente presbiteriano come la moglie; Bush figlio frequentò da ragazzo la Chiesa presbiteriana. Quando si sposò, nel 1975, passò alla Chiesa metodista, cui apparteneva la moglie, ma la religione continuava a non essere una passione della sua esistenza. Come lo era allora l’alcool. Bush beveva e si ubriacava spesso, perché, raccontano gli amici, quando cominciava a bere non era capace di smettere. Né i genitori, né la moglie, né la nascita di due gemelle, né la notorietà politica del padre, divenuto nel 1981 vicepresidente degli Stati Uniti, riuscirono ad allontanarlo dalla bottiglia. E non fu neppure la riscoperta della fede in Cristo, nel 1985, a dargli la spinta risolutiva per rinunciare all’alcool. Infatti, questo evento decisivo avvenne solo un anno dopo il suo ritorno alla devozione religiosa. A fare scoccare la decisione di rinunciare per sempre
all’alcool, furono i terribili postumi di una sbornia, il giorno dopo la festa dei suoi quarant’anni, e la fermezza della moglie, decisa a non tollerare oltre il suo comportamento da ubriaco. La riscoperta della fede in Cristo contribuì ad infondergli l'energia morale per abbandonare definitivamente la via di perdizione nell’alcolismo. «Addio Jack Daniels, benvenuto Gesù Cristo», avrebbe detto celiando un suo amico, do-
po la conversione di Bush dall’alcolismo all’evangelismo.
Sulla via del figlio di Dio Bush ha rivelato di essersi incamminato sulla via di Cristo nell’estate del 1985, dopo un colloquio con Billy Graham, celebre predicatore evangelista, consulente religioso di tutti i presidenti americani dell’ultimo mezzo secolo, nonché amico personale della famiglia Bush. Il predicatore, narra Bush, «mi65
se un seme di mostarda nella mia anima», e lo avviò su «una
nuova strada, sulla quale avrei ridedicato il mio cuore a Gesù Cristo»4. Un amico lo introdusse in un gruppo evangelico appartenente all’organizzazione nazionale delle Comunità perlo studio della Bibbia, che si riuniva periodicamente per leggere e meditare sulle Sacre Scritture. Nelle frequenti rievocazioni che Bush ha fatto del ritorno alla religione, la riscoperta della fede in Cristo e la rinuncia all’alcool hanno assunto il significato di un unico evento straordinario, quasi rivelazione e annuncio di un disegno provvidenziale, che gli avrebbe indicato la via per conquistare nel 2000 il pulpito presidenziale, perso dal padre otto anni prima. «Avevo problemi col bere. In questo momento sarei in un bar del Texas, non nell’Ufficio Ovale», disse ad un gruppo di religiosi dopo essere diventato presidente: «Ma c’è una sola ragione, se oggi sono nell’Ufficio Ovale e non in un bar. Ho trovato la fede. Ho trovato Dio». La fede rafforzò la sua volontà, mise ordine nella sua esi-
stenza, diede una disciplina e un orientamento alla sua vita. Il seme piantato da Graham ela decisione di rinunciare all'alcool cominciarono a dar frutti nel 1988, quando Bush si trasferì a Washington per collaborare a dirigere la campagna presidenziale del padre. Fu un’esperienza importante per la sua formazione politica, perché gli fece conoscere la complessità della macchina organizzativa ed elettorale del Partito repubblicano. Emersero allora le qualità del suo carattere, come la volontà e la tenacia, insieme alla capacità di organizzatore. La riscoperta della religione gli giovò per conquistare il voto della destra religiosa, tutt'altro che unanime nel sostenere la candidatura di Bush padre, considerato un repubblicano inaffidabile per il suo tiepido conservatorismo religioso: contro di lui era sceso in campo, per contendergli la candidatura nel Partito repubblicano, il principale campione della destra evangelica, Pat Robertson. Bush figlio mostrò una speciale abilità nel corteggiare e conquistare il voto degli evangelici e dei cristiani «rinati» (borz again), perché dopo il ritorno alla fede aveva 66
imparato a parlare il loro linguaggio, presentandosi come uno di loro: un peccatore redento dalla personale esperienza della fede in Cristo e deciso a seguire la via del figlio di Dio in ogni momento della propria vita e della propria attività. Conclusa vittoriosamente la campagna presidenziale, Bush tornò nel Texas, dove partecipò, con un gruppo di ricchi finanzieri, amici del padre, all’acquisto della squadra di baseball Texas Rangers, diventandone il dirigente, pur avendo versato una quota modesta. Da allora, il baseball fu la sua principale attività, che gli valse ad accrescere la ricchezza personale e a diventare popolare nel Texas. La sconfitta elettorale del padre nelle presidenziali del 1992 lo indusse a riprendere la via della politica, per proseguire la tradizione di famiglia. Si candidò alla carica di governatore e, contro le aspettative di molti, vin-
se. E vinse di nuovo nel 1998, il primo caso di rielezione consecutiva di un governatore nella storia del Texas. Da allora, la fede religiosa divenne la bandiera politica di Bush, che considerò lo svolgimento delle funzioni istituzionali il compimento di una missione al servizio di Dio®. Nella cerimonia inaugurale alla carica di governatore, presente Billy Graham, Bush invocò l’aiuto di Dio, perché, disse, idoveri che assumeva potevano essere assolti meglio «con la guida di Uno
più grande di noi». Al discorso inaugurale seguì un servizio religioso, dove fu cantato un inno scelto da Bush, Urza rzissione da compiere, composto da Charles Wesley, fratello di John Wesley, il predicatore protestante che nel Diciottesimo secolo aveva fondato la Chiesa metodista”. Poco dopo aver assunto la carica, Bush inviò un memorandum a tutti i collaborato-
ri, informandoli che nel suo studio aveva collocato un quadro ispirato all’inno di Wesley, con lo stesso titolo, citando i versi che dicevano: «per servire nel presente, per adempiere la mia vocazione, possa impegnare tutte le mie energie per fare la volontà del Signore». «Questa è la nostra missione. Questi versi
esprimono il nostro spirito», commentava Bush ricordando ai collaboratori che «siamo al servizio di Uno più grande di noi»8. Il suo ultimo atto ufficiale, come governatore del Texas, 67
fu di proclamare il 10 giugno 2000 il «Jesus Day», per onorarela vita el’insegnamento di Cristo, «riconosciuto dai credenti di tuttele religioni del mondo quale esempio di amore, di compassione, di sacrificio e di servizio». La «Giornata di Gesù» avrebbe esortato la gente a seguire l'esempio di Cristo nel compiere volontariamente opere buone per la propria comunità e per il prossimo?
Il filosofo preferito Quando decise di presentarsi alle elezioni presidenziali del 2000, Bush portò in campagna elettorale la sua religione, e la sua religione divenne subito il tema più discusso della sua candidatura. Tutto cominciò quasi per caso a Des Moines, capitale dello Iowa, il 13 dicembre 1999, durante un dibatti-
to televisivo fra gli aspiranti candidati repubblicani. Il moderatore aveva chiesto a ciascuno di loro di nominare il filosofo preferito. I primi due candidati indicarono l’uno John Locke, l’altro i Padri fondatori. Al suo turno, Bush, che forse non era
preparato ad una simile domanda, rispose: «Cristo, perché ha cambiato il mio cuore. Quando rivolgi il tuo cuore e la tua vita a Cristo, quando lo accetti come salvatore, ciò cambia il tuo
cuore. E questo è quanto mi è accaduto». Alla richiesta di spiegare ai telespettatori in che modo Cristo aveva cambiato la sua vita, Bush rispose che era un’esperienza difficile da spiegare perché poteva essere compresa solo da chi l’aveva vissuta. La citazione di Gesù piacque comunque a gran par-
te del pubblico presente, che applaudì, mentre colse di sorpresa gli altri candidati, i quali, cinque su sei, si affrettarono a dichiarare anch'essi la loro fede in Cristo e in Dio!°. Da quel momento, esplose un caso attorno alla religione di Bush, che gli procurò enorme pubblicità, facendo concentrare l’attenzione degli osservatori sulle sue convinzioni religiose e sull’influenza che queste avrebbero potuto avere sulla politica della sua presidenza. L'esibizione della fede da parte di 68
Bush parve a molti un espediente elettorale per conquistare i voti della destra religiosa. «Del resto, perché non usare il figlio di Dio per aiutare l’appello del figlio di Bush ai votanti», commentò Maureen Dowd, editorialista di «The New York
Times»!!. Tuttavia, quale che fosse il genuino motivo della risposta di Bush su Gesù «filosofo preferito», ciò gli diede l’occasione per fare della religione uno dei motivi principali della campagna elettorale, anche se, prima del dibattito nello Iowa,
aveva dichiarato di sentirsi «a disagio a descrivere la mia fede perché nel mondo politico ci sono tanti che dicono ‘vota per me perché sono più religioso dei miei avversari”. Questa gente mi irrita»!2, Con umiltà cristiana, Bush dichiarava di non
sentirsi affatto superiore ai suoi avversari per la sua fede religiosa, perché questa gli insegnava a guardare la trave nel proprio occhio invece del fuscello nell’occhio degli altri. Inoltre, voleva essere giudicato per la sua personalità e il suo programma, non per le sue convinzioni religiose, anche se erano per lui più importanti del successo politico. «Sono pronto a combattere come un diavolo e dare il meglio di me in questa campagna», per diventare presidente, disse in una intervista, ma «se ciò non dovesse accadere, mi darà conforto sapere che c’è una forza più grande di me».
Religione e candidati Alla grande maggioranza degli americani non dispiaceva affatto che i candidati alla presidenza esprimessero le loro convinzioni religiose. Secondo un sondaggio Gallup del dicembre 1999, il 52 per cento degli americani era più propenso a votare per un candidato che parlava della sua personale relazione con Cristo, che per candidati che evitavano di farlo!4. Nelle elezioni del 2000, l’atteggiamento degli americani sui rapporti fra religione e politica appariva ambivalente, anche se la grande maggioranza era decisamente favorevole a sostenere i politici che si professavano credenti: il 70 per cen69
to preferiva come presidente una persona che aveva una fede religiosa, anche se ciò interessava meno i giovani, mentre a
metà dell’elettorato non piacevano i politici e i candidati che ne parlavano troppo!?. Il dato più significativo emerso dai sondaggi nel corso del 2000 era la convinzione, condivisa da quasi il 70 per cento degli americani, che la religione era fondamentale per impedire la decadenza morale della nazione, dovuta alla crisi della famiglia, al declino dell'educazione e del rispetto, al dilagare del materialismo e alla disgregazione della società. L’80 per cento rifiutava decisamente di credere che la società avrebbe avuto una condizione migliore se un maggior numero di americani avesse abbandonato la fede. Molti americani pensavano che senza religione non vi poteva essere moralità, e per questo auspicavano una sua in-
fluenza più estesa nella vita privata e pubblica. Inoltre, il 47 per cento degli americani riteneva che una maggiore fede religiosa da parte dei politici avrebbe giovato a migliorare la politica, mentre il 39 per cento diceva scetticamente che ciò non avrebbe fatto alcuna differenza, e 11 per cento affermava che i politici con un maggior zelo religioso avrebbero addirittura peggiorato la politica. Per l'elezione presidenziale, il 54 per cento dichiarava che non avrebbe mai votato per un candidato che avesse dichiarato di non credere in Dio, e il 52
per cento affermava che era propenso a votare più volentieri un candidato che traeva conforto e forza della religione, mentre il 58 per cento giudicava sbagliato assumere l’appartenenza religiosa dei candidati come criterio di scelta. La maggioranza degli intervistati diceva però di non sapere quale fosse l’appartenenza religiosa di Bush e di Gore. Inoltre, il 48 per cento affermava che la nazione aveva bisogno di politici integri ed onesti, più che di politici religiosi, mentre il 49 per cento riteneva che ciò sarebbe stato possibile soltanto se ci fossero stati più politici religiosi. Lo stesso sondaggio mostrava, infine, che la grande maggioranza degli americani, il 74 per cento, dubitava della sincerità dei politici quando parlavano troppo della loro fede religiosa, perché erano soltan70
to a caccia di voti, pur comprendendo che per sua natura la politica esigeva di essere pragmatici!‘. Quale che fosse l’atteggiamento degli americani nei confronti della fede religiosa esibita in politica, è certo che nessuno dei candidati alla presidenza avrebbe potuto vincere le elezioni senza trovare un linguaggio religioso adeguato a conquistare il voto dei credenti, che erano la grande maggioranza dell'elettorato. Quasi tutti i candidati, sia nel Partito repubblicano che nel Partito democratico, coinvolsero Dio nella loro propaganda, dichiarando che la loro politica era ispirata dalla loro fede e che consideravano Dio la loro guida. Nel già ricordato dibattito del 13 dicembre fra gli aspiranti repubblicani alla candidatura, Dio e Cristo furono citati complessivamente più di venti volte!”.
Un Dio elettorale Per tutto il corso della campagna, i candidati alla presidenza fecero della religione un argomento dei loro discorsi e interviste, tanto che molti osservatori lamentarono un eccesso di
retorica religiosa. «La fede sta diventando un principio organizzativo della prima elezione del terzo millennio», commentò Howard Fineman su «Newsweek» il 1° gennaio 2000!8. Più sorpresa fu la stampa laica europea. Ciò che appariva sconcertante, osservava il giornale inglese «The Independent», non era la fede religiosa, ma il modo in cui i candidati la esibivano, come uno slogan, lasciando intendere che vi sarebbe stata una sostanziale differenza fra una Casa Bianca in stretto rapporto con Dio, e una Casa Bianca impegnata unicamente a governare. Quel che maggiormente preoccupava il giornale inglese era però altro: un nuovo genere di intolleranza, non verso una qualsiasi minoranza religiosa, ma l’intolleranza verso la laicità. [...] Gli Stati Uniti possono ora accettare anche un vicepresidente ebreo, ma sarebbe 71
impensabile per un non credente, che si dichiari tale, aspirare ad ottenere la stessa carica!?.
In verità, la presenza di Dio nella lotta per la Casa Bianca non era una novità, e neppure un fatto eccezionale e inconsueto nella tradizione americana. La religione non era stata mai assente nelle competizioni presidenziali, come mostrano alcuni esempi notevoli. Sydney E. Ahlstrom, storico della religione del popolo americano, ha definito le elezioni del 1896 «uno dei grandi eventi rivelatori nella storia religiosa americana», perché la competizione avvenne fra due candidati che «impersonificavano il protestantesimo americano, William Jennings Bryan, precursore del fondamentalismo cristiano, e il fervido metodista William McKinley»?°. La religione fu tema dominante anche nelle elezioni del 1928, quando i protestanti si mobilitarono contro il candidato cattolico, e lo fu di nuovo nelle ele-
zioni del 1960, quando fu eletto per la prima volta un presidente cattolico, John F. Kennedy. Grande abbondanza di retorica religiosa ci fu ancora nella competizione presidenziale del 1972 fra il repubblicano Richard Nixon e il democratico George McGovern. Il presidente Nixon diede un’intonazione teologica alla sua esaltazione del sistema americano, dello spirito americano e della fede nell’America?!. Il candidato democratico presentò la sua campagna come una crociata religiosa contro il male, identificandolo con la presidenza Nixon,
la «più corrotta e immorale amministrazione della storia», e chiese a Dio sapienza e conoscenza per poter compiere la
missione di rigenerare la nazione, che rischiava di precipitare nella decadenza perdendo la protezione della provvidenza??. Il fattore religioso ebbe un ruolo di rilievo anche nelle elezioni del 1976, con la candidatura democratica di Jimmy Carter contro il presidente Gerald Ford. La rivista «Church and State» osservò che nelle elezioni del 1976 «si era dibattuto su problemi religiosi e sulle relazioni fra Stato e chiesa molto più di quanto non fosse avvenuto dal tempo della elezione di Ken72
nedy»?3. La cosa non era però sorprendente, secondo la rivista, sia perché le elezioni si erano svolte in un clima di risveglio religioso, dopo un decennio di guerra, di conflitti razziali, di incertezze culturali e di crisi economica, sia perché entrambi i candidati «erano la più devota coppia di nominati da entrambi i partiti dall’epoca dell’elezione di McKinley nel 1896»?4. Il religioso Carter fu sfidato nelle elezioni del 1980 da Ronald Reagan, che abilmente mescolò religione e politica nella sua campagna elettorale, e riuscì a battere il suo antagonista,
ritenuto devoto ma inetto, perché seppe dare un messaggio di vigore, con una energica esaltazione patriottica del ruolo storico dell'America nel mondo, come guida politica e spirituale della crociata contro il totalitarismo comunista. Reagan fu eletto col voto decisivo della destra religiosa, che dal nuovo presidente si aspettava un ritorno all’ America tradizionalista, forte, capace di superare il retaggio del Vietnam, di contrastare l'avanzata aggressiva dell’imperialismo sovietico, e di cancellare l'umiliazione subita da Carter, con il sequestro degli americani nella loro ambasciata a Teheran, dopo la rivoluzione teocratica di Khomeini nel 1979. Dio continuò ad essere presente nelle elezioni presidenziali degli anni successivi. «Nessuno può essere presidente dell’ America senza credere in Dio, senza credere nella preghiera», disse Bush padre durante la campagna per la rielezione nel 1992, contro lo sfidante democratico Clinton?3.
L’America, dichiarò il presidente, «è ancora la nazione più religiosa della terra e i nostri valori fondamentali sono stati stabiliti da Dio Onnipotente». E nel discorso alla convenzione del Partito repubblicano, dopo aver accettato la nomina,
Bush padre ribadì la sua professione di fede: «Credo che l'America avrà sempre un posto speciale nel cuore di Dio, fino a che Egli avrà un posto speciale nel nostro cuore»?°. «Mai il nome di Dio è stato invocato tanto frequentemente, e mai questa o qualsiasi altra nazione è stata così costantemente benedetta, come durante la campagna presidenziale tb)
del 1992», scriveva William Safire??. Analogo il commento dello «Star Tribune» di Minneapolis: «La fede è un fattore nella campagna presidenziale. [...] A volte, questa campagna elettorale è apparsa più simile ad una riunione religiosa domenicale che ad una razionale discussione di problemi nazionali»?8. Il giornale, riportando le opinioni di autorevoli esponenti religiosi, criticò severamente il presidente perché aveva accusato i democratici «di non menzionare mai tre
semplici lettere, DIO». Il giornale rimproverava Bush di aver dato così una nuova piega al tradizionale costume politico americano di invocare la fede per vincere le elezioni, rivestendo Dio di panni repubblicani. Le parolè del presidente, riferì il giornale, non piacevano al reverendo Martin E. Marty, teologo luterano e storico della religione: Non conosco nessun altro presidente che abbia detto: il mio partito riconosce Dio e il tuo invece no. I presidenti hanno sempre collegato la nostra nazione a Dio, in un modo convenzionalmente bipartitico. Dire che un partito sostiene Dio e l’altro no, questa è una novità, e alquanto inquietante.
L'affermazione di Bush padre turbò anche il teologo James Skillen, direttore di un istituto di politica evangelica a Washington, il Center for Public Justice, perché, secondo lui, il presidente lasciava intendere che per essere seri cristiani bisognava essere repubblicani.
Democratici per Dio In realtà, il Partito democratico non aveva ignorato Dio nella campagna presidenziale del 1992, anzi, per la prima volta nella sua storia, aveva presentato due candidati, Clinton e Gore, entrambi cristiani professanti e affiliati alla Chiesa battista del Sud. Clinton non fu affatto restio a parlare della sua religione. All’accusa che i democratici erano in qualche mo-
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do «senza-Dio», Clinton reagì accusando il presidente di avere profondamente offeso lui «e tutti quelli che condividono le nostre convinzioni religiose ma rispettano anche la tradizione americana della diversità religiosa»??. Più volte, nei discorsi elettorali, Clinton parlò della sua devozione. «Prego praticamente ogni giorno la sera, e leggo la Bibbia ogni settimana. [...] Io credo anche in molte altre cose ritenute antiquate, come la permanenza del peccato, la possibilità del perdono e la realtà della redenzione», dichiarò all’inizio della
campagna presidenziale. La mia fede — spiegò nell’intervista ad una rete televisiva interreligiosa — mi insegna che siamo tutti peccatori. [...] La fede religiosa mi permette di credere nella possibilità costante di diventare ogni giorno una persona migliore. Se non credessi in Dio, se non
fossi un cristiano, se non credessi fondamentalmente nella perfezione della vita dopo la morte, la mia vita sarebbe stata molto differente. [...] Il fatto che abbia una profonda fede in Dio e un senso di missione nel cercare di fare la cosa giusta ogni giorno, dovrebbe rassicurare il popolo americano?.
Commentando la sua prestazione in un dibattito televisivo con Bush, un osservatore scrisse che Clinton aveva mo-
strato l’«empatia e la sicurezza di un evangelista televisivo»3!. A Clinton piaceva fare campagna elettorale nelle chiese, tanto da essere soprannominato il «reverendo Bill». La frequenza nell’usare i pulpiti protestanti per fare propaganda suscitò le reazioni negative della stampa cattolica?. I fondamentalisti della destra cristiana, come Pat Robertson e Jerry Falwell, lo accusarono di «manipolare le Scritture per scopi politici», perché aveva infiorato di citazioni bibliche il suo discorso di accettazione della nomina alla convenzione nazionale del Partito democratico??. In effetti, il candidato democra-
tico diede spesso ai discorsi una intonazione teologica per illustrare la sua politica, a cominciare dallo slogan da lui scelto per definire il suo programma, il «nuovo patto» (ew covenant), per «riaffermare i nostri valori che sono radicati nella 75
nostra fede religiosa», come disse all’Università cattolica di Notre Dame?4. Clinton definì la sua campagna contro Bush una «grande crociata» per cambiare e risanare il governo, e per riaffermare le radici religiose della democrazia americana??. Neppure Bush figlio avrebbe potuto accusare l’antagonista democratico Gore di ignorare Dio, di essere insensibile e indifferente alla religione, o di voler diminuire la presenza della religione nella politica e nella vita pubblica. Tutt’al contrario: il candidato democratico poteva vantare una fede religiosa altrettanto fervida del suo oppositore, e persino una maggior competenza in materia di cristianesimo, avendo coltivato da giovane studi teologici. Gore, membro della Chiesa battista del sud si definiva un cristiano «rinato», che aveva dedicato la sua vita a Gesù dopo aver combattuto in Vietnam. Gli orrori della guerra lo avevano indotto ad iscriversi, dopo il ritorno a casa, ad una facoltà
di Teologia. Gore si interessò dei rapporti fra teologia e scienza, e anche se non concluse i suoi studi teologici, elaborò una propria concezione evangelica di un cristianesimo ambientalista, che spiritualizzava la natura e considerava la protezione dell'ambiente un dovere cristiano. Un ambientalismo religiosamente ispirato fu un aspetto importante della sua politica, sia come senatore sia come vicepresidente. Nel 1991 promosse una conferenza con la partecipazione dei rappresentanti
delle principali confessioni americane, per elaborare una strategia di azione in difesa dell’ambiente, sfociata tre anni dopo nella istituzione della National Religious Partnership for the Environment. Il suo libro Earth in the Balance, pubblicato nel 1992 con grande successo, esaltava la spiritualità dell’ecologia come espressione di religiosità. Nel 1996, quando la Nasa riferì che erano stati trovati residui di microrganismi su Marte, Gore organizzò un convegno di scienziati e di religiosi per discutere sulla possibilità della vita su Marte85. Durante la campagna presidenziale del 2000, Gore parlò della sua esperienza di cristiano «rinato», affermando che la fede era il centro della sua vita, la sua filosofia politica, e che 76
prendeva le proprie decisioni domandandosi sempre «Cosa farebbe Gesù?», una formula popolare in America, specialmente fra i giovani, con l'acronimo «WWJD?» (What Would Jesus Do?). Gore si dichiarava fermo sostenitore della separazione fra Stato e Chiesa, ma precisava che «la libertà d/ religione non significa necessariamente libertà da//a religione»??.
Rigeneriamo la nazione La vera novità religiosa nella campagna presidenziale del 2000 non fu la risposta di Bush sul filosofo preferito, né la mobilitazione di Dio e di Gesù nella competizione presidenziale: la vera novità fu la scelta, come candidato democratico alla vice-
presidenza, del senatore Joseph Lieberman, un ebreo appartenente alla corrente del giudaismo americano degli «ortodossi moderni». Fu una decisione coraggiosa: Lieberman era il primo ebreo candidato alla vicepresidenza degli Stati Uniti. La candidatura di Lieberman fu considerata un evento storico, perché rappresentava un ulteriore progresso verso una effettiva eguaglianza religiosa in America. Era una scelta che faceva cadere un’altra barriera e apriva la strada a nuove opportunità, commentò il reverendo afro-americano Jessie Jackson?8. Persino Jerry Falwell giudicò «meravigliosa» la candidatura di un senatore democratico che durante i lavori al Senato si concedeva una pausa tre volte al giorno per pregare. Secondo il quotidiano inglese «The Financial Times», Gore aveva deliberatamente posto la religione al centro della sua campagna elettorale, perché era «inevitabile chiedere aiuto a Dio nella lotta elettorale contro Bush», vista la mobi-
litazione della destra religiosa a favore del candidato repubblicano. I sondaggi attribuivano a Bush il 51 per cento dei voti dei cristiani «rinati», rispetto al 31 per cento per Gore. Scegliendo un ebreo ortodosso moderato, il «rinato» Gore voleva mandare all’elettorato religioso un forte segnale sulla sua volontà di distanziarsi nettamente dall’ombra immorale che VA;
aveva circondato gli ultimi anni della presidenza Clinton??. Lieberman era una delle persone più rispettate della politica americana, un moralista conservatore che difendeva l’inte-
grità dei valori tradizionali della famiglia, e aveva deprecato in Senato il comportamento di Clinton. Scegliendo Lieberman, osservava ancora il giornale inglese, Gore aveva scelto quale possibile futuro presidente degli Stati Uniti un uomo che non voleva «infondere nella politica americana le proprie credenze religiose» ma compiere «una profonda missione spirituale mirante a un risveglio dei valori morali nel paese», Lieberman era fautore di una rigenerazione nazionale, e fin dalla metà degli anni Ottanta aveva incitato i democratici a infondere più religione nella loro politica, per combattere la cultura immorale diffusa da Hollywood, che stava corrompendo l'America. In una intervista alla televisione evangelica di Pat Robertson, il senatore democratico dichiarò che l’America aveva bisogno di «un nuovo risveglio spirituale» e per questo considerava un segno confortante che, dopo tre decenni, finalmente «la gente di fede esprima i suoi principi religiosi nell'arena politica». Fin dalle origini della nazione americana, ricordava Lieberman, i «grandi risvegli» (Great Awakening) avevano contribuito al progresso della democrazia: avevano condotto alla Dichiarazione di indipendenza e alla Dichiarazione dei diritti nel Diciottesimo secolo, all’abo-
lizione della schiavitù e alle riforme sociali nel Diciannovesimo secolo, e al movimento dei diritti civili nel Ventesimo se-
colo. Ora era necessario un «quarto risveglio» della religione americana come antidoto alla violenza, alla promiscuità, alla
volgarità e alla degradazione dei valori familiari4!, Lieberman era fermamente convinto della necessità di dare nuova vitalità alle radici religiose della democrazia americana. Nel 2000 pubblicò un libro, Ir Praise of Public Life, nel quale sosteneva che la Bibbia poteva essere una fonte ispiratrice per l’azione pubblica della politica‘. Per questo, egli criticava l’orientamento della Corte Suprema, che negli ultimi decenni aveva favorito la rimozione della religione dallo spazio pubblico per 78
relegarla nella sfera privata, interpretando in modo sbagliato il principio della separazione fra Stato e Chiesa. Secondo il candidato alla vicepresidenza, i Padri fondatori avevano elaborato una costituzione che, mentre «saggiamente aveva se-
parato la Chiesa dallo Stato, garantiva tuttavia la libertà di religione, non la libertà da//a religione»4. Nel settembre, dal pulpito di una chiesa afro-americana di Detroit, Lieberman ribadì che bisognava dare maggiore spazio alla religione nella vita pubblica, e incitò gli americani «a rinnovare la dedizione della nostra nazione e di noi stessi a Dio»44.
Corteggiare gli evangelici bianchi Non fu dunque Bush l’unico a coinvolgere la religione nella campagna presidenziale. Tuttavia, la sua dichiarazione su Cristo filosofo preferito fece clamore e contribuì ad accentuare l'intonazione religiosa all’intera campagna presidenziale. La dichiarazione fu accolta con molto favore dai cristiani tradizionalisti, specialmente dagli evangelici e dai cristiani «rinati», che videro in Bush il presidente che essi volevano alla Casa Bianca. Gli evangelici conservatori erano una cospicua parte della popolazione religiosa bianca degli Stati Uniti, con un alto potenziale elettorale, che nessuno dei due candidati poteva ignorare se voleva vincere. L’evangelismo protestante non è la denominazione di una chiesa né una specifica dottrina teologica, ma è una esperienza religiosa individuale, un modo di vivere il cristianesimo che si fonda unicamente sulla Bibbia, ritenuta l’espressione autentica e infallibile della volontà divina, alla quale attingere i principi per condurre la propria esistenza. Il cristianesimo evangelico esalta soprattutto la figura di Cristo salvatore e redentore dell’umanità, attraverso il sacrificio della croce, e perse-
gue come scopo principale la salvezza dell’anima. Appartengono all’evangelismo, con proprie caratteristiche, i cristiani «rinati». Il termine born agatn non ha un significato 19
univoco per tutti coloro che lo adoperano né per quelli che si definiscono tali. Il termine entrò in politica nel 1976, con l’elezione alla presidenza di Jimmy Carter, il primo candidato a professarsi pubblicamente born again. Da allora, ilnumero dei cristiani «rinati» è venuto continuamente crescendo. In senso
generale, sono considerati o si definiscono borz again coloro che riscoprono la fede, attraverso un’esperienza spirituale personale, che li porta a «rinascere in Cristo», dedicando la propria esistenza alla pratica del suo insegnamento. Nel mobilissimo caleidoscopio del cristianesimo americano, i «rinati» non costituiscono una denominazione confessionale, ma si
distinguono per il loro modo di concepire l'insegnamento di Cristo. Il cristianesimo «rinato» è un modo di sentire e di vivere la fede religiosa come una quotidiana dedizione a Cristo, il Salvatore, che assicura la vita eterna a chi riconosce i propri peccati, rinasce nella sua fede, e segue il cammino che egli ha indicato, senza attribuire molta importanza alle pratiche religiose e alle Chiese. Secondo un’indagine condotta nel marzo 2001, l'aumento dei cristiani rinati, passati dal 31 per cento del 1991 al 41 per cento nel 2001, coincideva con una notevole diminuzione degli affiliati alle Chiese protestanti tradizionali, e con un declino delle credenze fondate sulla teologia dottrinaria, sostituite da teologie soggettive, derivanti da interpretazioni personali dei principi e dei valori del cristianesimo. L’indagine segnalava inoltre che alla diffusione del cristianesimo «rinato» nel decennio 1991-2001 corrispondeva una diminuzione della frequenza nelle Chiese, calata dal 49 al 37 per cento, mentre era aumentato dal 27 al 33 per cento il numero dei cristiani che non appartenevano a nessuna Chiesa. Alcuni teologi protestanti lamentavano un vero e proprio «collasso» del protestantesimo tradizionale, con un grave rilassamento dell’insegnamento teologico, che aveva per conseguenza la diffusione di un cristianesimo generico, senza saldi fondamenti dottrinali, e spesso con scarsa conoscenza delle Sacre Scritture: il numero dei lettori della Bibbia, nel decennio 1991-
2001, era calato dal 45 al 37 per cento. Secondo questi teolo80
gi, era in corso un profondo cambiamento nella religiosità popolare, con una crescente popolazione che concepiva il cristianesimo come una sorta di deismo#5, Questi dati possono aiutare a comprendere l’importanza della retorica religiosa nella propaganda elettorale del 2000, sia da parte di Bush che da parte di Gore. Gore si definiva personalmente un cristiano «rinato», mentre Bush preferiva non adoperare questa denominazione, anche se la sua personale esperienza della riscoperta della fede in Cristo, verso i quarant'anni, corrispondeva alla religiosità tipica dei cristiani «rinati». Comunque, per l'uno e per l’altro candidato, dichiarare pubblicamente la propria fede rappresentava tanto un impulso di coscienza che un calcolo politico, perché nessuno dei due avrebbe potuto sperare di vincere senza conquistare il voto degli evangelici e dei cristiani rinati. Nel febbraio 2000, gli americani adulti considerati cristiani born again formavano una massa elettorale valutata intorno ai sessanta milioni, in maggioranza bianchi”. «Il conservatorismo dei protestanti bianchi evangelici è la più potente forza religiosa nella politica attuale», osservava nel 2000 un gruppo di studiosi del Pew Research Center, importante istituto di ricerca sulla religione nella vita pubblica?8.
La destra di Dio Per Bush era importante accentuare l’aspetto religioso per conquistare un settore molto influente dell'elettorato repubblicano costituito dalla destra religiosa, un ampio e variegato schieramento di cristiani conservatori, che negli ultimi due decenni avevano avuto una parte decisiva nell’elezione dei repubblicani alla presidenza e al Congresso. La mobilitazione elettorale della destra religiosa aveva contribuito alla vittoria di Reagan nel 1980 e all’elezione di Bush padre nel 198820. Leorigini della destra religiosa affondavano nelle origini degli Stati Uniti. Le sue radici erano nei movimenti puritani, che 81
fin dalla nascita della Repubblica avevano militato contro il declino dell’influenza religiosa nella vita pubblica e politica, il rilassamento dei costumi, il diffondersi del materialismo, e contro tutto quanto, di volta in volta, nel corso dell'evoluzione del-
la società americana, appariva come una deviazione dalla concezione rigorosamente tradizionale della religione e della morale cristiana, identificata con la matrice puritana della democrazia di Dio. Nei primi decenni del Ventesimo secolo avvenne la nascita del fondamentalismo protestante, che fu impegnato non solo nella salvaguardia intransigente dei principi dottrinali del cristianesimo, derivati da una interpretazione letterale della Bibbia, considerata infallibile, contro le innovazio-
ni modernistiche dell’esegesi biblica, ma lottò anche per preservare l'integrità dell’egemonia religiosa protestante nella società americana. Il fondamentalismo promosse o fiancheggiò campagne antisemite e anticattoliche, guidò la crociata proibizionista, si mobilitò contro l’introduzione delle teorie evolu-
zioniste nell’insegnamento scolastico, si oppose a candidati politici che non fossero rigorosamente protestanti e conservatori. Fondamentalisti furono anche i fondatori e i militanti del Ku Klux Klan e molti fondamentalisti simpatizzarono per il fascismo. La sconfitta del fondamentalismo in quasi tutte queste campagne, durante gli anni Trenta, portò al declino del movimento e alla sua ritirata entro l'ambito strettamente religioso, lontano dall’arena politica e da una società che i fondamentalisti consideravano sempre più corrotta dal progresso del liberalismo e del secolarismo, ritenuti nemici mortali della religione. Un altro nemico mortale era il comunismo. Dal 1917 fino alla sua scomparsa, la Russia comunista rappresentò per i fondamentalisti l’incarnazione dell’Anticristo, e molti di essi, specialmente durante la Guerra fredda, credevano inevitabile la
battaglia finale tra le forze del Bene e le forze del Male. Il millenarismo è stato fin dalle origini un elemento caratteristico della destra religiosa, con la credenza in una catastrofe apocalittica congiunta alla fede nel destino provvidenziale della nazione americana come popolo scelto da Dio. 82
Durante la seconda metà del Novecento, il progresso del liberalismo e del secolarismo nella cultura, nella politica, nella società e anche nella religione americana, fu percepito dai cristiani conservatori come una degenerazione progressiva della nazione, che aveva reciso le sue radici spirituali e religiose, precipitando verso una totale corruzione e sovversione delle sue fondamenta morali. Lo schieramento della destra religiosa, nel corso degli anni Settanta, era composto in massima parte di protestanti bianchi, evangelici appartenenti a varie denominazioni e tendenze religiose, dai fondamentalisti ai pentecostali, dai neoevangelici ai carismatici, dai battisti ai metodisti. Questi gruppi formavano una galassia in perpetuo movi-
mento, fra di loro spesso divisi e polemici per questioni teologiche, ma orientati verso una direzione comune contro il modernismo, il razionalismo, l’umanesimo secolare, il liberalismo, il comunismo, il femminismo, il movimento per la lega-
lizzazione dell’aborto e i diritti degli omosessuali. Comune era anche la difesa ad oltranza delle origini cristiane della nazione americana, che essi volevano riaffermare, spingendosi fino a proporre una modifica della Costituzione per introdurre il principio che gli Stati Uniti sono una nazione cristiana. Le decisioni della Corte Suprema nel corso degli anni Sessanta, dalla legalizzazione dell’aborto al divieto della preghiera religiosa nelle scuole pubbliche, furono considerate dalla destra cristiana le ultime nefaste conseguenze dell’imperante umanesimo secolare, immorale e corruttore, con lo stravolgimento del |
principio costituzionale della separazione fra Stato e Chiesa, interpretato come esclusione della religione dalla vita pubblica, per relegarla nella sfera privata. Su questi temi cominciò a coagularsi, alla fine degli anni Settanta, un movimento di mobilitazione politica della destra religiosa, che si schierò col Partito repubblicano, al fine di restaurare le fondamenta cristiane tradizionali della democrazia di Dio, non solo sul piano religioso, ma sul piano sociale e istituzionale, opponendosi all’invadenza del governo federale, difendendo l’iniziativa privata e il capitalismo, recla83
mando la riduzione delle tasse, riducendo le sovvenzioni fe-
derali per l’assistenza ai poveri, sostenendo la pena capitale e il libero possesso delle armi, e promuovendo infine una politica estera energica, militarmente forte e unilaterale, per affermare l’egemonia internazionale degli Stati Uniti. La destra religiosa più conservatrice avversava gli organismi internazionali come le Nazioni Unite, considerandoli una sorta di
Anticristo; non auspicava un nuovo ordine mondiale pacificato attraverso accordi e trattati internazionali, e sosteneva
con entusiasmo la causa di Israele contro i palestinesi, convinta che la totale riconquista della terra promessa da parte degli ebrei era legittimata dalla profezia apocalittica?!. La mobilitazione politica della destra religiosa avvenne attraverso la creazione e lo sviluppo di una larga e fitta rete di università, collegi, associazioni, case editrici, centri di studio, radio, televisioni, che divennero la struttura comune di base
dei conservatori e tradizionalisti cristiani, degli evangelici e dei fondamentalisti. Una delle prime organizzazioni della destra religiosa fu la Moral Majority, fondata nel 1979 da Jerry Falwell, che molto contribuì a sostenere la candidatura di Reagan ela sua vittoria, per sciogliersi tuttavia dieci anni dopo. Ad essa seguì la più combattiva Christian Coalition, fondata da Pat Robertson nel 1988, per sostenere la sua candidatura nel Partito repubblicano contro Bush padre. Robertson disse che gli scopi della sua organizzazione erano l’elezione di una maggioranza repubblicana al Congresso nel 1994 e l’elezione di un presidente repubblicano conservatore nel 200052, Negli anni della presidenza Clinton, profondamente avversata dai cristiani conservatori come l’espressione peggiore dell'America che essi detestavano, la destra religiosa e la Christian Coalition furono molto combattive e contribuirono a far eleggere una maggioranza repubblicana al Congresso nelle elezioni nel 1994, anche se non riuscirono ad impedire la rielezione di Clinton due anni dopo.
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La scelta di un capo Quando iniziò la campagna presidenziale per le elezioni del 2000, tuttavia, la destra religiosa appariva in ritirata, per una crisi di sfiducia e di sbandamento. La Christian Coalition, af-
flitta da conflitti interni, perdeva membri e finanziamenti. La rivista conservatrice «National Review» pubblicò un articolo sul declino della coalizione col titolo Bighellonando verso l’insignificanza”?. La lunga marcia della destra religiosa per portare un proprio uomo alla Casa Bianca sembrava essersi arrestata, e stava cominciando la ritirata di fronte all’ America liberale e secolare, incarnata da Clinton. La sua rielezione nel
1996 e il fallimento della campagna per arrivare all’incriminazione del presidente, convinsero la destra religiosa che la crociata politica per la rigenerazione cristiana della nazione era finita con una sconfitta. Un sondaggio condotto nell’autunno 1999 dalla rivista «Fortune» negli ambienti politici di Washington registrava un calo di influenza della Christian Coalition dal settimo al trentacinquesimo posto fra i gruppi di pressione della capitale?4. Nel dicembre, in una lettera che ebbe vasta eco nella destra religiosa, Paul Weyrich, uno dei fondatori della Moral Majority, scrisse che «probabilmente abbiamo perso la guerra culturale», perché il lavoro compiuto in trent'anni non era stato efficace e non esisteva più nel paese una «maggioranza morale». Pur senza parlare di resa, Weyrich proponeva ai cristiani conservatori di «mettersi in .
quarantena contro una cultura ostile», abbandonando la politica per creare istituzioni culturali alternative??. In un libro molto discusso dalla destra religiosa, BlUnded by Might (accecati dal potere), due luogotenenti di Jerry Falwell, Cal Thomas e Ed Dobson, accusarono gli evangelici di essersi lasciati tentare dalla seduzione del potere politico, mentre era loro dovere ritirarsi dalla politica e tornare alla loro missione primaria, la salvezza delle anime. Essi non contestavano il diritto e la responsabilità di chiunque, religioso e non, di partecipare alla politica, ma ritenevano che quando il clero e le altre 85
istituzioni della Chiesa lo fanno, corrono il rischio di com-
promettersi e di essere «sedotti dai canti delle sirene del potere politico temporale»?®. La decisione di invertire la rotta avvenne all’inizio del 2000, quando la religione divenne tema dominante della campagna presidenziale. Se Bush padre aveva perso la rielezione nel 1992 perché aveva perso la fiducia di una parte della destra religiosa, delusa dalla sua politica che poco aveva soddisfatto le richieste dei cristiani conservatori, Bush figlio apparve il capo politico atteso dalla destra religiosa per riprendere l’avanzata, conquistare la Casa Bianca e rigenerare l'America, riportandola ai suoi principi originari di «nazione cristiana».
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Sul ruolo della religione nella politica, la retorica e l’agenda di Bush e Gore avevano alcuni punti in comune, cari agli evangelici e ai «rinati». Essi concordavano, per esempio, nel sostenere la maggiore influenza della religione nella vita pubblica, e il sostegno finanziario federale alle organizzazioni religiose di carità e alle scuole private religiose, e soprattutto li accomunava l’impegno per una rigenerazione morale della nazione, attraverso una più attiva partecipazione religiosa per
rinnovare e consolidare la democrazia. Tuttavia alla destra religiosa Bush appariva ovviamente un candidato più congeniale, soprattutto perché lo consideravano un uomo di forte carattere e di solidi principi morali, onesto e devoto, che avrebbe potuto veramente imprimere una svolta rigeneratrice alla politica americana, dopo la scandalosa presidenza Clinton. Un quarto dei votanti all’uscita dai seggi dichiarò che l'onestà era stato il fattore più importante per la loro scelta, e l'80 per cento di questi aveva votato per Bush??, Egli ebbe anche l’autorevole sostegno di Billy Graham, che pubblicamente disse di aver pregato perla sua vittoria, affinché fosse fatta la volontà di Dio. «Questa è un’elezione cruciale nella storia americana», dichiarò il reverendo parlando in pubblico, alla presenza di Bush e della moglie, durante la campagna elettorale. «Credo che sarà una vittoria strepitosa e un cambiamento enorme nel86
la guida del paese, affidata in buone mani. Io credo nell’integrità di quest'uomo»?8. Lo schierarsi del 70 per cento degli elettori della destra religiosa a favore del candidato repubblicano fu un fattore decisivo per la sua affermazione elettorale. Con Bush il giovane alla Casa Bianca, la destra religiosa ritenne che Dio aveva esaudito le sue invocazioni, dando nuovo impulso alla loro «lunga e tortuosa marcia verso il millennio, partendo dalla condizione di esclusi per arrivare al centro della politica americana»??. Il primo atto ufficiale di Bush presidente fu di proclamare il giorno inaugurale giornata nazionale di preghiera e di ringraziamento a Dio «per chiedere la Sua guida sulla nostra nazione e su tutti i governanti»®9, Il secondo giorno di presidenza iniziò con una funzione religiosa, cui parteciparono esponenti ebrei, cristiani ortodossi, cattolici e di altre religioni, che si
svolse nella Washington National Cathedral, una cattedrale episcopale divenuta il massimo tempio del culto ecumenico della nazione americana.
Dio alla Casa Bianca L’arrivo di Bush alla Casa Bianca fu interpretato da molti osservatori, specialmente in Europa, come un evento nuovo nella storia presidenziale a causa della sua ostentata religiosità. «Con il presidente Bush — commentò il giornale francese ‘Le Monde’ il 3 febbraio 2001 — la religione è entrata in forza alla Casa Bianca»!. In effetti, gran parte dei membri più importanti del nuovo governo e della nuova amministrazione, ebrei, cattolici, evangelici, bianchi e neri, erano persone di spiccata
devozione religiosa. Una «fede molto potente in Dio» professava Condoleezza Rice, figlia di un predicatore afro-americano, nominata consigliere per la sicurezza nazionale. Pasto-
re metodista era la moglie del capo dello staff presidenziale Andrew Card. Figlio di un pastore evangelico e fervente pentecostale era il ministro della Giustizia John Ashcroft, che ave87
va esposto il suo credo religioso e politico, nel 1999, alla Bob Jones University, una università nel South Carolina di orientamento anticattolico e razzista, principale scuola dei fondamentalisti conservatori. Ashcroft aveva dichiarato che solo l’America, unica fra le nazioni, riconosceva «le origini divine ed eterne, non sociali e temporali, della democrazia. Per questo l’America è differente. Noi non abbiamo altro re che Gesù», AI ministero del Commercio, Bush nominò Donald
Evans, l’amico evangelico che l’aveva ricondotto alla lettura della Bibbia nel momento della sua «rinascita alla fede». Devoto evangelico era Michael Gerson, lo scrittore principale dei discorsi del presidente. Anche l’ambiente della Casa Bianca fu pervaso di religiosità. Funzionari che vi lavoravano riferivano che la presidenza di Bush aveva introdotto un’«aura di devozione e di preghiera». Bush iniziava la mattina pregando, ogni riunione del governo era aperta con una preghiera. Nella Casa Bianca si erano inoltre costituiti gruppi di studio della Bibbia fra imembri dell’amministrazione, ai quali talvolta partecipava anche il presidente. La partecipazione non era obbligatoria, ma non era neppure del tutto «non obbligatoria», come ha raccontato David Frum, un intellettuale ebreo che per qualche tempo aveva lavorato alla Casa Bianca con lo staff che scriveva i discorsi di Bush. Garry Wills paragonò la Casa Bianca di Bush ad «un monastero imbiancato»®. Tuttavia, la presenza di tanta religiosità nella residenza presidenziale non era un fatto nuovo, né era giusto attribuire al fortuito vincitore della campagna presidenziale nel 2000 la responsabilità, merito o colpa che fosse, di avere portato Dio alla Casa Bianca. Perché alla Casa Bianca Dio era giunto col primo presidente, due secoli prima, e vi era rimasto senza interruzione coabitando equamente con presidenti repubblicani e presidenti democratici, anche se, in qualche periodo, la sua presenza fu più discreta e quasi impercettibile. Dio alla Casa Biancaèl’efficace titolo di un libro di Richard Hutcheson pubblicato nel 1988, che mostrava in che modo la religione aveva cambiato la presidenza americana nei tempi più recenti. Fu 88
il repubblicano Dwight D. Eisenhower, giunto alla Casa Bianca il 20 gennaio 1953 e rimastovi fino al 1960, il primo, e finora l’unico, presidente ad inserire nel discorso inaugurale una preghiera a Dio onnipotente, scritta da lui stesso. Egli si definiva «l’uomo più intensamente religioso che io conosca». La presenza della religione alla Casa Bianca fu immediatamente accresciuta con il suo arrivo. «Le manifestazioni della religione a Washington sono diventate alquanto voluminose», osservava il 17 agosto 1954 lo storico delle religioni William Lee Miller6?. La mattina dell’inaugurazione, prima del giuramento, Eisenhower, insieme al vicepresidente Richard Nixon,
membri del governo e funzionari della Casa Bianca, partecipò ad una funzione religiosa nella chiesa nazionale presbiteriana, per «cercare forza nella preghiera e nella Parola del Signore per affrontare le sue nuove enormi responsabilità». E pochi giorni dopo il giuramento, il presidente si fece battezzare e divenne membro della stessa Chiesa. Era la prima volta, nella storia americana, che il capo dello Stato si faceva battezzare mentre era in carica”°, Nel 1953 introdusse alla Casa Bianca la cerimonia della Colazione presidenziale di preghiera (Nazzonal Prayer Breakfast), divenuta poi un consueto rito presidenziale. Nel 1956 autorizzò l’istituzione, nella Casa Bianca, di un ufficio per coordinare gli affari religiosi e nominò a dirigerlo il ministro congregazionalista Frederic E. Fox?!. L'amicizia personale con il presidente, che lo volle spesso alla Casa Bianca, fece emergere Billy Graham come il principale consulente presidenziale in materia religiosa. Eisenhower assegnò il ministero più importante, il Segretariato di Stato, a John Foster Dulles, molto religioso e devoto uomo di Chiesa, deciso assertore della missione americana nel mondo e principale artefice della crociata anticomunista negli anni Cinquanta. Il presidente fece iniziare la prima riunione del suo gabinetto con una preghiera, prassi seguita durante tutta la sua amministrazione. Eisenhower sostenne inoltre la campagna annuale del «ritorno a Dio» (back to God), promossa dalla American Legion. E fu durante la sua presidenza che la formula «In God We Trust» fu 89
adottata ufficialmente nel 1954, come motto nazionale, e venne inserita, nel 1956, la frase «under God» nella dichiarazione
di fedeltà alla bandiera americana (Pledge of Allegiance). Nelle due successive presidenze democratiche di John Kennedy e di Lyndon B. Johnson, che gli era succeduto dopo l'assassinio nel 1963, Dio non fu sloggiato dalla Casa Bianca. L'elezione di Kennedy, il primo presidente cattolico degli Stati Uniti, fu il simbolo del tramonto dell’egemonia protestante di fronte al crescente pluralismo religioso della società americana, che influì anche sul ruolo della religione nella politica. Forse proprio perché primo presidente cattolico, Kennedy non manifestò una spiccata religiosità pubblica durante la sua breve presidenza, ma la sua retorica non lesinò riferimenti a Dio e alla missione, divinamente ispirata, degli Stati Uniti?2.
Inoltre, la sua presidenza iniziava in un’epoca in cui la religione sembrava recedere di fronte all’avanzata del liberalismo secolare e al crescere di una generazione meno impregnata di religiosità e più avida di nuove esperienze. Per la generazione emergente degli anni Sessanta, osservava nel 1973 Robert S. Alley studiando i rapporti fra la religione e la presidenza, «la religione, se significa qualcosa, è la politica, l'economia, la sociologia [...]. La religione non vende bene. Stiamo vivendo una fase di recessione religiosa»??. Lyndon B. Johnson ebbe alla Casa Bianca l’assistenza religiosa di Graham, partecipava assiduamente alle colazioni di preghiera, e invocò l’aiuto di Dio per la sua crociata contro la povertà e per una maggiore egua-
glianza sociale: Al di sopra della piramide sul grande sigillo degli Stati Uniti — disse Johnson al Congresso il 15 marzo 1965 per chiedere il voto sulla legge per il diritto di voto — vi è un detto in latino, «Dio ha favorito la nostra impresa». Dio non favorisce tutto quello che facciamo. Ma è piuttosto nostro dovere indovinare la sua volontà. E io non posso evitare di credere che Egli veramente comprende e realmente favorisce l’impresa che inizia qui questa sera74. 90
La profonda crisi della società e della potenza americana negli anni Sessanta, con l’esito disastroso della guerra nel Vietnam e l’avanzata dell’impero sovietico, fecero riemergere la presenza di Dio alla Casa Bianca durante la presidenza di Richard M. Nixon, iniziata il 20 gennaio 1969 e terminata ingloriosamente nel 1974, a causa dello scandalo Watergate. «La presidenza Nixon — ha scritto Hutcheson —- cominciò con una raffica di religiosità»??. Alla cerimonia inaugurale il 20 gennaio 1969 il servizio religioso fu svolto da cinque officianti: oltre l’immancabile Graham, un arcivescovo cattolico, un arcivescovo ortodosso, un rabbino e un vescovo nero. La domenica successiva, Nixon iniziò a promuovere servizi reli-
giosi nella Casa Bianca, inaugurandoli con una predica di Graham, legato da personale amicizia con Nixon, al quale aveva predetto nel 1967: «Penso che tu sia destinato ad essere presidente». I servizi religiosi erano svolti nella grande Fast Room della Casa Bianca, trasformata la domenica in una
«chiesa». Per il suo zelo religioso, il più complesso ed enigmatico presidente degli Stati Uniti fu nominato nel 1970 «l'Uomo di chiesa dell’anno» dalla istituzione Religious Heritage of America”. Dopo la fine della «presidenza imperiale»78 di Nixon, Dio continuò ad avere una presenza in primo piano alla Casa Bianca. «Ognuno dei tre più recenti presidenti — Ford, Carter e Reagan — ha portato Dio alla Casa in un modo singolare», osserva Hutcheson: Specialmente con il «rinato» Jimmy Carter, membro della Chiesa battista del Sud e insegnante alle scuole della domenica, e di nuovo con il programma della nuova destra cristiana contro l'aborto e favorevole alla preghiera nelle scuole, vigorosamente promosso da Ronald Reagan, la religione ha influenzato la presidenza in forme prima sconosciute nella storia americana.
Raramente, se non mai, «nella storia precedente di questa nazione, basata sulla separazione fra Chiesa e Stato, la reli91
gione ha avuto un ruolo così prominente nell'Ufficio Ovale» come durante la presidenza Carter e la presidenza Reagan??. Il «rinato» Carter, pur imprimendo alla sua politica un predominante senso religioso, che lo ispirò nel porre fine alla sovranità americana sul canale di Panama e nel promuovere gli accordi di Camp David fra israeliani e palestinesi, rimase fedele al principio della separazione fra Stato e Chiesa, che costituiva un caposaldo della confessione battista. Egli si avvalse del pulpito presidenziale non per glorificare lAmerica ma per esortare gli americani, dopo oltre un decennio di profonda crisi morale e politica, a riconoscere con umiltà i propri errori e i propri peccati, e a rigenerare la democrazia di Dio, dedicandosi alla lotta contro la povertà e le îngiustizie sociali, per la difesa dei diritti umani. La religione aveva aiutato Carter ad arrivare alla Casa Bianca, ma l'intonazione profetica della sua presidenza, am-
monitrice piuttosto che glorificatrice della nazione, contribuì quattro anni dopo, insieme alla sventurata impresa per liberare gli americani ostaggi del regime teocratico iraniano, a
fargli perdere le elezioni, lasciando la residenza presidenziale al nuovo inquilino, il repubblicano Ronald Reagan, che arrivò alla Casa Bianca sull’onda della mobilitazione politica della destra cristiana annunciando un programma tradizionalista e una politica estera muscolosa. Con Reagan, Dio fu insediato alla Casa Bianca col clamore di una marcia trionfale, glorificante la grandezza di una America decisa a lasciarsi alle spalle il dramma del Vietnam, l’ingloriosa fine anticipata della presidenza Nixon, e le umiliazioni della presidenza Carter, per tornare ad essere «una splendente città sulla collina», modello per l'umanità e campione di libertà nel mondo. «Sebbene tutti i presidenti degli Stati Uniti, senza eccezione, hanno dimostrato il loro attaccamento al Dio della Bibbia cristiana, nessuno ha osato asso-
ciare Dio alla propria filosofia politica così ostinatamente come ha fatto il presidente Reagan», ha scritto un suo critico80. Reagan non era uomo di chiesa, e anche da presidente fre92
quentò poco la chiesa, forse meno di qualsiasi altro presidente; ma, come ha scritto un estimatore della sua religiosità,
piuttosto che «recarsi lui in chiesa, il presidente Reagan ha portato la chiesa nella sua presidenza. Una volta insediatosi nello Studio Ovale, le sue manifestazioni e testimonianze di
fede furono onnipresenti»8!. La presidenza di Reagan è stata definita «un continuo spettacolo di religiosità politicizzata»82. La sua retorica politica fu perennemente vestita con abiti religiosi, dalla esaltazione della nazione americana, benedetta e protetta da Dio, che riprendeva la sua missione nel mondo, dopo anni di avvilimento e di frustrazione, alla campagna per la riaffermazione dei valori religiosi tradizionali contro l’umanesimo secolare, e la crociata controilcomuni-
smo e l'Unione Sovietica, «impero del male». Dio rimase alla Casa Bianca durante i quattro anni di presidenza di Bush padre, che fu tuttavia molto discreto nell’esibire pubblicamente la sua religiosità, e negli otto anni di Clinton, che invece ne parlò frequentemente nelle chiese e nelle manifestazioni politiche, partecipando assiduamente a tutte le colazioni nazionali di preghiera, incontrando spesso esponenti religiosi e teologi d’ogni orientamento, preferendo fra tutti Billy Graham, che aveva recitato l’invocazione nella cerimonia inaugurale della sua presidenza. Nella Casa Bianca di Clinton furono organizzati anche gruppi di studio della Bibbia8?. Il presidente si recava regolarmente in chiesa la domenica, a piedi, portando con sé una vistosa Bibbia, e, secondo alcuni calcoli, avrebbe battuto diverse volte il suo successore
alla Casa Bianca per numero di citazioni del nome di Gesù. Nulla di eccezionale, dunque, per la presenza di Dio alla Casa Bianca con l’avvento di Bush figlio. Ma certamente era nuovo lo stile di vita e di governo del nuovo presidente, serio, preciso, disciplinato, esigente nell’ordine e nella puntualità, severo negli abiti e nelle maniere. Lo stile di Bush, più che la sua ostentata religiosità, rappresentava simbolicamente la novità del suo programma di governo per il rinnovamento morale della nazione, attraverso una maggiore influenza della re93
ligione nella politica e nella vita pubblica, come aveva sostenuto durante la campagna elettorale, accusando la presidenza democratica di aver contribuito a indebolire le fondamenta morali della nazione americana. Giunto alla Casa Bianca, il
nuovo presidente ribadì che la sua politica, pur rispettando il principio costituzionale della separazione fra lo Stato e la Chiesa, sarebbe stata ispirata dalla sua fede religiosa.
4
Mosè d'America
Chiamato da Dio Nelle interviste rilasciate durante la campagna elettorale e nella sua autobiografia, pubblicata prima dell’11 settembre, Bush ha raccontato di avere deciso di candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti il 1° gennaio 1999, due ore prima dell’inaugurazione del suo secondo mandato come governatore del Texas!. La decisione maturò dopo avere ascoltato un sermone del pastore della Chiesa metodista di Austin. Il pastore, ricordava Bush, stava deprecando la decadenza mora-
le degli Stati Uniti, alludendo alla condotta scandalosa del presidente Clinton, e parlava del bisogno che la gente aveva di lealtà e di onestà nel governo, perché i governanti che ingannavano la moglie avrebbero ingannato il loro paese: L'America, disse il pastore, ha gran desiderio di governanti onesti, ha bisogno di una guida, ha bisogno di capi che abbiano coraggio etico e morale. Non basta avere una bussola pet distinguere il bene dal male. L'America ha bisogno di governanti che abbiano il coraggio morale di fare quel che è giusto per la ragione giusta. Non è sempre facile o conveniente per i capi farsi avanti.
A questo punto, il pastore narrò la storia di Mosè, al quale Dio aveva chiesto di guidare il suo popolo verso la terra promessa. «Mosè avanzò molte ragioni per evitare questo compito. Ma Dio non lo ascoltò, e Mosè alla fine obbedì, e guidò il
suo popolo vagando per quarant'anni nel deserto, facendo affidamento su Dio per avere forza, guida e ispirazione»?. 95
Nell’ascoltare queste parole, la madre di George si volse verso il figlio e gli disse: «Sta parlando a te». E il figlio annuì. Sentì allora che Dio lo stava chiamando. «Credo che Dio voglia che io sia presidente», disse dopo l'inaugurazione, parlando con alcuni amici evangelici. «Non so come spiegarlo ma sento che il mio paese ha bisogno di me. Sento che qualcosa sta per accadere, e in quel momento il mio paese avrà bisogno di me. Lo so che non sarà facile, per me e per la mia famiglia, ma Dio lo vuole. [...] La mia vita non sarà più la stessa», ripeté conversando con un altro amico evangelico*. Dopo l’elezione del figlio alla presidenza, anche Bush padre credeva che la vittoria fosse dovuta a qualche disegno provvidenziale: «Dio opera per vie misteriose [...]. Se io avessi vinto nel 1992, il mio figlio primogenito non sarebbe ora presidente degli Stati Uniti. Cosa può chiedere di più un padre? Penso che il Signore opera per vie misteriose». Bush figlio la pensava allo stesso modo. L’arrivo alla Casa Bianca, nonostante la sua controversa elezione, era un nuovo
segno che Dio lo aveva chiamato per assegnargli il compito di guidare la democrazia di Dio nel nuovo secolo: «Il Ventunesimo secolo deve diventare il Secolo della Democrazia», disse il
nuovo presidente il 12 luglio nel proclamare la Settimana delle nazioni oppresse®. E dieci giorni dopo, nel rispondere alle parole di saluto di Giovanni Paolo II, che aveva esortato l’Ameri-
ca a rimanere fedele al rispetto del più fondamentale dei diritti umani, il diritto alla vita, Bush rispose: «faremo il nostro meglio per ricordare la nostra vocazione», elogiando le parole del papa che aveva «mostrato al mondo non solo lo splendore della verità, ma anche il potere della verità nel vincere il male e dare una nuova direzione alla storia»”.
Teologia elementare Per spiegare l’origine religiosa della sua vocazione politica, Bush insisteva molto, in pubblico e in privato, sulla sua riscoperta della fede in Cristo. Per lui, questa riscoperta non era un 96
evento miracoloso, ma un cammino continuo verso la salvez-
za. Tuttavia, quando divenne presidente degli Stati Uniti, le sue convinzioni religiose erano saldamente definite. La fede religiosa di Bush non è il frutto di uno specifico magistero teologico, fondamentalista, evangelico o metodista. Quando un giornalista gli chiese nel 1994 perché frequentava la Chiesa metodista pur essendo stato allevato da episcopaliano, Bush rispose di sapere che fra le due confessioni vi erano grosse differenze dottrinali, ma di non saperne abbastanza per spiegare quali erano. In un’altra circostanza, dichiarò di essere favorevole alla esposizione dei Dieci comandamenti in uffici pubblici nella «versione corrente», mostrando di non sapere che protestanti, cattolici ed ebrei hanno versioni diverse del Decalogo. L'ignoranza storica e teologica di Bush non è sorprendente, perché fra gli evangelici americani, che pure ispirano la loro fede alla parola di Dio, la conoscenza della Bibbia non sembra sia molto diffusa: secondo alcuni sondaggi, soltanto metà degli evangelici identifica Gesù con la persona che fece il Discorso della montagna, e meno della metà sa recitare almeno cinque dei Dieci comandamenti8. La fede religiosa di Bush, impermeabile al dubbio, refrattaria alla conoscenza e alla riflessione critica, si basa su
una teologia elementare, condivisa da milioni di americani evangelici e «rinati». Egli crede nell’esistenza di un Dio onnisciente, onnipotente, buono, giusto e misericordioso, crea-
tore dell’universo, che vigila con divina provvidenza sulla storia umana. Crede che Cristo è il figlio di Dio, divenuto uomo senza peccato, morto sulla croce per redimere l’umanità dal peccato originale; è il Salvatore e la massima guida spirituale di coloro che vogliono vincere la battaglia contro il male per arrivare in paradiso, assumendo i Comandamenti e le Beatitudini come principi di orientamento e di condotta della propria esistenza. Bush crede nell’esistenza del male, ma crede anche che l’uomo può sottrarsi alle sue tentazioni affidandosi al potere rigeneratore della fede e della grazia; crede nell’efficacia morale della preghiera come interiore dialoDI
go con Dio per averne conforto e consiglio, e più volte, durante la sua presidenza, ha detto di pregare quotidianamente, perché la fede in Cristo ispira costantemente la sua vita e lo aiuta nel prendere le sue decisioni politiche, Bush è un cristiano convinto della infallibilità della parola di Dio rivelata nella Bibbia. Per questo è considerato un fondamentalista, ma non è tale nel senso proprio del termine, anche se condivide con i fondamentalisti, e con tutta la destra religiosa, la difesa dei valori tradizionali della famiglia, la sacralità del
matrimonio fra uomo e donna, la condanna dell’aborto e la promozione dell’astinenza contro l’uso dei contraccettivi, l’avversione per l’umanesimo secolare, il rifiuto dell’evoluzionismo come teoria scientifica alternativa al creazionismo biblico. Tuttavia, a differenza dei cristiani fondamentalisti e della maggioranza degli evangelici, per i quali il cristianesimo è l’unica religione vera e il proselitismo un dovere, Bush ha mostrato un atteggiamento ecumenico verso le altre religioni, ritenendo che tutte possono giovare al bene morale e sociale della nazione, se correttamente intese e praticate. In passato, tuttavia, Bush ave-
va espresso un'opinione teologica differente. Nel 1993, gli era accaduto di affermare, incautamente, che soltanto chi era cri-
stiano poteva andare in paradiso, e che il paradiso, pertanto, era precluso agli ebrei e ai credenti di altre religioni. Di fronte alla protesta delle associazioni religiose ebraiche, Bush aveva fatto subito ammenda, e da allora aveva seguito l’ammonimento di Billy Graham, di non «giocare a fare Dio, decidendo chiva e chi non va in paradiso»?, Durante la campagna presidenziale del 2000, Bush assunse un orientamento ecumenico più accentuato. Egli affermò ripetutamente che proprio la sua fede cristiana gli aveva insegnato a rispettare le altre religioni. Si era convinto che la gente poteva comunicare con Dio seguendo vie religiose diverse. «E importante non essere arroganti nella propria fede religiosa. Ci sono molti ammonimenti della Bibbia in proposito: l'arroganza della virtù è in se stessa un peccato»!9, disse in un'intervista: 98
Credo che siamo tutti figli di Dio, e lungi da me, come umile peccatore, cercare di decidere chi merita di andare in paradiso e chi no. [...] Ci sono grandi religioni nel mondo, ed è importante riconoscere che vi sono contenuti comuni alle grandi religioni, come «ama il prossimo tuo come te stesso». E ci sono alcune meravigliose vocazioni. A me è accaduto di essere cristiano!!.
Per rivolgersi all’elettorato cattolico, tradizionalmente schierato con il Partito democratico, Bush mutuò da Gio-
vanni Paolo II il termine «cultura della vita», per definire la sua opposizione all’aborto e alla sperimentazione sulle cellule embrionali. Ecumenico era anche il suo appello alle sinagoghe e alle moschee per la realizzazione del suo programma di «conservatorismo compassionevole», trovando eco favorevole anche nei tradizionalisti musulmani, che gli diedero una consistente quota dei loro voti nelle elezioni del 2000. La concezione della vita e del mondo che Bush ha tratto dalla sua teologia elementare si basa su una netta divisione fra il Bene e il Male, che egli applica anche alla sua concezione della politica, così come ne ha tratto gli obiettivi fondamentali della sua agenda di governo: un maggiore ruolo della religione nella vita pubblica, come ispiratrice di una buona politica, rivolta al bene pubblico; la concezione della sacralità della vita fin dal concepimento; l'opposizione al matrimonio fra omosessuali; il finanziamento statale alle scuole private e alle organizzazioni religiose per svolgere attività caritatevole. Questo era stato il programma della sua politica quando era governatore del Texas, e questo è rimasto il suo programma quando è divenuto presidente degli Stati Uniti.
La democrazia di Dio Priva di elementi originali dal punto di vista teologico, la fede di Bush lo è anche dal punto di vista della interpretazione religiosa della democrazia e del destino degli Stati Uniti, che 99
deriva da una lunga e consolidata tradizione della cultura politica americana. La fede nella democrazia americana fu il tema principale del discorso inaugurale di Bush, dopo aver prestato giuramento sulla stessa Bibbia sulla quale aveva giurato suo padre. Bush parlò di riconciliazione nazionale, per sanare le lacerazioni provocate dalla sua controversa nomina alla presidenza degli Stati Uniti. Esaltò «il pacifico trasferimento di potere, tipico del nostro paese, ma raro nella storia», ringraziando il presidente Clinton per aver servito la nazione e il vicepresidente Gore per «una contesa combattuta con ardore ma conclusa con garbo». Poi, professando la sua umiltà di fronte al compito che lo attendeva, Bush rièvocò l’epica storia dell’ America: «un nuovo mondo che era diventato amico e liberatore del vecchio; una società schiavista che si è posta al servizio della libertà, una potenza che si è mossa nel mondo per proteggere e non per possedere, per difendere e non per conquistare».
La storia americana era «la storia di un popolo imperfetto soggetto ad errare, unito attraverso le generazioni da grandi
e tenaci ideali», con i quali aveva saputo superare le sue imperfezioni e correggere i suoi errori, perseguendo il più grande dei suoi ideali, cioè «realizzare la promessa americana: che ciascuno merita di avere una possibilità, che mai è nata una persona insignificante». Gli americani erano stati «chiamati a realizzare questa promessa nella nostra vita e nelle nostre leggi», disse Bush, e anche se «la nostra nazione talvolta si è fer-
mata, e a volte ha indugiato, noi dobbiamo seguire il nostro corso. Per gran parte del secolo scorso, la fede dell’ America nella libertà e nella democrazia è stata come una roccia in un mare tempestoso. Ora essa è come un seme nel vento, che mette radice in molte nazioni». La fede nella democrazia, aggiunse Bush, «è qualcosa di più che il credo del nostro paese, è la speranza innata dell’umanità, un ideale che noi perse-
guiamo ma che non ci appartiene, una responsabilità che portiamo e tramandiamo». 100
AI fine di continuare la missione americana, Bush si impe-
gnò a costruire una «nazione unica di giustizia e di opportunità», combattendo le divisioni prodotte dalle circostanze di
nascita, dalle condizioni sociali, dai pregiudizi, dalla povertà. Egli fece appello all'etica della responsabilità individuale degli americani e allo spirito umanitario delle chiese, delle sinagoghe e delle moschee, chiamandole a collaborare col governo nel realizzare una politica compassionevole di solidarietà e di aiuto per tutti coloro che sono stati lasciati indietro, prefigurando la visione di una nazione rinnovata di «cittadini, non di soggetti. Cittadini responsabili, intraprendenti comunità di servizio e una nazione di carattere». Il nuovo presidente disse di avere fiducia nel successo della sua impresa, perché «siamo guidati da un potere più grande di noi, che ci ha creato eguali a sua immagine», e perché la nazione americana possedeva le doti di civiltà, di coraggio, di compassione e di carattere per difendere e diffondere la libertà. Il destino della libertà nel mondo dipendeva dal successo della missione americana, «perché sel’ America non guidala causa della libertà, la causa della libertà rimane senza una
guida». Gli Stati Uniti dovevano rafforzare le proprie difese e renderle superiori ad ogni sfida, «perché la debolezza incoraggia la sfida. Dobbiamo far fronte alle armi di distruzione di massa per risparmiare nuovi orrori al nuovo secolo». Da qui,
la riaffermazione del ruolo mondiale della potenza americana quale baluardo della libertà, pronta a intervenire ovunque fosse minacciata, in qualsiasi parte del mondo, con l’avvertimento ai «nemici della libertà e della nostra nazione di non fare errori», perché l'America continuava a sentirsi impegnata, dalla storia e per sua scelta, «a realizzare un equilibrio di potenza che favorisca la libertà». Bush concluse il discorso ricordando che l’artefice della storia da lui evocata non era il popolo americano, ma colui che «impiega il tempo e l'eternità secondo i Suoi propositi. Eppurei Suoi propositi si realizzano attraverso il nostro dovere, che si compie nell’operare al servizio degli uni con gli altri»: 101
Rinnoviamo oggi questi propositi: di rendere la nostra nazione più giusta e generosa, affermando la dignità della nostra vita e di ogni vita. L’opera continua. La nostra storia continua. É un ange-
lo cavalca ancora nel vento e dirige la tempesta. Dio vi benedica tutti, Dio benedica l’America".
Il discorso inaugurale fu accolto con commenti favorevoli da ogni parte, sia politica che religiosa, anche se durante la cerimonia vi furono manifestazioni di protesta contro il presidente che aveva «rubato la vittoria» e provocato «la morte della democrazia»!. Un editorialista liberale del «Washington Post», che aveva votato per Gore, scrisse che considerava ora Bush un presidente più adatto di Gore a unire il paese. La rivista «Time» gli dedicò la copertina consacrandolo protagonista dell’anno.
Pontefici d'America Celebrando l’America come la terra scelta dalla divina provvidenza per realizzare la democrazia di Dio, Bush proseguiva una tradizione della retorica presidenziale che risaliva a George Washington ed era stata costantemente rinnovata da tutti i successivi presidenti, soprattutto in occasione del loro discorso inaugurale. La cerimonia di insediamento del nuovo presidente rinnova periodicamente il vincolo di unione collettiva della nazione americana e il suo legame simbolico con la massima istituzione della Repubblica, alla quale la cerimonia stessa conferisce sacralità. Negli Stati Uniti, ha osservato il teologo Michael Novak, la presidenza è «il più importante simbolo religioso della nazione»!4, e il giorno dell’inaugurazione è la cerimonia nazionale più solenne. Fin dal 1789, ha scritto Arthur Schlesinger Jr., «ogni quattro anni l’austera cerimonia sospende le passioni della politica per consentire un interludio di riunione nazionale»!. 102
Dal 30 aprile 1789, giorno di inaugurazione della prima presidenza di Washington, che aggiunse alla formula del giuramento la frase conclusiva «So help me God», ripetuta da tutti i successori, la cerimonia inaugurale è un simbolico rito collettivo di dedizione a Dio da parte della nazione americana, attraverso il giuramento del suo presidente. Anche il discorso inaugurale «è essenzialmente una dichiarazione religiosa», che espone le credenze fondamentali sulle quali si fondano i valori americani e periodicamente rinnova e rafforza l’identificazione della nazione con questi valori e l’impegno del popolo americano a preservarli e a renderli operativi nella sua condotta di vita. In questo senso, i discorsi inaugurali dei presidenti costituiscono le «sacre scritture» della religione civile americana, insieme alla Dichiarazione di indipendenza, alla Costituzione degli Stati Uniti e agli Emendamenti alla Costituzione (B:// of Rights)!®. Attraverso i discorsi inaugurali, si è venuta elaborando nel corso del tempo una sorta di teologia presidenziale della democrazia di Dio, il cui canone fondamentale appare già saldamente stabilito dai primi presidenti degli Stati Uniti, che furono anche i primi pontefici della religione americana. Questa teologia presidenziale aveva origine da una interpretazione religiosa della storia della nazione americana, delle sue istituzioni e del suo ruolo nel mondo. Le radici erano nella tradizione puritana dei Padri pellegrini, convinti di essere stati scelti da Dio per realizzare nel Nuovo Mondo la terra promessa, la nuova Gerusalemme, la «città sulla colli-
na», secondo l’immagine adoperata da John Winthrop, primo governatore della colonia del Massachusetts, che prima di giungere in America, nel 1630, a bordo della nave Ar4bella, aveva sottoscritto con gli altri puritani un patto con Dio (covenant), impegnandosi a rimanere uniti per costruire una comunità fondata sulla legge divina. All’epoca delle colonie risale anche la convinzione che la divina provvidenza vigila con speciale benevolenza sulle sorti della nazione americana, cui ha affidato la missione di essere un esempio per 103
tutta l’umanità, purché rimanga fedele al patto stipulato con Dio. Risale invece all’epoca della fondazione degli Stati Uniti l’identificazione della «città sulla collina» e della missione americana con la democrazia repubblicana!?. La teologia presidenziale reca evidente l’impronta dell’archetipo biblico protestante, tuttavia l’immagine di Dio, nella massima parte dei discorsi inaugurali, non ha esplicite connotazioni cristiane, ma è un'immagine genericamente deista o teista. Il Dio della teologia presidenziale è, secondo le pa-
role di Washington echeggiate con poche varianti dai suoi successori, «l’Essere onnipotente che governa l'Universo, presiede sul concilio delle nazioni», «la Mano Invisibile che conduce gli affari degli uomini», «il Grande Autore di ogni bene pubblico e privato, il Genitore benigno della Razza Umana», che ha elargito «cospicui» doni agli Stati Uniti, «una nazione indipendente che sembra essere distinta da alcuni segni di natura provvidenziale»; per questo, il popolo americano è maggiormente responsabile di fronte a Dio, ver-
so il quale ha più doveri di qualsiasi altra nazione, primo fra tutti quello di proseguire «l’esperimento affidato al popolo americano», di «preservare il sacro fuoco della libertà e il destino del modello repubblicano di governo». Il popolo americano, era il monito del primo presidente, doveva rimanere unito, al di sopra d’ogni diversità e animosità particolare, perla salvaguardia della libertà repubblicana, perché se prevalgono «gli interessi individuali, le animosità di partito e i pregiudizi locali», il «governo libero non conquista l’affetto dei cittadini né impone il rispetto del mondo». Per ottenere ciò, la nazione americana doveva rimanere fedele a Dio,
rispettando le «eterne regole dell’ordine» e coltivando le virtù private e pubbliche, senza le quali non è possibile il vivere libero della Repubblica e la sua conservazione!8. I primi successori di Washington, John Adams e Thomas Jefferson, contribuirono ad elaborare un decalogo delle virtù repubblicane, necessarie a formare il carattere morale di una nazione governata con prudenza, giustizia, moderazione e te104
nacia, sotto l’occhio vigile di una «superiore Provvidenza che fin dall’inizio ha dato speciale protezione» agli Stati Uniti, come disse Adams nel discorso inaugurale del 4 marzo 1797, invocando dall’«Essere supremo che tutto sovrasta, il Patrono dell'Ordine, la Fonte della Giustizia, il Protettore della vir-
tuosa libertà in tutte le epoche, la Sua continua benedizione sulla nazione e il suo governo e ogni possibile e durevole successo compatibile con il fine della Sua provvidenza». E la prima delle virtù repubblicane indicata da Adams era la fedeltà ai principi che hanno dato vita alla «migliore forma di governo su questa terra»!?,
Fu il suo successore Jefferson, già autore della Dichiarazione di indipendenza, a rielaborare e definire, nei due di-
scorsi inaugurali del 4 marzo 1801 e del 4 marzo 1805, la «storia sacra» e i «sacri principi» della teologia repubblicana, in un periodo di travagliosa crescita della giovane Repubblica. Contemplando lo straordinario evento del sorgere di «una nuova nazione in una terra vasta e feconda, che aveva già esteso la rete dei suoi commerci e della sua industria in tutti i mari, e rapidamente avanzava verso destini posti al di là d’occhio mortale», Jefferson era pervaso dal sentimento di orgoglio e di umiltà di fronte alla «grandiosità dell'impresa» e alle difficoltà di guidare la nazione fra i marosi di «un mondo travagliato dal conflitto degli elementi», che investivano la stessa nazione americana.
Fondamento della teologia repubblicana di Jefferson, «il credo della nostra fede politica», erano il «sacro principio» dell’eguaglianza dei diritti e delle leggi, il diritto della maggioranza a governare rispettando i diritti della minoranza, la messa al bando della intolleranza politica, come era già avvenuto per l’intolleranza religiosa, essendo entrambe causa di sanguinose sofferenze e persecuzioni. Tutto ciò costituiva l'essenza della Repubblica americana, «la migliore speranza del mondo». La fedeltà all'unione e al governo rappresentativo era la garanzia del progresso e della prosperità della nazione americana, «che la natura e il vasto oceano separano dal 105
caos sterminatore di un quarto del globo, troppo elevata di principi e sentimenti per poter tollerare l’altrui degradazione, in possesso di un paese eletto dove c’è spazio abbastanza per i discendenti di mille e mille generazioni» e dove i cittadini possono lavorare e prosperare esercitando le loro facoltà con eguali diritti, «illuminati da una religione benigna, professata e praticata in varie forme, che tuttavia inculcano tutte onestà, verità, temperanza, gratitudine, e l’amore dell’uomo, riconoscendo e adorando una suprema Provvidenza, che
con tutti i suoi doni mostra di godere della felicità dell’uomo in questa vita e nell’altra». La nazione e la Repubblica americana, ribadiva Jefferson nel suo secondo discorso inaugurale, erano nate per disegno provvidenziale dell’«Essere nelle cui mani noi siamo, che ha guidato i nostri padri, come fece con l’antico Israele, dalla loro terra nativa e li ha trapiantati in un paese ricco di tutto quanto è necessario per una vita confortevole, e ha protetto la nostra infanzia con la Sua provvidenza e i nostri anni più maturi con la Sua saggezza e la Sua potenza»?0. Nei duecento anni successivi, i presidenti, nei discorsi
inaugurali, come in tutti i loro proclami e discorsi celebranti la storia e gli ideali americani, hanno modulato variamente il canone della teologia elaborato dai primi presidenti, conservandone i motivi fondamentali, accentuandone alcuni rispetto ad altri, secondo le loro personali convinzioni politiche,
adattandoli alle varie situazioni e circostanze del loro tempo, in pace e in guerra. Motivo principale, costante e comune a
tutti, è l’ispirazione divina della democrazia americana, che l’ha resa fin dalle origini la «migliore speranza del mondo». Tutti i presidenti, nelle vesti di pontefici della religione americana, hanno contribuito a preservare e rielaborare, in modo più o meno significativo, secondo la propria personalità e religiosità, il canone della teologia repubblicana, ma è stato soprattutto nella seconda metà del Ventesimo secolo che il presidente degli Stati Uniti ha assunto un ruolo più rilevante, in seguito all’accrescimento dei suoi poteri di governo, de106
rivanti dall’accrescimento della potenza americana nel mondo. Nel glorificare l America con una retorica religiosa, al momento del suo insediamento alla Casa Bianca, Bush ha utiliz-
zato una tradizione di teologia repubblicana elaborata dai suoi predecessori e largamente condivisa dagli americani. Tuttavia, nei primi mesi di presidenza non sembra che l’esercizio della funzione pontificale sia stato efficace per fare guadagnare a Bush maggiori consensi: anzi, stando ai sondaggi fatti prima dell’11 settembre, i consensi tendevano a calare. Alcuni osservatori si domandavano se ciò non fosse dovuto anche all’abuso di retorica religiosa e agli atteggiamenti eccessivamente tradizionalisti e conservatori, che facevano apparire il nuovo presidente come un bigotto, prigioniero della destra religiosa e fondamentalista. Altri, invece, lo consi-
deravano un politicante mediocre ma astuto, che rivestiva di abiti religiosi una politica cinica e spregiudicata, mirante unicamente a favorire gli interessi dei gruppi economici che avevano sostenuto la sua candidatura e sovvenzionato la campagna elettorale.
Un imprevedibile carisma È probabilmente impossibile sondare l’intimo dell’animo . umano per cercare prove indubitabili della sincerità della fede religiosa che una persona manifesta. La probabilità diventa certezza nel caso di un personaggio politico, che parla continuamente di religione, dichiarando che Dio è la fonte ispiratrice della propria vita e della propria politica. Tuttavia, un’analisi critica del ruolo della religione nella politica del presidente, che si è trovato alla guida dell’America all’inizio del primo secolo del terzo millennio, può accogliere l'ipotesi che la sua fede sia sincera e sia effettivamente la principale ispiratrice della sua politica. Del resto, riconoscere a Bush sincerità di convinzioni religiose non significa esprimere un giudizio 107
positivo sulla sua politica, e tanto meno sul modo in cui egli, come presidente degli Stati Uniti, mescola la religione con la politica per giustificare le sue decisioni, specialmente quando si tratta di decisioni che influiscono sull’intera umanità. Anzi,
gli avversari più severi di Bush fanno derivare proprio dalla sincerità delle sue credenze religiose gli aspetti pericolosi della sua politica, come, per esempio, la sua imperturbabile convinzione che la sua condotta è sempre rivolta al conseguimento del bene della nazione americana e dell’intera umanità,
e che le sue scelte politiche sono giuste perché concordano con i disegni della provvidenza; oppure l’ostinazione a perseverare nell’azione intrapresa, senza lasciarsi smuovere da dubbi né da critiche, specialmente nelle imprese belliche, perché considera suo dovere religioso, non solo politico, come presidente degli Stati Uniti, ricorrere a qualsiasi mezzo per proteggere la democrazia americana dalla minaccia del male, e combattere il male ovunque nel mondo, per diffondere a tutta l'umanità il dono divino della libertà. Ammessa per ipotesi la sincerità delle convinzioni religiose di Bush, quel che maggiormente interessa è esaminare il ruolo che il fattore religioso e l’intreccio fra religione e politica hanno avuto nella sua politica dopo l'11 settembre, per valutare se la sua presidenza religiosa sia da considerare un fenomeno inconsueto nella storia americana, addirittura una
deviazione dal suo corso e dalla sua tradizione, oppure sia da considerare come l’espressione di una parte dell’ America contemporanea: un'America molto religiosa, conservatrice e tradizionalista, che ha trovato in Bush un interprete efficace,
capace di condurla alla guida degli Stati Uniti, dandole vigore e forza per poter influenzare il corso della storia americana, e quindi mondiale, all’inizio del primo secolo del terzo millennio, con l'ambizioso proposito di rimodellare l America e il mondo secondo i propri principi e i propri valori politici e religiosi. Il problema più importante, per la nostra indagine, non è tanto la religione personale di Bush, quanto piuttosto la parte che essa ha avuto nel successo politico, e so108
America violata
1. Immagine satellitare della nube di fumo del World Trade Center, il 12 settembre 2001.
© Corbis-Sygma
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Dove era Dio?
2. L'esplosione del secondo aereo contro il \WTC, 11 settembre 2001. Alcuni hanno intravisto nella nube il volto del Maligno. © Carmen Taylor-AP Photo/La Presse 3. Evacuazione delle vittime dal WTC il giorno dell’attacco. © Matt McDermott/Corbis-Sygma
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Icone d'America
A pagina precedente 4. Squadra di soccorso nella zona di Ground Zero, 11 settembre 2001.
© Neville Elder/Corbis-Sygma
5. Frammento di putrella a forma di croce dalle macerie di Ground Zero. © George De Sota-Gamma/Contrasto 6. Altarino spontaneo in una stazione dei pompieri a Brooklyn, 16 settembre 2001. © Alex Webb-Magnum Photos/Contrasto
Devozione democratica e fede repubblicana 7. Bill Clinton nella First African Methodist Episcopal Church di Los Angeles, 14 settembre 2003. © Ted Soqui-Corbis/Contrasto
8. Delegati alla Democratic Convention durante la cerimonia d’apertura, Los Angeles, 14-17 agosto 2000. © Jim Bourg-Reuters/Contrasto
9. Sostenitori del presidente Bush davanti alla National Cathedral, Washington D.C., 14 settembre 2001.
© Martin H.Simon-Corbis
10. Il discorso di George W. Bush nella National Cathedral, 14 settembre 2001. © Kevin Lamarque-Reuters/Contrasto
Il pontefice della religione americana 11. George W. Bush parla nella chiesa di Council Bluff, Iowa, durante le presidenziali del 2000. © Brooks Kraft-Corbis
12. George W. Bush di fronte al Congresso, Washington D.C., 20 settembre 2001. © Corbis-Sygma
13. George W. Bush in visita al cimitero americano in Normandia nel Memorial Day, 27 maggio 2003. © Kevin Lamarque-Reuters/Contrasto
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Sacra America imperiale 14. In attesa del New Jersey Memorial per le vittime del WTC, New York, 23 settembre 2001. © Mike Segar-Reuters/Contrasto
15. La bandiera americana tratta delle macerie di Ground Zero
viene mostrata all’apertura delle Olimpiadi invernali a Salt Lake City, 8 febbraio 2002. © Mike Blake-Reuters/Contrasto
A pagina precedente Oltre il terrore 16. Cerimonia commemorativa a un anno
dall’attacco terroristico al WTC, 11 settembre 2002.
© Mike Segar-Reuters/Contrasto
17. L'installazione temporanea «Tributo di luce» a Ground Zero, 2002. © Paul Fusco-Magnum Photos/Contrasto
prattutto gli effetti che la sua presidenza ha avuto sulla religione civile degli americani, in uno dei momenti più gravi della loro storia. Quale che sia il giudizio sulla fede religiosa di Bush, la sua religione pubblicamente manifestata ha contribuito a favorire il suo avvento alla Casa Bianca. Essa ha avuto inoltre una
parte decisiva nel farlo apparire dopo l’11 settembre a molti americani, e soprattutto alla destra religiosa, come un capo carismatico, un presidente al quale la provvidenza aveva affidato l’arduo compito di guidare la nazione in un momento tragico della sua storia?!. Che in Bush vi sia la convinzione di essere stato chiamato dalla provvidenza a guidare la democrazia di Dio nel Ventunesimo secolo, per dare alla storia una nuova direzione, sembra indubbio. Tuttavia, fino all’attacco terroristico dell’11
settembre, non era chiaro neppure a lui stesso quale fosse l’obiettivo della missione alla quale si sentiva chiamato. Durante i primi otto mesi di presidenza né dalla sua personalità né dalla sua attività emersero segni manifesti di una vocazione carismatica. Prima dell’11 settembre, forse neppure il più favorevole degli osservatori avrebbe potuto scorgere qualcosa di carismatico nella sua persona o nel modo in cui esercitava la sua funzione presidenziale. Le sue prime decisioni politiche, come il sostanzioso taglio delle tasse, la creazione di un ufficio speciale alla Casa Bianca per il finanziamento delle organizzazioni religiose che svolgono assistenza sociale, i provvedimenti per limitare l’aborto, la decisione di non finanziare la ricerca su nuove cellule staminali, avevano riscos-
so il consenso di gran parte del suo elettorato religioso, anche se i più tradizionalisti erano delusi per la mancanza di misure più nette e rigorose nel senso da loro auspicato, ma non avevano fatto crescere il livello della sua popolarità, che tendeva anzi a declinare. La luna di miele di Bush con il popolo americano era durata poco, e non aveva accresciuto la fiducia nei confronti del nuovo presidente, che appariva alquanto carente delle doti di 109
oratore e di comunicatore. Qualche scivolone nel pronunciare le parole, qualche dichiarazione avventata in politica estera, avevano piuttosto fatto crescere il sospetto, fra gli americani, di essere guidati da un presidente inespressivo, scialbo e inetto. La scarsa frequenza dei contatti del nuovo presidente con il pubblico giocava a sfavore della sua popolarità: fino alla sera dell’attacco terroristico, Bush non si era mai rivolto alla nazione dallo Studio Ovale, non aveva mai conces-
so una vera e propria conferenza stampa, aperta e non preordinata, non aveva mai manifestato, in nessuna occasione im-
portante per la nazione, la statura di un vero capo. A tre mesi dal suo insediamento, scriveva David Broder su
«The Washington Post», Bush non aveva ancora dato al pubblico americano una «chiara definizione del nuovo leader»?2. Del resto, Bush stesso sembrava poco impegnato nel cercare di definire la vocazione della sua presidenza, tanto da trascorrere oltre il 40 per cento del suo primo anno da presidente, prima dell’11 settembre, in vacanza o in viaggio?3. L’indice di approvazione della sua politica andava continuamente declinando, arrivando alla fine di giugno a poco più del 50 per cento. Poi, nel mese successivo all’attacco terroristico
dell’ 11 settembre, l’indice di approvazione salì all’87 per cento per arrivare al 90 per cento alla fine del 2001, dopo l’abbattimento del regime dei talebani in Afghanistan. In effetti, dall'esperienza dell’11 settembre, dopo lo smarrimento del primo giorno, emerse un nuovo Bush, trasformato dalla crisi: risoluto, deciso, capace di interpretare i sentimenti della nazione, che seppe dare conforto, orientamento e guida agli americani terrorizzati, incitandoli ad essere uniti e forti, per reagire al trauma della tragedia, dichiarando guerra a chi aveva voluto dichiarare guerra alla democrazia di Dio.
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Alla guerra, con Dio
La rivelazione Dopo 111 settembre, con appropriati gesti simbolici, con un’imprevista loquacità ed efficacia espressiva, grazie all’ausilio prezioso di autori dei suoi discorsi ben versati nel linguaggio religioso, Bush svolse dal pulpito presidenziale un’intensa funzione pastorale per confortare gli americani, lenire il loro dolore, sedare la loro rabbia e incoraggiare il loro patriottismo, promettendo di catturare e punire i terroristi che avevano violato l'America!. Inoltre, il presidente volle assumersi il compito di spiegare agli americani il significato della tragedia dell’11 settembre per annunciare le nuove responsabilità che attendevano il popolo americano di fronte alla guerra che il terrorismo islamico aveva dichiarato all'America. Dal settembre 2001 fino al maggio 2003, quando fu abbattuto il regime di Saddam Hussein in Iraq dall'intervento armato americano, molti discorsi e proclami presidenziali ebbero una funzione pontificale, che il presidente svolse elaborando una propria teologia di guerra, come interpretazione del destino degli Stati Uniti messi a confronto con una guerra fra il bene e il male, nella quale tuttavia appariva evidente, fin dall’inizio, che l'America era dalla parte di Dio. L’11 settembre aveva rivelato agli americani che gli Stati Uniti, nonostante la naturale protezione di due oceani e l’ineguagliata potenza militare, non erano invulnerabili, e che esistevano nel mondo nemici spietati che odiavano l’America, la sua civiltà e i valori che essa rappresentava per tutta l'umanità. SII
L'America e il mondo civile — disse Bush nel proclamare il 14 settembre una giornata nazionale di preghiera in memoria delle vittime dell’attacco terroristico — erano stati aggrediti da malvagi che dovevano essere perseguitati e consegnati alla giustizia; e la giustizia esigeva anche la punizione di chiunque aiutava e dava asilo ai terroristi. «Lo esige la enormità del male. E noi useremo tutte le risorse degli Stati Uniti e la cooperazione di amici e alleati per perseguire i responsabili del male, finché giustizia sarà fatta»?. Gli Stati Uniti erano in guerra contro un nemico nuovo, che non era uno Stato, ma un’orga-
nizzazione terroristica che aveva seguaci in tutto il mondo, pronti a sacrificare la loro vita pur di infliggere il massimo danno e la massima sofferenza alla potenza e al popolo degli Stati Uniti. I terroristi islamici non avevano alcuna remora a commettere i più atroci misfatti per tentare di terrorizzare, umiliare e annientare l'America, perché essa rappresentava nel mondo il libero governo, la libertà di religione, i diritti e l'eguaglianza degli individui. Tuttavia, contrapposta alla rivelazione della vulnerabilità della più grande potenza del mondo, Bush spiegava agli americani, un’altra rivelazione era scaturita dall’aggressione terroristica: la grandezza e la bontà del carattere americano, la vigoria delle sue virtù di eroismo, co-
raggio, solidarietà, amore del prossimo. Queste virtù, ripeté il presidente in più occasioni, si erano manifestate negli americani del volo 93 che avevano reagito ai terroristi dicendo semplicemente: «Muoviamoci» (Le?'s ro/)); nelle centinaia di pompieri e poliziotti che erano periti mentre prestavano soc-
corso nelle due torri al World Trade Center sacrificando la loro vita; nelle migliaia di soccorritori che avevano donato il loro sangue e la loro opera infaticabile per tentare di salvare vite umane; e queste virtù si erano manifestate in tutto il popolo
americano, che aveva reagito all’aggressione terroristica mostrandosi unito, risoluto e pronto a combattere contro il malefico nemico. L’11 settembre aveva rivelato la forza del «credo americano» fondato sulla fede nella libertà e nell’eguaglianza, che univa milioni di americani per nascita e per scelta: 112
Nel 226 anno della nostra indipendenza — disse Bush il 6 luglio 2002 parlando alla radio — abbiamo visto che il patriottismo americano è ancora una fede viva. Amiamo il nostro paese, ma lo amiamo di più quando è minacciato. L'America è la più variegata nazione della terra. Eppure, in un momento, scopriamo che siamo un unico
popolo, che condividiamo la stessa fedeltà, che viviamo sotto la stessa bandiera — e quando qualcuno colpisce l'America, colpisce tutti?.
I terroristi avevano voluto terrorizzare l'America, ma la
nazione americana, proclamava il suo presidente, aveva ritrovato nella tragedia la sua unità e la sua forza, ed era pronta a combattere nel Ventunesimo secolo i nuovi nemici della libertà e della democrazia, come aveva combattuto nel Ventesimo secolo il fascismo, il nazismo e il comunismo, per difendere la democrazia di Dio e diffondere nel mondo i suoi valori universali.
La missione
Bush annunciò la decisione di combattere la «guerra al terrore» il 14 settembre, quando fu celebrata con rito solenne la giornata nazionale della preghiera nella cattedrale di San Pietro e Paolo a Washington, una chiesa in stile gotico nota anche come National Cathedral, la sesta più grande del mondo. Alla . cerimonia parteciparono circa tremila persone, fra le quali quattro ex presidenti degli Stati Uniti, Carter, Ford, Clinton, Bush Sr., l’ex vicepresidente Al Gore, una marea di generali a quattro stelle, centinaia di membri del congresso e funzionari, giudici della Corte Suprema, direttori della Cia e dell’Fbi, governatori, sindaci e dozzine di vigili del fuoco e poliziotti4. Il servizio religioso fu ecumenico: Billy Graham, due ministri neri, un vescovo donna, un rabbino, un imam e un cardinale cat-
tolico parlarono prima del presidente degli Stati Uniti. Dal pulpito, dopo aver ricordato con profonda commozionele vittime degli attacchi terroristici, Bush disse che la nuova missio113
ne della nazione americana all’inizio del Ventunesimo secolo
era la guerra contro il male: A soli tre giorni da questi eventi, gli americani non hanno ancora la distanza della storia. Ma la nostra responsabilità di fronte alla storia è già chiara: rispondere a questi attacchi e liberare il mondo dal male. Una guerra è stata iniziata contro di noi con inganno, falsità e assassinio. La nostra nazione è pacifica, ma feroce quando è spinta alla collera. Questa guerra è stata iniziata nei tempi e nei modi voluti da altri. Essa finirà nel modo e nell’ora che noi sceglieremo.
Nella terribile esperienza che stavano vivendo, gli americani avevano mostrato al mondo il loro carattere nazionale «generoso e gentile, coraggioso e pieno di risorse». «Sentiamo oggi quel che Franklin Roosevelt definì il caldo coraggio dell’unità nazionale» che «ha unito insieme i partiti nelle due camere del Congresso», manifestandosi nei servizi di preghiera, nelle veglie con le candele, nelle bandiere americane sventolate con orgoglio in segno di sfida: «In ogni generazione, il mondo ha prodotto nemici della libertà umana. Essi hanno aggredito l'America perché siamo la patria e i difensori della libertà. E l’impegno dei nostri padri è ora la vocazione del nostro tempo». Dopo aver definito la missione dell’ America nella «guerra al terrore», Bush spiegò al popolo americano come interpretare la presenza di Dio nella disumana tragedia che aveva colpito gli Stati Uniti. Gli americani nelle loro preghiere chiedevano a Dio «un segno che Egli è ancora qui», ma i segni di Dio, disse Bush echeggiando Abraham Lincoln, «non sempre sono quelli che noi cerchiamo. Nella tragedia impariamo che i Suoi propositi non sono sempre i nostri. [...] Dio ha creato questo mondo secondo un disegno morale. Dolore e tragedia e odio hanno una parte nel tempo. La bontà, la memoria e l’amore non hanno fine. E al Signore della vita appartengono coloro che muoiono e coloro che soffrono». 114
Bush concluse invocando la benedizione e la protezione di Dio sull’ America in guerra, confidando nel suo amore per il popolo americano, perché «né morte né vita, né angeli né principi né potenti, né le cose presenti né quelle a venire, nessuna altezza e nessuna profondità, possono separarci dall’amore di Dio. Possa egli benedire le anime dei morti. Possa egli confortare le nostre anime. E possa Egli guidare sempre il nostro paese».
Nella chiesa della nazione Il discorso nella National Cathedral ebbe una straordinaria importanza simbolica, politica, religiosa e militare, non solo
peril contenuto, ma specialmente per illuogo nel quale era stato pronunciato. La cerimonia segnava l’inizio di un processo di sacralizzazione degli eventi dell’ 11 settembre e della nuova missione, che il popolo americano si assumeva di fronte a Dio, attraverso il suo presidente, per «liberale il mondo dal male». Per comprendere l’importanza simbolica della cerimonia, occorre ricordare che la National Cathedral era sorta per essere il massimo tempio della religione americana. L’idea di edificare una chiesa della nazione risaliva ai tempi della costruzione della nuova capitale Washington. La Costituzione degli Stati Uniti, nel primo emendamento, vietava al governo degli Stati Uniti di istituire una chiesa di Stato, per affermare il principio della libertà di religione. Tuttavia anche se i Padri fondatori concordarono nel rifiutare ad una qualsiasi confessione religiosa il privilegio di diventare la Chiesa della nazione, nessuno di essi concepiva la Repubblica senza religione. Quando lasciò la presidenza, Washington ricordò ai suoi concittadini che «la religione e la morale sono sostegni indispensabili per la prosperità politica, e nessuno che tenti di sovvertire questi
due grandi pilastri dell’umana felicità può considerarsi degno del patriottismo». Benjamin Franklin aveva sostenuto fin dal 1749 la necessità di una «religione pubblica in funzione della 115
sua pubblica utilità», genericamente definita secondo le credenze fondamentali del deismo illuminista, molto simile alla
«religione civile» proposta da Jean-Jacques Rousseau nel Cortratto sociale, pubblicato nel 17626. Fra i progetti dell’architetto Pierre Charles L’Enfant, incaricato dal presidente Washington di disegnare il piano generale per la nuova sede del governo degli Stati Uniti, vi era una chiesa dedicata a una funzione spciale: svolgere servizi nazionali come luogo pubblico di preghiera, di ringraziamento, di cerimonie funebri, non assegnata a funzioni speciali di una particolare setta o confessione, ma aperta a tutte. La
chiesa sarà anche il luogo ove ospitare i monumenti decretati dall’ultimo Congresso continentale per gli eroi caduti per la causa della libertà e per gli altri che tali saranno proclamati per volontà di una Nazione grata”.
La chiesa della nazione immaginata dall’architetto francese non fu realizzata, ma circa un secolo dopo, il 6 gennaio 1893, il congresso concesse alla Chiesa episcopale del distretto di Columbia l’autorizzazione a costruire una cattedrale e un istituto di studi sul monte Saint Alban, che sovrasta l’intera
area della capitale. La prima pietra fu posta il 29 settembre 1907, alla presenza del vescovo di Londra, del presidente Theodore Roosevelt e di una immensa folla. Mano a mano che procedeva la sua costruzione, la cattedrale divenne luogo per riti nazionali. Essa rimase una chiesa della diocesi episcopale di Washington, ma il primo vescovo della cattedrale volle rimanere fedele al proposito originario di L’Enfant, lasciando che fosse «un luogo di preghiera aperto a tutti». Durante la seconda guerra mondiale, vi si tennero funzioni religiose mensili per «un popolo unito in tempi di emergenza» e la Cappella dello Spirito Santo divenne un tempio di guerra dove si svolsero cerimonie comunitarie di rimembranza. Nel 1956 vi fu consacrata la tomba del presidente Wilson, l’unico presidente sepolto nel distretto di Columbia. Nel 1968 il reverendo 116
Martin Luther King Jr. pronunciò dal pulpito della cattedrale il suo ultimo discorso. L’anno successivo, migliaia di persone furono presenti nella cattedrale per i funerali del presidente Eisenhower. Nel 1976, alla inaugurazione della navata parteciparono il presidente Ford, la regina d’Inghilterra e il vescovo di Canterbury. Nel 1980, la cattedrale, in stato di avanzata costruzione, ospitò una cerimonia nazionale di ringrazia-
mento per la liberazione degli ostaggi americani in Iran. Nel 1983, il vescovo afro-americano della cattedrale ribadì il suo
carattere ecumenico nazionale, come «il grande simbolo del retaggio religioso e della fondazione della nazione». La costruzione fu definitivamente compiuta il 30 settembre 1990, durante la presidenza di Bush padre, che partecipò alla cerimonia di consacrazione8. La cattedrale, disse il presidente, non è solo una chiesa ma «una casa di preghiera per una nazione fondata sulla roccia della fede religiosa, una nazione che noi celebriamo come ‘una nazione sottoposta a Dio»: Abbiamo costruito qui un simbolo della vita spirituale della nazione che sovrasta il centro della vita secolare della nazione. [...] Una cattedrale che non riguarda soltanto la fede, ma una nazione e il suo popolo, dove il Grande Sigillo degli Stati Uniti e i sigilli dei singoli Stati sono impressi nella pavimentazione. [...] È un luogo dove la storia della cattedrale e la storia della nazione sono state intrecciate?.
Pur rimanendo una chiesa episcopale, la Washington Cathedral è divenuta la chiesa della nazione, e non ha una
congregazione formale come le altre chiese o luoghi di culto, ma è un «luogo nazionale di preghiera aperto a tutti e a tutte le fedi», il massimo tempio della religione civile americana. Oltre gli stemmi governativi, la simbologia della cattedrale, pur nella predominante iconografia biblica, evoca nelle vetrate, nelle sculture in pietra e legno, e nelle decorazioni metalliche, la religione civile americana attraverso la storia degli Stati Uniti: le lotte per l'indipendenza e i diritti umani, le 417
guerre, le conquiste nel campo della religione, della scienza, del diritto, della politica, della medicina, del costume civico,
e i grandi eroi nazionali. Una navata della chiesa è dedicata a Washington, con una sua statua e simboli massonici, incluso il suo martelletto massonico, che porta impressa l’immagine del Campidoglio da una parte e la torre della chiesa dall’altro. Un'altra navata è dedicata a Lincoln, con una statua di bron-
zo, e un’altra è dedicata al generale sudista Robert E. Lee. C’è la cappella per icaduti in guerra, con gli stemmi delle cinque armi, dedicata a tutti gli uomini e le donne che hanno dato la vita in guerra per la patria. In una vetrata è incastonato un frammento di roccia lunare portato sulla terra dall’Apollo 11. Bush figlio vi celebrò la cerimonia di preghiera nel giorno del suo giuramento.
Religione o nazionalismo? La giornata di preghiera in memoria delle vittime degli attacchi terroristici, celebrata nel massimo tempio della religione americana, fu accuratamente organizzata per essere una ma-
nifestazione di cordoglio, ma soprattutto una dimostrazione di forza e di glorificazione dell’ America. Il presidente Bush aveva personalmente curato ogni particolare, dalla scelta dei partecipanti e degli oratori, alla selezione delle musiche, conferendo ad ogni aspetto un pregnante significato simbolico. La cerimonia fu aperta col rito marziale dell’onore alla bandiera. Insieme ai canti religiosi e alla lettura delle Beatitudini dal vangelo di Matteo, i partecipanti cantarono America the Beautiful. La funzione religiosa, con la lettura di brani dalle Sacre Scritture, fu chiusa dall’inno The Bat-
tle Hymn of the Republic, un poema composto da Julia Ward Howe all’inizio della Guerra civile, ridondante di versi guerrieri e bagliori apocalittici annuncianti l’arrivo del Signore, con la sua terribile spada sfolgorante, al grido «Gloria! Gloria! Alleluia! La Sua verità è in marcia! Dio è in marcia!» Il 118
poema, diventato «forse il più popolare inno delle guerre e delle crociate morali fra i popoli di lingua inglese», come ha scritto lo storico Ernst Lee Tuveson, nei versi finali inneggia alla gloria di Cristo: «così come egli era morto per rendere gli uomini santi, andiamo a morire per rendere gli uomini liberi, mentre Dio avanza»!°. Dopo la preghiera e la benedizione finale, la cerimonia si chiuse con il rito marziale della uscita del-
la bandiera. La cerimonia, con la simultanea rappresentazione religiosa, politica e militare, mise in scena simbolicamente la fede, la
coesione e la forza della nazione, unita attorno al suo presidente, per difendere la democrazia di Dio. Il suo discorso conteneva il nucleo della nuova teologia di guerra, che Bush espose nelle settimane successive, per giustificare moralmente le operazioni militari che si accingeva a lanciare contro il terrorismo. Alla fusione di religione e politica, nella teologia di Bush si aggiungeva ora la guerra. «Il linguaggio era la retorica della guerra, ma il discorso non proveniva dallo Studio Ovale o da Camp David, ma da un luogo sacro, davanti all’altare di una chiesa», scrisse Bill Broadway sul «Washington Post», raccogliendo i commenti di studiosi e religiosi sul discorso del presidente. Questo fu giudicato «assolutamente inappropriato perché era sostanzialmente un discorso di guerra» dal sociologo Robert N. Bellah, famoso per aver affermato nel 1967 l’esistenza di una religione civile americana. Il sociologo defi- . nì «assolutamente sbalorditiva» l’affermazione di Bush che l America aveva la responsabilità storica di liberare il mondo dal male. Sconcertato da questa affermazione si dichiarava anche James R. Childress, docente di etica, perché «il presidente va assumendo una mentalità da crociata, da guerra santa, e
se ci si mette su questa via, si perde il senso dei limiti che sono necessari per fare giustizia degli attacchi terroristici». Approvò il discorso di Bush il cardinale Theodore E. McCarrick,
capo dell’arcidiocesi cattolica di Washington, perché lo considerò una reazione appropriata alla gravità degli eventi e allo stato d’animo del popolo americano, pur aggiungendo LIO
che una risposta militare doveva essere condotta secondo le regole della «giusta guerra». E un analogo commento espresse l'arcivescovo Demetrios, capo della Chiesa greco-ortodossa in America. Margaret Shannon, la storica della Washington Cathedral, precisò che Bush non era il primo presidente a fare un discorso politico nella cattedrale, ricordando che nel 1998, durante un servizio in memoria di dodici americani uc-
cisi nell’attacco terroristico alle ambasciate americane in Tanzania e Nairobi, il presidente Clinton aveva incitato la nazione a «cercare i responsabili e portarli alla giustizia, e a non avere tregua fin quando ci sono terroristi che complottano contro vite innocenti, perché la nostra lotta per la speranza contro l’odio è unallotta giusta. E con l’aiuto di Dio noi vinceremo»!!. Giudizi positivi sul discorso espressero importanti senatori democratici come Edward Kennedy e Joe Lieberman". Anche il pastore della Chiesa mennonita Heidi Regier Kreider apprezzò il servizio religioso, come commosso ricordo delle vittime e meditazione sulle sofferenze della nazione, ma espresse un giudizio severo sull’intonazione nazionalista della cerimonia, ricordando che vi erano vittime di altre na-
zioni che pativano ogni giorno il terrore, per le occupazioni militari, la minaccia di bombe e di mine, l’estrema povertà, la
fame, l'Aids. Egli si domandava se la compassione per la sofferenza, provata sul proprio suolo, avrebbe indotto gli americani a comprendere anche le sofferenze degli altri popoli e a rivolgere anche verso di essi la loro azione caritatevole: «Se la benedizione di Dio è riservata soltanto per le vittime americane del terrorismo, allora vuol dire che il nazionalismo ha sostituito la compassione». E per questo motivo, al pastore non
era piaciuta la «sottile ma potente mescolanza di simboli religiosi e nazionali» durante la cerimonia nella cattedrale. Mentre il coro dei ragazzi cantava un salmo, si vedevano immagini della bandiera. Il canto dell’inno I/ rostro Dio è una fortezza
era accompagnato da immagini del Pentagono squarciato e dell’ammasso di rovine del World Trade Center. Tutto questo esigeva dagli americani «un nuovo dibattito sui valori e le prio120
rità della nazione», sulle relazioni fra Chiesa e Stato, rinno-
vando la «fedeltà a un Dio che ama egualmente tutte le nazioni», e l’impegno verso la Chiesa «che trascende tutti i confini nazionali». E il pastore protestò indirettamente contro l’interpretazione dell’attacco dell’11 settembre come una guerra fra il bene e il male, e contestò che gli Stati Uniti fossero moralmente superiori, solo perché erano stati aggrediti, ricordando che proprio gli edifici attaccati «rappresentano ricchezza e armi che hanno a loro volta prodotto povertà, morte e sofferenza nel mondo»!3. La voce del pastore mennonita, discorde dal coro delle approvazioni riscosse dal discorso presidenziale, anticipava altre voci simili, che divennero sempre più numerose e forti quando la sacralizzazione dell’11 settembre fu convertita da Bush in una rinnovata sacralizzazione dell’ America, presentandola
come una nazione impegnata con la guerra a liberare il mondo dal male, per diffondere ovunque la democrazia, che Dio aveva elargito al popolo americano perché ne facesse dono a tutta l’umanità. Tuttavia, nei mesi della guerra in Afghanistan, queste voci discordi non furono udibili nel clamore patriottico del coro di approvazione per l'operazione militare, e per il presidente divenuto comandante della nazione in guerra.
La consacrazione di un capo Con la cerimonia nella chiesa della nazione americana, Bush
aveva adempiuto solennemente alla sua funzione di pontefice massimo della religione civile, celebrando le vittime americane, ed era stato simbolicamente consacrato capo della nazione in guerra. «La religione civile va alla guerra», commentò Mark Silk, direttore del Leonard E. Greenberg Center per lo studio della religione nella vita pubblica: «Se qualcosa riguarda la religione civile è proprio la guerra, e quelli che in essa muoiono»!4. Bush ebbe la conferma della consacrazione simbolica al ruolo di capo il pomeriggio del 14 settembre, quanN41
do, dopo la cerimonia alla National Cathedral, si recò a New
York a visitare per la prima volta Ground Zero. L'incontro con ivigili del fuoco, i poliziotti, isoccorritori, ilavoratori, i fa-
miliari delle vittime fu spontaneo e commovente; la visione del cumulo di macerie colpì profondamente il presidente, che riuscì a trattenere le sue emozioni, e riassunse presto il ruolo del capo sicuro e deciso, parlando alla folla che lo acclamava e reclamava giustizia al grido «U-S-A, U-S-A, U-S-A». Il discorso non era previsto, ma Bush si arrampicò sulle macerie con un megafono, aiutato da un anziano vigile del fuoco, e dal cumu-
lo di detriti, col braccio attorno alle spalle del vigile, rivolse parole che la folla non riusciva ad udire. «Non sentiamo», lo in-
terruppe una voce. E Bush urlò: «Io posso sentirvi. Il resto del mondo vi sente. E quelli che hanno abbattuto questi edifici ci sentiranno presto, tutti!». E la folla rispose unanime alle parole del capo, ripetendo con orgoglio il grido «U-S-A, U-S-A, U-S-A». Con il carisma di cui si sentiva investito, dopo la cerimonia nella chiesa della nazione e l’incontro con la folla a Ground Zero, Bush si presentò il 20 settembre davanti al Congresso degli Stati Uniti per riceverne la conferma definitiva dai rappresentanti del popolo, in nome della nuova missione della nazione americana. «Nel nostro dolore e nella nostra rabbia, noi abbiamo trovato la nostra missione e il nostro momento»,
disse nel discorso che tracciò le linee fondamentali della «guerra al terrore». L'America era stata aggredita dai «nemici della libertà» e in un solo giorno «la notte è scesa su un mondo diverso, un mondo dove la libertà stessa è sotto at-
tacco», perché lo scopo dei terroristi di al-Qaeda «è rifare il mondo e imporre ovunque, a qualsiasi popolo, le loro credenze estremiste». Essi «non uccidono soltanto per annientare vite umane, ma per distruggere e annientare un modo di vivere». Dietro la pretesa vocazione religiosa di al-Qaeda, vi era l'eredità di «tutte le ideologie assassine del Ventesimo secolo», perché «sacrificando la vita umana per affermare le loro visioni estremiste, rinunciando ad ogni valore salvo la volontà 122
di potenza, essi seguono la strada del fascismo, del nazismo e del totalitarismo. E la seguiranno — aggiungeva Bush - fin dove essa ha termine: nella tomba senza nome delle menzogne rifiutate dalla storia»!. La visione del mondo che i terroristi volevano realizzare aveva già il suo modello concreto nel regime dei talebani in Afghanistan. E ai dirigenti talebani Bush intimò di consegnare alle autorità degli Stati Uniti tutti i capi di al-Qaeda che si nascondevano nel loro paese, chiudere ogni campo di addestramento terroristico e consegnare ogni terrorista e ogni persona che li sosteneva, dando agli Stati Uniti completo accesso a tutti i campi terroristici per accertare che erano stati resi inoperativi. Le richieste non erano negoziabili, e la loro esecuzione doveva essere immediata: «O conse-
gnano i terroristi, o seguiranno il loro destino». La «guerra al terrore», che l’America era decisa a combattere, iniziava con-
tro al-Qaeda ma, precisava Bush, «non finirà fino a quando ogni gruppo terroristico che opera nel mondo non sarà scovato, bloccato e sconfitto». Di conseguenza, gli americani non dovevano aspettarsi una sola battaglia risolutiva «ma una lunga campagna, differente da quelle che noi abbiamo visto finora», per stanare ovunque i terroristi e punire i paesi che li ospitano e li proteggono. «Ogni nazione deve ora decidere: o con noi o con i terroristi. Da questo momento, qualsiasi na-
zione che ospita o sostiene i terroristi sarà considerata dagli Stati Uniti un regime nemico». Spettava agli Stati Uniti essere alla guida della guerra al terrore non solo perché erano stati aggrediti dai terroristi, ma perché solo essi avevano le risorse e la potenza per poter far fronte alla sfida mortale del
terrorismo contro la libertà: Finché gli Stati Uniti saranno decisi e forti, la nostra non sarà un’era del terrore, ma sarà un’era di libertà, in America e nel mon-
do. [...] La libertà e la paura sono in guerra. L’avanzamento della libertà umana — la grande conquista del nostro tempo, e la grande speranza di ogni tempo — dipende ora da noi. La nostra nazione — questa generazione — dovrà sradicare una oscura minaccia di vio123
lenza dal nostro popolo e dal nostro futuro. Con i nostri sforzi e con il nostro coraggio, noi uniremo il mondo per questa causa. Non ci stancheremo, non vacilleremo, e non falliremo.
Il momento simbolico più significativo del discorso di Bush al Congresso e alla nazione americana il 20 settembre fu quando il presidente mostrò il distintivo di un poliziotto «morto al World Trade Center nel tentativo di salvare altri»,
e disse che gli era stato donato dalla madre di lui, come orgoglioso ricordo del figlio: Questo è il mio ricordo delle vite che sono finite e del compito che non ha fine. Non dimenticherò la ferita inferta al nostro paese né quelli che l'hanno inflitta. Non cederò. Non riposerò. Non esiterò nel condurre questa guerra per la libertà e la sicurezza del po-
polo americano. Il corso di questo conflitto non ci è noto, ma il suo esito è certo. Libertà e paura, giustizia e crudeltà, sono sempre in guerra, e noi sappiamo che, fra di loro, Dio non è neutrale.
E a Dio, alla fine, il presidente si rivolse, invocandolo perché «possa darci saggezza e possa continuare a vegliare sugli
Stati Uniti d’America»!5. Di fronte ad ottanta milioni di americani, che avevano seguito il discorso alla televisione, Bush coronò, con un nuovo
atto simbolico, la sua consacrazione al ruolo di capo della nazione in guerra. Il presidente sospettato di aver rubato la vittoria per la Casa Bianca riceveva così una piena legittimazione dai legittimi rappresentanti del popolo americano, e da un larghissimo consenso di massa. Dopo il discorso al Congresso, l'81 per cento degli americani si dichiarò molto favorevole al presidente, e il 73 per cento affermò che il presidente aveva «fatto comprendere meglio il modo in cui i terroristi devono essere combattuti»!7. A ottobre l’indice di approvazione salì all'87 per cento e nel maggio dell’anno successivo era ancora ad un livello elevato (75 per cento)!8. I rappresentanti democratici al Congresso si radunarono insieme ai re124
pubblicani attorno alla bandiera sulla scalea del Campidoglio, cantando God Bless America, e rapidamente approvarono, quasi unanimi, tutte le leggi, prima fra tutte lo Usa Patriot Act, che Bush propose per assicurare la protezione interna degli americani e condurre la guerra contro il terrorismo!?.
Ecumenismo presidenziale La guerra al terrore iniziò il 7 ottobre con l’attacco in Afghanistan, annunciato da un discorso di Bush alla nazione nel
quale egli ripeté quanto aveva già detto il 20 settembre: la guerra sarebbe stata lunga, nessun paese poteva ritenersi neutrale, l’obiettivo era definito nello slogan stesso della guerra, «Libertà duratura», in cui si compendiava la missione dell'America: «Noi difendiamo non solo la nostra preziosa libertà, ma la libertà di tutti i popoli a vivere e a far crescere i loro figli liberi dalla paura». Nel definire il carattere e gli scopi della guerra contro il terrorismo islamico, Bush volle accuratamente evitare di farla apparire come una guerra di religione diretta contro l’Islam o contro gli arabi. Egli ritrattò immediatamente l’espressione «crociata» che aveva infelicemente usato il 16 settembre?!. Nei giorni successivi, il presidente ribadì continuamente che gli americani non dovevano considerare la religione islamica responsabile di quanto era. avvenuto, e condannò pubblicamente i gravi episodi di intolleranza e di aggressione nei confronti di arabi o presunti tali, con alcuni casi di omicidio. Diversamente da quanto era accaduto dopo Pearl Harbour, quando americani di origine giapponese, e anche cinesi americani scambiati per giapponesi, furono vittime di aggressioni e furono internati in massa per tutta la durata della guerra, dopo l'11 settembre il governo, e Bush in prima persona, fecero il possibile per evitare il diffondersi della violenza anti-islamica. Bush si fece fotografare mentre leggeva il Corano, che definì un libro «santo» che «insegna il valore e l’importanza della carità, della mi425
Di sericordia e della pace», visitò moschee, invitò esponenti re-
ligiosi islamici alla Casa Bianca e vi ospitò cene per il Ramadan?2. Anche la presenza dell’imam Muzammil Siddigi, presidente della Islamic Society of North America, fra gli esponenti religiosi invitati a pregare nella National Cathedral, non fu solo un omaggio al pluralismo religioso americano, ma una autorevole testimonianza di rispetto nei confronti della religione islamica, «una religione di pace», come Bush la definì, rivolgendosi sia al mondo islamico sia agli americani non islamici, per esortarli a non confondere la religione islamica con l’islamismo politicizzato dei terroristi. «Il volto del terrore non è la vera fede dell’Islam. Non ha nullà a che fare con l'Islam. L'Islam è pace. I terroristi non rappresentano la pace, rappresentano il male e la guerra», disse Bush al Centro islamico di Washington, dove si recò il 17 settembre per manifestare solidarietà verso gli islamici americani, condannare gli atti di intolleranza e di violenza anti-islamica, «che manifestano il peggio della natura umana e sono una vergogna per l America», e per esortare gli americani a rispettare i milioni di concittadini arabi e musulmani, in nome dei comuni valo-
ri della nazione americana: «Questo è un grande paese perché noi condividiamo gli stessi valori di rispetto, di dignità e di umanità». Nel discorso del 20 settembre al Congresso degli Stati Uniti, il presidente si rivolse ai musulmani in tutto il mondo per dichiarare il rispetto degli americani per la loro fede «praticata liberamente da molti milioni di americani e da milioni e milioni di persone in altri paesi che l’America considera amici. Gli insegnamenti dell'Islam sono buoni e pacifici, e coloro che commettono il male nel nome di Allah bestemmiano il suo nome». Sette giorni dopo, incontrando esponenti della comunità islamica alla Casa Bianca, Bush ricordò la presenza dell’imam alla cerimonia nella National Cathedral per ribadire che l'America era in guerra «contro il male, contro gli estremisti», non contro l’Islam «che insegna la pace e il bene», e assicurò ai concittadini americani che il giuramento di fedeltà alla bandiera degli islamici americani 126
era forte quanto il suo, e che molti americani di fede islamica con i loro capi si erano mobilitati sostenendo che l'America non solo doveva esser forte, ma doveva «conservare intatti i
valori che ci hanno reso una nazione così unica e così differente, i valori del rispetto e della libertà di esercitare il proprio culto nel modo che riteniamo appropriato», rivolgendo le preghiere «al Dio universale»?4.
Cristiani non ecumenici
Le manifestazioni di rispetto nei confronti dell’Islam erano una genuina espressione dell’ecumenismo religioso di Bush, coerente con l’ecumenismo della religione americana, oltre che essere un gesto politico rivolto al mondo islamico per ribadire che la guerra contro il terrorismo non era una guerra contro l'Islam. Inoltre, l'atteggiamento e le dichiarazioni di Bush nei confronti dell’Islam e degli americani musulmani contribuirono a sedare l’animosità antiaraba e anti-islamica fra la popolazione americana, che poco conosceva della religione islamica. Secondo un sondaggio pubblicato il 6 dicembre 2001 dal Pew Research Center, solo il 27 per cento degli americani oltre i sessantacinque anni dichiarava di sapere qualcosa dell’Islam, rispetto al 44 per cento degli americani al di sotto dei trent'anni. E fra quelli che dichiaravano di conoscere qualcosa dell’Islam, il 73 per cento aveva un atteggiamento favorevole nei confronti dei musulmani americani, un
atteggiamento condiviso solo dal 53 per cento di quelli che ne sapevano poco o nulla. Complessivamente, fra gli americani vi era stato un miglioramento nella loro opinione dei musulmani americani: la percentuale di coloro che li consideravano favorevolmente era salita dal 45 per cento nel mese di marzo al 59 per cento alla fine dell’anno. La conoscenza dell’Islam influiva anche sul giudizio degli americani riguardo alle motivazioni dei terroristi. Il 49 per cento riteneva che i terroristi erano mossi principalmente da motivi politici, mentre il 30 per 027
cento attribuiva più importanza alle loro credenze religiose, percentuale, quest’ultima, maggiore fra coloro che sapevano poco o nulla dell’Islam??. L'intervento di Bush in favore dell'Islam e dei musulmani americani influì in particolare sull’atteggiamento dei repubblicani conservatori: la percentuale di quelli che consideravano favorevolmente i musulmani d’ America era salita dal 29 per cento del marzo 2001 al 64 per cento a dicembre. L’atteggiamento favorevole rimase costante anche nei mesi successivi,
mentre la critica dell’Islam, non più nettamente distinto dai fondamentalisti islamici terroristi, cominciò a crescere fra la
popolazione. Secondo un sondaggio del Pew Research Center pubblicato il 20 marzo 2002, solo il 27 per cento degli americani, rispetto al 31 per cento nel dicembre precedente, riteneva che cristianesimo e islamismo avessero qualcosa in comune, mentre la percentuale di quelli che consideravano l’Islam molto differente era salita dal 51 al 57 per cento: fra gli evangelici, questa percentuale era del 78 per cento?%. Nel corso del 2002 e del 2003, eminenti personaggi della destra cristiana evangelica più conservatrice e fondamentalista, anche molto vicini al presidente, ma che non condividevano affatto il suo giudizio e il suo atteggiamento verso l’Islam, manifestarono apertamente un irritato dissenso. «Noi non crediamo sia necessario che l'Islam venga convalidato al più alto livello del governo americano. Molta gente pensa che Bush si sia spinto troppo oltre nel parlare in favore dei musulmani», dichiarò David Crowe, di-
rettore di Restore America, un’organizzazione politica di cristiani conservatori??.
In un'intervista
televisiva, Franklin
Graham, figlio di Billy, definì l’Islam una «religione veramente cattiva e violenta». Jerry Vines, già presidente della Southern Baptist Convention, disse che Maometto era «un pedofilo indemoniato». Pat Robertson definì il profeta un «folle fanatico, brigante e predone», sostenendo che i terroristi islamici non erano altro che interpreti fedeli del Corano, pieno di incitamento alla guerra contro gli infedeli28. Gli evangelici fondamentalisti consideravano un loro dovere missionario converti128
re i musulmani al cristianesimo, portando la vera fede negli stessi paesi islamici. Per essi, la «guerra al terrore» doveva essere una crociata per la evangelizzazione del mondo arabo. Sebbene sollecitato a prendere apertamente posizione nei confronti di questi conservatori religiosi non ecumenici, tutti suoi sostenitori, il presidente preferì tacere, lasciando ripetere ai
suoi portavoce che egli rispettava l’Islam??. Anche se non prese le distanze dalle posizioni dei suoi amici religiosi anti-islamici, Bush pubblicamente continuò a definire l'Islam una reli-
gione di pace che non si identificava con il radicalismo dei terroristi. In occasione del primo anniversario dell’11 settembre, Bush si preoccupò di prevenire sentimenti anti-islamici: in un incontro con alcuni capi dei musulmani americani presso l’ambasciata dell’ Afghanistan, dichiarò che «tutti gli americani riconoscono che il volto del terrore non è il volto dell’Islam, una
religione che dà conforto a miliardi di persone nel mondo, che ha fratelli e sorelle di ogni razza, basata sull’amore e non sull’odio»?0. Nel dicembre 2002, durante la visita del primo ministro turco Tayyip Erdogan, Bush gli disse: «Tu credi nell’Onnipotente, io credo nell’Onnipotente. Ecco perché siamo grandi amici»?!. Anche la stampa liberale apprezzava il comportamento del presidente verso l'Islam. Howard Fineman il 10 marzo 2003 riconobbe che Bush «si era molto prodigato per riassicurare imusulmani che egli ammirava la loro religione»??. E Nicholas Kristof scriveva su «The New York Times» il 10 giugno 2003: «Bush ha mostrato una vera capacità di guida morale dopo l’11 settembre, quando ha elogiato l’Islam come una ‘religione di pace’ mettendo in chiaro che la sua amministrazione non intendeva demonizzarlo»?3.
Dio lo vuole In uno dei momenti più tragici della sua storia, alla vigilia di una nuova guerra, il popolo americano aveva trovato un capo. E il capo aveva ricevuto il carisma: la conferma della sua voca129
zione, la definizione della sua missione, l’investitura per guidare la nazione in guerra. Al rinato in Cristo divenuto presidente, il disegno della provvidenza appariva chiaro: era stato chiamato alla presidenza degli Stati Uniti per guidare gli americani nella nuova missione, una guerra lunga contro il terrorismo mondiale per difendere la democrazia di Dio e diffondere i suoi valori nelmondo. In qualche momento cruciale, dopo l’11 settembre, il presidente volle avere il consiglio e il conforto di religiosi e studiosi di religione. Poche ore prima del discorso al Congresso e alla nazione, il 20 settembre, invitò alla Casa Bianca un gruppo di esponenti di differenti comunità religiose: erano presenti i rappresentafti di tutte le confessioni protestanti, dei cattolici, degli ortodossi, degli ebrei, dei sikh, degli hindu, dei buddisti, e dei musulmani. All’in-
contro ecumenico fu invitato anche una docente di etica politica e sociale dell’Università teologica di Chicago, Jean Bethke Elshtain. Per oltre un’ora Bush parlò e pregò con loro, e chiese ai presenti di pregare per lui in un momento così difficile. Elshtain lo esortò ad esercitare come presidente il ruolo di un «educatore civico» per «spiegare le cose agli americani, insegnare la pazienza a un popolo impaziente, e la necessità del sacrificio ad un popolo non abituato ai sacrifici». L'incontro si concluse al canto di God Bless America. Si poteva sospettare nell’invito un gesto di propaganda, ma, scrive Elshtain, «eravamo tutti consapevoli di aver partecipato ad un evento straordinario. [...] Era chiaro che il presidente voleva consiglio, desiderava le nostre preghiere, e sperava anche di rassicurarci che egli era consapevole dei problemi che doveva affrontare»34. Nelle sue decisioni più gravi, Bush cercava direttamente il conforto e il consiglio di Dio, che intimamente consultava pregando e leggendo ogni giorno la Bibbia. A volte confidava di sentire la presenza di Dio in quei momenti tragici. La domenica delle Palme del 2002, mentre era a bordo dell'Air Force One, Bush volle organizzare una informale funzione re-
ligiosa. «Sentii la presenza di Dio fra i miei amici sull’ Air Force One» disse in seguito?7, I suoi più intimi collaboratori alla 130
Casa Bianca furono testimoni e artefici della trasfigurazione carismatica del loro presidente, alimentata dalla fede in Dio, e
contribuirono ad incrementarla accreditandola pubblicamente. Uno stretto collaboratore del presidente, Tim Goeglein, dichiarava a «World Magazine», una rivista cristiana conservatrice: «Credo che il presidente Bush sia l’uomo di Dio in questa ora, e lo dico con grande senso di umiltà»3%. Dopo l'abbattimento del regime di Saddam Hussein, il generale William Boykin, importante funzionario al dipartimento della Difesa incaricato della caccia a Bin Laden, parlando in una chiesa militarmente abbigliato, disse che Bush era alla Casa Bianca anche se la maggioranza degli americani non aveva votato per lui, perché «Dio lo ha messo lì per tempi come questi. Dio l’ha messo alla Casa Bianca non solo per guidare la nostra nazione, ma per guidare il mondo in tempi come questi»?7. Il presidente non esitava ad annuire quando i suoi collaboratori gli dicevano che Dio lo aveva voluto alla Casa Bianca. Quando, dopo il discorso al Congresso del 20 settembre, Michael Gerson telefonò a Bush, dopo aver seguito alla televisione il discorso, e gli disse: «Signor Presidente, quando vi ho visto alla televisione, ho pensato che Dio vi ha voluto alla Casa Bianca», il presidente, ringraziandolo, rispose: «Egli ci vuole tutti qui»35. Il reverendo Gerarld Kieschnik, presidente del Sinodo della Chiesa luterana del Missouri, parlando col presidente dopo essere stato a Ground Zero, gli disse che egli non aveva soltanto una vocazione civile, ma una vocazione divina,
perché era stato chiamato a servire Dio in un momento così grave. «Accetto la responsabilità» fu la risposta di Bush. E un amico di Bush, che visitava spesso la Casa Bianca, riferiva che il presidente «sente realmente che questa è la sua missione»??. Indicando il ritratto di Abraham Lincoln ad un gruppo di capi religiosi, invitati a pregare con lui nello Studio Ovale, Bush disse che il quadro era un richiamo costante alla sua missione: estendere la libertà e unire la nazione#0. In pochi giorni, dopo l°11 settembre, Bush riuscì a compiere la trasfigurazione carismatica della sua persona, l’identi131
ficazione della propria figura di presidente con la nuova missione americana, consacrata dal sacrificio delle vittime dell’11 settembre, benedetta dalla benevolenza divina e confermata
dal popolo. Contemporaneamente, Bush esaltò la funzione pontificale inerente alla figura del presidente, non solo svolgendo una azione pastorale di compassione e di consolazione, ma soprattutto assumendo il ruolo di sommo teologo della religione americana, che interpretava e spiegava agli americani il significato dell’11 settembre nel quadro della missione provvidenziale della democrazia di Dio. Usando un linguaggio che mescolava, con molta efficacia, politica e religione, in poche
settimane Bush riuscì a monopolizzare l’interpretazione della tragedia dell’11 settembre, e si incaricò personalmente di ela-
borarla, dandone una spiegazione religiosa e politica insieme, che volle essere una risposta netta e chiara a quanti in America, teologi, religiosi, intellettuali e politici, chiedevano agli americani di fare un esame di coscienza per capire i motivi dell’odio antiamericano e la parte che, nel generare quest’odio, aveva la potenza imperiale americana. Per Bush, simili atteggiamenti erano quasi un tradimento verso la nazione, perché ponevano questioni che mettevano in dubbio l’innata bontà dell’ America e della sua causa, e potevano intaccare la fede degli americani nella loro nazione e nelle sue istituzioni, insinuando che
gli Stati Uniti fossero in qualche modo responsabili dell’aggressione che avevano subito, per averla provocata indirettamente con la loro politica di potenza o addirittura con i peccati nazionali verso Dio. Glorificando la nazione americana, chiamata dalla storia a combattere ancora una volta per la libertà nel mondo, Bush conferiva indirettamente una sacralità
all’America stessa, in quanto democrazia di Dio, mentre cercava di allontanare ogni dubbio sui motivi dell’aggressione terroristica, sulle ragioni dell’odio che l’aveva ispirata, sull’atteggiamento di Dio di fronte alla carneficina di migliaia di innocenti, sulla perdita della invulnerabilità, e sul destino della
nazione americana in un mondo che si era rivelato improvvisamente crudele e ostile. 132
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Sacra America imperiale
L’«asse del male» Quando, il 29 gennaio 2002, nel discorso sullo stato dell’Unio-
ne, Bush usò l’espressione «asse del male», riferendosi alla Corea del Nord, all’Iran e all’Iraqg come alleati dei terroristi, in America e nel mondo molti furono stupiti, irritati, sconcertati. La frase fu considerata un’altra infelice gaffe del presidente, come l’espressione «crociata» usata in un primo momento,
e poi subito eliminata dalla sua retorica. Tuttavia, l’espressione «asse del male» era tutt'altro che sfuggita di senno, anzi era stata accuratamente scelta dagli autori del discorso presidenziale, che annunciava al mondo la dichiarazione della guerra al terrore!.
Infatti, il presupposto fondamentale della teologia di guerra elaborata da Bush subito dopo 11 settembre era la demonizzazione del terrorismo islamico e dei regimi che, secondo lui, lo sostenevano. In un primo momento, subito dopo avere appreso la notizia dell’aggressione all’America, 1'11 settembre, mentre era in una base aerea della Louisiana, parlando alla televisione Bush aveva definito gli attacchi terroristici «atti vili»?; il giorno successivo ripeté che si trattava di «odiosi atti di violenza» commessi da «codardi senza volto contro il popolo e la libertà degli Stati Uniti»?, che sarebbero stati braccati, catturati e puniti. Poi, immediatamente, nella costruzione
dell’immagine del nemico, cominciò a delinearsi l’entità impersonale del male. In questo modo, la guerra assumeva inevitabilmente un carattere religioso. «Siamo all’inizio di quella 133
che io considero come una lotta molto lunga contro il male. Non combattiamo una nazione, non combattiamo una reli-
gione, noi combattiamo il male»4. I terroristi sono gli «artefici del male», disse Bush il 13 settembre proclamando una giornata nazionale di preghiera per le vittime dell’11 settembre?. Il giorno successivo, nella National Cathedral, Bush completò la demonizzazione del nemico identificandolo, in modo spersonalizzato, con il male, rappresentato come una realtà in sé,
un'entità sacra, della quale i terroristi erano gli adoratori e i servitori. L’11 ottobre, partecipando alla cerimonia in memoria delle vittime dell’attacco al Pentagono, Bush definì i terroristi di al-Qaeda gli «strumenti del male», dediti al «culto del male», «che rifiutano ogni limite di legge, di moralità, di religione. Non hanno una patria in nessun paese, non hanno cultura né fede, e vivono negli angoli oscuri della terra», e uccidono persone innocenti per pura crudeltà e malvagità, osando «rivendicare l’autorità di Dio» per giustificare le loro azioni criminose. «Noi- disse Bush — non possiamo comprendere interamente i disegni e la potenza del male. Ma è sufficiente sapere che il male, come la bontà, esiste. E ha trovato nei terro-
risti dei servitori volontari». Dalla tragica esperienza dell’11 settembre, ripeté nel discorso sull’«asse del male» il 29 gennaio 2002, gli americani avevano appreso una verità inconfutabile: «il male è reale e deve essere combattuto». E la missione di combattere il male era affidata alla nazione americana,
che aveva «la grande opportunità in questo tempo di guerra di guidare il mondo verso valori che possono arrecare una pace duratura»”. Il semplicismo manicheo del presidente aveva una favorevole risonanza nella destra religiosa, alla quale principalmente egli si rivolgeva. Anche in questo caso, per comprendere la retorica religiosa di Bush e la sua efficacia nell’attrarre consensi alla sua politica, occorre guardare indietro, alla tradizione americana. Infatti, come ha mostrato lo storico Robert Ful-
ler, ripercorrendo quella che lui definisce «una ossessione americana», la demonizzazione del nemico come incarnazio134
ne del male non era una novità nella storia americana ma era accaduta più volte nel suo passato, specialmente quando l’America era impegnata in una guerra contro un nemico esterno o si sentiva minacciata da un nemico interno. E sempre, in
ogni guerra, l'America aveva creduto di agire in nome di Dio e protetta da Dio, contro le forze del male, identificato con il diavolo 0, nel pensiero apocalittico, con l’Anticristo8. La de-
monizzazione degli indiani, da parte dei coloni puritani, fu la giustificazione per iniziare il loro genocidio?. Durante la guerra di indipendenza il male fu rappresentato dall’Inghilterra, il novello faraone che voleva tenere in schiavitù il nuovo popolo d’Israele!°, Poi, nei primi anni della Repubblica, il male fu identificato con le fazioni che minavano l’unità della nazione e con le cupidigie espansioniste della vecchia, reazionaria, corrotta, bellicosa e bigotta Europa del dispotismo e della teocrazia papale. Successivamente, l’insidia del male proveniente dal vecchio mondo fu vista negli immigrati cattolici ed ebrei!!. Durante la Guerra civile, nordisti e sudisti si demonizzarono
reciprocamente, ciascuno identificando la propria causa con la causa di Dio, mentre, con malinconica saggezza, il presidente repubblicano Abraham Lincoln, senza pretendere di conoscere i propositi di Dio, meditava sulla tragedia di un popolo «quasi eletto», che leggeva la stessa Bibbia e invocava lo stesso Dio per dilaniarsi in una guerra fratricida!?. La potenza malefica riassunse l'aspetto del nemico esterno durante le due guerre mondiali!?. La missione dell'America nella Grande Guerra, disse il presidente democratico Wilson, era di attuare i disegni della provvidenza e combattere per liberare il mondo dal male e renderlo sicuro per la democrazia. Gli americani combattevano non per interessi di potenza, ma «per un pro-
posito spirituale di redenzione che resta nel cuore del genere umano». Essi erano i crociati di una nazione libera che avevano sacrificato la loro vita per un ideale. «Le nobili armate dell’ America hanno salvato il mondo», proclamò Wilson dopo la fine della guerra!4. Vent'anni dopo, l'America combatteva in nome di Dio una nuova crociata contro le potenze del 135
male «per salvare la nostra repubblica, la nostra religione, la nostra civiltà e liberare una umanità sofferente», come disse il
presidente democratico Franklin D. Roosevelt parlando alla radio il 6 giugno 1944, alla vigilia dello sbarco alleato in Normandia!5. Poi, nei lunghi anni della Guerra fredda, il male fu incarnato dall’Unione Sovietica e dal comunismo: per cinquant’anni l'America, guidata da presidenti repubblicani o democratici, si sentì mobilitata in una crociata per difendere il mondo libero, la civiltà occidentale e la religione contro il totalitarismo materialista e senza Dio, che dalla Russia cercava
di conquistare e soggiogare il mondo. La demonizzazione dell’Unione Sovietica culminò con la definizione «l’impero del male», che diede Reagan 1’8 marzo 1983 in un discorso alla National Association of Evangelicals. Il presidente repubblicano esaltò la democrazia americana che godeva della benedizione di Dio perché il popolo americano aveva fede nella sua provvidenza; condannò il secolarismo perché allontanava la nazione da Dio, ed esortò gli americani alla piena riaffermazione dei valori religiosi tradizionali, sui quali era stata fondata la Repubblica, per poter continuare a godere della protezione divina!5. Con la scomparsa dell’«impero del male», l’America si trovò per qualche tempo senza un visibile nemico esterno. Ci fu chi annunciò che l'America aveva vinto definitivamente la lotta contro il male nel mondo, perché il mondo aveva compreso che non vi era altra via alla salvezza che seguire il modello americano, fondato sulla libertà e l'eguaglianza degli individui, sul sistema parlamentare, sul capitalismo e il libero
mercato. Tuttavia, anche dopo la scomparsa dell’«impero del male», l'America continuò a sentirsi impegnata a difendere la libertà nel mondo a beneficio di tutta l'umanità, in nome del-
la missione che Dio le aveva affidato col patto stabilito dai Padri fondatori. Infatti, alla fine del Ventesimo secolo, il male ostile alla de-
mocrazia di Dio aveva trasmigrato dalla Russia in Medio Oriente, assumendo le sembianze di Saddam Hussein, con136
tro il quale fu Bush padre a condurre una guerra in nome di Dio, per liberare il Kuwait musulmano, aggredito e sottomesso dal tiranno iracheno!”. Poi, dall’11 settembre, il male si in-
carnò nei terroristi islamici e in Osama bin Laden: e fu nuovamente guerra dell’ America in nome di Dio per la difesa della libertà. «Questa sarà una colossale lotta del bene contro il
male, ma il bene trionferà», disse Bush alla stampa il 12 settembre, dopo una riunione con il Consiglio per la sicurezza nazionale!8.
America rinata
Alla demonizzazione del nemico terrorista, Bush contrappose la santificazione dell’ America al servizio del bene, per il bene del proprio popolo e di tutta l’umanità. Nella teologia di guerra del presidente, l America era l’incarnazione della libertà, della bontà, della giustizia. Se pure nella sua storia vi erano stati peccati e colpe, come la schiavitù, lAmerica aveva saputo mondarsi e proseguire la missione assegnatale dalla provvidenza. Se pure vi erano ancora macchie e ombre prima dell’11 settembre, per il rilassamento della morale e dei costumi,
l’esperienza catartica di quel giorno le aveva cancellate, e la innata bontà della nazione americana ne era uscita rinnovata e rinvigorita. «Sta avvenendo qualcosa di profondo nel nostro paese», disse Bush l'8 novembre 2001, mentre era in corso l’attacco americano in Afghanistan: L’enormità di questa tragedia ha spinto molti americani a concentrarsi su cose che non sono cambiate, le cose che contano di più nella vita: la nostra fede, il nostro amore per la famiglia e gli amici, il nostro impegno per il nostro paese, per la nostra libertà e per i nostri principi. Nel discorso inaugurale avevo chiesto ai cittadini di servire la nazione. [...] In autunno avevo progettato una nuova iniziativa chiamata Comunità di carattere, per promuovere una rinascita della cittadinanza, del carattere, dello spirito di servizio. Gli 137
eventi dell’11 settembre hanno fatto sì che questa iniziativa si realizzasse da sé, in modi che non avremmo potuto mai immaginare. [...] Attraverso questa tragedia, noi rinnoviamo e rivendichiamo i forti valori americani.
L’attacco terroristico aveva cambiato l'America, aggiunse Bush:
Tutti noi stiamo imparando a vivere in un mondo che sembra essere molto differente da quello che era il 10 settembre. Molti sentono che la loro vita non sarà mai più la stessa ma quel che i terroristi non si sarebbero mai aspettati, e che neppure noi potevamo allora dare per certo, è che l’America si sarebbe sollevata più forte, con un rinnovato spirito di orgoglio e di patriottismo. [...] Negli ultimi due mesi, abbiamo mostrato al mondo che l'America è una
grande nazione. [...] Siamo un paese differente da come eravamo il 10 settembre: più triste e meno ingenuo; più forte e più unito; deciso e coraggioso di fronte alle nuove minacce!?.
Nell’anniversario dell’attacco terroristico al World Trade Center, in previsione della ormai annunciata guerra all'Iraq, Bush ripropose i temi fondamentali della sua teologia di guerra in un articolo su «The New York Times» pubblicato l 11 settembre, e la sera dello stesso giorno in un discorso ad Ellis Island, la porta d’ingresso al «sogno americano» per milioni di emigranti, salutati dalla Statua della Libertà. L’aggressione terroristica, scrisse Bush nell’articolo, aveva rivelato la
crudeltà dei nemici e lo spirito della nazione americana, ma aveva anche rivelato «con nuova chiarezza il ruolo dell’ America nel mondo» e aveva dato agli americani, pur nella tragedia, l’opportunità di utilizzare la loro «posizione di forza e di influenza senza confronti» per «creare un equilibrio di potenza nel mondo a favore della libertà umana», «costruire un
ordine internazionale in cui il progresso e la libertà possano fiorire in molte nazioni», ed «estendere i benefici della libertà
e del progresso alle nazioni che ne sono prive». Per questo, il popolo dell’America e il suo governo avevano deciso di ri138
spondere con decisione alle sfide di un mondo che stava cambiando, determinati a difendere i valori che avevano dato vi-
ta alla loro nazione, rifiutando di «ignorare o di rabbonire l’aggressione e la brutalità di uomini malvagi». Il terrorismo non aveva solo sfidato il mondo, ma aveva anche chiarificato
alcuni valori fondamentali per cui, aggiungeva minaccioso il presidente, «ogni nazione ora si trova di fronte alla scelta fra mutamenti legali o violenza caotica», «fra la celebrazione della morte attraverso il suicidio e l'assassinio, e la difesa della li-
bertà e della dignità». Quanto agli Stati Uniti, concludeva l’articolo, «accettano volentieri la responsabilità di essere alla guida di questa grande missione»?0, «La nostra generazione ha sentito l’appello della storia, e risponderà», disse Bush la sera ad Ellis Island. Gli americani avevano scoperto tragicamente di essere vulnerabili e di avere nemici decisi, ma ave-
vano anche riscoperto il carattere e la grandezza dell’ America: il carattere americano si era rivelato nei passeggeri che si erano ribellati morendo per risparmiare altre vite, nei soccorritori che salivano le scale che portavano al pericolo, e nei cittadini che si mostrarono ovunque compassionevoli e soli-
dali gli uni con gli altri. La profonda differenza fra gli americani e i loro nemici, disse Bush, era il rispetto americano per la vita, «perché ogni vita è il dono di un creatore che vuole che viviamo nella libertà e nell’eguaglianza», mentre i nemici dell’ America non attribuivano alla vita alcun valore. Per questo, con la ferma determinazione di «una grande nazione e di una grande democrazia, fra le rovine delle due torri, e sotto
la bandiera esposta al Pentagono ai funerali degli scomparsi, abbiamo fatto una sacra promessa a noi stessi e al mondo: non daremo tregua finché non sarà fatta giustizia e la nostra nazione non sarà sicura. Quel che i nostri nemici hanno iniziato, noi lo finiremo».
Ribadita la decisione della guerra, Bush parlò agli americani come una voce di Dio, spiegando loro che, anche se il futuro non era conosciuto, il loro dovere era chiaro: 139
noi per certo sappiamo che Dio ci ha posti insieme in questo momento, per soffrire insieme, per resistere insieme, per essere al ser-
vizio gli uni degli altri e della nazione. E il dovere che ci è stato dato — difendere l'America e la sua libertà — è un privilegio che noi condividiamo. Siamo preparati per questa impresa. E preghiamo Dio perché ci aiuti e ce ne renda degni.
Nella conclusione del discorso, con biblica esaltazione,
Bush celebrò l'America in quanto nazione che incarnava principi di origine divina, perché donati da Dio, e valori universali, perché propri di tutta l’umanità: la nostra è la causa della dignità umana: la libertà guidata dalla coscienza e preservata dalla pace. Questo ideale dell’America è la speranza di tutto il genere umano, la speranza che ha condotto milioni di essere umani a questo porto, e che ancora illumina la nostra via: la luce che brilla nelle tenebre. E le tenebre non prevarranno su di essa?!.
Con la glorificazione del carattere americano, che si era rigenerato attraverso la tragedia dell’11 settembre, Bush sembrava voler proiettare su una dimensione collettiva la propria esperienza di cristiano «rinato» attraverso la riscoperta della fede. L'esperienza violenta dell’11 settembre era stata per gli americani una «nuova nascita» collettiva, perché aveva fatto riscoprire la fede nell’America, nei suoi valori, nei suoi prin-
cipi. Bush trasfigurava così l’America in una sorta di entità astratta, universale e sacra; una potenza benefica e salvifica,
redentrice degli individui e dei popoli: un impero del bene chiamato a combattere per difendere il bene nella guerra scatenata dal male. La celebrazione della rinascita morale dell'America dopo la tragedia dell’11 settembre era un motivo retorico coerente con la funzione pastorale che Bush svolse per confortare e incoraggiare gli americani a vincere e superare il trauma dell’attacco terroristico, mobilitandosi insieme per far fronte contro il nuovo nemico. Egli seppe far vibrare corde intime del140
l'animo americano, in un momento in cui effettivamente gli americani diedero la migliore prova di sé con un rinnovato senso di solidarietà collettiva, di concordia e di unità nazio-
nale, con un impeto patriottico che parve cancellare in un momento le fratture che avevano diviso la nazione negli ultimi decenni, fratture che erano apparse tanto profonde da far parlare addirittura di una «disunione dell'America», aggravata dal risultato delle elezioni presidenziali del 2000.
Dalla disunione alla riunione La rappresentazione presidenziale di un'America rinata appare più significativa, nella sua efficacia retorica e politica, se consideriamo che, nonostante l'ascesa al rango di incontrastata potenza imperiale, nel momento in cui subirono l’aggressione terroristica, gli Stati Uniti soffrivano di una crisi di identità nazionale, che risaliva agli anni della guerra del Vietnam: In questi anni scriveva nel 1969 Arthur M. Schlesinger—l° America sta attraversando una profonda crisi di fiducia in se stessa. Nel corso della nostra storia abbiamo quasi sempre nutrito una serena fiducia nella nostra rettitudine e nella nostra invulnerabilità. [...] Ora siamo molto meno ottimisti riguardo noi e riguardo il nostro futuro. Sembra che ormai gli eventi sfuggano al nostro controllo e che non possiamo più difenderci dal corso ineluttabile della storia [...] all’estero l'America suscita sempre maggiore scetticismo e antipatia, i suoi intenti sono fraintesi e calunniati, i suoi sforzi inutili??.
Pochi anni dopo, nel 1975, in un libro dal titolo drammati-
co The Broken Covenant (il patto infranto), Robert N. Bellah accusava la società americana di aver tradito la sua religione civile, diventando egoista e spietata. Secondo Bellah, il prevalere dell’appagamento personale, sostenuto dal «liberalismo utilitario», aveva indebolito l’etica del dovere verso gli altri, predicata dal «repubblicanesimo comunitario», contribuen141
do a diffondere «un crescente cinismo nei confronti del sistema sociale ed economico, e nei confronti delle istituzioni politiche», insieme con l’«erosione della visione morale e religiosa». Cinque anni dopo, lo storico James O. Robertson analizzava la diffusione, fra gli americani, della paura per il declino della loro identità nazionale, perché gli ideali e i valori sui quali essa era fondata non apparivano più validi?4. Nel marzo 1984, l’influente rivista «Harper's Magazine» organizzò un dibattito sul tema: «Esiste ancora l’America?»??. Questa diffusa
sensazione di malattia morale dell’ America non era stata curata neppure dalle forti iniezioni di nazionalismo effettuate nell'era di Reagan e di Bush padre, con una serie di gesta militari, come a Grenada, Panama, Nicaragua, per ristabilire il
prestigio della potenza imperiale americana, culminate nel 1991 col successo della guerra nel Golfo. Inoltre, dalla fine degli anni Settanta, la società americana
iniziò ad essere lacerata da una «lotta per l’anima dell’America»?6, come la definì il sociologo Robert Wuthnow, una lotta
combattuta fra conservatori e liberali, che produsse una «grande frattura»?” nella coscienza religiosa degli americani, perché aveva origine da modi differenti di leggere la Bibbia, da differenti stili di concezione morale, da differenti concetti di
spiritualità, messi a confronto dopo un'epoca di intensificata secolarizzazione della società e dei costumi americani. Si trattava di una «guerra culturale»?8, secondo la definizione del sociologo James D. Hunter, di cui furono promotori i cristiani tradizionalisti, ifondamentalisti, gli evangelici conservato-
ri. Questi si lanciarono in una crociata contro la degenerazione morale dell’ America ad opera di «un invisibile nemico che minaccia la nostra nazione»?9, come disse il reverendo fonda-
mentalista Tim LaHaye, cui fece eco il reverendo Falwell: «Satana ha mobilitato le sue forze per distruggere l'America. [...] Dio ha bisogno che si alzino voci per salvare l'America dalla decadenza morale interiore». Da questa crociata antisecolarista nacque la mobilitazione politica della destra religiosa contro la coalizione delle forze malefiche che stavano distruggen142
do la nazione: l’umanesimo secolare, il liberalismo, il relativismo, il progressismo, il postmodernismo, il femminismo,
l'omosessualità, il diffondersi di una cultura permissiva e edonistica, la pornografia, la violenza, la legalizzazione dell’aborto, la separazione fra lo Stato e la Chiesa, l’esclusione di sim-
boli e pratiche religiose dai luoghi pubblici e governativi, e tanti altri mali che minavano la fibra morale della nazione. Con la vittoria di Reagan, nel 1980, parve iniziare la «rinascita dell’ America»: la «oscura notte dell’anima» della nazione era passata; era finita «la crisi dell’identità nazionale che la nazione aveva patito per dieci o quindici anni», scrisse Jeane
Kirkpatrick, esponente degli intellettuali neoconservatori?9. Eppure, persino durante la presidenza Reagan, alla metà degli anni Ottanta, la destra religiosa evocava la sorte dell’impero romano per predire la fine imminente dell’ America, se non fossetornata ad essere, come era in origine, una repubblica cristiana?!. L'America era una «nazione alla deriva», a causa dei
«feroci assalti alla fede e alla morale cristiana, da parte della comunità intellettuale e da parte del governo», affermava nel 1986 il senatore Jesse Helms, il quale pregava ogni giorno per la «rinascita dei valori spirituali» e «la ridedicazione degli Stati Uniti alla causa della libertà sotto la legge di Dio»??. Questa percezione pessimistica della salute morale dell'America non era esclusiva dei conservatori repubblicani, ma
era condivisa da religiosi, intellettuali e politici democratici,
anche se differenti erano la diagnosi e l’individuazione delle cause. A metà degli anni Ottanta, Robert N. Bellah e un gruppo di sociologi, filosofi e teologi discussero sulle trasformazioni culturali e morali degli americani, domandandosi «come preservare o creare una vita moralmente coerente», necessaria
a sostenere una libera repubblica, in un periodo in cui l’individualismo, come ricerca dell’interesse privato, pur in sé parte integrante dello spirito e della società americana, tendeva ad esasperarsi prevalendo sull’altro ingrediente essenziale della tradizione americana, il comunitarismo, senza il quale la stes-
sa sopravvivenza della libertà era in pericolo??. Arthur Schle143
singer scriveva nel 1991 che l’identità nazionale era minacciata dal relativismo e dal multiculturalismo, che minavano il patrimonio morale comune degli americani, mettendo a repentaglio la stessa sopravvivenza dell’unità della nazione: «l’idea storica di un’identità americana unificatrice è ora in pericolo in molti campi, nella nostra politica, nelle nostre organizzazioni volontarie, nelle nostre chiese, nel nostro linguaggio», perché corrosa dal nuovo «culto dell’etnicità», contrapposto al culto della comune identità americana, fondata su valori universali capaci di trascendere la molteplicità di razze, di etnie,
di culture, di religioni e di linguaggi, di cui era composta quella eccezionale «nazione di nazioni» che erano gli Stati Uniti?4. Il presidente Clinton elogiò con una recensione il libro del giurista Stephen L. Carter, The Culture ofDisbelief (la cultura della miscredenza), che denunciava le conseguenze negative di una «trivializzazione» della religione da parte dei politici, che privava la religione del suo vigore morale, e proponeva una revisione dell’interpretazione troppo secolarista della separazione fra Stato e Chiesa sancita dal Primo emendamento, per ristabilire una più vitale osmosi fra religione e politica nella vita americana”. Nello stesso anno, fu la moglie del presidente Clinton, Hillary, in un discorso all’Università del Texas, a lamentare che l’anima americana era afflitta da «povertà spirituale», perché gli individui non si sentivano parte di una più grande comunità e avevano perso il significato della vita personale e collettiva?6. Cinque anni dopo, un sondaggio rilevava che il 76 per cento degli americani riteneva che ivalori e le convinzioni morali degli Stati Uniti erano in crisi?”. «L’ America sta attraversando una crisi di identità», affermava nel 2000 il politologo EldonJ.Eisenach, e questa crisi si manifestava in molti aspetti, dal multiculturalismo alla lotta per ridefinire il significato della storia nazionale, ai dibattiti filosofici fra individualismo e comunitarismo, alle contese intellettuali sull’identità na-
zionale e sul destino dell’America. Era una crisi, aggiungeva Eisenach, sia personale che nazionale, dovuta alla perdita di un orientamento morale, in cui la religione era direttamente coin144
volta a causa della centralità che essa aveva nella storia americana?8. Molti intellettuali americani sostenevano che la crescita della ricchezza, del benessere e della potenza, negli anni Ottanta e Novanta, era stata accompagnata da un crescente impoverimento della coscienza nazionale. L’ America soffriva di «fame spirituale in un’epoca di abbondanza», sosteneva nel 2000 lo psicologo David G. Myers?9. In termini analoghi si era già espresso otto anni prima Al Gore, affermando che la nazione americana era «affamata di una più profonda connessione fra valori politici e valori morali o ‘valori spirituali’, come molti direbbero». E l’anno successivo, nel discorso inaugurale, il presidente Clinton aveva rivolto un appello al «rinnovamento dell’ America», ammonendo gli americani a considerare le proprie inadempienze, in una società dove erano diffuse ancora disoccupazione, povertà, miseria, paura: Una primavera rinasce nella più antica democrazia del mondo, e produce la visione e il coraggio di inventare di nuovo l'America. [....] La nostra democrazia non deve essere soltanto l’invidia del mondo ma deve divenire il motore per il rinnovamento di noi stessi. [...] Dobbiamo impegnarci a porre fine ad un’era di stallo e di deriva, per iniziare una nuova stagione del rinnovamento americano#!.
La destra cristiana si impegnò in una campagna molto aggressiva contro Clinton, accusato di essere il campione della corruzione e della decadenza morale dell'America, riacutiz-
zando la «guerra culturale» mirante alla conquista dell’egemonia religiosa e politica da parte dell’evangelismo conservatore e tradizionalista, con una virulenza polemica che demonizzava l’America liberale. Frederick Clarkson, saggista liberale, scrisse nel 1997 che era in corso in America una «lot-
ta fra teocrazia e democrazia», in cui era in gioco il destino del sistema democratico americano”. Una delle conseguenze di questa crisi di identità nazionale e di senso di decadenza morale, affermava nel 1995 il politologo Robert Putnam, era il declino dello spirito comunita145
rio del «capitale sociale» su cui si fondava la democrazia. Putnam citava come esempio emblematico di questa crisi il fatto che mentre il numero degli americani che giocavano a bowling era cresciuto del 10 per cento, negli ultimi anni, la partecipazione alle leghe di bowling era diminuita del 40 per cento: «giocare a bowling da soli» simbolizzava la progressiva atomizzazione della società americana”. Tuttavia, sei anni dopo, all’indomani dell’attacco terroristico, lo stesso Putnam traeva conforto dalla visione degli americani in coda per prestare soccorso e donare il sangue, risoluti nel far fronte al terrore e vincere la paura, riuniti attorno alla bandiera; la tendenza degli ultimi decenni alla disunione sembrava «drammaticamente arrestata dalla indicibile tragedia dell’11 settembre», scriveva nel febbraio 200244. Dopo l’attacco terroristico, gli americani avevano riscoperto lo spirito del patriottismo e mostravano maggiore fiducia nelle istituzioni e nella solidarietà comune al di sopra delle divisioni politiche, e un maggior interesse per la cosa pubblica, maggiore impegno sociale, più desiderio di partecipazione e collaborazione. Certo, avvertiva Putnam, questo improvviso e imprevisto cambia-
mento di atteggiamenti non poteva essere considerato per sé la prova di un durevole rinnovamento civico, ma ne poteva essere comunque un'importante premessa, da non lasciare svanire, e che forse avrebbe potuto produrre una nuova «grande generazione», come era stata la generazione americana degli anni a cavallo della seconda guerra mondiale, promotrice di un grande rinnovamento politico e sociale. Considerazioni analoghe furono fatte in occasione del primo anniversario dell’11 settembre dal sociologo Amitai Etzioni, uno dei maggiori fautori di un nuovo comunitarismo americano. Secondo Etzioni, vi
erano prove che «gli americani erano diventati più interessati al bene pubblico, meno materialisti, più rivolti alla famiglia e alla comunità, e anche un po’ più spirituali». Questo rinnovato spirito comunitario era conseguenza della forte intensificazione del patriottismo dopo 11 settembre. Uno studio sulle reazioni degli americani all’attacco terroristico, fatto dall’Uni146
versità di Chicago nell’ottobre 2001, registrò un’effervescenza di patriottismo, che non aveva precedenti nell'ultimo mezzo secolo: il 97 per cento degli americani era molto orgoglioso del proprio paese e l’85 per cento lo considerava il migliore di tutti. Il dato più significativo, fra le ragioni dell’orgoglio patriottico, era il primato assegnato alle forze armate dall’80 per cento degli americani, con un aumento di trentadue punti rispetto ad un’analoga indagine fatta nel 1996; seguivano poi, nell’ordine: lascienzaela tecnologia, col 75 per cento (ventisei puntiin più); la storia americana, col 68 per cento (ventuno punti in più); il funzionamento della democrazia, col 61 per cento (trentaquattro punti in più); le conquiste economiche, col 60 per cento (trentadue puntiin più); le arti ela letteratura, col 56 per cento (ventotto punti in più), e, in fondo, l’influenza politica nel mondo, col 39 per cento (diciannove punti in più). Il 77 per cento (ventisette punti in più) degli americani aveva grande fiducia nelle forze armate, il 52 per cento (trentotto punti in più) nel governo federale, il 47 per cento (diciannove punti in più) nelle organizzazioni religiose, il 44 per cento (quindici punti in più) nelle banche e istituzioni finanziarie, e il43 per cento (trentuno punti in più) nel Congresso*°. Risultava da questi dati che gli americani, all’indomani dell’attacco terroristico, erano più patriottici, più fiduciosi nel governo federale, e soprattutto erano orgogliosi e massimamente confidavano nella loro potenza militare, con un incremento di fiducia verso le istituzioni, ri-
spetto agli anni precedenti, che superava nettamente la fiducia nelle Chiese.
Il «destino manifesto» Nel periodo fra il discorso sull’«asse del male», nel gennaio 2002, e l’abbattimento del regime di Saddam Hussein, nel maggio 2003, Bush continuò ad esercitare la funzione di pontefice della religione americana. I temi furono gli stessi che aveva svolto subito dopo l’attacco terroristico, e che ripeté con 147
poche varianti, più di stile che di contenuto, durante la guerra in Iraq, durante la campagna elettorale del 2004 e dopo la sua rielezione: la glorificazione dell’ America unita e forte, pronta ad obbedire alla chiamata della storia per continuare, con l’aiuto di Dio, la sua missione di difendere e diffondere la democrazia nel mondo, combattendo contro i suoi nemici. AI di là delle motivazioni religiose che ispirarono il presidente nel conferire alla «guerra al terrore» una implicita connotazione apocalittica, la definizione teologica della «guerra al terrore» come un conflitto assoluto del bene contro il male, costituiva la legittimazione morale della nuova strategia imperiale degli Stati Uniti, basata sulla dottrina della «guerra preventiva». Questa dottrina era stata elaborata dai neoconservatori dell’amministrazione repubblicana, sulla base di considerazioni che essi ritenevano prettamente realistiche, per rivendicare alla potenza americana la prerogativa di agire militarmente quando e dove riteneva necessario per impe-
dire nuovi attacchi terroristici, difendere la sicurezza degli Stati Uniti, e preservare l'egemonia esclusiva della potenza
americana nel mondo. La dottrina della «guerra preventiva» era stata preannunciata da Bush il 26 ottobre 2001, quando era già iniziata, con l’attacco in Afghanistan, la «prima battaglia nella guerra al terrorismo»: «Noi ora siamo interessati a prevenire gli attacchi. Noi siamo ora interessati a trovare quelli che possono attaccare l'America, e fermarli prima che possano farlo». La giustificazione teologica della guerra al terrore venne esposta dal presidente con maggiore enfasi dopo la conclusione vittoriosa della campagna militare in Afghanistan, quando decise di abbattere il regime di Saddam Hussein, sospettato di essere un sostenitore dei terroristi di al-Qaeda e un produttore di armi di distruzione di massa, pronte ad essere usate contro l'America e contro il suo principale alleato in Medio Oriente, lo Stato di Israele. I sospetti si sarebbero in seguito dimostrati infondati, e insussistenti ri-
sultarono le prove addotte dall’amministrazione repubblicana per farli apparire fondati: ma tutto questo, per il presi148
dente, non invalidava affatto la nuova strategia per la sicurezza nazionale e l’interpretazione teologica della «guerra al terrore», trasformata in guerra per esportare la democrazia in Medio Oriente. Sacralizzando l'America come modello universale di democrazia, perché concepito e attuato secondo un disegno divino, e quindi in sé buono e indiscutibile, Bush riproponeva una nuova versione del mito dell'America come «impero benevolo», costretto dall’aggressione di forze maligne ad intraprendere una lunga guerra contro un nuovo nemico, per poter continuare la missione affidata da Dio alla nazione americana. La tragedia dell’11 settembre, affermava continuamente il presidente, aveva brutalmente risvegliato gli americani dalla illusione di vivere in un mondo dal quale il male era stato bandito o rimosso, ma nello stesso tempo aveva rivelato e confermato l’innata bontà dell’ America, una nazione inno-
cente nella sua essenza, perché non perseguiva interessi e ambizioni particolari, ma agiva per il bene di tutti, per diffondere nel mondo il dono divino della libertà. Il mito della «nazione innocente» evocato da Bush era parte integrante della religione americana. Questo mito ave-
va radici nelle origini degli Stati Uniti e aveva accompagnato la loro espansione fino al Ventesimo secolo, nonostante gravi smentite, come la schiavitù, lo sterminio degli indiani, la di-
scriminazione e la segregazione razzista. Il mito era stato rafforzato dall’intervento americano nella Grande Guerra, e soprattutto nella seconda guerra mondiale, la «buona guerra» per eccellenza combattuta dagli Stati Uniti contro il male*8. Nonostante le forti scosse ricevute dalla «sporca guerra» del Vietnam e dalla ignominiosa fine della presidenza Nixon, il mito della «nazione innocente» aveva ricevuto nuovo impulso dalla presidenza Reagan, e dopo essere stato attenuato da Clinton, che aveva esortato gli americani ad un esame di coscienza per rigenerare l'America, era stato riportato in auge
dopo l’11 settembre da Bush, sostenuto da una destra religiosa che riteneva di essere l’espressione genuina della «na149
zione innocente», mobilitata per combattere le insidie interne ed esterne di malefiche potenze. La «nazione innocente» era stata traumatizzata dall’aggressione terroristica non soltanto perché aveva subito una grave perdita di vittime innocenti, ma perché aveva scoperto che vi erano nel mondo nemici, che nutrivano verso di essa un odio radicale e micidia-
le: ci odiano a causa della nostra bontà e della nostra innocenza, fu la spiegazione che diede il presidente Bush: «Mi meraviglia», disse il 12 ottobre 2001 in una conferenza stampa,
«che ci sia una tale incomprensione su quel che è il nostro paese da esserci gente che ci odia. Non posso crederlo, perché io so quanto noi siamo buoni»4?. E da questa bontà scaturiva, secondo Bush, la santità della missione americana, che
impegnava gli Stati Uniti ad agire nel mondo, anche con il ricorso all’intervento armato, per renderlo più buono, sull’esempio del modello americano. In ciò facendo, Bush si muoveva nella scia di un’altra tradizione mitica propriamente americana, cioè, il mito del «destino manifesto», la credenza nel ruolo missionario dell’ Ame-
rica come modello di redenzione per l’umanità?°. Anche se l’espressione «destino manifesto» fu coniata solo nel 1845, il mito ad essa legato, ha osservato la sociologa Roberta Coles,
derivava dai miti originari della religione americana: il mito della nazione moralmente superiore perché scelta da Dio, col dovere di redimere il continente e forse il mondo, come giustificazione per l'espansione dei confini geografici e politici dell’ America. Gli studiosi hanno distinto due differenti versioni del mito della missione e del «destino manifesto»: l’una intende /a missione come esempio, rivolto all'umanità, con il
continuo miglioramento dell’esperimento democratico di una nazione che, proprio perché scelta da Dio, si sente continuamente sottoposta al giudizio di Dio, e quindi si sente impegnata ad agire sempre in modo da conformarsi ai comandamenti divini, senza assumere atteggiamenti di arrogante superiorità nei confronti delle altre nazioni, proponendosi come modello esemplare con la virtù del suo comportamen150
to; l’altra versione intende /a rzissione come intervento del-
l'America nel mondo, in soccorso dei popoli ai quali regimi tirannici impediscono di poter godere dei loro diritti naturali e della libertà donata da Dio agli uomini. L’interventismo militare americano, secondo questa versione, è quindi un dovere morale, conseguente alla condizione di nazione scelta da Dio per difendere e diffondere la libertà nel mondo. Tuttavia, precisa Coles, nella realtà storica questa distinzione è spesso confusa, mescolandosi le due versioni nelle varie situazioni concrete in cui gli Stati Uniti sono intervenuti militarmente
nel mondo, come era accaduto, nel periodo più recente, con la guerra del Golfo nel 1991, e nel 1998 con l’intervento aereo sulla Serbia?!. Nell’interventismo militare di Bush figlio dopo l’11 settembre, il mito della missione e del «destino manifesto» aveva mostrato una persistente vitalità nella politica americana,
ma con una novità importante, derivata dal fatto che questa volta, a differenza delle altre citate esperienze di interventismo militare, lAmerica stessa era stata aggredita. Il fatto nuovo produsse una nuova versione del mito del «destino manifesto», attraverso la teologia di Bush, cioè la dottrina della
missione come autodifesa preventiva. Questa implicava non solo la necessità di difendere la democrazia di Dio, condu-
cendo guerre preventive contro possibili minacce da parte di regimi antiamericani, ma imponeva anche il dovere di rendere sicura la democrazia di Dio, diffondendo nel mondo il mo-
dello americano di democrazia, pacificamente se possibile, militarmente se necessario. Altri presidenti nella storia americana avevano ritenuto di essere accompagnati dall’aiuto di Dio nell’assumere la responsabilità di portare gli Stati Uniti in guerra: ma forse nessun altro, come Bush, aveva attribuito
alla propria esperienza religiosa e fede in Dio la fermezza nel formulare le decisioni, e seguirne l’attuazione, con altrettanta determinazione, convinto di essere sulla strada giusta, per-
ché corrispondeva ai desideri di Dio e ai disegni della provvidenza.
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Guerra imperiale La glorificazione del carattere americano e la sacralizzazione dell’ America come universale democrazia di Dio erano rielaborati da Bush attraverso la nuova prospettiva della guerra al terrore, dove politica e religione si mescolavano per definire la nuova politica imperiale dell’ America per il Ventunesimo secolo, esplicitamente formulata dal governo americano il 17 settembre 2002 nel documento sulla strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti (The National Security Strategy of the United States). Anche se né Bush né la sua amministrazione adoperarono parole come «impero» e «imperiale», gli avversari della sua teologia di guerra ritenevano che non potesse essere definita con parole diverse la visione della politica estera americana delineata nel documento sulla sicurezza nazionale, fondato sulla constatazione, come scriveva Bush nell’introduzione,
che «oggi gli Stati Uniti d’America godono di una potenza militare senza precedenti e di una grande influenza economica e politica», che essi dovevano usare per garantire libertà e pace nelmondo, impegnandosi innanzitutto a combattere la minaccia del terrorismo attraverso una «guerra globale di indefinibile durata»?2, Il documento sulla sicurezza nazionale, 0sservò Robert N. Bellah, «descrive con chiarezza cristallina il
nuovo impero americano», quando afferma che l'America rivendica «l’assoluta supremazia militare nel mondo» per «liberare il mondo dal male». «A quanto pare, quel che neppure a Dio è riuscito di fare, riuscirà a farlo lAmerica»??, ironizzò
Bellah. Il quale, in un articolo sull’imperialismo «stile americano», scritto alla vigilia dell’attacco americano all’Irag?4,
precisava di non essere per principio contrario all’uso della forza militare americana contro i nemici della libertà, come
era accaduto con la guerra nel Golfo e con il bombardamento della Serbia. Bellah non era neppure contrario ad un ruolo imperiale dell’ America nel mondo, purché fosse il ruolo di un «impero benigno», capace di cambiare il mondo con la forza 152
del suo esempio, come «città sulla collina», piuttosto che attraverso la forza delle armi, agendo da sola e adottando una strategia imperiale per la quale, osservava Bellah, gli Stati Uniti erano impreparati e non avrebbero potuto sostenerla per lungo tempo, senza modificare radicalmente la stessa democrazia americana: La nostra grande esigenza, nel tempo della nostra preminenza imperiale, è la moderazione. Il nostro più grande pericolo, nell’attuale atmosfera moralistica e bellicosa, è di assumere responsabilità che non possiamo e non potremo assolvere. [...] Una nazione che per molti aspetti sta andando in pezzi in casa sua, non può es-
sere l’unico giocatore sulla scena mondiale. Noi dobbiamo costruire una società, e un mondo, nel quale sia chiaro che abbiamo
bisogno gli uni degli altri, che dobbiamo condividere i nostri fardelli”.
Ancora più radicale fu la condanna della nuova strategia imperiale americana da parte dei pacifisti religiosi, come il teologo inglese Michael Northcott, il quale non solo avversava la politica bellica di Bush e la sua retorica religiosa, come aveva deprecato, per lo stesso motivo, la politica estera del suo predecessore Clinton, ma metteva sotto accusa i miti fondamentali della religione americana, dal mito del popolo eletto al mito del «destino manifesto», al mito apocalittico della guerra fra il bene e il male, che avevano accompagnato la politica estera americana nel corso di due secoli. Questi miti avevano funzionato come una «sacra ideologia che ha rivestito le tendenze espansioniste della classe dirigente americana», contribuendo alla «sacralizzazione dell’impero americano». Questi argomenti, tuttavia, non trovarono eco fra la maggioranza degli americani, che invece parve condividere i motivi fondamentali della teologia di guerra proposta dal presidente. Nel febbraio 2003, una solida maggioranza di americani, il 66 per cento, era favorevole all’uso della forza milita153
re contro l’Iraq da parte degli Stati Uniti, purché sostenuti dai loro maggiori alleati?”. Nel marzo 2003, il 77 per cento degli americani considerava la guerra moralmente giustificata in alcuni casi, con una lieve diminuzione rispetto al novembre 2001, quando la percentuale era stata dell’83 per cento. La guerra contro Saddam Hussein fu considerata moralmente giusta dall’85 per cento dei protestanti evangelici, il 62 per cento dei cattolici e dei protestanti liberali, e dal 36 per cento degli afro-americani protestanti, mentre i laici erano nettamente divisi a metà tra favorevoli e contrari?8. Anche il linguaggio religioso di Bush era approvato dal 62 per cento degli americani, e il 52 per cento trovava confortante pensare che le sue decisioni politiche erano influenzate dalla sua fede religiosa; questa percentuale saliva al 78 per cento fra i bianchi evangelici protestanti??. C'era un altro aspetto singolare nell’atteggiamento religioso degli americani dopo l'11 settembre: il loro rapporto con Dio. Il popolo americano fu pressoché unanime, al 91 per cento, nel respingere l’interpretazione dell’11 settembre come un segno che Dio non proteggeva più gli Stati Uniti.
Inoltre il 48 per cento pensava che Dio aveva concesso per gran parte della sua storia una speciale protezione al loro paese, e di questi, il 71 per cento era costituito dai bianchi evangelici protestanti, cioè il maggiore e più fedele seguito elettorale del Partito repubblicano e del presidente Bush, Un anno dopo l’attacco terroristico, e alla vigilia di una nuova battaglia nella guerra al terrore, questi americani non avevano più alcun dubbio su dove era Dio nell’era del terrore: Dio era con l’America, misticamente riuniti nell’invocazione
God Bless America, che risuonò ovunque negli Stati Uniti dopo 11 settembre, così come ovunque sventolò la bandiera a stelle e strisce, la «Old Glory», che fu il simbolo più popolare del risveglio della religione civile americana in seguito all’attacco terroristico.
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«Old Glory», icona d'America Forse nessuna nazione venera e glorifica la propria bandiera come gli americani, che le dedicano un culto ritenuto addi-
rittura totemico®!, «La Stelle e Strisce — ha scritto Samuel P. Huntington — è considerata come una icona religiosa, è un simbolo centrale dell’identità nazionale americana, molto più di quanto non lo siano per altri popoli le loro bandiere»®2, La bandiera nazionale è presente negli uffici e nei luoghi pubblici, nelle scuole, nelle case, nei negozi, nelle cartoline, nei
poster, nelle magliette, nei souvenir d’ogni tipo e forma, da sola o associata ad altri simboli della religione americana, come la Statua della Libertà, l’aquila americana e le Twin Towers, prima e dopo la loro scomparsa. Essa sventola in ogni occasione, in ogni cerimonia. Sventola negli stadi ed è esposta nelle chiese. Inoltre, la bandiera avvolge e accompagna i caduti per la nazione nel loro ultimo viaggio, per essere poi raccolta religiosamente e consegnata ai familiari, come un mistico simbolo di unione perenne fra il caduto, la sua famiglia e la nazione. Alla bandiera gli americani hanno dedicato una festa speciale, il Flag Day, il 14 giugno, che ricorda il giorno del 1777 quando la Stelle e Strisce fu adottata dal Congresso continentale come bandiera degli Stati Uniti. La «religione della bandiera», come «simbolo della fede da cui sono nati gli Stati Uniti», ha origini nella rivoluzione americana, ma la sua istituzionalizzazione avviene soprattutto dopola Guerra civile. Dalla fine dell'Ottocento, peri ragazzi delle scuole era obbligatorio iniziare le lezioni recitando il Pledge of Allegiance, scritto nel 1892 dal socialista cristiano e patriota Francis Bellamy, la promessa di fedeltà «alla bandiera degli Stati Uniti e alla Repubblica che essa rappresenta, una nazione invisibile, con la libertà e la giustizia per tutti». Gli studenti che rifiutavano di recitare la formula erano espulsi, finché una sentenza della Corte Suprema, nel 1943, riconobbe il «di-
ritto al silenzio». L'esperienza della prima e della seconda guerra mondiale diede nuova vitalità al culto della bandiera. 155
William Guthrie scrisse, nel 1919, che il culto della bandiera
era «l’unico simbolo religioso unificante» in una società di molte religioni, perché essa sola rappresentava l’idea e l’ideale dell'America, e poteva garantire l’unità della nazione*. «Old Glory», affermò Milo Milton Quaife nel 1942, «è il no-
stro simbolo più sacro», per questo «è più che una bella bandiera: è una preghiera, un poema e una profezia. È una preghiera per perpetuare i principi della libertà, è un poema della storia del popolo, è una profezia di più grandi e grandiose conquiste». La foto dei soldati americani che innalzavano, in uno sforzo comune, una sventolante bandiera americana sul monte Suribachi nell’isola di Iwo Jima, il 23 febbraio 1945, di-
venne il simbolo della vittoria degli Stati Uniti nella crociata contro il male durante la seconda guerra mondiale. Il gruppo della foto, che fu modello per un monumento a Washington, rappresentava l’eroe americano: «un uomo comune che collabora con altri uomini comuni in uno sforzo comune, semplici ragazzi americani che combattono per tutti gli americani»%6. Nel 1954, la presidenza Eisenhower accentuò la sacralità della bandiera collegandola simbolicamente a Dio, facendo modificare la formula del P/edge of Allegiance, con l'aggiunta «One Nation, under God». Bruciarla o offenderla divenne un «atto di dissacrazione», che per molti anni, dall’epoca della
guerra del Vietnam fino alla fine del secolo scorso, diede luogo ad accesi e interminabili dibattiti costituzionali”. La legislazione di alcuni Stati puniva come reato la dissacrazione della bandiera, e per anni, quando più frequenti erano i gesti di dissacrazione, un movimento di protezione della sacralità della bandiera, sostenuto dalla American Flag Association e da altre associazioni patriottiche tradizionali, ha cercato di fare introdurre nella Costituzione un emendamento che sancisse la sacralità della bandiera, ma il principio della libertà di espressione è finora prevalso. La «crociata contro la dissacrazione simbolica» della bandiera divenne parte della guerra culturale della destra religiosa e del Partito repubblicano. Nel 1989, quando la Corte Suprema respinse uno statuto del Texas che 156
puniva con la prigione la dissacrazione di «Old Glory», perché questa punizione violava il principio della libertà di parola garantito dal Primo emendamento della Costituzione, ci fu una protesta in tutto il paese a favore della sacralità della bandiera, che divenne tema di battaglia politica del Partito repubblicano. Durante la presidenza di Bush padre, il Congresso votò una legge, il Federal Flag Protection Act, che condannava ad una multa o ad un anno di prigione o ad entrambi, chiunque avesse deliberatamente strappato, calpestato o bruciato la bandiera americana, ribadendone così la sacralità6?. La
nuova legge per la protezione della bandiera innescò una serie di manifestazioni di protesta, con bandiere provocatoriamen-
te bruciate in varie città, e persino sulle gradinate del Campidoglio. L’anno successivo la Corte Suprema, con cinque voti contro quattro, criticò la legge sostenendo che «punire la dissacrazione della bandiera indebolisce proprio quella libertà che rende questo emblema così venerato, e degno di venerazione»70. Ma il movimento contro la dissacrazione della bandiera non si arrese, e un nuovo tentativo venne fatto nel 1995
al Congresso per introdurre un emendamento in difesa della sua sacralità, che tuttavia, per uno stretto margine, non passò. Il 7 giugno 2001 il presidente Bush figlio proclamò la giornata e la settimana della bandiera ricordando che, nelle ore
più buie della seconda guerra mondiale, gli americani avevano visto in «Old Glory» «gli ideali del sacrificio supremo per sconfiggere la tirannia», ed esortò i cittadini a radunarsi per onorare l’America e recitare pubblicamente il Pledge of Allegiance”?. Non sappiamo quanti seguirono, allora, l'esortazione presidenziale. Ma nessuna esortazione fu necessaria, dopo l’attacco terroristico, per ridestare negli americani la venerazio-
ne e il culto di «Old Glory». Simbolo della volontà di riscossa della nazione contro l’aggressione fu la bandiera innalzata da alcuni pompieri sulle rovine di Ground Zero: la foto dell’evento divenne subito celebre come la foto di Iwo Jima, e la scena è stata riprodotta in sculture popolari di varie dimen157
sioni e con varie modifiche. In alcune raffigurazioni scultoree della stessa scena, la bandiera appare sovrastata dalla Statua della Libertà e di fronte ad essa i vigili del fuoco sono assorti o inginocchiati in preghiera. La bandiera di Ground Zero fu custodita come una reliquia, e fu consegnata dai vigili del fuoco ai marines, che la innalzarono sull’aeroporto di Kandar in Afghanistan dopo l'abbattimento del regime talebano. Come la Sindone di Torino, ha scritto Susan Willis, «questa bandiera esprime una forma di patriottismo elevato al livello di una religione»”?. i Dopo l’aggressione terroristica, ci fu un’esplosione nella vendita della bandiera. Nel 2000 Wal-Mart aveva venduto 26.000 bandiere nel mese di settembre, nei primi tre giorni dall’11 settembre ne furono vendute 450.000, fino ad esauri-
re le scorte. E ancora un mese dopo, le bandiere «volavano via dagli scaffali» in grande quantità. Le aziende che lavoravano per Wal-Mart, producendo in media 30.000 bandiere la settimana, intensificarono la produzione fino a 100.000 settimanali. Molti giornali pubblicarono la bandiera come inserto”3. Soprattutto si affrettarono a dotarsi di una «Old Glory» gli arabi americani e gli americani di altre etnie orientali, che temevano di essere scambiati per arabi, per dar prova del loro patriottismo ed evitare di essere aggrediti da bianchi americani a caccia di terroristi o bramosi di vendetta contro sospetti estremisti. Le comunità Sikh e Hindu fecero distribuire turbanti con i colori bianco rosso e blu della bandiera. «Old Glory» fu esibita dagli americani dopo l’11 settembre in ogni modo, dimensione e foggia, dal distintivo al tatuaggio, dall'abitazione all’auto. Era un simbolo di tributo alle vittime, di fede nella nazione, di orgoglio per la patria, di sfida contro il nemico: «La bandiera mi dà la sensazione di dire alle vittime che penso alla loro pena, che la sento come mia. Inoltre, mostra il mio sostegno al mio paese, che amo e sento in una crisi terribile. E voglio mostrare — ho bisogno di mostrare — che partecipo allo sforzo per porre fine a tutto questo. Se l'America non può schiacciare questa gentaglia, 158
nessuno può farlo», disse un abitante di New York vicino al World Trade Center, precisando che in passato, anche se era patriota, non era abituato a sventolare la bandiera?4. Il culto della bandiera fu riaffermato solennemente dagli stessi rappresentanti della nazione. Il 12 ottobre 2001, il ministro dell'Educazione sollecitò centosettemila scuole elementari e secondarie, pubbliche e private, a recitare simultaneamente il Pledge ofAllegiance?>. Quando il 26 giugno 2002 una corte d’appello degli Stati dell'Ovest, in seguito al ricorso di un genitore ateo, giudicò incostituzionale la recita a scuola del Pledge of Allegiance perché conteneva la frase «under God», i rappresentanti del Congresso, democratici e repubblicani, dopo aver votato una risoluzione contro la sentenza,
fecero una clamorosa manifestazione radunandosi sulle scalinate del Campidoglio per recitare in coro la formula di fedeltà alla bandiera. Hillary Clinton definì «oltraggiosa» la sentenza, giudicata «ridicola» dal portavoce del presidente Bush, che s'impegnò subito a dare battaglia per difendere l'integrità e la sacralità della bandiera espressa dalla frase «under God». Secondo un sondaggio di «The Washington Post», l'84 per cento degli americani era favorevole a mantenere la frase «under God» nel Pledge of Allegiance. Tre anni dopo, la Corte Suprema risolse la questione dichiarando che il genitore ateo, essendo divorziato, non aveva competenza ad intervenire per una questione che riguardava la figlia affidata alla custodia della moglie. Nel 2002 risultava che ogni giorno circa sessanta milioni di ragazzi negli Stati Uniti recitavano la formula di fedeltà alla bandiera”°. Nel momento della tragedia, «Old Glory» fu il simbolo di una rinnovata unione della comunità nazionale. La diffusione delle bandiere «era la prova fisica della improvvisa e drammatica importanza dell’identità nazionale per gli Americani, rispetto ad altre loro identità», ha osservato Huntington”. «Riunirsi attorno alla bandiera» (Rally round the flag) fu l’appello col quale molti americani cercarono di superare il trauma dell’aggressione e sentirsi uniti nel far fronte contro il nuo159
vo nemico, stringendosi attorno al loro presidente, come era accaduto in passato, quando la nazione americana si era sentita minacciata da un nemico esterno”8, Uniti attorno alla bandiera, gli americani si trasformarono da comunità di dolore in comunità di fede, pronti a divenire una comunità in guerra. Il rinnovato culto di «Old Glory» fu la manifestazione più vistosa e popolare di una «nuova nascita» della religione civile americana prodotta dagli eventi dell’11 settembre, che contribuirono a riconfermare, attraverso la teologia di guerra del presidente Bush, la sacralità dell'America come «impero del bene», chiamato ancora una volta dalla storia a combattere
contro le forze del male, per la salvezza della democrazia di Dio. La consacrazione dell’11 settembre comè uno degli eventi fondamentali della «storia sacra» del popolo americano iniziò subito dopo l'aggressione e proseguì con intensità e coerenza fino alla commemorazione del primo anniversario. La cerimonia ufficiale dell’ 11 settembre 2002 è stato uno dei momenti più importanti nella storia della religione americana, perché come pochi altri eventi del passato ha conferito un alone di sacralità all’ America nell’era della sua massima potenza, divenuta l’era della «guerra al terrore».
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Il grande risveglio
Un'alba mesta Erano le due del mattino a New York, 111 settembre 2002
quando, dai cinque distretti della città, cominciarono a muoversi, in processione lenta e solenne, gruppi di cornamuse, con il kilt cerimoniale e la bandiera sventolante dagli strumenti, per recarsi a commemorare il primo anniversario dell'attacco terroristico a Ground Zero. Lungo il percorso, la città si svegliava, le finestre si illuminavano, e la gente silenziosa e commossa, vegliando con le candele accese e sventolando bandiere, salutava il passaggio delle cornamuse, che suonavano canti popolari della nazione americana, come Yankee Doodle Dandy, America the Beautiful, A Nation Once Again. Negli Stati Uniti e nel mondo, le nazioni che un anno prima avevano condiviso il dolore del popolo americano, si apprestavano a commemorare le vittime innocenti, osservan-
do un minuto di silenzio nel momento in cui il primo aereo aveva colpito la torre Sud del World Trade Center. Il presidente Bush aveva proclamato l’11 settembre Patriot Day, per commemorare coloro che erano periti negli attacchi terroristici, e «ricordare sempre il nostro dovere collettivo di assicurare che giustizia sia fatta, la libertà prevalga e perdurino i principi sui quali la nostra nazione è fondata»!. Le commemorazioni ufficiali erano iniziate il 6 settembre,
quando senatori e deputati tennero una seduta straordinaria del Congresso a New York, la prima nella città dopo duecento anni, nella Federal Hall vicina a Ground Zero, per di161
mostrare l’unità della nazione di fronte al terrorismo e la determinazione a non permettere il ripetersi di simili attacchi. La riunione, oltre che essere un tributo alle vittime e alla città,
aveva un alto valore simbolico nella «storia sacra» della religione americana, perché New York era stata la capitale originaria degli Stati Uniti, la città dove, nello stesso sito della
Federal Hall, si era riunito il primo Congresso; dove era stata scritta la Dichiarazione dei diritti, e dove aveva prestato giuramento il primo presidente, il 30 aprile 1789. Per il giorno anniversario, le commemorazioni più solenni erano previste nei luoghi degli attacchi terroristici: a Ground Zero, al Pentagono e nel campo della Pennsylvania, dove si era schiantato uno degli aerei dirottati. Altre cerimonie erano state preparate ovunque negli Stati Uniti «per dare reale concre-
tezza all’affermazione del Pledge of Allegiance, che l'America è ‘una nazione... indivisibile’ »?. La stampa prevedeva che la commemorazione sarebbe stata la più ampia cerimonia collettiva della memoria nella storia americana, un momento es-
senziale, scriveva la «Gotham Gazette» il 9 settembre, negli sforzi per superare il trauma della tragedia sofferta. «La mattina ci raccoglieremo per guardare indietro e ricordare coloro che sono morti, ma la sera torneremo a guardare avanti, al fu-
turo», disse il sindaco di New York Michael R. Bloomberg alla vigilia dell'11 settembre. Durante l’anno trascorso, gli eventi dell’11 settembre erano stati oggetto di molteplici e varie iniziative, dai documentari televisivi alle mostre fotografiche, dalle esposizioni nei musei alla pubblicazione di libri (oltre settecento, e altri centocinquanta previsti per l’autunno), per ricordare quella che era definita «la più documentata tragedia nella storia della specie umana». Intanto, come notava Amy Harmon nel giorno del primo anniversario, nei siti web innumerevoli persone avevano già innalzato un monumento virtuale alla memoria delle vittime, attraverso messaggi di cordoglio, di conforto e di speranza‘. E un altro monumento collettivo, composto di innumerevoli messaggi, poesie, disegni, invocazioni, preghiere e foto delle vittime, era sorto spon162
taneamente, fin dal primo giorno della tragedia, in Union Square e Washington Square, in molte strade e stazioni della metropolitana, divenuti luoghi di devozione anonima e collettiva. In questi temporanei spazi sacri, una comunità di dolore cercava di ritrovare la propria intima unione, la solidarietà fra ivivi e imorti, attraverso un messaggio che appariva ovunque:
«non vi dimenticheremo». Le foto e brevi biografie delle vittime furono pubblicate in inserto speciale da «The New York Times». Tuttavia, ad un anno dalla tragedia, l’opinione pubblica appariva divisa nell’atteggiamento verso il ricordo dell’11 settembre: anche se la frase «tutto è cambiato per sempre» era diventata una specie di slogan nazionale, meno della metà degli americani riteneva che l'11 settembre dovesse diventare una festività nazionale come Memorial Day o Labor Day£. Vi erano inoltre, da quasi un anno, molte controversie sulla futura utilizzazione dello spazio lasciato vuoto dalla scomparsa del World Trade Center, 64.748 metri quadrati di enorme valore immobiliare, e sul modo di dedicare nel luogo un monumento alla memoria delle vittime. Sacro e profano si mescolavano in interminabili diatribe sui progetti di ricostruzione, con il seguito di polemiche artistiche e urbanistiche, scontri di interessi, rivalità di ambizioni”. L’ex sindaco Giuliani avrebbe vo-
luto trasformare in un parco della memoria l’intero sito, sacralizzato dalla morte di migliaia di vittime, molte delle quali si erano per sempre dissolte sul posto, rendendolo un perenne cimitero simbolico. Nel mese di luglio, l'agenzia incaricata della ricostruzione del World Trade Center aveva già presentato sei progetti, ciascuno proponente varie combinazioni di monumenti ed edifici commerciali. Mentre la città si apprestava a commemorare il primo anniversario dell’attacco terroristico, osservò il 9 settembre Eileen Davis Hudson, i suoi cit-
tadiniei suoi politici continuavano a dibattere sui progetti per la ricostruzione del World Trade Center, ma una decisione fi-
nale non era facilmente prevedibile, visto che vi erano coinvolte anche le famiglie delle vittime8. Le controversie tacque163
ro in rispettoso silenzio nel primo anniversario dell’11 settembre celebrato a Ground Zero, dove i progetti di ricostruzione prevedevano comunque la delimitazione di uno «spazio sacro» in memoria della tragedia vissuta dall’ America?. Ground Zero è termine che designa l’epicentro di una distruzione totale, dove tutto è annientato, come avvenne per
le persone che vi erano perite senza lasciare traccia di sé. Il giorno dell’anniversario, circa ventimila frammenti umani rimanevano ancora non identificati al Memorial Garden, il luogo dove erano conservati. «Forse», osservò Gary Laderman,
docente di religione, «l’aspetto più singolare ed espressivo di questo anniversario è stato l’immenso significato attribuito ai resti materiali del World Trade Center, ai residui di edifici
abbattuti, mescolati con corpi annientati, trasformati per questo in sacre rovine»!°. Per quasi un anno, durante i lavori di sgombero delle macerie, Ground Zero era stata una enorme «fossa comune», già soffusa di reverenza religiosa!!. La vista del cumulo di rovine fumanti suscitava un'emozione di «sacro terrore», il «sentimento misto di terrore, venera-
zione, stupore suscitato dall’esperienza del sacro o del sublime», «un intenso sentimento religioso», come ha ricordato il filosofo Jean-Pierre Dupuy, che vi si recò nel dicembre 2001!2. Le rovine del World Trade Center, affermava la teo-
loga Kathleen McManus, segnano «quel che è divenuto e resterà per sempre uno ‘spazio sacro’ »!.
Spazi sacri d’America Non era ancora sorto il sole quando le processioni delle cornmamuse sl congiunsero a Ground Zero, accolte da una immensa folla che si era già raccolta per rendere tributo alla memoria delle vittime, come accadeva nello stesso momento in ogni città degli Stati Uniti, nonostante il governo nei giorni precedenti avesse messo la nazione in alto stato di allerta per la minaccia di attacchi terroristici, con un improvviso annun164
cio fatto dal ministro della Giustizia Ashcroft alla televisione,
interrompendo i programmi consueti!4. Dopo un anno, sul luogo dove era il World Trade Center, rimossi tutti i detriti, si estendeva ora un vasto pozzo di cemento — «the Pit» — con una spianata sul fondo, cui si accedeva attraverso una rampa utilizzata dai camion per lo sgombero delle macerie. Il pozzo era circondato da una barriera che vietava l'ingresso al pubblico. Una bandiera americana sventolava su Ground Zero con la frase «Non dimenticheremo mai». Da un lato del pozzo si stagliava una rozza croce di acciaio brunito, di travi mozze trovate fra le rovine delle due
torri. Alle spalle della croce, un vistoso cuore con i colori della bandiera americana era dipinto sull’ampia facciata di un edificio che si affacciava su Ground Zero, e tutt’intorno al
pozzo sventolava una miriade di bandiere a stelle e strisce, di ogni dimensione e foggia. Al centro della spianata di Ground Zero era il «cerchio dell’onore» dedicato alle vittime. La morte aveva già reso sacro il luogo, che la commemorazione dell’11 settembre consegnò ufficialmente alla religione americana.
La religione ha origine dal senso del sacro e della morte. I luoghi dove la morte è sovrana sono spazi sacri. Sacra è anche, perle popolazioni religiose, la terra dove alberga la divinità. Sacra era la loro terra per gli indiani nativi, e sacra apparve l America ai puritani, che giunsero nel Nuovo Mondo con la convinzione di essere arrivati nella nuova Terra Promessa, assegnata da Dio al nuovo popolo d'Israele, per creare una Nuova Gerusalemme, la «città sulla collina», faro ed esempio di virtù per tutta l’umanità. Il mito della Nuova Gerusalemme, uno dei mi-
ti fondamentali della religione americana, trasmise alle generazioni successive degli americani la visione del Nuovo Mondo come terra riservata al popolo che doveva realizzare la democrazia di Dio! E sacra fu considerata dai Padri fondatori la nascita della Repubblica degli Stati Uniti, il «sacro esperimento» di libero governo di una nuova nazione, che avrebbe indicato all'intera umanità la strada della rigenerazione. 165
Il nazionalismo moderno è una religione secolare, che nasce dalla sacralizzazione della patria, e in suo nome consacra gli eventi, i luoghi e gli eroi, che costituiscono la sua «storia sacra». Forse nessun’altra nazione, come gli Stati Uniti, ha conferito carattere religioso alla propria identità collettiva, interpretando la propria storia come una continua epifania della provvidenza attraverso il «destino manifesto» della nazione americana!S. Come in altre nazioni moderne, la formazione della nazione americana, costruita su una intrinseca connes-
sione fra religione e politica, pur consacrando il principio della separazione fra lo Stato e la Chiesa, è stata accompagnata dalla creazione di luoghi consacrati alla celebrazione della sua «storia sacra» e alla commemorazione degli eventi, degli eroi e dei caduti, che nel corso delle generazioni hanno contribuito alla vitalità, alla prosperità e alla grandezza della nazione. La santificazione di un evento avviene quando si attribuisce allo spazio che lo ricorda un significato positivo e duraturo per la collettività, come una perenne lezione di eroismo o di sacrificio per la comunità. La sacralizzazione dello spazio avviene con un rito che separa il luogo da consacrare dall’ambiente circostante, per dedicarlo alla memoria di un evento,
di un martire, di un eroe o di un gruppo di vittime. Il luogo viene così trasformato in un simbolo per ricordare alle future generazioni un atto di virtù o di sacrificio, o per metterle in guardia di fronte ad eventi da evitare.
I vivi e i morti
La coscienza di una comunità nazionale consiste nella continuità fra ivivi e imorti, che si perpetua attraverso riti e simboli che periodicamente rinnovano la memoria del passato nella vita del presente. «La cultura umana — scriveva nel 1959 W. Lloyd Warner, pioniere degli studi sul simbolismo americano — è una organizzazione simbolica del ricordo delle esperienze morte del passato così come sono nuovamente sentite e 166
comprese dai membri viventi della collettività»!”. In ogni nazionalismo moderno, gli spazi sacri sono fondamentali per creare ed alimentare il sentimento collettivo di comunità nazionale, e per conferire alla nazione una dimensione di eternità, che trascende la vita degli individui che la compongono nel fluire delle generazioni, e nello stesso tempo conferisce alla loro vita un significato e un valore, che permane nel tempo, attraverso la commemorazione e la celebrazione della memoria nazionale. I luoghi santificati come spazi sacri della nazione, specialmente i campi di battaglia, i cimiteri e imonumenti di guerra, sono parte integrante del processo simbolico di creazione di una coscienza nazionale: essi trasformano la memoria dei morti in un momento permanente della vita collettiva, e quindi, in qualche modo, tendono ad occultare o a ri-
muovere l'evento stesso della morte dalla vita collettiva della nazione, che si perpetua nel tempo. Gli Stati Uniti hanno avuto una grande venerazione per gli spazi sacri come luoghi dove preservare e trasmettere il senso della comunità nazionale, specialmente quando sono spazi sacri dedicati ai caduti in guerra. Warner aveva dimostrato che il luogo centrale dei rituali della comunità americana era il cimitero e l’occasione principale per alimentare il senso comunitario era la celebrazione del Memorial Day, la giornata dedicata alla commemorazione dei caduti in guerra. Le sue considerazioni appaiono tuttora valide, per una nazione che è stata coinvolta nei principali conflitti del Ventesimo secolo. «Nessuna generazione di americani è riuscita ad evitare di combattere una guerra importante», ha scritto lo storico militare G. Kurt Piehler, «e il modo in cui hanno ri-
cordato questi conflitti ha avuto un ruolo cruciale nel formare la identità nazionale americana attraverso il tempo. Fatto più significativo, noi abbiamo utilizzato imonumenti di guerra e i riti per definire chi è un buon cittadino»!8. Tragedia e violenza hanno disseminato il territorio degli Stati Uniti di spazi sacri, dedicati prevalentemente a ricordare luoghi di bat167
taglia e di morte!?. Questo è considerato da alcuni studiosi un aspetto importante della religione civile americana, la quale, come è stato osservato, «è paradossalmente una religione che ha il suo centro nella morte»?0, Lo confermarono le migliaia di commemorazioni dell’11 settembre in tutti gli Stati Uniti, le quali mostrano, come ha scritto Laderman, «un aspetto specifico e profondamente radicato della vita nazionale»: l’uso di riti comunitari per creare una solidarietà sociale, invocando coloro che sono morti. Malgrado l'opinione diffusa, che lAmerica sia una cultura che nega la morte, la nostra storia è intricata da esempi di un interesse ossessivo, se non proprio da un esplicito culto, per le ossa dei morti?!. >
Comein tutti i nazionalismi, la commemorazione dei caduti
in guerra ha un ruolo preminente nella religione americana: uno dei suoi massimi luoghi sacri è il cimitero di Gettysburg, dove dal 1° al 3 luglio 1863 si svolse una sanguinosa battaglia della Guerra civile. La trasformazione del campo di battaglia in spazio sacro avvenne il 19 novembre 1863 con un discorso di Abraham Lincoln, che è divenuto uno dei testi sacri della religione civile americana, straordinario modello di sintesi, ef-
ficacia e bellezza oratoria, nel quale il presidente affermò a proposito del luogo della battaglia, che «gli uomini coraggiosi, vivi e morti, che vi avevano combattuto, lo avevano già con-
sacrato», e concluse con l’appello al popolo americano ad onorare i caduti confermando la propria dedizione alla causa per la quale erano morti e al compito che essi avevano lasciato da compiere: «Nel nome di questi morti solennemente affermiamo, che essi non sono morti invano, che questa nazione, sot-
tomessa a Dio, avrà una nuova nascita nella libertà, e che il go-
verno del popolo, dal popolo, per il popolo non scomparirà mai dalla terra»??.
168
Sacro 11 settembre Nessun politico pronunciò un discorso memorabile a Ground Zero la mattina del primo anniversario. La cerimonia iniziò alle 8 e 45 con poche parole del sindaco di New York in memoria dei morti. Alle 8 e 46, quando il primo aereo aveva colpito il World Trade Center, ci fu un minuto di silenzio, poi il go-
vernatore di New York, George E. Pataki lesse il discorso di Lincoln a Gettysburg. Quindi l’ex sindaco Giuliani iniziò la lettura dei nomi delle 2801 vittime perite sui due aerei e nel crollo delle torri. «Una litania di nomi — commentò ‘The New York Times” — le cui sole sillabe, facendo risuonare una così
grande varietà di etnie e religioni, hanno evocato la molteplicità di questa nazione e i suoi multiformi sogni»??. Ciascun nome, scandito lentamente, dava risalto alla individualità di ogni vittima nella commemorazione di una morte collettiva, un tri-
buto personale loro rivolto dalla comunità nazionale, che in questo modo si impegnava a non dimenticarli?4. La lettura dei nomi, accompagnata dal suono di un violoncello e dal sibilo del vento, che sollevava nuvole di polvere disperdendole come fossero ceneri, fu proseguita, per circa tre ore, da Hillary Clinton, Robert De Niro, il generale Colin Powell, dai fami-
liari delle vittime, vigili del fuoco e poliziotti. La lettura fu interrotta da momenti di silenzio alle 9,03, quando il secondo aereo aveva colpito l’altra torre, alle 9,59, quando era crollata la prima torre, e alle 10,29, quando era crollata la seconda: que-
st'ultimo momento fu accompagnato dai rintocchi delle campane delle chiese di New York. Quando la lettura finì, il governatore del New Jersey lesse la Dichiarazione di indipendenza. I familiari delle vittime, venuti da varie parti degli Stati Uniti e delmondo, scesero nel pozzo, lungo la rampa, fino al
«cerchio dell’onore», dove deposero fiori e costruirono con ciottoli piccoli rudimentali altari, sostando in intenso raccoglimento. Era la prima volta che ai familiari era consentito di recarsi sul luogo dove i loro cari erano scomparsi. Alcuni raccolsero ciottoli, altri la polvere del suolo mettendola in botti169
glie, come simboliche reliquie?5. Alle famiglie che non avevano recuperato nessun resto dei loro congiunti erano state do-
nate urne contenenti la polvere di Ground Zero?°. Il presidente Bush giunse a Ground Zero nel pomeriggio, dopo avere assistito alle cerimonie al Pentagono e sul campo della Pennsylvania, e depose una corona nel «cerchio dell’onore»; non pronunciò discorsi ma rimase per oltre un’ora in
commosso colloquio con i familiari delle vittime??. La sera, nel Battery Park poco distante da Ground Zero, il sindaco di New York accese una fiamma eterna alla memoria delle vittime davanti alla «Sfera», una scultura rovinata, che adornava la piazza del World Trade Center. Poi il sindaco lesse il discorso «di Franklin D. Roosevelt sulle «quattro libertà», libertà di parola, di religione, dalla paura e dal bisogno, pronunciato nel gennaio 1941. La lettura di precedenti discorsi presidenziali, tutti appartenenti a momenti di guerra, evocava solo indirettamente la «guerra al terrore», mentre la mancanza di discorsi da parte di uomini politici forse confermava l'intenzione di attribuire alla cerimonia a Ground Zero un carattere esclusivamente civile, per commemorare vittime che erano persone comuni, pe-
rite mentre attendevano al loro lavoro quotidiano, e come tali ricordate per rappresentare, nella loro semplice umanità, la comunità della nazione. Probabilmente, la decisione di evita-
re espliciti riferimenti alla «guerra al terrore» era dipesa anche dall’atteggiamento contrario alle iniziative belliche del presidente, manifestato da molti familiari delle vittime, che aveva-
no costituito un’organizzazione «per cercare alternative alla guerra e lavorare per porre fine al ciclo della violenza»?8, Alcuni di loro avevano scritto al presidente subito dopo la tragedia, per dichiarare la loro avversione ad ogni azione di ritorsione armata, perché contraria sarebbe stata anche la vittima: «il nostro governo si muove nella direzione di una vendetta violenta, con la prospettiva di figli, figlie, genitori, amici in terre lontane che muoiono, soffrono e coltivano nuovi risenti170
menti contro di noi. Non è la via da seguire. Non vendica la morte di nostro figlio. Non in nome di nostro figlio», scrissero i genitori di un giovane morto al World Trade Center?9, È significativo il silenzio del presidente, che riservò ad altri momenti della giornata i discorsi commemorativi, dove il motivo della guerra non poteva non essere prevalente. Il tema della «guerra al terrore» fu invece il motivo principale nella cerimonia per commemorare le vittime dell’attacco terroristico al Pentagono, dove la ricostruzione dell’ala squarciata era stata già compiuta. Era stato deciso di non riservare alcuno «spazio sacro» nel luogo dell’attacco terroristico, che fu chiamato Sito del Progetto Fenice, come simbolo della capacità di riscossa della nazione americana: «è proprio della cultura militare, esercitata a far fronte allatragedia, reagire con rapida risposta», commentava John Tierney su «The New York Times», con evidente allusione alla «guerra al terrore». «Ci incontriamo su un campo di battaglia per onorare coloro che qui sono morti e ridedicare noi stessi alla causa per la quale essi hanno dato la loro vita, la causa della libertà umana», disse il sottosegretario alla Difesa Donald H. Rumsfeld. «Combattiamo perla dignità della vita contro fanatici che non provano vergogna nell’assassinare. Combattiamo per proteggere gli innocenti affinché gli spietati e i criminali non ereditino la terra», aggiunse Bush parafrasando il vangelo?0. Su «The New York Times», l’editorialista Michiko Kaku-
tani rimproverò ai politici che avevano partecipato alla cerimonia a Ground Zero di avere abdicato alla loro responsabilità di «elaborare una visione, uno stato d’animo, una direzio-
ne, e dare voce ai sentimenti comuni di dolore o di speranza», come la storia richiede ai leader in momenti importanti. I leader politici «avevano perso l’importante occasione di definire per la storia gli eventi dell11 settembre» attraverso un discorso originale, e avevano invece scelto di leggere discorsi pronunciati in contesti di guerra, che parevano inappropriati alla «particolare e anomala tragedia» dell’11 settembre, perché l'America non era più una nazione ai suoi primi pasdai
si, come al tempo della Dichiarazione di indipendenza, perché le vittime del World Trade Center erano civili dediti alla loro vita quotidiana e non combattenti in una guerra fratricida come i morti a Gettysburg, e infine perché il futuro dell'America non era paragonabile alle prospettive del gennaio 1941, quando, come disse Roosevelt, il futuro america-
no era «in serio pericolo»?!. Tali critiche, tuttavia, non tenevano conto del significato
che avevano i testi letti come sacre scritture della religione civile americana: proprio perché erano connessi a momenti di guerra essi avevano la funzione di contribuire alla santificazione dell’11 settembre, attraverso la trasfigurazione delle vittime in eroi, martiri e santi della religione americana. Que-
sta, ha osservato Laderman, fu un’altra caratteristica peculiare dell’anniversario: lo sforzo retorico di trasformare civili innocenti, inaspettatamente,
in eroi nazionali che hanno sacrificato la loro vita, con implicito riferimento ai soldati americani che erano morti combattendo per il paese nelle guerre del passato. Questa efficace strategia mira ad assicurare la nazione unita, che queste morti non sono prive di senso, e che la giustizia americana trionferà??.
I quaranta passeggeri che si erano ribellati ai dirottatori furono consacrati a Shanksville come i primi «cittadini soldati»? nella guerra al terrorismo, mentre tutte le altre persone perite per gli attacchi divennero martiri inconsapevoli, trucidati dai nemici della libertà e della civiltà. I pompieri e i poliziotti che erano morti mentre prestavano soccorso erano stati già consacrati spontaneamente dal sentimento della gente quali eroi e santi, incarnazione e simbolo del carattere buono, coraggioso e altruista della nazione americana: «è l’eroismo del New York City Fire Department — osservò la teologa McManus - che è diventato il cuore vivente del simbolo di Ground Zero»?4. Cartoline e manifesti mostravano immagini di vigili del fuoco e di poliziotti accolti in cielo fra gli angeli. 172
Le stazioni dei vigili del fuoco di New York divennero meta di pellegrinaggio e di tributo alla memoria dei caduti. In tale modo, la commemorazione del primo anniversario completava il processo di santificazione dell’11 settembre, iniziato il giorno stesso della tragedia, per incorporarlo nella «storia sacra» della religione americana. I morti dell’11 settembre erano persone comuni di varie razze, religioni e professioni, che incarnavano nella loro esperienza la realizzazione del «sogno americano»: la loro sacralizzazione contribuì alla sacralizzazione dell'America come democrazia di Dio, un eccezionale esperimento di governo libero attuato da una «nazione di nazioni», l’unica nazione nel-
la storia fondata su un credo liberamente scelto e condiviso da persone provenienti da ogni parte del mondo, impegnata a difendere e a diffondere la democrazia nel mondo. «Noi — affermò il presidente degli Stati Uniti nel proclamare 11 settembre giornata patriottica della nazione — siamo un popolo dedicato al trionfo della libertà e della democrazia sul male e sulla tirannia»??. Non ci fu un servizio religioso a Ground Zero durante la commemorazione, ma una funzione solenne si svolse a Wash-
ington, nella National Cathedral, officiata dall’arcivescovo anglicano del Sud Africa Desmond Tutu, con la partecipazione del ministro della Giustizia John Ashcroft e gli ambasciatori di oltre trenta nazioni, i cui cittadini erano periti negli attacchi dell’11 settembre, rappresentati dalle loro bandiere giunte in processioni guidate da un cornamusaro. Preghiere furono recitate da religiosi hindu, buddisti, musulmani, ebrei, luterani, battisti, presbiteriani, sikh, cattolici, metodisti e greco-orto-
dossi. La funzione fu interrotta quattro volte, in coincidenza con i momenti in cui gli aerei si erano schiantati. Servizi religiosi accompagnarono ovunque in America le cerimonie commemorative dell’11 settembre. La notte, da Ground Zero, due fari potenti proiettavano nel cielo la sagoma luminosa delle due torri scomparse, un «tributo di luce» come testimonianza di vita. 173
Dio in America, un anno dopo L’impatto degli attacchi terroristici sulla coscienza religiosa degli americani credenti era stato enorme, e il loro comportamento nei giorni successivi, con la straordinaria affluenza nelle chiese, nelle sinagoghe, nelle moschee, nei templi e in
altri luoghi di preghiera, lo aveva dimostrato. Le indagini sulla situazione religiosa negli Stati Uniti, condotte dopo 111 settembre dal Pew Forum on Religion & Public Life, un centro di ricerca indipendente «dedicato a promuovere una più profonda comprensione sul ruolo della religione nel formare le idee e le istituzioni della società americana», avevano mo-
strato che la religione aveva accresciuto laxsua influenza nella vita americana, rispetto ai decenni precedenti, anche se il mosaico complessivo della situazione religiosa, pur sempre in movimento, non era stato modificato dagli effetti degli attacchi terroristici sulla coscienza americana. Un sondaggio effettuato nel dicembre 2001 confermava che, fra le nazioni più ricche del mondo, gli americani erano ancora al primo posto per l’importanza attribuita alla religione nella loro vita. Il 59 per cento degli americani affermava che la religione aveva un ruolo molto importante: una percentuale che era il doppio di quella espressa in Canada e di gran lunga superiore rispetto al Giappone (12 per cento) e ai paesi europei (33 per cento in Gran Bretagna, 27 per cento in Italia, 21 per cento in Germania e 17 per cento in Francia). Inoltre, un'indagine Gallup nel dicembre 2001 rilevava che l’indice di frequenza alle cerimonie religiose era salito al 47 per cento rispetto al 40 per cento che era stata la media sin dall’epoca della seconda guerra mondiale?”. «Per la prima volta da quasi mezzo secolo una sostanziosa maggioranza di americani ritiene che la religione
abbia accresciuto la sua influenza nella vita pubblica», osservava il 7 dicembre 2001 «The Christian Science Monitor»88. Si trattava però di una religiosità personale, individuale, emozionale, più che dottrinale, spesso fuori dalle confessioni tradizionali e dai luoghi istituzionali di culto, corrispondente al174
la crescente diversità delle religioni americane, che costituiva la singolarità eccezionale del mobilissimo caleidoscopio della «nuova America religiosa»??. Impressionati dall’improvviso affollamento delle chiese e dalla intensificata religiosità degli americani dopo l’11 settembre, i maggiori esponenti dell’evangelismo tradizionalista e fondamentalista avevano affermato trionfanti che l'America era tornata ad essere più religiosa. Jerry Falwell aveva predetto che «gli americani stavano per dedicare se stessi a Dio in modo duraturo». Pat Robertson aveva annunciato «uno dei più grandi risvegli spirituali nella storia americana». Il termine «grande risveglio», tipicamente americano, designa i movi-
menti protestanti evangelici che sorgono da una rinascita della fede e dell'entusiasmo religioso, per predicare la rigenerazione morale individuale e collettiva, attraverso una più rigorosa osservanza dei dettami biblici nella vita privata e pubblica. Nel corso della storia americana, questi movimenti aveva-
no preceduto e influito su mutamenti decisivi nella vita politica. Il primo «grande risveglio», nella metà del Settecento, aveva preparato la formazione del patriottismo americano alla vigilia della guerra di indipendenza; un secondo «risveglio», che si era sviluppato nei primi decenni dell’Ottocento, aveva accentuato il carattere evangelico del protestantesimo americano e la sua democratizzazione, e aveva contribuito all’espansione americana verso l’Ovest, con il suo zelo missionario di
evangelizzazione; di un terzo «risveglio» si era parlato negli ultimi anni dell’Ottocento, con il diffondersi di nuovi movimenti millenaristici. Nell'ultimo decennio del Novecento, stu-
diosi e religiosi avevano ritenuto che l’America fosse alla vigilia diun nuovo «grande risveglio»4!. Il premio Nobel perl’economia Robert W. Fogel sosteneva nel 1998 che gli Stati Uniti erano all’inizio di «un quarto Grande Risveglio, un nuovo risveglio religioso animato dalla rivolta contro la corruzione della società contemporanea». L’intensificata religiosità degli americani dopo la tragedia dell’11 settembre parve confermare questa previsione. Tut175
tavia, a distanza di un anno, appariva evidente che l'11 settembre non aveva prodotto cambiamenti durevoli nel comportamento religioso degli americani. Nell’ottobre 2001 il 18 per cento degli americani aveva dichiarato di partecipare alle funzioni religiose più assiduamente dopo l’°11 settembre, ma nel maggio 2002 la percentuale scese all’8 per cento. Durante il 2002, solo l’11 per cento degli americani cercò il consiglio di un ministro, di un prete o di una guida religiosa, secondo un’indagine dell’Università di Chicago. «Nelle chiese — osservò Steven Waldman, direttore del sito web Beliefnet, dedicato alla religione, nel secondo anniversario dell’11 settembre — le panche rimanevano vuote mentre erano affollati gli studi degli psicologi, e aumentava il bere e l’uso di tranquillanti, mentre nello stesso tempo declinavano le pratiche di culto». Le chiese non avevano tratto alcun vantaggio dall’ondata di fervore religioso provocata dalla catastrofe dell’11 settembre. Questo era forse dipeso, per quanto riguardava i cattolici, anche dallo scandalo della pedofilia nel clero americano e dei tentativi delle gerarchie ecclesiastiche per cercare di nasconderli, che aveva gravemente leso la loro reputazione. Diminuita era anche la percentuale degli americani i quali dichiaravano che la religione era molto importante nella loro vita, dal 64 per cento nelle prime settimane dopo l’11 settembre, al 56 per cento nel maggio 2002, tornando al livello precedente l’attacco terroristico. Fatto ancora più significativo, secondo un sondaggio del gruppo di ricerca Barna, la percentuale degli americani convinti che «la verità morale è assoluta» era scesa dal 38 per cento nel gennaio 2000, al 22 per cento nell’autunno successivo, nonostante la predicazione presidenziale sulla guerra assoluta fra il bene e il male44. Inoltre, i sondaggi effettuati nel corso del 2002 mostrarono significativi mutamenti nell’atteggiamento verso il ruolo della religione nella vita pubblica. Nel marzo, secondo un'indagine del Pew Forum, la percentuale degli americani convinti di un’influenza crescente della religione nella vita pubblica era scesa dal 78 per cento del novembre precedente 176
al 37 per cento, come era nell’anno prima dell’attacco terroristico, anche se il 58 per cento riteneva che la fede religiosa era la base del successo dell’America, e l'83 per cento dei bianchi evangelici protestanti riteneva che la religione fosse il cuore della forza americana. L’80 per cento considerava positiva l'influenza della religione nel mondo, ma il 51 per cento riteneva che l°11 settembre aveva dimostrato che nel mondo di religione ce n’era poca, e il 65 per cento attribuiva alla religione un ruolo rilevante nella maggior parte delle guerre e dei conflitti, sostenendo, con implicito riferimento all’Islam, che
«alcune religioni sono più propense di altre alla violenza». Nel corso del 2002, si registrò una crescente avversione nei confronti dell’Islam, specialmente fra i conservatori evangelici, che non condividevano l’ecumenismo del presidente. Nell’anno successivo, la percentuale degli americani i quali ritenevano che l’Islam fosse più propenso di altre religioni a favorire la violenza, era passata dal 25 per cento nel marzo 2002 al 44 per cento nel luglio 200347. Questi mutamenti verso l'Islam, tuttavia, non avevano modificato l’atteggiamento favorevole della maggioranza degli americani verso i loro concittadini musulmani, né avevano incrinato la convinzione,
condivisa da tre quarti degli americani, compresa la metà dei bianchi evangelici, che molte religioni possono condurre alla vita eterna, contro il 18 per cento di quelli che ritenevano vera soltanto la propria religione. Inoltre, anche se la maggioranza pensava che la fede era alla base della società americana, l’84 per cento riteneva che una persona poteva essere un buon cittadino anche senza avere una fede religiosa. E il 53 per cento non riteneva necessario credere in Dio per avere
buoni valori. Questi dati lasciavano pensare, come osservava E.J. Dionne Jr., condirettore del Pew Forum, che gran parte degli americani sapeva conciliare una profonda fede religiosa con la tolleranza, e ciò provava anche la possibilità di conciliare la fede religiosa con la democrazia liberale*5.
177
Quale risveglio? Dopo un anno, anche se si registrava un riflusso della presenza alle funzioni religiose, i dati sugli atteggiamenti sociali degli americani confermavano «la persistenza di un più elevato senso di spiritualità e di desiderio di comunità», insieme ad una maggior considerazione positiva per la religione come fonte di conforto. Ad un anno dall’attacco terroristico, il 40
per cento degli americani confermava che la tragedia dell’11 settembre aveva rafforzato la loro fede. Non c’era stato un «grande risveglio» nel senso tradizionale, ma un risveglio di tipo religioso era comunque avvenuto, dopo l'11 settembre: era il risveglio della religione civile, che appariva evidente attraverso il rinnovato culto della bandiera e nell’esplosione di sentimento patriottico e di orgoglio nazionalista, e che molto contribuì a far radunare il consenso di una nazione unita e solidale attorno al presidente Bush. Il quale, per parte sua, fu molto abile ad utilizzare la sua personale religiosità, il suo ecumenismo e la sua visione sacralizzante dell’ America, per elaborare una nuova versione della religione civile americana, fortemente modellata sull’ideologia della destra religiosa. Di religione civile in America si era molto discusso nella seconda metà del Novecento, specialmente dopo la pubblicazione, nel 1967, del saggio C:v:/ Religion in America di Robert N. Bellah, che aveva adoperato il concetto coniato da
Jean-Jacques Rousseau per definire la dimensione religiosa della politica americana, distinta e indipendente dalle Chiese, come «insieme di credenze, simboli e riti relativi alle cose sacre e istituzionalizzati nelle collettività». «La religione civile americana», secondo Bellah, è una «interpretazione auten-
tica di una trascendente ed universale realtà religiosa vista o rivelata attraverso l’esperienza storica del popolo americano»?0. Per oltre due decenni, storici, sociologi, teologi dibatterono sull'esistenza o meno della religione civile analizzata da Bellah, il quale, in realtà, già dieci anni dopo il suo famoso articolo, di fronte alla crisi della società e della coscienza 178
americana negli anni della guerra del Vietnam e del Watergate, aveva dichiarato nel 1975: «Oggi, la religione civile americana è un guscio vuoto e rotto»?!. In realtà, negli anni successivi, la religione civile continuò
ad essere presente nella vita pubblica e politica degli americani, ed ebbe momenti di nuova vitalità durante la presidenza Reagan, ed anche nelle successive presidenze di Bush padre e di Clinton. Qualsiasi loro riferimento a Dio, alla missione
americana, al destino dell’ America, testimoniava la presenza della religione civile, così come la testimoniavano i riti e i simboli che celebravano la democrazia di Dio sacralizzando l'America. Negli anni della presidenza Clinton, maestro nell’esercitare il ruolo di pontefice della religione americana, si discusse sulla natura della religione civile in relazione alla sua matrice protestante, nel momento in cui le Chiese protestanti stavano subendo una notevole perdita di affiliati. Secondo un'inchiesta condotta nel 1994 dallo «Star Tribune» di Minneapolis, nel Minnesota, gli studiosi intervistati ritenevano che se le principali denominazioni avevano perso milioni di membri, esse tuttavia erano comunque trionfanti perché i valori del protestantesimo — l'enfasi sull’individualismo, letica del lavoro, la necessità del governo di interessarsi alla vita della gente, l’esigenza di rinvigorire un principio di moralità pubblica, la diffidenza per la gerarchia — erano divenuti valori fondamentali della società americana. «E la riaffermazione in America della religione civile», disse il politologo John Green, «antica quanto il Mayflower», non propriamente cristiana, ma fortemente derivata dalle credenze e dalla moralità
protestante, soprattutto nell’esigenza di fondare la vita sulla religione. La matrice protestante aveva influito sul modo in cui la religione si era costantemente intrecciata con la vita americana, al punto che anche le altre confessioni religiose pervenute negli Stati Uniti si erano col tempo «americanizzate» e, quindi, in un certo senso, erano state influenzate dal protestantesimo. «I cattolici romani si sono americanizzati, e
le linee di separazione fra cattolici e protestanti si stanno 179
confondendo, concordando gli uni e gli altri su molti valori e temi sociali. Protestanti e cattolici in Minnesota praticano la religione civile in molte aree», osservava l’autrice dell’inchiesta. La quale però precisava che la religione civile americana «appare protestante, sente e agisce da protestante, ma, attenzione, non è protestante. E americana».
L'attenzione perla religione civile tornò a rianimarsi all’inizio del Ventunesimo secolo. Il reverendo Welton Gaddy, presidente dell’organizzazione liberale interconfessionale The Interfaith Alliance, affermava nell’aprile 2000 che «la religione civile americana è una realtà, un fenomeno più culturale e politico che spirituale, ma nondimeno influente nel formare la nostra identità nazionale». Egli spiegava che la religione civile reca un importante contributo se «fornisce valori che possono favorire l’unità fra gruppi di fede diversa, senza compromettere la specifica diversità delle loro rispettive tradizioni religiose», mentre una religione civile che ha come prerequisito «il conformismo e la omogeneità può danneggiare sia la nazione che le sue tradizioni religiose»??. Esempio di religione civile, in senso positivo, fu considerato da vari commentatori il primo discorso inaugurale di Bush. Il commentatore religioso Charles Henderson apprezzò molto il modo in cui Bush aveva evocato Dio senza inflessione confessionale, «esprimendo nel suo discorso inaugurale il meglio di quel che gli studiosi chiamano la ‘religione civile americana’». I principi fondamentali di questa religione civile, precisava Henderson, trascendono le identità confessionali, e sono sufficientemente ampi da includere cristiani, ebrei e musulmani, e milioni di altri cittadini non affiliati ad una religione organizzata. In questo senso, la religione civile americana «ha operato nel corso della nostra storia come fattore unificante, piuttosto che divisivo, perché è stata definita in modo inclusivo così da comprendere tutti coloro che sono marginalizzati, dimenticati o disprezzati». Invocando esplicitamente questo aspetto del «credo nazionale», a proposito del dovere di aiutare chi è rimasto indietro nella vita per compiere la volontà di «un potere più grande di noi, che ci ha 180
creati eguali a sua immagine», Bush aveva espresso al meglio l’ecumenismo della religione civile nel discorso inaugurale, quando aveva parlato dell'Autore della storia americana «che occupa i secoli e l’eternità secondo i suoi propositi»?4. Analogo fu il commento di Barry Hankins, storico dei rapporti fra Stato e Chiesa: «Il discorso del presidente è pieno di allusione alla religione civile americana», scrisse il 24 gennaio 2001, ri-
ferendosi non solo alle metafore religiose usate dal presidente, ma alla sua rappresentazione dell’ America come un nuovo popolo eletto, definito non dal sangue o dall’etnia, ma da un complesso di ideali trascendenti, destinato ad avere un ruolo importante nella storia umana”.
Religione civile: una «nuova nascita» Nonostante queste osservazioni, che mostravano la costante presenza della religione civile nella politica americana, è tuttavia vero che prima dell’11 settembre, come notava nel 2002 l'antropologo Michael Angrosino, «la religione civile americana era diventata qualcosa su cui scherzare in tempi di cinismo politico, associato ad eventi come il Vietnam e il Watergate, nonostantela sua breve rinascita durante le celebrazioni del bicentenario dell’indipendenza»; nei decenni successivi, con una sempre più aspra divisione fra gruppi politici, la religione civile «non era stata un elemento importante della coscienza nazionale», tanto più che le teorie sulla secolarizzazione inevitabile, allora prevalenti fra gli scienziati sociali di derivazione positivista e marxista, prevedevano una progressiva indifferenza per il fenomeno religioso, religione civile compresa. Tuttavia, osservava Angrosino, «può accadere che, in una società
secolare, gente inquieta possa cercare conforto e significato in una religione civile, per gli stessi motivi ed emozioni e combinazioni che inducono la gente nelle società tradizionali a rivolgersi alle religioni in senso classico»?6. E questo era effettivamente accaduto l’11 settembre, quando lo sconvolgimento 181
provocato dall’aggressione terroristica aveva spinto d’impulso gli americani a cercare nella religione e nel patriottismo la forza morale per reagire al trauma del terrore. Lo stato d'animo descritto dallo storico Richard Slotkin, in riferimento alla si-
tuazione americana dopo l’11 settembre, evoca bene la condizione che favorì la rinascita della religione civile: Quando una società soffre un trauma profondo, un evento che
sconvolge le sue idee fondamentali su quanto può e dovrebbe accadere, e mette in dubbio l’autorità dei suoi valori basilari, la sua popolazione si rivolge ai propri miti per orientamento, e invoca l’esperienza del passato, incarnata nei suoi miti, come una via per affrontare la crisi?”,
Nel febbraio 2002 il Pew Forum on Religion & Public Life organizzò un dibattito fra studiosi di religione, teologi ed esponenti di varie religioni sul tema della religione civile dopo 11 settembre, partendo dallo straordinario diffondersi ovunque in America, al grido di God Bless America, di un patriottismo «spesso impregnato di religiosità»?8. Tutto questo, affermava Melissa Rogers, direttore esecutivo del centro, dimostra «ancora una volta, che in tempo di crisi, assistiamo ad un revival
della religione civile» intesa nel senso definito da Bellah, cioè come una «interpretazione della esperienza americana, alla luce di una realtà suprema e universale». E di rinascita della religione civile, come un fenomeno reale che stava riacquistando vitalità e importanza nella politica americana, si parlò sempre più frequentemente negli anni successivi. Come ha ricordato Wilfred M. McClay, storico della cultura americana, prima dell'11 settembre c’era stato «un crescente disincantamento nei confronti della religione civile americana, specialmente come conseguenza della guerra del Vietnam». Al disincantamento nei confronti della religione civile aveva contribuito la «guerra culturale» della destra religiosa contro il presidente Clinton: esibendo un comportamento esteriore religiosamente devoto, mentre in privato agiva in modo moralmente scan182
daloso, il presidente «sembrava una prova provata che la religione civile americana era non solo falsa ma veramente pericolosa». Con le elezioni presidenziali del 2000, che avevano visto una nazione profondamente divisa, e con un presidente di dubbia legittimità, «le prospettive per la religione civile non potevano apparire più tristi». Poi, gli attacchi dell’11 settembre avevano decisivamente invertito questa tendenza. La rinascita della religione civile fu immediatamente evidente nella corale reazione di protesta contro i reverendi fondamentalisti, che avevano visto nell'evento un segno della punizione divina. «È certo sorprendente», osservava McClay, «quanto rapidamente una malaticcia religione civile abbia riacquistato nuova vita, specialmente attraverso una moltitudine di servizi religiosi improvvisati che si sono svolti in ogni parte del paese, con una istintiva mescolanza del religioso e del civile», manifestandosi soprattutto attraverso la presenza di «Old Glory» nelle chiese e nei luoghi di culto??. Come scrisse «The Dallas Morning News», «la bandiera americana ha sostituito la croce come il simbolo più visibile in molte chiese nel paese»0, Era, questa, la più vistosa manifestazione di rinascita della religione civile. Ancora più evidente appariva, secondo molti osservatori, la rinascita della religione civile nella retorica presidenziale dopo 111 settembre e nelle manifestazioni di patriottismo religioso da parte del Congresso. Il discorso pronunciato da Bush al Congresso il 20 settembre fu definito dalla rivista evangelica «Christianity Today» un «emozionante sermone patriottico», «il tipo giusto di religione civile, che ci incita ad essere i cittadini migliori ovunque Dio voglia»! Commentando, nel dicembre 2001, la decisione del Con-
gresso di consentire l’uso della rotonda del Campidoglio per le sue riunioni di preghiera, Robert Benne, direttore del Center for Religion and Society del Roanoke College in Virginia, osservò che la presenza della religione civile mostrava l’inanità degli sforzi di chi voleva bandire i simboli e il linguaggio religioso dallo spazio pubblico: la religione civile esisteva dalla nascita della Repubblica e continuava ad essere presente 183
«in tutti i maggiori eventi della vita civica, emergendo con speciale forza in momenti di crisi nazionale», come dimostra-
va l’inno God Bless America, dove, precisava Benne, il Dio be-
nedicente poteva essere invocato anche dagli americani musulmani, perché la religione civile evitava accuratamente qualsiasi allusione ad elementi specifici della religione giudaica o cristiana: La religione civile americana — spiegava Benne — è il comune denominatore religioso di una nazione religiosa che ha il Primo emendamento. Quando non c’è una chiesa o una religione riconosciuta, e c'è però una grande vitalità religiosa nel paese, la religione civile ne è il risultato inevitabile. Un popolo religioso vuole conferire una dimensione trascendente ai grandi momenti della vita nazionale, e la religione civile è il modo per farlo.
La religione civile, aggiungeva Benne, poteva essere «in-
sieme banale e pericolosa se usata soltanto per dare una lustra religiosa alle ambizioni nazionali. Ma se è uno sforzo serio per collegare l’America alla benedizione e alla guida divina, come fa “God Bless America”, la religione civile può essere nobile e necessaria. E non sparirà»®2. Un altro esempio di rinascita della religione civile «in senso nobile» furono le Olimpiadi invernali, che si tennero a Salt Lake City nel febbraio 2002. Con una solenne e devota cerimonia fu esposta la bandiera americana del Ground Zero, accanto alle bandiere di oltre ottanta nazioni. Ancora una volta, commentò lo «Star Tribune», gli americani avevano «vi-
sto l’espressione di uno dei valori più cari di questa nazione, la sua ‘religione civile»: Dall’11 settembre, gli Stati Uniti hanno assistito ad una rinascita della sensibilità verso la religione civile e delle sue manifestazioni. Noi diamo valore alla cooperazione, alla uguaglianza della giustizia e delle opportunità, al rispetto della diversità, dei simboli e delle idee nazionali. E abbiamo la sensazione che questa nazione sia consacrata da Dio9, 184
La rinascita della religione civile dopo 1’11 settembre è apparsa un fenomeno meno contingente dell’affollamento delle chiese: ancora tre anni dopo, infatti, vi erano segni importanti della sua vitalità. Un consistente flusso di visitatori si recava continuamente in pellegrinaggio a Ground Zero, luogo di intensa esperienza emotiva anche se ogni traccia di rovine era stata rimossa. «E divenuto un tempio, un luogo santo, ed è stato per questo assimilato nella religione civile americana». In questo luogo santo, tuttavia, osservava McClay, la visione più commovente, «il simbolo più potente e più facilmente comprensibile, è la famosa trave a forma di croce che è stata recuperata dalle macerie e innalzata come croce»: Che cosa significa questo oggetto per la gente che lo osserva, molti dei quali, si presume, non sono cristiani e neppure americani? È un pezzo di cattivo gusto nazionalista o un relitto sentimen-
tale? Oppure è la potente testimonianza del valore redentore della sofferenza — e per questo, un segnale che indica il cuore della storia cristiana? Oppure è un simbolo che subordina la storia cristiana alla storia americana, segnandone così il significato cristiano?
Queste domande mettevano in risalto l'ambiguità del simbolo, che compendiava «molto di ciò che vi è di buono, e anche molto di ciò che vi è di pericoloso» nella religione civile. AI di là di questi interrogativi, gli eventi dell’11 settembre, osservava McClay, confermavano quanto già sapevano i migliori studiosi della società, cioè «che l’impulso a creare e vivere in una religione civile è un impulso umano irreprimibile, e questo è vero soprattutto nell’era dello Stato nazionale», che non è solo un'istituzione secolare ma deve essere capace, quando chiama i cittadini a compiere sacrifici oltre se stessi, di fare ricorso anche «a risorse spirituali, a profondi vincoli e onorate memorie del passato, a visioni dell’orientamento della storia» per svolgere in modo appropriato la sua funzione, perché senza tali sentimenti «nessuna nazione può durare a lungo, e ancor meno condurre una lunga e ardua lotta». 185
«Pontifex imperator» Si può dubitare che Bush fosse a conoscenza degli studi sulla religione civile e sulla sua funzione come fattore unificante di una collettività, specialmente in tempi di crisi. E anzi probabile che egli fosse del tutto indifferente a tale fenomeno, saldo nella sua fede evangelica cristiana, convinto che la
sua retorica patriottica fosse coerente con le sue convinzioni religiose. In una intervista a «Christianity Today», il 12 novembre 2001, il sociologo delle religioni Peter Berger disse che Bush «non aveva stabilito una nuova religione civile» ma aveva ampliato il riconoscimento ad altre religioni, come l'Islam e le religioni dell’Asia meridionale e orientale, e per questo era stato straordinario nel «promuovere il pluralismo, specialmente se si considera quel che era accaduto dopo Pearl Harbor ai giapponesi americani». Quale che fosse il personale atteggiamento di Bush verso la religione civile, egli contribuì molto alla sua rinascita dopo 111 settembre, svolgendo la funzione di pontefice massimo della religione americana, con un impegno forse maggiore di qualsiasi altro suo predecessore, utilizzando tutto il corredo dei miti americani, dal mito del popolo eletto e benedetto da Dio, al mito dell'impero virtuoso e del «destino manifesto». Tutti questi miti furono riproposti da Bush con la sua teologia di guerra. Nello stesso tempo, con il suo atteggiamento ecumenico, Bush rinnovò il sincretismo della religione civile, cioè la sua tendenza a combinarsi e convivere con le altre religioni, sotto il segno del Dio generico continuamente evocato e invocato in God Bless America dagli americani, indipendentemente dalla loro personale confessione religiosa. Ma l’aspetto più importante della religione civile, così come veniva riformulata attraverso la teologia di Bush, era una accentuata sacralizzazione dell’ America che incarnava, meglio di qualsiasi altra nazione al mondo, i valori universali della libertà donati da Dio agli uomini. Per questo, secondo Bush, l'America aveva il dovere di diffonderli nel mondo, anche 186
con il ricorso alla guerra preventiva per combattere i suoi nemici. Come osservò Mark Silk, storico delle religioni, il di-
scorso di Bush alla National Cathedral di Washington, due giorni dopo l’attacco terroristico, era una tipica espressione della religione civile$. Riaffermando la sacralità dell’ America come democrazia di Dio, Bush poté legittimare e giustificare moralmente la guerra preventiva contro il regime di Saddam Hussein — anche dopo che si erano rivelate del tutto inconsistenti le giustificazioni fondate sull’esistenza di presunte armi di distruzione di massa in Iraq e i presunti legami del tiranno irakeno con Osama bin Laden — sostenendo che la guerra al terrore era la prosecuzione della missione americana per diffondere nel mondo la libertà che Dio aveva donato non solo agli americani, ma a tutti agli esseri umani. Così facendo, Bush utilizzava i miti tradizionali della religione americana per definire la sua versione di «guerra giusta», con criteri che erano del tutto diversi da quelli della concezione cristiana di «guerra giusta», invocati da protestanti e cattolici per avversare la guerra preventiva contro l'Iraq, giudicandola né legittima né morale. Si ripeteva, così, un dissidio fra na-
zionalismo e cristianesimo, tipico di ogni conflitto bellico quando le ragioni di Cesare si contrappongono alle ragioni di Cristo: ma, nel caso della guerra preventiva, questo dissidio assumeva un aspetto più drammatico, perché il presidente era un cristiano che aveva dichiarato di ispirare la sua politica alla sua fede, e invocava continuamente il nome di Dio per
dare una dimensione morale universale alla nuova dottrina della «guerra al terrore». Questa dottrina, in effetti, ebbe un ruolo importante nella
elaborazione della religione civile di Bush, producendo quel che è stato definito un «militarismo messianico», simbolicamente compendiato nella sua duplice funzione presidenziale di pontefice massimo della religione americana e di comandante in capo della nazione in guerra, pontifex et imperator. È noto che il modello al quale Bush apertamente dichiarava di ispirarsi dopo l’11 settembre, come comandante in capo della 187
nazione in guerra, era Winston Churchill, ma nella storia americana vi erano stati altri presidenti bellicosi col fervore di attuare il destino manifesto e la missione civilizzatrice dell’ America, ai quali Bush avrebbe potuto richiamarsi, perché a lui più affini, come, per esempio, James Polk, che decise la guerra contro il Messico nel 1846 per conquistare la California98, o William McKinley, forse il più simile a Bush fra i presidenti americani per la sua devozione religiosa tradotta in politica: McKinley fu artefice della guerra contro la Spagna nel 1898 e della conquista delle Filippine, dichiarata in nome di Dio e per la gloria della cristianità, dopo aver vegliato più notti in preghiera per avere consiglio e guida dall’Onnipotente®?. Il militarismo messianico fu comunque»un aspetto nuovo della religione civile di Bush, reso evidente anche attraverso il simbolismo dei luoghi scelti dal presidente per pronunciare importanti discorsi legati alla «guerra al terrore»: per esempio, il discorso in cui anticipava la dottrina della guerra preventiva fu pronunciato da Bush il 1° giugno 2002 davanti agli allievi dell'accademia militare di West Point; l'annuncio dell’abbattimento del regime di Saddam Hussein, il 1° maggio 2003, dopo tre mesi di guerra, fu dato da Bush a bordo della portaerei Abraham Lincoln, dove era giunto guidando lui stesso l’aereo: il presidente parlò indossando la divisa di pilota, attorniato da soldati e sullo sfondo uno striscione con la scritta «missione compiuta». In molte altre circostanze pubbliche, il presidente appariva accanto a simboli della potenza militare, come a voler costantemente ricordare agli americani che erano in guerra, che la guerra era senza fine, e che in lui gli americani avevano un capo risoluto, deciso, devoto, e interamente dedito a difendere l'America, armato con
la sua fede in Dio. Il simbolismo militare di Bush era «inequivocabile», osservava «Time» il 5 maggio 2003, prevedendo che da quel momento, fino alle elezioni presidenziali del novembre 2004, Bush avrebbe mescolato immagini militari alla retorica sul taglio delle tasse, per «non consentire alla nazione di dimenticare che siamo in guerra, all’estero e all’in188
terno [...] anche quando parlerà di temi domestici, ci sarà l'ombra dei cannoni alle sue spalle. [...] Fiancheggiato da aerei e cannoni, egli dirà agli elettori che in questo nuovo mondo, con la minaccia del terrore attorno a noi, cambiare [presidente] sarebbe pericoloso»?0. L'importanza del contributo di Bush alla rinascita della religione civile è dimostrata dall’improvvisa intensificazione dell’interesse degli osservatori per la sua religione, proprio in coincidenza con la preparazione della guerra contro l'Iraq. È significativo che, nella nota introduttiva ad un numero speciale su «Bush e Dio», pubblicato il 10 marzo 2003, il diret-
tore di «Newsweek» manifestasse la sua meraviglia, perché la stampa fino ad allora non aveva prestato maggiore attenzione alle credenze religiose del presidente, tanto che sull’argomento il motore di ricerca LexisNexis registrava all’epoca appena ventitré articoli?!. Da quel momento, e fino alla sua rielezione nel 2005, la religione di Bush fu un argomento costante di ogni scritto sul presidente e sulla sua politica, 0ggetto di appassionate apologie e di drastiche condanne, mentre contemporaneamente, e per conseguenza della presidenza Bush, si ampliava in America il dibattito sui rapporti fra religione e politica, nel quale nuovo significato e importanza acquistò la religione civile.
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Il vitello d’oro
Un nazionalismo religioso ed ecumenico Il risveglio della religione civile dopo l'11 settembre ha coinciso con la rinascita del nazionalismo messianico americano. La convergenza di questi fenomeni ha contribuito a rinnovare la riflessione sulla religione americana, associandola alla «strategia neoimperiale»! dell’amministrazione Bush. Gli americani, ha osservato Mixin Pei, direttore di dipartimento al Carnagie Endowement for International Peace, analizzando nel 2003 i paradossi del nazionalismo americano, sono uno dei popoli più nazionalisti del mondo, forse il più nazionalista fra i paesi occidentali, e certamente sono un popolo molto più nazionalista di molti popoli europei. «I sondaggi dimostrano che gli americani mostrano il più alto grado di orgoglio nazionale fra le democrazie occidentali». Nel 2000, il 72 per cento degli americani dichiarava di essere molto orgoglioso della propria nazionalità, rispetto al 49 per cento degli inglesi, al 40 per cento dei francesi e al 39 per cento degli italiani. Eppure, notava Pei, l'America «sinceramente non si considera nazionalista». Per questo, «nonostante l’alto livello di nazionalismo diffuso nella società americana, gli artefici della politica americana hanno notevole difficoltà a comprendere il potere del nazionalismo in altre società»?. L’incomprensione dipende probabilmente dalla diversità del nazionalismo americano rispetto ad altri nazionalismi, specialmente europei. Mentre questi si basano sulla tradizione storica di entità collettive, definite da un’identità etnica proveniente da un remo190
to passato, il nazionalismo americano, sorto dalla guerra di indipendenza e con la nascita degli Stati Uniti, è fondato su un credo ecumenico, cioè su un sistema di valori e di ideali, con-
diviso da una popolazione che si è costituita in Stato indipendente e sovrano non rivendicando una plurisecolare identità etnica o storica, ma un'identità civica e politica, scaturita da un
patto sociale liberamente sottoscritto, che ha trasformato l'identità etnica e culturale dei coloni inglesi in una nuova nazione di cittadini liberi ed eguali, della quale può entrare a far parte, per adesione volontaria, chiunque, da qualsiasi parte del mondo provenga, a qualsiasi etnia o religione appartenga, giuri fedeltà alla sua Costituzione?. Per questo, gli americani non si considerano nazionalisti, parlano di patriottismo più che di nazionalismo per definire la loro ideologia nazionale, e rivendicano nei confronti degli altri nazionalismi una vocazione universale, che deriva dalla universalità del «credo america-
no». Per questo, gli americani si considerarono, fin dalle origini degli Stati Uniti, una nazione di «uomini nuovi» rigenerati in un mondo nuovo, moralmente superiori alle nazioni della vecchia e corrotta Europa, non macchiati dai vizi di egoismo, esclusività e aggressività dei nazionalismi europei. E tuttavia, se il nazionalismo è l'ideologia moderna che afferma il primato della nazione sovrana nel proprio Stato, e la sublima come un'entità perenne, circonfusa di sacralità, alla quale la comunità dei cittadini deve devozione e fedeltà, gli americani non possono non essere definiti nazionalisti, sia pure con proprie peculiarità storiche e culturali, definite come «americanismo». Una di queste peculiarità è la componente religiosa del nazionalismo americano, che affonda le radici nel puritanesimo e ne porta tuttora l'eredità nei suoi miti fondamentali, dal mito del popolo eletto al mito della «nazione innocente» e del «destino manifesto». L'America, osservò nel 1922 lo scrittore
cattolico inglese Gilbert K. Chesterton, è «una nazione con l’anima di una Chiesa», perché «è l’unica nazione nel mondo che è fondata su un credo, esposto con dogmatica, teologica lucidità nella Dichiarazione di indipendenza». IRI
La religiosità di matrice protestante è stata a lungo una componente fondamentale del nazionalismo americano?. Tuttavia, nel corso deltempo, grazie anche all’affermazione del principio della separazione fra Stato e Chiesa, il nazionalismo americano ha acquistato una propria autonoma dimensione religiosa, assumendo il carattere di una religione civile, come è stata definita da Robert N. Bellah6, indipendente dalle religioni tradizionali, perché collega direttamente la nazione americana a Dio
(non definito secondo una specifica confessione religiosa) e conferisce sacralità all'esperienza americana, ai suoi valori e alle sue istituzioni. Alla religione civile americana anche le religioni tradizionali tributano un simbolico ‘attestato di lealtà, quando espongono la «Old Glory» nei luoghi di culto, e i credenti invocano God Bless America e cantano gli inni patriottici. Questo aspetto religioso del nazionalismo americano era stato già messo in luce nel 1955 dal sociologo Will Herberg, docente di studi giudaici, che aveva richiamato l’attenzione sull’esistenza di una «religione civica» che santificava l America, convivendo con le principali religioni bibliche, il protestantesimo, il cattolicesimo e ilgiudaismo, ma sovrastandole come religione nazionale propriamente americana. Herberg citava in proposito un episodio significativo. Nel 1954 fu chiesto a Silone quale era, secondo lui, la data più importante nella storia
universale, e lo scrittore rispose: «il 25 dicembre dell’anno zero»; qualche tempo dopo fu chiesto ad una trentina di eminenti americani di elencare i cento eventi più significativi della storia, al primo posto figurava la scoperta dell’ America nel 1492, mentre la nascita di Cristo era collocata al quattordicesimo posto, accanto al primo volo dei fratelli Wright?. La religione civica americana, che Herberg chiamava variamente «American way of life», «Americanism», «American religion», era fondata su un «pluralismo istituzionale e ideologico» e sulla «coesistenza stabile delle tre comunità religiose equamente legittimate e radicate nella comune religione culturale americana»8, maaveva una forte tentazione a «identificare la causa dell’ America con la causa di Dio»?. Secondo Herberg, l’identificazione 192
fra nazione e religione era quasi «inevitabile in una situazione in cui la religione è spesso considerata un modo di appartenenza americana». La versione più rude di questa identificazione era «il nazionalismo messianico, che considera vocazio-
ne dell’ America esportare in ogni angolo del globo l'American way of life, composta di democrazia e libera impresa», mentre «nelle versioni più miti Dio è visto come il campione dell’ America, che sostiene i propositi americani e appoggia la potenza americana». Dalla «fusione di religione e nazione — aggiungeva Herberg — si passa inavvertitamente allo sfruttamento diretto della religione per scopi economici e politici»!9. Negli anni successivi, la religione americana è diventata più ecumenica, accogliendo nuove religioni, dall’Islam alle religioni orientali, sotto la volta della sua cupola, sovrastata dalla «Old Glory». Il culmine di questo processo è avvenuto dopo l’11 settembre, quando ovunque negli Stati Uniti i credenti di ogni religione si sono uniti in preghiera cantando God Bless America. Il presidente Bush ha partecipato direttamente al risveglio della religione americana dopo l°11 settembre, accentuandone sia l’ecumenismo sia il nazionalismo, celebrando l’univer-
salità e l'eternità dei valori americani: La vita della nostra nazione — ha detto il 20 gennaio 2005 dopo la sua rielezione, nel secondo discorso inaugurale — è sostenuta dalle verità del Sinai, del Sermone della Montagna, delle parole del Corano e delle varie fedi del nostro popolo. Gli Americani camminano avanti di generazione in generazione, riaffermando tutto quel che di vero e di buono li ha preceduti, gli ideali di giustizia e di condotta che sono gli stessi ieri, oggi, e per sempre!!. Nello stesso tempo, Bush, attraverso la sua teologia di
guerra, ha promosso la revisione e l'aggiornamento del mito del «destino manifesto», con una più forte connotazione missionaria, adattandolo alla nuova strategia internazionale della sua amministrazione. Dopo 111 settembre, è avvenuto un 193
processo di reciproca influenza fra la religione americana e la politica estera degli Stati Uniti: da una parte, la religione americana è valsa a fornire una legittimazione morale alla guerra preventiva, in nome della vocazione missionaria della democrazia di Dio; dall’altra, la politica estera dell’amministrazione Bush ha influito sulla trasformazione della religione americana, sviluppando, al suo interno, una tendenza militarista
e missionaria, che ha rafforzato l’alleanza fra destra religiosa, Partito repubblicano e neoconservatori, uniti nell’affermare il ripristino dei valori tradizionali, il superamento del «muro di separazione» fra lo Stato e la Chiesa, ilprimato incontrastato dell’America nel mondo del Ventunesimo secolo.
Teologia imperiale Bush e i dirigenti della sua amministrazione hanno sempre negato che l’America sia una potenza imperiale, mentre i neoconservatori che hanno ispirato la sua politica estera non hanno avuto remore a parlare di un’ America imperiale. «Se la gente dice che siamo una potenza imperiale, va benissimo»!?, ha affermato William Kristol, promotore nel 1996 del gruppo neoconservatore Project for a New American Century. I neo-
conservatori non solo non esitano a parlare di impero americano, ma vogliono che l America sia consapevole di essere una potenza imperiale e agisca di conseguenza, traendo massimo vantaggio dalla situazione di predominio e di egemonia in cui si è trovata dopo la fine dell’impero sovietico, per impedire con qualsiasi mezzo l’ascesa di una nuova potenza mondiale o di una coalizione di potenze, che possa rivaleggiare con gli Stati Uniti. Ciò, per i neoconservatori e per il presidente, non è imperialismo, ma è missione civilizzatrice per diffondere nel mondo i valori della democrazia di Dio e il libero mercato. Come gli imperialisti europei del passato, ha osservato lo storico Anatol Lieven, molti americani ritengono sinceramente che gli interessi e le ambizioni dell'America coincidano con il bene, la 194
civiltà, il progresso e gli interessi di tutta l’umanità!. La pensano invece diversamente le popolazioni dei paesi ostili agli Stati Uniti e anche la maggioranza delle popolazioni di molti paesi alleati, che nella politica unilaterale e militarista della presidenza Bush vedono la manifestazione di un «impero arrogante»!4, accompagnata dalla pretesa di essere moralmente legittimato alla guerra preventiva dalla missione provvidenziale affidata alla nazione americana, che agisce nel mondo a beneficio dell’umanità. «Chi può negare che l’America sia una potenza imperiale?» domandava nel 2002 James Chace, studioso di relazioni internazionali, evocando l’analoga domanda fatta oltre un decennio prima da Arthur Schlesinger Jr.!. Egli riteneva del tutto appropriato definire imperiale una potenza mondiale come l America, che reagiva ad un attacco terroristico dichiarando una guerra preventiva e unilaterale contro i regimi di altri paesi ritenuti incarnazione del male; che dislocava il suo apparato militare in gran parte dei paesi del mondo, e spendeva in armamenti più degli altri quindici paesi più industrializzati messi insieme, una somma pari al 40 per cento delle spese militari del resto del mondo, mentre, nello stesso tempo, la sua attività
produttiva era la forza trainante principale dell'economia mondiale. La logica imperiale, che ha ispirato e giustificato l’espansione americana nel passato, e ha continuato a giustificarla dopo l’attacco terroristico, è l'aspirazione alla sicurezza assoluta, accompagnata dal «complesso messianico» di una nazione che si considera moralmente superiore alle altre perché patrimonio vivente di bontà e di virtù esemplari, e modello per tutta l’umanità!6. Fra la destra religiosa vi è anche una tendenza apocalittica, che interpreta gli avvenimenti attuali secondo visioni millenaristiche. Oltre il 40 per cento degli americani crede che le profezie bibliche descrivano in anticipo l'effettivo svolgimento di eventi storici; milioni di americani hanno interpretato gli eventi dopol’11 settembre attraverso credenze millenaristiche. Come ha ricordato Paul Boyer, già durante la prima guerra del 105
Golfo Saddam Hussein era stato considerato dagli apocalittici americani come l’Anticristo, e l’immagine apocalittica del tirannoiracheno è stata riproposta durante la seconda guerra del Golfo, vista anch’essa come un’ulteriore conferma dell’avve-
rarsi delle profezie bibliche!?. Gli apocalittici della destra religiosa si sono sentiti in sintonia con la politica estera del presidente Bush perché sono fautori della potenza militare americana (così come sono sostenitori, al pari di Bush, della pena di morte e della libertà del porto d’armi), considerano le Nazioni Unite uno strumento satanico per imporre un ordine mondia-
le antiamericano, e sostengono lo Stato di Israele e gli insediamenti territoriali ebraici nei territori palestinesi, perché, secondo la profezia apocalittica, il ritorno degli ebrei in possesso della Terra Santa anticipa l'avvento del regno di Cristo (e la loro conversione al cristianesimo), e soprattutto perché credono nella missione universale della democrazia americana come nazione eletta da Dio. Per questi motivi, la teologia di guerra di Bush ha ricevuto il consenso di larga parte dei cristiani conservatori, degli evangelici tradizionalisti, dei fondamentalisti. Dopo l’11 settembre, ha scritto la rivista evangelica «Christianity Today», «la visione di Bush in politica estera è divenuta coerente e profondamente legata alle sue convinzioni cristiane», che coincidono con le convinzioni dei credenti tradizionalisti protestanti, cattolici ed ebrei. Nell’affermazione dell’egemonia dell’ America nel mondo, gli apocalittici della destra cristiana vedono il preludio dell’avvento del regno di Dio in terra!8. Anche se è improbabile che simili visioni apocalittiche abbiano influito sulle scelte politiche del presidente Bush, secondo la rivista liberale «The American Prospect» il millenarismo apocalittico non è estraneo ai membri dell’amministrazione repubblicana, «una coalizione di millenaristi secolari e religiosi», che concordano nell’avversare comuni nemici dell’ America, anche se con motivi diversi: Molti fondamentalisti coinvolti nella politica repubblicana, considerano letteralmente sataniche le Nazioni Unite e gli altri stru196
menti del «governo mondiale», mentre i neoconservatori, che forniscono un orientamento intellettuale alla amministrazione Bush, e sono quasi tutti di mentalità laica, considerano le Nazioni Unite, l'Unione Europea, la Corte criminale internazionale e altre simili
istituzioni come ostacoli all'emergere di un’indiscussa egemonia americana. Per i neoconservatori l’impero americano non è il regno
di Dio, ma l’impero come lo vogliono loro!9.
Quali che ne siano i motivi, fondamentalisti e neoconser-
vatori sono convinti che l'America debba usare la sua potenza per imporre la sua egemonia nel mondo, così come ne sono convinti i conservatori evangelici che credono che l America sia una nazione eletta. Questa elezione, ha affermato il reverendo Richard Cizik, vicepresidente della National Association of Evangelicals, «non è un privilegio, ma un obbligo. Nessun altro ha la potenza morale e la statura militare degli Stati Uniti nel mondo attuale»?0,
Il nostro Dio non è Marte Anche se milioni di americani cristiani hanno approvato la politica bellica del presidente Bush, molti sacerdoti e teologi cristiani hanno manifestato la loro disapprovazione. Come accadde dopo l’11 settembre, anche con la guerra all'Iraq le voci di Dio furono molte, diverse e contrastanti. In un dibattito
televisivo alla Cnn sulla guerra in Iraq, in cui si discusse sul tema: «Cosa ne direbbe Gesù?», emerse un netto contrasto fra i
cattolici e i protestanti che si opponevano alla guerra, da una parte, e dall’altra gli evangelici che la sostenevano, anche se gli uni e gli altri difendevano le loro posizioni in nome dell’insegnamento cristiano, gli uni citando il Discorso della Montagna per esaltare la pace, gli altri citando i riferimenti evangelici all’uso della spada per giustificare la guerra?!.!. «Come cristiani dobbiamo pregare per i nostri nemici e non cercare una vendetta personale», affermò Richard Land, eminente esponente
della Southern Baptist Convention, ma, aggiungeva, «per 197
quanto triste, il ricorso al conflitto armato è il prezzo che gli esseri umani devono pagare periodicamente per il diritto di vivere in un universo morale»?2. La Southern Baptist Convention fu la sola fra le Chiese protestanti ad approvare la guerra all'Iraq, mentre tutte le altre Chiese, compresa la cattolica,
condannarono la guerra preventiva giudicandola in contrasto con icriteri della «guerra giusta», secondo la dottrina cristiana di sant'Agostino e san Tommaso, che considera la guerra solo «l’ultima risorsa» nella risoluzione dei conflitti??. I principali esponenti della Chiesa metodista, cui appartenevano il presidente e il vicepresidente degli Stati Uniti, pubblicarono il 5 aprile 2003 «un’epistola profetica» per «esortare il fratello George W. Bush al pentimento»?4. Ma il presidente non prestò ascolto alle loro voci, e rifiutò persino di ricevere una delegazione delle Chiese contrarie alla guerra che «volevano esprimergli la loro ansietà», come riferiva «The New York Times» il 10 marzo 200375. L’unico esponente religioso che Bush accettò di ricevere fu il messo speciale di Giovanni Paolo II, il cardinale Pio Laghi, che gli consegnò un messaggio del papa contro la guerra?5, che non ebbe alcun effetto. Come ha osservato Sébastian Fath, storico delle religioni, nell’ America di Bush «le
chiese predicano nel deserto»??. Fra dall'epoca della guerra nel Vietnam che le Chiese americane non mostravano un così deciso e quasi unanime at-
teggiamento contrario alla guerra. Subito dopo l’11 settembre, furono numerosi gli alti prelati della Chiesa cattolica, i ministri protestanti, teologi e intellettuali credenti, che manifestarono la loro avversione al ricorso alla guerra come risposta al terrorismo. Una dichiarazione ecumenica, sottoscritta da quasi quattromila cristiani, ebrei e musulmani, e resa pubblica il 14 settembre 2001, pur approvando la punizione dei colpevoli dell’aggressione terroristica, invocava la rinuncia ad ogni proposito di ritorsione violenta: «Non dobbiamo permettere al terrore di indurci a non essere il popolo che Dio vuole che siamo»?8. L'opposizione più decisa venne dai cristiani pacifisti, come Stanley Hauerwas, che la rivista 198
«Time» aveva nominato nel 2001 «teologo dell’anno». In polemica con la rivista «First Things», diretta dal reverendo e teologo cattolico Richard John Neuhaus, il quale approvava la guerra all’Iraq, Hauerwas sosteneva che non si poteva essere cristiani senza essere pacifisti??. La fede in Cristo, sostenevano teologi cattolici e protestanti, non era mai compatibile con la violenza né poteva ammettere l’uso della violenza per reagire alla violenza, perché in tal modo non si sarebbe mai posto fine alla spirale dell’odio, mentre il fondamento del cristianesimo era l’amore del prossimo e il perdono. Altri condannavano la retorica religiosa della guerra contro l’«asse del male» per «liberare il mondo dal male» perché proponeva una visione bellicosa e manichea, speculare alla visione dei terroristi islamici. «Una buona ragione perché la guerra dovrebbe essere l’ultima risorsa è che la guerra spinge tutti agli estremi», osservò la rivista «Theology Today»: Se ci impegniamo in una «guerra contro il terrore», contro forze diaboliche, allora nessun’arma di distruzione di massa al mondo
riuscirà mai a vincerle, sebbene i peggiori demoni della nostra natura possono un giorno comandarle, perché secondo la dottrina della chiesa, la vittoria in quella guerra spetta solo a Gesù Cristo30.
Ai cristiani che sostenevano la guerra in nome di Gesù cantando God Bless America, Donald B. Kraybill, docente di studi anabattisti, obiettava che «il Dio rivelato da Gesù è di una specie sconosciuta»: È un Dio che non combatte. Molti dèi godono per conquiste e vittorie militari, mentre questo è un Dio che soffre e muore per sua volontà. È un Dio il quale sostiene che il male può essere vinto dal bene. Non è un dio di carri e di spade, ma un Dio di stalle e di asini, che spontaneamente soffre e muore sulla croce. Sofferenza e perdono sono la sua risposta al male?!.
Rabbia e desiderio di vendetta erano sentimenti umani,
reazioni comprensibili di fronte alla disumanità della violen199
za, ma proprio per questo, osservavano i teologi contrari alla guerra, il cristiano doveva saper reagire facendo prevalere l’insegnamento di Cristo sull’istinto naturale. L’11 settembre, affermò Donald W. Shriver, presidente dell’Union Theological Seminary di New York, era «una prova per mostrare la capacità degli americani cristiani di esprimere un giudizio morale senza istinto di vendetta, un’empatia per i nostri nemici senza simpatia per i loro crimini, e la speranza che alla fine noi possiamo trovare il modo di riconciliarci con loro», attraverso il perdono?2. Altri esponenti religiosi criticarono direttamente la teologia di guerra del presidente Bush e il ricorso alla retorica religiosa per legittimare la sua politica. Non aveva alcun senso dichiarare che Dio era nostro alleato nella guerra contro il terrore, osservò Andrew M. Greeley, sa-
cerdote e sociologo, alludendo all’affermazione del presidente, che Dio non era neutrale: Voi potete creare un Dio che vi conduce in battaglia, il Dio che benedice l’America su richiesta. Ma quando voi ponete Dio nell’uniforme americana, scoprirete che lo avete creato a vostra immagine e somiglianza, e che questo Dio non è affatto Dio, ma un idolo blasfemo. Il vero Dio è un mistero. Se non fosse un mistero, non
sarebbe Dio. Perciò non possiamo adattarlo alle nostre categorie, ai nostri piani, ai nostri programmi, alle nostre ideologie, alle nostre guerre vendicative. Dio non è il dio romano Marte. Egli non è il Dio della guerra??.
Bush e Dio Durante la guerra in Iraq, e ancora durante la campagna elettorale del 2004, la religione del presidente divenne nuovamente argomento di dibattito. Al tema «Bush e Dio» furono dedicati numerosi articoli e inchieste televisive, con punti di vista molto contrastanti?4. Bersaglio principale di molti critici era la mescolanza di nazionalismo, militarismo e messiani200
smo nella retorica presidenziale per giustificare una guerra che, secondo loro, per obiettivo aveva solo interessi strategi-
ci ed energetici. Il presidente, come altri suoi predecessori, non esitava «ad usare un linguaggio teologico per giustificare l’impero», sosteneva Chalmers Johnson, autore di un libro sui costi e le conseguenze dell’impero americano’. Per Lee Quinby, professore di studi americani, la retorica di Bush consisteva in una «santa trinità di militarismo, mascolinismo
e zelo messianico» e seguiva «la logica del pensiero apocalittico, che ha una base religiosa, ma è stato secolarizzato in sti-
le militaristico». Secondo Chip Berlett, esperto di gruppi militanti nella destra cristiana, Bush era molto vicino al «pensiero apocalittico dei cristiani militanti evangelici» perché sembrava «condividere la visione di un mondo dove è in corso una gigantesca lotta fra bene e male che culminerà in uno scontro finale. Gente con questa concezione spesso corre ri-
schi avventati e pericolosi perché crede di eseguire la volontà di Dio». Invece Frederick Clarkson, studioso della destra ra-
dicale, sosteneva che il presidente usava un simile linguaggio solo per scopi politici, per rivolgersi alla base dei suoi attivisti che credono di vivere alla vigilia della biblica «fine dei tempi»}5. Queste affermazioni mettevano in dubbio la sincerità del-
le convinzioni religiose di Bush, e inducevano a considerare il suo continuo parlare di Dio e parafrasare le Sacre Scritture, un mero espediente politico per legittimare la sua azione. Per molti suoi detrattori, sia negli Stati Uniti che in Europa, Bush non è un sincero credente, ma un opportunista che ammanta di retorica religiosa una politica cinica; per altri, è un bigotto scarsamente dotato di intelligenza, prigioniero della destra religiosa e fondamentalista, manovrato dai neoconservatori. Fath ritiene che la fede di Bush sia sincera, ma che non
influisca molto sulla sua politica, perché il presidente è «un predatore politico avvezzo ai media», che agisce ispirandosi al pragmatismo piuttosto che all’evangelismo cristiano professato e ostentato?”. Secondo Federico Rampini, corrispon201
dente dagli Stati Uniti, Bush «non né un mistico né un invasato, ma si è convinto che la religione ‘funziona’, e tanto gli basta per restargli fedele»?8. Secondo Christopher Hitchens, invece, «il presidente non è né un fanatico né una persona che usa la retorica religiosa solo per cinica tattica. Egli considera la sua religione come una conferma o un incoraggiamento. Non pensa di essere un profeta. Preferisce essere fatalista e dire che tutto è nelle mani di Dio»??. Per Bill Keller, edito-
rialista di «The New York Times», Bush non è un religioso zelota, un fondamentalista o un opportunista, ma un crein sé e conforto per dente che trae dalla fede religiosa fiducia la sua condotta, anche se è difficile poter valutare quanto e come la sua religione influisca sulla sua politica?0. Fra i critici del presidente, durante la guera in Irag, prevalse la convinzione che la religiosità di Bush fosse sincera, ma proprio per questo, molti la consideravano politicamente pericolosa, perché gli infonde «l’accecante certezza» che le sue scelte siano in sintonia con la volontà di Dio e con la missione che la provvidenza ha affidato al popolo americano#!. Secondo Ron Suskind, autore di un libro sulla Casa Bianca di Bush, la convinzione di essere sempre, istintivamente, nel
giusto e dalla parte di Dio, rendeva il presidente impermeabile a qualsiasi dubbio, insofferente per qualsiasi critica, ostile verso il dissenso. Carl Mirra, docente di studi americani, non biasimava il presidente per aver ridato vitalità al mito del popolo eletto, perché così facendo si è comportato come «un genitore che assicura i propri figli che noi prevarremo perché Dio ci protegge e ci favorisce»; invece quel che è inquietante, in Bush, secondo Mirra, è la personale convinzione che la
guerra al terrore è «un segno della sua missione e del destino della nazione», e che lui stesso è «come un moderno Mosè,
gravato dal compito di guidare alla liberazione i popoli oppressi». Il reverendo presbiteriano Fritz Ritsch ha definito la retorica di Bush «una forma fanatica di nazionalismo battezzato con linguaggio cristiano». Altrettanto severi sono i
sostenitori della separazione fra Stato e Chiesa, nei confron202
ti della retorica religiosa del presidente, oltre che nei confronti della sua legislazione a favore del finanziamento federale per le organizzazioni religiose che svolgevano attività assistenziale. Spesse volte, faceva osservare nel 2003 il reverendo Welton Gaddy, presidente della organizzazione liberale Interfaith Alliance, Bush pareva «servire la nazione come capo religioso piuttosto che come capo politico»: Il presidente degli Stati Uniti è il capo politico della nazione non il capo religioso. Così come la religione non può essere un requisito per nessun candidato agli uffici pubblici, la religione non dovrebbe essere uno strumento per nessun capo politico in un ufficio pubblico. In nessun modo il presidente degli Stati Uniti dovrebbe politicizzare la religione o estraniare cittadini di altre religioni, o senza religione, usando il linguaggio di una particolare tradizione religiosa”.
L’uso del linguaggio religioso da parte del presidente «per rafforzare il suo corrente attacco contro il muro di separazione fra chiesa e stato è inappropriato, sconcertante e pericoloso»,
affermava Barry W. Lynn, direttore della Americans United for Separation of Church and State. Lynn definiva la retorica religiosa di Bush una «religione incivile» perché tendeva a far credere ai suoi sostenitori della destra cristiana di essere un inviato da Dio per guidare la nazione??. In effetti, molti cristiani conservatori vedevano in Bush l’inviato della provvidenza, e per questo approvavano la sua politica bellicosa, nonostante l’evidente contraddizione con l'insegnamento di Gesù: L’attuale popolarità di Bush — notava lo storico della religione Randall Balmer durante la guerra all'Iraq — dimostra che, malgrado tutta la retorica sull’ America come nazione cristiana, noi ameri-
cani, evangelici inclusi, abbiamo poca tolleranza per una politica estera basata sui principi del Nuovo Testamento*8.
Nei rapporti fra Bush e Dio, osservava il pastore e teologo Martin Marty, il problema «non è la sincerità di Bush ma la sua 203
evidente convinzione di fare la volontà di Dio»4?. Che il presidente invochi l’Onnipotente, aggiungeva Kenneth L. Woodward, non sorprende, ma «il pericolo di invocare Dio per scopi politici o militari consiste nel presumere che egli sia dalla nostra parte»? George McGovern, un ex senatore che era stato candidato democratico alla presidenza nelle elezioni del 1972, ironizzava sulla pretesa di Bush di agire con il consenso
divino: «se Dio lo ha guidato nell’invasione dell'Iraq, Egli ha mandato un messaggio differente al Papa, alla Conferenza dei vescovi cattolici, al Consiglio nazionale delle chiese protestanti e a molti eminenti rabbini», perché tutti costoro «credono che l'invasione e il bombardamento dell’Iraq siano contro la volontà di Dio»: Io certo non vedo Dio al lavoro nei massacri e nelle distruzioni in corso in Iraq o nei piani di guerra che si stanno sviluppando per nuove invasioni americane in altri paesi. C'è la mano del Diavolo? Forse. Ma come posso pensare che un metodista, con una buona moglie metodista, sia guidato dal Diavolo?3!
Non faceva ironia sulla religione di Bush il filosofo laico Peter Singer, che anzi riteneva importante prendere sul serio le convinzioni religiose del presidente, proprio perché, come scriveva nel 2004, Bush «non è soltanto il presidente dell America, ma è anche il più eminente dei suoi moralisti»?2. Singer rimproverava a Bush di infrangere il principio della separazione fra Stato e Chiesa, usando la funzione presidenziale in modo ideologico e partigiano, per favorire la destra cristiana e consolidare il potere del Partito repubblicano, attuando una politica in contrasto con i principi cristiani professati??. Dal pulpito presidenziale, Bush parlava di morale e non solo di politica, esprimeva il suo giudizio su questioni etiche e religiose, discuteva di Dio e della fede con i dirigenti degli Stati stranieri, ripeteva continuamente che la sua agenda politica era ispirata dalla sua fede religiosa e da una chiara consapevolezza della distinzione fra il bene e il male: pertan204
to, osservava il filosofo, era del tutto legittimo valutare l’azio-
ne del presidente secondo i principi religiosi ed etici da lui professati. E dopo un esame della sua politica interna ed estera, Singer giungeva alla conclusione che tale politica, giudicata alla luce dei principi cristiani, era «un clamoroso fallimento»?4,
Alle stesse conclusioni giungeva l’anno successivo il reverendo Jim Wallis, uno dei principali esponenti dell’evangelismo protestante liberale, forse il principale antagonista del presidente Bush in campo religioso. Ministro della Chiesa battista, predicatore, docente, giornalista, scrittore, fondato-
re dell’organizzazione Sojourners, impegnata nel promuovere la giustizia sociale, il rinnovamento spirituale e la pace nel mondo, Wallis pratica, e non predica soltanto, le sue convin-
zioni religiose con l’impegno civile: ha vissuto in quartieri poveri e violenti; è un promotore di iniziative per combattere la povertà e le disuguaglianze sociali, e in trent'anni di battaglie civili è stato più di una ventina di volte in prigione. La sua critica alla politica interna ed estera dell’amministrazione Bush, esposta nel volume God's Politics, pubblicato all’inizio del 2005”, ha riscosso un largo consenso, se consideriamo il successo del libro che, benché grosso e prolisso, è stato per molte settimane nella lista dei libri più venduti del «New York Times», mentre nello stesso periodo l’autore partecipava a numerosi e affollati incontri con i lettori in ogni parte degli Stati Uniti. Per Wallis, la politica interna ed estera di Bush era l'opposto di un’autentica «politica di Dio», che deve essere volta a sanare le ingiustizie sociali, aiutare i poveri, proteggere l’ambiente, promuovere le relazioni internazionali per realizzare la pace evitando il ricorso alla guerra, mentre la politica di Bush, osservava Wallis, giovava principalmente ai ricchi, accresceva il numero dei poveri, contribuiva alla devastazione dell'ambiente, comprometteva la ricerca della pace e si era avventurata in una guerra preventiva dall’esito imprevedibile isolando l’America in un mondo sempre più ostile, dove persino gli alleati tradizionali si erano allontanati. 205
Wallis giudicava la legittimazione religiosa della nuova politica imperiale l’aspetto più pericoloso della religione di Bush, proprio perché il presidente era convinto di essere confortato nelle sue scelte dalla fede in Dio. Wallis non dubitava della sincerità religiosa del presidente, ma considerava la sua teologia una «cattiva teologia», perché, attribuendo all'America il compito divino di liberare il mondo dal male, confondeva la nazione, la chiesa e Dio, e conduceva ad azioni che erano in netto contrasto con la teologia cristiana. Fra le conseguen-
ze peggiori della teologia imperiale di Bush, secondo Wallis, non c’era solo la guerra preventiva, ma anche le torture inflitte da soldati americani a prigionieri iracheni nelle carceri di Abu Ghraib, rivelate nel 2004 con la pùbblicazione di foto che mostravano le sadiche scene. La pratica della tortura da parte dei militari americani durante la guerra in Iraq, osservava Wallis, poneva serie questioni teologiche, specialmente «quando il comandante in capo di questa guerra parla spesso della sua fede cristiana». La teologia cristiana, infatti, insegna
che «la brutalità è la prevedibile conseguenza del dominio, il risultato inevitabile dell’impero, componente costante del ciclo di violenza». Il caso di Abu Ghraib chiamava direttamente in causa la responsabilità del presidente, perché, scriveva Wallis, quando la Casa Bianca promulga «una teologia ufficiale dell'impero virtuoso, in cui ‘loro’ sono il male e ‘noi’ siamo il bene», contribuisce a «creare un'atmosfera che ren-
de più probabile l'abuso». La teologia imperiale ha generato una «teologia della tortura»?6. Ciò rimetteva in discussione la natura e la funzione della religione civile americana.
Un'arma a doppio taglio La matrice religiosa del nazionalismo americano, rivendicata da Bush, deriva dalla fusione del cristianesimo col patriottismo, che è tuttora largamente presente nella cultura politica degli Stati Uniti, in varie gradazioni, sia di destra che di 206
sinistra. Altrettanto importante è stata l’esperienza del popolo americano, e la sua formazione in nazione, per l’elaborazione di una teologia con peculiari caratteristiche americane??. Questa duplice caratteristica della simbiosi fra religione e politica negli Stati Uniti — che può essere sintetizzata con la formula adoperata nel 1937 dal teologo H. Richard Niebuhr, «il regno di Dio in America»?8 — aiuta a comprendere il rinnovato interesse, in campo pubblicistico e accademico, per la religione civile dopo l'11 settembre. La sua esistenza è oggi generalmente riconosciuta, sia come fenomeno religioso, tro-
vando posto nei manuali e nelle enciclopedie dedicate alla religione negli Stati Uniti??, sia come aspetto importante della politica americana, anche prima dell’11 settembre®0. Gli americani di religione cristiana (per restare nell’ambito della fede religiosa condivisa dalla grande maggioranza della popolazione e dal presidente degli Stati Uniti) mostrano, tuttavia, un atteggiamento ambivalente nei confronti della religione civile. Alcuni l’accettano perché la intendono come un patriottismo ispirato dal cristianesimo, utile per coltivare il senso del bene collettivo, e pertanto hanno accolto favorevolmente l’effervescenza di sentimento nazionale dopo l 11 settembre, perché ha contribuito a ravvivare l’unione fra religione e politica, simbolicamente rappresentata dalla diffusa presenza di «Old Glory» nelle chiese e nelle funzioni religiose. «E tempo di ricollocare la bandiera americana nelle chiese americane», aveva esortato la rivista «Christianity Today» dopo l’attacco terroristico. Dalle chiese, ricordava la rivista, la bandiera era stata rimossa, in senso sia letterale che metaforico, dopo il
Vietnam e il Watergate, per protestare nei confronti di un pessimo uso della religione civile da parte dei governanti: ma dopo 1’°11 settembre la rivista credeva «giunto il momento per le chiese di manifestare nuovamente il loro impegno nei confronti della nazione e dei suoi più alti ideali»: ciò significa, aggiungeva la rivista, «che le chiese americane non devono esitare a celebrare i nostri valori politici» mostrando nei sermoni e nelle lezioni domenicali «la connessione fra la libertà teo207
logica e la libertà politica», cantando «l’inno che invoca la benedizione di Dio sulla nostra nazione», e rendendo «onore a
quanti prestano servizio nelle forze armate. [...] L’era del cinismo e della disperazione riguardo l'esperimento americano è finita. Noi dobbiamo ancora una volta piantare la ‘bandiera’, la ricerca della nostra nazione a conseguire la libertà e la
giustizia per tutti, nel centro della vita e della missione delle nostre chiese»61. Commentando il discorso di Bush alla nazione del 20 settembre 2001, la rivista aveva affermato che «la re-
ligione civile non è una minaccia, ai massimi livelli della vita nazionale», perché il presidente aveva esposto i suoi argomenti con un linguaggio non religioso. Ma alcuni lettori avevano contestato l'affermazione che la religione civile non fosse un pericolo, obiettando che la rappresentazione della guerra al terrore come una guerra al male era stata espressa dal presidente «attraverso temi e simboli comuni alla maggior parte delle religioni», identificando «i temi positivi con i simboli e i valori americani per legittimare le azioni del governo»®?. In effetti, il risveglio della religione civile dopo 111 settembre, specialmente nella nuova versione proposta dalla teologia di guerra del presidente Bush, ha posto seri problemi teologici e morali, oltre che politici, alla coscienza religiosa degli americani cristiani che hanno deplorato il continuo appello di Bush e di molti membri della sua amministrazione alla loro religiosità per legittimare la loro politica, rimproverandoli di trasformare in questo modo una religione universale di amore e di pace in una religione nazionale per giustificare azioni di guerra, e hanno anche manifestato un’esplicita avversione per il fenomeno della religione civile, giudicandola incompatibile con il cristianesimo. Quest'ultimo atteggiamento, tuttavia, non è stato provocato soltanto dalla politica del presidente Bush. Infatti, diffidenza e ostilità nei confronti della religione civile si sono manifestate fin da quando questo termine è stato adoperato per definire il peculiare fenomeno americano di intreccio fra religione e politica, da cui è scaturita, nel corso della storia degli Stati Uniti, la propen208
sione a conferire un’aura di sacralità alla nazione americana,
alle sue istituzioni, ai suoi simboli e alla sua politica, attraverso i miti del popolo prescelto e benedetto da Dio. Nel 1966, il senatore democratico J. William Fulbright, presidente del comitato del Senato per la politica estera, contrario alla guerra nel Vietnam, pubblicò un libro, The Arrogance of Power, nel quale metteva in guardia la «grande nazione» americana dal lasciarsi sedurre dal mito della missione e dal senso di onnipotenza, fino a credere che «la potenza sia un segno del favore di Dio», la prova che Dio ha conferito agli Stati Uniti «una speciale responsabilità verso le altre nazioni: di renderle più ricche, più felici, più sagge, cioè di rifarle sul modello della propria luminosa immagine, confondendo così la potenza con la virtù, fino a considerarsi onnipotente». Posseduta dall’infatuazione per «un esagerato senso di potenza e un immaginario senso di missione», una grande nazione «si convince facilmente di avere i mezzi e il dovere di compiere l’opera di Dio»: ma è proprio questo tipo di infatuazione che genera una politica imperiale arrogante e disastrosa, osservava il senatore, evocando gli esempi dei passati imperi, dall’era antica fino a Hitler®4. Più espliciti ammonimenti contro la sacralizzazione dell'America furono ripetuti nel corso del dibattito sulla religione civile, specialmente nei primi anni Settanta, durante la presidenza Nixon, il quale, come abbiamo visto, aveva dato
un forte impulso alla celebrazione della religione americana, considerata da molti suoi avversari null’altro che un espediente politico o una forma di idolatria nazionalista. Lo stesso Bellah dovette difendersi dall'accusa di promuovere un culto idolatrico della nazione: secondo la sua concezione, ri-
badiva nel 1970, «la religione civile non è da intendersi come una forma di auto-adorazione della nazione, ma come su-
bordinazione della nazione a principi etici che la trascendono e di fronte ai quali essa deve essere giudicata»®?. Poiché la religione civile, sosteneva il sociologo, è un fatto inevitabile,
perché ogni nazione e ogni popolo perviene ad una qualche 209
forma religiosa di auto-rappresentazione, tanto vale prendere atto della sua esistenza e cercare di trarre dalla stessa religione civile i motivi critici per prevenire il pericolo di trasformare la nazione in un idolo. «La religione civile non prescrive il culto della nazione americana ed esplicitamente dichiara che l'America non è al posto di Dio, ma la tendenza a deificare la nazione naturalmente persiste, nonostante questo divieto», scriveva nel 1974 il teologo cattolico Michael Novak66. La religione civile, osservava il teologo protestante Martin Marty, può avere effetti positivi o negativi, secondo che svolga una funzione «profetica», cioè di critica morale nei confronti della nazione, quando devia dai suoi principi e dai suoi doveri etici, esortandola a correggersi e a migliorarsi, oppure svolga una funzione «sacerdotale» di esaltazione della nazione, glorificandola come un modello di innocenza, di virtù e di rettitudine per l'umanità intera”. Altri studiosi hanno considerato la religione civile una forma di legittimazione della democrazia americana, che si presenta in versioni differenti, secondo gli orientamenti politici: il sociologo Robert Wuthnow ha distinto fra una religione civile «liberale» e una religione civile «conservatrice»8. Altri studiosi hanno considerato la religione civile un’arma a doppio taglio, che può essere giovevole o dannosa, a seconda delle cause
che promuove o sostiene. Infatti, nel corso della storia degli Stati Uniti, la religione civile è stata interpretata in modo diverso per sostenere cause opposte: difendere la schiavitù o chiederne l’abolizione, promuovere i diritti civili o negarli, legittimare la guerra o condannarla, sostenere la separazione fra Chiesta e Stato o incoraggiare la loro collaborazione, glorificare la nazione americana o ammonirla, essere tollerante
ed ecumenica o intollerante ed esclusiva. La più tragica esperienza collettiva vissuta dalla nazione americana, la Guerra
civile di secessione, era stata combattuta da cittadini degli Stati Uniti che leggevano la stessa Bibbia, ma la interpretavano in modo differente, e in modo differente concepivano e praticavano la religione civile®?. 210
In un dibattito organizzato nel febbraio 2002 dal Pew Forum on Religion & Public Life, proprio sul risveglio della religione civile, i partecipanti di fede cristiana riproposero, con differenti punti di vista, argomenti favorevoli o contrari già noti, mentre la novità importante furono le opinioni dei partecipanti di religioni non cristiane”, Per questi ultimi, la religione civile costituiva un problema inquietante, sia per la matrice cristiana sia per la tendenza a incoraggiare un ecumeni-
smo religioso, che portava a diluire, come disse uno dei partecipanti di fede islamica, il proprio specifico credo religioso in una generica religiosità patriottica, celebrata nelle numerose cerimonie interreligiose che si tennero dopo l’11 settembre, al canto degli inni nazionali e di God Bless America, sven-
tolando la «Old Glory». Inoltre, osservò un partecipante di religione sikh, la religione civile si fonda principalmente su una tradizione elaborata da americani bianchi e cristiani, che
un afro-americano cristiano o un americano credente in altre religioni potrebbe rifiutare, pur sentendosi egualmente buono e leale patriota, rischiando però di essere considerato per questo un «non americano» (un-Amzerican), epiteto già adoperato in passato da americani bianchi e protestanti «nativisti» promotori di crociate xenofobe contro immigrati cattolici o ebrei”!, Sulla scia della distinzione fra due differenti tipi di religione civile, il teologo Robert Jewett e il filosofo John Schelton Lawrence hanno proposto di differenziare due tradizioni: la prima, definita «nazionalismo zelota», in cui essi collo-
cano il presidente Bush, pretende di redimere il mondo distruggendo i nemici, si esprime attraverso il mito della cospirazione dei malvagi, la demonizzazione del nemico, la mistica della violenza, l'ossessione della vittoria, e il culto dei simboli nazionali; la seconda tradizione, definita «nazionali-
smo profetico», evita di assumere atteggiamenti assoluti di innocenza e di altruismo, e cerca di redimere il mondo con
la coesistenza, attraverso una giustizia imparziale che non pretende nessun ruolo privilegiato per le singole nazioni, co211
sì come si è manifestata nella storia americana con i movi-
menti che hanno criticato il consenso dominante??. L’ambivalenza fra due differenti tipi, o differenti interpretazioni, della religione civile è tornata in discussione in seguito all’attacco terroristico, dopo un lungo periodo durante il quale, come ha osservato nel 2004 Diana Butler Bass, docente di re-
ligione, molti osservatori e studiosi pensavano che «l’idea di una fede civica — la credenza in una dimensione trascendente dell'America e del suo destino — non fosse più sostenibile negli Stati Uniti secolari e pluralistici»??. Invece, dall’11 settembre in poi, «la religione civile è riemersa come parte del tessuto sociale della nazione», con la sua originaria ambiguità: «la nuova religione civile emergente sarà sacerdotale o profetica, militante o realistica, esclusiva o ecumenica?»/4.
Chi considerava favorevolmente la funzione della religione civile, come lo storico Barry Hankins”?, pur senza nasconderne l'ambiguità, faceva osservare che nel corso del tempo la religione americana era divenuta sempre più tollerante e inclusiva, quanto più la nazione diventava pluralista, per arrivare ad essere, come scriveva all’inizio del 2004, «una religione generica che parla di Dio o della provvidenza in termini tanto vaghi da poter includere tutti tranne gli atei». Ha ribadito una valutazione positiva della religione civile, pur considerandola un’arma a doppio taglio, anche Robert Benne, in un articolo pubblicato nell’aprile 2005 sul «Journal of Lutheran Ethics», suscitando un dibattito di opinioni contrastanti, che ha confermato tuttavia l’importanza che il problema della religione civile continua ad avere per quanti la considerano un aspetto della società americana, che bisognerebbe preservare nella sua forma migliore, come fattore di unione della nazione americana attorno ai suoi valori fondamentali”. Più scettici sono invece altri studiosi, come Michael E. Bailey e Kristin Lindholm, i quali, esaminando la retorica presiden-
ziale dei discorsi inaugurali in un saggio pubblicato nella primavera del 2003, hanno riscontrato una progressiva tendenza della religione civile americana, col crescere della potenza 212
economica, politica e militare degli Stati Uniti, ad abbando-
nare l'atteggiamento di modestia, di prudenza, di realismo e di senso critico, che la religione civile aveva avuto quando la democrazia americana era considerata un esperimento precario, soggetto a fallire, e per questo costantemente sottoposto al giudizio di Dio — per assumere un atteggiamento di orgoglioso compiacimento e di auto-glorificazione, come democrazia di Dio costantemente protetta e benedetta dalla provvidenza. Da questa trasformazione è emersa una nuova
religione civile, che divinizza l America e guarda sicura al suo glorioso e ineluttabile futuro, con una «fede assiomatica» nella propria illimitata potenza proiettata verso il mondo, perdendo però il senso del realismo e del limite che aveva animato la vecchia religione civile. In tal modo, secondo i due studiosi, «la nuova religione civile rappresenta un pericolo per una buona politica» perché esaltando e sacralizzando un’astratta, omogenea identità americana, nei confronti della eterogenea varietà e molteplicità di identità degli americani reali, minaccia di «promuovere una visione indifferenziata dalla vita, che scoraggia la diversità di pensiero, il pluralismo sociale e il riconoscimento delle specifiche responsabilità che competono ai vari ruoli»”7. A conclusioni simili è giunto il politologo inglese George Monbiot dopo la fine della guerra in Iraq: Gli Stati Uniti — scriveva nel luglio 2003 — non sono più soltanto una nazione, sono una religione. [...] Di conseguenza, i suoi soldati non sono solo combattenti terreni, sono diventati missionari. Non uccidono semplicemente dei nemici, vanno a caccia di demoni. [...] La nozione del popolo eletto si è gradualmente modificata in una idea più pericolosa. Non si tratta più degli americani come popolo scelto da Dio: l'America stessa è percepita ora come un progetto divino. [...] La bandiera è diventata sacra come la Bibbia, il
nome della nazione sacro come il nome di Dio, il presidente è diventato un sacerdote. Di conseguenza, chi fa obiezioni sulla politica estera di George Bush non è soltanto un critico, è un sacrilego o un «anti-americano»?8. AE,
Per questi stessi motivi, ci sono americani cristiani i quali
ritengono che la religione civile, comunque intesa, sia incompatibile con il cristianesimo, e in più occasioni l'hanno apertamente condannata come una falsa religione, che pone la religione cristiana al servizio della politica, mescolando cristianesimo e patriottismo nei simboli, nella retorica e nelle cerimonie pubbliche della nazione.
E se fosse idolatria? Una pubblica protesta contro la religione civile era stata pronunciata nel 1973 dal senatore repubblicano Mark Hatfield al National Prayer Breakfast. Simili cerimonie, disse il senatore, rappresentano «il reale pericolo di una fedeltà errata, se non di vera e propria idolatria» perché non fanno distinzione «fra il dio della religione civile americana e il Dio che si è rivelato nelle Sacre Scritture e in Gesù Cristo»??. Nello stesso anno, vari studiosi cristiani si pronunciarono contro la re-
ligione civile, e contro la confusione di cristianesimo e patriottismo da parte dei rappresentanti dello Stato. «C'è una quasi inevitabile tendenza da parte di esponenti del governo a promuovere una sorta di religione civile», commentò Walfred Peterson, docente di scienza politica, a proposito della dichiarazione del senatore Hatfield: Perché i leaders politici cedono a questa tentazione? Alcuni usano ogni mezzo per ottenere consenso e unità nella nazione. Es-
si prostituiscono volentieri la religione ai fini politici. Altri hanno motivi meno grossolani. Quando giungono al potere, sentono la gravità delle loro nuove responsabilità, si sentono inadeguati, e sentono perciò il bisogno di cercare oltre se stessi, nella religione, una fonte di potere e di autorità che voglia aiutarli. [...] Tutti i leaders politici vogliono essere sicuri che Dio sia dalla loro parte. E il modo miglior modo per esserne sicuri è di creare, seppure inconsciamente, un dio concepito secondo le esigenze della vita nazionale, un dio che unisce i cittadini e inculca le virtù civili che sono neces214
sarie allo stato. Ma questo dio è molto differente dal Dio della Bibbia, che chiama il Suo popolo ad una vita diversa. Per questo i cristiani in America devono stare in guardia affinché lo stato non manometta la religione, perché questa manomissione porterebbe ad una falsa religione80.
Nel commentare questo giudizio, lo storico W. Stanford Reid affermò che la religione civile descritta da Peterson per il caso americano era la stessa contro la quale avevano lottato i cristiani, quando rifiutarono di bruciare incenso alla statua dell’imperatore, e contro la quale resistettero gli evangelici tedeschi quando Hitler formò la sua chiesa tedesca controllata dallo Stato: «Se noi accettiamo l’attuale religione civile in Nord America senza protestare, ci potremo presto trovare nella necessità di resistere, persino fino alla morte, con-
tro analoghe pretese»8!. Una simile prospettiva di martirio, per resistere alla religione civile, era certamente una drammatizzazione esagerata, ma esprimeva tuttavia lo stato d’animo di molte coscienze cristiane d'America, allarmate dalla
pervasiva influenza della religione civile, che finiva col contagiare anche le chiese, coinvolgendole nei riti, nei simboli e nei miti che sacralizzavano la nazione americana. Nel 1976,
dopo la celebrazione del secondo centenario della rivoluzione americana, che fu una vistosa esibizione di religione civile, Donald B. Kraybill pubblicò una requisitoria molto polemica, ma ben documentata, sui miti, i simboli e i riti della re-
ligione civile americana, che egli definì «religione senza marchio» (a mzaverick religion)8, un composto di «elementi di patriottismo americano mescolati ad ingredienti della tradizione giudaico-cristiana per formare una religione nazionale della patria»8?, rivolta alla gente comune e utile sia ai repubblicani che ai democratici. Dalla religione americana, «la nazione emerge come il Vitello d’Oro che adesca molti e li allontana dal vero culto», offrendo loro «un vangelo annacquato e americanizzato, ricco di apparenza e povero di contenuto»84. La religione americana, osservava Kraybill, glorifi2415
ca la nazione americana come popolo eletto, santifica le sue istituzioni quasi fossero la realizzazione del regno di Dio, legittima in nome di Dio i suoi comportamenti, anche quando non sono affatto religiosi o sono in netto contrasto con i principi cristiani, e considera i suoi successi e la sua potenza una
conferma della speciale protezione divina sulla nazione americana in perenne lotta contro il male nel mondo. «Le celebrazioni del 4 luglio nel 1976 hanno proclamato alle altre nazioni che Dio e gli Stati Uniti, per duecento anni, hanno conseguito una vittoria trionfante sulle forze del male». Un quarto di secolo dopo, di fronte al risveglio della religione civile, Kraybill rinnovò la sua condanna, ammonendo
gli americani cristiani a «distinguere il dio, della religione civile americana dal Dio che si è rivelato in Gesù di Nazareth», per non trasformare l’invocazione God Bless America in una formula idolatrica «che giustifica tutto quello che la nazione fa», guerra compresa, perché in questo modo «le guerre diventano guerre ‘sante’, con gli dei tribali che applaudono su entrambi i lati delle trincee»80. La rinascita della religione civile, con il rinnovato culto della bandiera e l’invocazione God Bless America, era consi-
derata dai cristiani pacifisti un pericolo per una autentica fede in Cristo perché tendeva ad «innalzare l’America al di sopra di Cristo»8”, Cittadino di due mondi, gli Stati Uniti e il regno di Dio, l’americano cristiano non doveva confondere i due mondi, identificando gli Stati Uniti col regno di Dio, trasformando l’America in un idolo, la «Old Glory» in un totem, e la guerra preventiva in una guerra santa contro il male. Per questo, ci furono americani cristiani che rifiutarono di esporre «Old Glory» nei giorni di massima effervescenza patriottica e religiosa dopo 111 settembre, a rischio di apparire antipatriottici, per non incoraggiare il risveglio della religione civile, vista come un’idolatria della nazione, e perché consideravano la bandiera un simbolo di militarismo, nazionalismo e imperialismo, incompatibile con il pacifismo fondamentale del cristianesimo. «Io penso che non sia mai ap216
propriato avere la bandiera degli Usa in un servizio religioso. La chiesa è il corpo di Cristo. Il ‘Dio con noi’, che noi riconosciamo in Gesù Cristo, è un Dio universale», protestava il pastore Ralph Detrick88. Teologi e pastori di diverse confessioni cristiane si dichiararono contrari all'esposizione della bandiera nazionale nei luoghi di culto temendo che potesse «oscurare un simbolo molto più importante, la croce» e «trasformare la bandiera in un oggetto di idolatria, considerato un peccato dalla chiesa cristiana»8?. «Come Nord-Americani cristiani— ha affermato la scrittrice Valerie Weaver-Zercher- noi dobbiamo liberarci dalla religione civile», cioè dalla «fusione di cristianesimo e patriottismo, che invoca il nome di Dio per benedire la nazione e tutte le sue azioni»: «La religione civile aiuta i politici facendo apparire le critiche al governo come peccati o mancanza di rispetto verso Dio. Dobbiamo essere sempre diffidenti, quando Cesare cita le Scritture. [...] Se Dio è con noi, possiamo giustificare qualsiasi nostra azione». Paul Keim, docente di studi biblici, giudicava «sacrilega»
l’«incessante invocazione della benedizione divina sulla nazione da parte di leaders politici e religiosi». La polemica contro la religione civile ha avuto come principale bersaglio la politica religiosa del presidente Bush e la sua teologia di guerra. Studiando la strategia comunicativa di Bush e della sua amministrazione, David Domke, sociologo della comunicazione, definiva la religione civile di Bush una forma di «fondamentalismo politico», che aveva sfruttato la situazione emotiva provocata dall’11 settembre per monopolizzare il discorso politico, imprimendogli l’impronta del conservatorismo religioso, con una visione manichea della realtà,
per produrre un consenso unitario attorno alla politica interna ed estera dell’amministrazione repubblicana, come l’unica capace di difendere i principi fondamentali e gli interessi politici della nazione americana: ogni diversa opinione e ogni dissenso dalle decisioni di Bush diviene una manifestazione antipatriottica, un cedimento al terrorismo, un’insidia per il bene comune e la salute morale dell’ America. Era il fonda217
mentalismo politico, asseriva Domke, a costituire una minaccia per la democrazia americana, perché era per sua natura e
vocazione intollerante ed esclusivo, pretendendo di identificare la causa di un partito e di un gruppo religioso con la causa di Dio e dell’ America”. Altro pretesto o bersaglio della polemica cristiana contro la religione civile era la teologia imperiale di Bush, che Wallis riteneva più pericolosa del fondamentalismo di Jerry Falwell e Pat Robertson: «Il vero problema teologico oggi in America, non è più la destra religiosa, ma la religione nazionalista
dell’amministrazione Bush, che confonde l’identità della na-
zione con la chiesa e i propositi di Dio con la missione dell’impero americano», mentre «i cristiani hanno il dovere di vivere in polemica con l’impero, che minaccia costantemente di diventare idolatra e di sostituire i propositi secolari ai propositi di Dio». La teologia imperiale di Bush, affermava Wallis, «è piuttosto religione civile americana che fede cristiana. [...] Confondere il ruolo di Dio con quello della nazione americana, come sembra fare George Bush, è un serio errore teo-
logico; qualcuno potrebbe dire che sconfina nella idolatria o nel sacrilegio». Più drasticamente, un teologo svizzero ha affermato che «il Dio di Bush è un idolo» e la sua teologia, fondata sulla «santa trinità di Nazione, Famiglia e Dio», è una religione civile con «un carattere totalitario», perché pretende di essere l’unica vera interpretazione di una politica religiosamente ispirata, che però sacralizza la potenza americana”. Definire totalitaria la religione civile di Bush è una esagerazione polemica, ed ha certamente ragione chi esclude che vi sia un pericolo totalitario negli Stati Uniti”. Tuttavia, il richiamo al totalitarismo, se riferito ad uno dei suoi aspetti essenziali, come esperienza di religione politica esclusiva e intollerante, può essere utile per fare alcune osservazioni e ipotesi conclusive su quanto di nuovo è stato effettivamente introdotto, nella religione civile americana, dalle conseguenze dell’11 settembre, dalla teologia di guerra del presidente Bush e dalla simbiosi fra destra religiosa e Partito repubbli218
cano. La situazione tragicamente nuova e straordinaria, nella quale gli americani si sono trovati a vivere dopo l’11 settembre, ha indotto il Partito repubblicano, sotto la guida di Bush e con il massiccio sostegno della destra religiosa, a compiere un esperimento di trasformazione della religione civile americana in una religione politica «all'americana», nel tentativo di acquisire il monopolio della definizione del «buon americano», religioso e patriota, e assicurare al Partito repubblicano il privilegio di considerarsi, in esclusiva, il partito di Dio. E su questo ultimo aspetto che la nostra indagine sulla democrazia di Dio, nell’era dell'impero e del terrore, si avvia al
compimento, proponendo nell’ultimo capitolo un'ipotesi di interpretazione complessiva sulle vicende che abbiamo narrato, mentre il fenomeno da cui la nostra indagine ha avuto origine, la trasformazione della religione americana dopo 11 settembre, perdura e continuerà probabilmente a durare, in modi e forme che non è dato allo storico prevedere.
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Religione politica «all'americana». Un'ipotesi per concludere
Molti sostenitori e critici di Bush, come abbiamo visto in precedenti capitoli, hanno considerato la sua retorica religiosa un'espressione della religione civile americana, specialmente dopo la guerra in Iraq, ma hanno espresso giudizi diversi sulla influenza della destra religiosa nella nuova versione della religione americana elaborata dal presidente. Carl Cannon, per esempio, ha difeso Bush dall’accusa di favorire gli evangelici conservatori o i fondamentalisti, facendo notare che i suoi riferimenti religiosi erano generici perché «quando ha citato Dio, Bush lo ha fatto generalmente con parafrasi neutre, che rientravano nell’ambito della religione civile americana»!. Di parere opposto era Welton Gaddy, il quale sosteneva che c’era «una differenza tra la religione civile americana e l’uso del linguaggio religioso da parte del presidente Bush, derivante da una specifica concezione evangelica cristiana»?. Della religiosità di Bush, di religione e politica e di religione civile si continuò a discutere ancora dopo l'abbattimento del regime di Saddam Hussein fino alla rielezione di Bush alla Casa Bianca. L’interesse per il tema della religione civile, in quel periodo, era accresciuto non solo dal dibattito sul ruolo della religione in politica, ma anche dalla crisi di identità che stava attraversando la società americana, per effetto delle divisioni provocate dalla politica interna ed estera del presidente. Dopo la guerra in Iraq, la coralità emotiva dell'unità patriottica dell'11 settembre si era dissolta e nel corso dei due anni successivi la nazione americana appariva nuovamente la-
cerata da divisioni interne, come spaccata in due, mentre le 220
conseguenze della guerra in Iraq, dopo l’illusione della rapida vittoria, facevano declinare il consenso attorno al presi-
dente, e saliva l’onda dei sentimenti ostili verso gli Stati Uniti sia nel mondo musulmano che nel mondo occidentale. Il consenso degli americani è sceso al punto più basso dall’11 settembre, calando dal 71 per cento nell’aprile 2003, quando l'abbattimento di Saddam Hussein sembrava ancora una brillante vittoria, al 52 per cento nel settembre successivo, per
scendere ancora nel marzo 2006 al 33 per cento?. All’indomani dell’11 settembre 2001, il giornale francese «Le Monde» recava in prima pagina il titolo Si4zz0 tutti americani, esprimendo un autentico sentimento planetario di solidarietà collettiva per il popolo americano, al quale si erano associati anche regimi ostili come l’Iran. Due anni dopo, la solidarietà planetaria si era dissolta. E tutto a causa della guerra preventiva contro il regime di Saddam Hussein: A due anni dall’11 settembre 2001 — scriveva «The New York Times» 1°11 settembre 2003 — l’immagine degli Stati Uniti come una vittima del terrorismo che meritava la simpatia e il sostegno del mondo è svanita, sostituita dalla diffusa immagine dell’ America come una potenza imperiale che ha sfidato l'opinione mondiale attraverso l’uso unilaterale e ingiustificato della forza militare4.
Persino un periodico europeo non ostile all’amministrazione Bush, come «The Economist», commentando il secondo anniversario dell’11 settembre scriveva: non ha senso parlare, come fanno alcuni americani, di fare pres-
sione su altri paesi musulmani perché adottino la democrazia. L’11 settembre non significa una licenza per cercare di imporre le scelte americane su chiunque altro. Fare ciò significherebbe rischiare di intensificare proprio quel conflitto che i terroristi speravano probabilmente di provocare in quel delittuoso giorno di due anni fa?.
A due anni dall’attacco terroristico all’ America, l’antia-
mericanismo cresceva ovunque nel mondo. Secondo un son221
daggio del Pew Research Center alla fine del 2003, il 53 per cento degli europei associava gli Stati Uniti all'Iran e alla Corea del Nord come paesi che minacciavano la pace nel mondo, mentre il 59 per cento indicava Israele e il 21 per cento la Russia©. La percentuale degli europei che avevano una visione positiva dell'America era in declino nettamente non solo nei paesi che si erano opposti alla guerra in Iraq, come la Francia e la Germania, ma anche nei paesi i cui governi l’avevano appoggiata, come l'Inghilterra, la Spagna e l’Italia. Nella percezione degli europei, si stava approfondendo la distanza morale, culturale e politica fra l'Europa e gli Stati Uniti. E una delle principali cause era la differenza, che appariva sempre più netta, fra l'Europa secolare e l’America religiosa”. In un dibattito organizzato dal Pew Center il 10 luglio 2003 sulle relazioni fra Europa e Stati Uniti, il moderatore Dionne Jr. iniziò citando un’affermazione di Francois Heisebourg, direttore della Fondazione di studi strategici di Parigi, che riassumeva efficacemente la situazione: I riferimenti biblici in politica, la divisione del mondo in bene e male, sono cose che noi non accettiamo. In molti campi, mi sembra che noi non apparteniamo più alla stessa civiltà. Da una parte una società sinceramente religiosa e dall’altra una società generalmente secolare, che operano con valori di riferimento differenti. Ciò che ci univa non mi sembra più in primo piano8.
Meno di un anno dopo, il 7 aprile 2004, «International Herald Tribune» pubblicava un articolo dello scrittore tedesco Peter Schneider intitolato: Separati dalla civiltà: lo stallo transatlantico?. Tuttavia, dai sondaggi condotti fino alla fine del 2004, gli europei ostili agli Stati Uniti tendevano a distinguere l’avversione predominante nei confronti del presidente Bush dalla simpatia per il popolo americano. La distinzione venne però meno con la rielezione di Bush, perché, come dichiarava Do-
minique Moisi, studioso francese di relazioni internazionali, 222
il 21 gennaio 2005, non era più possibile, per gli europei, considerare il popolo americano estraneo alla politica del suo presidente!9, Se fra gli europei laici molti pensavano al rischio di uno scontro di civiltà all’interno dell’Occidente, fra un’ America re-
ligiosa e un'Europa secolare, negli Stati Uniti vi era chi paventava uno scontro di civiltà all’interno della società americana,
dove la presidenza Bush, invece di operare, come il presidente aveva promesso, per sanare le divisioni e riunificare la nazione, aveva deliberatamente intensificato la «guerra culturale» contro l America laica in nome della restaurazione dei valori tradizionali sostenuti dalla destra religiosa. Nel 2004 Samuel P. Huntington, l’autore del libro sullo scontro delle civiltà, pubblicò un volume, altrettanto denso di pessimistiche previsioni, sulla crisi dell'identità nazionale americana intitolato Who Are We? (Chi siamo noi?), dove il problema centrale era rappresentato dalla religione e dalla crisi del «credo americano» originario, derivante dalla cultura anglo-protestante, di fronte alle sfide di una società sempre più varia ed eterogenea dal punto di vista religioso, etnico e culturale!!. La presidenza Bush dimostrava che la religione aveva ancora un ruolo centrale nella politica americana e che l America, nonostante la sua continua varietà sociale, rimaneva fondamentalmente una nazione cri-
stiana, mentre «potenti forze esterne al paese accrescevano l’importanza della religione per l'identità americana e la probabilità che gli americani continueranno a considerarsi un popolo religioso e cristiano». Come medicina per curare la crisi di identità nazionale, Huntington proponeva la difesa della tradizione religiosa anglo-puritana: «L'alternativa al cosmopolitismo e all’imperialismo è un nazionalismo dedito a preservare e incrementare le qualità che hanno definito l America fin dalla sua fondazione»!?. In questa prospettiva, una funzione terapeutica era lasciata anche alla religione civile americana, definita da Huntington «un cristianesimo senza Cristo»!?.
Dio e la religione sono stati coinvolti nuovamente nella campagna presidenziale del 2004, dove la fede religiosa dei 220
candidati è stata ancora uno degli argomenti più discussi, anche perché il candidato democratico, John F. Kerry, era un cattolico, il terzo nella storia delle elezioni presidenziali americane, il quale tuttavia non godeva l’appoggio delle gerarchie cattoliche per le sue posizioni liberali sull’aborto. Sul terreno del confronto religioso, Bush aveva il vantaggio di poter contare sul successo di una strategia elettorale pazientemente coltivata, durante i quattro anni di presidenza, per riuscire a conquistare il voto di milioni di cristiani evangelici che non avevano partecipato alle elezioni precedenti, sia favorendo l’identificazione del Partito repubblicano con la destra religiosa conservatrice e tradizionalista, sia intensificando la guerra culturale all’interno della società americana. La propaganda repubblicana rappresentò i democratici come liberali nemici della religione nella vita pubblica, favorevoli all’aborto e al matrimonio fra omosessuali, promotori di una cultura edonistica e permissiva, e soprattutto moralmente deboli e inaffidabili per difendere la nazione nell’era del terrore e combattere la guerra al terrore, fino a farli apparire, per ogni critica rivolta alla politica di Bush, come poco patriottici, se non addirittura antiamericani, che di fatto aprivano le porte dell’ America ai terroristi. La pretesa al monopolio del patriottismo, congiunta alla pretesa di rappresentare i veri valori morali e religiosi dell'America, fu il segno più evidente del tentativo mes-
so in atto da Bush per ottenere il monopolio sulla religione americana. La strategia per la conquista del voto della destra religiosa ebbe successo e portò alla rielezione di Bush, conseguita con il 51 per cento dei voti rispetto al 48 per cento ottenuto dal candidato democratico. Decisivi furono oltre tre milioni di nuovi elettori repubblicani, in massima parte cristiani tradizionalisti, e il convergere sul candidato repubblicano della maggioranza dei voti dei bianchi conservatori evangelici e cattolici e degli ispano-cattolici. Dalle votazioni del 2 novembre 2004, è uscita una nazione
americana divisa quasi a metà fra repubblicani e democratici, e molto più polarizzata ideologicamente e religiosamente. 224
«Due nazioni sotto Dio», commentava Thomas L. Friedman,
editorialista di «The New York Times», il giorno dopo le elezioni. Ma con una importante differenza, come faceva notare Michael Sandel, teorico politico: «i democratici hanno ceduto ai repubblicani un monopolio sulle fonti morali e spirituali della politica americana»!4. Tra i motivi di scelta del candidato, gli elettori avevano indicato al primo posto i «valori morali». La rielezione di Bush fu salutata dai suoi sostenitori come una vittoria dell'America religiosa e tradizionalista sull'America secolare e progressista, nella «guerra culturale» condotta dalla destra religiosa e dal Partito repubblicano per affermare i propri principi e i propri valori nella società e nella politica, come unici valori e principi del «vero americano» religioso e patriota, in lotta contro il male, che dall’interno e
dall’esterno voleva distruggere la democrazia di Dio. La semplificazione manichea, tipica della mentalità integralista, era un altro segno evidente dell’aspirazione di Bush e della destra religiosa ad arrogarsi il monopolio della moralità e del patriottismo, pretendendo di essere gli unici ad incarnare gli autentici valori americani. Questa pretesa rappresentava l’intensificazione di una tendenza che risaliva alle origini della destra religiosa, e si era sviluppata e consolidata, sia pure con alterne vicende, nel corso degli ultimi due decenni!. Nel 1992, Harold Bloom, storico della cultura, aveva scrit-
to che la religione americana stava diventando «postcristiana» e si avviava «verso il Ventunesimo secolo con uno sfrenato trionfalismo», facilmente incline a farsi coinvolgere nelle vicende della politica!. Dopo aver esaminato il ruolo sempre più influente delle Chiese protestanti conservatrici nel Partito repubblicano, la mobilitazione politica della destra religiosa, e il trionfalismo della religione americana durante la prima guerra del Golfo, Bloom concludeva con una previsione: l'avvento al governo di «una religione nazionale istituzionalizzata», basato su una «multiforme alleanza» di Chiese
conservatrici e tradizionaliste, che «entro l’anno 2000 trasformerà la nostra nazione, sotto la guida di un Partito repubbli22/0)
cano, che è divenuto dal 1979 una versione apertamente secolare della religione americana»!”. Con l’arrivo di George W. Bush alla Casa Bianca nel 2000 e con la sua riconferma nel 2004, la previsione ora citata è parsa prossima a diventare realtà, grazie anche al risveglio della religione civile e alla rinnovata sacralizzazione della politica dopo l’11 settembre, che l’amministrazione repubblicana ha saputo abilmente utilizzare per conquistare una sorta di monopolio sulla religione americana, per identificarla con la propria ideologia e le proprie credenze religiose. In tal modo, il Partito repubblicano, con la destra religiosa e ineoconservatori, ha avviato una trasformazione della religione civile americana che ne potrebbe modificare sostanzialmente la natura ecumenica, tollerante e inclusiva, e renderla una religione partigiana, esclusiva e intollerante. Infatti, come ha notato Mark
Silk, dalla fine della Guerra civile, «la retorica della religione civile è servita ad unire il paese. Anche se vi sono sempre stati quelli pronti ad usarla per scopi partigiani, la religione civile americana è stata intesa in modo inclusivo, come una sacra
bandiera sventolante al di sopra della mischia politica»; invece, da un quarto di secolo, la religione civile americana è stata trasformata «in uno strumento di lotta politica interna»!8. In tale cambiamento, appare evidente la tendenza del Partito repubblicano a trasformare la religione civile, intesa come una forma di sacralizzazione della politica che non coincide con l'ideologia di un singolo partito o movimento, in una religione politica, intesa come sacralizzazione della politica da parte di un singolo partito o movimento, che si arroga il monopolio della definizione del bene e del male secondo la propria ideologia!?. Questa trasformazione ha caratteristiche originali, che sono di grande interesse per lo studio delle religioni della politica, proprio per la peculiarità della religione americana, essendo una religione civile derivata da una religione tradizionale, cioè il cristianesimo protestante, ma adattata al crescente pluralismo religioso, e quindi del tutto differente da molte religioni civili europee, che hanno avuto origine da movimen226
ti politici laici e spesso anticristiani. Inoltre, la trasformazione rappresenta un’esperienza nuova di religione politica, perché finora le religioni politiche sono state prevalentemente espressione di movimenti totalitari, e si sono affermate nei regimi a partito unico, anche se non sono mancate tendenze alla religione politica in regimi democratici, come in Francia o negli stessi Stati Uniti nel corso dell’Ottocento?0, Tuttavia, l’istitu-
zione di una religione politica che detenga il potere in una società, dove il pluralismo religioso e l’individualismo sono cardini fondamentali della sua esistenza, sarebbe un fenomeno
inedito, che non potrebbe essere analizzato con modelli del passato. E da ritenere, tuttavia, che lo stesso individualismo e pluralismo religioso, insieme alla radicata tradizione di democrazia liberale, siano argini capaci di impedire la conquista del monopolio della religione americana da parte di un partito o di un movimento religioso, che reclami il possesso esclusivo della conoscenza del bene e del male. Una religione individualista e pluralista, ha osservato Alan Wolfe, è propizia alla democrazia americana?!. Del resto, le vicende della presidenza Bush, dopo la sua rielezione, non sembrano favorire il tentativo del Partito repubblicano di trasformare la religione civile americana in una religione politica «all'americana», né l’ambizione della destra religiosa di imporre i propri principi e i propri valori, in nome di un cristianesimo tradizionalista, integralista e bellicoso, che sembra ostile a mettere in pratica le Beatitudini del Discorso della Montagna. Fatti recenti hanno creato seri ostacoli alla istituzione di una religione politica «all'americana». Nel 2005, la commemorazione del quarto anniversario dell’11 settembre è stata sopraffatta dalle polemiche contro il presidente per la disastrosa inettitudine dimostrata mentre l’uragano Katrina devastava la città di New Orleans, una catastrofe naturale durante la quale molti americani si domandarono con rabbia dove era il presidente, piuttosto che interrogarsi su dove era Dio. Nella primavera del 2006, la popolarità del presidente è scesa ai minimi storici, decli227
nando anche fra gli stessi elettori repubblicani. Intanto, i soldati americani morti in Iraq hanno quasi raggiunto il numero delle vittime dell’11 settembre, e il rimpatrio delle loro salme avviene in un forzato silenzio, senza pubbliche cerimonie di sacralizzazione patriottica. E gravi sono i danni inferti all’immagine della democrazia di Dio dalle immagini delle torture ad Abu Ghraib, l’eccidio di civili compiuto dai marines ad Haditha, le condizioni dei prigionieri a Guantanamo. Questi, e altri eventi del secondo anno del secondo mandato di Bush,
non hanno certo contribuito ad innalzare ilprestigio morale della democrazia di Dio né a favorire le aspirazioni del presidente a rimodellare la nazione americana secondo i principi e i valori della destra religiosa. Pertutti questi motivi, si può dubitare che il tentativo di trasformare la religione civile americana in una religione politica «all’americana» possa avere successo: ma il fatto stesso che il tentativo sia stato messo in opera con tanta deliberata ostentazione nella più potente democrazia del mondo attuale, è un'esperienza grave, che lascia una traccia e può rappresentare un esempio seducente per altri aspiranti al monopolio della politica e della religione in una società democratica. Al mestiere dello storico non si addice la profezia. Tuttavia, lo studio della religione americana nell’era di Bush può essere utile per riflettere sulle attuali o future nuove esperienze di sacralizzazione della politica, tentate attraverso forme inedite di politicizzazione della religione o di religionizzazione della politica. La religione non è fatta solo di valori e trascendenza, ma, come la politica, è fatta anche di potere e
volontà di potenza. Quando religione e politica congiungono le loro forze nell'esercizio del potere, sacralizzando la politica o politicizzando la religione, perla libertà e la dignità umana, nel campo della politica come nel campo della religione, si annuncia una stagione incerta e insicura.
Note
Capitolo 1 ! America's World, in «The Economist», 23 ottobre 1999.
2 Cit. in J.S. Nye Jr., Il paradosso del potere americano. Perché l’unica superpotenza non può più agire da sola, trad. it., Einaudi, Torino 2002, p. 3. } Cfr. M. Hertsgaard, The Eagle’s Shadow: Why America Fascinates and Infuriates the World, Picador,
New York 2003.
4 Cfr. MH. Hunt, Ideology and U.S. Foreign Policy, Yale University Press, New Haven-London 1987; W.A. McDougall, Prorzised Land, Crusader State: The American Encounter with the World Since 1776, Houghton Mifflin, Boston-New York 1997; W.R. Mead, Special Providence: American Foreign Policy and How It Changed the World, Knopf, New York 2001. > E.L. Tuveson, Redeemer Nation: The Idea of America's Millennial Role,
University of Chicago Press, Chicago 1968. 6 E.M. Burns, The American Idea of Mission: Concepts of National Purpose and Destiny, Rutgers University Press, New Brunswick (N.J.) 1957. 7 AK. Weinberg, Manifest Destiny: A Study of Nationalist Expansionism in American History, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 1935. 8 C. Cherry (a cura di), God's New Israel: Religious Interpretations of American Destiny, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1998. ? L.P. Ribuffo, Religion and American Foreing Policy: History of a Complex Relationship, in «The National Interest», 52, 1998, pp. 36-51. 10 W. Martin, Wizb God on Thetr Side: Religion and U.S. Foreign Policy,
in H. Heclo, W.M. McClay (a cura di), Religion Returns to the Public Square: Faith and Policy in America, Woodrow Wilson Center Press, Washington D.E:20039pp9327-:59: 11 G. Prezzolini, America in pantofole. Un impero senza imperialisti, Vallecchi, Firenze 1950.
12 A.M. Schlesinger Jr., I cicli della storia americana, trad. it., Tesi, Pordenone 1991, p. 202. 13 F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, trad. it., Rizzoli, Mi-
lano 1996. 14 S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, trad. it., Garzanti, Milano 2000. 15 T, Smith, Azzerica’s Mission: The United States and the Worldwide
229
Struggle for Democracy in the Twentieth Century, Princeton University Press, Princeton (N.].) 1994, pp.311 sgg. 16 The 9/11 Report: The National Commission on Terrorist Attacks Upon the United States, St. Martins Press, New York 2004, p. 486. 17 A. Frachon, D. Vernet, L’Amérique messianique. Les guerres des néoconservateurs, Seuil, Paris 2004.
18 P. Boyer, When Time Shall Be No More: Prophecy Belief in Modern American Culture, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1992, pp. 338-39.
19 W.W. Dixon, Visions of the Apocalypse: Spectacles of Destruction in American Cinema, Wallflower Press, London-New York 2003. 20 Cfr. D. Wojcik, The End of the World as We Know It: Faith, Fatalism,
and Apocalypse in America, New York University Press, New York 1997, p. 8. 21 Boyer, When Time Shall Be No More, cit., p. 339. 2 G. Wills, Under God: Religion and American Politics, Simon & Schuster, New York 1990, p. 24. 2 Wojcik, The End of the World as We Know It, cit., p. 212. 24 D. Fishburn, Introduction, in Id. (a cura di), Tbe World in 2001, The
Economist, London 2000, p. 9. 25 M. Kondracke, What Augurs after the Inauguration?, ivi, p. 57. 26 The 9/11 Report, cit., pp. 71-72. 27 Cfr. F.I Greenstein (a cura di), The George W. Bush Presidency: An
Early Assessment, Johns Hopkins University Press, Baltimore 2003, p. 106. 28 Cfr. The 9/11 Report, cit., p. 487. 29 The Politics of Panic, in «The New York Times», 11 settembre 2001. 3° Cfr. D.M. Rankin, The Press, the Public, and the Two Presidencies of
George W. Bush, in J. Kraus, K.J. McMahon, D.M. Rankin (a cura di), Trarsformed by Crisis: The Presidency of George W. Bush and American Politics, Palgrave, New York 2004, pp. 52-71. 31 5.G. Stolberg, Scientists Urge Bigger Supply of Ster Cells, in «The New York Times», 11 settembre 2001.
32 T.M. Freiling (a cura di), George W. Bush on God and Country, Allegiance Press, Washington D.C. 2004, pp. 17-24. # K. Zernike, School Dress Codes vs. a Sea of Bare Flesh, in «The New York Times», 11 settembre 2001.
34 J. Perlez, Biden Opens Wide Critique of Bush Plan for a Shield, ibid. » Cfr. LH. Daalder, J.M. Lindsay, Busb's Foreign Policy Revolution, in Greenstein (a cura di), The George W. Bush Presidency, cit., p. 102.
36 Ivi, p. 105.
Ivi pE109; 28]. Risen, Reports Disagree on Fate of Anti-Taliban Rebel Chief, in «The New York Times», 11 settembre 2001. 3° Cfr. The 9/11 Report, cit., pp. 251 sgg. 40 Ivi, pp. 250-51. 41 Tearing a Hole in the Skyline, in «Newsweek», 24 settembre 2001.
230
4 L’immagine della «terza torre» è di N. Gibbs, Life on the Home Front, in «Time», 1° ottobre 2001. 4 Remain of a Day, ivi, 9 settembre 2002. 44 T. Pzszezynski, S. Solomon,J.Greenberg (a cura di), Terror in America:
The Day Our World Changed, American Psychological Association, Washington D.C. 2003, p. 4. 4]. Kornbluth,J.Papin (a cura di), Because We Are Americans: What We Discovered on September 11, 2001, Warner Books, New York 2001, pp. 1-2. 4 J. Adler, Ground Zero, in «Newsweek», 24 settembre 2001. # Gibbs, Life on the Home Front, cit. 48 C. McGuigan, Requiem for an American Icon, in «Newsweek», 24 settembre 2001. 4 A. Calandro, To Mourn, Reflect, and Hope, in J. Farina (a cura di), Beauty for Ashes: Spiritual Reflections on the Attack on America, Crossroad Publishing Company, New York 2001, pp. 251-52. 35° P. Ochs, September 11 and the Children of Abraham, in «The South Atlantic Quarterly», 2, 2002, p. 391. 51 J.B. Freeman, The American Republic, Past and Present, in «The Chronicle of Higher Education», 28 settembre 2001. 52 The 9/11 Report, cit., p. LKXXI. 53 F. Zakaria, The End of the End of History, in «Newsweek», 24 settembre 2001. 54 E.T. Linenthal, Toward the «New Normal», in «The Chronicle of Higher Education», 28 settembre 2001. 55 Cit. in J. Stein, Nation on the Couch, in «Time», 1° ottobre 2001. 56 K. Kelly, After the Fall: Struggling for Emotional Balance after Septerber 11, in «U.S. News & World Report», 12 novembre 2001. 27 G.Y. DeNelsky, The Day the Psychology of America Changed Forever, in «The National Psychologist», novembre-dicembre 2001, http://nationalpsychologist.com/archives. 38 G. Cowley, After the Trauma, in «Newsweek», 1° ottobre 2001. 5? Cfr. S. Body-Gendrot, La société américaine après le 11 septembre, Presses de Science Po, Paris 2002, p. 18. 60 Cit. in R. Jewett, J.S. Lawrence, Captain America and the Crusade against Evil: The Dilemma of Zealous Nationalism, William B. Eerdmans,
Grand Rapids (Mich.) 2003, p. 10.
61 Cit. ivi, p.9.
6. SOA
—
Langewiesche, Arzerican Ground, trad. it., Adelphi, Milano 2003,
6 G.W. Bush, Rezzarks by the President after Two Planes Crash into
World Trade Center, 11 settembre 2001.
4 Id., Remzarks by the President upon Arrival at Barksdale Air Force Base, 11 settembre 2001. 6 Id., Statement by the President in his Address to the Nation, 11 settembre 2001. 66 Sugli avvenimenti, gli effetti, le riflessioni e le interpretazioni suscitate dall’11 settembre e dalla «guerra al terrore» mi limito a segnalare alcuni
DADI
studi rappresentativi di diversi orientamenti: J.F. Hoge Jr., G. Rose (a cura di), How Did This Happen? Terrorism and the New War, Public Affairs, New York 2001; S. Talbott, N. Chanda (a cura di), The Age of Terror: America and the World After September 11, Basic Books, New York 2001; R. Bernstein, Out of the Blue: The Story of September 11, 2001 from Jihad to Ground Zero, Holt, New York 2002; R. Burbach, B. Clarke (a cura di), Septerzber 11 and the U.S. War, City Lights Books and Freedom Voices Press, San Francisco 2002; C. Calhoun, P. Price, A. Timmer (a cura di), Understanding September 11, The New Press, New York 2002; S. Hauerwas, F. Lentricchia (a
cura di), Dissent from the Homeland: Essays after September 11, Duke University Press, Durham 2002 (numero speciale di «The South Atlantic Quarterly», 2, 2002); E. Hershberg, K.W. Moore (a cura di), Critical Views of September 11: Analysis from Around the World, The New Press, New York 2002; S. Brill, After: How America Confronted the September 12 Era, Simon & Schuster, New York 2003; R. Falk, The Great Terror War, Olive Branch Press, New York-Northampton 2003; J. Meyerowitz (a cura di), History and September 11’, Temple University Press, Philadelphia 2003.
Capitolo 2 ! Cit. in Voltaire, J.-J. Rousseau, I. Kant, Sulla catastrofe. L’illuminismo
e la filosofia del disastro, introduzione e cura di A. Tagliapietra, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. x. d'lyf4p355 2 Vi, por. 4 C. Zaleski, Faith and Doubt at Ground Zero, in «The Christian Cen-
tury», 18 dicembre 2002. ? E. Hankiss, Syrzbols of Destruction, in Social Science Research Coun-
cil, After Sept. 11, http://www.ssrc.org/sept11/essays/hankiss.htm. 6 E. Becker, The Dental of Death, Free Press, New York 1973. ? M. Marshall Clark, The September 11, 2001, Oral History Narrative and
Memory Project: A Firts Report, inJ. Meyerowitz (a cura di), History and September 11th, Temple University Press, Philadelphia 2003, p. 128. 8 K. Armstrong, Seeing Things as They Really Are, in J. Langford, L.S. Rouner (a cura di), Walking with God in a Fragile World, Rowman & Littlefield, Lanham (Md.) 2003, p. 107. ° S. Neiman, Evil in Modern Thought: An Alternative History of Philosophy, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 2004, p. 282.
10 Ivi, p. 281,
dvi pi3iL AIVISDEXE 13 A. Delbanco, The Death of Satan: How Americans Have Lost the Sense of Evil, Farrar, Strauss & Giroux, New York 1996, p..d.
14 Ivi, p.4. P.IVISDRO);
232
16 Delbanco, The Deatb of Satan, cit., p. 6.
17 U. Siemon-Netto, Pol! Shows Protestant Collapses, United Press International, 28 giugno 2001, http://www.freerepublic.com/forum/a3b445846 23a8.html. 18 Pbs: America Responds, trasmissione del 12 settembre 2001, http:// www.pbs.org/americaresponds/moyers912.html. 19 M. Simmons, F.A. Thomas (a cura di), 9.11.01: African American Lea-
ders Respond to an American Tragedy, Judson Press, Valley Forge (Penn.)
2001, p. x.
20 C. Cherry (a cura di), God’s New Israel: Religious Interpretations of American Destiny, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1998. 21 T. Peterson, Searching for God in September 11, in «BusinessWeek on line», 10 settembre 2002. 2 W.D. Watley, Seeking God's Face, in Simmons, Thomas (a cura di),
9.11.01, cit., pp. 133-34.
2 F. Matthewes-Greene, How Can God Permit Suffering?, in D.B. Kraybill, L.G. Peachey (a cura di), Where Was God on Sept. 11? Seeds of Faith
and Hope, Herald Press, Scottdale (Penn.) 2002, p. 27. 24 In J. Farina (a cura di), Beauty for Ashes: Spiritual Reflections on the Attack on America, Crossroad Publishing Company, New York 2001, p. 15. 2 L.S. Rouner, Terror and the Christian Fatth, in Langford, Rouner (a cura di), Walking with God, cit., p. 74. 26 F. Buechner, Walking in the World with a Fragile God, ivi, p. 8. 27 In Kraybill, Peachey (a cura di), Where Was God on Sept. 11?, cit., p. 29. 28 Farina (a cura di), Beauty for Ashes, cit., pp.31-34. 29 In Kraybill, Peachey (a cura di), Where Was God on Sept. 112, cit., pp. 30-31. 30 E.T. Linenthal, Toward the «New Normal», in «The Chronicle of
Higher Education», 28 settembre 2001. 31 P. Steinfels, Where Was God? It Is a Question That Might Be Asked Every Day — Or perhaps not at All, in «The New York Times», 31 agosto 2002. 32 Beliefnet (a cura di), Frorz the Ashes: A Spiritual Response to the Attack on America, Rodale, s.l. 2001, pp. 54-60. 33 H. Jonas, I/ concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, trad. it., il melangolo, Genova 1990. 34 Il testo dell’intervista è riprodotto in B. Lincoln, Holy Terrors: Thinking about Religion after September 11, University of Chicago Press, Chicago 2003, pp. 104-107. 3 In Farina (a cura di), Beauty for Ashes, cit., pp. 126-27. 36 Ibid. 37 Cit. in Lincoln, Holy Terrors, cit., p. 104.
38 In Farina (a cura di), Beauty for Ashes, cit., pp. 122-26. 39 P. Faton, United in a New Kind of Grief, in Kraybill, Peachey (a cura di), Where Was God on Sept. 11?, cit., p. 22. 40 J. Moltmann, Watching for God, in Langford, Rouner (a cura di),
Walking with God, cit., p. 69.
205
41 AM. Greeley, Where Was God?, in Beliefnet (a cura di), From the Ashes, cit., pp. 42-43. 4 In Langford, Rouner (a cura di), Walking with God, cit., p. 3. 4 Cfr. Z. Sardar, M.W. Davies, Why Do People Hate America?, Disinformation, New York 2002.
44 In Langford, Rouner (a cura di), Walking with God, cit., p. 65.
45 Ivi, p.41.
46 In Kraybill, Peachey (a cura di), Where Was Godor Sept. 112, cit., p.109. 4 M. Simmons, In Times like These, in Simmons, Thomas (a cura di),
9.11.01, cit., p.x.
48 C.A. Knight, Preaching while the World Is at War, ivi, p. 119. 4° C.G. Adams, Meeting God again, the First Time, ivi, p. 146.
5° R.M. Franklin, Piety and the Public Square, ivip. 80. 51 W.D. Watley, Seeking God's Face, ivi, pp. 1335-36. 52 V.M. McKenzie, It Is Time to Move Forward! sivi, p. 128.
5 C.E. Booth, What's Gorng on, ivi, p. 51.
54 Ivi; pp..53-54.
5 C.H. Felder, An African American Pastoral on Recent Acts of Terrorism in America, ivi, p. 14.
56 Cit. in Zaleski, Faith and Doubt, cit.
57]. Lampman, Americans See Religion as Gaining Clout in Public Life, in «The Christian Science Monitor», 7 dicembre 2001. 58 P. Noonan, God Is Back, in «The Wall Street Journal», 28 settembre 2001.
5° P.J. Gomes, Outer Turmoil, Inner Strength, in Simmons, Thomas (a cura di) IL0LLet rp:
60 Pew Forum Religion & Public Life, Lift Every Voice: A Report on Religion in American Public Life 2002, Washington D.C. 2001, http://pewforum.org. 61 T. Pzszczynski, S. Solomon, J. Greenberg, In the Wake of 9/11: The Psychology of Terror, American Psychological Association, Washington D.C.
2003, pp. 100-101.
© Pew Forum on Religion & Public Life, Post 9-11 Attitudes: Religion More Prominent,
Muslim-Americans
More Accepted,
6 dicembre
2001,
http://pewforum.org. 6 J. Gomez, How Do We Keep Our Faith when God Seerns to Be Silent?, in Farina (a cura di), Beauty for Ashes, cit., p. 112.
6 Ivi, p. 18.
6 Ivi, pp. 19-20.
Capitolo 3 ! Pew Forumon Religion & Public Life, Post 9-11 Attitudes: Religion More Prominent, Muslim-Americans More Accepted, 6 dicembre 2001, http:// pewforum.org.
234
? Esposizioni della religione di Bush sono in S. Mansfield, The Faith of George W. Bush, Tarcher-Penguin, New York 2003, e P. Kengor, God and
George W. Bush: A Spiritual Life, ReganBooks, New York 2004. } Cfr. M. Molinari, George W. Bush e la missione americana, Laterza, Ro-
ma-Bari 2004; K.P. Phillips, Una dinastia americana, trad. it., Garzanti, Milano 2004.
4 G.W. Bush, M. Herskowitz, A Charge to Keep: My Journey to the White House, ReganBooks-HarperCollins, New York 2001, p. 136.
? Cit. in D. Frum, The Right Man: An Inside Account of the Bush White House, Random House, New York 2003, p. 283.
© Per una valutazione critica del ruolo della religione nella politica di Bush, da differenti punti di vista, cfr. S. Fath, Dieu bénisse lAmérique. La religion de la Maison-Blanche, Seuil, Paris 2004; P. Singer, The President of
Good and Evil: Taking George W. Bush Seriously, Granta Books, London 2004; D. Domke, God Willing? Political Fundamentalism in the White House, the «War on Terror», and the Echoing Press, Pluto Press, London 2004; J.
Wallis, Gods Politics: Why the Right Gets It Wrong and the Left Doesn't Get It, HarperCollins, New York 2005. ? Kengor, God and George W. Bush, cit., pp. 31-32. 8 Texas State Archives, State of Texas, Office of the Governor, Memo-
randum, 3 aprile 1995. ? Texas State Archives, State of Texas, Office of the Governor, Official
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235
the 1972 Presidential Campaign, in «The Review of Politics», gennaio 1975, pp. 48-65. Sulla religione di Nixon, cfr. C.P. Henderson, The Nixon Theology, Harper & Row, New York 1972. 22 Ivi, pp. 52-54. 23 The 1976 Elections, in «Church and State», dicembre 1976.
24L.P. Ribuffo, God and Jimmy Carter, in M.L. Bradbury, J.B. Gilbert (a cura di), Transforming Faith: The Sacred and the Secular in Modern American History, Greenwood Press, New York 1989, p. 141. 2 B.A. Kosmin, S.P. Lachman, Ore Nation under God: Religion in Contemporary America Society, Crown Publisher, New York 1993, p. 158. 26 Ivi, pp. 160-61. 27 W. Safire, God Bless Up, in «The New York Times», 27 agosto 1992.
28 Faith Is a Factor in Presidential Campaign, in «Star Tribune», 25 ottoBre 1992; ì 29 Kosmin, Lachman, Ore Nation under God, cit., p. 160.
30 Ibid.
a Zinio 3 Cfr. R.D. Linder, Uriversal Pastor: President Bill Clinton’s Civil Reli-
gion, in «Journal of Church and State», 38, 1996, pp. 733-49. 34 Ibid. 35 Ibid. | 36 J. Tapper, God Is Their Co-Pilot, http://archive.salon.com/politics/ feature/2000/07/07/born_again. 37 Cit. in Mansfield, The Faith of George W. Bush, cit., p. 106. 38 Cfr. M.C. Segers (a cura di), Piety, Politics, and Pluralism: Religion, the Courts, and the 2000 Election, Rowman & Littlefield, Lanham (Md.) 2002,
D. 127.
39 K.L. Woodward, God's Place in Politics, in «Newsweek», 11 settembre 2000.
40 G. Baker, Gore Trusts God to Deliver a Moral Majority, in «The Financial Times», 10 agosto 2000. 4! Segers (a cura di), Piety, Politics, and Pluralism, cit., pp. 137-40. 4]. Lieberman, M. D’Orso, Ir Praise of Public Life, Simon & Schuster, New York 2000. 4 Segers (a cura di), Piety, Politics, and Pluralism, cit., p. 137.
44 Ibid. © Barna Group, Annual Study Reveals America Is Spiritually Stagnant, 5 marzo 2001, http://www.barna.org. 46 U. Siemon-Netto, Poll Shows Protestant Collaps, United Press Interna-
tional, 28 giugno 2001, http://www.vny.com/cf/News/upidetail.cfm?QID= 198421.
#7 Barna Group, One-Quarter of Self-Described Born Again Adults Rely on Means Other Than Grace to Get to Heaven, 29 novembre 2005,
http://www. barna.org.
48 A. Kohut, J.C. Green, S. Keeter, R.C. Toth, The Diminishing Divide:
236
Religion's Changing Role in American Politics, Brookings Institution Press, Washington D.C. 2000, p. 4.
4° Cfr. W. Martin, With God on Our Side: The Rise of the Religious Right in America, Broadway Books, New York 1996. 30 Cfr. F. Colombo, Il Dio d'America. Religione, ribellione e Nuova destra, Mondadori, Milano 1983; J. Micklethwait, A. Wooldridge, The Right Nation: Conservative Power in America, Penguin,
New York 2004.
21 P. Boyer, When U.S. Foreign Policy Meets Biblical Prophecy, 20 febbraio 2003, http://www.alternet.org. 22 J.C. Green, M.J. Rozell, C. Wilcox (a cura di), The Christian Right in American Politics: Marching to the Millennium, Georgetown University Press, Washington D.C. 2003. 3 Cfr. MJ. Rozell, The Christian Right in the 2000 GOP Presidential Campaign, in Segers (a cura di), Piety, Politics, and Pluralism, cit., pp. 57-58.
24 Cfr. A.J. Reichley, Faztb in Politics, Brookings Institution Press, Wash-
ington D.C. 2002, p. 332.
5 C. Wilcox, Laving Up Treasures in Washington and in Heaven: The Christian Right and Evangelical Politics in the Twentieth Century and Beyond, in «Magazine of History», gennaio 2003, pp. 28-29. 56 C. Thomas, E. Dobson, Blinded by Might: The Problem with Heaven on Eartb, cit. in E.J. Dionne Jr., J.J. Dilulio Jr. (a cura di), Whars God Got to Do with the American Experiment?, Brookings Institution Press, Washington D.C. 2000, p. 52. 57 Frum, The Right Mar, cit., p.9. 58 Cit. in Kengor, God and George W. Bush, cit., p. 79. 59 Green, Rozell, Wilcox (a cura di), The Christian Right, cit., p. 1. 60 G.W. Bush, National Day of Prayer and Thanksgiving, 21 gennaio 2001. 61 Avec Bush, la religion è la Maison Blanche, in «Le Monde», 3 febbraio 2001.
6 Sui principali membri dell’amministrazione Bush, cfr. B. Woodward, La guerra diBush, trad. it., Sperling & Kupfer, Milano 2003; E. Kaplan, Wie God on Their Side: How Christian Fundamentalists Trampled Science, Policy, and Democracy in George W. Bush's White House, New Press, New York 2004; R. Kessler, A Matter of Character: Inside the White House of George W. Bush, Sentinel, New York 2004; F. Rampini, Tutti gli uomini del presidente. George W. Bush e la nuova destra americana, Carocci, Roma 2004; R. Suskind, I segreti della Casa Bianca, trad. it., Il Saggiatore, Milano 2004.
6 Cit. in Mansfield, The Faith of George W. Bush, cit., p. 154. 64 H, Fineman, Bush and God, in «Newsweek», 10 marzo 2003. 6 Frum, The Right Man, cit., pp. 3-4.
6 G. Wills, With God on His Side, in «The New York Times», 13 aprile 2003.
5 R.G. Hutcheson Jr., God in the White House: How Religion Has Changed the Modern Presidency, Macmillan, New York 1988. 6 Cit. in R.V. Pierard, R.D. Linder, Civil Religion and the Presidency, Zondervan, Grand Rapids (Mich.) 1988, p. 185.
23%
69 W.L. Miller, Piety Along the Potomac: Notes on Politics and Morals in the Fifties, Houghton Mifflin, Boston 1964, p. 40.
70 Pierard, Linder, Civil Religion and the Presidency, cit., p. 201. 71 M. Gustafson, The Religious Role of the President, in «Midwest Journal of Political Science», novembre 1970, pp. 708-22.
72 Cfr. D.S. Wolfe, The Kennedy Myth: American Civil Religion in the Sixties, Ph.D. Dissertation, Graduate Theological Union, Berkeley (Cal.) 10755
73 R.S. Alley, So Help Me God: Religion and the Presidenoy, Wilson to Nixon, John Knox Press, Richmond (Va.) 1973, p. 96.
74 Cit. in R.N. Bellah, Beyond Belief: Essays on Religion in a Post-Traditional World, Harper & Row, New York 1970, p. 181. 7 Hutcheson, God in the White House, cit., p. 81, 76 Pierard, Linder, Civil Religion and the Presidency, cit., p. 216.
7 Ivi, p. 224.
3
78 Cfr. A.M. Schlesinger Jr., La presidenza imperiale, trad. it., Comunità, Milano 1980. 7° Hutcheson, God in the White House, cit., p. IX.
80 W. Edel, Defenders of the Faith: Religion and Politics from the Pilgrim Fathers to Ronald Reagan, Barger, New York 1987, p. 149.
81 P. Kengor, God and Ronald Reagan: A Spiritual Life, ReganBooksHarperCollins, New York 2004, p. 164. 82 Linder, Unzversal Pastor, cit., p. 741. 8 Kengor, God and George W. Bush, cit., pp. 182-84.
Capitolo 4 ! Intervista di George W. Bush con la Baptist Press, servizio di informazione nazionale della Southern Baptist Convention, 31 agosto 2000, http://www.beliefnet.com/story/33/story_3345_1.html. ? G.W. Bush, M. Herskowitz, A Charge to Keep: My Journey to the White House, HarperCollins, New York 2001, pp. 1-13. ? Cfr. P. Kengor, God and George W. Bush: A Spiritual Life, ReganBooksHarperCollins, New York 2004, p. 61. 4 Cit. in S. Mansfield, The Faith of George W. Bush, Tarcher-Penguin, New York 2003, p. 109. 2 Ivi} p.185. 6 Kengor, God and George W. Bush, cit., p. 118. ? Cit. in T.M. Freiling (a cura di), George W. Bush on God and Country, Allegiance Press, Washington D.C. 2004, pp. 253-55. 8 J. Tapper, God Is Their Co-Pilot, http://archive.salon.com/politics/ feature/2000/07/07/born_again/. ° Cit. in Mansfield, The Faith of George W. Bush, cit., p. 95. 10 J.L. Grady, God and the Governor, in «Charisma Magazine», 29 ago-
sto 2000, http://Awww.beliefnet.com.
238
1! Intervista di S. Waldman a G.W. Bush, ottobre 2000, http://www.
beliefnet.com/story/33/story_3345_1.html. 12 G.W. Bush, Inaugural Address, 20 gennaio 2001. è Kengor, God and George W. Bush, cit., p. 84. 14 M. Novak, Choosing Presidents: Symbols of Political Leadership, Transaction Publishers, New Brunswick (N.J.) 1992, p. xxvu. > A.M. Schlesinger Jr., Introduction, in The Chief Executive: Inaugural Addresses of the Presidents of the United States from George Washington to Lyndon B. Johnson, Crown Publishers, New York 1965, p. IV. 16 C.V. La Fontaine, God and Nation in Selected U.S. Presidential Inaugural Addresses, 1789-1945: Part One, in «Church and State», 1, 1976, pp. 39-40.
!7 Cfr. L. Baritz, City on a Hill: A History of Ideas and Myths in America, Wiley, New York 1964. 18J.G. Hunt (a cura di), The Inaugural Addresses of the Presidents, Gramercy Books, New York 1997, pp. 3-7. 19 Ivi, pp. 13-20.
Ivi. ppi12335
2! D. Milbank, Religious Right Finds Its Center in Oval Office, in «The Washington Post», 24 dicembre 2001. 22 Cfr. F.I. Greenstein, The Leadership Style of George W. Bush, in Id. (a cura di), The George W. Bush Presidency: An Early Assessment, Johns Hopkins University Press, Baltimore 2003, pp. 7-8. 2 J. Kraus, September 11th and the Bush's Presidency, in J. Kraus, K.J. McMahon, D.M. Rankin (a cura di), Transformed by Crisis: The Presidency of George W. Bush and American Politics, Palgrave, New York 2004, p. 1.
Capitolo 5 ! Sulla retorica politica e religiosa di Bush, cfr. S. Silberstein, War of
Words: Language, Politics and 9/11, Routledge, London-New York 2002. 2 G.W. Bush, National Day of Prayer and Remembrance for the Victims of the Terrorist Attacks on September 11, 2001, 13 settembre 2001.
3 Id., President sRadio Address, 6 luglio 2002. 4 B. Broadway, September 11, 2001: War Cry from the Pulpit, in «The Washington Post», 22 settembre 2001; G.W. Bush, Rezzarks at the National
Day of Prayer and Remembrance Service, 14 settembre 2001. 5 Cit. in R.V. Pierard, R.D. Linder, Civil Religion and the Presidency, Zondervan, Grand Rapids (Mich.) 1988, p. 78.
6 Cfr. E. Gentile, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 27-39. ? Cfr. J.F. Meyer, Myths in Stone: Religious Dimension of Washington D.C., University of California Press, Berkeley 2001, pp. 76-81. 8 Per le notizie sulla cattedrale, http://www.cathedral.org/cathedral/
discover/history.shtml.
299
9 Per il testo del discorso di Bush, http://bushlibrary.tamu.edu/papers/ 1990/90092900.html.
10 EL. Tuveson, Redeemer Nation: The Ideas ofAmerica's Millennial Role, University of Chicago Press, Chicago 1968, pp. 197-98. 1! Broadway, September 11, 2001, cit.
!? Cfr. P. Kengor, God and George W. Bush: A Spiritual Life, ReganBooks-HarperCollins, New York 2004,p. 134. 13 H.R. Kreider, Jesus at the Nido Cathedral, in D.B. Kraybill, L.G. Peachey (a cura di), Where Was God on Sept. 11? Seeds of Faith and Hope, Herald Press, Scottdale (Penn.) 2002, p. 61.
14 M, Silk, The Civil Religion Goes to War, in «Religion in the News», 3, 2001.
15 G.W. Bush, Address to a Joint Session of Congress and the American People, 20 settembie.2001, 16 Ibid. !7 Cfr. D. Domke, God Willing? Political Bla in the White House, the «War on Terror», and the Echoing Press, Pluto Press, London
2004, p. 36.
18]. Kraus, K.J. McMahon, D.M. Rankin (a cura di), Transformed by Crisis: The Presidency of George W. Bush and American Politics, Palgrave, New York 2004, p. 41. !9 Cfr. R. Harvey, H. Volat, USA Patriot Act. De l’exception è la règle, Lignes, Paris 2006. 20 G.W. Bush, Address to the Nation, 7 ottobre 2001.
2! Cfr. D.L. Green, Bush Turns Increasingly to Language of Religion, in «The Baltimore Sun», 10 febbraio 2003. 22 Kengor, God and George W. Bush, cit., p. 135.
3 G.W. Bush, «Islam Is Peace» Says President: Remarks by the President at Islamic Center of Washington D.C., 17 settembre 2001. 24 Id., President Meets with Muslim Leaders, 26 settembre 2001.
2 Pew Forum on Religion & Public Life, Post 9-11 Attitudes: Religion More Preminent, Muslim-Americans More Accepted, 6 dicembre 2001, http://
pewforum.org. 26 Id., Amzerican Struggle with Religion's Role at Home and Abroad, Pew Research Center for the People and the Press, Washington D.C. 2002. 27 Cit. in S. Waldman, The Real Spiritual Impact of 9/11, settembre 2003, http://www.beliefnet.com/story/112/story_11238.html. 28 Cit. in Kengor, God and George W. Bush, cit., pp. 135-36. 29 Cfr. E. Kaplan, With God on Thetr Side: How Christian Fundamentalists Trampled Science, Policy, and Democracy in George W. Bush's White House, New Press, New York 2004, pp. 12-18.
30 Ivi, p. 139. 31Ivi, p: 137.
32 H. Fineman, Bush and God, in «Newsweek», 10 marzo 2003. © N.D. Kristof, Giving God a Break, in «The New York Times», 10 giugno 2003.
240
34 Cit. in J. Farina (a cura di), Beauty for Ashes: Spiritual Reflections on the Attack on America, Crossroad Publishing Company, New York 2001,
pp. 41-45.
3? Cfr. Kengor, God and George W. Bush, cit., p. 169. 3 Cit. in D. Caldwell, George Bush's Theology: Does the President Believe He Has a Divine Mandate?, in «National Catholic Reporter», 21 febbraio 2003. 37 Cit. in G. Wills, Fringe Government, in «The New York Review of Books», 6 ottobre 2005.
38 D. Frum, The Right Man: An Inside Account of the Bush White House, Random House, New York 2003, p. 148.
39 T. Carnes, Busb's Defining Moment, in «Christianity Today», 12 novembre 2001. 4° Cfr. S. Mansfield, The Faith of George W. Bush, Tarcher-Penguin, New York 2003, p. 174.
Capitolo 6 ! D. Frum, The Right Man: An Inside Account of the Bush White House, Random House, New York 2003, pp. 244 sgg. ? G.W. Bush, Rerzarks by the President Upon Arrival at Barksdale Atr Force Base, 11 settembre 2001.
3 Id., Honoring the Victims of the Incidents on Tuesday, September 11, 2001, 12 settembre 2001.
4 Ibid. > Id., National Day of Prayer and Remembrance for the Victims of the Terrorist Attacks on September 11, 2001, 13 settembre 2001.
6 Id., Presidents Pays Tribute at Pentagon Memorial: Remarks by the President at the Department of Defense Service of Remembrance, 11 ottobre 2001. ? Id., The President's State of the Union Address, 29 gennaio 2002. 8 R. Fuller, Narzing the Antichrist: The History ofan American Obsession, Oxford University Press, New York-Oxford 1995.
? Ivi, pp. 45-50. 10 Cfr. C.L. Albanese, Sons of the Fathers: The Civil Religion of the American Revolution, Temple University Press, Philadelphia 1976. 1! Fuller, Narzing the Antichrist, cit., pp. 138-48. 12 E.L. Tuveson, Redeemer Nation: The Idea of America's Millennial Role, University of Chicago Press, Chicago 1968, pp. 187-214. 13 Cfr. RH. Abrams, Preachers Present Arms: The Role of the American Churches and Clergy in World Wars I and II with Some Observations on the War in Vietnam, Herald Press, Scottdale (Penn.) 1969. 14 Cit. in R.V. Pierard, R.D. Linder, Civ) Religion and the Presidency, Zondervan, Grand Rapids (Mich.) 1988, p. 158.
© Ivi, pil6i
241
16 P, Kengor, God and Ronald Reagan: A Spiritual Life, ReganBooksHarperCollins, New York 2004, pp. 234-41. 17 Cfr. R.L. Coles, Manifest Destiny Adapted for 1990s° War Discourse: Mission and Destiny Intertwined, in «Sociology of Religion», 63, 2002, 4, pp. 403-26.
18 G.W. Bush, Remarks Following a Meeting with the National Security
Team, 12 settembre 2001. 19 Id., President Discusses War on Terrorism in Address to the Nation
World Congress Center, 8 novembre 2001. 20 Id., Securing Freedom’s Triumph, in «The New York Times», 11 settembre 2002. 21 Ivi, 12 settembre 2002.
22 A.M. Schlesinger Jr., Crisi di fiducia. Idee, potere e violenza in America, trad. it., Rizzoli, Milano 1971, p. 7.
23 R.N. Bellah, The Broken Covenant: American Civil Religion in Time of Trial, Seabury Press, New York 1975.
24J.O. Robertson, Arzerican Myth American Reality, Hill & Wang, New York 1980. 25 Cit. in R.A. Sherrill (a cura di), Religion and the Life of the Nation:
American Recoveries, University of Illinois Press, Urbana 1990, p. 3. 26 R. Wuthnow, The Struggle for America's Soul: Evangelicals, Liberals, and Secularisma, William B. Eerdmans, Grand Rapids (Mich.) 1989, p. x. 27 Ivi, pp. 21-26. 28 J.D. Hunter, Culture Wars: The Struggle to Define America, Basic Books, New York 1991. 2° Cit. in J.A. Morone, Hellfire Nation: The Politics of Sin in American History, Yale University Press, New Haven 2003, p. 253.
30J.J. Kirkpatrick, The Reagan Phenomenon and Other Speeches on Foreign Policy, American Enterprise Institute for Public Policy Research, Washington D.C. 1983, p. 12. 31 The Rebirth of America, Arthur S. DeMoss Foundation, Philadelphia 1986.
214 pars.
3 R.N. Bellah, R. Madsen, W.M. Sullivan, A. Swidler, S.M. Tipton, Habits of the Hearts, Harper & Row, New York 1985. 34 A.M. Schlesinger Jr., The Disuniting of America, Whittle Direct Book, Knoxville (Tenn.) 1991, p. 2. 3 S.L. Carter, The Culture of Disbelief. How American Law and Politics Trivialize Religious Devotion, Basic Books, New York 1993. ?© Cit. in D.G. Mayer, The American Paradox: Spiritual Hunger in an Age of Plenty, Yale University Press, New Haven 2000, p. 257. al VIPIX
28 E.J. Eisenach, The Next Religious Establishment: National Identity and Political Theology in Post-Protestant America, Rowman & Littlefield, Lanham (Md.) 2000, pp. 1-2. 3° Mayer, The American Paradox, cit., pp. 258 sgg.
242
#0Tbid: 4! Cit. in J.G. Hunt (a cura di), The Inaugural Addresses of the Presidents, Gramercy Books, New York 1997, p. 501. 42 F. Clarkson, Eternal Hostility: The Struggle between Theocracy and Democracy, Common Courage Press, Monroe (Me.) 1997. # R. Putnam, Bowling Alone: America's Declining Social Capital, in «Journal of Democracy», 6, 1995, pp. 65-78; Id., Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community, Simon & Schuster, New York 2000.
4 Id., Bowling Together, in «The American Prospect», 11 febbraio 2002. 4 A. Etzioni, The Silver Lining of 9/11, in «The Christian Science Monitor», 13 settembre 2001.
46 America Rebounds: A National Study of Public Response to the September 11th Terrorist Attacks. Preliminary Findings, Norc, University of Chicago, 25 ottobre 2001. 4 G.W. Bush, President Bush Calls for Action on Economy, Energy, 26 ottobre 2001. 48 Cfr. R.T. Hughes, Myths America Lives By, University of Illinois Press, Urbana 2003, pp. 152-89. 4 G.W. Bush, President Holds Prime Time News Conference, 12 ottobre 2001.
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6 K.A. Marling, J. Wetenhall, Ivo Jima: Monuments, Memories, and the American Hero, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1991, p. 73. 6 RJ. Goldstein, Saving «Old Glory»: The History of the American Flag Desecration Controversy, Westview Press, Boulder (Col.) 1995. 68 Jewett, Lawrence, Captain America, cit., p. 294.
6° Cit. in Goldstein, Saving «Old Glory», cit., p. 252. 7° Ivi, pp. 215-20.
71 G.W. Bush, A Proclamation by the President: Flag Day and National Flag Week, 7 giugno 2001. 72 S. Willis, O/4 Glory, in «The South Atlantic Quarterly», 2, 2002, p. SUE
7 IL Molotosky, The Flag, the Poet & the Song: The Story of the Star-Spangled Banner, Plume, New York 2001, pp. 215-17.
74 Ivi, p. 219.
? Jewett, Lawrence, Captain America, cit., p. 296.
76 S. Silberstein, War of Words: Language, Politics and 9/11, Routledge, London-New York 2002, p. 114.
" Huntington, Who Are We?, cit., p. 4.
78 W.D. Baker, J.R. Oneal, Patriotism or Opinion Leadership? The Nature and Origins of the «Rally Round the Flag» Effect, in Journal of Conflict Resolution», ottobre 2001, pp. 661-87.
Capitolo 7 ® G.W. Bush, Patriot Day 2002, 4 settembre 2002. 2 R. Dannheisser, In New York, Washington and Across Nation, Americans Remember 9-11, 6 settembre 2002, http://www.usembassy.it/file2002_09/ alia/a2090608.htm.
244
è Cit. in J. Steinhauer, Grieve Today, Mayor Says, and then Grasp Tomorrow, in «The New York Times», 11 settembre 2002. 4 A. Harmon, Real Solace in a Virtual World: Memorials Takes Root on the Web, ibid. ? B. Fraenkel, Les écrits de septembre. New York 2001, Textuel, Paris 2002.
6 Art and Culture, in «Gotham Gazette», 9 settembre 2002, http://www.
gothamgazette.com/print/52. ? Cfr. P. Nobel, 64.784 729. La feroce battaglia per la ricostruzione di Ground Zero, trad. it., Isbn Edizioni, Milano 2005. 8 E.D. Hudson, New York, in «Mediaweek», 9 settembre 2002.
? Blueprint for Ground Zero Begins to Take Shape, in «The New York Times», 4 maggio 2002. 10 G. Laderman, 9/11 on Our Mind, in «Religion in the News», 3, 2002. 11 Fraenkel, Les écrits, cit., pp. 84-85. 12 J.-P. Dupuy, Aviorns-nous oublié le mal? Penser la politique après le 11 septembre, Bayard, Paris 2002, p. 58. 13 K. McManus, Saving the Flesh, inJ.Langford, L.S. Rouner (a cura di), Walking with God in a Fragile World, Rowman & Littlefield, Lanham (Md.)
2003, p. 136.
!4 C. Bohlen, Sudden Warnings Statement Adds Drama to Anxious Day, in «The New York Times», 11 settembre 2001. 15 Cfr. C. Cherry, God's New Israel: Religious Interpretation of American
Destiny, The University of North Carolina Pres, Chapel Hill 1988; J.F. Berens, Providence & Patriotism in Early America, 1640-1815, University of
Virginia Press, Charlottesville 1978. 16 Sul rapporto fra nazionalismo e religione negli Stati Uniti cfr. D. Dohen, Nationalism and American Catholicism, Sheed and Ward, New York 1967; H.S. Hudson (a cura di), Nationalism and Religion, Harper & Row, New York 1970; C. Strout, The New Heavens and New Earth: Political Religion in America, Harper & Row, New York 1974; R.J. Neuhaus (a cura di), Unsecular America, William B. Eedermans, Grand Rapids (Mich.) 1986; Re-
ligion, Ideology and Nationalism in Europe and America. Essay Presented in Honor of Yehoshua Arieli, The Historical Society of Israel and The Zalman Shazar Center for Jewish History, Jerusalem 1986, pp. 185 sgg.; C.C. O’Brien, God and Land: Reflections on Religion and Nationalism, Harvard
University Press, Cambridge (Mass.)-London 1988; W. Zelinski, Nation Into State: The Shifting Symbolic Foundations of American Nationalism, The University of North Carolina Press, Chapel Hill-London 1988; J.H. Hutson (a cura di), Religion and the New Republic. Faith in the Founding of America, Rowan & Littlefield, Lanham 1989; M.A. Noll (a cura di), Religion and American Politics: From the Colonial Period to the 1980s, Oxford University Press, New York-Oxford 1990; J. Bodnar (a cura di), Bords of Affection: Americans Define Their Patriotism, Princeton University Press, Princeton
(N.J.) 1996; J.F. Wilson, Religion and the American Nation: Historiography and History, The University of Georgia Press, Athens-London 2003; Y.T.S.
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Engeman, M.P. Zuckert (a cura di), Protestantism and the American Founding, University of Notre Dame Press, Notre Dame 2004. 17 W.L. Warner, The Living and The Dead: A Study of the Symbolic Life of Americans, Yale University Press, New Haven 1959, p. 4. 18 G.K. Piehler, Remembering War the American Way, Smithsonian Institution Press, Washington D.C. 1995, p. xIv. Cfr. J.M. Mayo, War Memo-
rials as Political Landscape: The American Experience and Beyond, Praeger, New York-Westport (Conn.) 1988; E.T. Linenthal, Sacred Ground: Americans and Their Battlefields, University of Illinois Press, Urbana 1991.
19 K.E. Foote, Shadowed Ground: America's Landscapes of Violence and Tragedy, University of Texas Press, Austin 1997, p. 6. 20 P. Metcalf, R. Huntington, Celebrations of Death: The Anthropology of Mortuary Ritual, Cambridge University Press, Cambridge 1991, p. 213. 21 Laderman, 9/11 on Our Mind, cit. 22 G. Wills, Lincoln at Gettysburg, Simon & Schuster, New York 1992. 2 M. Kakutani, Rizuals, Improvised or Traditional, in «The New York Times», 12 settembre 2002.
24 Cfr. B. Cabanes, J.-M. Pitte, 11 septerzbre. La Grande Guerre des Américains, Colin, Paris 2003, pp. 112-17. 2 D. Barry, A Day of Tributes, Tears and the Litany of the Lost, in «The New York Times», 12 settembre 2002.
26J. Abu-Lughod, After the WTC Disaster: The Sacred, the Profane, and Social Solidarity, http://www.ssrc.org. 27 FX. Clines, President and Wife Draw Warm Response in Meeting With Families, in «The New York Times», 12 settembre 2002. 28 D. Potorti (a cura di), September 11th Families fora Peaceful Tomorrow: Turning Our Grief into Action for Peace, Rdv Books, New York 2003, p. 7.
29 Cit. ivi, p. 22,
30 J. Tierney, Honoring Those Lost and Celebrating a New Symbol of Resilience, in «The New York Times», 12 settembre 2002. 3! Kakutani, Rituals, Improvised or Traditional, cit. 32 Laderman, 9/11 on Our Mind, cit. 33 Clines, President and Wife, cit.
34 McManus, Saving the Flesh, cit., p. 137. 3 G.W. Bush, Patriot Day, 2002, 4 settembre 2002.
3° The Pew Research Center for the People and the Press, Amzong Wealthy Nations... U.S. Stands Alone in Its Embrace of Religion, 19 dicembre 2002, http://rww.people-press.org. ?? Cit. in K. Mori, 9/11 and the «American Civil Religion» Today, in «Journal of Interdisciplinary Study of Monotheistic Religion», 1, 2005, pp. 1-17, http://www.cismor.jp/on/research/report/mori.pdf. 28 J. Lampman, Arzericans See Religion as Gaining Clout in Public Life, in «The Christian Science Monitor», 7 dicembre 2001.
3° Cfr. D.L. Eck, A New Religious America: How a «Christian Country» Has Become the World's Most Religiously Diverse Nation, Harper SanFrancisco, New York 2001.
246
408. Waldman, The Real Spiritual Impact of 9/11, settembre 2003, http://
www.beliefnet.com/story/112/story_11238.html. 41 A.J. Reichley, Fa:th in Politics, Brookings Institution Press, Wash-
ington D.C. 2002, p. 349.
4 Cit. in]J.J. Dilulio Jr., The Lords Work: The Church and Civil Society, in E.J. Dionne Jr. (a cura di), Comunity Works: The Revival of Civil Society in America, Brookings Institution Press, Washington D.C. 1998, p. 58; R.W.
Fogel, The Fourth Great Awakening & the Future of Egalitarianism, University of Chicago Press, Chicago 1999. 4 Waldman, The Real Spiritual Impact of 9/11, cit. 44 Ibid. 4 Cfr. P. Paul, True Believers, in «American Demographics», settembre
2002, pp. 42-45.
4° Pew Forum on Religion & Public Life, Lift Every Voice: A Report on Religion in American Public Life, dicembre 2001, http://pewforum.org. 47 The Pew Research Center for the People and the Press, Religion and Politics: Contentions and Consensus, 24 luglio 2003, http://www.peoplepress.org. 48 Cit. in Survey on American Attitudes Toward Religion in Public Life, http://www.witherspoonsociety.org. 49 Paul, True Believers, cit. 50 La bibliografia sulla religione civile americana e sul dibattito provocato dal saggio di Robert N. Bellah è voluminosa, pertanto mi limito a segnalare alcune principali opere di orientamento sulle diverse posizioni: E.A. Smith (a cura di), The Religion of the Republic, Fortress Press, Philadelphia 1971; R.S. Alley, So Help Me God: Religion and the Presidency: Wilson to Nixon, John Knox Press, Richmond 1972; R.E. Richey, D.G. Jones (a cura di), Arzerican Civil Religion, Harper & Row, New York 1974; M. Novak,
Choosing Our King: Powerful Symbols in Presidential Politics, Macmillan, New York 1974; R.P. Hart, The Political Pulpit, The Purdue University Press, West Lafayette 1977; R.D. Linder, R.V. Pierard, Twilight of the Saints:
Biblical Christianity and Civil Religion in America, Inter Varsity, Downers Grove 1978; J.F. Wilson, Public Religion in American Culture, Temple Uni- . versity Press, Philadelphia 1979; R.N. Bellah, P.E. Hammond, Variezies of Civil Religion, Harper & Row, New York 1980; G. Gehrig, Amzerican Civil Religion: An Assessment, Lewis University, Romeoville (Ill.) 1981; L.S. Rouner (a cura di), Civil Religion and Political Theology, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1986; S. Levison, Constitutional Faith, Princeton
University Press, Princeton (N.J.) 1988; R.V. Pierard, R.D. Linder, Civil Religion and the Presidency, Zondervan, Grand Rapids (Mich.) 1988; T. Hase, Zivilreligion. Religionwissenchaftliche Uberlegungen zu einem theoretischen Konzept am Beispiel der USA, Ergon Verlag, Wiirzburg 2001. Per una rassegna critica del dibattito cfr. J.A. Mathisen, Twenty Years After Bellah: Whatever Happened to American Civil Religion?, in «Sociological Analysis», 50, 1989, 2, pp. 129-46; P.E. Hammond, Arzerican Civil Religion Revisited,
in «Religion and American Culture», 4, 1994, pp. 1-23.
247
51 RN. Bellah, The Broken Covenant: American Civil Religion in Time of Trial, Seabury Press, New York 1975, p. 142. 52 MS. Allen, In God We Trust, in «Star Tribune», 14 gennaio 1974. 5 C.W. Gaddy, Azerican Civil Religion: The Past and Present Role of Re-
ligion in Shaping the American National Identity, 1° aprile 2000, http://www. interfaithalliance.org. 54 C.P. Henderson, The Best of Bush: Poetry not/Piety yes, http://www. christianity.about.com/library/weekly/aa012201.htm. 55 Cit. in N.K. Gvosdev, New President Continues Old Traditions of American Civil Religion, 24 gennaio 2001, www.geocities.com. 56 M. Angrosino, Civil Religion Redux, in «Anthropological Quarterly»,
2, 2002, pp. 239-67.
57 R. Slotkin, Our My#hs of Choice, in «The Chronicle of Higher Education», 28 settembre 2001. 58 Pew Forum on Religion & Public Life, God Bless Arzerica: Reflections
on Civil Religion After September 11, 6 febbraio 2002, http://pewforum.org. 59 W.M. McClay, The Soul of a Nation, in «The Public Interest», 2004, pp. 4-19.
6 Cit. in Rally round the Flag, in «Christianity Today», 12 novembre 2001. 6! C. Colson, Wake-up Call, ibid.
6 R. Benne, That Old Time Religion, in «Journal of Lutheran Ethics», 14 dicembre 2001, http://www.elca.org/jle/article.asp?K=56. 6 M.S. Allen, Olyrzpics Gives U.S. a Chance to Show Its ‘Civil Religion’, in «Star Tribune», 9 febbraio 2002. 64 McClay, The Soul of a Nation, cit. & T. Carnes, Bush's Defining Moment, in «Christianity Today», 12 novembre 2001. 6 M. Silk, The Civil Religion Goes to War, in «Religion in the News», 3, 2001.
© Bush's Messiah Complex, in «The Progressive», febbraio 2003. 6 Cfr. N. Graebner (a cura di), Marifest Destiny, Bobbs-Merrill, Indianapolis-New York 1968, pp. XLVI sgg.
° Cfr. R.V. Pierard, R.D. Linder, Civil Religion and the Presidency, Zondervan, Grand Rapids (Mich.) 1988, pp. 124 sgg. 7° J. Carney, J.F. Dickerson, Taking Air at 2004, in «Time», 5 maggio 2003. 7! M. Whitaker, The Editors Desk, in «Newsweek», 10 marzo 2003.
Capitolo 8 ! Cfr. G.J. Ikenberry, Arzerica’s Imperial Ambition, in «Foreign Affairs»,
settembre-ottobre 2002, pp. 44-60. ? M. Pei, The Paradoxes of American Nationalism, in «Foreign Policy», maggio-giugno 2003, p. 31.
248
? Cfr. Y. Arieli, Individualism and Nationalism in American Ideology, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1964; R.B. Nye, This Alzzost Chosen People: Essays in the History of American Ideas, Macmillan, Toronto
1966, pp. 208-55.
4 Cfr. S. Mead, The Nation with the Soul of aChurch, Harper & Row, New York 1975. ? Cfr. W.S. Hudson (a cura di), Nazionalism and Religion in America,
Harper & Row, New York 1970. 6 RN. Bellah, Civil Religion in America, in «Daedalus», 1, 1967, pp. 118. Sulla separazione fra Stato e Chiesa cfr. P. Hamburger, Separation of Church and State, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2002. 7 W. Herberg, Protestant — Catholic — Jew: An Essay in American Religious Sociology (1955), Anchor Books, Garden City (N.Y.) 1960, pp. 1-2.
8 Ivi, p. 259. po:
10 Ivi, pp. 263-635.
!! G.W. Bush, Second Inaugural Address, 20 gennaio 2005. 12 Cit. in J. Wallis, Dangerous Religion, in «Sojourners Magazine», settembre-ottobre 2003, p. 20. 13 A. Lieven, Arzerica Right or Wrong: An Anatomy of American Nationalism, Oxford University Press, Oxford 2004, p. 28. 14 F. Zakaria, The Arrogant Empire, in «Newsweek», 10 marzo 2003. Sull’antiamericanismo dopo 11 settembre cfr. M. Hertsgaard, The Eagles
Shadow: Why America Fascinates and Infuriates the World, Farrar, Strauss and Giroux, New York 2002; J.-F. Revel, L’obsession anti-américaine, Plon,
Paris 2002; Z. Sardar, M.W. Davies, Why Do People Hate America?, Icon Books, Cambridge 2002. 15 J. Chace, Imperial America and the Common Interest, in «World Policy Journal», 1, 2002, pp. 1-9. 16 Cfr. J. Gray, The Mirage of Empire, in «The New York Review of Book», 12 gennaio 2006. 17 P. Boyer, When U.S. Foreign Policy Meets Biblical Prophecy, 20 febbraio 2003, http://www.alternet.org/story/15221. 18 T. Carnes, The Bush Doctrine, in «Christianity Today», 25 aprile 2003. 19 H. Meyerson, The Most Dangerous President Ever, in «The American Prospect», maggio 2003. 20 Cit. inJ.M. Parker, The ‘Almost Chosen': U.S. Patriotism, Piety Linked, in «San Antonio Express-News», 12 aprile 2003. 21 B. Broadway, TV Debate Delineates Christian Divide on War, in «The Washington Post», 15 marzo 2003. 22 R. Land, Tbe Christian Criteria for Retribution, in Beliefnet (a cura di),
From the Ashes: A Spiritual Response to the Attack on America, Rodale, s.l.
2001, p. 165.
2 Cfr. T. Mitri, Au nome de la Bible, au nome de l’Amérique, Labor et Fides, Genève 2004, pp. 130-38.
249
24 P, Kengor, God and George W. Bush: A Spiritual Life, ReganBooksHarperCollins, New York 2004, p. 230. 25 E. Bumiller, Religious Leaders Ask ifAntiwar Call Is Heard, in «The New York Times», 10 marzo 2003.
26 Una mobilitazione penitenziale per la pace, in «L'Osservatore Romano», 8 marzo 2003. Sull’atteggiamento del Vaticano nei confronti della presidenza Bush cfr. M. Franco, Imperi paralleli. Vaticano e Stati Uniti: due secoli di alleanza e conflitto 1788-2005, Mondadori, Milano 2005, pp. 121 sgg. 27 S. Fath, Dieu bénisse l’Amérique. La religion de la Maison-Blanche, Seuil, Paris 2004, p. 143. 28 Deny Them Thetr Victory: An Interfaith Response to Terror, in J. Farina (a cura di), Beauty for Ashes: Spiritual Reflections on the Attack on America, Crossroad Publishing Company, New York 2001; pp. 45-48. 29 S. Hauerwas, September 11, 2001: A Pacifist Response, in J. Langford, L.S. Rouner (a cura di), Walking with God in a Fragite World, Rowman & Littlefield, Lanham (Md.) 2003, pp. 121-30.
30 C.C. Black, A Laugh in the Dark, in «Theology Today», 60, 2003, pp. 149-53.
31 D.B. Kraybill, What Would Jesus Do?, in D.B. Kraybill, L.G. Peachey (a cura di), Where Was God on Sept. 11? Seeds of Faith and Hope, Herald Press, Scottdale (Penn.) 2002, p. 37. 32 D.W. Shriver Jr., Forgiveness? Now?, ivi, pp. 90-91. 33 A.M. Greeley, Where Was God?, in Beliefnet (a cura di), Frormz the
Ashes, cit., pp. 43-44. 34 Cfr. J. Dart, Bush Religious Rbetoric Riles Critics, in «The Christian Century», 8 marzo 2003; T. Carnes, The Bush Doctrine, in «Christianity Today», maggio 2003. 35 Bush's Messiah Complex, in «The Progressive», febbraio 2003, www. progressive.org.
20 .Ibid. 37 Fath, Dieu bénisse lAmérique, cit., pp. 122 sgg. 38 F. Rampini, Tutti gli uomini del presidente. George W. Bush e la nuova destra americana, Carocci, Roma 2004, p. 111. ?° C. Hitchens, God and the Man in the White House, in «Vanity Fair», agosto 2003, p. 81. 40 B. Keller, God and George W. Bush, in «The New York Times», 17 maggio 2003.
41]. Klein, The Blinding Glare of His Certainty, in «Time», 24 febbraio 2003. 4 R. Suskind, Without a Doubt, in «The New York Times Magazine»,
17 ottobre 2004. 4 C. Mirra, George W. Bush's Theological Diplomacy, in «American Diplomacy», 15 ottobre 2003, http://www.americandiplomacy.otg. 44 F. Ritsch, Of God, and Man, in the Oval Office, in «The Washington Post», 2 marzo 2003.
250
4 Cit. in D. Caldwell, George Bush's Theology, in «National Catholic Reporter», 21 febbraio 2003. 4° Op/Ed on Bush's Use of Religious Language: President Plays the Christian Trump Card, http://www.interfaithalliance.org/About/About.cfm?ID= 4665 &c=6. 47 B.W. Lynn, Uncivil Religion: Bush and the Bully Pulpit, in «Church & State», marzo 2003. 48 R. Balmer, Bush and God, in «The Nation», 14 aprile 2003. 4° M.E. Marty, The Sin of Pride, in «Newsweek», 10 marzo 2003. 20 K.L. Woodward, The White House: Gospel on the Potomac, ibid. 721 G. McGovern, The Reason Why, in «The Nation», 21 aprile 2003. 22 P. Singer, The President of Good and Evil: Taking George W. Bush Seriously, Granta Books, London 2004, p. 1.
53 Ivi, pp.90-111.
DA Ivi pe229: 7 J. Wallis, God°s Politics: Why the Right Gets It Wrong and the Left Doesn't Get It, HarperCollins, New York 2005. 26 Ivi, pp. 145-49.
57 Cfr. M.A. Noll, Arzerica’s God: From Jonathan Edwards to Abraham Lincoln, Oxford University Press, Oxford 2002. 58 H.R. Niebuhr, The Kingdom of God in America, Harper & Row, New York 1937.
5° Cfr. D.C. Swift, Religion and the American Experience, M.E. Sharpe, Armonk (N.Y.) 1998; C.L. Albanese, America Religions and Religion, Wadsworth, Belmont 1999, cap. 13; P.E. Hammond, Civil Religion, in W.C. Roof (a cura di), Contemporary American Religion, vol. I, Macmillan, New
York 2000, pp. 133-34.
60 Sui rapporti fra religione e politica negli Stati Uniti dalla seconda metà del Novecento all’11 settembre cfr. G.A. Kelly, Politics and Religious Consciousness in America, Transaction Books, New Brunswick-London 1984; R.P. MeBrien, Ceasar's Coin: Religion and Politics in America, Macmillan,
New York 1987; D. Chidester, Patterns of Power: Religion & Politics in American Culture, Prentice Hall, Englewood Cliffs (N.J.) 1988; M. Silk, Spzritual Politics: Religion and America since World War II, Simon & Schuster, New York 1988; C.W. Dunn (a cura di), Religion in American Politics, Con-
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Public Square: Faith and Policy in America, Woodrow Wilson Center Press, Washington D.C. 2003; R. Pratorius, In God We Trust: Religion und Politik in den U.S.A., Verlag C.H. Beck, Miinchen 2003; Mitri, Au mor de la Bible, au nome de l’Amérique, cit.; J.-F. Colosimo, Dieu est américain. De la théodémocratie aux Etats-Unis, Fayard, Paris 2006.
251
61 Rally Round the Flag, in «Christianity Today», 12 novembre 2001. 62 Civil Religious War, ivi, 7 gennaio 2002, p.9.
6 J.W. Fulbright, The Arrogance of Power, Random House, New York 1966. Aviano
5 RN. Bellah, Beyond Belief- Essay on Religion in a Post-Traditional World, Harper & Row, New York 1970, p. 168. 6 M, Novak, Choosing Our King: Powerful Symbols in Presidential Politics, Macmillan, New York 1974, p. 128. Cfr. Religion and the Public Good, Mercer University Press, Macon 1988. 67 M.E. Marty, Two Kinds of Two Kinds of Civil Religion, in R.E. Richey,
D.G. Jones (a cura di), Arzerican Civil Religion, Harper & Row, New York
1974, pp. 139-57.
;
6 R. Wuthnow, The Restructuring ofAmerican Religion, Princeton University Press, Princeton 1988, pp. 244-67. 5? Cfr. R.M. Miller, H.S. Stout, C.R. Wilson (a cura di), Religion and the American Civil War, Oxford University Press, Oxford 1998; C.E. O’Leary, To Die For: The Paradox of American Patriottism, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1999.
7° Pew Forum on Religion & Public Life, God Bless America: Reflections on Civil Religion After September 11, 6 febbraio 2002, http://pewforum.org. 7! Cfr. M.E. Marty, Pilgrims in Their Qwn Land: 500 Years of Religion in America, Penguin Books, New York 1984, pp. 274 sgg.; O'Leary, To Die For, cit., pp. 61 sgg.
72 R. Jewett, J.S. Lawrence, Captain America and the Crusade against Evil: The Dilemma of Zealous Nationalism, William B. Eerdmans, Grand Rapids
(Mich.) 2003, p. 8.
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?" ME. Bailey, K. Lindholm, Tocqueville and the Rhetoric of Civil Religion in the Presidential Inaugural Addresses, in «Christian Scholar’s Review»,
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78 G. Monbiot, Post-9/11 America Is a Religion, 30 luglio 2003, http://
www.alternet.org. ?° Cit. in W. Peterson, The Case Against Civil Religion, in «Eternity», ottobre 1973, p. 25. 80 Ivi, pp. 26-27.
81 Ivi, p. 26.
252
82 D.B. Kraybill, Our Star-Spangled Faith, Herald Press, Scottdale (Penn.) 1976, p.9. Sip. 20
84 Ivi, p. 26. 85 Ivi, p. 144. 86 Id., Which God Bless America?, in D.B. Kraybill, L.G. Peachey (a cu-
ra di), Where Was God on Sept. 11? Seeds of Faith and Hope, Herald Press, Scottdale (Penn.) 2002, pp. 159-60. 87 D.E. Nisly, Arzerican Versus Heavenly Citizenship, in Kraybill, Peachey (a cura di), Where Was God on Sept. 11?, cit., p. 157. 88 R. Detrick, A Flag in Worship?, in Kraybill, Peachey (a cura di), Where Was God on Sept. 112, cit., p. 170.
8° Flagging Faith, Cbs Radio Network, 21 marzo 2002, http://www.acfnewsource.org/religion/flagging_faith.html. 9° V. Weaver-Zercher, Wby I Don't Fly Old Glory, in Kraybill, Peachey (a cura di), Where Was God on Sept. 11?, cit., pp. 167-68. 2! P. Keim, My Struggle with the Flag, ivi, p. 164. ® D. Domke, God Willing? Political Fundamentalism in the White House, the «War on Terror», and the Echoing Press, Pluto Press, London-Ann Arbor 2004.
8 J. Wallis, Dangerous Religion, in «Soujourners Magazine», settembre-
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% O. Noti, Bushs Gott ist ein Gòtze, in «Sonntagsblick», 24 marzo 2003. % S. Fath, Dieu bénisse l’Amérique. La religion de la Maison-Blanche,
Seuil, Paris 2004, p. 249.
Capitolo 9 ! C.M. Cannon, Bush and God, in «National Journal», 3 gennaio 2004, SuiiS:
È 2 President’s Use of Evangelicals Christian Language Is Dangerous, Decisive and «Cripples» Democracy, 11 febbraio 2003, www.interfaithalliance. org/News.cfm?ID=4666&c=7. 3} R. Benedetto, Bush's Approval Rating Drops to Lowest since 9/11, in «Usa 4 York 5
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6 The Pew Research Center for the People and the Press, Anti-Americanism: Causes and Characteristics — Recent Commentary by Andrew Kobut, 10 dicembre 2003, http://pewforum.org. ? Cfr. Pew Forum on Religion & Public Life, God and Foreign Policy: The Religions Divide between the U.S. and Europe, 10 luglio 2003, http://pewforum.org; E. Gentile, Collisione transatlantica, in «Il Sole-24 Ore», 24 otto-
220
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febbraio 2005; Pew Forum on Religion & Public Life, Secular Europe and Religious America: Implications for Transatlantic Relations, 21 aprile 2005, http://pewforum.org. 8 Pew Forum on Religion & Public Life, God and Foreign Policy, cit. ? P. Schneider, Separated by Civilization: Trans-Atlantic Impasse, in «International Herald Tribune», 7 aprile 2004. 10 Cit. in T.L. Friedman, An American in Europe, ivi, 21 gennaio 2005. 11 S.P. Huntington, Who Are We? The Challenges to America's National Identity, Simon & Schuster, New York 2004.
a i p965.
13 Ivi, p. 106. 14T.L. Friedman, Two Nations under God, in «Internation Herald Tribune», 5 novembre 2004. 5 Cfr.R. Dworkin, The Threat to Patriotism, in «The New York Review of Books», 28 febbraio 2002; B. Moyers, We/corze to Doomsday, ivi, 24 marzo 2005.
16 H. Bloom, The American Religion: The Emergence of the Post-Christian Nation, Simon & Schuster, New York 1992, p. 45.
17 Ivi, p. 270.
18M. Silk, Our New Religious Politics, in «Religion in the News», 3, 2005. !° Sulla distinzione fra religione civile e religione politica, cfr. E. Gentile, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Laterza, RomaBari 2001. 20 Ivi, pp. 37-38, 208-209.
21 A. Wolfe, The Transformation ofAmerican Religion: How We Actually Live Our Faith, Free Press, New York 2003, pp. 245 sgg.
Indici
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Indice dei nomi
Abrams, R.H., 241.
Berger, P., 186. Berlett, C., 201. Bernstein, R., 232, 253. Besier, G., 243. Biden, J.R. Jr., 17. Bin Laden, O., 14-15, 21-22, 48, 51,
Abu-Lughod, J., 246. Adams, C.G., 234.
Adams,J., 104-105. Adamson, W.L., x. Adler, J., 231.
Agostino d’Ippona, santo, 198.
DOD 13701378 Black, C.C., 250.
Ahlstrom, S.E., 72, 235. Albanese, C.L., 241, 251. Allen, M.S., 248.
Bloom, H., 225, 254.
Bloomberg, M.R., 162. Bodnar, J., 245.
Alley, R.S., 90, 238, 247.
Body-Gendrot, S., 231. Bohlen, C., 245.
Angrosino, M., 181, 248.
Arafat, Y., 51. Arendt, H., 41. Arieli, Y., 249.
Boime, A., 244.
Booth, C.E., 57, 234. Bowman, R., 56. Boyer 9052508237249:
Armstrong, K., 40, 232.
Ashcroft, J., 87-88, 165, 173. Atta, M., 4.
Boykin, W., 131. Bradbury, M.L., 236.
Bailey, M.E., 212, 252. Baker, G., 236. Baker, W.D., 244. Balmer, R., 203, 251.
BalliS=25325
Broadway, B., 119, 239-40, 249. Broder, D., 110. Bryan, W.J., 72. Buechner, F., 47, 54, 233. Bumiller, E., 250. Burbach, R., 232. Burns, E.M., 229.
Baritz, L., 239. Barry, D., 246. Becker, E., 232. Bellah, R.N., 119, 141, 143, 152-53,
Bush, famiglia, 65.
178, 182, 192, 209, 238, 242-43, 247-49, 252.
Bush, G.H.W,, 7-8, 64, 66, 69, 73716, 81,184 186, 93L961113 4117) IBYRIA2E5 o 7AN708 Bush, G.W., vi-va, 3, 13, 15-18, 22-23, 32-33, 48,.51;=96; 60-70, 76-77, 79, 81, 86-88, 93, 95-102,
Bellamy, F., 155. Benedetto, R., 253. Benjamin, W., 35. Benne, R., 183-84, 212, 248, 252.
Berens,J-E.324%
257
Datt;}.:220.
107-115, 118-34, 137-40, 147-54, 157, 159-61, 170-71, 178, 180-81, 183, 186-90, 193-98, 200-206, 2082121521728 82518255: 237-44, 246, 249-50.
Davies, M.W., 234, 249. Delbanco, A., 42-43, 232-33. Demetrios, arcivescovo, 120. DeNelsky, G.Y., 31, 231. De Niro, R., 169. Detrick, R., 217, 253. Dickerson, J.F., 248.
Bush, P., 64. Butler Bass, D., 212, 252. ByidSiL 235;
Dillo
A
Cabanes, B., 246. Calandro, A., 231. Caldwell, D., 241, 251. Calhoun, C., 232. Cannistraro, P.V., x. Cannon, C.M., 220, 253. Gard VA 87% Carnes, T., 241, 248-50.
DionnexE.J. Jr., 177, 222, 237, 247,
Carney, J., 248.
Dulles, J.F., 89.
Carter, J., 72-73,,80,91-92, 113. @artersS IM AA402121 Cattaruzza, M., XI. Chace, J., 195, 249.
Dunn GWe zi
Chanda, N., 232.
Eaton PM
Cherry, C., 229, 233, 245. Chesterton, G.K., 191. Chidester, D., 251.
AGR IDHL Zio
2510
Dixon, W.W., 230. Dobson, E., 85, 237.
Dohen, D., 245. Domke, D., 217-18, 235, 240, 253.
Donahue, B.F., 235. Dowd, M., 69, 235.
Dupuy, J.-P., 164, 245. Dworkin, R., 254. 3 12551
Edel, W., 238.
Eichmann, A., 41.
Fisenach, E.J., 144, 242.
Childress, J.R., 119. Churchill, W., 188. Crab RE19%7 Clarke, B., 232.
Eisenhower, D.D., 89, 117, 156. Ellis, R.J., 244. Elshtain, J.B., 130.
Clarkson, F., 145, 201, 243.
Engeman, Y.T.S., 246.
Clines, F.X., 246.
Erdogan, T., 129.
Clinton, H., 144, 159, 169.
Ettenborough, K., 235.
Clinton, W.]7-3 #1, Dies: 73-76, 78, 84-86,93, 95,100, 113, 120, 144-45, 149, 153, 179, 182. Coles, R.L., 150-51, 242.
Etzioni, A., 146, 243. Evans, D., 88. Falk, R., 232. Falwell, J., 11, 51-52, 75; 77, 84-85, 142, 175,218. Farina; J., 231, 233-34, 241, 250! Fath, S., 198, 201, 235,250) 253.
Colombo, F., 237.
Colosimo, J.-F., 251. Colson, C., 248. Coulter, A., 32. Cowley, G., 231.
Felder, C.H., 57, 234.
Crowe, D., 128.
Fineman, H., 71, 129, 235, 237, 240.
Daalder, I.H., 230. Dannheisser, R., 244.
Fishburn, D., 230. Fogel, R.W., 175, 247. Foote, K.E., 246.
258
Ford, G., 72, 91, 113, 117.
Ford, P., 254. Fox, F.E., 89.
Guthrie, W.N., 156, 244. Gvosdev, N.K., 248.
Frachon, A., 230. Fraddosio, M., x. Fraenkel, B., 245. Franco, M., 250. Franklin, B., 115. Franklin, R.M., 56, 234.
Hamburger, P., 249. Hammond, P.E., 247, 251. Hankins, B., 181, 212, 252. Hankiss, E., 38-39, 232. Harmon, A., 162, 245.
Erecmanyij.By29}231 Freiling, T.M., 230, 238. Friedman, T.L., 225, 254.
Harvey, R., 240. Hase, Il., 247.
ErumaDiS235
ElartiRP 247)
Hatfield, M., 214.
23782410
Fukuyama, F., 7, 229.
Fulbright, J.W., 209, 252.
Heisebourg, F., 222.
Fuller, R., 134, 241. Gaddy, C.W., 180, 203, 220, 248.
Gehrig, G., 247.
Helms, J., 143. Henderson, C.P., 180, 236, 248. Herberg, W., 192-93, 249.
Hershberg, E., 232. Herskowitz, M., 235, 238. Hertsgaard, M., 229, 249. Hesburgh, T.M., 56. Hitchens, C., 202, 250.
Gentile, E., 239, 2593-54.
Gerson, M., 88, 131. Gibbs, N., 27, 231.
Gib iBozo
Giovanni Paolo II (K. Wojtyla), pa-
pa, 46, 60, 96,99, 198.
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Hauerwas, S., 198-99, 232, 250. Heclo, H., 229, 251.
ES
Goeglein, T., 131. Goldstein, R.J., 244. Gomes, P.J., 58, 234. Gomez, ]., 59, 234. Gore, A.A., 13, 70, 74, 76-78, 81, 86, 100, 102, 113, 145. Grady, J.L., 235, 238.
Graebner, N., 248. Graham, B., 65-67, 86, 89-91, 93, OSTBMORI2S:
Graham, F., 128.
Giay.4,, 249;
Hitler, A.,% 325 42,209) 215.
Hoge;J.F:-Jey232
Hudson, E.D., 163, 245. Hudson, W.S., 249.
Hughes, R.T., 242.
Hunt, J.G., 239, 243. EEN SMt229) Hunter, J.D., 142, 242.
Huntington, R., 246. Huntington, S.P., 7, 155, 159, 223, 229, 244, 254. Elisscein SA 920061 136, 147-48, 154, 187-88, 196, 220-21. Hutcheson, R.G. Jr., 88,91, 237-38. Hutson, J.H., 245.
Greeley, A.M., 53, 200, 234, 250.
Green, D.L., 240. Green, Ct 1791236537, Greenberg, J., 231, 234. Greenstein, F.I., 230, 239.
Ikenberry, G.J., 248.
Ingle, D.W., 244.
Guétin, N., 243.
Jackson, J., 77. Jefferson, T., VI, 104-106.
Gustafson, M., 238.
Jewett, R., 211, 231, 243-44, 252.
Lee, R.E., 118. Leibniz, G.W., 36. IEnfant RGalio: Lentricchia, F., 232. Levison, S., 247. Lieberman, J., 77-79, 120, 236. Lieven, A., 194, 243, 249. TENCO VARA TZ SARI ì 168-69. Lincoln, B., 233. Lindemann, G., 243. Linder, R.D., 236-39, 241, 247-48. Lindholm, K., 212, 252.
Johnson, C., 201. Johnson, L.B., 90. Jonas, H., 50, 233. Jones, D.G., 247, 252. Kakutani, M., 171, 246. Kant, I., 36, 232. Kaplan, E., 237, 240. Keeter, S., 236. Kelis P 217253
Keller, B., 202, 250.
Kelly, G.A., 251. Kelly, K., 231. Kengor, P., 235, 237-42, 250.
Lindsay, J.M}, 230.
Kennedy, E., 120. Kennedy, J.F., 7, 45, 72-73, 90.
Lindsey, H., 10. Linenthal, E.T., 30, 49, 231, 233,
Kerry, J.F., 224.
246.
Kessler, R., 237. Khomeini, R., 73. Kieschnik, G., 131. King, M.L. Jr., 117. Kirkpatrick, J.J., 143, 242. Klein, J., 250.
Locke, J., 68. Longley, C., 243. Lumumba, P., 57.
Kohut, A., 236. Kondracke, M., 230. Kornbluth, J., 231. Kosmin, B.A., 236. Kraus, J., 230, 239-40.
Marling, K.A., 244.
Lynn, B.W., 203, 251.
Madsen, R., 242. Mansfield, S., 235-38, 241.
Knight, C.A., 234.
Marshall Clark, M., 40, 232. Martin, W., 229, 237. Marty, M.E., 74, 203, 210, 251-52.
Marvin, C., 244. Massoud, A.S., 20.
Kraybill, D.B., 199, 215-16, 233-34, 2AV25025IE
Mathisen, J.A., 247. Matteo, evangelista, 118. Matthewes-Greene, F., 46-47, 233. Mayer, D.G., 242. Mayo, J.M., 246.
Kreider, H.R., 240. Kristof, N.D., 129, 240. Kristol, W., 194. Lachman, S.P., 236. Laderman, G., 164, 168, 172, 245-
MoBrien, R.P., 2591. MeCain; J.; 32. McCarrick, T.E., 119. McClay, W.M., 182-83, 185, 229, 248, 251.
46.
La Fontaine, C.V., 239. Laghi, P., 198. LaHaye, T., 142. Lampman, ]., 234, 246.
McDougall, W.A., 229. McGovern, G., 72, 204, 251. McGuigan, C., 231. McKenzie, V.M., 57, 234. McKinley, W., 72, 188. McMahon, K.J., 230, 239-40.
Land, R., 197, 249.
Langewiesche, W., 32, 231. Langford, J., 232-34, 245, 250. Lawrence:t].S.3
211 2319043744
2525
260
McManus, K., 164, 172, 245-46. Mead, S., 249. Mead, W.R., 229. Merk, F., 243. Metcalf, P., 246.
Paolo VI (G.B. Montini), papa, 56.
Meyer, J.F., 239. Meyerowitz, J., 232. Meyerson, H., 249. Micklethwait, J., 237. Milbank, D., 239. Miller, R.M., 252.
Payne, SGxX: Peachey, L.G., 233-34, 240, 250,
Papin;J., 231; Parker, J.M., 249. Pataki, G.E., 169. Paul, P., 247.
2595, Pei, M., 190, 248.
Perlez, J., 230. Peterson, T., 233. Peterson, W., 214-15, 252.
Miller, W.L., 89, 238.
Phillips, K.P., 235.
MiloSevié, S., 8. Mirra, C., 202, 250. Mitri, T., 249, 251.
Piehler, G.K., 167, 246.
Moisi, D., 222. Molinari, M., 235. Molotosky, IL, 244. Moltmann, J., 53, 55, 233. Monbiot, G., 213, 252. Moore, K.W., 232. Mori, K., 246. Morone, J.A., 242. Mosse, G.L., IX. Moyers, B., 254. Mussolini, B., x. Myers, D.G., 145.
Pitte, J.-M., 246. Polk, J., 188. Pope, A., 36. Potorti, D., 246. Powell, C., 169. Power, C., 254. Pratorius, R., 251. Prezzolini, G., 229. Price P36232!
Pierard, R.V., 237-39, 241, 247-48.
Putnam, R., 145-46, 243.
Pzszezynski, T., 231, 234.
Quaife, M.M., 156, 244. Quinby, L., 201.
Neiman, S., 40-41, 232. Neuhaus, R.J., 199, 245. Niebuhr, H.R., 207, 251.
Rampini, F., 201, 237, 250.
Rankin, D.M., 230, 239-40. Reagan, R., 10, 58, 64, 73, 81, 84, 91-93, 136, 142243, 149179.
Nisly, D.E., 253. Nixon, R.M., 72, 89, 91, 149, 209,
2391 Nobel, P., 245. Noll, M.A., 245, 251. Noonan, P., 58, 234. Northcott, M., 153, 243.
Regier Kreider, H., 120. Reichley, A.J., 237, 247, 251. Reid, W.S., 215. Revel, J.-F., 249. Ribuffo, L.P., 229, 236. Ricei@ 87) Richey, R.E., 247, 252. Risen, J., 230. Ritsch, F., 202.250; Robertson, J.O., 142, 242. Robertson, P., 10, 51-52, 66, 75, 78,
Noti, O., 253. Novak, M., 102, 210, 239, 247, 252.
Npe;{.d:]1, 229. Nye, R.B., 249. OiBrien CE 245) Ochs, P., 28231.
84 128017522187
O’Leary, GE252;
Rogers, M., 182.
Oneal, J.R., 244.
261
Roof CW251E Roosevelt, F.D., 114, 136, 170, 172. Roosevelt, T., 116. Rose, G., 232. Rouner, L.S., 46, 232-34, 245, 247, 259.01
Rousseau, J.-J., 36, 116, 178, 232.
Rozell, M.J., 237. Rumsfeld, D.H., 171. Safire, W., 74, 236. Sandel, M., 225. Sardar, Z., 234, 249. Schlesinger, A.M. Jr., 7, 102, 141, 143-44, 195, 229, 238-39, 242.
Schneider, P., 222, 254. Segers, M.C., 236-37. Shannon, M., 120. Sharon, A., 20. Sherrill, R.A., 242. Shriver, D.W. Jr., 200, 250.
Siddigi, M., 126.
Siemon-Netto, U., 233, 236.
Silberstein, S., 239, 244. Silk, M., XI, 121, 187, 226, 240, 248, 2954
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Slotkin, R., 182, 248. Smith, E.A., 247. Smith, T., 229.
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Stalin, pseud. di LV. Dzugasvili, 42.
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Steinfels, P., 49, 233. Steinhauer, J., 245. Stolberg, S.G., 230. STOUMeSAZLA StrOuti 2-5 Sullivan, W.M,, 242. Suskind, R., 202, 237, 250.
Swidler, A., 242.
Swift DG. 251. Tagliapietra, A., 232. IPalbott:S5232: Tapper, J., 236, 238. Mhomas RS) 257# Thomas, F.A., 233-34. Tierney, J., 171, 246. Timmer, A., 232. Tipton, S.M., 242.
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di F.-M.
Arouet,
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Waldman, S., 176, 239-40, 247. Wallis, J., 205-206, 218, 235, 249, POe2555 Walter, N., 235.
Walvoord, J.F., 10.
Ward Howe,J., 118. Warner, W.L., 166-67, 246.
Washington, G., v, 102-104, 11516, 118.
Watley, W.D., 46, 233-34. Weaver-Zercher, V., 217, 253. Weinberg, A_K., 229. Wesley, C., 67. Wesley, J., 67.
Wetenhall, J., 244. Weyrich, P., 85. Whitaker, M., 248. Wilcox, C., 237. Willis, S., 158, 244. Wills, G., 11,88, 230, 237, 241, 246.
Wilson, C.R., 252. Wilson, J.F., 245, 247.
Wilson, W., 18, 116, 135. Winthrop,J., 103. Wojcik, D., 11, 230. Wolfe, A., 227, 254. Wolfe, D.S., 238. Woodward, B., 237. Woodward, K.L., 204, 236, 251.
Wooldridge, A., 237. Wright, fratelli, 192.
Wuthnow, R., 142, 210, 242, 252.
Yousef, R., 21. Zakaria, F., 30, 231, 249. Zaleski, C., 37, 232, 234. Zelinski, W., 245. Zernike, K., 230. Zuckert, M.P., 246.
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Indice del volume
Introduzione . America violata Un’alba tranquilla, p. 3 - L'impero della democrazia, p. 5 L’incubo del millennio, p. 8 - L’elezione della noia, p. 12 Il terrorismo non fa paura, p. 14 - Questioni del giorno, p. 15 - Preoccupazioni imperiali, p. 17 - Rischio annunciato, ma non calcolato, p. 21 - Terrore nel cuore dell’ America, p. 22 - Una comunità di dolore, p. 25 - L’invulnerabilità
perduta, p. 27 - Paura e collera, p. 30 - E il presidente parlò, p.33
35
. Dove era Dio? Non era a Lisbona, p. 35 - Il «nostro terremoto p. 37 - Vivere in un mondo fragile, p. 40 - Dio nato l’America?, p. 44 - Le voci di Dio, p. 47 p.50 - I consolatori, p. 53 - Profeti d'America,
di Lisbona», ha abbandoI fustigatori, p. 55 - Dio è
tornato, tornate a Dio!, p. 58
63
. Alla Casa Bianca Il figlio del padre, p. 63 - Sulla via del figlio di Dio, p. 65 Il filosofo preferito, p. 68 - Religione e candidati, p. 69 - Un Dio elettorale, p. 71 - Democratici per Dio, p. 74 - Rigeneriamo la nazione, p. 77 - Corteggiare gli evangelici bianchi, p. 79 - La destra di Dio, p. 81 - La scelta di un capo, p. 85 Dio alla Casa Bianca, p. 87
95
. Mosè d’America Chiamato da Dio, p. 95 - Teologia elementare, p. 96 - La democrazia di Dio, p. 99 - Pontefici d'America, p. 102 - Un
imprevedibile carisma, p. 107
265
. Alla guerra, con Dio
LEI
La rivelazione, p. 111 - La missione, p. 113 - Nella chiesa della nazione, p. 115 - Religione o nazionalismo?, p. 118 La consacrazione di un capo, p. 121 - Ecumenismo presidenziale, p. 125 - Cristiani non ecumenici, p. 127 - Dio lo vuole, p. 129
. Sacra America imperiale
133
L’«asse del male», p. 133 - America rinata, p. 137 - Dalla di-
sunione alla riunione, p. 141 - Il «destino manifesto», p. 147 Guerra imperiale, p. 152 - «Old Glory», icona d'America, pilo»
. Il grande risveglio Un’alba mesta, p. 161 - Spazi sacri d'America, p. 164 - I vi-
161
vi e i morti, p. 166 - Sacro 11 settembre, p. 169 - Dio in
America, un anno dopo, p. 174 - Quale risveglio?, p. 178 Religione civile: una «nuova nascita», p. 181 - «Pontifex imperator», p. 186
. Il vitello d’oro
190
Un nazionalismo religioso ed ecumenico, p. 190 - Teologia imperiale, p. 194 - Il nostro Dio non è Marte, p. 197 - Bush e Dio, p. 200 - Un’arma a doppio taglio, p. 206 - E se fosse idolatria?, p. 214
. Religione politica «all'americana». Un'ipotesi per concludere
220
Note
229
Indice dei nomi
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Emilio Gentile insegna Storia contemporanea all’Università di
Roma La Sapienza. Nel 2003 ha ricevuto dall'Università di Berna il Premio Hans Sigrist per i suoi studi sulle religioni della politica. Tra le sue opere più recenti: Fascismo e antifascismo (Firenze 2000); La via italiana al totalitarismo
(n.e., Roma 2002?, trad. in francese
|
e spagnolo). Per i nostri tipi, tra l’altro: Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi (Roma 2001, trad. in inglese e francese); Renzo De Felice. Lo storico e il | personaggio (2003, trad. in francese); Fascismo. Storia e interpretazione (2005°, trad. in francese e spagnolo);
Il culto del littorio (2005", trad. in
inglese e francese); // fascismo in tre capitoli (2006); La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo (2006).
In copertina: Supporter di George W. Bush durante la campagna presidenziale a Stratham (New Hampshire), agosto 2004. Foto di Christopher Morris-VII/Grazia Neri. Progetto grafico: Raffaella Ottaviani
lell’amministrazione Bush. Stanley G. Payne, Professore Emerito, University of Wisconsin-Madisor
ISBN 88-420-8051-9
9 Il 8842"080510
5