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Italian Pages 430 Year 2023
Luisa Damiano è Professore di Logica e Filosofia della scienza presso l’Università IULM di Milano. È autrice di Vivere con i robot. Saggio sull’empatia artificiale (con P. Dumouchel, 2019).
“Mauro Ceruti è uno dei rari pensatori del nostro tempo ad avere compreso e raccolto la sfida che ci pone la complessità dei nostri esseri e del nostro mondo. […] Tutta la sua opera è animata dalla preoccupazione di comprendere la complessità umana, cosa che richiede non di isolare l’umano, ma di situarlo nei suoi contesti cosmici, fisici, biologici, sociali, culturali e ormai anche nella comunità di destino planetaria. La sua opera ha stimolato un ampio dibattito internazionale. E il presente volume è testimonianza di questa sua originale influenza in molteplici campi disciplinari.” Dall’Apertura di Edgar Morin
Giovanni Ceruti è l’autore del ritratto di Mauro Ceruti in copertina.
26,00 euro
9 791222 304335
LA DANZA DELLA COMPLESSITÀ DIALOGHI CON LA FILOSOFIA DI
MAURO CERUTI
A CURA DI FRANCESCO BELLUSCI E LUISA DAMIANO
MIMESIS
ISBN 979-12-2230-433-5 Mimesis Edizioni Filosofie www.mimesisedizioni.it
FRANCESCO BELLUSCI - LUISA DAMIANO (A CURA DI) LA DANZA DELLA COMPLESSITÀ
Francesco Bellusci è Professore di Filosofia e Storia presso il Liceo classico “Isabella Morra” di Senise (PZ). È autore di Abitare la complessità. La sfida di un destino comune (con M. Ceruti, 2020).
MIMESIS / FILOSOFIE
“La quarta umanità è la prima umanità a essere consapevole del tempo profondo, ad avere una decisiva responsabilità nei confronti della natura, a dover pensare insieme l’uno e il molteplice, l’identità e la diversità, e ciò per la sua stessa sopravvivenza.” Mauro Ceruti
MIMESIS / FILOSOFIE N. 871 Collana diretta da Pierre Dalla Vigna (Università “Insubria”, Varese) Luca Taddio (Università degli Studi di Udine) comitato scientifico Paolo Bellini (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como), Claudio Bonvecchio (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como), Mauro Carbone (Université Jean-Moulin, Lyon 3), Antonio De Simone (Università degli Studi di Urbino Carlo Bo), Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza), Morris L. Ghezzi (†, Università degli Studi di Milano), Gabriele Giacomini (Università degli Studi di Udine), Giovanni Invitto (Università degli Studi di Lecce), Micaela Latini (Università degli Studi di Ferrara), Enrica LiscianiPetrini (Università degli Studi di Salerno), Luca Marchetti (Università Sapienza di Roma), Antonio Panaino (Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna), Paolo Perticari (†, Università degli Studi di Bergamo), Susan Petrilli (Università degli Studi di Bari), Augusto Ponzio (Università degli Studi di Bari), Riccardo Roni (Università di Urbino), Viviana Segreto (Università degli Studi di Palermo), Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis), Tommaso Tuppini (Università degli Studi di Verona), Antonio Valentini (Università di Roma La Sapienza), Jean-Jacques Wunenburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)
LA DANZA DELLA COMPLESSITÀ Dialoghi con la filosofia di Mauro Ceruti A cura di Francesco Bellusci e Luisa Damiano
MIMESIS
Questa pubblicazione è stata co-finanziata dall’Università IULM di Milano.
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Filosofie, n. 871 Isbn: 9791222304335 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL Piazza Don Enrico Mapelli, 75 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 21100089
INDICE
La danza della complessità è la danza della vita di Francesco Bellusci e Luisa Damiano11 APERTURE Per Mauro Ceruti di Gianni Canova17 Al mio spirito fratello di Edgar Morin19 Il sentimento del possibile di Sergio Manghi25 MAURO CERUTI NELLA FILOSOFIA E NELLA SCIENZA CONTEMPORANEE Il pensiero e la sfinge Mauro Ceruti e i sentieri della filosofia della complessità di Francesco Bellusci37 Epistemologia del tempo Mauro Ceruti e l’arte della previsione creatrice di Luisa Damiano77 STORIE DELLE ORIGINI DI UNA STORIA Storie della nostra storia di Gianluca Bocchi, Chiara Brambilla e Anna Lazzarini111
Un gruppo di “carbonari” che provano a pensare insieme, a pensare complesso di Umberta Telfener133 Elogio del seminatore di Ugo Morelli141 Una tensione necessaria di Alfonso Maurizio Iacono153 Un umanista, interprete del nostro pluriverso di Oscar Nicolaus159 Una mente ospitante di Lorena Preta163 Una pedagogia della complessità di Franca Pinto Minerva169 La Scuola di complessità Dall’Università di Palermo all’Università IULM di Giovanni Puglisi177 L’epistemologia della complessità in azione. Preside e Maestro, all’Università di Milano Bicocca di Maria Grazia Riva183 Quattro immagini e una conversazione di Giuseppe Varchetta187 UN UMANISTA NEL TEMPO DELLA COMPLESSITÀ Un pensatore della complessità, per superare la crisi di pensiero nella scienza economica di Stefano Zamagni201 Un nuovo umanesimo per osare più democrazia di Walter Veltroni207
Il filosofo della persona come sistema complesso metastabile di Silvano Tagliagambe211 Una visione generativa di Chiara Simonigh219 Un luogo dove l’io diventa un noi. Fra scienza, filosofia e poetica di Antonia Chiara Scardicchio225 Un intellettuale che tiene insieme il quadro valoriale della democrazia e “il gusto dell’avvenire” di Anna Finocchiaro235 Un pensatore uno e molteplice di Mario Castellana239 Un intellettuale polimorfo, anche pedagogista di Franco Cambi245 Il filosofo della civiltà planetaria di Matilde Callari Galli249 Il filosofo della complessità e della fraternità universale di Francesco Bellino255 LA DANZA DELLA TRANSDISCIPLINARITÀ La tela del pensiero complesso di Marcello Aitiani263 Un’arte del tessere, dell’annodare, del negoziare, per la psicoterapia di Antonino Aprea e Corrado Pontalti271 Un’antropologia della presenza di Pietro Barbetta279
Una bioetica nella prospettiva di un umanesimo planetario di Luisella Battaglia285 Una prospettiva ribaltata e binoculare di Marinella De Simone289 Una scienza ecologica, della natura e dell’uomo di Roberto Della Seta293 Uno studio della filosofia che educa alla complessità e difende la democrazia di Enzo Di Nuoscio297 Un osservatore del non-osservabile di Piero Dominici303 Un pensiero per la megacrisi de-generativa, e per l’inter-in-dipendenza di Marco Emanuele307 Un’epistemologia operativa, per il lavoro clinico di Girolamo Lo Verso311 Un’educazione alla fraternità universale di Isabella Loiodice315 Un’idea di filosofia, la complessità, Papa Francesco e la domanda ultima di Michele Marchetto321 Complessità e cura di sé di Walter Mariotti329 Epistemologia della creatività di Alfonso Montuori337 Testimone sapiente di autentica amicizia di Luigina Mortari341
Un pensare insieme, sulla stessa barca di Cristina Pasqualini349 Un pensiero complesso, per le università in un mondo interconnesso di Andrea Prencipe353 Un’epistemologia della complessità, per la pratica medica di Christian Pristipino359 Un paradigma di solidarietà di Antonio Russo367 Un impegno per la pace, con le riviste Pluriverso e Testimonianze di Severino Saccardi375 Una ricerca bella e buona, nelle organizzazioni di Giuseppe Scaratti379 Un’ontologia della complessità di Luca Taddio385 Un’epistemologia per la personalizzazione delle cure in medicina di Marco Trabucchi395 Una visione “pluralista” dell’evoluzione di Angelo Vianello399 LETTERA ALL’AMICO La tua storia mia di Gabrio Vitali407
Francesco Bellusci e Luisa Damiano
LA DANZA DELLA COMPLESSITÀ È LA DANZA DELLA VITA
Nelle terre dove l’opera misteriosa del Genius loci, chiamato dai poeti romantici “spirto del loco”, ha convogliato una scia luminosa di musicisti e compositori, da Monteverdi a Ponchielli, oltre ai grandi liutai da Stradivari a Guarneri del Gesù, è nato un compositore che si è fatto filosofo, avendo fatto della filosofia un compositore. Mauro Ceruti, filosofo e teorico della complessità, non ha smesso di tessere, di comporre l’eterogeneo e il contraddittorio: scienza e filosofia, scienze umane e scienze naturali, conoscenza ed etica, teoria e politica. E ancora: osservatore e osservato, vincoli e possibilità, tempi ciclici e tempi lineari, storie locali e storie globali, galassie e particelle, ordine e disordine, creazione e distruzione… Negli antagonismi e nelle dualità, scavati e moltiplicati nel nostro pensiero e nel nostro rapporto con la realtà dalla tradizione moderna, egli per converso ha visto “l’armonia dell’arco e della lira”1, ha immaginato delle coppie in danza, ha descritto la scaturigine dell’unità, perché è attraverso questa dialogica che l’Universo si costruisce, si sviluppa, si distrugge, evolve. Attratto dal novum delle “scienze della complessità”, protagoniste di un capitolo straordinario dell’avventura conoscitiva umana del Novecento, Mauro Ceruti si è appassionato a scoprire e trascrivere la “musica” segreta del mondo che da quelle scienze ci viene riconsegnato, riconfigurato e offerto alla nostra meraviglia. Lo ha fatto con un’idea guida, però, a cui non ha mai derogato: lo spartito che avrebbe potuto generare continuamente quella musica doveva essere scritto con altre voci, con altri strumentisti, con altri compositori. Doveva essere necessariamente sinfonico e polifonico. Il volume che presentiamo, e che nasce dall’occasione del settantesimo compleanno di Mauro Ceruti, raccoglie un ampio ventaglio, 1
Eraclito, fr. 51, in: G. Reale (a cura di), I Presocratici nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, Bompiani, Milano 2006, p. 353.
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La danza della complessità
pur non esaustivo, di queste voci e fa risuonare molte pagine di quello spartito. Sono qui raccolte voci della comunità italiana, che pure evocano quelle dei molti paesi e delle molte lingue con le quali Mauro Ceruti ha dialogato. Voci che riconoscono nel “filosofo compositore” a volte un direttore d’orchestra, a volte un maestro del coro, a volte l’ispiratore di percorsi creativi nuovi o “eretici”, di gruppo o personali, a volte il “controcanto” stimolante della propria avventura nel pensiero, nella pratica scientifica, nell’azione sociale e politica. La costellazione di sinergie, di scambi, di rapporti, testimoniata in questo volume, attesta come la filosofia della complessità (e il suo “oracolo” epistemologico principale: il costruttivismo) abbia avuto, a partire dalla fine del secolo scorso, grazie proprio all’impulso di Ceruti, una capacità di disseminazione, di fecondazione e di penetrazione nei diversi territori della cultura (dalla psicoterapia alla pedagogia, dalle scienze dell’organizzazione all’economia, dall’estetica alla critica letteraria, dall’antropologia alla sociologia fino alla politica…) pari a quella avuta, a metà del secolo scorso, dallo strutturalismo. È anche la dimostrazione che è la vita, nella varietà e nella contingenza di occasioni e di incontri che offre, a condurre alla scoperta e all’esperienza della complessità. La dimostrazione che tutto ciò che noi percepiamo, pensiamo, immaginiamo è biografico, come diceva il suo caro amico Francisco Varela. Tessere rapporti esige lo spostarsi continuamente intorno, nello spazio e nel tempo, verso gli altri e verso il futuro, con un atteggiamento esplorativo. La danza della complessità è la danza della vita. Se per Nietzsche era stata l’arte della musica ad approssimarci all’immensità della vita, prima che il predominio apollineo e “logico” della filosofia ce ne allontanasse, è ora la “filosofia nuova”, aperta a una logica polivalente e “composita”, che ci può rimettere in contatto con la complessità della vita. E la filosofia della complessità esige quel “filosofare insieme”2 che conduce alla conoscenza e alla felicità se praticato con gli amici. Questo ci insegna Mauro Ceruti e questo ci insegnano, per averlo appreso da lui o con lui, quanti in questo volume oggi rendono omaggio all’amico e al suo lavoro intellettuale. La storia “professionale” e il cursus honorum di Mauro Ceruti, che annovera nel maggio 2022 il conferimento del Premio Internazionale 2 Aristotele, Etica Nicomachea, IX, 12, 1172a, 1-7.
F. Bellusci, L. Damiano - La danza della complessità è la danza della vita13
Nonino “a un Maestro del nostro tempo”, rivelano come la tessitura teorica ed epistemologica dei saperi alla base della sua opera filosofica e scientifica sia stata intrecciata alla loro tessitura spaziale e “pratica” e sia avvenuta sempre sotto il segno di una costante generazione di relazioni umane e intellettuali. Di queste tessiture troviamo testimonianza in tutti i testi di questo volume, ai quali abbiamo voluto lasciare il compito di raccontarle dai vari punti di vista dei singoli autori e nei loro vari stili narrativi, che soli possono renderne il senso vissuto e generativo3. In conclusione, non possiamo che mettere in rilievo l’“inconclusione” del circolo che tiene insieme il vivere per il conoscere e il conoscere per il vivere, che unisce tutti gli autori del volume, esempio, nei contenuti, nel metodo e negli stili, di come si possa creare cultura, intrecciando saperi e forme di vita. E la figura di Mauro Ceruti si rivela ancora, in queste pagine, la forza propulsiva di questo movimento creatore, il compositore e l’ispiratore dell’“unità molteplice” che esse racchiudono.
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Per informazioni sintetiche sulla biografia scientifica di Mauro Ceruti, è disponibile il sito www.mauroceruti.it
APERTURE
Gianni Canova*1
PER MAURO CERUTI
Quelli come lui in pensione non dovrebbero andarci mai. Sono quelli a cui basta uno sguardo per risvegliare il pensiero e metterlo in movimento. Quelli che hanno accumulato una tale stratificazione di saperi che vorresti poter attingere all’infinito al loro patrimonio sapienziale. Quelli che ti inducono a pensare meglio, a guardare oltre, a capire più in profondità. Sono preziosi, gli intellettuali come Mauro Ceruti. Rari e preziosi. Dovremmo tenerceli cari. Invece uno Stato che si arroga il diritto di scandire i tempi di vita e di lavoro delle persone obbliga anche un maestro come lui a lasciare l’Università per motivi anagrafici, privando studenti e colleghi della sua esperienza e della sua intelligenza. Che sconforto. Ma proprio per questo non è un congedo quello che qui gli dedichiamo. È un atto di ringraziamento e di gratitudine per il suo magistero. Una parziale restituzione di quanto Mauro ci ha dato in tanti anni di ricerca e di insegnamento. Altri qui scriveranno e ragioneranno del filosofo. A me, in apertura, da Rettore dell’ultima Università in cui Ceruti ha insegnato, preme ragionare soprattutto dell’uomo. Per dire prima di tutto una cosa: non ho mai visto in Mauro la spocchia e l’arroganza che così spesso sono il tratto connotativo e caratteriale più evidente di troppi intellettuali italiani. Non ho mai sentito in lui la supponenza, la vanagloria, il narcisismo spinto sino ai confini del patologico, o la presunzione di essere l’unico depositario della verità. *1 Magnifico Rettore, Università IULM, Milano.
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In Mauro colpiscono piuttosto l’umiltà e la gentilezza. Il garbo con cui propone le sue idee e le sue riflessioni. Anche quelle più radicali (e spesso Mauro è radicale…) non sfociano mai nel disprezzo o nella demonizzazione delle posizioni differenti dalle sue. Mauro cerca di sperimentare sempre anche il punto di vista dell’altro. È abituato per indole, per formazione e per convinzione a considerare sempre più prospettive possibili. Forse è per questo che riesce a fare con apparente facilità la cosa più difficile: rendere comprensibile la complessità. Ceruti rifugge da qualsivoglia tentazione criptica ed esoterica e cerca di essere a qualunque costo accessibile se non a tutti per lo meno a tanti, a tutti quelli che hanno voglia e desiderio di ascoltare. Mauro sa ascoltare. È quasi sempre più interessato a capire quel che pensi tu che a pontificare su quel che pensa lui. Per questo quando esprime il suo pensiero non lo si può che accogliere con rispetto, con gratitudine, con ammirazione. Mauro incarna un modello di comunicazione elegante che passa per i gesti, gli sguardi, il timbro della voce. È lontano anni luce dall’atteggiamento di quei sedicenti filosofi volutamente contorti e oscuri, che vivono chiusi nella propria autoreferenzialità, indifferenti se non addirittura insofferenti verso tutto quello che accade oltre i confini del loro Io. Mauro Ceruti è l’esatto opposto: un esempio di pensiero aperto, curioso, poliprospettico, mai pago, mai ovvio, mai scontato: davvero l’incarnazione vivente di cosa può essere, oggi, la filosofia. Del perché ci serve, di come e quanto ne abbiamo bisogno.
Edgar Morin
AL MIO SPIRITO FRATELLO
Come ho più volte avuto modo di dire e scrivere, Mauro Ceruti è uno dei rari pensatori del nostro tempo ad avere compreso e raccolto la sfida che ci pone la complessità dei nostri esseri e del nostro mondo. Attraverso le sue idee e attraverso anche una generosa attività organizzativa, è stato l’infaticabile tessitore di una straordinaria e creativa comunità di pensiero internazionale e transdisciplinare. È stato fra l’altro il promotore e l’ispiratore, con Gianluca Bocchi, dello splendido simposio “La sfida della complessità”1, tenutosi a Milano nel 1984, nonché dello storico simposio “Physis: abitare la Terra”2 tenutosi a Firenze nel 1986, momenti seminali e decisivi per lo sviluppo del pensiero complesso. Il suo pensiero contiene e intreccia sempre, nutrendosene, tre passioni: la passione filosofica per la teoria della conoscenza, la passione politica e civile per l’Europa, la passione etica e pedagogica per il destino dell’umanità. Commentando, nel 1986, il suo libro Il vincolo e la possibilità3, divenuto ormai una pietra miliare dell’epistemologia sistemica, osservavo che la scienza classica poteva riconoscere la razionalità solo nella necessità e poteva considerare il caso solo irrazionale, e che Mauro ci invitava a esplorare una serie di trasformazioni concettuali concernenti le nostre concezioni teoriche, e indicava la via per arricchire e rendere complessa la nostra visione della razionalità. La sua convinzione, che io condividevo e da parte mia sviluppavo ne Il Metodo4, era che la vera posta in gioco della nostra 1 2 3 4
G. Bocchi, M. Ceruti, La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1985, Bruno Mondadori 2007; Mimesis, Milano-Udine 2023. M. Ceruti, E. Laszlo, Physis: abitare la Terra, Feltrinelli, Milano 1988. M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, Feltrinelli, Milano 1986; Raffaello Cortina, Milano 2007. E. Morin, Il Metodo, 6 voll., Raffaello Cortina, Milano 2001-2008.
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modernità fosse un rinnovamento della problematica scientifica e della problematica epistemologica in grado di raccogliere la sfida della complessità. E a raccogliere questa sfida abbiamo entrambi dedicato questi decenni. Questa sfida, per Mauro, emerge proprio dalle viscere della storia e della civiltà europea, e all’Europa si pone oggi dinanzi come compito ineludibile. Egli mostra, nei suoi discorsi e nei suoi libri, che per pensare l’Europa non si può dissociare la sua molteplice diversità dalla sua unità, indicando che l’Europa da edificare (se ciò sarà ancora possibile) dovrà essere quella dell’unità nella multiculturalità. Presentando l’edizione francese del nostro libro La nostra Europa5, nel 2014 scrivevo che era “l’opera di due spiriti fratelli, quello di Mauro Ceruti e il mio: io mi ritrovo in lui come lui si ritrova in me”. Insieme, in quel libro, abbiamo lanciato l’allarme. L’Europa, focolaio di grandi civiltà e capace di integrare in essa etnie molto diverse, nella sua ambivalenza ha sperimentato due malattie specifiche: la purificazione unificatrice e la sacralizzazione delle frontiere. Dopo la catastrofe delle due Guerre mondiali che l’avevano portata sull’orlo dell’abisso, l’Unione Europea ha permesso l’integrazione polietnica delle piccole nazioni monoetniche e ha teso dunque a eliminare la malattia della purificazione. Inoltre ha prodotto una desacralizzazione delle frontiere. Tuttavia, in Europa oggi appare lo spettro di una nuova purificazione, contro migranti la cui condizione è gravemente minacciata, così come contro migranti impietosamente respinti. E così abbiamo levato la nostra voce contro l’idea di una “fortezza Europa”: tanto più che l’Europa è nata da migrazioni, dalla preistoria fino ai tempi storici; tanto più che il suo “avanzo miserabile” è emigrato nelle Americhe; e tanto più che sono le devastazioni dello sviluppo imposto all’Africa a spingere gli africani proletarizzati a venire in Europa. E abbiamo altresì stigmatizzato l’ultimo ostacolo all’Unione Europea, che viene dagli Stati europei stessi, i quali hanno accettato di abbandonare le loro sovranità economiche, ma resistono all’abbandono delle loro sovranità politiche assolute, allorché i problemi vitali e fondamentali che essi devono affrontare richiedono, per la loro stessa natura, la perdita di questo assolutismo. 5
E. Morin, M. Ceruti, Notre Europe, Fayard, Paris 2014; La nostra Europa, Raffaello Cortina, Milano 2013.
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È in questo contesto che il pensiero complesso di Mauro Ceruti viene in soccorso. Egli mostra, infatti, che il problema essenziale, quello di comprendere il nostro tempo, è un problema matrioska che contiene in sé altri problemi, ciascuno dei quali contiene a sua volta altri problemi… Comprendere il nostro tempo significa infatti comprendere la mondializzazione che trascina l’avventura umana, divenuta planetariamente interdipendente, fatta di azioni e reazioni, in particolare politiche, economiche, demografiche, mitologiche, religiose; significa cercare di interrogare il divenire dell’umanità, che dai motori congiunti scienza/tecnica/economia è spinto verso un “uomo aumentato” ma per nulla migliorato, e verso una società governata da algoritmi, tendente a farsi guidare dall’intelligenza artificiale e, nello stesso tempo, a fare di noi delle macchine banali. Nel contempo, questi stessi motori scienza/tecnica/economia conducono a catastrofi a loro volta interdipendenti: degradazione della biosfera e riscaldamento climatico, che portano a immense migrazioni; moltiplicazione delle minacce mortali con l’incremento delle armi nucleari, delle armi chimiche e con la comparsa dell’arma informatica, capaci di disintegrare le società. Tutto ciò provoca angosce, ripiegamenti su se stessi, deliranti fanatismi. Così incombono, da un lato, l’inumanità del “migliore dei mondi” e, dall’altro, la barbarie di una situazione alla Mad Max, risultante da una megacatastrofe planetaria. Il problema dell’avventura umana ci pone il quesito: che cos’è l’umano? Ma la natura della nostra propria identità, come Mauro ha continuamente osservato, non è per nulla insegnata nelle nostre scuole, e dunque non è riconosciuta dalle nostre menti. Tutti gli elementi utili per riconoscerla sono dispersi in innumerevoli scienze (comprese le scienze fisiche, poiché noi siamo anche macchine fisiche fatte di molecole a loro volta fatte di atomi) e anche nella letteratura, che nei suoi capolavori rivela le complessità umane. Il problema dell’identità umana include in sé il problema della Natura. Questo è presente in modo vitale non solo nell’ambiente, ma anche all’interno della stessa identità umana, la quale porta in sé il problema della natura a un tempo fisica e cosmica. L’umano non è infatti solo un elemento singolare nel cosmo, porta il cosmo al proprio interno. Non è soltanto un essere singolare nella vita, porta la vita dentro di sé. Così, di passo in passo, l’interrogazione si ampli-
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fica e si moltiplica. E così, fin dagli esordi della sua ricerca, Mauro ha mostrato quanto abbiamo bisogno di una conoscenza transdisciplinare, capace di estrarre, assimilare e integrare le conoscenze ancora separate, compartimentate, frammentate. E quanto abbiamo appunto bisogno di un pensiero complesso, cioè capace di legare, di articolare le conoscenze, e non soltanto di giustapporle6. Tutta la sua opera è animata dalla preoccupazione di comprendere la complessità umana, cosa che richiede non di isolare l’umano, ma di situarlo nei suoi contesti cosmici, fisici, biologici, sociali, culturali e ormai anche nella comunità di destino planetaria7. La sua opera ha stimolato un ampio dibattito internazionale in molti domini di ricerca, quali la psicologia clinica, la pedagogia, le scienze cognitive, ma anche le scienze dell’organizzazione, l’architettura, l’antropologia, la sociologia… E il presente volume è testimonianza di questa sua originale influenza in molteplici campi disciplinari. Mauro Ceruti ha delineato un percorso filosofico che raccoglie la sfida della complessità posta dal nostro tempo; ha delineato una prospettiva antropologica dalla quale l’identità umana emerge come identità evolutiva e irriducibilmente multipla, attraverso l’intreccio di molteplici storie; ha mostrato come il nostro tempo renda ineludibile pensare insieme, e non in opposizione, identità e diversità; ha motivato l’urgenza di una riforma dell’educazione capace di valorizzare le diversità individuali e culturali, e volta nel contempo a integrare la frammentazione dei saperi. Con i suoi scritti pedagogici ha contribuito in maniera significativa alle tre riforme della conoscenza, del pensiero, dell’insegnamento e, soprattutto, ci ha stimolato a tracciare connessioni fra queste tre riforme8. E affermando l’urgenza vitale di “educare all’era planetaria”, ha delineato una prospettiva che ci aiuta a orientarci in questa nostra età di mutamenti, prodotti dal vortice della globalizzazione. Una prospettiva che, per la sua originalità, disegna l’orizzonte per pensare la riforma della scuola nel tempo della complessità, in cui tutto è connesso. 6 7 8
M. Ceruti, La danza che crea, Feltrinelli, Milano 1989; G. Bocchi, M. Ceruti, Disordine e costruzione, Feltrinelli, Milano 1980. M. Ceruti, Evoluzione senza fondamenti, Meltemi, Milano 2019; G. Bocchi, M. Ceruti, Origini di storie, Feltrinelli, Milano 1993. G. Bocchi, M. Ceruti, Educazione e globalizzazione, Raffaello Cortina, Milano 2004.
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Il risultato è un’appassionata riflessione sulla condizione sempre più ambivalente dell’umanità contemporanea, di cui, con lucidità e capacità visionaria, ha saputo mettere in evidenza i rischi inediti, ma anche le grandi e altrettanto inedite opportunità. L’idea di fondo della sua filosofia è che l’umanità è costitutivamente incompiuta, anche come specie. E che costitutivamente incompiute e molteplici sono le sue manifestazioni, individuali e culturali. Perciò la sfida per il futuro, in pericolo, dell’umanità è elaborare la coscienza di una “comunità di destino” di tutti i popoli della Terra, nonché di tutta l’umanità con la Terra stessa. Mauro disegna l’orizzonte di un nuovo umanesimo planetario, che potrà nascere solo dall’incontro fra le diverse culture del pianeta, dalla capacità di pensare insieme unità e molteplicità, dalla capacità di connettere le diversità individuali e collettive della specie umana, senza appiattirle e dissolverle, perché solo valorizzando le diverse esperienze umane presenti e passate sarà possibile rigenerare un creativo processo di coevoluzione con il pianeta Terra, nostra unica patria vagante nell’immensità del cosmo. Probabile? No. Possibile? Forse. Nell’immagine della storia delineata da Mauro Ceruti, l’insieme delle possibilità evolutive non è statico e predeterminato: l’universo del possibile si rigenera ricorrentemente, in modo discontinuo e imprevedibile. La storia è anche storia naturale delle possibilità, nella quale nuovi universi di possibilità si producono in coincidenza con le svolte, le discontinuità dei processi evolutivi. Mauro pensa9, come Blaise Pascal, che l’identità umana è auto-trascendenza: “l’homme passe infiniment l’homme”10. Perciò, scrive in conclusione del suo libro Il tempo della complessità11 “l’identità della specie umana contiene la possibilità, per quanto improbabile, della emergenza di una nuova umanità. La condizione umana nell’età globale ha in sé la possibilità di una vera universa9 M. Ceruti, La fine dell’onniscienza, Studium, Roma 2014. 10 B. Pascal, Pensées, G. Desprez, Paris 1669 (tr. it. Pensieri, Arnoldo Mondadori, Milano 1994), n. 434. 11 M. Ceruti, Il tempo della complessità, Raffaello Cortina, Milano 2018. Si veda anche M. Ceruti, F. Bellusci, Abitare la complessità. La sfida di un destino comune, Mimesis, Milano-Udine 2020; M. Ceruti, F. Bellusci, Il secolo della fraternità. Una scommessa per la cosmopoli, Castevecchi, Roma 2021.
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lizzazione del principio umanistico. E trasformare il dato di fatto dell’interdipendenza planetaria nel processo di costruzione di una ‘civiltà’ della Terra, promuovendo un’evoluzione verso la convivenza e la pace, è il compito difficile e addirittura improbabile, ma allo stesso tempo creativo e ineludibile, che ci è posto dalla sfida della complessità, dalla sfida di far nascere l’umanità planetaria”. In occasione della pubblicazione di questo volume dedicato alla sua opera, mi piace rinnovare il mio personale omaggio allo spirito potente, creativo e per me fraterno di Mauro Ceruti.
Sergio Manghi*
IL SENTIMENTO DEL POSSIBILE
Cose future sono già qui. Qohélet o Ecclesiaste
1984-2023 Sempre di questo: di cose future già qui, si è trattato, in tutto questo tempo. Di possibilità inattese. Origini di storie a venire. Dentro più ampie interazioni generative, umane e non umane, piccole e grandi. Così è sempre stato, e continua a essere oggi, nell’ormai non più breve storia di questo vasto e variegato noi, dal bel nome di battaglia “Sfida della complessità”, che si raccoglie a salutare un passaggio saliente, oltre i ruoli universitari “canonici”, del suo riconosciuto timoniere: il tracciatore di rotte, ancor prima. L’umanista appassionato, l’inesausto promotore culturale. L’amico fraterno Mauro, anzitutto. Fraterno in pensieri, affetti, avventure politico-culturali, lungo questi quasi quarant’anni, quanti ne sono ormai trascorsi dalla venuta al mondo di quella sfida, con il convegno internazionale milanese del 1984, intitolato appunto La sfida della complessità1. Al quale ebbi la fortuna di approdare, fresco di stampa, se così si può dire, del mio primo libro, Il paradigma biosociale2. Rimanendo da allora felicemente impigliato nella rete di vicende che ne sarebbero seguite. Amico fraterno e maestro, non posso non aggiungere, pur nella sua più giovane età. Maestro in rigore del pensiero, inteso come * 1 2
Professore di Sociologia, Università degli Studi di Parma. G. Bocchi, M. Ceruti, La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1985 (poi, Bruno Mondadori, Milano 2007). S. Manghi, Il paradigma biosociale. Dalla sociobiologia all’auto-organizzazione del vivente, Franco Angeli, Milano 1984.
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pratica sociale situata e in ascolto sensibile del presente. In ascolto delle cose future già qui, come dicono i titoli dei tre suoi volumi che ho citato implicitamente in apertura: Il vincolo e la possibilità3, La danza che crea4, Origini di storie5 (con l’inseparabile Gianluca Bocchi). Un trittico percorso da quello che mi viene da definire uno spiccato sentimento del possibile, che ha visto la luce nel fervido decennio fondativo della storia comune che ci ha condotto fin qui. Oggi, com’è facile constatare, non c’è ambito di pratiche culturali, formative, editoriali, comunicative, di cura e organizzative, nel nostro Paese, che non abbia fatto i conti in vario modo, fosse anche minimale, ma assai più spesso fecondo e creativo, incontrandola sul proprio cammino, con la sfida della complessità. Ma se riavvolgiamo il nastro di questa storia fino a risalire all’origine, non possiamo che provare stupore, nel prendere atto di quanto e cosa ne è scaturito. E intuire con immediatezza quanto e quale sentimento del possibile abbia alimentato via via questa storia. Vero è che in quella prima metà degli anni Ottanta del secolo passato lo sgretolarsi del “solido” ordine socio-politico-culturale della prima modernità favoriva un desiderio diffuso di nuove matrici di senso, di forme del pensiero, diciamo, “post-classiche”. Di modi nuovi di tenere insieme piani e dati dell’esperienza che sfuggivano sempre più al vaglio delle gabbie concettuali moderniste. Ai loro ostinati dualismi – umano-naturale, soggetto-oggetto, mente-corpo… – e alle relative frammentazioni disciplinari. E non a caso, infatti, la parola complessità, fino ad allora limitata ai suoi usi generici, oppure a quelli strettamente specialistici, aveva iniziato a circolare, a livello internazionale, con nuove e più ambiziose valenze di significato6. Basti ricordare che nel medesimo anno del seminale incontro milanese ricordato sopra si teneva in Francia (dove l’editrice Seuil aveva già pubblicato i primi due tomi della Méthode moriniana), il convegno Science et pratique de la complexité, mentre in Germania 3 4 5 6
M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, Feltrinelli, Milano 1986 (Raffello Cortina, Milano 2009). M. Ceruti, La danza che crea (1989), Feltrinelli, Milano 1989. G. Bocchi, M. Ceruti, Origini di storie, Feltrinelli, Milano 1993. S. Manghi, “Complessità”, in O. Aime et al., Dizionario teologico interdisciplinare, Edizioni Dehoniane, Bologna 2020, pp. 108-113.
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usciva il Soziale Systeme di Niklas Luhmann, nutrito di teoria della complessità, e in Nuovo Messico nasceva il Santa Fe Institute, prestigioso istituto di ricerca teorica sui sistemi complessi. Ma ciò detto, rimane intatto lo stupore per tutto quello che ha potuto prender corpo da quell’evento di quasi quarant’anni fa. Da quell’azzardata scommessa politico-culturale di due giovani filosofi, legati da una rara amicizia, Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti, sulla possibilità che la parola-sfida complessità fosse capace di incontrare nuove urgenze di senso diffuse per l’intero tessuto sociale e culturale – nuovi sentori, potremmo dire, di cose future già qui. Un dato di sintesi, che dice molto sul cammino fecondato da quell’origine di storie, è il volume che due anni fa ha raccolto, in appena poche settimane, ben cento impegnati interventi, dagli ambiti e dai saperi più diversi del nostro Paese, per celebrare il centesimo compleanno di Edgar Morin, avventura magistralmente guidata dal tracciatore di rotte Mauro Ceruti7. Segno evidente non soltanto della forte influenza del pensiero complesso di Edgar Morin nel nostro Paese, ma anche, e direi soprattutto, della presenza attiva e diffusa, nel nostro Paese, di una vasta ecologia di pratiche – culturali, formative e molto altro ancora –, cresciuta lungo questi anni in relazione generativa con la “nostra” sfida della complessità. Una physis generativa Non era scontato. Affinché a quel passo originario seguisse tutto il resto, qui evocato a colpo d’occhio, hanno dovuto accadere innumerevoli eventi, piccoli e grandi. Incontri, progetti, svolte e ripartenze. In costante rapporto con svariate vicende culturali italiane e internazionali. Nella più vasta cornice di un mondo in crescente subbuglio, proiettato a velocità vertiginosa verso quella comunità di destino terrestre, composta da umani e non umani, che esso è divenuto in un pugno appena di decenni8. 7 8
M. Ceruti (a cura di), Cento Edgar Morin. 100 firme italiane per i 100 anni dell’umanista planetario, Mimesis, Milano-Udine 2021. E. Morin, A.B. Kern, Terra-Patria, Raffaello Cortina, Milano 1994, trad. S. Lazzari.
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Ma c’è voluto anche tanto pensiero. Pensiero dell’interconnessione danzante e creativa sempre in atto fra tutte le “cose”, umane e non umane, piccole e grandi. A fronte di una perdurante dominanza dei riduzionismi e dei dualismi di marca modernista, sviluppati nel solco di più antiche scissioni che risalgono all’origine stessa della storia occidentale: polis e physis, umano e naturale, soggetto e oggetto… C’è voluto tanto pensiero delle cose future già qui. E in questo, nella cura attenta e rigorosa di questo pensiero, un pensiero della complessità animato dal sentimento del possibile, l’opera di Mauro Ceruti è stata con ogni evidenza decisiva. Decisiva specialmente, vorrei qui sottolineare, scegliendone un motivo concettuale soltanto, ma un motivo che a me pare essenziale, nella trama d’insieme – decisiva specialmente, dicevo, per quanto ci ha insegnato intorno al rigenerarsi incessante del possibile nel cuore stesso della storia naturale. Nella logica vivente della physis: ancor prima, è sottinteso, che nei suoi pur peculiari sviluppi antropici. I quali non cessano in nessun momento di danzare, che ne siamo consapevoli o no, ai ritmi creaturali venuti al mondo quattro miliardi di anni fa, anche nelle loro più sofisticate costruzioni simboliche astratto-formali. Mauro l’ha messo in luce con acume analitico ed eleganza argomentativa, anzitutto, nei suoi corposi studi “piagetiani”, evidenziando il “radicamento endogeno, ‘all’ingiù’”, ovvero nelle “dinamiche di organizzazione dell’organismo”, come scriveva nella Danza che crea, delle “matrici costruttive della conoscenza logico-matematica”9. Non si comprenderebbe, credo, l’originalità del Mauro Ceruti filosofo della scienza, dell’educazione, dell’Europa, dell’“umanesimo rigenerato” e, di recente, delle sorprendenti encicliche “francescane” di papa Bergoglio, come pure il Mauro Ceruti tracciatore di rotte, senza cogliere questa sua profonda attenzione all’irriducibile creatività del tempo vivente, inclusivo a pieno titolo dell’umano in ogni sua espressione: affettiva, sociale, politica, culturale.
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M. Ceruti, La danza che crea, cit., p. 117.
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Un’attenzione che data dalle origini stesse della sua vita di studioso (penso qui ovviamente al volume Disordine e costruzione10, scritto con Gianluca Bocchi), variamente affinata attraverso numerosi incontri: con l’evoluzionismo post-darwiniano, con i modelli di emergenza dell’ordine dal disordine e dal “caso”, con la biologia e la neocibernetica dell’autopoiesi, con la teoria delle “strutture dissipative”, e molti altri ancora, sempre insieme personali e intettettuali. Affinata soprattutto, ancor prima e in modo speciale, nell’incontro con la formidabile impresa enciclopedica di Edgar Morin, eletto a maestro per eccellenza di pensiero, in un rapporto unico, eccezionalmente fecondo, di profonda amicizia e di filiazione intellettuale. Tale attenzione privilegiata verso il radicamento del possibile nella storia naturale è espressa con chiarezza nel suo libro-intervista del 2018, Il tempo della complessità11, dove alla domanda su quale egli consideri “l’aspetto più caratteristico delle immagini della natura e della storia” che emerge dai suoi studi, risponde con queste parole: È il fatto che l’universo del possibile si rigenera ricorrentemente nel corso della storia naturale, in modo discontinuo e imprevedibile. Si è delineata l’idea di una storia naturale delle possibilità […] che […] conduce a un’interpretazione delle leggi e delle regolarità non quali necessità predeterminate e atemporali, bensì quali vincoli risultanti da una storia che è creatrice di nuove forme.12
Tempo della physis, dunque, come tempo generativo, morfogenetico, popolato di eventi unici e singolari che aprono varchi evolutivi imprevisti. Dialogica processuale unitaria di sempre nuove alleanze tra ripetizioni e singolarità, regolarità e unicità, vincoli e possibilità. Tempo-possibilità, sottratto al mero e cieco scontrarsi della necessità e del caso, quale proposto nella celebre formula di Jacques Monod, emblema per molti versi dell’ethos scientifico modernista. Dove l’umano è privo di ogni legame concreto con il terrestre: pri10 G. Bocchi, M. Ceruti, Disordine e costruzione. Un’interpretazione epistemologica dell’opera di Jean Piaget, Feltrinelli, Milano 1981. 11 M. Ceruti, Il tempo della complessità, Raffello Cortina, Milano 2018. 12 M. Ceruti, Il tempo della complessità, cit., p. 117.
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vo, in altre parole, di ogni “radicamento all’ingiù”. E dove ciò che è accaduto non appare come una realtà possibile, ma come una realtà deterministicamente necessitata da condizioni precedenti e sottostanti. Con la logica conseguenza di ridurre l’avventura scientifica alla sola ricerca di tali condizioni, precedenti e sottostanti. Ovvero, leggiamo di nuovo in Il tempo della complessità, alla ricerca: delle concatenazioni necessarie e sufficienti in grado di spiegare come sia accaduto ciò che era inevitabile che accadesse. Con lo sguardo del presente, questo atteggiamento riscrive la storia concatenando i suoi eventi, le sue soglie, le sue svolte, in una progressione lineare e continua, che rende immutabili ed eterne la coerenza e la logica del presente. Henri Bergson definì questo atteggiamento come guidato dal “moto retrogrado del vero.13
Non si tratta, beninteso, di sostituire la scienza della necessità con quella della possibilità, ma di combinarle in una figurazione unitaria altra – complessa –, per la quale “ciò che è accaduto sarebbe potuto andare diversamente: le condizioni che lo hanno generato saranno forse necessarie, ma senz’altro non sufficienti”14. O per dirla con la sottile ironia dell’Uomo senza qualità: Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente che gli stipiti sono duri: questa massima alla quale il vecchio professore si era sempre attenuto è semplicemente un postulato del senso della realtà. Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o la talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, pensa: be’, probabilmente potrebbe anche esser diversa.15
13 Ivi, p. 118. 14 Ibidem, corsivo mio. 15 R. Musil, L’uomo senza qualità, I, Einaudi, Torino 1957, p. 12, trad. A. Rho, G. Benedetti, L. Castoldi.
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2023-… Di senso della realtà, beninteso, abbiamo oggi più che mai bisogno. Né devo dirlo a te, Mauro carissimo, maestro di senso della possibilità, o come ho detto qui sentimento del possibile, e però mai di un possibile da utopia disincarnata, disancorata dalla concretezza dei vincoli che del possibile sono condizione essenziale. Della relazione che, ci piaccia o no, viene comunque prima, per dirla con Gregory Bateson16. Ne abbiamo più che mai bisogno, di senso di realtà, in questo XXI secolo inaugurato da traumi collettivi in sequenza, di portata planetaria, aggrovigliati l’uno nell’altro: l’11 settembre, il biennio nero del finanzcapitalismo, la prima pandemia planetaria, la guerra d’Ucraina e l’addensarsi di incubi nucleari; mentre non cessano di aggravarsi gli effetti distruttivi del Nuoveau régime climatico17, che la Terra si è data in appena un paio di secoli, mutando bruscamente statuto geologico dopo le migliaia d’anni di Olocene. In questo vertiginoso 2023, così tanto diverso da quel “nostro” 1984, gli stipiti contro i quali andiamo sbattendo dolorosamente, per tornare all’immagine musiliana, sono ormai diffusi ovunque, e la loro durezza è indiscutibile. Anzitutto per gli esclusi, i discriminati e gli oppressi di ogni genere, umani e non umani. Imponendoci di saper ascoltare, come leggiamo nella Laudato si’, “tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri”18. Di saperci smarcare sempre più dalle inerziali abitudini di pensiero e d’azione che a lungo ci hanno resi sordi a quel duplice grido, e alla sua matrice “ecologicamente” unitaria. Insensibili all’urgenza, come scrivi nel tuo puntuale commento all’enciclica, di “ripensare allo stesso tempo le relazioni umane e la relazione degli uomini con la natura”19. 16 G. Bateson, Mente e natura, Adelphi, Milano, 1984, trad. G. O. Longo, G. Trautteur. 17 B. Latour, La Sfida di Gaia, Il Nuovo Regime Climatico, Meltemi, Milano 2020, trad. D. Caristina. 18 Papa Francesco, Laudato si’. Lettera enciclica sulla cura della casa comune, Edizioni Paoline, Milano 2015, 49. 19 M. Ceruti, Sulla stessa barca, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2020, p. 92.
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Ma se di tanto senso della realtà abbiamo bisogno, per rendere visibile quanto ci è stato invisibile e indifferente così tanto a lungo, è allo stesso tempo di senso della possibilità, che abbiamo quanto mai bisogno. Di quel sentimento del possibile – “un piede nel presente e uno nel futuro”20 – che consenta di risvegliare il senso della realtà dal troppo lungo sonno della ragione modernista. Abbiamo bisogno, a esser più precisi, di un diverso senso della realtà, inclusivo dell’idea che “ciò che è accaduto sarebbe potuto andare diversamente”. Un senso della realtà che a fronte dell’evidenza che “una cosa è com’è” consenta di pensare: “be’, probabilmente potrebbe anche essere diversa”. E consenta in tal modo di tentare alleanze generative con le possibilità migliori in atto. Messe al mondo dal concreto e sempre in parte inatteso accadere della “cosa”. A partire da quella vasta “cosa” unitaria, ancora largamente impensata nella sua unitas multiplex, che Edgar Morin ci ha insegnato a chiamare comunità di destino terrestre. Non ci è dato sapere come questo neonato collettivo di umani e non umani evolverà. Ci sono fondate ragioni, come sappiamo, per temere che le barbarie ecologico-sociali che sono in atto oggi in esso – il versante minaccioso delle cose future già qui da saper ascoltare – si facciano più crudeli. Ma è al contempo innegabile, anzitutto, che esso sia una corposa realtà di fatto. Di più: esso è ora anche una realtà sensibilmente vissuta come tale, nella sua portata planetaria, da tutti gli umani della Terra, in seguito al primo sciame pandemico globale, intimamente intrecciato in simultanea con vertiginosi sciami informativi ed emozionali. Primo fatto globale totale della storia umana. Evento traumatico collettivo unico e singolare, che ci ha profondamente trasformati, assai più di quanto ci stiamo rendendo conto, annebbiati come siamo nello sguardo da filtri percettivi obsoleti, formatisi in epoche storiche, e ormai sappiamo anche geologiche, precedenti l’emergere della comunità di destino terrestre. L’avvento ineludibile, appunto destinale, di questa condizione terrestre, riscrive alla radice l’agenda del possibile. Rendendo visibile come mai prima d’ora la possibilità e l’urgenza insieme di “trasformare il dato di fatto dell’interdipendenza planetaria nel compito 20 M. Ceruti, Il tempo della complessità, cit., p. 150.
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di costruire una ‘civiltà’ della Terra”21. E ancora: di trasformare l’ineludibile fraternità di fatto, fra tutti gli umani e tutti i terrestri, nel compito di fare del XXI secolo il “secolo della fraternità”22. Non hai smesso di insegnarci, Mauro carissimo, in tutto questo tempo, questa indispensabile adesione al presente, alla “intensità delle relazioni”23, di cui esso è fatto da sempre, nella storia dei viventi. Un’adesione che richiede allo stesso tempo curiosità, “capacità esplorativa”24, per cercare e saper coltivare possibilità d’esistenza più civili nel concreto dei contesti viventi di cui siamo parte “danzante” – e non più in prefigurazioni astratte da cui ricavare idealisticamente il che fare qui e ora, come nel cosmopolitismo disincarnato della ragione modernista. Non hai smesso di insegnarci questa densa resistenza del presente al passato, e sappiamo che ti toccherà continuare, in altri modi ancora, Mauro carissimo, mentre stai pian piano avviandoti (perdonerai la battuta a chi ha qualche anno più di te…) a diventare “vecchio professore”: consapevole al pari di quello “musiliano” che gli stipiti delle porte sono duri, ma diversamente da quello, curioso di esplorare quel che essi avrebbero potuto essere, e quel che rendono possibile nel presente. Ti toccherà provare a tracciare altre rotte ancora, amico mio fraterno, perché in questo tempo così pervaso da un crescente sentimento dell’impossibile, con le passioni tristi e i risentimenti che esso alimenta, più che mai preziosa è la tua lezione permanente di sentimento del possibile. Attenta alle oasi di fraternità, direbbe il nostro Edgar Morin25, in atto e possibili. A partire da quelle che ci è riuscito di coltivare in tutto questo tempo e che continuano ad accompagnarci anche attraverso questo turbolento 2023. In ascolto, come sempre, delle invisibili cose future già qui.
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M. Ceruti, Sulla stessa barca, cit., p. 93 (corsivi miei). M. Ceruti, F. Bellusci, Il secolo della fraternità, Castelvecchi, Roma 2022. M. Ceruti, Il tempo della complessità, cit., p. 145. Ivi, p. 151. E. Morin, La fraternità. Perché?, AVE, Roma 2019, trad. N. Manghi.
MAURO CERUTI NELLA FILOSOFIA E NELLA SCIENZA CONTEMPORANEE
Francesco Bellusci*1
IL PENSIERO E LA SFINGE Mauro Ceruti e i sentieri della filosofia della complessità
La non determinazione di ciò che è non è semplice indeterminazione nel senso privativo e alla fine banale. È creazione, cioè emergere di determinazioni altre, di nuove leggi, di nuovi ambiti di legittimità. Cornelius Castoriadis
Alla ricerca della “ragione” perduta: l’epistemologia possibile Se il 1989, con la caduta del Muro di Berlino e il tramonto del “socialismo reale” nell’Europa centro-orientale, è indiscutibilmente una data-evento periodizzante nella storia politica mondiale del XX secolo, sia per la discontinuità col passato, sia per gli sviluppi che segneranno i decenni successivi fino ad oggi, quella relativa alla storia della filosofia, anche per il caso italiano, si potrebbe far risalire a dieci anni prima: il 1979. In quell’anno escono tre libri chiave: Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane, curato da Aldo Giorgio Gargani, a più voci; La condition postmoderne di Jean-François Lyotard; Philosophy and the Mirror of Nature di Richard Rorty. Sebbene siano intonati da latitudini “geofilosofiche” diverse, la coincidenza temporale congiura nel far apparire convergenti i de profundis degli autori, rispettivamente per il modello classico della razionalità scientifica, per il “sapere narrativo” con pretese universalistiche e per il fondazionalismo filosofico-epistemologico. Nel loro modo di decostruire la modernità e di annunciarne la crisi, le proposte dei tre libri stimolano la ricerca di nuovi compiti e orizzonti per la filosofia. A volte con intenti positivi e ricostruttivi, a volte con una radicalità destrutturante che polveriz*1 Professore di Filosofia e Storia, Liceo classico “Isabella Morra”, Senise (PZ).
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za i contorni disciplinari della filosofia (e, automaticamente, ne inficia lo statuto accademico-professionale), accettandone apertamente la “dissoluzione” in generi di scrittura postfilosofici, non necessariamente argomentativi, contigui alla letteratura o alla storiografia. Nell’introduzione al volume collettaneo del 1979, Gargani evidenzia come il paradigma della razionalità classica si sia affermato per secoli come “una struttura naturale, necessitante e apriorica”, con l’aggravante di aver prodotto in ogni forma del sapere “la circostanza inaudita che ogni cosa fosse nota da sempre e che la condotta intellettuale non dovesse far altro che esplicitare un ordine precostituito e non fosse, invece, un’operazione costruttiva che passa per tentativi ed errori”1. Egli scrive ciò in continuità con un altro testo2 importante di pochi anni prima, nel quale interpreta le strutture e le euristiche fondanti della scienza moderna (strategia del fondamento, essenzialismo, modulo oggettuale, riflessione, duplicazione…) come “rituali epistemologici” e “feticci epistemologici”, ovvero come dispositivi di un’unica strategia correlata a una forma di vita. Proprio a partire dalla coscienza della natura costruttiva e linguistico-grammaticale del sapere (acquisita in conseguenza della trasformazione della nostra forma di vita e del venir meno, in essa, delle vecchie esigenze di disciplinamento) e a partire dal contributo delle teorie scientifiche novecentesche alla crisi della razionalità scientifica classica, Gargani e gli altri autori invitano a dirigere la ricerca filosofica verso una nuova razionalità alternativa alla “ragione universale unitaria, marmorea ed eterna” e a “salvare il potere di sintesi all’interno del tessuto simbolico, della ‘ragione’”3. Lyotard, dal canto suo, preso atto del declino dei meta-racconti speculativi o emancipativi e dell’avvento del criterio di performatività e di efficienza tecnica come criterio di legittimazione del sapere, registra la realtà di una disseminazione di giochi linguistici e di 1 2 3
A.G. Gargani (a cura di), Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane, Einaudi, Torino 1979, pp. 6, 12. A.G. Gargani, Il sapere senza fondamenti. La condotta intellettuale come strutturazione dell’esperienza comune, Einaudi, Torino 1975. R. Bodei, La filosofia nel Novecento, Donzelli, Roma 2006, pp. 180, 182. Remo Bodei è uno degli autori di: Crisi della ragione. Per una contestualizzazione più approfondita si veda anche: C. A. Viano, Va’ pensiero. Il carattere della filosofia italiana contemporanea, Einaudi, Torino 1985, pp. 83-96.
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razionalità locali che inficia ogni possibilità di un “metalinguaggio universale”, in un contesto di parcellizzazione del lavoro di ricerca e di produzione del sapere, dove “la filosofia speculativa o umanista deve rinunciare alle sue funzioni di legittimazione, il che spiega la sua crisi là dove pretende ancora di assumerle, e la sua riduzione a studio delle logiche o delle storie delle idee là dove essa vi ha rinunciato per realismo”4. Rorty, per ultimo, decreta la fine della filosofia sistematica e fondante, caratterizzata, da Platone a Husserl, dalla condivisione della nozione dell’uomo come Glassy Essence: essenza che consiste nel rispecchiare le essenze ovvero l’universo circostante. Questa nozione per Rorty è, tra l’altro, “complementare rispetto alla nozione comune a Democrito e Cartesio, che l’universo sia costituito di cose molto semplici, chiaramente e distintamente conoscibili, e che la conoscenza delle loro essenze fornisca un vocabolario di base che permette la commisurazione di tutti i discorsi”5. Il futuro della filosofia, a questo punto, è secondo Rorty garantito dalla sostituzione dell’epistemologia (che, per il filosofo americano, coincide sempre con un discorso diretto dall’ideale di fondazione o teorico-normativo) con l’ermeneutica, che riconosce la molteplicità e mutabilità storica dei paradigmi e dei linguaggi e l’impossibilità di accedere a una razionalità comune e fondativa o a un metadiscorso in grado di compararli o integrarli. In questo modo, la filosofia si limita ad aggiungere la sua “voce” nella conversazione dell’umanità, per tenerla aperta, senza pretese di verità o oggettività, ma mirando “semplicemente all’accordo, o almeno a un disaccordo stimolante e fruttuoso”6. Tra il dilettante informato, mediatore poliedrico e socratico tra i vari discorsi e l’epistemologo-sovrintendente culturale che scopre il terreno comune a tutti i parlanti, Rorty non esita a scegliere: è al primo che spetta continuare la pratica, non più eroica ma modesta, del filosofo. Nella prima metà degli anni Ottanta del secolo scorso, le reazioni alla cesura segnata dalle provocazioni e dalle sollecitazioni di Gargani, Lyotard e Rorty susciteranno l’affermarsi nella filosofia 4 5 6
J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 74-75. R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 2004, p. 715. Ivi, p. 637.
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italiana di due nuove e longeve correnti: il pensiero debole e l’epistemologia della complessità. I rappresentanti più autorevoli che le incarneranno saranno rispettivamente un allievo torinese di Luigi Pareyson, già importante interprete di Nietzsche e Heidegger, e un allievo cremonese di Ludovico Geymonat7, enfant prodige che si è affacciato nel dibattito filosofico e pubblico con un saggio8 epistemologico denso e originale (scritto con Gianluca Bocchi) sull’epistemologia genetica di Jean Piaget: Gianni Vattimo e Mauro Ceruti. Entrambi si interrogano su quali sbocchi possa avere la filosofia, dal momento in cui rinuncia a un ruolo fondativo. Gianni Vattimo fa eco più direttamente alle sollecitazioni di Lyotard e Rorty, per tirarne le somme, alla luce della problematica 7
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Ceruti erediterà da Ludovico Geymonat senz’altro l’attenzione per la dimensione dinamica e storica dell’impresa scientifica, ribadita dal maestro in polemica con il convenzionalismo puro, con l’empirismo logico e i suoi rappresentanti italiani come Giulio Preti, nonché con l’idealismo gentiliano. Scriveva, infatti, Geymonat: “La questione di fondo è che si riconosca che la scienza, quale è venuta determinandosi nella realtà della storia umana, non si riduce a una semplice catalogazione di proposizioni “definitivamente vere” e perciò stesso – una volta riconosciute tali – prive di qualsiasi dinamismo interno. La scienza è un fenomeno molto più complesso, più ricco, più vario; e il filosofo non può illudersi di capirla, se non prende atto di questa sua perenna mobilità.” (L. Geymonat, Filosofia e filosofia della scienza, Feltrinelli, Milano 1970 [1ª ed. 1960] pp. 104-5). E, quindi, farà propria anche l’indicazione “metodologica” del maestro in base alla quale “la filosofia della scienza ha il compito di porre in luce i caratteri specifici del sapere scientifico, così come si possono ricavare da un esame rigoroso della sua effettualità storica, non di ‘derivare’ questi caratteri da una precostituita concezione del mondo. Una volta determinati con la massima precisione tali caratteri, sarà poi possibile – in un momento successivo – discutere la concezione del mondo, che risulta più idonea a spiegarli” (ivi, p. 128). G. Bocchi, M. Ceruti, Disordine e costruzione. Un’interpretazione epistemologica dell’opera di Jean Piaget, Feltrinelli, Milano 1981. Come chiarirà Giulio Giorello, a dispetto del sottotitolo, nel libro “c’era altro, come il progetto di collegare logica e psicologia (più connesse di quanto non facesse credere la Standard View neopositivista) alla storia delle idee e alla stessa evoluzione del vivente: in modo da ‘pensare insieme’ identità e diversità, unità e molteplicità, continuità e discontinuità, invarianza e cambiamento. Certo, in questo modo si sfumavano confini troppo netti e si perdeva la facile sicurezza della semplificazione. Ma si acquistava in cambio una serie di strumenti concettuali per affrontare quella che sarebbe diventata nota coma la sfida della complessità.” (G. Giorello, “Prefazione” a: M. Ceruti, La fine dell’onniscienza, Studium, Roma 2014, p. 9).
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nietzscheana del nichilismo e di quella heideggeriana dell’oltrepassamento della metafisica. Il postmoderno, per Vattimo, è un mondo sociale in cui si eclissano la metafisica (fondazionalismo o “epistemologia”, nel lessico di Rorty) e la sua forma storica, la modernità. Un mondo che ormai non ha più bisogno di assoluti, di “pensieri forti” e della ricerca “razionale” di un fondamento o di una struttura stabile della realtà. Bisogno già smascherato da Nietzsche come reazione violenta a una situazione di insicurezza e da Heidegger come strumento di estensione universale del dominio tecnico-scientifico del reale (compreso l’uomo). Alla società postmoderna, la mediatizzazione e la comunicazione generalizzata assicurano quella moltiplicazione di immagini del mondo e quella erosione del senso della realtà, alle quali non va più contrapposta “la nostalgia degli orizzonti chiusi, minacciosi e rassicuranti”. Fenomeni che, anzi, vanno accolti come l’opportunità “di fare esperienza della libertà come oscillazione continua tra appartenenza e spaesamento” e “come chance di un nuovo modo di essere (forse: finalmente) umani”9. Alla filosofia non rimane che configurarsi come pensiero debole: sulla scia dell’oltrepassamento heideggeriano della metafisica, che non è un lasciarsela alle spalle, non è propriamente un superamento, ma una Verwindung (una ripresa-distorsione), esso “non può che lavorare con le nozioni della metafisica, declinandole, distorcendole, rimettendosi a esse, da esse, inviandosele come patrimonio” e, tolta la pretesa di fondatezza che quelle nozioni avevano, il pensiero debole le tratterà come “monumenti, eredità a cui si porta la pietas che è dovuta alle tracce di ciò che ha vissuto”10. Questa “filosofia postmoderna”, che, per il filosofo torinese, non ha più bisogno né, da un lato, di raccontare la fine dei metaracconti né, dall’altro lato, di proclamare il passaggio dall’epistemologia all’ermeneutica in nome di una filosofia edificante, incaricata solo di promuovere il dialogo e la solidarietà sociale (come, in modo “criptofondativo”, fanno involontariamente Lyotard e Rorty), consiste in un’impresa ermeneutica che non sarebbe rivolta solo al passato, ma anche im9
G. Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano 2000 (1ªed. 1989), pp. 19-20. 10 G. Vattimo, Dialettica, differenza, pensiero debole, in: G. Vattimo, P.A. Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1997, (1ª ed. 1983), p. 22.
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pegnata sul fronte “dei molteplici contenuti del sapere contemporaneo, dalla scienza alla tecnica alle arti a quel ‘sapere’ che si esprime nei mass-media”, reinterpretati, però, nella forma di “un sapere esplicitamente residuale, che avrebbe molti dei caratteri della ‘divulgazione’ (con la filosofia non a fondamento, ma a conclusione delle scienze)”11. Per Mauro Ceruti, che cerca invece di seguire produttivamente le indicazioni di Gargani, il congedo dal fondazionalismo non comporta necessariamente il congedo dall’epistemologia. Semmai, comporta il passaggio dall’epistemologia tradizionale di tipo rappresentazionista a un’epistemologia di tipo costruttivista12: si potrebbe dire, a un discorso epistemologico sul “sapere senza fondamenti”13. Parimenti, il congedo dalla metafisica (e dalla ragione o cartesiana o normativo-trascendentale o dialettica, ad essa legate14) e la critica alla ragione strumentale dell’organizzazione tecnoburocratica del mondo sociale non comportano necessariamente la rinuncia, da parte della filosofia, alla custodia di una ragione “sobria” e alla partecipazione a una teoria della razionalità, anche sulla scorta degli sviluppi delle conoscenze scientifiche del Novecento che hanno fatto implo11 G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1999 (1ª ed. 1985), p. 187. 12 M. Ceruti, La danza che crea. Evoluzione e cognizione nell’epistemologia genetica, Feltrinelli, Milano 1989, p. 13. 13 Il debito con Aldo Giorgio Gargani è testimoniato dalla dedica che Ceruti gli intesta in Evoluzione senza fondamenti (1995), il cui titolo, non a caso, intenzionalmente rimanda a Sapere senza fondamenti (1975) di Gargani. 14 Come scrive Jürgen Habermas, anch’egli mosso negli stessi anni dall’esigenza di trovare un pensiero post-metafisico alternativo alle derive “irrazionaliste” del decostruzionismo derridiano, dell’ermeneutica rortyana e del postmodernismo, “la filosofia rimane fedele alle sue origni metafisiche, fino al momento in cui essa può partire da questo punto fermo: che la ragione (Vernunft) conoscente ritrova se stessa nel mondo razionalmente (vernünftig) strutturato, oppure che è la ragione stessa a conferire alla natura e alla storia una struttura razionale – sia nella forma di una fondazione trascendentale, oppure per via di una penetrazione dialettica del mondo. Una totalità in se stessa razionale, sia essa del mondo o della soggettività formatrice del mondo, assicura alle proprie componenti o momenti la partecipazione alla ragione. La razionalità viene pensata come razionalità materiale, cioè come organizzatrice di contenuti mondani, per cui è da essa ricavabile. La ragione è una ragione dell’Intero e delle sue parti.” (J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, Laterza, Roma-Bari 2006 [ed. or. 1988], p. 38).
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dere il quadro di una razionalità stretta e fisicalista15. Semmai, anche in questo caso, si tratta di passare da una ragione chiusa e semplificatrice (“razionalista”) a una ragione aperta e complessa, capace di suscitare un nuovo sistema di organizzazione e di coordinazione delle conoscenze. Se queste due mosse di Ceruti trovano inizialmente nell’epistemologia genetica di Piaget l’innesco fondamentale, esse verranno a saldarsi compiutamente, lungo il suo itinerario filosofico, solo nell’incontro e nell’intreccio della sua elaborazione con quella di Edgar Morin (nel frattempo, il sociologo francese ha cominciato, dal 1977, l’“avventura” enciclopedica de La méthode), secondo una sequenza di passi che dall’epistemologia genetica lo conduce all’epistemologia sperimentale e, dall’interno di questa, all’epistemologia complessa.
15 Rispetto a Vattimo, Ceruti ha ben presente la lezione di Gargani sui limiti della lettura ontologica della scienza fatta da Heidegger, “per il quale l’organizzazione logico-matematica e i dispositivi tecnico-sperimentali della scienza moderna esprimono un’epoca dell’Essere, un destino della metafisica”. Secondo Gargani, “un’imputazione di questo tipo, e – tutte quelle formalmente analoghe, anche se discendono da presupposti filosofici differenti, – non forniscono, ovviamente, alcuna delucidazione della struttura categoriale né dell’organizzazione tecnico-sperimentale delle teorie scientifiche; esse si limitano a proiettare il sapere scientifico sullo schermo di un retroscena metafisico (…) Il vizio filosofico che si annida nelle interpretazioni che intendono assegnare fondamenti di tipo speculativo al sapere scientifico consiste anzitutto nella loro sterilità (…) In realtà, le interpretazioni metafisico-speculative della scienza non hanno come finalità una funzione cognitiva, ma ben altri scopi diretti alla definizione di fittizi fondamenti del sapere scientifico che dovrebbero proteggere dalla scienza, sottraendo ad essa aree che devono rimanere il dominio di speculazioni arbitrarie e incontrollate.” (A.G. Gargani, Il sapere senza fondamenti, cit., pp. 19-20). Queste considerazioni di Gargani risuonano nelle parole di Ceruti: “Un compito essenziale dell’epistemologia contemporanea è di impedire la produzione di un divario, se non di un abisso, fra una scienza sempre più complessa nelle sue articolazioni interne come pure negli oggetti che costituisce, e un’attività filosofica tenacemente aderente alle sue idealizzazioni, se non alle sue cristallizzazioni concettuali (…) Il problema, oggi, è di che chiedersi come e in che misura i risultati delle scienze contemporanee possano influire sulla formulazione o sulla riformulazione dei problemi classici dell’epistemologia.” (M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, Raffaello Cortina, Milano 2009 [ed. or. 1986], p. 58).
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Sulla scorta di Piaget, Ceruti sostiene che la ragione (e, in generale, l’intelligenza umana) non è una realtà fissa, assoluta, invariante, ma si evolve, si forma, ha una “genesi”, che affonda nell’organizzazione biologica stessa dell’essere umano. La ragione è “desostanzializzata”, è vista nel suo elaborarsi attraverso una successione di costruzioni operative, creatrici di novità (qui, è ricompreso il discorso storico kuhniano dei cambiamenti di paradigma) e, quindi, secondo questa ipotesi “costruttivistica”, lo studio della genesi delle conoscenze diventa fondamentale per lo studio delle strutture delle conoscenze. I meccanismi costruttivi che presiedono allo sviluppo delle conoscenze costituiscono allo stesso tempo il limite delle conoscenze e la possibilità del loro sviluppo. Questa riformulazione del discorso sulla finitezza della conoscenza umana costituisce, per Ceruti, il nucleo centrale della transizione da un’epistemologia (e da una metafisica) della rappresentazione (del “rispecchiamento”, avrebbe detto Rorty) a un’epistemologia (e una metafisica) della costruzione, permettendo, così, di aggirare l’aut-aut di Rorty sulle alternative disponibili per la filosofia (o “epistemologia”, ormai obsoleta, o “ermeneutica”) e di riscattare, proprio sulla base di una gnoseologia costruttivista, come ha fatto peraltro di recente anche Massimo Cacciari16, l’ermeneutica stessa dagli esiti relativistici o nichilistici a cui la destina il postmodernismo (a partire dalla tote16 Scrive, infatti, Massimo Cacciari: “In che senso per Nietzsche non vi è la verità, ma intepretazioni soltanto? Esattamente nel senso in cui l’affermazione potrebbe valere oggi per un autentico ‘realismo’ scientifico. Noi sappiamo non solo che non si dà adaequatio alla cosa se non in senso fenomenico, ma, ben oltre, che ogni osservazione modifica la cosa stessa. Noi sappiamo, possiamo, cioè, misurare, come ogni osservazione ‘entri’ nel fenomeno, sia parte del suo essere-fenomeno. È pura ignoranza dei physiká (e non metafisica!) supporre che l’atto dell’intepretare-misurare (metiri-mens) sia inessenziale nella determinazione dell’essente. Ed è ovvio che sia così altrimenti fenomeno e dato coinciderebbero. Diciamo phainómenon la cosa proprio perché è in quanto ci appare, e cioè in quanto il nostro percepirla apparente ne è costitutivo (…) ‘Realismo’ è la consapevolezza che la cosa, in quanto risultante della totalità delle prospettive in base alle quali può essere colta, è un’idea-limite, efficace perché regolativa della ricerca, non un concetto determinante (…) E il reale fenomeno è estensione percipita-osservata. Vediamo nel fenomeno il nostro stesso percepirlo; così soltanto nel conoscerlo, nel conoscere ciò che ci appare altro dal conoscere, ci conosciamo.” (M. Cacciari, Labirinto filosofico, Adelphi, Milano 2014, pp. 320, 322-3).
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mizzazione del nietzcheano “non esistono fatti ma solo interpretazioni”, d’altronde frainteso), esponendola così agli attacchi di un banale e ingenuo (nuovo) realismo17. Inoltre, il raccordo della ragione all’organizzazione biologica la tasforma da meccanicistica a “vivente”. Vita e cognizione, azione e conoscenza, sono due facce dello stesso fenomeno18. Quindi, per Ceruti, le indagini epistemologiche devono inanellarsi circolarmente con i risultati, i procedimenti razional-empirici e le matrici costruttive delle scienze cognitive e delle scienze del vivente: Uno degli scopi principali dell’epistemologia genetica è anzitutto quello di capovolgere il senso stesso del problema della fondazione. Invece di richiedere una fondazione diretta (empirica, trascendentale o platonica che sia) dell’apparato cognitivo (quale facoltà) del soggetto e delle sue conoscenze, l’epistemologia genetica ne studia la costituzione a partire dalle filiazioni genetiche (psicologiche, biologiche e culturali) e affronta il problema del radicamento naturale delle strutture cognitive (…) Laddove un’epistemologia normativa assume un corpus di conoscenze scientifiche acquisite al fine di determinare le condizioni atemporali di validità, l’epistemologia genetica, dunque, utilizza e promuove delle indagini sperimentali per comprendere come la norma si generi “tramite i dati mobili dello sviluppo”.19
Ne consegue la possibilità di rinnovare i metodi e i modi di problematizzare del lavoro filosofico-epistemologico, nel senso di: un passaggio da un’epistemologia normativa (qual era l’epistemologia neopositivista e quale resta nei suoi tratti generali anche l’epistemolo17 Non a caso, in questo contesto, Ceruti riprende la nozione gadameriana di “orizzonte”, la cui finitezza e chiusura costituisce la condizione di possibilità per ogni interazione costruttiva fra punti di vista differenti. I “pregiudizi” sono predisposizioni della nostra apertura verso il mondo, non “muri” di una prigione. Si veda M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, cit., pp. 103-4. 18 Nella concezione costruttivista di Ceruti, elaborata sul solco di quella piagetiana, la conoscenza non è né uno specchio della realtà, né una creazione arbitraria, ma una forma di adattamento biologico e cognitivo dell’organismo, il cui successo è “da intendersi nel senso della sopravvivenza all’interno dei vincoli posti dall’esperienza.” (M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, cit., p. 89). 19 M. Ceruti, La danza che crea, cit., pp. 21-22.
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gia post-positivista à la Popper, à la Kuhn, à la Lakatos) a un’epistemologia che è ormai in uso definire sperimentale, un’epistemologia che mette in relazione e che utilizza i risultati delle scienze cognitive, biologiche ed evolutive per porre i problemi dei meccanismi, degli strumenti e delle strategie del mutamento delle conoscenze, della relazione e del passaggio fra stati e stadi differenti del sapere, della relazione fra conoscenza e realtà.20
Non a caso, per Heinz von Foerster, il “colpo di genio” dell’epistemologia di Ceruti, ovvero della sua impresa di “ricostruire l’edificio della scienza senza il cemento della ‘causalità’” e di “basare l’architettura della scienza non sul caso e la necessità, ma sui vincoli e sulle possibilità”, è consistito nella scelta del “caso dell’Evoluzione Biologica”21 per la sua strategia argomentativa. Ma se, con lo sviluppo delle loro ricerche, proprio le scienze contemporanee (la cosmologia, la fisica delle particelle, la biologia evoluzionista..) si sono urtate “contro” i pilastri della razionalità scientifica classica, se esse hanno scoperto livelli di realtà che hanno messo in crisi il “dogma” della ricerca di un invisibile semplice dietro a una complessità dei fenomeni giudicata apparente e il dogma della ricerca di determinismi e previsioni certe, e se, infine, il principio di incertezza (insieme a: caso, contingenza, singolarità, località, temporalità, rivedibilità, disordine) si è inserito nel cuore della conoscenza scientifica, allora anche nella conoscenza della conoscenza, cioè nell’epistemologia, il medesimo principio d’incertezza non può non trovarvi cittadinanza. In altri termini, un’epistemologia “storica”, “genetica”, “costruttivista”, non può che diventare un’epistemologia complessa. Bioantropologia della conoscenza, sociologia della conoscenza, noologia, paradigmatologia… nessuna istanza può ergersi a sovrana, nessuna strategia ordinatrice o schema fondazionale è mai vero o falso in modo assoluto. Il principio d’incertezza permea l’esame di ciascuna istanza costitutiva di conoscenza e il problema dell’epistemologia è di far comunicare queste istanze separate e metterle in circuito. Di fatto, una tale epistemologia richiede una 20 Ivi, p. 20. 21 H. von Foerster, Presentazione a: M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, cit., p. XII.
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policompetenza e l’incontro e lo scambio tra ricercatori e specialisti che lavorano in settori disgiunti: Ogni soggetto, ogni tradizione, ogni paradigma appaiono come concrezione, come ricombinazione di molteplici temi, modi di pensare, immagini. L’epistemologia, la storia delle idee, la psicologia convergono nel mostrare e nel seguire la complessità di questi intrecci. Lo sviluppo della conoscenza non è riducibile a una storia di paradigmi che vincono, perdono, si amplificano o scompaiono. È anche la storia di come le nostre teorie, le nostre idee, le nostre categorie, le nostre immagini della natura e della conoscenza si costruiscono a partire dalla e attraverso la lotta e l’inconciliabilità dei differenti paradigmi, dei differenti punti di vista. Ogni prospettiva unitaria è il risultato contingente, più o meno stabile, di procedimenti costruttivi che operano su ciò che è e permane irriducibile. L’unità non è sintesi, è complementarità (concorrenza, cooperazione, antagonismo).22
Per Ceruti, un’epistemologia complessa e, più in generale, il “pensiero complesso” è l’esito più maturo (e, nel contempo, in fieri) di due eventi correlati che segano eminentemente gli sviluppi recenti delle scienze: la fine dell’onniscienza e il conseguente riconoscimento della sfida della complessità. L’ideale regolativo dell’onniscienza, su cui si è incardinata la tradizione epistemologica moderna (ma anche le filosofie, le Weltanschauungen, il senso comune), comprendente sia l’idea della crescita del sapere come avvicinamento asintotico alla conoscenza completa di una natura statica e ordinata, sia l’idea di un luogo fondamentale e neutro di osservazione e di spiegazione dei fenomeni, cede il posto all’idea che a ogni aumento della conoscenza corrisponde un aumento dell’ignoranza: Il pensiero della complessità non potrebbe avere nessuna pretesa di completezza; un tale pensiero porta in sé necessariamente delle incertezze e assume inevitabilmente delle contraddizioni; comporta la coscienza dei limiti di ogni conoscenza e dell’incompiutezza di ogni sapere. Non ci possono essere che certezze locali, provinciali e tem22 M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, cit., pp. 97-98.
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poranee. Il pensiero complesso riconosce l’assenza di fondamenti assolutamente certi per la conoscenza, e si costruisce nel suo movimento, attraverso il suo movimento auto-eso-produttore. Il pensiero complesso non può formulare alcun programma prestabilito di ricerca. Può solo elaborare strategie locali, provvisorie, e in grado di trattare l’aleatorio sulla base di un certo numero di principi (…) Il pensiero complesso si oppone a ogni riduzione mutilante, ma non alla ricerca del semplice, cioè alla ricerca dell’unità nell’universo, dell’invariante nel cambiamento, della legge nel processo, dell’ordine nella natura o nella società. Aspira a coniugare semplicità e complessità e riconosce una dialettica del semplice e del complesso.23
L’ideale, in auge per secoli, della coincidenza del reale e del razionale si rovescia nella consapevolezza che il reale eccede il razionale. La via di uscita dalla “crisi della ragione”, annunciata e conclamata nel dibattito filosofico italiano alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, proposta da Ceruti è una riforma della razionalità che, da chiusa e semplificatrice, la renda aperta, complessa, plurale, rispetto al canone classico moderno. Una ragione aperta può e deve riconoscere l’irrazionale (casi, disordini, aporie, brecce logiche) e lavorare con l’irrazionale; la ragione aperta non è rimozione ma dialogo con l’irrazionale e con l’a-razionale (l’essere e l’esistenza 23 M. Ceruti, E. Morin, La complessità: una “sfida” al pensiero, non una ricetta, non un programma, Supplemento al n. 25 della rivista Nuovi Argomenti (1988), p. 7. Ceruti descrive, in modo acuto e intrigante, l’incorporazione del principio di incertezza, nell’epistemologia contemporanea, come conseguenza del tramonto dell’ideale regolativo di matrice cartesiana di una “piena coscienza” dei processi conoscitivi: “L’ideale ‘cartesiano’ mirava a un’espansione quantitativa e a una purificazione qualitativa della conoscenza verso una prospettiva di identificazione perfetta di coscienza e di conoscenza. Nella prospettiva qui delineata, lo stato della questione sembra capovolto: ogni presa di coscienza produce zone d’ombra, e l’ombra non è soltanto ciò che sta fuori la luce, ma si produce nel cuore stesso di ciò che produce luce. Il rapporto fra conscio e inconscio cognitivi si costruisce in maniera ricorrente e vicariante: a ogni presa di coscienza corrisponde sia una nuova conoscenza delle matrici costruttive di una conoscenza acquisita precedentemente, sia la produzione di nuovo inconscio cognitivo corrispondente alla non visibilità delle matrici e dei meccanismi che hanno presieduto al processo di presa di coscienza” (M. Ceruti, La hybris dell’onniscienza e la sfida della complessità, in: G. Bocchi, M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano 2007 [ed. or. Feltrinelli, Milano 1985], pp. 8-9).
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non sono né assurdi né razionali; semplicemente, sono). E una razionalità scientifica complessa, adeguata al disordine e alla contingenza introdotti nella natura dalle scienze fisiche e biologiche, deve riconoscere un “pluralismo epistemologico e ontologico”: La sfida della complessità si delinea come necessità di adottare un radicale “pluralismo sistemico”. Non tutti i sistemi dell’universo sono di un unico tipo: semplici, lineari, prevedibili e descrivibili sulla base di leggi astoriche. I sistemi semplici sono importanti, ma, già a livello fisico-chimico, sono soltanto una parte dell’architettura del cosmo. E determinismo e previsione non sono necessariamente indisgiungibili.24
Questi “slittamenti” indicano una nuova possibilità di narrare il passaggio dalla modernità alla postmodernità? Oppure, si tratta di una transizione “complessa” all’interno della stessa modernità? Mauro Ceruti propende per la seconda diagnosi ed evidenzia come l’evocare una coupure radicale, che potrebbe spiegare la fine della tradizione moderna, denoti una lettura semplificata e monolitica di quella tradizione (come, appunto, è quella heideggeriana mutuata dalla teoria del pensiero debole25), la quale, come ogni tra24 M. Ceruti, La fine dell’onniscienza, cit., p. 24. 25 Con le interpretazioni totalizzanti e semplificanti come la “storia dell’essere” di Heidegger, sullo sfondo della polemica con il postmodernismo, polemizza negli stessi anni anche Cornelius Castoriadis: “La filosofia implicita della storia di Heidegger – la storia come Geschik, destino, destinazione e donazione dell’Essere e attraverso l’Essere – come la totalità dei suoi scritti trovano la loro condizione necessaria nella cecità congenita di Heidegger dinanzi l’attività critica/politica degli esseri umani (che è alla radice della sua adesione al nazismo e al Führerprinzip).Cecità completata da un’altra, altrettanto apparentemente congenita, dinanzi la sessualità e, più in generale, la psiche… La stessa cecità conduce Heidegger a vedere nel periodo contemporaneo solo il dominio della tecnica e della ‘scienza’ – e in entrambi i casi, con un’accezione incredibilmente ingenua della loro pretesa onnipotenza – e lo rende incapace di accorgersi della crisi interna all’universo tecno-scientifico e, ancora più importante, delle attività degli esseri umani dirette contro il sistema stabilito e delle possibilità che queste attività contengono” (C. Castoriadis, La “fin de la philosophie”? [1986], in: C. Castoriadis, Le monde morcelé. Les carrefours du labyrinthe – 3, Éditions du Seuil, Paris 1990, pp. 283-4). Da qui scaturisce il compito culturalmente attivo assegnato alla filosofia di problematizzare la scienza per la sua condizione ambivalente di ramo del pensiero che si differenzia dalle altre forme di pensare per il procedimento
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dizione, è strutturalmente segnata, invece, nel suo sviluppo, “dalla continua composizione, scomposizione e ibridazione di ‘parti’ e ‘livelli’ eterogenei, contraddistinti da velocità e direzioni di deriva differenti, talvolta cooperanti e talvolta contrastanti”26. La modernità non si può spiegare esaurientemente nemmeno con l’ideale regolativo dell’onniscienza, che ne è un tratto fondamentale sì, ma in sé non esclusivo27, e che si ritrova operante ben prima della modernità, connesso a una “ontologia dell’eternità”28, e probabilmente in stratificazioni più profonde e interconnesse dell’evoluzione umana. Ceruti, allora, precisa così la sua risposta all’ipotesi della “condizione postmoderna” di Lyotard e all’ipotesi della “fine della modernità” di Vattimo: ipotetico-deduttivo e di verifica empirica (e, quindi, non dogmatico) e fonte della tecnica macchinista, organizzatrice, razionalizzatrice moderna: “Come l’istituzione sociale della scienza contemporanea potrebbe essere abolita nella forma presente, senza uno scardinamento radicale dell’organizzazione interna del sapere e del lavoro scientifico congruente a essa? Cosa potrebbe essere questo scardinamento, se non fosse anche una ripresa integrale del problema del sapere, di coloro che sanno e di ciò che sanno, dunque ancora filosofia e filosofia più che mai, quella filosofia di cui alcuni poveri di spirito credono di poter causare la morte proferendola? La trasformazione della società che il nostro tempo esige si rivela inseparabile dall’autosuperamento della ragione”. (C. Castoriadis, Les carrefours du labyrinthe 1, Seuil, Paris 1978, p. 285). A Castoriadis fanno eco Ceruti e Morin: “Tutti gli sviluppi e tutte le trasformazioni delle nostre società hanno tra le loro cause e tra i loro effetti gli sviluppi della tecnoscienza. La scienza è divenuta una potente matrice sociale. I successi della scienza apparentemente pura, come l’elucidazione della struttura dell’atomo e l’elucidazione della struttura del gene, si sono rivelati in grado di suscitare strumenti di distruzione e di manipolazione. La scienza, avventura disinteressata, è catturata dagli interessi economici. La scienza, avventura apolitica, è catturata dalle forze politiche, in primo luogo dagli stati… La scienza è diventata un problema civico, un problema dei cittadini” (E. Morin, M. Ceruti, La nostra Europa, Raffaello Cortina, Milano 2013, pp. 134-6). 26 M. Ceruti, La hybris dell’onniscienza e la sfida della complessità, cit., p. 17. In questa impostazione si rileva sicuramente il debito di Ceruti con Paolo Rossi e la sua analisi del rapporto articolato e complesso fra tradizione ermetica e rivoluzione scientifica (si veda P. Rossi, Immagini della scienza, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 71-181). 27 Nelle sue indagini epistemologiche, Ceruti ne enuclea diversi: le strategie di bonifica, l’atteggiamento cognitivo dell’estrapolazione, il monismo epistemologico e ontologico, i processi di sacralizzazione secondaria. 28 Si veda M. Ceruti, La fine dell’onniscienza, cit., pp. 17-22.
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Nel corso della tradizione moderna il modello epistemologico dell’onniscienza ha disciplinato profondamente i grandi sviluppi del pensiero scientifico e filosofico, e in generale le immagini del sapere, della natura, della storia, dell’uomo. Ma questo suo potere si è esercitato attraverso continue tensioni che ci rivelano come tutti i grandi sviluppi della modernità siano caratterizzati da una sostanziale ambivalenza. Essi ci appaiono a un tempo sia come prodotti di una decentrazione rispetto a un luogo fondamentale di osservazione, sia come l’interpretazione del senso di questa decentrazione nella direzione di un punto di vista più completo, di una mappa rilevata “più” dall’alto. Ciò che si definisce come crisi della modernità non è semplicemente lo sgretolamento dei fondamenti, il venir meno dell’ideale di un linguaggio neutro. È il venire meno della produttività di questa tensione. Ma è anche soprattutto, in positivo, il delinearsi costruttivo e produttivo della coscienza epistemologica di un nuovo tipo di tensione, la tensione sempre aperta e rinnovantesi fra l’assenza di fondamenti, la circolarità e la produzione reciproca dei punti di vista e dei “tagli metodologici” da un lato, e dall’altro l’esigenza di effettuare comunque tagli metodologici e ordinamenti locali per poter parlare di questa stessa assenza di fondamenti, e di queste circolarità.29 29
M. Ceruti, La hybris dell’onniscienza e la sfida della complessità, cit., pp. 1819. Questa visione complessa della storia delle idee, secondo Ceruti, mette in discussione la tesi kuhniana dell’incommensurabilità dei paradigmi e delle tradizioni, che, non a caso, Rorty, negli stessi anni, invece, farà propria e la radicalizzerà in direzione di un contestualismo antropologico, che vede come inevitabile la chiusura “etnocentrica” di ogni tradizione e cultura. Salvo ammettere almeno la possibilità (a-razionale, potremmo dire) di aprire una breccia nel “noi” verso i “loro”, la possibilità cioè di “saper togliere importanza a più e più differenze tradizionali (di tribù, religione, razza, usi, e simili) in confronto alla somiglianza nel dolore e nell’umiliazione, nel saper includere nella sfera del ‘noi’ persone immediatamente diverse da se stessi.” (R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia, Laterza, Bari 2008 [ed. or. 1989], p. 221) Questa posizione relativista finisce, secondo Ceruti, per rivelarsi arbitraria di fronte al dato che la conoscenza umana si sta planetarizzando, nello spazio come nel tempo, e che “alla coscienza di un sempre maggior numero di individui e di collettività affiora, simultaneamente, una frazione rilevante di quanto l’umanità ha pensato e conosciuto nei luoghi e nei tempi della sua storia e della sua esistenza. Interazioni e ibridazioni fra culture, forme di spiritualità, forme di conoscenza eterogenee che nel passato erano confinate in particolari fasi della storia delle civiltà o nella fortunata esperienza di pochi esploratori o di pochi decifratori di civiltà ignote, sembrano oggi proporsi con una frequenza
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Di conseguenza, per Ceruti, non è questione di “oltrepassamento della metafisica” o di “uscita dalla modernità”, ma di un autosuperamento della ragione e della modernità, che, come gli verrà sempre più in chiaro negli anni successivi, mediante la lettura della complessità storica, politica e antropologica contemporanea, è imposto non solo dalle trasformazioni in atto nell’area occidentale del mondo (come la rivoluzione mediatica e digitale), ma soprattutto dall’inedita condizione umana globale plasmata dai processi di interdipendenza planetaria e di incremento della potenza tecnologica, e dalle contraddizioni e antinomie che essi rivelano. Così, la stessa ragione può auto-smascherare il suo asservimento strumentale agli imperativi di utilità o di efficienza, oppure la radice “eurocentrica” e “violenta” nascosta dietro l’universalismo astratto, ma senza perdere l’aspirazione (dia)logica e universalista, anzi, rigenerandola in un umanesimo planetario30. Al di sopra di una certa soglia, l’irrazionale diventa ragionevole e induce mutamenti della razionalità: ciò che era regressivo, tradizionalista, “romantico”, come la critica ecologica allo sviluppo, appare improvvisamente un’esigenza di sopravvivenza e di razionalità. Il pensiero complesso, facendo la navetta tra filosofia e scienze, prepara o consolida il terreno a straordinari rovesciamenti di razionalità. Sia per il pensiero debole di Vattimo, sia per l’epistemologia della complessità di Ceruti, la filosofia post-metafisica è chiamata a intrattenere ancora un rapporto con l’Intero e a tenere viva un’esigenza ricompositiva di fronte alla frammentazione e alla parcellizzazione dei saperi e delle “visioni del mondo”. Ma, se per Vattimo significativa, pur se comunque minoritaria, anche nelle esperienze quotidiane di molti individui e di molte singole comunità.” (M. Ceruti, Evoluzione senza fondamenti. Soglie di un’età nuova, Meltemi, Milano 2019 [ed. or. 1995], pp. 140-1) Questo attesta, sia per Ceruti sia per Marramao, la possibilità di una “sfera pubblica globale” improntata agli scambi, alle composizioni creative e alle contaminazioni cui può dare luogo l’elaborazione simbolica e narrativa dei valori identitari, a conferma del fatto che “non tutto ciò che si presenta incommensurabile – ossia, alla lettera, irriducibile a un metro di misura omogeneo (come per esempio i valori o le credenze dei diversi contesti culturali) – deve essere per ciò stesso ritenuto incomparabile.” (G. Marramao, La passione del presente. Breve lessico della modernità-mondo, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 42). 30 M. Ceruti, Il tempo della complessità, Raffaello Cortina, Milano 2018, p. 168.
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si tratta di farlo attraversando e registrando le differenze come eventi dell’Essere, senza gettare ponti o costruire schemi unificanti, per Ceruti si tratta di cercare una “sintesi” diversamente intesa rispetto alla tradizione epistemologica moderna e di riconnettere ciò che è disperso e separato per una riformulazione e risoluzione dei problemi umani e sociali, in vista della loro complessità. Spiega, Ceruti: Il venir meno dell’ideale regolativo del luogo fondamentale di osservazione ha condotto con sé il venire meno della nozione classica di sintesi. Non esiste un metapunto di vista rispetto al quale giudicare e rendere omogenee le differenze che intercorrono fra i punti di vista, e tantomeno le loro contrapposizioni. Queste differenze e queste contrapposizioni sono irriducibilmente costitutive dei domini cognitivi dei punti di vista dati. E tuttavia permane l’esigenza di una coordinazione dei punti di vista, in un discorso che rinunci agli attributi dell’assolutezza e di neutralità per assumere quelli di storicità e costruttività. Il problema non è più quello di rendere omogenei e “coerenti” differenti punti di vista; diventa quello di comprendere come punti di vista differenti si producano reciprocamente. La molteplicità dei punti di vista vale in riferimento alla molteplicità delle culture, dei sistemi di riferimento categoriali, delle tradizioni scientifiche, delle scuole di pensiero, di una stessa mentalità. Vale in riferimento a diversi punti di vista di diversi soggetti individuali. Ma vale anche in riferimento alla molteplicità irriducibile dei tipi di pensiero, dei tipi di logica, dei sistemi cerebrali costitutivi di un singolo soggetto. Questa molteplicità di punti di vista non può essere gerarchizzata una volta per tutte.31 31 M. Ceruti, La hybris dell’onniscienza e la sfida della complessità, cit., p. 15. Con la prospettiva di Ceruti entra in risonanza anche Alfonso Maurizio Iacono con la sua “teoria della coda dell’occhio” o “teoria dei mondi intermedi”. Per Iacono, infatti, “noi viviamo in mondi intermedi, cioè in mondi dove le province finite di senso o gli universi di significato non sono affatto a una dimensione” e “credere a una realtà assoluta è una situazione estrema che può verificarsi nel sogno (dove, tuttavia, si dubita e/o si sogna di sognare) o nell’allucinazione. La credenza in una realtà assoluta è la condizione estrema dei prigionieri incatenati della caverna… La capacità di saper vivere nella compresenza di più universi in termini tali che l’immersione in un mondo non implica l’esclusione di altri mondi, ma la loro percezione, per così dire, laterale, è ciò che io chiamo Teoria della Coda Dell’occhio.” (A.G. Gargani, A. M. Iacono, Mondi intermedi e complessità, ETS, Pisa 2005, pp. 37, 10-11)
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L’idea di una filosofia che media, pungola e facilita questa “coordinazione”, valorizzando la contingenza, la singolarità e l’irripetibilità di ogni punto di vista o tradizione di pensiero (compresa la scienza) come condizione indispensabile per avere accesso al mondo, per dialogare con altri punti di vista e tradizioni, per dialogare con il reale, per creare nuovi mondi, provando, così, a riscrivere, su tale via, il suo compito meta-riflessivo, avvicina Ceruti ad altri filosofi come Jürgen Habermas, Isabelle Stengers, Michel Serres o Massimo Cacciari, determinati a difendere la filosofia dai rischi di dismissione o di “acosmismo” a cui va incontro in taluni ambienti ermeneutici, decostruzionisti o postanalitici. Pure per Habermas, “anche quando la filosofia si annida nel sistema scientifico, essa non deve con ciò abbandonare completamente quel rapporto con l’Intero che aveva contrassegnato la metafisica” e “sulla base di un rapporto col mondo della vita, intimo e tuttavia spezzato” può rivestire un “ruolo che sta al di qua del sistema scientifico, un ruolo di interprete che media le relazioni fra le culture degli esperti della scienza e della tecnica, del diritto e della morale da una parte, e la prassi comunicativa quotidiana dall’altra; e precisamente in modo simile a quello in cui la critica letteraria ed artistica media fra arte e vita”32. L’impossibilità di fissare una gerarchia dei punti di vista, sostenuta da Ceruti, trova eco nella proposta recente formulata da Stengers, sulla scorta della lezione di Whitehead, di “riattivare il senso comune” o, meglio, il “fare senso in comune”, il cui “rimuginare” gli aspetti dell’esistenza, al di là delle rassicurazioni “logiche” e “scientifiche” degli specialisti, diventa necessario in un mondo complesso, intrinsecamente incerto e problematico, e, pertanto, non va soddisfatto o distillato dalla filosofia, ma alimentato33. Altrettanto per Cacciari, che, a partire da una rivisitazione del programma fenomenologico di Husserl, propone l’idea di una “filosofia analogica” (o “filosofia della traduzione”) che ricerca i motivi di connessione tra le diverse prospettive (inclusa quella scientifica) e fa emergere i rapporti, i legami e le misure che mettono un determinato sapere in relazione con altri saperi, tanto più praticabile, 32 J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, cit., 42. 33 I. Stengers, Réactiver le sens commun. Lecture de Whitehead en temps de debacle, La Découverte, Paris 2020, pp. 9-41.
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oggi, nel contesto di una visione non più positivistica dell’impresa scientifica e dove la crescita di ciascun specialismo può accompagnarsi alla coscienza della necessità di doversi integrare in un orizzonte comune e di congiungersi agli altri “gradi di verità”34. Infine, se, per Ceruti, il filosofo della complessità è il custode del possibile anche (e proprio) di fronte a ciò che è stigmatizzato come improbabile, a partire dalla constatazione “ontologica” che “l’universo del possibile si rigenera ricorrentemente, in modo discontinuo e imprevedibile”35, anche per Serres la filosofia “non ha il dovere esclusivo di pensare ciò che pensano le scienze nella maniera in cui esse pensano” e “non ha il dovere esclusivo di essere separata dalla scienza”, e, in questo modo, diventa “la vestale del possibile, la vestale del tempo, e sorveglia il fuoco sacro nei tempi brutti”36. L’epistemologia complessa è così ampliata da Ceruti con il programma di una filosofia della complessità, con intenti contemporaneamente decostruttivi e ricostruttivi, antiriduzionisti e ricompositivi, epistemologici e teorico-critici37. Il che avviene in piena sintonia anche con l’infungibile funzione emancipatrice e umanistica assegnata dal biofisico e filosofo Henri Atlan al “discorso filosofico”: Difatti, non vediamo sotto i nostri occhi affermarsi gli elementi di un totalitarismo del XXI secolo – ancora più terrificante di quelli del XX secolo per il fatto che rischia di essere planetario – nella nuova ideologia della Vita e della Natura? Se ne riscontrano espressioni in certi aspetti del movimento ecologista… La ragione unificatrice e totalizzante, procacciatrice di ideologie totalitarie, ne sa una più del diavolo. Abbiamo visto che un’impresa filosofica che avrebbe cura di differenziarsi dalla ricerca 34 Si vedano le due conferenze tenute da Massimo Cacciari presso la Casa della cultura di Milano (Perché la filosofia oggi, il 16 dicembre 2020, e Filosofia vo’ cercando, il 2 dicembre 2022). In esse, il filosofo veneziano annuncia una linea di ricerca che promette di avere molti punti di tangenza con la filosofia della complessità. 35 M. Ceruti, Il tempo della complessità, cit., p. 113. 36 M. Serres, Genesi, Il Melangolo, Genova 1988 [ed. or. 1985], pp. 190, 98. 37 Su questa scia si collocano anche i rilevanti lavori di Giuseppe Gembillo e Annamaria Anselmo. Si veda, in particolare, G. Gembillo, Le polilogiche della complessità. Metamorfosi della Ragione da Aristotele a Morin, Le Lettere, Firenze 2008 e G. Gembillo, A. Anselmo, Filosofia della complessità, Le Lettere, Firenze 2013.
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scientifica e anche dalle grandi tradizioni mitiche potrebbe contribuire a evitare questi sentieri ed esorcizzare le fascinazioni che esercitano. Il luogo di radicamento di questa impresa, il suo campo privilegiato, sarebbe quello del complesso e del singolare, in cui la sub-determinazione delle teorie attraverso i fatti è la regola piuttosto che l’eccezione. Ma il successo di tale compito è condizionato dall’invenzione di una forma di discorso ad esso adatto. Questo discorso deve essere liberato dall’influenza del linguaggio scientifico riduttore perché trasparente e univoco, dove metafore e analogie sono ripieghi da cui bisogna sempre diffidare. Ma non deve per questo abbandonarsi al fascino del mitologico, per non parlare anche dell’irrazionale – o dell’a-razionale – del giudizio estetico. Per conservare la sua specificità di linguaggio filosofico, non deve riunciare al rigore del pensiero critico in cui la ragione serve da mezzo per riconoscere nell’errore il segno di un pensiero falso; e discernere così, nonostante tutto, tra un vero e un falso, non certamente in modo assoluto, ma relativamente a regole – dette o non dette – che circoscrivono un taluno o talaltro campo di riflessione.38
Uno dei contributi più rilevanti dell’epistemologia complessa di Ceruti è stato quello di aver esplorato “il carattere ampiamente e profondamente mitico di ogni razionalità”39, per dirla con le parole di Kostas Axelos, e di avere dissodato i miti che la razionalità scientifica moderna, dissimulandoli come tali, ha incorporato, a cominciare dal “mito” dell’onniscienza. Alla stessa stregua, un’epistemologia complessa rende oggi visibile l’alone mitologico che avvolge le teorie o le attività tecnoscientifiche emergenti e che occulta la loro ascendenza dal paradigma riduzionista e semplificante della scienza classica o, addirittura, da retaggi culturali anche premoderni40. Ad esempio, il mito della perfezione che ispira il progetto di sbarazzarsi dell’“inconveniente” umano, sia dei suoi limiti biologici (mito intenzionalmente coltivato dai profeti del po38 H. Atlan, Tout, non, peut-être: Education et vérité, Éditions du Seuil, Paris 1991, pp. 208-209. Atlan è tra le figure maggiormente rappresentative delle “scienze della complessità” che più hanno influenzato Ceruti. 39 K. Axelos, Orizzonti del mondo, La Salamandra, Milano 1980 (ed. or. 1974), p. 10. 40 M. Ceruti, F. Bellusci, Abitare la complessità. La sfida di un destino comune, Mimesis, Milano-Udine 2020.
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stumano), sia dell’interferenza della sua emotività e irrazionalità (mito intenzionalmente coltivato da tanti progetti di IA applicati ai processi lavorativi e produttivi). O il mito dell’intelligent design della natura, che, messo fuori dalla porta dalle teorie evoluzioniste recenti, rientra dalla finestra col progetto portato avanti da alcuni promotori delle NBIC di fabbricare la vita ex nihilo. O l’illusione di potersi sbarazzare di ipotesi e teorie, data la disponibilità massiccia di dati e di macchine in grado di elaborarli con velocità e precisioni impensabili per l’uomo (i Big data si sostituiscono al “demone” di Laplace…). O, ancora, il mito del “soluzionismo tecnocratico”, che consiste nel credere che qualsiasi problema possa essere risolto con una soluzione tecnica (surrogato del mito del progresso ineluttabile e lineare…). Si tratta di miti (o euristiche) che, peraltro, possono ancora pericolosamente “disinibire” l’uomo nel rapporto con la natura, proprio nel momento in cui la coscienza della crisi ecologica e climatica e, più in generale, la coscienza di essere diventati una “forza geologica”, nell’era dell’antropocene, dovrebbero retroagire sui suoi comportamenti e sulle sue scelte, riconducendoli alla misura, alla sobrietà e alla “co-trasformazione” coevolutiva consapevole con la natura41. Per questo, il carattere inedito del nostro tempo è senz’altro la non neutralità della tecnica, considerato il suo impatto sulle generazioni future e sui destini anche biologici della specie umana. Ma, secondo Ceruti, non è una non neutralità solo dal punto di vista etico, come ha bene argomentato Hans Jonas (nel celebre Il principio responsabilità, altro libro chiave nell’anno di “svolta” 1979), ma anche dal punto di vista epistemologico42. Un punto dirimente per immaginare nuove maniere di fare scienza al di là della prospettiva del “controllo e comando”, cioè di fare scienza con coscienza della complessità. La Terra colpita dal riscaldamento climatico non chiede che alle energie fossili si sostituiscano altre fonti energetiche di cui godere senza limiti, né che la si rispetti o si sacralizzi come una perso41 M. Ceruti, Sulla stessa barca, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2020. 42 È la tesi al centro della conferenza tenuta da Mauro Ceruti nell’ambito del workshop internazionale: Converging on the person. Emerging technologies for the common good, organizzato, presso il Vaticano, dall’Accademia Pontificia Pro Vita (20-21 febbraio 2023).
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na, come predicano alcune visioni ecologiste radicali, ma, secondo Ceruti, chiede all’umanità planetaria (un nuovo tipo antropologico germinale di umanità) di essere riconosciuta come una totalità vivente che esige una nuova intelligenza tecnica e politica. Si tratta, allora, di mettere a punto dispositivi di interazione tecnica, scientifica, istituzionale che arricchiscano l’alleanza che possiamo stringere con la natura. Qui riposa uno dei traguardi più significativi del pensiero filosofico ed epistemologico di Ceruti. La danza della creazione: dall’epistemologia all’ontologia Edgar Morin ha sintetizzato con puntuale lucidità il modo in cui il pensiero complesso scompiglia il paesaggio tradizionale della filosofia: Col pensiero complesso si opera un mutamento di base. Non si ha più entità di partenza per la conoscenza: il reale, la materia, la mente, l’oggetto, l’ordine ecc. Si ha un gioco circolare che genera quelle entità che appaiono come altrettanti momenti di una produzione. Con ciò, non ci sono più alternative inesorabili tra le entità antinomiche che si disputavano la sovranità ontologica: le grandi alternative classiche, Spirito/ Materia, Libertà/Determinismo si assopiscono, si residualizzano, ci sembrano obsolete. Scopriamo persino che il materialismo e il determinismo, che si reggevano a costo dell’esclusione dell’osservatore/ soggetto e del disordine, sono altrettanto metafisici dello spiritualismo e dell’idealismo. Il vero dibattito, la vera alternativa si hanno ormai tra complessità e semplificazione.43
La via del pensiero complesso si apre con la riflessione sulle scienze, i cui sviluppi hanno posto il problema della complessità. E la via della filosofia, nella fattispecie, dell’ontologia, si (ri)apre con l’esercizio del pensiero complesso. Così, può capitare, come ha scritto, altrove, sempre Morin, che un “fervore epistemologico” possa dissimulare “un’ossessione ontologica”: è il caso di Mauro Ceruti.
43 E. Morin, Il metodo I. La natura della natura, Raffaello Cortina, Milano 2001 [ed. or. 1977], p. 445.
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L’epistemologia della complessità mette in discussione la costituzione e la divisone disciplinare degli “oggetti” della conoscenza, conforme al paradigma della scienza classica, perché frutto di una costruzione semplificante (cioè riduttiva, disgiuntiva, deterministica) e frutto di “ritagli” della Realtà, che continua a nascondersi dietro le nostre “realtà”. In questo modo, essa rinvia al problema della Realtà non esaurita dall’oggettività scientifica (come già Husserl e Heidegger, per vie diverse, facevano notare agli inizi del secolo scorso, in polemica con la hybris scientista) e, in più, di come accedere anche alla sua conoscenza empirica in modo non mutilante, anche se tale conoscenza non potrà mai essere completa (la scoperta della complessità comporta ormai la “fine dell’onniscienza”). E se le questioni della Realtà, dell’Essere e dell’esistenza, che erano state rimosse dall’approccio formalizzante e quantitativo della tradizione scientifica moderna, possono ora essere reintrodotte, dal punto di vista della sfida della complessità, ci avverte Ceruti, non comportano il salto nell’infondato, nel Niente, ovvero nell’angoscia delle nostre esistenze, a cui invita Heidegger, in una celebre conferenza del 192944. Semmai, comportano lo sguardo sull’infondato come sorgente creativa, come “danza che crea”, sull’abisso generativo e circolare di forme (o sistemi), e, quindi, sulla nostra stessa esistenza come “florilegio”, emergenza da emergenze più complesse, dentro una Natura “storica e sistemica”. La domanda metafisica che, allora, il dimorare in questo sguardo suscita, non è tanto: “Perché in generale c’è l’ente piuttosto che il Niente?”, quanto: “Perché in generale c’è l’(auto)alterazione piuttosto che la permanenza?”45. Su questa scia, Mauro Ceruti e Cornelius Castoriadis convergono nello sviluppare un’ontologia nuova rispetto alla tradizione filosofica moderna, che era centrata sull’immagine dell’Universo determi44 M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001. 45 Domanda metafisica che ne innesca altre: “Perché c’è unità, perché ci sono ‘sistemi’, e non pura molteplicità, puro assolutamente diverso?”, “Come si danno sistemi chiusi e aperti, autonomia e cambiamento, nello stesso tempo?”, “Cos’è un’unità molteplice?”… Si veda M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, cit., cap. 3. Lo scopo di Ceruti non è di dissolvere l’essere, l’esistenza, la vita, nel sistema, ma di capire l’essere, l’esistenza, la vita con l’aiuto anche del sistema.
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nista, rimettendo in campo l’idea greca di physis, cioè di “qualcosa” che ha in sé principio e origine di cambiamento e di creazione di forme (di leggi): l’uno, estrapolandola da un’attenta ricognizione epistemologica degli sviluppi delle scienze cosmologiche, evolutive e del vivente; l’altro, da una rilettura originale della Fisica di Aristotele e da una tematizzazione della complessità nella cornice di una “logica dei magma”46. L’essere (o physis) non è sostanza, e non è né presenza né (mistico) Ereignis, ma è un processo che si autoproduce e che produce dell’essere, crea delle forme, del sé (il processo autoproduttore della vita produce degli esseri viventi…). L’essere può esistere solo a partire dal momento in cui c’è auto-creazione, auto-produzione, auto-organizzazione. La creazione appartiene all’essere/essente in quanto tale. E questo, vale anche per ogni “forma” emergente da tale processo (l’inerte, la vita, la psiche, la società, l’antropotecnica…), con gradi di complessità differenti. La creazione è immotivata e imprevedibile (il “principio di ragion sufficiente” sarà sempre insufficiente per spiegarla47), è un evento, singolare e contingente, che va connesso, secondo Ceruti, “in una rete infinita di interdeterminazioni fra fenomeni che non ha un referente ultimo”. È ex nihilo, ma non è arbitraria, ha sempre luogo sotto il condizionamento di leggi-vincoli (cioè, non si fa né in nihilo né cum nihilo). Questi vincoli sono limiti del possibile e condizioni di nuovi possibili, risultanti dalla storia stessa dell’universo che ha in sé il principio della generazione e del cambiamento Questa ontologia, quindi, non può essere che speculare a una cosmologia che dissolve quella tradizionale (poggiata sull’“onto46 Si veda G. Bocchi, M. Ceruti, La riscoperta della physis per una storia naturale delle possibilità, e C. Castoriadis, “Physis” e autonomia, in: M. Ceruti, E. Laszlo (a cura di), Physis: abitare la terra, Feltrinelli, Milano 1988, pp. 15-50; C. Castoriadis, La logique des magmas et la question de l’autonomie (1981), in: C. Castoriadis, Domaines de l’homme. Les carrefours du labyrinthe, 2, Éditions du Seuil, Paris 1986. Il “magma”, per Castoriadis, corrisponde al modo di essere del mondo che si presta indefinitamente a organizzazioni insiemistico-identitarie e non si esaurisce in queste organizzazioni. 47 “Le grandi svolte della storia del cosmo, della Terra, della vita, sono intrinsecamente improbabili. La creazione di strutture più particolari o più complesse, l’emergenza della novità, non può essere desunta da un’analisi logica delle strutture preesistenti. La contingenza è annidata in ogni creazione della biosfera.” (M. Ceruti, “Off the line”, in: M. Ceruti, P. Fabbri, G. Giorello, L. Preta (a cura di), Il caso e la libertà, Laterza, Bari 1994, p. 6).
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logia dell’eternità” e sulla trama di leggi predeterminate, invarianti e atemporali) con la rappresentazione di un cosmo “caotico”, che evolve, che cambia: Possiamo plausibilmente dire: gli ordini ontologici divengono, e questo divenire – con tutta la storia delle creazioni di questi ordini, e delle interazioni fra questi ordini – trasforma radicalmente il cosmo, lo dota di una storia in senso proprio. O ancora: il cosmo, inteso proprio nel senso tradizionale di universo unitario e integrato, non è dato ab initio o sub specie aeternitatis, ma diviene esso stesso. E il problema chiave di gran parte della tradizione cosmologica dell’età moderna, quello dell’infinità del cosmo, si definisce progressivamente nel problema della sua incompiutezza, del suo cambiamento, della sua creazione, nei problemi proposti cioè dall’idea di physis.48
L’idea di una cosmologia radicalmente evolutiva, che Ceruti incontra nei suoi percorsi di epistemologia sperimentale, lo avvicina alla metafisica bergsoniana che assolutizza il principio del divenire, del cambiamento, del mouvant e che parla di una “creazione continua di imprevedibile novità che sembra perseguirsi nell’universo”49. Ma, Bergson, pur scalzando con il tema dell’élan vital i biologi troppo deterministi del suo tempo e anticipando le rivoluzioni a venire nelle scienze evolutive e del vivente, è ancora prigioniero della ratio moderna disgiuntiva, che lo porta a enfatizzare spiritualisticamente le opposizioni vita-materia, mente-corpo, intuizione-intelletto, e a non poter percepire quella “danza” che crea unendo determinazione e creazione, forme e vis formandi, regolarità ed emergenze del nuovo, e che crea gli “anelli” ricorsivi che legano e separano, allo stesso tempo, quei termini considerati opposti da Bergson. Per Ceruti, l’“evoluzione creatrice” di bergsoniana memoria va riscritta come una storia naturale dei vincoli e delle possibilità, ovvero una storia della coproduzione reciproca e della coevoluzione di vincoli e possibilità: 48
G. Bocchi, M. Ceruti, La riscoperta della physis per una storia naturale delle possibilità, cit., pp. 19, 20. 49 H. Bergson, Pensiero e movimento, Bompiani, Milano 2000, p. 83.
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L’aspetto più caratteristico delle immagini della natura e della storia elaborate dalle scienze contemporanee è il fatto che l’universo del possibile si rigenera ricorrentemente nel corso della storia naturale, in modo discontinuo e imprevedibile. Si è delineata l’idea di una storia naturale delle possibilità, nella quale nuovi universi di possibilità si producono in coincidenza con le grandi svolte, le grandi discontinuità, le grandi soglie dei processi evolutivi. È questa immagine della storia naturale che conduce a un’interpretazione delle leggi e delle regolarità non quali necessità predeterminate e atemporali, bensì quali vincoli risultanti da una storia che è creatrice di nuove forme. Questi vincoli sono appunto da interpretare non soltanto come limiti del possibile, ma condizioni di nuovi possibili50 (…) A poco a poco scopriamo che tutte le necessità e tutte le invarianti della biosfera sono in realtà il prodotto di un’evoluzione, sono il risultato dell’attualizzazione di determinate possibilità e della loro fissazione sotto forma di vincoli in fasi più o meno remote della storia della vita e della Terra.51
Una “storia naturale creatrice di forme”, dunque. Questo è l’asse concettuale della visione ontologica che Ceruti estrapola dall’epistemologia degli sviluppi recenti delle scienze della vita e della Terra (dalle teorie dell’evoluzione di Charles Darwin alla rivisitazione che ne fanno Niles Eldredge e Stephen Jay Gould, dalla paleo-microbiologia di Lynn Margulis alla geofisiologia di James Lovelock), che, confrontandosi con la complessità del cosmo, del vivente e dell’evoluzione, capovolgono dall’interno gli schemi concettuali (o “feticci epistemologici”, per riprendere di nuovo l’espressione di Gargani) su cui si è incardinato il pensiero filosofico e scientifico tradizionale, da Platone in poi (il “pensiero ereditato” secondo Castoriadis, o la filosofia “gnoseologica” secondo Rorty, o, ancora, potremmo dire, l’“ontoteologia” secondo Heidegger): l’essenzialismo, il principio di causalità lineare, la ricerca di leggi atemporali nella storia, la scienza del necessario… È il passaggio da una “cosmologia monista” a una “cosmologia pluralista”: 50 M. Ceruti, Il tempo della complessità, cit., p. 117. Si veda anche: G. Bocchi, M. Ceruti, La riscoperta della “physis” per una storia naturale delle possibilità, cit., pp. 33-34; M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, cit., cap. 4. 51 M. Ceruti, La fine dell’onniscienza, cit., p. 132.
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La cosmologia che prevale (era possibile che prevalesse, ma non era necessario) nella tradizione scientifica moderna è una cosmologia piena di essenze e vuota di storia, piena di determinismi e regolarità e vuota di contingenze: è una cosmologia monista che vuole ridurre la pluralità, è una cosmologia che vuole bonificare la storia attraverso le essenze, che vuole bonificare le contingenze attraverso i determinismi e le regolarità. Questo progetto cosmologico gioca a tutto campo: vuole estendersi al passato come al futuro, alle scienze del mondo fisico come alle scienze del mondo vivente (…) Gli sviluppi del pensiero evoluzionista da Darwin a Gould e, più in generale, l’affermarsi di indagini transdisciplinari sulle irreversibilità e sulle asimmetrie temporali, segnano i limiti di questo progetto. La cosmologia che ne sta derivando non è una cosmologia che si situa sullo stesso piano, che privilegerebbe unilateralmente i processi a scapito delle forme e le contingenze a scapito delle regolarità. È al contrario una cosmologia pluralista, che si tesse continuamente nella danza creatrice di processi e di forme, di contingenze e di regolarità, e non pretende di porre termine alcuno a tale danza.52
Ma non solo la cosmologia tradizionale, anche l’antropologia tradizionale è intaccata da questo capovolgimento ontologico. Innanzitutto, a essere superati da un nuovo modo di interrogare la natura del vivente sono il dualismo anima-corpo, mente-materia, e, quindi, la vecchia disputa tra meccanicisti e vitalisti, su cui rimaneva incanalato lo stesso Bergson. Infatti, se creatività e durata appartengono ontologicamente alla physis in quanto tale, ciò che la vita ha di specifico va reperito in altri concetti chiavi affiorati con il pensiero sistemico: la vita è auto-organizzazione e la vita, in quanto processo, è cognizione (fenomeno più ampio della coscienza, che non presuppone necessariamente un cervello o un sistema nervoso superiore). L’attività organizzativa dei sistemi viventi (emergenti dalla propria “storia”) a tutti i livelli della vita è attività mentale. Vita e cognizione risultano così inseparabilmente connesse. L’attività mentale è immanente nella materia a tutti i livelli della vita. Nella formulazione di questa risposta, per Ceruti, il riferimento pioneristico è sempre Piaget, ma l’altro riferimento importante sono 52 Ivi, p. 139.
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le teorie di Herberto Maturana e Francisco Varela, nonché la “seconda” cibernetica di Heinz von Foerster e il pensiero complesso di Edgar Morin, che, nella fattispecie, parlano di processi viventi come processi di computazione53: L’idea di computo fu soprattutto all’origine dell’indagine sulla natura del vivente quale computer biologico nei termini di auto-organizzazione. Un sistema vivente, a differenza di un sistema (computer) artificiale, computa infatti la sua stessa sopravvivenza. Si tratta dunque di una auto-computazione sia perché l’esistenza stessa di un sistema vivente è conservata grazie al computo che ne definisce l’attività, sia perché tale attività di computo è generata dalla stessa struttura dell’organismo: la struttura dell’organismo genera l’attività di computo e nello stesso tempo ne risulta.54
Se, fino agli anni Ottanta, l’interesse di Ceruti ruota intorno ai percorsi di epistemologia sperimentale che pongono il problema della conoscenza nel cuore del problema della vita, a partire dagli anni Novanta, la sua riflessione filosofica appare seguire il percorso inverso e complementare: collocare il problema della vita nel cuore del problema della storia, della politica, dell’etica, della tecnica, del pensiero (o, paradigma cognitivo), in un tempo “agonico”, “policrisico”, che egli chiama il “tempo della complessità”, dove la vita è segnata dalle sue polarità interne (Eros e Thanatos, barbarie e civiltà, guerra e pace, giustizia e violazione…) e minacciata da “catastrofi” mai solamente naturali, ma anche umane e sociali, tecniche e politiche, interconnesse tra loro55. 53 Il computo si riferisce a qualsiasi operazione, non necessariamente numerica, che trasformi, modifichi, ordini, riordini sia “simboli” astratti che entità fisiche od “oggetti” concreti. 54 M. Ceruti, La danza che crea, cit., p. 55. 55 Ceruti si inserisce così pienamente nel “paradigma di vita” di fine Novecento, successivo alla “svolta linguistica” che accomunava fino a quel momento tante correnti filosofiche del Novecento, “analitiche” e “continentali” (si veda R. Esposito, Pensiero vivente. Origini e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010), ovvero nel “momento (filosofico) del vivente”, che fa il suo ingresso nella scena della filosofia novecentesca dopo il “momento dello spirito”, il “momento dell’esistenza” e il “momento della struttura” (si veda F. Worms, La philosophie en France au XXͤ siècle, Gallimard, Paris 2009).
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Questo movimento a spirale è, peraltro, inevitabile nel caso del “filosofo della complessità”, per il quale la sfera antropo-sociale si deve radicare in quella biologica e la sfera vivente nella physis, ma anche, inversamente, si devono radicare i saperi scientifici in una cultura, una società, una storia, un’umanità. Così, la riconfigurazione dell’ontologia dei processi naturali e la riforma logica ed epistemologica, imposte dalle “scienze della complessità”, preparano il terreno per una nuova filosofia storico-sociale e politica e per una “ontologia dell’attualità” (per dirla à la Foucault). Storia della natura e natura della storia: dall’ontologia alla filosofia politica La storia naturale creatrice di forme, comprese le forme viventi, getta luce sulla natura della storia del “vivente” umano-sociale (sfera che si distingue rispetto all’ambito non umano per la presenza di: linguaggio, simboli, valori, intenzioni, obiettivi e rapporti di potere). Così come la vita è creazione continua, costante auto-alterazione degli esseri viventi, secondo processi evolutivi che non obbediscono a leggi “eterne”, ma a una trama di vincoli e possibilità, a biforcazioni, salti, soglie di cambiamento, allo stesso modo, la storia umana (intrecciata e inscindibile dalla storia naturale), secondo Ceruti, è creazione continua, costante auto-alterazione delle società, non riconducibili a un “progresso” lineare, cumulativo, ineluttabile, né a un teatro con una “Ragione astuta” dietro le quinte, pronta a ricondurla sempre al suo fine56. È una “storia Se altri rappresentanti italiani di questo détour della filosofia contemporanea, come Giorgio Agamben e Roberto Esposito, si ispirano e approfondiscono il paradigma biopolitico di Foucault, Mauro Ceruti continuerà a ispirarsi e ad approfondire l’epistemologia della complessità di Edgar Morin. Si veda anche il profilo di Ceruti in: G. Reale, D. Antiseri, Storia della filosofia dalle origini a oggi. vol. 14, Filosofi italiani contemporanei (a cura di D. Antiseri, S. Tagliagambe), Bompiani 2010 vol. 14. 56 “Le forme della conoscenza umana sono profondamente radicate nella storia evolutiva del cosmo. Ma sono forme particolari, non generali. Seguono lo stesso destino del mondo biologico, che non fa mai esperire una forma generale della vita, ma la ‘plaga lussureggiante’ delle sue forme storiche e particolari: i virus e le spirochete, Opabinia e l’iguanodonte, il leone e l’orni-
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senza fondamenti”57 che non ha più un fine, non segue più, seppure asintoticamente, una linea, e si svolge ora, nella coscienza dei suoi attori, senza le rassicurazioni provvidenzialiste, teleologiche, “progressiste” dei “grandi racconti” della modernità. Proprio per questo è riconsegnata alla loro responsabilità e libertà inventiva di senso e alla fitta trama di scambi dialogici che questi attori intrattengono ormai su scala planetaria: Alla coscienza di un sempre maggior numero di individui e di collettività affiora, simultaneamente, una frazione rilevante di quanto l’umanità ha pensato e conosciuto nei luoghi e nei tempi della sua storia e della sua esistenza. Interazioni e ibridazioni fra culture, forme di spiritualità, forme di conoscenza eterogenee che nel passato erano confinate in particolari fasi della storia delle civiltà o nella fortunata esperienza di pochi esploratori o di pochi decifratori di civiltà ignote, sembrano oggi proporsi con una frequenza significativa, pur se comuntorinco… Allo stesso modo, ogni conoscenza del cosmo e nel cosmo non può che prendere corpo, ed essere il corpo, di una particolare comunità di creature viventi, di una particolare biologia, di un particolare ecosistema planetario, di un particolare ecosistema solare. Le conoscenze e le cosmologie storicamente prodotte dall’umanità costruiscono altrettanti universi. Non avrebbe alcun senso porre un termine a questa storia e definire l’ultimo universo costruito come l’universo vero e finale”. E la stessa forma di conoscenza che ha strutturato e improntato per millenni la cultura e la civiltà occidentale appare nella sua irriducibile contingenza storica: “Dopo le scelte e le svolte di Parmenide e di Platone, nella filosofia e nella cosmologia occidentali l’essere ha prevalso sul divenire, il primato di forme eterne e atemporali ha occultato quasi la concepibilità stessa di processi generatori e creatori di forme. Quelle scelte e quelle svolte erano davvero necessarie? Oppure le cose potevano andare altrimenti?” (G. Bocchi, M. Ceruti, Origini di storie, Feltrinelli, Milano 2009 [1ª ed. 1993], pp. 303-4, 9). Coerentemente con la sua visione della scienza come un prodotto della cultura allo stesso titolo della musica, l’autore de La nuova alleanza e Premio Nobel per la chimica, Ilya Prigogine, ha potuto apprezzare in Origini di storie la presentazione di “una prospettiva affascinante e globale su quel tratto significativo che caratterizza la scienza moderna, che è l’elaborazione di una diversa interpretazione della natura che enfatizza l’elemento narrativo dell’osservazione dalla fisica delle alte energie alla chimica e alla biologia”. Così come, per converso, lo storico Immanuel Wallerstein, ha potuto apprezzare in Evoluzione senza fondamenti “un’argomentazione magnificamente chiara a favore di un pluralismo evolutivo e di discontinuità imprevedibili”. 57 M. Ceruti, Evoluzione senza fondamenti, cit., p. 138.
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que minoritaria, anche nelle esperienze quotidiane di molti individui e di molte singole comunità. Il potenziale creativo di questa condizione dell’umanità contemporanea dipenderà in modo decisivo dalla capacità di ascolto, dalla capacità di staccarsi da antichi modelli fondati sulla contrapposizione fra verità ed errore.58
E se il “momento del vivente” apre definitivamente, proprio oggi, una pagina nuova nella filosofia contemporanea (dopo il Linguistic Turn dominante larga parte del Novecento), è perché, giunti a questo punto del nostro “progresso”, per la prima volta nella nostra storia di umani assistiamo a perturbazioni cosmiche, a crisi globali, a emergenze ecologiche e sanitarie, che ci fanno percepire concretamente di essere integrati nei processi trasformativi della storia naturale. Mai come adesso la vita e la Terra, a cui apparteniamo, ci richiamano a se stessi, alla loro vulnerabilità e fragilità, e la tecnica umana, prolungamento delle nostre vite, delle nostre mani, dei nostri corpi, rivela, perlomeno da Hiroshima in poi, il suo volto smisurato, incontrollabile, mortale. Solo adesso, ci troviamo di fronte a un fatto inedito, che non solo necessita di essere pensato, ma necessita di essere pensato in modo diverso rispetto ai paradigmi filosofici, scientifici, politici della tradizione moderna. E tale necessità si presenta come “vitale” più di altre: Il fatto inedito è che la comunità planetaria non solo è una comunità d’origine, come la scienza darwiniana dopo il tempo di Kant ha sempre più motivato, ma oggi è anche una comunità di destino, come conseguenza degli esiti della tecnoscienza nel tempo della globalizzazione, nel tempo della complessità. Nella improbabile, ma pur possibile futura metamorfosi, la conoscenza e la coscienza di questa nuova condizione umana saranno decisive… [Occorre] un nuovo paradigma volto alla solidarietà, e la presa di coscienza che siamo in una condizione inedita, e legati agli stessi pericoli: le armi nucleari, la crisi ecologica, la crisi economica, il terrorismo, le nuove forme di totalitarismo e di barbarie… Siamo legati dagli stessi problemi di vita e di morte. Siamo una comunità di destino.59 58 Ivi, pp. 140-1. 59 M. Ceruti, Il tempo della complessità, cit., pp. 166, 75.
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Si comprende ora l’esigenza di porre il problema della vita e della condizione umana al cuore del problema della conoscenza, di come la conoscenza si produce, di come proprio in essa possa annidarsi tragicamente l’ignoranza: Bisogna capire che cosa la globalizzazione ha portato di inedito. Ci vuole più conoscenza. L’ignoranza è devastante. L’ignoranza delle attuali leadership politiche può alimentare l’ignoranza dei popoli, che a sua volta può alimentare le strategie più fallimentari e retrive delle leadership politiche.60
Siamo giunti a una soglia evolutiva che rende insufficienti e potenzialmente catastrofiche le impostazioni culturali, gli imperativi morali e le organizzazioni del passato per affrontare problemi che divengono multidimensionali e planetari. Le mutate condizioni di struttura della storia collettiva e l’inedita condizione umana globale impongono alla politica di registrare il mutamento e l’orientamento oppure di restare subalterna ai processi disgregativi e prigioniera di paradigmi obsoleti, che in passato hanno ricevuto anche giustificazioni filosofiche e giuridiche: La politica, in maniera esasperata nell’ultimo secolo, è stata prigioniera di una coazione a ripetere il paradigma dei giochi a somma nulla (vinco io, perdi tu), non solo sul piano internazionale, ma anche sul piano delle singole società nazionali: “giochi” in cui una parte vince a spese delle altre che perdono. Ma oggi, nell’età dell’interdipendenza planetaria, continuare questi “giochi” è disastroso, impossibile, se si ha a cuore il bene e il futuro stesso dell’umanità. Gli attori dei giochi a somma nulla in realtà perdono tutti: il vero rischio è che non ci possano più essere vincitori e vinti, ma solo vinti. L’umanità oggi, per la prima volta nella sua storia, “deve” uscire dall’età della guerra e dello sfruttamento incondizionato dell’ambiente. “Deve” uscire dal paradigma dei giochi a somma nulla per generare un paradigma dei giochi a somma positiva.61
60 Ivi, p. 67. 61 Ivi, p. 80.
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L’umanità è, dunque, giunta a una biforcazione cruciale del suo cammino evolutivo-storico. Siamo al limite tra una storia che, dall’età arcaica delle tribù e dei villaggi all’età dei nazionalismi, perpetua, anche con la violenza, i “giochi a somma nulla”, e una coscienza planetaria che guarda al mondo come a un patrimonio comune e indivisibile. Sullo sfondo di questa premessa, la proposta filosofico-politica di Ceruti rovescia, allora, completamente il paradigma schmittiano e i suoi cardini: il “nomos della terra” e la logica amico-nemico. Questi ultimi, nel contesto della comunità di destino mondiale e della società del rischio, lungi dal costituire, rispettivamente, l’essenza di ogni ordinamento internazionale e del “politico”, prefigurano, nella teoria e nella prassi, una perdita di significato della politica, per la sua tendenza non solamente a non impedire, ma a favorire la catastrofe della civiltà umana e della vita sulla terra. Non si tratta tanto di difendere e rilanciare l’idea di una politica e di un diritto internazionale basati sulla “criminalizzazione” della guerra e della politica di potenza, che, invece, Schmitt considera precaria, controproducente e nefasta, dopo il tramonto dello jus publicum europaeum62. Ceruti contesta soprattutto il presupposto filosofico-politico che l’universale63 generi disordine e solo il “nomos”, cioè, nel lessico schmittiano, la violenza della divisione, dell’appropriazione, 62 C. Schmitt, Il Nomos della Terra, Adelphi, Milano 2006. 63 “L’unità politica non può essere, per sua essenza, universale nel senso di un’unità comprendente l’intera umanità e l’intera terra. Se i diversi popoli, religioni, classi e altri gruppi umani della terra fossero così uniti da rendere impossibile e impensabile una guerra fra di loro, se la stessa guerra civile, anche all’interno di un impero comprendente tutto il mondo, non venisse più presa in considerazione, per sempre, neppure quanto a semplice possibilità, se cadesse perfino la distinzione di amico e nemico, anche come pura eventualità, allora esisterebbe una concezione del mondo, una cultura, una civiltà, un’economia, una morale, un diritto, un’arte uno svago ecc. non contaminate dalla politica ma non vi sarebbe più né politica né Stato (…) Proclamare il concetto di umanità, richiamarsi all’umanità, monopolizzare questa parola: tutto ciò potrebbe manifestare soltanto – visto che non si possono impiegare termini del genere senza conseguenze di un certo tipo – la terribile pretesa che al nemico va tolta la qualità di uomo, che esso dev’essere dichiarato hors-la-loi e hors-l’humanité e quindi che la guerra dev’essere portata fino all’estrema inumanità.” (C. Schmitt, Le categorie del “politico”, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 138-9).
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della produzione dello spazio terra-mare, generi ordine (e un ordinamento giuridico). La novità del nostro tempo, per Ceruti, è che l’universale in questione, svalutato e derubricato da Schmitt, non è più astratto, è concreto64. Questa novità si può riassumere nella nascita dell’uomo planetario e cittadino del pianeta Terra. La policrisi del mondo attuale, ma anche l’intensità accresciuta delle interazioni e dei flussi globali di persone, beni, idee, immagini, configurano come una realtà di fatto una umanità planetaria unita dallo stesso destino e da un sentimento attivo e transculturale di fraternità: Stiamo partecipando alla nascita di una comunità planetaria: una fitta rete di interazioni, estesa e diffusa sull’intera superficie del pianeta, coinvolge profondamente e nei modi più imprevedibili la vita quotidiana di ogni abitante della Terra. È a partire dagli anni Quaranta che questa tessitura planetaria di influenze e di retroazioni si è resa evidente, e ciò è accaduto in primo luogo per le sue caratteristiche negative, per le sue potenzialità di minaccia e di distruzione (…) Dalla possibilità di autosopprimersi è nata una comunità di destino planetaria. Abbiamo scoperto di vivere in un’ecumene completamente umanizzata, al cui interno ogni evento locale può comportare, almeno in linea di principio, conseguenze che possono amplificarsi rapidamente su scala globale. È in questo senso che la condizione umana è trasformata da un imprevisto e simultaneo aumento di potenza e di interdipendenza…65 64 È una convinzione che, a partire dagli anni Novanta, Ceruti matura nel dialogo con Ernesto Balducci e Edgar Morin. 65 M. Ceruti, Il tempo della complessità, cit., 172-3. Anche a un “realista” politico à la Schmitt, come è stato Raymond Aron, in un libro ormai divenuto un classico della sociologia delle relazioni internazionali, è capitato di riconoscere questa realtà di fatto. Scriveva Aron, agli inizi degli anni Sessanta, all’epoca del mondo bipolare imperniato sul binomio strategico di sicurezza e deterrenza nucleare: “Gli uomini reagiscono a una catastrofe naturale come a una disgrazia che concerne l’intera umanità e l’umanità in ogni uomo. Ma non mi sembra che le inondazioni o le carestie in Cina risveglino un senso di soddisfazione, neppure nel cuore del più acceso anticomunista. Come pure non penso che il comunista più fanatico si rallegri quando cede una diga costruita dai capitalisti”. Senonché, pessimisticamente, il sociologo francese vedeva questo sentimento di solidarietà umana planetaria sopraffatto dalle divisioni ideologiche e dalla “coazione a ripetere” degli impulsi nazionalistici. E aggiungeva: “Ma come sono rare e poco intense le emozioni che vengono così condivise, se le compariamo alle emozioni, nazionali e ideologiche che
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A questo punto, la proposta di riprendere il progetto cosmopolitico kantiano con il focus imaginarius di una Terra-Patria, si affida non tanto e non solo a decisioni degli Stati sovrani e all’intensificazione della cooperazione internazionale nel contesto della Global Polity, quanto alla scommessa di trasformare il dato di fatto dell’interdipendenza planetaria nel compito etico e politico di costruire una “civiltà della Terra”, che estenda la formula confederativa alla responsabilità verso i viventi non-umani (su questo punto, Ceruti converge con Bruno Latour) e di promuovere un’evoluzione antropologica verso la convivenza e la pace. In altri termini, si tratta di confidare, per dirlo con le parole di Claude Lefort (pensatore politico di riferimento per Ceruti, incontrato durante il soggiorno di ricerca a Parigi), in quel “silenzioso lavoro che avvicina gli uomini tra loro – grazie a una maggiore conoscenza reciproca dei costumi e delle mentalità, ai progressi dell’educazione, alla diffusione dell’informazione, allo sviluppo dell’idea di diritti umani”, che “può produrre effetti decisivi in direzione della pace”66. La “comunità di destino” svolge nella filosofia politica di Ceruti la stessa funzione dell’umanità intesa da Lefort come “spazio simbolico” che favorisce il riconoscimento reciproco tra gli Stati e catalizza ogni forma di esistenza e coesistenza politica. Ceruti completa il rovesciamento del paradigma schmittiano inquadrando, poi, il progetto cosmopolitico kantiano nella sfida che si porrà su scala planetaria, e che si sta già ponendo a livello europeo67 uniscono i popoli o i blocchi e dividono l’umanità!” (R. Aron, Pace e guerra tra le nazioni, Edizioni di Comunità, Milano 1970, p. 834) Certamente, oggi, dopo la “grande accelerazione” della seconda metà del secolo scorso, la ricorrenza e l’entità globale dei rischi e dei pericoli “vitali” rende meno rare quelle emozioni, a cui fa riferimento il sociologo francese. 66 C. Lefort, Scrivere. Alla prova del politico, Il Ponte, Bologna 2007, p. 216. 67 “L’Europa non è certo l’unico luogo in cui si sta sviluppando una coscienza planetaria. L’Europa non è certo l’unico luogo in cui si sta sviluppando una consapevolezza delle molteplici crisi a catena del nostro mondo. Ma l’Europa è l’unico luogo in cui si sia abbastanza diffusa la diffidenza per le False Soluzioni e per i Falsi Messia. È l’unico luogo in cui, da più di sessant’anni, la paranoia degli stati e la religione della nazione si siano attenuate; in cui le pretese imperiali si siano ritratte; in cui il mito della Salvezza Terrestre abbia rivelato la sua menzogna agli ardenti fedeli. L’Europa può darsi la vocazione di diventare un laboratorio, un crogiolo, una ‘fondazione’”. (E. Morin, M. Ceruti, La nostra Europa, cit., pp. 155-6).
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(a partire dal processo di integrazione comunitaria, avviato dopo la Seconda guerra mondiale), di tessere l’unità nella diversità e la diversità nell’unità, di creare un mondo confederato policentrico e acentrico, non solo politicamente, ma anche culturalmente. La scommessa per il futuro è la transizione a un umanesimo rigenerato, a un umanesimo planetario68, che richiede di divenire solidali in questo pianeta e con questo pianeta, cioè di non cessare di esercitare la solidarietà e la responsabilità entro le comunità esistenti, ma di estenderla alla comunità di destino planetaria, a partire dalla condizione di interdipendenza concreta fra tutti gli umani creata dalla mondializzazione, sconosciuta agli umanisti del Quattrocento e Cinquecento69. La prospettiva dell’umanesimo planetario consegna così l’opportunità di rendere concreto il principio di dignità universale umana attraverso il riconoscimento dell’unità nella molteplicità di culture, di tradizioni e di valori, di allestire il cantiere di un “universale laterale”, come lo chiamava Merleau-Ponty, prodotto dalle culture umane poste sullo stesso piano, e di riprendere l’aspirazione “rinascimentale” a disegnare la posizione dell’uomo sullo sfondo del cosmo e della catena degli esseri viventi, alla luce però delle conoscenze scientifiche cosmologiche, evoluzioniste, ecologico-sistemiche attuali. La rotta indicata da Ceruti è l’uscita completa dal vecchio ordine westfaliano, già in crisi, per dare finalmente un senso giuridico e istituzionale (sovranazionale) a termini come “interdipendenza”, “regolazione comune dell’habitat terrestre”, “beni comuni planeta68 M. Ceruti, E. Morin, Una rigenerazione dell’umanesimo, “Il Sole 24 Ore”, 13 ottobre 2019. 69 Cionondimeno, per Ceruti l’umanesimo planetario, emergente non a caso in un tempo policrisico e di incertezza, deve ereditare proprio la lezione ancora attuale dell’Umanesimo classicista, ben descritta da Michele Ciliberto: “L’Umanesimo è tornato attuale perché si è riaperto, in maniera drammatica e in forme del tutto nuove, il problema della condizione umana. Qual è, in questo nostro tempo, il destino dell’uomo, quale il suo futuro, mentre si disgregano e vengono meno le strutture della vecchia storia e inizia un “mondo nuovo” di cui non si riesce a comprendere i tratti? È per questo, penso, che oggi possiamo riascoltare nuovamente la parola dell’Umanesimo, accogliendone la lezione più importante: si può essere disincantati e costruttori di utopie; ed essere realisti e riuscire a vedere ‘nuove terre, nuovi cieli’, rompendo le barriere dell’esistente.” (M. Ciliberto, Un nuovo Umanesimo, Laterza, Bari 2017, p. 64).
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ri”, “cittadinanza planetaria”, e per forgiare una rappresentazione nuova dei confini e delle interazioni fra le nazioni, non più centrata sulla semplificazione dello Stato-nazione territoriale e monoetnico. Quest’ultimo è stata una straordinaria invenzione della modernità70 (regredire rispetto a essa significherebbe ricadere in appartenenze più “primitive” come quelle della tribù, della razza, degli Stände…), che, a un certo punto della storia europea, ha risolto con successo le tensioni tra identità e diversità, tra unità e molteplicità, ma nello stesso tempo non ha rispecchiato la complessità reale dei processi migratori e delle stratificazioni e sovrapposizioni etniche e identitarie, e, per giunta, ha alimentato, con conseguenze drammatiche, retoriche che pongono l’accento sui valori della purificazione, della separazione delle identità individuali e collettive e della sacralità di confini: Da qualunque punto di vista si guardino gli intrecci e i flussi, appare in primo piano la multidimensionalità, la complessità delle nazioni europee, dei loro territori e dei loro confini, l’inevitabilità di sovrapposizioni a tutti i livelli, l’articolata coesistenza di differenze all’interno di gruppi e di collettività che ambiscono a definire una propria identità unitaria. Tuttavia, nel secolo appena trascorso, le visioni totalitarie o comunque autoritarie della storia hanno provocato drammi e anche immani tragedie motivate dall’illusione che fosse agevole intervenire sull’immaginario dei popoli, che si potesse decidere per decreto sui destini della memoria storica, che si potessero estendere o contrarre a piacimento i territori delle nazioni, ignorando le loro diverse articolazioni e stratificazioni. Il fallimento di queste illusioni è una delle ragioni principali delle ricorrenti esplosioni nazionaliste, a loro volta spesso accomunate dalla stessa volontà di semplificare a proprio esclusivo vantaggio ciò che è complesso e multidimensionale.71 70 Il senso generale dell’età moderna europea, dopo la scoperta del Nuovo Mondo e il passaggio dall’universo chiuso all’universo infinito, si può considerare, per Ceruti, come una continua e progressiva attività di ricerca di culture, saperi, strumenti, istituzioni, per la mediazione tra locale e globale, unità e molteplicità, identità e diversità. E la tensione tra unità e molteplicità, identità e diversità, attraverso l’Europa, è diventata l’esperienza cruciale della condizione umana nel tempo della globalizzazione, nel tempo della complessità. 71 M. Ceruti, Il tempo della complessità, cit., pp. 61-2.
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Ecco perché, per sfuggire all’alternativa tra il globalismo neoliberista e il suo universalismo astratto, omogeneizzante, standardizzante, da un lato, e il feticismo identitario di comunitarismi e nazionalismi, dall’altro lato, e rompere il loro cortocircuito, la prospettiva dell’umanesimo planetario di Ceruti include la proposta di una “politica universalista della differenza” di Giacomo Marramao, che punta a ricostruire l’universale non da un denominatore comune, non più dalla logica dell’identità, ma dal criterio della differenza (“inalienabile e inappropriabile”), promuovendo uno spazio simbolico, un luogo comune d’incontro, attraverso il confronto e l’elaborazione delle esperienze singolari e collettive effettivamente vissute, in modo da comparare e contaminare valori e concezioni del bene comune e accedere alla coscienza “della radicale contingenza di ogni civiltà, tradizione e forma di vita, e della natura relazionale di ciascuna identità (non solo collettiva ma anche singolare)”72. Il frammento che si sa frammento è universale, il frammento che si vuole il tutto è funesto, perché porta dominio e sterminio, potremmo aggiungere con le parole di Ernesto Balducci. Anche per Ceruti, cinque secoli di interconnessione, di ibridazione e scontri, tra i popoli e le culture del mondo, e di planetarizzazione della scienza, della tecnica e dello sviluppo fanno emergere la soglia di un’età nuova73, segnata dalla metamorfosi della coscienza in senso planetario e dall’imperativo, etico e biologico insieme, di accantonare la “forza” come principio legittimo di difesa della propria cultura particolare e di percorrere l’avventura di una solidarietà globale. Un futuro planetario è in gestazione, ma esso dipende proprio dall’affermazione di una cultura e di una coscienza della complessità della nuova condizione umana, e in particolare della complessità del rapporto uomo-natura, e dal contestuale regredire di un paradigma di semplificazione e di un pensiero imperniato sull’istanza “parassitaria” di dominio dell’Uno sul molteplice, che si esprime nella dimenticanza e annichilimento della contingenza, del multiplo, dell’ibrido, della temporalità, dell’“impurità” dell’esperienza 72 G. Marramao, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 74. 73 M. Ceruti, Evoluzione senza fondamenti, cit., p. 138
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e della relazione, e che è anche espressione dell’imporsi (teorico e politico) di una logica di morte, sacrificale, che sta a monte dei saperi e poteri (la “violenza originaria” di cui parla René Girard74 o i “mostri mitici” di cui parla Ernst Cassirer75, pronti a sconvolgere il nostro mondo culturale e il nostro ordine sociale, o la “barbarie arcaica” pronta a riemergere e congiungersi con la “barbarie della ragione”, di cui parla Edgar Morin76). Eccoci, dunque, posti da Ceruti di fronte all’interrogativo fondamentale, che è anche l’inquietudine profonda della nostra epoca di transizione: Si delinea la possibile emergenza di una nuova coerenza, di un nuovo stato di stabilità relativa della civiltà umana: interconnesso a quelli antecedenti, ma non loro culmine e completamento inevitabile e necessario. Dopo la stabilità delle civiltà arcaiche relativamente isolate e separate l’una dall’altra, dopo il furore provocato dal contatto e dal conflitto fra le civiltà storiche, sarà possibile l’emergere di una civiltà planetaria in cui il bilancio penda a favore della pluralità piuttosto che dell’omogeneità, a favore della creazione piuttosto che a favore dell’eliminazione di ciò che è considerato “superato”, a favore della sperimentazione e della diversificazione piuttosto che della standardizzazione?77
Sui germi di una nuova umanità planetaria (la “Quarta Umanità” – così la definisce Ceruti – dopo l’umanità dei cacciatori-raccoglitori, l’umanità agricola e l’umanità moderna78) lo spettro della semplificazione continua a riversare la fiala più velenosa e divi74 Sulle tesi di René Girard si veda il dialogo tra Mauro Ceruti e Giuseppe Fornari: M. Ceruti, G. Fornari, Le due paci. Cristianesimo e morte di Dio nel mondo globalizzato, Raffaello Cortina, Milano 2005. 75 E. Cassirer, Il mito dello Stato, SE, Milano 2010, pp. 315-6. 76 E. Morin, Cultura e barbarie europee, Raffaello Cortina, Milano 2006. Si veda anche: G. Bocchi, M. Ceruti, Solidarietà o barbarie. L’Europa delle diversità contro la pulizia etnica, Raffaello Cortina, Milano 1994. 77 M. Ceruti, Evoluzione senza fondamenti, cit., pp. 141-142. Non a caso, la grande biologa americana Lynn Margulis, ha visto in questo libro di Ceruti “una ricerca a tutto campo sull’esperienza cognitiva della specie umana a partire dai suoi inizi, che dà il benvenuto a una nuova, imprevedibile società planetaria”. 78 M. Ceruti, La fine dell’onniscienza, cit., pp.164-170.
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siva: la guerra, la lotta servo-signore, la vertigine dell’assoluto, il sogno della purezza razziale o culturale. Di fronte all’insostenibile complessità dell’essere, di fronte all’insostenibile complessità del mondo, la semplificazione offre la via di fuga più sinistramente seducente, nascondendone lo strascico di dolore e di morte. Ma, più la complessità-sfinge si sviluppa, più il pensiero la incontra e più l’energia vitale del pensiero è attivata dalla linfa dei suoi enigmi. Nel ricondurre il separato all’inseparabile, il disperso all’unità, l’antagonismo alla complementarità, il pensiero complesso pazientemente smorza la lotta, svuota la polemica, disinnesca l’odio. Il pensiero complesso si apre all’incerto e all’imprevedibile, ma si riscatta con la conquista del tessuto comune in cui lega l’uno e il molteplice, l’universale e il singolare, l’ordine e il disordine. Consapevole di aver perso i diritti a sovrastare l’esperienza dall’alto o a inglobare il reale nel “sistema”, consapevole che quel tanto di verità che raggiunge, la consegue non contro l’inerenza storica, ma per merito suo, e consapevole di non essere certo un sapere, ma la vigilanza che non ci permette mai di dimenticare la fonte di ogni sapere, la filosofia, come ha insegnato Maurice Merleau-Ponty, è il tentativo ininterrotto di “addomesticare la sfinge”79. Trattandosi della complessità-sfinge, Mauro Ceruti ha portato la filosofia all’altezza di accettarne la sfida: la sfida di pensarla e, ancora più cruciale per il futuro dell’umanità, la sfida di abitarla.
79 M. Merleau-Ponty, Segni. Fenomenologia e strutturalismo, linguaggio e politica. Costruzione di una filosofia, Il Saggiatore, Milano 2015, p. 185.
Luisa Damiano*
EPISTEMOLOGIA DEL TEMPO Mauro Ceruti e l’arte della previsione creatrice
Questo mondo è la nostra danza insieme – non è una mia, né una tua proiezione; è qualcosa che facciamo insieme; e ciò che facciamo cambia il mondo. Francisco Varela
Il disegno della danza creatrice Era il 1989 quando Edgar Morin, in un testo dedicato al pensiero filosofico suscitato dalla crisi dei fondamenti1, annunciava l’emergere in Italia di una delle direttrici più generative dell’indagine epistemologica sulla complessità. La descriveva come un ramo innovatore dell’epistemologia contemporanea, capace di costruire alleanze con il pensiero ermeneutico nel “rigettare la scienza che rigetta il Tempo” e, su questa base, catalizzare la metamorfosi del pensiero scientifico avviata dalla ricerca sui sistemi complessi. Nel suo testo, Morin riconosceva in Mauro Ceruti il fautore della nascente linea di ricerca dell’epistemologia della complessità, della quale individuava una cristallizzazione paradigmatica nel saggio che il filosofo aveva pubblicato quell’anno – La danza che crea2. Più di trent’anni dopo, questa ricezione del pensiero epistemologico di Ceruti appare più che mai attuale. Risulta estremamente efficace nel cogliere gli elementi nucleatori dell’intera produzione di Ceruti, emblematicamente espressi nel titolo evocativo scelto per il saggio del 1989. * 1 2
Professore di Filosofia della scienza, Università IULM, Milano. E. Morin, “L’infinita debolezza dell’Essere”, Corriere della Sera, 19 novembre 1989. M. Ceruti, La danza che crea, Feltrinelli, Milano 1989.
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Nelle numerose recensioni ricevute quell’anno da La danza che crea, il titolo risuona in molti modi3. Emerge innanzitutto il valore di metafora che l’espressione “la danza che crea” acquisisce rispetto ai processi di evoluzione e cognizione, dei quali il saggio, con la tessitura di un inedito dialogo tra epistemologia genetica piagetiana e biologie auto-organizzazionali di matrice organicista e cibernetica, propone una tematizzazione originale di inclinazione costruttivista radicale. Alcune recensioni riconoscono al titolo del saggio anche un significato euristico. Ne individuano l’indicazione già nella presentazione, in cui Ceruti menziona la risposta di Isadora Duncan alla domanda su cosa sia la danza: “Se si potesse dire, non ci sarebbe bisogno di danzare”4. In queste letture, il titolo del saggio traduce un accesso alla prospettiva euristica de La danza che crea, definita in linea con le scienze della complessità non solo nei termini dell’inesaustività strutturale del discorso scientifico e, più in generale, della costitutiva incompiutezza della conoscenza, ma anche della ricchezza cognitiva che emerge, da un lato, dalla convergenza di conoscere e agire e, dall’altro, dalla co-generazione di limiti e possibilità5. Le recensioni che suggeriscono questa interpretazione dell’espressione “la danza che crea” ne evocano altresì una valenza metodologica, riferita all’opzione di sviluppare la ricerca scientifica mediante la riorganizzazione delle istanze separate dal metodo analitico tradizionale – nozioni, teorie, discipline, scienze – in anelli dinamici produttori di forme “trasversali” di conoscenza. È l’orientamento metodologico “dialogico” del pensiero complesso, per il quale La danza che crea disegna un’ampia genealogia scientifica e struttura nuovi ambiti di espressione6. 3
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Si veda per esempio E. Prodi, in Leggere, luglio 1989; G.M. Pace, La Repubblica, 20 maggio 1989; E. Tiezzi, L’Unità, 11 maggio 1989; M. Formenti, L’Unità, 26 aprile 1989; U. Galimberti, Il Sole 24 Ore, 12 marzo 1989; A. M. Iacono, “Cibernetica riflessiva. Martin Heidegger e la nuova scienza”, in Il manifesto, 13 aprile 1989; U. Galimberti, Idee: il catalogo è questo, Feltrinelli, Milano 1992, pp. 145-147. Si veda U. Galimberti, Idee: il catalogo è questo, cit. Si veda per esempio U. Galimberti, Idee: il catalogo è questo, cit., e A. M. Iacono, “Cibernetica riflessiva. Martin Heidegger e la nuova scienza”, cit. Si veda E. Morin, M. Ceruti, “La complessità. Una ‘sfida’ al pensiero, non una ricetta, non un ‘programma’”, in Semplicità e complessità, 50 rue de Varenne, Nuovi Argomenti, 25, pp. 7-9; E. Morin, Introduction à la pensée complexe, Seuil, Paris 1990, tr. it. Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano 1993. Sulla genealogia dell’approccio dialogico
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Questi diversi aspetti del lavoro di ricerca di Ceruti, nel testo di Morin del 1989, sono riconosciuti offrire un contributo essenziale al processo di metamorfosi della scienza in quanto componenti di un progetto epistemologico unitario, suscettibile di trovare una cifra efficace nell’immagine della danza creatrice. Si tratta del progetto di un’epistemologia del tempo, volta a promuovere la transizione da una tradizione scientifica che relega il tempo nella sfera dell’illusione a una scienza che ne riconosce la creatività. È un percorso che Ceruti, nel 1989, ha già avviato, in particolare in Disordine e costruzione (1981), La hybris dell’onniscienza (1985) e Il vincolo e la possibilità (1986)7. Con La danza che crea delinea più compiutamente l’orizzonte di un’epistemologia capace di farsi interprete delle esigenze e delle possibilità di cui è portatrice la riscoperta scientifica del “ruolo creatore del tempo”8. Certamente, come sottolineano molte letture del lavoro di Ceruti, egli dedica ampi segmenti della sua indagine epistemologica all’esplorazione della creatività che il tempo esprime nell’ambito dell’evoluzione biologica. Lo dimostrano i fertili dialoghi transdisciplinari sviluppati con le ricerche di Conrad Waddington, Jean Piaget, Stephen Jay Gould, Niles Eldredge, Lynn Margulis, James Lovelock, Susan Oyama, Bran Goodwin, Heinz von Foerster, Henri Atlan, Stuart Kauffman, Humberto Maturana e Francisco Varela – per citare alcuni dei suoi principali interlocutori. Ma, come meno spesso si evidenzia, la peculiarità distintiva dell’epistemologia della complessità di Ceruti risiede nell’elaborazione di una prospettiva epistemologica sull’evoluzione che supera
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si veda I. Stengers, “Les généalogies de l’auto-organisation”, in J. P. Dupuy (a cura di), “Généalogies de l’auto-organisation”, Cahiers du CREA, n° 8, 1985, pp. 7-104; L. Damiano, Unità in dialogo, Bruno Mondadori, Milano 2009. G. Bocchi, M. Ceruti, Disordine e costruzione, Feltrinelli, Milano 1981; M. Ceruti, “La hybris dell’onniscienza e la sfida della complessità”, in G. Bocchi, M. Ceruti, La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 25-48; M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, Feltrinelli, Milano 1986. Si inscrivono inoltre in questo progetto: M. Ceruti, “Epistemologia genetica: equilibrio e disordine”, in AA.VV., L’altro Piaget, Emme, Milano 1983, pp. 9-32; M. Ceruti, “La costruzione del soggetto e il soggetto della costruzione: per una teoria dell’osservatore”, in M. Ceruti, F. Montesano, B. Inhelder, P. Mounoud, Dopo Piaget, EL, Roma 1985, pp. 77-94. Si veda I. Prigogine, I. Stengers, Entre le temps et l’éternité, Fayard, Paris 1988, tr. it. Tra il tempo e l’eternità, Bollati Boringhieri, Torino 1989.
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ampiamente i limiti della sfera biologica. Converge con l’insieme di indagini sui sistemi complessi che riconosce nel divenire naturale un processo evolutivo globale, il quale articola l’uno all’altro i livelli di organizzazione a complessità crescente del reale. Tra questi studi rimangono avanguardistiche le ricerche che interpretano le origini della vita in termini di complessificazioni trasformative di processi prebiotici di natura auto-organizzazionale. Sono indagini in cui ha svolto un ruolo decisivo la termodinamica delle strutture dissipative delineata da Ilya Prigogine9, al quale Ceruti è legato da una relazione intensa di scambio e collaborazione. L’interesse del lavoro di Prigogine per Ceruti risiede innanzitutto in un’impostazione originale al problema dell’emergenza della vita nell’universo descritto dal secondo principio della termodinamica. È un approccio sviluppato da Prigogine in contrapposizione alle ipotesi classiche che insistono sull’eccezionalità dei fenomeni biologici, come quella paradigmaticamenta articolata da Jacques Monod in Le hasard et la nécessité10. Il programma di ricerca di Prigogine si concentra sulla possibilità di una intrinseca generatività della freccia del tempo. Su queste basi, esso conduce all’attenzione della comunità scientifica processi fisico-chimici irreversibili che, in condizioni di lontananza dall’equilibrio, associano la produzione di entropia alla creazione di forme complesse d’organizzazione; un fascio fenomenico portatore di un solido supporto alla tesi per cui, nel contesto di un sistema che globalmente evolve verso l’equilibrio, la comparsa di sistemi viventi, dal punto di vista della fisica, può essere ritenuta “altrettanto ‘naturale’ quanto la caduta di un grave”11. La creatività dei processi fisico-chimici irreversibili è tematizzata da Prigogine come la capacità della materia, lontano dall’equilibro, di organizzarsi in sistemi dinamici macroscopici – “supermolecolari” – con proprietà emergenti descrivibili come “versioni ancestra9
Si veda I. Prigogine, La nuova alleanza. Uomo e natura in una scienza unificata, Longanesi, Milano 1979. 10 Si veda J. Monod, Le hasard et la nécessité, Seuil, Paris 1970, tr. it. Il caso e la necessità, Arnoldo Mondadori, Milano 1970. 11 I. Prigogine, I. Stengers, La nouvelle alliance. Métamorphose de la science, Gallimard, Paris, 1979, tr. it. La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino 1993, p. 190.
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li” delle proprietà dei viventi: forme complesse di ordine, frontiere che distinguono uno spazio interno da un milieu esterno, pulsare ritmico, durata limitata nel tempo, capacità di evolvere verso livelli di complessità superiore in risposta a perturbazioni ambientali12. Lo scenario teorico, di estremo rilievo per l’epistemologia di Ceruti, disegna un movimento evolutivo auto-organizzazionale che dalla sfera fisico-chimica può condurre alla sfera biologica e alla sfera antropo-sociale; un percorso che Prigogine concettualizza come “un’evoluzione naturale del tempo”. Si tratta del prospetto di “tempi chimici” che si sviluppano nella corrente irreversibile dell’universo fisico e, rispetto a questa, acquisiscono autonomia, intraprendendo sentieri evolutivi ascendenti suscettibili di generare i tempi ipercomplessi dei sistemi biologici e, su questa base, nuove strutture temporali, prodotte da ulteriori movimenti di autonomizzazione e complessificazione del tempo. Con le parole di Prigogine: C’è una storia naturale del tempo. Accanto al tempo meccanico, l’irreversibilità porta a dei tempi chimici – dei tempi interni. (…) Con la comparsa della vita c’è un tempo interno che prosegue sui miliardi di anni dell’evoluzione biologica e che si trasmette da una generazione all’altra – da una specie a un’altra specie – (…) diventando sempre più complesso. Così c’è una storia biologica del tempo, che (…), quando si passa dalla lumaca, alla scimmia, all’uomo (…), corrisponde a una struttura del tempo sempre più complessa. (…) [È questa direzione evolutiva del tempo che] dà luogo, per esempio, al tempo musicale. Consideriamo cinque minuti della musica di Beethoven a confronto con cinque minuti del movimento della Terra. Se il movimento della Terra, durante quei cinque minuti, prosegue uniformemente, nei cinque minuti di Beethoven si hanno rallentamenti, accelerazioni, ritorni indietro, anticipazioni di temi che compariranno successivamente. Si tratta di un tempo significativamente indipendente dal tempo esterno, che non potrebbe essere concepito nelle forme studiate dalla biologia. La storia dell’universo, come sto-
12 I. Prigogine, I. Stengers, “La termodinamica della vita”, in I. Prigogine, La nuova alleanza. Uomo e natura in una scienza unificata, cit.
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ria di una autonomia crescente del tempo, è una delle direzioni più interessanti della scienza contemporanea.13
L’epistemologia di Ceruti si fa interprete di questa scienza: la scienza della storia naturale –– della danza creatrice – del tempo. È dalla nuova scienza dell’evoluzione globale – dai disegni del dispiegarsi intrecciato dei ritmi dell’evoluzione fisico-chimica, dell’evoluzione biologica, dell’evoluzione umana, dell’evoluzione socio-culturale – che emerge la richiesta a cui risponde l’epistemologia del tempo di Ceruti. Porre alla base dell’esplorazione scientifica una “nuova alleanza tra uomo e natura”. Costruire una scienza capace di pensare l’osservatore scientifico e il mondo naturale non più come estremi predefiniti di una relazione esterna e neutra, ma come elementi di un rapporto circolare di co-produzione: La scienza moderna si è fondata sul rifiuto di ogni tratto antropomorfico nella descrizione della natura. Al limite, la descrizione scientifica della realtà appare tanto più obiettiva, tanto più perfetta, quanto più questa realtà appare estranea all’uomo e ne esclude più radicalmente la possibilità. Oggi […] la necessità di una descrizione che integri due verità fondamentali – ogni descrizione della natura è prodotta dall’uomo e l’uomo che la produce è lui stesso prodotto dalla natura – è imposta dal divenire interno della scienza.14
Questa è la sfida che Ceruti raccoglie: sviluppare un’indagine epistemologica volta a integrare, nell’approccio euristico della scienza, il riconoscimento della radicale co-dipendenza di soggetto e oggetto dell’indagine scientifica. Promuovere lo sviluppo di un’intellegibilità scientifica che non si limiti ad abbandonare i principi euristici classici dell’oggettività e dell’onniscienza, ma individui nell’irriducibile componente soggettiva della descrizione scientifica un’opportunità di evoluzione migliorativa. Si tratta dell’approccio euristico auto-esplorativo reso accessibile dal cedimento del 13 Si veda O. Bassetti, “Incontro con Ilya Prigogine”, Progetto Cultura Montedison, Sezione Cinema, 1984, Archivio Nazionale Cinema Impresa. (La traduzione è mia.) 14 I. Prigogine, I. Stengers, “La termodinamica della vita”, cit.
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dualismo della scienza moderna: associare l’indagine sulla natura a uno studio transdisciplinare delle modalità scientifiche di conoscenza, aprendo la possibilità di sistematici processi di auto-analisi e auto-regolazione – auto-correzione trasformatrice – del pensiero scientifico. Heinz von Foerster, che in base a questo approccio dà origine alla linea “riflessiva” della cibernetica, detta “di secondo ordine”15, enfatizza l’imprescindibilità di sviluppare un’epistemologia che sostenga il nuovo progetto scientifico di “reinserire lo scienziato nella sua scienza” – più specificamente, reincludere “la nostra responsabilità nella nuova architettura scientifica”16. Nella Prefazione scritta nel 1986 a Il vincolo e la possibilità, von Foerster registra l’impatto che la linea dell’epistemologia della complessità inaugurata da Ceruti esercita in questa direzione. Lo riconduce a operazioni di shift epistemologico indispensabili per organizzare l’impianto della “scienza nuova”, tra le quali riconosce fondamentale la transizione paradigmatica proposta da Il vincolo e la possibilità. Qui Ceruti decostruisce il paradigma epistemologico di “caso e necessità”. Scardina la visione evolutiva alla Monod che fa dell’uomo “un essere soprannaturale”. Imbastisce la struttura epistemologica di un paradigma della co-creazione di vincoli e possibilità, su cui articola lo scenario teorico post-dualista di un’evoluzione continua e aperta dell’universo, in cui l’uomo “viene dal tempo” ed evolve con l’evolvere del tempo17. In questa angolazione inizia a delinearsi il ruolo cruciale che Ceruti consegna all’epistemologia del tempo nel processo contemporaneo di trasformazione del discorso scientifico. Considerato su queste basi, il saggio La danza che crea appare produrne una matura e mirata declinazione, nella forma di un contributo al rinnovamento delle scienze cognitive imperniato sulla sinergia tra lo studio dell’evoluzione naturale e lo studio dell’evoluzione scientifica. Il saggio propone innanzitutto un’interpretazione teorica della storia naturale del tempo quale storia naturale della conoscenza. Ceruti la struttura sul segmento dell’evoluzione globale che muove 15 R. Glanville, “Second order cybernetics”, in Systems Science and Cybernetics, 3, 2002, pp. 59-85. Si veda H. von Foerster, Sistemi che osservano, Astrolabio, Milano 1987. 16 H. von Foerster, “Prefazione”, in M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, cit. 17 O. Bassetti, “Incontro con Ilya Prigogine”, cit. (La traduzione è mia.)
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dalle “ecologie molecolari” prigoginiane – delle quali individua le prime tematizzazioni nella biologia sistemica di Paul Weiss18 – e si svolge fino ad arrivare all’osservatore scientifico. Il costrutto non è semplicemente una risposta alla nuova esigenza scientifica di una “teoria dell’osservatore” capace di sviluppare in modo originale gli insight prodotti dalle scienze della cognizione. Ceruti affianca questa operazione di tessitura teorica a un’indagine epistemologica sulle origini teorico-euristiche dei paradigmi di riferimento delle scienze cognitive. Struttura una rilettura critica delle prime fasi di costituzione del complesso disciplinare, trascurate dal mainstream di epistemologia delle scienze cognitive e della filosofia della mente nonostante l’influenza decisiva esercitata – anche oggi – sul decorso dello studio scientifico sulla cognizione19. È un lavoro che Ceruti presenta alla comunità scientifica nel periodo della crisi della forma computazionalista classica delle scienze cognitive. Riporta all’attenzione del dibattito sul futuro del complesso disciplinare le modalità alternative di impostazione della ricerca che l’ascesa del computazionalismo ha marginalizzato. Mette in evidenza le scelte alla base della forma dominante delle scienze cognitive nel momento in cui l’intero campo esperisce una destabilizzazione strutturale – una biforcazione evolutiva – tale da originare nuove gemmazioni. Francisco Varela, mentre è impegnato nel lavoro di strutturazione della linea più radicale dell’alternativa embodied al computazionalismo, insiste sull’importanza che questo tipo di impegno epistemologico riveste per l’auto-sviluppo della ricerca sulla cognizione: Solo una (…) rilettura dei “vecchi problemi” e delle “vecchie impostazioni” rende la scienza aperta e creativa. Solo rivisitando le prime ra18 Ne La danza che crea Ceruti propone una delle più interessanti analisi della visione sistemica di Paul Weiss (si veda P. Weiss, L’archipel scientific, Maloine, Paris 1974), che ne valorizza il ruolo cruciale svolto nello sviluppo della visione auto-organizzazionale dell’evoluzione globale, in linea con le analisi prodotte da Isabelle Stengers in proposito (si veda I. Stengers, “Les généalogies de l’auto-organisation”, cit.). 19 Tra i pochissimi altri lavori che esplorano le fasi dello sviluppo delle scienze cognitive rientra J. P. Dupuy, Aux origines des sciences cognitives. La découverte, Paris 2013, tr. it. Alle origini delle scienze cognitive, Mimesis, Milano-Udine 2015.
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dici possiamo avere una visione nuova (…) [dei suoi] strumenti teorici e concettuali (…).20
Nella Prefazione che tiene a scrivere per La danza che crea, Varela propone una definizione illuminante per il lavoro di ricerca ivi presentato da Ceruti. La consegna al concetto di “previsione creatrice”21, riconoscibile come un’alternativa radicale alla nozione di previsione imperniata dalla tradizione moderna sull’epistemologia rappresentazionista dell’onniscienza. Nel quadro del costruttivismo enattivo di Varela, il vedere perde ogni valore spettatoriale e si slaccia dai quadri di filosofia della conoscenza ed euristica scientifica tradizionali. Nell’enazione, la percezione visiva traduce l’attività di proiezione di possibilità d’azione – “prontezze all’azione” – mediante cui un sistema auto-organizzatore interpreta l’ecologia perturbatrice in cui è immerso nei termini di un mondo significante – un contesto situazionale arredato di oggetti – su cui operare per mantenere la propria organizzazione – per dare continuità alla propria dinamica auto-organizzazionale22. In questo ambito teorico, il prevedere è inseparabile dal creare. Non traduce il controllo cognitivo esercitato su un futuro predeterminato. Esprime la capacità di un sistema di aprire ulteriori percorsi viabili per la propria evoluzione. Sviluppare, attraverso la produzione di ulteriori possibilità d’azione, nuovi modi di interpretare l’interazione tra il proprio processo auto-organizzazionale e le dinamiche di auto-costituzione dello sfondo ambientale. Si tratta del cuore della cognizione naturale: la dimensione generativa del processo di auto-regolazione, a cui il framework dell’enazione, in linea con la propria matrice costruttivista radicale, ascrive la capacità di ampliare il dominio cognitivo dei sistemi auto-organizzatori. È questo tipo di processo che, presso punti di biforcazione strutturale, consente a tali sistemi di produrre nuove opzioni evolutive per il proprio dispiegamento temporale – nuovi assetti viabili per la propria dinamica auto-organizzazionale. 20 F. Varela, “Prefazione”, in M. Ceruti, La danza che crea, cit., pp. 7-9. 21 Ivi, p. 8. 22 Si veda per esempio F. Varela, E. Thompson, E. Rosch, The Embodied Mind, MIT Press, Cambridge MA 1991, tr. it. La via di mezzo della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1992.
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Letta in questo modo, la definizione di Varela appare in grado di catturare i tratti distintivi del dispositivo di auto-regolazione che l’epistemologia di Ceruti propone al pensiero scientifico. Di questo approccio, l’idea di previsione creatrice esprime non solo la coerenza con l’imperativo epistemologico costruttivista che promuove l’ampliamento del dominio cognitivo dei sistemi impegnati nell’avventura conoscitiva. Ne esprime anche la piena convergenza con l’etica dei sistemi complessi strutturata da von Foerster, in allineamento con l’epistemologia costruttivista, intorno all’imperativo che chiede di operare a supporto dell’accrescimento delle opzioni evolutive accessibili. L’imperativo etico: Agisci sempre in modo da accrescere il numero delle possibilità di scelta23.
Su questa base, la nozione enattiva di previsione creatrice riesce anche a definire la specificità che più richiede di pensare l’epistemologia della complessità di Ceruti come epistemologia del tempo. Ne designa la capacità di tradurre in lavoro epistemologico l’interpretazione teorica della freccia del tempo realizzata dalle scienze della complessità: la teorizzazione dell’irriducibile apertura creativa delle evoluzioni embricate dell’universo fisico-chimico, della vita, della cognizione, dell’umanità, della società, della scienza. Il futuro dell’universo non è affatto determinato, non più di quanto lo sia la vita dell’uomo o della società. (…) Il futuro è aperto e questa apertura del futuro si applica tanto ai piccoli sistemi quanto al sistema globale.24
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In linea con la prospettiva enattiva di Varela, tale imperativo – che poi diverrà “Agirò sempre in modo da aumentare il numero totale delle possibilità di scelta mie e degli altri” – viene presentato da von Foerster in associazione all’“imperativo estetico” che connette la possibilità di vedere all’apprendere azioni – “L’imperativo estetico: Se desideri vedere, impara ad agire.” Si veda H. von Foerster, “Sulla costruzione di una realtà”, in H. von Foerster, Sistemi che osservano, cit., p. 233. 24 O. Bassetti, “Incontro con Ilya Prigogine”, cit. (La traduzione è mia.)
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Successivamente a La danza che crea, la ricerca di Ceruti non cessa di sviluppare questo tipo di impegno epistemologico – l’arte della previsione creatrice. La sua indagine si ramifica in esplorazioni di dimensioni, ritmi, livelli diversi dell’evoluzione globale. Dall’evoluzione biologica all’ominizzazione, dall’evoluzione umana all’evoluzione delle civiltà, delle culture, delle scienze, delle idee. La cifra di questi studi è l’enfasi sull’incompiutezza strutturale – l’indeterminazione e la generatività – dei processi co-evolutivi in cui sono coinvolti i sistemi esplorati. L’inclinazione teorica si caratterizza per una curvatura genealogica orientata al futuro. La tensione euristica è diretta alla (ri-)apertura dei ventagli noti delle possibilità evolutive accessibili, basata sulla tessitura di alleanze inedite tra “la storia degli uomini, delle loro società, dei loro saperi e l’avventura esploratrice della natura”25. Si tratta di un’instancabile articolazione di storie del tempo – di “origini di storie”26 – attraverso cui Ceruti associa l’espressione dell’imperativo epistemologico costruttivista e dell’imperativo etico della complessità a un messaggio politico. Mediante le elaborazioni della sua epistemologia del tempo, ci consegna un appello all’assunzione dei rischi dell’avventura umana. Ci richiama alla responsabilità dei futuri possibili che ogni nostra scelta contribuisce a costruire, anche e soprattutto presso i punti critici di biforcazione come quello definito dalla crisi plurale che oggi ci troviamo ad affrontare. È la “poli-crisi” in cui si intrecciano crisi climatica, crisi geopolitica e crisi pandemica, che Ceruti riconosce indissociabili da una crisi cognitiva. Nel corso della cerimonia in cui gli viene attribuito il Premio internazionale Nonino “a un Maestro del nostro tempo”, Ceruti dà voce a questo appello nel modo più emblematico: Grazie alle mappe degli esploratori e poi via via grazie ai satelliti, agli shuttle, abbiamo immaginato e visto la Terra come spazio, superficie, astro errante. E, fotografata da cieli lontani, attraverso i magnifici versi di Paul Eluard, l’abbiamo sentita come la nostra arancia blu. Ma oggi la Terra geme e ci riporta nel suo grembo vitale. 25 I. Prigogine, I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, cit., pp. 288. 26 G. Bocchi, M. Ceruti, Origini di storie, Feltrinelli, Milano 1993.
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Noi, soggetti e padroni della conoscenza e della tecnica, ci sentiamo in balìa dei loro effetti incontrollati, smarriti di fronte ai limiti dei nostri poteri e smarriti di fronte alla Terra stessa. La Terra oggi si manifesta a noi attraverso le catastrofi globali che su di noi incombono. La Terra ci chiede di divenire un’umanità nuova, un’umanità planetaria. Terra e umanità planetaria sono i due poli del magnetismo che potrà alimentare una nuova civiltà. La Terra ci ricorda che non abbiamo il monopolio del potere. E ci impone di fare la pace tra noi per fare la pace con lei. Ci chiede la pietà più alta, la pietà del pensare, di un pensiero complesso, capace di concepire l’unità nella diversità e la diversità nell’unità. Ci chiede l’intelligenza di riconoscerci uniti a lei, al vivente, ma anche diversi e responsabili per la forza che abbiamo nel plasmarla. Solo questa responsabilità potrà inaugurare un nuovo umanesimo – un umanesimo planetario. A questo scopo, la Terra e l’umanità ci chiedono di essere insegnate nella loro complessità, e non nei loro mille volti sminuzzati e semplificati. Ci chiedono di essere insegnate con un racconto non frammentato tra tante discipline separate, e ignoranti le une dalle altre. È già stato detto: mai come oggi abbiamo avuto a disposizione tante conoscenze sull’umano, ma mai come oggi così poco sappiamo che cos’è l’umano. Gli umanisti del Rinascimento concepirono un’idea universale dell’umanità. Tuttavia, questa idea è diventata astratta. E ha anche potuto misconoscere e opprimere tante diversità, considerate, talvolta con arroganza e violenza, retaggio di un passato infantile dell’umanità. Gli umanisti planetari dovranno essere i creatori di un universalismo non astratto, ma concreto, ricco delle diverse esperienze di tutti gli esseri umani del pianeta, con la forza del riconoscimento reciproco. Abbiamo creato un inedito aumento di potenza tecnologica e interdipendenza planetaria. E con ciò abbiamo prodotto una possibilità fino a pochi decenni fa inconcepibile: l’autodistruzione globale dell’umanità. Questa possibilità lega in un destino comune tutti i popoli della Terra, e l’umanità intera alla Terra stessa. È ciò che stiamo vivendo. È ciò che ci rivelano oggi tre grandi crisi planetarie: quella del clima, quella della pandemia, quella della guerra. Nessuno si salva da solo. Siamo la prima umanità ad avere una decisiva responsabilità nei confronti della natura e a doversi riconoscere come una comunità di destino, e ciò per la nostra stessa sopravvivenza.
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Questa nostra nuova condizione definisce la soglia e la sfida di una vera e propria “ri-umanizzazione”. Utopia? Forse. Ma concreta. Necessaria.27
Le scienze evolutive della complessità – linee di ricerca rivoluzionarie, quali la termodinamica della vita, la cibernetica dei sistemi che osservano, la scienza cognitiva enattiva – chiedono all’intellegibilità scientifica di interrogarsi sulle modalità con cui l’attività creatrice del tempo si inscrive nell’organizzazione della materia, dalle molecole agli insiemi neuronali con cui co-costruiamo i nostri mondi di riferimento, dalle opere d’arte – “le strutture della musica, della scultura, della letteratura”28 – alle co-creazioni di oggetti – “simboli di (auto-)comportamenti stabili”29 – in cui ci impegna ogni istante della nostra esperienza cosciente. In dialogo con queste scienze, Ceruti articola un’epistemologia del tempo che ci chiama a riconoscere l’incompiutezza della nostra condizione come potenziale di auto-sviluppo. Ci sollecita ad assumere e a praticare la responsabilità della previsione creatrice: la cura nella costruzione partecipativa di futuri viabili. È in questo senso che il progetto epistemologico di Ceruti è indissociabile dal progetto di un “umanesimo planetario”. La sua epistemologia del tempo, in quanto arte della previsione creatrice, è inseparabile dall’impegno etico e politico nell’evoluzione sostenibile dell’ecologia a cui apparteniamo – l’unità in “comunità di destino” dell’“umanità intera, (…) l’ecosistema globale e (…) la Terra.”30 Le pagine che seguono si articolano sulle direttrici di questa lettura panoramica dell’epistemologia della complessità di Ceruti per proporne un sintetico affresco organizzato sull’asse del tempo. Lo presentano strutturato in tre segmenti, relativi a tre dimensioni – tre 27 Dal discorso tenuto da Mauro Ceruti il 07.05.2022, durante la cerimonia in cui gli è stato consegnato il Premio Nonino 2022 “A un Maestro del nostro tempo”, assegnato dalla giuria Premio Nonino presieduta da Antonio Damasio e composta da Adonis, John Banville, Ulderico Bernardi, Peter Brook, Luca Cendali, Emmanuel Le Roy Ladurie, James Lovelock, Claudio Magris, Norman Manea, Edgar Morin e Suad Amiry. 28 Si veda O. Bassetti, “Incontro con Ilya Prigogine”, cit. (La traduzione è mia.) 29 H. von Foerster, “Gli oggetti: simboli di (auto-)comportamenti stabili”, in H. von Foerster, Sistemi che osservano, cit., pp. 179-190. 30 M. Ceruti, Il tempo della complessità, cit., p. 189.
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anelli concentrici – individuabili nella sua epistemologia del tempo: l’epistemologia della co-evoluzione, l’epistemologia dell’identità aperta, l’epistemologia della responsabilità. Epistemologia della co-evoluzione La configurazione del nucleo del progetto epistemologico di Ceruti può essere collocata negli anni Ottanta, decade che egli avvia approfondendo l’esplorazione delle aree di convergenza emergenti tra due direzioni di frontiera della ricerca scientifica sui sistemi complessi. Si tratta, da un lato, degli approcci auto-organizzazionali allo studio dei processi evolutivi e, dall’altro, delle ricerche transdisciplinari – in particolare trasversali a biologia, neurofisiologia, psicologia e cibernetica – tese a reimpostare, su base naturalistica e sperimentale, l’impresa epistemologica. Ceruti studia genealogie e sviluppi di queste direttrici attraverso la partecipazione attiva a centri e gruppi di ricerca. Tra questi, il Centro internazionale di epistemologia genetica e il Centro di psicologia culturale di Ginevra, presso i quali operano Alberto Munari e Donata Fabbri, il gruppo di ricerca di Ilya Prigogine alla Libera Università di Bruxelles, il centro di Modellizzazione della complessità (MXC) guidato da Jean-Louis Le Moigne a Aix-en-Provence, il Gruppo di ricerca sull’evoluzione generale (GERG) fondato da Ervin Lazlo a San Diego, il Centro di studi transdisciplinari, sociologia, antropologia, politica (CETSAP) di Parigi diretto da Edgar Morin e, sempre a Parigi, il Centro di ricerca sull’epistemologia dell’autonomia (CREA) diretto da Jean Pierre Dupuy. Si tratta di hub per ricercatori di punta nei settori esplorati da Ceruti, presso cui egli intesse molte collaborazioni, tra le quali, specificamente, le ricerche cross-disciplinari sviluppate con Henri Atlan, Heinz von Foerster e Francisco Varela. In questi anni Ceruti coinvolge i propri interlocutori in una serie di convegni che organizza in Italia, nel quadro di un progetto culturale volto a portare al centro del dibattito scientifico nazionale gli studi pionieristici intorno a cui si sta articolando il nuovo paradigma del pensiero complesso. Sono i simposi che svolgono un ruolo catalizzatore nella costituzione della comunità scientifica internazionale centrata
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sul problema dell’intellegibilità della complessità. Offrono a linee di ricerca diverse, dedicate allo studio di sistemi complessi individuati a livelli differenti dell’organizzazione naturale, luoghi dove riconoscere e valorizzare l’affinità dei rispettivi approcci. Nel contesto scientifico italiano, questa serie di convegni, con le relative pubblicazioni31, promuove il costituirsi di una rete tra ricercatori che si occupano di complessità. È un network che, nel giro di pochi anni, si staglia sullo scenario internazionale come uno dei più attivi nell’estendere il dibattito sull’intellegibilità dei sistemi complessi a nuovi ambiti disciplinari. Si raccoglie intorno alla formula La sfida della complessità, introdotta come titolo per il ciclo milanese di seminari che Ceruti organizza, tra il 1984 e il 1985, insieme a Gianluca Bocchi. L’espressione italiana di questa rete manifesta da subito una ricchezza trasversale – una varietà di ambiti che spazia dalla musica alle arti visuali, dalla psicologia clinica all’organizzazione aziendale, dall’antropologia culturale alla sociologia, dalla filosofia alle scienze dell’educazione – che trova un efficace spaccato esemplificativo nella presente raccolta di testi32. Rispetto alle linee in sviluppo di questa ampia comunità scientifica internazionale, la ricerca di Ceruti rappresenta un luogo di articolazione epistemologica. Il suo lavoro sull’evoluzione globale, attraverso lo shift epistemologico dal paradigma tradizionale di caso e necessità al paradigma di vincoli e possibilità, produce la proposta di una nuova euristica scientifica, articolata sulla riconcettualizzazione della relazione tra uomo e natura quale anello di 31 Si vedano per esempio i seguenti libri di Ceruti: L’altro Piaget. Strategie delle genesi (Emme Edizioni, Milano, 1983, con G. Bocchi, D. Fabbri, A. Munari); Dopo Piaget. Aspetti teorici e prospettive per l’educazione (Edizioni Lavoro, Roma 1985, con D. Fabbri, A. Munari); La sfida della complessità (con G. Bocchi, Feltrinelli, Milano 1985); Physis: abitare la Terra (Feltrinelli, Milano 1988, con E. Laszlo); Evoluzione e cognizione. L’eredità dell’epistemologia genetica di Jean Piaget (Lubrina, Bergamo 1990); Che cos’è la conoscenza (Laterza, Roma-Bari 1990, con L. Preta). Si veda inoltre W.I. Thompson, Ecologia e autonomia, Feltrinelli, Milano 1988. 32 A tutt’oggi contribuiscono allo sviluppo dell’espressione italiana di questa rete numerosi centri di ricerca, tra i quali rientrano, a titolo esemplificativo, il Centro Studi Internazionale di Filosofia della complessità “Edgar Morin”, diretto da Giuseppe Gembillo, il Complexity Institute, diretto da Marinella De Simone, Studio AKOÉ, diretto da Carla Weber, e il centro di ricerca di ateneo CRiSiCo (Centro di Ricerca sui Sistemi Complessi), istituito e diretto da Mauro Ceruti presso l’Università IULM.
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co-produzione – il circuito della “nuova alleanza” di Prigogine e Stengers; la “relazione cosmo-antropologica” di Morin33. È in questa fase che, attraverso i saggi Disordine e costruzione, La hybris dell’onniscienza, Il vincolo e la possibilità e La danza che crea, prende forma un’epistemologia della co-evoluzione – della “co-emergenza accoppiata” di soggetto e oggetto della ricerca scientifica. Ceruti non si limita a portare questa prospettiva “anti-cartesiana” nei dibattiti contemporanei della filosofia delle scienza mediante contributi innovativi a tematiche ormai tradizionali in questi ambiti, quali il problema della demarcazione tra contesto della giustificazione e contesto della scoperta, la questione del ruolo della logica nella ricerca scientifica o il tema di una ricostruzione viabile dell’architettura del sistema delle scienze34. Nel suo lavoro, l’idea dell’evoluzione interdipendente di soggetto e oggetto del pensiero scientifico si esprime anche e soprattutto nella strutturazione di un nuovo ruolo per l’investigazione epistemologica. Il modello di riferimento è quello che Leo Apostel ha efficacemente definito mediante la nozione di “auto-applicazione della scienza a se stessa”; un approccio introdotto dall’epistemologia genetica di Piaget, promosso dall’epistemologia sperimentale di McCulloch, dalla cibernetica di secondo ordine di von Foerster e dall’epistemologia della partecipazione di Varela, nonché fatto oggetto di una rilettura complessificante nel quadro del progetto moriniano del “metasistema del sistema scientifico” – la “scienza della scienza”35. Ceruti lo rielabora nella forma di un’indagine epistemologica che, invece di collocarsi in una posizione esterna e neutra rispetto all’esplorazione 33 E. Morin, La méthode. I. La Nature de la Nature, Seuil, Paris 1977, tr. it. Il metodo. I. La natura della natura, Raffaello Cortina, Milano 2001. 34 Si tratta di tematiche affrontate in tutti i saggi menzionati come centrali in questa fase dello sviluppo del progetto epistemologico di Ceruti. 35 L. Apostel, “L’altro Piaget: dalla teoria dello scambio e della cooperazione verso la teoria della conoscenza”, in G. Bocchi, M. Ceruti et al. (a cura di), L’altro Piaget. Strategie della genesi, cit., pp.85-86. Si veda M. Ceruti, La danza che crea, cit., p. 20; J. Piaget, Logique et connaissance scientifique, Gallimard, Paris 1967; W.S. McCulloch, “What is a number, that a man may know it, and a man, that he may know a number”, in General Semantics Bulletin 26, 27, 1961, pp. 7-18; H. von Foerster, Sistemi che osservano, cit.; F. Varela, Principles of Biological Autonomy, North Holland, New York – Oxford 1979; E. Morin, Le paradigme perdu: la nature humaine, Seuil, Paris, trad. it. Il paradigma perduto. La natura umana, Feltrinelli, Milano 1974, Parte Sesta.
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scientifica, partecipa alle ricerche delle scienze target. Il compito primario che si assume è far retroagire gli esiti della ricerca contemporanea sui principi di intellegibilità che li hanno originati. In concreto: promuovere una revisione dei codici euristici tradizionali coerente con il riconoscimento della radicale interdipendenza di soggetto e oggetto dell’indagine scientifica. Si tratta di un primo esercizio di previsione creatrice: uno studio delle dinamiche metamorfiche caratteristiche del percorso contemporaneo della razionalità scientifica volto ad aprirle nuove possibilità evolutive. Il perno dell’operazione è una valorizzazione epistemologica del paradigma evolutivo vincoli-possibilità, realizzata sulla base dell’identificazione dell’impresa scientifica come processo naturale nella natura – movimento aperto e creativo in universo aperto e creativo. Ceruti evidenzia come gli sviluppi contemporanei del discorso scientifico richiedano di riconoscere le leggi formulate dalla scienza non più come prescrittive, ma come proscrittive – come vincoli, limiti36. Le descrizioni teoriche del divenire naturale prodotte dalle scienze evolutive, lungi dal tradurre prescrizioni deterministiche, delimitano fasci di possibilità. Non impongono un’unica traiettoria al dispiegamento spazio-temporale dei fenomeni, ma perimetrano aree di possibilità entro le quali essi possono prodursi. Definiscono i contorni di un’evoluzione globale quale storia naturale di co-generazione tra vincoli e possibilità. In questo scenario evolutivo il realizzarsi di possibilità fissa vincoli definitori di spazi di traiettorie possibili, alcune delle quali, realizzandosi, producono nuovi vincoli – nuovi limiti generativi di possibilità. È sulla base di questa prospettiva che Ceruti dà il proprio contributo all’euristica della forma nascente dell’intellegibilità scientifica. Destruttura l’ideale moderno dell’onniscienza, produttore di una lettura univocamente negativa del ruolo dei limiti nell’avventura conoscitiva umana. Individua i teoremi di limitazione formulati nel contesto scientifico novecentesco quali punti di svolta di rilevanza cruciale per lo studio delle modalità di sviluppo della scienza e per una reinterpretazione positiva dei limiti di intellegibilità.
36 M. Ceruti, La hybris dell’onniscienza e la sfida della complessità, cit.; M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, cit.
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Tale approccio viene sviluppato da Ceruti in particolare rispetto al problema dell’oggettività della conoscenza scientifica. A questo riguardo, egli individua nell’impianto euristico classico, disciplinato dall’ideale dell’onniscienza, il responsabile dell’esclusione dell’osservatore dalla scena dell’indagine della scienza moderna. Ascrive a questa euristica, di matrice cartesiana, l’identificazione delle specificità fisiche, biologiche e socio-culturali del descrittore quali sorgenti di alterazioni soggettive nella rappresentazione scientifica del mondo naturale. Evidenzia come gli esiti della ricerca contemporanea impongano di operare una revisione radicale di questa posizione epistemologica. Supporta l’opzione di accettare la descrizione scientifica del reale quale prodotto storico e singolare di osservatori che operano attraverso angolazioni e apparati teorico-sperimentali intrinsecamente storici e singolari. È l’idea post-cartesiana – anti-laplaciana – di descrittori portatori di forme di cognizione incorporate e situate. I vincoli fisico-chimici, bio-antropologici, socio-culturali e tecnologici delle loro prospettive osservative, mentre definiscono i limiti strutturali di tali punti di vista, ne costituiscono anche le condizioni di possibilità. A confronto con gli sviluppi novecenteschi della scienza, l’intellegibilità scientifica, lungi dal continuare ad ambire a una rappresentazione del reale immune da determinazioni soggettive, non può che riconoscerle come condizioni – “ingredienti” – indispensabili della propria descrizione della natura. Si tratta dell’implausibilità radicale dell’ideale di una rappresentazione neutra e di sorvolo del mondo naturale, realizzata a partire da un “punto di vista assoluto” – “fondamentale”. Ceruti struttura l’alternativa di un’euristica positiva “dei punti di vista finiti”: una strategia di conoscenza che trasforma i limiti di un punto di vista in luoghi di ricerca, produzione e coordinazione di altri punti di vista, ognuno in grado di configurare come oggetto definito di studio un aspetto del reale che sfugge alle altre angolazioni37. Su questa base, l’epistemologia di Ceruti propone alla razionalità scientifica una pratica di descrizione del mondo naturale che si sviluppa attraverso la moltiplicazione e l’articolazione di una pluralità crescente di livelli di descrizione. Un’attività multipla, costitutivamente in37 Ceruti, La hybris dell’onniscienza e la sfida della complessità, cit.; si veda in particolare M. Ceruti, La fine dell’onniscienza, Studium, Roma 2015.
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conclusa di decifrazione del reale, i cui percorsi storici si strutturano attraverso la co-generazione di limiti e possibilità – la co-emergenza di punti di vista soggettivi e di oggetti di ricerca correlati. Si tratta di un approccio costruttivista radicale alla conoscenza scientifica, che Ceruti delinea parallelamente a una teoria della cognizione naturale basata sulla prospettiva dell’evoluzione globale. Ne La danza che crea, in linea con la produzione di Piaget, von Foerster, Maturana e Varela38, Ceruti tematizza la profonda continuità di evoluzione auto-organizzazionale e cognizione e, in particolare, di processi biologici e processi cognitivi. Attraverso le specificità del suo approccio, fornisce una declinazione del costruttivismo radicale che ne valorizza la dimensione storica. Legge le costruzioni cognitive di un sistema come i prodotti della storia delle interazioni tra le dinamiche di auto-organizzazione che lo definiscono e quelle dei sistemi con cui interagisce, incluso l’ambiente. In altri termini: gli esiti del dispiegarsi temporale della relazione di compatibilità dinamica mediante cui i sistemi in interazione si allacciano in un complesso co-evolutivo globale. Coerentemente con questa prospettiva, l’epistemologia del tempo di Ceruti produce una caratterizzazione di soggetto e oggetto dei processi cognitivi quali estremi di una relazione di mutua definizione coordinatrice – di interdipendenza radicale – che li integra in un’entità evolutiva e cognitiva unitaria. Con Paul Weiss e Gregory Bateson39, la si può pensare come un’ecologia storica della mente, la cui attività distribuita di costruzione di mondi si realizza attraverso un processo aperto e creativo di produzione di identità soggettive e oggettive accoppiate; un movimento la cui creatività si sviluppa attraverso anelli che allacciano vincoli a possibilità. 38 Si veda in particolare H. von Foerster, Sistemi che osservano, cit.; H. Maturana, F. Varela, De Máquinas y Seres Vivos. Autopoiesis: la organización de lo vivo, Editorial Universitaria, Santiago 1973, tr. it. Macchine e esseri viventi. L’autopoiesi e l’organizzazione biologica, Astrolabio, Milano 1992; H. Maturana, F. Varela, Autopoiesis and cognition. The realization of the living, Reidel, Dordrecht-Boston-London 1980, tr. it. Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, Marsilio, Venezia 1985. 39 Si veda P. Weiss, L’archipel scientifique, cit.; G. Bateson, Steps to an ecology of mind, Ballantine, New York 1972, tr. it. Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1972.
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È questa opzione di auto-interpretazione che Ceruti propone al pensiero scientifico. La include come traiettoria possibile nel ventaglio dei futuri accessibili alla scienza contemporanea e, in particolare, alle scienze della cognizione. Inaugura così una pratica epistemologica di previsione creatrice orientata a estendersi dalla dimensione dell’evoluzione scientifica alla dimensione dell’evoluzione umana. Epistemologia dell’identità aperta Con l’avvio degli anni Novanta, il paradigma dell’anello vincoli-possibilità diventa il perno di una significativa espansione del progetto epistemologico di Ceruti, basata sulla costruzione di una relazione sinergica tra lo studio dell’evoluzione e lo studio della storia delle scienze dell’evoluzione. In Origini di storie (1993), Evoluzione senza fondamenti (1995), Evoluzione. Sviluppi del darwinismo e prospettive post-darwiniane (1996)40, gli interessi scientifici di Ceruti si concentrano sui meccanismi che presiedono ai processi di riconfigurazione delle “opzioni” evolutive dei sistemi complessi; i fattori che producono la continua riapertura dei loro spazi di sviluppo. Ceruti li mette al centro di un’indagine sulla creatività del tempo focalizzata sui sentieri evolutivi dell’ecologia dell’umanità: le evoluzioni intrecciate dell’universo fisico-chimico, della Terra, della vita, della specie umana, delle civiltà e delle culture in cui l’umanità si esprime. L’esplorazione di queste storie del tempo, con le relative interconnessioni, offre a Ceruti le condizioni dello sviluppo di un approccio epistemologico originale, di carattere evolutivo, all’analisi della contemporaneità; un’indagine sulla condizione umana globalizzata imperniata sullo studio delle
40 Si veda M. Ceruti, Origini di storie, cit.; M. Ceruti, Evoluzione senza fondamenti, Laterza, Roma-Bari 1995; M. Ceruti, Evoluzione. Sviluppi del darwinismo e prospettive post-darwiniane, in L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti, Milano 1996. Si veda inoltre G. Bocchi, M. Ceruti, Modi di pensare post darwiniani. Saggio sul pluralismo evolutivo, Dedalo, Bari 1984 e G. Bocchi, M. Ceruti, Le origini della scrittura. Genealogie di un’invenzione, Bruno Mondadori, Milano 2001.
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dinamiche – cosmiche, planetarie, biologiche, umane – che l’hanno co-prodotta. Una delle espressioni più articolate di questa ricerca è presentata in Origini di storie, dove Ceruti, con Bocchi, ricostruisce le genealogie della fase globalizzata della nostra evoluzione a diversi livelli della storia naturale del tempo: il livello della storia dell’universo, il livello della storia della Terra, il livello della storia della vita e il livello della storia dell’umanità, dall’emergere dell’agricoltura alla diffusione paleolitica, dal dispiegarsi moderno dell’avventura europea sul pianeta al delinearsi, nell’incrocio di questi tempi e di queste storie, dei tratti caratteristici della fase globale odierna. È in questo contesto di indagine che egli elabora una inedita prospettiva epistemologica sull’identità umana, la quale trova il proprio nucleo teorico in una nozione anti-essenzialistica di identità. In linea con gli sviluppi della ricerca sistemica di matrice auto-organizzazionale, egli concettualizza l’identità di un sistema come una dinamica di auto-individuazione articolata sulla trama di processi di co-definizione dei suoi livelli di organizzazione – ovvero: il sistema nella sua totalità, i sottosistemi distinguibili al suo interno, l’ecologia in cui è immerso, gli altri sistemi che la popolano. Si tratta di un approccio descrittivo puntato sul carattere processuale, distribuito e incompiuto – aperto – dell’identità. La caratterizza come la relazione di compatibilità dinamica che continuamente coordina una molteplicità di sistemi in un complesso co-evolutivo integrato. Più precisamente: il dispiegamento temporale della relazione che definisce in modo interdipendente le dinamiche di tali sistemi. Ceruti lo pensa come un processo irriducibilmente storico, la cui apertura creativa è imperniata su anelli di interdipendenza tra regolarità e discontinuità, stasi e transizioni che definiscono le evoluzioni embricate dei sistemi coinvolti. Nel contesto della tematizzazione dell’identità umana, questo modello teorico produce il disegno di una forma ipercomplessa di auto-individuazione, data dalla dinamica di coordinazione di tre principali livelli di organizzazione – il livello fisico-chimico, il livello biologico, il livello socio-culturale – e delle rispettive ecologie di riferimento. Non si tratta esclusivamente di un rifiuto dell’essenzialismo che produce una visione processuale dell’identità umana, articolata da Ceruti sui tempi lunghi, medi e brevi dell’evoluzio-
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ne globale. Dell’essenzialismo tradizionale egli respinge anche e in particolare l’inclinazione individualista. Promuove una concettualizzazione relazionale dell’identità umana, che, mentre scardina il modello di un tipo organizzazionale individuale e separabile, la delinea come una struttura di interconnessione tra diversi livelli di organizzazione in co-evoluzione tra loro e con le rispettive ecologie di riferimento. La interpreta come una relazione di interdipendenza radicale, la quale connette tali livelli e le loro ecologie in un’unità evolutiva e cognitiva globale. Dagli sviluppi di questo approccio, in Origini di storie, emerge una delle prospettive sistemiche più interessanti sull’identità umana. Ceruti la struttura attraverso un esercizio di transdisciplinarità che interconnette angolazioni teoriche estese dalla paleontologia alla genetica, dalla linguistica all’antropologia evolutiva, dalla mitologia alla storia delle idee. Costruisce un paesaggio epistemologico in cui l’identità biologica e le identità culturali della specie umana si prospettano in permanente sviluppo, sulle linee di un divenire co-evolutivo irriducibilmente creativo e aperto a novità. Per Ceruti, la distanza dalla stereotipicità dei comportamenti animali esprime la specifica forma di generatività della specie umana, che si declina in lingue, culture, società, forme di sapere. L’idea è quella di una matrice condivisa che genera in permanenza un ventaglio di variazioni, del quale ogni percorso identitario specifico costituisce un nuovo segmento. Le esperienze umane si caratterizzano per una reciproca interdipendenza che le interconnette in un’unità complessa. È una rete in continua evoluzione, che esige una visione unitaria e aperta di dinamiche e storie dell’umanità. Nella produzione di Ceruti, l’enfasi epistemologica sull’apertura dell’identità umana si esprime in una versione evolutiva del principio di Blaise Pascal secondo cui “l’uomo supera infinitamente l’uomo” – “l’homme passe infiniment l’homme”41. Nell’angolazione teorica che propone, l’umanità, quale sistema ipercomplesso in evoluzione, si singolarizza per capacità di auto-regolazione amplificate dalla prerogativa della deliberata auto-trasformazione basata 41 B. Pascal, Pensées, G. Desprez, Paris 1669, tr. it. Pensieri, Arnoldo Mondadori, Milano 1994, n. 434.; M. Ceruti, “L’incompiutezza, condizione dell’umano”, in M. Ceruti, La fine dell’onniscienza, cit., pp. 147-176.
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sull’auto-esplorazione – l’auto-conoscenza42. I futuri accessibili al processo evolutivo dell’identità umana non sono contenuti in modo rigidamente predefinito nelle forme in cui l’umanità si manifesta nella contemporaneità. L’evoluzione passata e la condizione presente dell’identità umana definiscono vincoli il cui impatto sui futuri possibili è influenzato in modo significativo dalle scelte attuali. Ancora una volta, si tratta della possibilità di riaprire il ventaglio delle possibilità evolutive, introducendovi la traiettoria di un movimento di “ri-umanizzazione” – un processo di “reinvenzione dell’umanità”. Ceruti la descrive come un’opzione che, nell’attuale fase globalizzata della nostra storia evolutiva, equivale al costituirsi di una inedita forma di coscienza collettiva; uno sviluppo trasformatore della nostra “coscienza di specie” in grado di attivare una risposta unitaria – partecipativa e condivisa – alle sfide che attraversano la contemporaneità. È su questa base teorica che l’epistemologia dell’identità aperta di Ceruti si esprime in pratica di previsione creatrice. Il suo primo movimento produce un lavoro di ricerca focalizzato sull’evoluzione dell’Europa; un livello di indagine attraverso il quale egli inaugura un’articolazione politica dell’etica moltiplicatrice delle possibilità condivisa con von Foerster. In una serie di saggi dedicati – tra i quali: L’Europa nell’era planetaria (1992), Solidarietà o barbarie (1994), Le radici prime dell’Europa (2001), Una e molteplice. Ripensare l’Europa (2009) e La nostra Europa (2013) –43 Ceruti esplora i momenti cruciali 42 A questo proposito si veda anche: E. Jantsh, The self-organizing universe. Scientific and human implications of the emerging paradigm of evolution, Pergamom Press, New York 1980; S. Kauffman, At home in the universe. The search for the laws of self-organization and complexity, Oxford University Press, New York 1996. 43 G. Bocchi, M. Ceruti, Le radici prime dell’Europa. Gli intrecci genetici, linguistici, storici, Bruno Mondadori, Milano 2001; G. Bocchi, M. Ceruti, Solidarietà o barbarie. L’Europa delle diversità contro la pulizia etnica, Raffaello Cortina, Milano 1994; G. Bocchi, M. Ceruti, Una e molteplice. Ripensare l’Europa. Tropea, Milano 2009; M. Ceruti, E. Morin, La nostra Europa, Raffaello Cortina, Milano 2013. L’analisi epistemologica di Ceruti della fase globalizzata dell’evoluzione umana trova una estensione originale nel saggio, scritto con Giuseppe Fornari, Le due paci (2005). In questo lavoro gli autori propongono sviluppi inediti dell’approccio di René Girard alla descrizione della genesi delle culture umane in base a una esplorazione
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della storia europea. Lo fa attraverso un’indagine sul dispiegarsi storico delle identità delle nazioni e dei territori europei che evidenzia l’irriducibilità dell’Europa a prospettive semplificanti. In questo ambito, la sua modellizzazione teorica dell’identità respinge le proposte essenzialistiche stilizzate nelle concettualizzazioni tradizionali delle comunità umane – stati, nazionalità, etnie, regioni o altri insiemi. Dell’approccio identitario classico, la prospettiva di Ceruti destruttura non solo la staticità e la logica dell’esclusione, ma anche la caratterizzazione dei confini quali elementi di separazione – barriere. Il suo modello di descrizione, centrato su un’interpretazione sistemica dell’identità in termini di struttura di interconnessione, si fa portatore di una proposta teorica che delinea la storia dell’Europa quale dinamica dialogica di un complesso co-evolutivo unitario che si articola su movimenti interconnessi di omogeneizzazione e di differenziazione. È un circuito di mutua produzione tra interdipendenza e spinte disgregative degli stati nazionali che sfugge alle griglie di dissezione analitica, spesso di approccio essenzialistico, applicate dalle letture prevalenti della situazione europea. Come evidenziano le sue esplorazioni evolutive, l’impegno epistemologico di Ceruti intende innanzitutto rispondere all’urgenza di sviluppare un livello complesso di riflessione politica, capace di inquadrare i meccanismi generativi dei processi metamorfici e “crisici” che l’Europa sta affrontando. Ma non solo. Si tratta anche di strutturare e realizzare un progetto culturale, etico e politico teso a “turbare il futuro” dell’Europa: introdurre nel ventaglio delle sue traiettorie evolutive una soluzione positiva al punto di biforcazione presso il quale oggi essa indugia, da lui emblematicamente definito nei termini dell’alternativa “associazione o barbarie”44. L’approccio al problema del futuro dell’Unità Europea proposto da Ceruti respinge ogni tentativo di “salvare l’Europa” puntato prioritariamente – o esclusivamente – sul riassesto economico. La sua lettura epistemologica insiste sull’opzione di una visione storica e complessa delle identità nazionali europee, in grado di allacciarne critica del ruolo delle religioni nel mondo globalizzato. Si veda M. Ceruti, G. Fornari, Le due paci. Cristianesimo e morte di Dio nell’età globalizzata, Raffaello Cortina, Milano 2005. 44 G. Bocchi, M. Ceruti, E. Morin, Turbare il futuro. Un nuovo inizio per la civiltà planetaria, Moretti & Vitali, Bergamo 1990.
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sinergicamente le storie e le memorie in un immaginario condiviso. Sollecita lo sviluppo di una “nuova forma di cittadinanza nazionale”, associata a un “patriottismo” non più esclusivo, ma “inclusivo”; una valorizzazione condivisa e complementare delle risorse degli stati nazionali in grado di generare un nuovo tipo di “cittadinanza europea”. È l’espressione dell’esigenza di una “profonda metamorfosi”, con cui Ceruti sottolinea l’imprescindibilità di una revisione radicale della triade interdipendente del modello economico, del modello civile e del modello politico dell’Europa. Certamente, nelle sue analisi, egli riconosce gli ostacoli che definiscono l’improbabilità dell’attuarsi di un così vasto progetto di ristrutturazione. Ma affianca a questa consapevolezza l’indicazione delle risorse che possono convergere nell’aprire il futuro europeo a una tale trasformazione. Tra le principali, c’è l’opzione di una riattivazione potenziatrice del movimento culturale più profondamente radicato nell’identità storica europea – l’“umanesimo”. Precisamente: “uno dei due volti dell’umanesimo europeo”. È “l’umanesimo dei diritti, della democrazia e della solidarietà”, che Ceruti riconosce portatore di un imperativo antropologico potenzialmente generativo di una mutazione culturale – una “reinvenzione” – che può coinvolgere, con l’Europa, l’intera umanità. È il doppio imperativo che richiede di “salvare l’unità umana” e di “salvare la diversità umana”; il nucleo dell’“umanesimo planetario” di cui egli tematizza e sollecita la costituzione. Questo è probabilmente il luogo in cui la produzione scientifica di Ceruti manifesta nel modo più evidente la distanza dagli approcci che confinano l’indagine epistemologica nello spazio ristretto dell’analisi di aspetti di dettaglio della conoscenza – spesso solo della conoscenza scientifica. Il progetto scientifico di Ceruti non può che essere orientato a estendere la ricerca epistemologica oltre i perimetri dei dibattiti che le partizioni specialistiche oggi le assegnano. La posta in gioco è riuscire a dare effettiva espressione al riconoscimento centrale dell’epistemologia del tempo, concernente il ruolo cruciale che le opzioni epistemologiche svolgono nell’avventura umana – non solo nell’avventura scientifica. Si tratta dell’idea che i nostri quadri epistemologici di riferimento, lungi dall’avere un peso limitato a questioni astratte e specialistiche, esercitano un impatto estremamente concreto sulla nostra evoluzione, in particolare perché cornici epistemologiche diverse tendono a tradursi in traiet-
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torie evolutive tra loro significativamente divergenti – differenze decisive nel nostro modo di interpretare e affrontare i punti di biforcazione. Qui si struttura la sfida più significativa che la contemporaneità impone alla ricerca epistemologica e che Ceruti raccoglie. Rendere operativa la consapevolezza che preparare, per il nostro futuro, opzioni evolutive orientate verso un auto-sviluppo sostenibile – “reinventare l’umanità” – significa rinnovare i nostri schemi epistemologici – reinventare la nostra forma di intellegibilità. Epistemologia della responsabilità Ceruti inaugura il nuovo millennio con la produzione delle grandi linee di un disegno di auto-trasformazione dell’umanità, ispirato dall’ideale sistemico di una nuova, più profonda forma di integrazione della specie umana nel complesso co-evolutivo in cui è immersa; una radicale revisione del nostro modo di pensare e di partecipare, da un lato, all’unità umana e, dall’altro, al sistema globale a cui essa appartiene. Ceruti individua l’elemento motore dei sentieri già compiuti e dei segmenti futuri dell’itinerario evolutivo della nostra specie nell’inclinazione al “deuteroapprendimento”, inteso come un cambiamento di strategia adattativa portatore di un apprendimento di secondo livello – un (ri-)apprendere ad apprendere45. Nella sua prospettiva Homo sapiens non è “nato umano”, ma “viene dal tempo”, concepito, coerentemente con l’approccio epistemologico costruttivista, come una dimensione in cui “evolvere” e “apprendere” convergono. Homo Sapiens, nel corso del processo di costruzione della propria identità e del relativo mondo cognitivo, ha “appreso a essere umano” e, con lo sviluppo plurimillenario di questo apprendimento, ha dato espressione a diverse forme di umanità. In questo scenario, l’opzione di un ulteriore sviluppo in tale processo evolutivo si prospetta come un movimento adattativo di deuteroapprendimento. Ceruti ne individua il potenziale nella rete storica delle esperienze, delle conoscenze, delle culture, delle forme delle civiltà umane; una sorgente di sapere che, nel punto critico di biforcazione in cui ci tro45 M. Ceruti, La hybris dell’onniscienza e la sfida della complessità, cit.
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viamo, offre alla nostra specie l’opportunità di intraprendere un processo di riconfigurazione della propria identità cognitiva e del suo mondo di riferimento. È una metamorfosi che egli tematizza come lo sviluppo di forme sostenibili di interazione con l’ecologia globale – sottosistemi inclusi – mediante cui l’umanità può inaugurare la fase unitaria e integrativa della propria evoluzione, valorizzando e alimentando le proprie diversità; può tradurre l’attuale interdipendenza planetaria nell’acquisizione di un effettivo assetto identitario di carattere globale, quale unitas multiplex. Nella prospettiva dell’epistemologia del tempo questo tipo di transizione evolutiva rappresenta l’unica soluzione positiva al punto di discontinuità su cui oggi la nostra traiettoria storica si sporge. È un’opzione che Ceruti vincola alla possibilità di un riapprendere ad apprendere capace di modificare radicalmente i nostri schemi di intellegibilità. Ceruti interpreta le crisi contemporanee – “crisi ecologica, crisi climatica, crisi biologica, crisi geo-politica, crisi economica, crisi sanitaria, crisi esistenziale, crisi antropologica” – quali aspetti di una “crisi cognitiva” che minaccia concretamente l’integrità della nostra specie e del suo ecosistema. Dal punto di vista epistemologico, ognuna delle crisi menzionate esprime l’improduttività delle euristiche classiche di semplificazione, ovvero di modalità di soluzione che applicano procedure di disgiunzione e riduzione nel tentativo di interpretare dense reti di fattori interdipendenti nei termini di insiemi di elementi fondamentali su cui agire separatamente e in modo lineare. È il riconoscimento dell’incapacità, da parte del paradigma dominante, di inquadrare e affrontare la complessità dei problemi che affliggono la nostra epoca – dal degrado ecologico al cambiamento climatico, dalle tensioni geopolitiche all’insostenibilità dello sviluppo. Per Ceruti si tratta di una serie di fallimenti che rivela come il principale ostacolo alla gestione efficace della poli-crisi contemporanea non risieda tanto in residui di ignoranza da colmare, quanto nelle modalità attuali di produzione e di organizzazione della conoscenza. I nostri approcci metodologici tradizionali, di matrice cartesiana, risultano incapaci di rilevare, esplorare e co-trattare la pluralità delle dimensioni costitutive delle grandi questioni del nostro tempo. In tutte le sue versioni e applicazioni, il paradigma epistemologico di semplificazione – schematicamente riconducibile al principio analitico di disgiunzione e al principio
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sintetico di riduzione caratteristici della tradizione moderna – produce, conserva e allarga partizioni e abissi disciplinari tra conoscenze la cui efficacia non può che risiedere nella reciproca interconnessione. Invece di generare soluzioni, amplifica in modo incontrollato i problemi a cui si applica. È in base a questa lettura che Ceruti propone un progetto di metamorfosi evolutiva dell’umanità organizzato intorno a un’operazione di radicale riforma dei quadri epistemologici dominanti della nostra civiltà. Per l’epistemologia del tempo si tratta di un’operazione orientata a far convergere la revisione del paradigma tradizionale dell’intellegibilità scientifica, che permea la fenomenologia prevalente della nostra intellegibilità, con l’elemento motore di un cambiamento culturale, etico e politico capace di condurci alle soglie dell’emergenza di una nuova civiltà. È un progetto che per Ceruti necessita della presa in carico di altre due dimensioni cruciali, oltre a quella epistemologica: la dimensione educativa e la dimensione culturale. In Educazione e globalizzazione (2004)46, l’epistemologia di Ceruti si esprime in un approccio alla filosofia dell’educazione teso a stimolare scuola e università a investire le proprie risorse nella formazione di “cittadini planetari” – gli attori della fase unitaria e integrativa della nostra evoluzione. Egli individua la missione principale dell’“educazione del futuro” nell’insegnare alle giovani generazioni le origini, la storia globale e la condizione attuale dell’umanità, con un’attenzione specifica, da un lato, per il carattere processuale, multiplo e aperto dell’identità della nostra specie e, dall’altro, per le forme di interdipendenza sistemica generative delle dinamiche evolutive caratteristiche della fase globalizzata. Si tratta di una missione inseparabile dal compito di “formare alla complessità”. Coltivare competenze transdisciplinari che consentano di coordinare procedure metodologiche analitiche e sintetiche, prospettive contestualizzanti diacroniche e sincroniche, conoscenze emergenti da punti di vista disciplinari e angolazioni descrittive diverse. Destabilizzare la “cultura del programma”, dominante benché applicabile con efficacia solo a 46 G. Bocchi, M. Ceruti, Educazione e globalizzazione, Raffaello Cortina, Milano 2004; si veda anche: M. Ceruti, F. Cambi, M. Callari Galli, Formare alla complessità. Prospettive dell’educazione nelle società globali, Carocci, Milano 2003.
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contesti stabili e prevedibili. Promuovere una “cultura della strategia”, intesa come la propensione a rivedere le proprie modalità conoscitive e i propri piani di azione in funzione dell’individuazione di limiti di intellegibilità, opacità cognitive ed effetti inattesi nell’interazione. Sollecitare lo sviluppo di una forma aperta e riflessiva di razionalità, articolata su movimenti di auto-conoscenza e di auto-trasformazione – “strategie di (…) autoesame critico, di riorganizzazione, di riconversione, di riposizionamento”. Proporre principi di intellegibilità che articolino le tradizionali pratiche analitiche di disgiunzione a schemi procedurali di sintesi modellati non sull’idea classica della riduzione, ma sul concetto di relazione complessa; la nozione di un anello di congiunzione in grado di ricomporre dinamicamente in complementarità gli elementi che l’analisi separa – gli estremi di dicotomie, alternative, tensioni, antagonismi. Nella filosofia dell’educazione proposta da Ceruti, questi schemi di intellegibilità non si limitano a rappresentare competenze che le istituzioni educative sono chiamate a promuovere nei giovani, ma: sono innanzitutto competenze che il sistema educativo deve saper esprimere. Accettare e affrontare l’incertezza. Modificare le linee d’azione in funzione di cambiamenti imprevisti, di novità radicali. Pensare creativamente strategie di riorganizzazione non in vista di un ritorno al passato o una supposta normalità, ma in vista di un futuro che possa integrare la capacità di reagire alle perturbazioni incontrate. In definitiva, saper affrontare di nuovo e ricorsivamente, con creatività e apertura, il problema di pensare e costruire la relazione educativa, trasformando i limiti in opportunità inedite (…) di organizzare e di realizzare la relazione educativa. Sono opzioni da esplorare creativamente, strategicamente e criticamente, in un movimento di deuteroapprendimento – un riapprendere ad apprendere il modo di fare università e di fare scuola – orientato a promuovere e coltivare il deuteroapprendimento – l’apertura al riapprendere ad apprendere nelle nuove generazioni.47
47 Dal discorso tenuto da Mauro Ceruti il 13.04.2023 durante il seminario inaugurale del centro di ricerca CriSiCo presso l’Università IULM di Milano (titolo dell’intervento: Crisi e deuteroapprendimento. Un pentalogo per l’educazione del futuro).
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Il problema della transizione a una civiltà planetaria, da compiere attraverso una riforma di intellegibilità, è centrale nel quadro dell’ampio progetto di politica culturale che Ceruti sviluppa attraverso la sua produzione. Opere quali Il tempo della complessità (2018), Abitare la complessità (2020), Sulla stessa barca (2020) e Il secolo della fraternità (2021)48 scommettono sull’analisi culturale della contemporaneità per promuovere una radicale riconcettualizzazione del ruolo che l’umanità può svolgere nell’ecologia globale. Insistono sulle criticità del prospetto cartesiano, tanto tradizionale quanto influente, dell’uomo “padrone e possessore della natura”; un ideale moderno tutt’oggi tra i più attivi, benché la sua implausibilità si manifesti non solo nelle crisi che affliggono la nostra epoca, ma anche nelle insufficienze delle soluzioni che produciamo per esse – sia al livello dell’impresa scientifico-tecnologica, sia al livello della quotidianità. L’epistemologia del tempo di Ceruti sollecita a riconoscere nella storia di Homo Sapiens le matrici dell’opzione aperta di un riposizionamento integrativo della nostra specie nell’universo naturale. Esorta a vedere nell’incompiutezza strutturale che definisce la condizione umana la possibilità di una metamorfosi culturale in cui le esigenze della coscienza morale e dell’istinto di sopravvivenza possono convergere. È la prospettiva di un umanesimo planetario, a partire dalla quale Ceruti ci chiede di interpretare l’intreccio co-evolutivo di identità e culture diverse, che caratterizza la contemporaneità, come la fase iniziale di una dinamica di aggregazione capace di condurci alla costituzione consapevole e deliberata della civiltà planetaria. Ci propone di intraprendere l’avventura metamorfica che si rende accessibile contestualmente alla presa di “coscienza” della “comunità di destino” che unisce “tutti i popoli della terra”, nonché “tutta l’umanità”, con “la Terra stessa” e l’ecosistema globale. L’epistemologia del tempo di Ceruti, declinata in filosofia dell’educazione e in analisi culturale della contemporaneità, si configura come un’epistemologia della responsabilità. Nella sua prospettiva, 48 M. Ceruti, Il tempo della complessità, Raffaello Cortina, Milano 2018; M. Ceruti, F. Bellusci, Abitare la complessità. La sfida di un destino comune, Mimesis, Milano-Udine 2020; M. Ceruti, Sulla stessa barca, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2020, M. Ceruti, F. Bellusci, Il secolo della fraternità. Una scommessa per la Cosmopoli, Castelvecchi, Roma 2021.
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la transizione verso la fase unitaria e integrativa della nostra evoluzione deve convergere con l’opzione della “globalizzazione della solidarietà”, attraverso il riconoscimento dell’ampiezza dei rischi prodotti dal nostro percorso evolutivo, ormai estesi alle possibilità interconnesse di una catastrofica compromissione del sistema a cui apparteniamo e di una estinzione autogena della nostra specie. Da qui nasce l’appello di Ceruti a uno sforzo collettivo, coordinato e proattivo, di riarticolazione dello spazio dei futuri accessibili all’umanità, orientato a includervi traiettorie viabili di evoluzione accoppiata con l’ecologia globale. È un appello alla responsabilità in cui si può riconoscere la più compiuta espressione del costruttivismo radicale. Sviluppa pienamente, al livello dell’unità della co-evoluzione umana, l’imperativo epistemologico costruttivista che promuove l’estensione del nostro dominio cognitivo. Non si tratta dell’ideale moderno del trionfo evolutivo del più forte, basato sull’ascrizione all’umanità di un potere assoluto di anticipazione: la previsione nella sua accezione classica di controllo cognitivo, da esercitare su un mondo inerte e predefinito in vista di attività di manipolazione. L’apice della conoscenza costruttrice, oggetto del suo imperativo epistemologico di riferimento, è la forma creatrice della previsione: la costruzione di nuove traiettorie evolutive percorribili da un sistema cognitivo senza perdere la continuità funzionale. È una pratica che non può essere solitaria; è necessariamente distribuita – partecipativa. Non si esprime nell’attività di agenti indipendenti che si muovono su uno sfondo passivo. Si realizza nel contesto di un’unità di co-evoluzione che risponde alle dinamiche di ognuna delle sotto-unità in essa embricate, coinvolgendole in processi globali di auto-regolazione e auto-trasformazione. In questo tipo di complesso dinamico, ogni unità in co-evoluzione – il sistema, i suoi sottosistemi, l’ecologia di riferimento, gli altri sistemi ivi inclusi – gioca un ruolo nella definizione delle traiettorie evolutive accessibili a ogni altra. Ogni scelta evolutiva, ogni soluzione prodotta per un punto di biforcazione nell’ambito di una delle unità embricate, turba le dinamiche dei componenti dell’intero complesso in co-evoluzione e ne è turbata. Ogni traiettoria evolutiva si esprime sul sistema globale ed esprime il sistema globale. L’unità rilevante per l’esercizio consapevole della previsione crea-
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trice – per l’espressione deliberata dell’imperativo epistemologico costruttivista – non può essere un sistema individuale; è il complesso co-evolutivo globale. L’epistemologia del tempo affida questo riconoscimento all’elaborazione dell’imperativo epistemologico del costruttivismo radicale al livello dell’umanità, dando espressione al cuore teorico costruttivista dell’etica della complessità: aumentare le possibilità evolutive di un sistema significa aumentarne le possibilità di co-evoluzione nell’ecologia di riferimento. In una delle formulazioni dell’imperativo etico della complessità proposte da Heinz von Foerster: “accrescere il numero totale delle possibilità di scelta”. L’appello di Ceruti alla globalizzazione della solidarietà traduce questo messaggio. Fa convergere epistemologia ed etica del costruttivismo radicale nella sollecitazione a impegnarci in modo unitario – in quanto unità umana di co-evoluzione e in co-evoluzione – nell’esercizio della previsione creatrice. È la richiesta di assumere la responsabilità dei rischi prodotti dalla nostra avventura evolutiva a tutti i livelli dell’ecologia in cui siamo integrati. Praticare partecipativamente la cura nell’articolazione di futuri sostenibili di co-evoluzione globale. Esprimere la consapevolezza che “ciò che facciamo cambia il mondo”, perché “questo mondo è qualcosa che facciamo insieme” – “è la nostra danza insieme”.
STORIE DELLE ORIGINI DI UNA STORIA
STORIE DELLA NOSTRA STORIA Gianluca Bocchi*1in dialogo con Chiara Brambilla** e Anna Lazzarini***
Tutte le storie che abbiamo raccontato risuonano e si interrogano reciprocamente. Le nuove immagini della storia della natura emerse dagli sviluppi delle scienze evolutive hanno gettato nuova luce sulla natura della storia umana: storia delle civiltà, delle culture, delle idee. Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti
Scriveva Mary Catherine Bateson che “comporre una vita significa reimmaginare continuamente il futuro e reinterpretare continuamente il passato per dare un significato al presente”. Alcuni passaggi di vita diventano occasioni di riflessione, per sé e per gli altri. Soprattutto nel caso di vite non proprio ordinarie, come quella di Mauro Ceruti. Un dialogo con Gianluca Bocchi ci aiuta a rivisitare le tappe più significative della loro avventura comune, entro quel mondo di significati e di relazioni che l’intreccio delle loro biografie ha saputo generare. L’amicizia comincia sui banchi della Facoltà di Lettere e Filosofia all’Università Statale di Milano. È così. Sono gli anni di piombo, un momento drammatico per Milano e per l’Italia. È stato il periodo più difficile della storia italiana dal dopoguerra. Soprattutto, però, è stato il tradimento di quel creativo fermento culturale che a partire dagli anni ’60 si era *1 Professore di Filosofia della scienza, Università degli Studi di Bergamo. ** Professore di Antropologia, Università degli Studi di Bergamo. *** Professore di Filosofia dell’educazione, Università degli Studi di Bergamo.
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generato in varie forme e in molti luoghi del pianeta. A Milano percepivamo in quel periodo un forte disagio, che allora non riuscivamo a comprendere in modo chiaro – non sempre neppure oggi, a decenni di distanza, si riesce a farlo –, e che nasceva dalla contraddizione fra esigenze profonde di liberazione, di emancipazione, di immaginazione, di creatività, e derive ideologizzanti e spesso violente, che finivano per imbrigliare anziché liberare. Mauro ed io abbiamo vissuto questo disagio, che prendeva a poco a poco forma: era la consapevolezza del tradimento di qualcosa… La Statale era un’isola felice, ma, nello stesso tempo, anche uno spazio interno a quelle contraddizioni. Abbiamo vissuto le contraddizioni di quegli anni e di quel contesto, non aderendovi troppo, sviluppando un’attitudine critica. Insomma, un’esperienza complessa e profondamente formativa. Certo, in Statale molti erano i grandi Maestri, Enzo Paci, Mario Dal Pra, Remo Cantoni, Corrado Mangione, Franco Fornari… Hanno fatto scuola. Pensiamo solo agli allievi di Enzo Paci, Pier Aldo Rovatti, Carlo Sini, Salvatore Veca, Mario Vegetti… Ma per voi l’incontro decisivo è stato con Ludovico Geymonat. Aveva guidato lo svecchiamento della cultura filosofica e scientifica italiana, e aveva aperto una nuova visione delle relazioni fra la filosofia e le scienze. A lui, proprio all’Università Statale di Milano, era stata attribuita la prima cattedra italiana di Filosofia della scienza. Ludovico Geymonat è stato il nostro Maestro. Sì, aveva dedicato il proprio lavoro di studioso e di intellettuale a un profondo rinnovamento della filosofia e della cultura italiana attraverso un forte impegno, volto al riconoscimento dell’importanza filosofica e culturale del pensiero scientifico, anche in funzione dello sviluppo democratico del nostro paese. Fu instancabile nel sottolineare la rilevanza filosofica ed epistemologica della meccanica quantistica, della teoria della relatività, della logica induttiva, della storia della matematica, della storia delle scienze in genere… Oggi tutto ciò sembra a noi scontato, ma nel panorama filosofico italiano di allora era una novità dirompente. La sua Storia del pensiero filosofico e
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scientifico1, che cominciava a essere pubblicata quando frequentavo il liceo, fu proprio la molla che mi fece scegliere di studiare filosofia a Milano, per avere lui come professore. La sua prospettiva era segnata dall’idea di una scienza che “lavora” nella storia. Si trattava, per noi, di una prospettiva interessante e creativa. Teneva i suoi seminari dal lunedì al venerdì, verso sera, dalle 17.30 alle 19.30, in modo che chiunque potesse partecipare, e non solo gli studenti. Infatti, c’erano molti ingegneri, matematici, medici… Ci siamo subito appassionati e abbiamo seguito sempre quei seminari. È stata un’esperienza estremamente formativa, quella “scuola di Geymonat”, che coniugava un approccio rigoroso con la partecipazione critica a un contesto culturale stimolante e in grande fermento. E fu il primo esempio di “gruppo creativo” interdisciplinare, con la partecipazione decisiva degli “assistenti” di Geymonat, un po’ più anziani di noi allora studenti, fra i quali non posso non ricordare in particolare Giulio Giorello e Silvano Tagliagambe, allora modelli da ammirare, e poi colleghi e amici di una vita. Ricordi un momento specifico in cui è avvenuto l’incontro fra voi? Con Mauro, ci eravamo incontrati lì. Ma un giorno, mentre si svolgeva il seminario di “Logica induttiva” del professor Geymonat, entrarono in aula i militanti del Movimento Studentesco, intenzionati a interrompere la lezione. Era un rito un po’ logoro, che si ripeteva di frequente: si entrava nelle aule, si sospendeva la lezione e si chiedeva al docente di declinare diversamente i temi dei corsi, indirizzandoli verso questioni allora considerate attuali e politicamente rilevanti… Quella volta, durante il seminario, io fui veramente infastidito e intervenni opponendomi vigorosamente all’interruzione con una breve riflessione sul valore della conoscenza… Penso di essere stato preso per un pazzo, un kamikaze. Calò il silenzio. Tutti erano curiosi, in attesa della reazione del professor Geymonat. Lui, spiazzando tutti, disse: “Sono d’accordo al 99,9% con questo intervento”. Questa fu la mia definitiva legittimazione agli occhi del professore, ma soprattutto agli occhi di Mauro. 1
L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, 8 voll., Garzanti, Milano 1970-1976.
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Questo fu, dunque, l’esordio. Vi siete conosciuti a quel corso, avete studiato e preparato diversi esami insieme… Sì. Siamo stati molto stimolati dall’aria di libertà e di rinnovamento che il contesto “geymonatiano” garantiva: l’apertura verso le scienze, verso la matematica, la fisica… Nello stesso tempo, tuttavia, cominciavamo a intravedere il rischio possibile, nei più generali contesti accademici, di una degradazione dei saperi in chiusi specialismi: via via, ci appariva sempre più chiaro che quegli specialismi, assimilati dagli studenti, generavano esperienze impoverite di formazione, incapaci di apportare una riflessione epistemologica e autentica cultura. Intuimmo che quella organizzazione della formazione era una “scuola del lutto”, secondo l’espressione che anni dopo scoprimmo nell’insegnamento di Edgar Morin: una scuola che educa a fare il “lutto” della curiosità, del dialogo, dell’immaginazione, che fin dai primi anni frammenta i saperi, non solo separando le discipline, ma anche mettendo l’una contro l’altra le “due culture”, quella umanistica e quella scientifica, e dissolvendo la possibilità di una visione d’insieme e di un pensiero critico. Ci rendevamo conto che il rischio della separazione delle due culture – umanistica e scientifica – era presente anche in coloro che in apparenza la volevano superare, in mancanza di un’epistemologia adeguata. Inoltre, la filosofia della scienza, allora molto impegnata rispetto alle scienze matematiche e fisiche, era sostanzialmente silente sulla biologia e muta sulle scienze umane. Ciò ci portò ad arenarci nella stesura delle tesi: gli argomenti proposti erano troppo parcellizzati. È allora che ci è venuto in soccorso Jean Piaget… Figura straordinaria, per certi versi ancora oggi abbastanza misconosciuta. Cosa innanzitutto vi ha colpito della sua opera? Piaget è stato uno dei primi a comprendere il profondo valore filosofico delle scienze del vivente. Il monumentale volume da lui curato per l’Encyclopédie de la Pléiade, Logique et connaissance scientifique2, per noi è stato la prima introduzione a un pensiero 2
J. Piaget (sous la direction de), Logique et connaissance scientifique, Encyclopedie de la Péiade, Gallimard, Paris 1967.
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complesso. I suoi testi, ivi contenuti, furono per noi una rivelazione. Così come quelli dei grandi scienziati e filosofi da lui chiamati a riflettere, in quel volume, sull’epistemologia delle varie scienze, come, fra gli altri, Jean-Blaise Grize, Léo Apostel, Jean Ladrière, Seymour Papert, Jean-Toussain Desanti, André Lichnerowicz, Louis De Broglie, Gilles-Gaston Granger, Benoît Mandelbrot. E poi il suo libro Biologie et connaissance3 fu per noi l’apertura di una prospettiva complessa all’evoluzionismo: Piaget delineava perfino originali proposte di composizione della tradizionale opposizione fra darwinismo e lamarckismo. A tanti decenni di distanza, le sue proposte si sono rivelate convergenti con le ricerche più avanzate di genetisti ed ecologi contemporanei. Allora, la domanda fondamentale della nostra ricerca divenne: qual è il portato epistemologico della biologia e delle scienze del vivente? Era inevitabile che, con le grandi rivoluzioni scientifiche di fine Ottocento e inizio Novecento, la fioritura della filosofia della scienza avvenisse intorno alla fisica, alla matematica e alla logica. Con il procedere del Novecento, sono stati però decisivi gli sviluppi della biologia e delle scienze cognitive. Ma quasi nessuno rifletteva ancora su questi sviluppi dal punto di vista filosofico. Abbiamo provato a ragionarne con il professor Geymonat. Questi, pur ammettendo che si trattava di questioni piuttosto distanti dai suoi interessi di ricerca, riconobbe che avevamo preparazione e passione, così accolse la nostra proposta per le tesi. A partire dalle tesi, avete cominciato insieme un originale lavoro di ricerca volto a offrire un’interpretazione epistemologica dell’opera di Jean Piaget, che prenderà forma nel testo Disordine e costruzione4. Attraverso un approccio interdisciplinare, che connette scienze biologiche e cognitive, biologia, psicologia e logica, avete elaborato la proposta di una epistemologia costruttivista. Possiamo dunque dire che con questi studi avevate cominciato, in un certo senso, a circoscrivere e sondare quel terreno da cui sarebbe scaturita la vostra elaborazione di una epistemologia della complessità? 3 4
J. Piaget, Biologie et connaissance, Gallimard, Paris 1967. G. Bocchi, M. Ceruti, Disordine e costruzione. Un’interpretazione epistemologica dell’opera di Jean Piaget, Feltrinelli, Milano 1981.
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Certamente sì. Il nostro libro La sfida della complessità5 fu pubblicato nel 1985, ma il contatto con quell’humus fecondo di riflessioni e di interrogativi aveva preso forma proprio a partire dalla stesura delle nostre tesi di laurea e poi di Disordine e costruzione. È in questo lavoro iniziale che abbiamo avuto la fortuna di incontrare subito, per caso, le prime grandi opere epistemolgiche di Edgar Morin: L’unité de l’homme6, Le paradigme perdu7, il primo volume della sua monumentale opera La méthode. La nature de la nature8. Questo incontro, come quello con le opere di Piaget, immediatamente ci entusismò. Ma restiamo ancora un po’ su Piaget… Jean Piaget è stato il più importante pioniere dell’epistemologia della complessità. Biologo, psicologo, filosofo, epistemologo, cultore di tutte le scienze. Creò a Ginevra, grazie alla Fondazione Rockefeller, il Centro internazionale di epistemologia genetica, nel quale ogni anno promuoveva ricerche transdisciplinari su temi cruciali del pensiero scientifico e presso il quale ospitava a questo scopo alcuni degli scienziati protagonisti delle rivoluzioni scientifiche novecentesche, quali Albert Einstein, Louis De Broglie, Seymour Papert, Stephen J. Gould, Ilya Prigogine, Jerry Fodor, Seymour Papert, Heinz von Foerster… Pose le basi di una epistemologia transdisciplinare, complessa. Per noi, l’ambiente ginevrino è diventato il modello di una “nuova scuola” possibile, di un nuovo modo di fare ricerca, in senso transdisciplinare. Lì, abbiamo continuato la nostra formazione e siamo diventati ricercatori. A Ginevra è stato fondamentale anche l’incontro con Alberto Munari e Donata Fabbri. In quegli anni, le teorie dell’evoluzione biologica, la biologia e le scienze del vivente, la storia delle idee e la psicologia genetica diventano le scienze di riferimento per un progetto di epistemologia evolutiva. 5 6 7 8
G. Bocchi, M. Ceruti, La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1985. E. Morin, L’unité de l’homme, Seuil, Paris 1978. E. Morin, Le paradigme perdu, Seuil, Paris 1973. E. Morin, La méthode. La nature de la nature, Seuil, Paris 1977.
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Sì, anche l’incontro con Alberto Munari e Donata Fabbri a Ginevra è stato per noi una grande fortuna. Alberto era uno psicologo e un pedagogista, ma anche, come il padre Bruno Munari, un intellettuale molto aperto e curioso. Tutti insieme, peraltro, nello studio milanese di Bruno, ci siamo spesso trovati a riflettere sui nostri progetti di ricerca e formazione. E presso la Faculté de Psychologie et Sciences de l’Éducation dell’Università di Ginevra, nell’Unità di ricerca diretta da Alberto, abbiamo potuto partecipare all’organizzazione di alcuni simposi internazionali e alla costruzione di una comunità scientifica internazionale volta allo sviluppo di una epistemologia interdisciplinare di matrice costruttivista. Fra questi simposi, mi piace ricordare in particolare “L’altro Piaget”, organizzato a Milano nel 1982 con il Centre International de Psychologie Culturelle di Ginevra (creato con Alberto e Donata), da cui nacque il volume L’altro Piaget. Strategie delle genesi9, e successivamente Dopo Piaget. Aspetti teorici e prospettive per l’educazione10. In quello stesso periodo, abbiamo pubblicato il saggio Modi di pensare postdarwiniani. Saggio sul pluralismo evolutivo11. Epistemologia costruttivista ed epistemologia evolutiva convergevano sempre più chiaramente per noi nella delineazione di una epistemologia della complessità. Il periodo di Ginevra è stato in questo senso fondativo per la genesi del vostro progetto di ricerca, denominato “La sfida della complessità”. Soprattutto eravamo giunti a capire che stava accadendo qualcosa di importante nel contesto scientifico, che non era semplicemente relativo ai contenuti dei saperi, ma che era di ordine antropologico, e riguardava il modo stesso di pensare il rapporto con il sapere. Allora non c’era Internet. Bisognava ordinare i libri, attenderne 9
G. Bocchi, M. Ceruti, D. Fabbri-Montesano, A. Munari (a cura di), L’altro Piaget. Strategie delle genesi, Emme Edizioni, Milano 1983. 10 G. Bocchi, M. Ceruti, D. Fabbri-Montesano, A. Munari (a cura di), Dopo Piaget. Aspetti teorici e prospettive per l’educazione, Edizioni Lavoro, Roma 1985. 11 G. Bocchi, M. Ceruti, Modi di pensare postdarwiniani. Saggio sul pluralismo evolutivo, Dedalo, Bari 1984.
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l’arrivo, ricercare articoli sulle riviste, spesso fare viaggi… Tutto richiedeva molto tempo, era un lavoro artigianale, quasi casalingo… Tuttavia, riuscimmo a delineare una mappa degli sviluppi più interessanti delle scienze di allora dal punto di vista antropologico, mappa che ha costituito il background per il progetto (convegni, ricerche e libro) “La sfida della complessità”. Abbiamo avuto tanta fortuna, oltre che tanta passione e curiosità. E arriviamo alla tappa decisiva: il simposio e i seminari “La sfida della complessità”, nel 1984. Come venne l’idea? E come siete riusciti nella realizzazione di un’impresa internazionale e interdisciplinare così ambiziosa in quel momento? L’idea non è venuta all’improvviso. Erano anni che lavoravamo su questi temi. Abbiamo organizzato il simposio e i seminari (a Milano, tra ottobre 1984 e maggio 1985) allo scopo di disegnare una mappa degli sviluppi scientifici e filosofici più interessanti intorno alla questione dell’irruzione dell’incertezza nelle nostre conoscenze. Invitammo, fra gli altri, in quella occasione e in altre di poco successive, Henri Atlan, Donata Fabbri, Heinz von Foerster, Luciano Gallino, Ernst von Glasersfeld, Brian C. Goodwin, Stephen J. Gould, Hermann Haken, Douglas R. Hofstadter, Ervin Laszlo, Jean-Louis Le Moigne, James E. Lovelock, Edgar Morin, Alberto Munari, Gianfranco Pasquino, Karl Pribram, Ilya Prigogine, Isabelle Stengers, Francisco J. Varela, Milan Zeleny, Lynn Margulis, Paul Feyerabend, Jerome Bruner, John W. Barrow, René Thom, René Girard… Al nostro appello, risposero con entusiasmo. Il volume La sfida della complessità suscita in Italia un ampio e rilevante dibattito filosofico. A partire da lì, e poi negli anni ’90, la parola “complessità” diventa, per percorsi culturali diversi (scienza, filosofia, scienze umane e sociali, scienze dell’organizzazione…), un prisma concettuale di riferimento comune, capace di suscitare dialoghi fecondi fra i saperi e, in un mondo in rapida trasformazione, anche in molti ambiti professionali e nel dibattito politico. Il vostro progetto organizzativo ed editoriale “La sfida della complessità” ha aperto nuove prospettive di ricerca anche al di fuori del campo strettamente filosofico, in molte discipline e pra-
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tiche sociali: dalla psicologia clinica all’organizzazione aziendale, dalla sociologia all’antropologia, dalla formazione degli adulti alla pedagogia, dalla medicina alla politica, dall’architettura all’urbanistica… Ma come è potuto accadere? Data una situazione di precarietà accademica, che non sapevamo come si sarebbe risolta, ci siamo dati da fare per aprire tanti dialoghi interdisciplinari. Fra l’altro, è accaduto qualcosa di imprevisto. L’ambiente culturale e professionale italiano era in forte fibrillazione, fra crisi di prospettive consolidate e ricerca di prospettive inedite: qualcosa doveva cambiare e “La sfida” è stata l’occasione. Così è accaduto che Mauro è diventato un punto di riferimento intellettuale soprattutto per psicologi e medici; io invece sono diventato consulente di aziende importanti, grazie all’influenza di Pierluigi Celli e Pino Varchetta, in un momento in cui “il filosofo in azienda” non era certo un’esperienza diffusa. Insomma, è stata una scommessa… Dobbiamo riconoscerlo: negli anni ’80 abbiamo avuto, e anche colto, opportunità impreviste. Il tipo di studi che volevamo intraprendere incontrava allora diversi ostacoli, dovendo andare oltre gli steccati disciplinari e per di più rispetto a ricerche di frontiera: l’accesso alle fonti era condizionato da vincoli significativi, il loro reperimento era più caotico che sistematico. Ma è proprio questa situazione che ci ha ancor più motivato a continuare a studiare, raccogliere quantità enormi di materiali, in grande ridondanza, e “buttare giù” idee… Questi materiali trovarono, alla fine degli anni ’80, da parte di Mauro, una prima rielaborazione in due testi molto importanti: Il vincolo e la possibilità12 e La danza che crea. Evoluzione e cognizione nell’epistemologia genetica13. Certo, non possiamo dimenticare il ruolo cruciale che ebbe per noi l’editore Feltrinelli: non basta, infatti, scrivere un libro e trovare un editore disposto a pubblicarlo. In quegli anni, in Italia, alcuni editori si davano il com12 M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, Feltrinelli, Milano 1986. 13 M. Ceruti, La danza che crea. Evoluzione e cognizione nell’epistemologia genetica, Feltrinelli, Milano 1989.
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pito, meglio la responsabilità, della diffusione e della promozione della cultura. “Facevano” (la) cultura. L’editore Feltrinelli decise di scommettere sulla cultura della complessità, promuovendo il nostro lavoro per molti anni. Ed è stato all’inizio un vero azzardo. Mi piace qui ricordare la passione culturale e l’energia creativa di Inge Feltrinelli, ma anche dei direttori editoriali Franco Occhetto e Sandro D’Alessandro…. Uno strumento molto potente per fare emergere e fare conoscere il pensiero della complessità, in Italia e non solo, è stata l’intensa attività organizzativa profusa in quegli anni. Ci riferiamo, in particolare, ai convegni internazionali, capaci di riunire e far convergere, sui temi e sui problemi più diversi, una comunità scientifica internazionale e transdisciplinare non solo di altissimo profilo, ma anche inedita: concepire e organizzare le relazioni fra discipline e saperi è stato possibile attraverso l’organizzazione di relazioni fra persone e fra istituzioni. Questo non è semplicemente fare ricerca. È fare politica culturale. È vero, la capacità di Mauro di tessere relazioni e costruire ponti fra le istituzioni culturali, come fra i saperi, e soprattutto fra le persone, ha nel tempo reso possibile la nascita di una comunità intellettuale transdisciplinare internazionale. Oltre a La sfida della complessità e L’altro Piaget, infatti, dobbiamo ricordare – solo per citarne alcuni – Physis: abitare la Terra (Firenze, 1986); Gregory Bateson e l’ecologia della mente (Milano, 1990); Biology as a basis for design (a Perugia, con il Centro di Scienze cognitive diretto da Mauro grazie alle straordinarie iniziative di Svedo Piccioni), Evoluzione e conoscenza. L’eredità dell’epistemologia genetica di Jean Piaget (Bergamo, 1990); Le Radici prime dell’Europa (Milano, 1999), Le origini della scrittura (Milano, 2000), SpoletoScienza (per iniziativa di Lorena Preta e Pino Donghi)… È stato un modo fecondo e creativo di fare cultura, attraverso la tessitura di relazioni e l’attivazione di intensi dialoghi. Da questo punto di vista, un altro strumento estremamente efficace e rilevante sono state le riviste che Mauro ha creato e diretto negli anni ’80 e’90: La casa di Dedalo (con Giovanni Accame), Oikos (con Enzo Tiezzi) e Pluriverso.
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Intorno a queste attività, si è andata formando anche una vera e propria comunità di colleghi e amici, molti dei quali sono presenti in questo volume. Possiamo dire che la vostra amicizia e il vostro sodalizio intellettuale sono fioriti rapidamente, portando frutti per voi inattesi, certo in un contesto favorevole ad accoglierli, e continuamente nutriti da una molteplicità di relazioni straordinarie… Le nostre “diversità” ci hanno aiutato. Mauro riesce a lavorare al massimo delle possibilità partendo da vincoli molto stretti, perché vuole vedere, attraverso questi vincoli, fin dove può arrivare. Ad esempio, conosce bene i limiti della scrittura, ma vuole saggiarne le possibilità. In un certo senso vuole provare a tirare i margini per vedere a che punto possono strapparsi. Mauro ha bisogno di vincoli per agire creativamente. Io ho bisogno del caos, ho bisogno di naufragare… Qui possiamo riconoscere una differenza nel nostro approccio. Io più studio, meno trovo importante finalizzare lo studio alla scrittura. Per Mauro, invece, la finalizzazione alla scrittura è molto importante. In me prevale una forma arcaica di oralità: poi posso recuperare il rapporto con la scrittura in forma di gioco, ma in un secondo tempo. Mauro ha una capacità straordinaria di far lavorare i vincoli per agire creativamente. Queste diversità riflettono due modi di abitare il limite, nella sua ambiguità fra apertura e chiusura. Certamente non si è trattato solo di assecondare attitudini “naturali”, ma abbiamo investito molte energie e lavorato assiduamente. Mauro incarna per me l’immagine del filosofo, dell’intellettuale critico. Io, invece, penso di essere più “postmoderno”, in-disciplinato, e nell’attività intellettuale ho bisogno della dimensione del gioco. Ci siamo anche molto divertiti a fare interagire le nostre diversità… Con i rivolgimenti storici della fine degli anni ’80 e dell’inizio degli anni ’90, la storia e la politica irrompono sulla scena della vostra riflessione, imponendo un’importante deviazione e al contempo, potremmo dire, anche un suo allargamento. È in quegli anni,
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infatti, che il vostro programma di ricerca prende corpo in una più ampia antropologia evolutiva e complessa. Questo ampliamento di prospettiva trova sintesi nel volume Origini di storie14. Abbiamo sempre avuto una grande passione per la storia, ma non ci era chiaro come integrare la storia del XX secolo e la storia dell’Europa moderna con la riflessione filosofico-scientifica. Quello che è accaduto negli anni 1989, 1990, 1991, ci ha dato la possibilità di realizzare un’esperienza di profonda integrazione dei saperi. Dal materiale accumulato negli anni ’80, dal suo caos generativo, emerse Origini di storie. La sua genesi è, in un certo senso, una risignificazione di un patrimonio di ricerche, di letture e materiali accumulati in quegli anni… Potremmo dire che le vicende storiche tra il 1989, con il crollo del Muro di Berlino, e i primi anni ’90, con lo scoppio delle guerre jugoslave, sono entrate nelle nostre biografie personali e scientifiche. Sono stati per noi dei casi esemplari, a partire dai quali dare ulteriore respiro alla riflessione sul tema delle discontinuità storiche, con l’obiettivo di costruire un dialogo fecondo fra la storia della scienza e l’evoluzionismo, da un lato, e, dall’altro, la storia del XX secolo. La caduta del Muro di Berlino e le guerre nei Balcani ci hanno offerto importanti elementi di riflessione per sistematizzare la nostra riflessione epistemologica sul carattere non predeterminabile della storia, sulla sua irriducibilità a qualsivoglia schema semplificante di lettura, ma anche sulla stratificazione complessa degli eventi storici. Nel vostro lavoro, si delinea uno sguardo inedito e attento alla dimensione storica e, nello stesso tempo, alla dimensione epistemologica. La storia è per voi “maestra di epistemologia”. In realtà, dobbiamo soprattutto a Edgar Morin questa interpretazione della storia quale “maestra di epistemologia” e, in particolare, di epistemologia della complessità. Già ben prima del 1989, Morin aveva saputo, infatti, porre l’attenzione sulla non predeterminabilità della storia, sul suo essere fonte di sorprese continue, laboratorio privilegiato per l’elaborazione di un’epistemologia complessa. Il 14 G. Bocchi, M. Ceruti, Origini di storie, Feltrinelli, Milano 1993.
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suo testo Per uscire dal ventesimo secolo15, pubblicato nella sua prima edizione in francese nel 1981, ci aveva molto colpiti. È stato un testo profetico: quando lo scrisse, pervaso da un profondo scoramento rispetto alle vicende sovietiche, affermava di “non aspettarsi più niente da Mosca”… Tuttavia, dal testo affiorava anche la speranza che le cose potessero cambiare e che l’andamento della storia potesse smentire le sue attese. Poi arrivò Gorbaciov… Ecco, credo che Morin abbia trasmesso a noi, all’epoca giovani ricercatori, questa attitudine a guardare alla storia come maestra di epistemologia della complessità. Cerchiamo, attraverso i nostri studi, di analizzare il mondo, ma non dobbiamo dimenticare che ogni nostra interpretazione ha dei limiti e che il mondo assumerà configurazioni inedite e inaspettate che ci sorprenderanno sempre. In questa prospettiva, in un libro del 1991, scritto proprio con Edgar Morin, Un nouveau commencement (uscito in Italia con il titolo: L’Europa nell’era planetaria16), avete inteso comprendere come la fine del comunismo non corrispondesse alla fine della storia, bensì a un nuovo inizio della storia, in cui né un “futuro radioso” né il progresso sarebbero stati più pensabili come garantiti da qualsivoglia legge della storia… Sì. Proprio tale perdita di un futuro garantito da presunte leggi della storia avrebbe potuto costituire la condizione per un “nuovo inizio” della storia, e per ripensare la nostra condizione inedita alle soglie del nuovo millennio… Peraltro, dalle grandi speranze del 1989, si sarebbe rapidamente giunti alle paure e all’orrore del 1990 e del 1991, segnati dalla guerra, dai nuovi nazionalismi, dalla crisi economica dell’Est… È qui che emerge con chiarezza un altro tema che già avevate posto al centro della vostra riflessione, il ruolo dei modelli e delle teorie nell’interpretazione del mondo e della storia.
15 E. Morin, Pour sortir du XXe siècle, Seuil, Paris 1981. 16 G. Bocchi, M. Ceruti, E. Morin, Un nouveau commencement, Seuil, Paris 1991; L’Europa nell’era planetaria, Sperling & Kupfer, Milano 1991.
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È importante riconoscere che, da un lato, dobbiamo cercare di capire il mondo attraverso l’elaborazione di modelli, teorie e linguaggi; dall’altro lato, dobbiamo saper riconoscere che arriveranno inevitabilmente momenti in cui le vicende storiche del mondo traboccheranno oltre questi modelli e queste teorie. Ecco, i grandi cambiamenti del mondo alla fine degli anni ’80 ci hanno consentito di vedere concretarsi nella storia umana le riflessioni epistemologiche che avevamo condotto riguardo all’imprevisto, al caso, alla possibilità, alla sorpresa nell’ambito delle scienze della natura e in particolare delle scienze dell’evoluzione. In questa prospettiva, abbiamo inteso delineare un grande quadro concettuale attraverso cui ricostruire e interconnettere le molteplici storie disvelate dagli sviluppi delle scienze evoluzionistiche post-darwiniane: storie dell’universo, storie della Terra, storie della vita, storie della specie umana e delle sue culture. Nel nostro libro Origini di storie abbiamo messo in evidenza come ogni storia rechi in sé tracce di altre storie, di trame intrecciate e coerenti, di conflitti e tensioni, di molteplici possibilità alternative; abbiamo voluto mostrare come nella coevoluzione di vincoli e possibilità, nell’aggrovigliato intreccio fra regole ed eventi, fra leggi e contingenze si siano generate le discontinuità nelle storie evolutive dell’universo, della vita, delle specie, delle civiltà. Abbiamo cercato di delineare un’immagine della storia come un insieme, non statico e predeterminato, di possibilità evolutive: un’immagine della storia secondo la quale l’universo del possibile si rigenera ricorrentemente, in modo discontinuo e imprevedibile. Dunque, potremmo dire che gli eventi storici che hanno profondamente cambiato il mondo alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90 hanno contribuito alla definizione di un altro tema che attraversa, come un filo rosso, tutta la vostra riflessione filosofica e scientifica: il rapporto tra continuità e discontinuità nel cambiamento. I cambiamenti intercorsi alla fine degli anni ’80, non solo attraversando le nostre biografie personali e come cittadini europei ma anche toccandoci profondamente come studiosi, hanno dato una spinta significativa alla nostra riflessione sul rapporto fra continuità e discontinuità nei processi storici. A questo proposito, grande
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influenza ebbero su di noi le elaborazioni teoriche di Stephen Jay Gould e Niles Eldredge (con la loro teoria degli equilibri punteggiati), alle quali arrivammo, anche in questo caso, grazie a Jean Piaget, che, come ho ricordato, fu decisivo nell’avvicinarci allo studio dell’evoluzione biologica. Abbiamo così individuato nella nozione di cambiamento un nodo problematico multidisciplinare, che ha accompagnato la nostra riflessione epistemologica fino ad oggi. Questa riflessione sulla relazione fra continuità e discontinuità nel cambiamento ha avuto un impatto significativo sui successivi sviluppi dei vostri studi sulle identità complesse, attraverso i quali avete elaborato una concezione non essenzialistica, ma coevolutiva delle identità umane, culturali e sociali, come generate da processi storici attraverso contingenze e vincoli ambientali, meticciati e ibridazioni, colonizzazioni e scoperte, coevoluzioni singolari fra popolazioni ed ecosistemi, e ramificazioni imprevedibili. In particolare, “banco di prova” per la vostra riflessione sulle identità complesse è stata una rilettura critica delle identità nazionali. Dopo il 1989, si è riproposta una questione che sembrava essere stata superata o risolta a metà dell’Ottocento: la questione di che cosa fosse una Nazione. Tale questione è stata riproposta sia dalle spinte nazionaliste, che caratterizzavano l’Europa centro-orientale e l’Europa tutta di quegli anni, sia da una rinnovata riflessione sulla storia europea. In quel momento, l’epistemologia della complessità, che avevamo vista emergere nell’ambito delle scienze della natura e delle scienze biologiche, si è rivelata la cornice privilegiata per affrontare i temi delle identità nazionali e, dunque, i temi dei confini e dei nazionalismi. La vostra riflessione presenta certamente affinità con quella di molti storici e politologi degli ultimi trent’anni, ma si caratterizza anche per una particolare piegatura, che viene dai vostri studi nell’ambito della filosofia e della storia della scienza e che vi ha portati a delineare una visione costruttivistica delle identità nazionali. Adottare una prospettiva costruttivistica significa evitare sia una visione “perennialista” delle identità nazionali, come fossero
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lì da sempre e si replicassero sempre uguali a se stesse nel tempo, sia una visione “modernista”, per la quale le identità nazionali sarebbero un’invenzione della modernità e, dunque, da intendersi come subordinate al processo di modernizzazione. La storia dell’Europa e del mondo è caratterizzata da diversi e molteplici tempi storici, abitati da diverse comunità generate da lingue, storie e tradizioni. Su questa base, nell’Ottocento e nel Novecento, sia in Europa che nel resto del mondo, sono state costruite, “inventate” e narrate, per le più diverse finalità politiche e culturali – ora liberatorie, ora aggressive e autoritarie – diverse identità nazionali. Spesso i politici hanno usato – in modi più o meno consapevoli, in modi più o meno rozzi o raffinati – sentimenti di identificazione e appartenenza, alimentati attraverso narrazioni selettive, per creare consenso… Nel solco di questa riflessione si collocano i vostri lavori sull’Europa. L’occasione della Guerra nei Balcani e la pubblicazione di L’Europa nell’era planetaria (scritto con Edgar Morin) e di Solidarietà o barbarie. L’Europa delle diversità contro la pulizia etnica17 hanno inaugurato una lunga riflessione sull’Europa, che è poi proseguita fino ad oggi (Le radici prime dell’Europa18; Una e molteplice. Ripensare l’Europa19; La nostra Europa20, scritto da Mauro con Edgar Morin e Il tempo della complessità21, di Mauro). Dobbiamo ricordare che, negli anni in cui Mauro ed io ci siamo formati, l’Europa era divisa. Tale divisione era all’origine di una grande ignoranza riguardo alla storia dell’Europa centro-orientale, così come di una forte distanza dall’idea di una storia europea comune. Gli eventi del 1989 hanno consentito che questa distanza iniziasse a essere colmata, perché hanno mostrato come le radici 17 G. Bocchi, M. Ceruti, Solidarietà o barbarie. L’Europa delle diversità contro la pulizia etnica, Raffaello Cortina, Milano 1994. 18 G. Bocchi, M. Ceruti, Le radici prime dell’Europa. Gli intrecci genetici, linguistici, storici, Bruno Mondadori, Milano 2001. 19 G. Bocchi, M. Ceruti, Una e molteplice. Ripensare l’Europa, Tropea, Milano 2009. 20 E. Morin, M. Ceruti, La nostra Europa, Raffaello Cortina, Milano 2013. 21 M. Ceruti, Il tempo della complessità, Raffaello Cortina, Milano 2018.
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storiche delle attuali configurazioni degli scenari europei fossero rintracciabili nei molteplici eventi di incontro, scontro e cooperazione avvenuti attraverso la storia. Dunque, è così che si è arrivati, dopo il 1989, a una sorta di “riscoperta dell’Europa”… Gli eventi della fine degli anni ’80 e dei primi anni ’90 hanno consentito di riscoprire la storia europea nella sua complessità, cioè nell’intreccio irriducibile delle sue vicende e delle sue molteplici dimensioni. Hanno consentito di mettere in discussione l’adeguatezza della nozione di identità statica ed essenzialista tradizionalmente applicata agli stati, alle nazionalità, alle etnie, alle regioni, alle comunità locali, nozione che intende i confini come barriera che separa dall’altro da sé. Gli eventi storici che stavano segnando l’Europa ci hanno offerto l’opportunità per ricostruire la storia delle identità, delle nazioni e dei territori europei mostrandone la complessa trama coevolutiva, le loro molteplici sovrapposizioni, l’intrecciata coesistenza di diversità all’interno di collettività che ambiscono a definire una propria identità unitaria. È così che nei nostri lavori sull’Europa, a partire da Solidarietà o barbarie, abbiamo cercato di mostrare come le nazioni europee siano intessute di diversità che costituiscono la loro stessa identità, e come esse siano il risultato di sintesi spesso tormentate fra radici eterogenee e memorie stratificate di passati prossimi e remoti. In questa prospettiva, pensare la storia d’Europa ha significato per noi mostrare la dialettica ancora oggi in atto fra processi di omogeneizzazione e processi di diversificazione, elaborando una nozione di confine come membrana che consente di filtrare le differenze e di comunicare grazie alle differenze. Per tale via, a partire da quegli anni, l’Europa si rivela essere un contesto particolarmente stimolante per dare corpo alla nozione di unitas multiplex, che è centrale nella vostra visione filosofica della complessità. L’Europa è un laboratorio privilegiato per l’esercizio di un pensiero complesso. L’epistemologia della complessità ci ha permesso
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di rileggere l’identità europea come unitas multiplex – vale a dire come una identità relativamente unitaria, ma processuale e continuamente frutto di contatti e ibridazioni fra diversità, e anche di costanti tensioni, che possono sfociare in vere e proprie fratture. E ci ha permesso anche una reinterpretazione delle relazioni fra l’Europa e il resto del mondo (penso, ad esempio, al Mediterraneo e all’Atlantico). In questo senso, sostenete che ogni storia d’Europa è anche, necessariamente, una storia globale. L’attenzione che abbiamo dedicato all’Europa ci ha offerto una prospettiva per accostarci alla storia globale: come non si possono tracciare limiti spaziali e temporali rigidi nella storia europea, così la storia europea non può essere isolata dalla storia del Vecchio Mondo, e questa, a sua volta, dalla storia globale. Per sentirci cittadini europei, per capire “casa nostra”, ovvero l’Europa, non possiamo esimerci da un tentativo di comprensione del mondo, così come la storia globale non può prescindere dal riferimento alla storia europea: si richiamano a vicenda, in una serie di rimandi senza fine. Così, una rilettura complessa delle identità e delle appartenenze nazionali ci ha condotto a riconoscere la costitutiva incompiutezza di ogni cultura, l’irriducibile molteplicità delle culture e ciò nondimeno, e anzi proprio per ciò, la possibilità di una concezione unitaria della storia umana globale. Soprattutto, ci ha portato a riconoscere che incompiutezza della storia umana significa che gli esiti futuri di ogni processo storico non sono iscritti di necessità nelle singole e attuali forme di espressione della natura umana. Essi dipendono, certo, dai vincoli della storia passata, ma anche dalle scelte presenti; l’umanità non è un destino, ma una reinvenzione continua; le identità nazionali non sono un “castigo”, e non sono inevitabilmente all’origine degli atteggiamenti di chiusura dei nazionalismi, ma possono essere ripensate in una prospettiva relazionale, nelle loro interazioni complesse con le identità locali così come con le identità globali. Per questo pensiamo che ci sia bisogno di mettere in atto un grande progetto educativo, per educare alla complessità. E a questo progetto Mauro in particolare ha dedicato energie, pensieri, azioni.
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Le prospettive aperte da un’epistemologia e un’antropologia complesse vi hanno portato a riflettere sulla necessità di una riforma dei progetti educativi nell’età della globalizzazione. A questo proposito, il vostro volume Educazione e globalizzazione22 e diversi testi pubblicati da Mauro negli anni su importanti riviste di pedagogia hanno suscitato un ampio dibattito pedagogico e politico. All’inizio degli anni duemila, abbiamo posto in primo piano il paradosso che contraddistingue e paralizza ancora oggi le istituzioni educative, dai livelli iniziali ai livelli superiori della scolarizzazione. Da una parte, tali istituzioni continuano a essere fondate sulla separazione e sulla frammentazione dei saperi e delle modalità della loro trasmissione e finiscono per trasmettere un’idea statica delle conoscenze; dall’altra parte, tuttavia, i saperi contemporanei proliferano con ritmi sempre più accelerati e si presentano come sempre più interdipendenti. Come Mauro ha più volte scritto, la frammentazione delle informazioni, delle esperienze e dei saperi è il maggiore ostacolo alla formulazione e alla comprensione dei problemi, perciò la scuola deve promuovere la capacità di dare senso alla varietà delle esperienze, scolastiche ed extrascolastiche, la capacità di ricomporre la frammentazione delle informazioni e dei saperi, e soprattutto la capacità di interconnettere molteplici esperienze diverse; e ciò al fine di favorire sia la capacità di apprendere ad apprendere, sia l’acquisizione di un’attitudine interdisciplinare. Proprio in questo senso possiamo interpretare l’impegno assiduo e lungamente profuso da parte di Mauro, per riformare la scuola e per formare gli insegnanti della scuola di ogni ordine e grado a un vero e proprio cambio di paradigma. Pensiamo alla sua scelta di intraprendere esperienze politiche istituzionali, quando è stato Presidente della Commissione Nazionale del Ministero della Pubblica Istruzione per la stesura delle Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione, e poi quando è stato Senatore della Repubblica. Al cuore dell’impegno politico di Mauro c’è da sempre la scuola: perché in una società lacerata al 22 G. Bocchi, M. Ceruti, Educazione e globalizzazione, Raffaello Cortina, Milano 2004.
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suo interno e impoverita dalle molteplici crisi che l’attanagliano, la scuola è la risorsa principale proprio per uscire dalle crisi stesse. Ma, sostiene Mauro, per cambiare la scuola serve il cambiamento di paradigma delineato dall’epistemologia complessa. La nuova condizione umana globale richiede oggi una cultura che sappia integrare i saperi in modo fecondo, e richiede prospettive culturali in cui i saperi umanistici siano collegati in modo profondo con i saperi scientifici e tecnologici. È in questo orizzonte che Mauro da tempo sostiene che oggi è soprattutto indispensabile che la scuola ponga al centro delle sue finalità l’insegnamento della condizione umana, cioè l’insegnamento transdisciplinare di tutto ciò che è necessario per vivere il continuo incontro con la diversità dei saperi e delle culture. I grandi oggetti della conoscenza (universo, specie, Terra, storia, umanità, cultura…) e i grandi problemi del nostro tempo (energia, clima, pace, povertà, sviluppo…) esigono, infatti, sia l’articolazione di diversi punti di vista disciplinari, sia il confronto tra molteplici punti di vista culturali. Entro questa elaborazione di una pedagogia della complessità ha avuto un ruolo importante l’istituzione all’inizio degli anni duemila, presso l’Università di Bergamo, del Centro di Ricerca sulla Complessità (CERCO) nonché della connessa “Scuola di dottorato in Antropologia ed Epistemologia della Complessità”, in cui le nostre storie si sono incontrate. A questo proposito, vorrei fare riferimento a una questione con la quale ci siamo confrontati continuamente nel nostro lavoro: mi riferisco al carattere strutturalmente e rigidamente disciplinare dell’istituzione universitaria moderna, che, in questa forma, è nata, si è consolidata producendo nel tempo importanti risultati, e così continua a funzionare. Questo carattere dell’università finisce, poi, per essere incorporato da coloro che vi lavorano. Mauro ed io abbiamo sentito l’esigenza di aprirci a prospettive transdisciplinari, o come io amo dire, “post-disciplinari”. Per entrambi è sempre stata forte l’esigenza di uscire dai “quadri statici” delle discipline, e l’istituzione del CERCO e della “Scuola di dottorato in epistemologia e antropologia della complessità” ci ha offerto una pos-
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sibilità importante per mettere in atto questa prospettiva sul piano formativo, e per sconfinare tra le discipline. Abbiamo coinvolto un Comitato scientifico internazionale che incarnasse tale progetto di ricerca. C’erano Edgar Morin, Edgar Assis Carvalho, Luca Cavalli Sforza, Niels Eldredge, René Girard, Ralph Grillo, Tim Ingold, Predrag Matvejevic’, Raúl D. Motta, Immanuel Wallerstein. In questa impresa, mi piace ricordare il contributo decisivo, per visionarietà e per dedizione, di Matilde Callari Galli, interprete di un’antropologia complessa della contemporaneità, che è stata instancabile e appassionata promotrice delle attività di ricerca e di didattica della Scuola di Dottorato. È stata una sorta di “oasi” di transdisciplinarità nel sistema accademico. Il CERCO e la Scuola di Dottorato sono stati esempi di “buone pratiche” di transdisciplinarità dentro all’istituzione accademica: sono stati l’occasione per promuovere la formazione di ricercatori provenienti da percorsi molto diversi, ma in grado di convergere su tale prospettiva. D’altra parte, lo stesso progetto dei corsi di laurea in Scienze dell’educazione e in Psicologia dell’Università di Bergamo era stato connotato da Mauro, allora Preside di Facoltà, in senso chiaramente interdisciplinare e transdisciplinare. Abbiamo vissuto quella stagione come una specie di “fuga nel futuro”, attraverso la quale costruire “dentro” all’istituzione accademica occasioni inedite, volte a generare un terreno fecondo di ibridazioni non solo fra discipline, ma anche fra percorsi di ricerca individuali e di gruppo. Abbiamo voluto mostrare che la cultura non può che essere frutto dell’incontro e dell’intreccio di linguaggi, metodi e percorsi diversi. È stato come immaginare l’università come “pluriversità”, come luogo di connessione e ibridazione fra i saperi. Certo, purtroppo questo progetto di “pluriversità” è stato sperimentato solo per i pochi anni della Presidenza di Mauro. La piegatura pedagogica della vostra riflessione e la proposta di riforma dell’educazione che ne consegue, così come le istituzioni cui avete dato vita manifestano la valenza costitutivamente politica che la proposta di un’epistemologia complessa dischiude.
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La complessità, nella prospettiva delineata da Mauro, è una sfida al pensiero, una sfida epistemologica, che non può che connotare il dominio antropologico, etico, sociale e politico: diviene la sfida chiave per il pensiero politico, per l’azione politica. L’epistemologia complessa è di per sé progetto. È già capacità trasformatrice del presente. È già politica. Questo progetto educativo, etico e politico trova ulteriore fioritura nei suoi lavori degli ultimi anni – Il tempo della complessità, Abitare la complessità23, Sulla stessa barca24, Il secolo della fraternità25 – e ci restituisce l’idea di un’avventura creativa e ancora tutta da giocare, di un cantiere aperto in cui in tanti siamo ancora chiamati a operare… Ecco, proprio la creatività è il filo rosso che attraversa la biografia personale, scientifica, culturale e politica di Mauro. Creatività intesa come capacità di “deuteroapprendimento”, secondo l’espressione di Gregory Bateson, come capacità di riformulare il tipo di domande e non solo le risposte a domande consolidate, e anche come straordinaria capacità di rigenerare nei contesti che incontra in un tempo difficile come il nostro, nel quale prevalgono frammentazione e disordine, relazioni di “amicizia” fra persone, fra saperi, fra istituzioni…
23 M. Ceruti, F. Bellusci, Abitare la complessità.La sfida di un destino comune, Mimesis, Milano-Udine 2020. 24 M. Ceruti, Sulla stessa barca, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2020. 25 M. Ceruti, F. Bellusci, Il secolo della fraternità. Una scommessa per la Cosmopolis, Castelvecchi, Roma 2021.
Umberta Telfener*1
UN GRUPPO DI “CARBONARI” CHE PROVANO A PENSARE INSIEME, A PENSARE COMPLESSO
Vediamo ciò in cui crediamo. Heinz von Foerster
Mi ricordo quando l’ho incontrato la prima volta. Eravamo a Città di Castello, era il 1980 a un convegno organizzato dal Professor Carlo Manuali – guru dell’antipsichiatria umbra. Sono inviata del Corriere medico, inserto del Corriere della sera, giovane psicologa appena tornata dagli Stati Uniti, molto confusa sul da farsi malgrado una formazione condotta nelle cattedrali sistemiche americane con i più bravi clinici: Salvator Minuchin, Jay Haley, Bralio Montalvo, Harry Aponte, Lynn Hoffman, Carl Whitaker e altri. Arrivo in ritardo, non mi sono informata del programma, eppure appena ascolto le relazioni di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti e quella di Aldo Giorgio Gargani capisco cosa voglio fare da grande. Vengo folgorata dal concetto di “epistemologia”, di punto di vista, di perdita della neutralità, di responsabilità personale. Per la prima volta mi pongo il problema delle premesse, della cultura e del possibile cambiamento paradigmatico della scienza, che diventeranno temi cardine dei miei studi futuri. Acquisirò nel tempo l’abitudine a riflettere sulle consuetudini di pensiero. La proposta è quella di rinunciare a un osservatore astratto e disincarnato, di rifiutare una struttura mentale nella quale i fatti diventano fatti solo se creati in modalità sperimentale – da isolare e sottrarre al gioco delle interconnessioni e dei contesti. L’epistemologia genetica di Jean Piaget è la proposta operativa di Mauro, che lavorava ai tempi all’Università di Ginevra, nella Facoltà di Psicologia e Scienze dell’Educazione. Il suo *1 Didatta del Centro Milanese di Terapia della Famiglia; Presidente dell’European Family Therapy Associacion (EFTA).
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pensiero mi permette di entrare in contatto con un gruppo di “carbonari” che spacciano la sistemica e provano a pensare insieme, a pensare complesso: contestualizzano, definiscono nel tempo, mettono insieme gli elementi, si incuriosiscono, si mostrano irriverenti, dubitano, prendono in considerazione mille piani diversi. Ripenso al 1983 e ai personaggi incontrati nel ciclo di conferenze “La sfida della complessità1” organizzate sempre da Mauro e Gianluca, da Gianluca e Mauro. Il tentativo è quello di introdurre l’epistemologia della complessità a un pubblico più vasto, di aprire le porte alle possibilità, di onorare i luoghi della narrazione. È lì che incontro per la prima volta Heinz von Foerster, mio futuro mentore e amico. Mi ricordo una sera passata con Mauro girando per Milano a cercare ristori aperti per dar da mangiare al relatore, che mangiava davvero spesso. Mi ricordo lo stupore di realizzare che le scienze sono tutte connesse tra loro, che la transdisciplinarità – come sostiene il comune amico Alfonso Montuori – si preoccupa del rapporto creativo tra soggetto e oggetto, tra teorie e azioni e si adatta alla complessità della vita attuale, rispettando il ruolo dei valori nella ricerca anziché tentare di silenziarli. Ripenso al 1985-86 quando ci incontravamo a Milano per organizzare la cura del libro Sistemi che osservano, avendo in mano gli scritti di von Foerster e dovendo decidere come assemblarli per farli conoscere al pubblico italiano, come commentarli per farli apprezzare agli operatori della mente e non solo. Il libro è poi uscito per Astrolabio nel 1987, con due prefazioni, una di Mauro più epistemologica e una mia, legata alla psicoterapia2. In essa sottolineo l’utilità di tradurre nel linguaggio terapeutico concetti e idee esterne ad esso in modo da proporre rimandi non protetti da un sapere precostituito, per approfondire il pensiero e far acquistare al processo 1
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Partecipanti: Henri Atlan, Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti, Donata Fabbri Montesano, Heinz Von Foerster, Luciano Gallino, Ernst Von Glasersfeld, Brian C. Goodwin, Stephen Jay Gould, Hermann Haken, Douglas R. Hofstadter, Ervin Laszlo, Jean-Louis Le Moigne, James E. Lovelock, Edgar Morin, Alberto Munari, Gianfranco Pasquino, Karl Pribram, Ilya Prigogine, Isabelle Stengers, Francisco J. Varela, Milan Zeleny. Gli interventi sono raccolti nel volume: G. Bocchi, M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1985. M. Ceruti, U. Telfener (a cura di), Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma 1987.
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clinico una nuova forma. In modo da uscire dall’inconsapevolezza e dagli automatismi e acquisire una posizione autoriflessiva per porci nuove domande. Non dimentico i seminari a Perugia nel 1986-88, organizzati da Mauro per gli operatori medici e psichiatrici, e in particolare gli incontri Biology as a basis for design con la Lindisfarne Association3. Il mondo clinico perugino – città dove ho vissuto dai miei cinque ai diciotto anni – lo ha spremuto come un limone, lui con il suo sorriso sornione sembrava affascinato dall’affascinarli. Ogni volta che parla sembra di ascoltarlo per la prima volta: mi trovavo di fronte a un complicatissimo puzzle e lui aggiungeva ogni volta un tassello che mi permetteva di comprendere meglio l’immagine generale, per fare il salto dall’ordine alla possibilità del disordine. Mauro raccontava idee cui ormai mi consideravo alfabetizzata con una passione che noi ascoltatori condividevamo con lui, vibrando insieme. I suoi interventi aggiungevano sempre qualcosa alla prospettiva che ci faceva vedere il mondo in maniera diversa, che ci faceva partecipare agli accadimenti sempre indagando il nostro posizionamento. Non posso non citare Spoletoscienza, con la Fondazione Sigma-Tau e il Festival dei Due Mondi inventato da Carlo Menotti. Il ciclo di conferenze “Che cos’è la conoscenza”4, coordinate da Lorena Preta e da Pino Donghi. Era il 1990. Mi ricordo che si andava in giro per la bellissima cittadina umbra sentendosi dei rivoluzionari, ci si incontrava in piazza il Duomo e si discuteva a lungo sulle idee e sulle loro possibili applicazioni, con il bel Francisco Varela (e sua moglie psicoanalista, che percepivo come “severa”) che saliva “naturalmente” in cattedra, anche semplicemente seduto sui gradini che degradano verso la Cattedrale. Ricordo alcune riviste, La Casa di Dedalo. Pratiche, immagini, stili dell’arte e della conoscenza, di cui è stato direttore insieme 3
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Perugia,16-18 maggio 1988. Partecipanti: Mauro Ceruti, Ricardo Guerrero, Carl Hodges, Wes Jackson, Antonio Lazcano, James Lovelock, Lynn Margulis, Susan Oyama, Robert Schwartz, Evan Thompson, William Irwin Thompson, John Todd, Nancy Todd, Francisco Varela, William Wood Prince, Arthur Zajonc. Spoleto, 1-2 Luglio 1989. Partecipanti: Mauro Ceruti, Francesco Corrao, Heinz Von Foerster, Aldo G. Gargani, Edgar Morin, Lorena Preta, Francisco J. Varela, Gianni Vattimo.
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a Giovanni Accame (1983, Casa Editrice Maccari, Parma); Oikos, rivista quadrimestrale per un’ecologia delle idee, nata nel 1990 (co-direttore Enzo Tiezzi, Pierluigi Lubrina Editore, Bergamo) e l’iniziativa Gregory Bateson e l’ecologia della mente organizzata dalla rivista in compartecipazione con la Sigma-Tau. Infine, Pluriverso. Biblioteca delle idee per la civiltà planetaria (Rcs, Milano 1995-2001). Tutte e tre raccoglievano e proponevano l’arte del viandante, del cercatore di indizi, al fine di esplorare itinerari trasversali: una ricombinazione del sapere, un’ibridazione e una circolarità di nuovi nessi; una convergenza di più discipline scientifiche, filosofiche e artistiche in ottica di interdipendenza. Mauro ha sviluppato e ha divulgato un’epistemologia e non ha mai smesso di diffonderla, sottolineandone i vantaggi come strumento generativo e adattativo; si è interrogato sulla conoscenza come pratica attiva e incorpata, trasformativa e creativa. Suggerisce di acquisire consapevolezza su come le domande vengono poste e a quali processi le risposte diano origine. Il suo mondo è un mondo co-evolutivo, in cui si pone come colui che descrive situazioni di complessità e incertezza, senza assumere il ruolo dello specialista. Cavalca una posizione etica senza mai parlarne esplicitamente: offre invece un punto di vista e fa una proposta educativa definita, sfidando i presupposti e i problemi per come vengono presentati usualmente. Tratta i problemi in termini multi-causali, interdipendenti, mettendo tra parentesi il concetto stesso di “problema”, per non reificarlo, per ampliare le domande e concentrarsi sulle prassi che hanno fatto emergere quella difficoltà e non un’altra. In quest’ottica ha scritto le voci Adattamento, Autonomia, Auto-organizzazione, Caso/Necessità, Evoluzione/Co-evoluzione, Ordine/Disordine, Universo/Pluriverso, Vincolo/Possibilità, per il dizionario che ho scritto insieme a Luca Casadio5. Un dizionario epistemologico supervisionato direttamente da Heinz von Foerster, che ha voluto fosse uno strumento per pensare e mi ha chiesto esplicitamente che ogni voce fosse svolta in più modalità non coerenti tra loro, per suscitare dubbio e pensiero, incertezza e dibattito. Se il primo Mauro era un attento epistemologo, molto presto ha associato la storia all’epistemologia, perché la storia dell’umanità, 5
U. Telfener, L. Casadio (a cura di), Sistemica voci e percorsi nella complessità, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
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come un Giano bifronte, ci aiuta a comprendere la natura umana e i processi di conoscenza; perché la conoscenza della storia globale è indispensabile, è un processo di secondo ordine, embricato, interconnesso: lo studio del cambiamento del cambiamento, una esplicitazione nel qui e ora del nostro posto nel mondo. Ha così impostato una visione del mondo ricorsiva in cui la storia ci organizza ed è a sua volta da noi plasmata: ogni evento influenza noi e noi a nostra volta influenziamo l’evento. Ha proposto la costruzione di un sistema osservante e di operazioni di secondo ordine in cui riflettere sulle riflessioni. Un processo di presa di consapevolezza che sembra il prerequisito per afferrare il processo di human becoming – umano in divenire – concetto che von Foerster ha preso in prestito da Martin Buber. Mauro propone la storia come creatrice di forme, che rifiuta le leggi atemporali della natura; cerca le pertinenze in uno spazio, un tempo e un contesto e propone il concetto di emergenza, quando le proprietà dei singoli sistemi complessi non si possono spiegare attraverso la descrizione delle singole parti. Così propone il concetto di “contingenza”, quando i sistemi complessi hanno una storia in senso proprio e attualizzano alcune proprietà, perdendone altre. Suggerisce una visione epica che sostituisce le spiegazioni con la narrazione: le cose sono andate così ma potevano andare in un altro modo e traggono vitalità dalla forza implicativa della narrazione stessa. Ho conosciuto personalmente alcuni testimonial autorevoli di questo cambio paradigmatico – tra gli altri Gregory Bateson, Milton Erikson, Margareth Mead e tanti altri – ma il mio sguardo clinico ed epistemologico lo devo a Mauro Ceruti e a Heinz von Foerster6. Mi hanno insegnato a pensare il mio pensare, a non reificare la realtà che mi viene presentata, ad aprire il pensiero alle possibilità, a onorare il rapporto tra pensiero e prassi, una relazione ineludibile in cui ognuno dei due emerge dall’altro. Mi hanno insegnato a pormi domande insolite, a proporre un’indagine (inquiry) non separata dalle azioni, dalle ricerche correlate, come due lati di una stessa medaglia. A proporre azioni collaborative e collettive come sono state 6
U. Telfener, “Il maestro e il processo cui ha dato origine”, in: Riflessioni sistemiche, rivista online, http://www.aiems.eu/archivio/index.html, n° 25, 2022.
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concertate nel tempo nella danza tra chi le vive, chi le narra e chi le interpreta. Perché chi pensa complesso tenta indefessamente di non farsi catturare da una progettualità stretta, da una strategizzazione mirata quanto piuttosto di aprire a possibili scenari, a disegni auspicabili, a ipotesi plausibili, alle possibilità, al dubbio e all’ambiguità. Mauro nel tempo ha sempre proposto un punto di vista capace di vedere sfide emergenti ma anche opportunità potenziali e di considerarle non solo dalla prospettiva di chi ha il potere ma anche da quella della comunità dei partecipanti. Nel suo percorso professionale ha preso il ruolo del giocoliere che deve tenere in movimento tanti stimoli, senza farli cadere a terra. È un lavoro delicato/sensibile il suo, un’abilità difficile, una competenza straordinaria. Non si può distrarre ma non può neppure focalizzarsi troppo su una sola caratteristica o sul movimento. Ormai lo fa senza pensare, come noi “vecchi” facciamo terapia, sentendola nel corpo e fermandoci solamente quando abbiamo la sensazione che il sistema che ci include non evolve. Le sfere che tiene in aria includono alcuni aspetti emotivi propri della sistemica: – essere centrati, informati, etici e appassionati, contemporaneamente consapevoli della nostra cecità e della nostra ignoranza; – sentirsi coinvolti, parte del campo, partecipi delle scelte che si fanno, attenti alle proprie e altrui premesse; – sentirsi contestualizzati, capaci di fare connessioni senza il bisogno di adattarsi alle circostanze, introducendo il tempo e il suo moto; – processuali, performativi, generativi, creativi, tolleranti del dubbio e dell’ambiguità, capaci di mettere in collegamento dati distanti tra loro, spesso inascoltati. Mi viene in mente il clinico sistemico Steirling, che sosteneva che il pensiero sistemico non si apprende altro che attraverso la pratica. Non può essere insegnato, è necessario agirlo sul campo e concedersi di sbagliare più volte fino a viverlo come l’aria che si respira. Ricordo le prime volte che facevo terapia, uscivo dalla stanza e mi concentravo su quello che avrei potuto fare diversamente e non avevo fatto in maniera coerente agli insegnamenti ricevuti …. senza farmi scoraggiare però, per non perdere la curiosità. Ormai penso complesso anch’io, dopo anni di tentativi ed errori, mi sem-
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bra naturale riflettere sulle mie riflessioni, guardare un evento da più angolature, ragionare sulle conseguenze etiche delle mie scelte. L’idea portante del nostro comune progetto di formazione mi sembra quella di continuare ad educare alla complessità, che è il mandato epistemologico che sento di condividere con Mauro: la necessità di integrare le differenze e contemporaneamente valorizzarle, per la costruzione di un paesaggio adattativo. Esattamente quello che facciamo ciascuno di noi psicoterapeuti della Scuola di Milano: l’assumere contemporaneamente un atteggiamento epico verso gli accadimenti, verso le narrazioni che ci vengono portate, accostandolo ad un atteggiamento politico, etico ed estetico. Perché tutti noi sistemici lavoriamo con l’universo del possibile. Gli articoli, i libri, le conferenze che Mauro propone sono tanti. In uno dei suoi ultimi – Sulla stessa barca7 – parte da un’idea di individuo uno e molteplice (“È fatto di spazi, tempi, linguaggi, culture, prospettive punti di vista eterogenei.”) e descrive la quarta umanità, la prima a essere consapevole di un tempo profondo, una comunità di destino planetaria caratterizzata dall’incompiutezza della sua emergenza e della sua storia, “percorrendo un labirinto di alternative: una necessità cui ci stiamo adeguando, una responsabilità, quella della nostra specie sul proprio destino”. Un libro utile anche a noi “psi” – come tutti i suoi – perché sapere di storia è obbligatorio per comprendere i problemi sociali e psicologici con cui arrivano le persone che proviamo ad aiutare (“L’incontro fra diverse culture sta creando nuove identità”). Perché leggere di epistemologia è un esercizio che dovrebbe essere senza fine e molte delle idee che il libro propone si possono applicare in maniera creativa alla clinica. Perché condividiamo con gli epistemologi l’esercizio di posizionarci e dovremmo condividere tutti la proposta di Mauro di una riflessività ricorsiva sia nel vivere la vita che nel fare terapia. Penso al costruzionismo sociale applicato alla psicoterapia, che – secondo me – ha rinunciato all’epistemologia e per questo è diventato un modello ambito da una pletora di professionisti ingenui, perché “facile”, istruttivo, in cui si pensa che basti che l’operatore entri nel sistema perché il sistema cambi, proponendo un processo 7
M. Ceruti, Sulla stessa barca, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2020.
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triviale che molto condivide e poco modifica. Alla riflessione sulle premesse non si può rinunciare – e Ceruti non si stanca di ribadirlo – così non si può rinunciare ai mille piani della realtà. Penso ai migranti, il nuovo olocausto cui stiamo assistendo inermi e silenti, accomunati da un processo di negazione. Nei suoi ultimi discorsi, Mauro parla di ricerca del bene, di un fine che viene esteso a tutti gli esseri viventi e alla natura. Mi vengono in mente le parole degli shamani che ho incontrato nei tanti viaggi per il mondo in cui tutti, a qualsiasi paese appartengano, insistono sulla necessità che le donne (loro, senza la necessità di mostrarsi politically correct, fanno una scelta di genere) si assumano la responsabilità di salvarlo il mondo, svegliandolo dal torpore che lo sta portando alla distruzione dell’umanità. Mauro attualmente si occupa delle innumerevoli minacce all’umano e ai sistemi ecologici. Considera la ridondanza, il tempo e la varietà, “la cura” verso la vita, gli atteggiamenti che permettono di rendere creativa la formazione, la ricerca, oltre che il processo del vivere. Ci mette in guardia su come la coscienza della complessità non sia penetrata ancora abbastanza nella vita quotidiana, neppure nella scuola, nell’educazione universitaria e tantomeno nella sanità. Pone il problema del dilemma tra i tempi brevi e i lunghi, e il paradosso della tecnologia che organizza gli individui sui tempi brevi, al consumo immediato. Il cambiamento di paradigma è una necessità ormai ineludibile. Sento che insieme a Mauro e molti altri colleghi sistemici abbiamo lottato per più di quarant’anni perché la coscienza e la conoscenza della complessità diventassero un’esperienza condivisa. Una domanda è d’obbligo: perché la cultura in cui viviamo non è riuscita a istituzionalizzare il pensiero sistemico e la complessità che comporta? Solamente perché è differente rispetto al comune uso del pensiero e del linguaggio e perché ci obbliga inderogabilmente ad assumerci le responsabilità per le nostre azioni? Non c’è sicuramente una sola risposta, ma ho la certezza che ringraziare Mauro per il suo lavoro in tal senso è d’obbligo: grazie Mauro per tutto quello che ci hai regalato come memento, stimoli, sfide e proposte! Continuiamo!
Ugo Morelli*1
ELOGIO DEL SEMINATORE
Giovanni Segantini, La propaganda, 1897
Immaginazione anticipativa A lungo, e più volte, mi sono fermato a osservare, riflettendo, La propaganda di Giovanni Segantini. Un’opera del 1897, che esprime, in un linguaggio universale, un episteme originario: quello che comprende semina, nascita e vita. Il gesto disseminatore che prelude al raccolto. Lungo tempo interviene tra la semina e il raccolto. È sfidata la capacità di attendere. Quel time span of discretion, l’intervallo di tempo tra l’intento e l’esito, così impegnativo da contenere. Si sa, *1 Professore di Scienze cognitive applicate alla vivibiltà, al paesaggio e all’ambiente, Università degli Studi Federico II, Napoli.
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più ampia è la capacità di attendere, più elevato può essere l’esito. John Keats avrebbe qualificato come negativa quella capacità, negative capability. Una sera di molti anni fa, andando a riprendere Mauro Ceruti, in una città che conosceva, dove si era ancora una volta smarrito, in ragione del suo nullo senso di orientamento, ci siamo soffermati fino a tardi a riflettere su una questione che abbiamo ripreso più volte. Immedesimandoci con le origini delle nostre storie di specie, tema a lui molto caro, ci chiedemmo quale stupore e quali critiche, quali negazioni e quali sarcasmi, avessero suscitato la prima donna o il primo uomo che, avendo trovato delle spighe di grano riconosciuto ormai commestibile, anziché mangiarlo si fossero disposti a metterlo a dimora nella terra. Quel gesto inaudito, incomprensibile agli altri, eppure capace di contenere l’immediato del principio speranza, per dirla con Ernst Bloch, era folle ad ogni apparenza. Perdere l’occasione di mangiare quei chicchi era incomprensibile per gli altri. Quali inconcepibili esiti si poteva immaginare di ricavare da un gesto simile? Ecco, immaginare. Era persino difficile per gli altri resistere alla tentazione di scansare chi aveva commesso quel gesto, scostare la terra riprendendosi i chicchi, e restaurare così il loro uso consueto. Non vi era accesso, negli altri, neppure a domande riguardanti gli eventuali pensieri che avevano potuto indurre quel comportamento mai visto. Non avrebbero riconosciuto il valore rivoluzionario di quel gesto, neppure quando se ne sarebbero appropriati, assumendolo come proprio e ormai divenuto utile, necessario, ordinario e consueto. Eppure, era avvenuta sotto i loro occhi una traduzione importante, quella da chicco a seme. Il frutto di una capacità della specie homo sapiens, che ci avrebbe uniti, con Mauro, nel corso del tempo delle nostre vite: l’immaginazione. Avremmo dedicato parti importanti della nostra vita e della nostra condivisione intellettuale e fraterna a cercare e riflettere sulle potenzialità del nostro corpo-cervello-mente. Soprattutto su quelle potenzialità che sono decisamente superiori all’uso che facciamo di noi stessi. Quella donna e quell’uomo, mettendo a dimora quelli che avevano finalmente concepito come semi, trasformando la cornice con cui fino a quel momento li avevano considerati chicchi, si erano sporti oltre il consueto, accedendo a potenzialità fino ad allora sconosciute; eccedendo il conforme; estendendo così con l’azione il proprio mondo interno.
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Conflitti della conoscenza In una messe illimitata di memorie di vita condivisa, in una con-fusione di affetti e pensieri, si fa avanti una pizzeria con i tavoli all’aperto nei pressi della stazione Garibaldi a Milano. Come spesso accadeva, Mauro e io stavamo riflettendo sugli ostacoli alla ricezione e al riconoscimento dei tentativi che andavamo facendo, per favorire l’accoglienza del cambio di paradigma verso il riconoscimento della complessità del vivente e di noi umani come parte del tutto. La nostra preoccupazione e la nostra ansia che non si sarebbero mai esaurite. Attendevamo Gianluca Bocchi, che presto è arrivato trascinando, al solito, due trolley carichi di libri. Era raggiante, Gianluca. Aveva con sé una copia di Le Monde. Sedendosi ci ha mostrato un articolo che conteneva un’intervista a quello che lui definiva un filosofo sconosciuto. In quell’intervista, ci diceva con entusiasmo Gianluca, si parlava della sfida della complessità con parole e toni particolarmente corrispondenti al nostro lavoro. “Mauro, ce la stiamo facendo”, continuava a ribadire Gianluca, con la sua inconfondibile “erre” moscia, che il nostro comune maestro Aldo Giorgio Gargani imitava perfettamente. Ci ha finalmente dato il giornale e in effetti il testo era entusiasmante per noi: un filosofo della scienza indicato col nome di Jean-Luc a-Bochi si dilungava sul paradigma epistemologico della complessità. “Dal nome sarà un pied-noir di origine algerina che insegna a Parigi!”, gioiva nel frattempo Gianluca infilando le molte “erre” sempre più mosce. Con una pausa degna del più fine umorismo ironico, che lo ha sempre contraddistinto, Mauro a quel punto ha detto: “Ma va là, non vedi che quello sei tu! Hanno solo storpiato il tuo nome, col loro inguaribile sciovinismo francese!”. Quella preoccupazione di aver pensato troppo in anticipo, seguendo le vie dell’immaginazione anticipativa come tratto distintivo di homo sapiens, non ci avrebbe mai abbandonato. Sarebbe più e più volte tornata in noi l’immagine di quei lontani antenati che avevano poste le basi per una relativa interruzione del nomadismo mettendo a dimora semi di grano; le loro difficoltà ad essere ascoltati e compresi, nell’epoca della indefessa propensione di noi umani a regredire all’agire immediato e pratico, alla consegna alle competenze strumentali, al riduzionismo, non quello metodologico, ma quello della mortificazione della
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vita in formule e prassi utilitaristiche. Quel riduzionismo dei beni in risorse; della solitudine singolare; che rimuove costantemente la nostra umana intersoggettività costitutiva e il dono della reciprocità e delle relazioni, del senso dell’essere e della bellezza della vita e del mondo. Ce ne saremmo accorti, di quelle difficoltà anche una sera a Milano, con Edgar Morin, a parlare, ad un ampio pubblico, dell’educazione e della civiltà planetaria. Quel nostro amato maestro aveva appena finito di porre le questioni essenziali di un’educazione che volesse mirare a creare “teste ben fatte”, quando un partecipante all’incontro, dal pubblico, si è rivolto a Morin dicendo che le sue tesi erano anche interessanti, ma lui, da relatore, ha ammaliato il pubblico, senza dire come si fa a fare quello che propone. Morin con garbo e articolazione di argomenti ha cercato di evidenziare l’esigenza di muovere da una inedita epistemologia che sola può alimentare una nuova prassi educativa. Il partecipante ha richiesto la parola insistendo col dire che però non è stato indicato il tool kit per fare quello che viene proposto. Allora Morin ha raccolto le sue carte e ci ha chiesto, indignato, di uscire con lui dalla sala. Sulla porta, mentre uscivamo, rivolgendosi a quel partecipante ha esclamato, in italiano col suo dolce accento francese: “E lei, faccia come Platini, impari a tenere la posizione!”. Ci siamo sempre interrogati su quell’evento. Che cosa comportava e comporta domandare alle persone di mettere in gioco prima di tutto sé stessi e il proprio mondo interno, come condizione per cambiare l’ordine delle cose? Quali difese e resistenze suscita una proposta di cambiamento che per essere efficace all’esterno debba necessariamente coinvolgere il mondo interno? Che cosa non abbiamo fatto perché un paradigma di pensiero volto a favorire il riconoscimento della complessità fosse riconosciuto come appropriato al nostro presente? Coevoluzione Avevamo meno di trent’anni quando avevamo compulsato Il sapere senza fondamenti di Aldo Giorgio Gargani1. È difficile dire quali effetti quella lettura abbia provocato in noi. Dai sommovimen1
A. Gargani, Il sapere senza fondamenti, Einaudi, Torino 1975.
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ti carsici, alle increspature di superficie, fino alle vette vertiginose degli sguardi inauditi e delle prospettive che si aprivano, l’inquietudine e la tensione a cercare si erano impadroniti di noi, rendendo incapaci di contenimento le condizioni del paradigma della scienza classica. Da un lato ci sembrava di sprofondare, senza terreno sotto i piedi, dall’altro si spalancavano intrecci e possibilità di pensare l’impensato, ma soprattutto di pensarlo come ci sembrava che il mondo richiedesse di fare. Per molti aspetti il sentimento era di iniziare finalmente a comprendere, a vedere con occhi nuovi. Quel clima si generava all’insegna del possibile, del poter dire, del potersi connettere a percorsi di ricerca che spuntavano da ogni angolo disciplinare e, come affluenti di un grande fiume, confluivano in una complessa visione del mondo e di noi stessi. La biologia evolutiva dialogava, nei nostri discorsi, con la fenomenologia; quadrava il cerchio del rapporto tra neurobiologia e conoscenza; la fisica risuonava della bellezza e della poesia del vivente. C’eravamo appena conosciuti e ci pareva di conoscerci da sempre, per la peculiare unicità e capacità di stare nelle cosiddette due culture che contenevano i nostri pensieri e progressivamente contennero la nostra ricerca. Il sottile senso dell’ironia condiviso in quel gioco più volte intrecciato di rinvii e rimandi, combinò da subito una speculare convivenza coevolutiva tra scienza sperimentale e ricerca di significati. Il tutto considerando vincoli e possibilità. Vladimir Jankélévitch, da par suo, ha scritto: “Si può vivere senza ironia e senza amore, ma mica tanto bene”. Non sapevo allora che Mauro stesse covando le basi di quello che forse è uno dei suoi libri più importanti: Il vincolo e la possibilità2. Eravamo entusiasti di constatare che così giovani ipotesi ricomprendessero la transdisciplinarità a cui avevamo sempre tenuto, tra pensiero logico-formale e pensiero sintagmatico. Avevo letto voracemente Disordine e costruzione3, scritto da Mauro con Gianluca Bocchi, e finalmente i miei studi di psicologia trovavano un paradigma di riferimento nell’epistemologia genetica. 2 3
M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, Feltrinelli, Milano 1986 (Raffaello Cortina, Milano 2009). G. Bocchi, M. Ceruti, Disordine e costruzione. Un’interpretazione epistemologica dell’opera di Jean Piaget, Feltrinelli, Milano 1981.
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Collegio invisibile Si costituì un piccolo gruppo di persone che, sulla base di un mio appunto, si ritrovò intorno a un acronimo, ARCA, Associazione per la Ricerca sulla Conoscenza e l’Apprendimento. La sfida della complessità era il nostro viatico e il dialogo, svolto intensamente e in più luoghi e situazioni, era fervido, generativo, per molti aspetti incontenibile. Avevamo al centro della nostra ricerca l’ambizione e il desiderio di cogliere il tutto intrecciato del vivente e di comprendere noi come parte di quell’intreccio. L’educazione ci pareva una leva critica essenziale e nutriva le nostre speranze e il nostro impegno. Rifacevamo, in parte senza accorgercene, anche il nostro lessico, costruendo un nuovo vocabolario. La pubblicazione di Sistemi che osservano4 di Heinz von Föerster fu un’occasione con effetti prolungati, che Mauro portò ad un epilogo fondamentale con La danza che crea5. Quel piccolo gruppo, che si autodefinì Collegio invisibile, maturò l’idea e il progetto di una rivista che fu un vero e proprio oggetto di impegno e di passione. Nacque così Pluriverso. Biblioteca delle idee per la civiltà planetaria. Quel sogno cercò di combinare la sfida della complessità con quello che sempre più diveniva evidente: la condizione umana sul pianeta Terra, da specie pervasiva a specie a rischio per la crisi climatica e ambientale e per i conflitti interculturali. La prospettiva coevolutiva come ricerca e come possibilità per una specie i cui individui sono in grado di trascendersi è stata, tra l’altro, l’ispirazione essenziale di Pluriverso. L’attualità di quella ricerca è divenuta drammaticamente urgente e il lievito non riconosciuto posto nella farina del mondo deve pur aver fatto la sua parte, nonostante la marginalità con cui quella ricerca fu considerata. Ma il margine, si sa, è il luogo di maggiore potenzialità per comprendere ed agire.
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H. von Foerster, Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma 1987. M. Ceruti, La danza che crea. Evoluzione e cognizione nell’epistemologia genetica, Feltrinelli, Milano 1994.
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Nonostante homo sapiens… solo homo sapiens Uno dei sentimenti che hanno animato e animano la ricerca portata avanti in questi anni come frutto maturo di quegli anni fecondi, risponde alla posizione non facile da contenere, che si può così narrare: nonostante homo sapiens… solo homo sapiens. La domanda che ne deriva, per attualizzare il nostro percorso, è: quale rinaturalizzazione del sociale, oggi? L’articolo 5 del Manifesto for Critical Naturalism6 parla la lingua che abbiamo cercato di parlare in tutti questi anni. “L’indipendenza dalla natura e il dominio sulla natura sono due facce della stessa medaglia. Non c’è emancipazione senza liberazione dentro e nella natura”. “Independence from nature and domination of nature are two sides of the same coin. There is no emancipation without liberation within nature”. Le domande che ci ponevamo e ci poniamo erano e sono ineludibili: posto che nel sistema vivente ogni essere, minerale, vegetale, animale, è parte del tutto, chi tra quegli esseri, per ragioni evolutive, è in grado di nutrire la spinta utopica a ripensare il rapporto tra natura e società? Chi può rinaturalizzare il sociale e cosa significa farlo? Se c’è liberazione solo all’interno della natura, è sul concetto di liberazione e, quindi, di libertà che è necessario concentrarsi, chiedendosi: a chi appartiene, tra gli esseri viventi, il sogno, la ricerca, e la pratica della libertà? E, da ultimo, rinaturalizzare il sociale vuol dire neutralizzare le distinzioni evolutive di homo sapiens, o riconoscerle finalmente per le loro potenzialità nell’assumersi la responsabilità di specie di salvare sé sessa con tutte le altre forme di vita sulla Terra? Noi umani sappiamo dire di no Edward O. Wilson, il cui lascito scientifico e etico non considereremo mai abbastanza, da massimo studioso delle formiche, in 6
F. Gregoratto, H. Ikäheimo, E. Renault, A. Särkelä and I. Testa, Critical Naturalism: A Manifesto, Krisis 42 (1), 2022, pp. 108-124.
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quella summa del proprio lavoro di ricerca che è Il Superorganismo7, scritto con Bert Hólldobler, non solo si astiene da arbitrarie quanto scontate estrapolazioni sociopolitiche analizzando la “perfezione organizzativa” di un formicaio, ma avverte con garbo e determinazione di evitare con cura qualsiasi associazione o analogia o, addirittura, assunzione di modello, con una società umana. La ragione addotta da Wilson è semplice e profonda: noi umani sappiamo dire di no. Siamo in grado, cioè, di sottrarci almeno provvisoriamente e in una certa misura al determinismo della cosiddetta natura. La cosa più importante da sottolineare è che lo facciamo, dire di no, in ragione della nostra distinzione evolutiva, non per miracolo o per infusione divina, ma perché dal punto di vista evolutivo siamo diventati così: capaci di istituire una discontinuità; di generare un break-down in un processo; di sottrarci al conformismo; di creare l’inedito. “…liberation within nature”, quindi, vuol dire, tra l’altro, che è solo la liberazione attraverso sé stesso, la propria liberazione e quella del sistema vivente dalla distruttività in atto da parte della propria specie, che homo sapiens ha come possibilità. Quel “within”, oltre che “from within”, è anche un “through”. Torna, ancora una volta il poeta e la poiesis come distinzione dell’umano e principio di speranza di agire diversamente l’immediato, direbbe ancora Ernst Bloch. Quale poeta? Ma quell’americano che ha colto l’incanto del mondo traducendolo in parole, Robert Frost: “The best way out is always through”. Proprietà emergenti La rinaturalizzazione urgente e necessaria, che sola ci può riportare a riconoscere quel che ci precede e ci influenza, ma solo in parte ci determina; quella rinaturalizzazione che ci conduce finalmente di accorgerci che siamo materia, la nostra proprietà costitutiva, ma che siamo anche proprietà emergente non riducibile alle condizioni iniziali, grazie alla nostra relazionalità originaria; quella rinatu7
B. Hölldobler, E.O. Wilson, Il superorganismo. Bellezza, eleganza e stranezza delle società degli insetti, Adelphi, Milano 2011.
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ralizzazione la può operare solo la specie che aveva ritenuto non solo di trascenderla, ma addirittura, in maniera delirante, di poterne prescindere. La proprietà emergente è stata ed è un costrutto su cui abbiamo continuato e continuiamo a riflettere e Mauro Ceruti ne ha fatto un costante tema di ricerca. Gli antecedenti evolutivi e il nostro essere materia ci aiutano a comprendere realisticamente di cosa siamo fatti, ma è necessario non trascurare come siamo fatti e cosa ci distingue da una formica o da una drosophila melanogaster. Non perché siamo superiori – ecco la trasformazione con relativa ferita narcisistica che ci è richiesta – ma perché siamo differenza che può fare la differenza, secondo l’insegnamento di un maestro comune come Gregory Bateson. Nelle nostre mani Se esiste un principio di responsabilità, ed è difficile sostenere che non esista per noi umani che siamo la scimmia che si parla e che non solo sa ma sa di sapere, non solo vive ma sa di vivere, non solo muore ma sa di morire, quel principio riguarda noi e si propone prima di tutto come capacità di rispondere a noi stessi, ognuno di noi a sé stesso. Prima ancora che rispondere agli altri e al sistema vivente in senso esteso. All’essere che non solo sa ma sa di sapere abbiamo dedicato tempo e incontri indimenticabili: dai seminari per approfondire Autopoiesi e Cognizione8 di Humberto R. Maturana e Francisco J. Varela, pubblicato da Marsilio grazie all’impegno di Giorgio De Michelis, ad incontri come quello di S. Martino di Castrozza con Maturana, Heinz von Foerster, Donata Fabbri, Alberto Munari, tra gli altri. L’affermazione dell’educazione come conversazione infinita basata sul principio etico fondamentale di Heinz von Foerster: agisci per aumentare il numero delle possibilità, era e rimane un riferimento costitutivo. Certamente il presente che abbiamo causato sollecita quel principio di responsabilità oltremodo, al punto di non riuscire a stabilire se saremo in grado 8
H.R. Maturana, F.J. Varela, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, Marsilio, Venezia 1985.
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di reggerne le sollecitazioni. È però evidente che siamo l’unica specie in grado di provarci. Siamo, insomma, nelle nostre mani. Sapere che subiamo la path dependence; che ci domina la propensione alla conferma; che il cambiamento ci destabilizza e la continuità ci rassicura anche quando i suoi effetti sono palesemente indesiderabili; che il rumore spesso predomina sull’informazione; che il conformismo tende a prevalere sull’innovazione; sapere tutto questo può esserci di aiuto a compiere un esame di realtà che consenta di distillare le capacità creative che pure abbiamo e ci distinguono come specie. Bellezza, embodiment e estensione di sé Abbiamo provato a definire la creatività come quel processo specie specifico di noi umani capace di comporre e ricomporre in modi almeno in parte originali i repertori disponibili. Siamo l’homo hipoteticus, come ci ha definito Giorgio Prodi. Siamo quelli che sono caratterizzati dalla tre “B”: Body Brain Beauty, dove la bellezza come opportunità di estensione di sé può essere riconosciuta: “Beauty as evolutionary emergent property”, secondo un’ipotesi neurofenomenologica che ho presentato in diverse occasioni e più volte discussa con Mauro. In questo senso la bellezza, se non considerata solo come fattore esteriore, può essere motore di liberazione. Abbiamo provato ad individuare alcune proprietà della bellezza, riconoscendo l’estensione di sé e del mondo interno sensibile come effetti delle esperienze di bellezza, intesa come risonanza incarnata particolarmente riuscita tra io e altro, tra io e mondo. Questo paradigma basato sull’embodiment, cioè sulla dimensione incarnata dell’esperienza di sé e del mondo, naturalizza criticamente la bellezza. L’esultazione vissuta con Mauro di fronte ai testi di autori come Warren McCulloch e Henri Atlan è inenarrabile. Così come rimangono scolpiti nella memoria e nell’esperienza i dialoghi con Francisco J. Varela. Mentre l’embodiment sottrae la bellezza a una visione idealizzante, l’affida all’evoluzione delle nostre distinzioni di specie e ne riconosce le potenzialità emancipative e di aumento delle nostre possibilità.
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Circolarità ricorsiva e creatività La creatività e l’esperienza estetica sono probabilmente due aspetti rilevanti delle distinzioni evolutive di homo sapiens. Sono evidenti gli antecedenti evolutivi nelle altre specie, ma la loro distinzione nella specie umana è evidente. Proprio perché siamo la specie che emerge dall’evoluzione con la capacità di pensarsi, di creare l’inedito e di sentire di sentire fino a estendere la capacità di farlo, forse noi possiamo, più di ogni altra specie vivente, riconoscere la nostra Terrestrità, come la definisce Matteo Meschiari. Risuonano in queste prospettive anche i fondamenti del pensiero di quel Jean Piaget celebrato a Bergamo in un incontro di vita e pensiero, organizzato da Mauro, il cui motivo conduttore fu la circolarità ricorsiva con cui la mente crea sé stessa mentre crea il mondo. Possiamo cioè assumerci la responsabilità di divenire terrestri tra i terrestri e, così come gli alberi consegnano la fotosintesi clorofilliana garantendo la vivibilità con la loro distinzione specie specifica, noi valorizzare il nostro comportamento simbolico e il nostro linguaggio verbale articolato per divenire finalmente responsabili della vivibilità sulla Terra. Contenere il vivente facendone parte Divenire terrestri allora cosa vuol dire? Contenere il vivente facendone parte; sviluppare una inedita prassintesi (Luigi M. Pagliarani) tra contenitore e contenuto. Nonostante sia forse il principale distruttore, homo sapiens può essere probabilmente l’unico salvatore di sé stesso e della vivibilità sulla Terra. Se il seminatore ha il compito impegnativo di saper attendere e di contenere anche il rischio di non essere riconosciuto come l’artefice del raccolto, ci ritroviamo oggi di fronte alla persistenza dell’ostacolo epistemologico, come lo ha chiamato Gaston Bachelard, o dell’angoscia epistemofilica, come l’ha definita Enrique Pichon-Riviere. Accedere a un nuovo modo di pensare può fare paura. Tendiamo a rassicurarci nel conforme e nel consueto. È difficile per noi umani cambiare idea. Cambiare paradigma è poi ancora più impegnativo. Richiede non solo di cambiare contenuto ma anche stile di pen-
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siero. Richiede di investire in eccedenza mettendo mano alle tante potenzialità inespresse e disponibili, compresa la consapevolezza dei nostri limiti. La necessità e l’urgenza di cambiare attendono che venga riconosciuto che la possibilità è nel limite, grazie a un paradigma, quello della complessità, che con Mauro Ceruti continuiamo a seminare, coltivare e vivere.
Alfonso Maurizio Iacono*
UNA TENSIONE NECESSARIA
Comunque si cerchi di definire la complessità, essa tende a crescere più rapidamente del numero di elementi coinvolti. Conrad Waddington
Non sono sicuro, ma credo che il primo incontro con Mauro sia avvenuto nel 1986 a Milano, quando, su richiesta di Marcello Cini e Michelangelo Notarjanni allora direttori della rivista “Scienza Esperienza” (fondata da Giulio Maccacaro e oggi, nella nostra epoca, impensabile, purtroppo), mi recai alla Casa della Cultura per intervistare Francisco Varela. La Casa della Cultura era allora il centro attorno a cui, grazie a Gianluca Bocchi e a Mauro Ceruti e con la spinta di Sergio Scarpelli, ruotava il meglio degli studiosi e dei ricercatori che, a livello internazionale, lavoravano a partire dalla nozione di complessità1. L’anno prima era uscito il volume La sfida della complessità, curato da Bocchi e Ceruti, che raccoglieva i contributi delle conferenze tenute presso la Casa della Cultura e a cui avevano partecipato, tra gli altri, lo stesso Francisco Varela, Henri Atlan, Ervin Laszlo, Douglas Hofstadter, James Lovelock, Edgar Morin, Stephen Jay Gould, Ilya Prigogine, Heinz von Foerster, Luciano Gallino. Nello stesso anno era uscito in traduzione italiana, su proposta di Giorgio De Michelis, il libro di Humberto Maturana e Francisco Varela, Autopoiesi e cognizione2. Fu un periodo di ritrovato entusiasmo culturale e politico. Dopo gli anni *1 Professore di Storia della filosofia, Università degli Studi di Pisa. 1 G. Bocchi, M. Ceruti, La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1985. 2 H. Maturana, F. Varela, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, Marsilio, Venezia 1985.
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di piombo, cominciavano a emergere più fortemente e liberamente idee che erano maturate negli anni ’70 e in particolare si faceva strada la nozione di complessità. È sicuramente grande merito di Mauro Ceruti e di Gianluca Bocchi avere contribuito a far sì che tale nozione cominciasse ad affermarsi tra gli intellettuali e i ricercatori attraverso un dialogo rinnovato tra scienze naturali e scienze storico-sociali e soprattutto che si introducesse una nuova mentalità scientifica e culturale che intrecciava la riflessione epistemologica con la riflessione politica e democratica. Non fu semplice. Gli anni ’80 furono anche quelli della “Milano da bere” e del neoliberismo che riaffermava l’idea del mercato a “mano invisibile”, dell’individualismo e dell’autoreferenzialità e spesso nozioni come complessità o come autoorganizzazione venivano assimilate a tale contesto culturale emergente, con la conseguenza di un irrigidimento critico di chi temeva appunto la contaminazione tra l’idea di complessità e l’immagine della mano invisibile. Inoltre, si tendeva a parlare di scienza o paradigma della complessità. Di più, la nozione di complessità veniva spesso fraintesa e usata all’interno di vecchie concezioni epistemologiche riduzioniste. Ceruti e Bocchi, nella Presentazione a La sfida della complessità non fanno mai cenno all’idea che la complessità sia una scienza o un paradigma. Anzi, uno dei testi che compongono il libro, quello di Isabelle Stengers, ha per titolo Perché non può esserci un paradigma della complessità. In un altro testo, Complessità. Effetto di moda o problema? (pubblicato nel 1988 in Da una scienza all’altra3 edito da Hopefulmonster, casa editrice fondata da Stefano Isola e che in particolare diffondeva testi sul tema della complessità), Isabelle Stengers scrive che se il discorso sulla complessità deve avere un senso, questo senso non può essere omogeneo alla scienza che critica; la visione di un mondo complesso non può, come tale, sostituirsi a un’altra visione scientifica del mondo. Nessuno nega le peculiarità dei saperi scientifici; ciò che va negata è invece la loro “alterità privilegiata” culturalmente o socialmente. Già Ludwig
3
I. Stengers (a cura di), Da una scienza all’altra. Concetti nomadi, Hopefulmonster, Firenze 1988.
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Fleck, nel 1935, in Genesi e sviluppo di un fatto scientifico4 aveva chiarito questo punto. Ma togliere questa “alterità privilegiata” ai saperi scientifici significa passare a ciò che anni fa veniva chiamato il pensiero debole? Non lo penso. Significa invece pensare la complessità come la scoperta di una tensione necessaria, e significa anche togliere al pensiero forte l’effetto di rassicurazione. In questo senso, a mio parere, Mauro Ceruti si è mosso nel solco di riflessioni che hanno trovato, per esempio, un punto di riferimento (per me decisivo) in testi come Il sapere senza fondamenti5 di Aldo Giorgio Gargani, pubblicato nel 1975. La tensione necessaria aumenta il problema delle contraddizioni e dei conflitti che le tradizionali visioni unificate del mondo trasferivano al loro esterno, così come le società tendono a trasferire il loro nemico interno all’esterno dei loro confini, nel regno del caos e del disordine. È un prezzo assai caro di quella identità che sostituisce all’autoriflessione critica il proprio senso di sicurezza. È per questo che, per esempio, l’idea di unità necessaria tra mente e natura, proposta da Gregory Bateson in opposizione al materialismo meccanicistico e allo spiritualismo, gioca, a mio parere, un ruolo decisivo. Ma è anche per questo che il suo monismo, cioè la soluzione dell’“unità necessaria” in una visione unificata del mondo, appartiene a un altro livello, quello della rassicurazione filosofica. La distinzione è importante, perché può evitare la trasformazione dell’idea monistica in una identità senza autoriflessione. Ora, sono convinto che le ricerche di Mauro Ceruti, così come quelle di Gianluca Bocchi, Sergio Manghi, Francisco Varela, Giorgio De Michelis e altri, si muovano, ciascuna autonomamente, entro ciò che ho chiamato “tensione necessaria” tra entità differenti che sono da un lato la complessità, dall’altro i paradigmi scientifici. In questo senso, ritengo vi sia un nesso, sia pure nella reciproca autonomia, tra libri come Il vincolo e la possibilità e La danza che crea di Mauro Ceruti o come Origini di storie6 di Bocchi e Ceruti, 4 5 6
L. Fleck, Genesi e sviluppo di un fatto scientifico, Il Mulino, Bologna 1983. A.G. Gargani, Il sapere senza fondamenti, Einaudi, Torino 1975. M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, Feltrinelli, Milano 1986; Id., La danza che crea, Feltrinelli, Milano 1989; G. Bocchi, M. Ceruti, Origini di storie, Feltrinelli, Milano 1993.
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e ciò che andavo scrivendo negli anni ’80 e ’90 sulle pagine del Manifesto in tema di complessità e autoorganizzazione e in L’evento e l’osservatore7, la cui prima edizione fu pubblicata dall’editore Pierluigi Lubrina (con la quarta di copertina ideata da Gabrio Vitali) sotto l’impulso di Mauro Ceruti. Allora Mauro dirigeva insieme a Enzo Tiezzi, sempre per Lubrina, la rivista Oikos, pietra miliare per la riflessione e la diffusione della nozione di complessità, la cui redazione era composta da Gianluca Bocchi, Marcello Buiatti, Federico Butera, Marco Casonato, Paolo Degli Espinosa, Giorgio De Michelis, Bruno D’Udine, Elena Gagliasso, Stefano Isola, Sergio Manghi, Giorgio Pizziolo, Gabrio Vitali e da me. Dopo Milano, ci incontrammo a Parigi e insieme andammo ad assistere alla prima lezione di Francisco Varela che si insediava all’università. E poi ancora voglio ricordare il Dipartimento di Epistemologia fondato a Perugia dalla Regione Umbria e diretto da Mauro, un’iniziativa istituzionale oggi pressoché impensabile, e il convegno a cui parteciparono James Lovelock, Francisco Varela, Lynn Margulis, Giorgio Parisi e altri. Sulla scorta di Physis: abitare la terra8, un volume da lui curato insieme a Ervin Laszlo, che raccoglieva gli atti di un convegno tenuto a Firenze, Mauro Ceruti, nel presentare il convegno, sottolineava come nella ricerca occorreva affrontare tre sfide: la sfida ecologica, la sfida della complessità, la sfida della politica, ovvero “un ripensamento dei rapporti tra uomo e natura richiede un sapere in grado di superare la Scilla di una scienza che pretende di controllare e di manipolare la natura, indefinitamente e indiscriminatamente, a uso e consumo dell’uomo, e la Cariddi di una filosofia che vede invece nella tecnologia umana il ‘male’ e nelle leggi della natura, considerate necessarie e immodificabili, il ‘bene’, il ‘buono’, la norma da assecondare e a cui assoggettarsi”9. Infine, desidero ricordare il convegno di Milano del 1990 su Gregory Bateson, con Edgar Morin e altri. Nella mia relazione cercai di introdurre i temi del “pensare per storie” e del “creare conte7 8 9
A.M. Iacono, L’evento e l’osservatore, Lubrina, Bergamo 1987. M. Ceruti, E. Laszlo (a cura di), Physis: abitare la terra, Feltrinelli, Milano 1988. Ivi, p. 9.
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sti” come aspetti decisivi della critica dell’epistemologia moderna, che ci permettono di comprendere come il concetto di complessità, emerso dalle scienze fisiche e biologiche, trovi una fonte naturale in quel campo delle relazioni simboliche, sociali e umane, al cui interno, in fine dei conti, hanno luogo la conoscenza e i paradigmi che ne sorreggono la scientificità. La conoscenza storica, in questo senso, riguarda di per sé oggetti che sono per loro natura complessi, proprio in quanto non di oggetti si tratta, ma di soggetti irriducibili all’addomesticamento delle descrizioni pure e neutrali. Il convegno ebbe un enorme impatto di pubblico. Lì toccammo con mano che qualcosa era davvero cambiato dal punto di vista epistemologico, anche se, guardando con gli occhi di oggi, la speranza che tale cambiamento influisse sulla politica in chiave sociale e in chiave ambientale non si realizzò. E tuttavia le tre sfide di cui parlava Mauro Ceruti, la sfida ecologica, la sfida della complessità, la sfida della politica sono ancora lì che ci attendono. A esse aggiungo la sfida della storia, in un’epoca che tende a vivere quasi solo per il presente, dimenticando il passato e il futuro.
Oscar Nicolaus*
UN UMANISTA, INTERPRETE DEL NOSTRO PLURIVERSO
E coloro che furono visti danzare vennero giudicati pazzi da quelli che non potevano sentire la musica. Friedrich Nietzsche
La vita è fatta di incontri. Quello avvenuto con Mauro Ceruti, a metà degli anni ’80, è stato uno dei più significativi della mia vita. Da poco era stato pubblicato il volume La sfida della complessità1, curato da Mauro e Gianluca Bocchi, che conteneva contributi di scienziati e pensatori come Edgar Morin, Ilya Prigogine, Francisco Varela, Stephen Jay Gould, Heinz von Foerster, nell’anno precedente chiamati a raccolta dai due curatori, alla Casa della Cultura di Milano. Un libro che rispondeva e ancora oggi risponde alla necessità di trasformare domande e risposte di fronte all’irruzione dell’incertezza nelle nostre conoscenze, allo sgretolarsi dei miti della completezza, dell’esaustività e dell’onniscienza che per secoli hanno regolato il cammino della scienza, e non solo. In quel momento della mia vita, di iniziale rinascita e timida autocritica per uscire da un pensiero rigido, deterministico che aveva caratterizzato la mia militanza politica, fu un libro illuminante. Quello con Mauro non fu solo l’incontro con uno dei più prestigiosi filosofi europei, ma anche l’inizio di una relazione con la sua comunità di destino, tra cui Gianluca Bocchi, Sergio Manghi, e naturalmente Edgar Morin, di cui Mauro è stato ed è uno dei migliori interpreti. Una comunità che da quel momento, per me, divenne sempre più rilevante, ineludibile come riferimento culturale e affet-
*1 Psicoterapeuta. 1 G. Bocchi, M. Ceruti, La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1985.
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tivo. Una piccola patria fraterna, uno straordinario contesto intellettuale e amicale di cui mi onoro di far parte ancora oggi. La “sfida della complessità” ha trovato in Mauro uno dei suoi studiosi e interpreti di maggior prestigio, come testimoniano centinaia di conferenze, seminari, articoli e libri, in questi suoi primi settant’anni. E come testimoniano alcuni dei più autorevoli intellettuali del nostro tempo. Per citarne solo alcuni, Heinz von Foerster, Ilya Prigogine, Jerome Bruner, Francisco Varela, Lynn Margulis, Immanuel Wallerstein, che hanno per le sue opere parole di grande apprezzamento, sintetizzabili in questo commento di Edgar Morin: “Mauro Ceruti è fra i rari pensatori del nostro tempo ad aver compreso e raccolto la sfida che ci è posta dalla complessità dei nostri esseri e del nostro mondo globalizzato”2. Mauro Ceruti si fa portavoce della necessità di una nuova forma di intelligenza che faccia proprio il motto di Gregory Bateson patterns which connect: l’intelligenza e l’etica della complessità che, rinunciando al sogno della completezza, della semplificazione e dell’onniscienza, si rivela più adatta per abitare questo mondo. Mauro incarna straordinariamente la figura di un nuovo umanista, che da più punti di vista, come in una danza che crea3, con passione e rigore, disegna e interpreta il nostro pluriverso, per un nuovo orizzonte possibile di convivenza umana. Come lui stesso ci indica: “In un mondo complesso, ogni decisione è una scommessa. Ma la scommessa fondamentale che spetta all’umanità del XXI secolo, unita dallo stesso destino, è la fraternità. È la nuova ‘scommessa’ pascaliana. Se scegliamo la fraternità e perdiamo, non perdiamo niente. Ma se vinciamo, vinciamo tutto. Potremo continuare l’avventura plurimillenaria di Homo sapiens, come partecipe dell’avventura cosmica. Se non la scegliamo, scegliendo di fatto ancora la rivalità, i destini separati, un’economia insostenibile, predatoria, ingiusta e non rispettosa della biosfera, e vinciamo, si tratterà di vittorie parziali, unilaterali e momentanee che prepareranno nuove sofferenze per tutti (la vittoria si ritorcerà sotto forma di pandemie o di migrazioni climatiche o di altro imprevedibile…). E 2 3
E. Morin, Prefazione a: M. Ceruti, Sulla stessa barca, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2020, p. 8. M. Ceruti, La danza che crea, Feltrinelli, Milano 1989.
O. Nicolaus - Un umanista, interprete del nostro pluriverso161
se perdiamo, perderemo tutti e tutto, perché avremo perso il nostro pianeta, il nostro habitat comune (…) È l’amicizia a tenere insieme la polis, scriveva Aristotele. Solo la fraternità potrà tenere insieme la cosmopolis del XXI secolo. E potrà dare una nuova opportunità ai suoi abitanti, umani e non-umani”4. Grazie, maestro e amico fraterno, per aver stimolato tanti di noi a dare un senso più ricco alle nostre vite.
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M. Ceruti, F. Bellusci, Il secolo della fraternità. Una scommessa per la Cosmopolis, Castelvecchi, Roma 2021, pp. 58, 69.
Lorena Preta*
UNA MENTE OSPITANTE
In breve, è bene pensare anche affabulando, poiché a volte un evento non si esaurisce nel suo accadere, nemmeno se è raccontato bene. Stranamente c’è sempre qualcosa di più che succede là dentro, l’avvenimento lo porta in sé, lo mostra e lo lascia capire. Ernst Bloch
Ci vorrebbe in questa circostanza proprio la riflessione di Mauro Ceruti per aiutarmi a illustrare un rapporto “complesso” come quello avuto con il suo pensiero in questi anni, ma “anche” con lui come persona. Proprio questo in effetti è un esempio di come non si possano disgiungere strutture complesse se non facendo delle estensioni. Non è possibile cioè parlare di una persona senza tenere conto contemporaneamente di tutti gli aspetti che la riguardano, anche se magari non si è mai vista la sua casa, non si conosce tutta la sua famiglia, non la si vede fisicamente da tempo. Le informazioni relative possono essere non solo frutto di una raccolta di dati o di osservazioni “sul campo”, ma anche di intuizioni, costruzioni “visionarie” che mettono insieme una conoscenza diretta e una “costruzione” conoscitiva, due cose integrate ma diverse. Questa modalità di considerare la conoscenza era contenuta fin dall’inizio della nostra collaborazione, era il 1988, in Che cos’è la conoscenza1, primo libro curato insieme proprio in occasione * 1
Psicoanalista, già Direttrice della rivista “Psiche”. M. Ceruti, L. Preta (a cura di), Che cos’è la conoscenza, Laterza, Roma-Bari 1990.
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dell’appuntamento iniziale di Spoletoscienza, luogo elettivo dei nostri scambi e del nostro lavoro comune. Oltre ai nostri interventi, erano lì raccolte le varie teorie dei partecipanti che già nella loro polifonia in realtà affrontavano il tema principe della complessità e soprattutto indicavano dei metodi di conoscenza diversi tra loro, qualche volta anche divergenti, ma radicati in una concezione dell’uomo e della cultura che aveva in comune un orizzonte vasto, “planetario” come diceva Mauro. Infatti, già nel titolo del suo saggio affermava che La conoscenza è una questione cosmologica. In maniera quasi profetica centrava l’indagine sulla vita dell’universo che comprende la vita biologica sulla Terra, quella del pianeta stesso e quella del cosmo. Ora ci è difficile concepire un pensiero sull’umanità senza occuparci del suo destino a livello globale, ma allora la negazione o “la grande cecità”, come direbbe Amitav Ghosh2, erano ancora più radicati di adesso. Nonostante questo, era già possibile per pensatori come Ceruti concepire la vita biologica determinata da una “struttura che connette”, secondo la felice definizione di Gregory Bateson, per cui gli animali, le piante, gli esseri viventi apparentemente distanti tra loro e non collegati l’uno con l’altro sono invece connessi se si evidenzia il legame che li tiene uniti al di là delle differenze. Spingersi però a un’indagine che comprendesse i destini del cosmo, insieme al discorso sull’ambiente umano e sul pianeta che abitiamo, rappresentava per quei tempi un salto epistemologico. Eppure, Ceruti già da tempo lo aveva compiuto e non aveva paura di “spaziare” in luoghi poco frequentati dalla filosofia e in parte anche dalle altre discipline. Mi ricordo che quando cercavamo di precisare il titolo del libro solo per qualche minuto, per motivi editoriali, ci chiedemmo se era il caso di togliere il punto interrogativo. Doveva essere: “Che cos’è la conoscenza?” oppure “Che cos’è la conoscenza” e punto? Ma l’interrogativo, che pure sempre si accompagna a un processo conoscitivo, non avrebbe potuto eludere la forza della proposta di una modalità di conoscenza che non corrispondeva più a quella 2
A. Ghosh, La grande cecità, Neri Pozza, Vicenza 2017.
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delle scienze tradizionali, bensì a quella dei nuovi paradigmi scientifici, la probabilità, il caso, l’auto-organizzazione, il caos, la complessità, che Mauro già da tempo andava introducendo nel dibattito filosofico e scientifico. Quindi ci avviavamo a fare di questa modalità conoscitiva un nuovo vertice di osservazione imprescindibile per qualsiasi pensiero e per qualsiasi disciplina. La conoscenza così articolata costituiva uno spazio esteso e non “saputo” a priori, da attraversare o meglio da costruire in un movimento di danza, come recita il titolo del suo libro La danza che crea3. I suoi oggetti non sono determinati soltanto dalla rappresentazione della realtà o dalla sua descrizione, ma sono frutto della trasformazione che unisce oggetto della conoscenza e soggetto del conoscere, realtà e fantasia, in un indissolubile legame tra realtà fattuale e immaginazione. Gli studiosi che si sono succeduti a Spoleto per parlare dal proprio punto di vista disciplinare di questi temi sono stati senz’altro tra i più innovativi di questi ultimi decenni e grazie anche alla mente ospitante di Mauro Ceruti hanno trovato un contenitore adatto a trasmettere e a volte anche a sviluppare le loro tematiche. Facevamo ogni volta un lavoro di messa a punto del tema, che consisteva anche nello stare tutti insieme in momenti distensivi dove potevano svilupparsi scambi e fiorire collegamenti, finché nei giorni dedicati al pubblico, delle vere folle si accalcavano per sentirli nella Chiesa di San Nicolò, adattata per l’occasione a fare da palco alla rappresentazione dei loro pensieri. Moltissimi di questi scienziati e musicisti e letterati e artisti non ci sono più, ma questo rende ancora più importante potere, insieme a Mauro, conservarne una memoria anche personale, oltre che quella imperitura che li fa dei protagonisti dell’ultimo secolo. Si parla spesso al passato quando si deve raccontare di un’esperienza già compiuta, specialmente se ha avuto come quella un valore fondativo. Ma penso anche che nel clima attuale sarebbe difficile riproporre una situazione simile, per vari motivi dovuti non solo alla sua straordinarietà, ma anche alle conseguenze dirompenti che 3
M. Ceruti, La danza che crea, Feltrinelli, Milano 1989.
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questi vertici di osservazione avevano e tuttora hanno sulle modalità di conoscenza più diffuse. Se vogliamo dare il giusto valore al concetto di complessità, non possiamo che verificare quanto questo continui a mettere alla prova la visione corrente dei fatti. Nulla dovrebbe essere ovvio o scontato, ma tutto è a rischio di essere sepolto da un meccanismo di “negazione” che tende a semplificare e addirittura ad annullare il pensiero. Appare sempre più evidente che assistiamo a un fenomeno di incapacità di simbolizzazione che preclude la possibilità di qualsiasi elaborazione. Il disagio sociale e culturale viene “riparato” mediante agiti sempre più inconsapevoli e violenti che tendono a occultare i problemi, camuffandoli con soluzioni fittizie. Sembra di assistere alla comparsa di un “inconscio rivoltato fuori” senza più una barriera osmotica che permetta il passaggio tra i vari livelli, conscio e inconscio, per cui questo viene direttamente rovesciato all’esterno senza mediazioni. L’impatto con la brutalità della realtà4 in questo momento non consente di operare alcuna trasformazione e le cose sembrano ridursi e appiattirsi in una immutabilità asfittica o in un agire vorticoso. Guerre fratricide, migrazioni, cambiamenti climatici ormai catastrofici, la pandemia che ha coinvolto tutto il pianeta, dovrebbero invece riportarci a quell’idea di interdipendenza dinamica che il paradigma della complessità contiene come rappresentazione dell’intreccio sempre più stretto tra le diverse realtà del pianeta, biofisiche, culturali, politiche. In questo senso acquista ancora più valore il titolo di uno degli ultimi libri di Mauro Ceruti, Il tempo della complessità5. È un periodo storico sempre più caratterizzato da queste interconnessioni, ma è anche “un tempo limite” oltre il quale tutto può veramente cambiare in maniera incontrollabile. Questo, come ci ricorda Mauro, non fa che aumentare la nostra responsabilità. Non possiamo dirigere il mutamento sempre imprevedibile, ma possiamo dare una direzione al nostro pensarci come 4 5
L. Preta, La brutalità delle cose. Trasformazioni psichiche della realtà, Mimesis, Milano-Udine 2015. M. Ceruti, Il tempo della complessità, Raffaello Cortina, Milano 2018.
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umanità, costruendo un immaginario collettivo comprensivo delle differenze e determinato dalle contingenze che la storia e la cultura ci consegnano, ma che non cancelli il passato e allo stesso tempo abbia il respiro del futuro. Un’immagine di umanità vista se non in un cammino progressivo, in un percorso che riesca a preservare non solo la specie, ma anche le sue forme ed espressioni più creative e vitali, che l’impasto di pensiero e di emotività, di distruttività e di Eros che è di noi costitutivo può consentirci di continuare a produrre, a patto che ci sia la consapevolezza del loro complesso intreccio.
Franca Pinto Minerva*1
UNA PEDAGOGIA DELLA COMPLESSITÀ
Il fatto di pensare in termini di storie non fa degli esseri umani qualcosa di isolato e distinto dagli anemoni e dalle stelle di mare, dalle palme e dalle primule. Al contrario, se il mondo è connesso, se in ciò che dico ho sostanzialmente ragione, allora pensare in termini di storie deve essere comune a tutta la mente o tutte le menti, siano esse le nostre o quelle delle foreste di sequoie e degli anemoni di mare. Gregory Bateson
A partire dalla pubblicazione, nel 1958, del saggio di Werner Karl Heisenberg Fisica e Filosofia, si assiste al passaggio da una concezione meccanicistica a una concezione olistica nella scienza. Erano anche gli anni in cui si affermava la contestazione giovanile, che, avviata negli Stati Uniti all’Università di Berkeley, avrebbe raggiunto l’Europa infiammando nel “68 il cosiddetto “Maggio” di Parigi. Dall’America irrompevano in Europa e in Italia le suggestioni dei “figli dei fiori” e le posizioni della Beat Generation: un vasto movimento giovanile che predicava una nuova alba spirituale e un mondo pacificato, caratterizzato dalle sonorità dei Grateful Dead, di Bob Dylan, d Joan Baez e, qualche anno dopo, dalle suggestioni di John Lennon, con la sua struggente Imagine (1971). Erano altresì gli anni in cui il Siddharta di Hermann Hesse diventava un testo di culto, riferimento simbolico per tanti giovani attratti dal misticismo delle filosofie orientali. Induismo, Buddhismo e Taoismo *1 Professore di Pedagogia, Università degli Studi di Foggia.
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dialogavano con il pensiero filosofico e scientifico del razionalismo occidentale. Fritjof Capra pubblicava, nel 1975, Il Tao della Fisica1. Ebbene, è proprio in quegli anni così ricchi di fermenti e innovazioni – pensiamo anche al rinnovamento di scienze e arti (dalla musica al cinema), ai movimenti femministi, alle marce per la pace e al maturare di una sempre più chiara consapevolezza ecologica – che si fa spazio l’esigenza di categorie interpretative non riduzionistiche, bensì sistemiche, e basate sul concetto di relazione. La relazione viene prima, avrebbe affermato Gregory Bateson, a sintetizzare la sua idea di ecologia della mente. Immersa nella storia di tale transizione epistemologica, che via via mi aiutava a considerare la struttura complessa della Pedagogia che in quegli anni andavo elaborando, nonché la reticolarità dei processi della formazione, ho “incontrato” intellettualmente Mauro Ceruti e, da allora, ho continuato a interpellare le sue opere con questioni, domande e proposte. È così che, dal momento in cui mi sono imbattuta nel suo testo La sfida della complessità2, ho avuto modo di approfondire i costrutti teorici alla base di un’epistemologia pedagogica interpretata con il ricorso alla struttura reticolare dei processi di conoscenza della complessità del mondo, legati ai temi dell’ambientalismo, dell’ecologismo, della giustizia globale, dell’avanzata delle reti telematiche dell’informazione, della necessità di cooperazione e solidarietà planetarie. I numerosi testi di Mauro Ceruti e la molteplicità delle sue ipotesi interpretative mi hanno sollecitata ad approfondire il divenire della realtà cosmica e l’intrinseco mutare della vita, ove creazione e distruzione sono ad un tempo complementari e antagoniste, nell’unità e reciprocità di tutte le parti che vi concorrono3. E dove l’identità umana si presenta come un processo incompiuto e in divenire, da cui emergono originali percorsi di ulteriore evoluzione. Si è così fra noi stabilita, negli anni, una collaborazione di studio ricca di rimandi a una pluralità di storie dalle implicazioni sociali e politiche, legate ai nuovi contesti di vita e alla inedita possibilità 1 2 3
F. Capra, Il Tao della Fisica, Adelphi, Milano 1989. G. Bocchi, M. Ceruti, La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1985. G. Bocchi, M. Ceruti, Disordine e costruzione. Un’interpretazione epistemologica dell’opera di Jean Piaget, Feltrinelli, Milano 1987.
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di autosoppressione della nostra specie. Questioni ove è evidente il ruolo strategico della formazione, intesa come processo di continua trasformazione della vita personale e cosmica, nelle cui dinamiche permanenza e cambiamento si intrecciano e si co-determinano. Attraverso una rigorosa elaborazione teorica, originali intuizioni speculative, supportate da un profondo coinvolgimento esistenziale e dalla costante interconnessione di molteplici trame argomentative, Mauro Ceruti propone una visione al contempo unitaria e plurale della realtà studiata, invita alla possibilità di elaborare sempre nuove immagini della realtà inclusive del continuum tra umano e non umano. Un sistema di idee-in-divenire, quello di Mauro Ceruti, testimoniato dalla insistenza con cui spesso torna su problemi già affrontati, di volta in volta de-strutturandoli per rimodellarli, ridefinirli e riarticolarli, ben consapevole della incompiutezza di ogni teorizzazione. Egli sviluppa una rigorosa critica del pensiero riduzionista e semplificatore, dell’epistemologia essenzialista e di ogni monismo epistemologico. E, nello stesso movimento, delinea un’epistemologia evolutiva e complessa volta a concepire la complementarità di continuità e discontinuità in ogni storia della vita e “l’intricata selva dei processi evolutivi”4. Ricerca scientifica e ricerca storica sono per lui strettamente connesse, perciò così fecondo è stato il suo dialogo con le implicazioni epistemologiche delle concezioni evoluzionistiche di Stephen J. Gould5. Mauro Ceruti, con Gianluca Bocchi, ha scritto un testo straordinario, Origini di storie6, che dovrebbe divenire un testo di base nella scuola secondaria: è una vera e propria miniera di “storie di storie”, ossia di quelle straordinarie metamorfosi che caratterizzano le grandi soglie evolutive della biosfera, le grandi svolte nella storia della Terra. Contingenza e imprevedibilità sono i concetti chiave dell’epistemologia evolutiva che in questo testo viene delineata, che, di contro all’idea di un progresso lineare e costante, consentono di riconoscere le discontinuità, le emergenze, le pluralità delle storie. 4 5 6
M. Ceruti, Evoluzione senza fondamenti. Soglie di un’età nuova, Meltemi, Milano 2019, p. 55. S.J. Gould, La vita meravigliosa, Feltrinelli, Milano 1989. G. Bocchi, M. Ceruti, Origini di storie, Feltrinelli, Milano 1993.
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Assai importante è il suo riconoscimento di una dimensione “mitologica” nel cuore di ogni narrazione scientifica. Ancor più prezioso, questo suo riconoscimento, in quanto la visione prevalente nella modernità, con la sua idea di una razionalità astratta, è stata portata a considerare “miti, riti, culti del passato e dell’altrove dal solo punto di vista della tradizione filosofica e scientifica poi dominante in Occidente”7. I mitì, argomenta Ceruti, ci parlano di altre storie: storie prima della nostra storia e storie che attendono ancora di attualizzarsi nel nostro presente e nel nostro futuro. Per interpretare l’intreccio di tali storie, centrale e illuminante è l’idea di complessità, come elaborata da Edgar Morin, il filosofo fraterno amico che, ricorda lo stesso Ceruti, ha ispirato lo stile del suo lavoro nella maniera più vitale8. Disponendo di una scrittura nitida e sobria, sempre elegante e carica di pathos, Mauro Ceruti affronta svolte e biforcazioni impreviste di queste storie. Egli delinea veri e propri capovolgimenti di prospettiva, che sorprendono e scompaginano le linee sedimentate della ricerca, sollecitando i suoi lettori – studenti, colleghi, amici – a moltiplicare gli sguardi euristici. Il suo è un pensiero pluriprospettico, che dà corpo alla teoria della complessità, delineando un intreccio di narrazioni in costante divenire. Il suo itinerario di ricerca approfondisce con originalità la prospettiva di quella epistemologia sistemica e relazionale che ha portato allo studio delle molteplici reti che si intrecciano nel nostro pianeta vivente, nel solco tracciato dalll’ipotesi Gaia di James Lovelock e Lynn Margulis, e nella cornice dell’idea batesoniana di “struttura che connette”: “il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me. E me con voi. E tutti e sei, noi, con l’ameba da una parte e lo schizofrenico dall’altra”9… Una “struttura” proposta non come entità fissa, ma che si articola come una danza di parti interagenti10. Una “danza” su cui Ceruti tornerà nel suo testo La danza che crea11, con prefazione di Francisco Va7 8 9 10 11
Ivi, pp. 304-305. M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, Feltrinelli, Milano 1986, p. 7. G. Bateson, Mente e Natura, Adelphi, Milano 1984, p. 366. Ivi, p. 27. M. Ceruti, La danza che crea. Evoluzione e cognizione nell’epistemologia genetica, Feltrinelli, Milano 1989.
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rela, che così commenta: “Questo testo ci fornisce un modo per illuminare la biologia e la scienza cognitiva attuali attraverso una rilettura delle loro radici”12. In questo, come in altri testi, Mauro Ceruti elabora una argomentata critica della tradizionale “epistemologia della rappresentazione” e propone una “epistemologia della costruzione e del gioco”. Egli afferma la natura costitutivamente parziale di ogni singola forma di conoscenza, sempre potenzialmente generatrice di idee e nuovi scenari di ricerca e di vita, ove vincoli e possibilità aprono alla creatività dell’ancora non-pensato, non-espresso, non-strutturato linguisticamente. Di qui la serrata critica al moderno ideale normativo dell’onniscienza e alla hybris tecnoscientifica, che oscurano il carattere contingente, singolare e imprevedibile di ogni storia evolutiva13. All’immagine essenzialista e astorica della Natura, Ceruti contrappone l’immagine di una natura come processo in divenire (physis), e l’idea di una ecologia della contingenza come caratteristica di ogni processo storico14. A fronte di questo scenario, Mauro Ceruti delinea la prospettiva di un umanesimo planetario volto a favorire la formazione di una rete globale dei saperi e delle esperienze, per consentire alla nostra specie di apprendere a essere veramente globale, a legarsi attraverso nuove relazioni sostenibili nell’insieme degli ecosistemi, a valorizzare il potenziale creativo delle diversità biologiche e culturali. È, la sua, la proposta di un pensiero critico e metacritico, di un pensiero plurale, capace di riannodare le articolazioni dei saperi spezzate dalle divisioni disciplinari. È un pensiero nomade e migrante, alla ricerca di inedite evenienze che possono dar luogo a creative trasformazioni della realtà e delle forme di pensiero che pensano la realtà. È la proposta di un pensiero complesso, volto “a concepire la molteplicità, l’irriducibilità e la coevoluzione dei punti di vista, e a contrastare ogni rapporto con il sapere che presupponga un luogo fondamentale di osservazione dal quale giudicare […] tut12 Ivi, p. 9. 13 M. Ceruti, La fine dell’onniscienza, Studium, Roma 2015. 14 Ivi, p. 86.
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to ciò che non entri nella nostra prospettiva”15 e a riconoscere che “il caso, la contingenza, la singolarità, la località, il disordine […] non sono affatto indicatori del carattere provvisorio e limitato delle nostre teorie, ma che rivelano il carattere quasi shakespeariano, l’inesauribilità e la molteplicità delle architetture del cosmo”16. È la proposta di un pensiero che sa riconoscere le leggi quali, al contempo, “limiti del possibile e condizioni di possibilità […], ove la storia naturale dei vincoli e la storia naturale delle possibilità sono strettamente intrecciate e coevolvono insieme”17. È in questa prospettiva epistemologica che alcune domande sono ricorrenti. Cosa è la vita? Qual è la sua origine? Quali sono i processi della sua evoluzione aperta? Qual è la storia della specie umana, letta contestualmente alla storia delle altre specie18? E poi: cosa è l’umano? Come lo si può conoscere? Quale il percorso della conoscenza di sé e del mondo-cosmo? Ed è nell’affrontare tali domande, evidenziando l’incompiutezza dell’umano (del singolo e della specie) e la pluralità dei suoi modi di divenire, che Ceruti concentra le sue riflessioni sulla urgenza di una una radicale riforma dei saperi, della formazione e delle istituzioni formative, a cui affidare il difficile compito di una ri-umanizzazione dell’umano, attraverso l’educazione alla pace, alla solidarietà planetaria, alla giustizia, all’educazione del cuore e della mente. Temi ricorrenti nelle sue opere come “fraternità”19, “solidarietà planetaria”, “responsabilità di fronte alla vita”, “spirito di comunità”, “liberazione del pensiero”, sono intrinseci alle finalità che sempre caratterizzano le azioni formative-trasformative. Comune al telos pedagogico è la questione della formazione dell’identità umana, attraverso la complessa composizione di bios, anthtropos, technium. Così come comune al telos pedagogico è l’auspicio di azioni responsabili, attraverso amicizia, amore e tenerezza, compassione 15 16 17 18 19
M. Ceruti, Il tempo della complessità, Raffaello Cortina, Milano 2018, p. 125. Ivi, pp. 97-98. Ivi, p. 113. G. Bocchi, M. Ceruti, Origini di storie, cit., p. 189. Su questo tema in particolare si veda: M. Ceruti, F. Bellusci Il secolo della fraternità. Una scommessa per la cosmopolis, Castelvecchi, Roma 2021.
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e cura, per diffondere benessere di sé e degli altri “socius” che abitano i contesti in divenire della natura e della nostra Terra-madre. E basti questo per concludere: è lungo l’elenco, per poterlo ricordare, delle collaborazioni intrattenute in questo spirito con studiosi di grande rilievo nazionale e internazionale, a cui Mauro ha sempre espresso profonda gratitudine. Mi limito qui a ricordare quanto ha scritto di Gianluca Bocchi, con cui ha condiviso, negli anni, molti studi e ricerche: “Non mi è possibile pensare al mio lavoro senza pensare a Gianluca Bocchi, il mio interlocutore principale, la fonte più creativa dei miei dialoghi con il sapere”20.
20 M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, cit., p. 7.
Giovanni Puglisi*1
LA SCUOLA DI COMPLESSITÀ Dall’Università di Palermo all’Università IULM
È proprio vero quello che dicono i filosofi: “La vita va compresa all’indietro”. Ma non bisogna dimenticare l’altro principio, che “si vive in avanti”. Søren Kierkegaard
Quaranta anni sono il tempo di una vita: e l’amicizia che mi lega a Mauro Ceruti potrei dire che ha scandito i momenti più significativi della mia vita. È molto? È poco? Non importa: una storia intellettuale non si scandisce con il “tempo matematico”, bensì è solo il “tempo durata” utile a misurare l’intensità del rapporto intellettuale nato quasi per caso e diventato – almeno per me – un punto di riferimento stabile negli anni. È di poco tempo fa una mia casuale conversazione con Mauro che mi ha portato, ex abrupto ed ex silentio, a fare un estemporaneo bilancio delle personalità che hanno avuto un’influenza nella mia vita intellettuale, tanto fra i Maestri, quanto fra coloro – coetanei, un po’ più giovani o anche decisamente più giovani – che hanno segnato gli ormai lunghi anni della mia vita. Se dicessi che non superano le dita di una mano, non andrei molto lontano, Maestri e Allievi compresi. Mauro è uno di essi. Oggi, questa testimonianza, a valle della lunga e prestigiosa carriera accademica di Mauro, mi consente di guardare più da vicino nel registro della mia memoria e godere a ritroso dell’intensità della nostra amicizia e, per il futuro, della sua longevità. L’amicizia e la stima rendono più nitido il ricordo, ma per converso più difficile trovare le parole giuste per il lettore del giorno dopo. Ci provo, dunque.
*1 Professore di Letterature comparate, Presidente dell’Università IULM, Milano, Vicepresidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Treccani.
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Mauro Ceruti – dicevo – rappresenta per me, nella lunga rapsodia degli incontri della nostra vita personale e accademica, un punto di riferimento, pur nella diversità delle rispettive motivazioni culturali ed esperienze accademiche e professionali. Debbo tornare, à rebours, alla metà degli Anni Ottanta, in una buia periferia palermitana, per ritrovare, in occasione di una cena accademica, il ricordo sfocato, ma sicuro, del nostro primo incontro. I Colleghi psicologi di Palermo, infatti, volevano “presentare” al Preside della Facoltà – ufficio che io ricoprivo in quel tempo –, il brillante “studioso del Nord”, che progettavano di fare “atterrare” a Palermo, nel neonato Corso di Laurea in Psicologia. Alto, un ben curato capello fluente – credo di ricordare “tenuto a bada” da un cappello a larghe falde – “bianco vestito”, tanto cortese, quanto elegante, mi apparve così il già noto studioso di scuola piagetiana, che sarebbe presto diventato una delle punte di diamante del nuovo Corso di Laurea. Capii subito, infatti, e ne ebbi conferma nei giorni e nei mesi successivi, che non mi trovavo davanti al solito “bravo giovane” in cerca di casa accademica, piuttosto in presenza di uno studioso serio e affermato nelle migliori Scuole europee di psicologia dell’età evolutiva, che avrebbe presto dato una svolta alla ricerca e agli studi sulla personalità e sulla società. Non ero un indovino, ma nei mesi e negli anni successivi ebbi le scontate conferme e Mauro divenne – e non solo per me, laico al Concilio degli psicologi – il punto più importante e più alto di riferimento di quella esperienza formativa palermitana. Debbo ammettere che in quegli anni, durante la mia esperienza palermitana mi ero abituato male: con una buona dose di fortuna, furono infatti anni importanti; la sede universitaria palermitana divenne un crocevia di numerose personalità della cultura italiana, accogliendo nella allora Facoltà di Magistero di Palermo numerosi intellettuali, che, prima o dopo Ceruti, ebbi la fortuna e l’onore di “chiamare” a ricoprire Cattedre in quella Facoltà. Solo come testimonianza della memoria voglio ricordare personalità come Furio Jesi, Maurizio Perugi, Felice Perussia, Gianfranco Ayala, Carlo Pincin, Pina Lalli, Luigi Manconi e molti altri, che rappresentarono per la Facoltà e per la Scuola palermitana, nelle diverse aree disciplinari di loro competenza, quella ventata di contaminazione senza la quale, forse, quella sede universitaria sarebbe affondata, compresa
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la nuova laurea in Psicologia. Mauro Ceruti fu e rimane di quella stagione una stella di prima grandezza. Le linee lungo le quali si è sviluppata nel tempo successivo la nostra collaborazione hanno sempre avuto sullo sfondo progetti rivolti alla formazione accademica e allo sviluppo della ricerca finalizzata, a partire proprio dalla istituzione e dal consolidamento della Facoltà di Psicologia di Palermo, per passare successivamente al grande tema della formazione degli insegnanti, e approdare infine alle tematiche della complessità e della sostenibilità che hanno rappresentato la parte più ricca, più duratura e più coinvolgente della nostra “relazione culturale”. Vale la pena solo ricordare che la parabola riformatrice che seppellì le vecchie Facoltà di Magistero in favore delle nuove, attuali Facoltà di Scienze della Formazione maturò in quegli anni nella Facoltà palermitana per diventare il modello nazionale di trasformazione. Gli anni dell’esperienza palermitana furono costitutivi e quasi essenziali, almeno per me, principalmente grazie a un sistema formativo nell’ambito delle scienze umane e sociali, psicologia compresa, che avevamo, non senza difficoltà, messo in piedi. Erano quelli del boom della Psicologia nelle Università italiane e gli Atenei che gestivano Corsi di Laurea in Psicologia inizialmente erano solo due, Roma e Padova: il resto del Paese era in fibrillazione per l’evidente squilibrio territoriale e le “pressioni” accademico-politiche per ottenere il “terzo polo” della Psicologia accademica si dividevano tra Palermo, Napoli e Catania. Un po’ la sorte, un po’ i destini incrociati che qualche volta riescono a irretire la fortuna, la scelta cadde su Palermo. In verità, lo sforzo della sede palermitana per ottenere il corso di laurea in Psicologia fu sinergico e corale: gli investimenti dell’allora Facoltà di Magistero – che in quegli anni appunto avevo l’onore e la responsabilità di guidare – nelle scienze psicologiche furono strutturati tra progettazione didattica e progettualità scientifica, ragioni per le quali era quasi impossibile per chiunque, a livello ministeriale e accademico, restare indifferenti. La scommessa del nostro progetto era proprio quella di insediare e sviluppare a Sud un polo oscillante ma duraturo tra la ricerca di base nel campo delle scienze cognitive e la ricerca applicata nei campi della fiso-biologia, dello sviluppo infantile e dell’attenzione per i disagi individuali e sociali
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sempre crescenti nella società contemporanea. Mauro Ceruti fu di quel progetto un punto di forza – vorrei dire fra i più autorevoli – per dare solidità e credibilità nazionale e internazionale al progetto. La Scuola di epistemologia e scienze cognitive avviata da Mauro, affollata di giovani entusiasti e carichi di speranza, fu il punto di partenza di un gruppo di ricercatori che negli anni a venire hanno costituito il nucleo portante di quel ricco polo didattico-scientifico palermitano, allargato alle scienze del comportamento, alla psicologia di personalità, alla sempre più performante Scuola della complessità. Giovane e brillante docente, Mauro, costituì un polo di attrazione anche per altri studiosi e altre collettività scientifiche, resiliente ancora per molti anni dopo il suo trasferimento ad altra sede universitaria. Non è di certo facile insegnare in una Facoltà di Psicologia, certamente è ancora molto più difficile farlo a Sud e, per di più, in chiave fondativa e strategica, ovvero non solo per erogare didattica, ma principalmente per costruire sul territorio esperienze scientifico-laboratoriali per il tempo a venire. L’esperimento fondativo riuscì perfettamente. Successivamente, Mauro ebbe la possibilità di portare la sua esperienza e il suo know-how in altra Sede ed ebbe la possibilità di misurarsi con le grandi questioni della formazione e della formazione degli insegnanti in particolare, guidando, a sua volta, la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Milano Bicocca. In quel contesto, ebbi ancora la fortuna di lavorare ancora con lui, essendo il Presidente della Conferenza dei Presidi di Scienze della Formazione. Furono anche, quelli, anni tanto complessi, quanto ricchi di esperienze e di progettualità. Erano gli anni della trasformazione graduale e inesorabile del sistema della formazione universitaria degli insegnanti, erano gli anni della difficile battaglia per dare al sistema universitario del settore, oltre al progetto, anche le gambe per andare avanti, per farlo diventare realtà pulsante. Con il senno del poi, non posso dire che il sogno si sia realizzato, né che il progetto, nonostante tutti gli sforzi, sia riuscito ad andare molto avanti, almeno nei termini e secondo la filosofia riformatrice dei pionieri: posso però affermare, con cosciente serenità, che furono anni importanti per confrontarsi con la spinta accademica sostenuta da un resiliente corporativismo culturale di stampo peda-
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gogico-didattico, volto a dare predominante spazio e potere a una visione auto-centrica della formazione degli insegnanti, alternativa a una visione più strutturata e curriculare dei processi formativi, sostenuta da una forte spinta morale per dare concretezza istituzionale a una progettualità politico-istituzionale di grande respiro pluridisciplinare, sulla quale avevano lavorato più generazioni accademiche, guidate per molto tempo dall’intelligenza visionaria di Giunio Luzzatto. Se oggi qualcosa rimane in piedi di quel tempo nelle realtà formative degli insegnanti con le quali in modo diverso ci misuriamo ogni giorno – in verità molto poco, sommersi da una asfissiante moda pedagogico-didattica – si deve all’impegno di quegli anni e di quei Colleghi. Mauro ed io potremmo parlarne. Il trasferimento di Mauro all’Università di Bergamo mise fine a quella resiliente linea collaborativa, ma non interruppe il fil rouge che ci legava intellettualmente e vedremo ancora una volta accademicamente. Mentre Mauro Ceruti andava, infatti, a insegnare a Bergamo con il sogno di dare vita in quella sede a un progetto filosofico incentrato sulla complessità, io lasciavo, a mia volta, l’Università di Palermo e giungevo a Milano, all’Università IULM chiamato da Franco Alberoni, altra personalità eclettica, che ha molto contribuito a quel tempo a dare una svolta alla mia vita accademica e culturale. I tempi della relazione culturale e scientifico-accademica milanese tra Mauro e me sono, ancora una volta, molto correlati. Il primo momento fu quello in cui la nostra collaborazione fu strutturata a distanza, tra Bergamo e Milano, e un secondo momento quando Mauro mi fece il grande onore di accettare un suo ritorno a Milano, come professore all’Università IULM. Questo secondo momento è stato ed è il più ricco, il più interessante, il più fruttuoso. Su questo crinale non parliamo più di “storia”, bensì di attualità: non solo durante la mia esperienza rettorale, ma anche dopo, anche adesso, le occasioni, i momenti e gli incontri scientifici sono frequenti e ricchi di progettualità e sviluppi. Parlarne ne potrebbe tarpare le ali e sarebbe forse o irriguardoso o precipitoso. Mi sento di potere affermare che oggi la Scuola sulla complessità di Mauro Ceruti è diventata un polo di eccellenza che affonda sempre di più le sue radici nel terreno scientifico della IULM e si irradia con prepotente prestigio anche oltre i confini del nostro Paese.
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Come ho detto a voce a Mauro, l’auspicio è che la nostra lunga relazione intellettuale possa continuare ancora a lungo dentro e fuori dall’Università. Voglio ricordargli che il futuro prossimo ci vedrà “professori emeriti” – io, ahimè, sono più vecchio e lo sono già, Mauro lo sarà a breve – e insieme potremo fare “vivere” questa figura accademica, fin qui spesso solo meramente onoraria, in modo effettivo, riempiendola di contenuti e di progetti. Esattamente come quarant’anni fa a Palermo. A volte ritornano, forse dirà qualcuno. Solo così, però, potremo continuare a… innovare.
Maria Grazia Riva*1
L’EPISTEMOLOGIA DELLA COMPLESSITÀ IN AZIONE Preside e Maestro, all’Università di Milano Bicocca
Il savoir-vivre cosmico, benché taccia sul nostro conto, tuttavia esige qualcosa da noi: un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal e una partecipazione stupita a questo gioco con regole ignote. Wislawa Szymborska
…l’irrompere della contingenza e la sua “complessa” trasformazione… Quando mi è stato chiesto di scrivere in onore del pensiero di Mauro Ceruti e del contributo che ha offerto ai diversi ambiti del sapere e alle diverse pratiche, il ricordo è tornato velocemente e con grande emozione indietro, a tanti anni fa, all’anno accademico 1998-1999, il primo, quello della fondazione, della nuova Università di Milano-Bicocca, gemmata dall’Università Statale di Milano. A quel tempo, era stata appena istituita la nuova Facoltà di Scienze della Formazione guidata, come primo Preside, da Riccardo Massa e, al contempo, veniva creato il Dipartimento di Epistemologia ed Ermeneutica della Formazione, di cui fu eletto come Direttore Mauro Ceruti. Ricordo il fervore e l’entusiasmo del periodo subito prima della istituzione ufficiale di Facoltà e Dipartimento, e poi, man mano che il progetto prendeva forma concreta, l’atmosfera di eccitazione per una progettualità che appariva aperta a mille possibilità, per una creatività scientifica, formativa e di ricerca che aiutava a superare le mille problematiche e difficoltà inevitabilmente *1 Professore di Pedagogia, Università di Milano Bicocca.
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emergenti in una fase iniziale. Per noi pedagogiste e pedagogisti si realizzava l’agognato sogno di avere una casa per l’educazione e la formazione, dove poter finalmente mettere i nostri saperi al servizio delle professioni educative e formative. Per tutti gli altri colleghi e colleghe disciplinariste significava partecipare a un’avventura formativa nuova, che si configurava come una scommessa verso l’interdisciplinarità, verso l’intreccio di saperi diversi. Ognuno poteva offrirli ai giovani grazie a sguardi e prospettive, intese come tagli del sapere, per comprendere meglio i processi educativi e formativi della contemporaneità. Ricordo le tante riunioni – prima, durante e dopo –, le tante riflessioni ed elaborazioni, per rendere concreta questa progettualità in stato nascente, così che nascesse bene, che si mettessero delle buone radici prima che il naturale processo evolutivo la trasformasse in un assetto ormai istituito. Nel pieno di questo fermento creativo e progettuale, Riccardo Massa, il nostro primo Preside, morì nella notte tra il 31 dicembre 1999 e il 1 gennaio 2000, lasciando tutti nello sgomento e nello sconcerto. Ricordo, tra i mille concitati eventi di quei lontani tempi, il giorno del funerale di Riccardo nella cappella dell’Università Statale, e ricordo la presenza attenta, partecipe, amica di Mauro. Ricordo la sua gentilezza e accoglienza verso di noi, allievi e allieve di Riccardo, la sua cura e la sua vicinanza in un momento così drammatico: la fine di un’era per noi che seguivamo Riccardo da tanti anni. Mauro divenne il nuovo Preside di Facoltà, ritrovandosi di punto in bianco a dover prendere le redini di un progetto in divenire. Abbiamo avuto modo di apprezzare il suo grande lavoro per dare una fisionomia formativa e consolidare il progetto che ci aveva tutti là raccolto, alla Bicocca. Per me ha significato essere osservatrice attenta e in apprendimento del farsi man mano di un processo di messa in atto e realizzazione concreta della complessità tanto cara a Mauro; così come imparare come intrecciare, come cum-plectere, le tante componenti e istanze presenti sia nel progetto formativo della Facoltà sia nelle interrelazioni fra i docenti di quel primo gruppo di quattordici studiosi e studiose di discipline diverse – sociali, umanistiche, naturali – sia nella articolata gestione e conduzione dei Consigli di Facoltà. Ho visto dispiegarsi la straordinaria capacità di Mauro di trasformare un evento contingente, a seguito di una tragedia, in una realtà solida e di grande valore, articolata e consapevole della propria comples-
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sità. Ricordo anche la sua magistralità, l’enorme aula magna della Bicocca, satura all’inverosimile di giovani, per ascoltare affascinati le lezioni del professor Ceruti, amatissimo dagli studenti, chiaro ed efficace nell’introdurre a questioni e problemi così difficili quali quelli pertinenti all’epistemologia della complessità. …epistemologia della complessità per la formazione e per la clinica… Tuttavia, Mauro Ceruti non è stato Maestro solo per i tanti giovani che ebbero la fortuna di ascoltarlo dal vivo, nel venire introdotti alla filosofia della scienza e alla necessità di problematizzare la conoscenza nella direzione di una conoscenza della conoscenza stessa, apprendendo il ruolo cruciale cognitivo, culturale, politico e formativo della epistemologia della complessità. Mauro fu Maestro anche a tanti di noi, più o meno giovani ricercatori e professori, stimolati a non dare per scontato i nostri saperi, le nostre categorie, i nostri metodi di ricerca, ma piuttosto a indagarne le componenti e le molteplici relazioni fra esse. Per noi del gruppo di ricerca di Clinica della formazione, allievi e allieve di Riccardo Massa, alla ricerca di un modo diverso di fare pedagogia – rispetto al dibattito imperante a fine secolo scorso, oltre i modelli tradizionali che concepivano senza troppe problematizzazioni la pedagogia come forma di indirizzamento del soggetto utilizzando precetti, regole e norme della cosiddetta buona educazione, oppure tavole di valori e ideali che dovevano essere raggiunti dagli educandi oppure, ancora, come esercizio trasmissivo di nozioni e informazioni e così via – il pensiero di Mauro Ceruti e, peraltro, la sua stessa presenza fisica che lo incarnava fortemente, costituì un’autentica ventata di aria buona. Soprattutto in seguito, dopo la morte di Riccardo Massa, la visione ampia, innovatrice sul mondo propria della prospettiva scientifica, epistemologica e culturale di Mauro Ceruti furono una vera e propria guida illuminata in un periodo di grande disorientamento e fatica. Personalmente, sarò grata in eterno a Mauro per la sua capacità di incoraggiarmi, di indicarmi la strada, di saper distinguere tutti i piani della complessità in gioco nella Facoltà in quegli anni. Il suo costante richiamo ad andare oltre la parcelliz-
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zazione e la frammentazione dei saperi, oltre una concezione della scienza, della verità e della conoscenza matematizzante, positivista, normativizzante, generalizzante, a cercare l’invisibile, mi fornì strumenti concettuali importanti per arricchire la mia elaborazione del modello della Clinica della formazione ideato da Riccardo Massa. Questo modello voleva indagare le dimensioni latenti e nascoste in gioco nei processi formativi: la latenza referenziale, quella cognitiva, quella affettiva e quella procedurale o del dispositivo vero e proprio. La nuova concezione della pedagogia elaborata da Riccardo Massa, ben oltre e in opposizione alla pedagogia tradizionale, era in perfetta sintonia con il pensiero della complessità portato da Mauro Ceruti. Pian piano, tutti noi imparammo a studiare i suoi testi, a cercare di capire in profondità le correlazioni, le sintonie, le eventuali divergenze tra clinica ed epistemologia, seguendolo nelle vie che conducevano a definire l’epistemologia della clinica, interrogandoci peraltro – come ebbe a dire una volta in aula magna lo stesso Mauro Ceruti – sulla possibilità di ragionare, circolarmente e ricorsivamente, anche sulla clinica dell’epistemologia. Anche la conoscenza della conoscenza si attua mediante un processo formativo che va esplorato nelle sue dimensioni cliniche, latenti, inconsce e viceversa e viceversa… … grazie per esserci stato… Grazie allora a Mauro Ceruti, Preside, Maestro, amico, grazie per esserci stato, soprattutto nei momenti più difficili della complessa vita accademica. Grazie per esserci stato a celebrare il ventennale della morte di Riccardo Massa ed essere stato nella Giuria della prima edizione del Premio Massa, insieme a Luciano Corradini e a noi, al gruppo di Riccardo. Non potevate che esserci tu, Mauro, e Luciano. Grazie per il coraggio del tuo pensiero, per la tua umanità, gentilezza e generosità nel porgerlo alla condivisione con gli altri e le altre.
Giuseppe Varchetta*
QUATTRO IMMAGINI E UNA CONVERSAZIONE
Gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura. Giambattista Vico
“L’immagine per sua essenza rinvia ad altro, a ciò di cui è immagine – a ciò ch’è prima di essa”1. L’altro, “ciò ch’è prima di essa”, esortato da un cortese invito a riandare nella memoria densa di un quarantennio, è il tentativo di una mia “cronaca sentimentale” con Mauro Ceruti, assistita, scandita e registrata da quattro immagini, quattro scatti della mia reflex2. A quattro Immagini affido, in altre parole, il compito di mediare, una sorta di intermittente spazio intermedio, un contenitore, tra l’accumularsi dei ricordi e il tentativo di comunicare una armoniosa unità del mio sentimento. Il primo scatto si prova di documentare l’avvio del “tempo della complessità”, con l’approdo nella cultura del nostro Paese de “La sfida della complessità”, a Milano, non lontano da piazza San Babila, nell’ottobre del 1984. Un convegno internazionale con l’obiettivo della “presentazione e discussione dei modelli teorici e degli stili di pensiero che più hanno contribuito ad elaborare nella cultura – e in particolare nella * 1 2
Psicosocioanalista, consulente direzionale. Si veda Vitiello, Introduzione a E. Pace, Ingens Sylva, Bompiani, Milano 1994, p. XII. Per molti anni, più o meno a partire dai primi anni ’80, insieme agli appunti di lavoro scritti con la penna, ho fotografato i volti dei colleghi e delle colleghe di lavoro con la mia reflex. E a poco a poco questa doppia pratica, ascolto e sguardo, è diventata un fare quasi simultaneo, sovrapposto.
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scienza contemporanea – un’analisi dei sistemi naturali, sociali e cognitivi in termini di complessità”. Sul palcoscenico della Casa della Cultura si alternano Mauro Ceruti, Edgar Morin, Jean Louis Le Moigne, Ilya Prigogine, Isabelle Stengers, Gianfranco Pasquino, Ervin Laszlo, Luciano Gallino, Donata Fabbri, Albero Munari e Gianluca Bocchi. Bocchi e Ceruti agiscono come coppia sodale, promotrice e anima dell’intero progetto. Un avvio denso, segnato da una immediata, ampia risonanza; risultanza degna quest’ultima della massima attenzione, nella considerazione del clima culturale del nostro Paese, ancora segnato, in quel finire degli anni Ottanta, da un diffuso scientismo neo-positivista, ancorato a ideologismi duri, sia sulla scena politica che su quella culturale. Operavo in quegli anni, come ho continuato a fare per tutto il quarantennio, nell’Organizzazione, con un confronto quotidiano con la ricerca organizzativa. Facevo parte di una compagnia di colleghe e colleghi, sodali nella pratica professionale, nella ricerca, nella lettura. Pattuglia non numerosa in quel tempo, carica di un disagio sentimentale generato dal confronto con l’urgente richiamo di una prassi di crescente difficoltà e sfida e la lacunosa povertà dell’armamentario, di pensiero e strumenti, legittimato, al di là di qualche significativa eccezione, dalle autorità ufficiali associative, e delle alte Direzioni del Personale e dell’Organizzazione3. Non giungevamo pur tuttavia del tutto impreparati all’appuntamento proposto da Bocchi e Ceruti, in realtà un “atteso imprevisto”4. Ci saremmo poi detti, una sorta di confessione collettiva, come a partire dal 1975 alla primavera dell’84, si fossero via via costituite picco3
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Un esempio significativo delle resistenze nei confronti dell’insieme di stimoli generati da “la sfida della complessità” è il dibattito che si è svolto in quei mesi all’interno dell’Associazione Italiana Formatori per la definizione degli obiettivi e della intitolazione della tematica centrale del convegno nazionale AIF del 1986. Dopo lunghe discussioni si giunse a un compromesso, di intitolare il convegno “Nuove complessità”, per indicare, secondo la decisione della Presidenza AIF, come “la complessità fosse sempre esistita” e come “la sfida proposta da Bocchi e Ceruti non scoprisse nulla di nuovo, ma al massimo una ‘nuova’ complessità da affiancare a quelle antiche da sempre esistenti”. La citazione dell’ossimoro “atteso imprevisto” è un tardivo omaggio alla genialità di Paolo Perticari, che all’interno della comunità della “sfida della complessità” ha avuto un ruolo fondamentale come pedagogista nella definizione dell’apprendimento, soprattutto infantile, come un “atteso imprevisto”, il cui riconoscimento è diretta responsabilità dei ruoli di docenza.
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le biblioteche personali, per molti aspetti private, di letture, coerenti nel tentativo di nutrire un nuovo paradigma interpretativo, un nuovo sguardo epistemologico, capace di animare il grande affresco proposto nel 1974 da Emery con la sua “Teoria dei sistemi”5. La ricerca filosofica di Aldo Giorgio Gargani proponeva nel 1975, con Il sapere senza fondamenti6 una svolta radicale al pensiero filosofico rappresentazionistico, svolta sottolineata quattro anni dopo con il volume collettaneo, curato sempre da Giorgio Gargani La crisi della ragione7. Nella breccia aperta dalla ricerca di Gargani si collocavano nelle nostre letture, nel 1980 l’affresco di Giovan Francesco Lanzara e Francesco Pardi L’interpretazione della complessità8, insieme alla straordinaria proposta dell’autopoiesi di Maturana e Varela9, capace di cancellare il modello input/output nella teoria dei sistemi e nel 1981 il manifesto de La nuova Alleanza10 di Prigogine e Stengers. Nel 1983 appariva infine, in una versione editoriale ridotta, la prima parte de “Il metodo” di Morin11. Non poco in verità se si considera il clima culturale di quegli anni. Ma eravamo dispersi, non connessi da un sentimento e da una epistemologia dichiarati come comune territorio di ricerca e di solidarietà organizzativa. Difettavamo, in altre parole, di un contenitore, di un’immagine autorevole che ci fosse venuta incontro, offrendoci una casa comune. E tutto questo significò, in quell’autunno del 1984, “la sfida della complessità” lanciata da Bocchi e Ceruti. L’ascolto, la partecipazione, peraltro personalmente defilata, a quel Convegno e ai seminari successivi, avviavano finalmente in me, una riesposizione nuova e spontaneamente rigenerata di tutte le stimolazioni del decennio precedente; non tanto un riordino classificatorio, quanto la esposizione a un’emozione, con la proposta, 5 6 7 8 9
F.E. Emery (a cura di), La teoria dei sistemi, Franco Angeli, Milano 1974. A.G. Gargani, Il sapere senza fondamenti, Einaudi, Torino 1975. A.G. Gargani (a cura di), La crisi della ragione, Einaudi, Torino 1977. G.F. Lanzara, F. Pardi, L’interpretazione della complessità, Guida, Napoli 1980. H. Maturana, F. Varela F., Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, Marsilio, Venezia 1985. 10 I. Prigogine, I. Stengers, La nuova alleanza, Einaudi, Torino 1981. 11 E. Morin, Il metodo. Ordine, disordine, organizzazione, 1983, Feltrinelli, Milano 1983.
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senza ritorno, del confronto con la interrogazione sostenuta da un soggetto ritornato al centro della scena dell’emozione e del pensiero, anche nell’esperienza organizzativa. Tornando all’ipotesi di lavoro iniziale, non ho un’immagine che fissi quell’evento fondativo e Mauro Ceruti in quella circostanza. Non ho una fotografia analogica stampata su carta barritata, ma conservo un’immagine netta dentro di me, di Mauro Ceruti nelle battute finali di quel Convegno. Alto, di gentile aspetto, i capelli lunghi alla nazzarena, improvvisamente solo, ritto nella parte alta della sala del Convegno, a osservare il disperdersi lento dei partecipanti, accompagnati dall’eco ancora risonante della grande ovazione conclusiva dei lavori. Il volto disteso, segnato tuttavia, questo è il mio ricordo, anche da una manifesta preoccupazione, nel senso di “un prendersi cura prima” di un processo avviatosi felicemente, ma che sarebbe stato segnato, e Mauro Ceruti lo percepiva già, non da un percorso leggiadro, ma da una dura strada in salita. Il volto di Mauro Ceruti rivelava, in quell’autunno del 1984, un turbamento, un presentire diffuse difficoltà di sviluppo che tanti anni dopo l’avrebbero “costretto” a scrivere un po’ depressivamente: Complessità è parola-rivelazione del nostro tempo e, contestualmente, parola contro tempo … l’idea, cioè, di una realtà o di una causa che meglio di altre descrive la contemporaneità, afferra il proprio tempo, ma che è percepita come “inattuale” da chi è legato a convinzioni radicate, che si vorrebbero continuamente riconfermare seppure anacronistiche. Innanzitutto, la convinzione secondo la quale il mondo è alla base semplice e basta cercare questo semplice invisibile dietro la complessità dei fenomeni, giudicata solo apparente. La semplificazione è stata la via regia per realizzare l’ideale dell’onniscienza, costitutivo della tradizione moderna: giungere gradualmente e progressivamente alla conoscenza definitiva e in linea di principio completa, che avrebbe reso il mondo sicuro, dominabile, prevedibile. (…) La semplificazione operativa, operazionale, non viene negata ma ne viene negato il significato assoluto, il valore ontologico.12 12 M. Ceruti, F. Bellusci, Abitare la complessità. La sfida di un destino comune, Mimesis, Milano-Udine pp. 8, 9 e 50.
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Al di là di tutto questo e di ogni mia interpretazione, a quell’evento dell’autunno del 1984 è obbligatorio attribuire il merito di aver coagulato la formazione di un gruppo di ricercatori, di scienziati delle discipline della natura e delle scienze umane, con esperienze diverse e con riferimenti a vertici disciplinari diversi, ma tutti accomunati da un’attenzione alle tematiche della complessità e alla complessità come punto di vista nuovo, obbligatorio per una comprensione e gestione delle problematiche della ricerca scientifica e dei grandi problemi socio-culturali del tempo. E quel “collegio invisibile” si arricchì di grandi nomi, accanto a quelli già comparsi a Milano nell’ottobre del 1984: in occasione di due grandi eventi13. Accanto alla “pattuglia” iniziale del convegno di Milano del 1984, comparvero, tra gli altri, Andrea Canevaro, Heinz von Foerster, Humberto Maturana, Gordon Pask, Gino Dalle Fratte, Henri Atlan, Marco Casonato, Niles Eldredge, Sergio Manghi, Ernst von Glasersfeld, Paul Watzlawick, Giorgio De Michelis, Telmo Pievani, Paolo Perticari. E quel nutrito gruppo tanto informale, quanto coeso, non si disperse, creando nuove relazioni attraverso scambi, risultati di ricerca, che confluirono in parte in due riviste, Oikos e Pluriverso, entrambe create e animate da Mauro Ceruti. Soprattutto quest’ultima rivista, Pluriverso, ebbe il ruolo di un autentico laboratorio intercontinentale, capace di offrire spazio a un crescente dibattito continuo intorno alle fenomenologie diverse della complessità, scrivendo una pagina scientifico culturale, il cui significato organico, autenticamente “rivoluzionario”, non è stato ancora del tutto accolto e compreso nella cultura del nostro Paese14.
13 Dal 26 al 28 aprile 1990 a San Martino di Castrozza e a Fiera di Primiero si svolse il Seminario internazionale “Conoscenza come Educazione. Mutue (im)possibili prospettive in Cibernetica e Pedagogia”; e a Bergamo, dal 6 all’8 ottobre 1990, il Convegno internazionale “Evoluzione e Conoscenza. L’epistemologia genetica di Jean Piaget e le prospettive del Costruttivismo”. 14 Pluriverso. Biblioteca delle idee per la civiltà planetaria, avvia le sue pubblicazioni nel dicembre del 1995 per cessare nel dicembre 2001, dopo l’edizione di 25 numeri.
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Una piccola traccia dell’intenso lavoro di incessante promozione culturale sostenuto da Mauro Ceruti in quegli anni è la sua partecipazione nel giugno del 1988, su invito da parte di Ariele – l’Associazione per lo sviluppo e la ricerca della psicosocioanalisi – come relatore al Colloquio sulla tematica “Autopoiesi e cultura: riflessioni critiche sull’organizzazione come sistema complesso di conoscenza”. L’interpretazione autopoietica dei sistemi umani e organizzativi era stata accostata all’ipotesi di lavoro lanciata dalla psicosocioanalisi nel tentativo di testimoniare l’inconscio collettivo nell’esperienza organizzativa. L’immagine fotografica di Mauro Ceruti, relatore al convegno di Ariele, è una nota densa dell’impegno scientifico e di cura verso l’audience partecipante di Ceruti relatore. Quel suo toccarsi la tempia, tormentando la cute frontale, rivela tutto lo sforzo di Ceruti, filosofo della complessità, nel tentativo di partecipare il concetto di autoorganizzazione, all’interno della tematica centrale dell’identità del sistema organizzativo, nella demarcazione tra sistema e ambiente. Nella testimonianza di Ceruti in quel convegno ci si confronta a questo proposito con due diverse prospettive epistemologiche. Nella prima, il siste-
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ma è sostanzialmente dipendente come sistema aperto dagli input dell’ambiente; nella seconda, nella prospettiva della propria chiusura organizzazionale, il sistema interpreta l’ambiente sulla base della coerenza conservativa delle proprie dinamiche interne. Le due prospettive si confrontano su due contrapposizioni concettuali: la prima riconduce il rapporto ambiente-sistema vivente cognitivo in una logica di corrispondenza sulla base della quale il sistema restituisce con il circuito input/output una rappresentazione formale dell’ambiente nel quale si rispecchia. La seconda prospettiva opera in una logica di coerenza nel salvaguardare da parte del sistema vivente la propria identità attraverso processi susseguenti di equilibrazione. Su queste tematiche, Ceruti, nel 1989, sollecitato da una intervista avrebbe dichiarato: Vorrei sottolineare la rilevanza di una utilizzazione della nozione di autoorganizzazione non come una nozione tecnica o un concetto scientifico, ma piuttosto come un atteggiamento mentale, un qualcosa che ci rimanda più a una euristica che a una tecnica, a una tecnologia o a una qualità propria di un sistema. L’autoorganizzazione non è dunque una proprietà intrinseca a un qualche tipo di macchina, ma è, al contrario il prodotto di una nostra decisione, è una proprietà connessa al nostro modo di guardare il sistema e non una proprietà del sistema in sé.15
L’autorganizzazione indicata come prodotto di una decisione dell’osservatore sottolinea la prospettiva della relazionalità nella dinamica cognitiva e affettiva dei sistemi viventi e crea un ponte immediato con una psicosocioanalisi, da sempre attenta alla relazionalità del soggetto, e alle corrispondenti pieghe sia intrapsichiche che interpsichiche, all’interno dei sistemi organizzativi complessi.
15 Intervista di Dunia Pepe a Mauro Ceruti, “Una possibile interpretazione del concetto di sistema: i progetti della natura e della storia”, in Sociologia del lavoro, 1989, 37.
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La scena si sposta a Torino. Gli anni trascorsi e l’assenza di appunti mi impediscono di essere preciso sulla circostanza che l’immagine fissa. Ricordo che partecipai a quell’evento insieme a Francesco Novara, del quale ero in quella giornata ospite. I relatori principali erano il sociologo Luciano Gallino e il fisico Tullio Regge. A memoria, ricordo una riflessione contributiva del loro dialogo alla ricerca di un paradigma comune delle Scienze della Natura e delle Scienze Umane, nel tentativo di superare la distinzione normata da Dilthey, tra le scienze della natura e le scienze dello spirito. Inaspettatamente, almeno per me, intravidi tra il pubblico Mauro Ceruti ed Edgar Morin, vicini, partecipanti tra i partecipanti. La secca puntigliosità sociologica di Gallino e il pacato porgere di Regge hanno affascinato il pubblico e, profondamente, Ceruti e Morin. Nella mia immagine i loro due volti appaiono di profilo, come sospesi nell’ascolto, tesi ad esplorare un orizzonte possibile, nella consapevolezza che superare la dicotomia tra scienze della natura e scienze umane era un compito irrinunciabile per la “sfida della complessità” e che entrambi, pur con ruoli diversi, a questo compito erano stati chiamati da una contingenza insieme sociale, scientifica e culturale.
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Ma quell’immagine rivela altro; è una traccia viva, che introduce al rapporto di Mauro Ceruti con i suoi maestri, in primis con Edgar Morin. Si potrebbe scrivere a lungo su questo tema; rimbalzerebbero – senza presumere una rubricazione organicamente esaustiva – i nomi di Heinz von Foerster, Humberto Maturana, Francisco Varela, Stephen J. Gould, e, sullo sfondo, il pensiero di Ludovico Geymonat e di Aldo Giorgio Gargani. All’interno della tematica connessa alla relazione “maestro-allievo”, sembra rilevante indicare a questo proposito come alcune voci della filosofia contemporanea indichino che per poter considerare oggi i temi della formazione occorra collocarli in una prospettiva più ampia e di natura ontologica rispetto all’intera esistenza umana: non si può considerare la figura del maestro rispetto alla situazione e alle aspettative del discepolo e alle conseguenti interazioni che corrono fra loro senza inscriverle nel tema più generale della condizione della vita autentica e della vita inautentica degli uomini, sullo sfondo delle relazioni fra mente e mondo esterno, io e natura, spirito e cose … Non bisogna d’altronde trascurare che il maestro costituisce il punto di intersezione del rapporto tra condizione autentica e condizione inautentica della vita umana.16
La coltivazione da parte di Mauro Ceruti del rapporto con i suoi maestri gli ha progressivamente consentito di cogliere, non solo epistemologicamente ma anche sentimentalmente, il valore della prospettiva della transdisciplinarità. Il nucleo dei suoi maestri porge a Mauro Ceruti la palpitante testimonianza di come – secondo una straordinaria intuizione di Paolo Perticari – un autentico percorso, intellettuale e sentimentale, attraverso i territori della transdisciplinarità richieda “una conoscenza del proprio modo di conoscere attraverso il modo di conoscere dell’altro (o degli altri)”17. 16 A.G. Gargani, Il filtro creativo, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 45. 17 P. Perticari, Conoscenza come Educazione. Una pertinenza a partire dai ragazzini che “fanno fatica” a scuola, in P. Perticari (a cura di), Conoscenza come educazione, Franco Angeli, Milano 1992, p. 13.
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Lungo queste tracce, nel rapporto coltivato per più di un quarantennio con i propri maestri, Mauro Ceruti sperimenta la prospettiva del riconoscimento reciproco: ogni incontro con il maestro, con i maestri, è per Mauro Ceruti un passo in avanti verso una prospettiva futura, che sa accogliere, come nella maggior parte dei casi anche provvisoriamente incomprensibile, ma in sé già preziosa di prospettive di sviluppo. L’eco dell’incontro con i maestri riaffiora nelle giornate pensose di Mauro Ceruti come un potenziale di un possibile incontro a due, a tre, a quattro, e/o a un incontro nuovo col proprio Sé. In questi volti, in queste voci, in particolare in Edgar Morin, Mauro Ceruti, in ascolto, ha trovato nutrimento per l’elaborazione di un rapporto autentico con la propria prospettiva umana.
Con quest’ultima immagine siamo ai nostri giorni, un pomeriggio del settembre 2022. La nona edizione de il “Tempo delle Donne” (Corriere della sera), nella sezione Garage, all’interno della proposta “Conversazioni infinite”, prevede nel pomeriggio del 9 settembre alla Triennale di Milano una conversazione, nel ciclo “Le parole della complessità”, sul tema “Emergenza” con Mauro Ceruti.
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L’incontro con Mauro Ceruti ha luogo in un’aula di dimensioni ridotte in un sottopiano dell’edificio della Triennale. Arrivo un po’ in ritardo, quasi al termine della presentazione del relatore Ceruti da parte di una giovane studentessa dell’università Statale di Milano. Con la mia reflex in mano scivolo tra il pubblico, accalcato nello spazio ristretto, e mi fermo a pochi metri da Mauro Ceruti, che non si accorge della mia presenza. Il pubblico è composto soprattutto da donne, giovani studentesse della Statale di Milano e un nucleo variegato di donne di mezza età. Mauro Ceruti è perfettamente a suo agio, con un tratto del porgere che mi riporta indietro, improvvisamente di molti anni, alle molteplici occasioni di suoi contributi, con pubblici diversi per confronti su problematiche diverse, generate dal confronto con la sfida della complessità. In questa occasione, Mauro Ceruti non disdegna di proporre una riflessione sui fondamenti della sfida della complessità, una sorta di affresco istituzionale, nel quale il costrutto dell’”emergenza” ha un ruolo fondamentale, con un richiamo non indiretto alle ricerche e alle testimonianze di Francisco Varela. Attraverso il concetto di “proprietà emergente”, da organizzazioni complesse possono originarsi caratteristiche nuove, in se irriducibili alle caratteristiche delle parti costituenti prese separatamente delle organizzazioni. Lungo questa traccia, questa la testimonianza di Mauro Ceruti, la coscienza umana, collegata originariamente a uno scambio neuronale, verrebbe a costituire un livello organizzativo superiore, per molti aspetti autonomo nei confronti della materia neuronale da cui ha origine, in grado in ogni caso di influenzare il sistema originario neuronale da cui emerge. Conclusa la relazione, accortosi della mia presenza, sollecitato dal brusio degli scatti della mia reflex confusi con gli applausi del pubblico, Mauro Ceruti mi saluta con un gesto della mano e col dire “mi piacerebbe rivederti”. Da quel pomeriggio di settembre dello scorso anno ci siamo sentiti più volte, senza ancora incontrarci: “coraggio Mauro, ce la faremo… forse si può pensare che quando si è amici ci si possa incontrare per qualche tratto di tempo anche col solo pensarsi. È
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l’occasione per dirti che tutte le sere mi addormento insieme alle amiche e agli amici che se ne sono andati, io non so dove18; alcuni di questi, carissimi, li ho incontrati chez toi”.
18 La citazione di questa breve riga mi viene dalla frequentazione quotidiana di una litografia di Ettore Sottsass Jr., affissa su una parete del mio studio.
UN UMANISTA NEL TEMPO DELLA COMPLESSITÀ
Stefano Zamagni*1
UN PENSATORE DELLA COMPLESSITÀ, PER SUPERARE LA CRISI DI PENSIERO NELLA SCIENZA ECONOMICA
Ubi lux lincet, humanitas surgit.
I. Un antico pensiero di Ugo di San Vittore, teologo e chierico vagante del XII secolo, bene ci restituisce la figura privilegiata di Mauro Ceruti. Diceva Ugo che colui che si sente a suo agio soltanto a casa propria, nel proprio paese, è un uomo assai imperfetto; certamente più perfetto è l’uomo che si sente a suo agio un po’ dappertutto; ma – concludeva – compiutamente perfetto è l’uomo che si sente “a disagio” ovunque si trovi. Così è il Nostro: mai contento di fermarsi per ammirare i risultati conseguiti; mai disposto a rinunciare alla libertà di opera e di pensiero per un di più di sicurezza o di potere. La figura di Mauro Ceruti è piuttosto singolare nel panorama scientifico contemporaneo. Il suo è un lavoro caratteristicamente di frontiera – mephòrios, avrebbero detto i greci antichi – tra scienze dell’evoluzione, filosofia, epistemologia, storia. È questa una forma di esibizionismo culturale? Tutt’altro! Ciò corrisponde a una precisa scelta epistemologica: Ceruti sa bene che la scienza è una struttura aperta in un duplice senso. Per un verso, perché il suo fondamento non le appartiene, dato che i suoi presupposti non sono scientificamente giustificabili, mentre lo sono le sue conclusioni. È per questo che nessuna forma di sapere può mai avanzare la pretesa di essere incondizionato e autogarantito, essendo costretto a riferirsi a un fondamento che gli è esterno. Per l’altro verso, perché la scienza non rappresenta una forma di conoscenza esaustiva delle realtà che *1 Professore di Economia politica, Università degli Studi di Bologna; Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.
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studia e perciò non può non intrattenere buoni rapporti di vicinato con altre forme di sapere. Per il Nostro, la nozione di complessità significa, basicamente, due cose: la comparsa di proprietà emergenti e il dispiegarsi di dinamiche sorprendenti, indeterminabili a priori. In altro modo, Ceruti ci spiega perché un sistema complesso – come ad esempio è quello economico – abbia proprietà che non si riducono alla sommatoria delle proprietà dei suoi componenti. E ci spiega, altresì, come nel corso dell’evoluzione, emergano qualità nuove che sono irreversibili. Lo spazio a disposizione non mi consente che alcune sottolineature circa l’impatto che il paradigma della complessità, così come delineato da Ceruti, può avere per il superamento della crisi di pensiero in cui versa la scienza economica. (Nelle Lettere di Berlicche di C. Lewis, si legge che Berlicche, il demone capo, consiglia al nipote Malacoda, giovane demonio ancora inesperto del mestiere, di non perdere tempo per dimostrare che il materialismo è vivo più che mai, perché il fatto di discutere sveglia la ragione e una volta che questa si sveglia non si può sapere quale ne possa essere l’esito!). II. Delle tre forme di ragione – teoretica, pratica, tecnica – che la cultura classica ci ha lasciato in eredità, l’economia appartiene propriamente alla ragion pratica. Ma, nel corso del tempo e fino al secondo dopoguerra, la disciplina ha sempre privilegiato un rapporto stretto con la ragione teoretica. È per questo che i grandi economisti del passato, quale che fosse la scuola di pensiero di appartenenza, erano anche filosofi. La novità che si è imposta, soprattutto dalla fine del secolo scorso, è che l’economia ha finito con il privilegiare l’alleanza con la ragion tecnica, recidendo, di fatto, il suo antico legame con la ragion teoretica, cioè con la sapienza. Ne vediamo le conseguenze. Il discorso economico ha certamente accresciuto, e di tanto, il suo apparato tecnico-analitico, ma esso non pare in grado di fare presa sulla realtà. Si pensi a problemi cruciali quali l’aumento endemico delle disuguaglianze sociali; lo scandalo della fame nell’epoca dell’abbondanza; l’irrompere dei conflitti identitari; la sostenibilità della biosfera; i paradossi della felicità. E altri ancora. Vano (e anche irresponsabile) sarebbe pensare di riuscire a risolvere problemi del genere affidandosi alla sola tecnica, che tuttavia
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rimane necessaria. La ragione è che, nell’attuale passaggio d’epoca, la tecnica non ha molto da offrire al discorso economico, perché essa è bensì capace di suggerire risposte, ma non di porre le domande appropriate, prima fra tutte, la domanda sull’uomo. La via del riduzionismo imboccata dalla scienza economica nel corso del secondo Novecento ha finito col disarmare il pensiero critico, con le conseguenze che ora sono sotto gli occhi di tutti. Aver creduto che il rigore scientifico postulasse l’asetticità e che una ricerca per essere giudicata scientifica dovesse liberarsi da ogni riferimento di valore etico ha finito col far accettare l’individualismo libertario – il singolarismo del progetto transumanista, contro cui tuona Edgar Morin1 – come un assunto pre-analitico che, in quanto tale, non abbisognerebbe di giustificazione alcuna. Mentre sappiamo che è esso stesso un giudizio di valore e pure pesante. Affermare che il bene è ciò che l’individuo giudica tale è il più forte dei giudizi di valore; eppure, non si ritiene di doverlo sottoporre al vaglio della ragion teoretica. Ma le cose stanno fortunatamente cambiando: si tratta dunque di accelerare un processo che già è iniziato. Invero, l’alleanza con la ragion tecnica ha condotto l’economia a subire il fascino del pensiero calcolante, discapito del pensiero pensante, quello che indica la direzione di marcia, cioè il senso dell’incedere2. Da qualche tempo, infatti, si va registrando un interesse crescente degli economisti nei confronti del problema riguardante il presupposto antropologico del discorso economico, un discorso che risulta tuttora dominato, per un verso, da una concezione alquanto limitata sia del benessere personale sia del bene della civitas, e, per l’altro verso, dalla incapacità di riconoscere a livello teorico il fatto che nell’uomo vi sono sentimenti morali – ovvero disposizioni che vanno ben oltre la ricerca dell’interesse personale. Questa sorta di risveglio trae origine da un duplice insieme di fattori. Da un lato, la presa d’atto che una comprensione non illusoria dell’odierna realtà economica esige il superamento del carattere riduzionista di gran parte della scienza economica contemporanea. La quale, proprio perché costruita su una visione distorta dell’a1 2
E. Morin, Svegliamoci, Mimesis, Milano-Udine 2022. Si veda M. Ceruti, F. Bellusci, Abitare la complessità, Mimesis, Milano-Udine 2020.
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zione umana e del sistema motivazionale che ne è alla base, non è in grado di fare presa sui nuovi problemi che intrigano le nostre società. La ricerca economica non può autoconfinarsi in una sorta di limbo assiologico. Per timore di esporsi nei confronti di una precisa opinione di valore, non pochi sono gli economisti che preferiscono rintanarsi nella sola analisi, dedicando crescenti risorse intellettuali all’impiego di sempre più raffinati strumenti logico-matematici. Ma mai potrà esserci un trade-off tra rigore formale del discorso economico – che tuttavia è necessario – e la sua capacità di interpretare i fatti. Non è vero, infatti, che il rigore scientifico debba postulare l’asetticità, debba cioè liberarsi da ogni riferimento di valore. Dall’altro lato, v’è la consapevolezza del fatto che il riduzionismo di cui sta soffrendo la ricerca in economia rappresenta il principale ostacolo all’ingresso nella disciplina di nuove idee e di nuovi approcci. Esso, infatti, costituisce una pericolosa forma di protezionismo nei confronti non solo della critica che sale dai fatti, ma anche di tutto ciò che di innovativo proviene dalle altre scienze sociali. La tendenza in atto è assimilabile a una sorta di migrazione intellettuale. E come gran parte delle migrazioni, questa ha radici in fattori sia di spinta che di traino; vale a dire ha radici nella insoddisfazione nei confronti del modo dominante di fare teoria economica e nella speranza che un orizzonte più vasto possa rendere la disciplina all’altezza delle sfide in atto, estendendone la portata esplicativa. La sfida oggi più impegnativa è quella che concerne il senso ultimo, cioè la direzione verso cui sta marciando la rivoluzione digitale. Le promesse di potenziamento, sia dell’uomo sia della società, che le tecnologie convergenti del gruppo NBIC (Nanotecnologie, Biotecnologie, Informatica, Cognitive Sciences) oggi fanno dà conto della grande attenzione che la tecnocrazia va ricevendo in ambito economico. Il telos dichiarato non è solamente il potenziamento della mente e il controllo e la manipolazione delle informazioni – questo è semmai lo scopos. Quel che preoccupa è l’artificializzazione dell’uomo e, ad un tempo, l’antropomorfizzazione della tecnica. Potrà una promessa del genere essere mantenuta e, se del caso, sarà eticamente accettabile? Rispetto a domande del genere l’economia non può chiamarsi fuori, pena la sua irrilevanza e quindi la sua graduale uscita di scena. La disciplina non può pretendere di escludere dal suo orizzonte conoscitivo qualunque fenomeno che non sia
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spiegabile in termini riduzionistici. È questo il vizio del cosiddetto eliminativismo, un indirizzo epistemologico che “cancella” tutti quegli aspetti che risultano intrattabili con le categorie e gli strumenti che in un certo momento si hanno a disposizione. E di ciò ha ben parlato Mauro Ceruti nel testo Sulla stessa barca3. III. La ricerca scientifica implica responsabilità e rischi che, specialmente (ma non solo) nelle scienze sociali, chiamano in causa le dimensioni sia dell’etica sia della politica. Oggi nessuno crede più alla possibilità che si possa separare L’”analisi” dalle “visioni”. Sappiamo infatti che le teorie economiche non sono strumenti neutrali di pura conoscenza. Non sono neutrali, perché i giudizi di fatto non sono separabili dai giudizi di valore – come il positivismo si era illuso di poter fare –, ma esprimono sempre dei punti di vista particolari dietro i quali si nascondono (talvolta molto bene) interessi particolari. Non sono di pura conoscenza, perché le idee e le scoperte cambiano le mappe cognitive delle persone e quindi cambiano il mondo. Le teorie sul comportamento dell’uomo contribuiscono a modificarlo, come ben insegna la celebre tesi della doppia ermeneutica. L’aveva ben compreso il grande astrofisico Leon Eisenberg quando scrisse: “I moti planetari conservano una sublime indifferenza rispetto alle nostre astronomie terrestri. Ma il comportamento dell’uomo non presenta mai pari indifferenza rispetto alle teorie sul comportamento adottate dall’uomo”4. Una specifica virtù che da sempre vado apprezzando del lavoro e dell’opera di Mauro Ceruti è il suo modo di affrontare la crisi del pensiero di questo nostro tempo. Si tratta dell’approccio del riconoscimento delle diversità, cioè dell’approccio della interconnessione transdisciplinare tipico del paradigma della complessità: come assicurare uno spazio pubblico in cui soggetti portatori di visioni diverse possano giungere, seguendo i canoni dell’etica dialogica, al consenso intorno ai limiti entro cui mantenerle. Come si può comprendere, è questa la grande sfida della comunanza (Koinotes) etica
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Si veda M. Ceruti, Sulla stessa barca, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2020. “The ‘Human’ Nature of Human Nature”, Science, 81, 1972, p. 128.
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nella società del pluralismo – una sfida che ancora non è stata pienamente raccolta. Il 18 giugno 1929, il filosofo francese Emmanuel Mounier così scriveva alla sorella: “Il nostro grande privilegio di creature umane, la nostra luce interiore è che noi stessi possiamo decidere di non invecchiare”. Mauro ha deciso di non invecchiare e così continuerà a non farci mancare il pungolo della sua parola e il sostegno della sua vispa intelligenza.
Walter Veltroni*
UN NUOVO UMANESIMO PER OSARE PIÙ DEMOCRAZIA
Sicuramente il legame di un destino che ci accomuna, il legame di scopi che ci accomunano, può cominciare a insegnarci qualcosa. Bob Kennedy
“Uno dei rari pensatori del nostro tempo ad aver compreso e raccolto la sfida che ci pone la complessità dei nostri esseri e del nostro mondo”. A delineare questo ritratto di Mauro Ceruti è uno dei più grandi intellettuali della nostra epoca, Edgar Morin, nella sua prefazione a uno degli ultimi e più stimolanti lavori di Mauro, intitolato proprio Il tempo della complessità1. Un libro affascinante, che spinge a interrogarsi sul divenire dell’umanità, sulla sua comunità di destino, sulla “mondializzazione” – per usare proprio le parole di Morin – “che trascina l’avventura umana, divenuta planetariamente interdipendente, fatta di azioni e reazioni: politiche, economiche, demografiche, mitologiche, religiose”. Un’interdipendenza di relazioni e di opportunità, ma anche nel segno di rischi e pericoli da affrontare con un approccio complesso e non settoriale: cambiamenti climatici e degradazione della biosfera, immense migrazioni, incremento delle armi nucleari e ruolo sempre più invasivo di quelle informatiche… Tutti ingredienti che portano davvero a definire il nostro come “il tempo dell’ansia”, con il diffondersi di una diffusa sensazione di incertezza e di precarietà, con la percezione che il futuro si vada restringendo e incupendo, con il rafforzarsi della convinzione che le generazioni a venire per la prima volta non staranno meglio di quelle che le hanno precedute, ma peggio. * 1
Politico, scrittore, giornalista, regista. M. Ceruti, Il tempo della complessità, Raffaello Cortina, Milano 2018.
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E davvero colpisce, non può non colpire, che queste pagine di Mauro Ceruti, frutto e simbolo dell’incredibile varietà e ricchezza della sua ricerca, abbiano visto la luce nel 2018. Vale a dire due anni prima della pandemia, prima dello scontro con un nemico sconosciuto e invisibile che ha messo ognuno di noi di fronte al fatto che nessuno può dirsi al sicuro o solo pensare di esserlo. Sì, da tanto si discuteva sul fatto che ormai tutto è globale e che “il battito di ali di una farfalla può provocare un uragano dall’altra parte del mondo”. Mai, però, c’era stata una dimostrazione così efficace e purtroppo terribile di questa verità. E se c’è una lezione utile, da trovare nel mare di dolore e sofferenza generato dalla pandemia, è proprio che siamo tutti sulla stessa barca. Che c’è, per riprendere appunto il concetto caro a Ceruti, una “comunità di destino” che lega in modo indissolubile tutti gli individui e tutti i popoli del pianeta fra loro, e loro all’ecosistema globale. E a proposito di “globale”, se già il “cigno nero” della pandemia si era incaricato di increspare in modo marcato la superficie liscia e scorrevole della libera circolazione degli uomini e delle merci, la guerra iniziata con la sciagurata invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin ha ulteriormente cambiato il volto della globalizzazione così come lo conoscevamo, costringendo aziende e governi di tutto il mondo a rivedere le loro dipendenze, a ridurre le catene di valore e a procedere a una progressiva localizzazione degli acquisti, a introdurre considerazioni di sicurezza nella cooperazione tecnologica e industriale, a cercare nuovi modi per raggiungere un’autosufficienza continentale o sub-continentale. Oltre al fatto, a proposito di complessità e interdipendenza, che si è trattato di un attacco non solo all’Ucraina, a uno Stato sovrano confinante di cui non si tollerava l’indipendenza e l’autonomia da Mosca, ma alle norme del diritto internazionale che regolano la nostra convivenza e ai valori dell’Occidente, alla sua libertà riconquistata dopo l’inferno di Auschwitz e dei gulag, difesa nel tempo successivo nonostante i muri e le cortine di ferro. Insomma, a rileggerlo oggi, sono ancora più grandi i motivi per apprezzare l’analisi e le riflessioni che attraversano Il tempo della complessità e che lo rendono un libro destinato a essere sempre attuale. Così come resta vera, e da inverare in ogni possibile modo se vogliamo mantenere viva la speranza di futuro, la risposta di fondo
W. Veltroni - Un nuovo umanesimo per osare più democrazia209
che Ceruti dà di fronte alla crisi e ai dilemmi del nostro tempo: la via di un “nuovo umanesimo”, di un nuovo modo di vivere e di produrre, di concepire se stessi in relazione con gli altri. Significa avere la consapevolezza che se il tempo del “noi” collettivo che schiacciava le aspirazioni e i sogni di ogni “io” è per fortuna finito, quello dell’“io” separato dal “noi” non può condurre lontano. Specie in un tempo come il nostro. Specie se viviamo in società attraversate già di per sé da fenomeni e tendenze che sembrano fatte apposta per disgregare, spezzettare, disperdere tutto in mille rivoli. Vanno allora trovati e praticati i modi per far vivere il principio opposto all’egoismo sociale, opposto all’imbarbarimento dei rapporti umani. Il principio che tutti noi facciamo parte di una stessa comunità, e che tutto ciò che ha che fare con gli altri “mi riguarda”, tocca direttamente anche me. Il principio della finitezza e quello della reciprocità, e cioè del limite che ognuno consapevolmente si dà sapendo che il completamento di sé dipende dall’incontro con gli altri, sapendo che c’è un grande valore nell’assunzione della reciproca responsabilità che ci lega gli uni agli altri, e che un’etica e una politica adeguate al nostro tempo possono nascere solo nel momento in cui riusciamo “a mettere in accordo”, come ha scritto il filosofo Salvatore Natoli, “il sentimento della nostra libertà con quello della comunità”. Certo, insieme a quello dei princìpi, non può non esserci il piano legato alla realtà. Di fronte alle sfide epocali che abbiamo di fronte, serve una strategia precisa e servono misure concrete. Serve soprattutto, per quanto riguarda la nostra parte di mondo, che sia l’Europa nel suo insieme a definire l’una e a mettere in pratica le altre. Per un felice paradosso, proprio dalle difficoltà derivanti dalla situazione complessa in cui ci troviamo come europei, con una rete globale, commerciale e finanziaria da ridefinire, può venire la spinta decisiva al ripensamento e al rafforzamento dell’Unione. Anche perché, questa volta, all’appuntamento con la Storia, prima di fronte alla pandemia e poi al conflitto ucraino, i Paesi europei non si sono fatti trovare a muoversi come “sonnambuli”. Non era scontato. Ed è fondamentale che sia successo. Davvero c’è la possibilità di credere, oggi, alla verità contenuta nella profezia di un suo grande architetto e padre: “l’Europa”, sosteneva Jean Monnet, “sarà forgiata nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni adottate per quelle crisi”.
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Riuscire è fondamentale. Perché se questo è il tempo dell’ansia, non possiamo nasconderci il fatto che l’ansia reclama sempre sicurezza e decisione. Entrambe, per vedere la luce, possono avere due levatrici: la democrazia e l’autocrazia. La prima ha difficoltà quando non è in grado di decidere e di dare risposte alle domande, ai bisogni e alle speranze delle persone. E questo succede, il più delle volte, quando si pensa che in questa impresa possano riuscire i singoli Paesi, da soli, ognuno per sé. Non è così, e Mauro Ceruti lo ha ribadito più e più volte, sottolineando come nel secolo scorso gli Stati nazionali europei abbiano già fallito rovinosamente, come i nazionalismi e i sovranismi dei nostri giorni siano solo il colpo di coda di un mondo spaventato e che “per rispondere alla crisi della democrazia nei singoli Stati, bisogna osare più democrazia dove questa è ancora carente, cioè nelle istituzioni sovranazionali e in particolare nell’Unione europea”. Un “nuovo umanesimo” per “osare più democrazia”. Questa è l’unica strada. Non c’è altra scelta. Solo così, con un pensiero alto, forte, potremo uscire definitivamente dalle colonne d’Ercole del Novecento e procedere verso un futuro sostenibile, costruito sulla base di una relazione inedita tra ambiente e lavoro, tra tecnologia e scienza, tra senso di comunità e opportunità individuali, tra welfare e natalità, tra democrazia e decisione. Un futuro, per tutto questo, che abbia il segno della crescita, dell’equità e della coesione sociale.
Silvano Tagliagambe*1
IL FILOSOFO DELLA PERSONA COME SISTEMA COMPLESSO METASTABILE
“Guardare” significa anzitutto badare [garder], warden o warten, sorvegliare, custodire [prendre en garde] e fare attenzione [prendre garde]. Avere cura e preoccuparsi. Guardando veglio e (mi) sorveglio: sono in rapporto con il mondo, non con l’oggetto. Ed è così che io “sono”: nel vedere mi vedo, a causa dell’ottica: nello sguardo sono messo in gioco. Non posso guardare senza che ciò mi riguardi [ça me garde]. Jean-Luc Nancy
Ludovico Geymonat, maestro al quale Mauro Ceruti e io dobbiamo una parte significativa della nostra formazione, ci ha insegnato che la filosofia bisogna cercarla “nelle pieghe della scienza” e che il pensiero filosofico e quello scientifico devono coevolvere, alimentandosi e sostenendosi a vicenda, ma basandosi altresì sul mutuo riconoscimento dei rispettivi statuti epistemologici e delle differenze che ne conseguono, quindi senza confondersi e scimmiottarsi reciprocamente, come purtroppo spesso i filosofi tendono a fare. Gli studi sulla complessità di Ceruti costituiscono un’eccellente applicazione di questa lezione e una conferma della sua validità. Un esempio tra i tanti che potrebbero essere proposti è quello relativo all’idea della persona come sistema complesso metastabile, che vive nel presente, ma, come ha scritto, “protegge dentro di sé un laboratorio dove è all’ordine del giorno la sperimentazione, attraverso la quale può originarsi e svilupparsi la varietà necessaria per *1 Professore di Filosofia della scienza, Università degli Studi di Sassari.
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il futuro senza che essa interferisca immediatamente con i processi necessari per il presente. Potremmo dire che il genoma umano si è rivelato il modello paradigmatico di un’organizzazione duale, nella quale gli scopi del breve termine e gli scopi del lungo termine si integrano in un meccanismo assai complesso, non solo molto efficiente, ma anche molto efficace. Mi piace ricordare il modo in cui Stephen J. Gould ha sintetizzato la questione: in natura il materiale ridondante non è quasi mai garbage, cioè rifiuti che si buttano via, ma quasi sempre junk, cianfrusaglie o ferrivecchi pronti a essere reinterpretati e riutilizzati. Il riuso non è una strategia marginale, ma una strada maestra dell’evoluzione biologica.1
E, continua Ceruti estendendo il campo di applicazione di questa prospettiva, s’impone appunto la necessità di essere duali, con un piede nel presente e un piede nel futuro: bisogna saper far bene il lavoro di routine, consolidando le tendenze in atto e generando adattamenti a queste tendenze. Ma bisogna anche preservare la consapevolezza che queste tendenze si avvicinano sempre più al punto di rottura e che presto emergeranno altri equilibri e altre tecnologie caratterizzate da logiche e da regole assai differenti, in ogni caso non riducibili a quelle del momento presente.2
Questo orientamento verso il futuro deve essere integrato con il riferimento, sempre al centro degli interessi e delle riflessioni di Ceruti, all’importanza cruciale della narrazione, del tempo e dell’incidenza del passato, parti costitutive imprescindibili di qualunque sistema complesso, e dunque anche della persona, in quanto in ogni universo del discorso, come lui ha spesso osservato, l’insieme delle possibilità evolutive non è fissato a priori e una volta per tutte: il complesso delle possibilità si rigenera ricorrentemente in modo discontinuo e imprevedibile a partire dalle condizioni inziali. Ogni storia è un racconto nel quale nuovi universi di possibilità si producono in coincidenza con le grandi svolte, le 1 2
M. Ceruti, Il tempo della complessità, Raffaello Cortina, Milano 2018, p. 108. Ivi, p. 150.
S. Tagliagambe - Il filosofo della persona come sistema complesso metastabile213
grandi discontinuità, le grandi soglie dei processi evolutivi: nel suo svolgersi, determinate possibilità si fissano e si trasformano in vincoli che eliminano alcune alternative ma ne producono altre, per cui vincoli e possibilità non vanno contrapposti, secondo la logica delle coppie opposizionali che si escludono a vicenda, ma vanno pensati insieme, in quanto coevolvono3. Ne scaturisce una danza4, un gioco che è caratterizzato dalla coesistenza di regole rigide e di fattori di imprevedibilità, nel quale ogni vincolo descrive un limes, un confine, un punto di fine, la conclusione di una storia, ma rappresenta contemporaneamente un limen, una soglia, l’inizio di una nuova storia, come si evince dalla duplice accezione del confine che ho cercato di approfondire in un mio testo di diversi anni fa5. I vincoli della storia, di conseguenza, sono da interpretare non solo come limiti del possibile, ma come condizioni di nuovi possibili6. Ce lo conferma la dinamica delle teorie scientifiche: un vincolo come il principio di indeterminazione di Heisenberg, secondo il quale è impossibile misurare simultaneamente osservabili incompatibili tra loro, come la posizione e la quantità di moto, conferisce a una particella quantistica uno spettro molto ampio di comportamenti possibili, molto più di quelli che si registravano prima che esso venisse introdotto. Basta mettere a confronto questa idea di persona di Ceruti con il titolo Le impronte del signor Neanderthal. Come la scienza ricostruisce il passato e disegna il futuro7 di un recente libro di Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, per capire come essa converga con i risultati della più recente ricerca scientifica. Remuzzi si riferisce alle ricerche per cui poi il biologo e genetista svedese Svante Pääbo, uno dei fondatori della paleogenetica, ha avuto il premio Nobel per la medicina, e mette in evidenza come le nuove tecniche di estrazione, sequenziamento e manipolazione del Dna consentano oggi di capire molto non solo del nostro presente e dei temi di cui si sta occupando il 3 4 5 6 7
M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, Raffaello Cortina, Milano 2007. M. Ceruti, La danza che crea, Feltrinelli, Milano 1989. S. Tagliagambe, Epistemologia del confine, Il Saggiatore, Milano 1997. M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, cit. G. Remuzzi. Le impronte del signor Neanderthal. Come la scienza ricostruisce il passato e disegna il futuro, Solferino, Milano 2021.
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fronte più avanzato della scienza, ma anche del passato dell’umanità, offrendo prospettive per alcuni versi inimmaginabili fino a poco tempo fa. Siamo così in grado di ricostruire le tracce dell’incrocio e dell’ibridazione tra noi e i nostri antenati di Neanderthal, avvenuti in seguito alle ripetute migrazioni del lontano passato, e di capire, a distanza di decine di migliaia di anni, come le “impronte” lasciate da questi contatti siano arrivate fino a noi e continuino a influenzare nel bene e nel male il nostro sistema immunitario, persino la sua capacità di reagire o meno alla pandemia di questi anni. Certe varianti di Neanderthal, per quanto nel cervello dell’uomo moderno siano poco rappresentate, rimangono, producendo però un Rna anomalo che formerà una proteina difettosa. Fra questi geni c’è NTRK2 che regola la sopravvivenza e la maturazione dei neuroni e persino la formazione di sinapsi. È un gene cruciale per la funzione del sistema nervoso al punto che le sue mutazioni o polimorfismi sono stati associati a una grande varietà di disordini neuropsichiatrici e neurologici come la depressione, le difficoltà nel parlare e nello sviluppare un linguaggio sofisticato, l’autismo, certe malattie ossessivo-compulsive, l’Alzheimer, l’anoressia nervosa. Emerge così che attraverso l’NTRK2, per esempio, quel poco di Neanderthal che c’è in noi condizioni il nostro stato di salute (per lo meno mentale) o di malattia e persino certi nostri comportamenti. L’approccio sperimentale, fondato sulla paleogenomica, nel complesso ha permesso di dimostrare che gli eventi di forte selezione sono avvenuti tutti simultaneamente e in periodi di tempo ristretti, in parallelo a momenti importanti della nostra evoluzione sociale. Tra i risultati più significativi ottenuti sulla base della ricostruzione dell’evoluzione nel tempo di centinaia di migliaia di mutazioni genetiche, vi sono quelli che evidenziano che la nostra propensione a condizioni di infiammazione patologica è aumentata negli ultimi 10.000 anni, in una parte sostanziale come contropartita di una migliore protezione dai parassiti. I “salti” evolutivi sono avvenuti in breve tempo, in corrispondenza soprattutto dell’età del bronzo e degli eventi di riorganizzazione sociale e aumento della popolazione umana connessi a quell’epoca, che hanno favorito il propagarsi di infezioni vecchie e nuove su scala precedentemente ignota. L’idea di sistema complesso metastabile non si applica alla sola persona, ma costituisce una chiave interpretativa di indubbia effi-
S. Tagliagambe - Il filosofo della persona come sistema complesso metastabile215
cacia anche per comprendere la natura dei soggetti collettivi, delle società e delle organizzazioni. Basta pensare in proposito alla lezione, ancora attualissima, di Ernst Bloch8 e alla sua idea del tempo come processo che non segue affatto un andamento lineare e univoco, ma si coagula in una stratificazione di tempi non congruenti, in una polifonia multiforme che rende sincronici aspetti della realtà che non lo sono affatto. La sua riflessione, pubblicata durante il grigio periodo dell’esilio, sull’ascesa e sulla vittoria del nazismo mette in evidenza la contraddizione non contemporanea, quella che oppone la modernità e l’innovazione alle forme di vita che esse travolgono, soprattutto quelle di tipo agrario e contadino e quella della piccola borghesia urbana pauperizzata. Hitler seppe capire e sfruttare questa non contemporaneità, della quale gli intellettuali progressisti della Repubblica di Weimar non riuscirono invece a farsi carico. L’incapacità di pensare il tempo nella sua complessità occulta così, sotto una categoria resa artificiosamente omogenea di “presente”, dislivelli temporali che coesistono, si toccano e si scontrano, strati di una medesima popolazione, forme di vita e stili di pensiero che non si situano affatto nello stesso tempo storico. Se non si coglie questo aspetto, se non si comprende che per essere all’altezza dei tempi bisogna intrecciarli, per cui il “presente” come categoria è del tutto inconsistente se non si tiene conto della sua complessità, si capisce ben poco di processi, come la globalizzazione in atto, dei loro attriti, delle disparità e degli scarti sottostanti al generico riferimento alla loro apparente sincronicità, o di fatti della storia recente, come il successo di personalità e di movimenti populisti sia negli Stati Uniti, sia in Europa. Il superamento di un modo di pensare per coppie opposizionali, come quello con cui si cerca ancora di inquadrare il nostro vissuto sulla base della tradizionale rappresentazione basata sul principio di figura/sfondo, era già chiaramente prefigurato in una novella del 1810 di Heinrich von Kleist, drammaturgo poeta e scrittore tedesco, Il teatro delle marionette9, pubblicata nel 1810 nei Berliner Aben8 9
E. Bloch, Erbschaft dieser Zeit, Oprecht & Helbling, Zürich, 1935, tr. it. Eredità di questo tempo, Mimesis, Milano-Udine 2015. H. von Kleist, Über das Marionettentheater, erschienen 12-15. Dezember 1810 in den “Berliner Abendblätter”, tr. it. in Id., Opere, a cura e con un saggio introduttivo di A.M. Carpi, I Meridiani, Mondadori, Milano 2011.
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dblätter, l’unico saggio da lui firmato, che affronta il tema della grazia, al centro del dibattito estetico tedesco della seconda metà del Settecento. Lo faceva con un’originalità e un rovesciamento di prospettiva incomprensibile e indigesto ai contemporanei. Egli metteva al centro della riflessione ed esaltava come vertice della perfezione una manifestazione ludica, il teatro delle marionette appunto, considerato a quel tempo un esempio di volgare grossolanità tematica e linguistica, completamente al di fuori della sfera del sublime, liberando così il concetto di grazia da quello di moralità, di rettitudine morale, contrastando l’idea allora egemone, accettata e diffusa in ambito estetico settecentesco, con una svalutazione della tradizione che rivelava tutto il carattere alternativo e avanguardistico del suo stile di pensiero. L’inizio del breve saggio, considerato giustamente un’anticipazione della psicanalisi, si presenta sotto forma di dialogo, tra l’autore e il signor C., primo ballerino del Teatro dell’Opera della città di M…: Nell’inverno del 1801, che trascorsi a M…, incontrai una sera in un giardino pubblico il signor C., che da poco era stato scritturato come primo ballerino dal Teatro dell’Opera di quella città e godeva presso il pubblico di un favore straordinario. Io gli manifestai il mio stupore per averlo già visto più volte in un teatro di marionette che, allestito nella Piazza del Mercato, divertiva il popolino con piccole farse alle quali si intrecciavano canti e danze. Lui mi assicurò che traeva un grande piacere dalla pantomima di quei fantocci e lasciò intendere in maniera non equivoca che se un danzatore volesse perfezionarsi potrebbe imparare da essi parecchie e svariate cose.10
Di fronte allo stupore del suo interlocutore, C. spiega il perché di questa sua affermazione, illustrando i vantaggi che qualsiasi marionetta ha nei confronti anche del migliore dei danzatori: Innanzitutto un vantaggio negativo, mio ottimo amico, che sarebbe quello di non muoversi mai in maniera affettata. Poiché, come Lei sa, l’affettazione si manifesta quando l’anima (vix motrix) si pone in un 10 Ivi, p. 1013.
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punto qualsivoglia che non sia il centro di gravità del movimento. E siccome il marionettista, mediante i fili e le cordicelle che manovra, non ha in fondo in suo potere nient’altro che questo centro, tutte le rimanenti membra sono, proprio come han da essere, morte, meri pendoli, e seguono soltanto la legge di gravità: è una splendida caratteristica, questa, che invano cercheremmo nella stragrande maggioranza dei nostri ballerini. […] C’è da aggiungere che questi fantocci hanno il pregio di essere antigravi. Non conoscono l’inerzia della materia, la proprietà che più di tutte si oppone alla danza, in quanto la forza che li solleva in aria è superiore a quella che li incatena alla terra. […] Al pari degli elfi, le marionette non hanno bisogno del suolo se non per sfiorarlo e per poter rianimare, grazie a quell’ostacolo momentaneo, lo slancio delle loro membra: il suolo occorre invece a noi perché su di esso riposiamo e troviamo ristoro alle fatiche della danza: momento che in sé, palesemente, non è vera danza, e che conviene abbreviare il più possibile poiché nulla può sortirne di buono.11
Intesa in questo senso la marionetta costituisce un ideale di leggerezza e grazia, un modello al quale il danzatore deve aspirare se vuole raggiungere l’apice del possibile, il massimo della perfezione quando si muove sul palcoscenico. L’”alto” della danza classica e il “basso” del teatro delle marionette, quindi, vengono fatti coincidere, in una circolarità che rende del tutto improponibili le distinzioni gerarchiche, ancor oggi imperanti nel comune pensare e sentire, tra colto e popolare. Il pensiero complesso di Mauro Ceruti identifica e rende operante uno spazio culturale intermedio dove questi livelli si intrecciano intenzionalmente, senza volgari o banali cadute in basso e senza voli pindarici in alto, contaminandosi e nobilitandosi a vicenda. Questa compresenza non gerarchica è alla base della sola concezione della forza compatibile con un pensiero autenticamente rispettoso della complessità della cultura. Quella concezione che non considera la cultura come l’espressione e il risultato di una sopraffazione, di un’alterigia che guarda all’altro da sé con supponenza e senso di superiorità e gli fa persino violenza. Quella concezione che interpreta la “fortezza” in sintonia con la profonda riflessione di Leonardo 11 Ivi, pp. 1016-1017.
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da Vinci, dalla quale molto abbiamo ancora da imparare per comprendere in cosa consista la solidità di una struttura tanto materiale che immateriale: “Arco non è altro che una fortezza causata da due debolezze, imperò che l’arco negli edifizi è composto di due parti di circulo, i quali quarti circoli ciascuno debolissimo per sé desidera cadere, e opponendosi alla ruina dell’altro le due debolezze si convertono in unica fortezza”12.
12 Leonardo da Vinci: MSS, Institut de France, Paris, 50r, “Frammenti sulll’architettura” (1490), Scritti rinascimentali di architettura, a cura di A. Bruschi, C. Maltese, M. Tafuri, R. Bonelli, Edizioni il Polifilo, Milano 1978, p. 292.
Chiara Simonigh*1
UNA VISIONE GENERATIVA
Ho il forte sentimento dell’invisibile, nascosto nel visibile. Edgar Morin
L’occhio modella in genere il mondo secondo il proprio schema del cosmo, uno schema culturalmente determinato che rende gli sguardi simili e talora impedisce loro di scorgere nel visibile l’invisibile che vi è celato, sia esso vicino o lontano, microscopico o persino macroscopico. Albert Einstein ha non a caso ricordato che “Sono pochi coloro che sanno vedere coi propri occhi” – ciò che corrisponde, in termini epistemologici, a una conoscenza aperta, esplorativa e a una teoresi generativa, stando alla radice greca theaomai, “guardo”, che accomuna termini quali teatro e teoria (theoria: “osservazione, lo stare osservando”, da theoreo: “sono spettatore, considero, contemplo”). Nell’elaborazione di un’epistemologia della complessità e nello sviluppo di un umanesimo per l’epoca della globalizzazione, Mauro Ceruti ha compiuto una ricerca di modi inediti del conoscere, del pensare, dell’osservare sia per sé sia per gli altri. Un’indagine, questa, sullo sguardo inteso in senso lato, per scoprire le velature e i filtri di cui ogni conoscenza lo ammanta e lo informa, la specificità delle prospettive individuali, sociali e di specie che sempre esso incarna, i mutamenti che di continuo attraversa situandosi o muovendosi nei tempi e negli spazi culturali.
*1 Professore di Teoria dei media e Cultura visuale, Università degli Studi di Torino.
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Un’esplorazione rara, anche, specie in un’epoca di iperspecialismi disciplinari, autoreferenzialità intellettuali, chiusure verso la polis e la cosmopolis. Una ricerca perciò, di fatto, volta a dar vita a una visione capace di cogliere i vincoli e riconoscerli come opportunità per sconfinare verso orizzonti aperti di possibilità. Più ancora di altre riflessioni correlate alle epistemologie dei sistemi, alle teorie dell’osservatore e ai diversi campi di studio dedicati alla relazione fra soggetto e oggetto, la filosofia di Mauro Ceruti può essere considerata in connessione al grande mutamento di paradigma epistemologico ed estetico che sta attraversando da oltre un secolo ogni dimensione della vita umana e ogni campo della conoscenza con lo sviluppo dei sistemi tecnici della visione o media visivi. Una trasformazione vasta e radicale, questa, che meriterebbe di essere definita non solo e non tanto nella prospettiva dei visual culture studies e dei media studies come iconic o pictorial turn, quanto piuttosto, in un’ottica transdisciplinare, come una svolta visuale e immaginale, pregna di concrete conseguenze antropologiche, sociali, politiche e di profonde implicazioni epistemologiche per gli ambiti delle scienze umane e sperimentali. Nella filosofia della complessità di Mauro Ceruti, l’osservatore ha una precisa funzione: riconoscersi come parte di ciò che osserva, che sia il limite della conoscenza, la fallibilità della scienza, il degrado bio-antropologico o la crisi della politica. Non per questo, tuttavia, egli risponde a una definizione per adesione di parte disciplinare, culturale o politica. Piuttosto è consapevole che il suo sguardo, al di là delle illusioni che può inevitabilmente condurre in sé, è immesso in un divenire irrefrenabile e in una molteplicità relazionale irrinunciabile. Il filosofo, fondendosi così con ciò che osserva, determina la condizione per il superamento del “punto di vista assoluto” o della “prospettiva ideale” sorti nella scienza e nell’arte con la modernità e tradizionalmente posti a fondamento del paradigma epistemologico ed estetico occidentale. Per una simile figura di studioso non vi sono confortevoli “punti di fuga” dello sguardo ed è non solo lecito ma anche normale contemplare il farsi caos del cosmo, l’incertezza dei percorsi evolutivi, l’indecidibilità e la contingenza delle narrazioni scientifiche,
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nonché l’incompiutezza umana. Questo non per una rinuncia alla conoscenza, ma al contrario, per l’elaborazione e l’assunzione consapevole di un rigoroso metodo epistemologico. Un metodo estetico, anche, specie se si riprende il significato originario di aisthesis, che si riferisce alla facoltà del percepire-sentire e che ormai è intesa come esperienza sensibile posta all’origine della comprensione. Mauro Ceruti interpreta, non a caso, la distinzione tracciata da Stephen J. Gould fra la “visione fondamentalista” e la “visione creativa” come “discrimine fra la vita e la morte”, riconoscendo in tal modo la funzione generativa dell’estetico, cioè di ciò che va al di là del vantaggio immediato, dell’utile e dello strumentale di breve respiro, ossia di ciò che è solo in apparenza eccentrico e superfluo per l’esistenza e per l’evoluzione dell’umanità e del cosmo. Lo sguardo non concentrico, “off the line” rispetto ai sistemi concettuali e più ampiamente nei confronti della “hybris dell’onniscienza”, infatti, non può che essere aperto ed equanime rispetto a ciò che osserva per rendersi autenticamente disponibile alla scoperta. L’esperienza epistemico-estetica che si configura in questo tipo di contemplazione pone in dialogo il tempo dell’osservatore con quello del fenomeno, la dilatazione percettiva con il divenire dell’evoluzione naturale e della storia umana, e così pure delle loro rappresentazioni e interpretazioni. Nel superamento delle storiche illusioni di linearità, semplicismo, efficientismo, omogeneità, la riflessione sulla fine dell’illusione di una conoscenza totale, immette questo sguardo contemplativo nel tempo del divenire, in un circolo elicoidale ed evolutivo aperto, dove il ritorno all’inizio – le origini di storie e le storie di origini, le fondamenta e i fini dell’umanesimo – è ciò che al contempo allontana da esso, in quanto si colloca a un livello altro e permette di osservare i fenomeni via via da punti di vista differenti, inediti persino interdetti. I sorprendenti breakdown e le irregolarità, che hanno ormai “infranto il quadro fisso” della scienza, impongono d’altronde alla contemplazione un altrettanto sorprendente dinamismo. Si può leggere questo passaggio della quaestio di Mauro Ceruti – riprendendo la terminologia di uno psicologo come James Jerome Gibson – come l’introduzione di un nuovo paradigma di “ecologia della visione”. Un modo percettivo ed esplorativo dell’ambiente
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che possiamo definire di sostanza estetico-epistemica poiché instaura una relazione dinamica, perennemente dislocata e rilocata, di reciprocità dell’essere umano con gli ecosistemi. Si può parlare perciò di una “natural vision”, distinta dalla tradizionale “snapshot vision”, statica e istantanea, inquadrata e delimitata – che, diremmo, si correlava soprattutto all’epoca della pittura e della fotografia –, in quanto si delinea una nuova visione cinetica, multifocale, multiprospettica, multidirezionale e multidimensionale – che possiamo facilmente riconoscere come connessa a una percezione e a una comprensione più recenti, ossia quelle che accomunano il cinema, la televisione e le ormai molteplici declinazioni del video. Questo sguardo, improntato ai paradigmi epistemico-estetici del tempo della complessità, muove oltre l’immutabilità, la frammentazione, la semplificazione, lo schematismo, l’univocità e la contrapposizione – senza per questo disprezzarli o ripudiarli –, e ciò per confrontarsi con le contraddizioni, le incertezze, le interdipendenze e le fluidità. Questo sguardo si fa dunque rivelatorio per dinamismo, quantità e qualità delle prospettive presentate, interrelate e confrontate, specie in quanto mantiene di continuo il proprio focus sulla relazione – che, come ha avvertito Gregory Bateson, sempre viene prima, precede. La costante messa in relazione che questo sguardo esercita, ispirandosi alle teorie sistemiche e al Metodo di Edgar Morin, muove la conoscenza di Mauro Ceruti all’articolazione interdisciplinare e transdisciplinare di paradigmi, categorie cognitive, modelli interpretativi, prospettive teoriche e metodologiche per assumere ciò che appunto Edgar Morin ha definito come “meta-punto-di-vista”: un punto di vista sui punti di vista altrui e anche propri. Il microscopio trova in tal modo il suo complementare nel telescopio, la contemplazione di prossimità e la fusione con il visto si completa con un pertinente distanziamento – cosa che appare vitale, come ha scritto Wisława Szymborska in Un appunto: “La vita è il solo modo / per stare dentro gli eventi, […] / sollevarsi nelle vedute / e seguire con gli occhi una scintilla nel vento”. La scintilla del soggetto emerge perciò allo sguardo ancora una volta dalla sua capacità di messa in relazione che ora si rivolge all’autonomia e alla dipendenza ecologica sia dei fenomeni sia delle conoscenze. Così, lo sguardo, prima posto sull’altrove e sull’al-
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tro, si posa in seguito sul medesimo e infine inevitabilmente sullo sguardo stesso in un percorso che muove dalla scienza della physis, attraverso quella del vivente, alla scienza dell’uomo, la quale rinvia a sua volta alle teorie della conoscenza, nonché alle loro verità e ai loro errori. Ed è questa disciplina della messa in relazione e della riflessività a far percorrere alla ricerca di Mauro Ceruti una molteplicità di strade e piani, istanti e durate, senza mai assumere la gerarchia come punto di partenza né di arrivo e senza mai chiudere tra le mura un cammino esplorativo, che si fa passo dopo passo e così si indirizza verso orizzonti aperti di possibilità. Se, come ha scritto Marcel Proust, “Ogni vero viaggio non ha la finalità di cercare nuovi luoghi, quanto piuttosto uno sguardo nuovo”, allora si può dire che questo cammino di ricerca epistemologica ed estetica abbia reso lo sguardo proprio e altrui capace di vedere e immaginare un’utopia improbabile, ma possibile. Dietro la quarta rivoluzione data dall’infosfera, dietro la quarta globalizzazione data dai flussi materiali e immateriali, concreti e astratti, diventa pertanto possibile vedere, per sé e per gli altri, la nascita di una “quarta umanità” capace di evolvere ulteriormente lungo il processo che porta dall’ominazione all’umanizzazione. Emergenza ulteriore della messa in relazione sottesa a una simile disciplina dello sguardo, pertanto, non può che essere un umanesimo rigenerato per l’“Eco-Cosmopoli”. La visione e la visionarietà fanno qui asserire lucidamente a Mauro Ceruti che l’epoca planetaria reclama un pensiero complesso perché non ammette “cecità di fronte all’opportunità del nuovo orizzonte che si profila davanti a noi: la costruzione della casa comune di tutta l’umanità”. Ed è conseguentemente e coerentemente quanto egli definisce come il “risveglio dell’immaginario” a dar concretezza a una cura antropo-bio-eco-politica per la l’epoca planetaria. Ciò diviene possibile in quanto la contemplazione, lungi dall’essere passività o inerzia, è in senso etimologico, ma anche rigorosamente epistemologico ed estetico, la costruzione di uno spazio, la creazione di una dimensione libera e vasta di visione, di pensiero e di conoscenza, in virtù dei quali poter cooperare alla metamorfosi del cosmo.
Antonia Chiara Scardicchio*
UN LUOGO DOVE L’IO DIVENTA UN NOI Fra scienza, filosofia e poetica
Bisogna salvare le ferite. Non lasciarle sole, sperdute nell’idea fissa della medicazione e della guarigione. Bisogna interrogare le ferite e aspettare le risposte. La risposta alla ferita siamo noi. I nostri gesti, le nostre possibilità accolte o respinte, i tremori e gli assalti rispondono tutti alle ferite. Perdere una ferita significa perdere una segnaletica importante per un viaggio dentro le orme dell’esistenza, un viaggio che ci accomuna e ci distingue, ci fa cantati, cantati dalla vita cruda. Chandra Livia Candiani1
Ferite. Salvezza Parto da qui, da questa assurda coincidenza, espressa nelle meditazioni di una poetessa. Parto, allora, da una questione all’apparenza non correlabile alla riflessione filosofica di Mauro Ceruti, perché sento vibrare molto forte, invece, il nesso che connette l’intera produzione epistemologica del Nostro alla questione intimamente e politicamente connessa alle ferite percepite dall’Umano. Cosa connette la Sua ricerca intorno alla complessità, all’evoluzione, alla conoscenza, alla identità al contempo singolare e planetaria, a una meditazione intorno alle ferite o, meglio, alla Ferita? * 1
Professore di Pedagogia, Università degli Studi di Bari. C.L. Candiani, Questo immenso non sapere, Einaudi, Torino 2022.
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Mauro ha scritto e scrive non solo come scienziato ma anche come poeta: perché la sua ricerca è sporgenza sull’orlo, sta affacciata sull’abisso. Abisso che è per sua natura buio e inafferrabile: e Lui? Diversamente da chi costruisce sistemi per poterlo penetrare e possedere, Mauro in quel buio ci lancia, scorticandoci le tentazioni all’onniscienza con l’onestà della Sua postura interiore, la stessa che è dei mistici e degli scienziati e che corrisponde all’ingresso nel mistero per farsi trasformare, non per addomesticarlo e a sé ricondurlo. Vorrei provare a condividere l’esperienza dell’incontro con la scienza e con la filosofia di Mauro come esperienza di contemplazione, come modo intimo e insieme politico, laddove il Suo guardare-come-connettere corrisponde all’attraversare le ferite con coscienza e l’abisso con passione, sperimentandone non solo il tormento ma anche il potenziale generativo2. Un tipo particolare di contemplazione, quella che ritrovo tra le Sue righe come nelle scritture/posture di due poetesse italiane in particolare, le cui parole scelgo per dire le Sue, per dire della femminilità/generatività della Sua scienza e della Sua poetica: Caro male, non ti chiedo ragioni è questa la legge di ospitalità, ti tengo come una piuma anche quando sei montagna scottante, ti sfioro con la tenerezza dell’assenza di medicina nell’urgenza della vita che si sfoglia. Ti do riparo proprio a te che mi scoperchi. Non ti voglio bene male ti so sapiente ti tengo d’occhio e nido 2
G. Bocchi, M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1985; M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, Raffaello Cortina, Milano 2009; L. Manicardi, M. Ceruti, Le crisi come occasione, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2015.
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sono di te che mi assapori e poi sputi il nocciolo, levigata smemorata nasco da te delicata come un sorso feroce come un numero in attesa come la lavagna a scuola. Scrivimi. Chandra Livia Candiani3
Non suturabile ferita La ferita, le ferite: non suturabili, non eliminabili, ma non perché più potenti dell’umano: vincoli necessari alla libertà, pre-condizioni della conoscenza come visione/contemplazione: visione della connessione tra infinitamente piccolo e infinitamente grande, tra il proprio singolare e il proprio, necessario, esodo-da-sé per scoprirsi parte, non tutto. La ferità più atroce per ogni Umano è nel racconto di quella ancestrale, metaforizzata nel Libro della Genesi: scoprire che non si è Dio. E chissà se anche lo stesso primo dei comandamenti, con quella esortazione a non avere altro dio, non alluda alla scelta di una religione/fede piuttosto che ad un’altra, ma inerisca, invece, al non far dio di sé, al non farsi centro pensando che la salvezza sia nel potere di astrarsi, dis-unirsi, slacciarsi. Ed ecco: l’intera ricerca di Mauro Ceruti come filosofia dell’Umano caduto, caduto dalla totemizzazione di sé, e che nella disperazione/ferita per quell’abbandono, ha da reimparare, reimparare chi è, e in ogni vita singolare scoprirlo per la prima volta, più volte. Re-imparare, come continuo – non sterile, ma fertile – movimento del cosmo, fuori e dentro, che continuamente muore e continuamente diventa4. 3 4
C.L. Candiani, Fatti vivo, Einaudi, Torino 2017. M. Ceruti, F. Bellusci, Abitare la complessità. La sfida di un destino comune, Mimesis, Milano-Udine 2020; G. Bocchi, M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, cit.; M. Ceruti (a cura di), Evoluzione e conoscenza, Pierluigi Lubrina, Bergamo 1992; M. Ceruti, Evoluzione senza fondamenti, Meltemi, Milano 2019; M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, cit.; M. Ceruti, La fine
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C’è un male che non aggiunge male sgombera spazio lo vara tagliando la corrente del superfluo, l’automa dell’anima. C’è un male che fa guarigione: dare la ferita bilancia il polso luccica semplice la lama e lo spazio sgombro addestra il cuore spogliato. È difficile a qualsiasi età diventare adulti, lasciar fare al macellaio o all’autunno un’arte caritatevole. Chandra Livia Candiani5
La Sua scienza, come la sua poetica, agisce non solo da viatico epistemico e politico, ma anche come breviario intimo, come specchio persino, nel quale contemplarsi minuti eppure giganti, mortali eppure così paradossalmente eterni o, meglio, con le parole care a Italo Calvino, così contemporaneamente comici e cosmici. La fecondità di quella antica e continua Ferita, riferita al nostro non sapere, non finire mai di sapere, non poter mai tutto sapere, è il proprium dell’opera di Ceruti: e posso dire, scusandomi per la personalizzazione di questa dichiarazione, è il Bene, lo specifico Bene che da Lui si riceve. Un Bene che riguarda il lasciar andare la conoscenza-come-possesso che tutti ci seduce, il rinunciare al sape-
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dell’onniscienza, Studium, Roma 2015; M. Ceruti, Il tempo della complessità, Raffaello Cortina, Milano 2018. C.L. Candiani, La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore, Einaudi, Torino 2014.
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re come potere, per accogliere la conoscenza-come-trasformazione, e allora il tremore della possibilità6. Voglio imparare a tremare. Chandra Lidia Candiani7
Teoresi ospitale Tutto il vivente è ferito, ma solo l’uomo ne ha consapevolezza, solo la donna ne ha coscienza: qui la poesia di Ceruti ci conduce nel buio di questo tormento, nella esperienza di quella che Gregory Bateson aveva laicamente chiamato Grazia, invitandoci a stare nel solco, a non cercare di cicatrizzarlo, perché proprio il vuoto – quell’abisso, tanto personale quanto globale – è il varco: spaccatura che è pre-condizione alla co-creazione, alla compartecipazione a un destino mai pre-scritto… Ferità ospitale: così il varco che Ceruti, anziché suturare, apre. Così la Sua teoresi conduce all’esposizione: non fa sconti la sua analisi del reale, ce la consegna tragicamente. Eppure, al contempo, il dramma che la sua lettura rileva e restituisce, è tessuto a filo doppio con il contemplarne l’infinito potenziale, l’infinita possibile semiosi di una lettura aperta che, anche alle soglie della catastrofe, contiene spiragli8. In questo infinito possibile che le Sue scritture ci offrono come fosse alchemica materia da trasmutare, sta la poiesi della filosofia di Mauro: coscienza come ospitalità, ragione come spinta all’uscita da Sé, dal solo-Sé. 6
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M. Ceruti (a cura di), Evoluzione e conoscenza, cit.; M. Ceruti, Evoluzione senza fondamenti, cit.; M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, cit.; M. Ceruti, P. Fabbri, G. Giorello, L. Preta (a cura di), Il caso e la libertà, Laterza, Roma-Bari 1994. C.L. Candiani, Il Silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Einaudi, Torino 2018. M. Ceruti, L. Preta (a cura di), Che cos’è la conoscenza, Laterza, Roma-Bari 1998; G. Bocchi, M. Ceruti, E. Morin, Turbare il futuro. Un nuovo inizio per la civiltà planetaria, Moretti e Vitali, Bergamo 1990; M. Ceruti (a cura di), Evoluzione e conoscenza, cit.
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E chi toglie mistero sia dato in pasto al suo piccolo credo e chi toglie mistero resti preso nella sua rete di faccende e lasci a noi un ozio salutare di contemplante. Mariangela Gualtieri9
Smisurata preghiera Monologo del Non so Io non so se questa mia vita sta spianata su un buco vuoto. Non so se il silenzio che indago è intrecciato alla mia sostanza molle. Io non so se quello che cerco e ho cercato e cercherò, non so se quello che cerco è un insulto a quel vuoto. Non so se questo fatto di non avere un paio di ali sia premio o castigo, io non so se la polveriera della mia inquietudine sia un trono su cui mi siedo minacciato, se la fuga che a scatti regolari mi pungola, se quel puerile sogno di fuga sia uno sgambetto d’angelo, d’un buffone d’angelo che mi vuole inciampare. (…) Io non so se la bellezza è questa accademia di centimetri, se la bellezza, la bellezza è questa carnevalesca decadenza di saltimbanchi, io non mi spiego la crocifissione 9
M. Gualtieri, Le giovani parole, Einaudi, Torino 2015.
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della grazia, e non mi spiego perché mi trovo in questo covo rivoltato in questa fossa con gli orchi attuali in questo lato barbarico della specie, e non so perché stando a occidente non si ode quell’alleluia delle cose. Io non so se in questa schiena senza ali ci son grandi pianure da cui fare il decollo, se in questa spina dorsale ci sono istruzioni per la manovra di decollo, se sono io la freccia di questo arco della schiena, se sono io arco e freccia, non so in quale mano non mano o zampa di Dio mi stanno torchiando, e sottoponendo al duro allenamento dei dolori terrestri. (…) È poco il poco che so e di questo poco io chiedo perdono. Io chiedo perdono per quello che so, perdono io chiedo per tutto quello che so. Mariangela Gualtieri10
Chiedo perdono per quello che so, per quello che presumo di sapere e che diventa mio potere, e come travaglio accolgo questo immenso non sapere11: così mai addomestica, Mauro, non sistematizza per solidificare la conoscenza come l’umana illusione di essere dio, centro, figlio unico. Sta – come mistico – nel mistero: nello spazio bianco tra le righe che non decifriamo mai per intero, pur aumentando in saperi e tecnica.
10 M. Gualtieri, Fuoco centrale e altre poesie per il teatro, Einaudi, Torino 2003. 11 C. L. Candiani, Questo immenso non sapere, cit.
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Per questo, la sua produzione è esodo e iniziazione, trasmutazione e, sento di poter dire, poesia e preghiera intese come contemplazione-come-ricezione anche di ciò che non possiamo possedere12. Ti prego morte, non lasciarti addomesticare. Spesso si pensa che la soluzione al dolore sia altrove, ma è nel dolore la soluzione al dolore (…). Oggi vorrei che la morte restasse uno scandalo (…). La morte scandalizza la nostra visione autocentrata, il nostro tutto bene sempre, il nostro controllo. Ti prego morte, non lasciarti addomesticare, non diventare turistica, continua a farmi un assoluto male e dammi il mistero di te, di me, della non separatezza. (…) Chandra Lidia Candiani13
Dentro questo mistero della non separatezza, che è il cuore della ricerca di Mauro Ceruti, si coglie il moto proprio del Poeta e dello Scienziato: Mauro è innamorato, innamorato instancabile dell’Umano, dell’Umano caduto e per questo interconnesso14. E come utero che custodisce e al contempo spinge, la Sua filosofia come Scienza e Poetica persiste nell’entrare nell’abisso dell’Uno-nel-molteplice, del Molteplice nell’uno, contemplandone e argomentandone sì, la Ferita infinita: ma insieme alla altrettanto inestinguibile Grazia15.
12 M. Ceruti (a cura di), Evoluzione e conoscenza, cit.; M. Ceruti, Evoluzione senza fondamenti, cit.; M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, cit.; M. Ceruti, La fine dell’onniscienza, cit. 13 C.L. Candiani, Il Silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, cit. 14 M. Ceruti, Il tempo della complessità, cit.; M. Ceruti, Sulla stessa barca, cit. 15 M. Ceruti (a cura di), Evoluzione e conoscenza, cit.; M. Ceruti, Evoluzione senza fondamenti, cit.; M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, cit.
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La relazione tra la vita e la poesia è una relazione misteriosa. (…) La poesia è come una sorta di scatto in avanti. Io la sento sempre un po’ futura rispetto a me. Oppure elabora qualcosa che è ancora in corso, qualcosa di cui non sono ancora consapevole (…) A me piace fare il pane e, certe volte penso che… Qual è la relazione tra la farina e l’acqua? È il gesto, che mette insieme e impasta, e poi il calore del forno. Ecco, è un po’ questo: la relazione tra la vita e la poesia è questo gesto caldo, rispetto agli eventi della propria vita, che sa ribattezzarli, rivederli, e forse [la poesia] è anche un luogo dove l’io diventa un noi. Chandra Livia Candiani16
Ecco, questo sento e penso di uguale potere/possibilità dell’opera di Mauro Ceruti: la relazione tra la Sua ricerca e la vita è un gesto che ribattezza mettendo insieme e impastando: “un luogo dove l’io diventa un noi”: E poi c’è l’amore. Mi fa spavento scrivere questa parola. Comprende tutti i tipi d’amore. E come si fa a contenerli? E come ci chiamano? Come mai bussano? E come mai bussiamo noi all’amore. Chandra Livia Candiani17
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C.L. Candiani, Conversazione con Giorgio Morale, Festivaletteratura di Mantova, 2014, in https://poetarumsilva.com/2014/10/11/chandra-livia-candianila-bambina-pugile/ 17 C.L. Candiani, Questo immenso non sapere, cit.
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Quello che posso con onestà dire è che senza la ricerca di Mauro Ceruti la mia vita – non solo di studiosa, ma proprio quella intima, dove tutte le domande sul senso del dolore, della responsabilità, della bellezza, mi convocavano da giovane e adesso ancora si danno appuntamento ferito nel ritmo diurno/notturno delle parole e degli ammutolimenti – sarebbe stata più povera, più presuntuosa, meno libera, senza forse mai riuscire a intuire cosa connette mistica a scienza, ferita a conoscenza18. La storia umana non è il dispiegamento di un destino già scritto bensì il teatro in cui si svolge una continua creazione di possibilità. La condizione umana non si riavvolge su percorsi già tracciati, ma si espande. Mauro Ceruti19 Affidarsi ciechi al tonfo del volo senza terra affidarsi senza destino, rifugio rondine senza capo né coda puro volo. Chandra Livia Candiani20
18 M. Ceruti, L. Preta (a cura di), Che cos’è la conoscenza, cit.; M. Ceruti, Evoluzione senza fondamenti, cit.; M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, cit. 19 M. Ceruti, La fine dell’onniscienza, cit., p. 174. 20 C.L. Candiani, Il Silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, cit.
Anna Finocchiaro*1
UN INTELLETTUALE CHE TIENE INSIEME IL QUADRO VALORIALE DELLA DEMOCRAZIA E “IL GUSTO DELL’AVVENIRE”
La parola scritta m’ha insegnato ad ascoltare la voce umana. Marguerite Yourcenaur
Mauro Ceruti, intellettuale, studioso, educatore ha portato nell’esperienza politica e istituzionale la propria competenza e il proprio impegno, massimizzati dalla piena consapevolezza della complessità con cui occorre misurarsi in questo tempo. Tempo che inciampa, talvolta, nella tentazione della semplificazione concettuale, purtroppo più scandalosamente vicina a ridurre a “povera cosa” questioni e scelte conseguenti e incapace di individuare invece (ed è il rovello di Ceruti) soluzioni in grado di assecondare il nuovo, senza smarrire la necessità di renderle adeguate all’esperienza umana e riconoscibili come “sensate” dai consociati. L’analisi è lucida e condivisibile. Per Ceruti, infatti, nel tempo della complessità innovazioni dirompenti in termini di velocità, diffusione globale e pervasività degli effetti su tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva, provocano rapidi cambiamenti nelle posizioni e nelle relazioni economiche e sociali, nei vantaggi e svantaggi assoluti e relativi, negli interessi e nei valori, aumentando disuguaglianze e incertezze. L’indebolimento e la rottura dei legami di coesione che ne derivano possono avviare un cambio di paradigma, cioè il cambio della visione del mondo fino a quel momento adottata e condivisa dalla collettività, i cui valori e comportamenti *1 Magistrato, Senatrice della Repubblica, Presidente dell’Associazione italiadecide.
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fondamentali, sostanzialmente indiscussi, sono alla base del gradiente di fiducia che fa da collante della collettività stessa. Non c’è però, di fronte a questa consapevolezza, nessun pregiudizio rispetto all’innovazione, nessun rimpianto e nessuna resa, quanto piuttosto un raccogliere la sfida e pazientemente trovare la strada nuova per riconnettere vecchi e nuovi saperi, per definire un’antropologia nuova, costruita sul rispetto assoluto del catalogo dei diritti fondamentali, sul contrasto alla disuguaglianza, sul diritto alla piena partecipazione (io direi, con le parole della Costituzione, “sociale, economica e politica”) e, dunque, sulla necessità di armare ciascuno – in particolare i giovani – di consapevolezze e spirito critico per farne, come dice Edgar Morin, cittadini colti e solidali, utilizzando l’innovazione per massimizzare, non per deprivare quel fine. Insomma, per dirla con le parole di Ceruti, imparare a vivere con la complessità è “la sfida chiave per l’educazione politica democratica”. Sta in questo il cuore della riflessione: la democrazia è il luogo (perfettibile, certo, poiché ogni tempo segna una sua approssimazione e non identificabile con i suoi difetti quanto con la sua potenza trasformativa della realtà), la conoscenza è lo strumento. L’approccio di Mauro Ceruti risulta di piena utilità, dunque, con riguardo alla scelta politica, che è chiamata (dovrebbe esserlo) a ordinare la complessità. È momento propedeutico alla valutazione quello di rappresentarla compiutamente ed è operazione non semplice, continuamente afflitta dalla tentazione di rimuovere, omettendoli, termini della questione di difficile gestione. Sarà, poi, un consapevole discernimento a ordinare e bilanciare il peso di ciascun fattore, ma per fare questo occorre un metro. Quello che Mauro Ceruti suggerisce è quello che tiene insieme il quadro valoriale della democrazia e, per dirla con Max Weber, che in questo riconosce l’in-sè dell’agire politico, “il gusto dell’avvenire”. Ma c’è di più: è ineliminabile, ai fini della buona decisione politica, che il decisore applichi il proprio discernimento e adotti la scelta con la responsabilità che viene dalla conoscenza, dal sapere, dal possedere cioè l’armamentario che consente di assumerla responsabilmente, scegliendola tra altre, con consapevolezza piena dei suoi effetti. Un profilo di grande interesse, che richiama un’altra necessità e cioè che alla responsabilità della decisione consegua la
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uguale responsabilità di valutare in concreto e nel tempo (che continuamente muta) gli effetti della decisione assunta. Ecco perché educare e governare non possono essere scissi e perché analoga è la responsabilità di chi si fa carico di educare e di chi si fa carico di governare. È per questo che mi sento di dire che, fuori o dentro le aule parlamentari, il contributo di Mauro Ceruti è saldo, e sicuro.
Mario Castellana*
UN PENSATORE UNO E MOLTEPLICE
Ogni idea è, di per sé, dotata di vita immortale, come una persona. Charles Baudelaire
Non è facile per nessuno, per parafrasare un’espressione del matematico Ennio De Giorgi, scegliersi un cogente problema e scommettere su di esso, con tutte le poste in gioco sia teoretiche che esistenziali che comporta, e farselo continuo “compagno” di viaggio per una intera vita. E ancor meno facile è poi pensarlo e ripensarlo, un tal cogente problema, come è riuscito a fare Mauro Ceruti con il problema posto dalla sfida della complessità dall’interno del pensiero scientifico contemporaneo, anche “sognando”, secondo l’espressione di Federigo Enriques nelle prime pagine dei Problemi della scienza, abitandone le diverse articolazioni, giungendo a infrangere schemi e cornici epistemologiche esistenti, e arrivando a delineare idee inaspettate, capaci di segnare una “svolta” decisiva, nel senso indicato da Moritz Schlick, anche nei modi di “comprendere il nostro tempo, problema matrioska che contiene in sé altri problemi”, come afferma Edgar Morin nella prefazione a Il tempo della complessità1. La “svolta” generata dall’itinerario di Mauro Ceruti si è rivelata essere il frutto di un “evento di verità”, per dirla con Alain Badiou. Egli è stato quasi colpito, a dirla questa volta con Henri Bergson, da “un raggio del vero” entrando in stretta relazione con una “intuizione” e con un’idea che da decenni continuano a orientarlo in una ricerca che egli persegue con passione e lucidità. * 1
Professore di Filosofia della scienza, Università degli Studi del Salento. M. Ceruti, Il tempo della complessità, Raffaello Cortina, Milano 2018.
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Il suo non è stato, pertanto, un viaggio “avventato”, nel senso popperiano. Il suo è un viaggio intrapreso sin dai primi anni ’80, attraverso l’universo o meglio il multiverso della complessità, allora quasi confinato in un angolo e visto come un virus da cui prendere le dovute distanze in quanto illeggibile dai canoni epistemici esistenti. Non è esagerato utilizzare nei confronti di Mauro Ceruti una significativa espressione di Henri Poincaré, da questi riferita a matematici come Galois e Riemann: un pensatore “con le ali”, andato al di là della prospettiva dei filosofi dalla vista corta, arenati nelle pastoie della pur ricca letteratura post-modernista, con le sue propaggini relativiste, o ancora legati a posizioni vetero-(neo)-positiviste, naufragati in quelle che Maximilian Winter (filosofo della matematica francese, tra i fondatori della storica Revue de Métaphysique et de Morale) chiamava quasi profeticamente “illegittime estensioni metascientifiche di una teoria”, presenti in molta letteratura filosofica del Novecento. In tale contesto, non lo aiutava peraltro la koinè rappresentata dalle epistemologie anglo-sassoni, che, pur introducendo novità rilevanti nei dibattiti di filosofia della scienza, come l’attenzione per la dimensione storica della conoscenza scientifica (invece già ampiamente riconosciuta come strategica nella tradizione francofona, da Alexandre Koyré e Gaston Bachelard a Jean Piaget, come ancora prima da Federigo Enriques in Italia), erano ben lontane dal prendere in debita considerazione la sfida della complessità. Sarebbe bastato, per tali epistemologie post-neopositivistiche, che portavano nel proprio corredo concettuale il popperiano carattere “dilemmatico” della ragione scientifica, il pur minimo confrontarsi con i suoi enjeux, nel senso datoci da Gilles Châtelet, e il porsi in critico ascolto degli “avamposti del pensiero scientifico”, per usare una significativa espressione bachelardiana. In tali ambiti, pullulava e sgorgava già il pensiero proveniente dalle scienze dei sistemi complessi, bisognoso solo di avere una più adeguata considerazione dentro il mondo filosofico, che, come osservava Gaston Bachelard, è quasi sempre strutturalmente in ritardo rispetto a ciò che avviene nel mondo della scienza. Mauro Ceruti ha saputo ascoltarlo e farlo crescere, cogliendolo quasi da “filosofo anabattista”, con la coscienza critica del rischio che un’impresa del genere comporta, in quanto nel mondo scientifico, sempre per usare
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un’espressione bachelardiana, “ogni rischio è di natura metafisica”, e coinvolge sia il pensiero sia la stessa realtà. E, grazie a questo ascolto, egli ha aperto un non secondario capitolo nel pensiero filosofico europeo, delineando un preciso e originale lessico e con ciò un inedito orizzonte per il pensiero del XXI secolo. Mauro Ceruti, anche grazie all’originale immersione nell’”altro Piaget”, il Piaget epistemologo, la cui ricerca era non a caso au carrefour di molteplici discipline, ha colto il pieno significato di indizi di una “scienza nuova” portatrice, a dirla con Federigo Enriques, di “significati qualitativi discontinui”, tutti da chiarire sul terreno epistemico, e non solo. Se inizialmente può sembrare aver fatto entrare il polifonico mondo della complessità in campo filosofico in modo laterale, nel senso di lavorare ai fianchi il pensiero esistente, a dirla con Gilles Châtelet, il lavoro di Ceruti in effetti è stato sin dagli inizi già orientato strategicamente a tracciare una precisa “via” verso la complessità, e della complessità, cogliendone appieno la dimensione teoretica in quanto portatrice di una vera e propria “svolta”. Sin dagli inizi del suo percorso, Mauro Ceruti si è impegnato in modo organico a dare alle scienze dei sistemi complessi “la filosofia che si meritano”, e che non avevano, per parafrasare un’altra idea bachelardiana, e a comprenderne le relative “rotture epistemologiche”. E non è mai stato tentato da una qualsivoglia forma di pessimismo filosofico, grazie alla capacità non comune di tradurre in risorse cognitive i lati più controversi del nuovo pensiero scientifico. Il suo impegno, sin dall’inizio, si è contraddistinto nel fare entrare nel nostro patrimonio epistemologico idee e princìpi che fino a quel momento sembravano corpi estranei al discorso filosofico e nello stesso tempo ha fatto riflettere meglio gli stessi protagonisti delle scienze dei sistemi complessi sul senso delle loro scoperte. Il suo percorso di ricerca è costellato da molte opere, ognuna delle quali ha aperto un capitolo nuovo nello sviluppo del pensiero complesso. Ma ha anche in particolare il grande e singolare merito di costituire una vera e propria paideia per un pensiero complesso. Riconoscere questa particolare caratteristica della sua opera può aiutare a capire meglio il suo contributo al panorama filosofico italiano, nel quale ha svolto in certo senso l’analogo ruolo che ebbe il suo maestro Ludovico Geymonat. Questi, nell’immediato secondo dopoguerra, in maniera quasi solitaria, riaprì la strada alla filosofia
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della scienza, coltivata nei primi anni del ‘900 dal solo Federigo Enriques, per poi allargarla agli studi logici e alla storia della scienza, e facendola diventare una disciplina sine qua non per capire il pensiero implicito nelle diverse scienze. L’orientamento che Ceruti ricava da Geymonat e poi declina in nuove diverse direzioni, soprattutto quelle delle scienze del vivente e delle scienze cognitive, e che emerge chiaramente da opere come Il vincolo e la possibilità, Evoluzione senza fondamenti, La danza che crea e Origini di storie, è stato l’anti-essenzialismo: scelta teorica decisiva, che gli ha aperto la strada verso posizioni nettamente anti-normative e anti-riduzionistiche. Ma tutto questo è il frutto del fatto che egli non ha mai smesso di confrontarsi con le diverse “anime”, nel senso di Moritz Schlick dell’Allgemeine Erkenntnislehre, emergenti nel dominio delle scienze dei sistemi complessi. Per parafrasare il Bachelard delle ultime pagine di Le rationalisme appliqué (non a caso uno dei “filosofi” di Edgar Morin2, in quanto antesignano di una epistemologia della complessità), si potrebbe dire che l’impresa filosofico-scientifica di Mauro Ceruti si è contraddistinta nel ridimensionare l’approccio quantitativo, illegittimamente esteso a tutti gli ambiti, seppure importante per “stabilire delle relazioni”. È venuta così a delineare “un pensiero della relazione” più in grado di “conoscere le qualità”, la dimensione qualitativa dei fenomeni con le loro multiple nuances e risonanze interne, non disponibili a farsi ingabbiare nelle maglie di modelli di razionalità inadatti a coglierne la natura processuale e interrelazionale, con il suo ulteriore portato di virtualità. In tal modo, ha colto il senso profondo delle rivoluzioni scientifiche in atto nella seconda metà del XX secolo, sino a riconoscere, per dirla con l’epistemologo francese, “allo spirito scientifico una tale complessità con delle caratteristiche e delle attitudini così nuove con cui riprendere i problemi se si vogliono veramente conoscere i valori filosofici della scienza”, senza cadere in quello che viene chiamato in Abitare la complessità “il sovrano sotterraneo”3 del paradigma della semplificazione, sempre in agguato e frutto di “estensioni metascientifiche”. 2 3
Si veda E. Morin, I miei filosofi, Erickson, Trento 2013, p. 125. M. Ceruti, F. Bellusci, Abitare la complessità. La sfida di un destino comune, Mimesis, Milano-Udine 2020, p. 64.
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Il percorso di Mauro Ceruti non poteva poi non approdare a un’altra “anima” o “svolta”, implicita nel polifonico mondo dei sistemi complessi e già intravista in tutta la sua cogenza da Heinz von Foerster4: la dimensione etico-antropologica, con la conseguente visione cosmopolitica a cui sempre di più rimanda “il tempo della complessità”. È in questo orizzonte che si colloca la sua originale lettura della Lettera enciclica Laudato sì, di Papa Francesco, con il suo testo Sulla stessa barca5, nel quale, come scrive Edgar Morin nella Prefazione a questo testo, si delinea una condivisa epistemologia in grado di “concepire la complessità della condizione umana nell’età globale”6. Quel bergsoniano “raggio del vero”, pertanto, non si è limitato al pur importante ambito epistemico scientifico, ma ha spianato la strada per affrontare i problemi dell’oggi, avvertiti nella loro sempre più pressante drammaticità, con la non comune coscienza critica di “non congedarsi” da essi. Anzi, nel cogliere “i segni dei tempi” degli ultimi decenni, Mauro Ceruti ha fatto sistematicamente sue le indicazioni di Romano Guardini nel sentirsi nei loro confronti “responsabile sul piano intellettuale e spirituale” e forte della presa d’atto che “la prassi autentica cioè l’agire giusto, deriva dalla verità, e per essa bisogna lottare”7. Mauro Ceruti ha interrogato e continua a interrogare il mondo della complessità, con “l’abitarne” le diverse “pieghe”, per usare un termine caro a Ludovico Geymonat. E a ogni “piega” scandagliata, grazie soprattutto al fatto di “non mentire” su di essa, nel senso di Simone Weil, ha delineato molteplici strumenti concettuali volti a fare emergere la coscienza della nostra inedita condizione umana nella sua piena dimensione planetaria. La “filosofica militia” (a dirla con l’espressione di Federico Cesi, quando fondò nel 1603 l’Accademia dei Lincei, e poi fatta propria da Galileo) di Mauro Ceruti ha svolto e continua a svolgere, in certo senso, il ruolo di 4 5 6 7
H. von Foerster, Sistemi che osservano, a cura di M. Ceruti, U. Telfener, Astrolabio, Roma 1987. M. M. Ceruti, Sulla stessa barca, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2020. E. Morin, Prefazione a: M. Ceruti, Sulla stessa barca, cit., p. 7. R. Guardini, L’opposizione polare. Tentativi per una filosofia del concreto-vivente, in Scritti di metodologia filosofica, Opera Omnia, vol. I, Morcelliana, Brescia 2007, p. 127.
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levatrice di questa coscienza, ci aiuta a capire meglio, come esseri umani, il fatto, spesso dimenticato e il più delle volte deliberatamente rimosso, che non abbiamo molto potere, ma, come avvertiva Simone Weil, “tanta, tanta responsabilità” nei confronti del reale sia naturale che umano che abitiamo.
Franco Cambi*
UN INTELLETTUALE POLIMORFO, ANCHE PEDAGOGISTA
La complessità ci sta oggi davanti sia come problema sia come compito, entrambi universali.
Mauro Ceruti: l’intellettuale polimorfo La fisionomia di ricercatore scientifico di Mauro Ceruti tiene insieme vari campi di specializzazione e un fermo sguardo di sintesi: è quella del vero scienziato nell’attuale tempo della complessità, segnato da decisi specialismi come pure da connessioni sempre più ricche e sottili fra i saperi. E qui Mauro Ceruti ci parla da Maestro, e in questa duplice direzione. Alla base del suo pensiero, ricco e articolato, stanno la passione e la competenza filosofica con cui ha elaborato un’epistemologia della complessità, attraverso il viatico dell’epistemologia genetica di Jean Piaget e poi, soprattutto, del pensiero di Edgar Morin, di cui ha sviluppato in modo originale il “metodo”. Ceruti, dalla metà degli anni Ottanta, ha pubblicato non solo testi che sono diventati pietre miliari dell’epistemologia complessa, ma anche testi volti a leggere in una prospettiva complessa l’attualità storica, fino ai più recenti Il tempo della complessità1, Abitare la complessità2, Il secolo della fraternità3, passando per una nuova edizione di Evoluzione senza fondamenti4. * 1 2 3 4
Professore di Pedagogia, Università degli Studi di Firenze. M. Ceruti, Il tempo della complessità, Raffaello Cortina, Milano 2018. M. Ceruti, F. Bellusci, Abitare la complessità. La sfida di un destino comune, Mimesis, Milano-Udine 2020. M. Ceruti, F. Bellusci, Il secolo della fraternità. Una scommessa per la cosmopoli, Castelvecchi, Roma 2021. M. Ceruti, Evoluzione senza fondamenti, Meltemi, Milano 2019.
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La ricerca di Ceruti ci sta davanti come un preciso memento relativo al nostro presente, visto come “soglia di un’epoca nuova” da comprendere insieme nella sua novità e nella sua ricchezza. Un’epoca che è capolinea e svolta da capire attraverso tutti i saperi del nostro tempo, intesi come unità-nella-complessità. Per questa originale e critica lettura dell’epoca che sta emergendo, dobbiamo essergli veramente grati. La complessità come principio-guida del suo pensiero L’idea di complessità ispira la sua epistemologia e la sua diagnosi della nostra epoca storica. Essa si fa metodo di lettura dell’insieme della condizione umana, e si contrappone alla prospettiva di semplificazione prevalente nell’epistemologia moderna, al fine di correlare i saperi attuali e cogliere il carattere dell’Epoca Nuova che ci sta davanti, contrassegnata a ogni livello, sociale e culturale, da intrecci e interazioni molteplici. E qui, proprio qui, sta la via per la Svolta ormai necessaria a livello e cognitivo ed etico-politico verso la quale ci invitano i testimoni più alti del nostro presente, come Edgar Morin tra i filosofi o Papa Francesco tra i protagonisti etico-religiosi. E a perseguire la quale Ceruti ci ha ancora una volta invitato nel volume (S)confinamenti5, pubblicato con Guido Formigoni nel 2021, dedicato proprio alla Globalizzazione quale condizione della nostra epoca. E la funzione della pedagogia: trasversale, critica e costruttiva Tutto ciò porta Ceruti a porre l’accento su quel sapere spesso trascurato, poiché dichiarato teoricamente debole e culturalmente secondario, che è la pedagogia, ma che oggi, nel tempo della Svolta da guidare, tutelare e diffondere nelle coscienze di tutti gli operatori sociali e a cominciare dai cittadini planetari, si impone come sapere-chiave: perché sapere teorico-pratico e quindi produttivo, e 5
M. Ceruti, G. Formigoni (a cura di), (S)confinamenti. Esperienze e rappresentazione della globalizzazione, il Mulino, Bologna 2021.
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ancor più perché forma mentis necessaria al futuro, per interpretarlo e realizzarlo6. Anche Ceruti si dispone su questa frontiera con i suoi scritti più “pedagogici”: da quello contenuto nel volume Formare alla complessità7 a Educazione e globalizzazione8, fino ai libri più recenti, come Il tempo della complessità9. Già nel 2004 emergevano i nuovi temi per pensare l’educazione del futuro, dalla complessità alla “contingenza evolutiva” e all’ecologia: tutti necessari per abitare quel tempo nuovo nella Civiltà umana che esige, appunto, un ripensamento radicale sia nella visione del mondo sia in relazione alla forza dominante delle tecnologie e delle politiche, che le orienti verso nuovi valori di coabitazione e di convivenza tra le diversità (etniche, religiose, politiche e culturali). Valori da costruire consapevolmente nell’orizzonte della “fratellanza” umana, come lo stesso Papa Francesco ci ha ricordato con forza, e come con forza ci ha ricordato Ceruti nel testo Il secolo della fraternità10. Nell’intellettuale Ceruti c’è, vivo e ben significativo, anche un vero pedagogista, che ci parla con una filosofia dell’educazione sviluppata “ad alta quota”, epistemica e valoriale. L’opera del filosofo cremonese si fa volano di quel futuro verso il quale dobbiamo andare. La sua è una “pedagogia-in-grande” che apre un varco verso l’approdo a un nuovo modello di civiltà. Sì, in modo da rendere la pedagogia adeguata a svolgere questo compito epocale e forse anche definitivo, davanti ai rischi inediti cui è oggi confrontata l’umanità nel suo insieme, con la possibilità stessa della sua autosoppressione. Forse oggi solo la pedagogia, riattivata nel suo profilo più alto e radicale, ci può salvare (richiamando a un’espressione di Martin Heidegger). E ricordiamoci che è anche forse l’ultima speranza. 6
Come anche Edgar Morin ci ha ricordato con forza nei suoi testi pedagogici: E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina, Milano 2000; I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina, Milano 2001. 7 M. Callari Galli, F. Cambi, M. Ceruti, Formare alla complessità, Roma, Carocci, 2003. 8 G. Bocchi, M. Ceruti, Educazione e globalizzazione, Raffaello Cortina, Milano 2004. 9 M. Ceruti, Il tempo della complessità, Raffaello Cortina, Milano 2018. 10 M. Ceruti, F. Bellusci, Il secolo della fraternità, cit.
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Dobbiamo allora, e proprio come pedagogisti, essere grati a Mauro Ceruti per questo suo impegno educativo che riporta al suo ruolo colto e operativamente alto (come è stato nella tradizione occidentale, da Platone a John Dewey e oggi fino a Edgar Morin) il sapere dell’educazione e ci consegna questo suo operari come un compito sempre più ineludibile. Un compito da sviluppare nella prospettiva complessa di un neoumanesimo scientifico e democratico, volta alla formazione personale e valoriale dei nuovi-cittadini-del-mondo, in modo che siano attori convinti e attrezzati in senso etico-cognitivo per abitare questo nostro presente di profondo cambiamento, e un domani problematico, forse, ma che dobbiamo pensare, volere e sviluppare come un futuro umanamente sempre più degno.
Matilde Callari Galli*1
IL FILOSOFO DELLA CIVILTÀ PLANETARIA
C’è voluta una lotta di secoli per conquistare il diritto al dubbio, all’incertezza: vorrei che non ce ne dimenticassimo e non lasciassimo pian piano cadere la cosa. Richard P. Feynman
A un amico che muove verso nuovi compiti e nuovi interessi forse sarà gradito leggere alcuni pensieri nati da anni di una grande vicinanza intellettuale e scelti, oggi, nella convinzione che, quando molte sapienze millenarie appaiono confuse o inutili, sia importante assumerli come guida per riflettere e operare. Mauro Ceruti è un militante del pensiero complesso, a cui è giunto sin dai suoi studi universitari, scoprendo che l’incerto, il probabile, l’indeterminato, la coesistenza degli opposti sono nella natura delle cose. E “come vivere con questo marasma” è la domanda che anima la sua continua elaborazione del pensiero complesso, che sorregge il coraggio con cui in tutta la sua vita di studioso ha dominato una grande pluralità di campi del sapere, dall’epistemologia alle scienze della natura, dalle scienze della cultura alle scienze dell’organizzazione, in una difficile ricerca inter- e trans-disciplinare, perseguita con tenacia. Lavorando sui princìpi della conoscenza, Mauro Ceruti sin dagli anni ‘70 fu colpito dagli sviluppi del sapere scientifico contemporaneo, che hanno disintegrato la visione della scienza classica, quella di un mondo meccanico, determinista, ordinato, attraverso l’introdursi dell’alea, dell’agitazione termica, delle collisioni, del disordine, dell’indeterminato, dell’imprevedibile… Anche se nella *1 Professore di Antropologia, Università degli Studi di Bologna; Senatore della Repubblica.
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quotidianità delle nostre vite riusciamo a fingere innumerevoli, piccole certezze, dobbiamo ormai sapere che sono isole, arcipelaghi a volte, che fluttuano in un oceano di incertezze. Negli scritti di Mauro Ceruti troviamo un continuo dialogo con l’incertezza, ma al tempo stesso l’ambizione di creare un pensiero che serva da guida nell’assenza di fondamenti assoluti. E questo dialogo con l’incertezza è sempre stato nel cuore dei nostri dialoghi, nel progetto di un’antropologia della complessità. Del resto, l’umanità, anche a circoscriverla a homo sapiens, ha vissuto per migliaia di anni nell’incertezza: per i nostri antenati cacciatori, per le loro donne raccoglitrici, caccia e raccolta erano aleatorie, mai certe e prevedibili. Il loro tempo di vita era immerso nel presente, nel susseguirsi di situazioni difficili da inserire in una logica duratura, spesso ambigue, di difficile interpretazione. Ma anche oggi, ogni azione entra in un gioco di interazioni che inevitabilmente la sottrae all’intenzione, alla stessa interpretazione dei suoi attori. Se al suo inizio il controllo degli effetti di un’azione appare realizzabile, con il passar del tempo esso diminuisce ed è impossibile prevederne le conseguenze finali. Ingenuo, manicheo appare ritenere che le azioni possano essere indirizzate e regolate dalle buone intenzioni, e ormai spuntata appare l’idea dell’”astuzia della ragione”. Mauro Ceruti nella lettura delle vicende storiche contemporanee, ha sviluppato ed esercitato con sapienza la prospettiva di un’ecologia dell’azione: gli attori possono anche credere di seguire le loro idee altruiste o i loro egoistici interessi, ma le loro interazioni, le conseguenti retroazioni, travolgono e superano i loro egoismi o i loro altruismi. Questa consapevolezza dell’ecologia dell’azione è oggi più che mai necessaria: significa che chi agisce deve essere pronto ad affrontare i rischi imprevisti del suo agire, pronto a correre gli inevitabili errori che si compiranno durante il percorso, e a correggerli. La teoria dei giochi di John von Neumann nella sua estrema semplicità indica già l’insorgere della sfida della complessità: ogni giocatore deve immaginare la strategia dell’altro; e questo già in un gioco a due, e dando per scontato che i due giocatori siano guidati dalla razionalità. Nella realtà si gioca a più mani e non tutti i giocatori seguono di fatto a loro guida la razionalità. Perciò Mauro è portato a sostenere che
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l’assunzione, responsabile, del rischio non possa essere mai evitata: ogni decisione, ammonisce, è sempre una scommessa. Effettuare da questa prospettiva una ricognizione della vita quotidiana consente di cogliere l’inquietudine profonda che percorre le città dell’Occidente con i loro abitanti che chiedono con sempre più vigore, in forme dirette o indirette, maggiore protezione, maggiori rassicurazioni, maggiore sicurezza sociale. Nella misura in cui le forme tradizionali di solidarietà familiare e comunitaria vanno scomparendo, viene chiesto alla società nel suo insieme di fornire a livello burocratico e amministrativo solidarietà sociale; cresce e si diffonde una mentalità “securitaria” che pretende di eliminare dalla vita l’esperienza del rischio. L’umanità per decine di millenni ha vissuto di caccia e di raccolta, con mezzi di sostentamento aleatori, soggetti a esserci oggi ma non domani. E anche quando alcuni gruppi umani hanno iniziato ad affidare il loro sostentamento alle pratiche agricole, i raccolti dipendevano da imprevisti cambiamenti nelle condizioni climatiche, le riserve erano oggetto di razzie da parte di popoli invasori: per decine di migliaia di anni è stata costante la necessità di saper affrontare minacce impreviste, eventi esposti a rischi difficili da eliminare. E oggi, l’idea di “antropocene” ha già smantellato molte convinzioni circa la relativa stabilità climatica dell’Olocene. Nell’era del surriscaldamento globale, non c’è luogo in cui non siano messe continuamente in discussione le aspettative di uno svolgimento regolare e prevedibile del clima atmosferico. Non dobbiamo mai dimenticare, ci dicono le analisi di eventi e di periodi storici svolte da Mauro, che il destino dell’uomo ha in sé un’incertezza che costituisce una minaccia costante agli equilibri raggiunti. E il nostro mondo, oggi, più che mai appare disarmato di fronte a eventi che senza sosta si presentano carichi di pericoli per la stessa sopravvivenza della nostra specie. Il mondo in cui viviamo non presenta ai nostri occhi alcuna stabilità, nessun percorso predeterminato e prevedibile, non offre ripetizioni, non intravede cicli storici, ma piuttosto squilibri, scossoni, turbamenti e imprevisti. La sfida della complessità è quella di affrontare l’incertezza in rapporto alla nostra abitudine moderna di supporre che a tutti i problemi sia possibile dare risposte chiare e determinate. Al metodo
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cartesiano che invita a separare le parti di un tutto e ad analizzarle separatamente, il pensiero complesso risponde con un metodo opposto: la conoscenza delle parti non dà il senso del tutto. Nella complessità, l’incertezza è sempre presente, sia a livello empirico che a livello teorico, sovente sia a livello empirico che a livello teorico. Mauro Ceruti ci insegna che l’incertezza ci avvicina alla realtà in quanto ci obbliga a considerarla complessa, cioè emergente in modo non lineare dall’intreccio nel tempo delle parti di cui è costituita. La bioetica è fonte di quesiti complessi. Per esempio, dobbiamo sempre ascoltare l’imperativo di Ippocrate e considerare sacra la vita umana? Ma quando una vita è ridotta allo stadio “vegetale”, insopportabile per il malato, è ancora vita? Non è possibile dare risposta univoca a questo tipo di domande, poste dalla complessità della vita umana, dominate dall’incertezza, soggette a imperativi contraddittori. Per concludere, vorrei fare un ultimo, rapido riferimento a un progetto che Mauro Ceruti mi chiamò a condividere, e che ci ha visto fianco a fianco per tutti gli anni in cui durò quell’avventura: la pubblicazione della rivista Pluriverso, che volle essere una “biblioteca delle idee per la civiltà planetaria”. Pluriverso è stata una creativa biblioteca di idee transdisciplinare, che ha intrecciato i campi più disparati del sapere: le scienze cognitive, l’epistemologia, le scienze dell’educazione e della formazione, la bioetica, la geopolitica, l’antropologia, l’etnostoria, le neuroscienze, la psicologia, la psicoanalisi, l’economia, la sociologia… E ciò per raccogliere le sfide inedite di una civiltà planetaria necessaria ma che stenta a nascere: la convivenza delle diversità, la qualità delle innovazioni, l’interdipendenza globale, il cambiamento climatico, la guerra nell’età delle armi nucleari, la siccità, le nuove miserie…: sfide, tuttora attuali come attuali risuonano oggi le esortazioni, costantemente presenti in Pluriverso, ad abbandonare,nelle relazioni tra i popoli l’idea del dominio e della violenza abbracciando quella della cooperazione per il bene comune. Cercammo di affermare la visione del Mediterraneo come di una frontiera fatta di vicende storiche intrecciate, fatta di flutti attraversati a rischio della vita, di commerci e di conflitti, di interazioni culturali dal profondo rilievo simbolico diffuso per tutto il mondo; ma soprattutto laboratorio continuo della produttività della convi-
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venza tra culture diverse. E così il nostro sguardo fu spostato dal Mediterraneo verso altre regioni, fummo portati oltre i “sentieri battuti del mondo mediterraneo” per ricordare i frequenti commerci, documentati nei reperti archeologici e negli scritti di autori quali Plinio il Vecchio, tra la Roma antica e il Medio Oriente e l’India: da quei mondi lontani arrivavano a Roma statue d’avorio, ceramiche e sete preziose. Si delineava così per gli autori e per i lettori di Pluriverso una rete di rapporti che coinvolgevano le regioni baltiche, il Vietnam, l’Impero romano, l’Afghanistan e molte regioni del continente indiano. Una sorta di globalizzazione ante-litteram che sconvolge l’ordine cronologico delle “grandi civiltà del passato” – gli egizi e poi i fenici e poi i greci e infine i romani – per documentare le sovrapposizioni, i turbamenti, l’imprevedibilità della storia umana… Ci fu anche, con Pluriverso, grazie a Mauro, la precoce attenzione a un ambientalismo lontano dalle tante voci che oggi lo usano come una facciata dietro cui nascondere ambizioni politiche e/o operazioni di marketing. A un ambientalismo che chiede la nascita di un uomo non più rapace e avido, ma che operi per il bene comune e che sappia porre fine all’idea di una crescita illimitata in un pianeta, il nostro, dalle dimensioni limitate. E accanto a tutto ciò, sempre con Pluriverso, monitoraggio dei diritti umani, della loro importanza, ma anche della loro fragilità, con la documentazione delle loro continue violazioni. In Pluriverso, come in tutte le opere di Mauro, risuona costante la necessità di conciliare lo sguardo globale, planetario, con le diversità, tutte le diversità, estendendo questa comunione al di là della specie umana, avvicinando la nostra specie alle specie che hanno percorso il cammino evolutivo del passato: e l’invito costante è di porre alla base di questa comunione l’amore per la Terra che è madre di tutti noi e di tutti gli esseri viventi. Questo amore conciliante, ci dice Mauro, può aiutarci a colmare quel senso di mancanza, di “impertinenza”, di smarrimento di fronte al passar del tempo e al dissolversi di ogni cosa che affligge le nostre giornate, le nostre relazioni con luoghi e persone…
Francesco Bellino*
IL FILOSOFO DELLA COMPLESSITÀ E DELLA FRATERNITÀ UNIVERSALE
Degli amici bisogna farsi dei maestri, unendo l’utile dell’apprendere con il piacere del conversare. Baltasar Gracian
Nessuno meglio di Edgar Morin ha saputo cogliere il valore della ricerca di Mauro Ceruti. Ha elogiato il suo “spirito potente, creativo e fraterno”, considerandolo “uno dei rari pensatori del nostro tempo ad aver compreso e raccolto la sfida che ci pone la complessità dei nostri esseri e del nostro mondo globalizzato”. Mauro Ceruti non solo ha contribuito con i suoi studi all’elaborazione del pensiero della complessità, ma ha dato un impulso decisivo sin dagli anni ’80 alla sua diffusione. Di questo la cultura italiana gli deve essere grata. Se in una filosofia sia il pensiero teoretico a determinare quello etico-politico o viceversa, resta un problema aperto. A livello logico sono le convinzioni teoretiche, ciò che un filosofo pensa della conoscenza, del mondo a essere determinanti sul suo pensiero etico e socio-politico. A livello genealogico, invece, se ha ragione Friedrich Nietzsche, sono le convinzioni morali (o immorali) a costituire “in ogni filosofia il vero e proprio nocciolo vitale, da cui si è sviluppata ogni volta l’intera pianta. In realtà si agisce bene (e saggiamente) – continua Nietzsche – se, per dare una spiegazione a ciò, si comincia col domandarci sempre in che modo le più lontane asserzioni metafisiche di un filosofo si siano determinate: quale morale tutto questo abbia di mira (lui stesso abbia di mira)”1. * 1
Professore di Filosofia morale e Bioetica, Università degli Studi di Bari e Università LUM; Presidente Nazionale Società Italiana di Bioetica (Sibce). F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano 1986, p. 11.
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Anche la filosofia di Mauro Ceruti è interpretabile secondo i due livelli indicati, che si intrecciano coerentemente e inestricabilmente nel suo pensiero e nella sua vita. Logicamente, il suo pensiero etico e socio-politico scaturisce dal paradigma della complessità; genealogicamente, il suo pensiero gravita intorno alla sua profonda fede nel pluralismo democratico e nella fraternità universale e vive della costante critica delle “gabbie cognitive” e di ogni forma di riduzionismo e di semplificazione. Se nel mondo tutto è interconnesso, interdipendente, l’agire umano e sociale deve essere ispirato alla intersolidarietà e alla fraternità tra gli uomini e tra i popoli. L’iperspecializzazione e la compartimentazione del sapere rischiano di disintegrare accademicamente la filosofia in tante diverse tecniche e discipline, facendola venir meno al suo compito primario di rispondere alle domande fondamentali sull’origine e la destinazione dell’umanità, così sintetizzate da Immanuel Kant: che cosa posso sapere? che cosa devo fare? che cosa posso sperare? che cosa è l’uomo? Questo pone in discussione il presente e il futuro della filosofia, il suo spazio accademico e culturale e ci pone degli interrogativi circa il compito oggi della filosofia. Ceruti ci ha additato con la sua metodologia e il suo stile di pensiero una via adeguata per l’attività filosofica nell’attuale contesto culturale, demolendo lo scientismo e il teoreticismo, anche dopo l’idealismo e il neopositivismo logico ancora professati nel mondo accademico, che hanno provocato la separazione e la contrapposizione tra la scienza e la filosofia. Praticando non solo la filosofia, ma anche l’epistemologia e le scienze cognitive, biologiche ed evolutive, il suo approccio interdisciplinare evidenzia l’intreccio e gli stretti rapporti tra la ricerca filosofica e quella scientifica, pur nella distinzione dei loro ambiti e delle loro logiche di indagine. Ceruti ha dato un contributo decisivo a criticare il paradigma della semplificazione, fondato sui principi di disgiunzione/riduzione/ unidimensionalizzazione, con una filosofia della complessità che con il principio dialogico ci consente di distinguere le varie forme del sapere senza disgiungere, di associare senza identificare o ridurre. Alla logica dell’aut…aut, sostituisce la logica dell’et…et. Come scrive ne Il vincolo e la possibilità (1986), una delle sue opere teoreticamente più rilevanti,
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la conoscenza contemporanea si costituisce nell’intreccio di una serie di teoremi limitativi che destituiscono di ogni plausibilità euristica l’idea del fondamento e riformulano l’approccio al problema del limite. Il limite non si definisce negativamente in rapporto ai “valori” della completezza, dell’esaustività, dell’esattezza, dell’onniscienza e dell’onnipotenza. Il limite non è una membrana o una barriera di demarcazione (…). I limiti rimandano invece, in maniera più profonda, alle stesse matrici, ai meccanismi costruttivi che presiedono allo sviluppo delle conoscenze. I limiti esprimono quell’insieme di precondizioni attraverso le quali si verifica ricorrentemente l’emergenza, la costituzione, la creazione di novità. Viene così in primo piano il riconoscimento del carattere strutturalmente inconcluso dello sviluppo di ogni sistema cognitivo, quale condizione stessa del suo corretto funzionamento e del mantenimento della sua identità.2
E così potrà argomentare che anche la libertà umana non è assoluta, è sotto condizione, ovvero non si emancipa dai vincoli, ma si costituisce al contrario all’interno di questi vincoli interni del nostro cervello, della nostra mente e della nostra cultura. Sono questi vincoli, osserva, che rendono possibile la nostra autonomia. Per usare l’immagine kantiana, l’aria è un ostacolo al volo della colomba, ma è la condizione imprescindibile perché la colomba possa volare. Da questi presupposti teoretici scaturisce l’agire etico e socio-politico. Se l’uomo è legato al mondo e agli altri, se la sua libertà è relazionale, a che cosa si deve ispirare il suo agire? È paradossale che, in un mondo sempre più interdipendente e interconnesso, domini ancora il paradigma di semplificazione nell’agire etico-politico, con la logica della separazione e del dominio dell’uomo sulla natura, con l’individualismo, il liberismo, il populismo, il sovranismo. Ceruti denuncia con lucidità e forza i rischi che l’umanità sta correndo come conseguenza di tale paradigma. Ceruti si fa promotore di un nuovo umanesimo planetario, che nasce dall’incontro fra le diverse culture del pianeta, da un nuovo modo di pensare insieme unità e molteplicità, identità e diversità, con la coscienza del fatto che tutti i popoli costituiscono una “comunità di destino”, perché comuni minacce (la minaccia di una guerra 2
M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, Raffaello Cortina, Milano 2009, pp. 44-45.
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nucleare e batteriologica, il cambiamento climatico, il terrorismo, le carestie, le pandemie, i virus informatici, la perdita di biodiversità, lo scandalo dei mercati finanziari…) incombono sull’umanità intera. “Siamo tutti sulla stessa barca” perché legati alla fragilità e all’imprevedibilità della storia umana e all’ecosistema globale del nostro pianeta Terra. La risposta più logica e adeguata alla complessità del mondo, per Ceruti, è la fraternità universale, in perfetta sintonia con l’ecologia integrale di Papa Francesco, proposta nella enciclica Laudato si’ (2015). Questo approdo, è da annotare, è anche quello di Edgar Morin, che ha esaltato la figura del frate cappuccino, dell’abbé Pierre come “l’incarnazione concreta della fraternità, più che mai necessaria all’umanità”. All’umanesimo planetario e alla fratellanza, Ceruti ha dedicato recentemente la sua riflessione (Sulla stessa barca3; Abitare la complessità4 e Il secolo della fraternità5). E ha scritto che il nuovo umanesimo planetario incorpora la sfida di trasformare il dato di fatto dell’interdipendenza planetaria nel compito di costruire una “civiltà” della Terra, di concepire una evoluzione antropologica verso la convivenza e la pace globale. È una sfida che, per essere raccolta, richiede coraggio e forza di rinnovamento mentale e spirituale, per una nuova opera di edificazione umana e di fratellanza, consapevoli che l’umanità è stata sempre esaltata dalla speranza della fraternità.6
Il tempo della complessità, per lui, può essere anche il tempo della fraternità, che, per la prima volta nella storia dell’umanità, può diventare, nel pericolo che tutti accomuna, concretamente universale. La fraternità, ha scritto, è la promessa mancata della modernità e può essere la protagonista del XXI secolo, come la libertà e l’uguaglianza lo sono state nei secoli XIX e XX. In effetti, ha pure 3 4 5 6
M. Ceruti, Sulla stessa barca, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2020. M. Ceruti, F. Bellusci, Abitare la complessità. La sfida di un destino comune, Mimesis, Milano-Udine 2020. M. Ceruti, F. Bellusci, Il secolo della fraternità. Una scommessa per la Cosmopolis, Castelvecchi, Roma 2021. M. Ceruti, Sulla stessa barca, cit., p. 93.
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osservato, senza la fraternità, la libertà e l’uguaglianza, se vengono assolutizzate nella vita sociale e politica, danno vita, come nel liberismo e nel comunismo, a società dove le ineguaglianze sono insopportabili, oppure a società ugualitarie dove gli individui sono privati della libertà; la fraternità dà senso alla libertà e all’uguaglianza; la fraternità non attiene alla sfera dei diritti come la libertà e l’uguaglianza, ma esprime il valore intrinseco di una comunità. È il valore che rende umana la comunità e la orienta alle persone e al bene comune. Se ci associassimo solo per determinati interessi, saremmo solo soci. La fraternità ci rende responsabili di noi stessi e gli uni degli altri. Ceruti è un filosofo classico, perché la teoria e la pratica, la ricerca scientifica e l’impegno umano e civile non sono separati, ma procedono coerentemente assieme. Egli pratica la fraternità nella sua vita quotidiana, nella comunità accademica, nella politica e nell’amicizia.
LA DANZA DELLA TRANSDISCIPLINARITÀ
Marcello Aitiani*1
LA TELA DEL PENSIERO COMPLESSO
Nel mondo vi è la bellezza e vi sono gli oppressi. Per quanto difficile possa essere, ha sostenuto Albert Camus,“io vorrei esser fedele a entrambi”. Salvatore Veca
Ci sono visioni e opere di poeti, musicisti, filosofi, artisti, scienziati, capaci di far vibrare le corde dell’anima e infiammare l’immaginazione. Capita anche a me e allora, come succede in acustica, sono preso da un’oscillazione simpatica che innesca complessi riverberi d’onda. Così mi è accaduto e mi accade con il pensiero di Mauro Ceruti, fonte per me di molte risonanze, accensioni e dialoghi creativi. Ricordo ancora la forte emozione provata quando, in risposta a una riflessione personale su Pavel Florenskij, mi manifestò una vibrante e calorosa sintonia, anche per i molteplici e comuni riferimenti culturali che hanno commosso e arricchito entrambi e hanno favorito evoluzioni fruttuose, pur nelle diversità delle specifiche traiettorie di vita. Fra i numerosi temi importanti della sua vasta riflessione vorrei accennare qui a due questioni, per altro correlate, che hanno attraversato e attraversano anche miei percorsi umani e artistici. La prima questione è relativa ai limiti e ad alcune ricadute del paradigma moderno, con la sua visione dualistica. La seconda riguarda la problematicità delle concrete condizioni di vita di singoli e comunità, dai destini ormai intrecciati a livello planetario. Da qui l’urgenza di prenderne realmente cura, come in genere non fanno i potenti della Terra né, invero, la maggioranza di noi tutti, almeno nella misura con cui forse potremmo. *1 Pittore, musicista, saggista.
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La crisi del paradigma moderno Fin da giovane palpitava forte in me il sentimento pungente della bellezza della natura e un desiderio di sapere e di libertà aperto a futuri possibili, quasi “avess’io l’ale / da volar su le nubi, / e noverar le stelle ad una ad una”. Ma insieme c’era anche la dolorosa consapevolezza che ogni vivente è in viaggio “infin ch’arriva colà / dove la via / e dove il tanto affaticar fu volto: / abisso orrido, immenso, / ov’ei precipitando, il tutto oblia”, per esprimermi ancora con versi del Canto notturno di un pastore errante nell’Asia, che il trentaduenne Giacomo Leopardi componeva quasi due secoli fa. Così cominciavo ad avvertire, dapprima quasi inconsapevolmente, il senso della frattura tra la passione di un’esistenza autentica e un essenzialismo della ragione scientifica per il quale, aveva scritto Heisenberg, “allontanandoci dalla natura viva veniamo a trovarci in certo modo in uno spazio senz’aria, nel quale la vita non è possibile”1. Una scissione che si diffonde a partire da Cartesio, la cui filosofia, scrive Ceruti, “esplicita in maniera paradigmatica alcune assunzioni che attraversano l’intera storia del pensiero moderno occidentale. Di tal genere sono: la separazione fra corpo e mente […]; una concezione astorica della ragione e un’opposizione più o meno esplicita fra natura e storia […], fra razionale e irrazionale, fra sapiens e demens, fra normale e patologico, fra problemi ‘veri’ e ‘pseudo’-problemi, fra scienza e metafisica…”2. La riduzione della conoscenza a misurazione esclusivamente quantitativa dei fenomeni estromette la fondamentale categoria ecologica della qualità e dell’estetica, producendo di conseguenza anche la separazione tra cultura scientifica e umanistica3. Cresce il miraggio dell’onniscienza, di una conoscenza assoluta e di un dominio senza limiti sulla natura, osserva Ceruti, a partire dall’ipotesi che l’intelletto umano sia “partecipe della perfezione della conoscenza divina […]. La scoperta di una legge dà accesso al punto di vista assoluto […]”; ciò che “consente di dissolvere il particolare nel ge1 2 3
W. Heisenberg, Mutamenti nelle basi della scienza, Universale scientifica Boringhieri, Torino 1978, p. 94-95. M. Ceruti, La fine dell’onniscienza, Studium, Roma 2014, pp. 36 e 37. Si veda, in tal senso, C. P. Snow, Le due culture, Feltrinelli, Milano 1970.
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nerale, di prevedere i decorsi (passati e futuri) degli eventi, di concepire il tempo come dispiegamento di una necessità atemporale”4. L’onniscienza divina è stata portata in terra, verrebbe da dire, trasferendola nelle mani dello scienziato. Sarebbe bene che ci liberassimo da una simile tracotanza generatrice di disastri, che i greci chiamavano hybris. I fatti e le analisi degli studiosi ci invitano ormai a scendere da questo illusorio empireo immanente, perché è sempre più manifesto che, scrive ancora Ceruti, “una mappa del sapere non è data dall’alto, non è data in anticipo”5. Dalla fine degli anni Settanta, fu per me emozionante la progressiva scoperta di un altro sguardo capace di superare la dicotomia tra essenzialismo e antiessenzialismo che “di fatto, fino ai nostri giorni – osserva Mauro – si sono divisi il campo degli approcci teorici in tutte le discipline”. Il pensiero essenzialista ha “prodotto una correlata radicalizzazione degli approcci antiessenzialisti, la quale, a sua volta, ha comportato conseguenze poco desiderabili e difficili da sradicare. Di queste, una è da sottolineare per la sua portata generale, scientifica e filosofica: una tendenziale svalutazione dei problemi della forma, della totalità, degli effetti globali, della stabilità, considerati come irrimediabilmente viziati dalla loro formulazione originariamente essenzialista”6. Questa svalutazione – a livello individuale, delle città, del mondo e delle stesse arti – è sempre più visibile nella polverizzazione di confini etici ed estetici. Ma i confini sono essenziali: come ha evidenziato Silvano Tagliagambe, le stesse idee e i concetti richiedono, per esistere, la presenza di confini mentali7. È bene però precisare che essi devono avere funzione d’interfaccia, non devono isolare: ogni ente svapora, parte dispersa nel tutto, quando smarrisce il suo limite; o all’opposto muore, monade senza porte, perché priva di relazioni col contesto. 4 5 6 7
M. Ceruti, La fine dell’onniscienza, cit., pp. 36 e 37. Ivi, p. 65. Ivi, p. 129. S. Tagliagambe, Epistemologia del confine, Il Saggiatore, Milano 1997. Di Tagliagambe si veda anche la conferenza La scienza e la duplice natura del confine, tenuta a Roma, nel Palazzo delle esposizioni, l’8 marzo 2018 (https://www.youtube.com/watch?v=NH651DJEZkg).
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Anche la città perisce se si isola; oppure se de-lira, nebulizzando limiti e forma nel caos d’insediamenti che l’urbanistica chiama sprinkling e sprawl urbano. Ugualmente le opere d’arte, da quando hanno perduto gli specifici confini, sono state sostituite da happenings e performance, nella con-fusione di più codici espressivi, giocati come in una partita a dadi senza regole. Nel probabile desiderio di abbandonare le aridità di posizioni essenzialiste e recuperare il… Fluxus della vita, entrambe (l’arte e la vita) si sono esaurite nella mera casualità e nel degrado entropico. Le varie tendenze del Concettuale, diversamente, si sono essiccate isolandosi nei confini di una razionalità senza corpo ed emozioni, o di una lettura pseudo-semiotica dei linguaggi dell’arte. Contro la morte (anche estetica) che ci assedia, e vicino al pensiero di filosofi come Mauro Ceruti o scienziati come Ilya Prigogine, ritengo che le parole più appropriate non siano più entropia– disordine-equilibrio-estinzione, ma neghentropia, ordine del non equilibrio e vita. È bene che le varie antitesi, “i processi o le forme, i flussi o le stabilità…”8, siano una risorsa e non una deminutio da superare oscurando uno dei termini in gioco. La coppia oppositiva cambia di senso uscendo fuori dalla linea, scrive Ceruti anche richiamando Stephen J. Gould: Quelle che sul segmento monodimensionale sono polarità contrapposte, nello spazio multidimensionale si trasformano in aspetti complementari e interconnessi di una nuova ecologia della storia, caratterizzata da proprietà emergenti, e irriducibili a quelle esibite dalla polarità originaria. È questa l’ecologia della contingenza, che non si riduce né al monotono dispiegamento di leggi prestabilite, né a un continuo tiro di dadi senza regola alcuna.9
Se immagino che i due poli (A e B) siano i punti estremi della base di un triangolo, essi restano distinti, ma dialoganti; indispensabili, anzi, per la sussistenza del triangolo. Con il salto al livello bidimensionale, la relazione non è più disgiuntiva: A o B; ma con8 9
M. Ceruti, La fine dell’onniscienza, cit., p. 146. Ivi, p. 145.
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giuntiva: A e B; si sostituisce, per usare le parole di Edgar Morin, “un pensiero che separa e che riduce con un pensiero che distingue e che collega. Non si tratta di abbandonare la conoscenza delle parti per la Conoscenza delle totalità, né l’analisi per la sintesi: si deve coniugarle”10. Ponendo in essere un’estetica della connettività, alimentata da simili antinomie fertili, le arti contemporanee possono creare complesse gestalt spazio-temporali nella semplice unità dell’opera: tra visualità, musica, parola…; tra tecniche della tradizione e tecnologie; fra stabilità e processualità della forma; tra ragione e sentimento-corpo-emozione: il mito di una razionalità assoluta svincolata dal corpo delle passioni – chiarisce Vittorio Gallese – è definitivamente tramontato, anche se molti fanno ancora fatica ad ammetterlo”11. E secondo Gregory Bateson “le arti figurative, la poesia, la musica, le lettere […] sono campi in cui è attiva una porzione della mente maggiore di quanto ammetterebbe la pura coscienza. “Le coeur a ses raisons que la raison ne connaît point”.12
L’arte connessa al mondo recupera ossigeno: dalla tela del pensiero complesso può risorge il chiasmo di una vita dell’arte e di un’arte della vita. Un nuovo umanesimo per uscire dalla crisi Venendo dunque alla seconda questione, sulle concrete difficoltà esistenziali del nostro tempo, osservo che in entrambe le visioni (essenzialismo e antiessenzialismo) non si coglie la reale integralità dell’essere umano. E vengono allora in mente le parole di papa Francesco, ricordate da Ceruti, che chiede un nuovo umanesimo “ispirato da quello che definisce la ‘coscienza dei volti’”13. 10 E. Morin, I sette saperi, Raffaello Cortina, Milano 2001, p. 46. 11 Si veda Gallese, Conversazione, in Maurizio Ferraris (a cura di), Arte, La biblioteca di Repubblica, Roma 2012, p. 93. 12 G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1977, p. 463. 13 M. Ceruti, Sulla stessa barca, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2020, p. 90.
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Il problema è che descrivere le sfumature e le irregolari manifestazioni della realtà, senza perdere il senso dell’insieme, è difficile, richiede un duro lavoro. Osserva Karl Schlögel che “chi si occupa dell’essenza non deve certo fermarsi all’apparenza. L’essenza non oppone resistenza, non ha pelle. […] I concetti non sono belli o brutti, ma chiari o oscuri, […]. La superficie è la prima che incontriamo. Non possiamo eluderla”14. Lo sanno bene i pittori! Siamo di fronte a scelte epocali, eppure frequentemente i comportamenti sociali, le sterili diatribe, gli stessi sistemi dell’arte, si fondono in un reciproco inviluppo nel quale, fra giochi senza regole o meccanicamente regolati, ristagnano tecnocrazia disumana, intrattenimento stupido, crisi ecologica, guerre… “Mai come oggi – rileva Mauro – abbiamo avuto a disposizione tante conoscenze sull’umano, ma mai come oggi così poco sappiamo che cos’è l’umano. […] Abbiamo prodotto una possibilità fino a pochi decenni fa inconcepibile: l’autodistruzione globale dell’umanità”15. Di certo non sono da disconoscere le molte conquiste del pensiero moderno, anche per un’etica dell’umanità tutta, come nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. “Queste idee hanno però costituito il nucleo di un universalismo astratto, fondato sulla ricerca di una natura umana che prescindesse da tutte le diversità”16. Contro l’omogeneizzazione delle culture dell’attuale finanza globalizzata e la perdita di prospettive per un futuro dignitoso, è necessario riconoscere la pluralità delle analisi e delle trasformazioni, sostiene Ceruti citando papa Francesco, ricorrendo “anche alle diverse ‘ricchezze culturali dei popoli, all’arte e alla poesia, alla vita interiore e alla spiritualità’17. […] La Terra è diventata la Terra-Patria18 dell’umanità. Le sfide globali delineano l’orizzonte di un nuovo umanesimo concreto […]. Questo universalismo concreto non oppone la diversità all’unità, il singolare al generale. Si fonda 14 K. Schlögel, Leggere il tempo nello spazio, Bruno Mondadori, Milano 2009, pp. 111-112. 15 M. Ceruti, La Terra ci unisce contro la guerra, in “L’Eco di Bergamo”, domenica 8 maggio 2022, p. 48. 16 M. Ceruti, Sulla stessa barca, cit., p. 90. 17 Francesco, Lettera enciclica Laudato si’, 2015, 63. 18 E. Morin, A. B. Kern, Terra-Patria, Raffaello Cortina, Milano 1994.
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sul riconoscimento dell’unità delle diversità umane e delle diversità nell’unità umana”19. È un invito a perseguire, con sagace utopia, una concordanza delle diversità, pur nei disastrosi conflitti delle realtà planetarie in atto. Il pensiero di Mauro Ceruti si è sviluppato lungo percorsi intrapresi anche in compagnia di acuti pensatori del Novecento e odierni, dando vita alla sua originale e complessa visione polifonica, per usare un’espressione sinestetica, che fuoriesce dalle troppo frequenti e diffuse fantasie distopiche. Nell’ottica di un’ecologia integrale, ci invita a pensare e operare con la dinamica del telaio della complessità, coscienti di quanto ogni singolarità sia connessa e intrecciata alle altre in un tessuto vivente in evoluzione. Ne beneficerebbe anche l’arte. Entrati ormai in quella che egli chiama l’età della quarta umanità20, dobbiamo sviluppare al massimo il senso di tali interconnessioni e perciò della responsabilità nei confronti di tutti gli esseri umani, delle altre creature e dell’ambiente che ci ospita. Consapevoli anche dei nostri limiti, non possiamo più ignorare che ci troviamo alla presenza di una realtà sottile e sfuggente, non riducibile alle sole leggi di causa ed effetto. Una realtà complessa e meno arida che richiede atteggiamenti di ritrovata UMILTÀ. Parola il cui anagramma fa emergere il termine ULTIMA, che nel suo significato latino (le cose ultime, fondamentali) ci richiama appunto, come vuole Mauro, all’umiltà, alla responsabilità e alla fratellanza.
19 M. Ceruti, Sulla stessa barca, cit., p. 90 e 91. 20 M. Ceruti, Il tempo della complessità, Raffaello Cortina, Milano 2018; Id. La fine dell’onniscienza, cit.
Antonino Aprea* e Corrado Pontalti**1
UN’ARTE DEL TESSERE, DELL’ANNODARE, DEL NEGOZIARE, PER LA PSICOTERAPIA
Oggi, la psicoanalisi non può limitarsi alla sola realtà psichica del singolo soggetto. René Kaës
Ci annoveriamo nella comunità degli allievi di Mauro Ceruti, e abbiamo scritto questo breve testo quale testimonianza di gratitudine, con l’impegno di consolidare e trasmettere la sua generatività e la sua etica. Il nostro ambito nelle scienze antropo-sociali è quello della psichiatria e della psicoterapia entro il paradigma della gruppoanalisi. E la gruppoanalisi, o assume l’epistemologia della complessità, o abita la complessità, o non è. Iniziamo con alcune citazioni Non desideriamo presentarci per quegli eruditi che non siamo, ma solo condividere alcuni emergenti cruciali per una epistemologia e un metodo che fondino una clinica efficace per il Mentale. Mauro Ceruti e Francesco Bellusci: si è preso coscienza del fatto che, semplificando un sistema complesso, si finisce per mutilarlo e inficiarne a priori l’intelligibilità, con il risultato, in ambito teorico-pratico di pregiudicare la definizione e la soluzione dei problemi e, pertanto, l’efficacia delle decisioni. *
Psicologo psicoterapeuta gruppoanalista; Preside della Scuola in Psicoterapia della C.O.I.R.A.G. **1 Professore di Psicoterapia, già Primario del Servizio di Psicoterapia della Famiglia e dei Gruppi, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma.
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La danza della complessità
(…) refrattarietà al “pensiero complesso”: miti e idoli del passato appaiono più duri a tramontare, quasi interiorizzati al pari di riflessi condizionati. (…) spettro dell’Uomo Semplificato. Il curare rimanda all’’anello ricorsivo’ tra cura di sé, cura degli altri, cura del mondo; (…) aiutare l’individuo a percepirsi come un’identità multipla, aiutandolo allo stesso tempo a percepire gli altri individui come identità altrettanto multiple.1
René Kaës: Oggi, la psicoanalisi non può limitarsi alla sola realtà psichica del singolo soggetto: non può più neppure costituirsi come una visione del mondo di cui avrebbe la chiave, una sorta di scienza delle scienze che si costituirebbe a partire unicamente dalla esperienza dello spazio della realtà psichica del singolo soggetto. (…) Ciò che può oggi la psicoanalisi, è trattare certe forme di malessere contemporaneo e renderne conto a condizione di esplorare i rapporti che intercorrono fra lo spazio psichico del soggetto, lo spazio dei legami intersoggettivi e lo spazio psichico proprio delle configurazioni psichiche dei gruppi, delle famiglie e delle istituzioni.2
Il rigore concettuale e metodologico di queste citazioni definisce i punti di riferimento della nostra epistemologia e prassi clinica. Ogni vicenda clinica è un intreccio, a volte inestricabile, di “fili”, coesistenti ma discontinui nella loro specificità. La psicoterapia a orientamento multipersonale propone, in una ricorsività tautologica, una concezione multipersonale della persona e della psicopatologia. Legami, famiglie, comunità, culture, istituzioni, vincoli sociali e giuridici, ambientazioni reali di vita, forme e concezioni del sacro, vengono concepiti come l’ordito su cui si tesse o si lacera la trama singolare della struttura del mentale. Si tratta dei cosiddetti “organizzatori socio-antropologici della mente”, che danno forma ai fenomeni psichici dell’individuo e del gruppo, e anche ai modi della cura degli stessi che una data società, 1 2
M. Ceruti, F. Bellusci, Abitare la Complessità. La sfida di un destino comune, Mimesis, Milano-Udine 2020, pp. 10, 13, 135, 143, 145. R. Kaës, L’estensione della Psicoanalisi. Franco Angeli, Milano 2016.
A. Aprea, C. Pontalti - Un’arte del tessere, dell’annodare, del negoziare273
in una data epoca storica, istituisce e pratica. La psiche umana nasce, si sviluppa, evolve e involve, dentro e attraverso legami familiari, sociali, comunitari ed è permeata dunque di dimensioni sociali che sono sia interiorizzate ad organizzare il mondo interno del singolo soggetto, sia permanenti nel suo mondo esterno come vincoli (e possibilità) al suo agire, al suo rappresentarsi, al suo appartenere e partecipare ad una cultura (contribuendo a trasformarla). Per comprendere queste dimensioni transpersonali della vita psichica vi è dunque bisogno di una inclinazione scientifica di fondo, volta a riconoscere le connessioni tra questa e i fenomeni socio-antropologici e culturali attraverso cui essa stessa si esprime e prende forma. Potremmo dire che per rimanere fedeli al proprio oggetto, l’oggetto particolarissimo che è l’uomo stesso con la sua esperienza psichica, le teorie della mente, nel corso della loro evoluzione, hanno dovuto continuamente storicizzare “l’umano” e situarlo, in qualche modo “localizzarlo”, e hanno avuto bisogno, per farlo, delle coordinate offerte dai saperi delle scienze umane e sociali. Lo studio delle articolazioni tra “lo spazio psichico del soggetto, lo spazio dei legami intersoggettivi e lo spazio psichico delle configurazioni dei gruppi, delle famiglie e delle istituzioni” ha attivato una sensibile evoluzione nella prospettiva epistemologica sul Mentale, inserendola a pieno titolo nel solco della epistemologia della complessità che ha investito le scienze contemporanee3. Per rendere operativa, fin dal tempo della diagnosi, inteso come tempo del comprendere, questa prospettiva epistemologica analitico-gruppale, si impone la necessità di valutare con attenzione quali siano gli interlocutori necessari per il clinico, ovvero stabilire quale perimetro minimo del campo di osservazione sia necessario per far emergere e rendere analizzabili gli elementi essenziali a una prima comprensione psicopatologica. Non sempre, infatti, il soggetto che esprime il disagio è in grado di rappresentare le storie e le vicende che ne sono l’irrinunciabile sfondo di senso. Uno sfondo che, nella prospettiva illustrata, ha a che fare non solo con l’esperienza soggettiva del singolo, ma anche con una storia familiare intesa in 3
M. Ceruti, G. Lo Verso (a cura di), Epistemologia e Psicoterapia, Raffaello Cortina, Milano 1998.
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senso plurigenerazionale, e con le interazioni di questa storia con i mondi comunitari e culturali di appartenenza, in una precisa epoca storica e in un altrettanto preciso territorio di vita. In età infantile e adolescenziale, e nei casi di maggiore gravità psicopatologica, è sempre necessario un allargamento del campo osservazionale che possa coinvolgere, nella ricostruzione biografica vitale, e non solo cronachistica, altri soggetti sulla scena, in primo luogo familiari e persone significative per il paziente (per esempio, insegnanti, coordinatori didattici e, nel caso, assistenti sociali e giudici minorili). Emerge quindi un orizzonte epistemologico e procedurale preciso, quello delle competenze necessarie al clinico per la costruzione e gestione, laddove necessario, di campi esperienziali mobili per interventi multipersonali nel processo di comprensione diagnostica e di progettazione della cura. Il vincolo epistemologico ineludibile consiste nell’attribuzione alla “situazione” lo statuto di specificità non riducibile. La “situazione” a cui si fa riferimento è in primo luogo la modalità di esistere al mondo del paziente, un “mondo” popolato da altre persone significative, portatrici anch’esse di storie, valori, significati, modi di essere. Non abbiamo dunque solo sintomi, ma peculiarità personologiche e configurazioni ambientali che devono essere conosciute4. Per farlo, è necessario porre precocemente le domande opportune agli interlocutori opportuni, e saper utilizzare ciò che emerge, mentre emerge, per le scelte successive. Le domande in questione sondano gli ambiti della vita del paziente, gli snodi della sua storia personale, familiare, sociale. Esse possono solo derivare dall’approfondimento dei determinanti storico/sociali (oltre che naturalmente relazionali/affettivi) della vita psichica, e i saperi ai quali si ancorano sono sul confine permeabile con quelli di matrice psicologica e psicoanalitica. Il clinico è, necessariamente, se spera di essere efficace, un operatore sui confini e dei confini che connettono o lacerano la molteplicità degli ambiti di apparte4
C. Pontalti, “Prospettiva multipersonale in psicopatologia. Connessione o lacerazione dei contesti di vita?”, in G. Lo Coco, G. Lo Verso (a cura di), La cura relazionale. Disturbo psichico e guarigione nelle terapie di gruppo, Raffaello Cortina, Milano 2006, pp. 123-146.
A. Aprea, C. Pontalti - Un’arte del tessere, dell’annodare, del negoziare275
nenza mentale. Ogni domanda è esplorazione del territorio al di là del noto. “Quanto più conosciamo, tanto più si spalancano le porte dell’ignoto5. E conseguentemente aumentano i rischi che accompagnano le decisioni”6. Antropologia, sociologia e diritto di famiglia, legislazione in salute mentale, caratteristiche delle istituzioni di cura, sono solo alcuni degli ambiti disciplinari delle scienze umane e sociali7 che aiutano il clinico a storicizzare, contestualizzare e problematizzare la situazione clinica che lo interroga. Un’esplorazione, affinata da queste competenze, restituisce all’oggetto di analisi immateriale del clinico, i fenomeni mentali della persona che gli è di fronte, un mondo di eventi e significanti soggettivamente costitutivi in cui collocarli e iniziare a dar loro senso (cercare senso e donare senso). Qui si evidenzia una questione topica per l’efficacia clinica: come vanno riconcettualizzati i campi terapeutici, per convenzione definiti “setting”? Tutti i paradigmi psicoterapeutici si fondano su epistemologie e modelli estremamente complessi e multidimensionali. Ciò nonostante, i setting sono assai stereotipati e ispirati a un riduzionismo procedurale sconfermante la stessa complessità. Il terapeuta identifica, secondo il proprio paradigma, un setting, quasi sempre individuale, o anche familiare, che rimane invariante fissa. Se ne valuta l’opportunità, invia altri personaggi in scena (in genere madri, padri, o la coppia genitoriale) ad altri colleghi, proponendo, quindi, nuovi campi terapeutici entro la stessa situazione clinica, ma non “abitati” da lui medesimo. Questi nuovi campi terapeutici divengono “cellule del mentale” tra loro isolate e mai si organizzeranno in “tessuto”. La pluralità delle identità, entro il sentimento di compattezza del Sé, ne risulta disarticolata, ponendosi, paradossalmente come speculare alla psicopatologia stessa. Nella vita della comunità abitata dal paziente, tutto è connesso,
5 6 7
Prezioso è, a questo riguardo, E. Morin, Conoscenza Ignoranza Mistero, Raffaello Cortina, Milano, 2018. M. Ceruti, F. Bellusci, Abitare la complessità, cit. Si fa riferimento al noto principio complementarista enunciato da G. Devereux ed espresso da F. Braudel “tutte le discipline delle scienze umane sono a loro volta ausiliarie l’una dell’altra”.
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La danza della complessità
stabilmente emergente8 dal dinamismo di un sistema relazionale complesso. Detto in altri termini, lo spazio psichico proprio delle configurazioni gruppali e familiari (i mondi delle appartenenze) viene tendenzialmente esplorato nel perimetro del mondo interno del soggetto che esprime il disagio, nel presupposto illusorio che esso ricapitoli sempre il mondo esterno, ovvero l’ampio scenario della storia personale o familiare. Poco tempo, pochi interlocutori e pochissimo spessore storico delle narrazioni richieste e facilitate, questo è il prezzo di tale riduzionismo. Se la diagnosi deve poter guidare le scelte cliniche e la costruzione dei dispositivi, non si parte certo col piede giusto. E, potremmo aggiungere, questo piede, avanzato in maniera incauta, può comportare scivolate, inciampi, o cadute rovinose che non di rado possono determinare precoci interruzioni del processo di cura appena avviato. Questi incontri fallimentari tra professionisti e pazienti, nel loro triste e disperante ripetersi lungo le tappe della stessa storia di sofferenza psichica, diventano, di fatto, generatori di cronicità. La potenziale ristrettezza del campo osservativo diagnostico ha una ricaduta estremamente significativa anche sul processo di sviluppo di un’alleanza terapeutica che possa essere, qualora necessario, multipersonale e non solo duale. Ci riferiamo alla possibilità per la quale l’organizzazione dei campi necessari per comprendere l’unicità di quella situazione clinica sia tale da permettere una prima tessitura di un legame di fiducia e collaborazione non solo tra clinico e paziente ma anche tra il professionista e le persone significative del gruppo di riferimento di chi esprime il disagio. Stabilire infatti, fin dall’inizio di un percorso clinico, un’alleanza di questo tipo, permette una maggiore ampiezza e fluidità di manovra nella costruzione di dispositivi di intervento che coinvolgano la rete familiare del paziente. Infatti, un’alleanza iniziale multipersonale 8
Utilizziamo, in questo contesto, il concetto di “emergenza” così come elaborato dall’epistemologia della complessità. Scrive a questo proposito E. Morin “L’organizzazione sistemica produce qualità o proprietà ignote a partire dalle parti concepite isolatamente: le emergenze. Così le proprietà dell’essere vivente sono ignote alla scala delle sue costituenti molecolari isolate: queste emergono in questa organizzazione e attraverso questa organizzazione, e retroagiscono sulle molecole costitutive di questa organizzazione” E. Morin, La testa ben fatta, Raffaello Cortina, Milano 2000, p. 42.
A. Aprea, C. Pontalti - Un’arte del tessere, dell’annodare, del negoziare277
diventa il migliore presupposto per la processualità di quei percorsi terapeutici nei quali la cura necessita della co-evoluzione delle persone significative nel mondo del paziente. Dare un campo alla diagnosi e alla terapia significa esplorare e connettere campi diversi (setting), precisarne i contorni, le condizioni di praticabilità, con la consapevolezza che ogni campo apre, sui suoi confini, plurimi interrogativi, e che proprio questi interrogativi aprono a nuove configurazioni da esplorare. Dove è il nostro paziente? Questa è la domanda, ultima e radicale, la stella polare, che deve guidare ogni atto terapeutico. Noi e lui siamo “rizomatosi” e i rizomi viaggiano trasversali connettendo campi mentali apparentemente discreti. In questo si consustanzia la matrice generativa basica della vita umana. E la fondazione etica del nostro lavoro consiste nel favorire la tessitura dei rizomi, non certo di tagliarli, artificiosamente, in quel riduzionismo che fa evaporare il senso organismico del tutto. Ci fa piacere terminare con due citazioni che indicano la profonda consonanza con gli insegnamenti di Mauro Ceruti, a cui testimoniamo, con questo scritto, tutta la nostra gratitudine e l’augurio più affettuoso per tanti ulteriori anni di generatività e di insegnamento. Mauro Ceruti: L’arte del tessere, di annodare, di negoziare rimpiazzerà il Discorso sul Metodo cartesiano9?
Corrado Pontalti: Il nostro lavoro (…) deve diventare veramente il lavoro delle anziane rammendatrici che ricostruivano la stoffa dove c’era lo “sbrego”. Ricostruivano, senza toppe. Nelle lacerazioni entro il tessuto Famigliare è depositato l’Inconscio. Se diventa possibile rammendare il tessuto mentale tra le configurazioni in campo diviene possibile rammendare lo sbrego nel mondo interno, con importanti trasformazioni sintomatologiche nella psicopatologia personale e verso nuove configurazioni relazionali.10 9 M. Ceruti, F. Bellusci, Abitare la complessità, cit., p. 75. 10 C. Pontalti, “Esplorare un costrutto semantico inafferrabile: la Famiglia”, in: Gruppi, nella Clinica, nelle Istituzioni, nel Sociale, fascicolo I, 2018, pp. 37-58.
Pietro Barbetta*
UN’ANTROPOLOGIA DELLA PRESENZA
He who would do good to another must do it in Minute Particulars. William Blake
Il pensiero di Mauro Ceruti è una sorta di antropologia della presenza: non si tratta solo di amore per la conoscenza (philo-sophia), ma di saggezza (phronesis). Questo phron- ha a che fare con la mente, ma anche con il respiro, se è vero, come osservava Ippocrate, che la parola phrenes si riferisce al diaframma. È quanto accade in terapia: il ritmo della mia respirazione ha a che fare con la complessità delle vite che mi stanno davanti. Si tratta di una paziente e infinita ricerca dei fili e dei nodi della singolarità. Sono, come direbbe William Blake, “minuti particolari” o, come nel titolo di un’opera di Mauro Ceruti1, “origini di storie”. Ma andiamo con ordine a ricostruire il mio incontro con questo maestro del pensiero. Incontro Mauro Ceruti, nel 1982, dopo avere letto Disordine e costruzione. Un’interpretazione epistemologica dell’opera di Jean Piaget2: testo rivelatore. In quegli anni, impera la divisione tra scienze della natura e scienze dello spirito. L’abitudine a questa distinzione esime l’umanista dall’occuparsi di scienze e lo scienziato dallo studio filosofico. Prima eccezione a questo mainstream sono gli studi di filosofia della scienza.
* 1 2
Professore di Psicologia dinamica, Università degli Studi di Bergamo. G. Bocchi, M. Ceruti, Origini di storie, Feltrinelli, Milano 1993. G. Bocchi, M. Ceruti, Disordine e costruzione. Un’interpretazione epistemologica dell’opera di Jean Piaget, Feltrinelli, Milano 1981.
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La danza della complessità
Ludovico Geymonat3, fondatore del primo insegnamento di questa disciplina, dirige per l’editore Garzanti i volumi della Storia del pensiero filosofico e scientifico e l’opera di Ceruti scaturisce da questa nuova tradizione di alleanza tra filosofia e scienza: un ritorno a Darwin. Da Charles Darwin a Jean Piaget il passo è breve. Il Piaget biologo mette in questione la vulgata darwinista della sopravvivenza del più adatto e Disordine e costruzione è il primo di una serie di studi che, attraverso Piaget, propongono una nuova visione dell’evoluzione. Poiché il darwinismo fonda le scienze biologiche, Disordine e costruzione propone una visione differente della scienza, una nuova epistemologia. Ceruti e Bocchi non sono soli nel mondo, il loro intento è raccogliere e, per così dire, mettere insieme i fili della nuova epistemologia che sta fiorendo tra gli studi scientifici, come quelli di Ilya Prigogine, che, con Isabelle Stengers, scrive La nuova alleanza4; come quelli del cibernetico Heinz von Foerster5, o dei biologi cileni Humberto Maturana e Francisco Varela6, e altri scienziati ancora. In quegli anni, come molti laureati in materie umanistiche, mi interesso di psicologia, di psicoanalisi e di psicoterapia. Divento psicologo in un’équipe nei nidi e nelle scuole d’infanzia. Poi inizio la formazione in psicoterapia. A quel tempo, Bocchi e Ceruti forniscono una nuova visione del pensiero di Jean Piaget. Ricordo il titolo di un libro da loro curato: L’altro Piaget7. Il Piaget studiato in psicologia è quello degli stadi dello sviluppo cognitivo: un Piaget semplificato. Bocchi e Ceruti partono dal Piaget epistemologo, che configura la complessità dell’immaginario attraverso la teoria matematica dei gruppi di trasformazione. L’immaginario, secondo Piaget, si avvale del pensiero ipotetico-deduttivo e configura serie che permettono di formulare ipotesi sul mondo; 3 4 5 6 7
L. Geymonat (a cura di), Storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti, Milano 1974. I. Prigogine, I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino 1999. H. von Foerster, Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma 1987. H. Maturana, F. Varela, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, Marsilio, Venezia 1985. G. Bocchi, M. Ceruti (a cura di), L’altro Piaget. Strategie della genesi, Emme Edizioni, Milano 1983.
P. Barbetta - Un’antropologia della presenza281
qualcosa che può diventare operativo in campi differenti del sapere, facoltà di creare mondi possibili o, come direbbe Edgar Morin8, complessi e iper-complessi. In psicoterapia, l’idea di fare clinica con pensieri ipotetico-deduttivi, anziché con interpretazioni, sembra affascinante. Mara Selvini Palazzoli9, la fondatrice dell’approccio sistemico di Milano, insieme a Boscolo e Cecchin, invita Ceruti a osservare le prime psicoterapie sistemiche. Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin gli chiedono di parlare di teoria della complessità alle allieve e agli allievi della scuola di Milano. Negli anni successivi a Disordine e costruzione, la messe di contributi all’epistemologia della complessità si moltiplica e, tra gli psicoterapeuti, un libro che interessa è Il vincolo e la possibilità10, in cui Ceruti mette in questione la relazione tra due concetti tradizionalmente opposti, al fine di renderli complementari: ogni vincolo permette lo scaturire di una cascata di possibilità impreviste. Nel tempo, però, la psicoterapia perde l’approccio alla complessità per innamorarsi dell’evidenza dei risultati immediati e del successo. I terapeuti riducono il pensiero di Gregory Bateson ad alcune formule ripetitive e consuete: il pattern che connette, la mappa non è il territorio, ecc. Le metafore batesoniane si trasformano in luoghi comuni, così come accade agli psicoanalisti con il complesso di Edipo. Ceruti, nel libro Epistemologia e psicoterapia11, sostiene come l’Edipo, che in Freud era una meravigliosa metafora, sia diventato un concetto per leggere ogni relazione in questi termini, riducendone la complessità. Questa banalizzazione, come nel caso dell’Edipo, accade tra gli psicoanalisti, che riducono l’oggetto transizionale di Winnicott a un peluche di pezza, o la posizione schizoide di Melanie Klein a una fase, contraddicendo l’origine stessa della posizione di Klein. Così accade per Piaget, quando la complessità del suo co8 9
E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano 1993. M. Selvini Palazzoli et al., Paradosso e controparadosso, Raffaello Cortina, Milano 2003; M. Selvini Palazzoli et al., I giochi psicotici nella famiglia, Raffaello Cortina, Milano 1988. 10 M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, Feltrinelli, Milano 1986. 11 M. Ceruti, G. Lo Verso ( a cura di), Epistemologia e psicoterapia. Raffaello Cortina, Milano 1998.
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La danza della complessità
struttivismo viene dai più ridotta agli stadi dello sviluppo cognitivo, riducendo il bambino a una sorta di viaggiatore frettoloso verso lo stato adulto. Ceruti usa anche un’altra meravigliosa metafora: strategie della bonifica12, una narrazione positivista del tipo: un tempo c’era il pensiero semplice, il pregiudizio e l’arretratezza, adesso si va verso un radioso futuro di sapere e libertà. La complessità viene così ridotta a un progetto di bonifica del mondo, guidato dalla hybris dell’onniscienza. Ceruti mostra che non esistono territori sconosciuti da rendere conosciuti, non c’è un inconscio da spiegare, né un passato di ignoranza da chiarire scientificamente. La complessità non è la predica su un mondo complicato e misterioso da semplificare e rendere spiegabile o manualizzabile. Le strategie della bonifica sono un modo di pensare all’uomo come dominatore della Terra. Il discorso “Finalità cosciente versus natura”, di Gregory Bateson, insegna che ogni finalità cosciente è anti-ecologica. Per esempio, presso alcuni gruppi umani extra-occidentali, la creazione di un utensile o di un’opera d’arte impone il vincolo di cambiare il progetto per rispettare i nodi del legno quando viene intagliato. A proposito dei gruppi umani extra-occidentali, tengo a ricordare il contributo di Ceruti nell’ascoltare e valorizzare, anche attraverso la rivista Pluriverso, il pensiero di donne e uomini provenienti da altri mondi, che ci hanno insegnato a vedere l’Oriente, la relazione delle donne tra loro e con gli uomini, le storie e la preistoria di homo sapiens demens in maniera diversa, spesso capovolta, dove il Sud sta sopra, il Nord sotto, le dimensioni dei continenti diverse, le origini di homo altre, e l’Europa solo una minuscola propaggine dell’Asia. Ciò ha permesso a molti terapeuti, come me, di pensare la clinica sempre anche come etno-clinica. La declinazione terapeutica del pensiero di Ceruti è: “non devo innamorarmi delle mie ipotesi”. Se penso a un modello terapeutico, incastro la persona nel modello, perdo la complessità e il rispetto per la vita altrui, parlo dell’altro come di un oggetto. Non perce-
12 M. Ceruti, La hybris dell’onniscienza e la sfida della complessità, in: G. Bocchi, M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Mondadori, Milano 2007, pp. 1-24; M. Ceruti, La fine dell’onniscienza. Studium, Roma 2015.
P. Barbetta - Un’antropologia della presenza283
pisco, non mi affeziono; il modello mi impedisce di ascoltare13. Di fronte alla fine dell’ideale normativo dell’onniscienza14, la psicoterapia rispetta la complessità anche nella sua dimensione estetica. È un incontro tra corpi e tra persone che si trasformano reciprocamente nello spazio e nel tempo della loro vita. La terapia, da strumento di potere/sapere15, si trasforma in incontro, meditazione reciproca, ospitalità.
13 P. Barbetta, M.E. Cavagnis, I.B. Krause, U. Telfener., Ethical and aesthetic explorations of systemic practice: New critical reflections, Taylor & Francis, London 2022. 14 M. Ceruti, La fine dell’onniscienza, cit. 15 M. Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1999.
Luisella Battaglia*
UNA BIOETICA NELLA PROSPETTIVA DI UN UMANESIMO PLANETARIO
L’uomo è solo il punto di partenza da cui guardo e la prospettiva è di qui infinita: non è una camera degli specchi da cui io venga riflesso. Henry David Thoreau
“Scienza della sopravvivenza dell’uomo nell’ecosistema”: così Rensselaer Van Potter definiva, in un celebre testo del 1971, Bioetica. Ponte verso il futuro1, la bioetica, la nuova disciplina che avrebbe dovuto avvalersi delle nozioni della biologia, della medicina, dell’ecologia, per realizzare i valori della vita e promuoverne la realizzazione. Tale visione era certamente ingenua e approssimativa, dal punto di vista filosofico, nella sua ambizione scopertamente normativa – “dire agli individui cosa fare per stare in buona salute e alla società come aiutare gli individui a stare bene” –, quasi che il concetto di salute fosse oggettivo e non variasse a seconda dei sistemi di valore e delle visioni del mondo, e tuttavia conteneva un’intuizione precorritrice nel collegare inscindibilmente il destino dell’uomo a quello della natura. Il limite grave dell’approccio di Van Potter – prigioniero di una visione olistica e condizionato da un’impostazione veteropositivistica che faceva della bioetica un’edizione aggiornata della vecchia morale scientifica – era l’approdo a un riduzionismo che rischiava di appiattire l’umano al livello – ed entro l’orizzonte – del naturale e del biologico.
* 1
Professore di Filosofia morale, Università degli Studi di Genova; Presidente dell’Istituto Italiano di Bioetica. R. Van Potter, Bioetica. Ponte verso il futuro, Sicania, Messina 2001.
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La danza della complessità
È propria di questi ultimi decenni, invece, la ricerca di un pensiero complesso che riunisca ciò che appare disgiunto e sappia discernere le interdipendenze e le retroazioni tra i fenomeni. La complessità – come ha mostrato Mauro Ceruti in numerosi e importanti contributi – è, in tal senso, una figura positiva giacché ripropone in termini non più antagonistici alcune coppie di concetti chiave del nostro approccio cognitivo al mondo (ordine/disordine, natura/ ragione, spirito/corpo). Da qui il riconoscimento delle interrelazioni tra forme e aspetti del vivente, la consapevolezza delle retroazioni che si instaurano tra i fenomeni e il loro contesto e tra ogni contesto e quello planetario (ecologia delle azioni) e, infine, l’accettazione dell’incertezza, cioè degli elementi di imprevedibilità, innovazione e mutamento (fallibilismo). Oggi, recuperata nel suo significato originario di etica per il mondo dei viventi, secondo la visione di colui che coniò il vocabolo nel lontano 1927, il filosofo tedesco Fritz Jahr, la bioetica, nel quadro del pensiero della complessità, ci sollecita a pensare nei termini di una comunità di destino e, conseguentemente, di una salute davvero globale, ridefinendo la stessa nozione di qualità della vita in relazione a parametri più ampi che corrispondono agli interessi non solo dell’umanità attuale, ma anche delle generazioni future, dell’ambiente e delle altre specie. La visione del pianeta come sistema, unità complessa, fisico-biologico-antropologica, in cui la vita è un’emergenza della storia della Terra e l’uomo è un’emergenza della storia della vita terrestre, fa sì che la nostra relazione con la natura non possa venir concepita in maniera riduttiva e separata. L’ecologia è la scienza che ha restaurato la comunicazione tra uomo e natura facendoci scoprire la fragilità di quest’ultima e avvertire la nostra responsabilità di custodi della vita nel cosmo immenso. La consapevolezza della comunità di destino terrestre ha costituito, come rileva Mauro Ceruti con Edgar Morin2, l’evento chiave di fine millennio: occorre essere solidali con la Terra giacché la nostra vita è legata alla sua. La filosofia della complessità ci insegna anche a ripensare in termini non antagonistici la coppia umanità/animalità. Proveniamo da una cultura fortemente antropocentrica, ma – grazie soprattutto 2
E. Morin, M. Ceruti, La nostra Europa, Raffaello Cortina, Milano 2013.
L. Battaglia - Una bioetica nella prospettiva di un umanesimo planetario287
all’apporto dell’etologia – stiamo diventando sempre più consapevoli che l’uomo non può essere l’unico referente del discorso morale; si tratta, dunque, di andare oltre un’etica incentrata sulla persona umana, aprendo così un orizzonte ulteriore del concetto di bioetica. Come può dunque configurarsi il rapporto con l’altro da me, il non umano? Il pensiero della complessità ci aiuta a prendere coscienza della dialettica di somiglianza e di diversità che contraddistingue il rapporto uomo/animale e del valore di diversità rappresentato dall’animale che occorre salvaguardare contro ogni antropomorfizzazione arbitraria. Quali potrebbero essere, infine, i riflessi di una visione ispirata al pensiero della complessità sul piano dell’etica globale? La trasformazione del mondo in un “villaggio globale” – effetto non secondario anche della pandemia – ha prodotto una differenza cruciale, benché non ancora sufficientemente riconosciuta, nella nostra situazione morale. L’estensione dei nostri orizzonti morali al di là dei confini spaziali costituisce in effetti uno stadio significativo nello sviluppo di un’etica autenticamente umana. Se ci chiedessimo, ad esempio, chi è il nostro prossimo, per rispondere dovremmo forse cominciare a sganciare il concetto di prossimo da quello di prossimità. Non è un’operazione facile, ma, a ben riflettere, ormai il nostro prossimo – inteso in senso forte come composto da tutti coloro su cui esercitiamo potere e su cui pertanto siamo moralmente tenuti a vincolare le nostre scelte – si colloca al di là della prossimità – sia essa spaziale (la nostra “tribù”), temporale (i nostri figli), o di specie (la specie umana). In tale visione, la sfida posta alla bioetica dalla catastrofe della pandemia – ultima di una serie di catastrofi proprie dell’antropocene – dovrebbe essere l’elaborazione di un’etica della responsabilità su scala planetaria come sola adeguata ad affrontare i problemi cruciali di sopravvivenza di un’umanità intesa ormai come una comunità di destino. Come ha evidenziato Mauro Ceruti nelle pagine davvero lungimiranti de Il secolo della fraternità3, la fraternità – la grande esclusa della triade della Rivoluzione francese – può oggi offrire un oriz3
M. Ceruti, F. Bellusci, Il secolo della fraternità. Una scommessa per la Cosmopolis, Castelvecchi, Roma 2021.
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zonte di senso. A causa della potenza tecnologica di cui disponiamo e della interconnessione di tutto con tutto, la fraternità non è più solo un principio etico che può essere accolto o non accolto, ma diviene un principio politico necessario per garantire la sopravvivenza dell’umanità. Ma ciò che più conta – ecco “la scommessa per la cosmopolis” – per la prima volta essa può diventare un valore autenticamente universale e costituire una novità rispetto alle fraternità chiuse conosciute fino a oggi, come le fraternità nazionali, legando popoli diversi e culture diverse e fondando sia il sentimento che la giurisdizione di una cittadinanza planetaria. Occorre, tuttavia, sgombrare ancora il campo da un equivoco: quello di chi ritiene che il superamento dell’antropocentrismo avrebbe un esito antiumanistico: la cura per l’ambiente e il rispetto per i non umani richiederebbero il sacrificio dei tradizionali obiettivi dell’etica umanistica: la giustizia, la libertà, il benessere, il progresso della conoscenza. In realtà, se siamo educati a pensare in termini di complessità e quindi a riconoscere la comunanza di destini tra uomo e natura, dovremmo sforzarci di mettere in relazione le questioni relative all’ambiente e alla qualità della vita con quelle attinenti alla libertà e alla giustizia, integrando i principi dell’etica umanistica con i nuovi doveri verso la natura e le altre specie. Siamo ormai pienamente una comunità di destino. L’umanesimo nuovo a cui guardare, secondo la prospettiva delineata profeticamente da Mauro Ceruti, non può che essere un umanesimo planetario capace di andare oltre le mura della città dell’uomo, nel riconoscimento fraterno di nuovi soggetti che appartengono anch’essi alla comunità di vita della Terra.
Marinella De Simone*
UNA PROSPETTIVA RIBALTATA E BINOCULARE
Oggi sento che (…) una primavera aspira a nascere. Ma sento anche che si annuncia un rigelo che potrebbe annientarla prima che essa veda la luce. Sento dunque che l’improbabile al quale mi dedico rischia di diventare davvero impossibile. Ma sento anche che, se il Titanic naufraga, forse una bottiglia gettata in mare giungerà sulla riva di un mondo in cui tutto sarebbe da ricominciare… Non si sa mai se e quando è troppo tardi. Edgar Morin
Il primo libro che lessi intorno al tema della complessità fu Origini di storie1, pubblicato nel 1993. Lo scelsi per semplice curiosità in una grande libreria, mentre vagabondavo tra i libri esposti appena pubblicati. Avevo terminato da pochi anni i miei studi di economia e di management e non avevo mai sentito parlare di pensiero complesso. I miei studi erano fondati su sistemi di equazioni differenziali che definissero i possibili equilibri di mercato, su decisioni dettate unicamente dalla razionalità dell’individuo definito come homo oeconomicus, sulla ricerca dell’utilità marginale come unico criterio valido di scelta economica. Le modalità per definire il progresso economico di un Paese erano dettate dalla crescita del Prodotto Interno Lordo, ovvero dalla sommatoria – espressa in moneta – di tutto quanto prodotto nell’arco di un anno rispetto all’anno precedente. Il concetto di progresso di un Paese spesso si sovrapponeva al concetto di benessere collettivo, quasi fossero sinonimi l’uno dell’altro. * 1
Presidente e Direttore Scientifico del Complexity Institute. G. Bocchi, M. Ceruti, Origini di storie, Feltrinelli, Milano 1993.
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La danza della complessità
Se le storie individuali erano determinate da contingenze personali, da incroci inaspettati e da scelte arbitrarie – in una parola dalla soggettività – era proprio questa soggettività così pervasiva, così incerta che andava scartata come groviglio superfluo, per lasciare campo aperto e libero alle leggi fondamentali che governano la vita di ciascuno e, per semplice sommatoria, della collettività. Era solo la ragione, scevra da emozioni e sentimenti e purificata dall’esperienza personale, che poteva essere innalzata a unica modalità per raggiungere una conoscenza oggettiva che fosse trasmissibile alla collettività. Questa conoscenza acontestuale permetteva così di considerare mero rumore di fondo gli accadimenti quotidiani e i loro intrecci reciproci. La neutralità della ragione assicurava il progresso come via personale e collettiva di salvezza, lontano dalle vicissitudini della vita, soggette invece all’alternarsi di fortuna e sfortuna. Origini di storie raccontava invece di intrecci tra molteplici storie: delle specie viventi, delle origini dell’universo, delle civiltà umane. Della storia di un’evoluzione biologica soggetta alla contingenza, di catastrofi che avevano spazzato via quasi tutti gli esseri viventi, di esplosioni di nuove forme di vita assolutamente imprevedibili rispetto alle precedenti, di improvvise deviazioni ma anche di ritorni, di riuso sotto altre funzioni dell’esistente, di ridondanza e della mancanza di una perfezione che potesse rappresentare la sintesi ideale tra caso e necessità. Nessun ottimo adattativo, nessuna strategia prevedibile di miglioramento continuo: solo contingenza e possibilità, con lunghe fasi statiche e repentini cambiamenti, con perdite immani di ciò che, fino ad allora, era risultato capace di adattarsi all’ambiente. Raccontava anche di catastrofi sociali e culturali nella storia dell’umanità, di civiltà evolute e pacifiche spazzate via dall’irrompere di popolazioni nomadi e guerriere, rozze nei costumi e culturalmente arretrate. Nessuna di queste storie, per quanto raccontasse di evoluzione nel tempo e nello spazio, poteva rappresentare il racconto del compimento di un progresso lineare. Piuttosto, erano narrazioni di perdite improvvise, di catastrofi inaspettate a cui non si riusciva a far fronte. Nessuna accumulazione di conoscenza, nessun fondamento certo, nessun cammino trionfale della civiltà umana, nessuna evoluzione verso la perfezione delle specie biologiche
M. De Simone - Una prospettiva ribaltata e binoculare291
fino al loro apice, l’uomo. Le storie diventavano invece processi circolari, trasformandosi in un percorso a spirale nell’incertezza della contingenza. Sono passati tanti anni da allora, ma ancora ricordo la modalità con la quale il leggere questo libro toccò il mio pensiero: fu un ribaltamento radicale dei miei presupposti e dei miei convincimenti più profondi. L’evoluzione della conoscenza umana aveva fino ad allora rispecchiato per me un processo ininterrotto e certo di accumulazione continua e di affinamento di quanto già conosciuto e definito dalle diverse scienze, non importava se scienze fisiche o sociali, come appunto era l’economia. Così le idee, le diverse culture, la vita sociale, le nostre democrazie, il modello economico occidentale non potevano che essere la migliore espressione di un processo storico che prevedeva il superamento di modelli ormai obsoleti e la loro sostituzione con modelli che avrebbero procurato nel tempo maggiore benessere, maggiore ricchezza, maggiore felicità per tutti, nessuno escluso, in una sorta di marcia trionfale verso la perfezione assoluta. Mi accorsi che ero infarcita di credenze errate, di illusioni semplicistiche che fino ad allora non avevo mai osservato e che avevo dato, quindi, per verità incontestabili. Per la prima volta nella mia vita capii che l’evoluzione storica e l’evoluzione del pensiero umano, così come l’evoluzione biologica, non segnavano un percorso di crescita continua e lineare verso un futuro più luminoso. Imparai, con fatica e lentezza, a ribaltare le mie prospettive, i miei punti di osservazione su quanto mi circondava e che, fino ad allora, avevo considerato una realtà unica, certa, incontrovertibile. Difficile dimenticare la sensazione di disorientamento che provai allora: possibile che fossimo così in tanti a essere caduti in una sorta di illusione percettiva? Considerare “naturale” la propria centralità evolutiva rispetto a quella di tutti gli altri esseri viventi era un pensiero lineare e semplice – ingenuo come quello dei bambini – simile a quello che aveva segnato per secoli l’infanzia dell’umanità: aver visto nella fissità della Terra rispetto agli astri la propria centralità all’interno di un universo finito. Cominciai a chiedermi cosa ancora avrei dovuto vedere in modo rovesciato.
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I libri di Mauro Ceruti che ho letto successivamente – Evoluzione senza fondamenti, Modi di pensare postdarwiniani, La danza che crea, Il vincolo e la possibilità, fino ad Abitare la complessità e Il secolo della fraternità2 – mi hanno guidato nell’affrontare e nell’approfondire questa prospettiva ribaltata e binoculare della realtà. È una prospettiva che richiede pazienza, di non avere fretta, quasi uno “stare fermi” nel pensare e nel sentire. Rinunciare a trovare soluzioni ai problemi che ci affaticano e che vorremmo poter risolvere una volta per tutte. Stare nelle domande a cui non sappiamo dare una risposta, provare a osservarle da punti di vista diversi, accettare risposte provvisorie sapendo che cambieranno, non dare nulla per definitivo. Stare nell’incertezza mettendo in discussione la percezione abituale e, dandosi il tempo necessario, scoprire le possibilità nascoste, gli intrecci che potrebbero disvelarsi, ciò che potrebbe emergere in modo repentino dopo lunghi periodi di stasi apparente. Oggi, in un modo anche questa volta ribaltato, possiamo vedere il nuovo legame che è emerso tra la storia dell’evoluzione biologica sulla Terra e la storia dell’uomo. Un nuovo intreccio di storie, imprevisto e dalle proprietà inimmaginabili fino a pochi decenni fa, che mette nuovamente l’uomo al centro del percorso evolutivo. Ma se nel pensiero ingenuo antico questa centralità era il riflesso simmetrico del legame dell’uomo con il divino, da cui derivava un potere sacro sugli altri esseri viventi, oggi questa centralità è il riflesso simmetrico del legame con la tecnologia, da cui deriva un potere distruttivo dell’uomo sulla Terra e sugli esseri viventi, compresi gli uomini stessi. Ancora una volta, la via da seguire è cambiare la prospettiva abituale, rinunciando a semplificazioni e rapide soluzioni che non farebbero che aggravare le conseguenze di questo inedito intreccio. Rinunciare al dominio, e accettare la nostra fragilità come primo passo per una nuova infanzia dell’umanità. 2
M. Ceruti, Evoluzione senza fondamenti, Meltemi, Milano 2019; G. Bocchi, M. Ceruti, Modi di pensare postdarwiniani. Saggio sul pluralismo evolutivo, Dedalo, Bari 1984; M. Ceruti, La danza che crea, Feltrinelli, Milano 1989; Id., Il vincolo e la possibilità, Feltrinelli, Milano 1986; M. Ceruti, F. Bellusci, Abitare la Complessità. La sfida di un destino comune, Mimesis, Milano-Udine 2020; Id., Il secolo della fraternità. Una scommessa per la Cosmopolis, Castelvecchi, Roma 2021.
Roberto Della Seta*
UNA SCIENZA ECOLOGICA, DELLA NATURA E DELL’UOMO
Essere egoisti è umano e naturale. Ma se scegliamo di essere egoisti in maniera giusta, possiamo ancora goderci la vita e lasciare nel contempo un mondo che sia adatto tanto ai nostri nipoti quanto ai nostri compagni su Gaia. James Lovelock
Ho incontrato per la prima volta Mauro Ceruti nel 2008, anche se lo conoscevo da anni. Lo conoscevo per le cose che aveva scritto, per le sue riflessioni da filosofo, da intellettuale che, tra i primi in Italia, ha lavorato sui temi e sulle domande portati avanti dal pensiero ecologico. Ricordo in particolare due suoi contributi di oltre trent’anni fa, che all’epoca – avevo da poco cominciato la mia “militanza” ecologista – trovai illuminanti. Il primo è un libro del 1988 curato con Ervin Laszlo – Physis: abitare la Terra1 – che raccoglieva gli atti di un convegno che si era tenuto a Firenze due anni prima con la partecipazione di scienziati e filosofi protagonisti della costruzione del nuovo e rivoluzionario (allora) paradigma ecologico, da Edgar Morin ad Arne Naess a James Lovelock. Nella prefazione, Ceruti e Laszlo scrivevano che “nel sapere scientifico e filosofico contemporaneo si delinea l’esigenza di pensare il futuro dell’uomo come inscindibile dal futuro della natura, e il futuro della natura come inscindibile dal futuro dell’uomo”, superando tanto “la Scilla di una scienza che pretende di controllare e manipolare la natura, indefinitamente e indiscrimi* 1
Storico, giornalista, già Presidente di Lega Ambiente, Senatore della Repubblica. M. Ceruti, E. Laszlo (a cura di), Physis: abitare la terra, Feltrinelli, Milano 1988.
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natamente, a uso e consumo dell’uomo” quanto “la Cariddi di una filosofia che vede invece nella tecnologia umana il ‘male’ e nelle leggi della natura, considerate necessarie immodificabili, il ‘bene’, il ‘buono’, la norma da assecondare e a cui assoggettarsi”2. Qualche anno dopo lessi altre pagine di Mauro che mi hanno insegnato molto: era un breve saggio3 a quattro mani firmato con Chicco Testa (tra i fondatori e primo presidente di Legambiente, che poi percorrerà vie di pensiero e anche di azione assai lontane da quelle premesse…) sui “peccati mortali” da cui doveva guardarsi la cultura verde, primi fra tutti il catastrofismo, negatore di quella stessa complessità da cui l’ecologia prende le mosse, e il biocentrismo, cioè l’idea falsa e pericolosa che noi umani “possiamo saltare fuori dall’ombra della nostra specie”. Molti anni dopo ho incontrato Mauro in carne e ossa. L’ho incontrato nel 2008 nell’aula del Senato, neoeletto, come lui, con il Partito democratico, nato da pochi mesi. Eravamo stati chiamati da Walter Veltroni, leader-fondatore del Pd, per occupare due “caselle” – Mauro come protagonista di una riflessione filosofica prestigiosa e innovativa, io che ero allora presidente di Legambiente – con l’ambizione generosa, ma rivelatasi forse velleitaria, di aprire il nuovo partito a pensieri, a culture indispensabili per fondare un’idea progressista contemporanea. Credo che tra i motivi per i quali legammo vi fosse il fatto che tutti e due eravamo, e ci sentivamo, dilettanti davanti al mestiere della politica (lo dico senza compiacimento, ho grande considerazione per il professionismo politico). Il mio rapporto di amicizia personale con Mauro Ceruti è dunque relativamente recente. Per ciò che mi riguarda si è sicuramente alimentato dell’integrale condivisione di un’idea che anima, così mi pare, l’intero corso e l’intero spazio della riflessione epistemologica di Mauro: l’idea del pensiero e della storia come dimensioni irrevocabilmente “meticce”. La complessità, ho imparato da Mauro, èanche “meticciato”, e impone la consapevolezza che nessuna scienza, anche nessuna pratica sociale compresa l’ecologia politi2 3
Ivi, p. 9. M. Ceruti, C. Testa, “Gli otto peccati capitali della cultura verde”, in Micromega, 1991.
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ca, bastino a se stesse. Del resto, l’ecologia prima di diventare un pensiero filosofico, sociale e politico è nata come scienza: come la scienza che nel cuore dell’Ottocento per prima ha proclamato la complessità e l’interdipendenza quali chiavi irrinunciabili per una vera conoscenza. Fedele all’idea della complessità come terreno di dialogo, di reciproca contaminazione tra scienze dell’uomo e scienze della natura, Mauro Ceruti ha sempre cercato di allargare questa intenzione antiriduzionista includendo in essa un’attenzione costante, una passione per come mi appare, verso la dimensione politica. In questo senso, penso che si possa dire che è non solo un filosofo della politica ma un filosofo “militante”. Lo è, per esempio, quando ragiona sul destino dell’Europa e sulle guerre che dalla fine del secolo scorso sono tornate a insanguinarla, ammonendo che alla radice dei mali che affliggono l’Europa contemporanea vi è quello stesso “mostro” – il rifiuto di sé come sintesi millenaria di storie e comunità molteplici ed eterogenee – che l’ha quasi annichilita nella prima metà del Novecento. Penso che la fiducia verso il “meticciato” delle idee sia anche tra le ragioni per le quali Ceruti, come me, ha creduto nel progetto iniziale del Pd. Ceruti ha anche lavorato alla Carta dei valori del nuovo partito: un partito appunto meticcio, un partito in grado di declinare in modo più largo e contemporaneo la stessa idea di progresso con ecologia, lavoro, diritti, solidarietà. Rendendola più “complessa”. E complesso, come Mauro, ha insegnato non significa più “complicato”, ma meglio capace di capire la realtà. Nel caso di un partito, di capire la realtà sociale e impegnarsi per migliorarla. Tra le riflessioni più stimolanti di Mauro vi è per me l’insistenza sulla necessità di liberare anche il pensiero ecologico da quelle stesse visioni cartesiane, seppure rovesciate, di separazione tra mente (uomo) e corpo (natura), che sono alla base del rifiuto dell’antropocentrismo e di un’idea dell’uomo come “intruso” nel mondo naturale. Visioni che la scienza, dalla fisica all’ecologia, ha superato da almeno un secolo, ma che resistono nella “corteccia rettile” di troppi scienziati. Non c’è pensiero ecologico senza uomo al centro, come senza uomo al centro non c’è pensiero: e ogni pensiero, per quanto sovversivo rispetto alle “idee ricevute”, non deve sottrarsi a una percezione contaminata – “complessa” – del rapporto tra il
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“corpo” – dunque anche la dimensione materiale e fisica dell’esistenza biotica come di quella abiotica – e “mente”, “psiche” – cioè lo sguardo del soggetto sulla realtà. Ceruti come ho ricordato lo scriveva già sul finire del secolo scorso, invitando il movimento ecologista a guardare all’ecologia come scienza della natura e dell’uomo e mettendolo in guardia da tentazioni biocentriche o ecocentriche. Tentazioni che nascono, peraltro, da una pretesa che più antiecologica e “vetero-antropocentrica” non si potrebbe: la pretesa che l’uomo si elevi così al di sopra dei criteri generali di funzionamento della biosfera da trasformarsi nell’unico animale non “egoista”, che cioè non agisce perseguendo prima di tutto il benessere della propria specie. Questa sua lezione è oggi tanto più preziosa poiché la crisi ecologica, con la crisi climatica, è giunta sulle soglie non della distruzione del pianeta – che di crisi climatiche ne ha vissute di molto più sconvolgenti, tutte superandole magari al prezzo di qualche estinzione di massa – ma dell’auto-annichilimento di una specie – la nostra – che l’ha determinata. Come detto ho incontrato il “corpo” di Mauro Ceruti, la persona fisica, quando già da molto tempo ne conoscevo la “mente” grazie all’incontro con i suoi libri. E oggi sono convinto che il progetto epistemologico che impegna Mauro da sempre – cogliere e restituire la complessità irriducibile della realtà del mondo superando ogni dualismo tra pensiero e materia, appunto tra “mente” e “corpo” – sia tutt’uno con lui come persona: in cui si uniscono una capacità, anche un piacere, davvero rari di mescolare il suo ragionare teoreticamente con la sua umanità “corporale”, con i suoi tratti di gentilezza, di amabilità, di apertura e curiosità verso l’altro da sé. A me questo intreccio piace molto, altrettanto quanto la sua filosofia.
Enzo Di Nuoscio*
UNO STUDIO DELLA FILOSOFIA CHE EDUCA ALLA COMPLESSITÀ E DIFENDE LA DEMOCRAZIA
Le verità definite dai filosofi non si abbattono a vicenda, ma si sommano e si integrano le une con le altre. Benedetto Croce
In uno dei suoi libri recenti, Mauro Ceruti scrive che “riconoscere di vivere in un mondo complesso e incerto, in cui aumentano l’incontrollabilità, l’imprevedibilità e l’indisponibilità del mondo, ci porta a ridefinire la posizione dell’uomo nel mondo e può generare una nuova saggezza e il dovere di assumere la responsabilità per decisioni i cui effetti non sono tutti rigorosamente anticipabili”1. Il ricco e articolato percorso intellettuale di Mauro Ceruti traccia una via per vivere con consapevolezza la complessità, per coglierne le sfide conoscitive, etiche, politiche e prima ancora, direi, antropologiche. Ci offre una preziosa “bussola” per orientarsi in tempi e mondi incerti e per sfruttarne le straordinarie possibilità. La tesi che intendo sostenere in queste pagine è che lo studio della filosofia sia una efficace palestra per educare alla complessità e per combattere quel “mito dell’onniscienza” e quegli “idòla della semplificazione” che, ad avviso di Ceruti, impediscono di riconoscere i “vincoli” dell’humana condicio e di trasformarli in “possibilità” evolutive2. Due radicate tentazioni che assumono sempre nuove sembianze e che nelle loro manifestazioni più radicali hanno storicamente ispirato l’ampia gamma dei nemici della libertà e della “società aperta”. * 1 2
Professore di Filosofia della scienza, Università del Molise. M. Ceruti, F. Bellusci, Abitare la complessità, Mimesis, Milano-Udine 2020, p. 135. M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, Raffaello Cortina, Milano 2009, pp. 10 e ss. e Id., La fine dell’onniscienza, Studium, Roma 2015, pp. 35 e ss.
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La danza della complessità
Studiare la filosofia per capire l’irriducibile complessità dell’humana condicio Lo studio della filosofia è uno straordinario insegnamento di quanto ricca e complessa sia la condizione umana. Le teorie filosofiche sono risposte ad autentici problemi filosofici che affondano le radici nell’esistenza umana, nella ricerca del senso della vita, nello sforzo di separare il bene dal male e in tante ineludibili esigenze che la vita ci propone. È dunque dai problemi che sorgono dalle necessità politiche, dalla ricerca scientifica, dall’esperienza religiosa, dalla produzione artistica e letteraria, oltre che dalla vita quotidiana, che si deve partire per poter comprendere la natura delle idee filosofiche. Studiare la storia delle teorie filosofiche significa quindi fare la storia dei problemi filosofici con i quali, più o meno esplicitamente, si misura ogni persona. Senza comprendere tali problemi, senza partire da essi, le teorie filosofiche risulteranno astratte, non di rado incomprensibili, distanti dalla nostra vita, appannaggio esclusivo dei filosofi di professione. Contro le “vuote astrattezze filosofiche”, Benedetto Croce sosteneva che il filosofo autentico partecipa “al travaglio della vita del suo tempo, politica e morale, se non con l’opera direttamente pratica, con l’osservazione e con la passione”, e, “come tutti gli altri uomini”, deve esercitare “qualche mestiere, e prima di tutto (ed è bene non dimenticarlo, giacché spesso i filosofeggianti han voluto dimenticarlo) il mestiere di uomo”3. Acquisita la consapevolezza che esistono le teorie filosofiche perché esistono i problemi filosofici che necessariamente ci accompagnano e che la filosofia è un movimento perenne, come scriveva Maurice Merleau-Ponty, “dal sapere all’ignoranza e dall’ignoranza al sapere”4, risulta immediatamente la grande ricchezza che offre a tutti la riflessione filosofica. La storia delle idee filosofiche diventa la storia delle possibili soluzioni ai più importanti problemi umani e ci mostra non solo quanto essi siano diversi e profondamente legati alla nostra esistenza, ma soprattutto quanto differenti, complementari 3 4
B. Croce, Punti di orientamento della filosofia moderna (1926), in Id., Ultimi saggi, Bibliopolis, Napoli 2012, p. 210. M. Merleau-Ponty, Elogio della filosofia (1953), Editori Riuniti, Roma 1999, pp. 14-15.
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o contraddittorie possono essere le soluzioni. Ci fa capire come le risposte alle nostre “grandi domande” sono sempre provvisorie e plurali, che occorre abbandonare l’illusoria pretesa di scoprire un algoritmo per far fronte ai problemi della nostra vita e che la grande ricchezza delle teorie filosofiche diventa una preziosa risorsa per cercare le risposte ai dilemmi che la vita ci propone. “La Filosofia, non meno dell’Arte, scriveva Croce, è condizionata dalla Vita, nessun particolare sistema filosofico può mai chiudere in sé tutto il filosofabile: nessun sistema filosofico è definitivo, perché la Vita, essa, non è mai definitiva”5. E quindi “le verità definite dai filosofi non si abbattono a vicenda, ma si sommano e si integrano le une con le altre”6. “Le molteplici verità filosofiche, spiega Luigi Pareyson, non sono allineate a dare comodo e facile spettacolo di sé, né si impegnano nello sterile compito di darsi sulla voce e zittirsi a vicenda, ma, consce di un lavoro che non può esaurirsi che in prima persona, collaborano attraverso la discussione e, anche quando si pongono le une contro le altre, lavorano insieme, le une con le altre, per la verità. E questo è veramente la filosofia, che stringe tutte le filosofie in un dialogo comune e ininterrotto: l’unità della filosofia è la confilosofia, senza la quale nessuna filosofia è degna di tale nome”7. Il compito della filosofia è quello di tenere in vita le grandi domande affinché, ha osservato Norberto Bobbio, “impediscano alla massa degli indifferenti di divenire preda del fanatismo”, combattendo sia contro coloro che non credono neppure nella ragione, sia contro coloro che credono senza ragionare8. Questo è il compito della filosofia, di umile “sentinella” e non di presuntuosa “guida”, di una “sentinella che deve stare ad ascoltare l’avvicinarsi del nemico, da qualunque parte provenga, e dare l’allarme prima che sia troppo tardi”9. 5 6 7 8 9
B. Croce, Filosofia della pratica. Economica ed Etica (1909), vol. I, Bibliopolis, Napoli 1996, pp. 397-8. B. Croce, Intorno al mio lavoro filosofico (1945), ora in Id., La mia filosofia, Adelphi, Milano 1993, p. 12. L. Pareyson, Introduzione a Hegel (1953), in Id., Interpretazione e storia, Mursia, Milano 2007, pp. 119-120. N. Bobbio, Cosa fanno oggi i filosofi (1984), Id., La filosofia e il bisogno di senso, Morcelliana, Brescia 2017, p. 33. Ivi, p. 34.
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La filosofia insegna che non c’è l’algoritmo dell’esistenza umana Lo studio della filosofia è dunque una potente profilassi per immunizzare contro la pericolosa assolutizzazione (per ragioni ideologiche, teologiche, politiche, economiche) di una delle tante prospettive, di cui qualche “autorità” autoproclamatasi tale si senta portatrice. Se la verità è inesauribile e se molteplici sono le vie interpretative attraverso cui i singoli tendono ad essa, allora la prima lezione che viene dalla filosofia è che le risposte alle nostre grandi domande sono sempre provvisorie e plurali. Occorre pertanto abbandonare ogni illusione di poter trovare un algoritmo per affrancarsi dai dilemmi dell’esistenza umana. E chi non sa sottrarsi a questa tentazione molto umana, ponendo ad esempio alla scienza la “domanda di senso”, rischia di finire come Dimitrij Karamazov, che nei momenti di disperazione impreca contro Claude Bernard, la cui scienza – che tante speranze avevano destato – non gli è di alcun conforto per affrontare il dramma della propria esistenza. Lo studio della filosofia e la ricerca filosofica tendono a immunizzare da questa pericolosa tentazione soprattutto per due ragioni: a) aiutano a comprendere il carattere fallibile e provvisorio della conoscenza e la natura intrinsecamente plurale, multiprospettica, contraddittoria e inesauribile dell’esistenza umana, non risolvibile in una formula, né riducibile a una singola dimensione. La filosofia genera in questo modo anticorpi contro i presunti portatori di verità assolute e insegna a convivere con l’incertezza e la pluralità senza rinunciare alla verità. b) Perseguendo una verità senza fine, la filosofia assegna un posto privilegiato al singolo. Se, come sostiene Pareyson, “delle verità non c’è che interpretazione” e se “non c’è interpretazione che della verità”, allora il pensiero filosofico presuppone la difesa della persona, perché il protagonista di questa ricerca non può che essere il singolo. Al contrario del “mito dell’onniscienza” che assegna il monopolio della verità a pochi eletti, la filosofia intesa come “confilosofia” presuppone invece la difesa della persona umana, delle sue scelte e della sua responsabilità da onnivore ontologie collettivistiche. Questa consapevolezza che necessariamente deriva studiando e insegnando le teorie filosofiche a partire dai problemi, aiuta a capire
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meglio la precarietà, la complessità e le potenzialità dell’esistenza umana, il suo essere antropologicamente gettata in un orizzonte di finitezza. La filosofia diventa così il modo migliore per esprimere il proprio tempo senza esserne prigionieri, per comprendere la situazione e al tempo stesso per riconoscere l’irriducibilità dell’iniziativa personale e l’inesauribile alterità della verità. Studiare la filosofia per convivere con l’incertezza senza rinunciare alla verità Ma la filosofia educa alla complessità anche per un’altra ragione. Come ha osservato Bertrand Russell, la riflessione filosofica aiuta l’uomo a emanciparsi dai propri istinti, a venir fuori dal “cerchio dei suoi interessi privati”10, a sfuggire alle facili contrapposizioni tra amici e nemici per abbracciare una visione più complessiva. Contro il comprensibile istinto a cercare rassicuranti certezze e a proteggersi rinchiudendosi nel proprio mondo, la filosofia aiuta ad aprirsi agli altri, a coabitare con l’imperfezione senza rassegnarsi all’esistente. Insegna a convivere con l’incertezza senza rinunciare alla verità, a una verità critica, della quale nessuno mai potrà rivendicare un sicuro possesso, che protegge dal dogmatismo e dall’irrazionalismo. Sostiene Russell che L’uomo che non ha neanche una infarinatura filosofica passa attraverso la vita chiuso nei pregiudizi dettati dal senso comune, dalle opinioni più comuni del suo tempo e del suo paese, e dalle convinzioni cresciute nella sua mente senza la cooperazione, né il consenso della volontà e della ragione. Per un tale uomo il mondo tende a diventare definito, finito, ovvio; gli oggetti della vita quotidiana non pongono problemi e le possibilità insolite vengono respinte con disprezzo. Non appena ci accostiamo alla filosofia scopriamo, invece, che anche le cose più quotidiane conducono a problemi ai quali possiamo dare solo risposte molto incomplete. La filosofia, pur essendo incapace di dirci con certezza quale sia la vera risposta ai problemi che essa stessa pone, sa suggerire molte possibilità che allargano l’orizzonte dei nostri pensieri liberan10 B. Russell, I problemi della filosofia (1957), Feltrinelli, Milano 1959, p. 188.
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doli dalla tirannia della consuetudine. Diminuendo il nostro senso di sicurezza nei riguardi delle cose come sono, essa aumenta grandemente la nostra conoscenza di come possono essere; scuote il dogmatismo alquanto arrogante di coloro che non sono mai entrati nella regione del dubbio liberatore e tiene desta la nostra meraviglia mostrandoci cose familiari sotto un aspetto inconsueto.11
La filosofia è dunque un efficace antidoto contro quella “via regia per realizzare l’ideale dell’onniscienza” che è la “semplificazione”12. Se il pensiero complesso, come ha scritto Edgar Morin, “pur aspirando alla multidimensionalità, comporta nel suo cuore un principio di incompletezza e di incertezza” e dunque “la complessità è l’opposto della completezza”13, si può allora sostenere che lo studio della filosofia allena la mente alla complessità. È utile per evitare che nella “società liquida” la “perplessità” legata all’overinformation e alla fine delle certezze faccia scattare quella “trappola della semplificazione” (basata su reazioni ideologiche, politiche, emotive, religiose) che ripropone sotto nuove sembianze il funesto “mito dell’onniscienza”. Favorendo un pensiero critico e antidogmatico, la filosofia, per usare le parole di Ceruti, “fornisce risorse intellettuali per riarticolare le possibilità evolutive”14. Proprio combattendo le irragionevoli pretese della Ragione e attraversando innumerevoli territori disciplinari, la meditazione filosofica di Mauro Ceruti ha contribuito ad arricchire l’unitas multiplex del pensiero filosofico e a rafforzare le “casematte” del pensiero critico, offrendoci preziose “carte di navigazione” per vivere meglio nelle società complesse e per difendere la nostra libertà.
11 Ivi, pp. 185-6. 12 M. Ceruti, F. Bellusci, Abitare la complessità, cit., p. 8. 13 E. Morin, Sur la définition de la complexité (1984), in AA.VV., Science et pratique de la complexité, La Documentation Française, Parigi 1986, p. 80. 14 M. Ceruti, Il tempo della complessità, Raffaello Cortina, Milano 2018, p. x.
Piero Dominici*1
OSSERVATORE DEL NON-OSSERVABILE
Ciò che osserviamo non è la natura in sé stessa, ma la natura esposta ai nostri metodi d’indagine. Werner Heisenberg
Praticamente impossibile provare, in poche parole, anche soltanto a delineare la figura e il contributo intellettuale e scientifico, assolutamente straordinari, di Mauro Ceruti. Operazione resa ancor più difficile dai sentimenti di stima e amicizia fraterna che a lui mi legano. Al di là della sua fondamentale opera transdisciplinare, scientifica e di divulgazione, Mauro Ceruti ha avuto, e ha tuttora, il merito di continuare a testimoniare con la sua vita, le sue scelte e il suo impegno politico, un’autonomia e un’indipendenza di pensiero e azione che non possono che essere di esempio, non soltanto per i suoi allievi. Il pensiero, l’azione, il metodo, la ricerca incessante e appassionata della libertà, dell’incontro con l’Altro da Noi e, ancor di più, di un Umanesimo planetario. Di una libertà che non può che essere responsabile, relazionale e sistemica. La Persona e l’intellettuale, una vita di studio e rigorosa ricerca, con la costante tensione alla traduzione operativa di quanto indagato, a livello di prassi individuale e sociale: un modo e un metodo di indagare/investigare la realtà fenomenica che sono da sempre in sintonia con l’esistere, il rapportarsi con l’Altro, l’osservare e il conoscere. Mauro Ceruti è stato, fin da subito, un punto di riferimento imprescindibile per chi intendesse studiare e/o anche soltanto avvicinarsi allo studio della complessità e dell’epistemologia di cui è portatrice. In tutte le sue opere, ma anche in tutte le scelte pubbliche, possiamo trovare sempre la profonda consapevolezza di quan*1 Professore di Sociologia, Università degli Studi di Perugia.
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to abitare la complessità richieda, oltre che grande preparazione e rigore metodologico, un’infinita sensibilità e attenzione nell’accettare l’emergenza e l’imprevedibilità, dimensioni costitutive dei sistemi complessi. Percorsi di pensiero e ricerca portati avanti nella profonda consapevolezza delle relative implicazioni epistemologiche ed etiche che sono alla base, non soltanto della conoscenza di senso comune e della conoscenza scientifica, ma anche, e soprattutto, del nostro stesso esistere. Mauro Ceruti, proprio come il comune amico e mentore Edgar Morin, non ha mai tenuto separate la vita e la conoscenza della vita, la vita e la ricerca della conoscenza, le emozioni e la razionalità; la conoscenza e la (rara) consapevolezza dei nostri limiti e delle nostre inadeguatezze di esseri umani. Dall’epistemologia delle scienze umane e sociali alla metodologia della ricerca, dalle sfide della (iper)complessità e dei nuovi paradigmi alla riforma dell’educazione e del pensiero, nel quadro di una produzione davvero significativa ed emblematica di una poliedricità e di una capacità estremamente rare, di approfondire, disvelare la natura intrinseca e complessa, ambigua e multidimensionale delle questioni e dei fenomeni osservati, senza cadere nella superficialità e nei luoghi comuni che, talvolta, rischiano di segnare anche teoria e ricerca scientifica. Percorsi di studio e ricerca che continuano a essere anche percorsi di vita, oltre che segnati da originalità e profondità dell’analisi, da sempre coniugate con una modestia e una capacità di ascolto davvero rare. Il pensiero e l’opera di Mauro Ceruti non hanno mai smesso di esserci di supporto nel provare ad attraversare e ad abitare un’epoca segnata da profondi mutamenti e processi di sintesi complessa, le cui implicazioni epistemologiche ed etiche, oltre a spalancare di fronte a noi prospettive e traiettorie del tutto inedite, non siamo in grado di valutare. Una fase accelerata di cambiamento radicale dei paradigmi e di trasformazione antropologica che si concretizza nel progressivo ribaltamento dell’interazione complessa tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale. Divisioni, logiche di separazione, fratture: ne ho parlato, in tempi non sospetti, in termini di “false dicotomie”. I tradizionali confini e limiti, tra natura e cultura, tra naturale e artificiale, sono completamente saltati, in virtù e in conseguenza
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delle straordinarie scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche; si tratta di quegli stessi confini e limiti destinati a trasformarsi sempre più in zone ibride e di contaminazione che, almeno per ora, trovano le nostre istituzioni educative e formative, così come le culture organizzative pubbliche e private, impreparate e inadeguate. La complessità è caratteristica essenziale degli aggregati organici, in altre parole dei sistemi biologici, sociali, relazionali, umani, sempre caratterizzati da relazioni sistemiche e numerosi livelli di interconnessione /interdipendenza: ben strutturati e costituiti da parti che, nelle loro molteplici e sistemiche interazioni, condizionano il comportamento e l’evoluzione (non lineare) dei sistemi stessi. Nel frattempo, noi umani continuiamo a esser convinti di poter controllare/gestire tutto, quasi di poter ingabbiare, tutta la complessità dell’Umano e del Sociale, la vitalità dello spirito e del “non osservabile”, in modelli e formule matematiche, in sequenze infinite di dati e numeri, in molecole, sinapsi, ormoni, reazioni chimiche. E, nel fare questo, cerchiamo anche di visualizzare/rappresentare ciò che non è visualizzabile, trascurando la dimensione/la variabile fondamentale delle proprietà emergenti e di ciò che – mi ripeto – non è immediatamente osservabile: da sempre, ci spaventa molto la sola idea che qualcosa possa sfuggire al nostro “sguardo” e al nostro controllo. Da sempre, ci spaventano l’errore e l’imprevedibilità – che ci illudiamo di poter eliminare – e, tuttora, abbiamo maturato poca consapevolezza di trovarci tutti sulla stessa barca. Ed è proprio questo atteggiamento che ci condanna all’impreparazione e all’eterna attesa dei cigni neri (antica metafora e classica razionalizzazione a posteriori). L’Umano e il Vitale – e i sistemi complessi – non sono riducibili né semplificabili, né tanto meno misurabili, prevedibili, gestibili fino in fondo. E così, al contrario, invece di separare, isolare e scomporre in parti, dovremmo provare a osservare e a riconoscere la complessità, a ricomporre ciò che ci appare separato (educazione e formazione), a riconoscere ed evidenziare le connessioni e le relazioni sistemiche (conoscenza). Per tante ragioni, continuiamo ad alimentare fratture che non conducono alla conoscenza, bensì a un senso di rassicurazione rispetto all’incertezza della vita e all’indeterminatezza del reale.
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In questa prospettiva di analisi, è tempo di ripensare la stessa idea e definizione di “Scienza”, accettando la sfida, epistemologica e metodologica, di osservare (e provare a conoscere) anche il non-osservabile, e di considerare significativo, nei percorsi/nelle prospettive di ricerca scientifica, anche ciò che non è misurabile in termini quantitativi. In altre parole, occorre ripartire anche da una rinnovata consapevolezza: l’idea / la visione / la prospettiva di trasformare/di tradurre/di semplificare e ridurre il “qualitativo” (la complessità della vita, del sociale, dell’umano) in “quantitativo”, in dati quantitativi, è ingannevole, fuorviante e, perfino, presuntuosa. Il contributo di Mauro Ceruti è stato, è e resterà fondamentale, non soltanto per provare a co-costruire una “cultura della complessità”, ancora confusa, a ogni livello, nei suoi presupposti metodologici ed epistemologici. La sfida delle sfide è, evidentemente, una sfida soprattutto educativa, di instancabile ricerca dell’Altro, dell’Umano, della Vita. Una serie di sfide, ancor più affascinanti, proprio perché vissute in tutti questi anni con l’amico Mauro… sulla stessa barca!
Marco Emanuele*1
UN PENSIERO PER LA MEGACRISI DE-GENERATIVA, E PER L’INTER-IN-DIPENDENZA
Se la ricerca della certezza ha finito nella moderna filosofia occidentale col diventare un ideale, essa non può costituire il fine della filosofia interculturale. Raimon Panikkar
La crisi del pensiero Nella megacrisi de-generativa che stiamo vivendo, la crisi più evidente e più profonda è quella del pensiero. Da tutta una vita, Mauro Ceruti ci invita alla complessità della conoscenza, cammino di noi umani nell’oltre, nel futuro già presente. In un tempo come l’attuale, nel quale non basta più parlare di cambiamento, è in atto una vera e propria metamorfosi. Per noi che ci occupiamo di pensiero complesso, il tema è l’approccio realisticamente trasformativo: Mauro è Maestro, sulla scia delle intuizioni, fattesi insegnamenti, di Edgar Morin. Conoscere, con-naître, è nascere insieme, ri-nascere. La complessità è stupore perché ci permette di cogliere e di accogliere le interrelazioni e le retroazioni caratteristiche di ogni fenomeno umano. Nulla è lineare, eppure pensiero e decisione strategica vivono ancora nel pieno di una linearità e di una semplificazione che generano radicalizzazione e separazione. Per giungere alla consapevolezza intellettuale di Mauro, metodo ovvero cammino che continua nell’incertezza, occorre lavorare incessantemente nell’elaborazione di un “giudizio storico” nella realtà che evolve e involve. Il progresso porta con sé il regresso, l’ordine si nutre di disordine. *1 Editor della piattaforma di informazione geostrategica The Global Eye.
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La danza della complessità
Un pensiero che non trasforma, non ri-pensandosi, non è pensiero. O è acquiescenza sui dettami mainstream o è semplicistico antagonismo. Ciò che serve, invece, è un pensiero-nella-conoscenza, trasformativo, critico, complesso, di ri-nascita, libero. Questa è la sfida che abbiamo di fronte e rispetto alla quale non possiamo più aspettare. Spesso, riflettendo, mi viene in mente un’immagine. Con la fine del mondo bipolare, la caduta del muro di Berlino, l’implosione dell’Unione Sovietica e l’avvio dell’ultima fase della globalizzazione, non abbiamo lavorato sulla grande trasformazione che sintetizzo nel passaggio da un “mondo-uno” (sommatoria di mondi) a un “mondo-mosaico”. Cosa c’è al centro del nostro convivere? Ciò che si vede è una gigantesca ri-composizione (continua composizione) dei rapporti di potere e la corsa dei diversi player a occupare il posto migliore al centro del palcoscenico della storia. Nulla a che fare con il mosaico, al cui centro c’è la relazione tra le parti, insostituibili nella logica del mosaico ma nessuna delle quali può dirsi più importante del Tutto. Anche ogni società è un mosaico: è sostenibile un mondo, e mondi nei quali la relazione tra le parti non sia al centro del nostro pensare e del nostro agire? Mauro è, per me, Maestro di umiltà e di relazione. Egli mi ha sempre invitato a concentrare l’attenzione sulla necessità che ciascuno avvii, e consolidi, processi personali e relazionali di fraternità, di costruzione di spazi comuni, di quel bene comune tanto declamato quanto disatteso, fino al destino planetario. Nel terzo millennio, con le storie che continuano a tornare, ciò che trasforma è nel tutto-interrelato. Accennavo alla megacrisi de-generativa in atto, dinamiche che agiscono in maniera inseparabile e che non possono essere comprese e governate “una alla volta”, ma ciò che trasforma profondamente il nostro essere e il nostro vivere, ponendo la necessaria riflessione sul piano del “chi diventiamo”, è la rivoluzione tecnologica. Illuminante e accecante, la tecnologia, in particolare le frontiere dell’intelligenza artificiale, ci mostra quanto l’uomo sia, al contempo, generativo e de-generativo, trasformante in senso complesso. La tecnologia, nella megacrisi de-generativa, esige dialogo. Come la fraternità, anche il dialogo paga il prezzo di interpretazioni
M. Emanuele - Un pensiero per la megacrisi de-generativa309
superficiali, roba da anime buone che nulla avrebbe a che fare con la politica e con i rapporti di potere, duri e, quelli sì, storicamente determinanti. Ebbene, la traiettoria esperienziale e intellettuale di Mauro e del pensiero complesso mostra che non è così. Si possono immaginare e percorrere, ma dipende dalla nostra responsabilità, cammini davvero alternativi. Non ci servono programmi pre-definiti, ma un metodo in cammino. Nella metamorfosi-trasformazione, dentro il cambio di era che come umanità stiamo vivendo, occorre sviluppare criticamente una cultura dell’incertezza. Potrà apparire un paradosso, ma meno facciamo pace con l’incertezza-che-siamo e più avremo insicurezza e precarietà intellettuale e sociale. Papa Francesco lo ha capito e l’agire nelle ferite della storia, dentro la guerra mondiale “a pezzi”, mostra il bisogno di una “diplomazia della misericordia”: laicamente, abbiamo bisogno di una “diplomazia creativa”, da ogni comunità al mondo, per ri-congiungere ciò che è disperso. La crisi della pace Oggi si sente parlare, con riferimento a ciò che accade in Ucraina, di una guerra “esistenziale” per tutti i soggetti coinvolti. È così, e ogni soggetto progressivamente radicalizza il proprio punto di vista. Ma tutto questo non è più sostenibile. Dall’invenzione dell’arma nucleare in poi, e oggi dove tecnologia e guerra sono consustanziali, non siamo più nel tempo della guerra come continuazione della politica con altri mezzi. La guerra rappresenta la morte della politica e, potenzialmente (nella trasformazione dell’”ambiente strategico”), può rappresentare la morte dell’umanità e del pianeta. Sento di dover dedicare l’ultima parte di questa breve riflessione al tema della pace, parola tanto cara a Mauro e a tutti noi. Pace secondo complessità non è mai solo assenza di guerra: pace è ben altro, e vediamo la sostanziale incapacità dei “lineari di professione” nell’ammettere che la via ancora perseguita è limitata e limitante. Così come non esiste libertà senza liberazione, non esiste pace senza sguardo d’insieme: non c’è pace che non sia sistemica e strategica. Su questo punto occorre dire che non può esistere pace senza giustizia.
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La danza della complessità
La pace è, anzitutto, arte dei piccoli passi, e pazienti. I costruttori di pace sono testimoni di “diplomazia critica”, persone che alimentano ogni giorno una cultura dell’incontro, della mediazione e della visione comune. Avere una sensibilità complessa significa conoscere, con-naître, ri-nascere insieme nella realtà. Tutto ri-nasce nel quotidiano che si trasforma e ci trasforma: anche gli scenari più complicati, che avvertiamo come distanti da noi e che invece ci riguardano direttamente e profondamente. Pace e giustizia si formano nel vincolo che ci lega. Siamo fratelli-in-umanità perché siamo inter-in-dipendenti. Il vincolo, legandoci l’uno all’altro in un destino comune e planetario, è il punto dal quale partire e nel quale costruire ciò che non si vede, ma che già appartiene al nostro presente: l’oltre. Ancora immersi nel regno del “costituito”, abbiamo paura e alziamo barriere e confini per proteggere il “nostro” particolare. Chi ha studiato i totalitarismi del ‘900, e continua a indagare nei “segni totalitari” del terzo millennio, sa che ogni sistema adotta forme d’immunizzazione e di protezione: ce lo ha insegnato, drammaticamente, la recente pandemia da Covid-19. Altra cosa, che rappresenta una tendenza preoccupante, è l’esasperazione di tale immunizzazione in illusione di protezionismi autarchici: una cosa è cercare l’autonomia strategica, ma ben diverso è insistere sulla separazione dal mosaico-mondo, che non è il mondo-uno (sommatoria di mondi), di cui facciamo parte. Il tema, semmai, è il governo politico dell’inter-in-dipendenza, la giusta mediazione tra gli innegabili interessi particolari e la globalità che tutti comprende. Le storie continuano a tornare e la cultura e la politica devono prenderne atto, ri-pensandosi per ri-fondarsi.
Girolamo Lo Verso*
UN’EPISTEMOLOGIA OPERATIVA, PER IL LAVORO CLINICO
Non si tratta solo di comprendere che l’essere dell’uomo si esprime attraverso e mediante la sua affettività, bisogna comprendere anche che la sua follia è un problema centrale dell’uomo, e non soltanto il suo eccesso e il suo scarto. Edgar Morin
Molti anni fa, Mauro Ceruti venne a insegnare Epistemologia genetica nel corso di laurea in Psicologia dell’Università di Palermo. Nello stesso corso, io insegnavo Psicologia clinica. Ero tra i più appassionati sostenitori del suo contributo, avendo letto con interesse scientifico-professionale i suoi libri e quelli di Edgar Morin. Avevo colto le grandi possibilità che il metodo della complessità offriva alla mia ricerca clinico-teorica, ma anche esperienziale e metodologica. Ci incontrammo con facilità: per entrambi, l’epistemologia non era solo una teoria, ma era rilevante per strutturare un lavoro operativo, clinico nel mio caso. Decidemmo di curare un testo, Epistemologia e psicoterapia1, e cercammo di coinvolgere i più “pensanti” operatori e ricercatori nel campo clinico. Il progetto si verificò fecondo di dialoghi e riflessioni. Di fatto, fra letture e scambi, il mio debito scientifico-culturale nei confronti di Mauro è grande, ed è inscindibile da un “verace” rapporto umano. L’epistemologia della complessità mi consentì di pensare in termini di e/e, e non nei termini classici del pensiero per * 1
Professore di Psicoterapia, Università degli Studi di Palermo; già Presidente della Società di Gruppo Analisi Italiana. M. Ceruti, G. Lo Verso, Epistemologia e psicoterapia. Complessità e frontiere contemporanee, Raffaello Cortina, Milano 1998.
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polarità o/o, che, allora, paralizzava l’elaborazione nel mio campo di ricerca. Io sono anche un gruppoanalista, e l’epistemologia della complessità come proposta da Mauro si sposava coerentemente con la pratica terapeutica con più pazienti, valorizzando la differenza, il confronto, l’incontro e lo scontro fra questi e fra le loro problematiche spesso psicopatologiche. Lo stimolo epistemico-metodolologico complesso mi aiutò, peraltro, ad approfondire le basi cliniche (le neuroscienze stavano per arrivare) della psico-somatica2, integrando la con-presenza di mente-corpo in una triade che comprendesse anche le relazioni: interne/ esterne, soggetto/famiglia/cultura, interpersonali, inconsce3… Questo via via si rivelò, per me, un aiuto decisivo anche per la pratica clinica. La con-presenza, che il metodo complesso consentì di aiutare a pensare, senza riduzionismi, ma anche senza generici olismi, fu una chiave di volta per il mio sforzo di sistematizzazione della psicoterapia, che ancora oggi perseguo in una prospettiva più ampia, allargata e integrata4. E con risultati utili per la chiarezza e l’efficacia del lavoro di cura. Ripensandoci oggi, mi rendo conto che anche la ricerca/intervento sulla psicologia mafiosa, che da alcuni decenni porto avanti con un robusto gruppo di lavoro5, si è molto giovata degli stimoli di Mauro (e non solo per il comune impegno democratico) e della possibilità di usare un metodo complesso che affronti la con-presenza di molteplici fattori. La psiche mafiosa, infatti, non può essere colta senza cogliere la con-presenza di elementi inconsci, fondanti una identità (o disidentità?) in cui l’Io individuale coincide con il “noi”, facendo diventare il mafioso un non soggetto, un replicante. La psiche individuale è totalmente plasmata dall’antropologia del clan mafioso, tramite l’identificazione e il con-cepimento familiare. 2 3 4 5
P. Porcelli, Medicina psicosomatica e psicologia clinica. Modelli teorici, diagnosi, trattamento, Raffaello Cortina, Milano 2022. G. Lo Verso, M. Di Blasi, La gruppoanalisi soggettuale, Raffaello Cortina, Milano 2011. G. Lo Verso (a cura di), La psicoterapia: linee guida esperienziali ed inquadramenti, Alpes, Roma 2022. G. Lo Verso, Quando Giovanni diventò Falcone. Ovvero questo è un uomo, Pan di Lettere, Roma 2021.
G. Lo Verso - Un’epistemologia operativa, per il lavoro clinico313
Compresenza, quindi, di aspetti psichici familiari e antropologici. La compresenza, intrecciata (appunto, complessa) di molteplici fattori e la conseguente lettura interdisciplinare era l’unica reale possibilità per comprendere il fenomeno mafioso, anche da un punto di vista psichico. Ma il mio debito più importante nei confronti degli studi di Mauro è forse quello legato al metodo: al potere pensare contemporaneamente a prospettive diverse, coesistenti ma non omologhe, evitando sia una fusionalità osservativa sia i settarismi ideologici e limitanti così presenti nella storia della psicoanalisi e della psicoterapia. E che ciò sia stato utile a tutta la disciplina lo mostra l’intensa collaborazione che Mauro ha avuto con psicoanalisti, terapeuti familiari, cognitivisti. Vorrei fare un esempio più diretto di come l’epistemologia della complessità di Mauro abbia aiutato la mia ricerca. Sigmund Freud, oltre 100 anni fa, coniò il concetto di setting per indicare tutti i fattori procedurali che delimitavano il lavoro analitico: orari, pagamenti, presenza di un lettino, assenza della reciprocità dello sguardo ecc, partendo dall’esperienza di gruppi terapeutici che implicano la piena presenza psicofisica e relazionale dell’analista come persona. Molti anni fa, iniziai a proporre di approfondire questo concetto con quello di set(ting). Limitando il termine set a quanto indicato da Freud e sottolineando con il (ting) ciò che riguardava il terapeuta come persona, con la sua storia psichica e antropologica, con la sua sessualità e la sua vita, con la sua formazione ed esperienza. Questo approfondimento si sviluppò con lo studio dei cosiddetti parametri di gruppo6 e cioè lo studio della differenziazione metodologico-procedurale di ogni tipo di gruppo (privato, pubblico, terapeutico, monosintomatico o con problematiche differenti, con bambini, in ambito sanitario ecc). Ho lavorato quindi a un metodo che consentisse un’osservazione più esplicita e osservabile delle differenze e quindi delle procedure cliniche. E ciò anche nella ricerca empirica. Infatti, se non si definisce che cosa si sta osservando, con quali strumenti e chi sia l’osservatore, non si può fare alcuna valutazione di effica6
S. Giunta, G. Lo Verso, Fare gruppi, Il Mulino, Bologna 2019.
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cia. Il riferimento teorico diretto di questo lavoro è il bel testo di Mauro Ceruti Il vincolo e la possibilità7. Come si è visto, ho parlato di complessità come pensiero “applicato”, e senza il contributo epistemico-metodologico di Mauro e di Edgar Morin questi avanzamenti della psicologia clinica non sarebbero stati possibili. Concludo con alcune note ancor più personali. Curiosamente, Mauro vive a Bergamo e insegna ora a Milano, ed è venuto a insegnare a Palermo. Io sono un siciliano, la cui patria del cuore è “Sopra e sotto il Mediterraneo”8. Ma mia madre era di origine bergamasca. Ho passato le lunghe estati della mia infanzia sul lago di Endine, dove la mia nonna e le mie zie vivevano. E da tanti anni mi trovo a lavorare spesso a Milano, soprattutto nella formazione alla psicoterapia. Finisco con una nota personale su Mauro, per ricordarne la grande e contagiosa capacità affettiva. C’è un proverbio siciliano che dice, più o meno: “è un pirocchiu chi avi a tussi” (il pidocchio essendo invisibile tossisce per farsi sentire). Mauro, un grande intellettuale, internazionalmente stimato, non ha mai avuto narcisismi infantili, magari furbescamente rivenduti, come tanti. È sempre stato uno studioso sistematico e appassionato del suo lavoro e del suo impegno. L’etica e la compostezza gli hanno permesso anche di affrontare le vicende difficili della vita e le mediocrità del potere, a volte anche accademico. Ecco, pure in questo, credo ci sia fra noi una comunanza, anche se non so quanto io ce l’abbia fatta, essendo queste caratteristiche tipiche dei grandi uomini, come lui.
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M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, Raffaello Cortina, Milano 2009. G. Lo Verso, Sopra e sotto il Mediterraneo, Magenes, Milano 2023.
Isabella Loiodice*1
UN’EDUCAZIONE ALLA FRATERNITÀ UNIVERSALE
La fraternità ha qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza. Che cosa accade senza la fraternità consapevolmente coltivata, senza una volontà politica di fraternità, tradotta in un’educazione alla fraternità, al dialogo, alla scoperta della reciprocità e del mutuo arricchimento come valori? Succede che la libertà si restringe, risultando così piuttosto una condizione di solitudine, di pura autonomia per appartenere a qualcuno o a qualcosa […]. Neppure l’uguaglianza si ottiene definendo in astratto che “tutti gli esseri umani sono uguali”, bensì è il risultato della coltivazione consapevole e pedagogica della fraternità. Papa Francesco
Il sapere pedagogico deve molto al pensiero di Mauro Ceruti e ai suoi studi sulla complessità, a loro volta generativi di ulteriori tematiche, riflessioni, proposte estremamente feconde per chiunque si occupi di educazione. Sulla scia di Edgar Morin, il suo impegno per lo sviluppo di una epistemologia interdisciplinare della complessità è risultato e risulta prezioso per affrontare la natura ipercomplessa e iperconnessa dei problemi, dei saperi, dei contesti, delle relazioni, della realtà nella sua totalità, costituita da una molteplicità di dimensioni irriducibilmente legate tra loro, pena la sua semplificazione e quindi la impossibilità di renderla comprensibile e intellegibile. Come Ceruti scrive, con Francesco Bellusci, “dopo secoli di enclosures e di recinzioni istituzionali e accademiche, inaugureremo un’agorà dei saperi? Lasceremo alle *1 Professore di Pedagogia, Università degli Studi di Foggia.
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nostre spalle il mondo in frammenti, l’oceano di scarti, le discariche di tagli, prodotti dal vecchio metodo e dal paradigma di semplificazione, e arriverà l’alba delle rilegature, del pensiero complesso, a riconfigurare saperi, lavori, creazioni, un nuovo mondo?”1. Occorre dunque una intelligenza della complessità, capace di pensare insieme e di collegare l’uno e il molteplice, il singolare e l’universale, il locale e il globale, l’autonomia e la dipendenza, superando, con lo sguardo della complessità, la disgiunzione a favore dell’interconnessione. Anche la pedagogia ha inteso raccogliere la sfida del pensiero complesso, configurandosi sempre più come quella scienza capace di riconnettere i fili di saperi plurali, utilizzando la molteplicità degli sguardi interpretativi delle altre discipline (filosofia, psicologia, sociologia, antropologia ecc.) per riportarli a unità, così come unitario nella sua complessità è il soggetto-persona che rappresenta il “focus” intorno al quale ruota tutto il sapere pedagogico. Scienze del sapere e dell’agire educativo, scienza ermeneutica e critica, ma anche scienza pratica, la pedagogia mette così in evidenza la sua valenza trasformativa2, plurale e dialogica3: la sua dimensione teleologica, cioè, si proietta nella direzione del cambiamento cui sono indirizzate la teoria e la prassi pedagogiche. Si tratta dunque di una scienza complessa proprio perché complesso è l’oggetto della sua riflessione teorica e della sua ricerca empirica: l’educazione delle persone nella pluralità delle caratteristiche emancipative di uomini e donne – e delle loro caratteristiche etniche e sociali. Per fare questo, lo sguardo della pedagogia deve essere uno sguardo decostruttivo (per smascherare tutti quei meccanismi che opprimono le persone) e poi costruttivo, volto al “presidio” dell’anthropos e alla “coltivazione dell’umanità”4. 1 2 3 4
M. Ceruti, F. Bellusci, Abitare la complessità. La sfida di un destino comune, Mimesis, Milano-Udine 2020, p. 75. I. Loiodice, Pedagogia. Il sapere/agire della formazione per tutti e per tutta la vita, FrancoAngeli, Milano 2019. F. Pinto Minerva, “La pedagogia. Scienza dialogica e in movimento”, in: I. Loiodice (a cura di), Sapere pedagogico. Formare al futuro tra crisi e progetto, Progedit, Bari 2013, pp. 1-12. M.C. Nussbaum, Cultivating Humanity: A Classical Defense of Reform in Liberal Education, Harvard University Press, 1997.
I. Loiodice - Un’educazione alla fraternità universale317
Tutto questo chiama in causa le molteplici sfaccettature della dimensione educativa vista nella prospettiva di un’educazione globale: quindi di un’educazione alla pace; alla solidarietà e alla giustizia sociale; all’educazione ambientale e allo sviluppo sostenibile; all’educazione interculturale e alla cittadinanza globale. In una parola: educazione alla fraternità universale. La fondamentalità del costrutto della fraternità riunisce in sé approccio laico e approccio religioso del termine: non a caso lo ritroviamo sia nei documenti e nei discorsi di Papa Francesco sia nelle analisi di un teorico della complessità come Mauro Ceruti, che ha intitolato uno dei suoi ultimi libri Il secolo della fraternità5, riprendendo l’analisi condotta nel 2020 nell’altro suo libro Sulla stessa barca6 relativamente all’importanza di “cambiare rotta” nella direzione di una “fratellanza senza frontiere”. Pur essendo una condizione costitutiva della persona umana, la fraternità, egli argomenta, è continuamente esposta al rischio dello smacco e del fallimento: essa appare, allo stesso tempo, la “promessa mancata della modernità” ma anche “l’imperativo per un nuovo destino”7: – “promessa mancata” perché, mai come in questo tempo, si assiste a una sistematica violazione del diritto alla vita stessa sia nei confronti degli umani sia nei confronti delle altre specie viventi (gli animali, le piante); – “imperativo per un nuovo destino” perché vi è oggi chiara consapevolezza che la violenza, l’intolleranza, la barbarie nei confronti di tutte le specie viventi possono determinare un processo irreversibile di distruzione dell’intero pianeta. La dimensione stessa della fraternità rinvia a una caratteristica costitutiva dell’essere umano che è quella del con-essere: una relazione che “fonda” l’essenza e l’esistenza stessa delle persone e che si esprime nella forma della cura. Fin dalla sua nascita (e ancor prima) l’essere umano ha bisogno dell’altro: in tal senso, scrive Luigina Mortari8, che la cura intesa come condizione ne5 6 7 8
M. Ceruti, F. Bellusci, Il secolo della fraternità. Una scommessa per la Cosmopolis, Castelvecchi, Roma 2021. M. Ceruti, Sulla stessa barca, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2020. M. Ceruti, F. Bellusci, Il secolo della fraternità cit. L. Mortari, Filosofia della cura, Raffaello Cortina, Milano 2015.
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cessaria all’esistenza racchiude in sé l’essenza stessa dell’esistere: noi “siamo” in quanto esseri che, alternativamente, “danno” e “ricevono” cura. Essa rappresenta, cioè, “la totalità primaria della costituzione d’essere dell’esserci”9 che, partendo da una condizione di “necessità” (non si può vivere senza l’altro) ne fa un tratto costitutivo della personalità. È proprio la consapevolezza di questa condizione imprescindibile di reciproca necessità che induce a investire – attraverso l’educazione – nella relazionalità e, conseguentemente, a coltivare la fraternità come approccio indispensabile per garantire la prosecuzione della specie e, più in generale, la vita stessa del pianeta. Si tratta di credere nella possibilità di una ri-umanizzazione possibile, che sappia “sfruttare” il valore aggiunto della diversità non disgiunta dall’unità: come dire, “la diversità è il tesoro dell’unità umana” così come “l’unità è il tesoro della diversità umana”10. L’unità che non rinnega la diversità è alla base di una concezione della fraternità che riunisce tutti i popoli in una stessa comunità di destino e che “richiede però una volontà: la volontà di concepirla e costruirla. E un appello: l’appello a un principio di intersolidarietà planetaria, che prevalga sulle spinte alla rivalità, alla competizione o all’isolazionismo. In questo scenario prossimo venturo, tra i principi e i valori fondativi della democrazia moderna, Liberté, Égalité, Fraternité, sarà proprio la fratellanza quello che potrà trainare e conferire senso alla portata universalistica degli altri due e che potrà porsi all’altezza della “cosmopolitica” implicata dalla comunità di destino mondiale”11. Il costrutto stesso della fraternità è quindi correlato a quello di complessità ecosistemica, come la scienza stessa ha dimostrato sottolineando che tutto è connesso, tutto è in relazione con il tutto, che il mondo e la vita stessa sono il frutto di interconnessioni, di interazioni. Per questo motivo, non si può non ribadire quanto già evidenziato, e cioè che, per leggere tale realtà complessa, occorre investire in educazione per formare a un pensiero complesso: un 9
M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo (1925), Il Melangolo, Genova 1999, p. 379. 10 E. Morin, M. Ceruti, La nostra Europa. Raffaello Cortina, Milano 2013, pp. 143, 144. 11 M. Ceruti, F. Bellusci, Il secolo della fraternità, cit., p. 44.
I. Loiodice - Un’educazione alla fraternità universale319
pensiero capace di collegare l’uno con il molteplice, il locale con il globale, il singolo con la collettività, la specie umana con le altre specie viventi. Questo pensiero della complessità deve in qualche modo orientare il sapere pedagogico in quanto esso stesso scienza complessa: scienza di nessi e di contaminazioni, si è detto precedentemente, che esaltano il suo carattere euristico e costruttivo idoneo a coniugare paradigmi, linguaggi, metodologie di ricerca plurali e differenziati per ricomporli in una unità mai definitivamente data ma continuamente in divenire. La prospettiva della fraternità rinvia quindi non già all’alleanza di qualcuno contro qualcun altro, bensì promuove la consapevolezza di un destino comune che non annulla le differenze ma che si fonda proprio sulla valorizzazione e sull’incontro di differenze. La pace si può e si deve costruire, scrive Zigmut Bauman, “non a dispetto delle nostre differenze, ma grazie alle nostre differenze. Siamo tutti coinvolti nell’affare di arricchirci l’un l’altro. Insieme, stiamo rendendo le nostre vite più ricche, più interessanti, più meritevoli, più degne”12. Il contributo che Mauro Ceruti ha saputo dare, in particolare con il suo libro Il secolo della fraternità, auspichiamo sia l’espressione di un suo ulteriore e fattivo impegno – epistemologico, educativo e culturale – che non può e non deve mancare alle comunità scientifiche chiamate a operare con una logica complessa e ad attuare quelle “rilegature”, innanzitutto disciplinari, propedeutiche alla costruzione di società fatte di persone impegnate a costruire ponti, a intrecciare pensieri, a salvaguardare la propria specie e l’intera vita del pianeta.
12 Z. Bauman, La luce in fondo al tunnel, a cura di M. Marazziti, L. Riccardi, con un saggio conclusivo di Andrea Riccardi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2018, p. 90.
Michele Marchetto*
LA COMPLESSITÀ, UN’IDEA DI FILOSOFIA, PAPA FRANCESCO E LA DOMANDA ULTIMA
L’intelligenza dell’uomo […] raccoglie una successione di note nell’espressione di un tutto, e lo chiama melodia […]. In breve, fa filosofia. John Henry Newman
Il mio incontro con Mauro Ceruti è compreso fra un’idea di filosofia almeno in parte debitrice del pensiero complesso e la riflessione sui temi delle encicliche di Papa Francesco Laudato si’ (2015) e Fratelli tutti (2020), condivisa nell’ambito del progetto “Ecologia integrale e nuovi stili di vita” promosso dallo Iusve (Istituto Universitario Salesiano di Venezia)1. Il filo che lega questi estremi si trova alla fine del saggio introduttivo scritto da Ceruti per La sfida della complessità: Una mappa del sapere non è data dall’alto, non è data in anticipo: non si può sorvolare neppure per un momento, a volo di uccello, il territorio delle conoscenze nella sua totalità. Siamo inevitabilmente e costitutivamente all’interno del territorio, e dall’interno apriamo e percorriamo * 1
Professore di Filosofia della persona e di Etica, IUSVE (Istituto Universitario Salesiano di Venezia). In quel contesto Ceruti è intervenuto nella preparazione dei colleghi in vista del convegno “Land’s End: per la cura della casa comune” (Iusve, 21-22 aprile 2021) e con la relazione Dalla “Laudato si’” alla “Fratelli tutti”: M. Ceruti, La sfida di un destino comune nel tempo della complessità, in “IUSVEducation”, 17 (2021), pp. 38-47 (https://www.iusveducation.it/la-sfida-di-un-destino-comune-nel-tempo-della-complessita/), sviluppato in M. Ceruti-F. Bellusci, Il secolo della fraternità. Una scommessa per la Cosmopolis, intr. di M. Marchetto, Castelvecchi, Roma 2021.
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La danza della complessità
sentieri, raggiungiamo regioni diverse e progressivamente ci figuriamo, disfiamo e nuovamente disegniamo le nostre mappe. Come il vecchio capo Sioux Alce Nero, vediamo il mondo dall’alto della nostra collina solitaria, sapendo che questo non è l’unico punto di osservazione possibile, e che non esistono particolari ragioni per accordargli qualche privilegio, se non il fatto che ci siamo noi. Ma la sfida della complessità ci spinge anche a condividere la sottile saggezza epistemologica di Alce Nero. Alce Nero sa che “qualunque luogo può essere il centro del mondo”, ma cerca sempre il centro, e solo questa ricerca gli permette di narrare, al di là di ogni isolamento individuale, la storia di tutta la vita, non solo degli uomini ma anche degli animali e di “tutte le cose verdi”.2
Che cosa mi hanno insegnato queste righe? Innanzitutto, l’idea di una filosofia aperta, che si sottrae a un compimento definitivo. Il carattere di scienza della totalità ereditato dalla tradizione classica non coincide con un sapere precostituito che sorvoli la “totalità” delle conoscenze nella forma dell’onniscienza di matrice cartesiana né incarna “l’immagine monista della ragione”3; ma è apertura alla pluralità delle discipline e dei linguaggi, attraverso ponti, traboccamenti, connessioni. È la complessità che soprattutto Nietzsche, il “radicale decostruttore”4, aveva intuito ma non articolato nella critica del moderno sistema del sapere. Ceruti ne coglie con lucidità i due presupposti fondamentali: la svolta epistemologica dal realismo al costruttivismo, per cui “la conoscenza non è il mero rispecchiamento di una presunta realtà in sé […], 2
3
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M. Ceruti, La hybris dell’onniscienza e la sfida della complessità, in G. Bocchi, M. Ceruti, a cura di, La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1985, p. 43. Le citazioni interne al testo di Ceruti sono tratte da: C. Magris, Itaca e oltre, Garzanti, Milano 1982, p. 9. Le parole di Alce Nero sono riportate per intero in esergo a G. Bocchi, M. Ceruti, Origini di storie, Feltrinelli, Milano 1993. Si veda S. Veca, Modi della ragione, in A.G. Gargani, a cura di, Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane, Einaudi, Torino 1979, p. 284, e E. Morin, Il metodo. 3. La conoscenza della conoscenza, trad. it. di A. Serra, Raffaello Cortina, Milano 2007, pp. 28-29. M. Ceruti, F. Bellusci, Abitare la complessità. La sfida di un destino comune, Mimesis, Milano-Udine 2020, p. 33; si veda M. Ceruti, La fine dell’onniscienza, Studium, Roma 2015.
M. Marchetto - La complessità, un’idea di filosofia323
ma dipende dal modo in cui abbiamo esperienza della nostra interazione con la realtà”; e il prospettivismo, inteso come “articolazione di molteplici prospettive attraverso le quali vedere il mondo […] aprire nuove possibilità di azione”5. L’attuale policrisi appare a Ceruti come occasione privilegiata per dare sviluppo a questi presupposti, recependo la definizione che di “crisi” dà Edgar Morin: “l’aumento del disordine e dell’incertezza all’interno di un sistema […]. Questo disordine è provocato da o provoca il blocco dei dispositivi di organizzazione […], determinandovi da una parte delle rigidità, dall’altra lo sblocco di virtualità fino ad allora inibite”6. Nella tensione fra l’organizzazione e la disorganizzazione, l’ordine e il disordine, cadono i recinti fra le discipline e si apre la strada della interdisciplinarità, di cui il metodo della complessità si presenta come fondamento: fondamento di un “sapere senza fondamenti”, eredità della crisi tardo-moderna7. Il che implica scoprire non la totalità delle conoscenze, mappata dall’alto, ma le connessioni che costituiscono la totalità del reale, e aprire possibilità impensate eppure strutturali alla realtà, che è “tutta la vita” e il cui intreccio la filosofia, con la letteratura, le arti e le scienze, si incarica di descrivere piuttosto che di spiegare. Questa rete è simile alle “somiglianze di famiglia [Familienähnlichkeit; family resemblances]” che Wittgenstein individua fra i diversi giochi del linguaggio: Se li osservi, non vedrai certamente qualche cosa che sia comune a tutti, ma vedrai somiglianze, parentele. […] le varie somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e s’incrocia-
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Ivi, pp. 39 e 42-43. Sul costruttivismo, si veda M. Ceruti, La danza che crea. Evoluzione e cognizione nell’epistemologia genetica, Feltrinelli, Milano 1989, e L. Floridi, Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale, Raffaello Cortina, Milano 2020, pp. 97-122. E. Morin, Per una teoria della crisi, trad. it. di M. Cerami, Armando, Roma 2017, p. 38. Si veda E. Morin, Il metodo, cit., pp. 258-265; A.G. Gargani, Il sapere senza fondamenti. La condotta intellettuale come strutturazione dell’esperienza comune, Einaudi, Torino 1975, pp. 34-40, 108-110, e Id., Lo stupore e il caso, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 45-68; per lo scenario della inter- e trans-disciplinarità, si veda R. Frodeman, J. Thompson Klein, R.C.S. Pacheco (a cura di), The Oxford Handbook of Interdisciplinarity, OUP, Oxford 20172.
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no nello stesso modo: corporatura, tratti del volto, colore degli occhi, modo di camminare, temperamento, ecc., ecc.8
Sulla scorta della nozione wittgensteiniana è possibile interpretare persino il “superordine” che si manifesta nella dialettica della Fenomenologia dello spirito: la comunanza di stile delle triadi dialettiche si spezzetta, all’esame, in una serie di distinte rassomiglianze che non sono presenti tutte in tutti i casi. […] a qualunque punto dello sviluppo sembrerebbe naturale e adeguato continuare solo in certe direzioni. Non c’è però una unica direzione che si presenti come la sola obbligatoria, quanto piuttosto esiste un certo numero di direzioni ammissibili.9
Ciò che lega un interprete originalissimo come Findlay alla visione complessa del reale non è tanto l’interpretazione della dialettica hegeliana, quanto il modo in cui egli stesso declina la dialettica rispetto al problema del senso di questo-mondo: procedendo da un settore all’altro del reale ed esplorando connessioni non meramente empiriche, ma “essenziali”, che, come tali, conducono a un livello ontologico superiore, in cui il possibile si rivela necessario. Per Findlay, la dimensione dell’intrinsecamente probabile è “interstiziale” sia rispetto all’a priori della necessità sia rispetto all’a posteriori 8
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L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 19802, §§ 66-67; si veda S. Veca, Modi della ragione, cit., pp. 281-282; si veda E. La Licata, Giocare sull’orlo del caos. La creatività del linguaggio tra l’epistemologia della complessità e la filosofia di Wittgenstein, Mimesis, Milano-Udine 2013. Circa un secolo prima di Wittgenstein, John Henry Newman (che Wittgenstein cita in Della certezza, § 1, trad. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 19782, p. 3) caratterizzava la disposizione filosofica della mente come la “connected view” delle cose, alla quale contribuiscono intelletto, credenze, opinioni, immaginazione, oltre a operazioni implicite e inconsce. Essa si esprime nel vedere “molte cose nello stesso tempo come un tutto”, che non è ad esse imposto dall’esterno, ma il risultato della loro connessione, nella quale dimora il loro senso e che è colta dall’inferenza non formale del senso illativo (J.H. Newman, L’Idea di Università, in Scritti sull’Università, a cura di M. Marchetto, Bompiani, Milano 2008, p. 283). J.N. Findlay, Hegel oggi, a cura di L. Calabi, Ili, Milano 1972, pp. 68-69, citato in S. Veca, Modi della ragione, cit., p. 297.
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dell’esperienza, i quali non si escludono ma si richiamano a vicenda10. È il pensiero complesso che “invita a distinguere logiche differenti e ad articolarle le une con le altre in riferimento a una logica superiore, a un metalivello, che integra le loro specificità, i loro antagonismi, senza ridurle e senza separarle dalla problematica globale cui appartengono”. Lo sguardo sulla realtà è un continuo congetturare, non solo perché essa si dà insieme a infinite possibilità alternative a ciò che è, ma anche per il fatto che la chiarità del mondo lascia sempre uno spazio indefinito e inesauribile per l’immaginazione creativa dei dettagli: “Il metodo della complessità apre al possibile, all’imprevisto, alla legge intesa come espressione di un vincolo che limita i possibili, ma che è anche condizione di possibilità”11. In ciò, la filosofia della complessità trova uno straordinario alleato nel grande romanzo, “rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo”, “enciclopedia aperta”, un ossimoro che proclama l’impossibilità di pensare “una totalità che non sia potenziale, congetturale, plurima”12. Per Musil il senso della possibilità è la capacità di pensare tutto ciò che potrebbe essere allo stesso modo di ciò che è, di dare importanza tanto a ciò che esiste quanto a ciò che non esiste, ma che potrebbe esserci. Ne deriva l’idea di una realtà non determinata, ma determinabile. Per chi possiede il senso del possibile la realtà è un compito da realizzare, alimentato da un “consapevole utopismo”13. L’infinita moltitudine delle possibilità determinabili si può cogliere con una visione d’insieme sempre aperta, mai chiusa da un solo orizzonte. Solo lo sguardo aperto, che contempla l’esistente dall’alto e che Musil attribuisce al poeta, scopre “soluzioni, rap10 Si veda J.N. Findlay, La disciplina della caverna, in Il mito della caverna, a cura di M. Marchetto, Bompiani, Milano 2003, pp. 335-349. 11 M. Ceruti, F. Bellusci, Abitare la complessità, cit., pp. 67-68; si veda E. Morin, Scienza con coscienza, a cura di P. Quattrocchi, Franco Angeli, Milano 1984, Parte III. 12 I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano 1993, pp. 116 e 127. “Tutti i capolavori della letteratura sono stati capolavori di complessità” (E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, trad. it. di S. Lazzari, Raffaello Cortina, Milano 2000, pp. 93-95). 13 R. Musil, L’uomo senza qualità, vol. 1, trad. it. di A. Rho, Einaudi, Torino 1972, p. 12.
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porti, connessioni, variabili sempre nuove”14. È ciò che suggerisce Wittgenstein quando guarda dall’alto (Übersichtlichkeit; overview) all’uso delle parole: “La rappresentazione perspicua [übersichtlichen Darstellung] rende possibile la comprensione, che consiste appunto nel fatto che noi ‘vediamo connessioni’. Di qui l’importanza del trovare e dell’inventare membri intermedi”. La Übersichtlichkeit, declinata al plurale perché molti sono i punti di osservazione all’interno del territorio osservato, getta luce su una molteplicità di fenomeni senza scoprire alcunché di nuovo, ma evidenziando i nessi esistenti.15
L’apertura connaturata all’idea della filosofia complessa mette fuori gioco l’esercizio della razionalità strumentale che alimenta il paradigma del sapere dominante in età moderna e che, osserva Ceruti, frammenta il reale […], un pensiero mutilante che conduce ad azioni altrettanto mutilanti, […] una visione esclusivamente quantitativa, che non sa più problematizzare e che trascura il problema del senso.16
È nell’ambito di questa critica al paradigma tecnocratico e delle alternative prospettate dal metodo della complessità che Ceruti trova una profonda sintonia con le encicliche di Papa Francesco Laudato si’ e Fratelli tutti, e con la loro promozione di un umanesimo planetario,
14 R. Musil, Schizzo della conoscenza del poeta, in Sulla stupidità e altri scritti, trad. it. di A Casalegno, Mondadori, Milano 1986, p. 74. 15 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 122, e Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, trad. it. di S. de Waal, Adelphi, Milano 19863, p. 29; si veda A.G. Gargani, Wittgenstein. Dalla verità al senso della verità, Plus, Pisa 2003, pp. 118-126; G.P. Baker, P.M.S. Hacker, Essays on the Philosophical Investigations, vol. 1: Wittgenstein. Meaning and Understanding, Basil Blackwell, Oxford 1980, pp. 295-309. Sul ruolo dell’osservatore, si veda M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, Raffaello Cortina, Milano 2009, pp. 94-126. 16 M. Ceruti, Sulla stessa barca. La “Laudato si’” e l’umanesimo planetario, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (Bi) 2020, pp. 50-51. Sul contrasto fra il paradigma della semplificazione e quello della complessità, si veda M. Ceruti, F. Bellusci, Abitare la complessità, cit., pp. 64-76.
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coerente con un pensiero complesso che rifugge la semplificazione e il riduzionismo. […] Umanesimo cristiano e umanesimo laico possono convergere in modo inedito nell’universalismo concreto di un umanesimo planetario, che scaturisce dalla rete di interdipendenze accresciute con la globalizzazione della condizione umana e sta legando le vite dei popoli e dei singoli in un destino comune.17
È la “comunità di destino” il paradigma che Ceruti prefigura come nuova condizione umana, “una quarta umanità”18, che è “la storia di tutta la vita, non solo degli uomini ma anche degli animali e di ‘tutte le cose verdi’”: L’umanità della nostra età globale […] attraverso la moltiplicazione delle connessioni che dal singolo individuo portano a un’unica totalità planetaria attraverso molteplici collettività di natura e portata disparate. […] La rete dei saperi e delle esperienze che sta emergendo può consentire all’umanità di apprendere a essere veramente globale, a legarsi con nuove relazioni sostenibili con l’insieme degli ecosistemi, a saper valorizzare il potenziale creativo delle diversità culturali”19. Il nuovo destino dell’umanità presenta “tre aspetti fondamentali: l’incertezza, la vulnerabilità, l’ineludibile materialità o terrestrità”, che implicano tutti “la fraternità come un’esigenza e, allo stesso tempo, come un imperativo antropologico, etico e biologico.20
Nel contesto dello Iusve, in cui Ceruti ha presentato gli esiti più recenti della propria ricerca, al metodo della complessità si pone anche il problema di pensare l’esperienza religiosa. Nel percorrere le infinite connessioni del reale, non si può non incrociare anche quelle che trascendono i limiti di questo-mondo, nella misura in 17 Ivi, pp. 17-18. 18 Ivi, p. 24; si veda M. Ceruti, Il tempo della complessità, Raffaello Cortina, Milano 2018, pp. 162-190, oltre a pp. 29-85 sull’Europa. 19 Ivi, p. 87. 20 M. Ceruti, F. Bellusci, Il secolo della fraternità, cit., p. 34; si veda anche M. Ceruti, La rotta della fraternità, nel tempo della complessità, in AA.VV., Fratelli tutti. Sulla fraternità e l’amicizia sociale, Scholé, Brescia 2020, pp. 231-239, e Id., Educazione planetaria e complessità umana, in M. Callari Galli, F. Cambi, M. Ceruti, Formare alla complessità. Prospettive dell’educazione nelle società globali, Carocci, Roma 2003, pp. 13-26.
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cui, affrontando la questione del senso, si incontra il limite assoluto, colto di contro al suo annullamento. Il nulla, infatti, è il rovescio del limite a quel mondo dell’esistenza che Guardini definisce come “il complesso degli enti” che sussiste nella tensione fra la dispersione della realtà obiettiva e l’unità che essa trova in me. Da questo punto di vista il limite non è un fenomeno meramente naturale: lo fa emergere il nulla, la cui sede si ricava rispetto al sopra e al dentro del mondo dell’esistenza. Se guardiamo al sopra, anzi “al di sopra del sopra”, incrociamo la potenza che ha creato il mondo; se guardiamo al dentro, anzi “all’interno del dentro”, incrociamo “la potenza che tutto sostiene”. In quanto Creatore, Dio pone “il limite o confine reale tra sé e il creato”; ma “‘tra’ Dio e il mondo, sopra così come entro, vi è il nulla. Il mondo è cinto, sovrastato e trapassato al centro dal nulla”21. Rispetto ai poli del sopra e del dentro, il mondo dell’esistenza ha una trascendenza dalla quale non può prescindere e che è rivelata dal limite. Come a dire che la domanda di senso ci interpella in relazione al limite assoluto e al nulla che circoscrive e attraversa il mondo dell’esistenza: dove e in che modo può guidarci il metodo della complessità in questo territorio di confine?
21 R. Guardini, Mondo e persona. Saggio di antropologia cristiana, a cura di S. Zucal, Morcelliana, Brescia 20073, pp. 90-91 e 100-103.
Walter Mariotti*1
COMPLESSITÀ E CURA DI SÉ
Pantōn chrēmatōn metron estin anthrōpos. Protagora
“Caro Professor Ceruti, mi scuso dell’intrusione e spero che questa mia la trovi bene. Mi chiamo Walter Mariotti, non ci conosciamo, ma nel tempo lei è diventato un riferimento, esistenziale prima che teorico e culturale. Penso che la sua ricerca mi abbia fatto capire molte cose, ma soprattutto mi ha dato la misura di cosa ho fatto e cosa non ho fatto, di chi sono e chi non sono. Per questo, alla soglia dei 50 anni, ho capito di aver rimandato da troppo tempo queste righe e il desiderio di incontrarla. La ringrazio per una sua risposta, qualunque essa sia”. Così scrissi a Mauro Ceruti qualche anno fa, in un momento in cui, giocando con le sue categorie, potrei definire complesso. Durava da tempo e investiva molti piani, creando una strana sensazione che andava oltre il disagio, nonostante da fuori tutto facesse apparire il contrario. Per fare fronte, ero ricorso all’esperienza, a quegli strumenti che negli anni avevo affinato in alcuni casi anche particolarmente bene. Ma si trattava di strumenti diversivi, che avevano trasformato l’irrequietezza in un’inquietudine che continuava a interrogarmi con crescente insistenza. In realtà, mi ero guardato bene dall’andare all’essenza del turbamento. A prenderne atto e rispondergli con scelte coerenti. Mi ero dato molti alibi, ma quasi tutti non reggevano e io lo sapevo. *1 Direttore editoriale di Domus.
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La verità era che mi sentivo completamente solo davanti a un passaggio che mi faceva paura. Quella mail al professor Mauro Ceruti era quindi una richiesta di aiuto, da parte di un uomo che alla fine del settimo settenario, per dirla con Rudolph Steiner, temeva di entrare nell’ottavo ed essere ancora una volta vittima dell’eterno ritorno. Di un identico in cui non si riconosceva più e che ogni giorno gli piaceva sempre meno. Il professor Mauro Ceruti fece molto più di quanto mi sarei aspettato. Non solo mi rispose con una gentilezza che sconfinava nell’affetto, invitandomi ad andarlo a trovare subito. Ma quando mi presentai mi ascoltò, mi guardò e mi sorrise. “Torna a casa”, disse poi con calma. “Torna alle tue origini. Prova a fare un dottorato, anche se ne hai fatti in realtà più di uno nella tua vita. Io potrei seguirti. E sarebbe più di un modo per lavorare insieme. Sarebbe un modo per stare insieme”. Queste parole crearono un effetto strano, perché erano più di quanto avrei pensato di sentire. Anche perché quando iniziò a parlare, era chiaro che non sapeva nulla di me. Eppure, era come se mi conoscesse da sempre. Una conoscenza non intellettuale, di visione o di passione. E nemmeno del mio lavoro, che giustamente ignorava. Mauro, come volle che lo chiamassi subito, non sapeva niente ma sapeva tutto, perché fra di noi si era stabilita immediatamente una connessione, una sintonia e un legame che nel tempo avrebbe dimostrato tutta la sua profondità. La cosa che continua a sorprendermi è che quel legame sembrava esserci da sempre, tra due uomini diversi e lontani per storie, scelte, traiettorie. Invece era come se quell’incontro avesse sollevato tutte le sovrastrutture, le sedimentazioni, la ruggine. Facendo emergere una vicinanza che brillava di una luce inaspettata. Da parte mia invece sapevo bene chi fosse Mauro, avevo letto davvero quasi tutto di lui e mi avevano colpito molte cose che avrei voluto chiedergli. L’incredibile varietà della sua ricerca arriva al cuore e al volto del nostro tempo, delle contraddizioni e più spesso della devastazione culturale della nostra epoca. Leggendo i libri di Mauro è evidente come ognuno di noi si trovi dinanzi a un baratro, un abisso di cose, forze, dimensioni che arricchiscono eppure ci
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spaventano. I suoi libri sono una vera vertigine, dove in ogni dettaglio si apre l’universo, e dietro alla semplicità apparente del mondo si rivela l’oscuro del suo potere infinito. A me, i libri di Mauro avevano fatto comprendere che l’infinito è il nostro attimo, e che anche davanti a quei momenti in cui sembriamo naufragare, non bisogna temere. Non per fede, se uno non ce l’ha, ma per l’arricchimento per la nostra persona. Le idee di Mauro si collegavano a tante altre idee che nella mia vita avevo letto, in cui mi ero riconosciuto e che mi avevano trasformato. Forse però idee non è la parola giusta. Forse dovrei dire sentimenti, perché di questo si tratta. La complessità cosmica è una vera emozione e fa scaturire un senso profondamente umano, di quella che Ceruti chiama “comunità di destino”, che lega tutti gli individui di tutti i popoli della Terra. Di certo, che legava me a lui in quel momento che pareva essere reale da molto tempo. Mauro però era più interessato a sapere di me, cosa avessi fatto, cosa provavo, chi ero. Era il suo modo per capire i motivi che mi avevano spinto a scrivergli, che andavano al di là dell’interesse per la sua ricerca filosofica. Motivi semplici, in fondo. La mia vita adulta, iniziata con la filosofia, aveva preso a un tratto strade diverse in cui la filosofia era rimasta una nostalgia appassionata, dove il sostantivo pesava più dell’aggettivo. Anche qui le ragioni erano molte e si erano sedimentate negli anni, che ad alcune di esse non avevano tolto validità o comunque obiettività. Ma davanti a Mauro mi era evidente che la verità era molto più semplice. E riguardava le mie fragilità, che avevo mascherato dietro il mio carattere e la mia volontà. Anche su questo Mauro aveva avuto molto da dirmi. Nell’ultima fase del suo percorso, a partire dalla metà degli anni Novanta, Ceruti aveva affrontato i modelli di cambiamento dell’evoluzione umana, come sempre nel suo modo brillante e originale. Li aveva messi in relazione alla teoria degli equilibri punteggiati, alla visione discontinuista della storia naturale, alle dinamiche ecologiche e ambientali. Era emersa così una fondamentale importanza delle analisi genetiche per la ricostruzione dell’evoluzione e della storia umane, in linea con la prospettiva epistemologica costruttivistica
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che confermava i presupposti costruttivisti e antiessenzialisti propri della tradizione evoluzionistica darwiniana. Un’ipotesi che per Ceruti resta la vera rivoluzione nella tradizione scientifica occidentale, che richiede di considerare centrali gli intrecci disciplinari. Senza comparare storia, geografia, antropologia, scienze evolutive e naturali non solo non si comprende il carattere, ovvero il ruolo della diversità culturale nella storia della specie umana, ma nemmeno si arriva all’origine della globalizzazione che viviamo ogni giorno. All’improvviso, in uno dei nostri colloqui che erano divenuti un appuntamento fisso, Mauro mi fece un’altra proposta. “Mentre pensi se fare un dottorato, lavoriamo insieme a un libro, costruito come un dialogo platonico. Un libro che racconti la complessità in maniera semplice ma non semplicistica, come insegna appunto Platone ma soprattutto la stessa teoria della complessità”. In effetti, complessità è l’idea cruciale del nostro tempo, che a partire dal secolo scorso ha trasformato radicalmente la nostra visione dell’universo e della vita. Lo sapeva bene Italo Calvino, che nei suoi Six memos for the next millennium, che avrebbe dovuto tenere nell’autunno del 1985 a Harvard, ne dedicò uno alla “molteplicità”. Per Calvino, molteplicità era il romanzo che “doveva sempre rappresentare il mondo come un garbuglio, senza attenuarne affatto l’inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinarlo”. Ecco, per Calvino come per Ceruti, complesso significa che tante cose sono intrecciate insieme e formano una unità. Oggi questa condizione è paradossalmente più evidente di quando Calvino scrisse quel libro, poco prima di morire all’ospedale di Siena, la mia città, dove cercai di entrare ma non mi fu permesso. Oggi tutto è causa ed effetto, come dimostrano la pandemia, l’emergenza climatica e le guerre asimmetriche e inaspettate, di cui l’ultima è quella nel cuore dell’Europa, in Ucraina. Fenomeni estremi, simulacri baudrillardiani che rivelano la complessità del nostro tempo, della condizione umana globale. Mauro mi fece capire che quello che sentivo non lo sentivo solo io. Oggi la vita di tutti è fatta di tante crisi intrecciate, che influiscono le une sulle altre e che non possono essere separate. Nel mondo globale, oggi, tutto è connesso: la nostra salute e la politica internazionale, i nostri affetti e l’instabilità climatica, le scelte che non
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prendiamo e la fisica delle alte energie. Oggi si parla di economia circolare, ma in realtà tutto è circolare, tutto è complesso perché è crollato il paradigma di causalità che collegava cause ed effetti, trasformando la causa in effetto e l’effetto in causa, ma non secondo criteri prevedibili e oggettivi. Oggi tutto è interdipendente e provare a semplificarlo non è solo impossibile ma controproducente. Mauro usò l’esempio di un quadro di Escher – ancora una volta una delle mie passioni – in cui una mano disegna una mano che a sua volta disegna la mano che l’ha disegnata. Noi siamo quel quadro, nel senso che quello non è un quadro ma la nostra realtà. Ed era la mia realtà. Ogni volta che ci incontravamo, che parlavamo, che ridevamo, Mauro mi aiutava a fare chiarezza. Era però una chiarezza diversa da quella che avevo immaginato. Mauro mi spiegava che noi siamo inconsapevolmente eredi di una tradizione umana e culturale che ci ha abituato a vedere la complessità come una nebbia da dissipare, separando il loglio dal grano, l’accidentale dall’essenziale. Siamo cresciuti pensando di dover ridurre tutto alla semplicità, all’essenza, alle parti elementari. Da questo, la nostra volontà, e ossessione, di specializzare le conoscenze, di rimetterle in ordine. Ma era un lavoro impossibile, oltre che immane, perché era impossibile la promessa che alla fine tutto poteva essere chiaro, dunque prevedibile e controllabile. Peccato, sorrideva Mauro, che questo modo di vedere la realtà e la conoscenza di se stessi, oltre che del mondo, fosse già entrato in crisi nel secolo scorso, sotto l’effetto degli stessi progressi della scienza. Innanzitutto, nella fisica e poi nell’emergere di discipline che hanno cominciato a studiare i sistemi complessi, come l’astrofisica, la climatologia, l’ecologia, che intrecciano fenomeni e problemi tradizionalmente separati gli uni dagli altri. Dovevo quindi accettare quelle emozioni, senza cercare di semplificarle né di esorcizzarle, perché erano la risposta alle loro stesse domande. Il rigetto della complessità è il primo passo nevrotico per cadere nella trappola del semplicismo, del complottismo, del populismo a livello collettivo. Ma anche della tristezza e dell’angoscia, del non riconoscere quello che sentiamo e che siamo a livello personale.
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Alla base di tutto c’è sempre la paura, proprio come quella che avevo io, che se non accolta rischia di diventare qualcosa di peggio. A livello politico gli ultimi casi sono l’improvvisa e irrazionale separazione della Gran Bretagna dall’Unione europea, l’assalto al Campidoglio a Washington e la decisione del 24 febbraio scorso del Cremlino di invadere l’Ucraina, con l’idea di vendicare l’umiliazione del crollo dell’Unione Sovietica e di offrire alla popolazione russa la spiegazione “semplice” di tutti i problemi. A livello personale, invece, potrei raccontare tante cose, ma non sarebbe il caso. Nei nostri dialoghi, Mauro spiegò anche la differenza tra complesso e complicato, che nel discorso comune e anche in quello giornalistico, che avevo frequentato, spesso si confondono. In realtà sono concetti diversissimi e per molti versi opposti, che confondiamo perché siamo abituati a pensare che sia accaduto ciò che era inevitabile che accadesse. Questa idea vale di sicuro per i meccanismi complicati, come il computer che governa un aereo supersonico che è, in linea di principio, riconducibile alla somma delle sue singole parti, che possono essere considerate separatamente. Ma un sistema complesso non è la somma delle sue singole parti. È qualcosa di più ma anche qualcosa di diverso e originale che evolve continuamente attraverso le reciproche interazioni fra le sue parti. Un sistema complesso non è il microchip di un computer, ma la cellula di un essere vivente, una città globalizzata o anche un asilo infantile. Per questo io ero andato a trovare Mauro, ma sarei anche potuto non andare. E non c’era un motivo migliore o peggiore in questo. In un mondo complesso, ciò che accade avrebbe potuto andare benissimo diversamente. Ecco, Mauro mi spiegò che era possibile ricostruire perché gli avevo scritto, ma sarebbe potuto anche accadere che non gli avessi scritto o che lui non avesse ricevuto la mail o non avesse la concentrazione necessaria per rispondere, anche se quest’ultimo elemento lo escludo. Il nostro mondo, la nostra vita, la realtà è sotto il segno dell’incertezza e questo significa che non è né controllabile né prevedibile. È un mondo in cui, come dice sempre Mauro, i cigni neri sono all’ordine del giorno. Un mondo in cui davvero un batter di ali di una farfalla in Indonesia modifica i mercati del Brasile e la sanità in America. E anche gli attimi delle nostre vite.
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La mia crisi, quella che mi aveva spinto da Mauro, s’inseriva così in questo scenario. Lo modificava e ne venne modificata. Perché io avevo fatto la cosa più intelligente e migliore possibile, anche se non ne ero consapevole per niente. Avevo accolto la complessità, l’avevo riconosciuta e sebbene fosse disturbante mi ero schierato con essa. In una parola, avevo scelto di pensare e di agire, anche se non ero (per nulla) sicuro di farlo nel modo e nella direzione giusti. La verità è che un mondo complesso non riduce ma dilata l’orizzonte della nostra responsabilità, imponendo la necessità di prendere decisioni. Anzi, la responsabilità di decidere che si amplia oggi al di là delle scelte personali del nostro quotidiano e riguarda campi una volta impensabili: biodiversità, ecosistemi, geopolitica. Mauro mi fece comprendere che non è l’umanità in senso astratto che sta trasformando la storia della Terra, ma sono le persone reali, la società e le culture concrete e diverse che lo stanno facendo in modi difficilmente immaginabili. Per questo non esiste “un” destino per l’antropocene, ma “tanti” destini per “tanti” tipi di antropocene. E anche per ognuno di noi. Alcuni destini sono migliori, altri peggiori. Alcuni prevedono il nostro annullamento, altri la nostra salvezza. Questo è il lato tragico del nostro tempo, dove la vita è un viaggio in mare aperto a cui siamo tutti chiamati ma di cui non conosciamo la destinazione. Dopo molti mesi, arrivammo alla fine del libro e dei nostri incontri costanti. Dovevamo concludere sulla capacità di decidere, che parrebbe resa incerta dalla complessità. In realtà è il contrario. Occorre assumersi la responsabilità che ogni decisione espone al rischio dell’incertezza perché in ogni decisione siamo noi che decidiamo quali valori e prospettive vogliamo mettere in gioco. Ogni decisione è una scommessa, perché parte da previsioni incerte e comporta dei rischi. Ma decidere e affrontare il viaggio nel mare aperto dell’incertezza è l’unica possibilità per non cedere alla paura e alle pulsioni di chiusura, di separazione, di dominio. Abitare il nostro tempo incerto significa navigare la complessità, sfidarsi ogni giorno a pensare e agire non per dividere ma per unire, non per smontare ma per tessere, non per separare ma per federare. Cercando di ridurre la malattia del Novecento, ovvero l’esaltazione dell’ego. Di fronte a questo orizzonte mobile, il vero nemico non è quindi la mancanza di conoscenza, come era fino a pochi decen-
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ni fa, ma il modo in cui la conoscenza è pensata, prodotta e organizzata. Oggi prevale ancora una idea di conoscenza specialistica, parcellizzata, accumulata, algoritmica. Siamo ancora in un mondo di specialisti che sapendo sempre più cose su sempre meno argomenti rischiano di sapere tutto su niente. L’iperspecializzazione è quindi la lente che impedisce di vedere la complessità, perché la dissolve proponendo soluzioni che sono in realtà parte e causa del problema. Mentre una visione complessa ci sfida a riconoscere e accogliere l’incertezza, modificando le linee d’azione in funzione di cambiamenti imprevisti, svolte radicali, rovesciamenti di scenario repentini e inaspettati. Tutto questo non per ripristinare una irreale normalità precedente, ma per allenare la capacità di reagire alle perturbazioni improvvise in un assetto piscologico e razionale olistico. L’unico capace di superare l’ansia e la paura e spingerci ancora nell’alto mare aperto che è la nostra vita. Alla fine del nostro libro, Il tempo della complessità, il dottorato mi apparve nella sua luce reale: un’impresa impossibile e proprio per questo indispensabile. E urgente. Tutti gli argomenti che fino ad allora mi ero raccontato per confermarne l’inopportunità – una separazione, un figlio di cui mi occupavo a tempo quasi pieno, un lavoro molto impegnativo – apparivano come alibi che avevano fatto il loro tempo. Mauro aveva cambiato la mia immagine, nel senso dell’immagine che avevo di me. Ero arrivato da lui pensando di essere un traditore della mia gioventù, un waldganger jungeriano di seconda linea, un simbolo postumo della divaricazione fra estetica e vita. Invece, ero semplicemente una persona, un uomo del mio tempo, vittima e artefice della nuova condizione umana che chiede di scommettere ogni giorno su coscienza e conoscenza, solidarietà e fraternità. Erano le promesse che il XIX e il XX secolo mancarono, perché quei secoli preferirono concentrarsi sulla libertà e sull’uguaglianza anche se ottenute a costi umani altissimi, troppo spesso di innocenti. Oggi però è sempre più evidente che nessuno si può salvare da solo. E io ringrazio Mauro per avermi fatto capire. Lo ringrazio per essere stato il primo di una serie, iniziata prima di lui, che continua anche grazie a lui. Soprattutto a lui.
Alfonso Montuori*1
UN’EPISTEMOLOGIA DELLA CREATIVITÀ
Alla base del processo creativo c’è l’abilità di frantumare nella mente la norma della legge e della regolarità. Frank Barron
Tra i contributi più importanti dell’opera di Mauro Ceruti c’è la delineazione di una innovativa epistemologia della creatività, basata sull’integrazione dell’uomo e dei suoi processi di conoscenza nel mondo naturale; un cosmo inteso non più come macchina, secondo i canoni della tradizione scientifica moderna, ma come universo creatore. Una delle espressioni più sintetiche ed efficaci dell’approccio di Ceruti alla creatività si può trovare in un articolo in cui egli sviluppa due temi dell’epistemologia cibernetica di Heinz von Foerster: Il primo tema è di natura cognitiva: è il tema “del non sapere di non sapere”, la scoperta di una dualità e di una complementarità nel cuore della conoscenza stessa. Da un lato, la conoscenza stabilisce delle coerenze provvisorie: scarta e sutura provvisoriamente anomalie e paradossi; dall’altra, trova in queste anomalie e in questi paradossi il motore per la sua propria trasformazione. Il secondo tema è di natura etica, è lo sforzo di elaborare un’etica costruttivistica, esprimibile attraverso un imperativo etico: “agisci in modo da accrescere sempre il numero delle scelte possibili per te e per gli altri”. Questi due temi sono strettamente legati. La loro imbricazione invita a esplorare un universo creatore nel quale gli insiemi di possibilità non *1 Professore di Studi culturali presso California Institute of Integral Studies di San Francisco.
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sono dati ma sono essi stessi in un processo in divenire. La condizione umana è profondamente radicata in questo universo.1
Tradizionalmente le domande fondamentali sul “chi”, sul “come” e sul “cosa” della creatività hanno avuto le seguenti risposte. Il “chi” della creatività è un individuo, la persona creativa. Il come è il lampo di intuizione che lo colpisce inaspettatamente e come per magia; la lampadina archetipica della cultura pop. Il “cosa” è di solito una grande scoperta scientifica o un’opera d’arte senza tempo. Queste risposte riflettono la percezione della creatività che è ancora oggi comune e che ha permeato la ricerca scientifica nella sua forma classica. La prospettiva di Ceruti, attraverso i due temi ripresi nella citazione proposta, produce le linee di una comprensione radicalmente alternativa della creatività, riassumibile in alcuni punti centrali divenuti recentemente oggetto della ricerca sul tema. La creatività è un processo evolutivo contestuale e aperto. Si tratta cioè di un fenomeno che non può essere ridotto alla personalità, ai processi mentali o addirittura al cervello di un individuo, per quanto notevole questo possa essere. L’attenzione univocamente centrata sull’individuo non può rendere conto del ruolo che l’ambiente e le relazioni svolgono nel processo creativo ed esclude dalla ricerca importanti dimensioni relazionali della creatività. Negli ultimi anni, la ricerca2 sulla creatività ha evidenziato che il “chi” non 1 2
M. Ceruti (2007). “Punti ciechi, ecologie del cambiamento, dinamiche di auto-eco-organizzazione”, in Rivista Italiana di Gruppoanalisi, XXI(1), 39-50, p. 39. Si veda B.H. Banathy, “We enter the twenty-first century with schooling designed in the nineteenth” in Systems Research and Behavioral Science: The Official Journal of the International Federation for Systems Research, 18(4), 2001, pp. 287-290; D. Fasko, “Education and creativity” in Creativity Research Journal, 13(3 & 4), 2000-2001, pp. 317-327; V. P. Glăveanu, R.A. Beghetto, “The difference that makes a ‘creative’ difference in education” in R.A. Beghetto, B. Sriraman (Eds.), Creative contradictions in education (pp. 37-54), Springer International Publishing Switzerland, 2017; B. Lotto, Deviate. The creative power of transforming your perception, Weidenfeld & Nicholson, London 2017; A. Montuori, “The quest for a new education: From oppositional identities to creative inquiry” in ReVision, 28(3), 2006, pp. 4-20; A. Montuori, U. Fahim, “Cross-cultural encounter as an opportunity for personal growth” in Journal of Humanistic Psychology, 44(2), 2004,
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si limita agli individui, ma include diadi, gruppi, organizzazioni e ambienti. Il “chi” non è un sistema chiuso, ma un insieme di sistemi aperti interattivi. Inoltre, il “come” non è più considerato nei termini di un singolo flash. È invece considerato come un processo evolutivo – “un processo in divenire”. La creatività è un fenomeno sistemico. Per comprendere la creatività è necessario superare le tradizionali opposizioni tra atomismo e olismo, tra individuo e società. Il mondo dell’individuo si intreccia con il mondo degli altri individui e con la comunità, con l’habitat, con la storia culturale. Il contesto in cui si sviluppa la creatività è un’ecologia sistemica – “un universo creatore”. La creatività è un processo emergente. Il carattere sistemico della creatività la caratterizza come un processo suscitato dall’interazione tra una molteplicità di diversi livelli di organizzazione. In questo senso, è necessario pensare alla creatività come a un’emergenza, ovvero a un processo che sfugge a ogni tipo di previsione. I suoi “insiemi di possibilità non sono dati ma sono essi stessi in un processo in divenire”. La creatività si nutre di anomalie e paradossi. La creatività sfugge alle maglie della logica aristotelica, perché è ricca di aspetti paradossali. Nel processo creativo, princìpi apparentemente contraddittori dell’azione, del pensiero e del sentimento, che usualmente devono essere sacrificati l’uno all’altro, diventano oggetto di un’integrazione. Non solo. Gli studi sui soggetti dei processi creativi evidenziano che la persona creativa è in bilico tra forze antagoniste, la cui opposizione produce la tensione creativa. Più in generale, nella letteratura sulla creatività si trovano molte diadi “paradossali”, tra cui, per esempio, la diade divergenza-convergenza, spesso considerata uno dei motori del processo creativo. Sono tutti tratti che evidenziano come la creatività non possa essere compresa dal paradigma classico della semplificazione, per il quale la previsione, l’ordine, la ragione e il controllo sono fondapp. 243-265.; J.A. Plucker, R.A. Beghetto, G.T. Dow, “Why isn’t creativity more important to educational psychologists? Potentials, pitfalls, and future directions in creativity research” in Educational Psychologist, 39(2), 2004, pp. 83-96.; K. Robinson, Out of our minds: the power of being creative. John Wiley & Sons, Ltd., Chichester 2017; Z. Sardar, “Welcome to postnormal times” in Futures, 42(5), 2010, pp. 435-444.
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mentali. La creatività è un fenomeno troppo complesso per essere ridotto a risposte e cause semplici e lineari, che si tratti di sublimazione, tratti della personalità, motivazione, cervello, genetica o qualsiasi altra causa. La sua natura distribuita, reticolare, processuale e complessa non si adatta alla cornice epistemologica riduzionista o a una singola disciplina. Lo studio della creatività richiede un’epistemologia della complessità. Eccoci ritornare alle indicazioni sinteticamente proposte in apertura attraverso la citazione di Ceruti. La consapevolezza di un universo creatore è anche la consapevolezza di quanto gli esseri umani non sappiano di non sapere. Evidenzia l’importanza di sviluppare indagini sul modo in cui gli esseri umani creano la loro comprensione del mondo, navigando attraverso mari di ignoranza e riuscendo comunque a funzionare. Chiede di comprendere come la creatività umana si sviluppi come fenomeno antropo-eco-cosmico. E chiede di riconoscere nelle anomalie e nei paradossi che incontriamo il motore più profondo della conoscenza e della trasformazione umana. È un motore che crea nuove possibilità, portando all’incontro di epistemologia ed etica della creatività.
Luigina Mortari*1
TESTIMONE SAPIENTE DI AMICIZIA
Ma non stancarti mai di fare del bene a un amico e confutami. Platone
L’amicizia. Di questo parla il testo, perché è una profonda, robusta e chiara amicizia che è cresciuta nel tempo con Mauro. Un’amicizia nata quasi per caso, in una giornata di tarda primavera ormai più di trenta anni fa, seduti sul bordo di una fontana in una bellissima piazza a parlare di complessità, di natura, di cambi di paradigma e altro. Le sue idee hanno accompagnato con continuità i miei studi, gli incontri su progetti comuni hanno ridato vigore a orizzonti che stavano sfumando, perché la generosità di pensiero di Mauro sa dare forza. I suoi pensieri hanno sempre aperto frontiere, disegnato slarghi. Ma la sua figura di studioso è anche altro: è la semplicità con cui condivide il suo pensare, la passione dolcemente misurata con cui ti parla delle cose che gli stanno a cuore, la cortesia dell’anima con cui ti accoglie. Con gli amici accade una cosa strana: non ci si incontra per molto tempo, ma quando accade, non appena si inizia a parlare è come se il tempo si fosse fermato. Ancora oggi siamo lì, seduti sul bordo della fontana, a immaginare altri mondi, in cui potere trovare il respiro alto del pensiero e la delicatezza del sentire che solo mute la mente e il cuore.
*1 Professore di Pedagogia, Università degli Studi di Verona.
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La necessità dell’agire politico Ci sono cose che sono della massima importanza per la vita, ma proprio queste sono estremamente fragili, nel senso che richiedono una continua cura. Una di queste è la politica La politica è un’arte fragile perché è complessa, ed è complessa in quanto deve affrontare questioni sempre nuove e imprevedibili, non assoggettabili a calcoli scientifici e impossibili da prevedere; infatti, a caratterizzare il mondo umano è l’indeterminatezza. L’indeterminatezza è una conseguenza del fatto che ogni essere umano è unico e quando agisce mette in atto la sua unicità, quella unicità che inevitabilmente introduce nel mondo qualcosa di inatteso. Nessun ragionamento, per quanto rigoroso possa essere, è in grado di anticipare l’accadere dell’agire umano e nessun algoritmo è in grado di spiegare in anticipo la successiva evoluzione di un’impresa appena iniziata. Ma di quell’arte fragile e complessa che è la politica abbiamo un’inaggirabile necessità, perché, in quanto chiamati a vivere fra gli altri, non possiamo non apprendere l’arte di vivere-con-gli-altri, e la politica è quella pratica impegnata a concretare una qualità della vita che sia la migliore possibile per tutti. Diversamente dall’opinione corrente, la politica non è cosa che riguarda solo chi la assume come professione, ma è un modo di esserci nel mondo che riguarda tutti i cittadini, poiché si passa dalla condizione di individui a quella di cittadini nella misura in cui si esercita la responsabilità politica. Una vita vissuta essenzialmente nel suo spazio privato è destinata a scivolare in una perdita di umanità, poiché ci si trova mancanti di quello scambio con gli altri che nutre il nostro essere. Nel Protagora si narra che Zeus, alla domanda postagli di Ermes incerto sui criteri di distribuzione dell’arte politica agli esseri umani, rispose: “A tutti quanti! Che tutti ne partecipino, perché non potrebbero sorgere città se solamente pochi esseri umani ne partecipassero, così come avviene invece per le altre arti”1. Dunque Zeus avrebbe ordinato che l’arte politica, le cui virtù essenziali sono indicate nel rispetto e nella giustizia, in quanto principi ordinatori della città e legami produttori di amicizia, fosse 1 Platone, Protagora, 322d, in Id., Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2000.
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data in dono in uguale misura a tutti gli esseri umani, poiché se solo pochi possedessero l’arte politica allora la città si sfascerebbe. In una società di massa, qual è quella in cui viviamo, dove gli individui sono stretti fra il lavoro e il consumo, il rischio è che la politica, da responsabilità che riguarda tutti, venga delegata a pochi, ai cosiddetti esperti, ma nessuna questione politica di prim’ordine può essere abdicata ad altri, anche se sono cittadini che svolgono la politica come professione2. Per questa ragione una comunità non può non prevedere contesti intenzionalmente deputati a educare alla politica, a sviluppare competenze e modi di essere che consentano di condividere con altri l’azione di immaginare, progettare e mettere in atto mondi dove poter concretare il meglio delle potenzialità umane. Ma in che cosa consiste la politica? L’agire politico, che è agire con i fatti e con le parole, richiede non solo competenze teoriche e abilità del pensare, ma anche la capacità relazionale di condividere con l’altro un progetto. E la relazione più intensamente politica è la relazione amicale. L’amicizia è la virtù prima della politica. La virtù politica dell’amicizia Aristotele, le cui riflessioni sull’amicizia restano fondamentali, annovera nella categoria dell’amicizia differenti tipologie di relazioni, ciascuna delle quali è detta fondarsi su un differente principio generativo del legame: utilitaristico, edonistico, etico. C’è un legame amicale che nasce dalla ricerca di reciproca utilità, quello che nasce dal piacere della compagnia dell’altro, quello che è guidato dal volere per l’amico il suo massimo bene. L’essenza autentica dell’amicizia è rintracciabile in quella relazione che Aristotele definisce “amicizia etica” o “amicizia secondo virtù”3, ossia l’amicizia nella sua forma primaria ed essenziale4). Nell’amicizia etica il legame che si stabilisce con l’altra persona non è dovuto all’interesse per aspetti marginali e accidentali (il suo 2 Platone, Protagora, 322c-d, in Id., Tutti gli scritti, cit. 3 Aristotele, Etica Eudemea, VII, 1241 a 10, in Id., Etiche, Utet, Torino 1996, 4 Aristotele, Etica Eudemea, VII 1236 a 13, in Id., Etiche, cit.
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essere utile o piacevole) del suo modo di essere, ma si basa sulla considerazione incondizionata per la sua persona. Si vuole il bene dell’amico non per un fine esterno, ma “in se stesso”5 e “per se stesso”6. Ciò che in massimo grado indica l’essenza dell’amicizia è “volere il bene dell’amico per lui stesso” e non per se stessi7, ed essere pronti a impegnarsi per realizzarlo8: l’essenza dell’amicizia consiste dunque nella disposizione dell’anima a mettere al centro dell’attenzione l’altro, sia sul piano del pensare sia sul piano dell’agire. Certamente, come da ogni altra relazione umana, anche dalla compagnia degli amici si può ricavare piacere e utilità, ma ciò costituisce un elemento accidentale, perché l’essenza dell’amicizia consiste nella capacità di una centratura sull’altro mossa dall’intenzione di promuovere il ben-essere dell’amico. È questa direzione di senso che fa dell’amicizia un legame saldo nel tempo. Volere il bene dell’altro significa essere capaci di benevolenza, una benevolenza attiva che comporta un’autentica sollecitudine per l’altro. Benevolenza significa ben-volere, ossia volere bene, che si esprime nell’avere-dedizione-per. La benevolenza, che si concretizza nell’agire per il bene dell’altro, si può dire costituire la componente essenziale dell’amicizia. Quando la benevolenza è reciproca, quando cioè si vuole l’uno il bene dell’altro, allora c’è amicizia vera9. Già Socrate affermava che “non ci può essere nessuna amicizia se non c’è amore reciproco”10. Nulla si chiede all’amico, nulla ci si attende se non di vedere che il nostro agire concorre a favorire per le/lui una vita adeguatamente buona. Che la benevolenza sia la componente essenziale dell’amicizia è la tesi sostenuta anche da Cicerone, il quale ritiene che essere amici significa essere più disposti a dare che a chiedere11. Ciò che provoca gioia, infatti, non è il vantaggio che può venire dall’amico, quanto il sentimento di affetto che a lui ci lega12. Per questo 5 Aristotele, Etica Nicomachea, VIII, 1156 b 9, Rusconi, Milano 1993, 6 Aristotele, Etica Nicomachea, VIII, 1156 b 9, cit. 7 Aristotele, Etica Nicomachea, VIII, 1155 b 31, cit. 8 Aristotele, Retorica, II. 4. 1381a, Mondadori, Milano 1996. 9 Aristotele, Etica Nicomachea, VIII, 1155 b 31-33, cit. 10 Platone, Liside 212 d, in Id., Tutti gli scritti, cit. 11 Cicerone, Lelio. L’amicizia, IX, 32, Mursia, Milano 1987 12 Cicerone, Lelio. L’amicizia, XIV, 51, cit.
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la relazione amicale si nutre della logica del dono. L’amicizia dà corpo a una13 relazionalità donativa perché “sta più nell’amare che nell’essere amati”14. Ciò che è massimamente piacevole per un amico non è il godere di qualcosa per sé (principio del piacere) o di ricavare qualche vantaggio personale (principio dell’utile che governa le false amicizie), ma “è fare il bene senza avere di mira qualcosa in cambio”15. Rispetto alla logica contabile e utilitaristica che pervade molti contesti relazionali l’amicizia rappresenta una forma dell’esserci dirompente, poiché si nutre della logica del dono. Questa attenzione dislocata sull’altro nella forma della gratuità non comporta nessuno svantaggio per se stessi, come invece fa ritenere la logica dell’autoaffermazione individualistica, che proprio per questo mina alle radici la politica e con essa la vita democratica. La sapienza della gratuità restituisce, invece, un guadagno di essere, perché nell’aver cura dell’amico/a si vive un’esperienza densa di senso. A chi mettesse in dubbio la praticabilità della logica del dono in una società come la nostra dominata dal mito dell’autoaffermazione personale si può far notare che la buona politica si fonda sulle virtù relazionali, delle quali essenziale è la generosità, e i fatti dimostrano che molti sono i soggetti impegnati in attività estranee alla logica del profitto e questo agire disinteressato trova senso nel considerare come valore il collaborare alla costruzione di una società in cui sia diffusa il più ampiamente possibile una buona qualità della vita. Gli indicatori prassici dell’agire amicale Individuata l’essenza della relazione amicale, è necessario identificare quali sono i modi di stare nella relazione con l’altro che, attestando la benevolenza che è la condizione sine qua non dell’amicizia, sono indicatori dell’agire autenticamente amicale.
13 Cicerone, Lelio. L’amicizia, XIV, 51, cit. 14 Aristotele, Etica Nicomachea, VIII, 1159 a 27-28, cit. 15 Aristotele, Etica Nicomachea, VIII, 1162 b 36-1163 a 1, cit.
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La benevolenza implica, innanzitutto, una disponibilità che ci rende pronti per l’altro “senza farsi attendere e con sollecitudine”16. Essere disponibili con continuità significa risultare attendibili: un amico è attendibile quando l’altro sa che al momento della necessità saprà essere presente con i gesti e con le parole di cui si ha bisogno, dando prova di capacità di cura per l’essere dell’altro. L’essere-pronti-per è il modo d’essere proprio della devozione, ossia dell’essere presenti con premura. Avere attenzione significa innanzitutto saper dedicare tempo all’altro17, perché senza la disponibilità di tempo non è possibile conoscere l’amico e, quindi, aiutarlo così come si conviene al suo proprio modo di essere. Si può dedicare tempo anche nella lontananza, perché la distanza non dissolve l’amicizia. Tuttavia, il trovarsi in presenza l’uno dell’altro è fattore importante perché si realizzi una buona cura. A questo proposito Aristotele cita un detto: “L’impossibilità di parlarsi ha fatto cessare molte amicizie”18. L’attenzione implica innanzitutto capacità di ascolto. Essere capaci di ascolto significa saper mettere da parte le proprie preoccupazioni per fare posto al vissuto dell’altro, così che possa percepire di essere accolto nel nostro sguardo. Saper ascoltare, nel suo senso più vero e profondo, implica una disposizione passiva poiché chiede di lasciare che la propria coscienza venga messa in questione dall’altro. È questo lasciarsi interpellare radicalmente dall’altro che indebolisce l’imperialismo del proprio sé, scortecciando quelle resistenze cognitive ed emotive che impediscono di accogliere fedelmente il modo del suo esserci. La postura passiva, propria dell’ascolto autentico, consiste nel disattivare la tendenza a ricorrere automaticamente ai propri usuali dispositivi cognitivi, che fanno stare in una relazione anticipata rispetto all’altro, e nel rendere la mente capace di una ricettività aperta e accogliente. È proprio della disposizione passiva implicare la rinuncia a esercitare la logica del controllo, per adottare la logica della remissione all’altro, che si concretizza nella forma di una presenza discreta. La presenza discreta è quella di chi sa stare in contatto con l’altro senza annullare la sua alterità. 16 Aristotele, Etica Nicomachea, 1171 b 21, cit. 17 Aristotele, Etica Nicomachea, VIII, 1156 b 25-26, cit. 18 Aristotele, Etica Nicomachea, VIII, 1157 b 13, cit.
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Nella relazione amicale, che si declina nella forma della premura per l’essere dell’altro, questi è percepito come inviolabile e sacro, il cui vissuto è da trattare con il massimo riguardo e con la massima delicatezza. La delicatezza non è, però, rinuncia ad agire anche con fermezza, perché il dialogo autentico, quello in cui accade un vero scambio d’essere, se da una parte richiede una profonda disponibilità cognitiva ed emotiva necessaria affinché l’amico senta di essere accolto, dall’altra non può rinunciare a uno scambio discorsivo onesto e franco. Quello scambio in cui, mossi dall’intenzione di pervenire a una comprensione profonda dell’altro, non ci si sottrae dal dichiarare la presa di distanza critica dalle posizioni dell’amico quando di queste non si vede la giustezza. Che il parlare franco sia indice essenziale dell’atteggiamento amicale è quanto sostiene Socrate che rivolto a Polo afferma: “Ma non stancarti mai di fare del bene a un amico e confutami”19. Il vero amico, proprio per quel suo cercare il bene dell’altro, non mente e non finge, ma sempre cerca la verità e la mette in parola anche se sa di creare difficoltà nell’altro, perché l’amicizia pretende sincerità e franchezza. Il dire la verità in certe situazioni può essere sentito come un modo di agire che mette a rischio la relazione, ma chi sa essere autenticamente amico proprio perché preoccupato innanzitutto per l’altro accetta il rischio, il rischio anche di perdere l’amico se l’altro non accettasse quanto si intende dire. Una relazione autentica chiede la verità e bandisce l’indulgenza. Quando l’indulgenza eccessiva distrugge la capacità degli amici di dirsi la verità, allora “il nome stesso di amicizia non può avere alcun valore”20. Nel momento in cui l’amicizia nella sua essenza si qualifica come attenzione all’altro mossa da benevolenza e da franchezza risulta evidente il valore delle relazioni amicali per la vita politica. La politica si nutre delle virtù civiche, senza virtù non c’è giustizia e non c’è possibilità di costruire una vita buona, e la prima virtù, come insegna Aristotele, è l’amicizia, la virtù politica per eccellenza. Un nuovo umanesimo non può perciò prescindere dal coltivare la virtù dell’amicizia.
19 Platone, Gorgia, 470c 7-8, in Id., Tutti gli scritti, cit. 20 Cicerone, Lelio. L’amicizia, XXV, 92, cit.
Cristina Pasqualini*1
UN PENSARE INSIEME, SULLA STESSA BARCA
Rinunciare al migliore dei mondi non significa affatto rinunciare a un mondo migliore. Edgar Morin
Tutto è connesso, siamo interconnessi, ciò che accade qui e ora localmente ha ripercussioni nel resto del globo, siamo accomunati dagli stessi rischi, nessuno si salva da solo, le certezze lasciano spazio alle incertezze, il progresso non è per sempre, non procede in maniera lineare, non è necessariamente positivo. Questo è il nostro tempo. Mauro Ceruti descrive così i cambiamenti che stiamo vivendo, da una prospettiva epistemologica ben precisa, quella della complessità, forte della lezione del suo maestro Edgar Morin. Una prospettiva, forse l’unica possibile, non soltanto per leggere il passato, ma soprattutto per ripensare il futuro a partire dalle tante sfide che lastricano e rendono scivoloso il presente. Nella modernità, la linearità strutturava i sistemi sociali. Questi ultimi apparivano rassicuranti. Per non correre rischi era necessario stare dentro i confini tracciati, seguire l’itinerario preimpostato da altri per noi. Lo sforzo collettivo era proprio quello di mantenere l’ordine, a scapito di una contrizione delle libertà personali. Ciò era comunque ritenuto necessario, la scelta migliore, in una prospettiva decisamente ottimistica del futuro, fiduciosa – in maniera quasi cieca – nel progresso. Queste erano le narrazioni di quel tempo, il frame in cui le persone hanno vissuto, pensato, organizzato le proprie conoscenze. Il XX secolo ha bruscamente interrotto le grandi narrazioni, ha rimesso in discussione molte nostre certezze, ha spezzato il guscio *1 Professore di Sociologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.
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La danza della complessità
della nostra bolla, ci ha catapultati fuori dalla comfort zone. Abbiamo iniziato così a girare come schegge impazzite, in cerca di punti di riferimento, oramai sgretolati e inaffidabili. (Forse) era solo questione di tempo, un tempo necessario per rendere evidente la nostra vulnerabile condizione umana su questo pianeta. (Forse) abbiamo finalmente compreso che la linearità e l’ordine sono costruzioni precarie, mentre la complessità è la regola. La complessità è insita nella storia della specie umana, non è un tratto specifico ed esclusivo del nostro tempo. Per decenni, non siamo stati capaci di riconoscerla, di studiarla, di apprezzarla, di rispettarla, di promuoverla, fino quasi a nasconderla, a osteggiarla. Si tratta allora di capire da che parte andare, oggi che (forse) questa consapevolezza è più evidente e diffusa tra gli scienziati, tra i diversi rappresentanti delle istituzioni politiche e religiose, in primis Papa Francesco con le sue due Encicliche Laudato Si’ e Fratelli tutti, ma anche tra le persone comuni. Mauro Ceruti sente come urgente un radicale ripensamento dei rapporti tra gli uomini e tra gli uomini e l’ecosistema, nell’orizzonte di un nuovo umanesimo planetario, che assume la fraternità e l’ecologia integrale come valori di riferimento, come motori dell’azione individuale e collettiva. Nell’ampia produzione intellettuale di Ceruti, non sorprende allora trovare in tempi recenti un volume in cui egli rilegge e interpreta la lettera enciclica Laudato Sì di Papa Francesco del 2015. Scrive Ceruti nel Preambolo al suo volume Sulla stessa barca1 che “umanesimo cristiano e umanesimo laico possono convergere in modo inedito nell’universalismo concreto di un umanesimo planetario, che scaturisce dalla rete di interdipendenze accresciute con la globalizzazione della condizione umana e sta legando le vite dei popoli e dei singoli in un destino comune. E potranno associarsi a una politica multidimensionale dell’uomo, che deve necessariamente applicarsi all’intero pianeta: deve essere politica dello sviluppo della specie umana nell’unità/ diversità planetaria. Un umanesimo, dunque, non più astratto, non più eurocentrico, non più antropocentrico. Un umanesimo finalmente “integrale e integrante”. Consapevole del fatto che “siamo tutti sulla stessa barca”, per dirla appunto con le parole di Papa Francesco. 1
M. Ceruti, Sulla stessa barca, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2020, pp. 17-18.
C. Pasqualini - Un pensare insieme, sulla stessa barca 351
Mi sento di seguire Mauro Ceruti sulla strada della complessità nella prospettiva di un nuovo umanesimo planetario, per niente affatto nostalgica del passato, ma, al contrario, piena di speranza per il futuro, fiduciosa nei fratelli che con me condividono l’avventura della vita e della conoscenza nella casa comune che è la nostra Terra-Patria.
Andrea Prencipe*
UN PENSIERO COMPLESSO, PER LE UNIVERSITÀ IN UN MONDO INTERCONNESSO
Il concetto è impossibile senza il suo opposto. Non esistono concetti a se stanti, ma di regola sono “binomi di concetti”. Paul Klee
Il tema della complessità è centrale nell’opera di Mauro Ceruti: egli ne è uno dei massimi studiosi e interpreti e ha contribuito alla definizione stessa di questa categoria1. La prospettiva della complessità ha messo in discussione la linearità del nesso causale, per scoprire una dimensione circolare, propria di un mondo interconnesso in cui ogni evento è insieme causa ed effetto. Sono complessi, infatti, quei sistemi le cui parti interagiscono tra loro organicamente, strutturandosi in maniera da rendere i singoli elementi vincolati gli uni agli altri e non solo giustapposti: non a caso, Ceruti ricorda che l’etimologia della parola “complessità” deriva dal verbo latino plectere, che si traduce con “intrecciare”. La complessità intreccia una molteplicità di eventi in una relazione ripetuta nel tempo, che genera così un sistema. La complessità è assurta a concetto principale delle scienze contemporanee, in particolare delle scienze cosiddette “dure”, naturali, * 1
Professore di Economia, Rettore, Università Luiss Guido Carli, Roma. Sarà qui sufficiente ricordare solo alcuni dei titoli dedicati da Mauro Ceruti al suo studio quarantennale della complessità: La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1985, Bruno Mondadori, Milano 2007; Semplicità e complessità, Mondadori, Milano 1988; Che cos’è la conoscenza, Laterza, Roma-Bari 1990; Pensare la diversità. Per un’educazione alla complessità umana, Meltemi, Roma 1998; Formare alla complessità, Carocci, Roma 2003; Il tempo della complessità, Raffaello Cortina, Milano 2018, Abitare la complessità. La sfida di un destino comune, Mimesis, Milano-Udine 2020.
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che hanno rivelato la complessità del mondo e dei mondi (dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande). Abbiamo scoperto che i mondi naturali non sono retti da leggi inflessibili, prevedibili e controllabili dalla conoscenza scientifica, e che l’incertezza non è imperfezione della conoscenza ma condizione necessaria. Ceruti usa talvolta la metafora della danza, per significare l’interazione complessa che vige in questi mondi, il susseguirsi di eventi imprevedibili e l’intrecciarsi fra le parti2. Allargando il campo di indagine ad altri domini di conoscenza, come le scienze sociali, apprezziamo che la complessità caratterizza il senso profondo del nostro tempo: nel mondo globalizzato tutto è interconnesso, come rivelato dalle dinamiche della pandemia da Covid-19. La crisi pandemica, infatti, si è articolata in una molteplicità di aspetti: quello sanitario, certo, ma anche economico, finanziario, politico e geo-politico. Le definizioni sono però approssimazioni e la numerosità delle stesse indica appunto la complessità delle sfide che affrontiamo – non solo legate alla pandemia, ma anche ad altri fenomeni epocali: le migrazioni, il cambiamento climatico, le disuguaglianze sociali, la rivoluzione digitale e la transizione energetica, per fare alcuni esempi. Tutti questi avvenimenti sono multiformi e in larga misura imprevedibili per mancanza di esperienze pregresse e basi teoriche per analizzarli. La complessità, infatti, si presenta nel momento in cui vacillano le certezze precostituite: nasce, scrive Ceruti, dall’“irruzione dell’incertezza irriducibile nelle nostre conoscenze, è lo sgretolarsi dei miti della certezza, della completezza, dell’esaustività, dell’onniscienza che per secoli hanno regolato il cammino e gli scopi della scienza moderna”. Ad essa, è possibile trovare una risposta volitiva, intraprendere cioè un “approfondimento del nostro dialogo con l’universo” per scoprire la “forza dei nuovi modelli elaborati dalle nostre scienze nel tentativo di tenere conto del massimo di certezze e di incertezze per affrontare ciò che è incerto”3. 2 3
M. Ceruti, La danza che crea. Evoluzione e cognizione nell’epistemologia genetica, Milano, Feltrinelli 1989. G. Bocchi, M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Mondadori, Milano 2007, p. XXIV.
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La sfida che la complessità lancia è quella di un’agitazione dello status quo, del tramonto di un paradigma e della conseguente trasformazione delle fondamenta su cui viene costruito un sistema. Un momento per certi versi drammatico, ma che può dare luogo a uno slancio conoscitivo e a un arricchimento del sapere, perché innesca la capacità innovativa di generare ipotesi alternative, ossia di ri-definire i problemi e re-inquadrarne i contesti: in altre parole, di coordinare prospettive diverse. Per questo motivo, la complessità si accompagna a grandi trasformazioni: si pensi allo stravolgimento e alla complessità esponenziale della rivoluzione scientifica che tra Cinque e Seicento ha cambiato non solo il nostro modo di comprendere il mondo, ma anche la collocazione stessa del genere umano nell’universo, spostando la prospettiva – per usare la felice espressione di Alexandre Koyré – “dal mondo chiuso all’universo infinito”4. La complessità ci insegna anche a dubitare delle categorie interpretative della realtà, intese come presenze monolitiche e immutabili, e a dedicarci piuttosto all’analisi dei fatti nelle concrete relazioni delle vicende storiche, che si misurano con il cambiamento e la diversità. Da questo punto di vista, un confronto serio con la complessità non può fare a meno delle università, che, attraverso ricerca e didattica, promuovono l’avanzamento delle conoscenze e una comprensione della realtà che tenga conto della molteplicità delle prospettive interpretative e della necessità di disarticolare la complessità in una maniera libera da presupposti e impostazioni precostituite – e quindi anche consapevole della propria fallibilità. Che cosa possono fare, nel concreto, le università, per limitare le pretese di una comprensione assoluta e fornire al tempo stesso una lettura scientifica della realtà complessa? Ritengo che le direttive principali lungo le quali l’università odierna debba muoversi siano tre: innovazione per valorizzare la diversità, interdisciplinarità per sviluppare prospettive trasversali, contaminazione di diverse forme di sapere, e internazionalizzazione per educare alle differenze. Innovare l’università nell’epoca della complessità significa definire un modello di istruzione caratterizzato da un equilibrio virtuo4
A. Koyré, From the Closed World to the Infinite Universe, Johns Hopkins Press, Baltimore 1957.
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so tra la didattica fondata sulla ricerca, condotta dagli accademici, e quella basata sull’esperienza, condotta da dirigenti, manager, professionisti, imprenditori e policy makers. Le lezioni diventano più concrete, grazie ad esempio a business games e progetti dedicati all’individuazione di soluzioni innovative a esigenze sociali, mentre laboratori di human skill possono arricchire l’esperienza e lo sviluppo personale degli studenti. In un contesto complesso, infatti, si rende necessario un apprendimento orientato al problema (secondo il modello enquiry-based), in modo che gli studenti apprendano a formulare domande qualificate e a sviluppare opinioni informate sul mondo. Così facendo, diventano protagonisti attivi del proprio percorso di studio e prendono parte ad attività che li mettono in contatto con una rete di professionisti, con il settore produttivo, con le istituzioni e la pubblica amministrazione, facendo esperienza diretta della complessità dei contesti e delle dinamiche lavorative interconnesse. Allo stesso modo, la progettazione e lo sviluppo di corsi in cui le discipline di base si uniscono ad altre, magari più lontane ma non meno rilevanti, secondo un approccio interdisciplinare, favoriscono la formazione di generalisti-specializzati, cioè laureati con una competenza verticale forte in un determinato ambito, ma capaci, allo stesso tempo, di interloquire con esperti di più settori intrecciandone i vari contributi per risolvere problemi di vita reale. In un mondo complesso, infatti, anche le forme del sapere sono articolate e molteplici, e non possono essere decifrate in mancanza di un senso della diversità e dell’interazione fra ambiti concettuali. La storia delle idee testimonia che la cultura ha seguito molte strade, accrescendosi e venendo trasmessa in luoghi disparati – non solo strettamente accademici, ma che includono anche circoli letterari, piazze, corti, biblioteche. Oggi più che mai, in un contesto mondializzato, policentrico e dinamico, il sapere si muove trasversalmente, non vincolato dai confini nazionali. Risulta dunque fondamentale promuovere l’internazionalizzazione dei programmi accademici attraverso la creazione di consorzi e alleanze, che includano anche altre realtà (imprese, start-up e istituzioni economici, culturali e sociali), nella consapevolezza che non ci sono luoghi esclusivi di produzione del sapere e che la cooperazione internazionale genera maggiore attrattività e conferisce un vantaggio strategico nel reclu-
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tamento di studenti e docenti. Le università devono pertanto fare tesoro di collaborazioni, idee e risorse esterne rispetto al perimetro accademico nazionale, promuovendo l’interazione delle competenze e offrendo programmi aggiornati in un’ottica orientata al progresso e alla novità. Certo, le università restano portatrici di una tradizione secolare di studi, che non deve però essere solo conservata, ma anche valorizzata e adattata a un’epoca globalizzata e complessa. La loro missione formativa deve portare a un compimento maturo la sete di conoscenza che nasce negli individui e rispondere alle richieste e alle emergenze dettate dalla complessità di una realtà in continua evoluzione. La difficoltà del presente, comunque, non deve sopravanzare la speranza per il futuro. L’innovazione, che opera nel presente ma verso il futuro è proiettata, deve valorizzare la creatività e la curiosità del capitale umano, farlo interagire con gli strumenti digitali e promuovere il pensiero critico e il ragionamento analitico, per danzare con la complessità, come suggerisce tutta l’opera di Mauro Ceruti, cercando di offrire prospettive di gestione delle trasformazioni vorticose da questa imposte.
Christian Pristipino*1
UN’EPISTEMOLOGIA DELLA COMPLESSITÀ, PER LA PRATICA MEDICA
Sapremmo assai di più della complessità della vita se ci fossimo applicati a studiare con determinazione le sue contraddizioni, invece di perdere tanto tempo con le identità e le coerenze, le quali hanno il dovere di spiegarsi da sole. José Saramago
Ho incontrato per la prima volta Mauro Ceruti nel 2013, nella hall di un albergo di Roma per invitarlo a partecipare alla costituzione di un’associazione di medicina basata sull’approccio ai sistemi complessi. L’anno dopo, l’associazione vedeva la luce con il suo forte contributo di pensiero e operativo, con l’acronimo di Assimss (Associazione italiana di medicina e sanità sistemica), del cui primo consiglio direttivo è stato componente autorevole. Quello che doveva essere un incontro introduttivo di alcuni minuti, divenne un piacevole incontro che durò quasi due ore. Conoscendone gli studi e l’attività scientifica, già al telefono ma ancor più di persona ne ebbi un’impressione umana straordinariamente disponibile, empatica, pronta alla relazione nonostante fossi un perfetto sconosciuto. Come accade in quei rari ma decisivi Καιρός di sincronie, l’incontro con la persona fu la cosa più determinante, tanto da far nascere un’amicizia che tutt’ora perdura al di là delle collaborazioni scientifiche. Anzi, proprio il rapporto personale generò poi successivamente tutto quello che nacque sul piano culturale. L’impressione più forte che ne ebbi fu che il suo pensiero fosse profonda*1 Cardiologo, fondatore dell’Associazione Italiana di Medicina e Sanità Sistemica (ASSIMS).
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mente e serenamente incarnato in una naturale predisposizione alla relazionalità, alla generazione di nuove possibilità dall’interazione, che letteralmente emergesse, fosse generato armonicamente in ogni istante dall’integralità della sua persona: dal tono pacificante della voce, allo sguardo, alla gentilezza dei propositi e dei gesti, al sincero interesse e all’empatia con l’interlocutore. Ne ebbi un’impressione molto forte di integrità, coerenza e buona fede del pensiero, così distanti da tanti accademici e scienziati, più intenti alla costruzione di un’egotica immagine di se stessi che di un credibile modo di essere. Ripensando oggi a quell’incontro, anche alla luce del chilometraggio fatto con lui successivamente, mi viene in mente quell’espressione che parla di testimonianza come esempio da dare con la vita e, solo se necessario, anche con la parola e il concetto. A pensarci bene, la prospettiva complessa, sistemica, che Mauro Ceruti ha così tanto contribuito a plasmare nel corso degli anni, non poteva prescindere proprio da questa dimensione esperienziale più inclusiva. La visione complessa è così fortemente connessa con ciò che la genera, nella persona, che non può, quando è sincera, che condizionare la struttura stessa della persona, il suo modo di essere, di relazionarsi, di vivere e di sperimentare il mondo. O emergere da essa. O entrambi in un feed-back in cui parlare di causa ed effetto non ha più senso. In effetti, per conoscere e capire davvero il contributo che Mauro ha dato alla scienza, sarebbe davvero necessario conoscerlo personalmente, prima o poi. In un momento storico in cui la comunicazione è basata primariamente su contenuti astratti, disincarnati, in definitiva privati delle relazioni con ciò da cui vengono generati, quasi in una eresia neo-gnostica e iper-razionale, già questo sarebbe un messaggio sistemico, rivoluzionario, che Mauro offre costantemente già solo con la sua presenza. Tuttavia, mi rendo conto che ciò non è realisticamente possibile per tutti, a questo punto suppongo anche con i ringraziamenti dell’interessato, e quindi esprimo tutta la mia riconoscenza per la chance rara di questo incontro che la vita e Mauro mi hanno offerto in maniera gratuita. Considerati questi vincoli, in questo contesto mi vedo giocoforza obbligato a focalizzare le prospettive del solo pensiero di Mauro Ceruti che mi appaiono più rilevanti per la mia discipli-
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na, quello della medicina, tenendo comunque presente che quanto cercherò di esprimere deriva anche dalla conoscenza personale e non solo intellettuale. Il pensiero complesso di Ceruti ha un impatto significativo nella medicina, sebbene lui non si sia occupato di applicazioni specifiche nel campo. La sua visione fornisce una cornice utile per comprendere i sistemi biologici complessi quando si considera il corpo umano come un sistema complesso in cui gli organi, i tessuti, le cellule e le molecole interagiscono per mantenere l’equilibrio e la salute. La comprensione di un organismo o di un processo biologico richiede quindi l’analisi delle relazioni e delle connessioni tra le sue parti costituenti. Approcci come la medicina di precisione e la medicina sistemica si basano proprio su questa comprensione dei sistemi biologici. L’idea di complessità irriducibile in quanto emergente dalle interazioni tra le parti di un sistema, si pone alla base del moderno olismo scientifico medico basato su intelligenza artificiale e big data che consentono una modellizzazione delle interconnessioni tra processi e delle relazioni dinamiche che si sviluppano all’interno del sistema. Inoltre, il concetto di emergenza, inteso come la capacità di un sistema complesso di generare nuovi modelli di comportamento sulla base delle interazioni tra le sue componenti, può essere applicato al concetto di adattamento biologico. Nel contesto medico, ciò significa che il corpo umano può sviluppare nuove risposte e adattamenti per far fronte a malattie, lesioni o cambiamenti ambientali. Comprendere i meccanismi di adattamento e di emergenza può aiutare a sviluppare terapie più efficaci e a promuovere la salute. L’interdisciplinarità, che consegue alla necessità di approcciare molti processi intrecciati a più dimensioni, pone una sfida rilevante a una medicina articolata in silos specialistici basati su una classificazione settecentesca delle malattie, che considera solo l’organo in cui questi processi si manifestano. Un intero sistema scientifico, accademico, organizzativo, politico, economico, industriale e sociale è nato, si è consolidato e ha dato letteralmente corpo a questa visione rudimentale della medicina. L’evoluzione da questo modello verso altri modelli più efficienti e realistici non sarà né scontata né semplice, nonostante la loro impellente e ormai riconosciuta priorità per ragioni scientifiche, di applicabilità e di sostenibilità. Tutta-
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via, anche a questo livello, per rendere possibile il cambiamento, lo stesso intreccio dei sistemi di sapere, di interesse e di potere mostra l’imprescindibilità di un approccio di rete che coinvolga tutti gli stakeholders in un sistema coordinato. I concetti di complessità, olismo e interdisciplinarità hanno comunque importanti implicazioni già nella pratica medica. La medicina è un campo caratterizzato da sistemi biologici complessi e interconnessi, che coinvolgono non solo il corpo fisico, ma anche aspetti psicologici, sociali e ambientali che hanno ripercussioni dirette e indirette sui processi biologici. Applicando il concetto di complessità, i medici possono adottare una visione olistica e considerare il paziente come un sistema complesso, valutando le interazioni tra sistemi biologici e diversi fattori come quelli evidenziati dalla psicologia, dalla sociologia e dall’ecologia, recentemente innegabilmente resi ineludibili dalla disavventura globale della pandemia Covid-19. Questa collaborazione può consentire una comprensione più completa del paziente e una gestione più efficace della sua salute. A livello clinico, si tratta di superare la pratica meramente consulenziale della collaborazione specialistica, in cui il paziente viene spostato da uno specialista all’altro ciascuno dei quali tratta in maniera isolata il paziente, e sviluppare nuove pratiche di medicina di rete e metodiche di reale approccio interdisciplinare, condiviso e comunicativo tra specialisti. Inoltre, gli approcci basati sulla complessità possono favorire una maggiore attenzione all’adattabilità e alla resilienza dei pazienti, riconoscendo che la salute e la malattia sono equilibri dinamici influenzati da molteplici fattori. Ciò può incoraggiare interventi che mirano a promuovere la capacità di adattamento e la resilienza dei pazienti. L’idea di una scienza dell’incertezza, motivata dalla non linearità delle interazioni nei sistemi complessi, ha sottolineato la “storicità” di questi sistemi, caratterizzati dalla “contingenza”, ovvero l’imprevedibilità di evoluzioni spesso irripetibili. In altre parole, le condizioni iniziali e le piccole perturbazioni possono avere effetti significativi sul sistema nel suo complesso. Ogni organismo e ogni individuo è così il risultato di una storia evolutiva e di una serie di eventi e interazioni uniche. Questo richiamo alla singolarità e alla contingenza può essere applicato alla pratica medica, in cui la cura di ogni paziente richiede
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una valutazione approfondita del suo background medico, della sua storia personale e delle sue specifiche caratteristiche biologiche. Un approccio personalizzato e contestualizzato diventa quindi fondamentale per fornire cure di alta qualità. Inoltre, questa prospettiva potrebbe implicare una maggiore considerazione del contesto e delle interazioni nel trattamento delle malattie. La salute di un individuo non può essere compresa solo attraverso l’analisi delle singole parti del corpo, ma richiede una valutazione completa delle interazioni tra i vari sistemi biologici, l’ambiente in cui vive l’individuo e i fattori sociali e psicologici che possono influenzare la salute. I risultati della medicina non possono essere previsti in modo deterministico, ma possono essere influenzati da fattori imprevedibili e non correlati all’intensità delle perturbazioni. Perciò è importante sviluppare nuovi modelli e pratiche mediche maggiormente attente alla gestione dell’incertezza e alla flessibilità nell’approccio al trattamento delle malattie. E altrettanto importante è riconoscere l’unicità delle traiettorie mediche dei pazienti condizionati da fattori specifici e contingenti, ciò che motiva l’indispensabilità di un approccio personalizzato. Ciò può essere decisivo nella comprensione delle malattie in cui una singola mutazione genetica o un evento patologico possono innescare reazioni a cascata che portano a manifestazioni cliniche complesse. Comprendere e prevedere queste interazioni non lineari è un obiettivo importante per la medicina, in quanto può aiutare nella diagnosi precoce, nel trattamento mirato e nella gestione delle malattie. Comprendere la variabilità individuale e considerare le caratteristiche uniche di ciascun paziente può consentire una diagnosi e un trattamento più mirati ed efficaci. Alcuni campi concreti in cui questi concetti possono essere applicati sono: – Medicina di precisione. L’approccio basato su un’epistemologia della complessità può guidare la medicina di precisione, che mira a fornire cure personalizzate in base alle caratteristiche individuali dei pazienti. Comprendere le interazioni tra geni, proteine e fattori ambientali può aiutare a identificare i sottogruppi di pazienti che potrebbero beneficiare di trattamenti specifici. L’analisi dei dati provenienti da studi genomici, proteomici e metabolomici può fornire informazioni dettagliate sulle interazioni molecolari e guidare le decisioni terapeutiche.
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– Terapie combinate e sinergiche. Considerando le interazioni non lineari tra molecole e processi biologici, la complessità può suggerire l’utilizzo di terapie combinate e sinergiche per affrontare le malattie, invece che modelli additivi in cui le medicine si sommano per contrastare gli effetti finali dei processi considerati in maniera isolata. L’idea è che l’uso di farmaci o terapie che bersaglino gli snodi di rete può fornire risultati migliori, in quanto le interazioni tra le diverse modalità di trattamento possono agire in modo complementare o sinergico. Questo approccio è particolarmente rilevante nella lotta contro le malattie complesse e multifattoriali, come il cancro. – Approccio olistico alla salute. Comprendere la complessità dei sistemi biologici può incoraggiare un approccio olistico alla salute, in cui si considerino non solo i sintomi e le malattie isolate, ma anche l’intero contesto biologico, psicologico e sociale di un individuo. Ciò implica un’attenzione alla prevenzione, all’educazione sanitaria e alla promozione di stili di vita sani, così come una considerazione delle interazioni tra fattori ambientali, genetici e comportamentali. – Scoperta di nuovi bersagli terapeutici. La complessità può stimolare la ricerca di nuovi bersagli terapeutici, concentrandosi sulle interazioni tra le componenti biologiche coinvolte nelle malattie. L’identificazione di pathway e processi chiave all’interno di un sistema complesso può offrire nuove opportunità per lo sviluppo di farmaci e terapie mirate. Questo approccio può portare a trattamenti più efficaci e ridurre gli effetti collaterali indesiderati. – Modelli computazionali e simulazioni. La complessità dei sistemi biologici richiede spesso l’uso di modelli computazionali e simulazioni per comprendere e prevedere il loro comportamento. L’applicazione di tecniche come la modellistica matematica, la simulazione al computer e l’apprendimento automatico può aiutare a esplorare le interazioni tra le componenti biologiche e a sviluppare strategie terapeutiche innovative. Questi strumenti possono essere utilizzati per ottimizzare i protocolli di trattamento, prevedere l’efficacia dei farmaci o identificare nuovi bersagli terapeutici. L’approccio basato su una epistemologia della complessità può portare a una rivoluzione nella pratica medica, consentendo una comprensione più approfondita dei sistemi biologici e aprendo nuove strade per il trattamento delle malattie.
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– Nuove pratiche relazionali tra curanti e curati. È necessario sviluppare specifiche competenze e strumenti relazionali sistemici per consentire al professionista in medicina uno sguardo e un approccio alla complessa unicità della traiettoria medica ed esistenziale del paziente, capace di integrare le variabili psicologiche, emotive, sociali e ambientali con quelle biomediche e scientifiche. – Nuove modalità di sperimentazioni scientifiche. In un approccio riduzionistico, gli studi randomizzati su grandi numeri di pazienti sono al vertice della qualità scientifica per la certezza dell’efficacia degli interventi studiati. Tuttavia, questi si basano sullo studio meccanicistico e isolato dei processi che non è adatto ai sistemi complessi. Si stanno così sviluppando nuove tecniche di modellizzazione complessa in grado di approcciare scientificamente fenomeni a livello individuale, come gli studi n-of-one e i digital twins. Un approccio basato su un’epistemologia della complessità nella pratica medica presenta anche sfide e limitazioni. Ad esempio, la raccolta e l’interpretazione dei dati complessi possono richiedere risorse considerevoli, in termini di tempo, di competenze, di consumo energetico e di spesa. Inoltre, la complessità stessa dei sistemi biologici richiede l’abbandono di stime deterministiche e l’illusione di una descrizione completa dei fenomeni. Questo richiede un cambiamento culturale imponente, da attuare con programmi specifici e mirati sin dalla scuola dell’obbligo. È necessaria una collaborazione interdisciplinare tra scienziati, medici, informatici, matematici, sociologici, psicologici, ecologi e altri esperti per affrontare queste sfide e sfruttare appieno le potenzialità dell’approccio basato su un’epistemologia della complessità. Inoltre, è importante sviluppare standard e protocolli per la raccolta, l’analisi e l’interpretazione dei dati complessi, al fine di garantire la riproducibilità e l’affidabilità delle scoperte. Un approccio basato su un’epistemologia della complessità nella pratica medica offre l’opportunità di migliorare la nostra comprensione delle malattie e di sviluppare nuovi approcci terapeutici. Ciò potrebbe portare a una medicina più personalizzata, efficace e centrata sul paziente, con il potenziale per trasformare radicalmente il modo in cui affrontiamo le malattie e promuoviamo la salute umana.
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Per tornare all’inizio di questo breve itinerario, la stessa modalità dell’incontro con Mauro Ceruti e il suo esempio sistemico incarnato, esistenziale, insegna che la sistemica, specie in un campo altamente relazionale come quello della cura, può avvenire solo attraverso un’apertura alla complessità dell’altro-da-noi. Il coinvolgimento ampio della persona, con le dimensioni più umane, emotive, esistenziali, la contaminazione della nostra vita con quella dell’altro, l’interesso sincero per altre traiettorie, organizzazioni, equilibri di un’intera esistenza, diventano strumento essenziale per approcciare la cura dell’altro. Oltre le dimensioni esperienziali dei medici come scienziati osservatori distaccati e non coinvolti, si aprono così orizzonti di osservatori più accurati proprio perché coinvolti a tutti i livelli. In fondo, un approccio semplice, monodimensionale, confinato alla razionalità semplificatrice e astratta, potrebbe mai rendere conto della complessità umana che richiede cura? In conclusione, al compimento dei suoi settant’anni, Mauro Ceruti ha, con il suo pensiero e la sua presenza personale, un’influenza e una fecondità sempre maggiori nell’indicare, a varie scale, come costruire e soprattutto essere una via di cambiamento verso un’esistenza più ricca di senso, più umana. Il suo impatto è concreto e indica vie evolutive positive in questo tempo di crisi globale. Per questo, l’intera comunità deve a lui profonda riconoscenza, cui unisco una volta di più quella mia personale.
Antonio Russo*
UN PARADIGMA DI SOLIDARIETÀ
Questo bisogno di solidarietà si estende al di là dell’umanità, fino a un legame effettivo dell’uomo con l’universo. Maurice Blondel
Un recupero dell’idea di solidarietà Oggigiorno, in generale nel discorso pubblico, v’è una rinnovata discussione del principio di solidarietà, con una costante presenza di richiami a esso e una cospicua letteratura che ne tratta i vari aspetti. Tuttavia, permane una certa indeterminatezza circa il lessico usato: lo si applica per parlare delle unioni consanguinee, della appartenenza a uno stesso ceto sociale, di connivenze di potere, del reciproco sostegno fra compagni di partito1. Nel Novecento, vari sono stati i tentativi di mettere a fuoco questi aspetti. Tale è stato il caso soprattutto di Maurice Blondel2, che ha cercato di mostrare i caratteri precipui, complessi e unitari del concetto di solidarietà. In particolare, nella Terza parte de L’Action * 1 2
Professore di Filosofia morale, Università degli Studi di Trieste. J. Duvignaud, La solidaritè, Fayard, Paris 1986, pp. 9-10. Al suo capolavoro L’Action è da ricondurre, per non pochi aspetti, il rinnovamento teologico e filosofico che ha portato alla Nouvelle théologie, al Tomismo trascendentale e al Concilio Vaticano II. La stessa opera, poi, nella struttura, nel metodo e per la profondità del discorso, è stata da più parti (Adof Lasson, Guido De Ruggiero, Victor Delbos) paragonata alla Fenomenologia dello Spirito di Hegel o alle opere di Fichte, e poi venne letta e altamente apprezzata da Heidegger, durante la sua breve permanenza come novizio tra i Gesuiti. Su questi aspetti, si veda A. Lasson, in: Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik, 104, 1894, pp.241-244; G. De Ruggiero, La filosofia contemporanea, voI. l, Laterza, Roma-Bari 1929, p. 242.
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(1893), egli afferma che “l’azione è una funzione sociale per eccellenza… è fatta per gli altri, riceve dagli altri… Agire significa evocare altre forze, fare appello ad altri io”3. E l’agire è una necessità imprescindibile, tanto che “nella prassi nessuno elude il problema della prassi; e ognuno non solo lo pone, ma inevitabilmente lo risolve a modo suo”4. Nella sua espansione, l’azione costituisce “le differenti società di cui l’uomo diventa il membro, ma che in fondo egli sorregge e ingloba col suo volere personale… questo bisogno di solidarietà si estende al di là dell’umanità, fino a un legame effettivo dell’uomo con l’universo”5, perché ogni atto ci inserisce nella vita universale, in società sempre più o meno comprensive. Per un verso, i vari gruppi sociali si costituiscono e via via si configurano, ciascuno ritenendo di essere incomparabile, una unità delimitata dal medesimo suolo, dagli stessi legami di sangue, con frontiere ristrette; per l’altro, invece, spezzano il cerchio in cui pensavano di rinchiudersi, che non è altro che una società parziale6, una semplice modalità esteriore della vita sociale, frutto di commercio di interessi, forze utili7. Vi sono perciò varie famiglie, società umane, patrie: “perché vi sia una società umana occorre che ve ne siano parecchie, ognuna con i suoi attributi individuali o la sua differenza specifica”8. Esse, tuttavia, hanno sì una forma concreta e singolare, ma non si tratta di realtà assolutamente esclusive le une delle altre. Infatti, non si spezzano, politicamente, socialmente ed eticamente, nella infinita molteplicità degli individui, bensì sono nuclei sociali campatibili, che tendono a raggiungere l’unità dell’organismo. Questa è la loro ragion d’essere9. Questo è il carattere fondamentale del principio della vita sociale, come si legge anche in un corso tenuto da Blondel nel 1928, sul rapporto tra patria e umanità10. In esso, egli afferma che “l’indivi3 4 5 6 7 8 9 10
M. Blondel, L’Action, Alcan, Paris 1893, p. 239. Ivi, p. IX. Ivi, p. 244. Ivi, p. 263. Ivi, pp. 248-249. Ivi, p. 265. Ivi, p. 252. Su questi aspetti, si veda: J. Prevotat, Les Catholiques et l’action française. Histoire d’une condamnation, 1899-1939, Fayard, Paris 2001: e, poi, M. Sutton, “Patrie et Humanité” (1928). Politique et relations internationa-
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duo, la nazione, l’umanità, la persona… non sono delle astrazioni antagoniste come se l’una o l’altra servisse ad attualizzare le altre, e meritasse a parte una apoteosi”11. Essi non sono un qualcosa di assoluto, ma un mezzo di espansione della solidarietà, tanto che l’umanità forma un’unità che cresce e si arricchisce attraverso la loro pluralità. Non basta, però, parlare semplicemente di mutua cooperazione, ma è necessario viverla e metterla in pratica12. Lo scopo ultimo che tutto orienta e a cui tendere è la risoluzione delle differenti patrie nell’umanità in un “legame sostanziale di vita e fonte infinita di unione”, anima della vita sociale. Questo discorso trova un’applicazione concreta nel volumetto Lotta per la civiltà e filosofia della pace (1939), che si inserisce in tutta una serie di interventi, conferenze e corsi che Blondel (ad esempio nelle riviste La Réforme sociale, La Démocratie, La Chronique sociale de France, La Croix de Provence) dedica alla costituzione della società e alla pace. Il testo ebbe un grande influsso anche sullo statista Robert Schuman, che espresse personalmente la sua riconoscenza al filosofo di Aix e, nel 1953, dopo la morte di Blondel, si recò in ritiro spirituale nella sua casa nella Rue Roux Alphéran a Aix-en-Provence, con questo gesto volendo esprimere la sua adesione alle idee blondeliane. Il termine lotta indica che qui si tratta di un libro che non ha soltanto intenzioni puramente teoriche, ma prende e induce a prendere posizione sul terreno politico e sociale, non armis sed verbo. La pace, di cui si parla, non consiste primariamente nella creazione di un equilibrio di forze o di salvaguardia giuridica, ma chiede di individuare le radici della civiltà che tengano conto delle esigenze più recondite dell’uomo. “La soluzione del problema dipende non da combinazioni di interessi, da un equilibrio di forze, da questioni di razza o di nazionalità (…) Il problema della pace civilizzata (…) si pone essenzialmente su di un piano più alto. (…) quello della natura e del destino dell’uomo”13. les, in M. Leclerc (a cura di), Blondel entre l’Action et la Trilogie, Lessius, Bruxelles 2003, pp. 365-380; P. Henrici, Préface, in: M. Blondel (“Testis”), Une alliance contre nature: catholicisme et intégrisme. La Semaine sociale de Bordeaux 1910, Lessius, Bruxelles 2000, pp. V-XVII. 11 M. Blondel, Patrie et Humanité, Chronique sociale de France, Lyon 1928, p. 384. 12 M. Blondel, Révolution sociale ou conversion spirituelle, cit., p. 488. 13 Per quanto riguarda il rapporto Schuman-Blondel, si veda R. Poidevin, Robert Schuman. Homme d’Etat, 1886-1963, Imprimerie Nationale, Paris 1986,
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Questa sua analisi dei principali avvenimenti dell’epoca è cosa che non sempre è presente nella letteratura che di lui si è occupata; e per di più Blondel non è mai diventato un caposcuola nel senso vero e proprio del termine. Tuttavia, la sua filosofia ha esercitato un influsso decisivo: è stata accolta ed è stata al centro della riflessione di “un gruppo di intellettuali cattolici impegnati socialmente, chierici e laici, nella città francese di Lione, nei decenni seguenti la “double hécatombe” della “crisi modernista” cattolica (1893-1914) e della Grande guerra (19014-1919). In questa Scuola di Lione, non da ultimo, c’era un gruppo di gesuiti francesi di Fourvière, lo scolaticato gesuita di Lione. Capofila di questi “gesuiti blondelizzanti” era Henri de Lubac (1896-1991), la figura fondamentale della teologia cattolica del XX secolo”14. Quest’ultimo è assurto a figura emblematica del travaglio che ha portato al Concilio Vaticano II, che nei suoi testi ha posto l’accento sulla realtà della Chiesa come communio, muovendosi sulla scia soprattutto delle opere di de Lubac Catholicisme (1938) e Surnaturel (1946). Walter Kasper lo riconosce apertamente15; Joseph Ratzinger ne ammette l’importanza e se ne appropria nella sua riflessione teologica e considera il modo in cui ne parla de Lubac come la rimessa in auge di una “legge fondamentale che risale fino alle radici più profonde del Cristianesimo”16. Massimo Borghesi17, poi, nel parlare della formazione intellettuale di Papa Francesco, afferma che le sue principali istanze sono espressione di un pensiero tipico di una Scuola, “quella dei gesuiti”, rappresentata in maniera esemplare da Eric Przywara, Henri de Lubac, Gaston Fessard18. In questo modo, per usare le parole di
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p. 57 (ma anche p. 367): “Frappé par le livre de Maurice Blondel, Lutte pour la civilisation et philosophie de la paix, paru en 1939, il écrit à cette homme qui a combattu l’Action française, pour lui dire combien il adhère à ses idées”. W.L. Portier, “Twentieth-Century Catholic Theology and the Triumph of Maurice Blondel”, in Communio, 328, 2011, p. 105. W. Kasper, Prefazione a: A. Russo, Henri de Lubac: teologia e dogma nella storia, cit., p. 9. J. Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio, Queriniana, Brescia 2000, p. 401. M. Borghesi, Jorge Maria Bergoglio. Una biografia intellettuale, Jaca Book, Milano 2017. Ivi, p. 92. Più oltre, nello stesso volume, riportando una esplicita affermazione di Papa Francesco, si rileva che “i due pensatori francesi contemporanei
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Peter Henrici, il più autorevole interprete di Maurice Blondel, il filosofo di Aix è divenuto una “fontaine de Jouvence pour la théologie et la philosophie catholiques”, che ha condotto anche all’enciclica Fides et ratio (1998)19. A seguito di e in concomitanza con questi dibattiti, ci sono stati vari studi e ricerche. In Italia è da citare il saggio, non caratterizzato confessionalmente, Solidarietà. Un’utopia necessaria, di Stefano Rodotà, che vuole restituire l’uso del termine a una sua ben distinguibile peculiarità. L’autore se ne appropria in funzione dell’eguaglianza sociale, contro l’esercizio della pura logica di mercato, per mostrare la “inadeguatezza di politiche chiuse nei confini nazionali, il cui superamento è indispensabile per il dispiegarsi di politiche che hanno un duplice aspetto: una solidarietà interna tra i paesi verso i quali si dirigono le migrazioni come condizione per praticare poi la solidarietà esterna nei confronti dei migranti”20. Mauro Ceruti: solidarietà e fraternità In questo recupero dell’idea di solidarietà, ma muovendosi in una problematica sempre più moderna e affinata, un decisivo contributo è offerto dai testi e dalla ricerca di Mauro Ceruti – anche a livello applicato –, instancabile stimolatore e pensatore di spicco tanto preso nel pragma culturale e militante del proprio tempo. Egli, con ulteriori e nuove, rigorose, argomentazioni, ha messo l’accento sui valori e sulla necessità di un umanesimo planetario, sul valore decisivo della solidarietà, mosso dalla convinzione che i princìpi della cooperazione, della solidarietà e persino dell’altruismo devono essere messi a confronto con le questioni critiche del momento presente: il senso della globalizzazione, i rapporti fra logiche di merche [Bergoglio-Papa Francesco] predilige sono Henri de Lubac e Michel de Certeau (ivi, p. 95). 19 P. Henrici, La descendance blondélienne parmi les jésuites français, in E. Gabellieri et P. de Cointet (a cura di), Maurice Blondel et la philosophie française, Parole et Silence, Paris 2007, p. 322. 20 S. Rodotà. Solidarietà. Un’utopia necessaria, Laterza, Roma-Bari 2016, p. 112.
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cato e istanze di socialità, la ridefinizione degli ambiti e dei contenuti del welfare, le dimensioni sociali ed economiche della partecipazione. Tali questioni devono essere affrontate unitariamente alla luce di questi princìpi, superando quella separazione fra “economia” e “socialità”, fra aree di mercato e ambiti della società, che è negativa sia per la stabilità della crescita sia per il benessere delle persone. Sono questioni trascurate dalla comune riflessione politica e sociale, e che invece sono svolte ampiamente dai teorici dello sviluppo umano (A. Sen) e nell’ultima enciclica, del 2009, la Caritas in veritate, di Benedetto XVI. (…) Ricostruire i legami sociali per allargare gli spazi di mediazione, solidarietà e di interesse cooperativo è indispensabile per superare le paure individuali, per valorizzare le potenzialità della democrazia sociale, così come per ravvivare la democrazia sociale.21
Nella stessa linea si collocano anche altri suoi testi, in cui egli sottolinea la necessità di un rinnovato impulso dell’umanesimo che mette al centro il valore, la dignità e i diritti di ogni essere umano, chiunque egli sia, da ovunque egli giunga, per aprire la strada a una solidarietà globale, a una fraternità universale22, per promuovere una comunità di destino che lega tra di loro non solo gli individui e i popoli del pianeta, ma anche l’umanità intera all’ecosistema globale23. Questo orientamento, egli argomenta, deve puntellarsi sul crescente riconoscimento del pericolo comune – aggiornato sull’evoluzione tecnico-scientifica contemporanea – che unisce sempre di più tra di loro i diversi popoli. Si tratta di un passaggio a un ordine mondiale, il quale deve mettere a fuoco definitivamente il fatto che tutti gli esseri umani condividono gli stessi problemi fondamentali. Una morte di tipo nuovo, la possibilità di auto-annientamento dell’intera specie, si è introdotta nella sfera di vita dell’umanità. (…) Ciò ci obbliga a raccogliere la grande sfida, l’innovazione senza la quale l’umanità rischia di perdere se stessa: la costruzione di una “comunità mondiale” (…) non solo economica; i diritti fondamentali dovranno 21 M. Ceruti, T. Treu, Organizzare l’altruismo, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. VII-VIII. 22 E. Morin, M. Ceruti, La nostra Europa, Raffaello Cortina, Milano 2013. 23 M. Ceruti, Sulla stessa barca, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2020.
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essere riconosciuti e garantiti alle generazioni presenti e future; la detenzione di un potere globale, a qualsiasi livello (economico, scientifico, mediatico, religioso o culturale) si dovrà accompagnare a una responsabilità per gli effetti globali, sociali e ambientali riconducibili al suo esercizio; gli Stati devono essere chiamati a trasformare la loro sovranità da solitaria a solidale.24
L’attuazione di questo programma richiede lo sviluppo di istituzioni internazionali e regionali entro cui tracciare le linee e promuovere valori, beni e interessi comuni, nel riconoscimento di una fraternità planetaria. Questo programma si innesta nell’orizzonte della nuova condizione umana, in cui si inscrive anche il magistero di Papa Francesco, il quale, in questo stesso senso, scrive che “l’interdipendenza ci obbliga a pensare a un solo mondo, a un progetto comune”, “per lo sviluppo di tutta l’umanità”. E Ceruti argomenta: La concretezza e l’universalità di questa fraternità potranno legare popoli e culture diverse, poggiare sul sentimento di una cittadinanza planetaria, e costituire uno sviluppo e una novità rispetto alle esperienze di fraternità “chiuse”, quali per esempio le nazioni, storicamente compiute fino a oggi. E potrà essere anche la via alternativa al “nichilismo” degli uomini che si limitano a predare la Terra, a consumare e a produrre, perché rinvia a un mondo comune, a un orizzonte recuperato di senso e a un nuovo modo di abitare la Terra.25
La fraternità universale, quindi, può esemplarmente considerarsi come l’ideale regolativo a cui aspirare, per dare un nuovo impulso alla evoluzione umana, prodromo di ulteriori e concreti passi per sviluppare e imporre la coscienza di una fraternità planetaria. Si tratta, qui, di un compito sicuramente di non facile attuazione; e forse di un’utopia. E Ceruti lo riconosce. Esso, nondimeno, a suo avviso, è necessario per “trasformare il dato di fatto dell’interdipendenza planetaria nel processo di costruzione di una ‘civiltà’ della 24 M. Ceruti, Un umanesimo planetario, in A. Russso, J. Singhammer (a cura di), Patria e Umanità. Scritti in onore del Cardinale Walter Kasper, Edizioni Pensa, Lecce 2023, p. 487. 25 Ivi, p. 490.
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Terra, promuovendo un’evoluzione verso la convivenza e la pace, è un compito difficile e addirittura improbabile. Ma è allo stesso tempo il compito ineludibile che ci è posto dalla sfida di far nascere un’umanità inedita, un’umanità planetaria, una e molteplice”26. Quali sono le conclusioni da trarre da questa sintetica, ma essenziale, presentazione delle pubblicazioni più recenti di Mauro Ceruti? Il suo discorso mostra con quanta coerenza e costanza egli sottragga l’interpretazione dei segni dei nostri tempi alla erudizione puramente teorica e marginale e la riconduce, con nuovi argomenti, nel fuoco di una storicità, di un impegno strenuo e intenso, che deve prendere sempre più corpo, preludio e punto obbligato della formazione di una nuova umanità27.
26 Ibidem. 27 Su questi aspetti, si veda anche il recentissimo testo di A. Marturano, “Abitare la complessità di Mauro Ceruti e Francesco Bellucci”, in Orbis Idearum, 1, 2022, p.90: “Educare alla complessità diventa quindi il principale obiettivo, se l’essere umano vuole sopravvivere a una catastrofe: passare dalla frammentazione disciplinare, oggi sotto scrutinio nonostante sia dominante, a una educazione che educhi alla transdisciplinarità e quindi al pensiero complesso dove ogni cosa è connessa con ogni altra. Insegnare, insomma, quella analitica arte della tessitura di platonica memoria (la complessa arte di tenere insieme distinti e intrecciati momenti che appartengono a funzioni ‘contrarie’: una attività cioè che tende, in ultima analisi, a unire) che renda gli individui abili a passare dal pensiero lineare a un pensiero complesso. L’uomo, animale politico per eccellenza, benché non debba negare le differenze, deve valorizzare le interdipendenze. Come ricordano gli autori, richiamando le parole di Papa Francesco, le interdipendenze ci obbligano a pensare ‘a un solo mondo, a un progetto comune’”.
Severino Saccardi*1
L’IMPEGNO PER LA PACE, CON LE RIVISTE PLURIVERSO E TESTIMONIANZE
La filosofia della complessità è destinata a esercitare un contributo di grande valore quando dovremo nel futuro affrontare problemi che le generazioni precedenti nemmeno potevano presupporre. Ernesto Balducci
Di Mauro colpiscono, prima di tutto, l’espressione aperta del volto e il sorriso, mite e gentile. Il biglietto da visita di una persona cordiale, affettuosa e alla mano. Che niente ha della sottile e, a volte, scoperta supponenza che caratterizza taluni esponenti del mondo intellettuale. E sì che, in tema di cultura e di sapere, Mauro Ceruti, molto ha dato e molto ha ancora da donare. Con apertura e con generosità. Mauro Ceruti ha fornito, e continua a fornire, un contributo riconoscibilissimo alla causa della qualificazione e della sprovincializzazione della dimensione culturale nel nostro Paese. La “cultura della complessità”, come egli ci ha saputo spiegare e ricordare, implica un ripensamento dei paradigmi della nostra conoscenza. Con una giusta valorizzazione delle specificità delle competenze e degli specialismi, ma anche con un risalto inedito conferito al carattere interdisciplinare fra i diversi ambiti del sapere. In fondo, il suo percorso è la prova vivente del fatto che la figura dello scienziato e quella dell’umanista non appartengano più necessariamente a mondi separati, ma possano convivere e interagire produttivamente e creativamente nell’ambito dell’esperienza e nella figura di una stessa persona. *1 Direttore della rivista Testimonianze.
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Sono molti i regali che Mauro Ceruti ci ha fatto negli anni: con i suoi importanti libri, con i suoi interventi e saggi, con le sue lezioni e le sue conferenze. Se ne potrebbe parlare a lungo. Personalmente rimango affezionato al ricordo (fra i tanti che potrei citare) di una esperienza particolare. Quella della rivista Pluriverso. Una rivista innovativa e intelligente, azzeccata fin nella denominazione (molto “cerutiana”) della testata. Un’esperienza che portò un soffio di aria nuova nel dibattito e nel settore delle riviste di cultura. L’impostazione di fondo (come il titolo stesso suggeriva) dava risalto al fatto che il mondo può essere guardato da ottiche diverse, e non necessariamente confliggenti fra loro, e che la realtà ha molte sfaccettature. Siamo nell’età nuova dell’interdipendenza e in una realtà planetaria che vive in una dimensione globale (che oggi ha una portata e implicazioni inimmaginabili, anche se le sue lontane origini affondano, certo, indietro nel tempo) di cui risaltano la complessità e l’ambivalenza. Sono riflessioni che con Mauro ci siamo trovati tante volte a condividere. Come ci siamo trovati uniti nel rimeditare e nel tornare a sottolineare il valore della lezione che abbiamo ricevuto da due “uomini planetari”, Edgar Morin (con la sua bella età e il suo pensiero giovane) ed Ernesto Balducci (che, purtroppo, ci ha lasciato trent’anni fa e di cui nel 2022 ricorreva il centenario della nascita). Mi sia consentito un altro ricordo. Quando, qualche anno dopo la scomparsa di Ernesto Balducci, la rivista Testimonianze (che chi scrive ha la responsabilità di dirigere) rinnovò la sua veste e la sua impostazione, il primo fascicolo della nuova serie recava il titolo Il fascino ambivalente del villaggio globale. Il volume aveva al centro una sezione monotematica, aperta da un intervento di Edgar Morin (La mondializzazione: ultima possibilità o sventura estrema dell’umanità?) e da un testo di Mauro Ceruti su Il pluriverso delle culture del pianeta. Un articolo, denso e molto bello, che sono andato a rileggermi, in cui si parlava dell’importanza della co-evoluzione delle diverse identità e culture e del rapporto fecondo fra pensiero ecologista e pensiero complesso, che potrà dischiuderci l’accesso al nucleo sapienziale dell’aspirazione alla civiltà planetaria. Era la primavera del 1997. Molto tempo è ormai passato. Adesso, nel volume speciale (del maggio 2022), di Testimonianze, dedicato al centenario della nascita di Ernesto Balducci (Terzo millennio. Il pensiero anticipatore di Ernesto Balducci), c’è, in apertu-
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ra, un articolo di Mauro Ceruti. Il titolo riprende un pensiero dello stesso Balducci: “Gli uomini del futuro saranno uomini di pace o non saranno”. Un testo in cui si parla del nuovo umanesimo planetario che (come sosteneva Balducci) delinea l’orizzonte dell’inedita condizione umana che unisce, nel bene e nel male, tutti gli abitanti del mondo e che lega l’umanità intera all’ecosistema globale e alla Terra. Una condizione che dovrebbe, tendenzialmente, rendere “obbligata” l’opzione di uscire dall’età della guerra e dello sfruttamento illimitato dell’ambiente. Con Mauro abbiamo, negli anni, partecipato insieme a iniziative, condiviso aspirazioni e progetti. Che mi riaffiorano, non di rado, alla mente con un sentimento di gratitudine. Abitiamo in città diverse. E non ci vediamo da tempo, anche se ci scriviamo e ci sentiamo, ogni volta con piacere. Ci sono amicizie e relazioni che la distanza non intacca. E che si rinsaldano, anzi, nel tempo. Ci tengo, adesso, a far giungere al “maestro della complessità” e al caro amico un riconfermato apprezzamento e gli auguri più cari. Hai ancora tanto cammino da fare e hai ancora tanto da insegnarci, con la sapienza e la chiarezza che, da sempre, sono il tuo tratto distintivo.
Giuseppe Scaratti*
UNA RICERCA BELLA E BUONA, NELLE ORGANIZZAZIONI
La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose, il coraggio per cambiarle. Sant’Agostino
Lo spunto del presente testo dedicato a Mauro Ceruti nasce da un incontro seduttivo che ha preso forma progressivamente tra me e lui, coinvolgendo tre livelli di relazione: il rapporto con la persona; quello con gli scritti; quello con le parole e le conversazioni scambiate. Proverò a declinare la configurazione assunta da ognuno dei tre livelli, soffermandomi in particolar modo sul terzo, sviluppando alcune considerazioni sulle implicazioni che questo incontro ha avuto sul mio essere ricercatore e docente di Psicologia del lavoro e delle Organizzazioni. Il termine “seduttivo” rinvia a una dinamica di attrazione (secum-ducere, tirare, attrarre a sé) che produce movimento, spostamento, mobilitazione interiore e operativa. Nell’approccio narrativo di ispirazione bruneriana1 si fa riferimento a punti di svolta che scandiscono le traiettorie personali, professionali e sociali nella vita di ognuno di noi. Sono svolte che lasciano il segno, che producono trasformazioni, sviluppando nuove comprensioni della propria esperienza e immettendo un nuovo senso, inedite direzioni alla propria storia e al proprio itinerario temporale. * 1
Professore di Psicologia del lavoro e dell’organizzazione, Università degli Studi di Bergamo. Si veda J.S. Bruner, La mente a più dimensioni, Laterza, Roma-Bari 1986; Id. La ricerca del significato, Bollati Boringhieri, Torino 1990.
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L’incontro con la persona di Mauro Ceruti ha generato un passaggio importante nella mia vita professionale e personale, legata al transito da un ateneo universitario a un altro (quello attuale di Bergamo), seguendo un intreccio di sequenze temporali, di sguardi e di percorsi che di fatto hanno scandito le nostre interazioni. Il punto di attrazione, in questo caso, è stata la prospettiva di una progettualità da innescare, di un percorso da tracciare per sviluppare ulteriori rapporti di interlocuzione e scambio tra università e territorio, in un contesto come quello bergamasco ricco di potenziali nuove domande di intervento e conoscenza nell’articolato ambito delle scienze umane e sociali. Un passaggio per me non facile e non privo di incognite, anche alla luce del fatto che avrei dovuto lasciare una situazione di confort zone acquisita nella mia precedente esperienza, per affrontare la ricostruzione di un inedito itinerario, almeno in parte ricominciando di nuovo. Indubbiamente la persona e l’influenza di Mauro hanno giocato un ruolo ispirazionale nel sollecitare, promuovere, orientare l’approdo a una scelta nomadica, che ha rimesso in cammino una narrazione, aprendo un nuovo portale di esperienza e di significati. Cito come esempio emblematico di questa fascinazione consapevole il commento apparso su Il Sole 24 Ore del 23 maggio 2021, relativo alla presentazione del libro di Silvano Tagliagambe2 su Pavel Florenskij, matematico, fisico, prete ortodosso e teologo. Egli viene ricordato per l’attenzione alla polifonia, il cui ascolto richiede una concentrazione diffusa su molteplici voci, i loro intrecci e il loro sovrapporsi, la loro orchestrazione in una struttura globale che prende forma, così come verso gli effetti imprevisti che inevitabilmente si producono. Vivere e realizzare un passaggio richiede e sollecita un atteggiamento e una sensibilità polifonici, per cogliere testi, temi e ritmi che si propongono e che ritornano, come in una composizione musicale, arricchiti e ricomposti, frutto di molte lingue che si incrociano e dei divertimenti generati in grado di produrre gioia e passione. Florenskij mette in rapporto musicalità differenti, in cui i temi vanno e vengono, escono e ritornano, secondo combinazioni sempre arricchite e diverse, dove visibile e invisibile, sogno e conoscenza, arte e filosofia si compongono in una spiritualità incarnata. 2
S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij, Mimesis, Milano-Udine 2021.
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Ceruti, commentando il libro di Tagliagambe, descrive Florenskij come un nomade d’amore che ha coniugato anima e corpo, nella tensione a concepire la persona nella sua interezza. Potrei dire altrettanto di Mauro, tessitore dell’interezza di molteplici fili (complessità da cum-plècto, ovvero intrecciato, tessuto insieme, sistema non lineare, composto di molti elementi collegati tra loro e dipendenti uno dall’altro), interprete di plurali tensioni (filosofiche, epistemologiche, antropologiche, culturali), promotore e sostenitore di sensibilità politiche e sociali. Nel mio passaggio, attratto da tali ispirazioni, mi sono sentito, per quanto inadeguatamente, almeno un poco partecipe di questa tensione nomadica che si adattava alla mia identità plurima di ricercatore, docente, consulente, formatore, con le connesse modalità di generazione di conoscenze e repertori di pratica. Qui sicuramente ha inciso il rapporto con gli scritti e la produzione teorico-concettuale di Mauro Ceruti, dei quali lascio più opportunamente alla maggiore competenza e conoscenza di altri autori del presente volume la descrizione, il commento e l’esegesi. Mi limito solo a evocare la risonanza delle due parole chiave che esprimono la cifra sintetica e provocatoria del pensiero di Mauro Ceruti: complessità e fraternità. La risonanza da sottolineare rimanda a quello che Florenskij ha descritto come funzione magica e mistica della parola3, in relazione al potere creativo e istituente che la caratterizza e alla dimensione strutturale di chiamata al senso /significato che configura e trasforma il mondo. Il tema della complessità ha raccolto diverse convergenze e generato una rete di significati e prospettive imprescindibili per chi voglia cimentarsi, con uno sguardo aggiornato, allo studio e alla conoscenza della realtà in tutte le sue manifestazioni e articolazioni. Ha influenzato idealmente un cambio di paradigma e di sguardo in grado di cogliere le molteplici relazioni che connettono le varie dimensioni della realtà, generando con creatività e coraggio domande che alimentano la curiosità e la passione per il conoscere. Affrontare la complessità significa sentirsi ricercatori nomadi in tensione e attesa di epifanie che gettino luce sul mistero della realtà che ci circonda e che siamo. Una tensione che richiama insieme l’umiltà e 3
P. Florenskij, Il valore magico della parola, Medusa Edizioni, Milano 2001.
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il coraggio di ogni ricerca, specie se indirizzata a dimensioni collettive dove si intrecciano aspetti individuali, relazionali, organizzativi e istituzionali, la cui comprensione richiede spesso un pensiero divergente/divertente (dal latino divertĕre, “volgere altrove”, composto di di(s)- e vertĕre “volgere”), capace di aprirsi a molteplici possibilità di lettura. Il tema della fraternità dice di una incompiutezza dell’umanità, chiamata alla riconfigurazione di una cittadinanza planetaria, oltre riduzionismi nazionalistici e localistici, capace di impostare un modo nuovo di abitare la terra. Costruire progettualità istituzionali, culturali e socioeconomiche in tale direzione significa assumere la responsabilità di una valenza politica che traduca in pratica l’assunzione dello sguardo della complessità. Una incombenza di ognuno e di tutti, individuale e collettiva, se vogliamo rispondere alla invocazione di Marguerite Yourcenar che, nelle sue Memorie di Adriano, invoca la necessità di sentirsi responsabili della bellezza del mondo. Il reciproco sintonizzarsi e convergere su tali posizioni ha alimentato uno scambio di parole e conversazioni, che non potevano non impattare sulla mia professione, sul modo di concepirla e sulla interpretazione da mettere in atto. È successo come nelle opere verdiane, portatrici di un intenzionale intreccio tra musica, parole e scena: temi che, per uno psicologo del lavoro e delle organizzazioni, cultore di una disciplina cosiddetta “applicata” (perché strutturalmente in dialogo con le fluenti e cangianti dimensioni di realtà), rimandano all’inestricabile intreccio tra registro testuale (ciò che si dice, perché, quando e come lo si dice), registro teatrale (organizzazione come rappresentazione, messa in scena di ruoli e azioni finalizzate, commedia dell’arte da improvvisare), registro musicale (ritmi, toni e timbri che scandiscono e connotano i processi lavorativi e organizzativi). Anche qui è sollecitata la disposizione verso sensibilità e atteggiamenti polifonici, come peraltro suggeriva Michail M. Bachtin nella sua lettura di Fëdor Dostoevskij, aprendo un ulteriore registro connesso alla letteratura e alla critica letteraria. Come dire che gli scambi di parole con Mauro Ceruti hanno istituito visioni e aperture che si declinano in altrettanti orientamenti nell’esercizio concreto del mio essere ricercatore e docente
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universitario, in un settore disciplinare che si ispira a una concezione dei propri oggetti di studio come insiemi di multiformi aspetti ed eventi che accadono e si succedono nel tempo, attraverso configurazioni dinamiche e imprevedibili, che coinvolgono molteplici e interconnesse dimensioni materiali e immateriali, cosi come plurali elementi e attori. Per studiarli, descriverli e produrre conoscenza in grado di sviluppare chiavi di lettura, analisi e comprensione, occorrono paradigmi e punti di vista in grado di cogliere molteplici interazioni e relazioni, attraverso un serrato e impegnativo dialogo con la realtà, adottando lenti vicine a quelle descritte da Jorge Luis Borges nel suo scritto Enciclopedia cinese4. Ciò si traduce in alcune importanti sollecitazioni, che brevemente richiamo: – Il riconoscimento della conoscenza riguardo alla sua natura equivoca, dinamica e connessa alla pratica, come la lezione dei giochi linguistici di Ludwig Wittgenstein ci ha insegnato. In gioco è la consapevolezza di considerare le pratiche di ricerca come forme, modelli, strutture che si sono consolidati e stratificati nel tempo e che noi riteniamo siano i modi “necessari” per costruire conoscenza. Di qui l’importanza di rielaborare queste pratiche di ricerca riflessivamente e riconoscerne la parzialità e non assolutezza, a fronte di plurali razionalità e modi di generare conoscenza possibili, pur rimanendo consapevoli della provvisorietà di questo stesso esercizio e della non separabilità della coscienza scientifica da quella morale, così come delle connessioni e dei grovigli tra epistemologia, ontologia, metodologia, società e politica5. – L’adozione del costrutto di phronesis in quanto distinta dall’episteme e portatrice di sapere (o saggezza, giudizio) pratico, cioè conoscenza in grado di orientare e informare le azioni dei soggetti sulla base di deliberazioni riconosciute valide e pertinenti. La possibilità che i practitioner usino l’evidenza per produrre giudizi informati (assunto alla base dell’evidence approach) dipende anche dalla phronesis, che si affianca all’episteme come una forma 4 5
J.L. Borges, Otras inquisiciones, Bruguera, Barcellona 1980, vol. II, pp. 221-228. G. Scaratti, La ricerca qualitativa nelle organizzazioni. Pratiche di conoscenza situata e trasformativa, Raffaello Cortina, Milano 2021.
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legittima e pertinente di conoscenza, in grado di orientare le azioni pratiche nell’ambito dei molteplici contesti umani in cui i soggetti sono coinvolti6. – Il superamento di quanto Bruno Latour7 ha descritto come disastro epistemologico, che ha trasformato tutti gli oggetti in oggetti galileiani, leggibili attraverso la legge dei gravi. Per affrontare gli oggetti propri della natura-processo, legati a movimenti diversi da quelli fisici, serve coniugare un approccio che si avvicini ai contesti reali affrontando inedite semiotiche e semantiche. Serve dunque un cambio di visione che consenta una diversa vicinanza agli interessi e ai paradigmi della ricerca, in grado di smontare/rimontare/riconfigurare/ri-vedere disposizioni e atteggiamenti legati al fare ricerca, secondo una rinnovata concezione di ricerca bella e buona8. Incontrare Mauro Ceruti è tutto questo e, ovviamente, molto altro. Citando la metafora della “via dei canti” descritta da Chatwin9, in cui gli uomini antichi percorrevano il mondo cantando e lasciando una scia di musica nel loro percorso, avvolgendo il mondo in una rete di canto, posso dire di avere intercettato la scia del canto di Mauro Ceruti, lasciandomi avvolgere dal mantello della sua musicalità.
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G. Scaratti, E. Fregnan, S. Ivaldi, S. (2021), “The training setting as a Social and Liminal Space for Professional Hybridization”, in Frontiers of Psychology, doi.org/10.3389/fpsyg.2021.804008 B. Latour, Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica. Raffaello Cortina, Milano 2018. G. Scaratti, Per una ricerca bella e buona, in stampa. B. Chatwin, Le vie dei canti, Adelphi, Milano 1988.
Luca Taddio*
UN’ONTOLOGIA DELLA COMPLESSITÀ
I filosofi dovrebbero salutarsi dicendo: “Fa con comodo!” Ludwig Wittgenstein
L’opera di Mauro Ceruti prende corpo da una profonda revisione critica della filosofia della complessità. Egli si interroga sul “mondo della vita”, sulle dinamiche sociali in esso inscritte e sulla “realtà” sottostante; tali indagini si articolano attraverso una molteplicità di prospettive, utilizzando di volta in volta gli strumenti metodologici idonei a interrogare i diversi fenomeni, nella consapevolezza che è il problema che si intende affrontare a dettare il metodo e la cornice epistemologica di riferimento e non viceversa. La sua personale linea di ricerca è stata perseguita con una determinazione pari solo al suo impegno a far conoscere al pubblico italiano autori internazionali di primo piano, a partire dagli stessi padri fondatori della teoria della complessità. Fu proprio grazie a questa sua attività editoriale che ebbi modo di scoprire il libro La sfida della complessità1 edito da Feltrinelli e curato da Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti, una vera e propria mappa della complessità e dei suoi protagonisti. Su questa base, ebbi modo in seguito di apprezzare i suoi testi: Il vincolo e la possibilità, Evoluzione senza fondamenti e Il tempo della complessità2, per citarne alcuni. *1 Professore di Estetica, Università degli Studi di Udine. 1 G. Bocchi, M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Mondadori, Milano 2007. 2 M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, Feltrinelli, Milano 1986; Id., Evoluzione senza fondamenti, Meltemi, Milano 2019; Id., Il tempo della complessità, Raffaello Cortina, Milano 2018.
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I temi affrontati si intrecciavano alle mie ricerche ontologiche; allora mi occupavo infatti di fenomenologia della percezione e di psicologia della Gestalt, così emerse l’idea di intrecciare la mia visione epistemologica di matrice fenomenologica a un’ontologia della complessità. Mi imbattei negli scritti di Francisco Varela e compagni, e fu così che cominciai anche a leggere e a interpretare la stessa psicologia della Gestalt in termini di teoria della complessità, alla ricerca di un nuovo “realismo”1. Osserviamo lì nel mondo – e non nella mia testa, dentro una rappresentazione – il “triangolo di Kanizsa” che emerge dalle relazioni interne della figura: forma autopoietica che è frutto delle dinamiche interne al campo percettivo e che ritroviamo in quel “sistema di relazioni” chiamato “mondo”. Il nostro corpo e la nostra soggettività sono inglobati (“incarnati”) nella realtà, da qui l’idea di indagare la realtà e di problematizzare il rapporto tra fenomenologia e scienza a partire dalla complessità dei sistemi metastabili2. Sotto questa luce gli scritti di Ceruti e, più in generale della teoria della complessità, hanno accompagnato le mie indagini fenomenologico-ontologiche: un’analisi critica e filosofica che non è solo “esterna”, bensì si articola secondo un sottile gioco di rimandi interni-esterni alla scienza. In sintesi, è la scienza che si fa filosofica attraverso la teoria della complessità. Per quanto lontana sia la mia visione dalla matrice “costruttivista” di Ceruti, l’impostazione fenomenologica che si stava allora delineando mi portava a porre l’accento sul suo concetto di “vincolo”, considerando ogni proprietà emergente del reale, per definizione, vincolata e non arbitraria. Il nostro mondo della vita emerge da relazioni interne alla realtà: non c’è mondo senza soggetto così come non c’è soggetto senza mondo. Esistono tanti mondi quante le forme di vita, ma c’è solo un’unica realtà. In tal senso il corpo è un sistema (percettivo) di riferimento inglobante un ambiente e inglobato in quell’unica realtà che rappresenta lo sfondo ontologico della nostra esistenza. Il soggetto così inteso diventava una forma metastabile interna ad 1 2
Si veda H. Maturana, F. Varela, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, Marsilio, Venezia 1985; Id., Macchine ed esseri viventi, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1992; Id., L’albero della conoscenza, Garzanti, Milano 1987. Si veda L. Taddio, Verso un nuovo realismo, Jouvence, Milano 2013. Si veda inoltre: E. Morin, Il paradigma perduto, (nuova edizione) Mimesis, Milano-Udine 2020.
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altre forme (morfogenesi) che partecipano al flusso del divenire: si tratta in un certo senso di interpretare la famosa affermazione di Nietzsche “imprimere al divenire il carattere dell’essere”, riletta alla luce delle riflessioni di Ilya Prigogine (Dall’essere al divenire e La nuova alleanza): è questo il terreno comune che ho condiviso con Ceruti verso un’ontologia della complessità. La sua filosofia affonda infatti le radici non nella vecchia tradizione metafisica incentrata sulla stabilità (all’interno di rigidi modelli deterministici o di verità trascendenti), ma in un sapere metastabile (caratterizzato da una visione immanentistica). Tale cambio di paradigma è fondamentale per comprendere la filosofia di Ceruti ed è questo tratto teorico che più di ogni altro mi avvicina a lui nel tentativo di comprendere la soggettività all’interno della natura: la nostra corporeità come sistema percettivo metastabile che si orienta all’interno di un campo percettivo pregno di “senso” (Gestalt). Al fine di comprendere questa prospettiva, provo a sintetizzare alcuni tratti del concetto di “metastabilità” che tagliano trasversalmente diversi campi del sapere. In un sistema caotico è difficile (se non impossibile) poter effettuare delle previsioni a breve termine in modo determinato: una piccola variazione, apparentemente trascurabile e priva di conseguenze immediate, sul lungo periodo, può determinare profondi cambiamenti all’interno del sistema preso in esame, rendendolo anche prevedibile in quanto esito di leggi deterministiche. In questa prospettiva teoretica è il senso stesso del concetto di “determinazione” a mutare pelle: in base all’epistemologia della complessità – il fattore “tempo” ci aiuta a comprendere il senso della stabilità – si giunge a definire un sistema dinamico instabile qualora le orbite formatesi in punti vicini nello spazio anziché mantenere tale vicinanza tendono ad allontanarsi le une dalle altre in modo esponenziale nel tempo (fu Aleksandr Michajlovič Lyapunov a individuare un esponente in grado di misurare quanto le orbite si allontanano col passare del tempo). Se ipotizzassimo di rappresentare con una linea la traiettoria ideale dell’evoluzione di un sistema dinamico non perturbato, potremmo definire “stabile” quel sistema la cui linea si discosta in minima parte dalla traiettoria ideale: questo rappresenta la stabilità interna di un sistema, mentre la corrispettiva stabilità esterna è costituita dalla capacità
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stessa del sistema di mantenere inalterati nel tempo gli scambi in entrata e in uscita con l’ambiente esterno. Oltre a questa distinzione che riguarda il sistema, esistono almeno altri due tipi di stabilità in relazione alla forma di perturbazione applicata: 1) la stabilità dinamica (capacità del sistema di dimostrarsi stabile di fronte a piccole perturbazioni); 2) la stabilità strutturale (indipendente dalle alterazioni dovute all’ambiente, nel caso in cui si focalizzino le perturbazioni dei valori iniziali del sistema dinamico stesso)3. Tra coloro che per primi intuirono la portata teorica del concetto di “stabilità” vi è il matematico, fisico e filosofo Henri Poincaré che ci fornisce – riguardo alla stabilità dinamica – i seguenti criteri: nel primo si stabilisce che, intorno all’orbita imperturbata di un pianeta, deve essere stabilita una fascia all’interno di cui il pianeta può muoversi senza uscire dalla sua orbita; nel secondo, l’orbita si dice stabile anche se il pianeta segue un percorso eccentrico rispetto a quello ideale (criterio della stabilità orbitale), mentre risulta inefficace a evidenziare le situazioni di divergenza crescente nel tempo. Poincaré ci ha mostrato come le traiettorie possono essere classificate e studiate da un punto di vista qualitativo, ossia ci ha mostrato la non esistenza della regolarità quantitativa, dato che l’intero sistema dipende dalle condizioni iniziali o dal valore delle variabili introdotte nelle equazioni. Per comprendere questo aspetto possiamo rifarci al suo celebre esempio del cono: se esistesse un cono “perfetto”, ossia assunto in condizioni ideali, per la legge di gravità esso dovrebbe rimanere in equilibrio sulla punta; tuttavia, la minima irregolarità del cono o un’impercettibile variazione nell’ambiente sono sufficienti a rompere lo stato di equilibrio. La minima causa può quindi mettere in moto significativi effetti: la metastabilità consiste nella condizione di equilibro di un sistema dinamico che permane fino a quando viene fornita l’energia necessaria al suo mantenimento. A differenza della metastabilità, la stabilità pertiene al sistema anche in condizioni di assenza (o di minima quantità) di energia; la metastabilità, invece, si può verificare su livelli energetici diversi superiori al minimo di energia, il che significa che un sistema conosce una sola
3
Si veda C.S. Bertuglia, F. Vaio, Non linearità, caos, complessità, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 179 ss.
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condizione di stabilità e molteplici condizioni di metastabilità, le quali mediano tra stabilità e instabilità4. Fin dal 1859, anno di pubblicazione di On the Origin of Species, la stabilità biologica di una specie viene distinta dalla fissità, presupposto delle biologie di stampo aristotelico. La teoria di Darwin offre una chiave interpretativa della variazione della natura sulla base della selezione naturale in grado di spiegare la trasformazione delle specie; quello che, all’epoca, rimaneva più difficile da comprendere erano i caratteri ereditari costanti che si trasmettevano da una generazione all’altra. Una seconda rivoluzione dopo l’opera di Darwin fu determinata dalla scoperta dei geni, sviluppando così le implicazioni della stabilità genetica all’interno della specie. Per diverso tempo si è ritenuto che i geni servissero a spiegare lo sviluppo delle caratteristiche individuali e le regolarità attraverso le quali un organismo determina la propria esistenza, tuttavia, se la stabilità genetica fosse assoluta, l’evoluzione di nuove strutture biologiche risulterebbe impossibile; oggi, diversamente, si ritiene che stabilità e variabilità genetica siano complementari, ovvero facciano parte dello stesso processo di trasmissione. Accanto a un sistema relativamente instabile, fatto di molecole di acido nucleico capaci di rapidi cambiamenti e di autoreplicarsi, possiamo quindi collocare un sistema metabolico di automantenimento, più stabile e capace di assicurare la presenza di un certo genotipo per un tempo sufficiente all’azione della selezione naturale. Auto-organizzazione e selezione collaborano dunque a determinare l’evoluzione, integrandosi e limitandosi a vicenda, ma, mentre Stephen Jay Gould ritiene che le configurazioni di auto-organizzazione abbiano carattere eminentemente storico, secondo Stuart Kauffman la storia non pone in discussione la prevedibilità di alcuni schemi generali. Le emergenze di un ordine strutturale spontaneo non sono infatti alternative alla selezione naturale, che continua a filtrare le varianti individuali e a produrre i “trend” generali dell’adattamento delle specie. Si tratta dunque di pensare le stesse condizioni dell’evoluzione non come stabili, ma, a loro volta, come elementi in perenne trasformazione. Tuttavia, per Kauffman queste 4
Si veda Ibidem; Id. Complessità e modelli, Bollati Boringhieri, Torino 2012, parte prima.
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modifiche nelle condizioni dell’evoluzione a lungo andare rientrano in un “ordine” statistico riconoscibile, determinando la prevedibilità degli schemi generali5. Il principio di auto-organizzazione che sembra governare il divenire della materia potrebbe essere la sorgente dell’ordine dinamico: infatti, in un sistema termodinamico aperto non in equilibro, “stati vicini” tendono a convergere. Esistono perciò delle specie di poli attrattori che ne determinano l’ordine; questo tipo di ordine naturale e spontaneo costringe il sistema a ridursi in piccole porzioni di spazio determinando l’emissione di calore: interi sistemi termodinamici aperti possono trovarsi spontaneamente in un regime ordinato. Tale tipo di ordine (di cui per inciso ricordiamo che neppure Darwin ne aveva riconosciuto appieno il ruolo) è il precursore dell’ordine che regola l’intera varietà dei sistemi complessi, ovvero l’omeostasi, l’autoriproduzione stabile e le variazioni ereditabili. Se l’esistenza di un tale ordine (secondo la prospettiva di Kauffman) venisse comprovato, andremmo incontro a un significativo cambiamento nella concezione della vita6. Il pensiero scientifico contemporaneo ha cominciato a segnare una netta cesura rispetto all’ideale di stabilità propria dell’epistéme classica: in tutte le sue discipline si imbatte in fluttuazione, processi, biforcazioni ed evoluzioni. L’elemento “tempo” diventa determinante in relazione ai punti di biforcazione: non è infatti possibile sapere anticipatamente cosa accadrà in essi, né in quale punto temporale essi potranno manifestarsi. Sebbene queste idee siano cominciate a emergere solo a partire dalla metà del secolo scorso, esse trovano le loro radici nei contrasti che hanno animato il XIX secolo. A quel tempo, infatti, da un lato si è continuato a ricercare le leggi di natura e, dall’altro, si sono introdotti nuovi concetti come quello di “entropia”. La termodinamica rappresenta un esempio significa5 6
Si veda T. Pievani, Introduzione alla filosofia della biologia, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 195 ss.; S.J. Gould, La struttura della teoria dell’evoluzione, Codice, Torino 2005. Si veda S.A. Kauffman, A casa nell’universo, Editori Riuniti, Roma 2001, pp. 128-129. Id., The Origins of Order: Self-Organization and Selection in Evolution, Oxford University Press, Oxford 1993. Si veda inoltre: M. Di Bernardo, I sentieri evolutivi della complessità biologica nell’opera di S.A. Kauffman, Mimesis, Milano-Udine 2011.
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tivo, poiché descrive sia le condizioni di equilibrio nelle quali un processo si presenta stabile, sia la non linearità delle fluttuazioni che conducono a nuove strutture spaziali e temporali. All’interno di ogni progetto esistono dei punti di biforcazione dove la direzione che il processo stesso acquisirà è descrivibile in termini unicamente probabilistici7. Tale consapevolezza cambia lo statuto stesso della probabilità: in modo ancor più radicale in meccanica quantistica l’indeterminismo non è legato a una mancanza di conoscenza, ma ha natura “ontica”, ossia l’indeterminazione è intrinseca alla natura. Nella metafisica classica “essere” e “nulla” sono posti in radicale opposizione: l’uno viene utilizzato come antitesi logica e ontologica dell’altro, mentre nella prospettiva filosofica della complessità nessun concetto è perfettamente puro. In questo senso il nulla va inteso come qualcosa di analogo allo stato di vuoto quantistico: per il principio di indeterminazione di Heisenberg il vuoto non può essere inteso in senso classico, dato che possiede un livello minimo di energia. Da Kant abbiamo appreso che il soggetto pone “ordine” al caos del divenire attraverso le proprie categorie sintetiche a priori che stabilizzano e determinano il fenomeno e la sua comprensibilità. Dunque, la realtà dipenderebbe dalla facoltà di rappresentazione del soggetto. La rappresentazione è una forma di stabilizzazione: un processo che lega il soggetto al suo ambiente rendendolo in questo modo stabile. La fisica contemporanea ha invece sviluppato una diversa prospettiva che ci consente di affermare che esistano dei principi ordinatori del caos intrinseci al caos stesso. In effetti, in una totalità essenzialmente disordinata possono spontaneamente crearsi delle fasi tendenti all’ordine: nonostante il sistema sia disomogeneo si produce spontaneamente uno stato di equilibrio8. Le reazioni chimiche sembrano essere le uniche entità in grado, data la loro instabilità, di rompere l’omogeneità di un ambiente stabile. Comprendere quali tipi di meccanismi presiedano alla selezione delle strutture che emergono dal caos è uno tra i compiti più importanti del sapere contemporaneo; tuttavia, risulta abbastanza chiaro che quando un sistema è lontano dall’equilibro questi meccanismi 7 8
Si veda I. Prigogine, La fine delle certezze, Boringhieri, Torino 1997; I. Prigogine, I. Stengers, Tra il tempo e l’eternità, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Si veda Id., Dall’essere al divenire, Einaudi, Torino 1986.
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moltiplicano la loro efficacia. In uno stato di non equilibro, la materia si rapporta al suo ambiente conferendo un peso significativo a minime differenze, le quali non sarebbero rilevanti in un sistema equilibrato. Questo perché nell’ambiente equilibrato la materia deve semplicemente conservare la propria struttura, mentre lontana dall’equilibrio può produrre strutture differenti. Per il secondo principio della termodinamica, un sistema relativamente isolato tende necessariamente al massimo del disordine9. Il fatto che un ordine stabile possa essere trasformato da un proprio elemento, e che quindi sia sempre potenzialmente passibile di fluttuazione, non significa che esso sia arbitrario. Ogni regola nasce da una scelta: essa può contenere un elemento che appartiene al caso, ma ciò non comporta la sua arbitrarietà. Anche se un determinato regime funziona in modo eccentrico rispetto a una legge, è pur sempre riconducibile a un calcolo capace di spiegare i processi macroscopici stabili che derivano dalla molteplicità dei processi microscopici disordinati10. La stabilità di un sistema è in stretto collegamento con i meccanismi che conducono alla sua dissoluzione e quindi alla creazione di nuovi stati. Ciò è molto vicino all’idea darwiniana classica della sopravvivenza del più adatto, ma tale modo di pensare la stabilità è il frutto di un’eccessiva semplificazione. È impossibile fornire una risposta quantitativa al problema della stabilità strutturale e non è nemmeno possibile descrivere tutte le variazioni possibili di uno stesso sistema: “l’inventiva della natura trascende le classificazioni matematiche”11. Nei punti di biforcazione, a causa di un singolo individuo o di una singola nuova idea, uno stato del sistema può trasformarsi in una forma di ordine diverso o anche terminare nel caos. Vale anche l’opposto: dal caos possono emergere processi capaci di strutturare una forma di coerenza. Questi elementi di cambiamento sono in grado di sfruttare a loro vantaggio, e quindi di trasformare, le relazioni che determinavano la stabilità del sistema precedente12. Accanto a una intrinseca capacità, del tutto occasionale, di variare degli organismi viventi, possiamo considerare, un secondo fatto9
Si veda I. Progogine, Le leggi del caos, Laterza, Roma-Bari 1993; Id., La nascita del tempo, Theoria, Roma 1988. 10 I. Prigogine, I. Stengers, La nuova alleanza, Einaudi, Torino 1981, p. 188. 11 Ivi, p. 178. 12 Si veda ivi, p. 179.
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re, cioè la stabilità e la sua conservazione che nell’insieme possono agire veri e propri motori dell’evoluzione. A questo proposito, va specificato che uno stato dinamico stabile non è uno stato di equilibrio, ma si mantiene aperto allo scambio di energia con l’esterno, pur conservando la propria struttura fondamentale. In questo senso, l’evoluzione può essere interpretata come un movimento verso la complessità nel quale l’instabilità e la relativa tendenza a un ordine stabile giocano un ruolo fondamentale. Infatti, i meccanismi dell’instabilità possono essere descritti da equazioni non lineari che esprimono la relazione tra le proprietà dinamiche, termodinamiche e matematiche che permettono l’emergere dell’ordine13. Il generare forme non derivabili direttamente dalle leggi che regolano il sistema è una delle caratteristiche della materia vivente: esistono sistemi chimici o fisici che possono auto-organizzarsi e aumentare la propria complessità intrinseca. Le riflessioni di Ceruti presuppongono esattamente questo tipo di “nuovo paradigma”, che si dirama e biforca dalla fisica, dalla biologia e dall’analisi dei fenomeni sociali: una ricerca tesa a favorire e cogliere la diversità contro l’omologazione. Riteniamo che tale assunto stia alla base della capacità di Ceruti di comprendere e interpretare le dinamiche sociali e politiche che hanno occupato parte della sua vita in senso teorico, ma anche – e con altrettanta intensità – il suo impegno politico e culturale.
13 Si veda R. Barbanti, L. Boi, E. Neve (a cura di), Paesaggi della complessità, Mimesis, Milano-Udine 2011; A. Gandolfi, Formicai, imperi, cervelli, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
Marco Trabucchi*1
UN’EPISTEMOLOGIA PER LA PERSONALIZZAZIONE DELLE CURE IN MEDICINA
La vita è soprattutto condivisione. Pëtr Alekseevič Kroptkin
L’uomo è una grande opera incompiuta: la vita costruisce continui cambiamenti dell’essere umano sul piano biologico, somatico, psicologico, relazionale, senza mai arrivare a un punto finale, a qualsiasi età. Solo la morte rappresenta una conclusione, che peraltro può aprire a nuove prospettive in chiave etica, spirituale e religiosa. Una domanda di fondo si pone rispetto a questa visione: il modello di medicina deterministica ancora largamente dominante ha compreso il cambiamento delle conoscenze avvenuto in questi anni, evento che rende insostenibile un approccio statico al bisogno di cure? Su questo tema, l’insegnamento di Mauro Ceruti ha avuto una fortissima influenza, che si è esercitata anche sulla mia cultura medica, guidata dal paradigma della complessità e dalle modalità con la quale Mauro si è impegnato a estenderne il più possibile la conoscenza e la relativa sensibilità operativa. Chi si è formato a un modello della cura fondato su una lettura separata degli eventi biologici, clinici e psicosociali, grazie ai suoi studi e testi ha potuto modificare sia la propria interpretazione dei fenomeni, sia la prassi clinica. In particolare, per quanto riguarda la cura delle persone anziane, realtà caratterizzate da eventi di lunga e lunghissima durata, il comprendere come sono avvenuti i cambiamenti, di fronte ai quali ci si trova a operare clinicamente, permette di progettare interventi realistici. E per questo personalmente devo vera gratitudine al professor Ceruti. *1 Professore di Psicofarmacologia, Università degli Studi di Roma Tor Vergata; Presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria.
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La medicina, nel suo complesso, sta subendo un forte travaglio per integrare la prospettiva della personalizzazione con quella della complessità, che vede una profonda interazione dinamica del dato biologico con quello psicologico e sociale. Il professor Ceruti conferma a questo proposito che ci troviamo ancora in una posizione di ricerca: “Oggi, di questa complessità, siamo, e ci sentiamo, addirittura circondati, assediati, senza avere ancora pienamente preso coscienza della necessità di apprendere ad abitarla”. Ho dedicato il mio impegno professionale in particolare alle malattie croniche della persona che invecchia. Dall’insegnamento di Ceruti ho tratto uno stile di cura che permette di collegare una storia lunga con una realtà caratterizzata da molte componenti tra loro interagenti. Ad esempio, la persona di 75 anni affetta da demenza è il risultato (mi si perdoni questa parola non umana!) di una struttura genetica, dell’esposizione a molteplici fattori di rischio, della propria cultura e degli stili di vita, delle cure ricevute sul piano medico e di quelle prodotte dagli accompagnamenti e dagli affetti. È già stato un grande progresso della clinica il riconoscimento di questi molteplici fattori, che portano alla fenomenologia della perdita di memoria, delle funzioni esecutive, delle manifestazioni psicologiche e psichiatriche. Siamo però ancora privi di una lettura unitaria dei vari fenomeni, che superi l’impegno volontaristico, per arrivare alla definizione di strumenti che permettano di leggere l’insieme dell’evoluzione della vita della persona. La mancanza di una visione complessa non permette, ad esempio, di impostare precise campagne di prevenzione, e neanche di identificare adeguati strumenti di cura. Fino ad ora, in campo terapeutico, si è data attenzione al fenomeno che apparentemente sembra il più importante, cioè la presenza nell’encefalo della sostanza beta-amiloide, responsabile della degenerazione neuronale. Il sostanziale fallimento di questa ipotesi ha indotto a una rivalutazione globale delle dinamiche biologiche in gioco nella malattia, senza però che si sia ancora arrivati a comprendere i nessi tra gli eventi. Questo approccio trarrà certamente forte vantaggio dall’introduzione dell’intelligenza artificiale, che però dovrà essere guidata da una visione di insieme, come solo la mente umana riesce a delineare. Le macchine devono essere al servizio di una cultura che ne indirizzi le scelte, per essere poi arricchita dai risultati ottenuti.
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La semplificazione non appartiene alla logica e alle speranze della cura in ogni campo. Più le singole scienze o tecnologie progrediscono, dall’imaging alla genetica molecolare, alle altre molte funzioni che il progresso ha introdotto, più è necessaria una visione d’insieme, in grado di definire il ruolo dei singoli contributi. “Complessità” deriva dall’unione delle due parole latine, cum e plectere, cioè intrecciare insieme più parti in un’unità. Un particolare ruolo nelle età avanzate spetta al senso della comunità, affermazione che a livello di slogan è stata così interpretata: “È più importante mangiare in comunità che badare ai livelli di colesterolo”. Sebbene si tratti di un’affermazione incisiva, non descrive ancora un quadro soddisfacente della realtà, perché interpretata in modo semplicistico. Infatti, i livelli di colesterolo sono determinati dalla genetica e dallo stile di vita, che sono lo specchio delle condizioni socioeconomiche e culturali, mentre il mangiare insieme è il risultato di situazioni mentali e della concreta possibilità di ritrovarsi, come non sempre avviene nelle famiglie in crisi, nei gruppi privi di coesione, quando prevale l’io sul noi. Ritornando alle demenze, si deve ricordare che l’identità dei malati non è mai solo il frutto della memoria individuale, compromessa dalla neurodegenerazione, ma il risultato dei legami che si sono sviluppati nel corso di una vita lunga e dagli eventi vissuti. Anche nel tempo della perdita che copre ogni dinamica vitale, nel sottofondo resta il senso di interazioni complesse che, seppure più poveramente, continuano a caratterizzare la vita dell’ammalato. Personalmente ho ricevuto dal professor Ceruti insegnamenti fondamentali, come ho cercato pur rapidamente di suggerire. Interpreto il modo più appropriato per ringraziare il Maestro di quanto ricevuto nel continuare a comunicare il principio di complessità come fondamentale strumento interpretativo della realtà, base per organizzare ogni intervento. Nel tempo delle semplificazioni, che rischiano di inquinare la ricchezza dei risultati delle cure, è importante comunicare ai giovani che le risposte valide al bisogno di chi soffre devono essere caratterizzate da una visione della complessità che potrebbe anche essere definita come dettata dalla scelta di essere personalmente generosi. Mauro Ceruti
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ha recentemente definito la fraternità come la nuova bussola per l’umano. Mi permetto di aggiungere che, nell’interpretazione della risposta ai bisogni complessi di chi soffre, la generosità deve essere un elemento importante della bussola. La stessa generosità culturale che da molti anni ha caratterizzato e caratterizza l’elaborazione scientifica del professor Ceruti.
Angelo Vianello*
UNA VISIONE “PLURALISTA” DELL’EVOLUZIONE
L’aiuto dell’amico acquista una sfumatura misteriosa e cara al cuore e il godimento che se ne ottiene è qualcosa di sacro. Pavel A. Florenskij
Ho conosciuto Mauro Ceruti poco dopo il 1995, attraverso la lettura del suo breve, ma brillante saggio Evoluzione senza fondamenti1. Per un appassionato come me di teoria dell’evoluzione e, in particolare, del darwinismo classico, si è trattato di una vera e propria svolta, che mi ha consentito di andare oltre l’interpretazione più ortodossa e lineare di questa teoria, che individua nel binomio mutazione genetica-selezione naturale l’unico meccanismo responsabile del cambiamento. Certamente Mauro Ceruti è stato ed è un convinto darwinista. Lo esplicita allorché egli afferma che “l’opera di Charles Darwin è una delle rivoluzioni più profonde nella storia della tradizione filosofico-scientifica occidentale, perché l’immagine della natura da essa delineata fuoriuscì radicalmente dal modo di pensare ‘essenzialista’ e innescò un mutamento di prospettiva cosmologico”. Pertanto, Ceruti rilegge ed estende in chiave filosofico-scientifica questi stimolanti argomenti in aperta critica con la visione “gene-centrica” di cui Richard Dawkins è l’antesignano. Sono molteplici gli spunti e le riflessioni che si collocano oltre il darwinismo classico e, soprattutto, il neodarwinismo, e che mi hanno inevitabilmente colpito e segnato nel mio stesso lavoro di biochimico vegetale. Perciò mi limiterò a citarne solo alcuni che mi hanno aperto importanti visioni e prospettive. * 1
Professore di Biochimica delle piante, Università degli Studi di Udine. M. Ceruti, Evoluzione senza fondamenti, Meltemi, Milano 2019.
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Uno dei più peculiari caratteri del percorso evolutivo, come sottolinea Ceruti, è che “la contingenza e l’imprevedibilità caratterizzano tutte le soglie evolutive della biosfera”. Pertanto, il suo decorso futuro rimarrà per noi del tutto sconosciuto, oppure, al massimo, ipotetico. Anche perché, in linea con quanto osservato sopra, “il naturalista scopre che, nella storia della natura, l’emergenza di nuove strutture e di nuove dimensioni della vita è dovuta a una catena di eventi singolari, irripetibili”. Ne consegue per lui che “la ricchezza fenomenica di questa storia non può essere ricondotta alla sola spiegazione nei termini di regolarità generali”. Ma Ceruti ci esorta ad andare oltre le concezioni che si imposero verso la fine dell’Ottocento, quando il darwinismo – basato su un modello lineare e gradualista – sembrava assicurarci un progresso inarrestabile. Fecero così la loro comparsa visioni naturalistiche, peraltro molto perverse, della nostra società, che ritroveremo nel darwinismo sociale, nell’antropocentrismo e nell’etnocentrismo, tipiche del clima vittoriano dell’Inghilterra dell’Ottocento, ma che poi si sono estese a tutto il mondo occidentale. Per andare oltre queste interpretazioni dobbiamo imparare a cogliere le “discontinuità” e i nuovi modi di concepirle, perché soglie, innovazioni, emergenze della storia naturale trovano un corrispettivo nella storia della specie umana, delle sue società, delle sue civiltà, delle sue idee e delle sue visioni del mondo. Ed è in questa prospettiva che Ceruti può sostenere che la storia della Terra e di Homo sapiens è “una storia senza fondamenti, che ha in sé stessa le condizioni della propria nascita e della propria morte, e in cui passato, presente e futuro sono connessi attraverso una rete di risonanze non lineari e non predeterminabili”. Il quadro evoluzionistico delineato da Mauro Ceruti è stato ulteriormente ampliato nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, quando si sono ottenuti ulteriori notevoli progressi nelle scienze della vita, tra cui spiccano Evo-Devo2, cioè la biologia evoluzionistica dello sviluppo e l’epigenetica. Ne è emersa una visione “pluralista” dei meccanismi sottesi, condivisa da diversi autorevoli biologi evoluzionisti. Questi sviluppi sono stati riuniti in un’unica 2
A. Minelli, Forme del divenire. Evo-devo: la biologia evoluzionistica dello sviluppo, Einaudi, Torino 2007.
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visione, denominata “Sintesi estesa” da Massimo Pigliucci e Gerd B. Müller nel 20103, che può essere estesa ai meccanismi fisiologici e biochimici4. Ciò nonostante, il confronto-conflitto tra neodarwinisti e pluralisti rimane ancora molto vivo, come si può evincere da un recente dibattito apparso su Nature5. Le ricerche di cui sopra si sono avvalse costantemente di un metodo definito “riduzionistico metodologico”. Questo metodo è stato poi esteso da alcuni filosofi della scienza, facendolo assurgere a “riduzionismo epistemologico”, volto studiare tutti i fenomeni naturali. Ma, come ci ricorda Mauro Ceruti, con Gianluca Bocchi, in Origini di storie, la Natura è un fenomeno troppo ricco di diversità e di complessità perché si riesca a coglierlo nei singoli organismi viventi e nei singoli settori dello scibile6. Dopo questo lungo percorso, i tempi erano ormai maturi per un ulteriore passo verso il pensiero complesso, appena sbocciato, e verso una Teoria della complessità. In questo sono confluiti i contributi di diversi grandi scienziati, di cui va ricordato l’originale apporto. Già verso la metà del Novecento, con la pubblicazione nel 1938 della Teoria generale dei sistemi da parte di Ludwig von Bertalanffy (1901-1972), si iniziò a capire che per comprendere i fenomeni della vita è essenziale mettere in campo il concetto di “sistema”, perché le proprietà degli organismi viventi non dipendono solo dalle specifiche peculiarità dei singoli componenti, ma anche, o soprattutto, dalle relazioni che si stabiliscono tra di essi. Un ulteriore passo fu compiuto con le memorabili Macy Conferences che si tennero negli Stati Uniti nel 1950 e che videro la partecipazione di brillanti scienziati, tra cui Norbert Wiener (18941964), John von Neumann (1903-1957) e Gregory Bateson, un grande scienziato umanista (1904-1980). Il loro principale risultato riguarda il concetto di anello di retroazione, che rende possibile l’autocontrollo di un sistema. 3 4 5 6
M. Pigliucci, G.B. Müller, Evolution, the extended synthesis, The MIT Press, Cambridge, Mass., USA 2010. A. Vianello, S. Passamonti, “Biochemistry and physiology within the framework of the extended synthesis of evolutionary biology”, in Biol Direct 11, 7, 2016. K. Laland et al., “Does evolutionary theory need a rethink?”, in Nature 514, 161-164, 2014. G. Bocchi, M. Ceruti, Origini di storie, Feltrinelli, Milano 1993.
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Questa transizione ci è stata pure descritta in maniera esemplare nel già citato Origini di storie, nel quale Ceruti e Bocchi riflettono su nuove straordinarie teorie scientifiche che spaziano dai meccanismi di autoorganizzazione (Ilya Prigogine) agli attrattori (Edward Lorenz) ai frattali (Benoît Mandelbrot). Queste idee furono poi arricchite dal concetto di “proprietà emergente”, ampiamente accolto solo dopo il decisivo apporto del premio Nobel per la fisica Philip W. Anderson, che pubblicò nel 1972 un decisivo articolo dal titolo More is different. Questa nuova prospettiva è stata di recente sottolineata da Denis Noble, che ha osservato che “il nostro punto di arrivo è proprio la biologia dei sistemi: essa richiede un approccio mentale del tutto differente, che tende a ricomporre, piuttosto che dividere, all’integrazione piuttosto che alla riduzione”7, una posizione che accompagna lo sviluppo della “Teoria della complessità”. I tempi erano così maturi per estendere questo approccio al campo umanistico. Uno dei primi artefici di questa epocale svolta fu Gregory Bateson, che si occupò di relazioni mente-cervello in libri come Verso un’ecologia della mente del 1976. A questo punto, però, irrompe la genialità di Edgar Morin – maestro di Mauro Ceruti – il quale estende anche all’area umanistica i presupposti filosofici e scientifici che sono alla base del “pensiero complesso”. Non a caso, Egli individua nel concetto di sistema, nella causalità circolare, nella dialogica e nel “principio ologrammatico” – secondo cui non solo una parte si trova nel tutto, ma il tutto si trova nella parte –, i cardini della teoria della complessità8. Morin ha pure rivolto la sua attenzione verso le tematiche sociali ed ecologiche – argomenti che hanno contagiato anche Ceruti e che troviamo descritte in maniera originale nel suo Il tempo della complessità9. Per Ceruti, una nuova umanità è la risultante di quattro transizioni. Ora siamo nella quarta, la prima in cui l’uomo appare consapevole del tempo profondo e della sua responsabilità nei confronti della natura. Quindi, egli argomenta, per delineare un nuovo orizzonte che “possa mettere in atto il principio universalistico dell’u7 8 9
D. Noble, La musica della vita. La biologia oltre la genetica, Bollati Boringhieri, Torino 2009. E. Morin, Il metodo. La natura della natura, Raffaello Cortina, Milano 2001. M. Ceruti, Il tempo della complessità, Raffaello Cortina, Milano 2018.
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guale dignità di tutti gli esseri umani, occorre riconoscere la complessità dell’identità umana (unitas multiplex), in particolare nella sua attuale condizione planetaria”. È, quella prospettata da Ceruti, un’umanità che si sente parte del tutto e che, proprio per la sua auto-trascendenza, è capace di prendersi cura della biosfera-creato10. È un concetto che ritroviamo pure al cuore dell’”ecologia integrale” delineata da Papa Francesco nella Lettera Enciclica Laudato si’, in particolare quando manifesta la necessità di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale11. Dunque, come sostiene con determinazione Ceruti, “Il nuovo umanesimo planetario, se sarà, sarà prodotto dalla coscienza della comunità di destino che lega ormai tutti gli individui e tutti i popoli del pianeta, nonché l’umanità intera all’ecosistema globale e alla Terra”. Questo è, a mio avviso, l’aspetto più originale di questa potenziale “rivoluzione culturale” rivolta a tutti gli uomini di buona volontà, ovvero a tutti gli uomini di buona volontà senza alcuna distinzione di genere, cultura o credenza. Se la cooperazione è stata fondamentale nella storia evolutiva della vita, ora dobbiamo valorizzare l’amore gratuito, sotteso all’agape. Caro Mauro, ti sono molto riconoscente per quanto mi hai trasmesso sotto il profilo filosofico-scientifico, ma soprattutto ti sono grato per la fraterna amicizia (agape) che ci unisce.
10 Ibidem. 11 Francesco, Laudato si’. Enciclica sulla cura della casa comune, 2015.
LETTERA ALL’AMICO
Gabrio Vitali*1
LA TUA STORIA MIA
Perché gli è offizio di uomo buono, quel che per la malvagità de’ tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnalo ad altri, acciocché, sendone molti capaci, alcuno di quelli, più amato dal cielo, possa operarlo. Niccolò Machiavelli
Caro Mauro, fa oggi sorridere pensare che il primo anno scolastico che abbiamo trascorso insieme, in quinta ginnasio, fosse il fatidico 68/69 del secolo scorso. Non solo la nostra generazione, ma la stessa nostra amicizia è stata ed è rimasta segnata da quei momenti straordinari di un inizio nuovo (per noi, un inizio tout court) che abbiamo da subito vissuto e discusso con slancio e con cautela (mi verrebbe da dire “con passione e con intelligenza”, ma credo sarebbe troppo), un atteggiamento in cui tu eri fin da allora maestro: dosare le emozioni con la riflessione, non per smorzarle, ma per non farle esaurire in una vampata e farle durare più a lungo e fecondare più a fondo. L’idea chiave che ci muoveva era quella di “allargare gli orizzonti” (al plurale, ovvio) e, se possibile, di provare a nuotarci dentro. Ci interessava tutto: politica (il comunismo, soprattutto), cinema (tutto, senza distinzione), letteratura, filosofia, storia (ma, se possibile, con e attraverso i romanzi), cristianesimo (in primis, i vangeli), i primi approcci all’antropologia culturale, all’evoluzione del pensiero scientifico, alla geopolitica del post-colonialismo e poi una devozione ancora un po’ scolastica, forse, ma sentita alla poesia, all’arte… Facevamo, invero, una gran confusione e restavamo troppo in superficie, ragion per cui di fieno in cascina ne portavamo alla fine ben poco. Ma ci piaceva. *1 Critico letterario e docente di Letteratura italiana a Bergamo e a Bratislava.
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Non avevamo metodo ed eravamo dispersivi, ma l’idea che là fuori ci fossero tante cose da scoprire, da sapere e da fare era entusiasmante. Ed era bello parlarne e indagarle insieme, reciprocamente allettandoci con nuove scoperte e perciò distraendoci di continuo da quello che uno s’era messo in testa di approfondire. Cioè: io mi distraevo, tu meno, molto meno. Quel colorato caleidoscopio di interessi e sollecitazioni, ovviamente, ci faceva contestare la scuola in modo radicale, non però riduttivo o superficiale e ci spingeva a cercare all’esterno altri percorsi meno chiusi e ossificati, magari da far convergere con quelli scolastici, che potevamo, così, almeno in parte rendere sopportabili e, talvolta, persino trasformare. Non ricordo a chi venne, per esempio, l’idea di sostituire i vecchi libri di testo di storia, filosofia e letteratura in adozione da secoli al liceo, ma rammento che tutti in classe preparammo la maturità su manuali scelti da noi e usati in modo sempre meno clandestino. Ricordo invece benissimo come il nostro gruppo di compagni di classe avesse preparato quasi da solo e per un paio d’anni (tu ed io eravamo spesso in giro a tenere i rapporti politici con le altre scuole, soprattutto col Magistrale, per via di quel ben di dio di fanciulle in fiore che c’era) l’occupazione del liceo, che avremmo voluto come un momento esemplare di riflessione sui modelli culturali e organizzativi su cui era impostata la formazione che ci veniva impartita. Vocazione o vizio pedagogico, allora sventatamente illuminista, che avremmo poi mantenuto per tutta la vita. Fummo subito travolti da spinte ideologiche contrapposte e, in parte, solo goliardiche che fecero fallire in pochi giorni quell’occupazione, la quale però è rimasta, a tutt’oggi, l’unica nella plurisecolare storia del Liceo Classico cittadino. La pagammo cara, si sa. E io in particolare, sfuggito in quei giorni alla tutela della tua ponderazione, ho sempre saputo – anche se tu non me l’hai mai veramente “detto” – di aver evitato l’espulsione dalla scuola, che mi avrebbe definitivamente compromesso, grazie a un tuo intervento, evidentemente autorevole e persuasivo, presso alcuni insegnanti che ti avevano informalmente convocato per misurare gli effetti che avrebbe avuto quella decisione sugli altri nostri compagni, di classe e no. Dio solo sa che cosa hai loro raccontato quella volta e un giorno spero me lo dirai. Fatto sta che non venni espulso e potei fare un esame finale più che decente.
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Avevamo, in quegli anni, bisogno di punti di riferimento, di luoghi cioè di coagulo e migliore definizione delle idee che venivamo maturando. Ma mantenevamo appartenenze eterogenee e mobili, stando bene attenti a “non assolutizzarne” (così dicevamo) nessuna. Frequentavamo perciò, a Bergamo, i cineforum del Centro Studi Cinematografici (per un po’, io ci ho anche lavorato), dove scoprivamo i film italiani ed europei dell’impegno politico-sociale e di rilettura storica e, insieme, la nuova cinematografia nord e latino-americana. Leggevamo Il manifesto quotidiano, allora appena nato, per approcciare una lettura gramsciana e non dogmatica del marxismo e un’analisi non ideologica e schematica della fase storico-politica. E ci eravamo intensamente impegnati nei gruppi biblici della Comunità di San Fermo, un progetto ecclesiale di base per una lettura esegetica e teologica della Bibbia, per un impegno sociale cristiano e per un rinnovamento della liturgia in senso comunitario e davvero eucaristico. A pensarci bene, alla luce del poi, credo si possa dire che quello che più ci appassionava era, già allora, una riflessione antropologica sui modelli culturali, di pensiero e di relazione (la famosa “sovrastruttura” di marxiana memoria), che influivano sulla struttura materiale dell’organizzazione sociale ed economica, sui suoi modelli di comportamento e di consumo. E un tale approccio ci portava a comprendere la novità – che oggi diremmo epistemologica – dell’analisi di Lucio Magri e Rossana Rossanda della crisi capitalistica come crisi di un modello globale di civiltà, dal lato del marxismo; e, da quello del cristianesimo post-conciliare, dell’idea dell’incarnazione del Regno di Dio nella storia, come manifestazione di un’umanità inedita, portatrice della tensione verso un progetto di civiltà comunitario e pacificato, come veniva elaborando, fra gli altri, quel padre Ernesto Balducci di cui poi tu diventasti amico e continuo frequentatore. Entrambi questi versanti di riflessione, ancora molto abbozzati e superficiali in noi, studenti appena maturati, furono però la seminagione che, depurata del non poco loglio che c’era, ti avrebbe portato (con me al traino, per mia fortuna) di lì a non molto ad abbracciare il pensiero ecologico della complessità nel magistero e nell’amicizia, poi di una vita intera, con Edgar Morin, di cui sei stato il mentore ed ora sei l’interprete più raffinato e l’erede più autentico; e che ti ha portato, più di recente, ad essere interlocutore costante e accreditato del
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pensiero raccolto e diffuso dalle encicliche – e dagli altri scritti – di papa Francesco, cioè dell’unica elaborazione progettuale, anche antropologico-politica, che oggi sia possibile individuare su scala planetaria, a quanto ne so io. Poi vennero gli anni della nostra prima lunga separazione: tu a Firenze, con continue proiezioni a Milano, a Parigi, a Ginevra per costruire e concludere prestigiosamente il vasto percorso dei tuoi studi universitari e post; e io a Roma, impegnato a portare in giro per l’Italia un’idea della politica, che ormai aveva un mordente vieppiù decrescente, e per terminare anche la mia, di università. Furono anni di lontananza, ma nei quali imparammo (mi insegnasti?) a mantenere in una sorta di presenza fertile, fra di noi, anche la distanza e il silenzio che lungamente intersecavano le poche occasioni di incontro, quasi sempre nel capoluogo toscano, dove talvolta ti raggiungevo. Non so se sei d’accordo, ma penso che furono proprio quegli incontri, sporadici eppure intensi, che informarono la nostra amicizia a quella comune postura verso la cultura e la ricerca del sapere che abbiamo poi sempre assunto come un modo fruttuoso di coltivare la vita a priori e persino a prescindere da quanto poi ci avrebbe permesso di ottenere sul piano professionale o sociale o comunque esteriore. Non potevamo immaginarlo allora, ma fu in quegli anni che divenimmo, l’uno per l’altro, – e uso, per dirlo, le tue parole generose – compagno-maestro e alter ego in tutte le avventure intellettuali in cui ci siamo successivamente incontrati e misurati. Quello che so io, è che con te ho da allora imparato che l’impegno culturale e l’interrogazione sul senso, lungi dall’essere solo una parte pur preziosa della nostra esperienza, sono invece elementi consustanziali alla materia stessa della vita e perciò inseparabili dalle sfide di qualsiasi tipo che l’esistenza o la storia ci mettono davanti. Ricordo quel dieci-quindicennio come affollato all’inverosimile di libri e di proposte di studio cui tu mi sollecitavi e alle quali Gianluca Bocchi, che proprio a Firenze avevo conosciuto e cominciato a frequentare, aggiungeva sempre il carico da undici della sua già allora prodigiosa competenza. Del resto, stavate concludendo, preparandone anche l’edizione, la vostra ricerca sull’interpretazione epistemologica dell’opera di Jean Piaget, apparsa poi col titolo di Disordine e costruzione (1981) – titolo quantomai indicativo di que-
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gli anni, per me – e i nostri discorsi, e i miei scaffali, si riempivano di pubblicazioni e di autori che forse meriterebbero ora un ragionato saggio bibliografico. Anche solo quelli che riesco a rammentare mi pare indichino non solo e non tanto un formidabile percorso di formazione (nel quale, grazie a te, anch’io mi potevo affacciare), ma soprattutto il modo giusto di reagire a una fase di fallimenti e di regressioni politico-sociali, di dispersione ideale e di crisi culturale; un modo che tu mi spingevi a praticare con la costruzione, anche solo personale, di una rinnovata antropologia della cultura, di nuovo foriera di possibilità e di futuro. Questa faccenda di rimettermi a studiare ogni volta che ho poi dovuto scontare uno scacco decisivo nella mia vita, anche sul piano privato, mi è rimasta da allora come la migliore delle risorse e la più efficace delle terapie. È qualcosa che, direttamente o indirettamente, devo a te e a quegli anni in cui da giovani divenimmo adulti. Quel lungo passaggio fu infatti decisivo: all’indagine sullo scrivere l’epoca di autori italiani, come Primo Levi, Elsa Morante, Gigi Meneghello, Beppe Fenoglio, Natalia Ginzburg, Mario Rigoni Stern, Renata Viganò, Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino, Rosetta Loy, non solo affiancavamo i latino-americani, da Garcia Marquez a Manuel Scorza, da Mario Vargas Llosa a Guimarães Rosa, da José María Arguedas a Jorge Amado, ma aggiungevamo, sempre di più nel tempo, i romanzi e le scritture metaletterarie di Italo Calvino, di Pietro Citati, di Umberto Eco, di Claudio Magris, di Milan Kundera e gli scritti sulla letteratura e sul mito di Vladimir Propp, di Michail Bachtin, di Joseph Campbell, di Roberto Calasso, di George Steiner, di Maurice Blanchot, degli amici Maria Corti e Cesare Segre; come se il nostro interesse primario fosse soprattutto capire come funzionasse il pensiero letterario e, con esso, il pensiero tout court. Anzi, si potrebbe dire che, per colpa soprattutto tua, noi leggevamo solo libri meta-qualcosa, cioè meta-filosofici, meta-scientifici, meta-linguistici – o meglio, adottavamo una forma meta- della riflessione – perché più e meglio del particolare contenuto di un sapere, ci interessava (e affascinava) il modello mentale, psicologico e cognitivo, con cui quel sapere si organizzava e funzionava: non mi accorgevo, e non sapevo forse neppure come si chiamasse, ma già mi insegnavi a praticare quel ragionamento epistemologico che poi avrei applicato anche alle mie analisi dei testi poetici e letterari. A proposito: per quanto ciascuno
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di noi vivesse a parte una dimensione personale, sulla poesia io e sulla scienza tu, erano di gran lunga maggiori le letture comuni che, come da ragazzi, dilatavano gli orizzonti di fascinazione in quegli ambiti più disparati della conoscenza e della coscienza che continuamente si intrecciavano nella tua conversazione. La quale, per giunta, non aveva mai a tema quel libro o quell’autore, come una lezioncina, ma si svolgeva naturalmente sui fatti della nostra vita personale o sugli avvenimenti della fase politica che si stava attraversando e quei libri ci capitavano dentro da soli, senza che ce ne si accorgesse. Voglio dire: non facevamo accademia, ma ci misuravamo con le urgenze concrete del quotidiano e con le vicende reali della storia (d’altronde non avremmo potuto far altro, in anni di crisi economico-sociale prolungata, di tensioni nazionali e internazionali e di insistenti attentati di varia natura agli istituti della democrazia); e così, insieme, imparavamo a indagare la materia umana della vita e a leggere la natura antropica del mondo. O almeno a provarci. Cito a caso e a memoria, cioè in disordine, fra le nostre letture, diciamo antropologiche, di quel fruttuoso periodo: Erich Neumann, Julian Jaynes, Douglas R. Hofstadter, Philip K. Boch, Ignacio Matte Blanco, René Girard, Marvin Harris, Tomás Maldonado, Humberto Marturana, Francisco Varela, Stephen Jay Gould, Oliver Sacks, Konrad Lorenz, Umberto Galimberti, Carlo Ginzburg, Noam Chomsky, Gregory Bateson, Riane Eisler, Cornelius Castoriadis, Ilya Prigogine, Isabelle Stenger, Alce nero e tanti, tanti altri… e mi domando dove trovassimo il tempo per le morose o per nuotare o passeggiare o andare al cinema, eppure facevamo tutte queste cose; e anche con discreto impegno. Non posso non menzionare, fra gli altri, almeno tre incontri di lettura, rimasti poi per me fondamentali, dei quali tu mi sei stato prezioso mallevadore proprio in quei tuoi anni fiorentini. Il primo è stato quello con Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana? di Edgar Morin, letto nell’edizione Bompiani del 1974 e del quale mi regalasti la tua copia personale, che conservo ancora gelosamente, segnata e appuntata dalle nostre continue riletture. Quel libro ha rappresentato una svolta profonda nella mia biografia intellettuale e professionale e anche nella mia vicenda esistenziale; esso rimane, per me, il libro matriciale di tutti gli altri libri di Edgar, il condensato paradigmatico e cognitivo di ogni altro sviluppo e prodotto formatosi poi nell’ecologia comples-
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sa e inesausta del suo pensiero, nell’antropologia viva ed esistenziale del suo sapere. Il secondo incontro è stato quello con Il gesto e la parola di André Leroi-Gourhan, nei due tomi dell’edizione Einaudi del 1977, che mi fece scoprire la complementarità evolutiva di tecnica e linguaggio e di memoria e ritmo, e che per ciò promosse ogni mia successiva riflessione sulla natura della scrittura poetica come creazione tecnica di fatti linguistico-musicali di valore esperienziale per tutti; questo libro è stato, in certo senso, l’origine e la base dei miei studi e della mia concezione dell’antropologia culturale e della filosofia del linguaggio. Il terzo, è stato con il volume curato da Aldo Giorgio Gargani (in particolare la sua introduzione) Crisi della ragione, edito da Einaudi nel 1979: anche questo fu un libro miliare nella mia formazione, in particolare per quanto concerne la visione della politica come processo complesso e non riducibile, continuamente in dialogo con l’incertezza della vita e con l’imprevisto della storia, e fondato sulla progettualità aperta di una ricca visione culturale, invece che sulla contingenza programmatica di una semplificatrice e spuntata apologia della prassi. Insomma, antropologia, poesia e politica, cioè i cardini di tutto il mio pensiero e della mia vita stessa, mi hai aiutato tu ad impostarli; e l’amicizia e la frequentazione successive con l’intelligenza multiforme e sempre empatica di Edgar e con quella garbata e insieme potente di Giorgio, furono poi il meraviglioso corollario di quella tua straordinaria mallevadoria. È stato quindi un privilegio immenso – oltre che una grande fortuna – esserti prossimo in quei tuoi anni di definitiva preparazione. Anche se c’è almeno una cosa abbastanza importante che ci siamo dimenticati di imparare e che persino tu non mi hai saputo insegnare: a non litigare con i soldi e a cercare di farne. Si vede che era troppo difficile, anche per te… Poi, uno dopo l’altro, rientrammo a Bergamo; io, per primo, con una figlia bellissima e tu, più tardi, con una moglie davvero splendida: ormai dovevamo trovare un lavoro vero e stabile e, da casa nostra, sembrava avessimo più chances. Fu allora che lanciasti la tua grande “sfida” sulle forme della conoscenza e sugli stili del sapere secondo i due filoni della tua riflessione, nel tempo sempre più intrecciati: quello di impianto epistemologico-cognitivo e quello di valenza antropologico-politica. Le mie parole, tuttavia, sono fredde e non dicono l’emozione
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dell’intelligenza che quel tuo lavoro mi ha a lungo suscitato e fatto vivere, impastando e fecondando, certo, le mie scelte culturali e professionali, ma soprattutto la mia postura nei confronti delle cose. Non solo c’erano lo stupore e l’ammirazione nell’ascoltare e indagare le voci che dai più disparati versanti del sapere tu riuscivi a catalizzare nei tuoi interventi, nei tuoi scritti e nelle sedi di confronto che promuovevi; ma c’erano soprattutto gli spazi affettivi della tua amicizia, nei quali l’intelligenza diventava sentimento, il capire diveniva sentire e l’avventura cognitiva si faceva perciò esperienza esistenziale, materia di vita vissuta, concreta e condivisa vicenda personale. Le lunghe passeggiate sulle mura o sui colli di Bergamo, cui mi invitavi – o ti invitavo – prima o dopo qualche evento o qualche pubblicazione importante o, anche, durante qualche situazione delicata della mia o della tua vita privata, costituivano il tessuto connettivo e fertile del pensiero, il tuo e il mio, nel suo farsi, nel suo sperimentare, ancora grezzo, l’uno o l’altro territorio di riflessione, nel suo diventare conoscenza comune e riconoscenza reciproca, nel suo costruire e ricostruire, di continuo, quasi due personalità diverse di un unico individuo cosciente, due modalità della stessa piega della mente. Qualcuno penserà che stia esagerando o, peggio, che voglia enfatizzare a mia vanteria la tua prestigiosa amicizia. Ma, per quanto io sia consapevole delle differenze qualitative fra di noi e per quanto io riconosca il peso maggiore del mio debito verso di te rispetto al tuo verso di me, sento e so profondamente la verità di queste affermazioni, perché sento e so che questa esperienza meravigliosa abbiamo entrambi avuto la fortuna di viverla, come un abito psicologico e uno stile del pensiero divenuti parte integrante di noi, anche con altri, sebbene su piani necessariamente diversi: tu sicuramente con Edgar, di cui mi hai fatto divenire amico, ed io con Francesco e Marco, vecchi amici anche tuoi. Sebbene il fondo di questa esperienza esistenziale non si possa del tutto attingere e comunicare – e neppure, forse, si dovrebbe provare a farlo – perché le parole, senz’altro le mie, rimangono molto al di qua dell’intensità che contiene e che suscita, vorrei almeno dare testimonianza del contesto e di qualche episodio in cui essa si è venuta caratterizzando. E, per farlo, non ho che da ricostruire e contrappuntare il tuo straordinario percorso che, sempre di più nel tempo, mi appare come la più significativa avventura di trasforma-
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zione culturale che si sia realizza a cavallo del millennio in questo paese e non solo. È stato a Milano, nel 1984, che, con la simbiotica collaborazione di Gianluca, hai organizzato e diretto la tua grande ouverture del convegno “La sfida della complessità”, dedicato alla crisi di quell’idea di onniscienza presupposta da un sapere scientifico fondato sul mito delle leggi universali, del controllo, della prevedibilità, della certezza e, in realtà, sempre più settorializzato e specialistico; mentre i nuovi orizzonti della conoscenza, nella contaminazione dei saperi e dei modelli cognitivi, stavano aprendo sempre più la prospettiva di un pensiero cum-plexus, vale a dire intrecciato insieme, più adatto alla comprensione e all’attivazione dei processi multi- e transdisciplinari che portano a una migliore conoscenza della realtà e dell’epoca contemporanea. L’importanza del convegno era sancita dalla partecipazione di filosofi, antropologi, psicologi e scienziati del calibro di Edgar Morin, Ilya Prigogine, Isabelle Stengers, Stephen J. Gould, Francisco Varela, Heinz von Foerster e tanti altri. Questo filone di ricerca epistemologica sui modelli della conoscenza sarebbe poi stato alimentato, nei decenni successivi, da molte tue fondamentali pubblicazioni: Modi di pensare postdarwiniani (1984, con G. Bocchi), sulla relazione fra pluralismo evolutivo e abbandono del luogo privilegiato per l’osservazione scientifica; Il vincolo e la possibilità (1986), sul superamento della dicotomia caso-necessità e sulla libertà umana nel gioco complementare fra vincoli e possibilità evolutive della nostra mente; La danza che crea (1989), su come concepire l’evoluzione e la conoscenza, attraverso un’epistemologia genetica che accoglie e sfida la complessità dei loro processi; Origini di storie (1993, con G. Bocchi), che delinea un affresco dei molteplici e intrecciati itinerari del sapere e delle narrazioni multiformi della conoscenza; Evoluzione senza fondamenti (1995), sul rapporto fra i paradigmi delle scienze evolutive e una visione contingente dei processi storici, assunti come non scontati e determinabili; infine, La fine dell’onniscienza (2014), sull’emancipazione dal mito scientifico, appunto, dell’onniscienza e da quello antropologico dell’onnipotenza nei confronti della natura e della storia. È stato invece da Firenze, nel 1986, che avrebbe preso le mosse l’altro filone della tua ricerca e produzione culturale, quello della messa in discussione delle idee lineari di progresso e di sviluppo,
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nel rapporto fra uomo e sfruttamento della natura e fra civiltà e colonizzazione del pianeta. Anche il convegno lì organizzato e diretto, questa volta con Ervin Laszlo, “Physis: abitare la Terra”, avrebbe visto la partecipazione multidisciplinare di studiosi come Cornelius Castoriadis, James Lovelock, Ernst e Christine von Weizsäcker, Krzysztof Pomian, Riane Eisler ed altri. Da quest’ultimo simposio si origineranno, sempre in forma dialogica e interdisciplinare, i tuoi studi di taglio antropologico, ecologico e storico-politico, e cioè: Turbare il futuro (1989, con G. Bocchi e E. Morin), un’analisi sulla rivoluzione antitotalitaria dell’‘89 e sulla crisi dello stato nazionale per proporre un’idea di Europa come comunità di destino e progetto di democrazia; L’Europa nell’età planetaria (1991, con G. Bocchi e E. Morin), sull’Europa come casa comune, come laboratorio di istituti di democrazia, come luogo di integrazione etnica e come mercato comune di idee e di culture; Solidarietà o barbari. L’Europa delle diversità contro la pulizia etnica (1994, con G. Bocchi), sulle rinnovate minacce al progetto europeo, portate dalla guerra dei Balcani, dalla pulizia etnica, dalla sacralizzazione dei confini e dalle pericolose retoriche delle identità nazionali; Una e molteplice. Ripensare l’Europa (2009, con G. Bocchi), sul ruolo, nei processi di globalizzazione, del progetto Europa, portatore di esperienze storiche e antropologiche diverse, ma integratesi, e ricco perciò dell’unicità e insieme della varietà di identità, di culture e di tradizioni; Organizzare l’altruismo (2010, con T. Treu), rivolto al cambiamento di sguardo sui processi e sui modelli economico-finanziari e al ripensamento delle loro scale di priorità; e infine La nostra Europa (2013, con E. Morin), una riflessione sulla cultura e sulle identità europee, per affrontare la crisi antropologica della politica, della società e dell’economia, in una visione comunitaria e solidale della civiltà umana globale. Mentre si sciorinavano queste tue ricerche e pubblicazioni di un lungo ventennio, le attività di formazione e di divulgazione culturale in cui ti sei parallelamente impegnato – e in cui grazie a dio mi hai sempre coinvolto – sono state innumerevoli e di straordinaria qualità epistemologica, a partire dalla ripetuta traduzione, presso vari editori, dei volumi de La méthode, l’opera lungamente in fieri di Edgar Morin, ai quali avevano cominciato ad aggiungersi in contrappunto, sempre a tua cura o supervisione editoriale, le sue
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riflessioni sui temi di una nuova antropologia della politica, di una radicale trasformazione dell’educazione e, infine, di una complessa ecologia della civiltà planetaria. Fu in questi ambiti, soprattutto, che si intensificò e si approfondì, a partire dalle lunghe passeggiate di discussione, la nostra collaborazione bergamasca, continuamente rivolta alla costruzione di incontri pubblici, cicli di conferenze, convegni transdisciplinari e tanti altri momenti, piccoli e grandi, di pubblica formazione. Presso la casa editrice Pierluigi Lubrina, della quale tenni la direzione editoriale per qualche tempo, avevi fondato la collana Oikos, che poi divenne anche rivista e centro di iniziativa culturale e attorno alla quale si era radunato, con pubblicazioni e partecipazione al dibattito che vi si svolgeva, un nutrito gruppo di studiosi e ricercatori. Fra i libri allora pubblicati, personalmente sono rimasto molto legato al rivelatore L’ora d’inebriarsi del canadese Hubert Reeves, a L’ipotesi del campo Ψ di quello straordinario pianista del pensiero che è Ervin Laszlo, a L’evento e l’osservatore del mio antico compagno di lotta, e filosofo a Pisa, Alfonso Maurizio Iacono. Ma soprattutto ripenso alla traduzione di un altro testo per me miliare di Edgar, Per uscire dal ventesimo secolo (1989), il libro che, insieme a Pensare l’Europa e a Terra-patria, ci avrebbe preparato e aiutato a comprendere tutta la valenza antropo-politica della rivoluzione di velluto dell’Ottantanove. Ricordo che Edgar venne a discutere anche con me dei temi di quel libro, quasi per accertarsi che io ne fossi, esistenzialmente prima ancora che culturalmente, il degno “genitore italiano” (come mi definì poi generosamente nella dedica sulla mia copia); e per farmi, di fatto, capire che la comprensione piena di quel suo lavoro non poteva prescindere dalla lettura del Diario di un libro, da lui scritto, in modalità work in progress, proprio durante la stesura di Per uscire, intrecciando in un’unica trama inestricabile assunti epistemologici, problemi politici, temi epocali, vicende sentimentali personali e accidenti quotidiani di varia natura. Che meravigliosa conferma! Scoprivo che anche per Edgar lo sviluppo del pensiero e la costruzione della conoscenza funzionavano nella densità di quell’intreccio di vita vissuta e cultura in cui avevano e avrebbero funzionato anche per e fra noi due; e capivo ancor meglio quanto fondativo e fecondo fosse stato e fosse per me il tessuto della nostra amicizia. Fu anche per questa
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ragione che accettai subito la tua proposta di inserire nel piano editoriale della nascente casa editrice Moretti&Vitali la traduzione di tutti i diari di Morin allora disponibili, da L’autocritica a Il vivo del soggetto a Diario di California: “questi sono i libri di Edgar che resteranno, come per Montaigne”, mi dicesti. E qualcosa di analogo avvenne anche quando, nel contesto concitato ed esaltante (ricordo ancora la tua commossa telefonata, la sera del 9 novembre, ciascuno appiccicato al proprio televisore) della recentissima caduta del muro di Berlino, veniste, tu, Edgar e Gianluca, a scrivere (le ultime pagine letteralmente in tipografia) quel vostro Turbare il futuro. Un nuovo inizio per la civiltà planetaria (1990), con il quale Enrico Moretti e io inaugurammo le pubblicazioni della neonata casa editrice, cercando di darle una cifra e un compito da subito chiari. Insomma, pensare e vivere, studiare e chiacchierare, appassionarsi e capire sono stati sempre, per noi, l’ordito della tessitura continua e complessa di un’unica antropologia esistenziale e conoscitiva. Tant’è vero che poi, entrambi divenuti insegnanti – io al liceo e tu ordinario e poi preside di facoltà all’università – riversammo nel confronto sui problemi dell’educazione scolastica e della formazione civile queste modalità delle nostre discussioni. Personalmente, lavoravo a partire dai libri che tu curavi e/o proponevi in quegli anni, da La testa ben fatta (1999) di Edgar a Educazione e globalizzazione (2004) tuo e di Gianluca, per arrivare a progettare forme e modi dell’intervento didattico concreto che cercavo di mettere in atto; e per mantenere un taglio epistemologico e di antropologia della civiltà nelle varie manifestazioni culturali che venivo organizzando per il Comune e altri enti in quegli anni, più volte con la tua collaborazione, diretta o in retroscena che fosse. Anche quando il mio lavoro si orientò quasi esclusivamente, come è ora, alla poesia contemporanea e alla scrittura letteraria, il riferimento alla tua elaborazione e al taglio della tua impostazione culturale rimase fertile ed essenziale. E non è un caso che, fra i miei amici-maestri di allora e che ora mi hanno lasciato il vuoto e il rimpianto della loro scomparsa – come Gigi Meneghello, Fernando Bandini, Mario Rigoni Stern, Rossana Rossanda, Raffaele Crovi … – non posso non ricordarti la figura dolcissima di un amico comune, che ora mi manca molto, Predrag Matvejević: rammento ancora con malinconia quel primo
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mattino del febbraio ’17, la tua voce al telefono, rotta e intrisa d’angoscia, che mi chiamava a condividere il dolore per quella morte crudele, avvenuta nella dimenticanza, nella solitudine e nella miseria, di una persona meravigliosa per noi importante e per la quale da più parti si era reclamato inutilmente, proprio in quei giorni, il premio Nobel. Furono attimi di tristezza infinita e non sapemmo consolarci. Ma, poco prima, erano arrivati per noi anche i dissapori e i conflitti con istituzioni e antagonisti locali e vi erano stati tentativi più o meno pesanti ed espliciti di bloccare o di arginare i progetti che venivamo attuando, tu nell’ambito della tua docenza e direzione universitaria, io in quello della promozione culturale comunale, e che in parte eravamo riusciti a far convergere in alcune importanti manifestazioni. Di fronte agli ostacoli, alle incomprensioni e alle ostilità di quei lunghi mesi, tu, con la solita lungimiranza e con lo stile che hai sempre avuto, scegliesti di cambiare il terreno di gioco e io, per una volta (e contro il mio abituale costume guerrigliero), ti diedi retta e feci come te. Così ce ne andammo da Bergamo per strade diverse, tu a fare il senatore a Roma ed io a fare l’insegnante a Bratislava; e fu la nostra seconda lunga separazione. Tuttavia, anche questa volta, nonostante i tuoi nuovi e prestigiosi impegni e la mia lontananza geografica, sei riuscito a mantenere i contatti con me; e tu e poi Gianluca siete venuti in diversi momenti a trovarmi in Slovacchia per partecipare, presso sedi prestigiose come il Parlamento slovacco o il Ministero della Cultura, ad alcune iniziative sul progetto politico e la visione dell’unità europea e sull’analisi della poliforme crisi planetaria di civiltà, che erano poi i temi oggetto delle tue pubblicazioni di quegli anni e che io provavo a promuovere, per il tramite del mio Gymnàzium e dell’Ambasciata, presso gli studenti e i colleghi slovacchi e la vasta comunità italiana e italofona di lassù. Dai colloqui che pur tenevamo fra noi in quegli anni e dalla lettura dei tuoi libri mi venivo persuadendo che nella tua riflessione stesse arrivando a maturazione un passaggio di qualità e – se posso dirlo – di complessità che sposava sempre di più i due versanti, quello dell’ecologia della conoscenza e del sapere e quello dell’antropologia della politica e della storia, che si erano prima differenziati nelle due linee principali della tua riflessione episte-
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mologica e delle tue pubblicazioni. Non che prima, quelle due direzioni di pensiero fossero separate – e quando mai! –, ma ora, forse anche per via del tuo impegno politico diretto, esse si fondevano meglio, caratterizzandosi come due apporti fondamentali a un’unica lettura dello stato delle cose, a una visione unificata del destino dell’umanità, a un solo grande progetto di futuro per il mondo. Mi sbaglierò, ma è come se, di fronte alle insufficienze e ai fallimenti della politica, da un lato, e alle dimissioni e ai disorientamenti della cultura, dall’altro, tu avvertissi sempre di più l’urgenza di un cambiamento epistemologico e antropologico profondo, che spostasse più avanti non solo il quadro delle analisi, ma che ampliasse e modificasse gli scenari stessi della riflessione. Sentivo – e partecipavo – come un’inquietudine di fondo nel tuo discorso sulle cose, una sorta di ansia progettuale e una ricerca pressante di interlocuzione, come se temessi di cadere in una condizione di solitudine afasica, di isolamento concettuale, che forse solo il continuo confronto con Edgar ti consentiva di dominare e rielaborare. Per questo, rientrati ormai entrambi a Bergamo, avevo letto – e presentato ovunque mi chiamassero a farlo – il tuo bellissimo libro del 2018, Il tempo della complessità, come un grande appello a una rinnovata e urgente antropologia della civiltà planetaria, come un manifesto per l’elaborazione di nuovi linguaggi e, quindi, per l’educazione a nuovi i modelli del pensare e dell’agire, a cui obbliga le nostre coscienze la crisi dilagante, e per certi aspetti esiziale, dell’umanità planetaria. A proposito di questo tuo libro, poi, ricorderai che avevo subito trovato entusiasmante, e foriero di rinnovate speranze, il fatto che l’elaborazione che tu vi avevi raccolto si ponesse perfettamente in sintonia e in dialogo con l’intento della lettera enciclica Laudato si’ di papa Francesco, un testo informato da una grande visione di civiltà e da un’autentica progettualità antropologica, la cui accoglienza, però, nel pubblico dibattito politico-culturale e nella stessa Chiesa mi era parsa – e mi pare ancora – superficiale e riduttiva, chiusa nei vecchi parametri di valutazione e quindi rimossa nei suoi nuclei fondamentali. Era, invece e innanzitutto, una rinnovata ecologia della mente e del cuore quella che il pontefice proponeva a tutto il mondo della cultura e della formazione e, pertanto, all’umanità intera; e tu rispondevi a una tale richiesta di riflessione e di con-
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fronto assumendone tutta l’urgenza e l’importanza in un condensato vivo e vitale di tutta la tua lunga elaborazione filosofica, straordinariamente pertinente e rivelatrice. Persino la lingua letteraria della tua scrittura raggiungeva, se possibile, la maturità stilistica di una maggiore pienezza comunicativa e si faceva particolarmente avvincente. Nello sconforto intellettuale ed esistenziale che, in quei mesi di inizio pensionamento, mi pareva di patire senza riuscire a venirne a capo, si allargavano degli squarci che finalmente mi permettevano di riaprire, ancora una volta, la partita per la quale avevo ritrovato il mio formidabile compagno di gioco. Ancora una volta, insieme a te, riflessione culturale e vita quotidiana si ricucivano nella stessa ricerca di senso e di valore. Per giunta con il conforto di avvertire nuovamente di non essere solo. Per questa ragione, quando arrivò la pandemia, mi sono sentito – e trovato – psicologicamente attrezzato ad affrontarne lo sconvolgimento e gli interrogativi, come fossi fortificato da un riconsolidato affiatamento intellettuale e da una intensificata solidarietà affettiva con te. Durante i lunghi mesi d’isolamento claustrofobico del primo terribile lok-down, ci siamo sentiti al telefono più volte al giorno, come se dovessimo fare insieme un lavoro importante. E, in un certo senso, era davvero così. Certo, niente a che vedere con le passeggiate sui colli, ma ugualmente la nostra conversazione era continua e capace di portarci a riflettere, con la stessa intensità, sui piccoli e tristissimi fatti quotidiani, come sui grandi e strazianti avvenimenti collettivi. Fatto sta che, in quel diuturno colloquio, mi hai reso partecipe e co-protagonista di una lettura dell’esplosione planetaria dell’infezione Covid-19 come segno tangibile e perverso di una immane crisi evolutiva del rapporto inestricabile fra civilizzazione umana e condizioni di sopravvivenza della vita umana nell’intero pianeta. Peste, Guerra e Terremoto, i terribili flagelli che storicamente avevano sempre devastato le società umane, si traducevano oggi nelle forme endemiche e interrelate di una globale multi-crisi, pervasiva della stessa vita quotidiana delle persone e intrisa di quella vocazione autodistruttiva che l’umanità aveva scoperto in se stessa nelle grandi tragedie del Nocevento. E cioè: una crisi sanitaria permanente e indominabile, legata alle diramazioni della pandemia; una crisi ecologica legata al cambiamento del clima, accentuato dall’inquinamento e dallo sfruttamento della terra;
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una crisi geopolitica, determinata dalla persistenza, nei più diversi scenari, della guerra, che presto, per giunta, sarebbe ritornata in Europa. E così, mentre io cercavo di inquadrare nella consapevolezza di questa crisi i miei lavori di antropologia della scrittura poetica e letteraria contemporanea, tu ti impegnavi in un’opera di divulgazione e di educazione culturali, praticamente senza sosta. Non solo articoli, interviste e interventi, mai prima così frequenti e continuativi, ma un rilancio, alla portata di qualsiasi tipo di interlocutore, della sfida cognitiva che, oggi più che mai, investe l’uomo nel rapporto che intrattiene sia con se stesso che con la realtà, nel libro Abitare la complessità (2020, con Francesco Bellusci) e nelle, di fatto, “guide alla lettura” della visione evangelica e antropologica, espressa nelle due encicliche di papa Francesco: Sulla stessa barca (2020, per la Laudato si’) e Il secolo della fraternità (2021, ancora con F. Bellusci, per la Fratelli tutti). Constatare, ancora una volta, la forza, il coraggio e la determinazione di questa tua concezione dell’impegno culturale e civile, persino volendo prescindere dalla sua indubbia qualità e pregnanza, è stato ed è fonte di grande consolazione e di forte speranza in me e, son certo, in tutti coloro che ti vogliono bene e si fidano di te. Ebbene, caro Mauro, credo di poter chiudere qui questo racconto che vorrei ti arrivasse, per il tuo settantesimo genetliaco, come un attestato di grande riconoscenza e di affezione sincera. Certo, non servirà a colmare, neppure in parte, il grande debito di amicizia che ti porto, ma almeno a dare un’idea di quanto esso sia incardinato nella mia memoria e nella mia consapevolezza. L’ho dovuto mascherare in una sorta di recensione bio-bibliografica dei tuoi studi e della tua opera, forse un po’ goffa e certo incompleta, per via di quella ancestrale ritrosia, che tu ben conosci, a esporre senza schermo il nucleo profondo e vivo dei sentimenti. Ma tu sai bene quanto sia stato importante per me trovare ogni volta dimora nella tua vicinanza intellettuale, nella tua affettuosa presenza e nella tua solidale e continua condivisione della ricerca di un senso da dare alle cose della vita. Solo con pochissime altre persone (che le dita di una sola mano bastano e avanzano a contare) mi è stato possibile, seppur su piani esistenziali diversi, vivere così profondamente l’amicizia e plasmarne la materia speciale di fedeltà e devozione reciproca. E tuttavia mi ritengo molto fortunato.
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Per questo, ora che ci incamminiamo insieme verso occidente, come a voler rendere il viaggio più piacevole e leggero, ho voluto regalarti una bella storia. Una storia lungamente affascinante. Una storia vera, per mia fortuna. Una storia che ho avuto il privilegio di conoscere bene, la possibilità di condividere e, ora, il piacere di poter raccontare. La tua storia mia.
FILOSOFIE Collana diretta da Pierre Dalla Vigna 800. Enrico Cipriani,Il fantastico mondo del linguaggio 801. Giacomo Cozzi, Daedala tellus. La Natura nel Quattrocento 802. Paolo Del Debbio, L’oikonomia aristotelica nell’insegnamento universitario tra Due e Trecento 803. Marco Favaro, La maschera dell’antieroe. Mitologia e filosofia del supereroe dalla Dark Age a oggi 804. Rossella Bonito Oliva, Etica in figure, a cura di V. Carofalo e D. Salottolo 805. Alberto Postigliola, Filosofia e politica nel secolo dei Lumi. Studi su Montesquieu e Rousseau, a cura di Mariassunta Picardi 806. Luciano Arcella, L’uomo: un accidente culturale 807. Lucrezia Fava, Heidegger e la gnosi 808. Giacomo Pezzano, 4 minuti. Filosofia per i tempi che corrono 809. Lorenzo Manera, Elementi per un’estetica del digitale. Media interattivi e nuove forme di educazione estetica 810. Sergio A. Dagradi, Nel vuoto. Tra filosofia e senso dell’esistenza umana 811. Claudio Crivellari, Educazione e formazione. Spunti di riflessione tra filosofia e pedagogia 812. Marco de Paoli, Campanella. La città del sole. La percezione magica del mondo e l’utopia 813. Georges Noël, La Logica di Hegel, a cura di Mauro Cascio 814. Piergiorgio Della Pelle, Croce e Pareto. Sulla scienza sociale (1891-1897) 815. Giacomo Marramao, Pasolini inattuale. Corpo, potere, tempo 816. Antonio De Simone, Il destino del presente. Storia, tempo e vita. Simmel e noi 817. Lorena Grigoletto, Lógoi. Sul sentiero “Orfico-pitagorico” di María Zambrano 818. Marco di Feo, Fondamenti di olologia. Ontologia del mondo della vita nella prospettiva dell’intero 819. Antonio Lizzadri, Dal realismo scientifico al realismo interno. Putnam verso il pragmatismo 820. Michel Henry, Filosofia e fenomenologia del corpo. Saggio sull’ontologia biraniana, traduzione, postafazione e cura di Gaetano Iaia 821. Claudia Caneva, I diversi modi di dire persona 822. Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Sistema dell’intera filosofia e della filosofia della natura in particolare, a cura di Andrea Dezi 823. Mikel Dufrenne, Per una filosofia non teologica, a cura di Roberto Revello 824. Alessandro Nannini, Al di qua del logos 825. Edoardo Raimondi, Hegel tra Alexandre Kojève ed Eric Weil. Storia, filosofia e politica all’ombra del Sapere Assoluto 826. Francesco Brancato, L’enigma sinfonico 827. Leopoldo Sandonà, Dialogica filosofica 828. Annalisa Caputo (a cura di), Filosofia e istituti tecnici 829. Patrizia Fantozzi, Della Croyance al cinema. A partire da Gilles Deleuze
830. Franco Ricordi, Filosofia del cuore. Pascal, l’Occidente e la Sovrapolitica 831. Adelchi Scarano, La formazione dei medici. Scienza e relazione 832. Giovan Battista De Gattis, Essere adulto nella società 5.0 833. Cecilia Nobili, Riccardo Saccenti (a cura di), Filosofia e convivialità. Dall’antichità al Medioevo 834. Francesco Giuseppe Trotta, Tragedie e salvazioni. Studio su Unamuno e Ortega y Gasset 835. Antonio De Simone, Lo spirito del mondo. L’inquietudine del divenire. Scritti su Hegel 836. Francisco Suárez, L’unità individuale e il suo principio. La V Disputazione Metafisica 837. Mario Tronti, Hobbes e Cromwell. Con un’appendice di scritti sul politico, a cura di Damiano Palano, postafazione di Michele Filippini 838. Voltaire, Herbert Marcuse, Che cos’è la tolleranza, a cura di Pierre Dalla Vigna 839. Giovanni Scoto Eriugena, Il cammino di ritorno a Dio. Testi tratti dal Periphyseon, a cura di Vittorio Chietti 840. Matteo Losapio, Dèi Respinti. Metafisica degli scarti 841. Fabienne Brugère, L’etica della cura 842. Livio Rossetti, Ripensare i presocratici. Da Talete (anzi da Omero) a Zenone 843. Elisabetta Di Stefano, Estetica urbana. Atmosfere e artificazione negli spazi della città 844. Leonardo Pricoli, L’energia dell’uomo. Il tema della diversità nel pensiero di Wilhelm von Humboldt 845. Antonio G. Balistreri, La scritttura come scoperta 846. Graziella Travaglini, La catarsi in Aristotele, tra mimesis e phantasia 847. Alessandro Nannini, Il segno e l’immagine. Estetica e semiotica delle arti da Du Bos a Lessing 848. Carmen Metta, Studi sulla funzione espressiva e sulla filosofia della cultura. Un commento al Nachlass di Ernst Cassirer 849. Sara Pasetto, L’idea di Europa nel pensiero di Edmund Husserl. Attualità e inattualità 850. Paolo Landi, L’insieme e il sistema 851. Franco Di Giorgi, Il negativo e l’attesa. Riflessione intorno alla Shoah a partire da Primo Levi 852. Mariaenrica Giannuzzi, Il male della natura. Critica della violenza, letteratura, storia naturale 853. Ariel Pennisi, Adrián Cangi, L’Anarca . Filosofia e politica in Max Stirner 854. Antonio De Simone, Jacques Derrida. L’impossibile, la politicità dell’umano e il bestiario filosofico 855. Giuseppe Dambrosio, Spazio delle mie brame, Riflessioni sul potere, lo spazio e l’educazione diffusa, Postfazione di Francesco Muraro 856. Guglielmo Forni Rosa, Che cos’è il Novecento? Trentaquattro filosofi a confronto 857. Marcello Ostinelli (a cura di), Dibattiti filosofici. Da Marx a Habermas 858. Anselmo Aportone (a cura di), Presupposti e pregiudizi. Elementi di critica della conoscenza e critica dei preconcetti 859. Susan Petrilli, Oltre il significato. La Significs di Victoria Welby. Significatività e filosofia del linguaggio
860. Stefano Vastano, Filosofia dell’effervescenza. Estetica, etica e politica nel pensiero di Peter Sloterdijk, Prefazione di Peter Sloterdijk 861. Luisa Brotto, Attraverso e oltre il limite. Sulla nozione di fides nell’opera di Giordano Bruno 862. Raffaele Mariano, La filosofia contemporanea italiana Studi hegeliani, Mauro Cascio (a cura di) 863. Emilio Garroni, Colore, semiologia, televisione, a cura di Maurizio Ricci 864. Francesco Nasini, Il singolo e la verità Kierkegaard e l’ermeneutica di Pareyson, Presentazione di Umberto Regina 865. Filippo Moretti, Alterità e porssimità di Dio 866. Alessandro Montefameglio, La filosofia dello spazio di Gilles Deleuze 867. Antonio De Simone, Romanzo occidentale., Volponi e noi Stenogrammi di filosofia, letteratura e politica 868. Fabrizio Lomonaco, Il comune nel pensiero dei moderni. Grozio, Hobbes, Spinoza, Vico 869. Manuele Bellini (a cura di), La scrittura e l’estetico. Omaggio a Gabriele Scaramuzza 870. Manuel Bertolini, Rosario Diana, La Città del Sole di Campanella. Fra filosofia e teatro, Introduzione di Manuela Sanna
Finito di stampare nel mese di ottobre 2023 da Digital Team – Fano (PU)