Direttori: Mauro Ceruti e Giuseppe Gembillo Imre Toth e la filosofia della matematica [First ed.] 9791255490272


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Table of contents :
Imre Toth e la filosofia della matematica

Autore: a cura di Francesco Crapanzano e Fabio Gembillo
ISBN: 9791255490272

Francesco Crapanzano, PhD. in “Metodologie della Filosofia” presso l’Università di Messina, ha l’Abilitazione per professore associato in Storia della Filosofia e in Storia e Filosofia della Scienza.
Ha all’attivo numerose pubblicazioni fra le quali Jean Piaget epistemologo e filosofo (Messina 2009), Koyré, Galileo e il “vecchio” sogno di Platone (Firenze 2014), La scienza antica come filosofia: Pierre-Maxime Schuhl (Roma 2021).

Fabio Gembillo (Messina 1980) è professore Associato di Storia della Filosofia presso l’Università di Messina. Nel 2023 ha conseguito l’abilitazione a professore ordinario nel settore scientifico disciplinare M-Fil/06. È socio fondatore del Centro Studi Internazionale di Filosofia della Com­plessità “Edgar Morin”. Tra le sue monografie: Ortega y Gasset critico del pensiero classico tedesco (Napoli 2009); Conoscenza ed etica nel pensiero di Edgar Morin (Roma 2018). In questa collana ha pubblicato José Ortega y Gasset e la Storia della Filosofia (2020) e ha curato la pubblicazione degli Atti di una ricerca internazionale, da lui diretta, sul tema Complessità ed etica (2022).

In copertina:
Umberto Boccioni, Elasticità 1912, olio su tela, 100×100



Indice

Francesco Crapanzano – Fabio Gembillo
Imre Toth storico e filosofo della matematica

Annamaria Anselmo
Le ragioni e le emozioni in Imre Toth
1. Imre Toth “uomo intero”
2. La paura carburante per la riconquista della dignità
3. La ricerca del giusto daimòn
4. L’antisemitismo forma endemica della cultura occidentale
5. La matematica événement de l’esprit
6. Non numerare sed ponderare
7. La geometria non euclidea fonte d’ “incremento cognitivo”
8. L’uomo è di “stirpe divina”

Karine Chemla
Échanges orageux avec Imre sur la diversité des mathématiques

Francesco Crapanzano
Imre Toth amicus Plato … sed magis amica mathematica
1. Imre Toth e la filosofia
2. Il problema della misura come chiave di volta del pensiero antico
3. Platone: un fascino matematico che oltrepassa le epoche
Conclusioni

Amélie Dessens
Le fonds Imre Toth à la bibliothèque universitaire de Sienne. Pistes d’exploration
Le fonds Toth dans sa complexité
Explorer la vie et le réseau intellectuel d’Imre Toth à travers les archives déposées à Sienne
La correspondance
La bibliothèque
Le fonds d’archive comme reflet du travail du chercheur
Sources, lieux et méthodes de travail
La publication
Conclusion

Francesco Di Benedetto
Geometria e politica: la misura della diagonale come antidoto alla demagogia
Premessa
L’arte impossibile: educare i figli
La retorica: una “cosa irrazionale”
Non trascurare la geometria
La giusta misura

Ágnes Erdélyi
Imre Toth, Künstler-Person
Epilog

Francesca Ervas
“Tu me penses, donc je suis”. Imre Toth e la tradizione come creazione di spazi non-euclidei

Fabio Gembillo
In che senso Imre Toth proclama la libertà di dire NO!
1. L’assioma di scelta del Soggetto
2. Ciò che il Soggetto apprende grazie a ciò che ha scelto

Giuseppe Gembillo
La filosofia consapevole di Imre Toth e la matematica come libera creazione del Soggetto
1. Premessa
2. La rivoluzione mentale di Toth

Giuseppe Giordano
“Ex oriente lux”. La nascita della filosofia e l’identità dell’Occidente tra Hegel e Toth

Vittorio Hösle
Antieuclideo o non euclideo? Tertium datur!
Alcune riflessioni metodologiche sulla storia della scienza in occasione dell’accusa
di anacronismo rivolta all’interpretazione di Aristotele da parte di Imre Tóth
I. Introduzione
II. L’obiezione che Tóth commetta anacronismi
III. L’argomentazione di Tóth
IV. Proclo su rette asintoticamente parallele
V. Quale alternativa alla geometria euclidea fu considerata per prima? E le riflessioni furono di natura antieuclidea o non euclidea?
Letteratura

Antonio Moretto
Tre momenti della mia frequentazione con Imre Toth: Tübingen, Regensburg, Verona
Introduzione
Tübingen
Regensburg
Verona
Conclusione

Francesco Oliveri
Imre Toth e i conservatori

Alberto Olivetti
Imre Toth, tra autoritratti e collages

Teodosio Orlando
Considerazioni metafilosofiche su Imre Toth

Gaspare Polizzi
Il lògos àlagos, tra matematica e filosofia

Siegmund Probst – Karine Chemla
Lo scienziato Imre Toth

Romano Romani
La matematica come manifestazione della spiritualità umana: in dialogo con il platonismo di Imre Toth

Fabiana Russo
Imre Toth, perché “NO”?

Philippe Séguin
Herbert Mehrtens, lecteur et continuateur de Imre Tòth dans son ouvrage Moderne Sprache Mathematik
1. Die Moderne
2. Littérature et mathématiques
3. Le problème de la réception
4. Conclusion en forme de suggestion
Bibliographie

Fiorenza Toccafondi
Su Toth, Frege e la memoria

Andreas Becker – Christian Reiss
Imre Toth e la storia della scienza a Regensburg – un volume collettivo e una mostra virtuale

Paul Schillinger & Siegmund Probst
Bibliografia di Imre Tóth (1921-2021)

Indice
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Direttori: Mauro Ceruti e Giuseppe Gembillo 
Imre Toth e la filosofia della matematica [First ed.]
 9791255490272

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Tutte le pubblicazioni dell’ Armando Siciliano Editore, per libera scelta aziendale, non vengono date in distribuzione alla società Amazon non ritenendola adatta alla promozione dei nostri testi né in Italia né all’estero

BIBLIOETERA - INTERAZIONI Collana del Centro Studi Internazionale di Filosofia della Complessità “Edgar Morin” Direttori: Mauro Ceruti e Giuseppe Gembillo 21 Direttori di sezione: Messina: Annamaria Anselmo e Giuseppe Giordano Bergamo: Gianluca Bocchi, Chiara Brambilla e Anna Lazzarini Milano: Luisa Damiano Torino: Chiara Simonigh Parigi: Luciano Boi Montpellier: Sabah Abouessalam Keele: Giuseppina D’Oro Madrid: José Luis Solana Ruiz Città del Messico: Alexandre De Pomposo e Pedro Orozco Gomez Guadalajara: Enrico Manuel Luengo Gonzalez Buenos Aires: Leonardo Rodriguez Zoya Montevideo: Luis Carrizo Lima: Teresa Salinas Guayaquil: Juan José Rocha Espinosa Rio de Janeiro: Nurimar Maria Falci San Francisco: Alfonso Montuori e Jennifer Wells Berkeley: Fritjof Capra Comitato editoriale: Fabio Gembillo (coordinatore), Fabiana Russo (segretario), Maria Rita Abramo, Costanza Altavilla, Carmelo Casella, Antonella Chiofalo, Francesco Crapanzano, Adele Foti, Edvige Galbo, Guido Gembillo, Maria Laura Giacobello, Gaetano Giandoriggio, Giuliana Gregorio, Marica Magnano San Lio, Cesare Natoli, Letizia Nucara, Flavia Stramandino, Angela Verso. La Collana, edita anche on line “via etere” (BIBLIOETERA) e a stampa (INTERAZIONI), comprende testi sulla Complessità nella lingua-madre dei singoli autori.

IMRE TOTH e la filosofia della matematica a cura di Francesco Crapanzano e Fabio Gembillo

Armando Siciliano Editore

Pubblicazione del Centro Studi Internazionale di Filosofia della Complessità “Edgar Morin”, con un contributo dell’Università degli Studi di Messina.

ISBN 979-12-5549-027-2

Copyright © 2023

Armando Siciliano Editore - Messina www.armandosicilianoeditore.it [email protected]

Imre Toth storico e filosofo della matematica La matematica, secondo una tradizione che per la verità continua a caratterizzare l’insegnamento di essa nelle nostre scuole di ogni ordine e grado, è stata a lungo considerata come una disciplina oggettiva, rigorosa e quindi inconfutabile. Da quando Galilei e Keplero hanno assegnato alla geometria euclidea il ruolo di struttura ontologica sia della mente di Dio sia della Realtà naturale, essa è stata intesa come il “linguaggio perfetto” di tutte le scienze degne del nome. A poco sono valse le ridefinizioni che hanno portato alle geometrie non-euclidee e alla geometria frattale perché gran parte dei matematici ha cercato di “rimettere le cose a posto” spostando il centro di interesse dalla geometria all’aritmetica e al connubio di quest’ultima con la logica formale. Tuttavia già verso la fine dell’Ottocento Henri Poincaré e George Cantor hanno avviato un ripensamento radicale dei fondamenti della matematica che ha di fatto corroborato la vecchia ipotesi di Vico secondo la quale essa sarebbe un’invenzione interamente umana. Tutte queste vicende hanno imposto la necessità di una ricostruzione storica dello svolgimento del pensiero matematico e, di conseguenza, la connessa necessità di una riflessione filosofica approfondita sulla sua connotazione e sul suo significato. Tra coloro che hanno sentito come imprescindibile l’esigenza di ripensare la matematica, un ruolo fondamentale ha avuto, nel nostro tempo, lo storico e filosofo della matematica Imre Toth. In ragione di ciò, un gruppo di studiosi operanti all’interno dell’Università di Messina e del Centro Studi Internazionale di Filosofia della Complessità “Edgar Morin” ha colto l’occasione della ricorrenza del centenario della sua nascita per organizzare un incontro internazionale sul tema “Omaggio a Imre Toth”.

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Il convegno si è svolto nei giorni 2-3 febbraio 2022 nella sala dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti e in collegamento telematico. Il presente volume ne raccoglie gli atti; essi, frutto delle intense giornate di studio, hanno offerto un’ampiezza di temi e complessità di spunti da non permettere l’individuazione di un filo conduttore senza che ne venisse in qualche misura “mutilata” la ricchezza. Per tale motivo, si è scelto di presentarli in forma per così dire “genuina”, senza la sovrapposizione di analisi e giudizi che, tirandone le somme, avrebbero forse costituito un ostacolo più che uno stimolo alle riflessioni future le quali - già s’intuisce - saranno di notevole fecondità. Il volume è stato patrocinato, unitamente al convegno, dalle seguenti istituzioni scientifiche e culturali, che da tempo sostengono le nostre iniziative: - Centro Studi Internazionale di Filosofia della Complessità “Edgar Morin” - Messina; - Accademia Peloritana dei Pericolanti - Messina; - California Institute of Integral Studies - San Francisco - Usa; - Università degli Studi di Messina; Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne - Messina; Dipartimento di Scienze Cognitive, Pedagogiche, Psicologiche e degli Studi Culturali - Messina; Istituto Italiano per gli Studi Filosofici - Napoli; Polo Umanistico Siciliano - San Marco d’Alunzio - Piraino - Ficarra; Società Filosofica Italiana; Società Italiana di Storia della Filosofia; Rivista “Complessità” - Messina; Progetto “Eolie” - Messina; Collana “Biblioetera” - Armando Siciliano - Messina; Collana “GaiaMente”, Le Lettere - Firenze. Messina, Università degli Studi, febbraio 2023 Francesco Crapanzano - Fabio Gembillo

Annamaria Anselmo Le ragioni e le emozioni in Imre Toth

1.

Imre Toth “uomo intero”

Imre Thot è fra quei pensatori che ha sentito l’esigenza di scrivere dei diari e di raccontarsi in testi autobiografici, per spiegare e chiarire, anche a sé stesso, l’origine delle sue riflessioni filosofiche. Leggendo le opere di Toth, si può comprendere il concetto di “Uomo intero”, ovvero di uomo logico in interazione costante con la sua componente estetica e di uomo teoretico che è indissolubilmente legato alla sua parte pratica. In senso più generale, si può comprendere l’assurdità del dualismo come chiave di lettura della realtà, dualismo che ha contraddistinto per secoli la cultura occidentale e che ci ha fatto perseguire un’idea di conoscenza fondata sulla separazione della res cogitans da quella estensa, del soggetto dall’oggetto, dell’homo sapiens dalla sua parte demens. In controtendenza a questo modo di procedere, Imre Toth, utilizzò un’espressione di Humberto Maturana che penso possa aiutarci a descriverlo, è un pensatore che ha messo l’oggettività tra parentesi e che anzi ha più volte sottolineato l’idea secondo cui, per dirla questa volta con Edgar Morin, parlare di conoscenza oggettiva sia “cadere nel peggiore dei soggettivismi”, ovvero quello di non riconoscere il ruolo imprescindibile del soggetto nel processo di conoscenza1. (1) Per un approfondimento di queste tematiche e della relativa bibliografia rimando

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Annamaria Anselmo

Per fortuna, secondo Toth, è venuta ormai meno «l’idea positivista di eliminare ogni intervento soggettivo, di togliere ogni sentimento, ogni emozione dalla ricerca, per studiare l’oggettività, le cose come sono»2.

2. La paura carburante per la riconquista della dignità Nei suoi diari, Toth è riuscito a trasmettere al lettore la sensazione di paura e di disperazione che lo ha costantemente accompagnato per la sua condizione di ebreo, in un periodo in cui gli ebrei «non erano considerati degli esseri e tanto meno degli umani» [...] «Verme, insetto, parassita», questi erano gli appellativi più comuni e «ritenevano che nessun altro termine fosse necessario»3. Più della violenza e delle umiliazioni, più della paura che sempre lo accompagnava a causa del vivere in un costante e imminente pericolo di vita, ciò di cui Toth ha sofferto maggiormente è stata la mancanza di empatia, la mancanza «di un contatto umano, del rapporto di un uomo con gli altri esseri umani»; è stata «la negazione della dignità umana»4. Tutto questo ha suscitato in lui un fortissimo senso di ribellione, di riscatto dai persecutori del suo popolo, ma anche di disprezzo nei confronti della «calma rassegnazione con cui gli ebrei accettavano le persecuzioni», con cui accettavano la perdita della dignità, la perdita della libertà. In reazione a ciò, Thot racconta che sin da giovanissimo era diventato comunista ed antiebreo: «ho condannato le loro manifestazioni di acquiescenza, scrive, i loro riti religiosi e la maniera in cui hanno accettato il degrado, ossia la negazione della loro vita»5. a G. Gembillo, Le polilogiche della complessità, Le Lettere, Firenze 2008; G. Gembillo A. Anselmo, La filosofia della complessità, Le Lettere, Firenze 2017. (2) I. Toth, Matematica ed emozioni, Di Renzo, s.i.t., Roma 2020, p. 53. (3) I. Toth, Matematica ed emozioni, cit., p. 9. (4) Ibidem. (5) Ibidem.

Le ragioni e le emozioni in Imre Toth

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3. La ricerca del giusto daimòn Biasimava quindi anche gli ebrei Toth, poiché non avevano saputo scegliersi il giusto “daimòn”. Egli riteneva che ogni individuo fosse posto sin da subito di fronte a delle scelte e che ciascuno avesse un suo stile personale nel prendere decisioni dinanzi agli eventi che si manifestavano. Secondo Toth cioè ognuno sceglie appunto a seconda del proprio “daimòn”. Il termine daimòn viene tradotto come demòne, a cui si può dare l’accezione dostoevskijana di demonio che ti possiede, oppure un’accezione mistica di “angelo”, di “spirito soprannaturale”; per Toth invece bisognerebbe utilizzare questo termine nel senso in cui lo utilizzavano i filosofi greci come “quell’entità indefinibile” con cui si dialoga, che non si impone per dominarti la mente, ma che ti stimola, ti sollecita, ti disturba per invitarti a fare delle scelte consapevoli e libere. Il daimòn così inteso si oppone all’idea di “predestinazione”, implica la libertà degli esseri umani nel compiere una scelta. Essi non sono né “burattini del fato” né “schiavi e vittime” di un dio ... «siamo liberi», scrive Toth, «abbiamo scelto questa voce interiore, che ci propone strade da seguire e tra le tante ce ne indica una in particolare»6. Siamo liberi perché «abbiamo scelto il nostro daimòn» e libertà altro non significa che fare «scelte conformi al nostro stile di vita» e «questa è la ragione per cui tutte le vite non sono identiche, perché le decisioni prese di fronte agli stessi eventi sono diverse»7. 4. L’antisemitismo forma endemica della cultura occidentale Anche se Toth condanna l’ebreo che non si oppone a questa sorta di predestinazione alla persecuzione, d’altro canto riconosce che l’antisemitismo, rispetto ad altre forme di odio dell’uomo contro l’uomo che (6) Ivi, p. 17. (7) Ivi, p. 16.

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Annamaria Anselmo

si sono concretizzate nelle diverse epoche storiche, è contraddistinto dalla particolarità di essere «non un’eccezione della storia, né un fenomeno transeunte», infatti «eccezioni sono piuttosto le personalità o i periodi» in cui l’antisemitismo è stato assente8. In altre parole, Toth ritiene che l’odio contro l’ebreo sia «una componente organica e permanente del pensiero occidentale», una particolare forma d’odio che troviamo «nella storia della Chiesa, nella storia della letteratura, in tutte le nazioni occidentali»9 come qualcosa di assolutamente naturale, come se il popolo ebreo appunto fosse predestinato. In tal senso, anche Toth si pone la domanda che tutti ogni volta ci poniamo e cioè come sia stato possibile che la cultura occidentale, che ha prodotto «il pensiero di Dante, Michelangelo, Shakespeare, Bach, Beethoven, Mozart, le grandi opere di bellezza e verità filosofica»10, abbia potuto contemporaneamente produrre, con la stesa organicità, l’antisemitismo. Ciononostante, egli rifugge sempre dalla risposta della predestinazione, poiché rifiuta qualsiasi spiegazione legata all’idea di una verità compiuta, fuori dalla Storia, non soggetta a un processo e quindi immodificabile. Rifiuta cioè di utilizzare le idee di oggettività, di apoditticità, di eternità, di definitività, di certezza come parole padrone, come chiavi interpretative o obbiettivi da perseguire. Questi concetti infatti negano la possibilità di scelta, negano l’arbitrio, negano la libertà; costituiscono il fondamento di quel determinismo meccanicistico che rende gli uomini uguali a meri ingranaggi senza storia e marchia le loro vite col segno dell’ineluttabilità. Toth si ribella a tutto questo, perché sa che ogni individuo può dire “No”11, sa che ciascun uomo è libero di scegliere. Nel giudicare (8) Cfr. I. Toth, Matematica ed emozioni, cit., p. 18. (9) I. Toth, Matematica ed emozioni, cit., p. 18. (10) Ibidem. (11) Su ciò cfr. I. Toth, NO! Libertà e creatività, trad. di A. Nociti, Rusconi, Milano 1998; cfr. anche Id., Aristotele e i fondamenti assiomatici della geometria, Vita e Pensiero, Milano 1998. Per un ulteriore approfondimento si rimanda a G. Gembillo, Le polilogiche della complessità, cit.

Le ragioni e le emozioni in Imre Toth

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questa ignominiosa pagina di storia che fu la Shoah, non si può scegliere quindi il demòne dell’oggettività e deresponsabilizzare i singoli individui che hanno presentato come naturali dei delitti raccapriccianti o che hanno pensato di scaricare la colpa di tutte le nefandezze sulle “piccole sozzure” che sono appunto endemiche alla natura umana e che quindi hanno finito col macchiare inevitabilmente anche i grandi eventi. Bisogna sempre ricordare cioè che anche la libertà è connaturata all’essere umano, la libertà di scegliere il daimon che ti fa rifiutare la via più facile e quindi più battuta; la via della pericolosissima normalità. Certo è anche vero che il nazismo è stato in tal senso l’esempio più eclatante, nella storia, di distruzione della genialità, in nome del demòne della normalità; il nazismo «ha conservato la mediocrità e l’ha divinizzata» ... «mai, come durante la dominazione nazista, la mediocrità, da sempre presente nell’umanità, ma vissuta fino a quel momento in uno stato di inferiorità costante, è emersa in maniera prepotente per cancellare la grandezza»12. Il nazismo ha slatentizzato e radicato la tendenza, già presente in una parte di umanità, a ridicolizzare i Grandi, facendoli apparire come stravaganti, folli, comunque come “non normali”; ha eretto “la mediocrità a culto” e la cosa più grave è che ha innescato un processo di polarizzazione, ovvero un cambio di atteggiamento e un conseguente processo di retroazione positiva all’interno dei sistemi sociali: “il culto della mediocrità” ha continuato così a rafforzarsi e a radicarsi13. (12) I. Toth, Matematica ed emozioni, cit., p. 23. (13) Sui concetti di retroazione negativa e retroazione positiva e di polarizzazione rimando a N. Wiener, Introduzione alla cibernetica, trad. di D. Persiani, Bollati Boringhieri, Torino 1982; H. von Foerster, Sistemi che osservano, trad. di B. Draghi, Astrolabio, Roma 1987; E. Morin, Il Metodo. 1. La natura della natura, trad. di G. Bocchi e A. Serra, Raffaello Cortina, Milano 2001; G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, trad. di G. Longo, Adelphi, Milano 1997; H. Maturana - F. Varela, L’albero della conoscenza, trad. di G. Melone, Garzanti, Milano 1992; H. Maturana, Autocoscienza e realtà, trad. di L. Formenti, Raffaello Cortina, Milano 1993; N. Luhmann, Sistemi sociali, trad. di A. Febbraio e R. Schmidt, Il Mulino, Bologna 1990; F. Capra, La rete della vita, trad. di C. Capararo, Bur, Milano 2001.

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5.

La matematica événement de l’esprit

Dalla lettura delle pagine autobiografiche, si può cogliere il contesto emotivo da cui è emersa la forza di Toth nell’intraprendere un cammino che non solo lo ha condotto alla “libertà”, ma gli ha fatto trovare questa libertà persino nell’ambito specifico della sua disciplina: la scienza esatta che più di ogni altra rappresenta nell’opinione comune il regno della necessità. Prova ne sono i suoi scritti epistemologici, in cui delinea una via che nessuno aveva prima percorso. Toth è riuscito a rendere omaggio all’idea di “libertà”, proprio attraverso delle originalissime riflessioni sulla matematica. Sono stati infatti i numeri, è stata la matematica a rappresentare un événement de l’esprit, a fargli toccare con mano la libertà di poter “immaginare diversi universi coesistenti” che ci sono perché l’uomo ha la facoltà di crearli attraverso il pensiero14. In altri termini, proprio la matematica gli ha fatto comprendere la capacità dell’essere umano di mettere in moto «funzioni di pensiero molto complicate» che superano «i limiti di una logica lineare»15. Il matematico, così come il romanziere, è in grado di inventare mondi, in cui, una volta inventati, nulla può essere cambiato. Il matematico cioè è come «un autore che descrive il suo personaggio» attraverso un testo in cui decide di inserire degli elementi specifici, soggettivi che non possono essere né cambiati né tantomeno eliminati. «Esiste una scienza», scrive Toth, riferendosi alla matematica, «la più vecchia di tutte, l’unica scienza esatta, che ha la stessa struttura ontologica di un romanzo», con la differenza che il romanzo tratta di sentimenti umani e tale scienza no. «Eppure», continua, «questa scienza condivide con l’arte lo status ontologico: è più vicina all’arte, che non alla fisica o alla biologia»16; solo che la matematica rispetto all’Arte (14) Cfr I. Toth, Matematica ed emozioni, cit., p. 33. (15) I. Toth, Matematica ed emozioni, cit., p. 40. (16) I. Toth, Matematica ed emozioni, cit., p. 41.

Le ragioni e le emozioni in Imre Toth

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può essere applicata direttamente alla realtà che può modificare profondamente e più velocemente. Toth, ricordando la sua giovinezza, si descrive come uno studente di liceo molto bravo in matematica, ma che, diversamente dai suoi compagni di classe altrettanto bravi e che si sono in seguito rivelati dei veri e propri geni matematici, aveva un interesse per la «matematica da un punto di vista tangenziale, diverso»; a suo dire, questi stessi suoi compagni erano sempre molto stupiti dal fatto che egli si occupasse «di aspetti che essi consideravano futili»17. Toth infatti non era attratto tanto dalla risoluzione di rompicapo sofisticati, dai problemi e dai trucchi matematici complessi, quanto dalla «dimensione metafisica della matematica [...] in me», racconta in proposito, «agiva soprattutto una nozione non definibile: quella di valore scientifico di un’idea, che può variare nel tempo e nello spazio»18, infatti «comprendere la struttura interna di questa complessa scienza», trovare cose interessanti che avessero un valore scientifico era nettamente più difficile di produrre problemi e soluzioni; era molto più difficile «definire quello che ha o meno un valore scientifico» perché «non esistono criteri predefiniti e non si può sapere dall’inizio che cosa ha un valore»19. Ecco il motivo per cui Toth, facendo infuriare i suoi professori, preferiva rivolgersi ai grandi maestri, ai filosofi della matematica, (Leibniz, Cardano, Lambert). Questi suoi interessi gli permisero di avere come una sorta di rivelazione; ad un certo punto comprese che avrebbe potuto paragonare la figura del matematico proprio a quella del “poeta”, perché proprio come un poeta il matematico crea, inventa: «Esiste un dominio del pensiero umano», scrive in proposito, «chiamato matematica, conosciuto come una scienza razionale e molto precisa, ma che fa cose più pazze, perché è una fabbrica dell’impossibile»20. (17) Ivi, p. 36. (18) Ivi, p. 37. (19) Cfr. I. Toth, Matematica ed emozioni, cit., p. 39. (20) I. Toth, Matematica ed emozioni, cit., p. 40.

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6. Non numerare sed ponderare Dare un valore conoscitivo alla quantificazione, alla risoluzione di problemi, all’invenzione di trucchi matematici complessi, non è il senso della matematica. È riflettendo sulla Shoah e sulle sue traumatiche esperienze di vita che Toth si andava via via convincendo sempre più della validità delle sue intuizioni da liceale rispetto a questa disciplina che tanto lo affascinava. Riteneva che le schematizzazioni e le generalizzazioni, fondate su una logica lineare e quantitativa, non fossero certo lo scopo della matematica. Il calcolo non era la via per comprendere; per cogliere la poliedricità degli eventi. Anzi proprio il modo di analizzare la terrificante emergenza storica dello sterminio degli ebrei, gli aveva fatto toccare con mano come l’esprimere giudizi sulla base di cifre, e in questo particolare caso ad esempio sulla quantità di perdite di vite umane, facesse scivolare in banali e vani confronti e ricercare similitudini fra i fenomeni; in altri termini, ragionare sulla base del numero dei morti, rende l’individuo schiavo del demòne dell’uguaglianza matematica, quella che tutto omogenizza attraverso il segno uguale e che fa rimanere assai lontani dal cogliere la particolarità e la singolarità degli eventi e quindi non permette di comprenderli. Così interpretata la storia non può costituire fonte di insegnamento. Sono le esperienze di perseguitato e fuggiasco, di evaso e latitante, ad insegnare a Toth che classificare, etichettare in base a un criterio quantitativo, in base a idee di più e meno, non permette di comprendere quanto di più complesso possa esistere, ovvero le relazioni umane e, proprio in riferimento a questa convinzione, egli racconta una serie di episodi emblematici, in cui è bastato un solo uomo o una sola donna a fare la differenza, episodi in cui la differenza si trasformava in una questione di vita o di morte. «In genere», scrive in proposito, «si dice che l’eccezione non conta. Io dico che, al contrario, è soltanto l’eccezione che conta».

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Soltanto cinque Giusti, afferma facendo riferimento al passo dell’Antico Testamento in cui Abramo prega Dio di non distruggere Sodoma, «soltanto 5 giusti salvarono l’umanità»21. Non numerare sed ponderare, quindi, e ponderare non significa altro che scegliere; non significa altro che riuscire a dire “No” anche quando il Sì appare come matematicamente certo.

7. La geometria non euclidea fonte d’ “incremento cognitivo” Ma allora qual è il senso della matematica, di questa disciplina che Toth, come abbiamo scritto, definisce fabbrica dell’impossibile? Di questa disciplina che ha la stessa struttura ontologica di un romanzo, di una poesia e che quindi è nutrita da emozioni, dall’immaginazione e dalla fantasia? Toth risponde agli interrogativi, cercando di sottolineare proprio questa peculiarità rispetto ad altre scienze: «Se non può accadere che, frequentando una biblioteca dell’Istituto di zoologia, troviamo, uno accanto all’altro, il libro sugli insetti e quello sulla zoologia araldica, andando invece in una biblioteca di matematica, troviamo, veramente uno accanto all’altro, gli Elementi di Euclide e la Geometria di Nikolaj Ivanovic Lobacevskij; e ognuna di queste ‘specie’ geometriche, in essi contenute, ha ‘pari diritto di cittadinanza’»22. Sono le geometrie non euclidee che hanno finalmente permesso a Toth di trovare quella dimensione metafisica che stava cercando e che tanto lo aveva attratto da ragazzo. I testi di Gauss, Lobacevskij, Riemann hanno per lui costituito la conferma alla sua convinzione iniziale e cioè che la matematica «ha lo stesso paradigma di un’opera d’arte, di un romanzo, anche se non è un romanzo»23.

(21) Ibidem. (22) I. Toth, Matematica ed emozioni, cit., p. 43. (23) Ivi, p. 44.

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Grazie alle Geometrie non euclidee, Imre Toth è riuscito a determinare una svolta ontologica ed epistemologica che ha innescato una vera e propria polarizzazione nel sistema concettuale della cultura occidentale. Tale polarizzazione però è questa volta indirizzata verso la “libertà”. Il soggetto riesce finalmente a ribellarsi a un dominio che aveva costituito da sempre il fondamento teorico delle tirannie pratiche, il “dominio della logica”; il soggetto riesce finalmente a prendere coscienza della sua «priorità ontica ... rispetto all’oggetto del sapere»24 e quindi della sua capacità di poter dire NO anche rispetto a qualcosa che per millenni è stato considerato universale, definitivo e incontrovertibile. In altre parole, l’uomo diventa consapevole del fatto che la principale caratteristica della sua identità è quella di creare col pensiero mondi diversi, nuovi, in opposizione a quelli già esistenti. La geometria non euclidea è una geometria «che nessuno si aspettava», e che è «uscita tutta armata dalla testa della geometria euclidea, come una risposta che nessuna domanda ha preceduto, come un’offerta che non è stata preceduta da alcuna richiesta»25; ha costituito la prova fondamentale del fatto che «la ragion pura non può essere ridotta alla logica, che la Ragione ha confini «infinitamente più comprensivi, più estesi della logica»26; del fatto che l’uomo, ribadiamolo, è innanzitutto un poeta, è capace di creare un nuovo universo anche in un ambito che fino a quel momento era stato l’emblema del determinismo e dell’immodificabilità. In un ambito come la matematica in cui l’ “unicità e la necessità della verità” avevano fatto sempre da padrone. (24) Ivi, p. 79. (25) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, trad. di R. Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 77. Sull’argomento si rimanda a B. Riemann, Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria, trad. di R. Pettoello, Bollati Boringhieri, Torino 1994; N.I. Lobacevskij, Nuovi principi della geometria, trad. di L. Lombardo-Radice, Boringhieri, Torino 1974; H. Poincaré, Geometria e caso, trad. di C. Bartocci, Boringhieri, Torino 1995. H. Poincaré, Il valore della scienza, a cura di G. Polizzi, trad. di F. Albergamo, La Nuova Italia, Firenze 1994; Id., La scienza e l’ipotesi, trad. di M. G. Porcelli, Dedalo, Bari 1989; Id., Scienza e metodo, a cura di C. Bartocci, Einaudi, Torino 1997. (26) I. Toth, Matematica ed emozioni, cit., p. 43.

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8. L’uomo è di “stirpe divina” La geometria non euclidea ha dissolto in un sol colpo «l’assioma logico della non contraddizione». Certamente, è vero che il principio identitario continua a mantenere secondo Toth «la sua rigorosa validità all’interno di ciascuno dei due opposti universi», tant’è che sia la geometria euclidea che quella non euclidea, nonostante in contraddizione l’una con l’atra, sono nel loro interno logicamente coerenti; entrambe le geometrie, prese singolarmente, rappresentano, sul piano logico, un esempio di verità incontrovertibile27. Ciò che Toth contesta è l’errore epistemologico scaturito dal processo di ontologizzazione di tale coerenza logica interna alla geometria euclidea. Quell’errore in base al quale l’uomo occidentale ha scambiato l’ordine, la coerenza, la non contraddizione logica da lui creata all’interno di un mondo artificiale, con la verità assoluta e oggettiva, costituente l’essenza della vita e della realtà ad ogni livello. Ed è proprio questa idea di verità oggettiva fondata sulla certezza data fino a quel momento dalla geometria euclidea che ha indotto a pensare, come ha rilevato Barrow, che essa fosse parte della verità assoluta delle cose e che descrivesse la realtà così com’era, che non si trattasse quindi di un costrutto umano, ma che fosse la via per conquistare verità assolute anche in altri ambiti28. L’idea di «unicità della verità euclidea» ha costituito un vero e proprio dogma camuffato di razionalità e quindi ancor più pericoloso delle verità antropomorfizzate. Basti pensare che matematici e filosofi del tempo hanno definito gli inventori della cosiddetta «assurdità non euclidea»29 degli «usurpatori senza vergogna dell’onnipotenza di Dio», quasi blasfemi nell’arrogarsi «il potere di creare liberamente tutto (27) Cfr. I. Toth, Matematica ed emozioni, cit., p. 78. (28) Su ciò si rimanda a J.D. Barrow, Impossibilità. I limiti della scienza e la scienza dei limiti, trad. di I.C. Blum, Rizzoli, Milano 1999. (29) I. Toth, Matematica ed emozioni, cit., p. 77.

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ciò che gli pare»; e ancora, dei ladri poiché si sono macchiati del furto di un guadagno che spetta solo ai matematici onesti30. In ogni caso, fino a quando è stato possibile, si è accarezzata «la speranza di pervenire ... alla dimostrazione della falsità di non-E e alla assicurazione della unicità e necessità della verità di E»31 per guarire una volta per tutte da questo morbus mathematicorum recens. Le geometrie non euclidee sono invece per Toth la conferma alla sua intuizione iniziale rispetto alla natura della matematica. E il fallimento di tutti i tentativi, reiterati per due millenni, di ridurre all’assurdo il testo non euclideo (addirittura i primi frammenti di teoremi non euclidei sono pervenuti negli strati archeologici del corpus aristotelico) è prova che l’opposizione, la contraddizione non è negli oggetti prodotti dall’uomo, ma è una caratteristica che costituisce l’uomo32. Il soggetto produce paradossi, contraddizioni, ha la facoltà di negare, di entrare in opposizione, perché esso stesso è «il luogo proprio del paradosso logico all’interno dell’universo»33. L’io produce il Me e il Me «rifiuta di sottrarsi alla tirannia della logica, è di fatto incompatibile con la logica»; anzi, «ciò che si chiama

(30) Cfr. I. Toth, Matematica ed emozioni, cit., p. 52. Il riferimento è ovviamente alle posizioni di aperto disprezzo nei confronti delle geometrie non euclidee dei matematici Frege e Russel. Cfr.in proposito G. Frege, Alle origini della nuova logica. Epistolario, a cura di C. Mangione, Boringhieri, Torino 1989; Id., Ricerche logiche, trad. di R. Casati, Guerini, Milano 1999; M. Trinchero, La filosofia dell’aritmetica di Göttlob Frege, Giappichelli, Torino 1970; B. Russell, I fondamenti della geometria, trad. di A. Bonfirraro, Newton Compton, Roma 1970; Id., La mia filosofia, trad. di F. Pasquini, Newton Compton, Roma 1995; Id., La visione scientifica del mondo, trad. di E.A.G. Loliva, Laterza, RomaBari 1988; Id., Misticismo e logica, trad. di J. Sanders e L. Breccia, Newton Compton, Roma 1978. (31) I. Toth, Matematica ed emozioni, cit., p. 71. (32) Cfr. I. Toth, Matematica ed emozioni, cit., p. 71. (33) I. Toth, Matematica ed emozioni, cit., p. 42. Sul ruolo del soggetto nella scienza contemporanea si rinvia a W. Heisenberg, Indeterminazione e realtà, a cura di G. Gembillo e G. Gregorio, Guida, Napoli 2001; Id., Oltre le frontiere della scienza, trad. di S. Buzzoni, Editori Riuniti, Roma 1984; G. Gembillo, Werner Heisenberg. La filosofia di un fisico, Giannini, Napoli 1987.

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paradosso, non ha in sé nulla di paradossale, è la condizione d’essere naturale e banale del Me. Il Me è lo spazio naturale del paradosso logico: è il paradosso in sé. Un inferno per la logica»34. E «nonostante che esso sia il più importante consumatore di logica, l’Universo del sapere matematico è forse il più pertinente testimone di questa irriducibilità»35. Grazie all’emergere delle geometrie euclidee Toth, finalmente ha la possibilità di provare, per usare una espressione di Dedekind, che l’uomo è di «stirpe divina»36 poiché è capace di creare le cose attraverso il pensiero, di produrre oggetti inimmaginabili, di inventarsi addirittura nuovi universi, ma soprattutto di costituire la «dimora delle cose che non hanno esistenza se non nel sapere e per mezzo del sapere»37.

(34) Ibidem. (35) Ivi, p. 43. (36) Ivi, p. 51. (37) Ivi, p. 86.

Karine Chemla Échanges orageux avec Imre sur la diversité des mathématiques

Imre et le philologues Euclide, ca -300, Eléments. Heiberg J.L, Euclidis Elementa, 5 vols., Teubner, Leipzig 1883. Heath T., Euclid. The Thirteen Books of the Elements, translated with introduction and commentary by Sir Thomas Heath, première édition, Cup, 1908; seconde édition, 1926; 1956. Bernard Vitrac, Euclide, les Eléments, volume 1. Introduction générale (Maurice Caveing)., livre I à IV, Puf, Paris 1990. Fabio Acerbi, Euclide. Tutte le Opere, Il pensiero occidentale, Bompiani, Milano 2007.

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Euclide, Eléments (suivant Heiberg et B. Vitrac) Livre I: Définitions Un point est ce dont il n’y a aucune partie. Une ligne est une longueur sans largeur.

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Euclide, Eléments (suivant Heiberg et B. Vitrac) Livre I: Définitions Un point est ce dont il n’y a aucune partie. Une ligne est une longueur sans largeur.

Demandes (postulats, comme le célèbre cinquième) Qu’il soit demandé de mener une ligne droite de tout point à tout point.

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Euclide, Eléments (suivant Heiberg et B. Vitrac) Livre I: Définitions Un point est ce dont il n’y a aucune partie. Une ligne est une longueur sans largeur.

Demandes (postulats, comme le célèbre cinquième) Qu’il soit demandé de mener une ligne droite de tout point à tout point.

Notions communes (axiomes) (9) et deux droites ne contiennent pas une aire

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Euclide, Eléments (suivant Heiberg et B. Vitrac) Livre I: Définitions Un point est ce dont il n’y a aucune partie. Une ligne est une longueur sans largeur.

Demandes (postulats, comme le célèbre cinquième) Qu’il soit demandé de mener une ligne droite de tout point à tout point.

Notions communes (axiomes) (9) et deux droites ne contiennent pas une aire

Propositions - théorèmes ou problèmes exemple: I.4

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(*) Ken Saito, “A preliminary study in the critical assessment of diagrams in Greek mathematical works., SCIAMVS, 7, 2006, p. 81-144. Research on Diagrams in Greek mathematical Texts, http://www.hs.osakafu-u.ac.jp/~ken.saito/diagram/index.html.

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Demandes (postulats, comme le célèbre cinquième) Qu’il soit demandé de mener une ligne droite de tout point à tout point.

Notions communes (axiomes) (9) et deux droites ne contiennent pas une aire

Bernard Vitrac, p. 179, note 2 2. L’énoncé a sans doute été extrait de la démonstration de la Prop. 4. Si l’on considère avec Proclus qu’une droite est entièrement déterminée par deux de ses points (soit par la Df. I. 4, v. notre comm., soit à partir de la Dem. 1 comme le pense Proclus (239. 16-20)), il était de surcroît inutile. Certains Mss. (dont P) ont cet énoncé comme 6e Dem.; c’était aussi le cas du texte d’an-Nayrizï, mais Simplicius déclare qu’il ne figure pas dans les anciennes copies (Anar., 35). Il apparaît une seconde fois dans an-Nayrïzï comme dernier des axiomes (Anar., 36).

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Argument de Thomas Heath pour considerer cette notion commune comme interpolée Proclus: (Trad. Ver Eecke, p. 173, mis en page KC)

«Il ne faudrait cependant pas réduire le nombre d’axiomes à un minimum comme Héron qui n’en a posé que trois; car le fait que le tout est plus grand que la partie est aussi un axiome que le Géomètre utilise en plusieurs endroits de ses démonstrations et le fait que les grandeurs qui s’ajustent sont égales en est un aussi qui contribue directement à la chose cherchée dans la quatrième proposition. D’autre part, il ne faut pas qu’aux autres axiomes il en soit ajouté d’autres dont les uns sont particuliers à la matière géométrique, tel que celui de deux lignes droites qui ne comprennent pas une aire, alors que les axiomes sont de genre commun, comme nous l’avons dit, et dont d’autres résultent de ceux qui ont déjà été posés, comme celui des grandeurs doubles d’une même grandeur qui sont égales. Cet axiome est en effet la conséquence ...»*.

(*) Voir aussi G.R. Morrow, Proclus. A commentary on the first book of Euclid's Elements, Princeton University Press, p. 154.

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Euclide, Eléments Demandes (postulats, comme le célèbre cinquième) Qu’il soit demandé de mener une ligne droite de tout point à tout point.

Notions communes (axiomes) (9) et deux droites ne contiennent pas une aire

IMRE: remarque fondamentale La séparation entre les deux fait sens si l’on pense que le premier énoncé est vrai dans toute géométrie et que le second spécifie dans quel cas on est dans une géométrie euclidienne Pace les philologues, IMRE met en valeur une subtilité du texte qui rend compte du texte reçu

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Les discussions orageuses ... Imre et le long XIXe siècle

(*) Ken Saito, “A preliminary study in the critical assessment of diagrams in Greek mathematical works., SCIAMVS, 7, 2006, p. 81-144. Research on Diagrams in Greek mathematical Texts, http://www.hs.osakafu-u.ac.jp/~ken.saito/diagram/index.html.

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Un des diagrammes des Eléments les plus anciens, Proposition II.5 papyrus Oxyrhynchus i 29, 75-125, University of Pennsylvania.

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Diagrammes de la Chine ancienne relatifs au triangle rectangle Le Gnomon des Zhou Texte astronomico-mathématique. 1er siècle avant ou après notre ère Objet de commentaires Zhao Shuang (3e siècle), Zhen Luan (6e siècle) sur Le Gnomon des Zhou Plus ancien témoin: impression de Bao Huanzhi en 1213.

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Pour Imre “Les” Grecs Contemplent Théorisent Démontrent ... “Les” Chinois Calculent Résolvent des problèmes Font des mathématiques pratiques ... Caractériser les peuples par leurs mathématiques Leurs manières de pratiquer

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Dans l’immédiat après-guerre, au sein de l’Unesco, Lucien Febvre élabore le projet d’une Histoire Scientifique et Culturelle de l’Humanité, 5 mai 1949 «Le livre dont je viens vous présenter une esquisse n'est pas un livre de science ordinaire. Il prétend agir sur les mentalités pour en extirper le mortel virus de la guerre. Sur les mentalités des hommes et des femmes, sans doute; mais avant tout sur celles des enfants».

Histoire des sciences et des artefacts culturels Mettre en évidence ce que toutes les parties du monde «ont RECU des autres parties du monde, et leur ont en échange donné». «De ce tableau, se dégagerait l'idée que le cloisonnement du monde n'est qu'une fiction et que la terre n'a cessé de se diversifier, de s'enrichir, de se féconder par un flot d'échanges pacifiques»*.

(*) Cité d’après P. Petitjean - H. Domingues, “Le projet d'une Histoire scientifique et culturelle del'humanité”, Hal-SHS, 2007, p. 21. Citations extraites de Febvre, Cahiers d’histoire mondiale, 1.

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Histoire scientifique et culturelle de l’humanité. Principaux protoganistes: Needham, L. Febvre* NEEDHAM résume le résultat de discussions sur le projet dans une lettre (14/01/1950): «After an opening part [...] there would be a second part describing the series of chronologically successive stages in the progress of humanity in social organisation and control over, and understanding of, Nature. The third part will be concerned with exchanges and transmissions in all branches of human knowledge, practice and experience; demonstrating the mutual indebtedness of all peoples, and bringing out the fact that there is no people or culture which has not contributed elements of essential value to the total human patrimony. The fourth part will outline the various patterns of the great cultures and civilisations, their particular world-outlooks which were characteristic of them, and which, though not transmitted in former times, are now fusing into the world-picture of universal man. The fifth concluding part would be of a synthetic character. In so far as the attainment of perfect historical objectivity might be considered to be impossible, the committee felt that emphasis might well be placed on the factors which have united mankind throughout history, rather than on those which have divided the various peoples»**.

(*) P. Petitjean, The Birth of the “Scientific and Cultural History of Mankind” Project, in P. Petitjean - V. Zharov - G. Glaser - J. Richardson - B. de Padirac - G. Archibald (eds), 2006, pp. 85-88. (**) Voir P. Petitjean, “Les aspects sociaux des sciences”, Hal-SHS, 2005.

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Pour moi, c’est resté un mystère insondable, comment Imre, qui vécut la seconde guerre mondiale et ses horreurs, enracinées dans des manières de penser les “peuples” ne comprenait-il pas les dangers inhérents à ne pas exercer la plus grande rigueur possible pour éviter “Les” Grecs ... “Les” Chinois ... ????? Caractériser les peuples par leurs mathématiques?! C’est dire que la caractérisation est possible!?

Nous n’avons jamais pu nous entendre sur la question. A mes yeux, Tâches politiquement urgentes de l’histoire/la philosophie des sciences • Rendre compte de la diversité dans les sciences, sans l’abadonner à des représentations de ce type, qui, à mon sens, nous empêchent de penser véritablement l’activité scientifique • Comprendre par l’effet de quel contexte socio-politique, par l’effet de quelle méthode viciée, les “peuples” / “civilisations” et autres entités de ce type paraissent s’imposer pour parler de sciences

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En dépit de ce désaccord de fond, Merci! Cher Imre Pour m’avoir montré ce que l’humanité peut faire de meilleur.

Francesco Crapanzano Imre Toth amicus Plato ... sed magis amica mathematica

1. Imre Toth e la filosofia Le interessantissime, mai banali e originali riflessioni di Imre Toth sono state bollate in alcune occasioni come matematicamente “vuote” o filosoficamente “cieche”. In particolare, i matematici hanno sottolineato lo scarso o nullo impatto delle ricerche di Toth per la propria disciplina, identificandole come estranee ed eccentriche; gli studiosi di filosofia non hanno digerito bene o compreso tutti i precisi e fini riferimenti a teorie e lavori matematici presenti nella sua opera, finendo per depotenziarne e ridurne il valore assoluto. Fra i principali motivi di questo stato di cose non è difficile individuare la “deriva” specialistica, l’iperspecializzazione, quella che Ortega y Gasset ha definito «la barbarie dello specialismo», la chiusura di ogni orizzonte inter e multi-disciplinare a vantaggio di un continuo approfondimento operato sul modello positivista del “progresso”. Non è certamente questa la sede per descrivere tutti i perniciosi risvolti dello specialismo come forma mentis riguardo alla cultura in generale; piuttosto è nostra intenzione mostrare il valore delle riflessioni di Toth sul piano filosofico, segnatamente quelle su Platone che rappresentano un vero e proprio terminus ad quem della sua produzione sia sul piano materiale, poiché hanno dato origine a un importante studio pubblicato postumo, sia su quello squisitamente teoretico,

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in quanto in Platone egli riconosce un salto di qualità decisivo rispetto allo sviluppo del pensiero filosofico-matematico. Al centro delle analisi e delle considerazioni che seguono, quindi, si troveranno le ricerche di Toth su Platone raccolte e curate con acribia da Romano Romani, molte delle quali pubblicate postume e volutamente lasciate sotto forma di manoscritto in fase di sviluppo, così come Toth ci stava lavorando quando è prematuramente scomparso nel 20101. Il fatto che si tratti di un’opera sostanzialmente incompiuta pone inevitabilmente qualche problema interpretativo supplementare, ma un aiuto provvidenziale è stato dato dalla scelta del curatore di inserire come premessa un prezioso saggio di Toth nel quale si era affrontato organicamente l’argomento: Le problème de la mesure dans la perspective de l’être et du non-être2. Il rapporto di Imre Toth con la filosofia è quanto mai complesso e fecondo a un tempo: complesso, poiché egli non ha avuto una formazione filosofica e, pur scrivendo di matematica, ha fatto filosofia; infatti, al di là dell’opinione che ognuno può avere intorno alle ricerche di Toth, per questi «fare storia della matematica [...] è inscindibile dal fare filosofia nel modo più teoretico e alto»3. Storia e teoresi, in altre parole, risultano nella speculazione di Toth inscindibili, reciprocamente funzionali a un’analisi che parte da alcune tappe storiche per approdare a ipotesi esplicative affatto originali che retroagiscono circolarmente sulla stessa storia del pensiero. In Platone ciò appare (1) Si tratta di I. Toth, Platon, a cura di R. Romani, Cadmo, Fiesole 2020. Il volume contiene una ricca parte introduttiva di Romano Romani, il saggio pubblicato nel 1991, I. Toth, Mathématiques et Philosophie de l’Antiquité à l’Âge classique. Hommage à Jules Vuillemin, sous la direction de R. Rashed, Éditions du Cnrs, Paris 1991, pp. 21-99; e due corposi testi del libro incompiuto su Platone in lingua francese. Le citazioni dei testi in pubblicati in francese sarà sempre ns. (2) Il corposo articolo è apparso nel volume R. Rashed (a cura di), Mathématique et Philosophie de l’Antiquité à lÂge classique. Hommage à Jules Vuillemin, cit.; ricompreso in I. Toth, Platon, cit., pp. 21-99. (3) R. Romani, Nota editoriale, ivi, p. XXXI.

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con estrema chiarezza, quella chiarezza delle direttrici interpretative che fanno unire a Toth matematica e filosofia nel filosofo ateniese; la matematica e la filosofia da cui l’intero pensiero occidentale gli sembra prendere avvio4: «Non v’è il progetto di un filosofo, ad esempio Descartes o Platone, di fondare tutte le scienze filosoficamente: è la natura stessa della filosofia che rende inevitabile riconoscere nell’unità del pensiero il fondamento di ogni scienza»5; una tale consapevolezza giunge, a parere di Toth, col pensiero greco, quando la poesia “diviene” poesia e la filosofia “diventa” filosofia. Com’è stato giustamente fatto notare, «egli ha sempre studiato Platone e la sua Accademia, anche quando la sua analisi ha avuto come oggetto l’opera aristotelica»6; ciò ribadisce, qualora fosse necessario, l’intensità e la centralità di un interesse che oltrepassa senza dubbio gli studi storici, ma senza per questo risultarne estraneo. Il focus su Platone è primariamente teoretico, è in itinere che si fa storico e supporta una certa interpretazione del pensiero platonico secondo cui il filosofo non avrebbe volontariamente lasciato alcuno scritto di argomenti della massima importanza che non potevano essere compresi dal lettore7. (4) Non è probabilmente un caso se anche un grande matematico con interessi epistemologici come Alfred North Whitehead ha considerato esplicitamente come «la più opportuna caratterizzazione generale della tradizione filosofica europea è l’indicazione che essa consiste in una serie di note a Platone. Non mi riferisco al dubbio schema sistematico di pensiero che gli studiosi hanno estratto dai suoi scritti. Alludo ai tesori di idee generali sparsi in essi» (A.N. Whitehead, Il processo e la realtà, trad. di N. Bosco, Bompiani, Milano 1965, p. 114). (5) R. Romani, Il saper di non sapere come memoria - reminiscenza, ΑΝΑΜΝHΣΙΣ nell’apparire dell’infinito nel finito, in I. Toth, Platon, cit., pp. CVII. (6) R. Romani, Nota editoriale, in I. Toth, Platon, cit., p. XXXV. (7) È la tesi sostenuta non senza buone ragioni dagli appartenenti alla cosiddetta scuola di Tubinga-Milano. Secondo tale ipotesi, avanzata con forza in Italia da Giovanni Reale, Platone non avrebbe chiarito tutte le sue dottrine negli scritti, lasciandone una parte che si prova a ricostruire attraverso testimonianze indirette. A titolo di esempio, si legga G. Reale, Autotestimonianze e rimandi dei dialoghi di Platone alle “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2008.

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L’intima vicinanza delle ricerche di Toth alla filosofia non si desume tanto dalla scelta di “soggetti” tipici quali Platone, Aristotele o i Presocratici, piuttosto trae origine da un preciso orizzonte teoretico il pensiero matematico come matrice della razionalità filosofica occidentale - entro il quale è inevitabile un confronto col pensiero antico, segnatamente quello greco. Che a una tale argomentazione convenga chiamarsi pensiero scientifico o filosofia tout court crediamo importi relativamente, convinti come siamo che la riflessione filosofica si manifesti e caratterizzi primariamente in un “metodo” e non come scelta oggettuale. Alla luce di ciò, se volessimo individuare quali temi tipicamente filosofici appartengano alla ricerca tothiana, non avremmo difficoltà a riconoscere la dimensione gnoseologica dell’uomo, l’essere protagoreo come «misura di tutte le cose» che colloca il problema della misurazione nel cuore stesso dell’ontologia e della metafisica. Esiste ciò che è misurabile? Esiste ciò che ha un logos? In che rapporto stanno essere e non essere? L’uno ha dialetticamente bisogno dell’altro? Al centro di queste e altre domande simili si trova sempre l’uomo; non un individuo qualunque, però, ma l’uomo che consapevolmente si pone i problemi e cerca di affrontarli8. Ora, Platone, secondo Toth, rappresenta in tal senso uno snodo fondamentale per l’intero pensiero occidentale: la sua teoresi è in intima relazione col pensiero matematico ed è questo uno dei motivi di fondo che fanno della ricerca di Toth qualcosa di forte impatto filosofico. Innanzitutto, i dialoghi platonici nella loro tipica forma letterarioespressiva, indicano la scelta di entrare in interazione con un oggetto di riflessione visto in chiave critica; «questo è uno dei temi dominanti del pensiero di Toth. Un tema che contiene alcune conseguenze del suo modo platonico di porre il problema della scrittura. Le opere platoniche hanno forma di dialogo perché Platone pensa che il dialogo sia la (8) Cfr. R. Romani, Il platonismo di Imre Toth e il non-essere, in I. Toth, Platon, cit., pp. XXXVIII ss. Potremmo , in termini più specifici e contemporanei, il “soggetto conoscente” o “soggetto epistemologico”.

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ϕὐσις del pensiero»9. Dialogo in Platone ... e dialogo di Toth con Platone,

un dialogo teoretico e critico che chiama in causa la dialetticità intrinseca del discorso e del conoscere; dialettica che si concretizza nell’interrogarsi su quelle cose che permettono l’esistere, sul λόγοσ, sui numeri, sul linguaggio e su tutto ciò che rappresenta il loro contrario: l’αλογον, la non-misurabilità, l’irrazionale. La cornice storica e teoretica posta a monte di questo sviluppo è data dal giudizio storico tothiano sull’assenza di un pensiero matematico precedente l’età greca: non la mancanza di matematica, poiché tanto i Babilonesi che gli Egiziani hanno lasciato testimonianze inequivocabili che l’attestano, ma l’assenza di un consapevole interrogarsi intorno alle questioni fondamentali, ontologiche, che la matematica poteva sollevare. Detto diversamente, Toth non riscontra un interesse per la matematica “pura” né verso problemi filosofici prima della civiltà greca, con la quale egli vede il sorgere un “pensiero matematico”10. Si badi, questo importante discorso intorno alla matematica e al sorgere del pensiero occidentale non è staccato dalla dimensione eticopolitica: Il processo, insieme, della costruzione della matematica e dello sviluppo della filosofia non è estraneo al sorgere della democrazia ad Atene: questo sorgere, infatti, è il risultato di una crescita del λόγοσ che è alla base dello sviluppo della civiltà occidentale11. (9) Ivi, p. LI. (10) Vedi. ivi, p. LXIII. Come ha sottolineato Romano Romani, «il rapporto della matematica con la filosofia non è un semplice fatto storico ma, come tutto ciò che riguarda la filosofia, è un problema filosofico [...] L’unità del pensiero di cui parla Imre Toth [...] è l’unità del pensiero filosofico. L’unità del pensiero filosofico non cancella le distinzioni e anche le possibili specializzazioni dei singoli aspetti della ricerca. Non cancella la differenza tra le discipline [...]. Si è soliti parlare del modo in cui le singole scienze sono nate dalla filosofia, ma si dovrebbe anche parlare del modo in cui la filosofia continua a vivere in ciascuna scienza a suo modo, con una modalità propria» (R. Romani, Il saper di non sapere come memoria – reminiscenza, ΑΝΑΜΝHΣΙΣ - nell’apparire dell’infinito nel finito, in I. Toth, Platon, cit., pp. CV-CVI). (11) Ivi, p. LXVII.

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Non dobbiamo credere, per quanto fin qui osservato, che Toth sia stato ingenuamente attratto dal suo amore per la matematica e abbia “curvato” in qualche modo la filosofia verso quella fin dal suo nascere. A prescindere da ciò che possiamo intendere come “filosofia” - una delle questioni tipiche della philosophia perennis che non troverà mai una singola risposta - essa ha come costante il nascere da - e il procedere verso - una maggiore condizione di libertà12. Con Platone, infatti, ammettiamo il cominciamento della filosofia così intesa quando l’uomo passa da una condizione di prigionia in cui crede di osservare e comprendere delle finzioni tutte interne alla caverna, alla visione (inizialmente debole) della verità/realtà del Sole che, spazzando via le ombre proiettate, permette di acquisire un diverso sapere attraverso la maggiore libertà13. Si tratta di un punto di partenza del filosofare prettamente teoretico, ovvero non ancorato allo sviluppo storico concreto avvenuto nell’Asia Minore (Mileto), ma valido per ogni uomo: sia per Platone, che inizia la sua esperienza di vita e filosofica nell’Atene dei trenta tiranni sia per Toth, ebreo, figlio di un popolo esule, lontano dalla terra promessa14. D’altra parte, lo stesso matematico di origini rumene ha ben espresso il trovarsi del concetto di libertà nel core della filosofia, come si può leggere nel passo seguente di ispirazione hegeliana: La filosofia non è mai stata e non sarà mai una scienza. Tuttavia è un sapere: il sapere del soggetto a causa e per mezzo del soggetto. Territorio autonomo dell’essere, il fondamento ontico del soggetto è il sapere di sé. Dominio non spaziale della riflessione assoluta, l’autonomia del suo essere istituisce la presenza della libertà dentro lo spazio (12) Cfr. R. Romani, Imre Toth: Ebraismo - Trascendenza - e Filosofia, in I. Toth, Platon, cit., pp. LXXII ss. (13) Il noto mito della caverna platonica si trova in Platone, La Repubblica, trad. di F. Sartori, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 514b-520a. (14) Sul ruolo dell’identità ebraica nel pensiero di Toth, intrisa di spirito cosmopolitico e non di attaccamento al suolo, rimando alle belle pagine con le interviste fatte da Péter Várdy, I. Toth. Il lungo cammino da me a me, trad. di F. Ervas, a cura di G. Gaeta, Quodlibet, Macerata 2016.

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cosmico. È possibile dimenticare il teorema di Pitagora che si è imparato al liceo, ma il sapere filosofico non cade mai nell’oblìo15.

Quindi, la coscienza della libertà che ha di sé l’individuo è il nucleo del suo sapere filosofico; e il tanto chiamato in causa “Pensiero occidentale”, ammesso che convenga ancora chiamarlo così, non è stato per nulla geograficamente “statico”, presentando, al contrario, un dinamismo che ne ha fatto spostare l’asse più volte nel corso dei secoli anche in questo caso ci pare chiara l’eco hegeliana del discorso tothiano -. Come fa notare lo stesso Toth, a seconda delle epoche, il centro gravitazionale di ciò che oggi si chiama “Occidente”, si trova in aree geografiche molto diverse [...] Sarà sufficiente ricordare che tra l’800 e il 1300 della nostra èra, ciò che oggi si chiama pensiero occidentale è stato rappresentato in modo prevalente da matematici, medici e filosofi che si esprimevano in lingua araba [...] L’averroismo è una componente altrettanto inalienabile e necessaria del pensiero occidentale, che il tomismo e lo spinozismo. L’idea di un giudizio ultimo ci viene dall’Iran, la credenza di una vita dopo la morte dall’Egitto; il monoteismo, il cristianesimo emergono dall’Oriente. L’idea di uno stato fondato sulla legge fa la sua apparizione presso Hammurabi16.

L’Occidente diventa per Toth un luogo dello spirito, così come per Hegel era lo Spirito assoluto a generare la storia17; la stessa filosofia sembra assumere la sua identità più autentica nella libertà della riflessione sull’essere, riflessione entro la quale Mythos e Logos, religione e razionalità, poesia e matematica trovano tutte un loro spazio unificante, donando il contributo della propria attività sull’altare della sophia. (15) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, a cura di R. Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 23. (16) Ivi, pp. 24-25. (17) Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, 4 voll., a cura di G. Calogero e C. Fatta, La Nuova Italia, Firenze 1981.

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2. Il problema della misura come chiave di volta del pensiero antico In un nutrito articolo apparso in volume nel 199118 Toth esponeva in forma, per così dire, ufficiale e organica la sua personale via filosofica che conduce a Platone. Per queste sue caratteristiche, il saggio è stato ricompreso nel volume che raccoglie le ricerche su Platone che non ha fatto in tempo a rivedere e pubblicare, rappresentando una più che degna sintesi introduttiva all’argomento. Ora, facendo una breve digressione rispetto all’argomento principale - Platone -, è utile segnalare le difficoltà insite nel concetto stesso di “misura”. Qualunque fisico conosce le apparentemente noiose nozioni teoriche relative alla misura: innanzitutto, che cosa si misura? E come misurare? Le risposte a tali domande sono tutt’altro che banali e fanno capo, in campo scientifico, a delle precise scelte di natura “filosofica” il più delle volte passate sotto traccia. In linea di massima, la risposta al “cosa” misuriamo fa riferimento a un’ontologia che vede nella materialità degli oggetti la condizione necessaria e sufficiente per procedere all’operazione di misura; il “come” misuriamo richiede naturalmente un’unità di misura condivisa ma, soprattutto, una qualche uniformità delle misurazioni poiché altrimenti darebbero risultati ogni volta diversi, anche se di infinitesimi. La misura richiede dunque univocità e il sistema più efficace per ottenerla è l’approccio statistico, ovvero ottenerla attraverso la “media” (non semplicemente aritmetica ...) di più misurazioni19. Tutto ciò cerca di ovviare teoricamente al “problema della misura” poiché, come Toth ha immediatamente intuito, di problema si tratta e nemmeno di carattere secondario o banale.

(18) I. Toth, Mathématiques et Philosophie de l’Antiquité à l’Âge classique, cit. (19) Chi volesse avere un’idea più rigorosa di quanto accennato, può leggere R. Caimmi, Il problema della misura. Considerazioni sulla teoria degli errori, Aracne, Roma 2016.

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È a partire dalla geometria e dai paradossi di Zenone che emergono in tutta la loro profondità i problemi di misurazione: l’incommensurabilità del lato del quadrato rispetto alla sua diagonale, così come la corsa di Achille con la tartaruga, mostrano il doversi procedere con un processo di misurazione infinito allo scopo di ottenere un numero “finito”. Non seguiremo nel loro pur splendido articolarsi le argomentazioni di Toth presentate nell’articolo che prendono in considerazione il pensiero “matematico” antico di Aristotele, Platone, Zenone di Elea ed Eudosso di Cnido; passiamo direttamente alle conclusioni-implicazioni di carattere filosofico, secondo cui pare evidente «che dietro la problematica della misura - così come il problema è sviluppato nel Parmenide di Platone a proposito degli Argumenta di Zenone - si nasconde il problema ontologico del passaggio dal non essere all’essere, in una parola: il problema della creazione attraverso la negazione»20. I concetti di «infinito in atto», di «misura», di «incommensurabilità» erano in una certa misura già presenti nel pensiero greco, anche se in «uno stato d’esistenza negativa, avente lo statuto ontico, in sé positivo, del non-essere»21; in particolare nel Sofista e nel Politico di Platone. Il limite - per così dire - del pensiero greco è stato quello di ostinarsi a non riconoscere la potenza creatrice del negativo, negando l’esistenza al non-essere anche quando essa scaturiva dall’irrazionale matematico22. Per alcuni aspetti, l’articolo sul problema della misura si può considerare una sintesi del lavoro su Platone rimasto incompiuto; infatti, in questo ritroviamo al centro delle analisi Platone e la sua filosofia (20) I. Toth, Mathématiques et Philosophie de l’Antiquité à l’Âge classique, cit., p. 98. Anche in questo, come in numerosi altri casi, alcuni dei quali avremo modo di esaminare, fa capolino la dialettica hegeliana nella sua forma genuina: affermazione-negazione-negazione della negazione. Cfr. G.W.F. Hegel, Scienza della logica, a cura di A. Moni e C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 945-946. (21) Ivi, p. 99. (22) Proprio in tale ostinata negazione, Toth vede lo stadio che nella Fenomenologia dello Spirito hegeliana corrisponde all’«ipostasi della coscienza infelice dell’idea di creazione» (ibidem).

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matematica, in una forma “provvisoria” ma più estesa. Lo scopo che Toth si era dato viene immediatamente esplicitato: Mi sono proposto, nelle pagine che seguono, di offrire al lettore la mia lettura del discorso di Platone, concernente questo avvenimento unico, singolare, talmente complesso e di fatto straordinario della vita matematica e a un tempo filosofica, che è stata l’apparizione nello spazio spirituale del sapere dell’irrazionale aritmetico23.

Anche se nei dialoghi platonici, avverte Toth, non si trova pressoché nulla che possa rievocare la matematica che verrà insegnata nel peripato aristotelico, ciò non toglie che il contributo rappresenta un enorme progresso per quanto concerne la determinazione «dei fondamenti logici e ontologici del numero irrazionale»24, ovvero dell’irrazionale tout court. L’assoluta originalità di questo risultato è stata per lo più misconosciuta o negata da filosofi e matematici contemporanei (Bertrand Russell e Otto Neugebauer, solo per citarne qualcuno) i quali hanno visto nelle riflessioni platoniche confusione o misticismo, non qualcosa di rigoroso né di utile. Ora, è pur vero - e Toth lo riconosce - che Platone abbia usato ambiguamente il termine αλογοσ: adoperato la prima volta da Democrito, non pare aver trovato una traduzione univoca e soddisfacente fino ai giorni nostri; ma ciò, invece che mostrare un disinteresse platonico, è significativo del fatto che all’epoca del grande filosofo ateniese «la terminologia dell’irrazionale non era ancora definitivamente cristallizzata»25 ed egli si è trovato costretto a fare ricorso a un termine ambiguo e per alcuni aspetti misterioso che ha generato una pletora di traduzioni moderne e contemporanee caratterizzate da una proiezione più o meno evidente del pregiudizio (23) I. Toth, Platon. Deux textes fragmentaires du livre inachevé, texte 1, cit., p. 5. Poco più avanti, Toth chiarisce come l’irrazionale matematico faccia parte di quelle «opere irreversibili dello spirito [la cui perennità] assicura all’anima l’immortalità, esse rappresentano delle necessità delle quali non potremmo fare a meno» (ivi, p. 7). (24) Ivi, p. 10. (25) Ivi, p. 14.

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di chi traduceva sul testo antico. L’uso di αλογοσ, infatti, è di assoluta novità, andando a designare il “precipitato”, ciò che rimane dopo la privazione dell’elemento logico-razionale; il problema con cui si sono dovuti misurare tutti gli interpreti antichi e moderni, quindi, è di natura non solo linguistica, ma eminentemente filosofica, poiché ciò che risultava senza un logos non era proprio concepibile e, dunque, di valore ontologico nullo. Ora, se con Toth vogliamo pensare che Platone non abbia scelto e usato il termine αλογοσ casualmente, ovvero fidare sul fatto che il filosofo ateniese era sempre più che consapevole di ciò che voleva significare, dobbiamo collocare il significato della parola in questione in un campo semantico diverso e comunque presente all’epoca nella quale venne prodotto. Tale campo semantico è individuato da Imre Toth nella dimensione assiomatica del pensiero, su un piano che potremmo definire oggi come “filosofia della matematica”, un livello nel quale si decide dei primi principi, delle premesse necessarie, delle “idee chiare e distinte”. «È precisamente questo aspetto assiomatico che rappresenta concretamente il contributo di Platone al sapere matematico»26 e, precisa Toth, l’assiomatica troverà il suo posto e la sua legittimazione nell’ambito matematico soltanto in età contemporanea27. Il sorgere del numero irrazionale in matematica, pienamente corrispondente alla coppia essere/non essere, costituisce il nucleo della teoria platonica a riguardo, andando a collocarsi, nell’ambito dell’esegesi del grande filosofo ateniese, lungo la già citata teoria delle dottrine non scritte di Platone28. Torneremo ancora sull’argomento più avanti, per adesso sottolineiamo come le analisi di Toth sono pienamente (26) Ivi, p. 18. (27) Cfr. ibidem. (28) Così, infatti, Toth: «La concezione del numero irrazionale, che è quella di Platone, era, in effetti, del tutto nuova e sconvolgente [...] È esattamente una tale teoria del numero irrazionale che ha costituito il nucleo di quello che Platone ha esposto in ciò che Aristotele chiamò l’insegnamento non scritto di Platone» (ivi, p. 23).

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“filosofiche”, dotate di ricchezza e profondità; ad esempio quando ammette esplicitamente che Platone non presenta riferimenti al sapere matematico greco, ma sembra procedere motu proprio e in forma abbastanza oscura. Grazie a Filodemo di Gadara - quindi a una storia dei filosofi recuperata dagli scavi ercolanensi29 - Toth può considerare che Platone dà lustro a una scienza della misura - la Metrettica portandola al suo acme. Peraltro, la parola metrétikè non ricorre nei testi greci antichi di matematica giunti a noi, quindi sembra verosimile che il filosofo ateniese abbia coniato il termine il cui significato attuale potrebbe assimilarsi a quello di “teoria della misura”30. Toth è pienamente consapevole delle difficoltà ermeneutiche del testo platonico; la sua lettura originale passa per due scelte a nostro avviso assai importanti: quella di esplicitare sempre quanto si assume nelle analisi come “dato” e la chiara esigenza di non prendere alla lettera il testo platonico. Se la prima denota grande onestà intellettuale e permette al lettore un’ottima comprensione dei capisaldi tothiani, la seconda offre una prospezione diversa e apre il ventaglio interpretativo su Platone invece che limitarlo; infatti, se gli scritti platonici non sono «storie di marinai, non sono neppure storie senza senso»31, dunque è la ricerca di un significato ulteriore che permette a Toth di identificare il «parlare in modo leggero di cose importanti»32 platonico e ciò che pensa essere l’argomento prettamente matematico al centro del discorso, ovvero la risposta alla domanda «come [...] assegnare (29) Filosofo epicureo del I sec. a.C., Filodemo venne ospitato da Lucio Calpurnio Pisone nella sua villa di Ercolano ove scrisse le sue opere. A partire dalla seconda metà ‘700 vennero recuperati i papiri conservati nella villa; e soltanto successivamente, grazie a una certosina opera di recupero e lettura degli stessi, si è potuta ricostruire l’opera filosofica di Filodemo. In particolare, vedi Filodemo, Storia dei filosofi. Platone e l’Academia (PHerc. 1021 e 164), edizione, traduzione e commento a cura di Tiziano Dorandi, Bibliopolis, Napoli 1991. (30) Cfr. I. Toth, Platon. Deux textes fragmentaires du livre inachevé, texte 1, cit., pp. 30-32. (31) Ivi, p. 32. (32) Ibidem.

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una misura e quale sarà la natura di una tale misura assegnata a una grandezza che non è in alcun modo misurabile?»33. In ciò, naturalmente, Platone si fa portatore di una tradizione che risale ai Pitagorici, ma se questi ultimi erano rimasti su un piano esclusivamente speculativo, e perciò stesso il numero irrazionale rappresentava un grosso problema da non rendere pubblico, Platone prende in considerazione insieme all’aspetto “teorico-speculativo” del numero, l’operazione di misura. In questa maniera il discorso platonico, pur nella complessità che gli appartiene e nella sua apparente “leggerezza”, acquista uno spessore diverso e, soprattutto, un’originalità (matematica) prima sconosciuta o sottovalutata. L’ostacolo tipico della matematica “pura”, la diade razionale/irrazionale, si arricchisce di un’altra coppia, stavolta originata da un problema di matematica “applicata”: commensurabile/incommensurabile. A partire dai Babilonesi, passando per la civiltà egiziana e per i Pitagorici, Toth illustra il sorgere del problema riconducendo sempre agli scritti platonici la sua soluzione o il suo significativo progresso34: La metrétikè di Platone non è nient’altro che un’applicazione concreta della concezione di diade infinita e dell’Uno alle grandezze incommensurabili. La diade infinita costituisce dunque il fondamento teorico, insieme a strumento tecnico di questo procedimento nuovo ed eterodosso che permette di assegnare, a dispetto di tutto, una misura a queste linee non misurabili. Una tale misura non può essere che una (33) Ivi, p. 33. Infatti, con la chiarezza che lo contraddistingue, poco dopo Toth aggiunge che l’esigenza di misurare il non-misurabile gli pare «l’unica motivazione valida per l’introduzione del termine μετρηική» (ivi, p. 34). (34) Cfr. ivi, pp. 32 ss. A questo proposito, Toth considerava come «l’insegnamento essenziale che i Pitagorici hanno ricavato dall’esperienza babilonese si concretizzò in questo pensiero temerario, di grande originalità, che hanno espresso nella celebre formula, che a noi ha trasmesso Aristotele nella sua Metafisica: “tutto è numero” [...] Non si tratta, in effetti, di ciò che si può chiamare “scoperta” ma di un atto intellettuale molto differente sia dall’empiria sia dal ragionamento inferenziale, segnatamente di un atto spirituale puro che si può chiamare presa di coscienza» (I. Toth, Platon. Deux textes fragmentaires du livre inachevé, texte 2, p. 204, in Id., Platon, cit.).

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misura espressa attraverso un numero irrazionale, la concezione della diade infinita ci offre, quindi, una teoria del numero irrazionale35.

Una nuova linfa giunge alla soluzione del problema antico, essa non trascura la problematica metafisico-ontologica dell’essere e del non-essere degli enti matematici, al contrario ne sposta la soluzione su un terreno affatto nuovo36. Il processo di misurazione della diagonale del quadrato deve ricercare una ratio comune rispetto al lato e, secondo il metodo di costruzione geometrica presentato da Platone, “antanaretico”, esso «non arriva mai a termine, è manifestamente infinito»37. Attraverso una sapiente argomentazione, fatta di sottili interpretazioni ai testi platonici, Toth cerca di fugare il dubbio intorno alla consapevolezza platonica sui risvolti matematici del problema: dalla Repubblica al Filebo si troverebbero riscontri per cui il grande filosofo ateniese era «già divenuto pienamente cosciente del carattere aritmetico dell’irrazionale, dell’esistenza dunque di una grandezza determinata, sinonimo di numero irrazionale, corrispondente anche a una misura incommensurabile, a una lunghezza ineffabile, all’Uno trascendentale»38. Ora, come giustamente osserva Toth, Platone non possedeva alcuna nozione algebrica moderna e a un certo punto è costretto a tirar fuori un termine per designare ciò che gli pareva essere la posizione del problema: “Mélange” - “mescolamento”. Evidentemente, invece di avere a che fare con l’acqua e col vino, qui si trattava della diade finito/infinito nel processo di misurazione alla quale viene attribuito, (35) Ivi, p. 44. (36) Infatti, la questione concernente lo statuto ontologico del rapporto tra diagonale e lato del quadrato (numero irrazionale, grandezze incommensurabili) che coinvolge lo statuto ontico dell’essere e del non-essere «resta perciò aperta; essa dipende chiaramente dal successo finale di un procedimento di misura» (ivi, p. 46). (37) Ivi, p. 57. Su come viene costruita questa misurazione e per i riferimenti al testo platonico (al Parmenide in particolare), rimandiamo ivi, pp. 44-59. (38) Ivi, p. 70.

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secondo Toth, il valore di “sintesi” o “raffronto” di due gruppi diversi39. La traduzione del termine meiktòn con “mélange” non ha mai creato alcuna obiezione giacché è formalmente corretta, tuttavia, avverte Toth, ha mascherato un significato nascosto presente in Platone; servirà aspettare fino a Georg Cantor, illustre e fecondo matematico del secolo scorso, per inquadrare il meiktòn nella Teoria delle moltiplicità40. Cantor affronta il problema dell’infinito in atto modificandolo nel concetto di “finito variabile”; questa operazione deriva, a dire il vero, da una più articolata distinzione tra “infiniti” che Cantor opera con grande profitto in campo matematico. Questa distinzione fa parte a pieno titolo di quegli avanzamenti teorici basati su cose apparentemente inutili ma che in realtà sono a fondamento della vita dell’uomo: «Tutto ciò che a noi è rimasto del passato, in quanto cose materiali, sono degli oggetti che non hanno alcuna utilità pratica - dei templi, delle cattedrali, delle opere d’arte, la cui produzione non trova giustificazione che in motivi metafisici e trascendentali. E mi sembra che l’utilità dell’inutile appartenga al fondamento stesso, all’essenza della vita»41. Soltanto alla luce di nozioni di matematica moderna, della geometria non euclidea, è possibile penetrare con successo nel discorso platonico42, ma non solo: viene coinvolto l’assioma del terzo escluso poiché la geometria non euclidea rappresenta l’accettazione simultanea di due assiomi contraddittori, il quinto degli Elementi di Euclide e l’altro di Lobacevskij che lo sostituisce («Per un punto passano due rette parallele a una retta data»). Qualcosa di molto simile accade anche (39) Cfr. ivi, pp. 72 ss. (40) O, più in generale, nella teoria degli insiemi. Cfr. ivi, pp. 74 ss. (41) Ivi, p. 86. L’interessante considerazione di Toth troverà eco autonoma nel fortunato saggio di N. Ordine, L’utilità dell’inutile. Manifesto. Con un saggio di Abraham Flexner, Bompiani, Milano 2013. (42) Su questo punto Toth è netto: «Sono dell’avviso che senza conoscere l’opera di Cantor e Dedekind, la creazione matematica di Platone ci resterà inaccessibile e i testi come quello del Filebo, il Sofista o Parmenide completamente incomprensibili» (I. Toth, Platon. Deux textes fragmentaires du livre inachevé, texte 1, cit., p. 88).

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nel paradosso di Zenone su Achille che non riesce a raggiungere la tartaruga: Ciò che gli argomenti di Zenone dimostrano in realtà è l’indimostrabilità logica di ciascun enunciato contraddittorio. E l’indimostrabilità è sinonimo d’indecidibilità: i due enunciati contraddittori - uno, quello di Aristotele, secondo il quale il movimento arriva attualmente al suo telos, l’altro, quello di Zenone, che afferma l’opposto - costituiscono un’alternativa aperta, indecidibile, che invalida l’assioma del terzo escluso43.

Quando poi non si può decidere matematicamente, si apre lo spazio - suggerisce acutamente Toth - alla scelta del soggetto o, in una parola, a una più alta capacità decisionale, quella dettata dalla “libertà”; una libertà di creare proprio quella terza via esclusa in precedenza44.

3. Platone: un fascino matematico che oltrepassa le epoche Il secondo degli scritti inediti di Toth su Platone è un manoscritto precedente e più ampio dell’altro; esso presenta parti identiche e altre nelle quali gli stessi argomenti erano stati trattati in modo più esteso45. Nel preambolo introduttivo Toth recupera il giudizio di Filodemo di Gadara sull’importanza di Platone per il progresso della matematica nella sua epoca46; giudizio che rimane di valore tutto sommato indicativo se Toth, quasi duemila anni dopo, ricerca proprio quale fu il contributo platonico - come autore o ispiratore - al pensiero matematico. Come abbiamo già notato, la matematica non nasce certo con Platone, ma affonda le sue radici presso i Babilonesi, gli Egiziani e, (43) Ivi, p. 96. (44) Cfr. ivi, pp. 94 ss. (45) I. Toth, Platon. Deux textes fragmentaires du livre inachevé, texte 2, pp. 240; in Id., Platon, cit. (46) Per i riferimenti, si vd. supra, nota 30.

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passando all’Ellade, nei Pitagorici; quindi, il saggio di Toth aveva come scopo esplicito quello di mostrare in cosa consistesse il contributo del filosofo di Atene individuandolo, infine, nello «stabilimento dei fondamenti logici e ontologici del numero irrazionale»47. Senza saltare subito alle conclusioni, seguiamo l’articolarsi delle considerazioni tothiane. Intanto, è ben chiaro al matematico di origini rumene il complesso intreccio semantico del discorso platonico che non si limita a fornire nozioni matematiche “compartimentate”, al contrario, riprendendo in ciò la tradizione pitagorica, la metafisica e l’ontologia del numero, della misura, della geometria, investono diversi domini come l’etica e la politica. Ancora, veniva individuata l’intrinseca difficoltà di decrittazione del linguaggio platonico, tanto nella scelta lessicale quanto nella struttura sintattico-argomentativa48; soprattutto Toth considerava l’ancora più grande difficoltà del riconoscimento a Platone della genesi di un nuovo “sapere” che non era propriamente “matematico”, quanto axiologico o assiomatico. Una scelta, quella di Platone, consapevolmente orientata a trovare uno spazio ulteriore rispetto a quanto raggiunto dai Pitagorici: se per questi ultimi il numero irrazionale era privo di logos e pertanto inesistente, in Platone si ravviserebbe l’affermazione del numero irrazionale e, pertanto, l’esistenza di un logos alogos49. Una scelta metafisico-ontologica, come abbiamo già detto, che mostra il ruolo essenziale della libertà per l’uomo e pure un livello di meta-riflessione del pensiero matematico sconosciuta in precedenza. Da un punto di vista ermeneutico, una tale lettura dei testi platonici viene ancorata sia a quanto rinvenibile nei dialoghi sia a quanto nei dialoghi non si trova esplicitato, quindi s’inserisce nel filone di ricerca che ha come oggetto le cosiddette “dottrine non scritte” di Platone50. Il nucleo della concezione di numero irrazionale offerta da Platone (47) I. Toth, Platon. Deux textes fragmentaires du livre inachevé, texte 2, cit., p. 110. (48) Cfr. ivi, pp. 113-116. (49) Cfr. ivi, p. 121. (50) Vedi ivi, pp. 123 ss.

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scaturisce, a parere di Toth, dalla «Diade infinita». L’informazione ci arriva da Aristotele il quale, purtroppo, mostra una concezione del numero opposta a quella platonica, risultando questo ontologicamente fondato sul reale, ottenuto per astrazione oppure dato come “potenziale”51. Dopo una penetrante digressione sul concetto di numero presso i Pitagorici e Peano, ove Toth giunge a considerare che «la celebre tesi pitagorica sulla indivisibilità della monade non è dunque un dogma metafisico, come sovente viene rappresentata in letteratura, ma un assioma fondamentale dell’aritmetica»52. Al di là di questo interessante aspetto storiografico, che connette l’antico con riflessioni sui fondamenti della matematica contemporanee, ci pare doveroso rimarcare l’osservazione tothiana sulla notazione del numero √2 o √(2n) che «non designa [propriamente] un oggetto, un’entità aritmetica, ma un’operazione, segnatamente l’operazione aritmetica di estrazione della radice quadrata»53. I termini originali con cui Platone indica l’irrazionale matematico sono due: il primo lo abbiamo già menzionato, ᾂλογοσ, il secondo è ἀρρήτοσ, inneffabile. A entrambi egli fa cambiare campo semantico, arricchendone il significato e, allo stesso tempo, complicandone la decifrazione. A questi se ne aggiunge anche un terzo (rinvenibile nel Teeteto) che possiede un più preciso significato di “numero irrazionale” ὄνομα54. Ancora una volta Toth è portato a considerare come Platone, attraverso il resoconto che ne fa Aristotele, abbia compiuto un atto temerario, assai eterodosso, [si tratta] di un avvenimento storico fuori dal comune che ha apertamente e violentemente rotto con una tradizione consacrata, si può dire anche sacra, una tradizione ter(51) Cfr. ivi, pp. 130-132. (52) Ivi, p. 137. Si leggano comunque ivi, pp. 132-141. (53) Ivi, p. 145. (54) Su quanto brevemente accennato e per gli opportuni riferimenti testuali, si vd. ivi, pp. 146-169 passim.

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minologica che [...] non era mai stata abbandonata da alcun matematico dell’antichità. La concezione di numero irrazionale, elaborata da Platone all’interno della cornice della teoria della diade infinita, non è mai stata accettata dai matematici greci - con l’eccezione, forse, di Archimede; si è dovuto attendere il grande matematico Richard Dedekind per riprendere, disegnando consapevolmente, dalle fonti antiche55.

Il secondo capitolo dello scritto inedito torna sulla «creazione» platonica della “metrologia”, riferita in modo esplicito da Filodemo di Gadara. La metrétikè, il cui significato attuale può essere senza dubbio alcuno quello di “teoria della misura”, serve a Platone per misurare con precisione qualcosa che fino a quel momento non aveva neppure riconoscimento ontologico: delle linee “irrazionali”, cioè prive di un rapporto finito rispetto alla ratio, prive di un logos56. L’esempio principe di tali linee è dato dalla diagonale del quadrato rispetto al lato che, lungi dal rappresentare un argomento da evitare o affrontare in superficie, viene da Platone trattato in tutta la sua serietà, anche se egli non possedeva un linguaggio idoneo all’espressione di concetti filosoficomatematici affatto nuovi57. Il grande filosofo ha il merito di aver giustamente considerato sul piano teorico qualcosa che scaturiva da un’operazione pratica (la già considerata “operazione” di estrazione della radice quadrata di un numero)58; la misura esatta della diagonale del quadrato rispetto al lato comporta la reiterazione all’infinito di un’operazione di confronto che lascia sempre un resto; ora, questo non può significare che il segmento non esiste, piuttosto deve portare ad accettare la sua non misurabilità esatta con gli strumenti aritmetici “classici”. (55) Ivi, p. 160. (56) Cfr. ivi, pp. 173 ss. Vd. pure quanto detto sul medesimo argomento supra. (57) Vd. ivi, pp. 172-186. Infatti, Toth, tra l’altro, considera: «Devo insistere sul fatto che non si tratta in Platone di una opinione personale qualunque, di una semplice doxa, di un punto di vista soggettivo che si è liberi di accettare o rifiutare [...] bensì dell’unica epistemologia corretta del sapere matematico» (ivi, pp. 183-184). (58) Su cui vd. ivi, pp. 186-189.

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Se i Pitagorici avevano contribuito in maniera decisiva allo sviluppo dello “spirito matematico” attraverso l’atto intellettuale con cui dichiarano “tutto è numero” e considerano i numeri non meri strumenti di calcolo ma delle entità di pensiero59, Archimede pare compiere un ulteriore salto di qualità in astrazione consapevole - ma sarebbe più corretto usare il termine “costruzione” - quando afferma che esistono numeri che superano una quantità qualunque grande a piacere (l’universo intero); infatti, così posta la questione, il numero è qualcosa che trascende il reale, travalicando nella sua essenza ogni “aggancio” con la realtà60. Per non parlare delle conseguenze teoretiche di un tale approccio, il quale finisce per rendere “liberale” l’aritmetica, ossia qualcosa di coltivato per amore del sapere (perché non originato dalla realtà); conseguentemente, Toth giunge a uno snodo assai importante delle sue analisi: la libertà creatrice dell’uomo appena mostrata in matematica è identica a quella che permette l’origine del linguaggio, l’atto intellettuale con cui la parola si separa dalla realtà e la “informa”61. È in un simile movimento “poietico” che il linguaggio crea il non-essere parlandone, nominandolo; un atto con cui inizia non soltanto la matematica greca, nota Toth, ma «tutto il pensiero matematico nel senso attuale del termine: la parola, il logos, comincia a parlare di ciò che non esiste, del non-essere aritmetico, della radice quadrata dei numeri per loro natura non quadrati»62. Passando per i Pitagorici, Platone «è già divenuto manifestamente cosciente del carattere aritmetico dell’irrazionale, dunque dell’esistenza di grandezza determinata, sinonimo di numero irrazionale, corrispondente anche a una misura incommensurabile, a una lunghezza ineffabile - all’Uno trascendentale»63. (59) Cfr. ivi, pp. 201-206. (60) Vd. ivi, pp. 208-209. (61) Cfr. ivi, pp. 210 ss. (62) Ivi, p. 217. (63) Ivi, p. 239.

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Il resto del secondo manoscritto di Toth presenta argomenti nella stessa successione e con identico schema di ciò di cui abbiamo brevemente dato conto in precedenza, entrando ancor di più in fini ragionamenti che presentano alcuni tecnicismi logico-matematici. Costantemente presenti sono i riferimenti storici, letti, però, alla luce di un sapere matematico moderno che dona ancora più originalità e fascino se possibile - all’antico. Conclusioni Non spetta a noi dare un giudizio né sommario né definitivo sul valore delle riflessioni tothiane nel panorama degli studi platonici; ciononostante, ci pare di poter affermare con sicurezza che sono tutt’altro che trascurabili. Se dal punto di vista più tradizionale essi si possono collocare nel filone interpretativo che reputa centrali le cosiddette “dottrine non scritte” di Platone, non bisogna credere che Toth ne sia un tipico esponente: l’adesione esplicita alla scuola di TubingaMilano non riveste il carattere di una scelta di campo “preventiva”, di una seppur convinta adesione dettata anticipatamente; piuttosto scaturisce da un convincimento di cui a poco a poco Toth fa partecipe il lettore guidandolo sapientemente e in modo suggestivo tra le pieghe dei dialoghi platonici. Le sue riflessioni partono dal sapere matematico, passano al pensiero matematico e approdano al pensiero in generale, pervenendo ad assai originali considerazioni inerenti la storia delle matematiche, la filosofia della matematica, la filosofia della conoscenza e l’etica; tutto questo, per così dire, all’ombra di Platone, il filosofo per eccellenza, le cui riflessioni non bisogna considerare - come molti studiosi hanno fatto - alla stregua «di una strana opinione personale, scioccante ed eccentrica [...] Al contrario, il discorso di Platone offre una descrizione realistica [e] diretta del paesaggio trascendentale aperto dalla penetrazione dell’infinito nel pensiero matematico»64. (64) Ivi, p. 299.

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Se non ci si vuole arrendere di fronte all’assenza di dettagli intorno alla prima apparizione dell’irrazionale matematico e dare così scacco a un metodo storiografico evenemenziale positivista, si può abbracciare l’ipotesi tutt’altro che peregrina di un «prodotto collettivo, quasi impersonale», scaturito dal ristretto ambiente pitagorico65. Detto ciò, più che soffermarsi esclusivamente sul “cominciamento” dell’irrazionale, Toth muove decisamente oltre alla ricerca della portata di questo atto di rottura nella storia del pensiero: L’apparizione dell’idea dell’irrazionale nel pensiero, quindi la conoscenza dell’irrazionale, è stata sentita come uno choc non soltanto nell’ambiente della scuola pitagorica ma ben oltre nell’insieme della spiritualità filosofica greca del quinto secolo - choc direi, di dimensioni e significato cosmici. È stato senza dubbio un avvenimento assolutamente primario del pensiero e non soltanto del pensiero greco ma [di quello] umano nella sua universalità; un immenso bagliore di luce di cui si potranno percepire i riflessi sui volti dei filosofi contemporanei66.

Il terminus a quo dell’irrazionale matematico è, per Toth, Platone, l’autore dei dialoghi che aprono una prospettiva nuova sull’argomento e rimandano in modo pressoché inequivocabile alle sue dottrine non scritte, attestandone l’esistenza. D’altro canto, il grande filosofo greco non poteva esprimere compiutamente quanto individuato sia per limiti semantico-linguistici di cui abbiamo già detto, ma pure a causa della refrattarietà presente all’epoca rispetto a tali argomenti; infatti, considera Toth, «l’idea della diade platonica e, naturalmente, neanche quella dell’infinito in atto che ne deriva, non sono mai penetrate nel pensiero matematico degli antichi»67. (65) Cfr. ivi, pp. 309 ss. (66) Ivi, p. 303. Si tratta di un atto che è molto più di una scoperta nel senso usuale del termine, «non è affatto comparabile alla scoperta ad esempio di un continente, alla messa in luce di una cosa preesistente e nascosta» (ivi, p. 311), piuttosto una “invenzione” o “creazione”, dove l’elemento intellettuale costruttivo prevale su quello rappresentativo, dove la poiesi supera l’astrazione. (67) Ivi, p. 286.

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Nonostante i matematici antichi non l’abbiano seguito lunga questa via, Platone resta colui che comprende e realizza l’irrazionale creando un nuovo sapere e, indirettamente, sancendo «lo statuto privilegiato che egli merita nell’universo del pensiero»68. La portata del suo pensiero matematico, quindi, non solo travalica la sua epoca, facendo di lui un “inattuale”, ma giunge fino al XIX secolo, attraversando oltre duemila anni da considerare «come tempo lungo e doloroso, tortuoso e torturante di un prolungato lavoro di anamnesi»69, di recupero del ricordo. Così, alle soglie del secondo millennio, con l’interrogarsi intorno ai fondamenti della matematica, si ritorna prepotentemente sull’irrazionale matematico e, come risvolto della stessa medaglia, si getta nuova luce su quanto Platone aveva compreso. Ciò fa dire a Toth: «Sono dell’avviso che senza conoscere l’opera di Cantor e Dedekind, la creazione matematica di Platone ci resterà inaccessibile e i testi come il Filebo, il Sofista o il Parmenide completamente incomprensibili»70. In quest’ottica, Platone diviene, se possibile, ancora più grande di quanto già riconosciuto: è il matematico che inventa l’irrazionale ma pure - correlativamente - il filosofo che porta il “non-essere” all’esistenza, in un movimento tutto spirituale nel quale Toth non esita a riconoscere “l’immane potenza del negativo” della dialettica hegeliana, attraverso la quale «ciò che è legato conquista una propria esistenza determinata e una sua distinta libertà»71.

(68) Ivi, p. 321. (69) Ivi, p. 328. (70) Ivi, p. 256. Vd. pure supra, nota 42. (71) Ivi, p. 334. Difatti, Hegel si esprime nella Prefazione alla Fenomenologia con queste parole: «[...] Ma che l’accidentale ut sic, separato dal proprio ambito, che ciò ch’è legato nonché reale solo nella sua connessione con l’altro, guadagni una propria esistenza determinata e una sua distinta libertà, tutto ciò è l’immane potenza del negativo; esso è l’energia del pensare, del puro Io» (G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, a cura di E. De Negri, I, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 26).

Amélie Dessens Le fonds Imre Toth à la bibliothèque universitaire de Sienne. Pistes d’exploration Je tiens tout d’abord à vous remercier de m’avoir invitée à ces journées en hommage à Imre Toth. C’est un honneur et un grand plaisir de me plonger à nouveau sur le fonds conservé à la Biblioteca Umanistica di Siena, où il a été déposé en 2011 par l’intermédiaire du professeur Romano Romani. Grâce à Luca Lenzini, alors directeur de la bibliothèque, il y a désormais sa place dans une salle dédiée. Chacun des intervenants de ce colloque a pu aborder un aspect des travaux de recherche, de la vie ou de la pensée d’Imre Toth. Pour ma part, j’ai découvert son œuvre en 2016 dans le cadre d’une formation de conservateur des bibliothèques: j’ai eu alors la chance de venir quelques mois à Sienne pour travailler sur sa bibliothèque et son fonds d’archives. Ce faisant, j’ai pris connaissance d’un fonds complexe offrant matière à étude tant sur les sujets que Toth a explorés sa vie durant, que sur les formes par lesquelles il a fait naître et exprimé sa pensée. Les archives de chercheur laissent fréquemment une grande perméabilité entre travaux de recherche et éléments plus personnels et biographiques. Le fonds Toth n’y fait pas exception: sa correspondance, ses archives, ses livres, ses dossiers et ses fichiers, tout comme ses œuvres d’art - sans doute la partie la plus atypique du fonds - offrent comme une mosaïque des différents aspects de sa vie et de son parcours de chercheur. Ils permettent de percevoir, par bribes, et parce qu’il s’en dégage indéniablement certains de ses traits de caractère, les éléments

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d’une personnalité forte dont la vie a rencontré l’Histoire, un chercheur au cœur d’un réseau intellectuel riche, un homme avec beaucoup d’humour et un professeur à l’écoute de ses étudiants, répondant avec beaucoup de simplicité à leurs courriers. On me pardonnera je l’espère de n’être ni mathématicienne, ni philosophe. Mon approche des documents laissés par Toth sera au contraire celle d’un questionnement propre aux professionnels de la documentation, de l’information et du patrimoine: comment conserver et faire connaître ce fonds et, au-delà de sa description, comment l’explorer, par quelles méthodes? Comment susciter son étude par d’autres chercheurs pour mieux faire connaître la vie et l’œuvre d’Imre Toth? Le travail réalisé en 2016, je dois le préciser, n’a permis de traiter qu’une partie des archives. Il s’agit de proposer ici avant tout des pistes de réflexion qu’il appartiendra, si elle le souhaite, à la bibliothèque de sciences humaines de Sienne de mettre en œuvre par la suite1.

Le fonds Toth dans sa complexité Comme souvent pour un fonds privé déposé après le décès de son producteur, les dossiers et documents de travail d’Imre Toth ont été déménagés tels que ses enfants les ont trouvés dans son appartement parisien. Leur organisation, autant qu’il a été possible de la conserver, reste aujourd’hui prévalente dans le classement du fonds à mesure de son avancement depuis son transfert à Sienne. A côté des dossiers de travail et de la bibliothèque existe cependant aussi un vrac de do(1) Je tiens à remercier ici tout particulièrement Anne Toth qui m’a très aimablement reçue en mars dernier lors d’un bel après-midi pour évoquer son père et me montrer quelques-uns de ses documents personnels. C’est un autre aspect de sa personnalité qui m’est alors apparu pour compléter et remettre en perspective les étapes de sa vie et de sa carrière. Je remercie également le professeur Siegmund Probst pour les liens qu’il m’a envoyés vers les archives conservées à l’Université de Ratisbonne et l’exposition virtuelle que l’établissement a consacrée au chercheur et artiste.

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cuments sans classement apparent, qui devront encore être inventoriés, décrits et classés. Une analyse du fonds en vue de sa description archivistique m’a permis en 2016 de dégager six sous-séries (fig. 1): • Les documents personnels, peu nombreux, comprenant quelques photos - reproductions ou originaux - et surtout des documents administratifs qui se rapportent pour l’essentiel à son dossier de naturalisation allemande qu’il obtient en 1974, et dans lequel un certain nombre de lettres d’appui ont été fournies par des personnes qu’il a sans doute connues durant son enfance. • Les dossiers de travaux de recherche : on peut les subdiviser entre les dossiers de travail à proprement parler et les dossiers autour des publications. Ces derniers comprennent les échanges avec les éditeurs ou encore des retours d’autres chercheurs sur ses travaux. Ils ont été rassemblés par Toth lui-même en fonction des ouvrages ou articles qu’il a publiés. • La correspondance de 1944 à 2010: échanges professionnels mais aussi correspondance privée, dont une bonne part avec des chercheurs et intellectuels avec lesquels il a noué des liens amicaux.

Figure 1 - Analyse du fonds Imre Toth - Mai 2016. En bleu figurent les principaux fonds traités en 2016.

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• Les collages - originaux, reproductions et œuvres en cours: c’est ici une particularité propre au fonds Toth, rares étant les chercheurs également artistes pour lesquels il existe une vraie correspondance entre les œuvres, ses collages philosophiques en particulier, et les travaux de recherche. • Les objets, très peu nombreux: distinctions et ordinateur. Il faut noter dans l’analyse, la dissociation entre l’ordinateur en tant qu’objet témoin d’un mode de travail, et les fichiers numériques classés quant à eux dans la série des travaux de recherche. Cela tient avant tout à des considérations de conservation entre contenant et contenu dont les exigences ne sont pas les mêmes. On comprendra par ailleurs aisément le rapprochement intellectuel des fichiers numériques avec les travaux de recherche dont ils ne diffèrent que par le support, bien que les exigences de conservation soient là-aussi différentes. • La bibliothèque du chercheur: elle est en elle-même une archive par toutes les spécificités qu’elle révèle, j’y reviendrai plus bas. Au fonds principal Imre Toth s’ajoutent trois autres sous-fonds dont les documents sont sans rapport direct avec lui: les fonds Siegrid Toth, son épouse, Margit Roth, sa sœur, et enfin Fenyö Bela, qui figure parmi les correspondants d’Imre Toth dans les années 70. Enfin, il faut signaler parmi les sources complémentaires de premier ordre, le fonds Imre Toth conservé aux archives universitaires de Ratisbonne où il a été titulaire de la chaire de Philosophie des sciences pendant 18 ans à partir de 1972, dont il existe un instrument de recherche en ligne2: ce fonds comprend aussi des manuscrits, une partie de sa correspondance et les archives liées à son activité pédagogique et de recherche.

(2) Archives universitaires de l’Université de Ratisbonne, Findbuch zum bestand Rep. 83 Lehrstuhl Imre Toth, 14 mai 2021, https://www.uni-regensburg.de/assets/bibliothek/imretoth/pdf/Findbuch_Rep_83_Toth.pdf.

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Explorer la vie et le réseau intellectuel d’Imre Toth à travers les archives déposées à Sienne Arrêtons-nous ici principalement sur les deux fonds plus spécifiquement traités pendant les mois passés à Sienne: la correspondance et la bibliothèque. L’une comme l’autre sont des fonds particulièrement riches pour dégager des éléments biographiques et de compréhension du réseau intellectuel dans lequel Imre Toth a évolué. La correspondance Comme pour le reste du fonds, certains des dossiers avaient déjà été constitués par Toth et sont restés tels quels: les échanges autour de publications comme celle de Palimpseste3 par exemple, ou encore ses dossiers de candidature à tel ou tel poste. Par ailleurs, il y avait aussi un vrac de lettres non classées que j’ai réorganisées par correspondant et ordre chronologique. Le traitement avait aussi une visée de conservation puisqu’il s’est accompagné d’un reconditionnement de l’ensemble des lettres. Chacune a été mise à plat hors enveloppes, ces dernières étant également conservées: elles fournissent des informations essentielles telles que date, lieu d’envoi, adresses successives de Toth en fonction de ses déménagements et des postes qu’il a occupés. Ces indications sont particulièrement précieuses en effet car elles permettent de comprendre comment le réseau de Toth peut s’étendre ou se reconfigurer en fonction de l’évolution de sa carrière ou des évènements qui ont marqué sa vie. Au fur et à mesure de ce traitement, j’ai pris en notes les noms des correspondants, les dates et les institutions d’où provenaient les lettres quand elles étaient indiquées. C’est ce qui me permet ici de présenter une première analyse statistique de cet ensemble (figg. 2 et 3). (3) Imre Toth, Palimpseste: propos avant un triangle, La bibliothèque du Collège international de philosophie, Presses universitaires de France, Paris 2000.

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Figure 2 - Correspondance Imre Toth conservée à Sienne, statistiques par langue et par année

Attention cependant, ce corpus n’est pas exhaustif même au sein du fonds présent à Sienne, faute de temps nécessaire au traitement de la totalité. Ces chiffres correspondent essentiellement aux lettres du «vrac» de correspondance et de quelques dossiers de publication. Il faudrait

Figure 3 - Correspondance d’Imre Toth conservée à Sienne: répartition géographique

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les compléter lors de la suite du traitement et par ailleurs, prendre en compte également le fonds conservé à Ratisbonne. Au total à cette étape du travail, la correspondance traitée représente 441 correspondants identifiés pour 1400 lettres reçues entre 1944 et 2010. L’essentiel recouvre la période à partir de la fin des années 60, lorsque Toth réussit à s’installer en Allemagne, ayant quitté son poste de «lecteur sans contrat»4 à l’Université de Bucarest, où la situation devenait de plus en plus difficile du fait de la politique antisémite du parti communiste roumain, dont il est exclu en 19585. Toth s’exprime dans six langues principales: il maitrise très bien l’allemand, le roumain, le hongrois, le français, l’anglais, l’italien, sans compter ses connaissances en russe, latin et grec. Il s’agit là certainement en partie d’un héritage de l’histoire familiale. Toth explique dans l’entretien avec Romano Gatto publié en 1992 que son père lui a fait apprendre l’anglais et le français parce qu’il a longtemps pensé partir aux Etats-Unis pour fuir les persécutions contre les Juifs. Cellesci avaient déjà amené sa famille à immigrer dans les années 20 dans la région où il est né, à Szatmar - ou Satu Mare - alors en Roumanie6. Les nombreuses lettres de soutien à son dossier de naturalisation, écrites par des personnes qu’il aurait connues enfant, insistent sur le fait que l’allemand était couramment utilisé lors de certaines réunions familiales. Ces témoignages destinés à appuyer sa candidature à la nationalité allemande enjolivent sans doute la réalité7. On comprend (4) Romano Gatto, “Colloquio con Imre Toth”, Lettera Pristem, 6 novembre 1992, p. 12. (5) Imre Toth, “Etre juif ... après l’holocauste”, Le Coq-Héron, no 163 (2001): 13‐41. Arrivé en 1969 à Francfort sur le Main à la faveur d’une proposition de poste de professeur invité, Imre Toth n’obtient que sa femme ne soit autorisée à le rejoindre qu’en 1970, grâce à l’action de ses collègues professeurs d’Université, dont Willy Hartner, et l’intervention du Président de la République fédérale allemande, Gustav Heinmann lui-même (Courier d’Imre Toth à [Hans Sharoun?] du 9 septembre 1970, fonds privé Anne Toth). (6) Romano Gatto, op. cit., p. 5. (7) Lors de notre entretien en mars 2022, Anne Toth m’a confirmé qu’elle n’avait jamais entendu cette anecdote.

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cependant que Toth était encouragé à une certaine curiosité intellectuelle par l’apprentissage des langues d’une part, mais aussi par le contexte et l’histoire familiale, de fait, multiculturelle: son père est né en Hongrie en 1888, sa mère en Russie en 18978. Ce n’était d’ailleurs pas une exception dans l’Europe centrale de la première moitié du XXe siècle aux frontières bien souvent remaniées, où cohabitaient différentes identités nationales dans les pays nés de l’ancien empire austro-hongrois aux lendemains de la première guerre mondiale9. Toth s’exprime dans ses lettres naturellement dans différentes langues et ne renonce pas comme son ami Cioran à l’usage du Roumain pour marquer la rupture après son départ de la terre natale: il emmagasine et choisi. Son rapport à la langue est particulier: il utilise telle ou telle langue en fonction du contexte, en fonction de l’interlocuteur bien-sûr, mais on voit bien que le choix de la langue n’est pas que fonctionnel. Il joue parfois même avec, forçant l’accent allemand dans la langue française marqué à l’écrit dans le terme «irréfokable»10, ou faisant usage dans une même lettre de plusieurs langues, ce qui montre un certain degré d’intimité avec ses interlocuteurs comme les traducteurs de Palimpseste par exemple, mais aussi sa pleine liberté11. L’observation des lieux et institutions d’attache de ses correspon(8) Dossier de naturalisation du 28 mai 1972. Fonds Imre Toth, Bibliothèque de Sciences humaines, Sienne. (9) Satu Mare, ville à majorité hongroise comportant une communauté juive de près de 7.000 personnes au début du XXe siècle, appartient à l’empire Austro-Hongrois jusqu’à la première guerre mondiale. Elle est ensuite rattachée à la Roumanie de 1919 à 1940, reprise par les Hongrois pendant la seconde guerre mondiale, avant de revenir à la Roumanie de nouveau en 1945. (10) Dossier d’archives concernant la publication de Palimpseste, chronologie des rédactions successives: “11. Neuvième rédaction française. DEPHYNITIVE (sic). IRREFOKABLE (sic). Juin 1985. Typo : mars 1986”. (11) Parmi la correspondance de Toth figurent près de 55 doubles de lettres qu’il a envoyées, essentiellement des lettres administratives ou professionnelles pour ses échanges avec des éditeurs, mais aussi quelques brouillons de lettres personnelles. Nous n’avons pas tous les courriers envoyés mais cet échantillon permet d’entendre directement la voix de Toth au sein de ces échanges, et non pas seulement de les déduire en creux.

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dants permet de dessiner les contours d’un réseau personnel et professionnel international étendu, témoignant de sa reconnaissance: 37 pays sont représentés - en comptant toutefois quelques cartes postales envoyées de lieux de vacances! Il reçoit ainsi une lettre du doyen de l’Université des sciences de Tananarive à Madagascar en 1968. Dans les années 70, il a des correspondants à l’université de Lausanne, de Pittsburgh, de Toronto, en même temps qu’il continue à entretenir des liens avec ses collègues de l’université de Bucarest, et qu’il étend ses échanges avec diverses universités allemandes. Cette correspondance est intéressante pour l’histoire des échanges internationaux académiques de la seconde moitié du XXe siècle. Elle permet de saisir par exemple les jeux de recommandation pour obtenir un poste. Bien qu’on ne les ait pas toujours conservées, Toth envoyait avec ses dossiers de candidature, des lettres d’appui de ses pairs: en 1975, il envoie ainsi avec son Curriculum Vitae pas moins de sept lettres de références de chercheurs appartenant à sept universités différentes, dont une de Karl Popper qu’il a peut-être connu à la London School of Economics où il a été lecteur en 1969. J’ouvre ici une parenthèse sur les CV et lettres de candidature: ces documents ont leur importance dans la chronologie de la carrière de Toth qu’ils permettent d’appréhender dans ses réussites ou ses éventuels échecs. Ce sont aussi des documents dans lesquels le chercheur se raconte, se présente, indique ses principaux sujets de recherche au moment où il postule: on y entraperçoit la manière dont Toth aborde un nouveau poste, ce qu’il espérait peut-être aussi pouvoir développer dans ses thématiques en rejoignant telle ou telle université et sa communauté scientifique. Si on ne conserve que leurs échanges épistolaires aujourd’hui, les débats scientifiques se sont faits aussi dans les rencontres et la confrontation directe entre chercheurs comme lorsque Toth a été invité à l’Ecole normale supérieure de Paris en 1975-76 ou encore à Princeton en 1976-77. On peut noter alors l’importance de la sociabilité et de

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«l’hospitalité académique», si je puis dire, que l’on devine dans certains échanges. Maurice Loi s’inquiète par exemple de ce que Toth ne pourra pas être logé à Paris sur toute la durée de ses cours comme il l’avait été lors d’une première conférence début 1975, mais qu’il fera son possible pour l’accueillir au mieux12. Une analyse sémantique complémentaire de la correspondance et du ton des échanges permettrait enfin de percevoir les codes emprunts de respect et de déférence en usage à l’université à cette époque et, c’est bien humain, de l’évolution de certains de ces liens vers une vraie cordialité et amitié entre collègues que Toth côtoie régulièrement. On note ainsi progressivement le passage du vouvoiement au tutoiement toujours dans la correspondance avec Maurice Loi. Les lettres de Toth témoignent aussi de liens plus intimes avec des intellectuels comme Cioran par exemple ou avec d’autres amis avec lesquels l’humour est souvent présent et met à distance les controverses qu’il a pu rencontrer sur les sujets qu’il avait à cœur: la géométrie non euclidienne au premier chef. On rencontre ainsi de mystérieuses lettres reçues de la «police euclidienne»13! La bibliothèque Le second fonds que j’évoquerai est d’une importance capitale dans la connaissance de Toth et je me permets de citer avec son auto(12) Lettre de Maurice Loi à Imre Toth, 7 février 1975. Le premier courrier de Maurice Loi date du 13 septembre 1974: il lui demande alors l’autorisation de traduire Le problème des parallèles dans l’œuvre d’Aristote et l’invite pour la première fois à participer au séminaire de Philosophie et mathématiques de l’ENS pour y présenter son ouvrage. La conférence a lieu en janvier 75: “Aristote et la possibilité d’une géométrie non euclidienne”. Elle est suivie d’une série de cours au printemps de la même année, sous l’intitulé “Intuitionnisme et constructivisme, signification philosophique de la géométrie non euclidienne”. (13) Quelques lettres envoyées de Londres en 1985 «To make the world safe for geometry» signées «The euclidean police». Fonds Imre Toth, bibliothèque universitaire de Sienne.

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risation, les mots très justes de Romano Romani: «Nei libri di Imre, e non soltanto in quelli che ha scritto ma anche in quelli che ha letto, si deve cercare la sua anima»14. Les deux fonds se complètent mais dans la bibliothèque il y a une part de construction plus ou moins consciente d’un ensemble qui, en soi, parce que c’est une construction et parce qu’elle conserve les traces de son possesseur, est une archive qui documente son travail autant qu’elle le raconte, qu’elle donne à percevoir sa personnalité et son histoire. La présence, le traitement et la communication des ouvrages d’une bibliothèque de chercheur dans une bibliothèque posent souvent question du fait de cette dualité, à la fois source documentaire, utile éventuellement à d’autres lecteurs, d’autres chercheurs, et en même temps archive qui transmet des informations sur les centres d’intérêt de celui qui l’a constituée, sur ses sources, ses auteurs de prédilection. Elle témoigne aussi de son réseau dans le cas des ouvrages dédicacés et devient par là-même, une prolongation de sa correspondance. Dans le cas de la bibliothèque d’Imre Toth, on peut distinguer plusieurs types de livres: • les livres annotés • ceux qui ne le sont pas • les livres qu’il a lui-même écrits: ils sont une matérialisation de sa bibliographie, auxquels il faut joindre aussi ses articles, rassemblés dans des dossiers spécifiques15 • les livres qui lui ont été dédicacés: on y voit souvent des liens d’amitié forte, des marques de respect ou d’admiration nombreuses, des échanges entre artistes (14) «Dans les livres d’Imre, pas seulement dans ceux qu’il a écrits mais aussi dans ceux qu’il a lus, il faut chercher son âme». Echanges pour la préparation de cette communication, mail du 17 janvier 2022. (15) En parallèle, il faut ajouter les bibliographies ajoutées aux CV et lettres de candidature, qui complètent la connaissance de l’œuvre d’Imre Toth dans sa globalité et son évolution.

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• Les livres qui ont nourri ses recherches, auxquels il faut ajouter les photocopies de chapitres ou de livres entiers, voire quelques microfilms16 • On pourrait faire figurer dans cette liste également certains livres qui ne figurent pas matériellement dans la bibliothèque, mais dont on sait qu’ils en ont fait partie à une certaine période, en particulier ceux de Cioran dont les photocopies des dédicaces figurent néanmoins dans le fonds d’archives17. Dans cette catégorie pourraient apparaître aussi les livres de la toute première bibliothèque d’Imre Toth lorsqu’il était adolescent, qu’il a mentionnés à plusieurs reprises lors d’entretiens ou dans ses ouvrages18. L’étude systématique de la bibliothèque d’Imre Toth doit encore être conduite. Aujourd'hui, la totalité des ouvrages de la bibliothèque d'Imre Toth a été décrite dans le catalogue de la Bibliothèque universitaire de Sienne, soit au total 855 ouvrages pour 901 volumes. Pour l’essentiel concernant leur contenu intellectuel, on note des livres sur les mathématiques, la géométrie euclidienne et non euclidienne, la topologie, la géométrie différentielle, la théorie des ensembles, l’histoire et la philosophie de la discipline, la logique, l’antiquité et les philosophes et mathématiciens grecs comme plus largement, les écrits de nombreux philosophes toutes époques confondues. Il y a aussi des ouvrages sur le judaïsme, le nazisme et l’antisémitisme auxquels

(16) Le fonds conserve ainsi un microfilm d’un manuscrit grec sous la cote Vatican. Biblioteca apostolica vaticana, Urb. gr., 035. Il comporte des fragments de texte d’Aristote. Le document intégral est aujourd’hui consultable en ligne sur le site de la bibliothèque vaticane: https://digi.vatlib.it/view/MSS_Urb.gr.35. (17) D’après les indications de sa fille, Anne Toth, les ouvrages de Cioran ne sont pas conservés dans sa famille, contrairement à l’hypothèse que j’avais faite au moment du colloque. (18) Parmi ces ouvrages, Toth cite «La critique de la raison pure et l’Ethique de Spinoza, quelques ouvrages de Diderot, Erasme et Nietzsche», livres que son père dans une dernière lettre adressée aux Allemands avant d’être déporté, avait demandé qu’ils soient laissés à son fils et qui furent retrouvés après la guerre (Romano Gatto, op. cit., p. 5).

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Imre Toth a été confronté dans sa vie personnelle et familiale pendant la seconde guerre mondiale et plus tard, comme évoqué plus haut, au sein du parti communiste en Roumanie. Il a d’ailleurs écrit sur ce sujet un texte singulier et très fort en 2001: Être Juif après l’holocauste19. On trouve enfin dans sa bibliothèque des livres d’artistes ou encore des livres de poésie et quelques romans allemands et hongrois, témoins probablement de ses goûts personnels. La mention de provenance relative au fonds Imre Toth inscrite dans les notices de catalogage au sein du système d’information documentaire universitaire20 permettra à terme de recomposer virtuellement la bibliothèque du philosophe et facilitera son étude: auteurs, titres, éditions, a minima, seront consultables. On peut imaginer aussi une extraction des sujets matière associés qui dessineront une carte mentale des thématiques abordées par Toth.

Le fonds d’archive comme reflet du travail du chercheur Les archives et la bibliothèque, notamment les livres annotés de Toth, sont aussi un témoignage direct et très concret du travail du chercheur. Leur exploration pourrait permettre de connaître ses sources tout comme de comprendre ses méthodes de travail et la genèse de ses travaux.

(19) Le texte paraît en français dans le Coq Héron en 2001 puis est traduit notamment en 2002 en italien: Imre Toth, Essere ebreo dopo l’olocausto, éd. par Bianca Maria D’Ippolito, 1 vol., L’orizzonte della filosofia 1, Cadmo, Fiesole 2002). (20) Les ouvrages sont identifiables grâce à la mention de provenance “Fondo bibliografico I. Toth”. L’organisation du catalogue par facette (à droite de l’écran) permet de distinguer les différents auteurs présents dans le fonds ainsi que les sujets. Cf. le catalogue en ligne OneSearch: https://onesearch.unisi.it/primo-explore/search?vid=39SBS_V1&lang= it_IT.

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Sources, lieux et méthodes de travail J’ai évoqué plus haut l’étendue du réseau intellectuel et académique de Toth: la bibliothèque, autant que la correspondance, en est un témoignage. Au-delà des dédicaces qui montrent les liens personnels, les ouvrages donnent parfois aussi des indications sur les lieux et les bibliothèques dans lesquelles Toth a travaillé. Je pense aux marques de provenance qui ne manquent pas de figurer sur les photocopies des articles (cote des ouvrages, tampon de la bibliothèque) ou sur les microfilms, plus rarement sur quelques ouvrages qui n’ont pas été rendus après emprunt, par exemple à la bibliothèque universitaire de Ratisbonne! Dans les archives figurent aussi quelques cartes de demandes d’emprunt et d’autres de prêt entre bibliothèques quand l’ouvrage n’était pas disponible dans l’établissement où Toth se trouvait. On peut ainsi imaginer les corpus auxquels il avait accès en fonction des lieux ou des zones géographiques dans lesquels il a occupé des postes. Il y aurait aussi à étudier toutes les marques de lecture ou marginalia, laissées dans les ouvrages par Toth: dans la partie annotée de la bibliothèque, on voit que l’objet livre, la couverture ou le texte sont très souvent marqués, surlignés, entourés. La date d’un livre par exemple est l’objet de toute son attention: en plus d’entourer la date, il mentionne souvent aussi l’édition à laquelle elle correspond, parfois la date et le lieu où l’ouvrage a été acquis. Historien des mathématiques, Toth étudiait l’évolution du travail de certains auteurs et avait donc besoin de consulter plusieurs éditions pour comparaison. L’ensemble de ces marques montrent une forme d’appropriation très forte de l’objet et de son contenu qui est littéralement trituré (fig. 4). Le livre est parfois en mauvais état, il manque souvent les dos et des annotations y sont ajoutées sans doute pour repérer l’exemplaire plus facilement parmi les autres ouvrages. L’ouvrage collectif String figures and other monographs21 se voit ainsi (21) W.W. Rouse Ball, String Figures and Other Monographs, Chelsea Publishing, New York 19693.

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Figure 4 - Euclide, Elemente, traduction de Victor Marian, Bucarest 1939. onds Imre Toth, Bibliothèque universitaire de Sienne.

ajouter sur le dos au feutre bleu «Carslaw NEG» et sur le plat supérieur «Carslaw Non-E Geometry», additionné d’un dessin au crayon représentant le «French Model of the NEG». Toth pouvait ainsi retrouver très rapidement également ce pour quoi il avait sélectionné l’ouvrage. Au-delà des notes et parfois par-dessus le texte lui-même, des dessins - pratique courante chez Toth - fondent un dialogue direct et intime avec l’œuvre étudiée, tantôt traduction illustrative des idées repérées, tantôt clin d’œil humoristique. Dans les livres, on trouve parfois des prises de notes sur fiches. Cela appelle en regard à s’intéresser à un autre objet qui représente parfaitement le travail de Toth: son fichier, c’est-à-dire les boîtes dans lesquelles il rangeait ses fiches de notes. Celles-ci sont plus ou moins

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fournies et leur classement est encore à étudier mais elles renvoient vraisemblablement souvent au travail sur un ouvrage ou un article en cours. Je prendrai pour preuve son travail sur Palimpseste: on trouve sur le fichier comme sur les dossiers d’archives pour sa publication, le dessin de l’œil dans un triangle, œil de la connaissance entre autres, symbole ô combien polysémique. Les citations reprises dans le fichier sont dûment référencées, avec des renvois vers les éditions utilisées. Toutes n’ont sans doute pas été reprises dans le travail final tel qu’il a été publié: c’est une source d’indications précieuses sur la somme de recherche conduite par Imre Toth sur la géométrie non euclidienne. Parallèlement, le fichier forme en soi une base de données, avec une organisation spécifique voulue par Toth et en tant que telle, protégée comme œuvre de l’esprit, mais dans le même temps aussi, une source de données de recherche qui pourrait servir à d’autres chercheurs s’intéressant à la même discipline. Y donner accès directement est à mon sens très délicat car les fiches ne sont pas à l’heure actuelle conditionnées pour être communiquées: simplement conservées dans des boîtes, elles risqueraient d’être mélangées et l’ordre de Toth définitivement perdu. Il faudrait donc a minima numéroter chacune des fiches. Au-delà, un travail de transcription permettrait de donner plus facilement accès au contenu mais cela représente un travail minutieux de longue haleine pour lequel il faudrait prévoir une structure informatique adéquate, identifiant la citation, l’auteur, la référence bibliographique exacte et les renvois et annotations dont la signification n’a pas toujours livré tout son sens. On voit ici les limites d’un projet comme celui-ci, sans étude préalable et compréhension de l’objet à valoriser: une concertation entre chercheurs connaissant le travail d’Imre Toth ou ses disciplines, et responsables de conservation serait nécessaire.

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La publication Parmi les étapes du travail d’un chercheur, la publication enfin, est une étape essentielle. Concernant le travail d’Imre Toth, l’ensemble documentaire conservé dans ses archives témoigne du circuit de l’édition scientifique dans les domaines de l’histoire et de la philosophie des mathématiques des années 70 à 2000, sujet tout à fait intéressant. Je m’attarderai ici sur un exemple bien qu’il ne soit pas tout à fait représentatif de l’ensemble de sa carrière, je l’admets: celui de l’aventure de l’édition de Palimpseste, «ovni éditorial», sur lequel on a beaucoup de matériel entre 1975 et 2000. Dans une lettre du 23 octobre 1997, Toth qualifie lui-même ainsi ce livre: Je me permets aussi de mentionner un livre curieux, qui sortira chez Rusconi en 1998 sous le titre: “NO! Libertà et verità, Negazione e creazione. Un palinsesto”. Curieux, dis-je, car il s’agit bien d’un collage de textes, composés dans le style surréaliste d’un dialogue, ou mieux dit, d’une dispute achronique, collages concoctés des fragments des auteurs qui pendant les deux millénaires passés ont eu quelque chose d’important ou privé de toute importance à dire à propos de la géométrie non euclidienne et des problèmes de métaphysique, de morale, de politique, d’esthétiques qui la concerne d’une manière visible ou invisible.

Autour de cet ouvrage figurent dans les archives et la bibliothèque les fiches de notes dont nous venons de parler, et certains livres qui ont explicitement servi de source. Sont conservées aussi les chronologies réalisées par Toth lui-même qui recensent les différentes versions de l’œuvre et ses traductions: certaines d’entre elles sont très factuelles et détaillées, d’autres au contraire, expriment derrière beaucoup d’humour, les difficultés, les refus ou les frilosités des éditeurs face à un objet qu’ils ont du mal à appréhender. On comprend alors toute la patience et la persévérance qu’il a fallu pour mener jusqu’au bout ce projet si original.

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Ainsi, dans l’une de ces chronologies allant de l’esquisse envisagée à l’Ecole normale supérieure de Paris en 1974, jusqu’en 1993, Toth évoque la «neuvième rédaction française, DEPHYNITIVE, IRREFOKABLE» mentionnée plus haut, puis la «dixième rédaction française (postume)» (sic) en août 1987, avant la «onzième rédaction, Paris 1992 juillet 1993 avril, Phynale(sic), absolue»! Dans une autre, sans doute dactylographiée aussi dans les mêmes années, 1992-1993 et complétée à la main au crayon pour les années 1995 à 1998, il mentionne à la fin «Nihil Obstat», rien ne s’oppose, antique formule consacrée pour l’autorisation de publier, avec la mention facétieuse d’Ignatius Vicecomes, jésuite et censeur qui avait autorisé entre autres la parution en 1733 d’un ouvrage sur Euclide22. Suit après l’«Imprimatur» de «F. Sylvester Marigny, O.P. inquisitor generalis Lutetiae parisiorum» référence certainement à un autre inquisiteur ayant vécu à Milan au début du XVIIIe siècle23, et enfin la mention «Montmartre - Samizdat Paris 1993». Le Samizdat fait référence aux écrits clandestins dans l’ex-URSS, alors que l’ouvrage n’a toujours pas trouvé d’éditeur malgré les encouragements de ceux qui l’ont lu. Ce n’est qu’en 1997 qu’il est finalement accepté par François Jullien alors président du Collège international de philosophie pour être publié aux Presses universitaires de France. Ces chronologies permettent de mieux comprendre les différentes étapes de la publication, de situer les échanges de courriers entre chercheurs et éditeurs, les premiers étant parfois également directeurs de collection. Jean-Marc Lévy Leblond que Toth a probablement rencontré

(22) Il s’agit de cet ouvrage, dont l’exemplaire numérisé est disponible en ligne: Euclides ab omni naevo vindicatus: sive conatus geometricus quo stabiliuntur prima ipsa universae geometriae principia (Typ. Pauli Antonii Montani, Mediolanum 1733), https://doi. org/10.3931/e-rara-10433. (23) Il s’agissait peut-être plutôt de F. Sylvester Martini, «inquisiteur général contre la dépravation hérétique». On retrouve le registre d’humour proche des lettres de la «Police euclidienne»!

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lors des séminaires de l’ENS dans le milieu des années 7024, était ainsi directeur de publication de la revue Alliage au Seuil. Les correspondances conservées permettent aussi de suivre les échanges à propos de la préface pour laquelle plusieurs collègues et amis de Toth sollicitent Umberto Eco, notamment Corrado Mangione. Pour ce qui concerne uniquement l’édition française, Toth s’est adressé à au moins sept maisons d’éditions: le Seuil, les Editions Herman, les Editions La Découverte, les éditions Christian Bourgois, l’Harmattan, Diderot Editions Arts et sciences et enfin, les PUF chez qui Palimpseste est publié en 2000. Ce qui est intéressant, ce n’est pas tant la difficulté à faire éditer une telle œuvre que l’évolution de sa réception parmi les directeurs de collection, passant d’une franche frilosité à une curiosité naissante puis à un vrai intérêt malgré l’impossibilité de publier. Enfin vient la reconnaissance de l’originalité et du travail que représente cet ouvrage et l’importance de l’apport de Toth dans sa discipline. Le matériel présent dans le fonds, d’une grande diversité, doit permettre dans une certaine mesure d’étudier la génétique du texte, d’en comprendre les différents états, pourquoi Toth a choisi certaines citations plutôt que d’autres qu’il a préféré écarter - mais dont on conserve la trace dans le fichier. En regard, les travaux qu’il publie durant ces 25 années ont pu aussi influencer l’ordre de ce Palimpseste. Cette partie du fonds d’archives est, de fait, probablement l’une de celles où transparait le plus l’originalité et la diversité des recherches et de la pensée d’Imre Toth.

(24) Maurice Loi. Ecole normale supérieure de Paris. Rapport sur l’activité du séminaire de philosophie et mathématiques pour la Direction générale des affaires culturelles, scientifiques et techniques (ministère des Affaires étrangères). 19 mai 1975. Fonds Imre Toth, Bibliothèque universitaire de Sienne. Le rapport mentionne les noms des participants et parmi les physiciens, Jean-Marc Lévy Leblond.

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Conclusion Le fonds conservé à Sienne est extrêmement riche d’enseignements sur le travail, la vie, le réseau d’Imre Toth. Il est un témoignage aussi dans une portée plus générale, de l’évolution des disciplines auxquelles Toth s’est intéressé dans la seconde moitié du XXe siècle et de l’écosystème dans lequel elles se sont développées. Il permet de comprendre l’apport et l’originalité d’Imre Toth. Au-delà de la poursuite du seul traitement documentaire, de la description et de la conservation du fonds que bibliothécaires et archivistes peuvent évidemment assurer, de nombreuses pistes d’explorations et de valorisation sont envisageables. A mon sens, elles n’auront de véritable valeur ajoutée pour la connaissance de l’œuvre d’Imre Toth, que par la constitution d’un groupe de travail associant professionnels de l’information et chercheurs dans les mêmes domaines que Toth, mieux à même de saisir le contenu scientifique de ses archives. Je citerai pour finir un dernier exemple pour justifier cette proposition: la valorisation des carnets de notes rédigées entre 1942 et 1948, alors qu’Imre Toth était en détention, pendant la seconde guerre mondiale et juste après. Ces carnets, essentiellement en hongrois, sont très illustrés et comportent de nombreuses formules mathématiques et réflexions scientifiques. La numérisation25 puis l’édition numérique de ces carnets, enrichie et commentée, transcrite et éventuellement encodée pour un repérage des formules et des principaux sujets, permettraient de mettre en lumière une véritable mine d’informations sur la genèse de la pensée et des travaux d’Imre Toth. C’est un appel à peine déguisé à la poursuite du travail d’exploration de ce fonds passionnant! (25) Une partie de ces carnets figure dans le Fonds Imre Toth à Sienne tandis que d’autres sont encore conservés par la famille. La numérisation avec son autorisation de l’ensemble des carnets rendrait à l’ensemble sa complétude, même virtuelle.

Francesco Di Benedetto Geometria e politica: la misura della diagonale come antidoto alla demagogia

Premessa Che i dialoghi platonici parlino di matematica è un fatto ovvio, suggellato due millenni fa dalla frase scelta da Teone di Smirne come introduzione alla sua opera: «Che non si possa essere in grado di comprendere ciò che Platone ha detto sulle matematiche senza essersi anche esercitati in prima persona in questo studio, chiunque lo condividerebbe»1. Teone si preoccupava, giustamente, dell’inesperienza di alcuni lettori e compose all’uopo un opuscolo, «una breve esposizione, per sommi capi, delle dottrine matematiche delle quali ha assoluto bisogno chi si troverà a leggere Platone». Non male, come idea, anzi di grande attualità, se è vero che oggi, forse più che allora, molti leggono (e insegnano) Platone senza saper nulla di geometria. Ma è tutto qui? Imre Toth, con la sua audace e inedita riflessione filosofica, ci ha protetto e ci proteggerà per sempre dal rischio di ridurre il fatto ovvio a una (1) L’opera è in genere citata col titolo latino, Expositio rerum mathematicarum ad legendum Platonem utilium, che ovviamente non è di Teone ma di Eduard Hiller (Theoni Smyrnaei, Philosophi Platonici, Expositio rerum mathematicarum ad legendum Platonem utilium, recensuit Eduardus Hiller, Teubner, Leipzig 1878, rist. 1966). E ricalca quello - parimenti inventato - della prima edizione latina (Theonis Smyrnaei Platonici, Eorum quae in mathematicis ad Platonis lectionem utilia sunt, expositio, Paris 1644). Le frasi qui citate (I, 1-2) sono prese, con traduzione leggermente modificata, dalla bella edizione italiana a cura di Federico M. Petrucci (Teone di Smirne. Expositio rerum mathematicarum ad legendum Platonem utilium, Academia, Sankt Augustin 2012).

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vuota verità. Lo stesso Teone lascia intravedere l’esistenza di un secondo livello: «Quelle dottrine aritmetiche e musicali e geometriche, senza le quali non si è in grado di raggiungere la vita migliore, come afferma lo stesso Platone mostrando in molti modi che non bisogna assolutamente trascurare (ἀμελεῖν) le matematiche». Quali che siano i “molti modi” che ha in mente Teone, noi abbiamo scelto, per questo breve saggio, il monito di Socrate al sofista Callicle: non trascurare la geometria2. Insomma, la vita migliore attende lo studioso delle matematiche. Presumiamo che anche Toth sarebbe d’accordo, ma non possiamo esserne certi, come invece lo siamo del fatto ch’egli, d’accordo o no, la vita migliore l’ha vissuta. Il nostro pensiero va a una pagina del Teeteto dove al brillante matematico, giovanissimo eppure già in grado di donare all’umanità la prima definizione di radice quadrata, viene pronosticata una vita da filosofo all’insegna della libertà3. Con un acume più unico che raro Toth percorreva i cosiddetti loci mathematici dei dialoghi platonici - come anche quelli delle Etiche di Aristotele - come gallerie scavate sotto la trama del dialogo, nelle quali farsi strada con fatica sino a rivedere la luce su terreni filosofici altrimenti irraggiungibili. Non siamo qui per riassumere gli esiti delle sue profonde e originalissime esplorazioni, ma per avvertire il lettore che anche noi, nel nostro piccolo, stiamo per compierne una, e che ci è caro dedicare alla memoria di Toth quel che riusciremo a concludere. L’arte impossibile: educare i figli Siamo sul palcoscenico del Lachete. Sullo sfondo, una palestra, dove Platone fa intendere che eserciti un maestro di scherma. Lisimaco e Melesia, padri di belle speranze, hanno invitato Nicia e Lachete, del cui «retto giudizio» hanno grande stima, per chieder loro un prezioso (2) Il verbo ἀμελεῖν usato da Platone nel Gorgia è lo stesso che troviamo nell’Expositio di Teone. (3) Teeteto, 172 d-176 a.

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consiglio: quali siano le «belle discipline e occupazioni» che concorrono alla migliore educazione dei figli. Passa di lì, apparentemente per caso, il buon Socrate, e manda all’aria il programma della riunione: egli convince i suoi ingenui comprimari che tutti loro, per quanto godano di fama di persone oneste e sapienti, in verità devono accontentarsi di “sapere di non sapere”, e quindi d’aver bisogno essi stessi, per primi, d’un maestro: altro che pontificare sull’educazione dei figlioli. Il nostro protagonista però non è nessuno dei cinque personaggi, bensì un verbo: stocházomai, alla lettera “prendere la mira”, da stóchos = bersaglio, mira, congettura. In italiano è sopravvissuto l’aggettivo stocastico, termine tecnico della statistica matematica4 e calco del greco stochastikós (= che mira bene, che procede per congetture). Quando s’alza il sipario, Lisimaco spiega a Nicia e Lachete la qualità speciale per la quale sono stati invitati a dar consigli: «Vi sono alcuni che, se qualcuno chiede loro consigli, non dicono ciò che pensano, ma prendendo di mira colui che chiede il consiglio, parlano contro la propria stessa opinione». Per contrasto, Lachete e Nicia sono convocati perché «capaci di formulare un retto giudizio e di esprimerlo sinceramente»5. Mentre con gli stochazòmenoi, cioè con “quelli che prendono la mira”, non vale neppure la pena di parlare; infatti essi si adeguano all’interlocutore, ovvero cercano di indovinarne il pensiero per poi farlo contento con una risposta falsa, ma gradita6. A onor del vero, la proce(4) Un processo stocastico è la rappresentazione matematica di un sistema che varia nel tempo secondo leggi probabilistiche e non deterministiche. (5) Lachete, 178 b 3, trad. di E. Turolla (Platone, I dialoghi, l’apologia e le epistole, Rizzoli, Milano 1953, 19642). (6) «Se ci si azzardasse a chieder loro un parere, non solo non lo darebbero, ma cercherebbero di indovinare il pensiero di chi li interroga e poi parlerebbero contro la loro reale opinione» (trad. di Maria Teresa Liminta, in Platone, Tutte le opere, Bompiani, Milano 2000). Tranne che nel lasciare al participio stochazòmenoi il suo significato letterale, qui abbiamo seguìto la traduzione di Giuseppe Cambiano: «Non dicono ciò che pensano, ma, adeguandosi a chi chiede consigli, parlano contro la propria opinione» (Platone, Dialoghi filosofici, Utet, Torino 1970). In nota Cambiano allarga questo “prendere la mira” all’operazione retorica di procedere per approssimazione, senza però metterne in luce l’aspetto matematico.

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dura stocastica non ha per forza un significato negativo: ad esempio, per Aristotele, una qualità della virtù è proprio quella di essere stochastiké, e cioè esser capace di mirare al proverbiale giusto mezzo7. Dopo aver versato la giusta dose di disprezzo agli stochazómenoi il dialogo prosegue, prevedibilmente, verso il più classico trionfo socratico, risolvendosi nel nulla. Ma noi ci fermiamo alla prima pagina, a questa impietosa denuncia di Platone contro i corruttori della democrazia: giacché quando colui che si adegua all’interlocutore opera non già in conciliaboli privati, ma col grande pubblico, ecco che l’indovinare i sentimenti del popolo gli dà il potere di condurlo alla rovina, se non altro perché guida con ignoranza e imprudenza. Di questa becera pratica uno dei due galantuomini, il prudente Nicia, ebbe a soffrire per molti anni e ci rimise prima la pace e poi la vita: per anni dovette vedersela col disgustoso Cleone, che vogliamo proporre qui come l’archetipo del demagogo8. Più volte, grazie a Cleone, Atene perse la possibilità di un onorevole armistizio; ma al suo curriculum possiamo aggiungere l’aver citato in giudizio Aristofane per una satira e Pericle per la sua grandezza. Tornando a Nicia: ciò che alla fine lo travolse fu quell’alzata d’ingegno di Alcibiade che i libri di storia chiamano “spedizione in Sicilia”; la mèta più lontana - in tutti i sensi - per l’ambizione più sfrenata.

(7) Etica Nicomachea, 1006 b 15. (8) «Cleone godeva certo di grande influenza tra il popolo, che coccolava come un vecchio ... però la maggior parte di quelle medesime persone che Cleone si studiava di compiacere, vedendone la rapacità, la sfrontatezza e l’audacia, sostenevano Nicia» (Plutarco, Vita di Nicia, 2, Einaudi, Torino 1958). I contemporanei temperano il giudizio con la panacea dello Zeitgeist: «insensibile, privo di scrupoli, falso, vanitoso, risoluto e violento ... rappresentava uno dei mali necessari di una democrazia aggressiva» (F.E. Adcock, in The Cambridge Ancient History, Cambridge University Press, Londra 1969; trad. Storia del mondo antico, a cura di C. Hermanin e L. Moscone; Il Saggiatore, Milano 1977, vol. IV, p. 566). «Cleone appare come l’autentico affossatore della grandezza attica, nonostante l’impegno e l’energia che nessuno può negargli» (H. Bengston, Griechische Geschichte, Monaco di Baviera 1965; trad. Storia greca, Il Mulino, Bologna 1985, vol. I, p. 377).

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La retorica: una “cosa irrazionale” Non sapremo dire perché, ma Lisimaco e Melesia non lasciano al lettore un’impressione favorevole. Forse perché in questo spender tanto tempo - e, in prospettiva, tanto denaro - a trovare le «belle discipline e occupazioni» degne dei loro preziosissimi rampolli ravvisiamo una certa fatua vanità dell’ateniese aristocratico, la cui vita agiata e senza problemi gli lascia per l’appunto tutto quel tempo e denaro. Se nel breve spazio del Lachete non v’è il tempo di elaborare una strategia educativa, con la scenetta dei due padri sfaccendati Platone anticipa quello che sarà, a giudizio di chi scrive, il nucleo centrale del suo superdialogo: l’educazione dei fanciulli, la famosa paideia, è il tema principale della Repubblica, sia pure oscurato dagli squarci sull’idea del Bene e dalle utopie politiche9. La definizione di educazione si scopre abbastanza semplice: «La tecnica non di dare all’anima la vista, perché già la possiede; ma di come volgerla nella giusta direzione [...] fino a contemplare quello che è l’essere in sé e quello che diciamo essere il Bene»10. Altrettanto semplici i contenuti: prima l’aritmetica, poi la geometria, e in séguito la geometria solida (che per motivi contingenti, non estranei al suo recente sviluppo proprio in Accademia, è chiamata stereometria e viene separata dalla geometria vera e propria), e infine l’astronomia e l’armonia, le scienze sorelle dei Pitagorici. Si noti che la geometria non è una tèchne, cioè una tecnica, o un’arte, come invece è la politica; Platone la chiama sempre mathèma, cioè scienza, esattamente come noi diciamo “scienze matematiche, fisiche e naturali”. «La geometria è per l’anima un centro di attrazione verso la verità, come un risveglio del pensiero filosofico a tenere in alto ciò che ora, invece, indebitamente teniamo in basso»11. Oggi come oggi il soffocante (9) Questa la prima frase del libro settimo, che introduce il mito della caverna: «Paragona la condizione della nostra natura, per quanto concerne l’educazione e la mancanza di educazione (παιδείας τε περὶ ἀπαιδευσίας), alla seguente immagine» (Rep. 514 a). (10) Repubblica, VII, 514 a e 518 c-d. (11) Repubblica, VII, 527b.

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stato ideale della Repubblica lascia perplessi più o meno tutti i lettori; c’è chi prende tutto alla lettera e accusa Platone di totalitarismo ante litteram e chi lo difende invocando il contesto filosofico, spesso partecipando all’avventurosa scoperta delle sue vere intenzioni. Passa perciò in secondo piano la più circoscritta e altrettanto incredibile tesi, e cioè che lo studio della geometria concorra a formare un buon politico. È anche questa una pia illusione? La tesi contronominale, quindi logicamente equivalente, è che il cattivo politico - ovvero il demagogo - è tale perché non ha studiato la geometria. L’affermazione è enunciata esplicitamente nel Gorgia, il più violento dei dialoghi, ricco d’insulti degni d’un moderno talk-show. Il protagonista, il celebre e ricco sofista Gorgia, è nel complesso persona educata e comunque non parla mai a vanvera, pur essendo sempre in disaccordo con Socrate. A cercare la rissa sono i suoi fiancheggiatori nonché suoi allievi e amici: Polo e Callicle. Oggetto del dialogo è la retorica, presto identificata e definita da Socrate, e col consenso di Gorgia, come la tecnica della persuasione12; chi la possiede, gongola Gorgia, ha il «massimo bene per gli uomini: il potere di persuadere con discorsi i giudici nel tribunale, i consiglieri nel consiglio, i membri dell’assemblea nell’assemblea»13. Persuaderli a far che? Anche a commettere ingiustizie? (E qui pensiamo al processo contro i comandanti delle Arginuse, caso ben più tragico del ben più famoso processo a Socrate). Sta al retore, dirà Gorgia, farne buon uso: se un uomo perde la testa e si mette a picchiare i passanti non si dìa la colpa al maestro di pugilato. Il punto però è chiaro: il rètore non sa quale sia il buon uso della retorica, perché non sa che cosa sia giusto; ben altro potere, infatti, è quello che viene dalla conoscenza. «Stabiliamo due forme di persuasione: una produce la credenza (12) «Ora, Gorgia, mi pare che tu abbia chiarito nel modo più preciso quale tecnica è, secondo te, la retorica: tu affermi che la retorica è artefice di persuasione e in questo si compendia la sua attività e il suo nucleo» (Gorgia, 453a). (13) Ivi, 452 d-e.

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senza il sapere, l’altra è la scienza», propone Socrate, e Gorgia, costretto dal ragionamento, deve ammettere che la retorica produce sì la credenza (pìstis), ma non s’occupa per nulla di che cosa sia giusto far credere. Se la città ha bisogno d’esser persuasa su come e dove costruire le mura o un porto, si domanderà a un architetto e non certo a un rètore. E se dovessimo schierarci in battaglia? Daremmo forse udienza a un rètore o a un esperto della tecnica militare? Purtroppo non sempre la ragionevolezza prevale. Come fa notare Gorgia, il popolo viene persuaso non dall’esperto capace di progettare mura o schierare eserciti, ma dal politico capace di fare un discorso convincente: Temistocle e Pericle non eran certo degli architetti, ma persuasero l’assemblea a costruire le lunghe mura e il porto che fecero poi, nei decenni a venire, la grandezza e la potenza di Atene. A noi lettori l’esempio pare un po’ stupido - il progetto delle lunghe mura è affare da statista e solo secondariamente da architetto - ma Gorgia ha in serbo un esempio ancora peggiore, che Socrate saprà abilmente sfruttare per degradare la retorica a vano trastullo. È l’esempio del medico, il quale, con tutta la sua scienza, rischia di non farsi ascoltare dal malato: se un abile rètore s’impuntasse nell’assurda impresa di persuadere quel malato a non bere l’amara medicina, la spunterebbe. Ma il rètore, osserva Socrate, è più persuasivo del medico non certo in una discussione fra medici, cioè fra uomini di scienza, ma «davanti alla folla, a coloro che non sanno». Dunque la retorica «non ha bisogno di sapere come stanno le cose: le basta aver inventato un certo artificio per dare l’impressione, a coloro che non sanno, di sapere di più di quelli che sanno»14. La retorica dunque non solo non è una scienza (mathèma) ma neppure una tecnica o arte (tèchne): «Mi pare», dice Socrate a Gorgia, «che sia una certa occupazione non tecnica», dove il termine epitèdeuma (= attività, occupazione) è piuttosto neutro, insomma per ora Socrate non ha detto nulla di grave. Ma continua così: (14) Ivi, 459 b.

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«È un’occupazione propria di un’anima capace di prendere la mira, coraggiosa e naturalmente adatta a trattare con gli uomini». Socrate ha pronunziato la parola maledetta: psychè stochastikè, anima stocastica, cioè capace di prendere la mira, adeguarsi all’interlocutore, allo scopo di dire non quel che pensa, bensì quel che l’altro vuol sentirsi dire. La sentenza finale è di grave condanna: «Chiamo il nucleo di essa adulazione (kolakeìa)»15. Torniamo al pessimo esempio di Gorgia: immaginiamo un medico noi oggi diremmo un nutrizionista - e un cuoco dinanzi a persone ignoranti in medicina, per esempio bambini (o anche, aggiunge ironicamente Socrate, uomini paragonabili ai bambini); immaginiamoli gareggiare per dimostrare chi dei due s’intende di cibi buoni e cattivi: la spunterebbe certo il cuoco. La pratica culinaria imita l’arte medica; è adulazione, ed è una cosa brutta: «Non è una tecnica ma una pratica, che non sa dare affatto ragione di ciò che somministra ... io non chiamo tecnica una cosa irrazionale (àlogon pràgma)»16. Allo stesso modo il sarto fa apparire belli i corpi senza che lo siano, mentre il maestro di ginnastica sa renderli belli per davvero con la propria tecnica. Riassumendo, per quel che concerne i corpi, il cuoco imita il medico e il sarto imita il maestro di ginnastica. Quanto alle anime - qui c’è una certa carenza di argomentazione, ma fa lo stesso: quel che conta è il concetto dell’imitazione - il sofista imita il legislatore, il rètore il giudice. A dare il potere di imitare provvede l’adulazione, dipinta a vive tinte come un quid diabolico che si muove «non conoscendo, ma approssimando (stochasmène)»17. Socrate chiude in bellezza l’arringa con (15) Ivi, 463 a. (16) Ivi, 465 a. (17) «Dopo essersi accorta - non conoscendo, ma approssimando - che queste tecniche sono quattro [scil. medicina, ginnastica, legislazione, giustizia] e si prendono cura due del corpo e due dell’anima, sempre in vista del meglio, s’è divisa in quattro parti, e, dopo essersi insinuata sotto ciascuna delle parti corrispondenti, ha finto di essere la tecnica sotto cui si era insinuata, e dà la caccia alla stoltezza e l’inganna, al punto da sembrare degna della massima stima» (Gorgia, 464 c-d).

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«l’espressione dei geometri», presentando la sua sintesi in forma di una proporzione: abbigliamento: ginnastica = sofistica: legislazione = culinaria: medicina = retorica: giustizia Il primo round tra Socrate e Callicle termina qui, con questo sommesso richiamo alla geometria.

Non trascurare la geometria Il battagliero Polo, «giovane e impaziente», è devoto allievo di Gorgia; lo svilimento della retorica a cosa di poco conto è per lui inaccettabile. Non riesce a trattenersi, non lascia neppure a Gorgia il tempo di replicare, e interviene con rabbia obbligando Socrate a riconoscere il fatto, evidente e innegabile, che i bravi rètori godono di grande potere nelle città: in via indiretta, hanno il potere di decidere ascesa e declino dei cittadini e in particolare dei cosiddetti potenti, convincendo il popolo a portare un uomo alle stelle, e a farne cadere un altro nella polvere. Sicché è nelle loro mani, e non in quelle dei cosiddetti potenti, il vero potere: altro che roba di poco conto. Socrate riesce in qualche modo a deviare la discussione - che sarà molto lunga sulla giustizia, in particolare sulla differenza tra il commettere ingiustizia e subirla. Alla fine si scoprirà che è meglio subire ingiustizia che commetterla, e se la si commette è meglio esser puniti che farla franca, ma occorrono molte pagine e molti esempi per costringere il ragionamento nella gabbia di questa conclusione tanto necessaria quanto paradossale (in senso letterale, cioè contraria all’opinione comune). Polo, all’inizio recalcitrante, segue con docilità l’argomentazione di Socrate, ma non gli riesce di mandar giù il rospo: «A me sembrano cose assurde, Socrate, ma forse per te si accordano con le affermazioni precedenti»18. Dopo di che, esausto, tace. (18) Ivi, 480 e.

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È qui che entra in scena Callicle. Di lui, come personaggio storico, non si sa nulla: secondo il Cambiano «rappresenta una precisa tendenza politica negli anni della guerra del Peloponneso»; la tendenza sarà stata pure precisa, ma non resa esplicita; a noi vengono in mente Cleone e i suoi epigoni, fautori della prosecuzione della guerra a ogni costo, che gettavano al vento le offerte di pace di Sparta, mentre l’opposto partito rappresentava piccoli e grandi proprietari terrieri, che cercavan di cogliere l’occasione di una pace ragionevole e vantaggiosa; ammesso che il quadro non sia troppo schematico. O forse il Cambiano intese la strisciante resistenza oligarchica, che aspettava il momento buono per andare al governo - e questo accadde coll’effimera “dittatura dei Quattrocento”. Il Reale ritiene più probabile che Callicle sia «una pura invenzione di Platone ... un paradigma che assomma in sé tutto quanto potevano produrre, nell’Atene dei suoi tempi, la retorica e la politica democratica guastata dalle tendenze demagogiche»19. Come apre bocca, Callicle aggredisce Socrate: «Ma fa sul serio o scherza?». Gli riesce inconcepibile non tanto lo svilimento della retorica - su questo s’era inalberato Polo - ma l’idea socratica della giustizia. Infatti, dice Callicle in un discorso lunghissimo, punteggiato di citazioni colte di Pindaro e Euripide, a scriver le leggi s’impegnano «i deboli e i molti, per spaventare i più forti, che sono capaci di prevalere, e per impedire loro il prevalere dichiarano che è ingiusto»20. Se i deboli, in quanto tali, «si contentano dell’uguaglianza», noi non dobbiamo farci ingannare nel giudizio: non è in base alle leggi che si capirà ciò che è migliore. Invece a Callicle piace proprio il prevalere (tò pleonekteīn) del potente sul meno potente, e chiama a testimone «la natura stessa»: il pesce grosso mangia il pesce piccolo, e «ovunque, in tutte le città e le famiglie, si giudica giusto che il migliore comandi sull’inferiore, e abbia di più». Se Socrate non capisce queste ovvietà, gli è perché «la (19) Dall’introduzione al Gorgia in Platone, Tutte le opere, Bompiani, Milano 2000. (20) Gorgia, 483 c.

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filosofia è cosa piacevole se ci si dedica con misura nella giovinezza, ma se ci si attarda più del dovuto è rovina per gli uomini»: inesperti in tutto, i filosofi «quando si trovano implicati in qualche affare privato o pubblico fanno ridere»21. (Questo è vero e Platone lo sa bene, anche se aspetterà il Teeteto per prendersi la rivincita, esaltare la libertà del filosofo e compatire la schiavitù dell’uomo di mondo). Ma a Socrate appare una vita molto infelice, quella sognata da Callicle per i potenti e migliori. Chi aspira a esser felice dovrebbe piuttosto coltivare «giustizia e temperanza» e non trascorrere «una vita da predoni». L’Übermensch di Callicle «non è amico di un altro uomo né di un dio, perché è incapace di entrare in comunione, e dove non c’è comunione (koinonía) non c’è amicizia»22. Non per nulla l’universo è un kósmos ordinato: «I sapienti affermano che il cielo e la terra, gli dèi e gli uomini sono legati tra loro dalla comunione, dall’amicizia, dal buon ordine, dalla temperanza e dalla giustizia». Questo disperdersi della koinonía in una quaterna di alti ideali è fuorviante. Il significato primo di koinoneīn è “prendere parte, avere relazione”; l’uomo che Callicle porta in palmo di mano è isolato, incapace di intrecciarsi con gli altri, umani e divini. Il suo primo e decisivo difetto è che gli è «impossibile partecipare», cioè legarsi con gli altri a formare un tessuto armonioso. Callicle aveva accusato Socrate di non capire la verità perché perso nella sua filosofia. Socrate rovescia l’accusa e ne intenta una davvero speciale: «Tu Callicle, credi che occorra praticare la prevaricazione (pleonexía), perché trascuri la geometria». Si faccia attenzione all’accusa, che non è quella di praticare la prevaricazione, ma di credere nella prevaricazione come cosa giusta per regolare le relazioni tra gli uomini. Poi Socrate aggiunge una frase altisonante e, a modesto avviso di chi scrive, piuttosto inutile: «Ti sfugge che l’uguaglianza geometrica ha grande potere tra gli dèi e tra gli uomini»23. La nostra sensazione (21) Ivi, 484 d. (22) Ivi, 507 e. (23) Ivi, 508 a.

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è che non occorra correr troppo dietro alla metafora matematica24, bensì concentrarsi sul testo così com’è e tentare di spiegare il nesso: perché lo studio della geometria è un antidoto alla teoria della prevaricazione?

La giusta misura Per rispondere dobbiamo aspettare quasi trent’anni, durante i quali nasce, cresce e infine entra in grave crisi la cosiddetta dottrina (o teoria) delle idee. La quale però, intesa come sistema e non come indirizzo di ricerca, esiste solo nelle ricostruzioni dei posteri, a cominciare da Aristotele fino ai nostri platonisti. A chi scrive appare piuttosto una matassa da sbrogliare, punteggiata da allusioni geometriche, oggigiorno quai sempre degradate a polveroso archivio storico, e raramente nobilitate come percorso filosofico; questo percorso Toth l’ha tracciato per noi, illuminando i tanti riferimenti, palesi o oscuri, alla diagonale e al lato del quadrato e alla loro ratio irrationalis. L’ossimoro

(24) L’allusione all’uguaglianza geometrica non è chiara e crediamo vani i tentativi d’indovinare la corretta interpretazione. (Possiamo ragionare, tanto per fare un esempio, sulla media geometrica contrapposta a quella aritmetica; oppure sul passo dell’Epinomide che esalta la virtù della geometria, rendere simile ciò che è dissimile). Se il riferimento matematico resta sepolto con il suo autore, è invece abbastanza evidente la volontà di distinguere l’uguaglianza brutale - per dirla col gergo politico attuale “uno vale uno” - da una non ben precisata “vera uguaglianza”, sulla quale Platone spenderà qualche parola di chiarimento molti decenni dopo: «Vi sono infatti due tipi d’uguaglianza, che pur avendo lo stesso nome, in molti casi hanno praticamente opposto valore. L’una, che consiste nell’uguaglianza di misura, di peso e di numero, qualunque Stato e qualunque legislatore sa realizzarla nel concedere gli onori, basta che per guida le dia la sorte. La più vera uguaglianza, l’uguaglianza perfetta, non tutti hanno occhi per vederla. Certo, essa consiste nello stesso giudizio di Zeus, e raramente viene in soccorso degli uomini, ma sia pur quel pochissimo aiuto che concede a Stati e a individui senza dubbio è sempre causa di ogni bene, perché tale più vera uguaglianza al più grande assegna di più, al minore di meno, all’uno e all’altro dando in proporzione alla sua natura [...] Proprio in questo consiste per noi, sempre, la giustizia politica» (Leggi, 757 a-c).

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invade con una certa prepotenza gli ultimi dialoghi25, quasi un ritorno di fiamma ai bei tempi della primissima Accademia, fondata da Platone appena tornato dalla Sicilia e carico di entusiasmo pitagorico. In quella cornice ottimista egli scrisse il Menone, ove la questione della reminiscenza viene spiegata, anzi, addirittura dimostrata, mediante la diagonale del quadrato, più precisamente portando a esempio di conoscenza ricordata, e non appresa, la sua misura ineffabile. Nel mazzo dei dialoghi studiati da Toth scegliamo in questa sede il Politico, il cui oggetto di ricerca fa al caso nostro: «Dopo il sofista, ritengo necessario ricercare in cosa consista il politico». Chi parla è un anonimo filosofo proveniente da Elea, la patria di Parmenide. Sembra che nei suoi ultimi dialoghi Platone si sia divertito a giocare coi personaggi. Prima invita sul palco la coppia Parmenide-Zenone, coll’intenzione, invero poco gentile, di costringerli a riesaminare la loro stessa dottrina26. Poi li sostituisce con questo anonimo eleate (nel dialogo viene chiamato “lo Straniero”) al quale mette in bocca parole che a Elea sarebbero suonate scandalose: «Dobbiamo ammettere che il non essere, talvolta, è». Ma non è tutto: per provvedere lo Straniero d’un interlocutore (giacché Socrate, pur presente, rifiuta il ruolo subalterno) la scelta cade prima su Teeteto e poi su un altro Socrate, detto “il giovane” per distinguerlo dal maestro di Platone. I quali, guarda caso, già avevano recitato in coppia nel Teeteto nel ruolo di bambini prodigio: mentre il loro anziano maestro, Teodoro di Cirene, dimostrava l’irrazionalità delle radici quadrate fino a √17, i due fanciulli riuscivano a cogliere l’essenza della radice quadrata con una definizione che, per (25) I riferimenti sono espliciti nel Politico (266 a-b) e nelle Leggi (820 c). Siamo d’accordo con Toth nel ritenere che il problema di generare la misura della diagonale permetta di interpretare anche il Sofista (cfr. in particolare 236-239) e il Filebo (23-26). Nell’interpretazione di Toth tutto ha inizio con il travaglio dell’Uno e dei Molti nel Parmenide. (26) Già la sceneggiatura del Parmenide è una brutale forzatura. Platone, con la complicità d’uno Zenone appassionato nemico della molteplicità, imbroglia le carte tra l’Essere e l’Uno.

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quanto ne sappiamo, è la prima della storia27. Teeteto è in iscena nel Sofista, Socrate il giovane nel Politico. Infine, notiamo che i titoli dei dialoghi sono i termini estremi di una proporzione, come ci spiega proprio lo straniero di Elea: il sofista sta al sapiente come il demagogo sta al politico. La relazione all’interno di ciascuna delle due coppie è quella, a noi familiare, dell’imitazione28. La sceneggiatura del Politico è semplice: Platone è in cerca della “politica in sé”, ma le molte difficoltà lo costringono a un lungo giro e a servirsi di paragoni con tecniche più semplici da definire, prima l’arte della tessitura e poi la metretica (ovvero la tecnica della misura). «Bisogna trovare il sentiero della politica e, separatolo bene dagli altri, imprimergli il sigillo di una sola idea che gli sia propria»29. All’inizio la ricerca procede col metodo diairetico, ovvero separando in due le tecniche (o scienze: Platone alterna i due termini senza troppe cerimonie)30 e scartando il ramo inappropriato. Dopo diversi passaggi, la scienza politica è confinata nella categoria delle «scienze teoriche, direttive, nelle quali si dànno ordini a esseri animati, che vivono in gruppo, non acquatici, non volatili, senza le corna, che non ammettono incroci ...». Vengono in mente, purtroppo, le parole di Callicle: ma fa sul serio o (27) Teeteto definisce dynamis una linea il cui quadrato ha una superficie equivalente a un rettangolo con lati disuguali. Parafrasando, diciamo che una dynamis (alla lettera “potenza”) è una linea la cui misura è la radice quadrata di un numero rettangolo. Per esempio √8 è una dynamis perché il suo quadrato ha misura 8=2∙4. (Abbiamo scelto √8 perché è il numero che lo schiavo di Menone non riuscì a pronunziare). (28) «Uno in pubblico e con discorsi lunghi è capace di simulare di fronte alle masse, l’altro privatamente e con discorsi concisi costringe l’interlocutore a contraddirsi» (Sofista, 268 b). (29) Politico, 258 c. (30) «Le tecniche che concernono le costruzioni e in genere le attività manuali posseggono una scienza che è connessa per sua natura alla prassi ... allora, dividiamo in questo modo l’insieme delle scienze, dando a una parte il nome di scienza pratica, all’altra di scienza puramente teorica (gnostiké)» (ivi, 258 e). La politica rientra ovviamente tra le scienze teoriche, che altri traduce “conoscitive”. Si noti che Platone non segue i consigli dei filosofi analitici, sulla necessità di chiarificare il linguaggio a cominciare dalla nomenclatura scelta: «Che la si chiami scienza regia, o politica, o amministrativa, non faremo alcuna obiezione» (ivi 259 c).

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scherza? Ogni volta che ci assale la tentazione di speculare sulle vere intenzioni di Platone ci sovviene, quanto mai opportuno, il ricordo d’un dialogo tra Toth e un allievo al termine d’una lezione sul Parmenide; all’allievo che voleva sapere che cosa, a suo giudizio, intendesse veramente dire Platone, Toth rispose così: «Non sono esperto nella parapsicologia dei defunti». Data l’impossibilità di sapere la verità, nulla impedisce di proporre ipotesi plausibili, nella fattispecie che tutto il ridicolo procedimento diaretico sia un pretesto per raccontare una specie di barzelletta geometrica (per dirla alla francese, un cammeo di finesse géométrique). Siamo alla svolta finale della diairesi, quando i bipedi si separano dai quadrupedi. «In che modo divideremo questi due generi?». «Com’è pur giusto che dividiate, Teeteto e anche tu, poiché vi occupate anche di geometria: [...] secondo la diagonale, e poi ancora secondo la diagonale della diagonale». «Come dici?». «La natura che il genere umano possiede è forse fatta diversamente, per quel che concerne il camminare, dalla diagonale che è uguale al lato [=√2] del quadrato di area due piedi [(√2)2 = 2]?»31. «Non diversamente». «Allora, la natura del genere che rimane [i quadrupedi] sarà a sua volta uguale al lato [=2] del quadrato della diagonale della nostra area, visto che risulta di area due volte due piedi [22 = 4]»32.

Procedendo con ordine: È dato un quadrato Q1 (non menzionato) di lato 1, area 1, diagonale d1 = √2. (31) Ricordo che dynamis non può essere tradotto “potenza” perché il suo significato matematico è reso chiarissimo dal passo già citato del Teeteto, ove è data la seguente definizione: una grandezza è una dynamis se è il lato di un quadrato la cui area è un numero rettangolo (147d). Dunque la traduzione esatta è “radice quadrata di un numero non quadrato” o brevemente “radice quadrata”. (32) Politico, 266 a-b.

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La diagonale d1 = √2 è il lato d’un secondo quadrato (Q2) di area 2 («la diagonale che è uguale al lato del quadrato di area due piedi», che rappresenta la natura bipede). Questo quadrato Q2 ha diagonale d2 = 2. La diagonale d2 = 2 è il lato d’un terzo quadrato (Q3) di area 4 («la natura del genere che rimane sarà uguale al lato del quadrato [...] di area due volte due piedi», e rappresenta la natura dei quadrupedi). Questo quadrato Q3 ha diagonale d3 = √8. La diagonale d3 = √8 è il lato d’un quarto quadrato (Q4, anch’esso non menzionato) che è, manco a dirlo, quello del Menone: l’area di Q4 (che è il dato fornito da Socrate allo schiavo) misura appunto 8; la misura del lato di Q4 è il numero irrazionale √8 = 2√2 , che lo schiavo non può enunciare. Che sia per ischerzo, o che sia per davvero, resta che la natura umana (in quanto bipede) è assimilata alla “diagonale del quadrato di area due piedi”, ossia alla misura ineffabile √2. Per mantener la promessa di non indagare le vere intenzioni di Platone, faremo riferimento all’unica frase ch’egli si degnò di lasciare nero su bianco: il breve cenno alla diagonale razionale nel celebre passo del cosiddetto “numero geometrico”. Qui potrebbe celarsi il nesso - se un nesso c’è, insomma se non siamo di fronte solo a un gioco di parole sui bipedi tra la conoscenza della geometria e la corretta definizione di scienza politica. E dunque, all’opposto, si arriverà a comprendere il nesso tra l’ignoranza geometrica e la prevaricazione dei demagoghi. Dunque nella Repubblica, al fine di preservare la migliore architettura costituzionale dalle future generazioni di politici, nel caso non abbiano «né buona natura né buona fortuna»33, Socrate inventa il mito del numero geometrico (ἀριθμὸς γεωμετρικός); questo misterioso numero scandisce i tempi del concepimento felice, di modo che nascano neonati adatti, un giorno, a governare lo Stato. Il calendario delle copulazioni ottimali s’ispira al numero “nel suo complesso” (σύμπας), il che forse (33) Repubblica, 546 d.

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è un invito a tener conto non solo del risultato finale, ma anche dei calcoli che lo generano. Questi calcoli però sono talmente astrusi che, sin dall’antichità, diversi commentatori ottengono diversi risultati, il che certo poco conviene a una scienza esatta, mentre s’adatta assai bene a un mito. Il lettore era stato avvertito: «Facciamo parlare [le Muse] come se dicessero sul serio, mentre giocano e scherzano con noi come se fossimo fanciulli»34. Una parte dell’esercizio è dedicata al calcolo del numero 48 (qui non interessa perché proprio 48 e non, poniamo, 58) ed è qui che compare la misteriosa “diagonale razionale del numero cinque”. Anche questo è un ossimoro, come spiega Proclo nel suo commento: «È impossibile che la diagonale sia razionale (ῥητή = esprimibile) quando il lato è razionale». Il numero 48, dice Socrate, può essere calcolato in due modi: 72 - 1 = 49 - 1 = 48 (5√2)2 - 1 = 50 - 2 = 48

a partire dal numero razionale 7. a partire dal numero irrazionale 5√2.

Com’è noto, 5√2 è la diagonale (ovviamente irrazionale) del quadrato di lato 5 e approssimata al secondo decimale vale all’incirca 7,07. Il più vicino numero intero che approssima la misura irrazionale è 7, che Socrate battezza “la diagonale razionale di 5”35. Secondo Proclo il concetto di “diagonale razionale” potrebbe essere di origine pitagorica: Poiché è impossibile che la diagonale sia razionale quando il lato è razionale (perché non esiste un numero quadrato che sia il doppio di un altro numero quadrato ... i Pitagorici e Platone hanno immaginato di dire che, essendo il lato razionale, la diagonale non era razionale semplicemente, ma che i quadrati delle diagonali sono di un’unità inferiori o superiori al doppio del quadrato del lato, al quale il quadrato della diagonale dev’essere uguale [d2= 2∙l2 ± 1]. Essi hanno portato come (34) Repubblica, 545 e. (35) «Cento numeri ricavati col quadrato costruito su diagonali razionali del numero cinque (ἀπὸ διαμέτρων ῥητῶν πεμπάδος), ciascuno diminuito di un’unità; oppure su [diagonali] irrazionali (ἀρρήτων), ciascuno diminuito di due unità» (Repubblica 546 c 4-5).

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esempio dell’eccesso di un’unità il caso di 4 e di 9, e come esempio del difetto di un’unità il caso di 25 e di 4936.

Qui Proclo espone il procedimento mediante il quale i Pitagorici costruivano i cosiddetti numeri laterali (1, 2, 5, 12 ...) e numeri diagonali (1, 3, 7, 17 ...). Un numero diagonale è la misura di una cosiddetta (da Platone) diagonale razionale, il cui quadrato (72 = 49) approssima di un’unità il risultato corretto (2 . 52 = 50): il discorso delle Muse provvede un esempio della formula d2 = 2∙l2 ± 1. Ma non è tutto: dai numeri laterali e diagonali si forma la successione dei rapporti 1; 1,5; 1,4; 1,416 ... Lato Diagonale razionale 1 2 5 12

...

Rapporto

1 3 7 17

1/1 = 1 3/2 = 1,5 7/5 = 1,4 17/12 = 1,416

...

...

Area del quadrato Quadrato della doppio = 2∙l2 diagonale razionale = d2 2∙12=2 2∙22=8 2∙52=50 2∙122=288

12=1 32=9 2 7 =49 172=289

Questa successione di numeri razionali va scomposta in due successioni di eccessi e difetti rispetto alla misura ineffabile 1,414213562...: Difetto

Giusta misura

1/1 = 1

1,414213562... 1,414213562... 1,414213562... 1,414213562... 1,414213562... 1,414213562...

7/5 = 1,4 41/29 = 1,4137931...

...

Eccesso 3/2 = 1,5 17/12 = 1,416 99/70 = 1,4(142857)

...

(36) In Rem Publicam, vol. II, 27, 1-18. La testimonianza di Proclo è confermata da quella antecedente di Teone di Smirne. (37) Nella tabella il numero 41/29 = 1,4137931... è ovviamente razionale, ma i tre puntini sono necessari perché il periodo occupa troppo spazio. Al contrario, nell’espressione 1,414213562... i tre puntini sono parte integrante del nome ineffabile.

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Si noti che i termini eccesso e difetto non s’intendono in relazione reciproca ma rispetto alla misura ineffabile: ad esempio, 17/12 è un eccesso non perché è più grande di 7/5, ma perché eccede il valore di √2. Le due successioni di razionali si intrecciano avvicinandosi sempre di più, in un processo insieme infinito e concluso - altro ossimoro - il cui esito è la generazione del numero irrazionale √2. Con ciò non s’intende proporre qui una nuova (o vecchia) esegesi del discorso delle Muse, ma solo rilevare due dati di fatto: primo, Platone sapeva che ‘7 è la diagonale razionale di 5’, dunque conosceva il metodo - di origine pitagorica, secondo Proclo - per approssimare la diagonale irrazionale √2. Secondo, la generazione della giusta misura che Platone descrive nella seconda parte del Politico corrisponde esattamente alla nostra definizione di numero irrazionale, come ora vedremo. Immaginiamo dunque che mentre noi cercavamo di capire il senso dell’espressione “diagonale razionale”, lo straniero di Elea e Socrate il giovane siano andati avanti a discutere sulla definizione della politica; e forse troppo avanti, per quanto non sia facile giudicare se un discorso è troppo lungo, o troppo corto, o se ha una misura adeguata. Posta con questo sotterfugio la necessità di stabilire «un criterio razionale per lodare o biasimare eccesso e difetto»38, lo straniero prova a gettare le basi della tecnica che dovrebbe aiutarli: Dividiamo la tecnica della misurazione (metretiké) in due parti: da un lato, secondo il rapporto reciproco di grandezza e piccolezza; dall’altro, secondo l’essenza (ousίa) necessaria alla generazione (ghénesis) 39.

Traslate al fenomeno dei numeri laterali e diagonali, queste parole acquistano un significato molto preciso: è inutile descrivere i banali (38) «Per prima cosa esaminiamo in generale l’eccesso e il difetto, per avere la possibilità di lodare o biasimare con un criterio razionale i discorsi più lunghi del necessario, o al contrario quelli più brevi» (Politico, 283 c) (39) Politico, 283 d.

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rapporti reciproci di grandezza e piccolezza (per esempio 1,4 è più piccolo di 1,416, mentre 1,5 è più grande); ciò che conta è che quei rapporti sono alternativamente più grandi e più piccoli della giusta misura √2, e ciò li rende necessari alla generazione di questa misura, altrimenti confinata nel non essere. Siamo caduti in un corto circuito ontologico - fatto che in matematica non è né sorprendente né scandaloso - giacché il numero √2, che non esiste, viene all’essere grazie alle successioni di razionali; ma allo stesso tempo è norma e misura per queste successioni, nel senso che i rapporti grandi e piccoli sono costruiti in modo da convergere a √2. È forte la tentazione di vedere in questo dilemma, per cui ciò che viene generato è norma per ciò che lo genera e dunque in qualche modo gli preesiste, la metafora del ben più pressante problema che riguarda la natura delle idee, messa in discussione dalle aporìe del Parmenide. Per restare ai fatti matematici, il problema di dare una definizione esatta del numero irrazionale è stato risolto, in due modi diversi, circa la seconda metà dell’Ottocento; per Georg Cantor è il limite di una successione di razionali; per Richard Dedekind è l’elemento separatore di due classi di razionali: Data una successione di numeri interi reali tale che non ve ne sia uno massimo, viene creato un nuovo numero (eine neue Zahl geschaffen wird) che può essere pensato come il limite dei precedenti, ovvero come il primo numero maggiore di ciascuno di essi40. Esistono infinite sezioni che non sono generate da alcun numero razionale; l'esempio più immediato è il seguente [la sezione generata dal numero il cui quadrato è 2] [...] Ogni volta che si presenti una sezione (A1, A2) che non è generata da alcun numero razionale, noi creiamo un nuovo numero (erschaffen wir eine neue Zahl), un numero irrazionale, che consideriamo esattamente definito da questa sezione (40) G. Cantor, Grundlagen einer Mannigfaltigkeitslehre, Math. Ann. 1883, pp. 545-586 (trad Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità, in La formazione della teoria degli insiemi, a cura di G. Rigamonti, pp. 77 ss.; la citazione è a p. 115).

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(A1, A2); e diremo che a corrisponde a questa sezione, oppure che egli genera questa sezione41.

La definizione di Dedekind è quella che ricalca il procedimento di generazione della giusta misura nel Politico. Dedekind inizia col porre i due insiemi illimitati: A1 = {x tale che x2 2}. Poi, preso atto del fatto che non esiste un numero razionale che separi gli eccessi dai difetti, si rivolge al lettore con quest’esortazione: «Creiamo un nuovo numero», cioè √2. Ripetiamo una volta di più queste parole non solo per interpretare nel modo migliore la tabella pitagorica degli eccessi e difetti, ma anche per invitare il lettore a riflettere sul cosiddetto platonismo matematico, che a giudizio di chi scrive ha poco a che fare con Platone; anzi, andrebbe tenuto nel debito conto il punto di vista dei padri fondatori, i quali come si può leggere dichiarano tranquillamente di creare nuovi numeri, e lo fanno con procedimenti analoghi a quelli adoperati da Platone non solo nel Politico ma anche nel Filebo, quando descrive la generazione del terzo genere di enti42. È tempo ora di ritornare alla politica e riassumiamo qui il percorso nella speranza di trasmettere la coerenza del quadro d’insieme. (41) R. Dedekind, Steitigkeit und Irrationale Zahlen, Braunschweig 1872, § 4; trad. Continuità e numeri irrazionali, in Scritti sui fondamenti della matematica, a cura di F. Gana, Bibliopolis, Napoli 1982 (Gana però traduce hervorgebracht e hervorbringt con «deteminata» e «determina»). (42) Il debito col Filebo è riconosciuto esplicitamente da Cantor: «Per ‘molteplicità’ o ‘insieme’ intendo ogni Molti che si possa pensare come Uno, ovvero ogni classe composta di elementi determinati che possa essere unita in un tutto da una legge, e credo di definire in questo modo qualcosa di simile all'eidos o idea di Platone, nonché a ciò che lo stesso Platone, nel Filebo, chiama miktón. Egli contrappone questo miktón sia all'apeiron, cioè all'illimitato, che io chiamo infinito improprio, sia al péras o limite, e lo descrive come un ‘miscuglio’ ordinato dei due» (G. Cantor, Fondamenti di una teoria generale della molteplicità, p. 127). Ecco il passo del Filebo ove vien data la definizione del terzo genere di enti: «In effetti, la molteplicità della generazione del terzo genere, mirabile amico, ti ha sbalordito [...] Come terzo genere dì pure che io, ponendo come unità tutto ciò che è generato dai primi due, intendo una generazione verso l'essere (ghénesis eis ousían) dalle misure portate a compimento con il limite (tōn metà toū pératos apeirgasménon métron)» (Filebo, 23 c - 26 d)

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Circondato da matematici, lo straniero di Elea inizia col mescolare alla ricerca della tecnica politica strane allusioni alla diagonale del quadrato; in altro luogo Platone ha lasciato una testimonianza (la “diagonale razionale di 5”) che allude alla generazione di √2 mediante le successioni pitagoriche di eccessi e difetti. Ma di eccessi e difetti s’occupa anche la tecnica della misurazione, tirata in ballo col pretesto di dover valutare la lunghezza dei discorsi; e si pone qui il concetto chiave, che eccessi e difetti vanno intesi “secondo l’essenza necessaria alla generazione” della giusta misura. Infine, viene detto esplicitamente che è proprio tale attitudine - valutare gli eccessi e i difetti in relazione alla giusta misura - il presupposto necessario per comprendere e definire l’arte politica43. Ora Platone deve calare il ragionamento nella vita politica della città, e proporre un esempio di due partiti opposti (eccessi e difetti) i quali, se presi in relazione reciproca, producono solo discordia irrazionale; mentre, se confrontati secondo l’essenza necessaria alla generazione, generano la giusta misura. L’esempio scelto da Platone è piuttosto banale: egli contrappone tra loro due parti della virtù, andreīa e sofrosyne, che potremmo tradurre con “coraggio” e “temperanza”. Con un po’ di buona volontà, lo straniero riesce a convincere gli interlocutori che in ogni città si verificano i seguenti fatti: a) vi sono uomini che posseggono più coraggio che temperanza, e viceversa; b) i primi tendono a contrapporsi ai secondi, perché ciascuno loderà le azioni e le decisioni affini alla propria natura, a torto o a ragione; c) né i primi né i secondi sono adatti a guidare lo stato, i primi perché in situazioni che richiedono riflessione e pacatezza prenderanno decisioni avventate, i secondi perché si mostreranno poco risoluti quando invece occorrerebbe (43) «Se si pone la natura del più grande in rapporto esclusivo con il più piccolo, non sarà mai in relazione con la giusta misura [...] ed elimineremo la politica, che stiamo ora cercando; infatti, tutte le tecniche di questo tipo si guardano dal più e dal meno non come da cosa che non esiste, ma come da cosa che è nociva per la loro attività, e salvando la misura producono opere buone e belle» (Politico, 284 a).

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esser più aggressivi; d) sia la prevalenza di uno dei due gruppi sia il perdurare di una condizione conflittuale porta alla rovina dello Stato. Ora, a noi non importa vagliare la fondatezza di questo quadretto sociologico: ci basti l’aver compreso che le due parti opposte della virtù, coraggio e temperanza, non devono semplicemente mettersi in relazione l’una con l’altra bensì comprendere sé e l’altro da sé in relazione alla giusta misura, la quale, si badi, se è da generare, significa che non è data in natura: e occorre appunto l’arte politica per generarla. Solo ora possiamo comprendere la definizione, che viene data in due tempi, inizialmente per quel che concerne l’educazione, successivamente avendo in mente il risultato, ossia la pólis ben ordinata: EDUCAZIONE: «La scienza regia ... [prenderà] quelli le cui nature, se ricevono un’educazione, sono adatte a ammettere un intreccio reciproco secondo la tecnica, prendendo sia quelle più portate alla risolutezza, il cui comportamento è come l’ordito, sia quelle che propendono per un atteggiamento pacato, come un filo grasso e molle da trama, essendo tutte tese in direzioni reciproche contrarie, si sforza di legarle e intrecciarle». LA PÓLIS FELICE: «Questo è il compimento del tessuto, ben intrecciato, dell’azione politica (politikè práxis): la tecnica regia (basilikè téchne), prendendo il comportamento degli uomini valorosi e degli uomini equilibrati, li conduce a una vita comune, in concordia e in amicizia, e, realizzando il migliore di tutti i tessuti, avvolge tutti gli altri, schiavi e liberi, che vivono negli stati, li tiene insieme in quest’intreccio, e governa e dirige, senza trascurare assolutamente nulla di quanto occorre perché la città sia, per quanto possibile, felice»44.

Nel quarto secolo avanti Cristo in Roma fu eretto il tempio della Concordia. L’idea di dedicare un edificio sacro non a una divinità, ma a una qualità personificata, era per quei tempi una novità assoluta. Nella narrazione di Plutarco l’idea prese forma nella mente di Furio Camillo, il quale non cedette al caparbio conservatorismo del Senato (44) Politico, risp. 309 b e 311 b-c.

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perché consapevole come nessun altro di quanto la concordia fosse necessaria all’Urbe45. Il tempio fu eretto dopo la promulgazione delle leggi Licinie-Sestie, con le quali finì la lotta secolare tra patrizi e plebei. Non c’è bisogno di ricordare quanto giovò alla Repubblica la concordia interna, né quanti danni arrecò la sua progressiva erosione. Plutarco cita il tempio col nome di Homonoías Hierón. Il caso vuole che l’erezione del tempio sia avvenuta grosso modo negli stessi anni nei quali Platone scriveva il Politico e raccomandava concordia e amicizia, homónoia e filía. Non resta che aggiungere l’avvertimento di Socrate a Callicle: «Dove non c’è comunione (koinonía) non c’è amicizia», e accogliere, finalmente con piena cognizione di causa, il suo invito a non trascurare la geometria, affinché non cediamo né agli argomenti della prevaricazione, né alle lusinghe dei demagoghi, i quali prendono la mira su di noi per compiacerci e portare la città alla rovina.

(45) «Rimaneva da disputare la più importante delle lotte politiche, resa più ardua dal fatto che il popolo era tornato a casa rafforzato dalla vittoria e deciso a imporre l’elezione di un console plebeo a dispetto delle norme vigenti. Il Senato non ne voleva sapere [...] Camillo, incerto sul da farsi, non si dimise, ma presi con sé i senatori s’incamminò verso la curia. Prima di entrare, si girò verso il Campidoglio e pregò gli dèi d’indirizzare alla conclusione migliore i dissensi in atto; se l’agitazione si fosse quetata, promise solennemente di far edificare un tempio alla Concordia» (Plutarco, Vita di Camillo, 42).

Ágnes Erdélyi Imre Toth, Künstler-Person Professor Imre Toth war mein Gastgeber, als ich am Ende 80er Jahre als Humboldtstipendiatin eine zweijährige Forschungsperiode an der Universität Regensburg verbracht habe. Zuvor hatte ich seine Schriften gelesen und einigen seiner Vorträge beigewohnt und so nur (“nur”!) einen außergewöhnlichen Philosophen, speziell Mathematikhistoriker, und auch einen exzellenten Redner gekannt. In diesen zwei Regensburger Jahren habe ich dann einen wahren Künstler, Schöpfer wunderbarer Fotos, bzw. Foto-Montagen, einen Mann mit Humor, eine charmante Person kennengelernt. Hier möchte ich weniger dem Professor und Gelehrten, vielmehr Imre, dieser Künstler-Person gedenken ...

Imre Toth, Künsler-Person

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Imre hat mir Regensburg und Umgebung gezeigt. Wir haben auch die Walhalla besucht, wo er eine Menge Fotos gemacht hat. Ich zeige mein Lieblingsfoto (S 31). Es sind zu sehen: Schelling, Beethoven, Kaiser Wilhelm I. und Imre selbst - der letztere mit seinem Signo, wo er den Namen “Imre” auf das Gesicht Seiner Majestät aufgetragen hat. Und jetzt zeige ich das volle Signo von Imre Toth, recte: von Tóth Imre, da er den Namen in ungarischer Reihenfolge und mit ungarischem Akzent gezeichnet hat.

Ich habe mich immer gefragt, ob er in diesem Signo nicht sein eigenes Profil geschildert hat. Eine definitive Antwort kann ich nicht geben - aber heute noch immer habe ich den Eindruck, dass dies unbedingt möglich ist.

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Imre, vom Halbprofil, Ende 80er Jahre

Das nächste Foto soll seinen eigenartigen Humor vorstellen (man lese unbedingt auch die Schrift auf der Rückseite, um ihn ganz wahrzunehmen). Die Schrift lautet: “Metzgerei Kain” und dann entweder “Metzwurst Abel” oder “Mettwurst Abel”.

Imre Toth, Künsler-Person

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Immer wieder hat Imre die Steinskulpturen des Regensburger Doms fotografiert, besonders die Gestaltungen, in denen der christliche Antijudaismus zur Schau kam. Die wohlbekannte biblische Szene des goldenen Kalbes und das häufige Motiv der “Judensau” in den hochmittelalterlichen Spottbildern, die an sich vielleicht nicht besonders bedrohlich wirken könnten, erhalten eine unheilvolle Bedeutung durch die “zeitlose Datierung”: vor dem Pogrom. Denn sozusagen sind wir immer vor dem (nächsten) Pogrom ...

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Der Tanz ums goldene Kalb (um 1420)

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Imre Toth, Künsler-Person

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Die Schrift sagt: “Juden melken eine Sau”. Diese JudensauSchilderung befindet sich auf einem Wandpfeiler, außen am Südeingang (14. Jahrhundert). - Auf beiden Fotos sieht man die Datierung: “vor dem Pogrom”.

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Damals (nach dem 14. Jahrhundert) erfolgte der nächste Pogrom im Jahr 1519: die Vertreibung der jüdischen Gemeinde aus Regensburg. Regensburg ist aber der Ort, wo auch das fotografiert werden kann, was nach dem Pogrom übrigbleibt: die Grabsteine, die die Regensburger Bürger nach der Vertreibung der Juden aus dem jüdischen Friedhof entwendet und als Baumaterial genützt haben. Ich zeige zwei solche Grabsteine:

Die Schrift lautet hier: “Was übrig bleibt - nach dem Pogrom. Ein Stein [oder - man kann sie auch so auslesen - Einstein?] im Zaun der Bischofsresidenz eingemauert”. Der nächste Stein befindet sich im Übergang vom Alten zum Neuen Rathaus, auf einer Konsole, im 1. Obergeschoß. - Auch auf diesem Foto sieht man die Datierung: “nach dem Pogrom”.

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Epilog Endlich möchte ich noch ein paar Worte über die späteren Zeiten sagen. Nach den Regensburger Jahren habe ich die Verbindung mit Imre nicht mehr verloren, ja (ich wage es zu sagen), wir sind Freunde geblieben. Ich habe ihn später, als er schon in Paris lebte, mehrmals dort besucht und auch in Budapest sind wir uns häufig begegnet. Auch unsere Arbeitsverbindung haben wir nicht ganz abgebrochen, so habe ich z. B. einen Aufsatz von ihm1 ins Ungarische übersetzt. Zum Abschluss möchte ich aber vielmehr eine andere Schrift hervorheben, die mich am tiefsten geprägt hat. Imre war ein Holocaustüberlebender (soweit ich weiß, war er der einzige in seiner Familie). Das Thema der zweitausend Jahre langen Geschichte des europäischen Antisemitismus und deren Konsequenzen im heutigen Europa hat ihn immer beschäftigt; und in der Zeit um die Jahrtausendwende hat er sich darüber auch öffentlich - im Konferenzvortrag, in Interviews und Schriften - geäußert. Im Jahr 2001, hat man seinen Vortrag, den er in Neapel gehalten hat2, ungarisch veröffentlicht3, und aus diesem Anlass hat er der ungarischen Zeitung Népszabadság ein Interview gegeben4. Er hat erklärt, dass das Thema seines Vortrags: was es bedeutet Jude zu sein nach Auschwitz, ihn jahrzehntelang beschäftigt hatte und noch immer beschäftigte, einmal wäre aus ihm die alpträumerische Selbstbestimmung herausgebrochen, dass er ein Wurm sei: “Ja, ein Wurm: Jude sein nach dem Holocaust”; und sein eigenes Wort habe ihn selbst so stark schockiert, dass es ein Jahr dauerte, bis er den Vortrag in schriftliche Form zu kleiden wagte. (1) Von Wien bis Temeswar: Johann Bolyais Weg zur nichteuklidischen Revolution. (2) Imre Toth, Jude sein nach dem Holocaust. Die Shoah in Interpretation und Gedächtnis. Internationales Kolloquium in Neapel, 5–7. Mai, 1997. Schlussvortrag. (Manuskript. Aus dem Französischen übersetzt durch Peter v. Baggo). (3) Tóth Imre, Zsidónak lenni Auschwitz után, Pont, Budapest 2001. (4) http://nol.hu/archivum/archiv-27711-16994.

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Als ich jetzt seinen Text neu gelesen habe, wirkte er noch stärker als je auf mich. Ich mag einige seiner Formulierungen als provokativ, einige seiner Behauptungen als übertrieben empfinden, seinem Einfluss konnte und kann ich mich damals wie heute nicht entziehen. In seiner Schrift bezeichnet Imre Paul Celans Todesfuge als “aufwühlend”5, und diese Bezeichnung passt genau auch auf seiner eigenen Text. Mir fällt die Passage aus Celans berühmter Rede ein: Es ist das Gegenwort, es ist das Wort, das den Draht zerreißt, das Wort, das sich nicht mehr vor den “Eckstehern und Paradegäulen der Geschichte” bückt, es ist ein Akt der Freiheit. Es ist ein Schritt. (Dankrede von Paul Celan, Georg Büchner-Preis, 1960).

Ja, diese Bezeichnung bestimmt so genau wie keine andere Imres eigenen Text, und ich scheue mich nicht davor, ausdrücklich hinzufügen: den Autor seines Textes, ihn selbst. “Aufwühlend” so lautet Imre Toths letztes “Gegenwort”.

(5) «Die Dichtung Paul Celans hat die zeitgenössische deutsche Literatur durchdrungen, und seine außerordentliche Wirkung gründet sich gerade auf seine spezifisch jüdische Botschaft, die fortan ein organischer und essentieller Teil des spezifisch deutschen Geisteserbe ist. Seine aufwühlende Todesfuge ist nicht nur Pflichtlektüre in den Schulen, sondern Tausende von Deutschen kennen sie auswendig» (Imre Toth, Jude sein nach dem Holocaust, S. 17.)

Francesca Ervas “Tu me penses, donc je suis”. Imre Toth e la tradizione come creazione di spazi non-euclidei I. Come mi diceva Imre: «Non ci siamo mai cercati, ci siamo trovati». Ho conosciuto Imre Toth in una circostanza alquanto singolare, quando studiavo all’Ecole Normale Supérieure a Parigi. Un vulcano islandese dal nome impronunciabile aveva oscurato i cieli d’Europa, il mio volo era stato cancellato, non avrei potuto tornare a casa. In quel momento mi chiamò un caro amico, Teo Orlando, spiegandomi che per lo stesso motivo la conferenza di Imre Toth all’Istituto per gli Studi Filosofici di Napoli non poteva più tenersi, a meno che qualcuno non fosse andato a casa di Toth e avesse provveduto a una connessione online. Non esitai un attimo, qualche ora dopo ero a casa sua. E mi sentivo tornata a casa, perché - come dice il grande poeta tedesco «conoscere qualcuno che pensa e sente con noi [...] ci fa sembrare la terra un giardino abitato»1. Ritornai ancora, perché con Imre potevo “parlare per scherzo” di tante cose serie: dei vari modi di dire il falso, della menzogna e dell’ironia, del “parlare a vuoto” (κενολογἰα in Aristotele) che esula dall’umano, del caso abessivo che nella lingua finlandese costringe gli uomini a un impegno ontologico rispetto a ciò che non c’è, del perché (1) J.W. von Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, Adelphi, Milano cap. V, 2014.

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un numero negativo moltiplicato per un numero negativo diventa un numero positivo, della civiltà nuragica - civiltà di geometri che avevano costruito a secco torri simili a quella di Babele, della lingua irrazionale dei sogni, da dove nasce la fantasia ... E così parlavamo per ore e ore, dimenticandoci di mangiare, se non ci fosse stata Fiona (Fiona Brewster) a pensare per noi, con il suo cuore come «un grande mantello rosso», con le parole di Margit Kaffka2. Imre Toth mi parlava in italiano, un italiano comprensibile a chiunque avesse letto i grandi filosofi italiani del Rinascimento, ma con il tono e gli occhi del sofista policefalo, che a suo piacere introduce altre lingue nel discorso. Prima di salutarci mi dava una piccola pila di libri da studiare, preparata con lo stesso affetto di suo padre per ciò che di più importante restava al mondo per i figli nei giorni della bestia trionfante, con lo stesso amore di Archimede per i suoi cerchi3. E infine, così verrò al punto di questo contributo, mi dava sei brevi testi in francese, e mi diceva: «Torna quando hai trovato l’autore». Erano testi di sei personaggi diversi, filosofi, poeti, matematici, a volte anche composti da una sola frase, ma sempre testi tradotti in francese da lingue diverse, con una sua traduzione precisa e insieme libera, con omissione o aggiunta di parole per preservarne il senso. Bisognava aver studiato così tanto, così avidamente e a tutto campo, tra testi di scienziati, poeti e filosofi di tutte le epoche e di tutte le provenienze, per ritrovare - leggendo i loro testi in tante lingue i sei testi originali. Aveva trasformato la traduzione in una sorta di didattica della filosofia: avevo capito che l’unico modo per trovare gli originali in quella babele di testi era trovare la domanda, la domanda alla quale ciascuno di essi era risposta, ma una risposta formulata nel metalinguaggio del traduttore. Erano infatti tutte risposte senza domanda: doveva essere certamente un demiurgo cattivo, questo (2) Cfr. I. Toth, Il lungo cammino da me a me, traduzione di F. Ervas da una versione inedita di J. Dupont, Quodlibet, Macerata 2016, p. 77. (3) Cfr. I. Toth, Il lungo cammino da me a me, cit., pp. 222-223.

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traduttore, vista “la fatica del concetto” a cui mi sottoponeva! Ma non ne ero sicura, perché talvolta aveva pietà di me e potevo tornare, anche se non avevo trovato tutti e sei i personaggi in cerca d’autore. II. All’inizio, pur non sapendo se questo demiurgo-traduttore fosse buono o cattivo, ero certa che si trattasse di un demiurgo del linguaggio geometrico, che compiva traslazioni da uno spazio linguistico in un altro, prendendosi «la libertà di mettere in connessione cose e pensieri considerati incompatibili»4 da quei sei personaggi. Certamente, come ha avuto modo di osservare Imre Toth rispetto al Cratilo (IV sec. a.C.) di Platone, ogni lingua è una prassi che necessita di un agente umano, di un autore umano: ciascuno di quei sei personaggi era come un native speaker, che esprimendo il proprio pensiero, faceva vivere anche la propria lingua. Eppure, scriveva Imre Toth nel suo Aristotele e i fondamenti assiomatici della geometria (1998), finché rimane nei limiti della propria lingua, l’autore umano è al contempo schiavo della lingua stessa, perché non l’ha creata lui, perché parla - senza saperlo - la lingua del demiurgo che l’ha creata, una sorta di deus ex machina, un onomaturgo o nomoteta del linguaggio, che compare nel dialogo platonico con un coup de théâtre epistemologico, tra il ridicolo e il temerario. Tuttavia, come Toth notava, «la proposta di Platone smette di essere ridicola, non appena il linguaggio di Cratilo non sia il linguaggio naturale, ma il linguaggio della geometria»5. Si trattava di un sotterfugio, chiaramente, altrimenti anche i personaggi del testo non sarebbero stati altro che la mera finzione di un demiurgo cattivo. L’unico modo per trovare gli spazi linguistici originali (4) H. Arendt, Walter Benjamin, 1892-1940, Allia, Paris 2014, citato in I. Toth, Palimpseste. Propos avant un triangle, Presse Universitaires de France, Paris 2000, p. XV. (5) I. Toth, Aristotele e i fondamenti assiomatici della geometria, Vita e Pensiero, Milano 1998, p. 317.

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in cui si muovevano i personaggi era pensarli in dialogo tra di loro e pensare che il dialogo stesso fosse un grande lavoro teatrale in mano all’autore, che si fa traduttore nel momento in cui mette in un solo universo linguistico i diversi spazi linguistici dei personaggi. Il linguaggio di ciascun personaggio diventava così un teatro nel teatro, in modo molto simile a quanto aveva fatto Pirandello per comporre Il fu Mattia Pascal (1904), in cui l’immagine dei diversi lanternini colorati era stata composta tramite un lavoro di incastro, con colla e forbici, da brani che egli stesso aveva tradotto dal filosofo francese Séailles e poi inserito nel più ampio quadro della sua trama narrativa6, come ben ricostruisce Barbina ne L’ombra e lo specchio. Pirandello e l’arte del tradurre (1998). Anche i collages di Imre Toth possono essere visti come un’altra modalità, non verbale, per “tradurre” nel linguaggio geometrico del demiurgo7. Come scriveva Pirandello nel saggio Illustratori, attori e traduttori (1908), il riuscire a “comprendere” con le proprie parole le parole altrui, si lega più profondamente al problema della traduzione8, inteso non solo nel suo senso più proprio di traduzione da una lingua all’altra, ma anche di una lingua in se stessa e di un sistema semiotico in un altro9. Dare un nuovo significato alle parole, (6) Come ha ampiamente mostrato Andersson (cfr. G. Andersson, Arte e teoria. Studi sulla poetica del giovane Luigi Pirandello, in “Acta Universitatis Stockholmiensis Romanica Stockholmiensia”, Almqvist & Wiksell, Stockholm 1966), Pirandello si servì per i suoi testi critici e per le sue opere creative di interi brani ripresi alla lettera dall’Essai sur le génie dans l’art del filosofo francese Séailles. In seguito il Barbina ha dimostrato come questi brani in lingua francese venissero introdotti da Pirandello nei suoi testi tramite la traduzione in italiano dell’Essai che egli stesso andava approntando (cfr. A. Barbina, L’ombra e lo specchio. Pirandello e l’arte del tradurre, Bulzoni, Pubblicazioni dell’Istituto di Studi Pirandelliani, n. 9, Roma 1998). (7) Cfr. M. Belpoliti, Colla, forbici e matematica, in “Robinson - la Repubblica”, 27 novembre 2016. (8) Cfr. L. Pirandello, Illustratori, attori e traduttori, in Saggi, Mondadori, Milano 1938, pp. 227-246. (9) Cfr. R. Jakobson, On Linguistic Aspects of Translation, in R.A. Brower (ed.), On Translation, Harvard University Press, Cambridge, pp. 232- 239; trad. it. Aspetti linguistici della traduzione, in Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 56-64.

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tradurre le parole in altre parole o in immagini che ci diano un nuovo spazio in cui accedere diversamente alle cose stesse, traslare le parole in un nuovo contesto, tutto questo fa parte della trasformazione stessa dei linguaggi degli uomini, delle loro società e infine del loro pensiero. Non a caso Imre Toth chiamava “palinsesto” questa grande opera di traduzione, un palinsesto di parole e immagini10, proprio perché al di sotto si può intravvedere una traccia da seguire: come un fiume sotterraneo, la continua ricerca degli uomini di trovare un ordine geometrico alle parole emerge in bocca ai personaggi che l’hanno incarnata nei secoli. Ogni personaggio apre uno scenario il cui principale attore è il personaggio stesso che parla il proprio linguaggio come native speaker, ma non sa che il suo testo non è nient’altro che uno scenario scritto sul palinsesto. Non conosce il suo autore, né ha bisogno di conoscerlo. Si comporta così come Cratilo «nel mondo in sé chiuso del suo spazio teatrale, [in cui] tutti gli oggetti imitano con esattezza assoluta le parole del suo testo»11. Di per sé Cratilo non è un personaggio drammatico, non deve fare alcuna scelta tra linguaggio della verità e linguaggio della falsità. Diventerebbe drammatico solo qualora l’autore irrompesse nel testo, solo se ci fosse - per usare un’altra immagine pirandelliana - «uno strappo nel cielo di carta» del teatro. Solo dopo aver trovato l’autore, ha senso porsi una domanda sul proprio linguaggio, se parla della realtà o se è pura invenzione di un cattivo demiurgo; solo dopo aver incontrato il traduttore, si può abbandonare il proprio sicuro spazio linguistico. L’autore, invece - nel ruolo di demiurgo - è un soggetto libero12. Al contrario del native speaker, il demiurgo non deve sottostare alle leggi della sintassi che ha creato, nessuna parola gli è vietata, nem(10) Cfr. I. Toth, Palimpseste. Propos avant un triangle, cit.; tradotto in italiano da A. Nociti proprio con il titolo No! Libertà e verità, creazione e negazione: palinsesto di parole e immagini, Rusconi, Milano 1998. (11) I. Toth, Aristotele e i fondamenti assiomatici della geometria, cit., p. 320. (12) Cfr. I. Toth, Liberté et verité. Pensée mathématique et spéculation philosophique, Éd. de l'éclat, Paris 2009.

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meno quelle false e può anzi inventare parole nuove che (ancora) non corrispondono a cose. Come scrive Giordano Bruno, nel De triplici minimo et mensura (1591): Saremo moda e principio allor quando sradicheremo dal fondo delle tenebre insieme con le vecchie parole le più famose sentenze degli antichi sapienti; saremo inventori, se necessario, di nuove parole, qualsiasi ne sia la fonte, in armonia con la novità della dottrina. I grammatici asservono il contenuto alle parole, noi invece asserviamo le parole al contenuto; quelli seguono l’uso corrente, noi lo determiniamo13.

Un demiurgo buono non può sbagliare e dire il falso, non può commettere errori nell’assegnare i nomi alle cose, altrimenti le parole non potrebbero nemmeno essere considerate parole, ma solo suoni disarticolati, simili a quelli del nome del vulcano islandese. Il demiurgo buono dev’essere per forza caratterizzato dalla coerenza e dall’adaequatio tra linguaggio e realtà. Il demiurgo cattivo resta solo una possibilità teorica, finché non si trova uno spazio geometrico radicalmente diverso, in cui tutto il linguaggio nel suo insieme, sebbene coerente, è sempre e solo falso perché ha alla sua base un’ipotesi falsa14. Di nuovo, è il demiurgo della geometria non-euclidea. III. Da qui si può capire che l’autentico dramma, l’autentica presa di coscienza della propria lingua, non può svolgersi in uno spazio euclideo, come scriveva Imre Toth: «in questo comodo spazio, si incontrano infatti, come se stessero nel loro confortevole paese d’origine, solo le figure note, banali, della piccola borghesia euclidea, che vivono in pacifica coesistenza»15. Il nodo drammatico viene dalla struttura dell’intero (13) Jordani Bruni Nolani, De triplici minimo et mensura, in Opera latine conscripta, vol. I, 3, ed. F. Tocco et H. Vitelli, Florentiae 1889, p. 135, vv. 21-27; trad. it. di C. Monti, in G. Bruno, Opere latine, Utet, Torino 1980, pp. 92-93. (14) Cfr. I. Toth, Aristotele e i fondamenti assiomatici della geometria, cit., pp. 310-311. (15) I. Toth, Aristotele e i fondamenti assiomatici della geometria, cit., p. 340.

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universo linguistico-geometrico, con proposizioni che si contraddicono l’un l’altra. Come si fa a dire quali siano parole e quali no? Sono tutte parole, ma in lingue diverse indicano le cose in una pluralità di spazi geometrici diversi. Nessun native speaker può contraddirsi fino a quando parla la sua lingua madre, lo può fare solo quando entra in contatto almeno con un’altra lingua, almeno con un altro spazio geometrico radicalmente diverso, non-euclideo. Ciò non significa che si approdi al relativismo: ogni testo trova il proprio spazio, il proprio modo d’essere, all’interno di un palinsesto, incastrandosi a meraviglia tra le tracce disegnate in relazione agli altri testi. Anche Aristotele aveva sistemato tutto dentro un solo spazio, il commensurabile e l’incommensurabile: ma nel suo «robusto linguaggio della realtà concreta [...] è un insopportabile non-senso affermare che vi siano segmenti incommensurabili»16. Ma, come riconosceva lo stesso Aristotele, ci sono delle idee che sono più potenti di noi: ormai il Minotauro geometrico, “il mostro senza parola”, era già sulla scena e non se ne voleva andare. Scrive Toth: «Importunato una volta, il demiurgo malvagio del linguaggio della geometria non ha abbandonato il theatrum historiae dopo la fine dello spettacolo», ma «ha messo in bocca ai geometri l’arché perversa della geometria non geometrica citata da Aristotele [...] Hanno sperimentato che si parla di un linguaggio, che non porta a nessuna contraddizione intrinseca, e quindi può essere parlato allo stesso modo della loro madrelingua euclidea»17. Né in Platone, né in Aristotele, però, c’è l’idea di creazione dal nulla, in Cantor e Dedekind sì: i numeri irrazionali sono creazione dello spirito umano. E così, per Imre Toth, «il firmamento dei testi, la philosophia perennis, è l’imperituro palinsesto»18 creato dallo Spirito stesso. Questo cielo stellato dei testi è come l’universo di Giordano Bruno, un universo infinito, composto da infiniti corpi e molteplici (16) I. Toth, Aristotele e i fondamenti assiomatici della geometria, cit., p. 356. (17) I. Toth, Aristotele e i fondamenti assiomatici della geometria, cit., pp. 374-375. (18) I. Toth, Aristotele e i fondamenti assiomatici della geometria, cit., p. 66.

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spazi su cui collocarli19. Nel Palimpseste (2000), la traduzione coglie un istante eterno di questo universo visto dallo spirito umano e fa dialogare più di 700 personaggi, sebbene appartengano a spazi ed epoche storiche diverse20, così come la luce delle stelle che vediamo ora nel firmamento è in realtà iniziata migliaia, e migliaia di anni fa, chissà dove. Péter Várdy scrive che Imre Toth «e` il lettore e il redattore; e` la sua visione a fornire unita` ai frammenti [...] Noi siamo i testimoni di una sorta di trance notturna in cui discutono insieme, al di la` dei limiti spaziali e temporali, una miriade di personaggi»21. Ma aggiungo che solo un traduttore può essere al contempo lettore, redattore e creatore in un’altra lingua, tramite traslazione in un altro spazio linguisticogeometrico. La traduzione in un’altra lingua geometrica fa esistere nella nostra coscienza una impossibilita`, fa venire alla luce ciò che era stato negato, la geometria non euclidea, la fa nascere nel nostro pensiero. La traduzione è dunque un atto di creazione dal nulla dello spirito umano in sé stesso. Il traduttore non fa che agevolare la nascita dell’impossibile; ancora con le parole di Pirandello, ne I giganti della montagna (1937): Se lei Contessa, vede ancora la vita dentro i limiti del naturale e del possibile, l'avverto che lei qua non comprenderà mai nulla. Noi siamo fuori di questi limiti, per grazia di Dio. A noi basta immaginare, e subito le immagini si fanno vive da sé. Basta che una cosa sia in noi ben viva, e si rappresenta da sé, per virtù spontanea della sua stessa vita. È il libero avvento d'ogni nascita necessaria. Al più al più, noi agevoliamo con qualche mezzo la nascita. Quei fantocci là, per esempio. Se lo spirito dei personaggi ch'essi rappresentano s'incorpora in loro, lei vedrà quei fantocci muoversi e parlare. E il miracolo vero non sarà mai la rappresentazione, creda, sarà sempre la fantasia del poeta

(19) Cfr. L. Maierù, Bruno, l’universo, i mondi e le geometrie, in “Bruniana & Campanelliana”, 18(2), 2012, pp. 605-612. (20) Cfr. I. Toth, Palimpseste. Propos avant un triangle, cit. (21) I. Toth, Il lungo cammino da me a me, Quodlibet, Macerata, 2016, p. 26.

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in cui quei personaggi son nati, vivi, così vivi che lei può vederli anche senza che ci siano corporalmente. Tradurli in realtà fittizia sulla scena è ciò che si fa comunemente nei teatri22.

Tuttavia Toth non approda a un soggettivismo individualistico: non c’è alcun “je pense, donc je suis” cartesiano, ma piuttosto un “tu me penses, donc je suis”, che rappresenta non solo il potere creativo del pensiero umano, ma anche la sua natura intrinsecamente relazionale. Non penso sia avventato comparare la traduzione dei testi alla creazione di spazi non-euclidei, del resto lo stesso Toth comparava il romanzo Madame Bovary ad uno spazio geometrico non euclideo, entrambi creati perfetti nella mente dell’autore23. Come movimento dato da una doppia negazione, la traduzione ritorna ad essere, letteralmente, una traslazione, una metafora della trasformazione nello spazio, più che nel tempo, in uno spazio geometrico “estraneo”, non riducibile a quello euclideo. Così infatti scriveva Imre Toth nell’introduzione al Palimpseste (2000): Toute translation, surtout la translation géométrique des mots, implique un travail herméneutique. La nouvelle interprétation est le produit d’un double mouvement d’aliénation: déposséder d’abord le texte donné de son lieu et, après l’avoir transféré sur un autre sol, le faire approprier par un système de référence verbal étranger24.

È così che procede Toth, per metodo, ma anche il dispiegarsi del pensiero umano nel palinsesto, in una grandiosa, fantasmagorica traduzione di traduzioni, che interpretano, sviluppano, accrescono il sapere umano. Più di qualcuno ha ricordato, con il Palimpseste (2000), il sogno mai realizzato di Walter Benjamin. Tuttavia, per Benjamin, le traduzioni (22) L. Pirandello, I giganti della montagna, in Opere 1-6. Milano, Mondadori, 5, p. 1362. (23) Cfr. I. Toth, Matematica ed emozioni, Di Renzo, Roma 2004. (24) I. Toth, Palimpseste. Propos avant un triangle, cit., p. XV.

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sono come rette tangenti, che toccano la conferenza dell’originale ciascuna in un solo punto: Come la tangente tocca la circonferenza di sfuggita e in un solo punto, e come questo contatto sì, ma non il punto, le prescrive la sua legge, per cui essa continua all’infinito la sua via retta, così la traduzione tocca l’originale di sfuggita e solo nel punto infinitamente piccolo del senso, per continuare, secondo la legge della fedeltà, nella libertà del movimento linguistico, la sua propria via25.

Questo ha senso in uno spazio euclideo, ma non nell’universo del palinsesto in cui coesistono anche spazi non euclidei: lì infatti potrebbero anche esserci infinite rette a toccare la circonferenza in quel punto, infinite traduzioni “impossibili”. Il traduttore può al più facilitarne la nascita. IV. È nella sua vita però che Imre Toth rimette la teoria della traduzione di Benjamin sui suoi piedi: non parte dall’idea che ci sia una lingua pura ideale a cui ogni traduzione concreta attinge, ma fa un durissimo, concreto lavoro di traduzione su sé stesso, un lungo cammino da sé a sé. A tal proposito vorrei ricordare due momenti di questo cammino di presa di coscienza di sé, in cui la lingua parlata è solo un modo per identificarsi con gli altri esseri umani e sentire i loro problemi come propri. Il primo momento è quello in cui Toth si rivede in un nobile inglese con le scarpe gialle sporche di fango che dice con la più profonda sincerità «Noi kontadani uncheresi»: Quel «Noi kontadani uncheresi», quella identificazione completa con gli oppressi, non importa dove, fosse anche tra i papuani, mi fece pensare a Saul di Tarso, a San Paolo, il grande fanatico dell’universalità degli umani. Ernest Renan scrisse nella sua biografia di San Paolo (25) W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus novus, Einaudi, Torino 1962, pp. 50-51.

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che quest’uomo di Tarso doveva parlare un greco spaventoso. Poco gli importava di essere a Creta o a Roma, apriva la bocca e s’identificava immediatamente con chi passava. Dappertutto nel mondo era a casa propria: «Perché sono greco con i greci ed ebreo con gli ebrei». E quando quello diceva: «Noi, contadini ungheresi, noi dobbiamo sbarazzarci del giogo dell’oppressione», con la sincerità più totale, si avvertiva che era come se vivesse la` da mille anni e che il nostro problema fosse un suo problema personale [...] Quel modo d’essere a casa propria dappertutto, essere «noi» dappertutto, indignarsi, protestare contro la situazione politica intollerabile, organizzare manifestazioni, e parlare di tutto come se fosse una propria faccenda personale; una capacita` di identificazione fantastica! Ti dico, come l’apostolo Paolo. Io avevo quasi lo stesso atteggiamento [...] predicavo senza dubbio con un tono perentorio, sgradevole, alla San Paolo26.

Il secondo momento di presa di coscienza di sé, dato dal dolore quasi fisico per lo schiaffo morale della traduttrice tedesca Siegrid, per quella battuta fuori luogo sulla deportazione: Ho dunque detto, in presenza di Siegrid, a proposito di questa donna [n.d.t. una donna ebrea particolarmente sgradevole nel suo comportamento verso gli altri], che avevo un reclamo da fare: quella gente ad Auschwitz non ha fatto bene il proprio lavoro, per avere lasciato in vita simili brutture. E ` stato un infortunio sul lavoro! Siegrid ha cambiato espressione, e` diventata tutta pallida e mi ha detto: «Signor Toth, comprendo il vostro senso dello humour, ma ci sono cose su cui non si deve scherzare» [...] Come era potuta uscire dalla mia bocca una cosa simile? Era il secondo schiaffo che ricevevo [...] Questo secondo schiaffo fu lei che me lo diede, e non un ebreo, ma una giovane ragazza tedesca. Questo mi anniento`. Da allora abbandonai definitivamente quel tono arrogante e in fin dei conti menzognero. Forse riuscii, in una certa misura, a mettermi in armonia con me stesso. Un lungo cammino ha portato da me a me27.

Trovare la sua identità, che cosa volesse dire essere ebreo, in relazione agli altri, al cangiare degli eventi e degli spazi della sua vita, (26) I. Toth, Il lungo cammino da me a me, cit., pp. 76-77. (27) I. Toth, Il lungo cammino da me a me, cit., pp. 167-168.

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è stata una grande avventura, non solo filosofica. Anche questa si è data sotto forma di dialogo con il suo carissimo amico Péter Várdy, nella loro lingua, che ho tradotto alfine in italiano da un palinsesto francese di Judith Dupont. Un’altra traduzione di traduzioni ... non me ne mancavano molte per tornare da te, Imre, dentro al Palimpseste (2000), mi avevi suggerito una traccia, una frase di Anepigrafo, senza testo né autore, ma con la tua firma: “Tu me penses, donc je suis”.

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1. L’assioma di scelta del Soggetto In questo intervento esaminerò brevemente le argomentazioni che Imre Toth ha utilizzato per mostrare che la nascita delle geometrie non-euclidee è stata una rivoluzione liberatoria e una rivelazione come presa di coscienza. Tale nascita, a suo parere, è stata una rivoluzione perché ha definitivamente smentito i presupposti ontologici sui quali si fondava l’interpretazione della geometria euclidea da Galilei e Keplero fino a Frege1. Interpretazione che presentava la geometria come una vera e propria scoperta geografica di un’entità oggettiva, preesistente, che il matematico non poteva fare altro che “svelare”, cioè scoprire nello stesso senso in cui Colombo ha scoperto l’America. A questa visione ontologica, Toth ha contrapposto un’espressione, che ha mutuato dichiaratamente da George Cantor, secondo cui tutta la matematica si fonda su assiomi scelti liberamente e che possiedono la duplice caratteristica di essere sia indimostrabili sia irrefutabili, (1) Cfr. I. Toth, La filosofia della matematica di Frege. Una restaurazione filosofica, una controrivoluzione scientifica, a cura di T. Orlando, Quodlibet, Macerata 2015; Id., Essere ebreo dopo l’olocausto, a cura di B.M. d’Ippolito, Cadmo, Fiesole 2002, pp. 63 ss.; G. Frege, Ricerche logiche, Guerini, Milano 1999; Id., Senso, funzione e concetto. Scritti filosofici 1891-1897, a cura di C. Penco e E. Picardi, Laterza, Bari-Roma 2001.

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nel senso che nessuno può dimostrare razionalmente un assioma, così come nessuno lo può confutare razionalmente. «E», scrive Toth, «la coscienza della sua irrefutabilità risveglia il soggetto alla consapevolezza d’una potenza nascosta, che gli è propria, e che gli offre la legittimità d’un ritrovato potere: quello di creare»2. L’espressione letterale di Cantor, da cui Toth parte, è quella di “assioma di scelta”. Questa espressione è gravida, a suo parere, di conseguenze profonde. Infatti, scrive in proposito: «In quanto fondamento ultimo, ontico e giuridico al tempo stesso, l’assioma di scelta non trova e non può trovare la propria giustificazione che in se stesso. La sua ragion d’essere emerge dal fondo d’un ambito trascendentale situato al di là di ogni ragione. È il nucleo insondabile, celato tra le pieghe segrete del soggetto»3. Il termine assioma «è penetrato immediatamente nelle matematiche, e il suo nome è stato inserito fra i termini tecnici, dalla risonanza neutra, di un sapere freddo»4, ma quello che l’accompagna, il termine “scelta”, sottolinea Toth, «ha reso udibile la voce del soggetto occulto che confessa la propria presenza negli eventi matematici. “Scelta” implica “soggetto”: è una conseguenza necessaria, che non può essere oggetto di nessuna scelta. Poiché Soggetto è il nome portato esclusivamente dall’unico agente al mondo investito della singolare capacità di operare una scelta»5. Ma il soggetto non si è limitato a scegliere un assioma perché gli ha attribuito, contemporaneamente, il ruolo e il significato che lo (2) I. Toth, NO! Libertà e verità creazione e negazione palinsesto di parole e immagini, trad. di A. Nociti, Bompiani, Milano 2003, p. 19. Per gli sviluppi rimando a H. Maturana - F.J. Varela, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, trad. di A. Stragapede, Marsilio, Venezia 1985; H. Maturana, Autocoscienza e realtà, trad. di L. Formenti, Cortina, Milano 1993. (3) Ivi, pp. 19-20. Cfr. anche I. Toth, Il lungo cammino da me a me, interviste di Péter Vàrdy, trad. di F. Ervas, Quodlibet, Macerata 2016. (4) Ivi, p. 20. (5) Ibidem.

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caratterizzano. Questo significa, che «è evidentemente egli stesso, il soggetto, che ha elevato l’assioma di scelta al rango di legge. Una legge che proclama la libertà della parola. Conferendo a se stesso una legge per obbedirvi, il soggetto manifesta e proclama pubblicamente la propria libertà»6. Grazie a questa facoltà di poter scegliere, il soggetto si riconosce il potere connesso di creare liberamente, di negare unicità e definitività a ciò che ha creato, e quindi di andare oltre tutto ciò che crea, compreso il fare matematica. Allora, facendo interagire idealmente quanto appreso da Cantor con quella che Hegel aveva individuato come “logica del reale”, Toth può concludere perentoriamente che anche in ambito matematico, e soprattutto in geometria, «di fatto il complesso dei teoremi non euclidei scaturì d’un tratto e da una sola e pura sorgente: la negazione l’ “immane potenza del pensiero, dell’io puro” di cui parlava Hegel»7. La “negazione costruttiva” è diventata così la via attraverso la quale la matematica si è trasformata da oggettiva struttura ontologica del reale in produzione storica del soggetto conoscente che elabora teorie assiomatiche purificate da ogni condizionamento empirico e caratterizzate solo da estremo rigore logico-formale. In ragione di ciò, precisa Toth, «è la negazione che permette all’esprit de géometrie di raggiungere la seconda velocità cosmica, quella dell’acuto spirito dialettico. Ed è la stessa negazione che si fa garante della purezza assoluta delle forme ideali che essa genera: solo la concezione non euclidea è immacolata»8. L’atto del negare in geometria è “strutturale”, nel senso che «la matematica è l’espressione di una libertà umana che si manifesta nella creazione di mondi, che è una prerogativa divina, e questa creazione è veicolata da un atto di cui dolo l’essere umano è capace: la negazione»9. (6) Ivi, p. 21. (7) Ivi, p. 26. (8) Ibidem. (9) I. Toth, Matematica ed emozioni, s. i. t., Di Renzo, Roma 2004, p. 51.

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E se è vero che «nella vita di tutti i giorni, la negazione è un atto banale» e noi la usiamo nelle più svariate occasioni, e spesso per mentire, «nella filosofia europea, però, la negazione ha un ruolo fondamentale»10. Toth ha descritto tutto ciò come una specificità che in ambito scientifico caratterizza solo le matematiche. Lo ha dichiarato esplicitamente delineando una ricostruzione con la quale ha sottolineato che «la storia del pensiero matematico è veicolata da un’epistemologia e da un’ontologia negative. Tra tutte le scienze unicamente nella matematica si manifesta apertamente questa specificità singolare del soggetto, ovvero la negatività. La negazione è infatti una - una delle più notevoli - manifestazione del soggetto, della libertà del soggetto»11. Ma per negare e trasformare è necessario agire su qualcosa che già ha una sua realtà “ontica”. Questo in geometria significa, ovviamente partire da quanto elaborato da Euclide, per negarlo, superarlo e trasformarlo. Toth dunque vede le geometrie non-euclidee non come modelli diversi rispetto a quella euclidea, ma come tappe di un percorso che si sviluppa, hegelianamente, per autocontrapposizione. Nella sua ottica dunque, coerentemente, «il postulato di Euclide, la proposizione E, dalla quale deriva il testo della geometria euclidea, è negato. Si ottiene la proposizione non-E, negazione formale di E, dalla quale deriva la massa connessa del testo non-euclideo»12. Toth lo descrive come qualcosa di assolutamente inaspettato, tanto è vero che ha causato una sorta di trauma psicologico ed epistemologico che per lungo tempo ha profondamente disorientato i matematici, e riconosce che «fu davvero un avvenimento di natura assai strana, una eruzione istantanea di quella ragione dialettica che Hegel designava (10) Ibidem. (11) I. Toth, “Deus fons veritatis”: il soggetto e la sua libertà. Il fondamento ontico della verità matematica, intervista di G. Polizzi, “Iride”, 43, 2004, p. 510. Cfr. ora: I. Toth G. Polizzi, Il soggetto e la sua libertà. The Subject and its Freedom, a cura di F. Gembillo, Armando Siciliano, Messina 2022. (12) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, trad. di R. Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 70.

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con il termine dal triplice senso, Aufhebung; negare, elevare, conservare - negare, tollere, conservare: la negazione della proposizione vera, l’assioma euclideo E, porta immediatamente alla proposizione falsa non-E; la proposizione non-E è staccata dal suo contesto euclideo ed elevata allo statuto di assioma autonomo al quale si assegna il valore proposizionale del vero»13. L’evento va anche oltre il normale procedere logico-dialettico evidenziato da Hegel perché produce un nuovo “assioma” che, per così dire, esce fuori dal processo che lo ha prodotto e si svincola come “nuovo sistema assiomatico” del tutto opposto rispetto a quello dal quale in qualche modo deriva e che si pone in essere come “giustapposto” rispetto al precedente. Per questo motivo, secondo Toth, l’apparire della geometria non-euclidea «è stato il momento decisivo nel quale il soggetto delle matematiche ha preso coscienza della sua immanente libertà, della sua libertà di assegnare la verità, nello stesso tempo, a due proposizioni assiomatiche contraddittorie»14. Si tratta di una libertà assoluta, svincolata da qualunque costrizione, compresa quella tradizionalmente imposta dal principio di noncontraddizione. Si tratta di una trasformazione davvero radicale perché, come Toth sottolinea puntualmente, «quest’idea della simultaneità delle verità contraddittorie, E e non-E, non ha precursori, essa non è il risultato di un’evoluzione lenta e continua, la sua apparizione segna una rottura abissale nel cammino del pensiero»15.

(13) Ivi, p. 76. Rimando, ovviamente, a G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, trad. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1995; Id., Scienza della logica, trad. di A. Moni, Laterza, Roma-Bari 1983; B. Croce, Dialogo con Hegel, a cura di G. Gembillo, Esi, Napoli 1995; E. Fleischmann, La logica di Hegel, trad. di A. Solmi, Einaudi, Torino 1975; R. Franchini, Le origini della dialettica, ried. a cura di F. Rizzo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006; H.G. Gadamer, La dialettica di Hegel, a cura di R. Dottori, Marietti, Torino 2018. AA.VV., La presenza di Hegel nei pensatori contemporanei, 3 voll, Armando Siciliano, Messina 2023. (14) Ivi, p. 78. (15) I. Toth, “Deus fons veritatis”: il soggetto e la sua libertà ..., cit., p. 509.

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Il termine “abissale” appare a Toth particolarmente adeguato per descrivere un evento fino a quel momento del tutto inaudito e impensabile. Proprio per questo «essa ha costituito un capovolgimento rivoluzionario, nel senso proprio e più profondo del termine, una rivoluzione che supera i limiti del pensiero matematico - una rivoluzione nelle sfere celesti dell’universo del pensiero: l’idea della simultaneità delle verità contraddittorie»16. Si potrebbe dire che con l’elaborazione delle geometrie non-euclidee i concetti di perfezione, di rigore, di coerenza vanno declinati al plurale e diventano legittimamente attribuibili a sistemi assiomatici diversi e opposti tra loro. In ragione di ciò, «la rottura con l’assioma logico della contraddizione diveniva evidente. Ormai la parola ‘libertà’ stava per diventare esergo esplicito della creazione matematica, ripetuto a voce alta e forte dai matematici delle generazioni seguenti»17. La matematica identificata, assieme alle religioni, con il procedere dommatico si scopre libera perlomeno nell’atto di scegliere gli assiomi a partire dai quali sviluppare le proprie rigorose deduzioni, le quali restano tali anche in contesti differenti per cui, due sistemi formali che si contrappongono restano comunque intangibili nella loro struttura interna. Così, nel caso della geometria, «le due verità contraddittorie sono egualmente atemporali, dunque implicitamente eterne; esse dispongono ambedue della stessa incrollabile certezza: infatti si può dimostrare con assoluto rigore che la verità non-euclidea è altrettanto incontrovertibile della verità euclidea»18. C’è tuttavia ancora qualcosa che in qualche modo le lega e le collega: provengono dalla stessa fonte.

(16) Ibidem. (17) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, cit., p. 78. (18) Ibidem.

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2. Ciò che il Soggetto apprende grazie a ciò che ha scelto La fonte comune è costituita dal Soggetto che le ha prodotte entrambe e che ne garantisce la consistenza logica e ontica. Come Imre Toth sottolinea esplicitamente, infatti, «la fonte della verità e dell’essere simultanei dei due opposti universi, si trova all’interno del soggetto: il soggetto è in possesso nello stesso tempo del sapere dei due; l’universo non-euclideo si trova, allo stesso modo di quello euclideo, nello stato ontico d’essere saputo; il valore di verità che gli assegna il soggetto, dice chiaramente che il soggetto li riconosce simultaneamente come suoi, che esso riconosce, nello stesso tempo, d’essere il soggetto dell’uno e dell’altro universo»19. Ma, nel momento stesso in cui il soggetto riconosce le geometrie come proprie creazioni, riceve a sua volta, come effetto retroattivo circolare, un riconoscimento di cui prende consapevolezza definitiva; riceve, ancora una volta hegelianamente, il riconoscimento di avere assoluta e libera capacità creativa. Infatti, precisa Toth, «questo fu anche il contributo essenziale ed eccezionale del pensiero specificamente matematico alla fenomenologia dello spirito universale: è grazie a questo avvenimento geometrico che il soggetto è divenuto cosciente che la sua libertà significa autonomia assoluta, indipendenza dal dominio logico e priorità ontica del soggetto rispetto all’oggetto del sapere»20. E la forma concreta in cui tale libertà si rende definitivamente manifesta consiste precisamente nella libertà di negare, di mettere in discussione l’esistente, capacità che si rivela l’identità specifica del soggetto, sua proprietà esclusiva. Esclama icasticamente Toth: «‘No’ ecco la parola distintiva del soggetto, l’atto di identità della soggettività pura. Tra tutte le cose dell’universo, il soggetto è la sola che neghi, la sola che dica ‘No’ a un ordine stabilito, la sola a opporsi a ciò che è, (19) Ivi, pp. 78-79. (20) Ivi, p. 79.

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fosse anche un mondo intero, e a opporgli il sapere di un mondo diverso, il suo. Essendo il territorio della riflessività pura, il Me è anche l’unica cosa al mondo a potersi negare essa stessa»21. Ma negare non significa annullare, non significa precipitare nel nichilismo. Significa invece modificare, trasformare, creare qualcosa di nuovo. Alla stasi dell’esistente subentra la metamorfosi, l’attività creativa. Così, di fatto, nell’operare concreto «la negazione è l’espressione della libertà, la differenza specifica della singolarità del soggetto. Ma è anche la sorgente della creazione di un altro mondo, di un mondo nuovo. “La terrifica potenza del negativo, l’energia del pensiero, dell’Io puro!”, esclamava Hegel nella prefazione della sua Fenomenologia»22. Con questa espressione Hegel, per così dire, ratificava la forma logico-ontologica che ha messo in movimento la nostra storia; ha dato il nome di “logica dialettica” al processo, al divenire; ha sancito il filo conduttore che ci indica che l’essere è sempre in divenire, spinto da una forza interna che lo realizza con andamento auto-contraddittorio. Memore di ciò, Toth ripete: «La potenza terrifica del negativo, l’energia del pensiero, dell’Io puro - ecco una delle forze immanenti dell’Occidente che ha definito il percorso del suo spirito e investito il suo pensiero della capacità di superare se stesso»23. E questa non è una “scoperta geografica”. Se vogliamo continuare a usare lo stesso termine, possiamo dire che è una sorta di “scoperta interiore”, una vera e propria autocoscienza della propria identità teoretica, della propria attitudine conoscitiva. Dal punto di vista di Toth essa è «la presa di coscienza del soggetto da parte del soggetto e in se stesso, è un singolare atto cognitivo, una acquisizione di sapere radicalmente diversa da ogni scoperta propriamente detta, molto

(21) Ivi, p. 81. Cfr. I. Toth, Aristotele e i fondamenti assiomatici della geometria, Vita e Pensiero, Milano 1998. (22) Ibidem. Cfr. I. Toth, Matematica ed emozioni, cit., pp. 51-52. (23) Ivi, p. 82.

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diversa da ciò che si chiama scoperta nell’epistemologia»24. È la via mediante la quale il soggetto conosce se stesso con una profondità prima sconosciuta e che, una volta acquisita, lo rende consapevole di essere capace, come ha scritto Cornelius Castoriadis, di “creare dal nulla”25. Infatti «la matematica è una scienza esatta soltanto perché parla di cose che non esistono»26. Essa rappresenta, in maniera specifica, «un processo cognitivo che produce un accrescimento di sapere, un processo attraverso il quale l’intelletto, in quanto soggetto pensante, prende coscienza di se stesso, dei propri contenuti, delle proprie caratteristiche distintive»27. Insomma, Toth è talmente convinto dell’importanza di questa svolta rivoluzionaria da dichiarare, quasi in maniera assiomatica, che «il sapere della propria libertà è un incremento cognitivo, forse persino il più essenziale della condizione umana»28. Si tratta, infatti, non di un evento semplice che si è verificato per caso, ma, hegelianamente, del risultato del lungo percorso che ha portato lo spirito, quale si è realizzato storicamente, alla meta decisiva della presa di coscienza di se stesso. Questa convinzione lo induce a dichiarare che «il sapere della libertà non è il risultato dell’osservazione empirica, né dell’inferenza logica, il suo sapere non è il prodotto di un atto cognitivo dovuto a ciò che abitualmente si chiama una scoperta; esso è il compimento di un lungo e lentissimo processo di presa di coscienza del soggetto»29. Tornando ancora una volta esplicitamente a Hegel, infatti, Toth ha puntualizzato che «la libertà è, esiste, sì, è una realtà, ma è realmente (24) Ivi, p. 84. (25) Cfr. C. Castoriadis, L’istituzione immaginaria della società, ediz. it. a cura di F. Ciaramelli, Bollati Boringhieri, Torino 1995; Id., L’enigma del soggetto. L’immaginario e le istituzioni, trad. di R. Currado, Dedalo, Bari 1998. (26) I. Toth, Matematica ed emozioni, cit., p. 46. (27) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, cit., pp. 84-85. (28) Ibidem. (29) Ibidem.

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se e soltanto se è saputa, se e soltanto se il soggetto ha preso coscienza della propria libertà: il fondamento ontico della libertà è il suo sapere. La sua modalità ontica è quella di un essere-saputo»30. E quanto, dal punto di vista di Imre Toth, il “sapere” sia fondamento ontico e ontologico di tutta la storia, è testimoniato dal bellissimo aforisma con il quale egli sancisce il ragionamento fin qui sviluppato, incastonandolo, per così dire, in questa icastica enunciazione: «Il soggetto è la dimora delle cose che non hanno esistenza se non nel sapere e per mezzo del sapere»31. Tutto ciò che è stato fatto operativamente dagli uomini è stato “prima” pensato; in qualche modo programmato; “guidato”, come diceva Giambattista Vico, inizialmente dall’immaginazione e poi, gradualmente, dalla “ragione tutta spiegata”32. Ovvero, «la storia del pensiero occidentale consiste nella reiterata presa di coscienza del suo soggetto e, in fin dei conti, questa coscienza di sé, la soggettività assoluta, si afferma come il fattore principale che impone la scelta dei suoi atti e dei suoi eventi»33. E possibilità ontologica di scelta, significa, come abbiamo visto fin qui, libertà, e «la presa di coscienza della libertà è la fenomenologia dello spirito occidentale»34. Questo significa che l’essere libero, da parte del soggetto gli è, per così dire, strutturale, fa parte intrinsecamente della sua identità. Se questo è vero, sottolinea Toth, «la presa di coscienza della libertà è la conseguenza del movimento proprio dello spirito, al quale quindi mi sembra giustificato assegnare una certa modalità di necessità. È una necessità specifica, immanente allo spirito umano»35. Ma tale presa di coscienza è efficace e operativa perché si estende (30) Ivi, p.86. (31) Ibidem. (32) Cfr. G. Vico, Princìpi di Scienza Nuova, a cura di F. Nicolini, Mondadori, Milano 1992, LII Degnità. (33) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, cit., p. 87. (34) Ibidem. (35) Ivi, p. 88.

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o forse sarebbe meglio dire, “si ritorce” sul soggetto stesso, che subisce la spinta irrefrenabile non solo a mettere in questione tutto ciò che lo circonda, ma anche a guardarsi dentro criticamente sia in quanto singolo, sia in quanto appartenente a una comunità. Tanto è vero che, per esempio, «la critica sociale che si articola con una intensità crescente, l’autocritica dell’uomo nel pensiero e nella sensibilità occidentali, è una delle più importanti conseguenze della riflessività del soggetto della storia»36. Allora, ciò che l’uomo occidentale fa viene sempre passato al vaglio della ragione critica, viene metaforicamente “scomposto e ricomposto”, viene tenuto concretamente in movimento come tappa da superare, come meta provvisoria. In questa ottica, «la presa di coscienza dello spirito è la forza naturale che definisce il cammino del soggetto attraverso la sua storia, forza propria del soggetto, forza che emana in modo naturale dall’interiorità del soggetto: è il soggetto stesso nell’ipostasi di una forza naturale»37. È una forza psico-fisica che è sempre alla ricerca del nuovo, che non significa necessariamente del meglio, ma che è cercato sempre in nome di ideali che, almeno nelle enunciazioni, sono aspirazioni positive perseguite consapevolmente perché, afferma Toth, «il sapere della libertà, della giustizia, dell’universalità delle leggi morali e dell’uguaglianza di tutti gli uomini, il sapere che è creatore di mondi usciti dal nonessere - la coscienza di tutto ciò è il prodotto del lavoro filosofico dello spirito»38. È il “sapere filosofico” che, indipendentemente dagli esiti concreti, si è assunto sempre il compito di illuminare, spinto l’uomo occidentale a fare la propria storia sempre a partire da idee, sia quando esse, per dirla con Edgar Morin, ci hanno guidato sotto forma di démoni socialmente (36) Ibidem. (37) Ivi, p. 100. (38) Ibidem. Rimando a G.W.F.Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, trad. di G. Calogero e C. Fatta, La Nuova Italia, Firenze 1989; Id., Lineamenti di filosofia del diritto, trad. di B. Henry, Laterza, Roma-Bari 2004.

In che senso Imre Toth proclama la libertà di dire NO!

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creativi, sia quando ci hanno posseduto sotto forma di demòni socialmente distruttivi39. Alla luce e a conferma di tutto ciò, Imre Toth conclude la sua “apologia della Filosofia” con questo splendido aforisma: «il sapere filosofico è irreversibile, esso è il tesoro spirituale perenne di tutta l’esperienza di vita dell’umanità»40.

(39) Cfr.E. Morin, I miei demoni, trad. di L. Pacelli e A. Perri, Meltemi, Roma 1999; Id., Autocritica, trad. di S. Lazzari, Moretti&Vitali, Bergamo 1991; Id., Il vivo del soggetto, trad. di G.P. Cogi, Moretti & Vitali, Bergamo 1995. Su cui: A. Anselmo, Edgar Morin. Dal riduzionismo alla complessità, Armando Siciliano, Messina 2000; Ead, Edgar Morin dalla Sociologia all’Epistemologia, Guida, Napoli 2006; Ead., Edgar Morin e gli scienziati contemporanei, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005; F. Gembillo, Conoscenza ed etica nel pensiero di Edgar Morin, Aracne, Roma 2018; F. Russo, Il concetto di organizzazione in Edgar Morin, Aracne, Roma 2018. (40) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, cit., p. 100.

Giuseppe Gembillo La filosofia consapevole di Imre Toth e la matematica come libera creazione del Soggetto

1. Premessa Secondo una tradizione millenaria, ancora oggi largamente dominante, Filosofia e Matematica sono due attività del tutto opposte e reciprocamente incommensurabili. Questo perché la matematica viene vista come la quintessenza della certezza e del rigore logico, mentre la Filosofia rappresenta, al contrario, l’attitudine a mettere in discussione, mediante argomentazioni razionali, ogni forma di certezza e di dommatismo, ovvero tutto ciò che pretende di possedere consistenza eterna e di presentarsi come entità oggettiva corroborata da struttura definita e quindi traducibile in enunciati teorici certi e definitivamente veri. Insomma, Matematica e Filosofia sono due forme di razionalità contrapposte, almeno nella ipotesi più ottimistica che riconosca anche alla filosofia connotazione razionale. Posto tutto ciò, il rapporto della filosofia con la matematica è stato tradizionalmente conflittuale o di reciproco disconoscimento. I matematici hanno fatto, e fanno ancora, tutto il possibile per presentarsi del tutto estranei e più rigorosi rispetto ai filosofi; hanno fatto e fanno ancora di tutto per ribadire l’assoluta autonomia ontologica e metodologica della matematica. La loro forza principale è consistita nella esplicita convinzione che mentre nessuno può negare che le filosofie siano tante quanti sono i grandi filosofi, e

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comunque un loro prodotto soggettivo, la matematica sarebbe unica da sempre e per sempre perché sarebbe valida per tutti gli esseri umani: insomma, essa sarebbe l’unica attività veramente universale, certa, oggettiva, inconfutabile e priva di contraddizioni interne. Come da sempre ci hanno ripetuto, 2 + 2 = 4, senza alcun dubbio. Questo è normalmente scontato fino alla banalità, ma non è sempre vero perché se sommiamo pecore, due pecore più due pecore saranno sempre quattro pecore, ma se sommiamo due gradi di calore più due gradi di calore avremo sempre due gradi di calore perché il calore non è additivo ma diffusivo. Si può dire comunque che questa forte connotazione “oggettivistica” abbia accompagnato la matematica fin dalla sua nascita. Senza scomodare più di tanto Pitagora e Platone (ma Platone la poneva fuori della realtà concreta), sta di fatto che questa connotazione ontologica e oggettivistica attribuita, in particolare, alla geometria euclidea ha segnato strutturalmente la nascita della scienza classica, costituendone il fondamento e la legittimità. Come tutti sappiamo infatti, la geometria, nella forma coerente elaborata da Euclide, che restava esplicitamente formale, veniva invece trasformata, nel momento in cui Keplero e Galilei fondavano la scienza classica, non solo in struttura ontologica della Natura ma, addirittura, in struttura ontologica della mente divina. Basta ricordare, in proposito, le espressioni emblematiche di Keplero, per il quale, già nel 1619, «la geometria, eterna come Dio e promanante dallo spirito divino ha fornito a Dio le immagini per plasmare l’universo, affinché questo fosse il migliore, il più bello e il più simile al creatore»1. E ciò è stato possibile, sempre a suo parere perché «la Geometria è coeterna alla mente divina sin da prima della creazione. È Dio stesso (infatti, che cosa c’è in Dio che non sia Dio stesso?) e ha dato a Dio i modelli per (1) J. Kepler, Harmonices mundi, libro IV, cap. 1, “De configurationibus harmonicis radiarum sideralium in Terra”, Frisch, vol. V, p. 22.

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la creazione dell’universo. Essa è penetrata nell’uomo con l’immagine di Dio, e di certo non fu acquisita all’interno attraverso gli occhi»2. Sono arcinote, per altro verso, le affermazioni di Galilei sul libro della Natura (1623, Il Saggiatore), «scritto in caratteri matematici»3, cioè in figure euclidee; e sull’intelletto umano (1632, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo), simile a quello divino: «Pigliando l’intendere intensive, in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfettamente, dico che l’intelletto umano ne intende alcune così perfettamente, e ne ha così assoluta certezza, quanto se n’abbia l’istessa natura, e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore»4. Questa convinzione, debitamente immanentizzata e laicizzata, era stata poi definitivamente ratificata da Kant, il quale aveva scritto testualmente che «la matematica, dai tempi più remoti a cui giunge la storia della ragione umana, è entrata, col meraviglioso popolo dei Greci, sulla via sicura della scienza»; e aveva ipotizzato che questa trasformazione definitiva debba essere attribuita «a una rivoluzione, posta in atto dalla felice idea d’un uomo solo, con una ricerca tale che, dopo di essa, la via da seguire non poteva più essere smarrita, e la strada sicura della scienza era ormai aperta e tracciata per tutti i tempi e per infinito tratto»5. Egli poi concludeva la Critica della ragion pratica sentenziando: (2) Ibidem. (3) G. Galilei, Il Saggiatore [1623], a cura di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1965, p. 38. Su cui: G. Gembillo, Neostoricismo complesso, Esi, Napoli 1999. (4) G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo [1632], a cura di L. Sosio, Einaudi, Torino 1975, p. 127. (5) I. Kant, Critica della Ragion Pura, trad. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, Laterza, Bari 1969, pp. 14-15.

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«Dopo che, quantunque tardi, venne in uso la massima di riflettere bene, prima, a tutti i passi che la ragione intende fare, e di non lasciarla procedere altrimenti che per il sentiero di un metodo prima ben esaminato, allora il giudizio sull’universo ricevette tutt’altro indirizzo e, insieme con questo, un esito, senza paragone, più felice»6. Tale esito, da lui ritenuto ovvio, lo ha portato a concludere che «la caduta di una pietra, il movimento di una pianta, risolti nei loro elementi e nelle forze che vi si manifestano, e trattati matematicamente, produssero, infine, quella cognizione del sistema del mondo chiara e immutabile per tutto l’avvenire, la quale, col progresso dell’osservazione, può sperare sempre soltanto di estendersi, ma non può mai temere di dover ritornare indietro»7. In questo modo Kant consegnava in definitiva alla storia della conoscenza, sia un intelletto fisso, strutturato secondo categorie immodificabili; sia una Natura che obbedisce a leggi rigorose e altrettanto immodificabili; sia, ancora, un’idea di conoscenza che, conclusivamente, delineava in questo modo: «Necessità e vera universalità son dunque i segni distintivi sicuri di una conoscenza a priori; e sono inseparabilmente inerenti l’uno all’altro»8. Come ha scritto Ilya Prigogine in proposito, egli forniva così la “ratificazione critica” alla scienza galileiano-newtoniana. E poiché solo la scienza fisico-matematica della Natura risponde a tali requisiti, solo essa, fondata, come aggiungeva Laplace, su una coerente procedura logica, garantisce conoscenza rigorosa e oggettiva: «Dobbiamo dunque considerare lo stato presente dell’universo come l’effetto del suo stato anteriore e come la causa del suo stato futuro»9. (6) I. Kant, Critica della Ragion Pratica, trad. di F. Capra, Laterza, Bari 1971, p. 198. (7) Ivi, p. 198. (8) I. Kant, Critica della Ragion Pura, cit., p. 18. (9) P.S. de Laplace, Opere, a cura di O. Pesenti Cambursano, Utet, Torino 1967, p. 243. Su ciò cfr.: G.W. Leibniz, Discorso di metafisica. Verità prime, a cura di S. Cariati, Rusconi, Milano 1999, p. 225.

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Ipotizzato così che l’universo sia un meccanismo perfetto, il passaggio successivo appare plausibile e coerente. Laplace lo ha compiuto disegnando in questo modo la propria immagine di un essere onnisciente: «Un’Intelligenza che, per un dato istante, conoscesse tutte le forze da cui è animata la natura e la situazione rispettiva degli esseri che la compongano, se per di più fosse abbastanza profonda per sottomettere questi dati all’analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo e dell’atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi»10. Che questa ipotesi non sia campata in aria sarebbe dimostrato, a suo parere, dai successi che l’uomo è riuscito a conseguire nell’intento di delineare un sistema del mondo perfettamente definito. Per lui infatti «lo spirito umano offre, nella perfezione che ha saputo dare all’astronomia, un pallido esempio di quest’Intelligenza. Le sue scoperte in meccanica e in geometria, unite a quella della gravitazione universale, l’hanno messo in grado di abbracciare nelle stesse espressioni analitiche gli stati passati e quelli futuri del sistema del mondo»11. Dove, come si vede, il riferimento alla formalizzazione matematica della fisica, di cui dicevo, appare esplicito e diretto. Come puntuale è il rimando a tutte le tappe essenziali percorse nel processo di costituzione della fisicalizzazione della Natura. A conferma di ciò Laplace ribadiva che, inoltre, l’uomo è stato capace di utilizzare tale attitudine in un ambito più vasto, tant’è che «applicando lo stesso metodo ad altri oggetti delle sue conoscenze, è riuscito a ricondurre a leggi generali i fenomeni osservati ed a prevedere quelli che devono scaturire da circostanze date»12. (10) P. S. de Laplace, Opere, cit., p. 243. (11) Ivi, p. 243. Su ciò e sull’aneddoto di Laplace cfr.: A. Koyré, Studi newtoniani, trad. di P. Galluzzi, Einaudi, Torino 1983, p. 23. (12) Ivi, 244. Sul determinismo mi limito a rinviare a: E. Cassirer, Determinismo e indeterminismo nella fisica moderna, trad. di G.A. De Toni, La Nuova Italia, Firenze 1970;

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Dunque dal 1619 con Keplero, almeno fino al 1814 con Laplace la geometria euclidea si è consolidata come Ontologia strutturale del Reale e come metodologia assoluta. Questa visione è ancora oggi largamente dominante, come mostra la visione della matematica che viene tramandata nelle scuole e nelle università e che quindi viene “insegnata” ai discenti. Si tratta però di una visione banale della matematica, superata dalla sua stessa storia e dalle riflessioni che i matematici più consapevoli hanno elaborato su di essa. Si tratta di una visione che descrive l’evoluzione della matematica come un processo di accumulo. Ma, a ben guardare, la storia della matematica non è una storia di accumulo. Per cercare di rendere ragione di queste affermazioni e per corroborarle, le argomentazioni di Imre Toth sono a mio parere non solo perfettamente adeguate, ma anche particolarmente efficaci e convincenti.

2. La rivoluzione mentale di Toth L’attacco di Toth alla cristallizzazione della matematica è stato bifronte: dal punto di vista delle geometrie non-Euclidee e dal punto di vista di Platone e Aristotele, da lui giudicati più aperti e formali rispetto all’ontologia della scienza classica. A suo parere, come adesso vedremo, la geometria “ontologizzata” di Galilei-Keplero è più povera di quella platonico-aristotelica ed è diversa da quella di Euclide, che era e resta formale. La concezione della geometria euclidea come ontologia, come struttura intrinseca della Natura persisteva ancora a cavallo tra AA.VV., Sul determinismo, a cura di K. Pomian, trad. di D. Formentin, Mondadori, Milano 1991; J. Earmann, A Primer on Determinism, Reidel, Dordrecht 1986; A. Kojève, L’idea di determinismo nella fisica classica e moderna, trad. di S. Moreno, Adelphi, Milano 2018.

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Ottocento e Novecento, ed è stata emblematicamente espressa sia da Göttlob Frege, per il quale ogni enunciazione geometrica non sarebbe altro che una vera e propria scoperta geografica; sia da Bertrand Russell, per il quale il numero 1 esisterebbe nello stesso senso in cui esiste l’America. Ma restava una convinzione “cieca” nel senso che era, per parafrasare Edgar Morin, una “scienza senza coscienza”, cioè senza la consapevolezza di basarsi su un presupposto metafisico. Una scienza a cui mancava l’autoriflessione filosofica, a cui mancava l’autocritica. Alla quale mancava la consapevolezza del fatto che le definizioni, gli assiomi, sono dei presupposti meta-matematici, metafisici, filosofici, che stanno alla base di ogni elaborazione matematica o scientifica. Imre Toth, operante in un contesto di senso nel quale tramite la fisica quantistica gli scienziati del Novecento avevano compreso che le nostre teorie scientifiche non rispecchiano oggettivamente la Realtà ma sono modelli, più o meno adeguati, di essa, ha fatto prendere coscienza di tutto questo anche in matematica, seguendo idealmente Cardano e Vico. In questo è stato favorito dal fatto che alla tradizione “ontologica” così consolidata avevano già inferto uno scossone terribile, sul piano concreto, la storia della geometria, in conseguenza della svolta avvenuta a seguito dell’elaborazione delle geometrie non-euclidee; sul piano teorico, quella presa di coscienza teoretica che ha condotto fino a Toth e che oggi ha in lui uno dei suoi massimi rappresentanti. Ed è proprio questo intreccio tra storia della geometria e riflessione filosofica consapevole su di essa che fa di lui un punto di svolta della cultura occidentale. Imre Toth, infatti, partendo da un punto di vista filosofico consapevole, ha reso razionale e comprensibile quello che era considerato un vero e proprio oltraggio alla razionalità rigorosa e non contraddittoria della matematica. Ha reso consapevole e, per così dire, ratificato, il fatto che la matematica non è la struttura ontologica di Dio e della Natura ma «è una libera invenzione dell’intelletto umano», per richiamare un’espressione che Einstein ha usato nel 1937 per definire lo statuto delle teorie scientifiche.

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Per corroborare questa sua convinzione, Toth si è confrontato polemicamente con Frege e, cosa davvero, rivoluzionaria per un matematico, ha supportato le proprie considerazioni corroborandole con quelle espresse da Hegel. Ha ripetuto, in altri termini, l’operazione teorica che Prigogine ha fatto con la fisica, inserendo Hegel in un contesto che prima di loro era ritenuto a lui del tutto estraneo. Seguiamo allora il percorso che lo ha condotto a una vera e propria svolta teorica. Come Toth sottolinea ripetutamente, la creazione delle geometrie non-euclidee è stata considerata, da Frege e da Russell, un vero e proprio “oltraggio”. Egli ribatte invece che la loro enunciazione ha fatto emergere il dato per cui la scelta sta a fondamento della matematica. Toth la individua nel passaggio, tutto interno alla geometria, che è un superare conservando: la contraddizione e la libertà di scelta entrano nella matematica, senza minarne il rigore logico. Questa consapevolezza determina una riflessione filosofica storicamente fondata, per esempio, sul concetto di “assioma di scelta” enunciato da Cantor. Fa emergere la consapevolezza della libertà di scelta e, in funzione di ciò, la geometria da struttura ontologica diventa un modello descrittivo. In questo modo Toth scopre una libertà che nessuno può togliere al Soggetto: la libertà di negare tutto, di rivoluzionare qualsiasi modello della realtà; la libertà, come vedremo, che si manifesta come un negare non nichilistico bensì costruttivo. Si tratta proprio del negare hegeliano, che conservando non annulla ma trasforma tutto nel corso della storia; che alla stasi fa subentrare la negazione attiva che consente, per usare un’espressione di Prigogine, la metamorfosi. Insomma, la riflessione sulla storia della matematica fatta da Toth rappresenta una delle migliori testimonianze dell’attualità della scoperta, anche in matematica, del valore della “contraddizione” logica e del divenire storico e assume un ruolo particolare perché espressa da uno dei più autorevoli storici contemporanei della matematica. Da uno studioso che è giunto a delle conclusioni estremamente in-

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teressanti quando si è posto il problema generale di indagare la filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale e che in tale contesto ha ritenuto essenziale evidenziare il carattere specifico della elaborazione delle geometrie non-euclidee, scrivendo, tra l’altro: «Ecco, infine, l’esempio paradigmatico della geometria noneuclidea. Il postulato di Euclide, la proposizione E, dalla quale deriva il testo della geometria euclidea, è negato. Si ottiene la proposizione non-E, negazione formale di E, dalla quale deriva la massa connessa del testo non-euclideo»13. La negazione ha rivoluzionato profondamente l’idea di geometria sia a livello ontologico che a livello formale-comunicativo, come testimonia la terminologia utilizzata che qualifica appunto come “noneuclidee” le nuove geometrie. Essa è stata assolutamente imprevista. «Fu davvero un avvenimento di natura assai strana, una eruzione istantanea di quella ragione dialettica che Hegel designava con il termine dal triplice senso, Aufhebung; negare, elevare, conservare - negare, tollere, conservare: la negazione della proposizione vera, l’assioma euclideo E, porta immediatamente alla proposizione falsa non-E; la proposizione non-E è staccata dal suo contesto euclideo ed elevata allo statuto di assioma autonomo al quale si assegna il valore proposizionale del vero»14. L’altro aspetto straordinario consiste nel fatto che essa è stata elaborata, per così dire, già completa nella sua formulazione, già sistematica ed esaustiva. Dunque, oltre a essere del tutto inaspettata, «vera immacolata concezione, la geometria non-euclidea è uscita tutta armata dalla testa della geometria euclidea, come una risposta che nessuna domanda ha preceduto, come una offerta che non è stata preceduta da alcuna richiesta. Nessuno se l’aspettava»15. (13) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, trad. di R. Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 70. (14) Ivi, p. 76. (15) Ivi, p. 77.

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È stata sorprendente da tutti i punti di vista; è stata profondamente disorientante perché tutti coloro che avevano affrontato il problema della struttura formale della geometria euclidea, «si aspettavano esattamente il contrario: la rigorosa dimostrazione logica dell’unicità della verità euclidea, l’eliminazione definitiva dell’assurdità non-euclidea»16. Erano perfettamente convinti di questo tutti coloro che identificavano logica e matematica, e che, concordando con Bertrand Russell, ritenevano che «la geometria, come le matematiche nel loro insieme, è una parte della logica»17. Ma, in singolare consonanza temporale e locale, «all’inizio del XIX secolo, negli stessi anni dell’apparizione della geometria non-euclidea di cui non sapeva nulla, Hegel, nella sua Scienza della logica, gli replicava: Le matematiche devono i più brillanti dei loro successi a idee che contraddicono la ragione discorsiva»18. E, sottolinea puntualmente Toth, «la geometria non-euclidea ne ha portato la prova clamorosa: la geometria non è una parte della logica»19. Tutto questo è stato realizzato da quel “Soggetto” che “costituisce” liberamente, nel senso kantiano, il modo di fare matematica; che si rivela, in concreto, il creatore delle trasformazioni logiche che in essa si realizzano. Questo mostra chiaramente che la creazione delle geometrie non-euclidee «è stato il momento decisivo nel quale il soggetto delle matematiche ha preso coscienza della sua immanente libertà, della sua libertà di assegnare la verità, nello stesso tempo, a due proposizioni assiomatiche contraddittorie»20. Per rendersi conto della portata rivoluzionaria di tale atto creativo, è sufficiente ricordare le fondamenta sulle quali la scienza mo(16) Ibidem. (17) Ibidem. (18) Ibidem. (19) Ibidem. (20) Ivi, p. 78.

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derna è stata edificata quando, per bocca di Keplero, come abbiamo visto in premessa, veniva proclamato che «la Geometria è coeterna alla mente divina sin da prima della creazione. È Dio stesso»21. Contrapponendo la nuova prospettiva a questa enunciazione fondativa, si comprende meglio in che senso con le nuove geometrie la rivoluzione logica veniva corroborata anche dall’ambito delle matematiche, e in che senso anche in esse «la rottura con l’assioma logico della contraddizione diveniva evidente». Ciò succedeva perché «ormai la parola “libertà” stava per diventare esergo esplicito della creazione matematica, ripetuto a voce alta e forte dai matematici delle generazioni seguenti»22. Va precisato, però, che, come è opportuno ribadire anche per gli altri campi del sapere, tutto questo non determina la perdita di senso della logica tradizionale; non significa che essa non abbia più un ruolo ineliminabile. Al contrario, e lo prova proprio il caso in oggetto, «l’assioma logico della contraddizione conserva invariabilmente la sua rigorosa validità all’interno di ciascuno dei due opposti universi. La loro reciproca coerenza logica è rigorosamente dimostrabile. Le due verità contraddittorie sono egualmente atemporali, dunque implicitamente eterne; esse dispongono ambedue della stessa incrollabile certezza: infatti si può dimostrare con assoluto rigore che la verità non-euclidea è altrettanto incontrovertibile della verità euclidea»23. Allora si pone inevitabilmente una questione di convivenza e di necessità di coerenza che esige chiarezza. Per cercare di conseguirla bisogna innanzitutto premettere, per esempio, che la legittimità dei due modelli geometrici opposti è garantita dal fatto che tali modelli sono stati creati da uno stesso Soggetto. La conseguente presa di co(21) J. Kepler, Harmonices mundi, Libro IV, cap. 1, “De configurationis harmonicis radiorum sideralium in terra”, in Opere, Frisch, vol. V, p. 223. (22) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, cit., p. 78. (23) Ibidem.

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scienza non solo legittima l’esistenza di quelli che, parafrasando Kant, potremmo chiamare “opposti incongruenti”, ma si rivela fondamentale anche per l’autoconsapevolezza del Soggetto. Di ciò hanno avuto preciso sentore anche molti grandi matematici, e, per esempio, «a proposito della concezione degli insiemi infiniti, dei numeri ordinali e cardinali transfiniti, grazie ai quali ha rivoluzionato il pensiero matematico, Georg Cantor parla della generazione dialettica dei nuovi concetti, creati liberamente»24. Tutto questo porta alla luce la «dialettica immanente del cammino del sapere matematico»25 e consente di rendere visibile più chiaramente la struttura stessa del Soggetto, a proposito del quale Toth esclama: «‘No’ - ecco la parola distintiva del soggetto, l’atto di identità della soggettività pura. Tra tutte le cose dell’universo, il soggetto è la sola che neghi, la sola che dica “No” a un ordine stabilito, la sola a opporsi a ciò che è, fosse anche un mondo intero, e a opporgli il sapere di un mondo diverso, il suo»26. Da quando ne abbiamo memoria storica, infatti, il «divenire del mondo e delle cose che lo costituiscono è stato possibile grazie soltanto all’azione di coloro che non si sono accontentati di ciò che hanno ricevuto in eredità. Grazie a coloro che l’hanno consapevolmente giudicata e hanno distinto, al suo interno, gli aspetti da sviluppare da quelli da comprimere. Per questo ruolo fondamentale l’atto del negare è «la sorgente della creazione di un altro mondo, di un mondo nuovo»27. È l’hegeliana «immane potenza del negativo» che Toth (24) Ibidem. Cfr. G. Cantor, La formazione della Teoria degli insiemi, a cura di G. Rigamonti, Sansoni, Firenze 1992. (25) Ibidem. (26) Ivi, p. 81. Su ciò cfr. I. Toth, NO! Libertà e creatività, trad. di A. Nociti, Rusconi, Milano 1998, p. 31, aggiunge: «In effetti, grazie all’affermazione non euclidea lo spirito della geometria ha dato la prova di costituire una parte organica di un unico e medesimo Spirito, e di partecipare al suo sforzo per prendere coscienza della propria libertà a pari titolo del pensiero politico, della riflessione morale, della speculazione filosofica, o della sensibilità artistica e della meditazione religiosa». Cfr. anche I. Toth, Aristotele e i fondamenti assiomatici della geometria, Vita e Pensiero, Milano 1998. (27) Ibidem. Cfr. G.W.F. Hegel, Prefazione, a cura di D. Donato e G. Gembillo,

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richiama e che sottolinea espressamente affermando: «“Die ungeheuere Macht des negativen”, la potenza terrifica del negativo, l’energia del pensiero, dell’Io puro - ecco una delle forze immanenti dell’Occidente che ha definito il percorso del suo spirito e investito il suo pensiero della capacità di superare se stesso - sich aufheben»28. Questo approccio è sorto e si è consolidato grazie una tradizione che prolunga le proprie radici alle origini del nostro processo di civilizzazione. Infatti, dal punto di vista storico, «è nel quadro del pensiero giudaico-cristiano che ha avuto luogo la presa di coscienza di questa relazione di dirempzione (diremptio) - per usare un termine caro a Hegel - che lega e separa Natura e Uomo. L’espressione indica il legame dialettico che associa, in una coesistenza indissolubile, amore e odio, amicizia e ostilità, divorzio e inseparabilità di Natura e Spirito; la natura e il corpo restano la sorgente permanente delle passioni, del vizio, del peccato; l’intelletto è sorgente e sede della virtù; la vita deve essere una lotta costante contro la tentazione delle passioni che emergono dalla natura della nostra condizione corporale»29. Questa auto consapevolezza costituisce una conquista faticosa ma fondamentale nello sviluppo della cultura occidentale. Faticosa perché contrastata da uno dei concetti più pericolosi che il Soggetto abbia prodotto contro se stesso: quello di “oggettività”. Proprio per questo, «la presa di coscienza del soggetto da parte del soggetto e in se stesso, è un singolare atto cognitivo, una acquisizione di sapere radicalmente diversa da ogni scoperta propriamente detta, molto diversa da ciò che si chiama scoperta nell’epistemologia»30. Si tratta di un atto che incrementa la conoscenza di sé e il senso Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, p. 45: «Ma, che l’accidentale in quanto tale, separato dal proprio ambito, che ciò che è legato nonché reale solo nella sua connessione con l’altro, guadagni una propria esistenza e una sua distinta libertà, è l’immane potenza del Negativo; è l’energia del pensare, del puro Io». (28) Ivi, p. 82. (29) Ibidem. (30) Ivi, p. 84.

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di responsabilità che ne deriva. In ogni caso, e nonostante tutte le difficoltà e le derive possibili, «è tuttavia un processo cognitivo che produce un accrescimento di sapere, un processo attraverso il quale l’intelletto, in quanto soggetto pensante, prende coscienza di se stesso, dei propri contenuti, delle proprie caratteristiche distintive»31. E lo fa come esperienza concreta, si potrebbe dire “per contatto”. Infatti, esso, «dato immediato della coscienza, è un sapere diretto, sapere ottenuto senza la mediazione degli organi di senso né del ragionamento inferenziale, un salto, una discontinuità epistemica irriducibile, quasi una rivelazione»32. Rivelazione decisiva, epocale nello sviluppo del Soggetto, perché «il sapere della propria libertà è un incremento cognitivo, forse persino il più essenziale della condizione umana»33. Esso è il risultato storico e teoretico di un lungo, faticoso e contrastato processo di formazione, anzi, di autoformazione, che, come Hegel ci ha magistralmente insegnato, porta a compimento ciò che era implicito nel punto di partenza, fin dalla genesi iniziale34. In tale contesto, “il vero è l’intero”, il vero è caratterizzato dall’intero cammino che dall’animo “perturbato e commosso” conduce alla «riflessione con mente pura, alla illuminante consapevolezza35. In questo senso, «la libertà è, esiste, sì, è una realtà, ma è realmente se e soltanto se è saputa, se e soltanto se il soggetto ha preso coscienza della propria libertà: il fondamento ontico della libertà è il suo sapere. La sua modalità ontica è quella di un essere-saputo. L’uomo è libero - scriveva Hegel nell’introduzione alla sua Filosofia della storia - ma non lo sa: dunque non è libero»36. Proprio per questo, il soggetto assume il ruolo veramente (31) Ivi, pp. 84-85. (32) Ivi, p. 85. (33) Ibidem. (34) G.W.F. Hegel, Prefazione, cit., pp. 33 ss. (35) G. B. Vico, Princìpi di scienza nuova [1744], a cura di F. Nicolini, Mondadori, Milano 1999, Degnità LIII: «Gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura» (p. 97). (36) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, cit.,

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fondamentale, rappresenta “l’universale concreto” e si ripropone, nel nostro tempo, nella più classica forma “attiva”. In tale sembianza, «il soggetto è la dimora delle cose che non hanno esistenza se non nel sapere e per mezzo del sapere»37. Così, in quella che Edgar Morin definisce “noosfera”, si delinea un luogo ideale veramente fondamentale. E «la singolarità assoluta di questa sfera ontica del sapere, dell’essere-saputo, che è lo spazio cognitivo del soggetto, consiste nella sua riflessività»38. Allora Imre Toth può affermare conclusivamente, corroborando ancora una volta la svolta logica hegeliana, che «la storia del pensiero occidentale consiste nella reiterata presa di coscienza del suo soggetto e, in fin dei conti, questa coscienza di sé, la soggettività assoluta, si afferma come il fattore principale che impone la scelta dei suoi atti e dei suoi eventi»39. Efficacemente, e ancora hegelianamente, egli può p. 86. Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, trad. di G. Calogero e C. Fatta, La Nuova Italia, Firenze 1989, p. 39: «Lo spirito produce, realizza se stesso in conformità del suo sapere di sé: esso fa sì che, ciò che esso sa di sé, anche si realizza. Così tutto dipende dalla coscienza di sé dello spirito; quando lo spirito sa di esser libero, è tutt’altra cosa di quando non lo sa. Poiché quando non lo sa, esso è schiavo e contento della schiavitù, e non sa che essa non gli si addice. È solo il senso della libertà che rende libero lo spirito, benché egli in sé e per sé sia sempre libero». (37) Ibidem. Sul ruolo assunto dal Soggetto nella scienza contemporanea rinvio a I. Toth - G. Polizzi, Il soggetto e la sua libertà. The Subject and its Freedom, a cura di F. Gembillo, Armando Siciliano, Messina 2022; W. Heisenberg, Indeterminazione e realtà, a cura di G. Gembillo e G. Gregorio, Guida, Napoli 2002; G. Gembillo, Werner Heisenberg. La filosofia di un fisico, Giannini, Napoli 1987; AA.VV., Werner Heisenberg scienziato e filosofo, a cura di G. Gembillo e C. Altavilla, Armando Siciliano, Messina 2002; C. Altavilla, Fisica e filosofia in Werner Heisenberg, Guida, Napoli 2006. (38) Ibidem. Per il concetto di noosfera cfr. E. Morin, Il Metodo. I. La natura della natura, trad. di G. Bocchi e A. Serra, Raffaello Cortina, Milano 2001; Id., Il metodo. 3. La conoscenza della conoscenza, trad. di A. Serra, Raffaello Cortina, Milano 2007; Id., Le idee: habitat, vita organizzazione usi e costumi, trad. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1993; su cui R. Fortin, Comprendre la complexité. Introduction à La Méthode d’Edgar Morin, l’Harmattan, Paris 2000; A. Anselmo, Edgar Morin dalla Sociologia all’Epistemologia, Guida, Napoli 2006; Id., Edgar Morin e gli scienziati contemporanei, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005; F. Gembillo, Conoscenza ed etica nel pensiero di Edgar Morin, Aracne, Roma 2018; F. Russo, Il concetto di organizzazione in Edgar Morin, Aracne, Roma 2018. (39) Ivi, p. 87.

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proclamare allora che «la presa di coscienza della libertà è la fenomenologia dello spirito occidentale»40. Spirito che ha percorso un lungo cammino che, in quanto accaduto, è ineliminabile e quindi si presenta, alla nostra ricostruzione, come “necessario”, che bisogna sempre rivisitare, sottolineandone l’importanza per nuovo il cammino che tocca a noi tracciare. Così, «la presa di coscienza della libertà è la conseguenza del movimento proprio dello spirito, al quale quindi mi sembra giustificato assegnare una certa modalità di necessità. È una necessità specifica, immanente allo spirito umano»41. È la stessa necessità il cui senso è insito nella logica dialettica e nella sua struttura storica. Per esprimersi in maniera più efficace e convincente, «è precisamente questo differente genere di necessità che Hegel ha visto all’opera nel dispiegarsi degli avvenimenti attraverso la storia. Ed è nella sua filosofia che si articola esplicitamente l’idea che, in ultima istanza, il movimento di ascesa spirituale nella coscienza della libertà rappresenta una necessità immanente dello spirito e che questo movimento è quello che definisce la traiettoria del pensiero occidentale attraverso la sua storia»42. Servendosi di un riferimento testuale particolarmente efficace, Toth ricorda puntualmente che Hegel «alla vigilia di Jena, scriveva in una delle ultime pagine della sua Fenomenologia: la sostanza indivisibile della libertà assoluta si erge sul trono del mondo senza che alcun potere sia in grado di opporle resistenza. Nell’oscurità della notte egli ha visto passare sotto la sua finestra un’ombra, “lo Spirito del mondo a cavallo”»43. (40) Ibidem. (41) Ivi, p. 88. (42) Ibidem. (43) Ibidem. Per la prima parte della citazione, quella in corsivo, cfr. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 126; per la seconda parte cfr. G.W.F. Hegel, Epistlario, I, a cura di P. Manganaro, Guida, Napoli 1983 (lettera del 13 ottobre 1806 a Niethammer, p. 233: «Ho visto l’imperatore - questa anima del mondo - passare a cavallo

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Tutte le “creazioni” teoriche e tutte le svolte impresse alla cultura occidentale dalla libera attività creatrice e “costruttiva” del Soggetto, prima di esistere erano “inimmaginabili”; dopo, una volta prodotte, sono diventate indispensabili. Quella di cui qui si parla, «è lo stesso genere di necessità che suscitò l’emergere e impose l’accoglimento irreversibile delle concezioni scientifiche rivoluzionarie come l’idea delle geometrie non-euclidee, quella degli insiemi infiniti o della teoria della relatività, anche se questa dimensione della loro necessità intrinseca è stata dapprima percepita soltanto dai loro fondatori»44. Questo non può certo sorprendere. Come non possono sorprendere le difficoltà che le nuove teorie hanno dovuto affrontare in ragione della loro assoluta novità perché, «non soltanto, prima che ci fossero, non sarebbe venuto in mente a nessuno di reclamarle, ma anche dopo la loro irruzione sul mercato della produzione scientifica, esse sono state accolte con ostilità e a lungo respinte come mostruosità deliranti disperatamente inutili»45. Due esempi clamorosi, ma estremamente significativi perché corroborano, per contrasto, l’attualità della concezione hegeliana, provengono proprio dall’interno della matematica stessa. Riguardo al primo di essi basti dire che «alla fine del XIX secolo Bertrand Russell attirava sempre l’attenzione sull’inaccettabilità della geometria non-euclidea: Queste geometrie sono, per principio, incompatibili l’una con l’altra. Due spazi differenti non possono coesistere nello stesso mondo»46. Facendogli eco, con toni ed espressioni ancora più duri e drastici, «Gottlob Frege, il padre fondatore di quella grande corrente della razionalità scientifica per la città per uscire in ricognizione; è, in effetti, una sensazione meravigliosa vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto, stando su un cavallo, s’irradia per il mondo e lo domina»). (44) Ivi, p. 89. (45) Ibidem. (46) Ibidem. Cfr. B. Russell, I fondamenti della geometria, trad. di A. Bonfirraro, Newton Compton 1975; Id., Misticismo e logica, trad. di J. Sanders e L. Breccia, Newton Compton, Roma 1978.

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che è la filosofia analitica, ha lottato con particolare energia contro la geometria non-euclidea, contro la teoria moderna dell’irrazionalità matematica e, in generale, contro tutto ciò che egli considerava essere soltanto morbus mathematicorum recens e che tacciava, con aperto disprezzo, di matematiche moderne. Nel suo vocabolario personale il termine “moderno” era, del resto, diffamatorio in ogni campo»47. Ma, nonostante queste reazioni, del resto comprensibili perché da essi venivano erose strutture mentali profondamente radicate e solidificate, alla fine i nuovi modelli si impongono e costringono ad ammettere che «il libro di questa Natura che è l’uomo, non è scritto in linguaggio matematico. Il fenomeno naturale che fu l’apparire del soggetto, era in realtà una rivolta contro la Natura stabilita. Con il Me l’uomo ha generato la propria negazione»48. Ha generato e compreso ciò che era in grado di fare. Ha compreso la sua crescente capacità di interagire con tutto ciò che lo circonda. Alla luce di tutte queste considerazioni, l’immanenza del soggetto nella Natura e il suo ruolo eversivo-costruttivo emergono prepotentemente. Così, «la presa di coscienza dello spirito è la forza naturale che definisce il cammino del soggetto attraverso la sua storia, forza propria del soggetto, forza che emana in modo naturale dall’interiorità del soggetto: è il soggetto stesso nell’ipostasi di una forza naturale»49. Anche qui, Hegel opera in maniera potente nel pensiero di Toth, il quale infatti prosegue notando che «così la storia umana è il prodotto (47) Ivi, p. 90. Cfr. I. Toth, La filosofia della matematica di Frege. Una restaurazione filosofica, una controrivoluzione scientifica, a cura di T. Orlando, Quodlibet, Macerata 2015; G. Frege, Ricerche logiche, Guerini, 1999; Id., Senso, funzione e concetto. Scritti filosofici 1891-1897, Laterza, Bari 2001; Id., Alle origini della nuova logica. Epistolario, a cura di C. Mangione, Boringhieri 1989; Id. Scritti postumi, Bibliopolis, Napoli 1987. Su cui, M. Mariani, Introduzione a Frege, Laterza, Bari 1999; A. Kenny, Frege. Un’introduzione, Einaudi, Torino 2003; N. Vassallo (a cura di), La filosofia di Göttlob Frege, Franco Angeli, Milano 2003; M. Trinchero, La filosofia dell’aritmetica di Göttlob Frege, Giappichelli, Torino 1967. (48) Ivi, p. 95. (49) Ivi, p. 100.

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del soggetto nella sua storia, il soggetto genera se stesso. La storia è l’automovimento riflessivo dello spirito. “Lo spirito genera se stesso. Esso è il generato di se stesso. E lo spirito non esiste che in quanto si mostra e si manifesta, si rivela a se stesso”, leggiamo nell’Introduzione alla Storia della filosofia di Hegel»50. Lo spirito si mostra a se stesso, dunque, per mezzo del pensare filosofico. Allora si comprende bene, e acquista senso profondo, l’affermazione secondo la quale «la filosofia offre lo spazio nel quale si dispiega questo fenomeno, questa comparsa immediata che è il sapere del soggetto attraverso se stesso e per se stesso - la fenomenologia dello spirito»51. Questo processo rimanda direttamente non solo a Hegel ma anche al suo primo “autore”, al pensatore greco che più di ogni altro “ha lievitato” all’interno del pensiero del filosofo di Stoccarda. Tramite entrambi il pensiero riconosce se stesso in tutto ciò che si è concretizzato nel corso di quella che Vico definiva «storia civile delle nazioni». «Infatti, il testo, il sapere filosofico, è costituito dalla secrezione ininterrotta dell’atto della presa di coscienza del Me. È certamente il grado supremo della ragione, è, secondo la nota espressione di Aristotele, il pensiero del pensiero attraverso il pensiero, l’intelletto divino»52. È l’intelletto, che produce idee e che, mediante esse, produce le istituzioni civili, morali e culturali. È l’intelletto che oggettiva se stesso in tutte le creazioni dal nulla e che produce «il sapere della libertà, della giustizia, dell’universalità delle leggi morali e dell’uguaglianza di tutti gli uomini, il sapere che è creatore di mondi usciti dal non-essere - la coscienza di tutto ciò è il prodotto del lavoro filosofico dello spirito»53. È il prodotto di quella attitudine tipicamente umana a “oggettivare idee”, concretizzandole in artefatti materiali e in istituzioni spirituali. (50) Ivi, pp. 100-101. (51) Ivi, p. 106. (52) Ibidem. Sulla relazione fra Aristotele e Hegel cfr. G. Mure, Introduzione a Hegel, trad. di R. Franchini, Giannini, Napoli 1953. (53) Ibidem.

Giuseppe Giordano “Ex oriente lux”. La nascita della filosofia e l’identità dell’Occidente tra Hegel e Toth La tradizione accolta e consolidata nella nostra cultura colloca la nascita della filosofia in Grecia, o meglio nella parte orientale del Mediterraneo. Si tratta di una tradizione antica, che già con Aristotele parla di Talete come «l’iniziatore di questo tipo di filosofia»1. L’operazione fatta dallo Stagirita nel primo libro della Metafisica, sorta di storia della filosofia prototipica, viene confermata da colui che ha “inventato” la storia della filosofia in età moderna dopo secoli di dossografia filosofica, cioè Hegel, il quale esordisce introducendo il pensiero greco con queste parole: «Al nome Grecia l’uomo colto d’Europa, e specialmente il Tedesco, si sente a casa propria. Gli Europei hanno ricevuto da un paese un po’ più lontano della Grecia, dall’Oriente, e più precisamente dalla Siria, la loro religione, l’al di là, il lontano; ma il qui, il presente, la scienza e l’arte, tutto ciò che, mentre soddisfa il nostro spirito, gli conferisce dignità e ornamento, noi sappiamo che ci è venuto dalla Grecia»2. Aristotele e Hegel hanno avviato la tradizione secondo cui in Grecia, grazie, per dirla con Edmund Husserl, a “un paio di Greci stravaganti”3 (1) Aristotele, Metafisica, con testo greco a fronte, traduzione, introduzione e note di E. Berti, Laterza, Roma-Bari 2017, p. 15, 983 b 20. (2) G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia [1833], trad. di E. Codignola e G. Sanna [1930], 3 voll., PGreco, Milano 2015, I, p. 167. (3) E. Husserl, La crisi dell’umanità europea e la filosofia [1935], in Id., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale [1936; 1959], prefazione di E. Paci, trad. di E. Filippini [1961], Il Saggiatore, Milano 2015, p. 326.

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si è inaugurata la vicenda della filosofia e con essa il declinarsi specifico della identità occidentale. Quello che è avvenuto è stato il passaggio, certamente non semplice e non netto, da un approccio mitologico-religioso al reale a uno razionale4. La filosofia si presenta sin dall’inizio come approccio anti-dogmatico alla conoscenza del reale5. Su questo punto convergono riflessioni diverse come quelle di Friederich Nietzsche ed Erwin Schrödinger, un filosofo e un fisico6, che ravvisano nello sforzo dei primi filosofi di spiegare per via di ragione quello che prima era suscettibile soltanto di racconto mitico il punto di svolta costituito dalla filosofia7. Schrödinger sottolinea come «la grande idea che animò quegli uomini era che il mondo intorno a essi potesse essere compreso da chi si desse la pena di osservarlo nel modo dovuto; che esso non fosse la scena della azioni più o meno arbitrarie di dèi, fantasmi e spiriti in preda agli impulsi del momento, soggetti alle passioni, all’ira, all’amore e al desiderio di vendetta, esseri che sfogavano il loro odio e si potevano placare con pie offerte. Quegli uomini non vollero più saper nulla di tutto questo e si liberarono da ogni superstizione. Essi consideravano il mondo come un meccanismo piuttosto complicato, che agiva in base a leggi intrinseche eterne, ed erano curiosi di scoprirle. (4) Sull’intreccio tra mythos e logos agli albori del pensiero filosofico si può vedere M.M. Sassi, Gli inizi della filosofia: in Grecia, Bollati Boringhieri, Torino 2009. (5) Sull’antidogmatismo della filosofia ha puntato l’attenzione Karl Raymund Popper nel saggio Ritorno ai Presocratici, in Congetture e confutazioni [1962; 1969], trad. di G. Pancaldi [1972], Il Mulino, Bologna 2003, pp. 235-285. (6) Del resto, filosofia e scienze, come discipline, hanno la loro radice comune proprio nell’atteggiamento filosofico. Come osserva Husserl, «da questo atteggiamento derivò una formazione spirituale di un genere completamente nuovo, la quale si trasformò rapidamente in una formazione culturale sistematicamente conclusa. I Greci la chiamarono filosofia. Nella sua traduzione esatta, questo termine non significa altro che scienza universale, scienza del cosmo, della totalità di tutto ciò che è. Ben presto nasce l’interesse per il tutto, e perciò ben presto si pone il problema del divenire e dell’essere nel divenire, del suo particolarizzarsi in forme generali e nelle regioni dell’essere. Così la filosofia si ramifica, la scienza una si trasforma in una serie di scienze particolari» (E. Husserl, La crisi dell’umanità europea e la filosofia, cit., p. 315). (7) Si veda F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e scritti 1870-1873, con nota introduttiva di G. Colli e M. Montinari, trad. di G. Colli, Adelphi, Milano 1992.

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Questo è senza dubbio l’atteggiamento fondamentale della scienza, che si è protratto fino ai giorni nostri»8. Il problema che si deve introdurre adesso, e che ci porta al tema di questo intervento, è perché la filosofia nasca in Grecia. Naturalmente, alla base dell’impresa filosofica sta quel desiderio di conoscere “per natura”, individuato già da Aristotele in apertura della Metafisica9. Ma che cosa accade di particolare in quel preciso momento storico in cui vivono Talete, Anassimandro e gli altri primi filosofi? Essi si trovano di fronte una frattura dell’unità del sapere; si trovano di fronte al problema della doxa e dell’episteme. Sulle sponde orientali del Mediterraneo si incrociano culture e civiltà diverse, ognuna portatrice di propri approcci alla realtà, al mondo. I primi filosofi si trovarono di fronte all’esigenza di riconoscere la verità tra le opinioni divergenti10. Hegel individua puntualmente il problema in gioco: di fronte a uno scontro di opinioni, confronto di mere esteriorità senza connessione alcuna, nasce l’esigenza di un sapere invece unitario. Nel 1801, in Differenza tra il sistema filosofico di Fichte e di Schelling, poneva già il problema in termini di opposizione tra intelletto, che ci dà conoscenza esteriore e vuota, e ragione, che ci dà invece conoscenza piena e concreta11, scrivendo queste parole: «L’unico interesse della ragione è togliere queste opposizioni che si sono consolidate. Ma non nel senso che la ragione si opponga all’opposizione e alla limitazione in quanto (8) E. Schrödinger, La natura e i Greci [1948], in Id., L’immagine del mondo, trad. di A. Verson [1963], Boringhieri, Torino 1987, p. 212. (9) La Metafisica si apre con queste famose parole: «Tutti gli esseri umani per natura desiderano sapere» (Metafisica, cit., p. 3, 980 a 21). (10) Sul tema si può vedere E. Husserl, La crisi dell’umanità europea, cit., p. 323. (11) È riassuntiva della posizione di Hegel, del superamento dell’intelletto da parte della ragione, una pagina della prefazione alla Fenomenologia dello Spirito, laddove, da una parte, Hegel parla “dell’attività del separare” come “la forza e il lavoro dell’intelletto”. Per poi, però, dall’altra, aggiungere che la superiorità della ragione consiste nel fatto che essa è la forza che «sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere» (G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito [1807], trad. di E. De Negri [1963], introduzione di G. Cantillo, 2 voll., Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008, I, pp. 25-26).

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tali: la scissione necessaria è un fattore della vita, che si plasma eternamente mediante opposizioni, e la totalità è possibile nella più alta pienezza di vita solo quando si restaura procedendo dalla più alta divisione. Ma la ragione si oppone all’atto che fissa assolutamente la scissione operata dall’intelletto, tanto più perché gli assolutamente opposti sono scaturiti essi stessi dalla ragione»12. In questo passo, Hegel mette in evidenza, in forma ancora acerba, la necessità della dialettica del “superare conservando”, movimento innescato dalla ragione, capace di ricomprendere in un tutto quello che l’intelletto tiene separato13. Di fronte all’esigenza di superare le opposizioni esteriori, deflagra l’esplosione della filosofia, che si connota come ricerca continua di unità da riconquistare14. In quest’ottica il falso statico - quello codificato dal principio di non contraddizione viene soppiantato da un falso “dinamico”, inserito in un processo15, perché “vero” e “falso” non sono le facce della moneta “verità”16 e non possono essere tenuti distinti pena «pensare astrattamente»17. Lo scopo (12) G.W.F. Hegel, Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, in Id., Primi scritti critici [1801-1802], a cura di R. Bodei [1971], Mursia, Milano 2012, pp. 14-15. (13) Oltre al brano citato nella nota 12, si possono ricordare le pagine della prefazione alla Fenomenologia dello Spirito in cui viene preso di mira l’intelletto “tabellesco” o la sezione dedicata proprio a “Forza e intelletto”. Si veda Fenomenologia dello spirito, cit., pp. 43-44; 108-140. (14) Ha scritto Jean-Francois Lyotard - avendo chiaramente sott’occhio Hegel - che «c’è bisogno di filosofare perché abbiamo perso l’unità. L’origine della filosofia è la perdita dell’unità, è la morte del senso» (J.-F. Lyotard, Perché la filosofia è necessaria [2012], trad. di R. Prezzo, Raffaello Cortina, Milano 2013, p. 23). (15) In riferimento a Marx e sottolineando come nel padre del comunismo non sia passata invano la lezione hegeliana, sempre Lyotard ha osservato «che il contenuto di una posizione falsa non è falso in sé, ma solo se isolato, se preso come assoluto, e che se invece è riconnesso a ciò da cui era stato separato, appare come un momento, come un elemento della verità in marcia» (J.-F. Lyotard, Perché la filosofia è necessaria, cit., p. 64). (16) Cfr. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, cit., pp. 30-31. (17) Cfr. G.W.F. Hegel, Chi pensa astrattamente? [1807], a cura di F. Valagussa, Ets, Pisa 2014. Sulla questione mi permetto di rinviare a G. Giordano, Hegel e il superamento della “solitudine” del vero e del falso, in “Complessità”, 2-2016, pp. 113-124.

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della filosofia è il riconoscimento - è Hegel a parlare - che «il vero è l’intiero. Ma l’intiero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo. Dell’Assoluto devesi dire che esso è essenzialmente Resultato, che solo alla fine è ciò che è in verità; e proprio in ciò consiste la sua natura, nell’essere effettualità, soggetto o divenir-se-stesso»18. Senza soffermarci ulteriormente su questi passaggi fondamentali del pensiero hegeliano, quello che nasce in Grecia è un cammino “creativo”, un processo dialettico produttivo, di tensione al superamento delle opposizioni nella prospettiva di una rinnovata unità19. Proprio ricomporre l’unità è l’interesse che persegue la ragione filosofica, attraverso quello che si configura come un confronto tra idee, un dialogo razionale20. Ma - e veniamo al punto centrale del problema della nascita della filosofia come emerge dalle pagine di Hegel e, fra poco, da quelle di Imre Toth - perché si possa attuare un dialogo di idee vi è bisogno che gli interlocutori non siano in posizione gerarchica, siano cioè entrambi uomini liberi. La Grecia delle origini della filosofia è il momento in cui per la prima volta si manifesta una simile libertà, almeno parzialmente, estesa. Come è noto, nelle ricostruzioni di Hegel, il mondo orientale non conosce la libertà; «gli Orientali non sanno ancora che lo spirito, o l’uomo come tale, è libero in sé. Non sapendolo, (18) G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, cit., p. 15. (19) Seguiamo ancora Hegel: «L’elemento della filosofia è il processo che si crea e percorre i suoi momenti; e questo intero movimento costituisce il positivo, e la verità del positivo medesimo. Così la verità racchiude in sé anche il negativo, ossia ciò che si chiamerebbe il falso, qualora potesse venire considerato come alcunché dal quale si debba fare astrazione. Ciò che sta dileguando deve anzi venir considerato esso stesso come essenziale; esso, cioè, non è da considerare nella determinazione di un alcunché rigido, che, tagliato via dal vero, debba venire abbandonato, dove che sia, al di fuori di questo; né d’altronde il vero è da considerare come un alcunché positivizzato e morto, giacente inerte dall’altra parte» (ivi, p. 37). (20) Sulla tradizione filosofica che nasce e si consolida come tradizione critica e fondata sul dialogo razionale si può vedere la ricostruzione fatta da Popper dell’inizio della filosofia, del momento dell’affermazione da parte di Talete che l’acqua è il principio di tutte le cose e della contestazione di questa conclusione da parte di Anassimandro. Si veda K.R. Popper, Ritorno ai Presocratici, cit., pp. 259-260.

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non lo sono. Essi sanno solo che uno è libero; ma appunto perciò questa libertà è arbitrio, barbarie, gravezza della passione, o magari anche mitezza e mansuetudine della passione stessa, che anch’essa è solo un caso di natura o un arbitrio. Quest’uno è perciò solo un despota, non un uomo libero, un uomo»21. È soltanto in Grecia che inizia ad apparire la libertà, la coscienza della libertà. Scrive ancora Hegel: «Presso i Greci, per primi, è sorta la coscienza della libertà, e perciò essi sono stati liberi; ma essi, come anche i Romani, sapevano solo che alcuni sono liberi, non l’uomo come tale»22. Senza libertà non può esserci filosofia, cioè autoconsapevolezza. «La filosofia vera e propria», sostiene Hegel, «comincia in Occidente. Qui soltanto sorge la libertà dell’autocoscienza, tramonta la coscienza naturale, e lo spirito discende in se stesso. Fra gli splendori orientali l’individuo scompare; soltanto in Occidente la luce diventa lampo di pensiero, che penetra in se stesso donde trae il suo mondo»23. Con la filosofia il pensiero si fa luce, razionalità, e proprio perché momento di autoconsapevolezza della libertà che è essenza dell’uomo24, il primo momento, essa ha origine in sé stessa e costruisce la storia25. Al momento del sorgere della filosofia nasce l’identità dell’Occidente quello che Husserl definisce “Europa spirituale”26 -; si avvia l’epopea dello spirito (come sostiene Hegel) o del soggetto (come sosterrà Toth) alla conquista della sempre maggiore consapevolezza della propria libertà. In questa prospettiva, diventa centrale il soggetto che guarda (21) G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, trad. di G. Calogero e C. Fatta [1941], 3 voll., PGreco, Milano 2014, p. 46. (22) Ibidem. (23) G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, cit., I., p. 115. (24) In proposito Hegel osserva: «Dormire, campare, fare l’impiegato, non è questo il nostro essere essenziale; sibbene non essere schiavi: l’essere liberi ormai ha assunto perciò l’aspetto di una condizione naturale. Pertanto in Occidente troviamo il terreno della vera e propria filosofia» (ivi, p. 116). (25) Cfr. J.-F. Lyotard, Perché la filosofia è necessaria, cit., p. 61. (26) Si veda, ad esempio, E. Husserl, La crisi dell’umanità europea e la filosofia, cit., p. 312.

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il mondo e come lo guarda. La nostra tradizione ha messo bene a fuoco che quello che avviene tra il VII e il VI secolo prima di Cristo è un cambiamento di atteggiamento: il passaggio dalla spiegazione mitologica a quella razionale costituisce una svolta anche di tipo gnoseo-epistemologico. Giambattista Vico aveva parlato di “modificazioni della mente umana”, che prima di arrivare all’approccio razionale, attraversa il “sentire senza avvertire” e poi, quando “avverte” lo fa poeticamente, “con animo perturbato e commosso”27. Husserl aveva parlato di “atteggiamento naturale” e “teleologico”, “mitico-pratico”, che precedono l’atteggiamento “teoretico” proprio della filosofia28. La situazione è nuova perché particolarissima è la filosofia stessa e il suo oggetto. Come notava Raffaello Franchini, «l’oggetto della filosofia non sono i contenuti particolari del pensiero, ma il pensiero nella sua attività trascendentale pura»29. È in questa prospettiva che si pone Imre Toth30 - che adesso entra pienamente in gioco - nelle sue riflessioni31; la prospettiva secondo la quale la filosofia è lo spazio del soggetto pensante. Siamo così nello stesso orizzonte di senso della filosofia come processo - in questo caso del soggetto - che crea32. Quello che fa Toth è spostare l’accento dallo Spirito al soggetto. La filosofia è, allora, il (27) Scrive Vico: «Gli uomini prima sentono senz’avvertire; dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso; finalmente riflettono con mente pura» (G. Vico, La Scienza Nuova. Le tre edizioni del 1725, 1730 e 1744, a cura di M. Sanna e V. Vitiello, saggio introduttivo di V. Vitiello, Bompiani, Milano 2012, pp. 873-874). (28) Cfr. E. Husserl, La crisi dell’umanità europea e la filosofia, cit., pp. 319-321. (29) R. Franchini, L’oggetto della filosofia [1961], Giannini, Napoli 1973, p. 15. (30) Come suggerisce Romano Romani, il debito di Toth nei confronti di Hegel è ampiamente riconosciuto. Si veda R. Romani, Prefazione a I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale. Una apologia, a cura di R. Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 7. (31) Per una ricostruzione generale dei tratti essenziali della figura di Toth si possono vedere i due seguenti volumi: I. Toth, Matematica ed emozioni, Di Renzo, Roma 2004; e Id., Il lungo cammino da me a me [2004], interviste di P. Vàrdy, edizione italiana a cura e con un saggio di G. Gaeta, prefazione di P. Vàrdy, trad. di F. Ervas, Quodlibet, Macerata 2016. (32) Cfr. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, cit., p. 37.

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cammino di autoconoscenza del soggetto, in quanto essa non è una scienza in senso tradizionale, ma è un sapere: «il sapere del soggetto a causa e per mezzo del soggetto»33. L’affermarsi della soggettività come centro e punto di osservazione, ma allo stesso tempo come qualcosa di autonomo, è ciò che associa filosofia e libertà. Infatti, il soggetto che conosce sé stesso, crea un «dominio non spaziale della riflessività assoluta», e di conseguenza «l’autonomia del suo essere istituisce la presenza della libertà dentro lo spazio cosmico»34. Questo avviene nel momento in cui la filosofia nasce. La caratteristica del conoscere filosofico è la riflessività35 e, di conseguenza, «il soggetto è il dominio ontico della riflessività assoluta»36. È in questa prospettiva che Toth finisce con il ricollegarsi a Popper nell’inquadrare la nascita della filosofia come il sorgere della critica37, ma la critica è innanzitutto negazione38; e attraverso la negazione in una forma di idealismo assolutamente coerente con la definizione hegeliana: «La proposizione, che il finito è ideale, costituisce l’idealismo. L’idealismo della filosofia consiste soltanto in questo, nel non riconoscere il finito come un vero essere. Ogni filosofia è essenzialmente idealismo, o per lo meno ha l’idealismo per suo principio, e la questione non è allora se non di sapere fino a che punto cotesto prin-

(33) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, cit., p. 23. (34) Ibidem. (35) Questo è vero, secondo Toth, non appena si vuole conoscere la società, perché attraverso tale conoscenza il soggetto conosce sé medesimo. Cfr. ivi, p. 26. (36) Ivi, p. 27. (37) Cfr. ivi, p. 31. (38) Tutta la riflessione di Toth ruota attorno al concetto di “negazione” a partire dalle sue ricostruzioni matematiche sulle fonti dell’irrazionale per passare alle considerazioni sulle geometrie non euclidee. Per avere un’idea della centralità del “no” per il filosofo rumeno, rinvio a I. Toth, No! Libertà e verità, creazione e negazione. Palinsesto di parole e immagini [1997], prefazione di G. Reale, edizione italiana a cura di F. Spagnolo Acht, trad. di A. Nociti, Bompiani, Milano 2003.

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cipio vi si trovi effettivamente realizzato»39 -; attraverso la negazione, giusta la definizione di Hegel, anche per Toth il reale si fa ideale in quanto «il sapere è superiore all’essere, poiché il sapere sa l’essere, ma sa anche il non essere»40. Questa posizione conoscitiva - che nasce con la filosofia - conferisce all’uomo il segno che lo distingue41, in quanto «sapere il non-essere è sapere se stesso, poiché il luogo del non-essere si trova all’interno del soggetto». Già nel suo porsi originario il sapere (filosofico) si presenta come ricomprensione dell’essere nel pensiero, perché facendo vivere ciò che non è più, il passato, mostra la superiorità sull’essere42. Il soggetto diventa il centro dell’Universo43; un centro storicizzante che dà senso al tempo. Scrive infatti Toth: «Non soggetto senza tempo, non tempo senza soggetto. L’universo senza soggetto non ha passato [...] Il tempo rappresenta la presa di coscienza del soggetto all’interno dell’Universo»44. Come in Hegel, la svolta della filosofia è un soggetto che conosce e che dà un senso con l’accrescersi del suo sapere (che è sempre sapere sé stesso) alla realtà divenuta storica grazie alla sua azione. Quella che viene quindi sancita con la nascita della filosofia è la priorità del soggetto sull’oggetto45, che costituisce l’identità occidentale muovendo dalla “negazione”, da quel “no” che è «la parola distintiva del soggetto, l’atto di identità della soggettività pura»46. È la contrapposizione dell’indefinito anassimandreo all’acqua di Talete; il segno della consapevolezza di libertà. La negazione, la critica è l’espressione

(39) G.W.F. Hegel, Scienza della logica [1812-1816], trad. di A. Moni [1924-1925], revisione di C. Cesa [1968], 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1981, I, p. 159. (40) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, cit. p. 33. (41) Cfr. ibidem. (42) Cfr. ivi, p. 35. (43) Cfr. ivi, p. 39. (44) Ivi, p. 41. (45) Cfr. ivi, pp. 52-53. (46) Ivi, p. 81.

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della libertà - che è creatività - che si presenta con la filosofia47. Sapersi liberi - come i primi Greci - costituisce il salto qualitativo; «il sapere della propria libertà è un incremento cognitivo, forse persino il più essenziale della condizione umana»48. Ma bisogna sapere - come ci ha pure ricordato Hegel49 - di essere liberi. Osserva ancora Toth: «La libertà è, esiste, sì, è una realtà, ma è realmente se e soltanto se è saputa, se e soltanto se il soggetto ha preso coscienza della propria libertà: il fondamento ontico della libertà è il suo sapere. La sua modalità ontica è quella di un essere-saputo»50. In questa prospettiva di sintonia con Hegel - che riteneva che «la storia del mondo è il progresso della coscienza della libertà»51 -, l’intera storia del pensiero occidentale si presenta come la storia della presa di coscienza del soggetto, presa di coscienza reiterata52, al punto di essere, tale presa di coscienza della libertà, «la fenomenologia dello spirito occidentale - è l’apparizione, fainòmenon, dello spirito, epifàneia, alla superficie delle cose»53. Il procedere della filosofia, del soggetto nel conoscersi come libero, è un movimento spirituale: «La presa di coscienza della libertà», osserva Toth, «è la conseguenza del movimento proprio dello spirito, al quale quindi mi sembra giustificato assegnare una certa modalità di necessità. È una necessità specifica, immanente allo spirito umano»54. Una volta sorta la filosofia, avviatosi il cammino, non si torna indietro e il conoscere-conoscersi non può arrestarsi. Ma la necessità di cui parla Toth, non implica che non sia sempre il soggetto a innescare il movimento, conferendo così all’apparire del “me” i connotati di un (47) Cfr. ibidem. (48) Ivi, p. 85. (49) Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, cit., pp. 115-116. (50) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, cit., p. 86. Si veda anche G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., pp. 46 ss. (51) G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., p. 47. (52) Cfr. I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, cit., p. 87. (53) Ibidem. (54) Ivi, p. 88.

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evento cosmico55, che si configura come qualcosa di dinamico, come una continua auto-critica, che si dipana lungo la storia56, un cammino come si è già visto - verso la sempre maggiore consapevolezza della libertà57. Toth fa coincidere di fatto la nascita della filosofia con l’apparire del “me”, che configura il vero punto di svolta della civiltà occidentale, in quanto «il me dispone di proprietà assolutamente nuove, proprietà specifiche che non si ritrovano in nessun altro luogo altrove nel territorio dell’essere»58. La novità del soggetto - che è poi la novità della filosofia, anche se questa lo comprenderà globalmente molto più avanti nel suo percorso - è quella di negare, se si può dire, oggettività all’oggetto59. E il soggetto non può quindi che nascere da sé stesso60, come la filosofia nella prospettiva che abbiamo analizzato. Infatti, seguendo Toth, «il sapere del sé, ecco l’ultimo fondamento di esistenza del soggetto. Io sono perché mi penso, io sono perché so me stesso»61. Tutto il discorso sul soggetto è, alla fine, un discorso sulla filosofia, in quanto «senza la mediazione filosofica, lo spirito non saprebbe elevarsi allo stadio del proprio sapere»62. La nascita della filosofia è dunque la nascita del soggetto occidentale. La filosofia - e lo avevamo visto attraverso Franchini - è, del resto, una disciplina atipica, senza oggetto esterno. Essa è «un sapere particolare e originale, un processo conoscitivo il risultato del quale è un accrescimento essenziale di sapere, un accrescimento della conoscenza di sé»63. Nella filosofia è centrale (55) Cfr. ivi, p. 93, dove Toth scrive: «L’apparire del me è stato, malgrado le sue dimensioni evanescenti, un evento di carattere cosmico più significativo della nascita di una galassia». (56) Cfr. ivi, p. 95. (57) Cfr. ibidem. (58) Ivi, p. 97. (59) Cfr. ivi, p. 98. (60) Cfr. ivi, p. 99. (61) Ivi, p. 100. (62) Ivi, p. 105. (63) Ivi, p. 106.

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il soggetto, che è a sua volta necessario alla filosofia stessa. Questa modalità di conoscenza identifica l’Occidente in maniera peculiare, così da costituire «il tesoro spirituale perenne di tutta l’esperienza di vita dell’umanità»64. In questa dimensione altissima, si può capire perché essa arrivi sempre tardi, quando una fase del mondo si sta compiendo65, configurandosi come un lusso. Già Aristotele, ricordava che, «una volta, infatti, procurate quasi tutte le cose necessarie e anche quelle relative alla comodità e al trascorrere piacevolmente il tempo, cominciò a essere ricercato il sapere di questo tipo»66, di tipo filosofico. La filosofia è dunque un lusso, ma, come afferma Hegel, necessario, perché, «per ciò che riguarda lo spirito, la filosofia va considerata appunto come la cosa più necessaria»67. Ecco allora la conclusione di Toth: «Ex oriente lux. La luce della filosofia, nel senso che amo assegnare a questo termine, è un lusso (luxe). Senza alcuna utilità apparente, molto cara e tuttavia molto ricercata, la filosofia è l’ “alta moda” (haute couture) dello spirito occidentale e s’impone con la stessa ineludibile necessità»68. La nascita della filosofia ha significato allora il sorgere del luogo in cui l’Occidente ha radicato la costituzione del soggetto come autocoscienza creativa che, dando un senso a sé stesso conoscendosi come libero, riesce a dare un senso alla storia, alla vita, a tutto, al più alto livello razionale e concettuale. Abbiamo scelto - come diceva John Burnet - di guardare al mondo alla maniera dei Greci69, collocando al centro della storia e della vita (64) Ibidem. (65) Cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio [1821], trad. di G. Marini, con le Aggiunte di Eduard Gans, trad. di B. Henry, a cura di G. Marini [1999], Laterza, Roma-Bari 2004, p. 17. (66) Aristotele, Metafisica, cit., p. 11, 982 b 20. (67) G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, cit., p. 63. (68) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, cit., p. 107. (69) Cfr. J. Burnet, I primi filosofi greci [1930], a cura di A. Medri, Mimesis, Milano 2013.

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come ci indicano Hegel e Toth - il soggetto che conoscendo il mondo conosce sé stesso. È questo continuo sforzo di conoscenza nella direzione dell’autocoscienza, cioè la filosofia, che dà il senso più alto al nostro vivere, anzi, forse, l’unico senso possibile, visto che ci rende consapevoli della nostra libertà. In questa prospettiva, come diceva Hegel, la filosofia è processo che crea, che, partita dalla Grecia, si è irradiata ben oltre i confini del Mediterraneo70. Procedendo come luce da Oriente verso Occidente, essa ha inglobato nella sua forma peculiare coloro i quali ne sono stati “toccati”. Riconoscersi in questa tradizione - illustrata sapientemente in ultimo da Toth - significa rivendicare l’appartenenza a questa “luce” di senso, che ha avviato il suo cammino da più di duemilacinquecento anni e costituisce il sigillo più raffinato dell’umanità (almeno di quella occidentale), di cui rappresenta l’identità specifica.

(70) Su ciò si veda E. Husserl, La crisi dell’umanità europea e la filosofia, cit., p. 316.

Vittorio Hösle Antieuclideo o non euclideo? Tertium datur! Alcune riflessioni metodologiche sulla storia della scienza in occasione dell’accusa di anacronismo rivolta all’interpretazione di Aristotele da parte di Imre Tóth* Per mio figlio Johannes Hösle che risveglia il mio vecchio amore per la matematica

I. Introduzione Nel 2010 è stato pubblicato da Gruyter, nel volume 280 dei “Beiträge zur Altertumskunde”, Fragmente und Spuren nichteuklidischer Geometrie bei Aristoteles, opera dello storico della matematica Imre Tóth. Nato nel 1921 nella minoranza ebraico-ungarico della Romania, tenne dal 1971 al 1990 la prima cattedra di Storia della Scienza all’università di Regensburg e morì poco prima di questa pubblicazione, apparsa quindi postuma1. A quanto mi risulta, sono state pubblicate sino ad oggi sette recensioni di questo libro. Lo stimato matematico Victor Pambuccian, al quale si devono anche altre recensioni a testi di Toth, ne ha discusso con straordinaria competenza di storiografia della scienza elogiandolo nello Zentralblatt für Mathematik: «Questo libro è tra i meno speculativi nella ricostruzione della matematica greca. L’autore porta alla ribalta (*) Il testo originale dell'articolo (in tedesco) è apparso in Sudhoffs Archiv 106 (2022). (1) In occasione del suo centesimo compleanno, è stata pubblicata l'importante antologia Becker/Reiß (2021).

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un’evidenza collettiva così travolgente, ed evita con tale scrupolo ogni “visione” extra-testuale, che resistere al suo argomento diventa impossibile» (2012). Non meno positiva è stata la recensione del matematico greco Theophanes Grammenos, che definisce il libro come «uno degli studi più significativi non soltanto sulla storia e la filosofia della matematica greca ma della storia della filosofia in generale» (2012). Analogo il giudizio dello storico italiano della filosofia Teodosio Orlando: «Una pietra miliare nella storia della matematica antica» (2012, p. 488). Sia pure nell’aspra critica degli aspetti formali, anche la discussione che ne ha proposto il filologo classico Wilfried H. Lingenberg concorda con le tesi del libro. «Tanto più sorprendente è quindi che l’assetto di pensiero che sta all’origine di questa grande confusione rimanga chiaro, profondo, esaustivo e quasi consequenziale [...] in modo che proprio la spaventosa incertezza di Toth nel dettaglio del mestiere lo abbia portato poi a verificare le questioni di contenuto due, tre o più volte, con l’effetto che le sue conclusioni alla fine poggiano sul fondamento più sicuro» (2012). Al contrario è stata assai polemica la recensione del giovane filologo Claas Lattmann (2011). Nel 2013 sono apparse nella medesima rivista due altre discussioni, questa volta da parte di storici della scienza: una, che tenta di mantenersi in equilibrio tra critica e apprezzamento, di Heike SefrinWeis e l’altra negativa ma anche zeppa di errori e inutilmente offensiva di Sabetai Unguru. Che Unguru neghi valore a ogni maniera “modernizzante” di intendere la matematica antica è noto - ricordo la sua critica (1975) all’uso di concetti algebrici nella ricostruzione della matematica babilonese e greca da parte tra gli altri di Paul Tannery, Hieronymus Zeuthen e Otto Neugebauer e la discussione che ne è scaturita, anche per il titolo pretenzioso del suo saggio, nella quale gli si sono contrapposti grandi matematici molto competenti

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anche in storia della matenatica come Bartel Leendert van der Waerden (1976), Hans Freudenthal (1977) e André Weil2 (1978). Con le riflessioni che seguono non si intende replicare a tutte le obiezioni che troviamo nelle recensioni menzionate. Mi limito piuttosto a quelle che mi appaiono importanti, o perché le trovo convincenti, o perché invece mi appaiono sbagliare in modo sintomatico. E nemmeno intendo discutere tutti e diciotto i luoghi di Aristotele che Tóth cita, e di cui alla fine del libro (pp. 395-414) da l’originale insieme a una traduzione in tedesco (e curiosamente anche una vecchia in latino), ma solo i più importanti. Tenterò in primo luogo di fare chiarezza concettuale sul rimprovero di anacronismo spesso fatto a Tóth, perché ha molto rilievo per la storia della scienza e anche per le scienze umane in generale (II). In secondo luogo vorrò rendere nitido e plausibile l’andamento spesso tortuoso dei pensieri di Tóth in questo modo: cominciando dai suoi argomenti più forti per proseguire da questi alle tesi più deboli - nella speranza che Tóth possa raggiungere in questo esposizione abbreviata anche quanti non hanno il tempo o l’energia per leggerne le vaste pubblicazioni (III). Inoltre tratterò il luogo più importante della matematica antica sulla geometria iperbolica, un luogo che si trova solo in Proclo ma la cui idea centrale non può essere dovuta a lui, e offrirò argomenti per una datazione molto anteriore (IV). Infine espliciterò quali sono i due punti in cui dissento da lui - il primo riguarda in senso storico-matematico la valutazione relativa al significato dello sviluppo della geometria della sfera, il secondo in senso storico-filosofico l’interpretazione del rapporto tra etica e geometria. Questo mi condurrà alla domanda se le riflessioni dei Greci debbano essere considerate meglio “anti-” o “non euclidee”. Mostrerò che accanto a questi due termini coniati da Tóth ne è necessario un terzo (V).

(2) Per una panoramica del contesto della controversia, si veda Schneider (2016).

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II. L’obiezione che Tóth commetta anacronismi Sefrin-Weis conclude la sua discussione (2013, p. 297) evidenziando giustamente che in fondo come tutti i suoi lavori, anche questo libro di Tóth polarizza. E questo per diversi motivi, uno dei quali è sicuramente che lo stile scientifico di Tóth, il quale era cresciuto in Romania, differiva molto da quello dei dotti tedeschi. Anche il suo tedesco non era privo di errori. L’ultimo libro non era stato poi preparato per la pubblicazione da lui stesso; abbonda di errori di stampa, perché chiaramente era mancata presso l’editore la giusta cura3. L’ultimo libro di Tóth ha anche il difetto che l’anziano autore aveva tanto interiorizzato la linea interpretativa che aveva esposto per quarantacinque anni in elaborazioni sempre nuove4, che non aveva più alcuna pazienza ad analizzare alcune delle interpretazioni alternative dei luoghi di Aristotele che citava, le quali potrebbero anche essere ammissibili in casi isolati, ma che crollavano ai suoi occhi quando tali luoghi vengono interpretati nella loro interezza. Questo è comprensibile, ma è stato didatticamente goffo; infatti chi non conosce tutti i luoghi in questione, rimane spesso perplesso davanti al fatto che Tóth non discuta adeguatamente altre interpretazioni che a prima vista sembrano più aderenti. Colpisce in ogni caso che i suoi lavori vengano in genere considerati molto meglio da matematici o da filologi matematicamente competenti come Lingenberg che da filologi che studiano solo il passato. I filologi infatti percepiscono subito che Tóth non possiede la loro (3) Io stesso ho ricevuto le bozze per la mia prefazione al libro (che avevo già scritto a metà degli anni Novanta per una versione italiana poi non realizzata e che perciò ignora alcune nuove idee dell’opera), ma le mie correzioni non sono state eseguite; da qui, ad esempio, la ripetizione dell'ultima riga di p. XVII sulla prima di p. XVIII. Tuttavia, non ho mai visto le bozze del testo di Tóth. (4) La sua prima pubblicazione in una lingua accessibile all’intellettuale europeo occidentale era (1967). La sua prima pubblicazione su questo tema uscì nel 1965 ancora in ungherese.

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stessa confidenza con le sottigliezze della lingua, in quanto la sua era la formazione di un matematico e di un filosofo che solo da adulto aveva studiato il greco. E quando si rendono conto che la sua competenza matematica e filosofica si è estesa fino ai giorni nostri e che è stato in grado di presentare interpretazioni straordinariamente originali che loro stessi non avrebbero elaborato, questo scatena in alcuni (non in tutti) non tanto ammirazione quanto disagio e diffidenza. Chi conosce la matematica del diciannovesimo secolo, questo il loro sentimento, non potrebbe comprendere quella degli antichi, perché la sottopone a categorie successive. Quantomeno a partire dalla “boria dei dotti” di Giambattista Vico la critica agli anacronismi appartiene all’arsenale concettuale degli studiosi di orientamento storico, e in questo senso risuona il rimprovero di Lattmann (2011, p. 484) come quello di Unguru (2013, p. 303), ovvero che Tóth proietterebbe categorie della matematica successiva e della filosofia della matematica su autori del quarto secolo avanti Cristo come Platone ed Aristotele, violando così lo standard minimo della metodologia storica. Unguru aveva già descritto in questa maniera la sua metodologia nella replica alla critica di van der Waerden, Freudenthal e Weil (1979)5. Tipicamente la storia della matematica sarebbe stata scritta come se volesse illustrare il motto: “l’anacronismo non è un peccato”. Poiché gli storici della matematica si sarebbero formati da matematici, sarebbero disposti ad ammettere, implicitamente o esplicitamente, che gli oggetti matematici si trovino in un mondo di idee platoniche dove (5) In sostanza, Unguru si occupa solo di van der Waerden e Freudenthal; cita l'attacco devastante di Weil solo nell'ultima nota (1979, p. 565, nota 36), dove, invece di offrire una replica, cita il saggio sull’Iliade della sorella di Weil, la filosofa Simone Weil. Questo è comprensibile vista la disparità di competenze intellettuali (Weil era un geniale matematico), ma non è convincente anche se si concorda sul fatto che il suo attacco, consegnato sotto forma di lettera ai redattori della rivista, mancava di stile. Ma questo non significa che la sua tesi, secondo cui solo la conoscenza della matematica contemporanea consente di fare una buona storia della matematica, sia di fatto sbagliata (lo stesso vale per la storia della filosofia).

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aspetterebbero con pazienza di essere scoperti. Gli enti matematici varrebbero come eterni e non sarebbero condizionati dalle peculiarità della cultura nella quale si sono manifestati, in quanto queste forme di manifestazione sarebbero mere vesti differenti dell’identica ipostasi platonica. Il linguaggio matematico sarebbe nel migliore dei casi un accessorio secondario della cultura matematica di un’epoca (p. 555)6. Unguru afferma invece che la storia della scienza non potrebbe limitarsi a indicare in che misura idee scientifiche del passato assomiglino a quelle attuali ma dovrebbe trattare come scienza ideografica (anche se chiama “idiosincratico” il termine coniato da Wilhelm Windelband) la particolarità e la diversità del passato. «La storia della matematica è storia, non matematica. È lo studio degli aspetti idiosincratici dell’attività dei matematici che come tali sono impegnati nello studio di quelli nomotetici ...» (p. 563) Freudenthal e van der Waerden sostituiscono invece la storia con la logica (p. 565). Qui, secondo me, occorre distinguere tra due dimensioni. In primo luogo, c’è da ribadire che un approccio alla storia della scienza, che si riferisca più a somiglianze che a differenze rispetto allo stato attuale del sapere, è rilevante proprio per uno scienziato creativo. Infatti chi fa scienza cerca la verità, e pertanto i testi del passato lo interessano come seri tentativi di avvicinarsi alla verità che può misurare soltanto secondo lo stato di quanto conseguito nei suoi tempi. Potrebbe così avvenire che capisca quegli autori “meglio di loro stessi”; infatti contando su una maggiore conoscenza fattuale comprende il modo in cui affrontano problemi reali, non chiari neanche a loro stessi, il modo in cui rispondono persino a domande che essi stessi non si erano poste (Eudosso diede alcuni stimoli per una teoria dei numeri irrazionali, che a lui rimase del tutto estranea). Ipotizza, non a torto, che anche questi autori fossero interessati alla verità e che sarebbe quindi nel (6) Sembra che a Unguru i due paragrafi che ho riassunto qui siano piaciuti così tanto che li ha ripetuti quasi alla lettera in un saggio successivo (1994, p. 215).

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loro interesse sottolineare in particolare ciò che di lungimirante ci sia nelle loro scoperte. Di conseguenza, ammette volentieri che ci possano essere altri elementi che invece rispetto alla sua problematica siano trascurabili. Comunque lo affascinano al massimo quei testi scientifici, in cui c’è più possibilità di scoprire ciò che considera la verità e questo è il criterio con cui seleziona autori e testi. Ovviamemente la semplice mancanza di interesse non equivale in nessun modo a contestare che in un testo scientifico del passato ci siano anche idee che deviino da quelle contemporanee o le contraddicano, e nemmeno che in tempi lontani le stesse idee matematiche siano state articolate spesso in notazioni più macchinose che hanno complicato il loro sviluppo verso un più alto livello di astrazione. Un approccio storico-scientifico, che si concentra su questa differenza, è di sicuro meno interessante, se si utilizza il criterio della verità come base; ma questo non lo rende illegittimo. Può anche fare da guida della ricerca un altro interesse, ovvero il desiderio di comprendere la connessione della forma di scienza divenuta lontana da quella contemporanea con altri aspetti della cultura in cui è maturata. In un’epoca dominata da una fede positivistica nel progresso rimane merito di Spengler aver richiamato l’attenzione nel primo capitolo del primo volume de Il tramonto dell’Occidente, “Del senso dei numeri”, sull’evidente differenza tra la matematica antica e quella moderna. Il suo approccio radicato nella filosofia della vita e relativistico è inadeguato come base di una solida metodologia per il lavoro nel campo della storia dello spirito altrettanto che per un’ontologia e una epistemologia plausibili della matematica; e la sua competenza sui testi matematici antichi come sulla forma specificamente matematica di pensiero erano troppo superficiali, perché se ne potesse trarre più che uno spunto7. (7) Heinrich Scholz (1928) scrive giustamente che Spengler ha il merito di aver compreso la portata della questione del perché i Greci non abbiano costruito i numeri irrazionali, ma questo è tutto.

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Tuttavia anche riconoscendo giustificata la concentrazione su ciò che è caratteristico di un’epoca scientifica, il dualismo tra logica e storia di Unguru è fuorviante. Infatti - e questo ci conduce al secondo punto in entrambi casi, quello di una storia teleologica della scienza e quello di una storia dela scienza culturalmente radicata, si pone il problema ermeneutico di come comprendere i prodotti di uno spirito estraneo. Lo spirito si manifesta sempre nel tempo e gli atti di pensiero di ogni individuo sono di natura temporale, situati in un tempo fisico e fenomenologico. Però questo non implica affatto che il “noema”, e quindi il contenuto, degli atti di pensiero (le “noesi”) siano anche essi temporali. Infatti la proposizione pensata può fare riferimento a qualcosa di irreale (“il flogisto esiste”), e persino a qualcosa di impossibile («Il cerchio euclideo è quadrabile in un numero finito di passi con compasso e riga»). Il noema è di natura ideale nel senso di Husserl (che non è la stessa cosa delle idee platoniche). Si può identificare il noema di un altro, ancora del tutto indipendentemente dal suo contenuto di verità, soltanto se lo si afferra come qualcosa di idealmente costante, al quale possono riferisi spiriti diversi in tempi differenti come a un’identica cosa. In quanto il relativismo culturale radicale contesta un tale aggancio da parte di individui culturalmente estranei, non può chiarire neppure come possa anche soltanto stabilire l’incomprensibilità delle altre culture. Come vale per la morfologia della cultura di Spengler, una critica analoga riguarda anche la teoria tecnicamente molto migliore dell’incommensurabilità dei paradigmi, che secondo Thomas S. Kuhn emergono per mezzo di rivoluzioni scientifiche nella cornice di una stessa cultura come avvenuto nell’Europa occcidentale approssimativamente nel diciassettesimo e nel ventesimo secolo. Ad essa si appella Lattmann quando respinge il parallelo di Tóth tra sviluppo antico e moderno della geometria. «Per dirla con Th. Kuhn, il ‘postulato di incidenza’ e l’ ‘assioma delle parallele’ sono incommensurabili» (2011, p. 484). Lattmann non definisce il concetto di incommensurabilità, tuttavia occorre chiedersi perché anche rilevanti matematici

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moderni si sono lasciati ispirare spesso da quelli greci. Piuttosto, tanto la continuità della storia matematica occidentale quanto la stessa comprensibilità di principio dei lavori matematici delle culture che le sono estranee, come la cinese o l’indiana, sembrano rendere molto più opportuno parlare di una ragione umana in evoluzione ma comune, i cui noemata cercano di conformarsi a strutture ideali oggettivamente esistenti8. Ogni storico dello spirito è altrettanto storico quanto è “logico” in senso più ampio, ovvero qualcuno che si confronta con i noemata. La complessità del noema è nei testi scientifici particolarmente elevata; per coglierla sono quindi richiesti sforzi logici stavolta invece nel senso più stretto del termine. Naturalmente questa concezione non chiarisce ancora quali noemata possono essere attribuiti all’autore di un testo (o di un artefatto tecnico). Questa rimane una questione empirica, che dipende dalla concreta interpretazione del testo o dell’artefatto. Anche in questo caso valgono comunque principi generali. Così è sicuro che per prima cosa si debba distinguere in una valutazione teleologica tra ciò che è esplicitamente inteso e quanto rimane solo logicamente implicito. Infatti poiché in matematica si tratta essenzialmente di conseguenze logiche, si potrebbero attribuire altrimenti già ai primissimi matematici concezioni di molto successive. Ma dal fatto che p implica q, e che una persona crede p, non segue che questa persona creda anche q. Eppure i rapporti di derivazione (8) Il netto rifiuto di Tóth del relativismo storicista si serviva delle categorie hegeliane in una forma oggi obsoleta, come giustamente sottolinea Sefrin-Weis. Ma si possono ricostruire le sue idee sulla teoria della storia intellettuale anche senza il gergo hegeliano, e di solito si dimostrano più coerenti nello spiegare i fatti intellettuali rispetto alla loro esplicita negazione. Trovo anche poco utile quando Sefrin-Weis usa il termine ideologia (2013, p. 294). Perché cosa si intende con esso? Una visione filosofica del mondo diversa dalla propria? Allora il complimento può sempre essere ricambiato. Solo un concetto sociologico di ideologia ha senso: l'ideologia è un sistema teorico che serve a mantenere un apparato di potere, come il marxismo-leninismo nell'ex blocco orientale. Tuttavia, nel blocco orientale, e anche nell'Occidente di oggi, l'hegelianesimo è (era) difficilmente collegato agli interessi del potere.

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a volte sono così semplici, che si può assumere che una persona intelligente sia consapevole delle relative conseguenze. Posso essere d’accordo con Unguru (2013, p. 301) che non si debba indicare come citazione una espressione apertamente equivalente, ma rimane ineccepibile insinuare una corrispondente intenzione doxastica al suo autore. Sviluppi ulteriori, riguardanti concetti o teoremi che sono molto più complessi, non possono però essere intravisti in un testo precedente si deve fondamentalmente distinguere tra la propria categorizzazione di un ambito disciplinare, come la matematica, e quelli che un’altra cultura ha intrapreso9. Ogni principiante impara nello studio della matematica greca che in fondo i Greci dell’età classica riconoscevano come numero soltanto quelli che chiamiamo adesso «numeri naturali» (e di fatto persino a partire dal 2, perché non consideravano l’1 un numero). Ovviamente, tutto questo era scontato per Tóth. E tuttavia non ne deriva che sarebbero da biasimare la conoscenza di sviluppi successivi in scienza o in filosofia perché aumentano il rischio di anacronismi. In realtà, nessun autore significativo dice tutto ciò che sa. Negli Elementi di Euclide è abbastanza chiaro che l’opera espone soltanto una piccola parte del sapere matematico allora disponibile su planimetria, aritmetica e stereometria. Faccio un esempio noto: il cosidetto circolo di Apollonio non è menzionato in Euclide; ma viene utilizzato da Aristotele in uno dei pochissimi luoghi della sua opera in cui tratta dei fenomeni naturali con una impostazione matematica10, in questo caso l’arcobaleno. Inoltre non è niente di complicato completare Elementi VI 3 in rapporto alla bisettrice dell’angolo esterno, e ottenere molto velocemente quel cerchio. Non sappiamo se Euclide ha tralasciato di procedere a questo completamento (9) Inoltre, esistono alcune categorie per lo studio della cultura la cui legittima applicazione alla cultura da descrivere non presuppone affatto che essa ne fosse a conoscenza. Si pensi alla sociologia della scienza. (10) Meteorologia III 5, 375b16 ss. Per i problemi critico-testuali del famoso capitolo, si veda Vitrac (2002).

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perché non gli serviva per proseguire l’opera o perché voleva lasciare al lettore la possibilità di scoprirlo da sé. Ma non abbiamo motivo di dubitare che gli fosse noto. Anche concezioni, che non sono mai state espresse esplicitamente nella matematica antica, possiamo in certi casi attribuirle a Euclide. Euclide non definisce mai la formula per la quantità dei divisori di un numero. Elementi IX 36 mostra però che conosceva il modo in cui trovare tutti i divisori di un numero di struttura 2n-1 (2n-1), (se 2n-1 è un numero primo). Il fatto che Platone indichi il numero dei divisori di 5040 con 60-1 invece che direttamente con 59 (Leggi, 738a) è un indizio del fatto che già lui aveva dimestichezza con tale formula11. Tuttavia Euclide, seguendo una tendenza della matematica greca, si interessa più a una proprietà dei numeri perfetti che alla formula generale a cui li sottopone. In effetti ogni storico della matematica antica riconosce che le opere di Platone e di Aristotele sono fonti irrinunciabili per la ricostruzione della matematica del quarto secolo avanti Cristo. Ma perché anche una conoscenza della matematica molto successiva è utile a questo scopo, e forse inevitabile? Proprio perché non possiamo escludere a priori che le idee matematiche discusse nell’Accademia non abbiano trovato sufficiente spazio nei pochi testi scientifici rimastici e perciò siano state riscoperte molto in seguito12. Soltanto la sintesi tra competenze filologiche, matematiche e filosofiche ha una possibilità di comprendere in modo corretto i luoghi matematici più difficili in Aristotele. Infatti se vogliamo sapere cosa un autore ha realmente pensato, dobbiamo conoscere tutte le pertinenti possibilità intellettuali. E otteniamo una tale conoscenza non attraverso lo studio della storia ma da quello della disciplina. Lo storico della matematica non può quindi essere un semplice storico. (11) Radermacher/Toeplitz (1933), p. 109, giustamente. (12) Ricordo la famosa osservazione di John Edensor Littlewood: «I greci ... non sono scolari intelligenti o ‘candidati a borse di studio’, ma ‘compagni di un altro college’» (Hardy 1992, p. 81). Questo altro college non è ovviamente considerato “incommensurabile” con il proprio.

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Soltanto quando si conoscano il più possibile i noemata, si dà la prospettiva di scoprire l’intenzione di un autore significativo. Questa è naturalmente soltanto una condizione necessaria e non sufficiente per una corretta interpretazione; infatti questa si deve attenere a un testo o a un gruppo di testi connessi - e quindi deve spiegare rispetto a interpretazioni alternative più aspetti del testo o dei testi. Qui c’è un principio inaggirabile, leggere i testi di un autore importante come unità e dare ad essi coerenza e significato. Chi in un autore invece di banalità o persino contraddizioni scopre la ragione e senza contraddire alcun altro luogo testuale dello stesso autore - dà un’interpretazione che ceteris paribus deve essere preferita a quelle alternative. In effetti questo principio ermeneutico deve essere mediato con due altri. Si deve in generale preferire nelle scienze della natura e dello spirito una ipotesi più semplice a una più difficile (così giustamente Unguru 2013, p. 300). Ma questo importante principio si applica solo se entrambe le ipotesi hanno lo stesso potere esplicativo. In secondo luogo, le categorie attribuite a un autore non devono trovarsi solo in lui. Persino i geni più grandi sono storicamente situati; si deve pertanto mettere in relazione le loro idee con lo stato del sapere del loro tempo13. Questo tuttavia è essenzialmente più difficile per la storia antica della scienza che per la moderna, poiché rispetto a quanto si è prodotto ci è rimasto un numero molto minore di testi scientifici. Il vasto stupore che ha suscitato non solo presso il pubblico ma anche tra gli specialisti la ricostruzione della macchina di Anticitera, un orologio astronomico molto sofisticato, è significativo della sottovalutazione sempre molto diffusa delle prestazioni scientifiche e tecniche degli antichi.

(13) Nella logica trascendentale dell’ermeneutica, ciò corrisponde all’aggiunta del principio di umanità al principio di carità: la razionalità necessariamente assunta deve essere umanamente spiegabile. Cfr. Hösle (2018), pp. 306-318 e pp. 178 ss.

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III. L’argomentazione di Tóth Tóth parte dai seguenti luoghi aristotelici, che in maniera un po’ errata definisce “frammenti” e nei quali sono citate alternative ai teoremi della geometria euclidea o sono toccate questioni ad essi connesse: Analytica Priora 65a4-7, 66a11-15, 66a14-15, Analytica Posteriora 77a36-b27, 85b38-86a3, 90a12-13, 90a33-35, 93a31-36, De sophisticis elenchis 171a12-16, Physica 200a15-30, De Caelo 281b5-6, De anima 402b16-21, Problemata 956a15-27, Metaphysica 1026b10-12, 1052a47, Ethica Nicomachaea 1140b13-15, Magna Moralia 1187a29-b14, Ethica Eudemia 1222b15-1223a9; a cui va aggiunto un passo dal Cratilo di Platone (436a-e und 438c-e). Inizio da due ammissioni. Nel 1982 avevo già considerato assai debole il luogo dai Problemata, in cui l’autore chiarisce che saremmo soddisfatti di una somma degli angoli in un triangolo maggiore di due retti altrettanto poco che di una uguale a due retti14. Lattmann ha ragione nel dire che in questo caso l’ipotesi di una somma angolare deviata del triangolo è di natura controfattuale. Se il testo fosse stato scritto da Aristotele, allora certamente sarebbe plausibile leggerlo nell’orizzonte di altri passaggi, ma poiché i Problemata con probabilità prossima alla certezza non sono di sua mano15 e non possiamo conoscere quanto fosse buona la preparazione matematica dell’autore, ritengo molto più opportuno ignorare quel luogo. Invece è scorretto che Lattmann indichi questo luogo come anche EN 1140b13-15 (che letto in modo isolato non rinvia a impostazioni non euclidee) come due tra i cinque più importanti per Tóth (p. 482); si tratta dei più deboli, mentre i più forti, come APr. 65a4-7 sulla natura circolare della dimostrazione del postulato delle parallele e Cael. 281b56, di cui ancora tratteremo, non vengono da lui considerati come tali e perciò neanche discussi. Così non riesce a fornire proprio ciò che è (14) (1982), p. 185, nota 15. (15) Cfr. Hellmut Flashar, “Einleitung”, in Aristoteles (1983), pp. 295-384, pp. 356 ss.

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in questione - una spiegazione alternativa di tutti i passi raccolti da Tóth. La sua ipotesi interpretativa (se ha senso chiamarla così) non è nemmeno paragonabile alla forza esplicativa del libro di Tóth, anche se molto più semplice16. Inoltre concordo tanto con Lingenthal (2012) quanto con Unguru (2013, pp. 305 ss.) sul fatto che il passo APo. 85b38-86a3, che negli studi anteriori di Tóth non veniva interpretato in tale maniera, debba essere cancellato dal catalogo dei luoghi non euclidei. Tóth è consapevole che al massimo gli si può attribuire un valore limitato (2010, p. 314, p. 320), ma anche questo è vero soltanto se διότι ἄλλο viene tradotto come “perché è altrimenti”. Ciò è linguisticamente impossibile, e il contesto chiarisce quanto Aristotele intende dire: a differenza che nelle altre versioni, la generalizzazione definitiva non è più vera per il fatto che si verifica qualcosa di ancora più generale. È interessante notare che il teorema sulla costanza della somma degli angoli esterni per tutti i poligoni rettilinei, che è l'argomento di questo brano, è uno di quelli che non si trovano in Euclide. Ma cosa significano gli altri passaggi? I luoghi matematici di Aristotele sono ancora più ellittici di alcune sue affermazioni metafisiche, perché dati nella cornice di lezioni per allievi, che nel caso dei primi scritti avevano quella severa preparazione matematica, che Platone pretendeva dai membri dell’Accademia e in cui nella Repubblica voleva educati anche i re filosofi. Allusioni erano dunque sufficienti. APr. 65a4-7 parla apertamente di tentativi circolari di dimostrare il postulato delle parallele (ὅπερ ποιοῦσιν οἱ τὰς παραλλήλους οἰόμενοι γράφειν). Questo viene riconosciuto anche da Thomas Heath nel suo libro postumo sui luoghi matematici in Aristotele, anche se non è chiaro sul fatto che γράφειν significa “dimostrare”, come Tóth ha provato senza possibilità di dubbio (2010, S. 27-52). «Questo passaggio difficile che (16) Anche l’affermazione di Lattmann secondo cui μεῖζον ἢ ἔλαττον APo. 90a33-34 non può riferirsi all’angolo a causa del neutro è assurda (2011, 482). Il neutro è ovviamente usato in modo avverbiale nel senso di “più o meno di”.

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nessuno dei commentatori è riuscito a spiegare in modo soddisfacente sembra implicare che la teoria delle parallele corrente ai tempi di Aristotele comportava una qualche petitio principii, qualsiasi sia» (1949, p. 27). Ma mentre Heath non va oltre questa ammissione, Charles Mugler (1948, pp. 141 ss., p. 330) ha esposto la tesi che va molto oltre secondo cui già nell’Accademia sarebbero state discusse alternative alla geometria euclidea. Il suo libro, che è ancora lontano dalla meticolosa raccolta di tutti i passi decisivi e dall’interpretazione che ne dà Tóth, è stata fortemente criticata da Harold Cherniss (1951). Anche lui riconobbe che APr. 65a49 indica che «tentativi di dimostrare l’esistenza di parallele erano già stati fatti ma nulla mostra che il fallimento di questi tentativi abbia suggerito a qualcuno la possibilità di una geometria non euclidea» (p. 496)17. Non è chiaro che però si intenda qui con “possibilità”. Sono concepibili infatti almeno due significati, che Cherniss non distingue. In primo luogo si può parlare della “possibilità” di una geometria non euclidea, quando qualcuno da una o da entrambe le ipotesi non euclidee tragga una mole di conseguenze interessanti - e persino quando fa soltanto questo, per trovare una contraddizione, e crede di averne trovata una. Si deve distinguere tra un concetto di possibilità epistemologico e uno ontologico. Chi cerca una prova indiretta, evidentemente suppone che sia epistemologicamente possibile che la proposizione non sia ontologicamente impossibile, anche quando spera di scoprire la sua impossibilità; infatti altrimenti non avrebbe bisogno di impegnarsi in questa ricerca. Questo è stato notoriamente il caso dell’Euclides ab omni naevo vindicatus di Gerolamo Saccheri del 1733, in cui sono pubblicate molte proposizioni, che oggi appartengono alla geometria non euclidea, e che da lui però erano state sviluppate solo allo scopo di scoprire una contraddizione interna in quell’approccio che oggi chiamiamo “geometria iperbolica”. Certamente è meglio con (17) Al contrario, Niko Strobach si riferisce positivamente alle scoperte di Tóth nel suo eccellente commento ad Aristotele (2015), pp. 407-412.

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Tóth chiamare questo caso più che “non euclideo” “anti-euclideo”18, ma dato che Saccheri viene di frequente considerato il precursore della geometria non euclidea (la qual cosa era peraltro contraria alla sua effettiva intenzione), può anche essere accettabile l’uso del primo termine. In secondo luogo ci si può riferire con il concetto della possibilità di una geometria non euclidea a una geometria del tutto sviluppata, da considerare di rango uguale a quella euclidea. Dopo alcune figure di passaggio nella seconda metà del diciottesimo secolo come Johann Heinrich Lambert, questo si è compiuto soltanto nel diciannovesimo secolo, e ciò avvenne in due passi. Dapprima fu sviluppata la geometria iperbolica, in cui i triangoli hanno una somma angolare, che è minore di 180°, in modo indipendente da Carl Friedrich Gauß, János Bolyai und Nikolaj Lobačevskij, e in seguito la geometria ellittica di Bernhard Riemann, per la quale i triangoli hanno una somma angolare maggiore di 180°. Tóth non ha mai affermato che qualcosa di analogo si sia verificato nell’antichità. Però sembra riconoscere nei passaggi aristotelici qualcosa di del tutto diverso che nell’opera di Saccheri; tornerò ancora su tale questione. Cherniss ha certo ragione quando afferma che il luogo citato come tale non palesa ancora che sia stata concepita una qualche possibilità non euclidea. Ma certamente non è assurdo ammettere che dopo il fallimento dei tentativi di prova diretti ne sia stato intrapreso uno indiretto, e che questo potrebbe condurre secondo complessità di tale tentativo a una via simile a quella di Saccheri. E tale possibilità teoretica trova conferma in quei altri passi di Aristotele e nell’interpretazione di Tóth. Da essi risulta che si è concepito che “τρίγωνον” può essere applicato in modo che la parola non si riferisca a una figura con una somma angolare di 180° (SE 171a13 ff.), e che si è riflettuto sulle conseguenze della possibilità di una somma angolare minore (18) Questa importante distinzione, le cui implicazioni si estendono ben oltre questo singolo caso matematico nella storia generale della scienza e della filosofia, risale a un precedente libro di Tóth (1972, p. 32).

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come anche su quella di una maggiore di 180° - come Saccheri che però elimina rapidamente l’ipotesi dell’angolo ottuso, il quale sta alla base della geometria ellittica, perché presuppone implicitamente l’infinità della retta19. In APr. 66a11 ss. viene espressamente detto che se l’angolo interno (cioè probabimente la somma degli angoli interni non adiacenti) è maggiore dell’angolo esterno o se la somma angolare del triangolo è maggiore di 180°, le parallele si intersecano. Questo è corretto e non può essere trovato senza una riflessione precisa20. Viene inoltre stabilito che si deve mutare con la somma angolare del triangolo anche quella del quadrato (MM 1187a37 ff., EE 1222b31 ff.) se quella è uguale a 270° oppure a 360°, così si legge nell’Etica a Eudemo, questa è di 540° oppure 720°21. I luoghi dagli scritti di etica chiariscono come le relative differenze nella somma angolare del triangolo siano una ἀρχή, cioè a seconda del di quale di esse si ponga alla base, ne derivano conseguenze differenti. Questo ha un’analogia con l’etica; sebbene qui il punto di partenza sia lo scopo dell’azione. αἱ μὲν γὰρ ἀρχαὶ τῶν πρακτῶν τὸ οὗ ἕνεκα τὰ πρακτά («I fondamenti delle azioni sono lo scopo per cui le azioni avvengono», EN 1140b16 f.). Come si danno conseguenze differenti da propositi diversi, allo stesso modo da differenti, persino contrapposti avvii matematici derivano conseguenze contrapposte. Particolarmente impressionante è Cael. 281b5-622. Nell’edizione (19) Si veda la Propositio 14 del primo libro (Saccheri (1920), pp. 58 ss.). (20) Non è chiaro a cosa si riferisca la prima condizione; una possibilità, ma non l’unica, è che si tratti di una negazione di Elementi I 16 di Euclide. Cfr. Tóth (2010), p. 123 ss. (21) La somiglianza tra i due passi dell’Etica a Eudemo e della Grande Etica non è di per sé una prova sufficiente dell'autenticità di quest’ultimo scritto, ma almeno indica come autore un allievo intelligente e matematicamente competente. (22) Jean-Claude Pont, che segue la traduzione di Moraux, rifiuta l'interpretazione di Tóth di questo luogo «che, se fosse corretta, sarebbe cruciale per la storia della geometria non euclidea» (1986, p. 91). Pertanto, mi occuperò di questo passaggio in modo particolarmente dettagliato. Sull'importante libro di Pont si veda la generosa recensione di Tóth (1989).

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oxoniense di D.J. Allan del 1936 si legge: (λέγω δ’, οἷον τὸ τρίγωνον ἀδύνατον δύο ὀρθὰς ἔχειν, εἰ τάδε, καὶ ἡ διάμετρος σύμμετρος, εἰ τάδε). Nell’apparato critico si segnala che il secondo εἰ τάδε si trova presso L e Γ, in un codice vaticano del quattordicesimo secolo e nella traduzione latina di Guglielmo di Moerbeke, mentre manca in E, F, H, M e - “spatio relicto” - J23. L’ultimo è un codice viennese degli inizi del decimo secolo, E un codice parigino dello stesso periodo. Sotto un punto di vista critico-testuale è quindi naturale di mettere tra parentesi il secondo εἰ τάδε o di eliminarlo dal testo; e così avviene anche nelle successive edizioni di Oddone Longo del 1962 (p. 88) e di Paul Moraux del 1965 (p. 44). Tóth assume dunque questa versione con ottimi argomenti filologici anche, ma non soltanto, perché si tratta della lectio difficilior (2010, pp. 261 ss.). Che ne fa Unguru nella sua recensione? Lo dico perché questo non è un’eccezione nel suo metodo. Egli scrive: «C’è un passaggio nel De caelo, che offre cibo estremamente importante all’ossessione di Tóth per la geometria non euclidea e al quale dedica pagine su pagine del suo libro capriccioso e perverso». Cita poi il luogo nella versione di Allan, che prende dall’edizione di Loeb con la traduzione di W.K.C. Guthrie (1986, p. 113), e prosegue: «Il greco di Tóth elimina il secondo ei tade e la sua traduzione tedesca, punteggiata in modo diverso che in greco, legge ...» (2013, p. 306). Confesso che mi viene difficile considerare tale procedimento onesto. Mentre sottace la situazione critico-testuale Unguru insinua infatti che Tóth si fabbrica il testo secondo le sue esigenze. Questo sarebbe come ovvio estremamente non scientifico, solo che non è vero. Mentre è vero che Unguru si concede un’insinuazione così ingannevole; e questo non dà l’impressione che gli interessi la questione. Era stato più onesto George Kayas quando contro il testo usato da Tóth

(23) È vero che J ha ἀσύμμετρος al posto di σύμμετρος; ma questa lezione isolata si spiega facilmente con il fatto che il copista non poteva immaginare la commensurabilità. σύμμετρος, invece, non può essere spiegato con un errore di pensiero.

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scrisse: se anche la seconda occorrenza di εἰ τάδε non ci fosse da nessuna parte, «la si dovrebbe inventare»24. Non è corretto poi da parte di Unguru affermare che l’interpunzione di Tóth sia difforme dal testo greco. Prima di tutto, Tóth accetta le due virgole che Allan pone, anche se è vero che a differenza di Longo e di Moraux legge εἰ τάδε come condizione non del primo ma del secondo esempio e riferisce τάδε al primo. Ma anche quando avesse sostituito la virgola dopo ἔχειν con un punto in alto (perché lì pone una sospensione), non si potrebbe parlare di congettura. Infatti, come si sa, l’originale greco non presentava nessuna interpunzione anche soltanto alla lontana paragonabile a quella moderna; il suo inserimento è stata una scelta dei copisti o dell’editore. Ma è difendibile Tóth con la sua interpretazione del riferimento di εἰ τάδε? Si osservi la traduzione alternativa di Moraux. «Voglio dire, per esempio, che sarà impossibile che il triangolo valga due angoli retti, se tale condizione è posta, e ancora, che la diagonale sarà commensurabile» (p. 45). Questo non corrisponde al testo greco parola per parola. Il futuro “sarà” davanti a “commensurabile” fa dipendere questa frase subordinata giustamente da “voglio dire”, non da “sarà impossibile”, dopo il quale segue il congiuntivo presente; secondo Moraux Aristotele vuole così affermare la commensurabilità della diagonale. Questo è materialmente corretto; ma la sequenza da l’impressione che tale espressione dipenda dallo stesso verbo come la prima. Ma in greco dovrebbe esserci un accusativo, quindi non ἡ διάμετρος σύμμετρος, ma τὴν διάμετρον σύμμετρον εἶναι, e perché questo infinito naturalmente apparirebbe come dipendente da ἀδύνατον, dovrebbe essere ripetuto λέγω (o σύμμετρον essere sostituito con ἀσύμμετρον, cosa che Aristotele volle probabilmente deliberatamente evitare). Per puri motivi linguistici mi sembra che il nominativo abbia molto più senso, se per mezzo dell’εἰ τάδε appartenente a questa apodosi (24) (1976), p. 282. Kayas, che pure considera questo passaggio il più importante (p. 281), ammette: «Non sono un ellenista né un paleografo» (p. 282).

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viene interrotta la reggenza su λέγω; così è coerente proseguire con il nominativo. Poiché il riferimento sbagliato di εἰ τάδε, lascia per aria ἡ διάμετρος σύμμετρος, si può chiaramente spiegare il motivo per cui i manoscritti successivi hanno raddoppiato il εἰ τάδε - sempre che non nasca banalmente da un errore meccanico di dittografia. Come arriva un filologo e uno specialista di Aristotele importante come Moraux a una tale imprecisione? Le sue lacunose conoscenze matematiche gli impediscono di notare che Aristotele può collegare la negazione della somma triangolare euclidea con la commensurabilità del lato e della diagonale del quadrato, e poi fa il creativo rispetto alla grammatica greca, come Kayas con il testo. È a mio parere sempre filologicamente più affidabile imitare la creatività matematica dei Greci che deviare dal consueto standard della critica testuale e grammaticale. Accanto a testo e grammatica anche la coerenza interna dei luoghi di Aristotele - in generale un principio ermeneutico importante -suggerisce la direzione interpretativa che Tóth ha percorso. Infatti il teorema della somma degli angoli del triangolo in APr. 66a11 ss. e nei passi dalle Etiche non è una conseguenza, quanto piuttosto la premessa per le sue conclusioni25. εἰ τάδε si riferisce quindi al teorema della somma degli angoli del triangolo come premessa di ulteriori conclusioni, non alle sue proprie premesse; infatti è stato palesemente attribuito al teorema della somma degli angoli del triangolo nelle sue tre varianti lo status di un potenziale postulato. Tóth intende il teorema correttamente nel modo seguente: «Sostengo ad esempio questo: è impossibile per il triangolo avere una somma angolare, che sia uguale ai due retti; se questo[è il caso], allora anche la (25) Alcuni dei manoscritti senza il secondo εἰ τάδε sostituiscono il primo con εἶτα δἐ, come ad esempio. Marcianus Gr. Z. 214 fol. 220r.b16, che io stesso ho consultato a Venezia (che però, come J, ha ἀσύμμετρος). Sebbene questa interpretazione sia semanticamente praticamente equivalente a quella qui privilegiata di εἰ τάδε, non corrisponde però all’uso linguistico di Aristotele, per cui è preferibile εἰ τάδε (Correggo dunque la mia affermazione del 1982.) Questo codice del XII secolo è nel frattempo online accessibile all’indirizzo http://www.internetculturale.it/it/16/search?q=Gr.+Z.+214&instance=magindice).

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diagonale [del quadrato] è commensurabile” (pp. 406 ss.). Questo appare nel contesto di una discussione sull’impossibilità/possibilità ovvero falsità/verità ἐξ ὑποθέσεως, “a una condizione”. Aristotele afferma perciò che sotto determinati presupposti - cioè quelli della negazione di una somma angolare di 180° per i triangoli e quindi del postulato euclideo delle parallele - la diagonale del quadrato è commensurabile con il lato. Questo è proprio il caso nella geometria non euclidea, sebbene non sempre, dato che il rapporto di lato e diagonale del quadrato varia in base alla lunghezza del lato (infatti unicamente nella geometria euclidea ci sono figure, che sono simili ma non congruenti). Nel caso dell’ipotesi dell’angolo acuto il rapporto assume il valore tra 1 e √2, in quello dell’angolo ottuso tra √2 e 2. Tóth aveva (1967) sia proposto un complesso tentativo di dimostrazione con gli strumenti della geometria del quarto secolo prima di Cristo (pp. 323-334) sia anche offerto una concisa spiegazione di come Aristotele potesse essere arrivato alla sua convinzione a proposito dei rapporti su una superficie sferica (pp. 334-338). (2010, p. 277) respinge il primo come «troppo lungo, noioso e ... superfluo» e tenta di liberare la seconda dal contesto sfericogeometrico. Ma per motivi che dovranno risultare chiari più avanti, io voglio rifarmi alla seconda spiegazione del 1967; infatti per il profano in matematica, che almeno può immaginarsi la natura di una superficie sferica, è la più plausibile26. In questa spiegazione altrettanto che in quella del 2010 la connessione del passaggio in De caelo con i luoghi dall’Etica a Eudemo si fa subito chiara. Inscrivendo un ottaedro in una sfera, è naturale dividere la superficie della sfera in otto triangoli sferici congruenti, equilateri ed equiangolari, ogni angolo dei quali è un angolo retto, la cui somma degli angoli è 270°. Il raddoppio di (26) È significativo che sia Richard Walzer (1929, p. 33) sia Franz Dirlmeier nella sua traduzione commentata di Aristotele (1979), p. 269, non solo dichiarino che i passi corrispondenti delle due etiche non sono ovviamente “seriamente” pensabili come geometria non euclidea, ma non considerino nemmeno la possibilità di un'allusione alla geometria sferica - presumibilmente per ignoranza di questa disciplina.

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tale triangolo potrebbe essere facilmente interpretato come un quadrato degenere (anche se oggi lo chiameremmo biangolo sferico con angoli retti tra i due grandi cerchi). Ma quando si elimina la diagonale e si lascia che questa struttura nasca da uno di quei triangoli equilateri ed equiangoli di cui un angolo è allargato a 180°, si ha un triangolo di 360° e il suo raddoppio, che copre metà della superficie della sfera, può essere visto come un quadrato degenere di 720°. Si osserva subito che la diagonale qui è esattamente il doppio del lato del quadrato ed è con esso commensurabile. Se si considera il significato della scoperta delle grandezze irrazionali per lo sviluppo della matematica greca non sorprende la curiosità verso la questione di come questo problema si comportasse nelle geometrie alternative. Quanto fa Tóth nella spiegazione di questo luogo è tanto più impressionante se lo si confronta con quella di Unguru. «Ipotesi impossibili comportano conseguenze impossibili. C’est tout». (2013, p. 306; analogo a p. 303). Di certo non è falso che Aristotele considerava la commensurabilità ψεῦδος (281b7), quindi come semplicemente impossibile (b13 ss.) e neanche è sbagliato attribuirgli la convinzione che dall’impossibile deriva qualcosa di impossibile (b15). Ma perché vi derivi, questo merita di essere compreso. Infatti Aristotele non conosce ancora il principio “Ex contradictione sequitur quodlibet”, il quale come noto si trova per la prima volta nel dodicesimo secolo in Guglielmo di Soissons, e l’impossibile non si limita in Aristotele affatto all’inconsistente. Unguru tenta in ogni caso di dare una spiegazione. Nella sua traduzione commentata Alberto Jori invece lascia questo difficile passo del tutto inesplicato e traduce il suo finale così: «Il diametro è commensurabile con il cerchio» (2009, p. 49). Sicuramente διάμετρος significa anche “diametro del cerchio”, ma in quale luogo gli antichi autori riflettono sulla commensurabilità di diametro e periferia o propongono una idea su come si possa risolvere tale questione? Mentre l’incommensurabilità della diagonale del quadrato con il suo lato era stata dimostrata rigorosamente già alla metà del quinto secolo prima

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di Cristo, per l’irrazionalità di π questo avvenne solo nel diciottesimo secolo con Lambert. La traduzione di Jori deve essere considerata realmente anacronistica (se non gli si vuole imputare di aver voluto interpretare il quadrato degenere con somma angolare di 720° simultaneamente come cerchio) - non invece la fedeltà di Tóth al testo aristotelico27. Tóth include nella sua raccolta anche un passo dal Cratilo di Platone (436a-e, 438c-e). In questo segue il mio saggio del 1982, dove si evidenziava anche l’allegoria della linea dalla Repubblica come possibilmente antieuclidea, sebbene il riferimento è mediato e indiretto. Nel Cratilo si tratta però espressamente del fatto che possano darsi numerosi teoremi coerenti anche partendo da una premessa errata. ὥσπερ τῶν διαγραμμάτων ἐνίοτε τοῦ πρώτου σμικροῦ καὶ ἀδήλου ψεύδους γενομένου, τὰ λοιπὰ πάμπολλα ἤδη ὄντα ἑπόμενα ὁμολογεῖν ἀλλήλοις, «come,

se nelle sequenze di dimostrazioni all’inizio si fa talvolta una piccola e poco appariscente supposizione falsa, il resto, numerosissimo, che segue, sarà coerente con se stesso» (436d). In considerazione del fatto che i matematici greci erano maestri nelle prove apoagogiche, e quindi sapevano in che modo scoprire contraddizioni nelle premesse false, questo è un luogo quantomeno sorprendente, e se si leggono seriamente i passi di Aristotele e inoltre si riflette che l’Accademia e non il Peripato era il centro più avanzato della ricerca matematica, e che quindi gli esempi aristotelici devono avere il loro fondamento nelle ricerche svolte nell’Accademia, il riferimento a questi esempi è ovvio (Platone inoltre

(27) Si rimane sempre perplessi di fronte agli errori storico-matematici nelle traduzioni di autorevoli storici della filosofia antica. Nell’edizione bilingue di Giamblico di Franceso Romano (Giamblico, 1995, p. 153), παραβολή e τετραγωνισμός sono tradotti come “parabola” e “quadratura del cerchio”, sebbene Giamblico parli esplicitamente di problemi elementari e abbia ovviamente in mente l’applicazione di aree e la quadratura di una data figura rettilinea (Elementi I 44 e II 14). In modo relativamente innocuo, A.H. Armstrong traduce μεγίστων κύκλων come “the greatest circles” nell’Enneade VI 9.8.20-22 di Plotino (1988, p. 333). Certamente il cerchio massimo è il cerchio più grande sulla superficie della sfera, ma anche in inglese esiste un terminus technicus per esso, come in greco e in tedesco, ed è “great circle”.

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si cura di riempire di allusioni complesse i suoi dialoghi). Unguru invece scrive: «Contro l’infondata pretesa di Tóth, non c’è assolutamente niente nel dialogo che anche lontanamente ricordi lo status cognitivo di una geometria non euclidea, specificamente, se la sua coerenza interna significa che è anche vera». La frase subordinata finale la dice lunga. Naturalmente il tema del passo è che la coerenza matematica non è una condizione sufficiente per la verità. Ma chi ha mai contestato che questa fosse la visione di Platone? Io scrivevo esplicitamente che la pretesa di verità di una teoria matematica non potrebbe secondo Platone essere fondata soltanto con strumenti matematici, dunque con coerenza interna (1982, p. 193). Molto più interessante è la spiegazione che Francesco Ademollo ha proposto nel suo intelligente commento (2011, pp. 343 ss.). Anche lui giustamente riconosce alla maniera di Tóth, che tuttavia cita tanto poco quanto me, che διαγραμμάτων si riferisce qui non a figure matematiche ma a proposizioni connesse tramite catene di dimostrazioni; ed enfatizza come già avevo fatto io (1982, p. 192) che ψεῦδος non può significare “errore” ma “falsa premessa”. Collega poi il passaggio con Aristotele, Top. 101a15-17, un luogo difficile, i cui esempi matematici anche Heath (1949, pp. 76 ss.) non chiarisce senza lasciare dubbi, e scrive: «Qui [...] Aristotele si mostra familiarizzato con un tipo di ragionamento illusorio che funziona assumendo false premesse geometriche allo scopo di dedurne la conclusione desiderata (e quindi una conclusione che contraddice una verità stabilita della geometria)» (p. 437). Nella nota 98 si riconosce che un lettore moderno potrebbe pensare in quel caso persino a una geometria non euclidea, ma questo sarebbe “probabilmente […] non corretto”. τὰ λοιπὰ πάμπολλα non dovrebbe pertanto riferirsi a τῶν διαγραμμάτων come genitivo partitivo, e quindi essere pensato in rapporto a moltissimi teoremi, ma piuttosto soltanto a passi all’interno di uno stesso teorema. Questo risulterebbe dalla ripetizione di τὰ λοιπὰ 436d7. Ammetto di non capire perché l’elisione successiva del sostantivo debba suggerire piuttosto passi

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che teoremi; come non capisco in che modo i non più di dieci passi che Ademollo trova in un singolo teorema di Euclide (si riferisce a Elementi, I, 47) possano essere definiti πάμπολλα, “moltissimi”28. Poiché il paragone di Socrate occorre nel contesto di una discussione sul contrasto radicale tra una ricostruzione etimologica eraclitea e una eleatica della lingua greca, è più plausibile che abbia in mente il contrasto tra teorie geometriche, se ai Greci era nota la possibilità di un tale contrasto. Questo porta a un ulteriore argomento di Tóth. La maniera nella quale spiega i luoghi di Aristotele e di Platone diventa ancora più convincente, quando si consideri l’edificio del primo libro degli Elementi di Euclide. Il postulato delle parallele appare utilizzato da lui per la prima volta nella seconda metà del primo libro (I 29); i teoremi in I 1-28 ancora non lo presuppongono. Sono teoremi della geometria assoluta di Bolyai, come dice Tóth correttamente; I 16 e I 32 «poggiano su due livelli teoreticamente molto diversi» (2010, p. 124). Unguru (che traduce ‘Ebenen’ con ‘piani’ e non con ‘livelli’) nota invece: «Euclide non avrebbe colto la differenza» (p. 303). Certo non era familiare ad Euclide il termine “geometria assoluta di Bolyai” (e non conosceva l’espressione “geometra euclidea”); ma sapeva cosa faceva (o conosceva ciò che avevano fatto i grandi matematici dell’antichità prima di lui, le cui opere aveva messo in ordine e raccolte). Non soltanto era consapevole che non prima di I 29 usava il quinto postulato ma ovviamente intendeva arrivare il più lontano possibile senza di esso e voleva attirare l’attenzione del lettore intelligente sul fatto che si può dimostrare qualcosa anche facendone a meno. Due fatti lo dimostrano. In primo luogo, I 29 è l’inversione di I 27/I 28 - ed è l’unica volta in tutta l’opera che viene utilizzato un (28) Platone distingue molto consapevolmente in Nomoi 640d παμπόλλῃ da πολλῇ, e in 677e πάμπολυ corrisponde a μυρίαν, cioè “infinito”, nel colon precedente. Non si obietti che σμικροῦ Cratilo 436d2 indichi qualcosa di piccolo. È noto infatti che Platone è solito introdurre i suoi temi più importanti in questo modo; ricordo, ad esempio, Apologia 21d, Charmides 154d, 173d, Protagora 328e, 329b6, Simposio 201c, Filebo 20d e 67b.

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nuovo assioma per dimostrare l’inversione di un teorema. Se Euclide non avesse voluto enfatizzare questo aspetto, avrebbe dovuto solo cambiare la disposizione, cioè dimostrare I 29 prima di I 27 ss. L’asimmetria non sarebbe stata tanto evidente. E in secondo luogo Euclide dimostra nella “parte assoluto-geometrica”, quindi prima di introdurre il quinto postulato, teoremi che derivano subito da quelli dimostrati successivamente. Alla prima metà di I 32 - in ogni triangolo l’angolo esterno formato dal prolungamento di un lato è uguale alla somma dei due angoli interni contrapposti - segue subito I 16, secondo cui in ogni triangolo l’angolo esterno che deriva dal prolungamento di un lato è maggiore di ognuno degli angoli interni contrapposti. La seconda metà di I 32 - i tre angoli interni del triangolo insieme sono uguali a 180° - tira immediatamente dietro di sé I 17, secondo cui in ogni triangolo due angoli, sommati come si voglia, sono minori di 180°. Chi studia la storia della matematica sa che eminenti matematici considerano la dimostrazione di teoremi banali al di sotto della loro dignità; e in fondo sono I 16 e I 17 non propriamente teoremi, ma soltanto formulazioni più indeterminate di I 3229. I 16 e I 17 si comprendono da sé, se si presuppone I 32. Ma non si comprendono per niente da sé se li si dimostra senza I 32 e il postulato delle parallele. Questo quindi, e non il loro contenuto, interessa ad Euclide (oppure ai suoi predecessori). E ciò significa che sapeva distinguere molto bene tra la prima parte del libro sino a I 28 e il resto della sua opera, comunque anche egli possa avere caratterizzato questa differenza. Questa non è affatto una lettura anacronistica. Già Proclo si è chiesto nel suo commento al primo libro degli Elementi, laddove tratta di I 32, quale fosse il senso di questo strano comportamento di Euclide (1873, pp. 377 ss.). I 16 e I 17 sarebbero “in qualche modo più indeterminati” (ἀοριστότερά πως) di I 32. Non sarebbero dunque superflui (29) Ian Mueller, che sottovaluta l’uso del postulato delle parallele nell’architettura del primo libro, lo riconosce soltanto per I 17: “un banale corollario di 32” (1981, p. 30).

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(περιττὰ)? Le due risposte di Proclo non sono buone, ma a suo onore va aver posto la questione. Così replica che da un lato questi teoremi sarebbero stati necessari per dimostrare I 29. Questo è palesemente falso: I 29 presuppone oltre al postulato delle parallele soltanto I 13 e I 15; I 32 invece presuppone di sicuro oltre I 29 anche I 31, che si riporta a a I 23 e a I 27, per la cui dimostrazione Euclide utilizza in realtà I 16, ma I 29 sarebbe stato sufficiente allo scopo. Dall’altro, la nostra conoscenza dovrebbe procedere dall’imperfetto e dall’indeterminato verso il perfetto e il determinato. Certamente - i teoremi procedono per complessità. Ma questo non significa che si debba dimostrare prima qualcosa che deriva direttamente da qualcos’altro per la cui dimostrazione non è necessario. La risposta di Tóth è certamente migliore di quella di Proclo. La geometria assoluta di Bolyai ha il suo luogo logico prima della differenziazione in geometria iperbolica e euclidea, che si distinguono in un unico assioma, se si sta alla assiomatizzazione moderna di David Hilbert. La geometria sferico-ellittica al contrario devia da entrambe più di quanto queste l’una dall’altra. Non sorprende perciò che nel suo sviluppo moderno sia stata concepita prima la geometria iperbolica di quella ellittica. Gli esempi concreti da Aristotele attengono esclusivamente alla geometria della sfera. Tuttavia non c’è dubbio che Aristotele conoscesse anche “l’ipotesi dell’angolo acuto”. Esplicitamente viene menzionato solo una volta, APo. 90a34, come Tóth ammette (2010, p. 119); tuttavia, poiché si parla in numerosi luoghi in generale di differenza con 180° (come in APo. 90a13, 93a35, SE 171a16, Ph. 200a30, Cael. 281b5 ss.), se ne può concludere che Aristotele vi sussumeva anche quella, sebbene considerasse più interessante l’altra opzione, presumibilmente perché più adatta a un cosmo finito.

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IV. Proclo su rette asintoticamente parallele Ma il mondo antico ha saputo qualcosa di più sulla geometria iperbolica del fatto che gli elementi I 1-I 28 si applicano anche ad essa e che la sua differenza specifica dalla geometria euclidea consiste nel fatto che la somma degli angoli del triangolo è minore di 180°? Per fortuna Proclo ci ha conservato nel suo commento un luogo molto importante, del quale non possiamo dire a che epoca risalga, ma che con certezza si può escludere sia suo proprio. Contiene un importante teorema anti-euclideo non della geometria sferica ma di quella iperbolica, che voglio qui citare brevemente, perché a mio parere è probabile sebbene non dimostrabile che abbia preso forma nello stesso contesto delle riflessioni documentabili di Aristotele. Tóth (2010) non ha trattato questo luogo ma lo fece prima (1967, pp. 399-408). C’è però in quest’opera in primo piano chiaramente il paradosso ispirato da Zenone, di cui tratto nel prossimo capoverso. Il luogo di Proclo suona (p. 371, Z. 7-10): εἴποι γὰρ ἄν τις ἀορίστου τῆς ἐλαττώσεως οὔσης τῶν δύο ὀρθῶν κατὰ μὲν τὴν τοσήνδε ἐλάττωσιν ἀσυμπτώτους μένειν τὰς εὐθείας, κατὰ δὲ ἄλλην τὴν ταύτης ἐλάσσονα συμπίπτειν. Ho mostrato (2017) che ἐλάσσονα è un errore di scrittura per μείζονα. Si corregge di

conseguenza il testo che diventa: «Si potrebbe infatti dire che, poiché la riduzione dei due angoli retti è indeterminata, le rette rimangono asintoti fino a questo grado di riduzione, ma a un altro grado maggiore si intersecano». Molto prima di Tóth, Thomas Heath riteneva che il luogo contenga il seme di un’idea «come quella elaborata da Lobačevsky, cioè che le linee rette derivate da un punto su un piano possono essere divise con riferimento a una linea retta giacente su quel piano in due classi, quella ‘secante’ e quella ‘non-secante’ e che possiamo definire come parallele le due linee rette che dividono la classe secante da quella non-secante» (1926, I, p. 207)30. Si deve procedere abbastanza (30) La valutazione di Becker (1975), p. 169, è simile: «una prima premonizione della geometria non euclidea iperbolica».

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avanti nei Nuovi principi della geometria con una completa teoria delle parallele (Новыя начала геометріи сь полной теоріей параллельныхъ) di Lobačevskij del 1835-38, cioè sino al § 93 (il primo del settimo capitolo) per imbattersi in questa idea della retta asintoticamente parallela31. Anche se questa idea viene trasmessa soltanto in Proclo, è chiaro che non viene da lui. Si trova in un esteso commento al teorema, architettonicamente decisivo, I 29, nel quale tra gli altri viene discusso il tentativo di dimostrazione per il quinto postulato di Tolomeo e giustamente respinto (pp. 365, Z. 7 ss.). Segue una discussione critica sull’affermazione per cui due linee rette che intersecano una terza in modo che gli angoli interni che si formano sullo stesso lato sono minori di 180° non si incontrerebbero mai (p. 368, Z. 26 ss.). Questa tesi, che nega il quinto postulato, è molto più radicale dell’assunto per cui non tutte ma tuttavia alcune di queste linee non coortogonali, come le possiamo definire con Tóth, si intersecano. Tale assunto viene stabilito tramite un argomento ispirato da Zenone, la cui debolezza Proclo non coglie: infatti anche se il processo di divisione che viene proposto può essere ripetuto infinitamente, comunque si svolge sempre al di qua dell’intersezione delle rette, la cui esistenza non è in grado di escludere. Non riuscendo a sviluppare questa contro-argomentazione, Proclo cita quel pensiero intrigante di cui ho parlato nell’ultimo paragrafo. Subito dopo svolge il suo proprio tentativo di dimostrazione per il quinto postulato, che rinvia ad Aristotele, Cael. 271b26 ss. (pp. 371, Z. 10 ss.). Poiché le rette non parallele si estendono all’infinito, la loro distanza dovrebbe diventare sempre minore e alla fine intersecarsi. L’insostenibilità della prova, che presuppone cose che valgono solo se il postulato euclideo delle parallele è presupposto, è evidente, ed è irrilevante analizzarla in dettaglio qui. Ma doveva essere citata perché in primo luogo la sua inadeguatezza come anche l’incapacità di respingere l’argomento (31) Si noti che il moderno concetto di “asintotico” è diverso da quello greco che comprende tutte le rette non secanti.

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ispirato da Zenone secondo il quale le rette non si intersecano, provano che Proclo non era un brillante matematico. Difficilmente sarebbe quindi potuto giungere da solo a quella idea matematica innovativa. In secondo luogo non può aver percepito il bisogno di sviluppare quel pensiero; infatti poiché immaginava di disporre di una dimostrazione del postulato delle parallele, per il quale tutte le linee non-coortogonali si intersecano, non aveva bisogno della proposizione molto più debole secondo la quale alcune, ma non tutte, le rette non-coortogonali si intersecano. (Questa riflessione corrisponde esattamente alla sua circa la potenziale superfluità di Elementi I 16 e I 17). Deve avere trovato quel pensiero da qualche parte e averlo integrato nella sua opera perché stava bene come termine medio tra la tesi “nessuna retta interseca un’altra” e “tutte le rette non-coortogonali si intersecano”. Concordo quindi del tutto con Tóth in riferimento a Proclo: il luogo sarebbe «evidentemente ad hoc, apparso per lo scopo subordinato e specifico di eliminare momentaneamente l’aporia; ma con questo finiscono anche il suo ruolo e la sua efficacia» (1967, p. 408). Ma proprio per questo motivo bisogna ritenere che sia stato preso da una fonte precedente - cosa che Tóth non considera, anche se riporta il ragionamento ispirato da Zenone al quarto secolo avanti Cristo (p. 409). Perché non anche l’idea fondamentale della geometria iperbolica? Non è necessario ma è una possibilità molto plausibile. Infatti questo pensiero sarà emerso in connessione con una tentata prova apagogica del postulato delle parallele. Uno dei predecessori sisifei di Proclo, che si possono contare sulle dita di una mano nel caso di una dimostrazione di questo tipo può essere escluso - Tolomeo. Infatti poiché prima si parlava esplicitamente di lui, sarebbe stato inconcepibile indicarlo in modo indeterminato come τις. Anche se è in entrambi questi casi meno improbabile, mi sembra che qualcosa di analogo valga anche per Poseidonio e Gemino, poiché entrambi più volte sono nominati da Proclo, e non soltanto a proposito della loro discussione sul problema delle parallele e della struttura assiomatica degli

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Elementi32 (pp. 176-184). Perché doveva il loro nome proprio qui essere taciuto, se l’idea era dovuta a loro? Si può quindi presumere che Proclo stesso non conoscesse l’autore di quell’idea, che può avere tratto da un’opera molto vecchia o da una successiva con riflessioni storiche33. Dato che l’intensità della riflessione su una prova apagogica del postulato delle parallele nel quarto secolo avanti Cristo era straordinariamente alta, dato che inoltre l’idea non può venire da Proclo stesso e infine da lui non viene attribuita a nessuno dei pochi scienziati ellenistici e del periodo imperiale, dei quali sappiamo che si erano occupati del problema, è sensato ammettere che sia stata concepita nel quarto secolo.

V. Quale alternativa alla geometria euclidea fu considerata per prima? E le riflessioni furono di natura antieuclidea o non euclidea? La tesi di Tóth secondo cui i passi aristotelici presuppongono una riflessione sulle alternative al postulato delle parallele mi sembra molto plausibile, soprattutto se la si mette in relazione con la struttura del primo libro di Elementi. Eppure qui sorge un problema su cui Tóth sorvola. La stragrande maggioranza dei passi di Aristotele si basa sull’ipotesi dell’angolo ottuso; gli Elementi da I 1 a I 28, invece, valgono sia per l’ipotesi dell’angolo acuto sia per quella dell’angolo retto. Quale delle due geometrie alternative è stata considerata per prima come alternativa? In termini di struttura assiomatica, la geometria iperbolica è più vicina alla geometria euclidea della geometria sferico-ellittica; eppure (32) Sulla connessione della filosofia matematica dei due con l’epistemologia stoica, si veda Kouremenos (1994). (33) Potrebbe anche non ricordare dove l’aveva letto. In un senso simile Szabό (1974), pp. 311 ss., nota 3, interpreta l'espressione οἱ περὶ τὸν Εὔδημον in Proclo (p. 419, Z. 15).

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la geometria sferica era immediatamente familiare ai greci (mentre un modello euclideo della geometria iperbolica fu trovato solo alla fine del XIX secolo da Eugenio Beltrami sotto forma di pseudosfera). Certamente, la geometria sferica come sottoarea della stereometria euclidea deve essere nettamente distinta dalla geometria sferico-ellittica bidimensionale non euclidea, che è interessata esclusivamente alle proprietà immanenti della superficie sferica; e nessuno dei passi di Aristotele parla di triangoli in dimensioni diverse. Ma questo non significa affatto che l’idea di questa seconda forma di geometria non possa essersi sviluppata dalla prima. Sulla scia del trattato di Tóth del 1967, ciò è già stato sostenuto (1971) dalla storica della matematica russa A.E. Busurina34. Io stesso presumo che la consapevolezza che sulla superficie di una sfera si possono trovare triangoli maggiori di 180° abbia portato, in connessione con gli sforzi di assiomatizzazione della geometria euclidea, alla riflessione se non sia concepibile anche una considerazione puramente immanente della superficie (all’inizio certamente nella speranza di trovarvi una contraddizione) e che questo abbia portato, in un secondo momento, all’indagine sull’ipotesi dell’angolo acuto. I quattro argomenti che Tóth oppone a questa tesi (2010, pp. 291 ss.) non sono, a mio avviso, convincenti. In primo luogo, egli sottolinea che non sappiamo abbastanza sullo stato della geometria della sfera nel IV secolo a.C. Questo è corretto, ma vale a maggior ragione per la nostra ricostruzione dello sviluppo antieuclideo. Dopo tutto, Autolico di Pitane, il primo autore attestato a trattare la geometria sferica, in Περὶ κινουμένης σφαίρας (Sulla sfera rotante), è antecedente a Euclide, ed è molto plausibile, per il suo uso di teoremi non dimostrati, che avesse dei predecessori35. Lo ipotizza anche George Sarton, tra l’altro perché la teoria delle sfere omocentriche di Eudosso «implicava una conoscenza avanzata della geometria sferica; è probabile (34) Nella peer review del mio saggio del 1982, Alexander Kleinlogel ha sollevato la stessa obiezione. (35) Cfr. Heath (1921), I, pp. 349 ss.

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che Eudosso stesso abbia contribuito al suo avanzamento, poiché ne aveva un gran bisogno» (1952, p. 448; cfr. anche p. 512). In secondo luogo, Tóth fa notare che solo il terzo autore attestato di geometria della sfera, Menelao, conosce teoremi sui triangoli sferici, che peraltro non chiama τρίγωνα, ma τρίπλευρα (“trilateri”), per distinguerli da quelli del piano36. A questo si deve ribattere che tutti e tre gli autori di testi sulla sfera attestati erano almeno altrettanto astronomi che matematici, e che però Menelao, molto più di Teodosio, che soprattutto all’inizio assume esplicitamente una sfera spaziale, si concentra sulle proprietà immanenti, anzi, concepisce il suo primo libro con i suoi teoremi di congruenza come una consapevole controparte al primo libro degli Elementi di Euclide (anche se né lui né i suoi predecessori enunciano assiomi)37. Per inciso, il triangolo di 270° introdotto da Aristotele è un caso particolare di uno espressamente trattato da Menelao (I 29). Non c’è nulla che contraddica il fatto che Eudosso, in quanto artefice della nuova teoria delle proporzioni e del metodo di esaustione forse il matematico più originale dell'antichità, abbia sottolineato nelle discussioni sulla geometria della sfera la trasferibilità dei suoi risultati stereometrici in una concettualità puramente planimetrica38. (Questo basta; l’esatta nozione moderna di modello non si vorrà attribuirgliela). (36) Poiché le Σφαιρικά di Menelao si è purtroppo conservata solo in traduzioni piuttosto libere in arabo ed ebraico, dobbiamo questa informazione a Pappo (VI 1; 1876-1878, pp. 476, Z. 16 s.). Cito Menelao secondo Krause (1936). (37) La prima definizione dell’opera esclude dalla definizione di τρίπλευρον i triangoli non euleriani in cui non tutti e tre i lati sono minori della semicirconferenza massima. L’esclusione esplicita dimostra che la loro possibilità era stata colta. Il triangolo di 360° di Aristotele, ad esempio, non rientra nella definizione di Menelao. Dal punto di vista metodologico, colpisce il fatto che Menelao sostituisca le prove apagogiche di Teodosio con quelle dirette (cfr. Krause 118 con nota 8). Sul rifiuto delle prove indirette da parte di alcuni matematici greci, cfr. Proclo, p. 73, righe 21-22. (38) Tóth scrive che è stato decisivo non concepire più i lati del triangolo come archi di cerchio massimo, ma come vere e proprie linee rette (2010, p. 293). Questo è vero, anche se Tóth sembra talvolta sottintendere che termini come “linea retta” abbiano lo stesso significato nelle diverse geometrie. Questo non è corretto, almeno se si sostiene che i termini sono definiti solo implicitamente dai diversi assiomi. Infatti, i diversi sistemi di assiomi comportano inevitabilmente significati diversi.

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In terzo luogo, Tóth dice che Aristotele parla di disuguaglianza in termini generali. Certamente; ma tutti gli esempi concreti derivano dall’ipotesi dell’angolo ottuso. L’asimmetria tra le due geometrie non euclidee è così evidente in lui che questo depone molto di più per una priorità della geometria della sfera. E poiché questa non è la prima a emergere nell’analisi della struttura assiomatica, è ovvio cercare il punto di partenza nelle considerazioni sulla superficie sferica, anche se certamente sono cresciute oltre e si sono collegate agli sforzi di assiomatizzazione della geometria che erano emersi in modo indipendente. Infine, il quarto argomento di Tóth sottolinea che lo sviluppo della geometria iperbolica, che in epoca moderna ha preceduto quello della geometria ellittica, è avvenuto senza modelli descrittivi. Questo è vero, ma non significa affatto che nell’antichità dovesse essere lo stesso. Anche chi riconosce il genio matematico dei Greci non può negare che il livello di astrazione della loro matematica sia inferiore a quello dei moderni. Era quindi ovvio iniziare con la geometria sferica, pur se il passo di Proclo discusso in precedenza dimostra che si potevano cogliere le idee di base della geometria iperbolica. Ma anche ad un Aristotele non venivano in mente come esempi con la stessa facilità di quelli della geometria sferica. Che la scoperta dell’ipotesi dell’angolo ottuso dovesse essere seguita da quella dell’ipotesi dell’angolo acuto era logico. Presumibilmente è anche legato alla teoria “non scritta” delle categorie di Platone, che la Scuola di Tubinga ha cercato di ricostruire a partire da Hans Joachim Krämer e Konrad Gaiser39. Non posso addentrarmi in questa discussione, ma mi limiterò a segnalare brevemente l’opposizione tra i due principi fondamentali, l’Uno (ἕν) e la Diade indeterminata (ἀόριστος δυάς), a sua volta divisa in un Più e in un Meno (τὸ μᾶλλον καὶ τὸ ἧττον)40.

(39) Le testimonianze rilevanti si trovano alla fine di Gaiser (1968). (40) Cfr. Test. 23B Gaiser (= Simplicius, in Aristot. Phys. (III 4, 202b36) p. 454, Z. 35 - p. 455, Z.2).

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Sembra ovvio interpretare questa struttura categoriale di base come una generalizzazione di varie idee matematiche, metodologiche e tematiche, elaborate nell’Accademia41. Il metodo di esaustione nel dodicesimo libro degli Elementi, ad esempio, dimostra apagogicamente l’uguaglianza attraverso l’esclusione dell’essere più grande o più piccolo; la teoria delle sezioni coniche risalente a Menecmo divideva queste ultime, che si ottenevano sempre attraverso un’intersezione del cono con un piano perpendicolare alla generatrice (per cui, a differenza di quanto avverrà più tardi con Apollonio, i cerchi non erano ancora considerati sezioni coniche), in base alla misura dell’angolo di apertura del cono, che doveva essere acuto, ottuso o retto42. Chi è abituato a classificare in questo modo passa facilmente dall’ipotesi dell’angolo ottuso a quella dell’angolo acuto. Questo mi porta al secondo punto della mia divergenza da Tóth. Quest’ultimo tende fortemente a interpretare i passi delle Etiche di Aristotele insistendo sulla libertà nella scelta degli assiomi. Ora, è certamente vero che il confronto tra le ἀρχαί assiomatiche e l’οὗ ἕνεκα, il fine dell’azione, presuppone che non vi sia alcuna costrizione logica ad assumere questo assioma come base invece dell’altro. Ma questo non significa affatto che non ci siano ragioni per decidere in un senso o nell’altro, così come ci sono principi per la giusta azione. Chi ha come obiettivo primario quello di arricchirsi velocemente e vede un modo non virtuoso per arricchirsi impunemente, lo farà; ma chi ha come obiettivo primario quello di vivere una vita retta, vi rinuncerà. Sta a noi essere buoni o mediocri (φαῦλος) (MM 1187b19 ss.), ma il bene, secondo Aristotele, è più conforme alla nostra natura. In questo senso intendo APo. 77b21 ss. dove l’ipotesi che le parallele si intersechino è chiamata γεωμετρικόν πως καὶ ἀγεωμετρητόν, “in qualche modo geo(41) È ben noto il lavoro di A.E. Taylor sulla connessione dei due principi con l’approssimazione del valore esatto di √2 (1926-1927). (42) Cfr. l’inizio del commento di Eutocio al primo libro delle Κωνικά di Apollonio (1891-1893, II, pp. 170 ss).

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metrica e non geometrica”, - e “non geometrica” non nel senso che non abbia affatto questa proprietà, ma solo che l’ha in grado mediocre (φαύλως)43. Questo può essere interpretato solo nel senso che Aristotele non considera la scelta di un assioma non euclideo di pari importanza rispetto a quella dell’assioma euclideo. Per lui è una scelta logicamente possibile, ma non per questo ragionevole. Perché? Possiamo solo fare delle ipotesi, ma presumibilmente Aristotele avrebbe fatto riferimento alla maggiore definitezza della geometria euclidea: tutti i triangoli hanno la stessa somma angolare. (Certamente non avrebbe potuto cogliere il diverso grado di curvatura delle diverse geometrie iperboliche o ellittiche). È anche ipotizzabile che si abbia presto capito che esistono figure simili ma non congruenti solo all’interno della geometria euclidea. In ogni caso, Menelao sa che nella geometria sferica, a differenza di quella euclidea, un triangolo è chiaramente definito dai suoi angoli (I 18)44. Probabilmente era difficile rinunciare al tesoro di proposizioni del sesto libro degli Elementi. Questo spiega anche perché i Greci non elaborarono oltre gli approcci alla geometria non euclidea. Presumibilmente riconoscevano intuitivamente che non si sarebbero incontrate contraddizioni, ma consideravano la coerenza una condizione necessaria ma non sufficiente della verità matematica. Questo accadde solo con Leibniz, che fu probabilmente influenzato dalla rivoluzione della teologia filosofica del tardo Medioevo, secondo la quale Dio soltanto è legato al principio di contraddizione. È solo dopo questa svolta epistemologica che le riflessioni sul postulato delle parallele, che aumentarono nuovamente di intensità alla fine del XVIII secolo, portarono in una direzione (43) Su questa distinzione Metaph. 1022b35. (44) Ciò non significa che i greci fossero a conoscenza della famosa prova di John Wallis sul fatto che l’esistenza di figure simili ma non congruenti implica il quinto postulato (anche se certamente avrebbero potuto comprenderla). Si veda “De Postulato Quinto; & Quinta Definitione Lib. 6. Euclidis; Disceptatio Geometrica”, in Wallis (1693), pp. 665-678.

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completamente diversa da quella dei greci. Inoltre, numerose idee matematiche che oggi associamo alla geometria non euclidea - la generalizzazione della geometria sferica in quella ellittica, la nozione di curvatura positiva o negativa di un piano, la ricerca di modelli euclidei di geometrie non euclidee allo scopo di dare una dimostrazione relativa di consistenza, l’assiomatizzazione rigorosa, l’estensione a più dimensioni - erano ovviamente del tutto estranee ai greci. Tóth non ha mai sostenuto il contrario. A mio parere, egli è molto più incline agli anacronismi con le idee matematico-filosofiche che con quelle matematiche, ad esempio con le sue convinzioni formalistiche, che erano ben lontane dai Greci. Gli approcci alle riflessioni non euclidee tra i greci probabilmente non si spingevano nemmeno tanto lontanto, come fino all’elaborazione della geometria iperbolica da parte di Saccheri. Non sarebbe dunque stato meglio per Tóth parlare di tracce di geometria antieuclidea in Aristotele? Ebbene, la differenza cruciale con Saccheri è che i greci non sembrano aver creduto all’inconsistenza di queste geometrie alternative. Il quinto postulato non era - in questo Tóth ha certamente ragione - un segno di ingenuità, ma piuttosto una risposta consapevole al fallimento dei tentativi di dimostrazione. Ma poiché i greci, a differenza della maggior parte dei pensatori dell’epoca moderna, non identificavano la coerenza matematica con la verità, le loro idee non dovrebbero nemmeno essere chiamate “non euclidee”, perché ciò suggerisce l’accettazione di queste idee come vere. Abbiamo bisogno di un terzo termine che denoti l’accettazione non della verità, ma della coerenza. Propongo per questo il termine “contraeuclideo”. Forse la disputa sulla scoperta storico-matematica altamente significativa di Tóth può essere disinnescata parlando in futuro dei passaggi contraeuclidei di Aristotele.

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Antonio Moretto Tre momenti della mia frequentazione con Imre Toth: Tübingen, Regensburg, Verona

Introduzione Il presente contributo riprende, con ampliamenti e modifiche, il testo Meine Bekanntschaft und Zusammenarbeit mit Imre Tóth, in Andreas Becker e Christian Reiß (a cura di), Imre Tóth (1921-2010) und die Institutionalisierung der Wissenschaftsgeschichte an der Universitãt Regensburg, Universitätsverlag Regensburg, 2021, in occasione del centesimo anniversario della nascita di Tóth, e del cinquantesimo anno dall’istituzione della cattedra di “Storia della scienza” nell’Università di Regensburg. Questo contributo riguarda la mia frequentazione del prof. Imre Tóth, e affianca ai ricordi della persona considerazioni sulle tematiche proposte in alcune sue pubblicazioni. Il saggio si articola secondo tre momenti: le circostanze che me lo fecero conoscere prima del mio periodo di ricerca presso l’Università di Regensburg; il mio rapporto col prof. Tóth durante la mia permanenza a Regensburg; la prosecuzione del mio rapporto scientifico col prof. Tóth dopo Regensburg. (1) Andreas Becker - Christian Reiß (Hg.) Imre Tóth (1921-2010) und die Institutionalisierung der Wissenschaftsgeschichte an der Universitãt Regensburg, Universitãtsverlag Regensburg 2021. Ringrazio sentitamente i curatori del volume, Andreas Becker e Christian Reiß, e la Universitätsverlag Regensburg, per il permesso di utilizzare il contenuto del mio articolo Meine Bekanntschaft und Zusammenarbeit mit Imre Tóth.

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Tübingen La mia conoscenza del prof. Imre Tóth risale all’ottobre 1983 a Tübingen, dove l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, congiuntamente col Philosophisches Seminar dell’Università di Tübingen, aveva promosso un öffentliches Kolloquium su Hegel und die Naturwissenschaften2, al quale partecipavo con una Borsa di Studio del suddetto Istituto. All’epoca del Kolloquium di Tübingen facevo già parte del “gruppo di ricerca sulla filosofia classica tedesca” diretto dal prof. Franco Chiereghin dell’Università di Padova. Tóth presentò una relazione sulla filosofia matematica e la dialettica hegeliana3. Nel saggio che ne derivò, Tóth presenta la nascita della geometria non euclidea come risultato dell’autosviluppo della coscienza geometrica. Con riferimento al testo degli Elementi di Euclide, la discussione sullo status del postulato euclideo delle parallele, E, conduce alla consapevolezza della sua indipendenza logica dagli altri postulati, e conseguentemente dell’analoga situazione in cui versa il postulato non-E. Ogni decisione riguardante l’attribuzione della verità ad una ed una sola delle due proposizioni formalmente opposte, E e non-E, conduce a difficoltà sia logiche, sia ontologiche. Nel dominio della soggettività queste difficoltà si articolano nella scissione e lacerazione della coscienza geometrica. Lo stato di questa “coscienza infelice” può venire superato solo con il processo fenomenologico della Aufhebung. Il soggetto della

(2) Da cui derivò il volume Hegel und die Naturwissenschaften, a cura di Michael John Petry, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1987. Partecipavano al convegno come relatori, e figurano nel volume citato, Konrad Gaiser, Dieter Wandschneider, Manfred Gies, Imre Tóth, Louis Eduard Fleischhacker, Péter Várdy, Vittorio Hösle, Michael John Petry, Karl-Heinz Ilting, Dietrich von Engelhardt; completano il volume due appendici curata da Wolfgang Neuser: Die naturphilosophische und naturwissenschaftliche Literatur aus Hegels privater Bibliothek (ivi, pp. 479-499), e Sekundärliteratur zu Hegels Naturphilosophie (1802-1985) (ivi, pp. 501-542). (3) Pubblicato come Imre Tóth, Mathematische Philosophie und hegelsche Dialektik, in Hegel und die Naturwissenschaften, pp. 89-182.

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geometria toglie sé stesso [hebt sich selbst auf] mediante una nuova ripetuta e non involutiva negazione dialettica del sé, e l’adozione di una geometria rispetto ad un’altra è frutto esclusivo della sua libera decisione. Con la geometria non-euclidea sorge uno stato di coscienza di quella libertà che caratterizza lo sviluppo complessivo della matematica moderna4. Nella Diskussion D. Wandschneider e K. Gaiser e si dichiararono «fasziniert» da questa relazione di Tóth; e Gaiser aggiunse che si trattava di un «großartiges Exercitium in hegelscher Dialektik, aber an dem Paradigma der Geschichte der Geometrie»5. Per ciò che mi riguarda, il mio interesse per le geometrie non-euclidee risaliva alla mia formazione matematica all’Università di Padova; e sull’Aufhebung e sulla Negation mi ero soffermato in modo particolare con riferimento alla filosofia hegeliana sull’infinito matematico nella Logica di Jena e nella Scienza della logica6, ma era la prima volta che vedevo utilizzate queste categorie logico-fenomenologiche in una valutazione filosofico-matematica dello sviluppo storico di una scienza, in questo caso la geometria7. Nel Seminar venivano discussi diversi aspetti della filosofia di Hegel, con particolare riguardo alla filosofia della natura, e la discussione proseguiva anche negli incontri conviviali serali. Nel corso di uno di questi il prof. Tóth e il prof. Petry osservarono che era strano che nella letteratura contemporanea mancasse un lavoro dedicato alla riflessione (4) Cfr. Tóth, Mathematische Philosophie und hegelsche Dialektik, cit, pp. 89-90, 174-178. (5) Cfr. Tóth, Mathematische Philosophie, cit., pp. 174, 177. (6) Rinvio a questo proposito alla sezione “Le Geometrische Studien” e al paragrafo “Il concetto di 'limite' nella logica hegeliana” del cap. I, e al cap. III, “La sezione 'Rapporto semplice' della 'Logica di Jena'”, del volume Antonio Moretto, Hegel e la “matematica dell’infinito”, Verifiche, Trento 1984 (che riproduce con alcune varianti il contributo Antonio Moretto, Il rapporto semplice, in G.W.F. Hegel, Logica e metafisica di Jena (1804/05), a cura di Franco Chiereghin et al., Verifiche, Trento 1982, pp. 265-306). (7) Così pure Péter Várdy, Zur Dialektik der Metamathematik, in M.J. Petry (a cura di), Hegel und die Naturwissenschaften, pp. 205-243, qui p. 205, mostra «eine Entwicklung im hegelschen Sinne» nella metamatematica.

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hegeliana sulla matematica con riferimento al calcolo infinitesimale, dal momento che nella Lehre vom Sein del 1832 della Wissenschaft der Logik vi sono ben tre Note molto ampie sull’infinito matematico. Io intervenni, osservando che era prossimo ad essere pubblicato un contributo di notevole ampiezza. Si trattava del mio lavoro sulla matematica in Hegel, Hegel e la “matematica dell’infinito”, all’epoca in corso di pubblicazione. Tóth e Petry si mostrarono particolarmente interessati e inviai loro il volume non appena fu pubblicato nel 19848. Proseguendo nella mia ricerca hegeliana, partecipai come relatore alla “Hegel-Tage Amersfoort 1985: Arbeitstagung über Hegels Philosophie der Natur, organizzato per conto della Internationale Hegel Vereinigung”9; e sempre nel 1985 mi giunse una telefonata del prof. Tóth, alla quale fece séguito una lettera con un’informazione dettagliata, in cui mi proponeva di fare un periodo di ricerca a Regensburg come suo wissenschaftlicher Mitarbeiter per il progetto di ricerca sostenuto dalla “Volkswagenstiftung Hannover: Antike in der Moderne. Die Zenonschen Paradoxien”, riguardante l'influsso e la ricezione del concetto dell'infinito attuale nel pensiero matematico moderno10. La mia partecipazione riguardava in particolare la recezione e la rielaborazione di alcuni aspetti del pensiero antico filosofico-matematico sull’infinito nel pensiero filosofico e matematico moderno. Il progetto era diretto dal prof. dr. Imre Tóth, titolare della cattedra di “Allgemeine Wissenschaftsgeschichte” presso la locale Università. Nell’ambito di questo progetto il prof. Tóth era d’accordo che mi occupassi in modo particolare (8) Moretto, Hegel e la “matematica dell’infinito”, cit., supra. (9) Da cui derivò il volume Hegels Philosophie der Natur, a cura di R.-P. Horstmann - M.J. Petry - Klett-Cotta, Stuttgart 1986; nel volume compare il mio contributo A. Moretto, L’influence de la “mathématique de l’infini” dans la formation de la dialectique hégélienne, in Hegels Philosophie der Natur, cit., pp. 175-196. (10) Avevo già pubblicato Matematica e contraddizione nella “Logica di Jena” (1804/1805) di Hegel, “Verifiche”, 1981, pp. 291-301; “Limite” e “analogia” in alcuni aspetti della filosofia critica di Kant, “Verifiche”, 1986, pp. 341-364.

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della filosofia della matematica di Hegel e di Kant11. Io accettai, e presi residenza a Regensburg dal 15 settembre1986 al 31 ottobre 1989 per questa collaborazione12. Prima che assumessi ufficialmente l’incarico, il prof. Tóth mi propose di recarmi a Regensburg per una prima ambientazione, cosa che feci dopo aver partecipato a Bochum come relatore a una Tagung interdisciplinare presso la Ruhr-Universität sul concetto dell’infinito matematico nel 19mo secolo13. Concluso il convegno di Bochum, prima di rientrare a Padova mi recai a Regensburg. Tóth mi ospitò in una sua seconda abitazione, in Niederleierndorf, che utilizzava come studio, biblioteca, officina artistica. Molto spazio era occupato non solo da libri e documentazione bibliografica, ma anche da alcuni suoi lavori artistici, opere grafiche e scultoree, che potevo ammirare, e che mi presentavano una personalità in cui matematica, filosofia e arte non erano separate14.

(11) Sulla filosofia kantiana avevo già pubblicato i saggi Antonio Moretto, “Limite” e “analogia” in alcuni aspetti della filosofia critica di Kant, “Verifiche”, 1986, pp. 341-364; Id, La grandezza infinita e la teoria euclidea delle rette parallele. Osservazioni sul punto di vista di Johann Schultz e di Kant, in AA.VV., Metafisica e modernità. Studi in onore di Pietro Faggiotto, a cura di F. Chiereghin e F.L. Marcolungo, Antenore, Padova, 1993, pp. 113-133. Pietro Faggiotto, prof. di “Filosofia teoretica” all’Università di Padova, seguiva il procedere dei miei lavori su Kant. (12) Nel periodo della mia permanenza a Regensburg e in quello immediatamente precedente pubblicai anche i saggi Hegel e il “calcolo logico”, Verifiche, Padova 1986, pp. 3-42; e il volume Questioni di filosofia della matematica nella “Scienza della logica” di Hegel. “Die Lehre vom Sein” del 1831, Verifiche, 1988. (13) La Tagung, organizzata dal prof. Gert König “im Rahmen des Sonderforschungsbereichs 119”: “Wissen und Gesellschaft im19. Jahrhundert”, si tenne nei giorni 2-4 giugno 1986. Da questa partecipazione derivò il contributo Antonio Moretto, Hegels Auseinandesetzung mit Cavalieri und ihre Bedeutung für seine Philosophie der Mathematik, in Konzepte des mathematisch Unendlichen im 19. Jahrhundert, a cura di G. König, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1990, pp. 64-99. (14) Sull’attività artistica di Tóth cfr. in questo volume il contributo di Andreas Becker - Christian Reiß, Imre Tóth e la Storia della scienza a Regensburg - un volume collettivo e una esposizione virtuale, con la segnalazione degli articoli di Vittorio Hösle e Agnes Erdélyi.

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Regensburg Ero affascinato dall’estrema naturalezza con cui Tóth si muoveva in diversi aspetti della speculazione matematico-filosofica. Ascoltavo con grande interesse le sue osservazioni condotte con profondità e chiarezza sull’assiomatica antica, sul principio di non contraddizione e del terzo escluso, sulle geometrie non euclidee, sulla sistemazione dell’analisi nell’Ottocento, soprattutto per merito di Dedekind e Cantor, che coronava una ricerca sull’infinito in matematica che risaliva ai Pitagorici, sulla teoria cantoriana degli insiemi, sulla teoria delle categorie, sulle geometrie non euclidee, sull’analisi non-standard. Il prof. Tóth mi aveva chiesto se fossi stato disponibile a tradurre in italiano il suo lavoro sulla rilevanza del pensiero di Zenone nel Parmenide di Platone. Questo testo era in corso di costruzione da parte di Tóth, il quale mi affidava di volta in volta gruppi di pagine scritte in tedesco, che io traducevo in italiano. Il lavoro di traduzione iniziato nella primavera del 1987 proseguì fino all’estate del 1988. Il prof. Tóth era spesso insoddisfatto della sistemazione che stava dando al suo testo tedesco e ne riscriveva a volte interi paragrafi, che io provvedevo a ritradurre. La discussione sulla traduzione era per me anche un’occasione per apprendere aspetti concettuali collegabili al contenuto del testo illustrati direttamente da Tóth. Egli mi aveva detto che stava preparando anche un testo in francese su questo argomento, e il protrarsi del lavoro anche nella fase della revisione finale non permise di concludere l’opera entro il tempo previsto dalla casa editrice contattata, cosicché il primo ad essere pubblicato fu il saggio in francese15. Il testo italiano di Tóth da me tradotto (non esiste il testo tedesco), (15) Imre Tóth, Le problème de la mesure dans la perspective de l’être et du non-être. Zénon et Platon, Eudoxe et Dedekind: une généalogie philosophico-mathématique, in Mathématiques et philosophie de l’antiquité à l’âge classique. Hommage à Jules Vuillemin, a cura di R. Rashed, Édition du CNRS, Paris 1991, pp. 21-99. Questo testo è citato in nota da Tóth alle pp. 30-31 de I paradossi di Zenone, cit. infra.

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I paradossi di Zenone nel Parmenide di Platone, fu quindi pubblicato a Napoli nel 1994 da un altro editore, l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, stampato da “L’Officina Tipografica”16, e fu ristampato nel 2006 sempre per conto dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici a Napoli da Bibliopolis. Il titolo riportato è quello che egli diede fin dall’inizio al suo lavoro di Regensburg. Tóth preferiva il termine logoi17, in italiano ragionamenti, a quello di paradossi, che viene evidenziato dal titolo, perché il testo zenoniano riportato da Aristotele presenta solo sintetici ragionamenti, che consistono in un enunciato: «ciò che si sta muovendo verso il traguardo (to telos) deve prima giungere alla metà» (nella Dicotomia)18; e «nella corsa il più veloce non potrà mai raggiungere il più lento; perché l’inseguitore deve prima necessariamente giungere nel punto da cui il fuggitivo è già partito, e in questo modo il più lento mantiene necessariamente un certo vantaggio» (nel cosiddetto Achille)19. Riferendosi al testo zenoniano della Dicotomia, Tóth commenta: «Estrema sobrietà, ricchezza di contenuto, incisività dell’affermazione, concentrazione drammatica e tensione del contenuto di idee: lo stile di Zenone è laconico come quello di Esopo. Maxima e minimis: nessuna parola è superflua»; e, con riferimento all’Achille, Tóth rileva opportunamente la notevole analogia con l’inseguimento di Ettore da parte (16) Imre Tóth, I paradossi di Zenone nel Parmenide di Platone, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 1994, pp. i-ix, 1-106. Tóth me ne donò una copia con calligramma e dedica datata “Parigi, 3 Nov. 1994”. (17) Aristot. Phys. 239 b 9: «Quattro sono i ragionamenti (logoi) sul movimento di Zenone, che offrono i noti imbarazzi a chi tenti di risolverli», trad. da Alessandro Lami in I presocratici. Testimonianze e frammenti da Talete a Empedocle, a cura di Alessandro Lami, con un saggio di Walter Kranz, testo greco riprodotto a fronte: H. Diels e W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker [Berlin 1951-1952], Bur, Milano 1998, pp. 300-301; dove sostituisco “discorsi” con “ragionamenti”. Utilizzo la traduzione di Lami anche per le altre citazioni di Zenone. Tra le valenze del termine greco polisemantico logos ricordo ancora quelle corrispondenti ai termini italiani: parola, discorso, argomento e, in matematica, rapporto. (18) I paradossi di Zenone, cit., p. 11. (19) I paradossi di Zenone, cit., p. 39.

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di Achille nell’Iliade20. A causa degli interventi antagonisti di Apollo e di Pallade Atena in favore rispettivamente di Ettore e di Achille, e dell’indecisione di Zeus, non è possibile che Achille raggiunga Ettore, ma non è nemmeno possibile che Ettore si liberi da Achille: «come in un sogno (hos d’en oneiro)»21. Alla fine «un giudizio del padre degli dèi decide ciò che è indeciso»: Achille raggiunge Ettore e lo uccide. I due testi zenoniani non dicono altro, però su queste premesse si innesta inevitabilmente una iterazione infinita che conduce alla conclusione, che non si dà il movimento22. Si tratta peraltro di un ragionamento corretto sotto il profilo matematico. La paradossalità nasce semmai dal confronto col mondo fisico, in cui il mobile raggiunge il telos, e il più veloce raggiunge il più lento23, oppure si palesa più sottile nell’indimostrabilità della scelta tra due teorie opposte che hanno una base comune, come mostra l’argomentazione logico-matematica di Tóth. Il testo I paradossi di Zenone nel Parmenide di Platone, dopo una Prefazione, è diviso in quattro sezioni: l’Introduzione, in cui si presenta una critica dei tradizionali modelli interpretativi24; la Parte prima, in cui tratta de La dicotomia e il suo linguaggio; la Parte seconda, che tratta de Il cosiddetto Achille25; la Conclusione. Nella Prefazione Tóth afferma di aver proposto una interpretazione (20) Iliade, Libro XXII, vv. 136-259. (21) Iliade, Libro XXII, v. 199. (22) La conclusione di Aristotele, che il telos viene raggiunto, è opposta a quella di Zenone: me kineisthai: Arist., Phys., 239 b 11-12. (23) Per confutare gli argomenti di Zenone contro il moto, Antistene il Cinico, si alzò in piedi e si mise a camminare: cfr. H. Diels - W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1951-1952, 29. Zenon, A 15 (cfr. la Nota di A. Lami, in I presocratici. Testimonianze e frammenti, cit., p. 300). (24) Tóth, I paradossi di Zenone nel Parmenide di Platone, cit., pp. 2-3. (25) Tóth presentò una relazione della Parte prima nell’aprile 1985 al Convegno Israel Colloquium for the History of Philosophy and Sociology of Science, col titolo Mathematics and Philosophy in Greek Antiquity. Zeno’s Paradoxies Reinterpreted; della Parte seconda al Convegno Federigo Enriques, filosofo e scienziato, Bologna, dicembre 1986, e all’Università di Oxford nel maggio 1987.

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del Parmenide differente dalle esegesi classiche, e che, a quanto gli constava, era la prima volta che si faceva «il tentativo di offrire un’interpretazione di questo testo misterioso nel contesto della ricerca geometrica della sua epoca», particolarmente impegnata nel problema dell’assegnazione di una misura a una grandezza incommensurabile con l’unità di misura: ad esempio data la diagonale del quadrato, qual è la sua misura rispetto al lato? Filosoficamente il quesito concerne «lo statuto ontologico di ciò che si chiama spontaneamente la lunghezza della diagonale: è possibile, è ammissibile assegnare il valore ontico dell’essere a una misura incommensurabile, o piuttosto bisogna necessariamente negare la sua esistenza ed assegnare ad ogni ragione irrazionale il valore ontico del non essere?»26. Ma l’insieme infinito delle misure per difetto e per eccesso della diagonale conduce ad una determinazione unica della misura incommensurabile della diagonale, anche se le si assegna il valore ontico del non essere, sicché «il non essere è dunque conoscibile e in un modo o nell’altro siamo costretti ad attribuirgli l’essere»27. Nel Parmenide «Platone adduce un unico argomento: il più giovane non può mai diventare uguale in età al più vecchio”. La differenza finita di età è costante all’aumentare del tempo, ma il rapporto positivo tra l’età del più vecchio e del più giovane diventa sempre più piccolo mantenendosi maggiore di uno. Tóth mostra che l’argomento apparentemente triviale in realtà contiene nascosti in sé i paradossi della Dicotomia e del cosiddetto Achille28. Per la sua interpretazione della Dicotomia e dell’Achille, Tóth ritiene necessario il riferimento alla matematica dell’epoca platonica e preplatonica: in particolare tenendo conto dei contributi dei Pitagorici per i metodi di approssimazione con i numeri laterali e diagonali29, (26) Tóth, I paradossi di Zenone, cit., p. VII; nella citazione “ragione” è nel senso di “rapporto, ratio”. (27) Tóth, I paradossi di Zenone, cit., p. VIII. (28) Tóth, I paradossi di Zenone, cit., p. 1. (29) Cfr. il contributo di Probst e Chemla nel presente volume.

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e dei “fossili” (così si esprimeva Tóth) riscontrabili in Euclide e Aristotele sulle geometrie non-euclidee, e sulle procedure dell’antanairesi. Però non si limita a questo strumento. Infatti egli esamina la fecondità degli argomenti zenoniani quando li si esamini non solo con il contributo dell’analisi matematica classica, ma li si interroghi anche con il concetto cantoriano del transfinito ordinale. In questo senso Tóth osserva che la conclusione di Aristotele, c’è il movimento, opposta a quella di Zenone, non c’è il movimento, richiede che non sia eseguibile un passaggio dal dominio del finito, 0, 1, 2 ... n, n+1 ... al dominio transfinito dell’infinito attuale. Georg Cantor ha introdotto questo ragionamento, chiamandolo «il secondo principio di generazione», caratterizzandolo come «una generazione dialettica di nuovi concetti, liberamente creati»30. Per un’analisi dell’interpretazione di Tóth dei paradossi di Zenone proposta nel Parmenide, sullo sfondo della sua opera complessiva, con particolare riguardo all’utilizzazione della matematica dell’epoca platonica e preplatonica, rinvio al testo di Siegmund Probst e Karine Chemla, contenuto in questo volume, e mi limito a prendere in considerazione alcuni temi toccati nel testo del 1994. Secondo le usuali interpretazioni geometriche, il procedimento dicotomico consiste nel fatto che comunque, tra due punti (segni) X, Y, dati nell’ordine, esiste sempre un terzo H compreso tra i due, ossia tale che X precede H, che a sua volta precede Y (non è necessario che ci sia una relazione metrica tale che XH = HY), cosicché, vista l’iterabilità del processo, tra X e Y giacciono infiniti punti, costituenti un syneches aristotelico e ovunque denso31. Questa divisibilità viene indicata da Tóth come una divisibilità forte o binaria, e in questo modo è stata generalmente considerata dagli interpreti la divisibilità della dicotomia. Questa divisibilità viene invece presa in considerazione da Zenone nel logos della moltitudine. (30) Georg Cantor, Gesammelte Abhandlungen mathematischen und philosophischen inhalts, 1832: pp. 148, 194. Cfr. Tóth, I paradossi di Zenone, cit., p. 8. (31) Tóth, I paradossi di Zenone, cit., pp. 6-7. Cfr. Arist., Phys. 185 b 10-11, 227 a 10-15.

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L’analisi del testo condotta da Tóth porta invece ad un diverso risultato: la divisibilità della dicotomia zenoniana è una divisibilità debole o ternaria: «se sono dati tre segni, X, H, Y, allora esiste anche un quarto segno M, compreso tra X e H, oppure tra H e Y»32: «l’infinita dicotomia della dicotomia definisce una divisibilità debole o ternaria, e produce un insieme di punti che è ovunque discontinuo, il discontinuo di Cantor, la cui presenza nascosta nel testo della dicotomia gli antichi non avrebbero mai potuto presagire»33.

Tóth dedica ampio spazio al discontinuo di Cantor nella sua interpretazione della dicotomia34. Già Adolf Grü nbaum35, Modern Science and Zeno’s Paradoxes, 1967 e altri dopo di lui hanno utilizzato i numeri transfiniti di Cantor per la soluzione dei paradossi di Zenone, e l’attenzione per questo tema con riferimento a Grünbaum e Tóth è presente in un recente lavoro di Paolo Bussotti sul continuo e il mutamento36. Ma proprio col lavoro di Tóth si tratterebbe, a mio avviso, della prima volta in cui nell’interpretazione della dicotomia viene utilizzato l’insieme ternario di Cantor: un insieme di punti perfetto, ovunque discontinuo, di misura di Lebesgue nulla, con cardinalità non numerabile. (32) Cfr. Tóth, I paradossi di Zenone, cit., p. 26. Tóth osserva che, sebbene non ci sia una partenza, «per raggiungere la metà H(n), ciò che si sta muovendo verso la metà H(n) deve prima aver raggiunto già una posizione», che egli denota con M (Meson, medio): ibidem. (33) Tóth, I paradossi di Zenone, cit., p. 7. (34) Tóth, I paradossi di Zenone nel Parmenide di Platone, cit., pp. 6-7; Ivi, pp. 3238: il paragrafo “La lingua ternaria della dicotomia e il discontinuo di Cantor”. Cfr. Arist., Phys. 185 b 10-11, 227 a 10-15. (35) Adolf Grünbaum, Modern Science and Zeno’s Paradoxes, Connecticut Wesleyan University Press, Middletown 1967. Tóth mi regalò il volume di Adolf Grünbaum, Philosophical Problems of Space and Time, in cui un capitolo e due ampi commenti in Nota sono dedicati ai paradossi di Zenone. (36) Paolo Bussotti, La natura del continuo e del mutamento nei paradossi di Zenone, “Archives Internationales d’Histoire des Sciences”, 10.1484/J.ARIHS.5.127404, pp. 136172. Bussotti giudica il volume di Toth un «testo stimolante relativo ai paradossi nel Parmenide platonico», ivi, p. 138, n. 2, e quello di Grünbaum «un lavoro stimolante per il collegamento dei paradossi zenoniani con la scienza moderna», ivi, p. 166, n. 40. Bussotti nel paragrafo dedicato alla dicotomia non si sofferma sull’insieme ternario di Cantor; si sofferma invece nel paragrafo su “Achille e la tartaruga”: rispettivamente ivi, pp. 161-163, 152-153.

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Particolarmente rilevanti le considerazioni sull’induzione in Zenone, con riferimento all’Achille, collegate con l’utilizzazione dei numeri diagonali e laterali. Tenendo presente che per n = 0, 1, 2, 3 ... la successione dei numeri diagonali e laterali, {D, L}, è [1,0], [1, 1], [3 ,2], [7, 5], [17, 12], Tóth ricorda che nel Menone, viene citato il rapporto [3, 2], in Repubblica il rapporto [7, 5], e che nel Teeteto 195E-196A “viene addotta la regola di ricorsione L(n + 1) = L(n) + D(n), per n = 3, vale a dire 7 + 5 = 12”. Secondo Tóth si tratterebbe dell’esempio più antico di induzione infinita37. L’assioma dell’induzione infinita di Peano, sopra formulato per il passaggio da n ad n + 1, «fu formulato per la prima volta da Zenone col suo stile conciso ed incisivo: “è lo stesso pronunciare la proposizione una volta [apax eipein] e dirla sempre [kai aei legein]”»38. Tóth vi vedeva in nuce il principio di induzione: se una proprietà vale una volta [apax] (base dell’induzione), tramite il passo dell’induzione (la regola del passaggio da n a n + 1), allora essa varrà sempre [aei]. Secondo Tóth l’assioma logico del terzo escluso è decisivo nell’argomentazione di Zenone contro il movimento, e avrebbe origine «nella dimostrazione, condotta con l’aiuto di una infinita antanairesis, dell’incommensurabilità della diagonale del quadrato con il lato». La proposizione del terzo escluso «è stata applicata per la prima volta negli argomenti di Zenone per una dimostrazione apagogica nel campo dell’infinità», come veniva segnalato da Enriques già nel 191939. Enriques vi sosteneva che «il legame di siffatto tipo d’argomentazione coll’analisi dell’infinito non è contingente, ma tiene a cause profonde che giova mettere in luce». (37) Sull’utilizzazione da parte di Platone dei numeri diagonali e laterali si veda Tóth, I paradossi di Zenone, cit, pp. 62-65. A questo proposito si rinvia al contributo di Probst e Chemla nel presente volume. Sull’induzione Tóth rinvia a H. Freudenthal, Die vollständige Induktion in der Antike, in Arch. Int. Hist. Sci 1953, 31. (38) Simpl. Phys. 140, 34; B.L. van der Waerden, Math. Ann. 1938: 148l. Cfr. Tóth, I paradossi di Zenone, cit., p. 66. (39) Tóth, I paradossi di Zenone, cit., p. 10; Federigo Enriques, «Bollettino della Mathesis», 1919: 9; cfr. anche Federigo Enriques - Giorgio De Santillana, Pytagoriciens et Éléates, Paris 1936, pp. 52-53.

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L’interesse di Tóth per la filosofia di Zenone non era finalizzato solo all’interpretazione delle considerazioni di Platone nel Parmenide: egli considerava Zenone un autore fondamentale per lo sviluppo della congiunzione tra filosofia e pensiero matematico, come veniva ribadito nei nostri colloqui, e come risulta dal volume I paradossi di Zenone nel Parmenide di Platone. Per ciò che riguarda altri logoi zenoniani, Tóth ricorda l’argomento della moltitudine [polla], nel quale viene impiegata la divisibilità binaria, che «conduce ad un sistema non-standard di grandezze infinitesime, con una struttura cosiddetta non archimedea»40. In questo senso sono importanti le considerazioni zenoniane sulla “moltitudine”: «se vi è una pluralità di cose [polla], infinite [apeira] sono le cose che sono; sempre infatti diverse cose ci sono in mezzo [metaxy] tra la cose che sono, e di nuovo diverse cose in mezzo tra queste e quelle, e così sono infinite le cose che sono». Commenta Simplicio: «e così allora l’infinito [apeiron] secondo moltitudine [to kata to plethos apeiron] dimostrò egli in base all’argomento della bisezione [ek tes dichotomias]»41. Aristotele ci informa in questo modo sull’aporia del luogo: «Le difficoltà che Zenone poneva, secondo cui “se il luogo è un che, in che cosa sarà esso?”, non è disagevole a risolvere. In effetti, niente impedisce che sia in altro il primo luogo, però non nel senso che è quello un luogo. La difficoltà di Zenone, in effetti, richiede un qualche discorso: se infatti, ogni cosa che è, è in un luogo, è chiaro che vi sarà anche un luogo del luogo, e questo processo andrà avanti all’infinito [eis apeiron]»42. Tóth commenta: «se è dato un luogo, ad es. il luogo vuoto, Ø, è contenuto nel luogo {Ø}, e così via all’infinito ... allora anche un insieme w di luoghi, {...{{Ø}}...}, dovrebbe essere contenuto simultaneamente [...] in un luogo (40) Tóth, I paradossi di Zenone, cit., p. 7; cfr. Simplicio, in Aristotelis Physicorum libros quattuor priores commentaria, H. Diels, Berlin 1882, pp. 139-141. (41) Simpl., Phys. 140, 27; trad. di A. Lami, in I presocratici, cit., pp. 310-311, in parte modificata: traduco plethos con moltitudine al posto di pluralità e apeiron con infinito al posto di indefinito. (42) Aristot. Phys. D 3. 210 b 22. trad. di A. Lami, in I presocratici, cit., pp. 300-301.

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transfinito, w + 1». Però un simile luogo non può esistere; precisa infatti Tóth che per poterne affermare l’impossibilità, questo luogo deve prima essere definito: definizione impossibile perché Zenone nega la possibilità della ricorsione transfinita43. Nel testo I paradossi di Zenone nel Parmenide di Platone, viene ricordato anche l’argomento zenoniano “lo stadio”, col riferimento ad Enriques e alla relatività del moto: «Nel suo La relatività del movimento nell’antica Grecia Federigo Enriques fa notare che la relatività del movimento fu tematizzata per la prima volta da Zenone (nell’aporia dello stadio)»44. Non compare l’argomento della freccia che muovendo sta ferma [he oistos pheromene hesteke], di cui peraltro si parlava nei nostri colloqui a Regensburg, logos che Aristotele riteneva non essere concludente se non si accetta l’ipotesi che il tempo sia costituito da istanti [ek ton nyn], intesi come atomi temporali45. Tóth attribuiva grande importanza alla sua ricerca sui “paradossi di Zenone nel Parmenide di Platone”46, com’è dimostrato ad esempio da altri suoi lavori: qui mi limito a ricordare Lo schiavo di Menone. Il lato del quadrato doppio, la sua misura non misurabile, la sua ragione (43) Tóth, I paradossi di Zenone, cit., pp. 8-9. Tóth ricorda anche Plato, Parm., 138 B. Osservo che in questa rappresentazione degli ordinali fino a w + 1 “tutto è costruito col niente”, come disse in una conferenza Aldo Bressan, professore di matematica e logica all’Università di Padova, a proposito della costruzione degli ordinali transfiniti di von Neumann a partire dall’insieme vuoto. Mutatis mutandis, ricordo che Leibniz diceva che la sua “dyadica” rappresentava una “creatio ex nihilo”. (44) Il riferimento è a Federigo Enriques, La relatività del movimento nell’antica Grecia, “Periodico di matematica”, 1921: 82; cfr. anche Id., La polemica eleatica, “Periodico di matematica”, 1923: 85; e Federigo Enriques - Giorgio De Santillana, Pytagoriciens et Éléates, Paris 1936, pp. 39, 49-50. Cfr. Tóth, I paradossi di Zenone, cit., p. 4. (45) Cfr. Aristot., Phys., 239 b 30. A questo riguardo Tóth mi mostrava, sorridendo, la foto “istantanea” di un aereo in volo. (46) A questo proposito ricordo che Tóth, incontrando il suo collega prof. Kutschera nel corridoio adiacente alla loro comune stanza di lavoro (era l’inizio del 1987), gli disse di avere una nuova interpretazione del ruolo dei paradossi di Zenone nel Parmenide. Si veda anche l’interpretazione di Franz von Kutschera, Platons Parmenides, Walter de Gruyter, Berlin - New York 1995.

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irrazionale, a cura di E. Cattanei, Milano 1998; e il testo postumo Platon, a cura di Romano Romani, Cadmo, Fiesole 202047. A questo proposito è significativa la precisazione di Romano Romani, tratta dalla sua Prefazione al testo Imre Tóth, Le sorgenti speculative dell’irrazionale matematico nei dialoghi di Platone48: «Come ultima annotazione, rispettando quanto l’autore [Tóth] dice al termine del libro incompiuto, rinvio al libro, dello stesso Imre Tóth, dal titolo: I Paradossi di Zenone nel Parmenide di Platone ... Nel progetto iniziale del libro sull’irrazionale matematico in Platone, Toth pensava al volume sui Paradossi di Zenone nel Parmenide di Platone, come all’ultimo capitolo dell’opera». Verona Il rapporto di stima e di amicizia che si era instaurato con Tóth proseguì anche negli anni successivi, sotto forma di scambi di contributi scientifici e di partecipazione a Convegni. Mi limito a ricordare il Convegno Internazionale “Conoscenza e matematica”, 11-12 maggio 1989, tenutosi a Pavia, presso il Collegio Ghislieri49; il Convegno Hegel and Newtonianism svoltosi a Cambridge tra la fine di agosto e i primi di settembre del 198950; il Seminario organizzato a Napoli, 7-12 maggio 1990, (47) Per ulteriori informazioni si rinvia alle bibliografie di Elisabetta Cattanei, Bibliographie der Schriften von Imre Toth, (2000), e di Paul Schillinger e Siegmund Probst, Bibliographie Imre Tóth (1921-2021). (48) Imre Tóth, Le sorgenti speculative dell’irrazionale matematico nei dialoghi di Platone, a cura di Romano Romani e Paolo Pagli, Ets, Pisa 2018, p. 10; si veda a questo proposito il testo postumo Platon, a cura di Romano Romani, Cadmo, Fiesole 2020. (49) Convegno organizzato da Lorenzo Magnani, da cui derivarono i contributi: I. Tóth, Essere e non essere: il teorema induttivo di Saccheri e la sua rilevanza ontologica, e A. Moretto, Sul concetto di “rigore” secondo Lagrange nell’Analisi matematica. Aspetti “non costruttivi” della dimostrazione, pubblicati in AA.VV., Conoscenza e matematica, a cura di Lorenzo Magnani, Marcos y Marcos, Milano 1991, rispettivamente alle pp. 87-156; 409-426. (50) Convegno organizzato da Michael John Petry, con il sostegno dell’Istituto Italiani per gli Studi Filosofici. Cfr. i contributi I. Tóth, The Dialectical Sructure of Zeno’s Arguments; A. Moretto, Hegel on Greek Mathematics and Modern Calculus, in Hegel and Newtonianism, a cura di M.J. Petry, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht - Boston London 1993, risp. alle pp. 179-200, 149-165.

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dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici su “matematica e dialettica in Hegel”51. A Verona invitai Tóth per il Convegno Internazionale di Studi Scienza e conoscenza secondo Kant. Influssi, temi e prospettive, che ebbe luogo presso l’Università degli Studi di Verona nei giorni 11-13 ottobre 200152. Mi soffermo su alcuni aspetti della sua relazione, ripresi nel volume che derivò dal Convegno. Particolarmente rilevanti sono i richiami di Tóth ad Aristotele per l’indecidibilità dell’alternativa euclidea / non-euclidea, il quale nell’Etica eudemia sceglie questo esempio per illustrare la libertà, la libera scelta e decisione del soggetto53; e il confronto tra il punto di vista di Tommaso d’Aquino e di Descartes sull’assolutezza delle verità matematiche; il primo dei quali sostiene che nemmeno per miracolo la somma degli angoli di un triangolo potrebbe essere diversa da due angoli retti; il secondo che Dio è libero di fare anche altrimenti54. Tóth segnala l’importanza dei contributi di Girolamo Saccheri (1667-1733), e di Thomas Reid (1710-1796), per l’elaborazione di sequenze di proposizioni, rispettivamente, di geometria iperbolica e di geometria ellittica, nonché delle importanti riflessioni su questa problematica proposte da Abraham Gotthelf Kästner (1719-1800) e da Georg Simon Klügel (1739-1812). Per ciò che riguarda l’opera di Kant, (51) Seminario “Antonio Moretto - Imre Tóth, La dialettica hegeliana nel contesto della nascita e dello sviluppo della matematica moderna, 7-12 maggio 1990” (io presentai la mia relazione nella prima giornata, Tóth presentò la sua nelle altre). (52) Da cui derivò il volume Scienza e conoscenza secondo Kant, a cura di A. Moretto, Il Poligrafo, Padova 2004, con i contributi di Imre Tóth, Die historische Rolle und die theoretische Stelle Kants in nichteuklidische Gedankenbewegung, ivi, pp. 349-404, e Antonio Moretto, Tempo e memoria nella fondazione kantiana della matematica, ivi, pp. 527-551. Tóth aveva apprezzato, scrivendomi personalmente un biglietto, il mio volume Dottrina delle grandezze e filosofia trascendentale in Kant, Il Poligrafo, Padova 1999. Cfr. anche Tóth, Die historische Rolle, cit. p. 378. (53) Aristot., Anal. Pr. 66 a 11-15; De caelo, 281 b 4-6; Eth. Eud., 1222 b 35-36. Cfr. Tóth, Die historische Rolle, cit., pp. 367-370. Si vedano le osservazioni sul rapporto tra geometria ed etica di Probst e Chemla nel presente volume. (54) Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa theol., 3-ae suppl. Qu. 83, art. 3, ob. 2; R. Descartes (lettere a Mersenne del 27 maggio 1630, 2 maggio 1644); Tóth, Die historische Rolle, cit., pp. 353, 359.

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Tóth sottolinea in modo particolare: I) il saggio sulle forze vive, in cui Kant ipotizza che in mondi diversi dal nostro valgano geometrie differenti, con più di tre dimensioni, e che Dio avrebbe potuto scegliere anche un’altra geometria; II) il fatto che secondo Kant la proprietà degli assiomi geometrici, in quanto giudizi sintetici a priori, di essere assolutamente arbitrari e frutto della decisione del soggetto, svincoli la geometria dalla dipendenza dall’analisi di concetti già dati; III) che una figura non euclidea, il bilineo rettilineo, figura chiusa da due rette, non possa essere esclusa dalla geometria perché autocontraddittorio; IV) la conoscenza della ipotesi sulla possibilità di rette asintotiche, ossia rette distinte che lungo un verso possono avvicinarsi indefinitamente55. Il contributo veronese di Tóth sollecitò nuovamente il mio interesse sulla questione, che condusse alle pubblicazioni citate in nota56. Ritengo pertanto opportuno proporre qualche altra considerazione, in particolare sulla questione delle rette asintotiche. Va preliminarmente rilevato che (55) Cfr. Tóth, Die historische Rolle, cit., pp. 374-378, 385-394. Sul saggio sulle forze vive cfr. A. Moretto, Matematica, in L’universo kantiano. Filosofia, scienze, sapere, a cura di S. Besoli - C. La Rocca - R. Martinelli, Quodlibet, Macerata 2010, pp. 261-313, qui p. 287. L’affermazione che i giudizi sintetici a priori sono assolutamente arbitrari e frutto della decisione del soggetto va a mio avviso limitata dal fatto che essi dipendono anche dalla intuizione e dall’immaginazione del soggetto. Cfr. Moretto, Dottrina delle grandezze e filosofia trascendentale in Kant, pp. 116-128; Moretto, Matematica, cit., pp. 271-272. Sul bilineo rettilineo e sulle rette asintotiche cfr. Moretto, Matematica, cit., pp. 287-292, 292-300. (56) Antonio Moretto, Philosophie transcendantale et géométrie non-euclidienne, “Les cahiers philosophiques de Strasbourg”, vol. Second Semestre 2009, pp. 117-139; Id., Matematica, in L’universo kantiano. Filosofia, scienze, sapere, cit., pp. 261-313; Id., Kant and the Riemannian geometry, in The Architecture of Knowledge. Epistemology, Agency, and Science, a cura di E. De Caro - R. Egidi, Carocci, Roma 2010, pp. 265-277; Id., Kant e la geometria riemanniana, “Atti e memorie dell’Accademia Galileiana di Scienze, Lettere ed Arti. Parte III. Memorie della classe di Scienze Morali, Lettere ed Arti”, vol. CXXII, 2010, pp. 39-57; Id., L’infini potentiel et actuel dans la philosophie des mathématiques de Kant, in Kant et les Sciences. Un dialogue philosophique avec la pluralité des savoirs, a cura di S. Grapotte - M. Lequan - M. Ruffing, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 2011, pp. 107-115; Id., Kästner und Kant über die Grundlagen der Geometrie und das Parallelenproblem, in Eintauchen in die mathematische Vergangenheit, a cura di M. Hyksova - U. Reich, Rauner, Augsburg 2011, pp. 141-153; Id., Empiristische Philosophie und Parallelen Problem bei Kant, in Mathematische Streitflichter, hrsg. von I. Hupp u. P. Ullrich, Band 84 der Reihe Algorismus, Rauner, Augsburg 2017, pp. 140-151.

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anche dopo la pubblicazione della seconda edizione della Critica della ragion pura Kant si impegnò sulla questione della fondazione della geometria, in particolare sui tentativi di costruire l’edificio della geometria elementare in modo diverso da quello di Euclide. Questo punto di vista era molto diffuso tra i matematici dell’epoca, tra i quali Christian Wolff, che aveva cercato di fondare la teoria delle parallele senza ricorrere al postulato di Euclide57. Tóth mi aveva già fatto presente durante la mia permanenza a Regensburg che Kant era al corrente delle ricerche che si facevano per dare alla teoria delle parallele una sistemazione differente da quella euclidea, e che in questo si giovava delle indicazioni che gli provenivano dai lavori di Kästner e Klügel, e del matematico e predicatore di corte Johann Schultz, il quale era particolarmente competente sulle nuove proposte volte a sistemare la teoria delle parallele. Preoccupato degli attacchi che provenivano dal Philosophisches Magazin di Eberhard, che aveva arruolato anche i matematici Kästner e Klügel nella sua offensiva contro la filosofia critica, Kant aveva predisposto un testo, Über Kästners Abhandlungen, che inviò a Schultz affinché, dopo averlo controllato, lo proponesse come recensione, che comparve nella “Allgemeine Literatur Zeitung”, 24-27 settembre 179058. Entrambi i testi sono pubblicati nell’Akademie Ausgabe, Bd. XX59.

(57) Cfr. Moretto, Dottrina delle grandezze e filosofia trascendentale in Kant, Il Poligrafo, Padova 1999; Antonio Moretto, Matematica, in L’universo kantiano. Filosofia, scienze, sapere, cit., pp. 261-313. A questo proposito si tenga presente che il riferimento a Wolff è molto presente nelle lezioni di matematica tenute da Kant. Si veda a questo proposito A. Moretto, Herder’s Notes on Kant’s Mathematics Course, in Robert R. Clewis (Ed.), Reading Kant’s Lectures, Walter de Gruyter, Berlin - Boston 2015, pp. 418-453. (58) Si veda in proposito Immanuel Kant, Contro Eberhard. La polemica sulla “Critica della ragion pura”, a cura di Claudio La Rocca, Giardini, Agnano Pisano e Pisa 1994, che contiene un’ampia Introduzione di La Rocca (pp. 1-55), e i testi kantiani Su una scoperta secondo la quale ogni nuova critica della ragion pura sarebbe superflua da una più antica; la bozza kantiana, Per la recensione del secondo volume del “Philosophisches Magazin”, e Sulle trattazioni di Kästner. (59) Il testo kantiano nella parte superiore della pagina, in quello inferiore la recensione di Schultz. Cfr. Immanuel Kant, Akademie Ausgabe, Bd. XX, pp. 411-423.

Tre momenti della mia frequentazione con Imre Toth: Tübingen, Regensburg, Verona

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Ho già dato rilievo al fatto che Kant era al corrente anche del concetto non-euclideo delle rette asintotiche o asintoti rettilinei (che troverà collocazione sistematica nella geometria iperbolica), concetto che conosceva per lo meno tramite le Abhandlungen di Kästner e i lavori di Johann Schultz60. Tóth attribuisce a Kant anche la constatazione dell’«impossibilità di questa assunzione», vale a dire degli asintoti rettilinei, «che non si lascia mostrare», e che questo concetto rappresenta un'impossibilità quasi indubitabile, che conduce necessariamente a una «teoria delle parallele, che non solo è quella vera, ma anche l’unica possibile, chiaramente la teoria euclidea delle parallele», scambiando il testo di Schultz, che in quel caso aveva fatto una sua integrazione al testo kantiano, con quello di Kant. In effetti Schultz, aveva aggiunto al testo kantiano una considerazione derivata dalle sue teorie sull’infinito e sulle parallele, che, utilizzando il rapporto tra superfici illimitate [unbegrenzt], eliminava l’ipotesi delle rette asintotiche61. In ogni caso risulta che Kant era al corrente della discussione concernente questo concetto, e che grande merito di Tóth è l’averlo segnalato nel contributo veronese. Tornando al Convegno veronese, memorabile fu la discussione con Paolo Parrini, esponente autorevole del pensiero analitico italiano sulla filosofia della scienza con particolare riguardo a Kant e al pensiero neopositivista, che aveva presentato la relazione Tra kantismo ed empirismo62, in cui, come in altri suoi saggi, sosteneva la possibilità di recupero da parte della filosofia “empirista” di alcuni aspetti dell’apriori kantiano. (60) Imre Tóth, Die historische Rolle und die theoretische Stelle Kants in der nichteuklidischen Gedankenbewegung, p. 389: secondo Tóth, Kant era al corrente della recensione di Saccheri effettuata da Klügel. Cfr. Moretto, Matematica, cit., pp. 295-296. (61) Cfr. Moretto, Matematica, cit., pp. 295-296. (62) Si veda anche Paolo Parrini, On Kant’s Theory of Knowledge, in Kant and Contemporary Epistemology, ed. by P. Parrini, Springer – Science + Business Media, Dordrecht 1994, pp. 195-230.

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Concludo ricordando che mentre passeggiavamo io e alcuni colleghi lungo l’Adige, entusiasti in modo particolare della relazione di Tóth e dell’approfondimento derivato dalla discussione, in cui erano stati toccati anche temi rilevanti della filosofia di Zenone, di Platone e di Aristotele, che emergevano nella loro attualità mediante il confronto con la scienza e la filosofia contemporanea, una mia collaboratrice, Loana Liccioli, disse che eravamo fortunati: «i Greci erano tornati tra noi».

Conclusione Io dedicai alla memoria di Imre Tóth il saggio del 2010, Matematica; la dedica è nella nota iniziale del saggio, p. 261, e questo contributo nel presente volume vuole anche essere un ulteriore omaggio alla sua figura di scienziato. Condivido con Tóth il riconoscimento del ruolo essenziale della conoscenza matematica per affrontare problematiche filosofiche riguardanti il rapporto tra il finito e l’infinito, il discontinuo e il continuo. Questi “momenti” della mia frequentazione con Tóth sono stati punti di incontro relativi a tematiche in cui alcuni aspetti della sua e della mia ricerca si sono intersecati: la filosofia hegeliana, la filosofia kantiana, la storia e la filosofia della matematica, entrambe le ricerche mantenendo la loro peculiarità.

Francesco Oliveri Imre Toth e i conservatori

1. Come ogni rivoluzione, l'irruzione delle geometrie non euclidee nel panorama matematico della seconda metà dell'Ottocento ha avuto schiere di oppositori; ci si stupisce che tra questi ci sia anche George Cantor, che riuscì a imbrigliare l'infinito e a dimostrare l'esistenza di infinite gerarchie di infiniti. Nell'incipit del saggio sulla filosofia della matematica di Frege1, Toth spiega chiaramente le ragioni che lo hanno indotto a scrivere di Frege e della di lui impostazione filosofica: l'analisi delle controversie a cavallo del XIX e XX secolo sulla geometria non euclidea. Toth non solo individua in Frege un facile bersaglio, ma ne ha per Cantor, che tacciò di fantasticherie le scoperte che asserivano la possibilità e la coerenza di altre geometrie, o per Arthur Cayley, che pur diede contributi che svilupparono ulteriormente la visione non euclidea (a sua insaputa, si direbbe oggi). Nell'elenco dei conservatori mette pure Lewis Carroll, Augustus De Morgan, questi ultimi probabilmente ancora prigionieri dell'isolamento dei matematici inglesi dopo la furiosa querelle tra Newton e Leibniz (una Brexit ante litteram). E ancora, matematici russi come Bunjakovskij e Ostrogradskij (che definì Lobachevskij “ignaro di matematico” e la sua geometria una caricatura), e francesi, come Joseph Bertrand. (1) I. Toth, La filosofia della matematica di Frege. Una restaurazione filosofica, una controrivoluzione scientifica, Quodlibet, Macerata 2015.

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L'invettiva di Toth ha comunque ragioni ben più profonde, legate alla sua scoperta di elementi non euclidei che precedettero l'opera stessa di Euclide. È quindi una reazione alla rigidità di Frege e di altri, e a un inesauribile desiderio di libertà e di rivendicazione della ricchezza della diversità. Libertà e valore positivo delle diversità certamente anche conseguenze della sua condizione di ebreo e delle persecuzioni del XX secolo.

2. La tradizione euclidea per più di 2000 anni poggia sugli Elementi, un’opera, o, piuttosto, un manuale, che condensa e organizza le conoscenze matematiche (e non solo di geometria) dell’epoca; nei primi sei libri degli Elementi Euclide introduce 23 definizioni, per presentare gli attori della geometria (punto, linea, superficie, angolo, cerchio, triangolo etc.) e 5 nozioni comuni, o assiomi, la cui evidenza nessuno può negare: a. Cose uguali a un'altra medesima sono tra loro uguali. b. Se a cose uguali si aggiungono cose uguali, allora si ottengono cose uguali. c. Se da cose uguali si tolgono cose uguali, allora si ottengono cose uguali. d. Cose che possono essere portate a sovrapporsi l'una con l'altra sono uguali tra loro. e. Il tutto è maggiore della parte. Infine, introduce i postulati, quelli che il Maestro chiede all'allievo di accettare: a. È possibile condurre una linea retta da un qualsiasi punto a ogni altro punto. b. È possibile prolungare illimitatamente una retta finita in linea retta.

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3. È possibile descrivere un cerchio con qualsiasi centro e distanza (raggio) qualsiasi. 4. Tutti gli angoli retti sono uguali fra loro. 5. Se (in un piano) una retta, intersecando due altre rette, forma con esse, da una medesima parte, angoli interni la cui somma è minore di due angoli retti, allora queste due rette indefinitamente prolungate finiscono con l’incontrarsi dalla parte detta. Nel linguaggio moderno, non si fa distinzione tra assiomi e postulati, per cui la Geometria Euclidea consta effettivamente di 10 assiomi. A partire da assiomi e postulati, Euclide deduce una lunga serie di proposizioni. Molti commentatori hanno osservato che anche a Euclide i postulati non sembrano tutti della stessa natura. Infatti, il quinto postulato viene enunciato solo dopo aver dimostrato 28 proposizioni, in pratica quando Euclide non ne può più fare a meno, come se lo ritenesse un po' sospetto: in esso, infatti, è nascosto il comportamento delle rette all'infinito, e l’infinito era un concetto che occorreva evitare. Lo stesso teorema che si ritrova nel IX libro (proposizione 20) degli Elementi, e che oggi enunciamo dicendo che esistono infiniti numeri primi, Euclide lo presenta dimostrando che nessuna collezione di un numero finito di numeri primi li può contenere tutti. Sebbene tutti fossero convinti che la Matematica, e nella fattispecie la Geometria, quest’ultima a dispetto del nome, fosse distinta dalle esperienze sensoriali dello spazio (e questa è la rivoluzionaria conquista che dobbiamo ai Greci), fino agli albori del XIX secolo nessuno metteva in dubbio che la geometria euclidea fosse l’unico modello corretto dello spazio fisico. E diversi furono i tentativi di dare una fondazione logica all’aritmetica e all’analisi basata sulla geometria euclidea. Sostanzialmente, gli assiomi di Euclide non erano altro che verità evidenti riguardanti lo spazio fisico. Solo il quinto postulato appariva di diversa natura, anche perché conteneva senza nominarla la possibilità dell’esistenza di rette infinite nello spazio fisico. La formulazione

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di Euclide, secondo cui le due rette si incontrano dalla parte della trasversale in cui la somma degli angoli interni è minore di due angoli retti, era solo un espediente per evitare di dire che esistono coppie di rette che non si incontreranno mai comunque vengano prolungate. La storia della matematica è piena di tentativi di far discendere il quinto postulato dagli altri: Claudio Tolomeo (II secolo), Proclo (V secolo), Nasir-Eddin (XIII secolo), John Wallis (XVII secolo) proposero presunte dimostrazioni contenenti errori o ragionamenti circolari; altri provvidero a sostituzioni dello stesso quinto postulato con altre formulazioni equivalenti che sembrassero più evidenti; la versione comunemente utilizzata oggi per il quinto postulato è quella data da John Playfair nel 1795: data una retta e un punto fuori da essa, è possibile tracciare per il punto dato un’unica parallela alla retta data. Oggi sappiamo che il quinto postulato di Euclide non è deducibile dagli altri, che caratterizzano la cosiddetta geometria assoluta. Alla luce dei teoremi di Gödel, possiamo dire che il quinto postulato è una proposizione indecidibile nell’ambito della geometria assoluta: non è possibile dimostrare la sua verità o la sua falsità a partire dagli altri. Lo si può accettare, e si ha la geometria euclidea, oppure lo si può negare, e diversi modi di negarlo conducono a distinte geometrie non euclidee! L’opera di Euclide ci sembra straordinaria per la distinzione netta tra assiomi, postulati e proposizioni. Non sono però poche le critiche che possono essere mosse col senno di poi nella formulazione di alcune definizioni che fanno ricorso a intuizioni spaziali o a procedimenti non completamente esplicitati. Nei Grundlagen der Geometrie2 del 1899 David Hilbert risistemò assiomaticamente la geometria di Euclide. I concetti di punto, retta e piano sono primitivi (cioè, non suscettibili di definizione), così come primitive sono le relazioni che stabiliscono che un punto può appar(2) David Hilbert, I fondamenti della geometria, FrancoAngeli, Milano 2022.

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tenere a una retta o a un piano, che un punto può stare in mezzo ad altri due, che angoli e segmenti possono essere congruenti. Enuncia poi otto assiomi di incidenza, quattro assiomi di ordinamento, sei assiomi di congruenza e due assiomi di continuità.

3. Approcci che negano il quinto postulato di Euclide compaiono in maniera quasi simultanea nel primo terzo del XIX secolo da parte di matematici con diversa formazione: Carl Friedrich Gauss, Nicolaj Ivanovic Lobachevskij e Johan Bolyai. Qualche decennio dopo Bernhard Riemann arricchirà la zoologia delle geometrie introducendo una geometria non euclidea diversa da quella di Lobachevskij e Bolyai. Il princeps mathematicorum tenne per sé la convinzione che i tentativi di dimostrare il quinto postulato fossero vani e che quindi fossero possibili altre geometrie, per evitare le strilla dei Beoti, come scrisse a Wolfgang Bolyai dopo che questi gli chiese un parere sul lavoro del figlio. Gauss sviluppò fin dal 1813 quella che chiamò prima geometria antieuclidea, poi geometria astrale e infine geometria noneuclidea. Si convinse che il quinto postulato non poteva essere dimostrato logicamente a partire dagli altri, e tentò anche una misurazione sperimentale. Come riportato da Morris Kline3, misurò la somma degli angoli del triangolo formato dalle cime delle tre montagne Brocken, Hohehagen e Inselberg i cui lati misuravano rispettivamente 69, 85 e 197 chilometri, ottenendo un angolo che eccedeva un angolo piatto di poco meno di 15 gradi sessagesimali. Lobachevskij esplicitò la sua geometria non euclidea a partire dal 1826 in alcuni articoli. L’articolo pubblicato sul Journal für Mathematik nel 1837 (Nuovi fondamenti della geometria con una teoria completa (3) Morris Kline, Storia del pensiero matematico, vol. 2, Dal Settecento ad oggi, Einaudi, Torino 1996, p. 1018.

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delle parallele) presenta in maniera organica quella che chiamò geometria immaginaria. Lo scarso interesse verso i suoi scritti lo spinse nel 1840 a pubblicare il libro Geometrische Untersuchungen zur Theorie der Parallelinien, e, infine, nel 1855 la Pangéométrie4. Johan Bolyai scrisse un lavoro dal titolo La scienza dello spazio assoluto (apparso come appendice al libro del padre nel 1832-1833), ma sembra che già a partire dal 1825 si fosse convinto che la nuova geometria non era contraddittoria. Siamo quindi in presenza di un periodo molto ristretto in cui una creazione matematica, pur non tecnicamente molto complessa, scompiglia le carte e impone un cambio di paradigma. Vengono cioè messe in discussione le idee sulla natura della matematica e sul suo ruolo nello studio del mondo fisico. La questione sulla priorità della scoperta della logica ammissibilità di una geometria non euclidea si arricchisce di un nuovo elemento quando nel 1889 Eugenio Beltrami toglie dall'oblìo l'opera del gesuita Girolamo Saccheri5.

4. Saccheri, logico esperto nella tecnica dimostrativa della reductio ad absurdum, per dimostrare la validità del quinto postulato parte dalla sua negazione: se le conseguenze portano a un assurdo, allora l’assioma delle parallele è dimostrato ed Euclide è emendato da ogni macchia. Oggi sappiamo che non poteva arrivare a conclusioni assurde; ciononostante, i teoremi da lui giudicati assurdi per il preconcetto che la geometria euclidea fosse l’unica vera geometria, erano effettivamente teoremi di geometria non euclidea e quindi, seppure a sua insaputa, va annoverato tra gli scopritori della geometria non euclidea. (4) Nikolai I. Lobachevsky, Pangeometry, trad.inglese di Athanase Papadopoulos, European Mathematical Society, 2010. (5) Girolamo Saccheri, Euclides ab omni naevo vindicatus: sive conatus geometricus quo stabiliuntur prima ipsa universae Geometriae Principia, Milano 1733.

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Il punto di partenza di Saccheri fu la costruzione di un quadrilatero ABCD in cui i lati AB e CD sono paralleli e gli angoli in A e B retti.

Usando le proposizioni di Euclide che non fanno uso del quinto postulato, si dimostra agevolmente che gli angoli in C e D sono uguali: Saccheri si pose la domanda se fossero retti, ottusi o acuti: ipotesi dell’angolo retto, dell’angolo ottuso e dell’angolo retto, rispettivamente. L’ipotesi dell’angolo retto corrisponde ad accettare il quinto postulato di Euclide. Saccheri escluse poi l’ipotesi dell’angolo ottuso usando tacitamente il fatto che le rette hanno lunghezza infinita. L’ipotesi che le rette non abbiano lunghezza infinita è alla base della geometria non euclidea di Riemann in cui gli oggetti che fungono da “rette” hanno effettivamente lunghezza finita. Rimaneva pertanto l’ipotesi dell’angolo acuto, che Saccheri non riuscì a rimuovere se non definendo assurdi i risultati che ne conseguivano. Ed erano assurdi soltanto in virtù della sua formazione euclidea! Nella geometria di Lobachevskij e Bolyai (che oggi chiamiamo iperbolica) da un punto fuori da una retta è possibile tracciare più di una parallela, e la somma degli angoli interni di un triangolo è minore di un angolo piatto, mentre nella geometria di Riemann (che oggi chiamiamo geometria ellittica) non ci sono parallele, e la somma degli angoli interni di un triangolo dipende dalle dimensioni del triangolo ed è maggiore di un angolo piatto. La coerenza delle varie geometrie non euclidee è oggi garantita dalla coerenza della geometria euclidea stessa. Nel 1868 Beltrami

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mostra che un modello euclideo della geometria iperbolica è fornito dalla pseudosfera (superficie di curvatura costante negativa) in cui i punti giacciono sulla superficie pseudosferica, le rette sono le geodetiche della pseudosfera (curve che minimizzano le distanze) e il piano è la superficie stessa della pseudosfera. Un modello euclideo della geometria ellittica è invece fornito dalla sfera (che ha curvatura costante positiva), in cui per punto si intende la coppia di punti diametralmente opposti, per retta una circonferenza massima (che anche in questo caso è una geodetica) sulla superficie sferica, e per piano la superficie stessa.

5. Il contributo importante di Imre Toth sul quale vogliamo soffermarci riguarda i problemi di natura fondazionale della matematica strettamente connessi alle sue ricerche sulle geometrie non euclidee. Si tratta della scoperta, trascurata dai filologi e da tutta la schiera dei commentatori, di frammenti non euclidei in alcune opere di Aristotele, e quindi di epoca pre-euclidea. Toth distingue le impostazioni controeuclidee (per esempio quelle di chi come Saccheri parte dall’assunto che ci sia posto per una sola geometria) da quelle non euclidee, in cui si possono accettare più visioni. E trova argomenti simili a quelli usati da Saccheri in Aristotele. Nella proposizione 29 degli Elementi, la prima in cui si rende necessario il quinto postulato, Euclide segue il procedimento di Saccheri, e analizza, pur con qualche errore, l’ipotesi dell’angolo acuto. E questa ipotesi, insieme a quella dell’angolo ottuso, è discussa anche da Aristotele in qualche passo degli Analitici primi. Appaiono molto più sorprendenti alcuni passi nel capitolo sulla libertà dell’Etica Eudemia, dove Aristotele definisce l’uomo come l’unico essere libero di scegliere tra il bene e il male. A supporto della discussione Aristotele non porta esempi di natura strettamente etica o politica, ma fa ricorso a un esempio di natura geometrica. Sostanzialmente

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discute dell’essenza del triangolo, e sulle possibilità di scegliere se abbia la somma degli angoli interni pari a un angolo piatto oppure no, sottolineando che questa libertà di scelta ha delle conseguenze. Nel primo caso la somma degli angoli interni di un quadrilatero è pari a due angoli piatti, mentre nel secondo caso è diversa. Si tratta di due visioni distinte che necessitano solo di essere autoconsistenti. Per Aristotele l’essenza delle proposizioni geometriche è racchiusa nell’essere euclidee o non euclidee. Queste proprietà sono degli invarianti e si trasmettono ai discendenti, cioè alle proposizioni che ne conseguono. Se il triangolo cambia la sua essenza, anche il quadrilatero deve. Viceversa, se il quadrilatero ha angoli interni la cui somma è diversa da due angoli piatti, il triangolo non può avere angoli interni che compongono un angolo piatto. Assumendo l’idea che il triangolo abbia un’essenza invariabile, non si può ammettere che la somma dei suoi angoli interni sia contemporaneamente uguale e disuguale a un angolo piatto. Rimarca inoltre che entrambe le ipotesi hanno uguale dignità, come scrive nell’Etica Nicomachea, ma la scelta dell’una o dell’altra non dipende da noi né può essere demandata a una dimostrazione. Scegliere l’una o l’altra è compito di un principio, un postulato appunto. La scelta euclidea sicuramente deve il suo successo al fatto che l’ipotesi contro-euclidea non si sposa bene con il corretto disegno delle figure su un piano. Aristotele, dunque, pur riconoscendo pari dignità a opposte visioni della geometria, propende per una scelta, quella euclidea. Tale scelta non ha vincoli esterni, ma in Geometria, così come in ogni ramo della Matematica, esiste un vincolo logico, quello della non contraddittorietà. Le costruzioni di Gauss, Lobachevskij, Bolyai e Riemann rispettano questo vincolo. Su questa non contraddittorietà possiamo essere fiduciosi alla luce delle costruzioni dei modelli euclidei delle geometrie non euclidee. Se la geometria euclidea è non contraddittoria, anche quelle non euclidee lo sono. Va da sé che dovranno esistere universi distinti ed entrambi reali (per quel che significa esistenza reale in

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matematica) che hanno i loro peculiari esemplari degli oggetti geometrici. La storia delle geometrie non euclidee, e delle feroci opposizioni che i loro creatori hanno subito, è un deja vu. Altre innovazioni profonde in matematica al loro apparire hanno suscitato sospetti e rifiuti prima di essere inglobati come oggetti non patologici, con una loro dignità e una loro essenza altrettanto riconosciuta di altri. Gli esempi sono numerosi: dalla scoperta pitagorica delle grandezze incommensurabili, all’introduzione dell’unità immaginaria, di cui non si può fare a meno quando un’equazione cubica possiede tre soluzioni reali, e che dovette attendere Gauss per una interpretazione dei numeri complessi, alla teoria degli insiemi di George Cantor, osteggiata da tanti tra cui Leopold Kronecker che accusò Cantor di essere un corruttore della gioventù. Se per Cantor, che pur rifiutò le geometrie non euclidee, l’essenza della matematica è la libertà, le geometrie non euclidee forniscono la possibilità di una pluralità di universi all’interno della matematica. In ciascuno di questi universi il principio di non contraddittorietà non è violato. Per Toth la rivoluzione non euclidea, perché di rivoluzione si trattò, è stata prima di tutto una rivoluzione politica, e da qui la sua battaglia contro l’integralismo di Frege nella filosofia della matematica e sul suo tentativo di restaurazione. Dare piena dignità alle geometrie non euclidee significa riconoscere l’esistenza di più verità, tutte egualmente ammissibili. E questa affermazione fa il paio con la sua opposizione al nazismo che non annovera gli ebrei nell’insieme della popolazione tedesca.

Alberto Olivetti Imre Toth, tra autoritratti e collages

Il lungo cammino da me a me di Imre Toth, pubblicato da Quodlibet, raccoglie le interviste che Péter Várdy, dalla fine degli anni Ottanta, fece al filosofo. Várdy ricorda di aver conosciuto, nell’autunno del 1974, Toth che nel 1970, «su proposta di Karl Popper», precisa Várdy, «era stato nominato alla cattedra di Filosofia della matematica dell’Università di Regensburg». E, illustrando il tenore di quei colloqui, Várdy avverte: «Nella nostra ricerca siamo stati attenti in primo luogo alla vita quotidiana: com’è stata e com’è cambiata nel corso del secolo, sul piano dell’ambiente, dei rapporti, della scuola, della strada, della relazione tra ebrei e non ebrei». Várdy nel 1982 dà alle stampe un saggio intitolato Il passato incompiuto. La realtà ebraica in Ungheria oggi. Riceve una lettera da Toth nella quale il filosofo, allora sessantenne, gli scrive: «il beneficio personale di questo saggio è stato di rendermi chiaro qualcosa di cui non ero consapevole prima (questo certamente ti sorprenderà e lo troverai incredibile): sapere che gli ebrei avevano e hanno un problema d’identità permanente. L’ho vissuto io stesso, più d’una volta, come tipico soggetto, passivo e attivo, predicato e oggetto; l’ho visto anche brillare in altri con tutti i colori dell’arcobaleno politico - e tuttavia non avevo coscienza della sua esistenza». E poi aggiunge: «questa presa di coscienza, vale a dire la tua tesi sulla crisi identitaria degli ebrei e sulla necessità di superarla, infonde nel mio animo intimidito coraggio per offrire anch’io un contributo scritto a questo testo interminabile».

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Quindici anni dopo, nel 1997, a Napoli, presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Toth tratta dell’argomento “essere ebreo dopo l’Olocausto”. Con questo titolo, il testo sarà pubblicato in volume nel 2002, per iniziativa di Romano Romani, presso l’editore Cadmo. Toth descrive la condizione ebraica nella storia dell’Occidente come il contrassegno di una insostituibile funzione di mediazione e, per lumeggiarla, fa ricorso a tre parole latine: commercium, negotium, speculatio. Aggiunge: «la mediazione ha certamente il suo genio particolare. Suo fondamento è la capacità d’intelligere, la facoltà di comprendere simultaneamente le due parti in presenza, l’amico e il nemico; la capacità d’identificare lo Stesso e l’Altro». E l’individuo acquista il senso del rispetto dell’altro come connotato della dignità sua attraverso l’intelligenza e la memoria. Per questo gli Ebrei - «la loro patria non era in nessun luogo, perché era ovunque» - ed il loro Libro - dove sta scritto «Non uccidere!» - rappresentano il «tessuto connettivo dell’Umanità». Una speciale condizione, dunque, questa interstiziale di “mediatori”. Gli Ebrei sono in Occidente un veicolo proteso «verso la realizzazione dell’universale, verso l’unità dell’Umanità». Una funzione storica tanto essenziale quanto contrastata assiduamente e, lungo il corso dei secoli, violentemente combattuta sotto spoglia di antisemitismo. E tuttavia, se l’antisemitismo è - come constata Toth - «una dimensione specifica e propria del pensiero occidentale»; se, nel profondo, «appartiene alla sua essenza stessa», esso è tanto radicato proprio perché agisce a contrasto di quel «movimento incessante», autentica essenza dell’Occidente, che è ostinatamente volto alla affermazione della dignità dell’uomo. Così le pagine autobiografiche di Il lungo cammino da me a me assurgono a una dimensione esemplare, sono memoria filosofica. Romani ha scritto nella Postilla che si legge in appendice a Essere ebreo dopo l’Olocausto: «il che cosa dell’identità ebraica è il che cosa dell’identità umana, certamente nella temperie della civiltà occidentale, ma anche oltre essa». E aggiunge: «questo “oltre” disegna la fisionomia

Imre Toth, tra autoritratti e collages

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della storia intesa non soltanto come memoria, ma anche e soprattutto come ricerca alla quale la memoria è indispensabile. È la storia l’essenza del lógos: penso sia questa la convinzione che più profondamente Toth condivide con Hegel». Nello stesso anno 1997, Toth porta a compimento Non! Libertè & Verité. Creation & Negation. Un’opera che si affacciò in lui nel 1976 ed alla quale attese per oltre vent’anni. Egli costruisce Non!, ci dice, come un palinsesto. Nella prefazione alla edizione italiana (No! Libertà e verità. Creazione e negazione. Palinsesto di parole e immagini, pubblicato nel 2003 da Bompiani) Giovanni Reale scrive: «Il palinsesto, come è noto, è un’antica pergamena in cui mediante raschiatura il testo primitivo è stato cancellato al fine di poterla riutilizzare per scriverne uno nuovo. Tecniche sofisticate permettono, però, di recuperare le scritture antiche rimaste, a loro modo, impresse sul supporto. Il palinsesto, pertanto, è una sovrapposizione di testi, quindi di messaggi, ossia racchiude in sé differenti voci che parlano a un tempo e nel medesimo luogo». A questa stregua, la forma propria del palinsesto che Toth, mosso da una forte motivazione teoretica, persegue come una modalità del pensare, solleva più di una questione. Una, e preliminare, che può esser detta così: il testo che fu vergato a suo tempo al presente permane, ma nascosto. O si dica: come allora il passato si nasconde nel presente. O come la fibra che innerva il presente è un nascondimento di passato. E la modalità del palinsesto, per tanto, pone altresì la questione di un ri-tornare, di un ri-comparire, di un re-istituire. La questione, cioè, di come si possa mettere capo a una acquisizione di quel determinato senso precedente che giace, nel presente, come passato non visibile. Di come, ancora, sia possibile conferire al passato una visibilità nel presente. Toth ripristina, reintegra, ristabilisce i testi depositati strato per strato secondo la regola del palinsesto. Procede a far emergere, a riportare alla luce quanto precede e lo accosta a quanto consegue determinando un ordine di tempo che accomuna passato e presente in un

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libero giuoco di reciproche interferenze, un campo aperto di correlazioni nuove. Oltre al palinsesto, e di concerto, Toth ha fatto ricorso anche al collage come a un congeniale criterio che avvertiva adatto alla sua ricerca. No!, avverte l’autore, non è una antologia di brani trascelti dagli scritti di svariati autori «o una collezione di citazioni, è un collage testuale, composto secondo il programma surrealista del trattamento dei testi, eseguito mettendo in opera le tecniche che gli sono proprie» e, aggiunge, «alcuni frammenti sono accompagnati da collages su carta». Quanto il palinsesto reca alla superficie, parola o immagine, il collage, secondo la prassi surrealista, dispone entro una medesima cornice. Accosta, elide distanze, dà accesso affidandosi alle forme della combinazione per somiglianza o del contatto per opposizione. Si attiene al criterio spontaneo della giustapposizione e della connessione gratuita o d’invenzione. Intende così dar corso a spazi interiori impreveduti, conquistati dal fortuito, dall’automatico, dal fantasticato. Collage, collegare assicurare per legami impropri elementi estranei. Ormeggiare a moli collocati in rade non segnate nei portolani parole e immagini disancorate, or ora giunte, sulla via di rotte dimenticate, da provenienze diverse e lontananze pregresse. Immagini e parole nel raduno di una medesima latitudine capace di recare il provvisorio costrutto di un loro nuovo senso o di un visibile loro non senso. Toth ha definito i suoi collages «palinsesti onirici». Superare allora ogni scarto tra onirico e reale, tra attestazione pregressa e l’immagine e la parola emancipate in un loro nuovo, libero fluttuare. Nella sua firma, resa come la cifra d’un monogramma, Imre Toth congiungeva le lettere del suo nome delineate come a descrivere il profilo del suo volto e le scioglieva nelle lettere dell’alfabeto greco vergate da Pindaro nell’ottava Pitica: skias onar: «sogno d’un’ombra» è l’uomo.

Teodosio Orlando Considerazioni metafilosofiche su Imre Toth Les Mathematiciens ont autant besoin d’estre philosophes que les philosophes d’estre Mathematiciens. [Leibniz à Nicolas Malebranche, 13/23 mars 1699 (GP I, 356)]

Il presente contributo si propone di indagare il complesso rapporto che Imre Toth ha intrattenuto con quella che si suole chiamare “tradizione della filosofia analitica”. La scelta di questo sintagma, piuttosto che della più generica espressione “filosofia analitica”, ha una motivazione ben precisa: non vogliamo tanto riferirci alla dicotomia (per molti versi discutibile, e che contrappone una caratterizzazione geografica a una definizione di stile filosofico) tra il modo di fare filosofia dei cosiddetti analitici e quello dei cosiddetti continentali, quanto piuttosto a un insieme di problemi e di tematiche che, negli ultimi 150 anni, hanno coinvolto filosofi anche di diverse tendenze e provenienze geografiche: problemi che riguardavano soprattutto i fondamenti della matematica, l’analisi del linguaggio, la logica filosofica, le ontologie formali, l’epistemologia delle scienze naturali ecc. D’altro canto, è ben vero che i cosiddetti “filosofi analitici” si sono spesso occupati con rigore e impegno anche di altre sfere concettuali (dalla meta-etica all’estetica, dalla filosofia politica alla teoria dei sistemi sociali), ma rimane il fatto che il campo in cui l’approccio analitico è stato prevalente, negli ultimi decenni, è quello delle ricerche logico-epistemologiche, anche in termini storici. Approccio “analitico” che, sostanzialmente, ha voluto dire allergia alla riflessività propria della filosofia trascendentale (quella che Nicolai

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Hartmann chiamava l’intentio obliqua della filosofia kantiana), per prediligere un lavoro di diretta analisi della realtà, identificata o con i costrutti concettuali, o con i dati empirici1. In effetti, Toth, nel suo peculiare modo di occuparsi di storia della scienza, e segnatamente della matematica, ha utilizzato un approccio che potremmo definire “trascendental-dialettico”, nel senso dell’uso di categorie lato sensu hegeliane per spiegare le varie tappe dell’evoluzione di una come già fecero Georges Canguilhem e Alexandre Kojèv. Lo stesso Toth racconta come nella sua formazione giovanile abbia giocato un ruolo importante la lettura di molti testi importanti della filosofia della scienza e della filosofia analitica: C’erano veramente poche cose di cui non avevo sentito parlare all’epoca e di cui avrei sentito la mancanza più tardi. Di Heidegger, per esempio, sentii parlare solo negli anni Sessanta. Lo lessi solo in Occidente. Altri li conoscevamo. Così eravamo perfettamente informati sul Circolo di Vienna, sul positivismo logico2.

Così si esprime Toth in una lunga intervista autobiografica, pubblicata postuma. E in altre occasioni, non ha mancato di sottolineare la sua vicinanza e la sua frequentazione, anche recente, di storici della filosofia e della scienza vicini alla tradizione analitica (come Jules Vuillemin, professore al Collège de France). Né si può trascurare il suo apprezzamento per le opere di Hilary Putnam o per le tesi fisiche e filosofiche di Roger Penrose. O il dialogo con Jonathan Barnes sul pensiero antico, in particolare sui paradossi di Zenone, durante un convegno (1) Cfr. Franca D’Agostini, Nel chiuso di una stanza con la testa in vacanza. Dieci lezioni di filosofia contemporanea, Carocci, Roma 2005, pp. 59-62. Cfr. anche Kevin Mulligan, “Sulla storia e l’analisi della filosofia continentale”, in Iride, 8 (1992), 183-190. Si veda pure Karl-Otto Apel, “Die Entfaltung der ‘sprachanalytischen Philosophie’ und das Problem der ‘Geisteswissenschaften’”, Philosophisches Jahrbuch 72 (1965), pp. 239-289. Trad. inglese: “Analytic Philosophy of Language and the ‘Geisteswissenschaften’”, in Foundations of Language (Supplementary Series), vol. 5, Dordrecht, Reidel, 1967. (2) Imre Toth, Il lungo cammino da me a me. Interviste di Péter Várdy, trad. di Francesca Ervas, Quodlibet, Macerata 2016, p. 106.

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svoltosi ad Ascea dal 15 al 18 gennaio del 2009 e vertente sulla nozione di infinito nella filosofia eleatica. Del resto, l’ambito di ricerca privilegiato da Toth, ossia la storia e la filosofia della matematica, viene spesso ascritto alla tradizione della filosofia analitica, anche quando, in realtà, molti studi di filosofia della matematica non rientrano rigorosamente nel paradigma euristico che si tende ad associare a questo tipo di filosofia. Questo paradigma per molti versi non è altro che la metafilosofia di stampo neopositivista, quale si trova in autori come Carnap o Quine: secondo tale tipo di metafilosofia, anche quando mi occupo di storia delle idee e della scienza, devo concentrare la mia attenzione su tre istanze storiche della ragione: la logica, la scienza e il senso comune. Ciò vuol dire che se voglio capire come la mia epoca pensa in modo normativamente giustificato posso soltanto riferirmi a come ragionano e operano le scienze “esatte”, a qual è il ruolo della logica e alle credenze del senso comune relativamente ad argomenti come la realtà, la verità e la giustizia. Del resto, la filosofia analitica è nata quasi germogliando da queste tre istanze del discorso razionale, se è vero che essa ha cominciato a svilupparsi quando prima Mill e Boole e in seguito soprattutto Frege e Russell hanno posto le basi della logica contemporanea. E la vicinanza al senso comune ha sempre collocato la filosofia analitica in uno spazio polemico con altre correnti filosofiche, come l’idealismo e il trascendentalismo (anche se gli idealisti britannici, come Bradley e McTaggart, hanno contribuito alla creazione dello stile analitico). Ma l’immagine della filosofia analitica come filosofia “scientifica”, nei due significati di “rigorosa come le scienze esatte” e “orientata a chiarire il linguaggio scientifico” (anzi, a diventare addirittura metodologia delle scienze), caratterizza soprattutto una certa fase dell’a sua evoluzione, soprattutto quella coincidente con gli anni del Wiener Kreis e della prima emigrazione statunitense. Come ha osservato Richard Rorty3, la filosofia analitica nelle sue (3) Richard Rorty, La svolta linguistica. Tre saggi su linguaggio e filosofia, trad. di Stefano Velotti, Garzanti, Milano 1994.

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forme più recenti ha mantenuto fermo lo sforzo programmatico di chiarezza e di rigore argomentativo, occupandosi soprattutto della soluzione dei problemi (è una filosofia del solving problems, mentre la filosofia continentale è una filosofia del telling stories). Ma l’odierno stile analitico cerca di mediare tra il rigore dell’argomentazione e il colore dell’immagine (come già Frege aveva tentato di fare nella prima delle Ricerche logiche, “Il pensiero” [Der Gedanke], quando usò l’immagine della fragola rossa nel fogliame verde). Da qui il frequente ricorso ad esempi e controesempi, agli esperimenti mentali, ai ragionamenti controfattuali e a congetture che coinvolgono l’uso dell’immaginazione4. Certo, nei libri di Toth sembra molto viva e costante la polemica contro le principali tesi dei filosofi analitici: ad es. quando, interpretando il problema del significato nel Cratilo di Platone, irride alla teoria delle descrizioni di Russell. Inoltre, a differenza delle filosofie della matematica invalse in ambito analitico, Toth non elabora una vera e propria epistemologia: non troviamo un’autentica teoria della conoscenza, quanto piuttosto una ripresa di tematiche platoniche e idealistiche, con un particolare focus sulla nozione di soggetto trascendentale. Così anche la sua ontologia potrebbe definirsi di stampo pluralista; è significativa la polemica contro il rasoio di Ockham brandito da Quine per “spuntare” la barba di Platone. E ovviamente non c’è nessuna simpatia per il modo con cui Quine ha trattato, in logica, i concetti modali. In ultima analisi potremmo dire che la sua filosofia della matematica rappresenta una forma di hegelo-platonismo contrapposto al platonismo logicista di Frege e Russell, e che tenta spesso mediazioni “eclettiche” con il formalismo hilbertiano e l’intuizionismo, avvicinandosi a pro(4) Due recenti volumi hanno ben messo in evidenza i “limiti” del rigore analitico. Le osservazioni contenute sono tanto più preziose in quanto provenienti dall’ambito analitico: Mark Wilson, Imitation of Rigor. An Alternative History of Analytic Philosophy, Oxford University Press, Oxford 2022; e Alberto Voltolini, Down But Not Out. A Reassessment of Critical Turning Points in Analytic Philosophy, Springer, Cham-Berlin 2022.

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spettive che in Italia sono state messe a punto da Carlo Cellucci. E non è da trascurare la vicinanza alla teoria matematica delle categorie di Saunders Mac Lane e Samuel Eilenberg. È notevole anche la presenza di forti elementi hegeliani nella storia della scienza (come abbiamo ricordato prima, un approccio dialettico di ispirazione hegeliana si trovava già in filosofi francesi come Canguilhem, Kojève e Vuillemin, ma Toth cerca una sua autonomia di pensiero). Lo si vede dai seguenti passi: Con l'introduzione del nuovo postulato E da parte di Euclide, si è conclusa un'importante fase dello sviluppo della geometria e allo stesso tempo si è aperta un'epoca radicalmente diversa e nuova della geometria. L'intero sviluppo, tuttavia, appartiene, nella sua essenza, alla fenomenologia dello spirito geometrico, e non alla scienza della geometria stessa. In effetti, non si tratta tanto della geometria in sé, ma piuttosto della coscienza geometrica, o più precisamente: dell'autocoscienza della geometria (Imre Toth, Fragmente und Spuren nichteuklidischer Geometrie bei Aristoteles, De Gruyter, Berlin 2010, p. 114, con rimando a Hegel: «Mancando di realtà effettiva, la scienza è solamente l’in sé, lo scopo, che è ancora solo un interno: non è come spirito, ma è soltanto come sostanza spirituale. Quest’ultima è tenuta dunque a esternarsi e a divenire per se stessa, e ciò non significa altro se non che essa deve porre l’autocoscienza come una cosa sola con sé. Tale divenire della scienza in generale, ossia del sapere, è quanto viene presentato da questa fenomenologia dello spirito, come prima parte del sistema di quella scienza stessa» (Als solcher Wirklichkeit entbehrend ist sie nur der Inhalt, als das Ansich, der Zweck, der erst noch ein Innres, nicht als Geist, nur erst geistige Substanz ist. Dies Ansich hat sich zu äußern und für sich selbst zu werden, dies heißt nichts anders, als dasselbe hat das Selbstbewußtsein als eins mit sich zu setzen. Dies Werden der Wissenschaft überhaupt, oder des Wissens, ist es, was diese Phänomenologie des Geistes darstellt) [G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes {1807}, Meiner, Hamburg 1952, pp. 25-26; trad. Fenomenologia dello spirito, a cura di Gianluca Garelli, Torino, Einaudi, Torino 2008, p. 21].

La proprietà oggettiva più importante del predicato proposizionale

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“inderivabile” - prosegue Toth - è assegnata rispettivamente o a nessuna o a entrambe le proposizioni simultaneamente: quella euclidea e quella non euclidea allo stesso tempo. Anche i predicati opposti “coerente” e “non coerente” sono assegnati contemporaneamente ai due sistemi opposti: l’euclideo contemporaneamente al non euclideo. Se un sistema è logicamente coerente, anche il sistema opposto è necessariamente coerente. Per quanto riguarda la coerenza e l’incoerenza, la contrapposizione “euclideo vs non euclideo” non rappresenta un’alternativa, ma un binomio, una coppia di gemelli siamesi. La loro relazione può essere caratterizzata nel modo più chiaro con la parola latina diremptio, introdotta da Hegel; il verbo dirimo significa infatti separare o dividere, ma allo stesso tempo indica la soppressione e insieme la conservazione (in tedesco Aufhebung) dell’essere separati e dell’essere divisi. Così l'euclideo si oppone “ostilmente” al non euclideo, ma allo stesso tempo i due sono indissolubilmente legati: se la geometria euclidea viene distrutta da una contraddizione interna, anche la geometria non euclidea crolla, e senz’altro necessariamente. Come Tristano e Isotta, possono vivere e morire solo insieme. Sono in relazione l'uno con l'altra nella relazione espressa dal termine hegeliano Diremption5. Nell’intervista biografico-teorica pubblicata su Iride nel 2004 (poi tradotta anche in inglese e pubblicata in volume separato6), Toth così prende le distanze rispetto alla tradizione rappresentata da Frege: Per Frege se la storia confligge con la logica bisogna negare la prima, fino al punto di negare la geometria non euclidea come espressione di sostanziale irrazionalità e misticismo. Frege non ha perdonato niente ai matematici che hanno infranto i princìpi della logica. A suo parere la geometria non euclidea introduce nella matematica la soggettività, (5) Imre Toth, Fragmente und Spuren nichteuklidischer Geometrie bei Aristoteles, De Gruyter, Berlin 2010, p. 374. (6) Imre Toth - Gaspare Polizzi, Il soggetto e la sua libertà. Il fondamento ontico della verità matematica. Un’intervista biografico-teorica, Armando Siciliano, Messina 2022.

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la soggettività - nel senso psicologico peggiore della parola - del soggetto empirico, dell’individuo demografico; come se Descartes non fosse mai esistito, l’idea del soggetto trascendentale gli resta ignota. «Fuori la geometria non euclidea!», esclamava; si tratta di un gioco di prestigio, «essa deve essere gettata fuori (herausfliegen) e classificata come una mummia insieme all’astrologia e all’alchimia». In realtà è stato Frege a ritirarsi volontariamente sulle isole Galapagos del pensiero matematico da dove proferiva un discorso sarcastico, pieno di disprezzo contro tutto ciò che ha prodotto questa matematica, al suo tempo ancora «moderna». La stessa parola «moderna» gli era odiosa ed egli la utilizza soltanto come invettiva. Poiché «moderno» ha la stessa etimologia di «moda», secondo Frege, già questa etimologia gli assegna lo stesso significato di adorazione frivola e passeggera della bassezza e questo morbus mathematicorum recens minaccia i matematici di sprofondare nella «lordura» (verunreinigen). La sua filosofia imponeva una pratica politica ai matematici: essa postulava ciò che è permesso e ciò che non è permesso. E tutti i nuovi procedimenti di pensiero introdotti dalle geometrie non euclidee e le nuove teorie dei numeri irrazionali di Dedekind e di Cantor sono stati inscritti sulla lista degli interdetti»7.

Questo giudizio di Toth sul progetto filosofico di Frege appare per alcuni versi acuto e motivato, per altri un po’ ingeneroso e storicamente discutibile. Infatti, è senz’altro vero che Frege si atteneva ai princìpi della logica classica (da lui stesso peraltro riformulati e rifondati), fino al punto da diffidare di ogni approccio che cercasse di non rispettarli fino in fondo (come a Toth appaiono i programmi dei teorici delle geometrie non euclidee). Ma non è affatto vero che gli fosse ignota l’idea del soggetto trascendentale o non la prendesse in considerazione. Come ha dimostrato Hans Sluga, Frege sentì sempre un forte debito con Leibniz e Kant (in molti casi mediati attraverso la Logica di Hermann Lotze), benché altri autorevoli interpreti, come Michael Dummett, (7) Imre Toth, «“Deus fons veritatis”: il soggetto e la sua libertà. Il fondamento ontico della verità matematica. Intervista biografico-teorica a cura di Gaspare Polizzi», Iride, Fascicolo 3, dicembre 2004, pp. 529-530. Nel volume citato nella nota precedente, il testo è alle pp. 73-74.

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gli abbiano a lungo attribuito una sorta di realismo anti-idealistico. Nel 1919 Frege si unì alla Deutsche Philosophische Gesellschaft, il cui obiettivo era «la coltivazione, l'approfondimento e la conservazione dell'individualità tedesca nella filosofia nello spirito dell'idealismo tedesco fondato da Kant e continuato da Fichte». E nell’organo ufficiale della società (ossia i Beiträge zur Philosophie des Deutschen Idealismus), Frege pubblicò nel 1919 le sue tre Ricerche logiche (“Il pensiero”, “La negazione” e “La composizione dei pensieri”). Inoltre, negli scritti di Frege sono disseminate affermazioni che sembrano inconciliabili con il realismo platonico. In particolare, il ruolo centrale della convinzione fregeana della supremazia dei giudizi sui concetti sembrerebbe spiegabile solo nel contesto di un punto di vista kantiano8. La polemica di Toth trapassa poi da Frege alla filosofia analitica lato sensu: La filosofia analitica è prima di tutto un’invalidazione totale della speculazione filosofica classica: il soggetto, l’Io è totalmente eliminato e qualificato di confusionismo metafisico superato, di non senso. Tutto ciò che la filosofia classica, soprattutto la filosofia di Platone, di Kant, di Hegel ha prodotto, è trattato soltanto con sarcasmo o con battute ironiche dai più grandi rappresentanti della filosofia analitica, come Russell e Quine. Quine, per esempio, designa tutta la concezione di Platone, sviluppata nel Teeteto, nel Sofista, nel Politico, nel Parmenide, le sue speculazioni insopportabilmente confuse sull’essere e sul non essere, con una specie di nomignolo: «la barba di Platone». Russell non è più tenero: egli parla, anche nella sua Storia della filosofia occidentale della pubblicazione del suo lavoro On Denoting, come di una rivoluzione, che ha fatto chiarezza, dissipando finalmente il confusionismo sull’essere e il non essere introdotto dal Teeteto di Platone in filosofia. Ma ciò che è peggio, a mio avviso, è che questa corrente di pensiero, rappresentata dal programma di trasformazione della filosofia in scienza, ricorre a una metodologia che ricorda la matematica: delle formule, una scrittura simbolica, una maniera di esprimersi che si trova nei libri di matematica (8) Cfr. Hans Sluga, Gottlob Frege, Routledge, London-New York 1999, pp. 59-60.

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e di logica matematica che naturalmente dà a un lettore poco avvertito l’impressione immediata di un alto grado di scientificità. Il libro della Natura sì, ma il libro dell’Uomo non è scritto in lingua matematica. Il sapere matematico è prodotto dalla Ragione, ma non dalla logica, esso appartiene organicamente al mondo della Ragione ma non all’universo della logica (Imre Toth, ”Deus fons veritatis” ..., cit., pp. 531-532. Nel volume citato nella nota 6, il testo è alle pp. 78-77).

Qui Toth ha di mira alcuni testi “classici” della tradizione analitica, appartenenti, va precisato, agli anni in cui la filosofia analitica venne elaborata dai suoi fondatori e revisori: On Denoting di Russell risale al 1905. La Storia della filosofia occidentale al 1945. Le allusioni a Quine si riferiscono invece al primo capitolo di From A Logical Point of View (“On What There is” risale al 1953), dove il filosofo americano osserva: Sembrerebbe […] che in ogni disputa ontologica chi sostiene la tesi negativa abbia lo svantaggio di non essere in grado di ammettere che vi è un disaccordo con il suo avversario. Si tratta del vecchio enigma platonico del non essere [old Platonic riddle of non being]. Il non essere deve, in un certo senso, essere, altrimenti che cosa sarebbe ciò che non c’è? Questa intricata dottrina potrebbe essere soprannominata “la barba di Platone” [Plato’s beard]; nel corso della storia si è dimostrata resistente, ed è riuscita spesso a smussare il filo del rasoio di Occam9.

Senza dubbio le riserve di Toth sulla validità storiografica delle tesi di Quine e sul loro importo teorico sono giustificate. Tuttavia, Toth sembra trascurare il fatto che la cosiddetta “tradizione analitica” non è un blocco monolitico. Molti autori si sono discostati dalle tesi “riduzioniste” di Russell e Quine. Lo stesso Quine, peraltro, ha messo in discussione alcuni “dogmi” della precedente filosofia neopositivista (9) Willard van Orman Quine, From a Logical Point of View, Harper & Row, New York 1963, pp. 1-2; trad. di Paolo Valore, Da un punto di vista logico, Raffaello Cortina, Milano 2004, pp. 13-14. Toth ha esplicitato più dettagliatamente la sua critica a Quine nel volume Aristotele e i fondamenti assiomatici della geometria, Vita & Pensiero, Milano 1997, pp. 577, 631-632.

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(segnatamente: la credenza in una fondamentale divisione tra verità analitiche, o fondate su significati indipendenti da questioni di fatto, e verità sintetiche, o fondate su dati di fatto; la tesi per cui tutte le proposizioni dotate di significato sarebbero equivalenti a certi costrutti logici sulla base di termini in relazione diretta con l'esperienza immediata). Ma non sono pochi i filosofi analitici che hanno a loro volta messo in discussione altri assunti di Quine o di esponenti del Wiener Kreis, favorendo un uso massiccio delle logiche modali (da Saul Kripke a David K. Lewis) o contestando il primato del linguaggio rispetto al pensiero (come accade in Varieties of Reference di Gareth Evans). Sostanzialmente, quella che si chiama “tradizione analitica” ha saputo più volte autocriticarsi e spesso alcuni dei suoi esponenti sono approdati a conclusioni che sarebbero perfettamente in linea con gli assunti di Toth. Peraltro, un’altra tesi ricorrente negli scritti di Toth è quella dell’inadeguatezza della filosofia analitica quando deve spiegare adeguatamente alcune teorie matematiche. Sostanzialmente, per Toth la filosofia analitica si sarebbe mostrata incapace di interpretare o di spiegare i processi del pensiero matematico: Mentre l’esclusione del soggetto, dell’Io da parte della filosofia analitica è abbastanza nota, meno noto è che il suo tallone d’Achille è il campo del sapere matematico, il campo della conoscenza matematica. Ciò potrà sorprendere - me ne rendo conto - ma è appunto questo che mi sembra significativo: l’incapacità della filosofia analitica di spiegare, di interpretare i processi più importanti del pensiero matematico, del sapere matematico. L’atto di creazione che si manifesta nel passaggio dal non-essere all’essere del numero negativo, immaginario, irrazionale così come nel caso delle geometrie non euclidee o degli spazi a più di tre dimensioni - è assolutamente inaccettabile per il pensiero analitico; la simultaneità delle verità contradditorie, E e non-E, dei domini di essere opposti, un universo euclideo e un universo non euclideo, che contengono, ciascuno separatamente, tutto ciò che è - è un vero orrore. Due spazi differenti non possono coesistere nello stesso mondo - ripeteva Bertrand Russell, ed è riuscito a eliminare la teoria dell’irrazionale

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elaborata da Dedekind con un elegante sorriso di disprezzo dicendo che il grande vantaggio che essa presenta è lo stesso di quello del furto rispetto al lavoro onesto. La soluzione che propone per evitare la catastrofe della coesistenza di due spazi con geometrie opposte l’una all’altra è quella di interpretare la parola «retta» delle proposizioni non euclidee come designante in realtà una certa curva - eventualmente, un certo arco di cerchio perpendicolare alla circonferenza di un disco circolare dato - contenuta nel modello assoluto del testo non euclideo; questa curva, questo oggetto geometrico assoluto interpreta o rappresenta allora la parola «retta» delle proposizioni non euclidee. «Modello assoluto» significa una configurazione geometrica del piano assoluto, cioè di un piano nel quale gli assiomi delle parallele E e non-E sono indecisi e indecidibili, né veri né falsi. Nel piano assoluto l’assioma del terzo escluso non è valido per la coppia (E, non- E): né E, né non-E, questa coppia non vi rappresenta un’alternativa. Il modello rappresenta dunque l’universo non euclideo come la sua carta geografica, il suo mappamondo nel piano assoluto. Esso rappresenta, evidentemente, anche il testo assoluto, perché questo è una parte vera e propria del testo non euclideo e anche del testo euclideo. Ma secondo il teorema fondamentale di Wanda Szmielewa, il teorema della rappresentazione, non importa quale modello della geometria assoluta è necessariamente un modello o della geometria non euclidea, oppure della geometria euclidea10.

In un altro luogo, riprende la polemica con Quine contestandogli una sostanziale sottovalutazione della portata epistemologica delle geometrie non euclidee. A tale scopo, Toth cita un passaggio di un saggio di Quine relativo al concetto di verità logica in Carnap, facendolo seguire da un ulteriore passaggio tratto dal celebre articolo Two Dogmas of Empiricism: Le geometrie non euclidee sono state concepite grazie a una deviazione artificiale dal postulato di Euclide. All’inizio esse sono state private di qualsiasi interpretazione, dunque di verità [in originale inglese: The non-Euclidean geometries came of artificial deviations from Euclid’s postulates, without (10) Imre Toth, «“Deus fons veritatis” ..., cit., pp. 532-533. Nel volume citato nella nota 6, il testo è alle pp. 77-78.

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thought (to begin with) of true interpretation]. Comunque, giocando con una geometria non euclidea, si può agevolmente far credere che questi teoremi siano stati interpretati e che siano veri. Nel frattempo, esse hanno avuto interpretazioni serie e un insieme di non-proposizioni ha potuto essere identificato con delle autentiche verità. D’altronde, tutte le entità che costituiscono la sostanza stessa della matematica, come per esempio i numeri irrazionali [nell’originale di Quine però si legge: «ultimately classes and classes of classes and so on up»], non sono altro, in fondo, che dei miti epistemologici, allo stesso modo in cui lo sono, d’altra parte, gli oggetti della fisica teorica. Dei miti raffinati, superiori, dei miti buoni e utili, senza dubbio, purtuttavia nient’altro che dei miti - sullo stesso piano degli dèi della mitologia greca11.

Sembra quasi che Toth voglia abbracciare una prospettiva, per così dire, neo-meinonghiana, con un impegno ontologico che postula l’esistenza anche di entità apparentemente contraddittorie, diffidando di ogni teoria che cerchi di eliminare, con strategie logico-linguistiche, ogni riferimento a entità immaginarie o modalmente problematiche. Così, cita altri passi di Quine e Russell in modo da evidenziare la loro strategia eliminativista, rispetto alla quale si mostra alquanto diffidente: Se si continua ad assegnare la parola essere a esseri mitici, allora io sollevo la questione: «Qual è il rapporto numerico tra l’insieme dei centauri e quello dei liocorni?». E l'indagine del naturalista senza dubbio porterà al risultato che - essendo la potenza di questi insiemi, per entrambi, nulla - il loro rapporto numerico è 0:0, cioè a dire che un tale rapporto numerico non esiste affatto! Si potrebbe allo stesso modo parlare, invece di Pegaso, del cerchio quadrato della cupola del collegio di Berkeley!12 (11) W.V.O. Quine, «Carnap & Logical Truth», in: Logic & Language. Studies dedicated to Professor Rudolf Carnap at his Seventieth Birthday, Reidel, Dordrecht 1962, pp. 47-48; Id., From a Logical Point of View, Harper & Row, New York 1963, pp. 3-11, 4. Passi citati in Imre Toth, Palimpseste: Propos avant un triangle, Presses Universitaires de France, Paris 2000; trad. No! Libertà e verità creazione e negazione. Palinsesto di parole e immagini, Bompiani, Milano 2003, p. 161. (12) W.V.O. Quine, From a Logical Point of View, Harper & Row, New York 1963, pp. 3-4 e passim. Citato in Imre Toth, Palimpseste: Propos avant un triangle, cit.; trad. No! Libertà e verità creazione e negazione. Palinsesto di parole e immagini, cit., p. 206.

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Ammetto che non è comune tra i filosofi affrontare la questione del quadrato rotondo con il coraggio che richiede. In effetti, per poterlo fare con successo, bisogna disporre d’una teoria del quadrato rotondo che possa far fronte a tutte le esigenze. Il Centauro appartiene alla classe vuota. Il suo nome non denota nessun elemento d’un qualche insieme, non designa assolutamente niente. È un non ente e come tale non potrebbe costituire il soggetto grammaticale di una proposizione. Il caso del Nettare e dell’Ambrosia è naturalmente più complesso, almeno mi sembra. Trattando di simili oggetti si andrà inevitabilmente incontro a difficoltà che non si possono evitare in altro modo solo grazie alla teoria della denotazione da me sviluppata a proposito di Giorgio V. L’attuale re d’Inghilterra era curioso di sapere se «Scott è l'autore di Waverley». Io sono stato in grado di risolvere l’enigma che attraeva la sua curiosità spiegandogli che “Scott” non è che un nome il quale designa l’elemento unico dell’insieme “autore di Waverley”, ma non l’insieme stesso. Se infatti lo fosse, allora si sarebbe parimenti obbligati ad accettare un’espressione come “Scott è”, il che altro non è che una pessima espressione linguistica, e si arriverebbe di conseguenza alla conclusione che “Scott è Scott”. E non era certo questo che the first gentleman of Europe desiderava apprendere. Evidentemente, “l'attuale Re d'Inghilterra” denota quindi l’elemento unico d’un insieme con un solo elemento, e mentre la proposizione “l'attuale Re d'Inghilterra è calvo” risulta falsa, la sua negazione è vera13.

Bisogna però dire che l’epistemologia della matematica elaborata in ambito analitico è molto più varia e frastagliata rispetto ai limiti presenti nei testi dei “padri fondatori” citati da Toth. Ad esempio, Paul Benacerraf, autore di una celebre antologia sulla filosofia della matematica contemporanea, coedita con Hilary Putnam, osserva che senza dubbio molti approcci filosofici non siano riusciti a rendere conto di (13) Le citazioni di Russell sono tutte riportate da Toth in No! Libertà e verità creazione e negazione ..., cit., p. 204, 206 e 208. Sono tratte da Essays in Analysis, George Braziller, New York 1973, pp. 80-81, 100; My Philosophical Development, Simon & Schuster, New York 1959, p. 64; The Philosophy of Logical Analysis, in The Basic Writings, Allen & Unwin, London 1961, p. 279.

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come l’intuizione matematica sia connessa alla verità delle proposizioni matematiche (e per lui lo stesso Platone avrebbe fatto ricorso al concetto di anamnesi come espediente per spiegare come, data la natura delle idee matematiche, si potesse mai avere conoscenza di esse). Benacerraf propone una “visione combinatoria” della verità matematica (“a combinatorial view of mathematical truth”) che per lui va giustificata attraverso procedure dimostrative e “costruttive”, in modo da ottenere una soddisfacente teoria della conoscenza matematica. Infatti, quali che siano gli “oggetti” della matematica, la nostra conoscenza si ottiene partendo da dimostrazioni (proofs): è in gran parte attraverso di esse che si ottiene e si trasmette la conoscenza matematica. Questo punto di vista permette a Benacerraf di andare oltre la convenzionale visione platonista della matematica e di approdare a una concezione “strutturalista”, nel senso che ciò che è importante dei numeri sono le strutture astratte che essi rappresentano piuttosto che gli oggetti a cui i simboli numerici apparentemente si riferiscono (tesi parzialmente ancorate alle concezioni di Ernst Zermelo e John von Neumann e non incompatibili con il punto di vista di Toth). Peraltro, per Benacerraf un resoconto adeguato della verità in matematica implica l’esistenza di oggetti matematici astratti, ma tali oggetti sono epistemologicamente inaccessibili perché causalmente inerti e fuori dalla portata della percezione sensoriale, mentre Toth sembra ammettere la possibilità di un accesso a tali oggetti in termini platonicodialettici14. Anche Carlo Cellucci ha cercato di evidenziare i limiti della filosofia della matematica di stampo fregeano e di additare diversi approcci riconducibili alla tradizione analitica lato sensu e in gran parte consonanti con le vedute di Toth. Per il logico italiano, a partire da Frege, (14) Cfr. Paul Benacerraf, “Mathematical Truth”, in Paul Benacerraf-Hilary Putnam, Philosophy of Mathematics. Selected Readings, Cambridge University Press, Cambridge, pp. 416-417 ss.

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la filosofia della matematica è stata sviluppata come una disciplina autonoma, tant’è vero che Frege è stato «il primo filosofo della matematica a tempo pieno». Ma egli dubita dell’opportunità di tale prospettiva. Infatti, per lui pensare che si possa sviluppare la filosofia della matematica come una disciplina autonoma è un assunto basato sul presupposto che la natura della matematica possa essere indagata senza impegnarsi in questioni concernenti la percezione e la mente o in altri problemi di natura squisitamente epistemologica. Ma si tratta di un’assunzione ingiustificata, perché la matematica che pratichiamo dipende essenzialmente dall’apparato percettivo e dalla struttura della mente di cui disponiamo. Inoltre, essere un filosofo della matematica a tempo pieno significa avere una visione unilaterale della matematica, forse perfino un po’ povera. Frege sosteneva che «un filosofo che non abbia alcuna familiarità con la geometria è solo un filosofo dimezzato»15. Ma nello stesso modo si può dire che un filosofo della matematica a tempo pieno è solo un filosofo dimezzato. Per Cellucci, è «anche ingiustificato affermare che, basandosi sulla logica matematica da lui creata come strumento della filosofia della matematica, Frege ha prodotto una rivoluzione in filosofia che ha cambiato l’aspetto della disciplina». Infatti, le principali idee filosofiche di Frege sulla matematica furono da lui mutuate dalla tradizione filosofica (Leibniz e Kant, in particolare). Frege intendeva mostrare che le verità aritmetiche sono verità logiche, o meglio sono deducibili da un insieme finito di verità primitive logiche. Secondo questo programma logicista, «non si può tracciare alcun confine netto tra la logica e l’aritmetica» ma esse «insieme costituiscono una scienza unificata», sicché «non esiste un modo di inferenza peculiarmente aritmetico che non possa essere ridotto ai modi di inferenza generali della logica». Ma (15) Gottlob Frege, Le fonti conoscitive della matematica e delle scienze naturali matematiche, in Scritti postumi, a cura di Eva Picardi, Bibliopolis, Napoli 1987, p. 421 (or. Erkenntnisquellen der Mathematik und der mathematischen Naturwissenschaften, in Nachgelassene Schriften, Meiner, Hamburg 1969, p. 293).

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per Cellucci non è affatto vero che le proposizioni fondamentali su cui si basa l’aritmetica, in quanto si estendono a tutto il pensabile, possano attribuirsi alla logica. Infatti, egli osserva che le leggi della logica di Frege «non si estendono a tutto il pensabile, per esempio non si estendono agli oggetti della matematica intuizionista, per i quali non vale il principio del terzo escluso. Inoltre, anche Kant avrebbe potuto affermare che le proposizioni fondamentali su cui si basa l’aritmetica si estendono a tutto il pensabile, anche a ciò che non può essere dato nell’intuizione, per esempio a enti immaginari»16. In conclusione, potremmo sostenere che le concezioni di Toth si contrappongono senza dubbio a vari approcci alla filosofia della matematica di origine “analitica”, segnatamente al cosiddetto mainstream rappresentato dalle vedute di alcuni esponenti del Circolo di Vienna (Carnap, Reichenbach), di Frege, Russell e Quine. Ma la filosofia analitica è ormai diventata un fiume su cui convergono molti affluenti e che presenta una foce a delta, piuttosto che a estuario, in cui le acque delle varie filosofie si presentano suddivise in vari rami, alcuni convergenti e altri divergenti. Qui noteremo come Toth abbia più volte sottolineato la sua divergenza rispetto all’idea, tipica di una certa tradizione analitica fregeana, del primato del linguaggio rispetto al pensiero. Ad esempio richiamandosi a Platone, come nel seguente passo: L'unica via d’uscita dall’alternativa, che Platone raccomanda nella sua conclusione del Cratilo, è quella di non affidarsi alle parole, di non affidarsi alla coerenza logica del linguaggio, ma di rinunciare alla priorità del linguaggio, e di cercare la verità nell’essenza dell’essere eterno e svelato (ἀλήθειαν τῶν ὄντων; 438D), di esplorare e sperimentare la verità a partire dalle cose preesistenti stesse17. (16) Le citazioni sono tratte da: Carlo Cellucci, La filosofia della matematica del Novecento, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 5-20. (17) «Der einzige Ausweg aus der Alternative, den Platon in seiner Konklusion dem Kratylos empfehlt, ist, sich nicht auf die Worte, nicht auf die logische Kohärenz der

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Ma se non si sottoscrive la tesi di Michael Dummett per cui la filosofia analitica presuppone l’accettazione del linguistic turn, allora potremmo tranquillamente concludere che tra quello che potremmo definire l’approccio “dialettico-platonico” di Toth e alcune concezioni “analitiche” della filosofia della matematica non sussiste uno iato così grande e profondo come di primo acchito poteva sembrare. Ed è mia convinzione che sia meglio costruire ponti di raccordo tra le differenti tradizioni che enfatizzarne le divergenze.

Sprache zu verlassen, sondern auf die Priorität der Sprache zu verzichten, und die Wahrheit im Wesen des ewigen und unverhüllten Seins zu suchen (ἀλήθειαν τῶν ὄντων; 438D), die Wahrheit aus den präexistenten Dingen selbst zu erforschen und zu erfahren». (Imre Toth, Fragmente und Spuren nichteuklidischer Geometrie bei Aristoteles, De Gruyter, Berlin 2010, p. 198). Ma anche Gareth Evans ha espresso, in altro linguaggio, posizioni simili: «I suggested that certain referential remarks require for their understanding not merely some information-based thought about an object - not merely some connection or other with the audience’s store of information - but an information-based thought of a particular kind» (The Varieties of Reference, Clarendon Press, Oxford 1982, p. 313).

Gaspare Polizzi Il lògos àlogos, tra matematica e filosofia Come è a tutti noto Imre Toth ha legato il suo nome agli studi su Aristotele, intrapresi in tempi lontani - il primo articolo fu pubblicato del 1966 - e molto discussi, che attestano la presenza di argomentazioni “non euclidee” in diciotto passi degli scritti aristotelici, soprattutto negli Analitici primi e secondi e nelle Etiche. Il suo saggio più noto - Das Parallelenproblem im Corpus Aristotelicum (1967; tr. it. 1997), ora ripreso nel volume postumo Fragmente und Spuren nichteuklidischer Geometrie bei Aristoteles (2010) - ha prodotto discussioni e polemiche tra gli antichisti e gli storici della matematica. Toth testimonia come i passi di Aristotele da lui studiati fossero stati ignorati anche dai maggiori studiosi di Aristotele e come il suo impegno “archeologico” lo condusse a ricostruire lo scenario culturale dell’Accademia platonica, insieme matematico ed etico, avviando un'indagine sul ruolo della libertà del soggetto alle origini del sapere matematico. Dalla lettura dei passi “non euclidei” delle Etiche di Aristotele Toth ha tratto la convinzione che l’éthos è superiore al lògos, che la libertà del soggetto è il fondamento ontico dell’essere matematico. Nei vent’anni che ha poi dedicato, a partire dal 1991, a Platone, Toth ne ha individuato la funzione decisiva per la nascita insieme della filosofia e della matematica occidentali. Di Platone Toth ha iniziato a scrivere fin dal saggio I paradossi di Zenone nel Parmenide di Platone (1991)1 e (1) I. Toth, I paradossi di Zenone nel Parmenide di Platone, trad. di A. Moretto, Bibliopolis, Napoli 1994, 20062.

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da Lo schiavo di Menone. Commentario a Platone, Menone 82B-86C (1998), curato da Elisabetta Cattanei e prefato da Giovanni Reale2, che disseziona i paragrafi del Menone che presentano la dimostrazione geometrica del teorema di Pitagora, per pervenire alla rivelazione dell'esistenza di un lògos àlogos, di una «misura non misurabile», matrice lontana dei numeri irrazionali. E poi con Platon et l’irrationnel mathématique, pubblicato postumo nel 2011 da Romano Romani. Ora le ricerche platoniche di Toth sono raccolte in un ponderoso volume, postumo, Platon (2020), dovuto ancora all’impegno di Romani, al quale Toth ha lavorato fino al 5 maggio 2010, sei giorni prima della sua morte improvvisa per attacco cardiaco. Il libro raccoglie, in ordine cronologico, il ricordato saggio del 1991 e i files dei due testi sui quali l'autore stava lavorando, rintracciando nel pensiero di Platone il motore determinante per lo sviluppo della filosofia e della matematica occidentali. Mi soffermo brevemente sull'analisi del Parmenide per indicare come Toth abbia sviluppato in forma originale una riflessione che ha una correlazione con l'interpretazione di Parmenide e della logica e matematica eleatica formulata da Federigo Enriques. Toth ricorda come abbia conosciuto precocemente l’opera di Enriques, «un des esprits les plus indépendants, non seulement de la géométrie et de l’algèbre modernes mais aussi de l’histoire de la pensée mathématique conçue en termes de la modernité»3, alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, al Liceo, a partire dal suo interesse per gli argomenti di Zenone di Elea, e specificamente di quello dello stadio, e per il fenomeno dell’irrazionale. Ma va aggiunto che nel suo intervento al “Colloquio internazionale” tenutosi a Livorno e a Parigi il 6 (2) I. Toth, Lo schiavo di Menone. Commentario a Platone, Menone 82B-86C, a cura di E. Cattanei, Prefazione di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1998. (3) Cfr. I. Toth, Mathématiques et liberté du sujet, in P. Bussotti (a cura di), Federigo Enriques e la cultura europea, Agorà, Lugano 2008, pp. 259-268 (citazione alla p. 260).

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e l’8 dicembre 2006 su Federigo Enriques e la cultura europea non si confronta nel dettaglio con il pensiero del matematico livornese. In una serie articolata di ricerche, che è stata oggetto anche di un recente studio4, Enriques ha esposto le sue argomentazioni in termini logici e geometrici sul Peri Physeos di Parmenide, sorrette anche da analisi storiche e filologiche, che si possono così sintetizzare. Parmenide fu il primo a esporre in modo chiaro la nozione di oggetto geometrico astratto, in quanto propose un’idea del continuo matematico contrapposta a quella dei pitagorici. Fu anche il primo a fornire lo schema logico della dimostrazione per assurdo, connessa con la sua concezione della geometria. Secondo Enriques, «la critica logica dei matematici e la dialettica dei sofisti “sono generate dalla filosofia eleatica”, in quanto in Parmenide si presenta una logica del continuo e «proprio dalle considerazioni infinitesimali - in cui il pensiero si trova esposto a non sospettate fallacie - trae origine la critica del ragionamento, onde ne esce fuori la scoperta del principio di contraddizione e il procedimento di riduzione all'assurdo»5. Riprendendo, con qualche leggerezza, notizie fornite da Proclo, che in realtà si riferiva al Parmenide di Platone, Enriques sostiene che «mentre i pitagorici si affaticavano intorno a questa difficoltà [la scoperta dell'incommensurabilità della diagonale e del lato del quadrato], altri (4) Mi riferisco a P. Bussotti, Parmenides, the Founder of Abstract Geometry. Enriques Interpreter of the Eleatic Thought, “Foundations of Science”, 28, 2023, pp. 947-975 (https://doi.org/10.1007/s10699-022-09854-0). Cfr. F. Enriques e G. de Santillana, Compendio di storia del pensiero scientifico dall'antichità fino ai tempi moderni, IV. Gli Eleati, Zanichelli, Bologna 1937, pp. 42-61, in particolare, su Parmenide, p. 50: «Intanto ad affinare queste esigenze, la geometria si spoglia di ciò che d'empirico rimaneva ancora nel sistema pitagorico, ed attraverso una critica rigorosa acquista piena consapevolezza del significato razionale dei suoi enti» e su Platone le pp. 126-127, dove gli Autori sostengono che l'ideale logico di Platone «potrebbe apparirci esprimente appunto l'esigenza che matura nella revisione critica dei principii da parte dei matematici contemporanei» (p. 127). (5) F. Enriques, Per la storia della logica. I principiii e l'ordine della scienza nel concetto dei pensatori matematici, a cura di R. Simili, Zanichelli, Bologna 1987 [rist. anastatica 1922], pp. 7-8.

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filosofi che del resto sono usciti dai medesimi circoli [Enriques richiama qui l'inserimento di Parmenide tra i pitagorici operato da Giamblico], iniziano la critica dei concetti geometrici, riconoscendo che un pensiero razionale, il quale voglia mantenersi immune da contraddizioni, deve riguardare il punto come privo di estensione, la linea come lunghezza senza larghezza, la superficie senza spessore, e di qui vengo naturalmente condotto alle prime considerazioni infinitesimali. Questi critici razionalisti sono gli Eleati: Parmenide e il suo discepolo Zenone. La loro speculazione (appartenente alla prima metà del secolo 5° a.C.) segna un punto decisivo nella storia della filosofia greca, perocché essa proclama nettamente, per la prima volta, i diritti della ragione: il pensiero coerente viene assunto senz'altro a misura della verità, cioè dell'esistenza metafisica, distinta e contrapposta all'opinione probabile che si riferisce alla realtà sensibile»6. Dal razionalismo eleatico trae origine per Enriques il metodo dialettico, «che è il germe della logica»; ed esso implica «l'intiero problema dell'assetto rigoroso della geometria»7. Sarà Platone a trarne delle conseguenze generali sull'ordinamento della scienza, ponendo alla base della geometria principi evidenti come gli assiomi: «I passi citati [Enriques fa riferimento ai seguenti passi della Repubblica: 510, c, d, e; 511; 533, c; 527] indicano assai chiaramente che per conferire alla scienza un valore razionale, il filosofo vorrebbe eliminare quelle domande che si pongono a fondamento delle dimostrazioni, sotto il nome di postulati (), mercé cui si assume la possibilità di certe costruzioni, facendo appello ad operazioni pratiche sopra modelli sensibili. La base della geometria, edificata secondo i criteri della dialettica, consisterebbe dunque in pure definizioni (il procedimento dialettico ha appunto come scopo di definire i concetti!) o in principi evidenti - quali gli assiomi - che Platone riguarderebbe come conoscenze innate, giusta la teoria della reminiscenza esposta nel Menone. In tal guisa le proprietà elementari che le figure (6) Ivi, pp. 9-10. (7) Ivi, p. 10.

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visibili hanno porto occasione di riconoscere, mercè l'intelligenza idealizzatrice (ά), apparirebbero fondate sulla pura ragione (νοῦς)»8. Se guardiamo all'analisi sviluppata da Toth sul Parmenide di Platone, troviamo una medesima tensione al riconoscimento della dimensione razionale e “geometrica” del ragionamento platonico. Ma in aggiunta Toth individua nell'operazione che Platone sviluppa sull'ontologia parmenidea una «commisurata tortura» che condusse a introdurre l'àlogos nel lògos. Nei Paradossi di Zenone nel Parmenide di Platone si legge: «Il traguardo cui mirava Pratone, come egli ammise più tardi [nel Sofista] nel ruolo dello Straniero di Elea, era di sottoporre a una commisurata tortura (μέτρια βασανιστείς) l'assioma del “grande Parmenide”: il non essere non è - per costringere la stessa proposizione a confessare che il non essere è in qualche maniera qualche cosa (τὸ μὴ ὂν ὡς ἔστι; Soph. 237AB, 241D)»9. La negazione parmenidea della misurabilità viene integrata da Platone con l'affermazione dell'esistenza di una non misura, ασύμμετρος, perché - come si legge nel Sofista (241DE) - «in qualche modo anche il non essere deve disporre dell'essere»10. Toth rintraccia già nel 1991, con dovizia, in Platone riferimenti testuali ai processi infiniti, dal Menone alle Leggi. Muovendo dal rapporto tra la diagonale e il lato di un quadrato, la proprietà di “avere una misura” viene così da Platone «estesa transfinitamente dall'universo numerabile delle diagonali effabili alla diagonale ineffabile»11. Toth intitola l'ultima pagina del saggio del 1991 a Enriques e la leggenda di Zenone, sostenendo che «L'alternativa essere o non essere per il logos dell'uguaglianza è indecidibile per mezzo di una inferenza logica»12. È necessario passare dal piano logico e ontologico a quello (8) Ivi, pp. 13-14. (9) I. Toth, I paradossi di Zenone nel Parmenide di Platone, cit., p. 95. (10) Ivi, p. 96. (11) Ivi, p. 98. (12) Ivi, p. 103.

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etico. La crisi richiede una decisione e la decisione poggia sulla libertà del soggetto: «La sostanza con cui è riempito questo luogo secondo la sua essenza, è la libertà, sinonimo del soggetto in quanto portatore e agente della libertà: è la prerogativa del soggetto libero di decidere l'alternativa logicamente indecidibile, e sta ad esso, alla sua libertà, di scegliere l'eterodossia contraddicente alla ortodossia stabilita, di attribuirle il valore logico della verità»13. È interessante che Toth richiami in conclusione uno scritto di Enriques e de Santillana del 1936 (Pythagoriciens et Éléates) per riportare la fine di Zenone e l'aneddoto, riferito da Enriques e de Santillana e ricavato - lo rivela Toth - dall'Apologetico di Tertulliano. «Zenone “spirito nobile in filosofia ed in politica” - avrebbe organizzato una cospirazione per mandar via il tiranno: il più forte e veloce, il cui nome non è noto, lo avrebbe però catturato, torturato e ucciso»14. Si tratta di una tradizione incerta, ma valorizzata simbolicamente nelle frasi del tiranno e di Zenone morituro, riportate da Enriques e de Santillana: al tiranno che avrebbe detto «voyons ce que t'apprendra la philosophie» Zenone avrebbe risposto «à mépriser les tyrans». Toth postilla che la risposta di Zenone non è riportata dalla fonte, che presenta invece «contemptum mortis». E conclude: «Una svista? Piuttosto una sostituzione consapevole. Nell'anno 1936 non vi era incertezza su come si chiamassero les tyrans, Enriques ha considerato un compito della filosofia di imparare a intendere i loro nomi come sinonimo di mors, e disprezzarli»15. Dall’insieme degli studi di Toth sul pensiero matematico greco emerge l’idea che il fondamento ontico della geometria e dell’aritmetica si trovi nel soggetto trascendentale. L’indagine di Toth si è indirizzata sia sul piano storico che su quello (13) Ivi, pp. 103-104. (14) Ivi, p. 104. (15) Ibidem.

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teoretico. Sul piano storico le ricordate ricerche sui passi “non euclidei” delle Etiche di Aristotele e sulla riflessione matematica di Platone, convergenti soprattutto sui dialoghi Menone, Cratilo, Parmenide e Sofista, dimostrano come Aristotele valuti la libertà “etica” di concepire una geometria “non euclidea” prima di Euclide e come Platone contempli, diversamente dai pitagorici, l’àlogos, l’ “irrazionale”, per designare un’entità aritmetica indipendente da ogni rappresentazione geometrica. Toth dimostra come Platone rimanga a lungo il solo ad abbinare arithmòs con àlogos, dando avvio, inconsapevolmente, alla comparsa dei numeri irrazionali, «grand événement de l’esprit» (Paul Valéry). Sul piano teoretico Toth ha dimostrato come l’indissolubile legame tra matematica e filosofia in Platone apra uno spazio trascendentale nel quale tramite l’èthos superiore al logos il non-essere diviene essere, l’irrazionale penetra nel razionale. Nel suo ultimo, postumo, testo platonico Toth si interroga ancora sul significato dell’intrinseco rapporto tra matematica e filosofia nella storia dell’umanità e ricerca nel percorso storico di entrambe le discipline un’unità teoretica che ha il suo punctum nell’aspirazione sempre maggiore dello spirito umano alla libertà, alla costruzione di un lògos che trasformi il non essere in essere, aprendo nuovi spazi alle potenzialità della mente umana. Scriveva nel 1996 che la matematica apre «la via ad una conoscenza dello Spirito attraverso se stesso, apre la via dialettica della conoscenza di sé del pensiero che pensa se stesso. E quindi lo Spirito viene cosciente di possedere la peculiare facoltà di raggiungere la verità eterna, immutabile e assoluta, di procurarsi la certezza della sua esistenza. Perciò anche lo Spirito può sentirsi giustificato a raggiungere questa verità certa e eterna anche nel campo etico e politico del bene»16. In tal modo le conquiste della matematica si leggono nella forma di una dinamica del negativo, di «uno stato fenomenologico della co(16) I. Toth, Prefazione, in E. Cattanei, Enti matematici e metafisica. Platone, l'Accademia e Aristotele a confronto, Prefazioni di I. Toth e Th. A. Szlezák, Vita e Pensiero, Milano 1996, p. X.

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scienza infelice». Il numero immaginario e le geometrie non euclidee sono presenti nel pensiero occidentale, a partire da Platone e Aristotele, come un sapere del non essere. La loro presenza viene espressamente rifiutata, ma - con un movimento tipico della ragione dialettica hegeliana, una Aufhebung - finirà per essere sussunta nell’autocoscienza della libertà del soggetto trascendentale. Grazie a tale processo dialettico, la fondazione - nel primo Ottocento, a partire dai matematici Nikolaj Lobačevskij, russo, e János Bolyai, ungherese - delle geometrie non euclidee ha trasformato il non essere in essere e ha di conseguenza significato l’invalidazione dell’assioma logico dell’esclusione della contraddizione. Le ricerche sui rapporti reciproci che legano la creazione matematica con la speculazione filosofica, e in particolare sul ruolo della negazione e del pensiero dialettico nella storia della matematica, si sono progressivamente arricchite di contenuto filosofico fino a raggiungere una felice sintesi in La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale17, oltre che in un’opera singolare - No! Libertà e verità, creazione e negazione18 - vastissimo collage di citazioni in positivo o in negativo sulla geometria non-euclidea, in qualche modo simile ai collages che Toth ha realizzato seguendo un suo intuito di artista, riconosciuto anche pubblicamente. L’idea di Occidente è per Toth una temperie dello spirito e della filosofia, nella quale emerge la creatività matematica, che nulla ha a che fare con la logica. La matematica non è riducibile alla logica e presenta un rapporto profondo con la filosofia, nella sua tradizione dialettica, da Platone a Hegel. Nella storia della matematica si rappresenta il dramma dialettico prodotto dalla sua ricorrente epifania. In tale dramma Toth indirizza (17) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale. Una apologia, a cura di R. Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2007. (18) I. Toth, No! Libertà e verità, creazione e negazione. Palinsesto di parole e immagini, Rusconi, Milano 1988.

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l’attenzione verso quella “via regia” che ha condotto - tramite Platone al soggetto trascendentale che ha liberamente deciso dell'esistenza di un lògos àlogos: «Le cheminement de Platon fut un cheminement de la pensée permettant l’ascension de l’intellect vers des domaines transcendantaux de l’esprit, des domaines d’être qui transcendent non seulement le monde du sensible mais surtout - et c’est décisif - l’univers soumis aux lois du raisonnement logique»19. Concludendo il suo intervento al ricordato “colloquio” del 2006 su Enriques e la cultura europea Toth rimarca la catena di discontinuità che attraversa la storia del pensiero matematico (e filosofico), presentandosi come «une rupture abyssale dans le cheminement de la pensée, de la pensée humaine universelle et non seulement dans l’épanouissement de la pensée spécifiquement mathématique», che eleva il non essere alla dignità dell’essere, con Parmenide, oltre Parmenide: «le cheminement du savoir mathématique est constitué d’une chaîne de discontinuité, de rupture ontologiques et logiques dues à l’intervention de l’opération de la négation d’un monde donné comme domaine d’être et à l’élévation simultanée de ce non-être à la même dignité d’être dont disposait le monde de l’être initialement donné»20. È la via, sempre interrotta, che conduce al lògos àlogos, per l’appunto.

(19) I. Toth, Platon et l’irrationnel mathématique, Préface de R. Romani, Éditions de l’éclat, Paris 2011, p. 117. (20) I. Toth, Mathématiques et liberté du sujet, in P. Bussotti (a cura di), Federigo Enriques e la cultura europea, cit., pp. 263 e 268.

Siegmund Probst - Karine Chemla Lo scienziato Imre Toth1 (trad. di Antonio Moretto e Lucia Procuranti)

La biografia di Imre Tóth ci sembra avventurosa, ma, nell'Europa orientale, è sicuramente solo un esempio di tante simili biografie di intellettuali ebrei della sua generazione2. Tóth nacque nel 1921 a Satumare, in Transilvania (Szatmárnémeti, Sathmar), da genitori ebrei ungheresi il cui nome di famiglia era Róth, i quali, prima dei pogrom, vivevano in Ungheria e nel 1919 erano fuggiti nella parte del paese che in quel momento faceva parte della Romania. A Satumare frequentò un liceo un tempo cattolico e da studente aderì al partito comunista. In un'intervista con Pétér Várdy, Tóth parla delle molestie antisemite che i giovani ebrei hanno subito in quel territorio, e di come (1) Il contributo di Siegmund Probst - Karine Chemla: „Der Wissenschaftler Imre Tóth“, è stato pubblicato per la prima volta in tedesco nel volume di accompagnamento alla Ausstellung di Regensburg: Christian Reiß - Andreas Becker (a cura di), Imre Tóth (1921-2010) und die Institutionalisierung der Wissenschaftsgeschichte an der Universität Regensburg, Regensburg 2021, pp. 35-45. Gli autori ringraziano Antonio Moretto e Lucia Procuranti per la traduzione e gli editori e l’Universitätsverlag Regensburg per averne gentilmente permesso la stampa. (2) Le informazioni biografiche sono tratte essenzialmente da un'intervista a Pétér Várdy, di cui è disponibile la traduzione francese di Judith Dupont (P. Várdy, “Dans la vie il y a des Choses qu'on ne fait pas ... et qu'on fait". Conversations con Imre Tóth; in seguito citato come Conversations); il testo originale in lingua ungherese è apparso in P. Várdy, Hosszú út tőlem hozzám, 2014; traduzioni in rumeno e italiano: În viaţă sunt lucruri care nu se fac - şi care totuşi se fac..., 2014; Il lungo cammino da me a me, 2016. ‒ Per una descrizione dell'opera si possono utilizzare le bibliografie commentate di Elisabetta Cattanei: Lo schiavo di Menone, 1998, pp. XXIII-XXXVIII; estesa in https://halshs.archives-ouvertes.fr/halshs-00004274v3/file/26_Cattanei.tif.pdf (ultima consultazione: 25.06.2022); si veda anche la bibliografia aggiornata in questo volume.

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egli abbia protetto con efficacia sé stesso e gli altri nonostante la sua esile corporatura, grazie a una rabbia interiore che gli ha permesso di prevalere sugli aggressori. Tóth ricorda anche il carattere assolutamente unico dei gruppi giovanili che frequentava la sera. Condividevano tutti un'immensa fame di conoscenza, sia riguardo alle ultime tendenze artistiche e letterarie, sia verso le nuove idee scientifiche, sia verso la musica o la filosofia: nulla sfuggiva alla loro sfrenata curiosità e sete di conoscenza. Quando ricordiamo che Imre Tóth era un filosofo il cui pensiero si era nutrito della scienza e che si esprimeva attraverso le più svariate forme di scrittura, oltre che attraverso collage, sculture o fotografie, si comprende quanto queste esperienze giovanili abbiano avuto un'influenza decisiva sulla sua formazione, così come sullo sviluppo intellettuale di coloro che incontrò all'epoca, come il compositore György Ligeti (1923-2006)3. Poco dopo essersi diplomato al liceo, Imre Tóth fu accusato di propaganda antifascista, entrò in clandestinità e fu condannato in contumacia a una lunga pena detentiva. Non potè iniziare i suoi studi universitari, ma frequentò i corsi di un'università ebraica privata e gratuita. Vivendo sotto falso nome, fu arrestato come presunta spia, riuscì a fuggire, ma fu portato di nuovo nel carcere militare. Dopo l'annessione della Transilvania all'Ungheria, fu trasferito in una prigione civile e rilasciato. Divenne nuovamente attivo nel movimento clandestino comunista, ma si consegnò alla polizia, quando suo padre fu messo in arresto familiare. Dopo essere stato in varie prigioni e campi di prigionia, nel 1944 scampò per un pelo al trasferimento in un campo di sterminio e all'omicidio di cui furono vittime i suoi genitori. Quando, alla fine della guerra, le truppe sovietiche a caccia di “tedeschi” lo arrestarono, credendo che fosse uno di loro a causa del suo vero nome Roth, decise di cambiare il suo nome in Tóth, nome che aveva già usato in clandestinità. (3) Conversations, pp. 42, 47-57; Il lungo cammino, pp. 92, 101-117.

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Dal 1944 al 1948 studiò matematica e filosofia nella nuova Università Bolyai di Cluj (Kolozsvar, Klausenburg), in particolare con Samuel von Borbély († 1984), Imre Fényes († 1977) e Lóránt Dezső († 2003). Dopo poco tempo, quando fu accusato di aver deviato dalla linea del partito, perse l’impiego presso il Ministero dell'Istruzione di Bucarest. In seguito lavorò per 20 anni come docente di filosofia e storia della matematica presso l'Università di Bucarest. A causa della sua simpatia per la rivolta ungherese del 1956 e di un articolo in cui difendeva la libertà della scienza (A tudományos kutatás etikája, 1957), nel 1958 fu espulso dal partito comunista e temporaneamente punito con il divieto di pubblicare. Rifiutò le offerte per richiedere una riammissione. Quando venne a conoscenza delle sue ricerche, lo storico matematico Joseph E. Hofmann († 1973) lo aiutò a ottenere una pubblicazione sulla rinomata rivista Archive for History of Exact Sciences (Das Parallelenproblem im Corpus aristotelicum, 1967). Nel 1968 a Tóth fu permesso di emigrare in Occidente, e dal 1969 al 1971 fu Gastprofessor a Francoforte sul Meno con Willy Hartner (†1981) e a Bochum, fino a quando fu nominato alla cattedra di Allgemeine Wissenschaftsgeschichte, appena istituita presso l’Università di Regensburg. Durante la sua permanenza a Regensburg è stato invitato all'École Normale Supérieure di Parigi (1975) e all'Institute for Advanced Studies di Princeton (1975/76 come Visiting Fellow, 1980/81 come Member). Dopo aver ricevuto il titolo onorifico di professore emerito, tra le altre cose, fu invitato a tenere lezioni a Budapest, all'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici (Napoli) e al Collège International de Philosophie (Parigi). Nel 2000 fu nominato cittadino onorario di Siracusa, la città di Archimede. L'ultima opera che egli stesso diede alla stampa prima della sua morte, avvenuta nel maggio 2010, fu la summa dei suoi studi, portati avanti per molti anni, sulle discussioni riguardo ai fondamenti della geometria nel Corpus Aristotelicum (Fragmente und Spuren nichteuklidischer Geometrie bei Aristoteles, 2010). La ricezione della sua opera fu promossa principalmente da Giovanni Reale († 2014)

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e Romano Romani. Quest'ultimo pubblicò i testi su cui Tóth aveva lavorato fino all'ultimo (Platon et l'irrationnel mathématique, 2011; Platon, 2020), traendoli dall’opera postuma di Tóth, che in gran parte è curata dall’Università di Siena. Quando si abbozza un ritratto di Imre Tóth, non bisogna dimenticare la sua eleganza, sia nell'abbigliamento, sia artisticamente, o nell’onestà dei sentimenti o della morale. Fu probabilmente questo legame con l'eleganza che alla fine lo ha portato a scegliere l'Italia come patria dell'anima. Non dobbiamo nemmeno dimenticare il suo talento narrativo. Sapeva affascinare qualsiasi pubblico, a volte farlo ridere, presentando per esempio con inimitabile umore la meschinità di Eugen Dühring (1833-1921) o le argomentazioni del suo «illustre collega tedesco, storico delle matematiche, Kurt Vogel» (1888-1985)4, con le quali voleva dimostrare che «gli ebrei sono inadatti alla matematica per ragioni razziali»5. Dall’intervista con Pétér Várdy, emergono altre belle immagini delle capacità di Imre Tóth di raccontare episodi legati alla sua vita. Possiamo menzionare come esempio la descrizione che Imre Tóth dà dell’atto d’accusa del Partito Comunista della Romania contro il suo amico Laci Farkas, nei primi anni Cinquanta. Con uno sguardo spietato e un vigore inimitabile, Tóth perpetua il carattere del Presidente del Tribunale mediante una descrizione implacabile. Allo stesso tempo, descrive il suo viaggio interiore fino al punto in cui dice «No» - egli, a cui il partito aveva intimato come ad (4) Conversations, pp. 8, risp. 7; Il lungo cammino, pp. 42-43, 41. (5) Conversations, pp. 7-8; Il lungo cammino, 41. Kurt Vogel sosteneva di aver «spiegato che gli ebrei dell'antichità non hanno ottenuto risultati significativi nel campo della matematica, e che anche in seguito, prima del XIX secolo, non hanno partecipato in modo significativo all'ulteriore sviluppo della matematica antica e alla creazione della matematica moderna [...] Se non ci si accontenta di stabilire semplicemente i fatti, ma si vogliono indagare le ragioni dei diversi tipi di conquiste dei popoli, si deve giungere alla conclusione che le diverse disposizioni delle razze sono il fattore decisivo» (Kurt Vogel, Mathematik und Judentum, in: Zeitschrift für die gesamte Naturwissenschaft 5,1939, pp. 27-28; ristampato in: Birgit Bergmann - Moritz Epple (a cura di), Jüdische Mathematiker in der deutschsprachigen akademischen Kultur, 2009, p. 195).

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altri di testimoniare a favore dell’accusa in questo processo6. Colpisce il fatto che Tóth abbia ripetutamente trovato la forza interiore per dire “No”, sia all'ingiustizia di cui hanno dovuto soffrire gli oppressi, sia al dover scendere a compromessi. Ma ora si può comprendere che “il dire no” era proprio l'atto teorico essenziale a cui dedicò la sua ricerca. Le ricerche di Imre Tóth furono condotte sin dall’inizio in modo interdisciplinare: studiò a fondo le relazioni reciproche tra creazione matematica e speculazione filosofica nelle diverse epoche della storia. Partendo dal nascere della geometria non euclidea nel XIX secolo, ad opera di Gauß, Bolyai e Lobačevskij, Tóth è risalito alle sue radici fino alla preistoria degli Elementi di Euclide, analizzandone le tracce in Platone e in Aristotele, e la loro ricezione fino all’epoca contemporanea. Anche gli altri suoi principali temi di ricerca ebbero origine nell'antica Grecia. Tóth esaminò nei dettagli i paradossi di Zenone, basandosi sulle fonti originarie, in particolare esaminò la dicotomia e l’inseguimento (il cosiddetto Achille), e la storia dei loro effetti fino ai giorni nostri, di cui la sua interpretazione del dialogo “Il Parmenide” di Platone rappresenta il vertice. La terza area di ricerca è stata l'indagine sull'importanza della teoria delle quantità irrazionali per la filosofia di Platone, a cui si dedicò fino alla fine della sua vita. Come per i paradossi di Zenone, anche qui la questione dell'infinito è un problema centrale. In questa ricerca era per lui di particolare importanza il rapporto reciproco tra i discorsi sull'esistenza matematica da un lato e la libertà umana dall'altro. Tóth si occupò dei suoi temi con approcci e media costantemente rinnovati, sia che si trattasse di studi scientifici, o di collage letterari (Palimpseste. Propos avant un triangle, 2000), o collage di immagini e sculture. Distingueva due principali tipologie di autori: gli autori delle “Opere Complete” e quelli che scrivono sostanzialmente sempre sullo stesso libro; Tóth si annoverava tra questi ultimi. (6) Conversations, pp. 72-73; Il lungo cammino, pp.140-142.

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Le prime pubblicazioni scientifiche di Tóth riguardarono la geometria non euclidea: egli esaminò in particolare il ruolo che la negazione degli assiomi ebbe nell'emergere della nuova teoria e nell'ulteriore sviluppo della matematica moderna (A Bolyai-geometria filozofiai vonatkozasai, 1953; Johann Bolyai, Leben und Werk des großen Mathematikers, 1955). Tóth ne ha inoltre sottolineato la fondamentale importanza per la filosofia, poiché per la prima volta nella storia si è dovuto rinunciare alla convinzione dell'unicità della verità in favore dell'accettazione simultanea di teorie opposte. Tóth vide in questo fatto, dopo la svolta copernicana, il secondo punto di svolta nella storia della scienza moderna e l'inizio dell'era postmoderna (Wissenschaft und Wissenschaftler im postmodernen Zeitalter, 1987). Sebbene nella storia, fino all'emergere della geometria non euclidea (e dopo, per molto tempo, tra i suoi oppositori), fosse prevalente l’idea che la geometria euclidea potesse anche essere sviluppata in modo rigorosamente logico senza ricorrere al postulato delle parallele, a partire da Aristotele c'era stato un altro punto di vista, secondo il quale non c'era alcuna costrizione logica ad accettare la geometria euclidea (esemplificata dal teorema sulla somma degli angoli del triangolo uguale a due angoli retti) come la vera geometria, e la decisione in suo favore doveva essere giustificata in altro modo. Si apriva così uno spazio per un discorso in cui la decisione sulla vera geometria era legata al concetto di libertà: Aristotele aveva discusso il problema come esempio di una scelta eticamente fondata tra diverse alternative (Geometria more ethico, 1977). Fin dal Medioevo, da Mosè Maimonide a Tommaso d'Aquino, da Dante a Cartesio, la libertà di Dio nella sua creazione del mondo ha costituito il quadro di riferimento per una discussione che è proseguita sull'esempio della somma degli angoli del triangolo (Spekulationen über die Möglichkeit eines nichteuklidischen Raumes vor Einstein, 1979). All'inizio del XVIII secolo, Girolamo Saccheri elaborò sistematicamente proposizioni geometriche e sistemi di proposizioni che sarebbero poi entrati a far parte della teoria non euclidea, per trovare una contraddizione in essi

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(Essere e non essere: il teorema induttivo di Saccheri e la sua rilevanza ontologica, 1991). Lo sforzo rimase vano, ma fu solo dopo Kant, il quale congetturò l'assenza di un vincolo logico, e cercò invece di giustificare la geometria nell'intuizione trascendentale (Die nicht-euklidische Geometrie in der Phänomenologie des Geistes, 1972), che la geometria si sviluppò come un oggetto della libertà della creazione umana: Gauß, Bolyai e Lobačevskij furono i primi ad accettare la verità simultanea di teorie geometriche opposte e considerarono la geometria non euclidea come la libera creazione delle loro menti (La révolution noneuclidienne, 1977; Wann und von Wem wurde die nichteuklidische Geometrie begründet?, 1980; Von Wien bis Temesvar: Johann Bolyais Weg zur nichteuklidischen Geometrie, 1995). Questo atteggiamento e la sua adozione da parte di successive generazioni di matematici provocarono violenti contraccolpi, anche se con un ritardo di decenni, ad esempio nell'Inghilterra vittoriana (God and Geometry. A Victorian Controversy, 1982), o sull'importante logico di Jena, Gottlob Frege (Three Errors in Frege's “Grundlagen” of 1884: Frege and nonEuclidean Geometry, 1984; Liberté et vérité, 2009). La controversia si è ampliata nel XX secolo quando la teoria della relatività generale di Einstein è stata utilizzata per descrivere lo spazio fisico utilizzando geometrie non euclidee. Sebbene le geometrie non euclidee fossero divenute presto aree della matematica ampiamente riconosciute7, la connessione logica e l'interpretazione filosofica dei vari sistemi richiedevano ancora alcuni chiarimenti (An Absolute-Geometric Model of the Hyperbolic Plane and some Related Metamathematical Consequences, 1979). Imre Tóth presentò alla comunità scientifica una nuova teoria sulla preistoria della geometria euclidea. Nonostante le controversie che ha suscitato fin dall'antichità il postulato delle parallele negli (7) Nell'attuale schema di classificazione dei settori matematici, MSC2020 - Mathematics Subject Classification System sono rappresentati diversi tipi di sistemi geometrici; la geometria euclidea e non euclidea (iperbolica ed ellittica) figurano nella rubrica 51M: https://mathscinet.ams.org/msnhtml/msc2020.pdf (ultima consultazione: 25.06.2022).

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Elementi di Euclide, e nonostante alcuni riferimenti nei commentari ad Aristotele ed Euclide, antichi e successivi, e le diffuse raccolte in antologie di esempi matematici tratti da Aristotele, gli esempi matematici di Aristotele, che fanno riferimento alla dottrina delle parallele, sono stati esaminati sistematicamente e integralmente per la prima volta da Imre Tóth (Das Parallelenproblem im Corpus aristotelicum, 1967). Nel Corpus di scritti antichi attribuiti ad Aristotele o alla sua scuola, egli ha individuato un totale di 18 passaggi testuali in cui vengono formulate o citate in vari contesti proposizioni che contraddicono formalmente il fondamentale teorema euclideo della somma degli angoli del triangolo (il teorema della somma degli angoli del triangolo è in un certo senso equivalente al postulato delle parallele). Secondo l'interpretazione di Tóth, alcune delle cui tesi si ritrovano anche nella ricerca più antica, questi teoremi nascevano dal fatto che era stato scoperto un argomento circolare negli elementi pre-euclidei della geometria8. Sono stati fatti tentativi per risolvere questo circulus vitiosus attraverso vari approcci, sia con dimostrazione diretta sia con dimostrazione indiretta9. Come risultato del loro fallimento, Aristotele giunse a una conclusione che ‒ per dirla in termini moderni ‒ implicava che l'alternativa “euclidea ‒ non euclidea” fosse indecidibile con mezzi logici. Con ciò Tóth spiega il fatto sorprendente che nella sua etica, quando si occupa della libertà umana, Aristotele citi, tra tutte le cose, la scelta dei principi matematici come esempio in cui entra in gioco la libertà di scelta del soggetto agente. Nella sua interpretazione di due tra i più noti paradossi zenoniani, la dicotomia e l’Achille, Tóth scoprì, allontanandosi dalla lettura tradizionale a partire da Aristotele, che questi non sono due varianti dello (8) Si tratta della proposizione fondamentale sulle parallele (Euclide, Elementi, I, 29). (9) Nella recente traduzione tedesca degli Analytica priora (Berlino/Boston: De Gruyter, 2015), Niko Strobach, nel suo commento alle Sezioni II 16, 65a4-9 (pp. 402412) e II 17, 66a11-15 (pp. 439- 441), propone una differente esposizione dei fatti, con apprezzamento delle tesi di Tóth.

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stesso problema. In realtà, i due argomenti hanno una struttura diversa: nella dicotomia, l'esistenza del punto di arrivo è data come prerequisito, e il problema che viene posto è se questo obiettivo può essere raggiunto attraverso una sequenza illimitata di punti intermedi. In Achille, invece, viene problematizzata l'esistenza del punto di arrivo, al quale si approssimano sempre più le successioni illimitate dei punti intermedi raggiunti dal più lento e dal più veloce (Ahile. Paradoxele eleate in fenomenologia spiritului, 1969; Aristote et les paradoxes de Zénon d' Élée, 1979; The Dialectical Structure of Zeno’s Arguments, 1993). Molti lettori del dialogo Parmenide di Platone hanno notato che la figura di Zenone è introdotta in modo prominente nella prima parte del dialogo, ma non compare più nella seconda parte. L'interpretazione di Tóth mostra che Zenone è molto presente in esso, non come persona, ma sotto forma di un'ampia discussione di vari paradossi, in particolare di un modello del suo paradosso dell’Achille. Platone mette in scena un inseguimento nel tempo: il giovane più veloce insegue l’anziano più lento. Qui “più veloce” e “più lento” non si misura con la differenza di età, che naturalmente rimane costante, ma col rapporto tra le età, che si avvicina al valore uno, ma non lo raggiunge mai. In questo modello del paradosso di Achille, l’inseguitore non raggiunge mai l’inseguito. In modo analogo, come nella geometria elementare, se non si assume il postulato delle parallele, non si può decidere se due rette che si avvicinano continuamente l’una all’altra si incontreranno, così il paradosso di Achille non può essere deciso senza ulteriori assunzioni (I Paradossi di Zenone nel Parmenide di Platone, 1994; cfr. Antonio Moretto). La questione dei paradossi di Zenone è strettamente connessa col problema dell'infinito in matematica. Non è quindi un caso che Platone alluda più volte nel dialogo Parmenide a procedimenti che possono essere utilizzati per l’approssimazione di rapporti10. Tóth sceglie (10) È diventato particolarmente famoso il procedimento delineato nel Parmenide 154b-d di Platone, per il quale David Fowler, The Mathematics of Plato's Academy, Oxford 2019, p. 41, ha coniato il termine “Parmenides proposition”: Secondo le ultime

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per l'illustrazione i cosiddetti numeri diagonali e laterali, che Platone cita altrove (Politeia, 546c). Questi numeri vengono utilizzati per formare sequenze di rapporti che approssimano il rapporto tra la diagonale e il lato di un quadrato, ovvero il rapporto che ora viene indicato come (√2)/111. Il rapporto esatto viene raggiunto solo dal valore limite della sequenza infinita: il rapporto tra la diagonale e il lato del quadrato non può essere espresso con un rapporto di numeri interi, il lato e la diagonale sono incommensurabili, non hanno misura comune. Anche nel Menone il lato del quadrato con l'area 2 è un esempio di una lunghezza il cui rapporto con una lunghezza che misura 1 non può essere espresso in rapporti di numeri interi (Lo schiavo di Menone, 1998). Radici quadrate di numeri più grandi sono date nel dialogo Teeteto. Lì il giovane matematico Teeteto presenta la divisione dei numeri in numeri quadrati e numeri rettangolari: il primo caso corrisponde a un'area quadrata la cui lunghezza del lato può essere espressa da un numero intero, la seconda può essere rappresentata solo da un'area rettangolare con misure delle lunghezze dei lati espresse da numeri interi diversi (Teeteto 147e). Tuttavia in un quadrato, con l'area uguale a un numero rettangolare, il rapporto tra la lunghezza del lato e l'unità di misura non può essere espresso come rapporto tra numeri interi. L'esistenza di tali quantità non misurabili (incommensurabili) rispetto a una data misura solleva il problema dell'esistenza o meno di una loro misura: si tratterebbe di una misura non commensurabile, espressa da un rapporto irrazionale. Se si attribuisce una misura alla grandezza geometrica della diagonale del quadrato rispetto alla misura del lato, significa che si accetta una misura incommensurabile. Vista ontologicaricerche, i periodi planetari per il meccanismo di Antikythera dovrebbero venir computati con questo (T. Freeth - D. Higgon - A. Dacanalis et al., “A Model of the Cosmos in the Ancient Greek Antikythera Mechanism”, Scientific Reports 11, Article number 5821 (2021), https://doi. org/10.1038/s41598-021-84310-w (ultima consultazione: 25.06.2022). (11) Il rapporto √2 : 1 è approssimato dalla successione {s(n)∶d(n)}, n∈N, con s(1) = 1, d(1) =1, s(n+1) = s(n) + d(n), d(n+1) = d(n) + 2s(n); i primi rapporti sono 1:1, 3:2, 7:5, 17:12 ecc.

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mente, si passa dallo stato negativo del non-essere allo stato positivo dell’essere (Le problème de la mesure dans la prospettiva de l'être et du non-être, 1991). Nel complesso, Tóth vede la questione delle quantità irrazionali come il punto di partenza e il nucleo della dottrina platonica della “diade infinita e dell'uno”: la misura reciproca di quantità incommensurabili porta a successioni infinite di rapporti il cui valore limite (la misura esatta) può essere raggiunto solo postulando la sua esistenza (Platon et l'irrationnel mathématique, 2011; Platon, 2020). Le ricerche di Imre Tóth sono di eminente importanza per la comprensione dello sviluppo storico nella matematica. Contrariamente alle discipline scientifiche, dove le teorie possono essere falsificate e sostituite da nuove teorie, un progresso fondamentale in matematica avviene sovente in quanto oggetti e concetti precedentemente esclusi (ad esempio quantità e numeri irrazionali, negativi, immaginari, trascendenti) vengono inclusi e integrati nella teoria matematica, ampliando così quest'ultima. Con le geometrie non euclidee è sopraggiunta addirittura una teoria completa, che è stata ottenuta dalla negazione di un assioma della geometria euclidea. Da allora, il metodo della negazione di determinati assiomi di una teoria matematica è diventato un procedimento standard nella matematica moderna per formare nuove teorie. Le vecchie teorie non vengono in questo modo falsificate, ma rimangono invariate. Nel descrivere questo processo, Imre Tóth si è servito del concetto hegeliano di “Aufhebung” di tesi e antitesi nella sintesi e ha sottolineato che la possibilità di negazione in filosofia e matematica è inscindibilmente legata allo sviluppo del concetto di libertà umana (Mathematische Philosophie und Hegelsche Dialektik, 1987; ‘... car comme disait Philolaos le Pythagoricien ...’ Philosophie, Géométrie, Liberté, 1998; Liberté et vérité: Pensée mathématique & spéculation philosophique, 2009). In questo atto di libertà egli vede anche l’affinità della matematica con la creazione artistica (Arte e matematica: domini di libertà e creazione, 2002). In questo contesto non si può che notare la risonanza tra queste

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considerazioni e l'affermazione che Imre Tóth fa (tra virgolette!) nell'intervista con Péter Várdy: «Essere ebreo», afferma, «nel senso proprio della parola, a volte vuol dire non essere»12. Questa affermazione riflette le osservazioni che ha fatto su come fossero identificati gli ebrei nel Sathmar della sua infanzia e adolescenza secondo la sua opinione. Egli osserva che, più di ogni caratteristica fisica, è stato lo sguardo a contrassegnarli come tali. Vivendo costantemente nella paura - una paura che Imre Tóth ha provato fino alla fine della sua vita - hanno formato il loro sguardo, per così dire, per negare la loro presenza. Non sorprende che Imre Tóth abbia detto “no” anche qui. Egli ricordava volentieri, e così racconta nell'intervista, come egli stava “davanti allo specchio” e cercava “di eliminare l’umiltà, la paura dal [suo] sguardo”13. Non dovrebbero essere ignorati i pochi ma importanti contributi di Tóth alla storia dell'antisemitismo nella storia tedesca ed europea: nel 1981 pubblicò una ristampa dell'importante opera che Andreas Osiander aveva stampato anonimamente nel 1541 contro l'accusa di omicidio rituale. Nel saggio allegato ha anche analizzato la prefazione di Osiander alla prima edizione del De Revolutionibus di Copernico (1543), che, contrariamente all'opinione prevalente, ha riabilitato come legittima interpretazione filosofica della teoria di Copernico (Andreas Osiander: Copernikanische Lehre und Menschenrechte, 1981)14. Le sue esperienze con l'antisemitismo sono la base di una conferenza che tenne alla conclusione di un convegno a Napoli nel 1997 sull'Olocausto (Être Juif - après l'Holocauste, 1999). In essa definì l'antisemitismo come parte integrante della cultura occidentale degli ultimi due millenni, superata solo dopo la Shoah. Da ciò Tóth non traeva la conclusione che (12) Conversations, p. 13; Il lungo cammino, p. 50. (13) Conversations, p. 32, Il lungo cammino, 78; siehe auch Conversations, pp. 2527; Il lungo cammino, pp. 67-71. (14) Allo stesso modo si esprime (apparentemente senza conoscere gli scritti di Tóth) J. Mittelstrass, Scientific Truth, Copernicus, and the Case of an Unwelcome Preface, in: G. Hermerén et al. (a cura di), Trust and Confidence in Scientific Research, Stoccolma 2013, pp. 16-22 (ristampato in J. Mittelstrass, Theoria, 2018, pp. 99-104).

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l'antisemitismo sarebbe scomparso e non avrebbe causato più danni, ma come fenomeno della vita intellettuale lo vedeva screditato a lungo termine. Imre Tóth era un uomo del suo tempo. Era una persona del nostro tempo. Il suo senso di solidarietà e giustizia, il suo coraggio di affermare con forza e fermezza i valori fondamentali, nella sua vita come nel suo pensiero, rappresentano altrettante risorse per il pensiero e il nostro comportamento nel mondo di oggi.

Romano Romani La matematica come manifestazione della spiritualità umana: in dialogo con il platonismo di Imre Toth La filosofia nasce ogni giorno. Il cielo e la parola sono profondi come il silenzio, infiniti come la luce.

Non v’è λόγος senza numero, non v’è κόσμος senza λόγος, la monade rende concepibile la molteplicità infinita dei numeri, la misura assoluta, τὸ μέτριον, è un λόγος ἄλογος, un numero ineffabile.

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I. A quanto segue è necessario premettere che considero, e penso che questo sia anche il punto di vista di Imre Toth, gli Elementi - ΣΤΟΙΧΕΙΑ di Euclide - (il primo compiuto trattato occidentale sulla possibilità e l’esigenza di uno spazio soltanto pensato) un’opera filosofica di argomento matematico, non semplicemente ed esclusivamente un’opera matematica. Essa si colloca nella tradizione della filosofia greca che è sempre stata impegnata, in epoca classica e preclassica, con ricerche di carattere matematico. La matematica può essere considerata - non definita - come l’insieme degli strumenti intellettuali del calcolo e della misura che l’essere umano ha a disposizione per muoversi il più adeguatamente possibile nello spazio e nel tempo, costituendo il proprio mondo; può chiamarsi genericamente sapere o saperi da trasmettere da un essere umano a un altro essere umano, da una generazione umana a un’altra. In greco il termine italiano corrisponde a un aggettivo neutro plurale: μαθηματικά. Poiché l’essere umano vive nel tempo e produce con il pensiero i suoi saperi e la propria consapevolezza del suo sapere e della sua ignoranza, ogni sua conquista intellettuale avviene in un’epoca storica, è il risultato dell’attività umana nel trascorrere del tempo. Il sapere matematico, quindi, come ogni altro sapere, appartiene alla storia delle diverse società e contribuisce alla crescita e allo sviluppo delle diverse civiltà nei diversi periodi della loro storia e della storia dell’intera umanità. Sia i numeri dell’aritmetica - che propriamente, dal termine greco ἀριθμός, significa sapere dei numeri, del numero - che i segni con i quali la geometria - ovvero la capacità di misurare il terreno e lo spazio in ogni sua parte e direzione - definisce, costituisce e rappresenta il suo spazio, appartengono alla facoltà umana di esprimere il pensiero attraverso la parola, sono parola. Ma in cosa consiste il pensiero che esse esprimono? Cosa è il pensiero matematico?

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Questa domanda non ci consente di fermarci alla considerazione del sapere matematico nella sua strumentalità, nel suo essere un semplice strumento operativo, a questa domanda non possiamo dare né una risposta completa né una risposta definitiva. Per affrontare il problema siamo costretti ad ammettere che il pensiero matematico, nel suo manifestarsi, ha a che fare con la verità, con la poesia e con la bellezza: quindi anche con la libertà umana; il pensiero matematico riguarda l’essere umano nella sua essenza, nella sua totalità. Di conseguenza, la storia della matematica è storia del giungere del pensiero matematico alla consapevolezza di sé come espressione della dignità e della libertà di ogni essere umano e dell’umanità nel suo insieme. Penso si debba distinguere tra storia della matematica come sapere disciplinare, e storia del pensiero matematico come consapevolezza di sé degli esseri umani e orizzonte del loro divenire spirituale attraverso la poiesi del sapere matematico. Imre Toth è uno storico del pensiero matematico e, di conseguenza, come storico del pensiero matematico, un filosofo. Ma si può dire anche: Imre Toth è un filosofo e, poiché è un filosofo, si è impegnato con competenza e acutezza nella storia del pensiero matematico. Il calcolo, e la misura che ne è la conseguenza, è l’espressione nella parola - dell’ordine e della bellezza che è la vita in ogni sua manifestazione; così che, nella sfera del mondo creata dalla parola, matematica e poesia sono due aspetti dello stesso produrre bellezza che è la spiritualità umana. Gli enti matematici e i teoremi della matematica hanno una loro bellezza - che può essere ed è anche chiamata eleganza - come la parola poetica, per essere poetica, ha una sua misura, non può non averla. Il linguaggio verbale produce sapere matematico come produce miti, leggende, fiabe e, in generale, componimenti letterari (da quando la scrittura ha reso possibile la letteratura). Ed esiste una letteratura

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matematica come esiste una letteratura poetica. Ma quale è la sua specificità? In cosa consiste il pensiero matematico nella sua attività poietica e nella sua trasmissibilità attraverso le sue opere nella sua storia? La parola - in ogni sua manifestazione, ivi compreso il silenzio nasce dalla relazione di un individuo umano con gli altri esseri umani ed è un mezzo di relazione tra gli individui umani nella comunicazione e nel dialogo: essa è inoltre, in interiore homine, forma del pensiero o, come osserva Platone nel Sofista, silenzioso dialogo dell’anima con se stessa. In quanto riflesso di una relazione e mezzo di relazione, la parola il λόγος, il parlare-pensare - è in sé e per sé una forma vivente scaturita dalla forma vivente uomo - ἄνθρωπος - e sua immagine (immagine di ciò che esso è nella sua individualità, nelle sue comunità, nella sua specie). Gli individui umani, le loro comunità, le loro civiltà guardano continuamente la propria forma vitale - spirituale - nell’immagine che si dà di essa nella parola, nel λόγος, ma a questa contemplazione sfugge l’intima legge di quella vita che rende possibili le meraviglie dei suoi contenuti, di ciò che è possibile produrre nella e con la parola. Quale legge regola ciò che produce leggi? L’accadere di qualsiasi legge accade secondo una norma che non accade. Una norma irraggiungibile dal nostro sguardo. Tuttavia il parlare, al suo interno, ha bisogno di leggi che diano senso esplicito al suo divenire, al suo svolgersi. Leggi di cui la matematica si serve con dovizia e precisione. Leggi di un mondo costruito, un mondo ideale che è il mondo dell’intelletto umano. Imre Toth conosceva bene queste leggi, era un fine conoscitore della logica, delle logiche. Ma il senso ultimo della parola ci resta nascosto. Si può dire che la produzione dei saperi matematici e della poesia attinga sempre di nuovo alla forma di questo senso nascosto, di questa forma che, dando forma a tutto, non si dà mai definitivamente al nostro sguardo nel suo essere forma. La libertà, negli esseri umani, è sempre libertà di amare. Perché

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l’amore è sempre pulsione verso l’immortalità, verso la vita. E tensione al vivere è la tensione alla conoscenza che è tensione ad una compiutezza ideale dell’essere umano come individuo, come comunità, come specie. II. La parola è considerata da molte religioni e da molti pensatori come un segno della superiorità dell’animale uomo su tutti gli altri viventi terrestri. Ma, lungi dal voler prendere posizione su questo, dico qui che la parola, nell’essere umano come individuo, comunità e specie è piuttosto un segno di incompiutezza. L’essere umano è un animale incompiuto e teso - consapevolmente o inconsapevolmente - al proprio compimento. Questa non è una definizione dell’uomo e non è un’idea espressa nelle opere di Imre Toth, è una consapevolezza nella civiltà occidentale che nasce con la filosofia. Parlando, appunto, della filosofia occidentale, Imre Toth la riassume, vi allude, in questi termini: La philosophie n’a jamais été et ne sera jamais une science. Elle est pourtant un savoir: le savoir du sujet par le sujet. Domaine d’être autonome, le fondement ontique du sujet est le savoir de soi. Domaine non spatial de la reflexivité absolue, l’autonomie de son être établit la presence de la liberté à l’intérieur de l’espace cosmique. On peu oublier le théoreme de Pythagore qu’on a appris au Lycée, mais le savoir philosophique ne tombe jamais dans l’oubli1.

Questo incipit del breve saggio di Imre Toth sulla filosofia occi(1) La philosophie et son lieu dans l’espace de la spiritualité occidentale, in Imre Toth, Liberté et vérité, Éditions de l’éclat, Paris - Tel Aviv 2009, p. 7; trad. it.: Imre Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, a cura di Romano Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 23: «La filosofia non è mai stata e non sarà mai una scienza». Tuttavia è un sapere: il sapere del soggetto a causa e per mezzo del soggetto. Territorio autonomo dell’essere, il fondamento ontico del soggetto è il sapere di sé. Dominio non spaziale della riflessività assoluta, l’autonomia del suo essere istituisce la presenza della libertà dentro lo spazio cosmico. È possibile dimenticare il teorema di Pitagora che si è imparato al liceo, ma il sapere filosofico non cade mai nell’oblìo.

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dentale, è una delle interpretazioni possibili del discorso di Diotima nel Simposio di Platone e dell’incipit della Metafisica di Aristotele. Nel dialogo platonico prima, nel trattato aristotelico dopo, si istituisce un significato dell’ἔρως, inseparabile dal λόγος, che diviene il motore di un processo storico e il fondamento di un modo nuovo di concepire il rapporto tra libertà e amore. Il motore del processo storico già esisteva e aveva dato i suoi frutti nelle altre civiltà esistenti, ma non ve ne era la consapevolezza. Si tratta, qui, di chiarire alcune premesse. Perché il problema non è stato mai affrontato in questo modo. Il Simposio di Platone, per la prima volta nella storia del pensiero umano, introduce con il discorso di Diotima, riferito da Socrate, la distinzione tra sessualità vòlta al fine della riproduzione o anche soltanto al piacere dei sensi, ed ἔρως come tensione alla idea del bello, alla bellezza in sé. Questo amore ha anche esso a che fare con i sensi, perché la bellezza si mostra nella sfera del sensibile, ma è puro godimento intellettuale. Il suo non essere vòlto alla riproduzione non dipende dal fatto che si tratta di un amore omosessuale, può trattarsi anche di un amore eterosessuale, come quello di Dante e Beatrice. La natura puramente intellettuale di questo amore dipende dal suo oggetto che è l’idea del bello. La bellezza in sé. E con il bello, il bene. Nella sua Metafisica, Aristotele fa un importante passo avanti. Perché nelle prime righe di questa opera ci dice che la tensione alla conoscenza, l’amore come tensione alla conoscenza, non è soltanto proprio agli amanti che lo sanno conquistare con la sublimazione delle pulsioni sessuali, ma appartiene a tutti gli esseri umani, uomini e donne, Greci e barbari, liberi e schiavi. Scrive infatti Aristotele iniziando il primo libro: Πάντες ἄνθρωποι τοῦ εἰδέναι ὀρέγονται φύσει. σημεῖον δ ᾽ ἡ τῶν αἰσθήσεων ἀγάπησις·καὶ γὰρ χωρὶς τῆς χρείας ἀγαπῶνται δι ᾽ αὑτάς, καὶ μάλιστα τῶν ἄλλων ἡ διὰ τῶν ὀμμάτων. - Tutti gli esseri umani, a causa della loro origine (φύσει),

sono protesi alla conoscenza. Ne è un segno l’amore che hanno per

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le sensazioni: poiché, anche a prescindere dalla loro utilità, esse sono amate per sé stesse e più di tutte le altre è amata quella che si manifesta per mezzo degli occhi2.

L’amore per le sensazioni in sé rivela una incompletezza in più nell’essere umano. Perché l’amore è sempre il sentimento che nasce dall’essere incompiuti, dall’aver bisogno dell’amato per vivere. La parola, dunque, è il segno di una incompiutezza dell’animale uomo al di là della morte individuale che condivide con tutti gli altri esseri viventi. In che senso, con quale significato, la consapevolezza di questa incompiutezza, che è la filosofia, può chiamarsi libertà? III. Non so, forse non è del tutto vero che, come ho appena scritto sopra, Aristotele ha fatto un passo avanti: leggere Platone è più difficile che leggere Aristotele; se leggiamo la Repubblica, ci accorgiamo che ad ogni riga Platone ci parla della necessità che la filosofia progetti la πόλις, che ci sia nella πόλις una continua ricerca della giustizia per la più perfetta felicità possibile di tutti i πολῖται. Forse per comprendere il Simposio non si deve confrontarlo principalmente con il Fedro, ma con la Repubblica. La Repubblica, infatti, è l’unico dialogo platonico narrato da Socrate in prima persona, senza essere, come l’Apologia, la pura e semplice registrazione (o, meglio, riscrittura) di un discorso di Socrate. In questa prima opera di filosofia politica del pensiero occidentale, appare chiaro che la conoscenza ha a che fare con la libertà e la libertà è tensione alla conoscenza: amore è ricerca del sapere. Non v’è una dichiarazione cosmica come quella dell’incipit della Metafisica aristotelica, ma nel mito della caverna è chiarissimo che la condizione di privazione derivante dalla ignoranza riguarda tutti gli esseri umani. (2) Aristotele, Metaph, 980a 21-23. Si veda anche la nota 1 al primo libro in Aristotele, Metafisica, traduzione, introduzione e note di Enrico Berti, Laterza, Bari 2017 e la prefazione alla quarta edizione di ΕΙΔΕΝΑΙ, di Romano Romani, Cadmo, Fiesole 2015.

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Il sapere di non sapere è il primo gradino della liberazione e questo sapere di non sapere, come dichiara Socrate all’inizio del Simposio, diviene esperienza d’amore, ovvero di libertà. Socrate, si narra nel Simposio, si ferma per ore a meditare da solo in strada o, anche, nel vestibolo della casa dove è stato invitato a cena. Quando è così, non vede e non sente nulla di ciò che gli accade intorno. Questo è il suo vero, il suo autentico ἔρως: la ricerca filosofica. E la ricerca filosofica, dice Imre Toth nella frase citata sopra, è l’irrompere della libertà nel nostro universo, un evento irreversibile. IV. Nell’epoca classica, in Grecia, dunque, non ha inizio il sapere matematico, ma la consapevolezza di un suo possibile progresso, di un suo sviluppo, di una sua crescita come possibilità della costituzione di un mondo ideale di forme, un mondo di ordine e di bellezza creato dall’uomo per l’umanità. Gli studi e i progressi della logica che precedono o accompagnano questo inizio stanno dentro un sentimento di mancanza, di privazione, di incompiutezza che dà luogo nel tempo, nei millenni, a un grande progetto di umanità. Un progetto filosofico, politico, poetico, ideale per una umanità più compiuta e più felice. Per seguire il pensiero di Imre Toth su questo punto, la sua idea di storia della matematica, non dobbiamo certo ignorare il suo Hegel e il suo Marx, ma li dobbiamo leggere con il suo animo, con la sua esperienza di vita e di pensiero. Egli si rifà, con Marx, all’idea darwiniana di evoluzione delle specie. Dico evoluzione, ma si sa che il darwinismo ha poi criticato questa idea, sostituendola con quella di trasformazione. Perché infatti dovremmo dire che l’uomo è più evoluto della scimmia? È più adatto all’ambiente - se e quando dimostra di esserlo -, non più evoluto. Nel caso dello sviluppo della matematica, dunque, l’esempio di Toth sul rapporto tra l’anatomia della scimmia e quella dell’uomo non tornerebbe. L’anatomia dell’uomo non ci aiuterebbe a capire quella della scimmia

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e la matematica moderna non ci aiuterebbe a capire i testi della matematica antica, almeno nel senso del rapporto di ciò che è più progredito e compiuto con ciò che lo è meno o si trova all’inizio di un processo di compimento. Il fatto è che si dovrebbe cercare di capire perché prima Lamarck, poi Darwin, quindi Marx (dal quale Imre Toth riprende l’idea che l’anatomia della scimmia si può comprendere soltanto a partire da quella dell’uomo), hanno pensato all’evoluzione. La prima cosa che viene in mente è la superiorità dell’uomo sugli altri viventi. Ma nella storia del pensiero occidentale ha il suo peso la filosofica consapevolezza dell’incompiutezza dell’essere umano e della tensione al suo compimento. Forse un giorno questo significherà non soltanto un diverso rapporto tra gli esseri umani, la fine delle guerre e delle ingiustizie, ma anche la creazione di un diverso rapporto degli esseri umani con tutti gli altri esseri viventi. Un altro modo di stare degli esseri umani nel mondo della vita; non contro, ma in armonia con tutti. Perché l’autentico significato della parola non sta nella forza che sprigiona, ma nella verità e nella bellezza che può esprimere. Una verità e una bellezza che contengono il significato della fonte di ogni manifestazione del vivere. Questo penso che per Imre Toth sia il senso della storia della matematica occidentale: questa è per lui e per la filosofia, finché ci sarà, l’essenza dell’Occidente.

Fabiana Russo Imre Toth, perché “NO”? Nel pensare al titolo di un saggio con cui poter rendere omaggio a Imre Toth, una domanda o, meglio, questa domanda, mi è sembrata il punto migliore da cui prendere le mosse: perché “NO”? Di là dal gioco formale con cui, naturalmente, voglio subito richiamare il titolo di una delle sue opere - ovvero quel dialogo fantasmagorico eppure verosimile su libertà e verità, creazione e negazione1 - il “NO”, qui può essere inteso, alla luce della riflessione di Toth, come la chiave di comprensione più identificativa dell’Occidente e della filosofia. Il motivo per cui la storia occidentale sia intrinsecamente caratterizzata dall’opposizione e dalla contraddizione è quello che, seguendo Toth, proverò a mostrare nella prima parte di questo intervento; nella seconda, invece, proverò a spiegare le ragioni per le quali tutto il paradigma di pensiero tradizionale, con cui per secoli si è identificato il pensiero occidentale, abbia detto “no” a un’intera parte di realtà, dando pertanto di essa un’immagine parziale e mutilata. Volgendo lo sguardo al passato, in effetti, appare subito chiaramente che «l’opposizione non ha mai potuto essere eliminata dalla storia dell’Occidente, il dissenso non ha mai potuto essere ridotto al silenzio; sempre, persino nei periodi più duri, i più terribili, v’è stata una voce che ha detto No! all’ingiustizia, No! all’infamia. L’uomo ribelle è l’uomo che dice “no” - è il Me della negatività»2. La storia dell’Occidente, di cui la filosofia (1) Cfr. I. Toth, No! Libertà e creatività, trad. di Antonello Nociti, Rusconi, Milano 1998. (2) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, trad. di R. Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 28.

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è forse il prodotto più originale, è la storia di uomini ribelli che nel rinnegare il silenzio hanno spinto in avanti l’umanità e le sue “sorti”. Così, se è vero che l’Inquisizione, il Colonialismo, il Capitalismo sono tutti prodotti dell’Occidente, lo sono anche l’opposizione all’Inquisizione, l’anticolonialismo e l’anticapitalismo - per usare gli stessi esempi utilizzati da Toth3. È stato, del resto, il grande merito di Marx, quello di aver - come ha sintetizzato efficacemente Giuseppe Gembillo - «insegnato agli oppressi a rivendicare i loro diritti senza aspettare che vengano loro bonariamente concessi da chicchessia» e di aver «portato alla coscienza di tutti che il concetto di lotta e contrapposizione non è solo una teoria logica ma anche un modo di essere e di agire»4. Ecco, potremmo dire che si tratta del modo di essere e di agire dell’Occidente e, nello stesso tempo, della teoria logica che ha rivoluzionato - con Hegel e lo vedremo - la storia del pensiero occidentale. Che questa sia la principale risposta alla domanda da cui ha preso avvio questa riflessione, lo mostra molto chiaramente lo stesso Toth nel sottolineare che «l’assenza del dissenso, dell’opposizione, comporta la stagnazione, la degenerazione, la decrepitezza. Senza un costante esame di se medesima, senza una impietosa autocritica, la società cade inevitabilmente in un fatale stato di sonnolenza letale. Parlare è vivere, il silenzio è la morte. E, gettando un colpo d’occhio sul passato, può dirsi che è soltanto grazie al suo sforzo ininterrotto di conoscere se stesso, grazie all’implacabile funzionamento della sua autocritica, che l’Occidente è riuscito a superare le maggiori crisi che hanno segnato la sua espansione, che l’Occidente è riuscito a salvarsi e a recuperare le sue forze e la sua vitalità - in una parola, a superare se stesso, a conservarsi e ad elevarsi per giungere a una condizione di maggiore complessità, a un livello più alto, a un modo d’essere più adatto alla vita»5. (3) Cfr. Ivi, pp. 28-29. (4) G. Gembillo, Benedetto Croce. Filosofo della complessità, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006, p. 51. (5) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, cit., pp. 29-30.

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È evidente che in queste parole di Toth si ritrovino entrambe le direzioni che sono state intraprese per questo intervento; sia quella attraverso cui comprendere perché il “no” configuri l’atteggiamento più identificativo della storia e della cultura occidentale, sia quella attraverso cui far emergere che soltanto superando il “no” che la scienza classica aveva detto alla parte “irrazionale”, imprevedibile e incerta della realtà, questa può apparire, al livello più alto, nella sua complessità. Quel che è certo è che il sonno delle domande genera mostri, potremmo dire parafrasando, in maniera forse anche semplicistica, il celebre nome di un’opera grande. Eppure, nella storia della cultura d’Occidente, i mostri sono diventati giganti, generando, da una parte, i totalitarismi e le emarginazioni, e dall’altra, per lungo tempo, un intero paradigma di conoscenza. Se questi, tuttavia, sono alcuni degli esiti più mostruosi della storia e della cultura occidentale - generati per lo più dalla banalità del silenzio assenso, in una trasfigurazione della banalità del male che, peraltro, Toth ha avuto modo di vivere in maniera diretta e dolorosa6 -; i suoi esordi sono stati tutt’altro che sonnolenti. E anche qui, “perché no?” è la domanda a cui possiamo subito tornare. Del resto, come ha scritto bene Edgar Morin, «i pensatori “liberi”, i pensatori “tragici”, i pensatori “rivoluzionanti” sono spesso misconosciuti o respinti per tutta la loro vita. I più grandi sono spesso contemporaneamente liberi, tragici e rivoluzionanti [...] Non obbediscono al determinismo culturale, ma sopravvengono nelle brecce che si sono operate o che essi stessi hanno operato in tale determinismo»7. Generalmente, ai pensatori liberi, tragici, rivoluzionanti, ai pensatori che dicono “no”, viene detto “no”, generalmente i “devianti” sono gli esclusi della conoscenza. Eppure, proprio in un atteggiamento insolito rispetto (6) A tale proposito si veda anche: I. Toth - G. Polizzi, Il soggetto e la sua libertà, a cura di F. Gembillo, Armando Siciliano, Messina 2021. (7) E. Morin, Il metodo. 4. Le idee: habitat, vita, organizzazione, usi e costumi [1986], trad. di A. Serra, Raffaello Cortina, Milano 2008, p. 52.

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a questo, proprio in una logica di inclusione della diversità di opinioni, proprio nella libertà, insomma, è nata la filosofia. E, condividendo la spiegazione che ne ha dato Karl Popper, «non mi sembra possibile che un allievo che si forma in un clima dogmatico oserebbe mai criticare il dogma (tanto meno di un famoso saggio) ed esprimere la propria critica. Mi sembra più convincente e semplice la spiegazione che reputa che fu il maestro ad incoraggiare un’attitudine critica»8. Ebbene, le ragioni del “NO” che, in qualche modo, può essere inteso come “prima parola della filosofia” sono da ricercare, allora, non già in una forma di rifiuto o diniego passivo del dogma o delle indicazioni del “maestro”, bensì nell’affiorare della coscienza critica e libera. In tal senso, è proprio con un ribelle, potremmo dire, con una voce sveglia e affatto sonnolenta che è iniziata la storia della filosofia. Quel ribelle era, naturalmente, Anassimandro e il maestro, che il “no” dell’allievo lo ha incitato e incoraggiato, stimolando così l’avvenire della razionalità critica, era Talete. Ebbene, potremmo dire, per dar seguito all’interrogativo da cui abbiamo preso le mosse, che, nella Grecia tra il VII e VI secolo a.C., il “no” consapevole e convinto dell’allievo al maestro, la libera critica all’interno di un gruppo di «greci stravaganti»9 - per ricordare l’espressione di Edmund Husserl - sia la prima e principale ragione del “NO” come atteggiamento più distintivo dello spirito occidentale: «“No” - ecco la parola distintiva del soggetto, l’atto d’identità della soggettività pura. Tra tutte le cose dell’universo, il soggetto è la sola che neghi, la sola che dica “No” a un ordine stabilito, la sola a opporsi a ciò che è, fosse anche un mondo intero, e a opporgli il sapere di un mondo diverso, il suo»10. (8) Karl R. Popper, Ritorno ai Presocratici, contenuto in Il mondo di Parmenide. Alla scoperta della filosofia presocratica, trad. di F. Minazzi, Piemme, Casale Monferrato 1998, p. 47. (9) E. Husserl, La crisi dell’umanità europea e la filosofia, ora in Id., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. di E. Filippini, Est, Milano 1997, p. 347. (10) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, cit., p. 81.

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Da qui si dischiude, ancora una volta, il duplice intendimento della domanda, ovvero da una parte “perché IL NO?”, vale a dire perché la negazione è intrinseca alla realtà? perché essa è la chiave di comprensione della storia del pensiero occidentale? perché lo identifica distinguendolo?; e, dall’altra, “perché no?!” perché non accogliere, a fronte di una immagine del mondo perfetta e condivisa, l’immagine di un mondo diverso? Al primo senso della domanda, la risposta coincide, come lo stesso Toth non manca di sottolineare, con la lezione hegeliana. È stato Hegel che ha mostrato come e perché la negazione sia da intendersi come movimento della realtà e come logica attraverso cui comprenderla. E infatti, come sottolinea ancora Toth, «la negazione è l’espressione della libertà, la differenza specifica della singolarità del soggetto. Ma è anche la sorgente della creazione di un altro mondo, di un mondo nuovo. “La terrifica potenza del negativo, l’energia del pensiero, dell’Io puro!” esclamava Hegel nella prefazione della sua Fenomenologia»11. Così, se dalla nascita della razionalità critica con il “no” della prima filosofia, ci si vuol spostare a comprendere come il “no” incarni, di fatto, il movimento della stessa realtà, allora, è chiaro che “basti” ricorrere ad Hegel. E Toth non manca di farlo. Il no della libertà è il no con cui si fa la realtà, il no con cui si fa la storia, e lo ha insegnato proprio Hegel, perché «è nella sua filosofia che si articola esplicitamente l’idea che, in ultima istanza, il movimento di ascesa spirituale nella coscienza della libertà rappresenta una necessità immanente dello spirito e che questo movimento è quello che definisce la traiettoria del pensiero occidentale attraverso la sua storia»12. È emersa, difatti, con il genio del filosofo prussiano13, un nuovo tipo di necessità, quella (11) Ibidem. (12) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, cit., p. 88. (13) Cfr. E. Morin, Indagine sulla metamorfosi di Plodémet [1967], trad. di D. Montaldi, Mondadori, Milano 1969, p. 14.

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necessità che il filosofo della Fenomenologia dello Spirito ha visto all’opera nella storia: la necessità della presa di coscienza della libertà. A tale proposito, il richiamo alla libertà ci torna utile per concludere questa riflessione con il secondo significato della domanda da cui ha preso avvio. Infatti, l’ordine stabilito, quello che più precisamente caratterizza l’intera immagine del mondo moderna, quello costruito con “fede” - e la fede, si sa, non ammette alcun “no” - e con “certezza” da Galilei, Cartesio e Newton non è rimasto eternamente indenne. Come Toth mette bene in rilievo, infatti, quella “disvelata” da Hegel «è lo stesso genere di necessità che suscitò l’emergere e impose l’accoglimento irreversibile delle concezioni scientifiche rivoluzionarie come l’idea delle geometrie non-euclidee, quella degli insiemi infiniti o della teoria della relatività, anche se questa dimensione della loro necessità intrinseca è stata dapprima percepita soltanto dai loro fondatori»14. Si potrebbe dire lo stesso, in effetti, per tutti e trenta gli anni che sconvolsero la fisica15 - per utilizzare la celebre espressione di George Gamow - ovvero dal 1900 al 1930, a partire dalla scoperta del quanto d’azione da parte di Max Plank, per proseguire con la teoria della relatività ristretta e poi generale di Albert Einstein, continuando con la meccanica matriciale e le relazioni d’incertezza di Werner Heisenberg, passando attraverso la meccanica ondulatoria di Erwin Schrödinger e la complementarità di Niels Bohr, fino all’anticipazione teorica dell’esistenza dell’antimateria di Paul Adrien Maurice Dirac. Questi scienziati “devianti”, opponendosi all’ordine prestabilito, opponendo al mondo intero il sapere di un mondo diverso, hanno dato vita a concezioni scientifiche che «non soltanto, prima che ci fossero, non sarebbe venuto in mente a nessuno di reclamarle, ma anche dopo la loro irruzione sul mercato della produzione scientifica, esse sono state accolte (14) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, cit., p. 89. (15) G. Gamow, Trent’anni che sconvolsero la fisica. La storia della teoria dei quanti [1966], trad. di L. Felici, Zanichelli, Bologna 1999.

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con ostilità e a lungo respinte come mostruosità deliranti disperatamente inutili»16. Così, il secondo intendimento della domanda da cui ha preso avvio questa riflessione, apre di fatto un nuovo orizzonte di senso. “Perché No?”, difatti, può essere intesa come la domanda che l’epistemologia contemporanea rivolge al paradigma di conoscenza tradizionale che il suo “no”, d’altra parte, lo aveva detto a tutto ciò che era segno di complessità, al disordine, alla disorganizzazione, all’incertezza. Il “no” della semplificazione ha rifiutato il “no” che, alla semplificazione, opponeva la complessità. Eppure, ancora in qualche provincia attardata del sapere, come scrive bene Edgar Morin: «Il dogma della semplificazione continua a imporsi come verità scientifica che può essere sottovalutata solo per stupidità o ignoranza. Continua a rigettare fuori dal sapere ciò che resiste al suo cracking. E i sostenitori di questo dogma - gli “yes man”, potremmo chiamarli, gli uomini del “si” ad ogni costo, n.d.r. - ci vedono come miserabili pezzenti che raccolgono i rifiuti dai bidoni dell’immondizia. In un certo senso, hanno ragione: vogliamo recuperare i rifiuti che la loro scienza mette alla porta: non solo l’incerto, l’impreciso, l’ambiguo, il paradosso, la contraddizione, ma l’essere, l’esistenza, l’individuo, il soggetto. Credono di spurgare il sapere dai suoi escrementi: non sanno che stanno rigettando l’oro del tempo ...»17 . In questo senso, voglio riprendere l’ “assunto” con cui Toth ha avviato la sua riflessione sulla filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale: «La filosofia non è mai stata e non sarà mai una scienza»18. Bene, perché No? Certamente, per via di questo suo atteggiamento caratteristico e identificativo, diverso dall’atteggiamento (16) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, cit., p. 89. (17) E. Morin, Il Metodo. 2. La vita della vita [1980], trad. di G. Bocchi - A. Serra, Raffaello Cortina, Milano 2004, p. 467. (18) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale, cit., p. 23.

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della scienza che in ogni “sì” condiviso da tutti trova la propria convalida e la propria certezza: «Il sapere filosofico non può essere assimilato a ciò che si indica comunemente con la parola “scienza”. Ma la scienza non è tutto. E pur non essendo scienza, la filosofia è qualcosa, un sapere particolare e originale, un processo conoscitivo il risultato del quale è un accrescimento della conoscenza di sé. La filosofia offre lo spazio nel quale si dispiega questo fenomeno, questa comparsa, ϕαινόμενον, immediata che è il sapere del soggetto attraverso se stesso e per se stesso - la fenomenologia dello spirito»19. Così, per concludere con Hegel o, meglio, per concludere con una delle parti che Toth ha assegnato ad Hegel nel suo palinsesto di parole e immagini che, nel contesto del dialogo in cui è inserita rappresenta una critica alla pretesa verità della matematica, mentre qui costituisce la più forte e significativa risposta alla domanda che ha guidato la riflessione: «L’immutabilità delle sue verità, di cui la matematica va così fiera, non è che l’espressione della povertà, il segno della morte. L’immobilità assoluta è la morte; essa non realizza mai il passaggio all’opposto, non è assoggettata all’automovimento. Il Falso è l’Altro, la Negatività della sostanza, ed è questa, la Negatività, che, quanto alla sua essenza, è il Vero»20. Perché? No?

(19) I. Toth, La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità universale, cit., p. 106. (20) I. Toth, No! Libertà e creatività, cit., p. 150.

Philippe Séguin Herbert Mehrtens, lecteur et continuateur de Imre Tòth dans son ouvrage Moderne Sprache Mathematik Le livre de Herbert Mehrtens (1946-2021) paru en 1990, Moderne Sprache Mathematik (MSM) n’a pas été traduit en anglais, ce que Jeremy Gray qualifia en 2008 dans son livre Plato’s Ghost de tout petit scandale («a minor scandal», p. 9). En effet, écrit Gray quelques lignes plus loin, Mehrtens fut le premier à associer ce qui s’est passé en mathématiques autour de 1900 avec la notion de «modernism», et à utiliser l’analyse du discours de Michel Foucault en différenciant la langue mathématique, c'est-à-dire les mathématiques comme langue, («die Sprache Mathematik») et les mots, les paroles des mathématiciens («das Sprechen der Mathematiker»). En France, Jeanne Peiffer a également lu le livre de Mehrtens. Dès 1995, elle a souligné dans la Revue de l’Association Henri Poincaré ses références à la philosophie française (Foucault, Jacques Lacan, JeanFrançois Lyotard) et a tenté de le faire connaître, mais dut admettre lors d’une journée d’études sur la modernité en mathématiques à l’Institut Henri Poincaré à Paris le 15 janvier 2016 que son engagement avait été un échec. (1) Dans la note 11, Gray écrit que Mehrtens, vu sa connaissance de la langue anglaise, aurait très bien pu écrire son livre en anglais. Mais nous allons voir que la matière du livre était trop brûlante pour que l’auteur écrive dans une autre langue que l’allemand. D’autre part, la langue de Mehrtens est d’une richesse et d’une précision telles et sur tant de pages que l’on peut douter qu’il ait pu rédiger son ouvrage dans une langue autre que sa langue maternelle sans l’appauvrir de façon regrettable.

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En Allemagne, Erhard Scholz, Moritz Epple et David Rowe applaudirent également à la nouveauté de l’analyse de Mehrtens, tandis que Norbert Schappacher lui reprocha dès 1993 sa superficialité due à sa méthode empruntée à Foucault, lequel, écrivait-il, n’avait déjà plus cours en France2. Néanmoins il ne sera pas question ici de Foucault, cité 13 fois dans l’index de MSM, mais d’un auteur rarement mentionné quand il est question de Mehrtens, Imre Tòth, qui a droit à onze occurrences, dont une qui occupe 4 pages. J’aborderai ici trois points: • La notion de «Moderne» • Les rapports entre les mathématiques et l’art, plus précisément entre les mathématiques et la littérature • Le problème de la réception des œuvres de Tòth et de Mehrtens discutées ici. Ce faisant, cette étude s’appuiera sur deux textes, tous deux parus en 1987, qui fut peut-être l’annus mirabilis de Tòth pendant son séjour en Allemagne: • Wissenschaft und Wissenschaftler im postmodernen Zeitalter (abrégé en «Wissenschaft») avec le sous-titre: Wahrheit, Wert, Freiheit in Kunst und Mathematik • Mathematische Philosophie und hegelsche Dialektik. Ein Essay (abrégé en «Dialektik»). 1. Die Moderne Partons du titre: Moderne Sprache Mathematik. Comment le lire, le traduire? Faut-il regrouper des termes, par exemple (Moderne (2) L’affirmation de Schappacher concernant Foucault est naturellement surprenante, qu’on la lise en 1993 ou, a fortiori, trente ans plus tard. Mais si l’on prend en considération le fait qu'il écrivait dans une revue de mathématiques allemande, les annales de l’association allemande des mathématiciens (Jahresberichte der DMV), donc pour un public a priori peu enclin à apprécier la philosophie française, on peut supposer que ce commentaire n’était pas vraiment bienveillant. Peiffer en était bien consciente et qualifia l’auteur, sans le nommer, de «pervers» (Peiffer 1996, p. 23).

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Sprache) Mathematik, ou Moderne (Sprache Mathematik), ou les séparer, M-S-M? J. Peiffer traduit Langue - Mathématiques - Moderne, mais relève dans une note l'ambiguïté du titre. Cependant, la première phrase du livre donne une indication précieuse: «‘Les mathématiques modernes’ étaient un concept en vogue dans les années soixante de notre siècle»3. Il y sera donc question de théorie des ensembles, de structures, de new math. Mais il semble que le sujet soit plus vaste, puisque peu après apparaît l’expression «mathematische Moderne», «Moderne» étant cette fois un substantif. A titre de comparaison: un classique de langue allemande de 1978, Problemgeschichte der neueren Mathematik de Herbert Meschkowski comporte une fois l’expression «moderne Mathematik», mais jamais «mathematische Moderne». D’où vient cette expression, quelle est sa signification, et comment la traduire, traduire le titre ? Modernité - Langue - Mathématiques? Mais si l’on retraduit vers l’allemand, peut-être pensera-t-on pour le premier terme à «Modernität», ou à «Neuzeit». Alors, pourquoi le terme «Moderne» (que nous traduirons désormais par «modernité»), et pourquoi introduire une période, comme on parle par exemple de «Wiener Moderne» dans le domaine des arts avant tout?4 Dans son article Wissenschaft, Tóth parle de sciences et de scientifiques à l’époque postmoderne, mais en fait il parle de mathématiques comme l’indique le sous-titre, et il part de la notion de «Moderne», qu’il définit p. 88 comme l’époque suivant la Renaissance: «Les (3) «‘Moderne Mathematik’ ist ein Begriff, der in den sechziger Jahren unseres Jahrhunderts en vogue war» (p. 7). (4) Mehrtens connaît l’ouvrage Die Wiener Moderne qu’il cite, et en reprend trois éléments fondamentaux: Nietzsche et la fin de la métaphysique, principalement dans le chapitre consacré à Mongré/Hausdorff, l’avènement de la psychanalyse, celle-ci constatant que le sujet n’est plus maître chez lui, et le verdict de Ernst Mach, «Das Ich ist unrettbar». Cela lui permet, avec la querelle Cantor-Kronecker au sujet de la théorie des ensembles naissante, de donner un début à sa Modernité: autour de 1900. Mais il ne reprend pas la périodisation de la Modernité viennoise, laquelle est limitée aux années 1890-1910. Sous cet aspect (parmi d’autres), l’ouvrage de Mehrtens fait vraiment preuve d’originalité.

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Lumières, le rationalisme, le scientisme, le positivisme et le néopositivisme en sont les manifestations successives [...]»5 et son idéal est de «Fonder toutes les mathématiques sur la logique»6. À Moderne/ Modernité ainsi définie s’oppose Postmoderne/Postmodernité, l’époque dont le représentant le plus caractéristique pour Tòth est le mathématicien polycéphale Nicolas Bourbaki. Bourbaki, sujet libre et conscient de sa liberté, laisse derrière lui et rejette l’idée de fonder les mathématiques, ou plutôt «la mathématique», selon son expression inhabituelle en français destinée à souligner leur unité. Grâce au concept de structure qui matérialise cette unité, il accepte la simultanéité d’univers mathématiques incompatibles entre eux comme la géométrie euclidienne et la géométrie non euclidienne. Pour Tòth, c’est cela la Postmodernité. Dans la Modernité, la géométrie euclidienne est vraie, la géométrie non euclidienne, que Tòth appelle d’abord «géométrie anti-euclidienne», est fausse, et cette position culmine avec les deux logiciens Gottlob Frege et Bertrand Russell. Pour la Postmodernité, les deux sont vraies. Mehrtens dit expressément qu’il ne reprend pas l’idée de Moderne/ Modernité de Tòth. À la place, il propose quelque chose qu’il qualifie lui-même de «nouveau», «une nouvelle interprétation de la prétendue ‘crise des fondements’ des mathématiques» (p. 8)7: La Modernité dont il parle va de 1900 environ jusqu’aux années 1960-70, disons jusqu’à l’épuisement des mathématiques modernes dans l’enseignement secondaire. Pour faire fonctionner son modèle, il oppose ceux qu’il appelle les «modernes» aux «antimodernes». Les modernes, ce sont Georg Cantor, Richard Dedekind, Felix Hausdorff, David Hilbert etc., et plus tard Bourbaki, c’est-à-dire ceux qui reconnaissent l’infini actuel en (5) «Aufklärung, Rationalismus, Szientismus, Positivismus, Neopositivismus sind seine aufeinanderfolgenden äußeren Erscheinungformen. » (6) «... die gesamte Mathematik auf Logik [...] begründen», p. 102 puis de nouveau page 133, la dernière. (7) «... eine neue Interpretation der sogenannten ‘Grundlagenkrise’ der Mathematik».

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mathématiques, qui n’hésitent pas à «créer» de nouveaux nombres, de nouveaux espaces, ce qui donnera naissance aux mathématiques axiomatisées. Parmi les antimodernes on compte Leopold Kronecker, Felix Klein, Henri Poincaré, Luitzen Egbertus Brouwer etc., lesquels font davantage confiance à l’intuition (die Anschauung), par exemple de la suite des nombres entiers 1, 2, 3, etc., pour construire les mathématiques. Avec cette opposition, il reprend en fait l’idée fondamentale de Tòth, la négation comme moteur de l’évolution et de l’histoire de la géométrie (voir MSM pp. 45-50), que celui-ci a marquée par le terme «post» dans Wissenschaft (p. 87). De la sorte, Mehrtens parvient à éviter plusieurs écueils. En effet, dans les années 1980, après son doctorat, une étude pour un public d’initiés sur la théorie des treillis (Die Entstehung der Verbandstheorie, 1979) et les travaux en histoire sociale des mathématiques qu’il publia en collaboration avec d’autres collègues, Mehrtens se retrouvait en Allemagne grosso modo face à trois voies, qui étaient autant d’obstacles pour rédiger sa thèse d’habilitation, un ouvrage d’épistémologie des mathématiques plus important qu’une monographie. Il pouvait: a) Faire de l’histoire, de l’épistémologie des mathématiques comme Meschkowski par exemple, qui dit p. 6 de sa Problemgeschichte faire de l’histoire des idées mathématiques, au risque de ne pas couper avec la génération des pères à laquelle appartenait Meschkowski (1909-1990), lesquels étaient de toute façon suspects aux yeux de la génération des enfants des bourreaux. En effet, ou bien leur biographie scientifique ne commençait officiellement qu’après 1945, ou bien (ou les deux, bien sûr), ils restaient englués dans les derniers soubresauts de l’Idéalisme allemand, qui, après avoir été au service de l’Humanité, tendait depuis la fin du 19ème siècle de plus en plus, dans un raidissement nationaliste, à prouver la supériorité de la profondeur de l’esprit allemand. b) Il pouvait aussi succomber au positivisme. La maxime du mathématicien Carl Gustav Jacobi, en français dans une lettre à Adrien-

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Marie Legendre du 2 juillet 1830, est bien connue: «le but unique de la science, c’est l’honneur de l’esprit humain». Ivo Schneider, un collègue de Mehrtens dans l’histoire sociale des sciences, en fit la chose suivante: il traduisit la phrase et ajouta la marque du pluriel «en» à la fin de «Wissenschaft», sans le signaler explicitement, et, pour que le sens soit bien clair, il rajouta entre parenthèses «(Natur)» avant «Wissenschaft». Ainsi, la science, «die Wissenschaft» (Jacobi était un admirateur de Hegel qui ne mourut qu’en 1831), devenait les sciences de la nature, «die (Natur)Wissenschaften» [sic], les sciences expérimentales, et la phrase de Jacobi un hymne à la marche victorieuse des sciences et de la technique au 19ème siècle (Schneider, p. 208). c) Et puis, il y avait un troisième obstacle, bien oublié aujourd’hui, mais qu’il est nécessaire de mentionner si l’on veut essayer de rendre le contexte historique. Mehrtens n’était pas le premier en Allemagne à se référer à Foucault pour réfléchir sur les mathématiques. Le premier s’appelle Detlev Spalt, et son doctorat, publié en 1981 (2. éd. 1987), Vom Mythos der mathematischen Vernunft, marqua beaucoup l’esprit des jeunes Allemands qui essayaient de se libérer de la pensée des pères. Ce n’est pas vraiment le contenu, un problème technique de continuité chez Augustin Cauchy que formula Imre Lakatos, mais surtout la forme inédite (un compte rendu de séances d’un séminaire autogéré par les étudiants, sans professeur), le ton agressif et provocateur qui suscitèrent l’intérêt des lecteurs. L’œuvre de Spalt était un cri de colère d’une partie de la jeunesse allemande rebelle, révoltée contre toutes les formes d’oppression, et en 1990 il n’était guère possible de continuer sur ce ton, même si Mehrtens se réfère à l’étude de Spalt dont l’analyse fondée sur la notion de seuil chère à Foucault était quasiment incontournable. Par bonheur il y avait encore un autre épistémologue en Allemagne, de la génération des pères mais non nazi, puisqu’il était juif, non allemand, non positiviste, au contraire, puisque son approche épistémologique était apparentée à celle de Foucault (Le texte! Pas la vie de

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l’auteur!, cf. Wissenschaft, pp. 100-101, MSM, pp. 7), mais nourri entre autres de philosophie allemande, Kant, Hegel, Marx, et c’était Imre Tòth (MSM, pp. 320-323). De plus, et pour compléter le portrait d’un personnage peu conforme à cette Bundesrepublik fondée sur le rejet du communisme, Tòth était resté marxiste8. Dans la partie intitulée “Critique sociale, ou autocritique du Moi” de Liberté et vérité paru un an avant sa mort, il replace la pensée critique de Marx dans le contexte de la pensée occidentale en général et voit dans le Capital «l’essence la plus profonde de l’Occident» (p. 11). En outre, il ne faisait pas partie des gens qui renient leurs idéaux de jeunesse et fut horrifié, alors qu’il vivait déjà à Paris, lors de la parution des Cahiers noirs du Communisme: il ne supporta pas de voir ses combats de jeune communiste épris de justice sociale mis sur le même plan que la violence hitlérienne financée par les familles Krupp, Siemens, Quandt (Varta) etc.9 La nouveauté de la pensée de Tòth, le travail de la négation, sa réflexion sur l’émergence de la géométrie non euclidienne qui sont évoqués dans MSM de la page 45 à la page 50 permirent à Mehrtens de penser à son tour la Moderne, les modernes et les antimodernes, et l’Institut de mathématiques de l’Université de Göttingen comme centre de la Modernité. Et l’on retrouve dans la simultanéité de la reconnaissance des géométries euclidienne et non euclidienne qui caractérise selon Tòth la Postmodernité le fait que chez Mehrtens, la Modernité inclut à la fois les modernes et les antimodernes et vit de cette opposition (MSM, pp. 221, 397, 561)10. (8) Être marxiste en tant que professeur d’université dans la République fédérale en 1987 n’était pas anodin. La C. D. U. (Union Démocrate Chrétienne) était de nouveau au pouvoir depuis 1982 avec le chancelier Helmut Kohl, elle était partie prenante pour Ernst Nolte contre Jürgen Habermas dans la querelle des historiens des années 1980 (Historikerstreit) et mettait le nazisme et le communisme (donc de façon plus ou moins tacite la pensée marxiste) sur le même plan. (9) Cf. notamment le collage “Objectivités chimiques. Dédié à la mémoire de Primo Levi”, 1990. Zanazzo, p. 8. (10) Mehrtens n’est pas le seul à trouver de l’antimodernité dans la modernité.

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Cette première partie s’achève donc sur l’attrait que pouvait exercer la nouveauté de la pensée de Tòth, son irréductibilité à la conception traditionnelle faite d’éloge des grands hommes, de considérations plus ou moins nationalistes et de progrès cumulatif mélangeant parfois science et morale, selon les besoins du moment. Mais c’était également une pensée déconcertante dans l’Allemagne de 1987, puisqu’elle s’appuyait notamment sur un rapprochement entre la littérature et les mathématiques. Celui-ci apparaît dans MSM p. 492, l’auteur se référant cette fois non à Wissenschaft, mais à Dialektik, et non à un passage précis, mais à tout l’article, en incluant les notes, pp. 89-182, c’est-à-dire presque cent pages.

2. Littérature et mathématiques Voici comment Mehrtens introduit son évocation de Dialektik. Dans le chapitre intitulé “Faire des mathématiques: analogie et métonymie” (pp. 483-499), Mehrtens essaye de faire comprendre à un lecteur non initié ce qu’est le travail du mathématicien, et pour ce faire il a recours à un problème connu du grand public, la conjecture de Fermat, qui n’était pas encore démontrée en 1990. La formulation de ce problème étant très simple, Mehrtens en profite pour présenter quelques formules mathématiques, puis relate quelques contributions d’auteurs reconnus, Georg Pòlya, Imre Lakatos, Eberhard Knobloch, lesquels voient dans le travail du mathématicien avant tout «l’induction, l’analogie et les transpositions de concepts» (p. 489). Cependant, il conclut tout ce passage en sortant des mathématiques, et c’est là qu’il fait allusion à Tòth: «Le fait de faire des mathématiques est malgré tout une sorte de poésie». Et un peu plus loin: « Mais la poiesis des Peter Gay constate un «antimodernisme intensif» dans le «modernisme immaculé» de T.S. Eliot. Peter Gay, Die Moderne. Eine Geschichte des Aufbruchs, trad. Michael Bischoff, Francfort/Main 2008, p. 437.

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mathématiques suit le modèle de la prose, son produit est comme un roman, pas comme un poème»11. Et en effet, on peut lire p. 136 dans Dialektik la phrase suivante: «Mis à part le roman et la géométrie, il n’y a pas de science exacte»12. L’exemple, bien sûr - ceux qui ont assisté au cours magistral de Tòth l’ont entendu si souvent - c’est Madame Bovary. Le même exemple se trouve d’ailleurs dans Wissenschaft p. 101, où Tòth fait dire à Emma: «Flaubert, c’est moi». Mais avant de considérer le passage de Dialektik sur le roman, revenons un peu en arrière dans le texte: p. 128, Tòth cite Paul Valéry, un auteur qu’il appréciait particulièrement, «Il n’est rien de si beau que ce qui n’existe pas». Tòth fait bien sûr allusion à cette géométrie qui n’existe pas encore. Mais il n’est pas le premier à s'appuyer sur Valéry dans un écrit consacré aux mathématiques. Celui-ci est déjà très présent dans Les grands courants de la pensée mathématique, le recueil de textes paru en 1948 où se trouve l’article fondateur de Bourbaki, «L’architecture des mathématiques». On peut même lire dans ce recueil un chapitre intitulé “Les mathématiques, la beauté et les beaux-arts”, même si l’on peut trouver surprenant que Raymond Queneau, le seul poète et romancier du volume, ne soit pas intervenu dans cette partie. Qu’apporte Tòth de nouveau? Revenons donc à la page 136 citée dans le paragraphe précédent «Mis à part le roman ...» et à la suite immédiate, p. 137, où est évoquée «cette ressemblance structurale épistémologique et ontologique des mathématiques et de l’art»13. Dans Les grands courants, les arts, les artistes sont convoqués pour confirmer la beauté des mathématiques. La position des arts et des artistes est ancillaire par rapport aux mathématiques. Chez Tòth, arts, ici littérature, et ma(11) «Das Machen von Mathematik ist dennoch eine Art Poesie». «Aber die Poiesis der Mathematik folgt dem Muster der Prosa, ihr Produkt ist wie ein Roman, nicht wie ein Gedicht». (12) «Außer dem Roman und der Geometrie gibt es keine exakte Wissenschaft». (13) «... diese epistemologische und ontologische Strukturähnlichkeit von Mathematik und Kunst».

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thématiques sont au même niveau, ils sont sur un pied d’égalité. C’est pour cette raison qu’il voit dans les mathématiques une «dimension sémantique autonome, une dimension poétique»14 (p. 143) qu’il compare au «lait noir» de la Todesfuge de Paul Celan et au «soleil noir» de Victor Hugo15. Et c’est en se référant à Hegel qu’il répète et conclut une première fois p. 161: «L’analogie structurale ontologique et épistémologique entre les mathématiques et les arts est frappante»16, et une seconde fois, définitivement (il s’agit de la création par la négation) avec Valéry p. 171, l’avant-dernière page du texte avant les notes: «Mon Faust: ‘ton premier mot fut NON’». C’est ce que Tòth appelle sur la même page, en s’appropriant l’expression de Hegel (préface à la Phénoménologie de l’esprit, p. 36), «die ungeheuere Macht des Negativen», la force, le pouvoir extraordinaire du négatif. Voilà donc à quoi Mehrtens fait allusion en quelques phrases aux pages 492-493. Mais pourquoi son allusion est-elle si vague? Quelques lignes pour presque 100 pages, et 100 pages difficiles! La raison en est qu’il va en faire quelque chose de tout à fait différent: Mehrtens va faire la tentative (den Versuch) d’analyser la langue mathématique (die Sprache Mathematik) et ce que disent les mathématiciens (das Sprechen der Mathematiker) à l’aide des théories les plus récentes avec lesquelles on analyse les textes littéraires: la linguistique de Roman Jakobson et l’herméneutique de Paul Ricœur, et à l’aide de leurs outils, la métaphore et la métonymie : Les mathématiciens parlent une langue vivante en parlant de la langue mathématique, qui, dans sa structure principalement métonymique, suggère une poétique qui serait apparentée à celle du roman réaliste ou au récit17 (p. 509). (14) «... eine selbständige semantische, eine poetische Dimension». (15) Tòth compare ici les mathématiques à la poésie, mais il ne dit pas que celle-ci est une science exacte. (16) «Die ontologische und epistemologische Strukturanalogie zwischen Mathematik und Kunst fällt auf». (17) «Die Mathematiker sprechen eine lebendige Sprache über die Sprache Mathe-

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Et Mehrtens résume ses réflexions avec trois figures littéraires bien connues : Till Eulenspiegel, le golem de Gustav Meyrink, et le Baron de Münchhausen. Passons sur Till et le baron, et reprenons les rapports du golem avec les mathématiques en suivant l’argumentation de Mehrtens. Le golem, la créature muette de l’homme qui ne cesse de grandir et que son créateur domine tant qu’il peut effacer sur son front le «an» du mot «Anmanth» (vérité) pour laisser «manth», la mort. Mais un jour, le golem est trop grand, et il se promène dans les rues de Prague (p. 519). De même, les mathématiciens ne gardent pas leurs mathématiques pour eux. Ils les envoient dans le monde, avec toutes les applications que le monde peut en faire (rappelons-nous à cette occasion que Hilbert, dans les Mathematische Probleme, voit dans les mathématiques la base, le fondement de toute connaissance issue des sciences expérimentales)18. Mais les mathématiques, en soi, sont une langue qui se rapporte à elle-même, elles ne peuvent pas réfléchir sur le pouvoir qu’elles sont à même d’exercer sur le monde. Mehrtens pose le problème du pouvoir que peut exercer la langue mathématique, donc le problème de la responsabilité des mathématiciens, et il constate: demander au sujet de la science, des mathématiques, de se montrer prudent, responsable, n'est-ce pas trop demander à quelqu’un qui est formé par la langue mathématique, qui lui est (peut-être) assujetti? Ici, grâce aux outils de l’analyse littéraire, Mehrtens va beaucoup plus loin que Tòth dans son parallèle entre la création en littérature et en mathématiques, il met le doigt sur une lacune de réflexion inhérente à la langue mathématique («eine Reflexionslücke» p. 517 et suivantes). Sa contribution est donc subversive par rapport à la langue mathématique, ce qui n’était sans doute pas du goût de Tòth, l’admirateur de Bourbaki. Mehrtens ne s’arrête pas là. Non seulement il matik, die in ihrer vorwiegend metonymischen Struktur eine Poetik nahelegt, die der des realistischen Romans oder der Erzählung verwandt wäre». (18) «... die Mathematik ist die Grundlage alles exakten naturwissenschaftlichen Erkennens» (p. 329).

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fait des «tentatives» d’explication, mais aussi, dans le dernier chapitre, des «spéculations», notamment avec l’aide de Lacan, en s’interrogeant par exemple sur la virilité (die Männlichkeit) des mathématiques. Encore un sujet que Tòth n’ a guère dû apprécier, mais que J. Peiffer a bien su relever dans son compte-rendu sur MSM19.

3. Le problème de la réception Abordons une question peut-être un peu taboue: • Pourquoi Tòth n’a-t-il pas eu la reconnaissance qu’il espérait en Allemagne? Et dans le même temps: – Pourquoi Mehrtens n’a-t-il pas été traduit? Je vois un point commun à ces deux questions: c’est la radicalité de leur propos qui a fait obstacle à leur réception20. (19) Notons que certains des thèmes abordés par Mehrtens sont déjà bien présents dans la littérature allemande d’après-guerre, par exemple celui de la virilité chez Wolfgang Koeppen ou dans Billard um halb zehn de Heinrich Böll (1959) qui eut un grand succès en Allemagne. Non seulement la violence de la virilité y est thématisée, mais aussi les relations des mathématiques au pouvoir au travers du personnage de principal de Billard, Robert Fähmel, qui est un expert en statique des bâtiments. (20) Le terme «radical» et une attitude radicale avaient naturellement été très «en vogue», pour reprendre l’expression de Mehrtens, dans la génération des Allemands qui avaient vingt ans autour des années 68. Spalt, bien que né un peu plus tard (1952), est très représentatif de cet état d’esprit. Cependant, il est remarquable que Tòth évoque le changement «radical» opéré par la Postmodernité mathématique (Wissenschaft, p. 95, 100) dans le passage consacré à Hausdorff/Mongré, et que de même Mehrtens souligne «une conception radicale possible de la modernité» («eine mögliche radikale Konzeption der Modernität») chez Hausdorff (MSM, p. 165 et suivantes). Dans les deux cas, le portraitcharge de Mongré en poeta laureatus est reproduit au milieu du texte. Et il est également remarquable que l’on trouve p. 176 chez Mehrtens, qui a eu connaissance du futur Palimpseste (MSM, p. 45-46), la citation de Hausdorff que Tòth a retranscrite à sa façon p. 420: «La géométrie non euclidienne est la manifestation de la liberté de pensée dans les mathématiques, de la liberté créatrice opposée à toute tentative d’oppression philosophique».

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Imre Tòth pouvait être très provocateur. Son texte Dialektik est d’accès très difficile, il faut avoir une bonne connaissance de la théorie des ensembles, avoir au moins une idée de ce qu’est la théorie des catégories, avoir de bonnes lumières en philosophie, être très versé en littérature, en arts etc. etc. De plus, qui était prêt, en 1987, dans un public de deutsche Professoren, à voir les mathématiques mis sur le même plan qu’un roman français du 19ème siècle? Qui connaissait Frans Hemsterhuis, Paul Mongré (pseudonyme philosophico-littéraire de Felix Hausdorff)? Lors d’une table ronde en 2003 organisée par les éditeurs des Œuvres complètes de Hausdorff, il apparut clairement que le seul mathématicien à bien connaître Mongré était Egbert Brieskorn (1936-2013), l’un des éditeurs. Peut-être était-il le seul dans ce cas en Allemagne, puisque la connaissance de l’œuvre de Mongré suppose une très bonne connaissance de Nietzsche et quel mathématicien, à part justement Brieskorn, était alors un grand lecteur de Nietzsche? À la page 162, Tòth reprend l’expression devenue célèbre de Heidegger «la langue parle»21, alors qu’il savait très bien que la communauté mathématique allemande, sans compter les lecteurs de T.W. Adorno, n’avait aucune sympathie pour la pensée du philosophe existentialiste. Et il était très au courant des écrits philosophiques du mathématicien Kurt Reidemeister, un des fondateurs de la théorie des nœuds, et de son combat contre Heidegger auquel Redemeister opposait la pensée exacte des Grecs, puisqu’il en possédait des photocopies qu’il avait annotées. Tòth termine Dialektik par la phrase à connotation hégélienne «Tant pis pour la logique»23. Walter Hoering, un logicien, ancien étudiant et assistant de Wolfgang Stegmüller, était présent dans le public lors de la conférence qui devait déboucher sur Dialektik, et participa à la (21) «... die Sprache spricht». (22) Tòth ne pouvait avoir qu’une bonne opinion de Reidemeister: d’une part, celuici était un admirateur de Hilbert, d’autre part, il n’avait donné aucun signe de sympathie pour l’idéologie nazie pendant toute la période du Troisième Reich. (23) «Um so schlimmer für die Logik».

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discussion. Sa réaction: «le merveilleux roman que vous nous avez raconté sur le développement de la géométrie»24 en dit long sur ce qu’il en pensait. Tòth était également provocateur par son style, qui pouvait être ressenti comme maniéré, voire snob. Les nombreux termes empruntés directement au français mais non attestés par le dictionnaire des mots d'origine étrangère Duden (Fremdwörterbuch) ne simplifiaient pas la compréhension, et la «sévérité incorruptible» de sa femme Siegrid25 ne suffit visiblement pas à policer sa tendance au baroque. Tòth était d’ailleurs conscient des pièges de ses excentricités stylistiques, mais un démon intérieur le poussait à ne renoncer qu’avec une extrême réticence - voire pas du tout - à des expressions qui pouvaient passer pour inadaptées. Il est fort probable qu'à l'instar de Celan qui ne pouvait écrire sa poésie que dans la langue de ceux qui avaient exterminé sa famille, Tòth prenait un malin plaisir à soumettre son public germanophone à une torture appropriée (pour reprendre une expression du Sophiste qu’il affectionnait)26. Comme Mehrtens pour MSM, Tòth ne pouvait écrire Wissenschaft et Dialektik que dans la langue allemande27. Si Tòth était provocateur, Mehrtens prenait des risques, mais il (24) «... den wunderschönen Roman, den Sie uns über die Entwicklung der Geometrie erzählt haben» (p. 178). (25) À laquelle il rend hommage dans son Palimpseste, p. 481. (26) Cf. «De interpretatione», Diogène n. 192, p. 5. (27) Note d'une relectrice d'Imre Toth: Remarquons cependant que ses idiosyncrasies ne se limitaient pas à l'allemand. Son usage des «Juifs de la langue» pour reprendre l'aphorisme de T.W. Adorno dans ses Minima Moralia («Fremdwörter sind die Juden der Sprache») ressemblait à un cosmopolitisme en action, à une intégration volontariste de mots et d'expressions qui lui tenaient à cœur, dans toutes les langues qui lui étaient familières. Il ne s'agissait pas seulement de troubler la pureté des langues, mais de les forcer à accueillir l'étranger et à en reconnaître la parenté et le potentiel d'universalité. Et surtout: bravant l'inconfort, voire l'irritation potentielle de ses lecteurs, Toth écrivait (et vivait) dans la tension sans cesse renouvelée entre recherche de l'expression juste et dépassement de la formulation lisse. Son corps à corps avec les langues était bien une manifestation de «l'énergie de la pensée» même, de «l'énorme puissance du négatif».

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n’allait pas aussi loin que Spalt avant lui, lequel était provocateur et prenait des risques. Son texte est long, 600 pages, «de lecture difficile» selon l’euphémisme de J. Peiffer, et a certainement été perçu comme partiellement scandaleux: expliquer les mathématiques à l’aide de la french theory, voilà qui n’a guère plu à J. Gray par exemple. Celui-ci ne prend d’ailleurs pas en considération la deuxième partie de l’ouvrage (180 pages, les plus ardues) dans lesquelles il ne voit que du «cultural criticism» (p. 10), alors que dans son compte-rendu de 1995, J. Peiffer avait bien souligné que les deux parties forment un tout28. Cependant, la radicalité de Mehrtens ne s’exprimait pas seulement dans la fréquentation d'auteurs peu aptes à gagner la sympathie des mathématiciens. Son idée que les mathématiques, c’est-à-dire avant tout la «langue moderne mathématique» est «dictatoriale» (MSM, p. 13), pouvait difficilement trouver un écho favorable chez les épistémologues des mathématiques, surtout chez ceux issus non pas de la philosophie, mais des mathématiques. Et pourtant, ce qui peut passer pour une remise en cause excessive par Mehrtens de sa propre discipline est-il plus insupportable, peut-être pour certains plus indigne, que ce qu’écrivait par exemple Ernst Robert Curtius, que l’on ne suspectera sans doute pas de radicalisme? Dans ses essais critiques sur la littérature européenne, Curtius constatait en commentant l’œuvre de José Ortega y (28) Il semble cependant que Gray reproche avant tout à Mehrtens ses certitudes marxistes et son approche trop postmoderne (p. 12), ce qui expliquerait le regard étroit et biaisé de ce dernier sur la notion de Modernité en mathématiques. Ajoutons à cela des relents d’hégélianisme chez Mehrtens (p. 11), et l’on comprend pourquoi a fortiori Tòth n’est pas cité dans Plato’s Ghost. En fait, il ressort des quelques pages que l’auteur consacre à MSM que celui-ci n’a aucune sympathie pour ce texte, mais, comme il remercie M. Epple, E. Scholz et D. Rowe, ceux-là mêmes qui ont applaudi le livre de Mehrtens et qui savent ce que Gray lui doit, il ne pouvait certainement pas le passer sous silence. Gray a une conception du «Modernism» en mathématiques essentiellement américaine, il en narre l’aventure sur un ton plein d’optimisme et conclut à la manière de Walt Whitman («Reader, Farewell!», p. 459). Ceci explique pourquoi il ne voit en définitive dans MSM qu’un livre raté sur les mathématiques pendant le national-socialisme, raté parce que, précise-t-il, les sources sur cette période n’étaient pas encore accessibles dans les années 1980 (pp. 9-12).

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Gasset ainsi que son parti pris platonicien pour les philosophes contre les poètes: «Car une grande intolérance est inhérente à la philosophie», puis «Toute philosophie a une ambition totalitaire»29 (p. 285). En Occident, philosophie et mathématiques n’ont-elles pas la même origine? La radicalité de Tòth et de Mehrtens est certainement à mettre en rapport avec leur attitude de refus envers certaines attentes communément admises de l’institution universitaire, et cela leur conférait une affinité, une liberté de penser, fondamentale. Ainsi, à l’avant-dernière page de MSM, Mehrtens évoque la consistance d’un des paradoxes de Zénon et ajoute en note un petit commentaire qui n'était en rien épistémologiquement correct: «Il [i.e. le paradoxe, P.S.] dispose d’une ‘ontologie poétique’, Tòth: Wissenschaft, 104». Tous deux se distinguent aussi par une connivence intellectuelle nourrie de leur attachement à la pensée de Marx: Mehrtens n’hésite pas à se référer aux Grundrisse et au Capital (pp. 72-73). On ne trouve pas de référence à Marx chez Meschkowski en 1978 ou Christian Thiel en 1995 dans sa Philosophie der Mathematik, qui par ailleurs conclut son ouvrage en manifestant son accord avec une des thèses de Mehrtens. En 1990 paraît le travail d’habilitation de Volker Peckhaus (Hilbertprogramm und Kritische Philosophie) et celui-ci renvoie plusieurs fois à MSM qui n’est pas encore paru, mais il ne fait référence à Marx que dans une note et sans rapport avec la pensée marxiste. Marx est bien sûr présent dans l’ouvrage de Purkert et Illgauds sur Cantor paru en 1987, mais ceux-ci vivaient dans la partie est de l’Allemagne qui s’appelait encore R. D. A. pour quelques années. Il convient ici de souligner un autre aspect important de la pensée de Mehrtens qui fait de lui un continuateur de Tòth, marqué au sceau d’une autre génération, née en gros entre 1940 et 1950. Là où Tòth est avant tout dans une attitude de combat sans concessions contre (29) «Denn zur Philosophie gehört eine großartige Intoleranz.» et «Jede Philosophie erhebt einen totalitären Anspruch».

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ses ennemis philosophiques et philosophico-politiques comme Eugen Dühring, Frege et Russell, le staliniste spécialiste de Bernard Bolzano Arnost Kolman, l’idéologue initiateur de la revue national-socialiste Deutsche Mathematik Ludwig Bieberbach, Mehrtens n’est pas, ou plus, à la fin des années 1980, dans une position de conflit personnel avec les protagonistes de MSM. Profitant du recul émotionnel que lui procurent les années qui passent et un contexte malgré tout moins tragique, il «tente», comme il l’écrit si souvent, de faire preuve de la plus grande neutralité, de la plus grande rigueur intellectuelle possible, en se confrontant aux idées d’un maximum de chercheurs contemporains, qu'il en partage les positions ou non: surtout Philip Kitcher et Brian Rotman, mais il faut aussi mentionner des auteurs aussi divers que les mathématiciens Philip J. Davis et Reuben Hersh célèbres pour leurs ouvrages de vulgarisation, le marxiste Wolfgang Lefèvre qu’il présente comme un «moderne», Michel Fichant et Michel Pécheux (lesquels construisent leur argumentation à partir de Jean Cavaillès et Heinrich Scholz parmi d’autres) dont il n’apprécie guère l’idée de récurrence en histoire des sciences etc. N’oublions pas deux noms déjà mentionnés plus haut, Ricœur et Lacan. Mehrtens convoque leurs travaux pour interpréter la Modernité dans les deux derniers chapitres de MSM, l’un ayant comme sous-titre «Une tentative», l’autre «Spéculations». L’étude de Mehrtens n’est vraiment pas de l’épistémologie classique, elle en dépasse le cadre à la fois par la richesse et l’ampleur des idées exposées et discutées et par l’audace, visiblement peu prisée par certains lecteurs, consistant à émettre des hypothèses à discuter, réfuter ou confirmer par les générations futures. Enfin, dernier élément, probablement le plus important, constitutif de la radicalité de nos auteurs: tous deux partageaient la même horreur du nazisme en général, de sa politique raciste en particulier, et surtout, ils refusaient de le passer sous silence. À ce que Imre Tòth avait vécu correspondait la honte de Mehrtens, qui va jusqu’à lui faire discuter un éventuel antisémitisme de Felix Klein dans MSM (pp. 215-218),

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ce qui peut paraître aujourd’hui bien excessif. Mais il n’est pas inutile de rappeler les dernières phrases et surtout le dernier mot de la préface du doctorat de Mehrtens pour comprendre à quel point il était bouleversé par ce qui s’était passé pendant le troisième Reich: Ceci se passe à l’époque du fascisme allemand et au début de la deuxième guerre mondiale. Pourtant la théorie des treillis a vu le jour, et j’ai écrit son histoire. J'ai le sentiment de ma dette à l'égard de tous ceux qui ont souffert et qui ont résisté à l’inhumanité [...] Après la nuit de cristal en 1938 il [Robert Remak Ph. S.] passa deux mois au camp de concentration de Sachsenhausen. Il put émigrer à Amsterdam en avril 1939. Les Allemands le transférèrent à Annaberg en 1943. C'est de cette même année que date son dernier signe de vie, en provenance d’Auschwitz30.

4. Conclusion en forme de suggestion Alors, que faire aujourd’hui? Lire les deux articles de Tòth et MSM, oui, mais surtout les traduire, tout d’abord en anglais. Dans le cas de Mehrtens, il est peu probable qu’une seule personne puisse suffire à la tâche, vu l’ampleur de l’ouvrage et surtout ses multiples centres d’intérêt. Pour ce qui est de Tòth, il faudrait commencer par Wissenschaft et son annexe, la biographie de Bourbaki («Nicolas Bourbaki, S. A.») qui forment un tout, et qui sont d’accès beaucoup plus facile que Dialektik. Mais peut-être serait-il intéressant, dans le cadre d’un projet de traduction et pour faire revivre une époque, de traduire MSM et Tòth au sein d'un même groupe de travail, et de (30) «In diese Zeit [1933-1939 Ph. S.] fällt der deutsche Faschismus und der Beginn des 2. Weltkrieges. Trotzdem entstand die Verbandstheorie, und ich habe ihre Geschichte geschrieben. Ich fühle mich in der Schuld all derer, die gelitten und Widerstand geleistet haben gegen die Unmenschlichkeit [...] Nach der Kristallnacht 1938 war er [Robert Remak Ph. S.] zwei Monate im KZ Sachsenhausen. Im April 1939 konnte er nach Amsterdam emigrieren. 1943 wurde er von den Deutschen nach Annaberg abtransportiert. Im gleichen Jahr kam die letzte Nachricht von ihm aus Auschwitz».

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publier le tout ensemble, sous un titre global qui pourrait être «Modernism in Mathematics - Two Parallel Interpretations». MSM pourrait être le texte principal, et Wissenschaft et Bourbaki une sorte d’appendice, mais un appendice fondateur. Fondateur, parce que Tòth est de loin, avant Philip Kitcher et Brian Rotman, l’épistémologue des mathématiques le plus cité dans MSM, mais la façon dont Mehrtens discute les thèses de ces deux derniers ne fait pas apparaître une affinité comparable à celle qu’il manifeste quand il évoque Tòth ou Foucault. Ajoutons le fait que Tòth a donné à lire à Mehrtens une première mouture du Palimpseste, ce qui montre à quel point il reconnaissait leur proximité intellectuelle et lui faisait confiance. Il serait bien sûr nécessaire de conserver les illustrations de Wissenschaft, et surtout de ne pas faire l’économie d’un des deux exemplaires du portrait de Mongré, mais de le garder chez Mehrtens et chez Tòth, pour mieux mettre en valeur le parallélisme. Par cette traduction conjointe, il serait possible de donner l’occasion à un public beaucoup plus large de lire ce qui pouvait s’écrire en Allemagne à la fin des années 1980, et surtout de faire l’expérience d’une pensée qui vit, nourrie de passion, loin d’une pensée réifiée soucieuse avant tout de ne pas offenser les pouvoirs institutionnels et obéissant à des critères contraignants. Ceux qui ont eu la chance d’assister aux cours de Tòth retrouvent dans ses écrits évoqués ici, et dans d’autres, un peu de l’ambiance qui y régnait, d’une pensée qui n’avait que faire du cloisonnement des disciplines, d’«une pensée qui danse». Cette non-adhésion au conformisme universitaire accompagnée d’un travail acharné et obsessionnel, qui fut sans nul doute un aiguillon pour Mehrtens, permit à nos deux auteurs de formuler des interrogations qui nous parlent encore aujourd’hui, et pourraient donner l’occasion à de nouvelles générations d’étudiants de se lancer dans des travaux passionnants et non formatés. Tous deux étaient animés d’une nécessité intérieure portée par le contexte scientifique et politique de leur époque. L’un s’appliqua à mettre au jour le travail de la négation, l’autre mit en question la rationalité mathé-

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matique, mais ils avaient en commun de regarder en face le danger, toujours d’actualité, du totalitarisme. Imre Tòth et Herbert Mehrtens, deux pensées qui demeurent, et qu’il serait souhaitable de continuer.

Bibliographie Böll Heinrich, Billard um halb zehn, Kiepenheuer & Witsch, 1959. Curtius Ernst Robert, “Ortega y Gasset” [1949], in Kritische Essays zur europäischen Literatur, 1 éd. 1950, Fischer Taschenbuch, 1984, pp. 247-287. Fichant Michel - Pécheux Michel, Sur l’histoire des sciences, François Maspéro 1969, traduction allemande Schwibs Bernd, Überlegungen zur Wissenschaftsgeschichte, Suhrkamp, 1977. Gay Peter, Die Moderne - Eine Geschichte des Aufbruchs, traduit de l’anglais par Michael Bischoff, Fischer 2008. Gray Jeremy, Plato’s Ghost the Modernist Transformation of Mathematics, Princeton University Press, 2008. Hegel G.W.F., Phänomenologie des Geistes, Werke in 20 Bänden, Bd. 3, Suhrkamp 1984, traduction française de Jean-Pierre Lefebvre, Aubier 1991. Hilbert David, “Mathematische Probleme” [1900], Gesammelte Abhandlungen vol. 3, p. 290-329, Springer-Verlag, 1935-1970. Les grands courants de la pensée mathématique, Cahiers du sud 1948, rééd. Rivages Paris Marseille, 1986. Mehrtens Herbert, Die Entstehung der Verbandstheorie, Gerstenberg 1979. Mehrtens Herbert, Moderne Sprache Mathematik - Eine Geschichte des Streits um die Grundlagen der Disziplin und des Subjekts formaler Systeme, Suhrkamp, 1990. Meschkowsky Herbert, Problemgeschichte der neueren Mathematik (1800-1950), Bibliographisches Institut, Mannheim etc. 1978.

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Peiffer Jeanne, “Moderne - Sprache - Mathematik etc.”, (compte rendu), Histoire Philosophie Mathématiques Physique Revue de l’Association Henri Poincaré, Paris, juin 1995, pp. 11-16. Peiffer Jeanne, “La modernité en mathématiques Le débat sur les thèses de H. Mehrtens”, Histoire Philosophie Mathématiques Physique Revue de l’Association Henri Poincaré, Paris, juin 1996, pp. 22-28. Schappacher Norbert, Jahresbericht der DMV, vol. 95 cahier 4, Stuttgart 1993, pp. 59-61. Schneider Ivo, “Die Mathematisierung der Naturwissenschaften vor dem Hintergrund der Bildungsvorstellungen des 19. Jahrhunderts”, Berichte zur Wissenschaftsgeschichte 11, 1988, pp. 207-217. Spalt Detlev D., Vom Mythos der mathematischen Vernunft Eine Archeologie zum Grundlagenstreit der Analysis oder Dokumentation einer vergeblichen Suche nach der Einheit der Mathematischen Vernunft, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1981. Thiel Christian, Philosophie und Mathematik Eine Einführung in ihre Wechselwirkungen und in die Philosophie der Mathematik, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1995. Tòth Imre, “Mathematische Philosophie und hegelsche Dialektik - Ein Essay”, in Hegel und die Naturwissenschaften, Petry, Michael John, Fromannholzboog 1987, pp. 89-182. Tòth Imre, “Wissenschaft und Wissenschaftler im postmodernen Zeitalter”, in Wie sieht und erfährt der Mensch seine Welt, Bungert, Hans, Schriftenreihe der Universität Regensburg vol. 14, 1987, S. 85-137. Tòth Imre, «‘Nicolas Bourbaki, S. A.’ - Leben und Taten des polykefalen Mathematikers nach authentischen, von ihm selbst erfundenen Angaben Eine Enthüllung», in Wie sieht und erfährt der Mensch seine Welt, cit., pp. 138-153. Tòth Imre, Palimpseste - Propos avant un triangle, Puf, Paris 2000. Tòth Imre, «De Interpretatione. Biographie commentée d’Euclide», in Diogène 192, 2000, pp. 3-52. Zanazzo Alberto (éd.), Imre Toth, exposition du Museo Laboratorio di Arte Contemporanea, Diagonale, 1997.

Fiorenza Toccafondi Su Toth, Frege e la memoria Agli inizi degli anni 2000 ho avuto il piacere di invitare Imre Toth a Parma a tenere una lezione sulle geometrie non-euclidee. Quello a cui ho assistito si è verificato poche volte nella mia vita di docente. La mozione degli affetti che venne a crearsi nel corso della lezione fu fortissima e qualche studente solo a stento riuscì a trattenere le lacrime. Nelle settimane successive diversi di loro continuarono a venire a ricevimento, per parlare e riparlare dell’intervento di Toth. Andò così perché non erano preparati per quel tipo di lezione, e francamente non lo ero nemmeno io. Doveva essere una lezione sulle geometrie non euclidee ‒ quale fu ‒ ma nel contempo fu anche una lezione di etica, di metafisica, un monito continuo a una presa di coscienza, alla libertà di pensiero. Non un’unica verità, ma l’esistenza di più verità tutte egualmente valide; il soggetto della matematica che diviene consapevole di essere libero di scegliere tra una pluralità di mondi: è a questo tipo di istanze che Toth diede voce nel corso della sua lezione, quelle stesse istanze che furono alla base delle ben note resistenze che hanno contrassegnato la storia stessa delle geometrie non-euclidee. Dopo la lezione Toth trascorse a Parma alcuni giorni. Furono giorni segnati da lunghe conversazioni e dalla sua instancabile generosità verso il dialogo, il confronto, la condivisione del suo pensiero e delle sue straordinarie esperienze di vita. Discussioni e conversazioni che a chiunque, credo, avrebbero lasciato una traccia indelebile: il tema fu, per buona parte, quello dell’ebraismo e della storia della filosofia. Sappiamo tutti come fosse ricorrente nei discorsi di Toth il riferi-

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mento al razzismo e all’anti-semitismo di Gottlob Frege. E sappiamo tutti altrettanto bene come Frege ‒ del tutto legittimamente ‒ rappresenti una sorta di icona in certi ambiti della filosofia, così come Martin Heidegger la rappresenta in altri ambiti della medesima. Nel suo testamento politico contenuto nel Tagebuch pubblicato nel 1994 nella “Deutsche Zeitschrift für Philosophie”1 ‒ ci ricordava Toth ‒ Frege ammoniva la Gioventù Tedesca a non celebrare le feste sino al giorno in cui la Francia non fosse stata vinta, punita e umiliata, giacché la Francia era la prima responsabile dell’emancipazione degli Ebrei, dei quali a suo dire i lavoratori tedeschi erano divenuti ostaggio. E non meno ricorrenti nei discorsi di Toth erano alcuni passaggi del dialogo di Frege col teologo protestante Georg Christian Bernhard Pünjer sull’esistenza, e più precisamente su cosa significhi «esistere» e su come trarre correttamente conclusioni concernenti giudizi particolari. Proprio a quest’ultimo riguardo, nel discorrere sulle regole dell’inferenza logica, nel dialogo con Pünjer Frege utilizza asserzioni in cui compaiono due riferimenti, sui quali Toth invitava a concentrare l'attenzione. Il primo riferimento concerne i negri e si trova per esempio nella seguente asserzione: «Alcuni negri sono uomini. Forse tutti». Nello sviluppo del ragionamento, in una asserzione equivalente il riferimento va invece ai tedeschi: in questo caso il «forse tutti» non compare2. Toth raccontava con sofferenza che ricordare questi dettagli dell’argomentare di Frege gli aveva creato molti imbarazzi nei circoli matematici e logici da lui frequentati e che un suo scritto non arrivò alla pubblicazione in una illustrissima rivista logico-matematica proprio perché manteneva traccia del passaggio del dialogo di Frege (1) G. Frege, Tagebuch, in “Deutsche Zeitschrift für Philosophie”, 1994 (42), pp. 10671098. (2) Si veda G. Frege, Dialog mit Pünjer über Existenz, in G. Frege, Nachgelassene Schriften und wissenschaftlicher Briefwechsel, I, Meiner, Hamburg 1969, trad. it. di E. Picardi, Dialogo con Pünjer sull'esistenza, in G. Frege, Scritti postumi, Bibliopolis, Napoli 1986, pp. 137-155.

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con Pünjer ‒ che Toth non era disposto a espungere dal proprio testo ‒ testé ricordato. Rimasi non poco impressionata dalla sua risposta a una mia osservazione, che consisteva nel rilevare la difficoltà di parlare del razzismo o dell’antisemitismo di Frege quando, per esempio, a lezione si introducono agli studenti gli esempi di Venere, di Fosforo e di Espero, quando si spiega loro la differenza tra Sinn e Bedeutung, tra senso e denotazione. Toth ‒ guardandomi intensamente con gli occhi demonici (ovviamente in senso socratico) che gli erano propri ‒ mi diede una risposta non brusca, ma ferma, che aveva il tono dell’assolutezza e della insindacabilità: «Lo si deve fare!». Ho ripensato spesso a questo episodio e ben presto mi sono resa conto che Toth aveva ragione: lo si deve fare, ma ‒ occorre aggiungere ‒ non lo si fa abbastanza. In qualsiasi manuale, per esempio, Frege viene introdotto più o meno in questa guisa: “matematico, logico e filosofo tedesco”. Tuttavia non andrebbe omesso di aggiungere: “e di idee antisemite e razziste”. La ragione è presto detta: è solo così ‒ ed era evidentemente questo il senso della risposta di Toth ‒ che si può concorrere a mantenere viva la memoria delle aberrazioni e dei drammi di un pezzo di storia così agghiacciante. Non vi è infatti alcuna ragione per sottrarre la filosofia a quello che altro non è che un dovere collettivo. Pensiamo per esempio ad altre discipline e a due grandi nomi della fisica del primo scorcio del Novecento: Johannes Stark, studioso dell’effetto Doppler nonché Premio Nobel per la fisica nel 1919 e fervente nazista, e Philipp von Lenard, Premio Nobel per la fisica nel 1905 per le sue ricerche sui raggi catodici, esponente di spicco della fisica ariana e stimato consigliere di Hitler. Sono i nomi di due figure che come sappiamo ricorrevano di frequente nei discorsi di Toth proprio in ragione del loro credo ideologico. Credo che non è passato inosservato. Rispettivamente nel 1970 (nel caso di von Lenard) e nel 2008 (nel caso di Stark) a ciascuno dei due scienziati vennero dedicati due crateri lunari. Nel 2020 ‒ in seguito alle critiche rivolte a questa scelta ‒ l’«International Astronomical Union» ha comunicato che l’intitolazione sarebbe

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stata tolta. Ciò che questo esempio mi pare mostri molto bene è che è possibile (e doveroso) evitare di costruire monumenti illibati di certi personaggi, per quanto grande, importante e decisivo possa essere stato il loro lavoro nei rispettivi ambiti di indagine. Più precisamente, l’esempio mostra che se ne possono usare le idee ‒ per così dire ‒ universali, o che in ogni caso risultano accolte, recepite e sostenute stando allo stato dell’arte di una disciplina (la conoscenza di gran parte delle proprietà dei raggi catodici, per esempio, ci proviene dalle ricerche di von Lenard), ma anche che non si può transigere sulle commistioni coscienti con nefandezze come il razzismo o l’antisemitismo. La pubblicazione del Tagebuch appena sopra citato e la focalizzazione dell’attenzione ‒ che si deve in primo luogo a Toth ‒ sull’esempio dei negri utilizzato nel dialogo con Pünjer hanno consentito una conoscenza più diffusa del pensiero ideologico di Frege. E stante questa conoscenza, non ci si può esimere dal mantenerla viva, dal ricordarla, così come è avvenuto con Stark e con von Lenard, nonostante i loro meriti scientifici e i rispettivi premi Nobel. È così del tutto legittimo, come ha fatto Michael Dummett, individuare in Frege (e in particolare nel Frege de I fondamenti dell’aritmetica, 1884) l’antesignano della filosofia analitica3. Ma ciò detto, non si dovrebbe tuttavia omettere la seguente, semplice chiosa: “sul versante ideologico, Frege ebbe idee razziste e antisemite”. La ragione è quella appena ricordata nel caso di Stark e di von Lenard: la doverosità dell’esercizio della memoria, e ancor più quando ad essere in gioco sono il razzismo o l’antisemitismo: un fenomeno, quest’ultimo, che fa tragicamente parte della storia europea e che è pericolosamente risorgente nonostante la tragedia a noi vicina della Shoah. Non sottrarsi al dovere della memoria, della condanna morale dell’antisemitismo e dell’impianto ideologico ad esso sotteso significa (3) M. Dummett, Origins of Analytical Philosophy, Duckworth, London 1993, trad. it. di E. Picardi, Origini della filosofia analitica, Einaudi, Torino 2001, pp. 13 ss.

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anche, per l’appunto, non costruire monumenti illibati. E un discorso analogo dovrebbe valere non solo per il solito Nietzsche e il solito Heidegger. Dovrebbe valere anche per altri grandi pensatori, di area tedesca e non solo, che sono oltremodo rappresentativi della cultura filosofica europea. Dovrebbe valere, solo per citarne alcuni, per Lutero, per Voltaire, per Fichte, per Hegel, per Schopenhauer, per Marx: tutti autori nei cui scritti le affermazioni di disprezzo, di odio profondo o di avversione verso gli ebrei sono nette4. Ma vi sono altri aspetti sui quali occorrerebbe riflettere. Conosciamo tutti quello che è noto come il tormentato processo di assimilazione degli ebrei tedeschi, un processo caratterizzato da una problematica e dolorosa oscillazione tra Deutschtum e Judentum. In ogni caso, in Germania ‒ forse ancor più che in Spagna ‒ il contributo portato dagli ebrei sul piano culturale è stato rilevantissimo, già prima del ‘900: Moses Mendelssohn, Salomon Maimon, Heinrich Heine, Carl Jacobi sono solo alcuni esempi. Ma venendo agli inizi del ‘900, soltanto in Germania ‒ nonostante il diffuso e saldo antisemitismo ‒ chi proveniva da una famiglia di origine ebraica arrivò così frequentemente a ricoprire cattedre universitarie (talvolta prestigiosissime). A mostrarlo è la stessa situazione della filosofia tedesca nei primi decenni del Novecento. Basteranno solo alcuni nomi: Edmund Husserl, Ernst Cassirer, Max Scheler, Georg Simmel, Hermann Cohen, Emil Lask, Hand Reichenbach, Max Wertheimer, Max Horkheimer, Theodor Adorno, Kurt Lewin (4) Al riguardo si veda M. Lutero, Von den Juden und ihren Lügen [1543], trad. it. e cura di A. Malena, Degli ebrei e delle loro menzogne, Einaudi, Torino 2000; Voltaire, Dictionnaire philosophique portatif [1764], trad. it. a cura di D. Felice e R. Campi in Dizionario filosofico. Tutte le voci del Dizionario filosofico e delle Domande sull’Enciclopedia, Bompiani, Milano 2013; J.G. Fichte, Reden an die deutsche Nation [1808], trad. it. e cura di G. Rametta, Bari, Laterza, 2005; G.W.F. Hegel, Theologische Jugendschriften, hrsg. v. H. Nohl, Mohr, Tübingen [1907], trad. it. di N. Vaccaro e E. Mirri, Scritti teologici giovanili, Guida, Napoli 1972; A. Schopenhauer, Parerga und Paralipomena: kleine philosophische Schriften [1851], trad. it. di G. Colli, Parerga e Paralipomena, Adelphi, Milano 1981; K. Marx, Zur Judenfrage [1844], trad. it. a cura di D. Fusaro, Sulla questione ebraica, Bompiani, Milano 2007.

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sono tutti autori fondamentali di quel panorama. Ebbene, nelle presentazioni manualistiche che li riguardano risulta immancabile il riferimento al fatto che fossero ebrei, di famiglia ebraica, di madre ebraica, di padre ebraico. Un analogo e speculare fuoco prospettico sarebbe auspicabile per tutti gli autori che in diversi modi nella causa dell’anti-semitismo sono stati personalmente o ideologicamente coinvolti. Il fatto che non vi sia né un nesso logico né un vago legame di senso tra le teorie filosofiche di un autore e le posizioni anti-semite da questi sostenute non è da considerarsi decisivo: anche se questo nesso non si ravvisa, la compromissione con la nefandezza dell’antisemitismo va comunque riferita, condannata, evidenziata nella sua insensatezza e tragicità: una nefandezza ‒ occorre rilevarlo nuovamente ‒ che nemmeno l’immane tragedia della Shoah è riuscita ad estirpare. L’inquietante riemergere di sentimenti anti-ebraici e il compimento di atti contro persone e istituzioni ebraiche a cui si è assistito in diversi Paesi d’Europa negli ultimi anni evidenziano di per sé che questo modo di condursi dovrebbe essere considerato un dovere morale e collettivo. Come diceva Toth, «parlare è vivere, il silenzio è la morte»: in questo caso, tacere, transigere significa contribuire al silenzio della morte, al silenzio dei morti, al silenzio dei milioni di morti vittime della Shoah. Quello dell’essere del passato come essere saputo è un tema particolarmente caro a Toth ed è affrontato anche in De Interpretazione. La geometria non-euclidea nel contesto della oratio continua del commento ad Euclide. Il passato è «passato» in un senso che Toth precisa nei termini di un «non-ente». È ciò che vive nell’ora lo stato dell’essere che l’universo riconosce. Il passato, tuttavia, ridiviene immediatamente realtà, torna ad esistere, cessa di essere un non-ente nel momento in cui è saputo da un soggetto. Un po’ come accade coi numeri immaginari (ai quali dobbiamo dare esistenza se vogliamo fare i conti con determinati problemi), lo statuto ontico del passato è ‒ appunto ‒ quello di «essere-saputo» nella coscienza di un soggetto. Attraverso di questo ridiventa realtà ed è come se quel soggetto si facesse storico

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e testimone indiretto di ciò che riporta in vita. Si legge a questo riguardo in De Interpretazione. La geometria non-euclidea nel contesto della oratio continua del commento ad Euclide: il ricordo è la forza naturale, che conserva la massa del passato nel presente e la include all’interno del sapere attuale. Il ricordo è il lavoro dello spirito che ‒ nella forma di un commento infinito ‒ si sviluppa e si attualizza in costante dialogo con il già esistente [...]5.

Credo che precisamente in questo nucleo di idee si debba individuare uno dei moniti che Toth ci ha lasciato anche allorquando parliamo di teorie che con l’antisemitismo o il razzismo dei loro autori non hanno alcun legame di senso.

(5) I. Toth, De Interpretazione. La geometria non-euclidea nel contesto della oratio continua del commento ad Euclide, La Città del Sole, Napoli 2000, p. 60.

Andreas Becker - Christian Reiss Imre Toth e la storia della scienza a Regensburg ‒ un volume collettivo e una mostra virtuale (trad. di Antonio Moretto e Lucia Procuranti)

L'anno 2021 è stato contrassegnato da una duplice ricorrenza: si è il celebrato il 100° anniversario della nascita di Imre Tóth; e anche il 50° anniversario della disciplina Storia della scienza dell'Università di Regensburg, il cui inizio è indissolubilmente legato al nome di Tóth. Come il Convegno Internazionale “Omaggio a Imre Tóth”, anche i nostri preparativi e il doppio anniversario stesso sono stati segnati dalla pandemia di Covid 19. Tuttavia, grazie all'entusiasmo di tutte le persone coinvolte, siamo riusciti a presentare un volume molto bello e una mostra virtuale. Il volume Imre Tóth (1921–2010) und die Institutionalisierung der Wissenschaftsgeschichte an der Universität Regensburg è stato inserito nella collana “Schriftenreihe des Universitätsarchivs Regensburg”. In alcuni casi collega ricordi molto personali di Imre Tóth con la categorizzazione di testi sul suo lavoro scientifico e artistico e sulla storia della Storia della scienza a Regensburg. Nella mostra “Una vita tra arte e scienza ‒ Imre Tóth (1921-2010)”, che è stata presentata nel portale “Esposizioni virtuali” della Biblioteca dell'Università di Regensburg, sono presentati i materiali d'archivio e le opere d'arte, accompagnati da brevi classificazioni storiche. Di seguito presentiamo i singoli contributi nell'antologia e nella mostra virtuale e vi invitiamo a visitare la mostra su Internet e dare un'occhiata al volume collettivo.

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Oltre a una breve introduzione, il volume collettivo contiene nove testi e diciotto riproduzioni a colori delle opere d'arte più significative di Tóth. Nel loro contributo Christian Reiß, Jonathan C. Bauer, Kim Schubert e Sebastian Schwarzweller ripercorrono la storia della Storia della scienza all'Università di Regensburg dall'istituzione della disciplina nella neonata università fino ai giorni nostri. Essi collocano questa storia nel più ampio contesto della riforma universitaria degli anni ‘60, mostrano le discussioni che accompagnarono la nomina di Imre Tóth, e forniscono uno spaccato del lavoro quotidiano presso la cattedra a partire dagli inizi fino ai giorni nostri. Sono anche presenti i temi sia dell'insegnamento e degli studenti, sia del collegamento con la comunità scientifica in via di sviluppo. Nel loro testo, Siegmund Probst e Karine Chemla caratterizzano il lavoro scientifico di Imre Tóth da un punto di vista biobibliografico. Tracciano in modo completo lo sviluppo del suo pensiero a partire dai suoi studi, e classificano le sue opere come proposte transdisciplinari tra storia, matematica e filosofia. In uno dei suoi due testi Vittorio Hösle affronta l'opera artistica di Imre Tóth e interpreta i collages, che sono riprodotti nel volume. Si concentra in particolare su cinque immagini di ispirazione storicomatematica e allo stesso tempo le classifica nella attività artistica e nella ricerca scientifica di Tóth. Hösle chiarisce quanto fossero inestricabilmente legate le diverse aree della vita e del lavoro di Tóth. Col contributo di David C. Cassidy si passa a testi più autobiografici. Come ex assistente, egli descrive il suo periodo nella storia della scienza in Germania e condivide i ricordi della sua collaborazione con Imre Tóth. Offre la visione molto personale di un giovane storico della scienza statunitense sulla storia della scienza tedesca e sul lavoro in un'università tedesca.

Imre Toth e la storia della scienza a Regensburg - un volune collettivo e una mostra individuale

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Nell'altro suo contributo, Vittorio Hösle condivide le sue Memories of Imre Tóth e le collega alla propria storia di vita. Mostra quanto profonda possa essere l'influenza di un insegnante accademico sulla scienza in senso stretto. Antonio Moretto, negli anni 1986-1989 Wissenschaftlicher Mitarbeiter di Imre Tóth, espone la sua “conoscenza e collaborazione con Imre Tóth”, secondo tre momenti, collegati alla filosofia hegeliana, ai paradossi di Zenone e alla filosofia kantiana. Vanessa Jantsch, figlia di Imre Tóth, fornisce un'immagine di suo padre da un punto di vista familiare. Nel suo contributo, Eleyne Wenninger prosegue col tema dei ricordi. Basandosi su tre interviste con Vanessa Jantsch come membro della famiglia, Siegmund e Regina Probst come studenti strettamente legati a lui, e della sua segretaria Angelika Sonntag, rivela un lato della vita e del lavoro di Tóth che è difficile da cogliere nelle fonti scritte. Il volume si conclude con un testo dello stesso Imre Tóth: grazie al supporto di Siegmund Probst è stato finalmente possibile stampare per la prima volta la traduzione tedesca del testo Essere ebreo dopo l'Olocausto. Il testo si basa su una conferenza che Tóth tenne a Napoli nel 1997 al colloquio internazionale “La Sho'ah nell'interpretazione e nella memoria”, pubblicata nel 1999 prima in francese e poi in italiano e rumeno. Peter von Baggo ha gentilmente fornito la sua traduzione. La mostra nella Biblioteca dell'Università di Regensburg doveva essere complementare al volume. Purtroppo la pandemia di Covid 19 ha reso impossibile la mostra in presenza. Nel giro di poche settimane, questo progetto si è trasformato in una mostra virtuale che è andata finalmente online nell'agosto 2021. Il tema della mostra fa riferimento al volume curato in comune, i cui contributi sono richiamati nella mostra. La mostra si articola in sei aree tematiche:

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• Arrivo e partenza Fornisce un breve sguardo alla vita di Tóth prima della sua attività a Regensburg. Si possono vedere le opere d'arte, con le quali Tóth ha elaborato le sue precedenti esperienze. Il collage “Objectivités chimiques” si riferisce allo sviluppo dello Zyklon B, con il quale milioni di ebrei furono gasati nei campi di sterminio nazisti, compresa quasi tutta la famiglia di Tóth. Invece la copertina della ricerca Matematica și Dialectica, che egli stesso disegnò, indica uno dei manoscritti che Tóth aveva vergato a Bucarest e che aveva portato con sé quando era fuggito in Occidente. • Vivere e insegnare a Regensburg Nel 1971 Tóth accettò la cattedra di Storia generale della scienza. Questa sezione della mostra si occupa del suo lavoro scientifico nella città sul Danubio. Ci sono foto dell'università ai tempi di Tóth e un poster dell'Università Tecnica di Berlino, dove Tóth tenne una conferenza nell'ottobre 1988. Altri documenti includono una lettera di raccomandazione per il filosofo Vittorio Hösle (nato nel 1960) e documenti di tutoraggio per l'ex ingegnere della NASA e collaboratore del programma Apollo Barys Kit (1920-2018), che conseguì il dottorato di ricerca con Imre Tóth in Storia della matematica. Questo è integrato dal CV dattiloscritto di Tóth. • Impressioni di Regensburg Questa sezione è stata aggiunta in seguito. Ágnes Erdélyi, che alla fine degli anni '80 era a Regensburg con una borsa di studio Humboldt, ricorda vari incontri con Imre Tóth. Ad esempio, racconta una visita al monumento nazionale del Walhalla. Oltre ai suoi ricordi aneddotici, ha anche contribuito con una serie di immagini che siamo in grado di presentare qui per la prima volta al pubblico. Anche l'umorismo nero di Tóth diventa chiaro, ad esempio con l’immagine della macelleria Kain (e Abel?) di Regensburg, o della sua “datazione senza tempo”

Imre Toth e la storia della scienza a Regensburg - un volune collettivo e una mostra individuale

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di un'immagine satirica medievale dello “Judensau” nella cattedrale di Regensburg, che Tóth datava come “prima del pogrom”: una tendenza sempre attuale, visto che viviamo sempre, per così dire, prima del prossimo pogrom. È proprio su questo sfondo che Erdélyi commenta uno degli ultimi importanti contributi di Tóth, che porta il titolo Judesein nach Auschwitz, la cui traduzione tedesca è inclusa nel volume. • Ricerca tra scienza e arte Nella sezione “Ricerca tra scienza e arte” si può guardare oltre le spalle di Tóth, per così dire, e vedere come si è confrontato in dettaglio con gli scritti di Aristotele. Viene mostrato anche un oggetto da lui assemblato con pezzi di scarto, ora di proprietà privata. Come riporta sua figlia Vanessa, fare bricolage per passatempo e riciclare materiali era una delle attitudini di Imre Tóth. • Repertorio e Bibliografia Quando Tóth lasciò il suo ufficio, affidò anche alcuni documenti della sua cattedra all’Archivio universitario dell'Università di Regensburg. Tra questi ci sono numerosi manoscritti e documenti epistolari. Il contenuto esatto può essere trovato col Findbuch nell'aiuto alla ricerca creato da Andreas Becker per l'inventario 83 della Cattedra Imre Tóth nell’Archivio dell'Università di Regensburg, che è allegato come PDF. Con i manoscritti e altre pubblicazioni, Paul Schillinger e Siegmund Probst hanno ampliato la Bibliografia di Elisabetta Cattanei. Viene inoltre fornito il collegamento per il Festschrift del 1996 “Liberté et négation. Ceci n'est pas un festschrift pour Imre Tóth” e per la pagina riassuntiva del suo patrimonio presso la Biblioteca Universitaria di Siena. Questo dovrebbe stimolare ulteriori ricerche su Imre Tóth. • Collages Nell'ultima sezione sono elencati altri collages di Tóth, che mostrano la sua capacità di lavorare non solo scientificamente ma anche

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artisticamente. Ad esempio, si può vedere il più antico collage conosciuto di Imre Tóth, dell’anno 1949. Il motivo è un monaco che vuole trascinare un cavallo ombroso in una torre. A questo proposito Tóth nota in lingua ungherese: «I filosofi borghesi - i lacché della borghesia - hanno approfittato delle difficoltà della scienza per infiltrare Dio e tutti i misteri nel regno della scienza * oggi solo il materialismo dialettico può salvare lo scienziato da questo pericolo mortale». Una delle sue opere più note è Je danse, donc je suis, in cui Tóth formula una danza dello spirito, una connessione tra fisicità e spiritualità, che forse non è all'altezza dell'approccio di Cartesio. Secondo Vittorio Hösle, in Immacolata concezione «l'idea portante del quadro» era «concepire la vergogna celata dalla mano della dea come un triangolo iperbolico». Altri collages ricordano come era soprannominato Tóth tra gli amici: “Haymeric le Gnostique”, cioè “Emmerich (Imre) lo Gnostico”. La conclusione è, tuttavia, un collage che egli non ha portato a termine: Leibniz, dell'artista britannico Anthony Hill (1930-2020), un omaggio al suo amico di lunga data Imre Tóth. La mostra virtuale presenta non solo aspetti del lavoro scientifico e artistico di Imre Tóth, ma anche la sua recezione.

Paul Schillinger & Siegmund Probst Bibliografia di Imre Tóth (1921-2021) La presente Bibliogafia è un ampliamento della Bibliografia di Elisabetta Cattanei: Bibliographie der Schriften von Imre Toth, 20001. Versione italiana di Lucia Procuranti e Antonio Moretto. I titoli dei saggi in lingua romena, ungherese e russa sono accompagnati da una traduzione in lingua italiana.

A Bolyai-geometria filozofiai vonatkozasai (“Le implicazioni filosofiche della geometria di Bolyai”; in lingua ungherese), in: Bolyai János élete és müve (Vita e opere di János Bolyai), Allami Tudomänyos Könyvkiado, Bucarest 1953, pp. 257-340. Johann Bolyai, Leben und Werk des großen Mathematikers, Technischer, Bucarest 1954. Quelques aspects philosophiques de la géométrie non euclidienne (I); «Cercetari filozofice», 1955, pp. 31-60. A tudomänyos kutatäs etikäja (“Etica della ricerca scientifica”; in lingua ungherese), «Korunk» (Kolozsvar), 1957, pp. 1141-1148. Atomul, sursa de energie a viitorului (“L'atomo, la fonte di energia del futuro”, in lingua romena), Editura technica, Bucarest 1958. A matematikai axiomatika néhány ismeretelméleti kérde se (“Questioni epistemologiche nell’assiomatica”; in lingua ungherese), «Filozofiai Tanulmanyok», Tudomanyos Konyvkiado, Bucarest 1959, pp. 289-394. (1) Consultabile in https://halshs.archives-ouvertes.fr/halshs-00004274v3/file/26_ Cattanei.tif.pdf (ultima consultazione: 25.06.2022).

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Stele, atomi, oameni (“Stelle, atomi, persone”, in lingua romena), Editura tineretului, Bucarest 1959. Nekotorye filosofskie aspekti neevklidovoi geometrii: ot evklidovoi geometrii k geometrii neevklidovoi (“Aspetti filosofici della geometria non-euclidea: il passaggio dalla geometria euclidea a quella non-euclidea”; in lingua russa); «Problemy filosofii, Izdatelstvo inostrannoi literatury» (Mosca), 1960, pp. 297-350. La géométrie non euclidienne dans le développement de la pensée, in: Études d'Histoire et de Philosophie des Sciences, Editions de l’Academie de la Republique Populaire Roumaine, Bucarest 1962, pp. 53-70. Matematika és gondolkdäs (“Il pensiero matematico”; in lingua ungherese), «Valosag» (Budapest), 1963, pp. 31-43. From the Prehistory of the non-Euclidean Geometry, «Matematikai Lapok» (Budapest), 1965, pp. 300-315. Alkotäs a matematikäban es müveszetben (“Creazione matematica e artistica”; in lingua ungherese), «Valosag» (Budapest), 1966. Arisztotelész és a nem euklideszi geometria (“Aristotele e la geometria non euclidea”; in lingua ungherese), «Korunk» (Kolozsvar), 1966, pp. 844-852. Creare tuum est esse tuum, «Irodalmi Szemle» (Bratislava), 1966, pp. 799-803. Matematikai és müvészi modell (“Modello matematico e artistico”; in lingua ungherese), «Valójsag» (Budapest), 1966, pp. 61-70. Problema paralelelor la Aristotel (“Il problema delle parallele in Aristotele”; in lingua romena), «Revista de Filozofie» (Bucarest), 1966, pp. 57-73. Das Parallelenproblem im ‘Corpus aristotelicum’, «Archive for History of Exact Sciences», 1967, pp. 249-422. Vestigies of a contra-Euclidean Saccheri-Geometry, in: Aristotle’s Works. Historical Antecedents of the Euclidean Postulate of Parallels, Magyar Tudományos Akadémia III. Osztály Közlemenyei (Budapest), 1967, pp. 1-50. A matematikai formák mint a szépség forräsai (“Le forme matematiche come sorgente della bellezza”; in lingua ungherese), «Valosag» (Budapest), 1968, Nr. 3, pp. 54-66.

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Ertek és igazsäg (“Valore e verità”; in lingua ungherese), «Korunk» (Kolozsvar), 1968, pp. 1267-1277. Matematica in fenomenologia spiritului (“La matematica nella fenomenologia dello spirito ”; in lingua romena), «Revista de Filozofie» (Bucarest), 1968, pp. 1419-1426. Pensée et existence - conscience et création, «Revue de philosophie» (Bucarest), 1968, pp. 339-355. Ahile. Paradozele eleate in fenomenologia spiritului (“Achille. Paradossi eleatici nella fenomenologia dello spirito”; in lingua romena), Editura Stiintifica, Bucarest 1969. Non-Euclidean Geometry before Euclid, «Scientific American», November 1969, pp. 87-101. Aristoteles in der Entwicklungsgeschichte der geometrischen Axiomatik. Die nichteuklidischen Fragmente des Corpus aristotelicum, Nauka, Mosca 1971. Die nichteuklidische Geometrie in der ‘Phänomenologie des Geistes’. Wissenschaftstheoretische Betrachtungen zur Entwicklungsgeschichte der Mathematik, Horst Heiderhoff, Frankfurt am Main 1972 (= Philosophie als Beziehungswissenschaft. Festschrift für Julius Schaaf, a cura di W.F. Niebel e D. Leisegang. Zwanzigster Beitrag). La démonstration apagogique de l’irrationalité: point de tournure dans la démarche des mathématiques grècques vers une philosophie finitiste, in: Proceedings of the XIVth International Congress of the History of Science, 2, Tokyo 1975, pp. 160-1164. A szenthäromszög negativ teolögiäja (“La teologia negativa del triangolo santo”; in lingua ungherese), in: Az embernek próbája. Emlekkönyv a Hollandiai Mikes Kelemen Kör fennállásának huszónötödik évfordulójára (“La prova dell'uomo. Libro commemorativo per il venticinquesimo anniversario dell'esistenza del Mikes Clement Circle nei Paesi Bassi”), Amsterdam 1976, pp. 115-124. Geometria more ethico. Die Alternative: euklidische oder nichteuklidische Geometrie in Aristoteles und die Grundlegung der euklidischen Geometrie, in: PRISMATA. Festschrift für Willy Hartner, a cura di Y. Maeyama e M. Schramm, Steiner, Wiesbaden 1977, pp. 395-415.

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Un probleme de logique et linguistique concernent le rapport entre géométrie euclidienne et géométrie non euclidienne, in: Langage et Pensee Mathematiques, Université de Luxembourg, Luxembourg 1978, pp. 94-142. An Absolute-Geometric Model of the Hyperbolic Plane and some Related Metamathematical Consequences, in: 6th International Congress of Logic, Methodology and Philosophy of Sciences, Section 2, Hannover 1979, pp. 167-171. Aristote et les paradoxes de Zénon d’Elée, «ΕΛΕΥΘΕΡΙΑ» (Atene), 1979, Nr. 2, pp. 304309. ‘Lobatchevski’, a cura di. V.F. Kagan, Mir Publishing House, Mosca 1974; «Historia Mathematica», 1979, pp. 91-97. Spekulationen über die Möglichkeit eines nichteuklidischen Raumes vor Einstein, in: Einstein Symposion Berlin, a cura di H. Nelkowski - A. Hermann H. Poser - R. Schrader - R. Seiler, «Lecture Notes in Physics»», Nr. 100, Springer, Berlin - Heidelberg - New York 1979, pp. 46-69. Wann und von Wem wurde die nichteuklidische Geometrie begründet? Bemerkungen zu Hans Reichardts, ‘Gauss und die nichteuklidische Geometrie’, Leipzig 1976, in: «Archives Internationales d’Histoire des Sciences», 1980, pp. 192-205. Andreas Osiander: Copernikanische Lehre und Menschenrechte, in: Naturwissenschaftliche Forschung in Regensburgs Geschichte, a cura di Joseph Barthel, Buchverlag der Mittelbayerischen Zeitung, Regensburg 1981, pp. 53-100. Eukleides von Alexandria, «Archiv der Geschichte der Naturwissenschaften», 4 (1982), pp. 207-214. Gott und Geometrie. Eine viktorianische Kontroverse, in: Evolutionstheorie und ihre Evolution, a cura di Dieter Henrich, Buchverlag der Mittelbayerischen Zeitung, Regensburg 1982, pp. 141-204. La révolution non-euclidienne, «La Recherche», Februar 1977, pp. 143-151 (ristampato in: La RECHERCHE en Histoire des sciences, a cura di M. Biezunski, Editions du Seuil, Paris 1983, pp. 241-265). Three Errors in Frege’s ‘Grundlagen’ of 1884: Frege and non-Euclidean Geometry, in: Frege Conference 1984, a cura di G. Wechsung, Akademie, Berlin 1984, pp. 101-107.

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Matematika es szabadsag (“Matematica e libertà”; in lingua ungherese), «Valosag» (Budapest), 1986 Nr. 11, pp. 33-55. Freges mathematische Philosophie und die Mathematik zur Freges Zeit, in: Tradition und Innovation, a cura di G. Jussen, Bonn 1987, pp. 90-92. Mathematische Philosophie und Hegelsche Dialektik, in: Hegel und die Naturwissenschaften, a cura di Michael John Petry, Frommann-Holzboog, Stuttgart 1987, pp. 89-182. Nicolas Bourbaki, S.A. Leben und Taten des polykefalen Mathematikers nach authentischen, von ihm selbst erfundenen Angaben. ‘Eine Enthüllung’, «Katabole», 1, (1982), pp. 68-94 (versione rielaborata, stampata in: Wie sieht und erfährt der Mensch seine Welt?, a cura di Hans Bungert, Mittelbayerische Druckerei- und Verlags-Gesellschaft, Regensburg 1987, Nr. 40, pp. 138-153). Wissenschaft und Wissenschaftler im postmodernen Zeitalter, in: Wie sieht und erfährt der Mensch seine Welt?, a cura di Hans Bungert, Mittelbayerische Druckerei- und Verlags-Gesellschaft, Regensburg 1987, Nr. 40, pp. 85-154. Die Zenonschen Paradoxien: Cantorsches Diskontinuum & transfinite Induktion, in: Deutsche Mathematiker-Vereinigung: Vortragsauszüge der wissenschaftlichen Jahrestagung 1988 in Regensburg, 1988, pp. 30. Dokument: Interview mit Prof. Imre Toth, «Dialog» (München), Heft 3/4, September 1988 (in lingua romena; trad. abbreviata in lingua francese in: «Sources. Travaux historiques»», Nr. 20, 1989, pp. 33-46). Essere e non essere: il teorema induttivo di Saccheri e la sua rilevanza ontologica, in: Conoscenza e Matematica, a cura di Lorenzo Magnani, Marcos y Marcos, Milano 1991, pp. 87-156. Le probleme de la mesure dans la perspective de l’étre et du non-étre. Zénon et Platon, Eudoxe et Dedekind: une généalogie philosophico-mathématique, in: Mathématiques et Philosophie de l’Antiquitè à l’Âge classique. Hommage à Jules Vuillemin, a cura di Roshdi Rashed, Éditions du Centre National de la Recherche Scientifique, Paris 1991, pp. 21-99. Colloquio con Imre Toth, un’intervista con Romano Gatto, in: «Lettera PRISTEM», novembre 1992, pp. 4-12.

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Il pensiero matematico: liberta e verità, negazione e creazione, in: Pensiero scientifico e pensiero filosofico. Conflitto, alleanza o reciproco sospetto?, a cura di Corrado Mangione, Franco Muzzio, Pavia 1993, pp. 21-52. The Dialectical Structure of Zeno’s Arguments, in: Hegel and Newtonianism, a cura di Michael John Petry, Kluwer Academic, Dordrecht 1993, pp. 179-200. Von Wien bis Temesvar: Johann Bolyais Weg zur nichteuklidischen Revolution, in: Verdrängter Humanismus - Verzögerte Aufklärung, a cura di Michael Benedikt e altri, Band 3, Klausen-Leopoldsdorf 1995, pp. 419-466 u. 877887 (ristampa da una precedente stesura del testo in: János Bolyai. Der Mozart der Mathematik, a cura di A. Maeger, Hamburg 1999, pp. 21-68). I Paradossi di Zenone nel Parmenide di Platone, traduzione di Antonio Moretto dal dattiloscritto in lingua tedesca, Istituto Italiano per gli Studi filosofici, Napoli 1994; ristampa Bibliopolis, Napoli 2006. Teologia negativa a triunghiului. Palimpsest (“Teologia negativa del triangolo. Palinsesto, tradotto in lingua romena da Petru Cretia”), Humanitas, Bucarest 1995. Aristotele e i fondamenti assiomatici della geometria: Prolegomeni alla comprensione dei frammenti non-Euclidei nel “Corpus Aristotelicum” nel loro contesto matematico e filosofico. 1a ed. italiana, Vita e pensiero, Milano 1997; 2a edizione riveduta 1998. Collages metaphysiques, Liget (Budapest), 1992, pp. 76-110. Significato filosofico dei Collages prodotti dall’Autore (in occasione di una esposizione. Versione italiana nel Catalogo dell’esposizione a Roma: Imre Toth, Museo Laboratorio di Arte contemporanea, Roma, 10-27 Novembre 1997, pp. 17-42. “… Car comme disait Philolaos le Pythagoricien ...” Philosophie, Géométrie, Liberté, «Diogène», 1998, Nr. 182, pp. 38-62. (ristampato in: Revue Diogène. Une anthologie de la vie intellectuelle au XXe siècle, Presses Universitaires de France, Paris 2005, pp. 325-349). Lo schiavo di Menone. Il lato del quadrato doppio, la sua misura non-misurabile, la sua ragione irrazionale. Commentario a Platone, “Menone” 82B-86C, a cura di E. Cattanei, presentatazione di Giovanni Reale, Vita e Pensiero, Milano 1998.

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No!: libertà e verità, creazione e negazione: palinsesto di parole e immagini,/ raccolto e ordinato da Imre Toth; edizione italiana a cura di Francesco Spagnolo Acht; traduzione italiana di Antonello Nociti, Rusconi, Milano 1998. (nuova edizione Bompiani, Milano 2003). Entretien: Imre Toth - Autour de Cioran, «L’Aleph», 1 (1999), Nr. 2, pp. 41-45. Etre Juif - aprés l'Holocaust, in: La Sho’ah tra interpretatione e memoria, a cura di P. Amodio - R. de Maio - G. Lissa, Vivarium, Napoli 1999, pp. 135-183. Palimpsest, «Bzzlletin», 28 (1999), Nr. 266-267, pp. 36-56. De Interpretatione. Biographie commentée d’Euclide, «Diogène» 192 (2000), pp. 3-52. De interpretatione: la geometria non-euclidea nel contesto della “Oratio continua” del commento ad Euclide, traduzione e introduzione di Bianca Maria d’Ippolito, Città del Sole, Napoli 2000. Isten és geometria (“Dio et geometria”; in lingua ungherese), tradotto da József Czirják - Janos Flaské - Marton Kaposi - Gyula Munkacsy, Osiris, Budapest 2000. Palimpseste: Propos avant un triangle, Bibliothèque du Collège International de Philosophie, Presses Universitaires de France, Paris 2000. Fortuna, sfortuna e significato dell’ ‘Euclides ob omni naevo vindicatus’ di P. Gerolamo Saccheri, pp. 7-54, studio introduttivo a: G. Saccheri, L’Euclide vendicato, Bompiani, Milano 2001 (con E. Cattanei). Wie das Unmögliche zur Wirklichkeit wurde? Wildes Denken in der Mathematik - Der Weg der nichteuklidischen Geometrie aus dem Nichtsein in das Sein, in: Ideale Akademie. Vergangene Zukunft oder konkrete Utopie?, a cura di Wilhelm Voßkamp, Akademie, Berlin 2002, pp. 187-230. Essere ebreo dopo l’olocausto, a cura di Bianca Maria d’Ippolito, con una postfazione di Romano Romani, Cadmo, Fiesole 2002. Matematica ed emozioni, Di Renzo, 2004 (rist. 2006, 2020). La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale: una apologia, a cura di Romano Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2007 (con Romano Romani).

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Liberté et Vérité. Pensée mathématique & spéculation philosophique, Éd. de l’Éclat, Paris 2009. Platon et l’irrationnel mathématique, con una prefazione di Romano Romani, Éd. de l’Éclat, Paris 2011. Platon: La dyade infinie et l’Un - Fondement logique et ontologie du nombre irrationnel, in: La ricerca lógica in Italia. Studi in onore di Corrado Mangione, a cura di Edoardo Ballo e Carlo Cellucci, Cisalpino - Monduzzi Editoriale, Milano 2011, pp. 67-127. La filosofia della matematica di Frege: una restaurazione filosofica, una controrivoluzione scientifica, a cura di e con una postfazione di Teodosio Orlando, Quodlibet, Macerata 2015. Geometria more ethico nel Corpus Aristotelicum. Il caso di Etica Nicomachea, VI 5, e Problemi, XXX 71, in: Seconda Navigazione. Omaggio a Giovanni Reale, a cura di Roberto Radice e Glauco Tiengo, Vita e Pensiero, Milano 2015, pp. 727-744. Il lungo cammino da me a me. Interviste di Péter Várdy, a cura di e con una postfazione di Giancarlo Gaeta, Quodlibet, Macerata 2016. Le sorgenti speculative dell’irrazionale matematico nei dialoghi di Platone, a cura di Romano Romani e Paolo Pagli, Ets, Pisa 2018. Platon, a cura di e con una Prefazione di Romano Romani, Cadmo, Fiesole 2020. Jude sein nach dem Holocaust, tradotto da Peter von Baggo, in: Imre Tóth (1921-2010) und die Institutionalisierung der Wissenschaftsgeschichte an der Universität Regensburg, a cura di Andreas Becker e Christian Reiß, Universitätsverlag Regensburg, Regensburg 2021, pp. 101-150. Il soggetto e la sua libertà. The subject and its freedom. Interviste di Gaspare Polizzi, a cura di Fabio Gembillo, Armando Siciliano, Messina 2022.

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Francesco Crapanzano - Fabio Gembillo Imre Toth storico e filosofo della matematica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 Annamaria Anselmo Le ragioni e le emozioni in Imre Toth 1. Imre Toth “uomo intero” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 2. La paura carburante per la riconquista della dignità . . . . . . . . . . . . . 10 3. La ricerca del giusto daimòn . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 4. L’antisemitismo forma endemica della cultura occidentale . . . . . . . . 11 5. La matematica événement de l’esprit . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14 6. Non numerare sed ponderare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16 7. La geometria non euclidea fonte d’ “incremento cognitivo” . . . . . . . . 17 8. L’uomo è di “stirpe divina” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19 Karine Chemla Échanges orageux avec Imre sur la diversité des mathématiques . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 22 Francesco Crapanzano Imre Toth amicus Plato ... sed magis amica mathematica 1. Imre Toth e la filosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45 2. Il problema della misura come chiave di volta del pensiero antico . 52 3. Platone: un fascino matematico che oltrepassa le epoche . . . . . . . . . 60 Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65

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Amélie Dessens Le fonds Imre Toth à la bibliothèque universitaire de Sienne. Pistes d’exploration . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68 Le fonds Toth dans sa complexité . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 69 Explorer la vie et le réseau intellectuel d’Imre Toth à travers les archives déposées à Sienne . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 72 La correspondance . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 72 La bibliothèque . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77 Le fonds d’archive comme reflet du travail du chercheur . . . . . . . . . . . . . . . . 80 Sources, lieux et méthodes de travail . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81 La publication . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 84 Conclusion . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87 Francesco Di Benedetto Geometria e politica: la misura della diagonale come antidoto alla demagogia Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 88 L’arte impossibile: educare i figli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89 La retorica: una “cosa irrazionale” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 92 Non trascurare la geometria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 96 La giusta misura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 99 Ágnes Erdélyi Imre Toth, Künstler-Person . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 112 Epilog . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 120 Francesca Ervas “Tu me penses, donc je suis”. Imre Toth e la tradizione come creazione di spazi non-euclidei . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 122

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Fabio Gembillo In che senso Imre Toth proclama la libertà di dire NO! 1. L’assioma di scelta del Soggetto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 134 2. Ciò che il Soggetto apprende grazie a ciò che ha scelto . . . . . . . . . . . 140 Giuseppe Gembillo La filosofia consapevole di Imre Toth e la matematica come libera creazione del Soggetto 1. Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 146 2. La rivoluzione mentale di Toth . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 151 Giuseppe Giordano “Ex oriente lux”. La nascita della filosofia e l’identità dell’Occidente tra Hegel e Toth . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 165 Vittorio Hösle Antieuclideo o non euclideo? Tertium datur! Alcune riflessioni metodologiche sulla storia della scienza in occasione dell’accusa di anacronismo rivolta all’interpretazione di Aristotele da parte di Imre Tóth

I. II. III. IV. V.

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 178 L’obiezione che Tóth commetta anacronismi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 181 L’argomentazione di Tóth . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 190 Proclo su rette asintoticamente parallele . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 205 Quale alternativa alla geometria euclidea fu considerata per prima? E le riflessioni furono di natura antieuclidea o non euclidea? . . . . . . . . . 208 Letteratura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 215

Antonio Moretto Tre momenti della mia frequentazione con Imre Toth: Tübingen, Regensburg, Verona Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 219 Tübingen . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 220 Regensburg . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 224 Verona . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 233 Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 238

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Francesco Oliveri Imre Toth e i conservatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 239 Alberto Olivetti Imre Toth, tra autoritratti e collages . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 249 Teodosio Orlando Considerazioni metafilosofiche su Imre Toth . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 253 Gaspare Polizzi Il lògos àlogos, tra matematica e filosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 270 Siegmund Probst - Karine Chemla Lo scienziato Imre Toth . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 279 Romano Romani La matematica come manifestazione della spiritualità umana: in dialogo con il platonismo di Imre Toth . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 292 Fabiana Russo Imre Toth, perché “NO”? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 301 Philippe Séguin Herbert Mehrtens, lecteur et continuateur de Imre Tòth dans son ouvrage Moderne Sprache Mathematik . . . . . . . . . . . . . . . . 309 1. Die Moderne . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 310 2. Littérature et mathématiques . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 316 3. Le problème de la réception . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 320 4. Conclusion en forme de suggestion . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 326 Bibliographie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 328 Fiorenza Toccafondi Su Toth, Frege e la memoria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 330

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Andreas Becker - Christian Reiss Imre Toth e la storia della scienza a Regensburg - un volume collettivo e una mostra virtuale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 337 Paul Schillinger & Siegmund Probst Bibliografia di Imre Tóth (1921-2021) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 343 Indice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 351

Nella collana “Interazioni”: 1. Annamaria Anselmo, Edgar Morin. Dal Riduzionismo alla Complessità 2. Giuseppe Giordano, Tra Einstein ed Eddington. La filosofia degli scienziati contemporanei 3. Maria Rita Abramo, Il razionalismo di Gaston Bachelard 4. AA.VV., Wolfgang Pauli tra fisica e filosofia a cura di Giuseppe Gembillo e Giuseppe Giordano 5. G.W.F. Hegel, Sulla storia universale. Considerazioni su Joseph Görres a cura di Santi Di Bella 6. Francesca Rizzo, Bertrando Spaventa. Le «Lezioni» sulla storia della filosofia italiana nell’anno accademico 1861-1862 7. Raffaello Franchini, Teoria della previsione 8. Giuseppe Gembillo, La filosofia greca nel Novecento 9. Gaston Bachelard, L’esperienza dello spazio nella fisica contemporanea a cura di Maria Rita Abramo 10. Edgar Morin et al., La metafora del circolo nella filosofia del Novecento. Omaggio a Edgar Morin a cura di Giuseppe Gembillo e Annamaria Anselmo 11. AA.VV., La tradizione filosofica crociana a Messina a cura di Giuseppe Giordano 12. Giuseppe Molino, Politica natura storia in Oswald Spengler 13. Santo Coppolino, La logica dello storicismo. Saggio su Croce 14. AA.VV., Werner Heisenberg scienziato e filosofo a cura di Giuseppe Gembillo e Costanza Altavilla

15. Edgar Morin - Girolamo Cotroneo - Giuseppe Gembillo, Un viandante della complessità. Morin filosofo a Messina 16. Laura Zanetti, La filosofia di Luigi Scaravelli 17. Gaspare Polizzi, Tra Bachelard e Serres. Aspetti dell’epistemologia francese del Novecento 18. AA.VV., Scaravelli pensatore europeo a cura di Massimiliano Biscuso e Giuseppe Gembillo 19. Hermann J. De Vleeschauwer, More seu ordine geometrico demonstratum traduzione e cura di Nunzio Allocca 20. Edgar Morin, La latinità a cura di Annamaria Anselmo e Giuseppe Gembillo 21. Ernesto Paolozzi - Giuseppe Gembillo - Giuseppe Giordano, Liberalismo Scienza Complessità 22. AA.VV., Pensatori contemporanei. Studi in onore di Girolamo Cotroneo, I. Filosofi del Novecento a cura di Giusi Furnari Luvarà e Francesca Rizzo 23. AA.VV., Pensatori contemporanei. Studi in onore di Girolamo Cotroneo, II. Epistemologi del Novecento a cura di Giuseppe Gembillo e Giuseppe Giordano 24. AA.VV., La presenza di Kant nella filosofia del Novecento a cura di Annamaria Anselmo 25. Giuseppe Gembillo - Giuseppe Giordano - Flavia Stramandino, Ilya Prigogine scienziato e filosofo 26. AA.VV., Niels Bohr scienziato e filosofo a cura di Giuseppe Gembillo e Giuseppe Giordano 27. Baldo Biagetti, Riflessioni e rifrazioni a cura di Girolamo Cotroneo 28. Liliana Nobile, Derrida e Husserl. L’enigma del Presente Vivente 29. Giuseppe Cacciatore, Cassirer interprete di Kant e altri saggi a cura di Giuseppe Gembillo

30. Edgar Morin, Lezioni Messinesi a cura di Annamaria Anselmo e Giuseppe Gembillo 31. AA.VV., La filosofia e gli altri saperi a cura di Annamaria Anselmo 32. AA.VV., Einstein e la relatività cento anni dopo a cura di Annamaria Anselmo 33. Girolamo Cotroneo, Popper e la società aperta 34. Giuseppe Giordano, La filosofia di Ilya Prigogine 35. Girolamo Cotroneo, Etica ed Economia. Tre conversazioni 36. Giuseppe Bentivegna, Il razionalismo di Jean Ullmo con il saggio di Jean Ullmo, La meccanica quantistica e la causalità 37. AA.VV., Conoscere è fare. Omaggio a Humberto Maturana a cura di Giuseppe Gembillo e Letizia Nucara 38. Marialuisa Donati Verso una filosofia della natura: Carl Gustav Jung, Wolfgang Pauli e il principio di sincronicità 39. Maria Laura Giacobello Pensiero e giudizio in Max Weber e Hannah Arendt 40. Edgar Morin - Benoît Mandelbrot - Humberto Maturana Complessità e Neostoricismo. Studi in onore di Giuseppe Gembillo Prefazione di Girolamo Cotroneo a cura di Annamaria Anselmo - Giuseppe Giordano - Giuliana Gregorio 41. Francesco Crapanzano, Jean Piaget epistemologo e filosofo

Extravagantes appendice vagante e variabile a “Interazioni” 1. Deborah Donato, Dal pozzo alla scala. Versi diversi di filosofia 2. Francesco Tigani, Solai. Una soluzione al caso Galileo 3. Giovan Battista Vico, Degnità traduzione con testo a fronte a cura di Concetta Celi e Giuseppe Gembillo (in preparazione) 4. Benoit Mandelbrot, How Long is the Coast of Britain? Statistical Self-Similarity and Fractional Dimension a cura di Giuseppe Gembillo 5. Cesare Beccaria, Frammenti sugli odori. Discorso sui piaceri dell’immaginazione a cura di Ludovico Fulci 6. Maria Gabriella Scuderi, Labirinti del sentimento. L’eterna dialettica tra maschile e femminile 7. AA.VV., Iliad and Odyssey in the North of Europe. Iliade e Odissea nel Nord Europa a cura di Giacomo Tripodi

Nella collana “Biblioetera”: 1. Edgar Morin La latinité 2. Fabio Gembillo José Ortega y Gasset e la Storia della Filosofia 3. Werner Heisenberg Ordinamento della realtà 4. Gaetano Giandoriggio Croce e Hegel. Storia di un confronto Dagli anni della formazione alla costruzione della Filosofia dello Spirito 5. Fabio Gembillo - Giuseppe Giordano José Ortega y Gasset e Humberto Maturana. Dal loro punto di vista 6. Bruna Valotta Tra Wiener e Morin. Dalla cibernetica alla sibernetica 7. Giuseppe Giordano Complessità. Interazioni e diramazioni 8. Fritjof Capra - Nunzio Allocca - Luciano Boi - Fabio Gembillo Alfonso Montuori - Ernesto Paolozzi - José Luis Solana Ruiz Complessità ed etica a cura di Fabio Gembillo 9. Edgar Morin - Annamaria Anselmo - Rosella Faraone - Giusi Furnari Luvarà Giuseppe Gembillo - Giuliana Gregorio - Francesca Rizzo La filosofia come riflessione storica Studi in onore di Giuseppe Giordano 10. Edgar Morin La Méthode de la Méthode édité par Annamaria Anselmo - Giuseppe Gembillo - Fabiana Russo 11. Edgar Morin Il Metodo VII. Il Metodo del Metodo a cura di Annamaria Anselmo - Giuseppe Gembillo - Fabiana Russo 12. Fritjof Capra - Annamaria Anselmo - Santo Burgio - Mauro Ceruti & Luisa Damiano Francesco Crapanzano - Diana Del Mastro - Rosella Faraone - Edvige Galbo Fabio Gembillo - Giuseppe Gembillo - Maria Laura Giacobello - Enrico Giannetto Giuseppe Giordano - Stephan Harding - Pier Luigi Luisi - Ugo Mattei Fabiana Russo - Bruna Valotta Fisica ecologia filosofia. Omaggio a Fritjof Capra a cura di Annamaria Anselmo e Francesco Crapanzano

13. Annamaria Anselmo - Francesco Crapanzano - Giuseppe Gembillo Giuseppe Giordano - Fabiana Russo - Bruna Valotta In cammino con Edgar Morin a cura di Annamaria Anselmo 14. Maria Arcidiacono Gregory Bateson, tra rigore e immaginazione 15. Girolamo Cotroneo Le figure della Fenomenologia dello Spirito a cura di Giuseppe Gembillo e Giuseppe Giordano 16. Imre Toth - Gaspare Polizzi Il soggetto e la sua libertà. il fondamento ontico della verità matematica Un’intervista biografico-teorica di Gaspare Polizzi The subject and its freedom. The ontic foundation oF mathematical truth A biographical-theoretical interview with Gaspare Polizzi 17. Francesca Rizzo Croce e Gentile. La costruzione della tradizione idealistica italiana a cura di Rosella Faraone - Giuseppe Gembillo - Giuseppe Giordano 18. La presenza di Hegel nei pensatori contemporanei - vol. I a cura di Annamaria Anselmo e Francesco Crapanzano 19. La presenza di Hegel nei pensatori contemporanei - vol. II a cura di Giuseppe Gembillo e Fabiana Russo 20. La presenza di Hegel nei pensatori contemporanei - vol. III a cura di Fabio Gembillo e Giuseppe Giordano 21. Imre Toth e la filosofia della matematica a cura di Francesco Crapanzano e Fabio Gembillo 22. Complessità ed ecoetica a cura di Maria Laura Giacobello

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