Introduzione alla filosofia della matematica 8843060317, 9788843060313

Di cosa si occupa esattamente la matematica? Che cosa sono entità come numeri, insiemi, funzioni? Che proprietà hanno (d

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Introduzione alla filosofia della matematica
 8843060317, 9788843060313

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STUDI SUPERIORI FILOSOFIA

/ 644

A Maria Baetzing Even i/ there were no numbers, give me your p hone number

I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Corso Vittorio Emanuele II, 229 ooi86 Roma telefono o6 42 8 I 84 I 7 fax o6 42 7 4 7 9 3 r Siamo su: http://www. carocci.it http:/ /www.facebook.com/caroccieditore http://www.twitter.com/caroccieditore

Matteo Plebani

Introduzione alla filosofia della matematica

Carocci editore

ra ra

ristampa, giugno 2018 edizione, luglio 20II ©copyright 2ou by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Progedit, Bari

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Premessa

9

L

Ontologia: i numeri esistono?

13

LI.

Di cosa parliamo quando parliamo di esistenza?

14

1.2.

Oggetti matematici vs oggettività della matematica

21

1.3.

Domande facili e domande difficili

29

1.4.

La visione di Carnap dell'antologia...

30

1.5.

... e i suoi problemi

33

r.6.

Tre alternative e mezzo r.6.r. Due sensi del quantificatore l r.6.2. Esistenza e metafora l r.6.3. L'eresia meinonghiana l r.6.4. La realtà è un operatore

35

1.7.

Argomenti per il platonismo

46

r.8.

La via di Quine r.8.1. L'argomento di Quine l 1.8.2. L'argomento di indispensa bilità l 1.8.3. L'argomento di Burgess e Rosen

48

1.9.

La via fregeana

62

1.10.

Nominalismi

65

I. II.

I nostri antenati goodmaniani

67

1.12.

Chihara: la possibilità di lasciare un segno concreto

72

1.13.

Field: che cosa si prova ad essere un nominalista

73

1.14.

Da che parte stare?

78

2.

Metafisica: che cosa sono i numeri?

83

2.1.

L'eredità di Frege

84 7

2.2.

Quattro vie

86

2.3.

Numeri e insiemi 2.3.1. Che cos'è un insieme? l 2.3.2. Confronto con la mereologia l 2.3.3. Quello che i numeri non possono essere

89

2.4.

S trutturalismi

104

Astrazioni vecchie e nuove Il più pregnante paragrafo filosofico di tutti i tempi l 2.5.2. Il problema di Cesare

109

2.5.

2.5.1.

Epistemologia: com'è possibile conoscere gli oggetti matematici?

119

3·1.

Conoscenza fantasma

119

3.2.

L'argomento di Benacerraf

120

3·3·

La versione aggiornata di Field

126

3-4·

Critiche all'argomento di Fie!d

128

3·5·

Logica e matematica

134

3.6.

li platonismo della pienezza (Balaguer)

135

3·7·

La tesi che la matematica è logica

143

3.8.

Come facciamo a sapere che (HP) è vero?

151

3·9·

Cattive compagnie

154

3.10.

Matematica, logica e modalità

156

3.11.

Oggetti matematici vs oggettività della matematica (II)

157

Bibliografia

163

Indice dei nomi

173



8

Premessa

La matematica, secondo alcuni, è la regina delle scienze. Di certo per i filosofi ha sempre rappresentato una scienza molto interessante, per via di quelle che, ai loro occhi, sono apparse come caratteristiche del tutto peculiari. Per prima cosa, l'oggetto di studio della matematica risulta diverso da quello delle altre scienze: fisica, biologia e chimica sembrano, con me­ todi e nozioni diverse, indagare il mondo fisico; la matematica, vicever­ sa, trattando di numeri, funzioni, insiemi e così via, pare aver a che fare con un mondo di oggetti astratti e, qualunque sia il significato di que­ st'aggettivo, ciò sembra conferirle un ruolo del tutto speciale. li caso del­ la matematica rappresenta la sfida più grande per chiunque voglia so­ stenere che solo il mondo degli oggetti concreti esiste: come possono es­ sere veri i teoremi della matematica, se il suo oggetto di studio (un mon­ do di oggetti astratti) non esiste? A questo interessante rompicapo è de­ dicato il CAP. r. L'antologia è quel ramo della filosofia dedicato a rispon­ dere alla domanda "che cosa esiste?", ovvero a stipulare le regole per la compilazione di un catalogo universale; nel CAP. I ci occuperemo quindi di questioni antologiche, visto che la nostra domanda guida sarà "i nu­ meri esistono?". Dalla domanda circa l'esistenza dei numeri si passa abbastanza na­ turalmente, nel CAP. 2, a quella circa la loro natura o essenza: che tipo di cose sono i numeri (e altre entità matematiche)? Sono oggetti astratti, si dice spesso, ma quali caratteristiche distinguono un oggetto astratto da uno concreto? Nel domandarci cosa siano i numeri faremo della metafi­ sica, almeno se si adotta la definizione di metafisica come l'indagine vol­ ta a stabilire "che cos'è quello che c'è". Un altro tipo di problemi ha a che fare con la conoscenza matema­ tica. Da un lato sembra più facile dubitare dei nostri sensi che delle co­ noscenze matematiche acquisite: anche se stessimo sognando, o se ci trovassimo nel mondo diMatrix, due più due farebbe pur sempre quat­ tro, e in questo senso i risultati matematici sembrano essere certi. D'al-

9

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

tro canto, è difficile capire come si siano potute ottenere queste cono­ scenze. Non solo gli oggetti matematici, a differenza dei gatti, non si possono né vedere, né toccare (questo vale anche per entità teoriche della fisica come gli elettroni), ma, a differenza degli elettroni, non è nemmeno possibile constatare alcuna traccia delle loro interazione con il mondo fisico. Se le cose stanno così, come facciamo a sapere in che modo sono fatti? Come facciamo innanzitutto a sapere che esistono? Il problema viene posto alle volte come un dilemma: se la matematica trat­ ta di oggetti astratti, allora la conoscenza matematica sembra diventare un mistero; ma se la matematica non tratta di oggetti astratti, allora l'og­ getto di studio della matematica sembra diventare un mistero: quale scegliere tra queste due sgradevoli alternative? 1 I filosofi chiamano epi­ stemologia l'esame della nozione di conoscenza, per cui problemi di questo genere vengono definiti "epistemologici". La loro analisi, ac­ compagnata da un esame dei tentativi di risolverli, costituisce il cuore del CAP. 3· Un fenomeno sorprendente sotto gli occhi di tutti è lo straordinario successo dell'applicazione di conoscenze matematiche allo studio del mondo fisico: quello che Wigner chiamò «l'irragionevole efficacia della matematica». Alle volte questo è visto come l'ennesimo puzzle da risol­ vere e la domanda diventa "come è possibile?". Altre volte il fenomeno dell'applicabilità della matematica è invece citato come un argomento per sostenere che gli oggetti matematici esistono realmente. Essendo un tema classico, se ne tornerà a parlare spesso nel corso del volume, in par­ ticolare in riferimento ai tentativi di formulare le principali teorie scien­ tifiche esistenti senza fare riferimento ad oggetti astratti. Il libro intende presentare lo stato della ricerca impegnata ad af­ frontare tali problemi. Non è, quindi, una storia della filosofia della ma­ tematica e nemmeno una ricostruzione completa del dibattito contem­ poraneo, ma un'introduzione alle prospettive oggi più discusse sui temi classici di filosofia della matematica. Questo spiega, ad esempio, lo scar­ so rilievo dato alle varie forme di costruttivismo: la più estesa difesa fi­ losofica di questa concezione è quella fornita dall'opera di Dummett, di­ scussa proprio in apertura, e resta un approccio minoritario. Per il resto, il costruttivismo si è rivelato interessantissimo da un punto di vista ma­ tematico, ma ha attirato poco l'attenzione dei filosofi. Inutile dirlo, que­ sto non è un difetto, forse anzi un pregio, ma ne spiega l'esclusione dal volume.

I. n dilemma in questione è conosciuto in letteratura sotto il nome di "dilemma di Benacerraf" , cfr. Benacerraf (1973).

IO

PREMESSA

Infine, una piccola nota metodologica: la matematica, da sempre, ha attirato l'attenzione dei filosofi come un rompicapo da risolvere. Questa metafora andrebbe presa sul serio, proprio per dare il giusto peso alle varie filosofie della matematica; queste ultime andrebbero viste come va­ ri tentativi di risolvere il puzzle e non andrebbero mai prese troppo sul serio. La storia, infatti, ci ha dato almeno una lezione: si tratta di un puzz­ le difficile. Le migliori teste del reame vi si sono dedicate con accani­ mento, senza giungere ad una soluzione universalmente condivisa. TI let­ tore osservi quindi le mosse fino ad ora tentate per risolvere questo cu­ bo di Rubik concettuale; e se alla fine della lettura sentisse il desiderio di giocarci da solo, questo libro avrebbe raggiunto il suo scopo.

Ringraziamenti Parte del materiale qui presentato è ripreso dalla mia tesi di dottorato (Plebani, secondo e terzo capitolo ). Ho quindi un doppio debito nei confronti di Luigi Perissinotto e di Pasquale Frascolla, che mi hanno seguito in entrambi i lavori nel migliore dei modi possibili. Un grazie particolare anche a Pierdaniele Giaretta e Francesca Boccuni, che hanno letto il volume nella sua interezza e fornito preziosissimi commenti. Al­ trettanto utili sono stati i suggerimenti di Vittorio Morato, Marco Panza e An­ drea Sereni. Francesco Berto è responsabile indiretto del leggero tocco mei­ nonghiano presente nel libro, sul quale ha fornito utilissime indicazioni. Sono molto grato ad Enrico Martino per avermi dato l'opportunità di di­ scutere con lui di varie questioni di filosofia della matematica, imparando sem­ pre tantissimo. Aver avuto la possibilità di collaborare con Ivan Kasa e confrontarmi con lui sulle questioni del neo-logicismo e delle obiezioni epistemologiche al plato­ nismo matematico mi ha aiutato a chiarirmi le idee su questi temi. Grazie anche ad An dré Fuhrman e ai membri del seminario di Logica e semantica della Goethe Universitat di Francoforte. Grazie a Massimiliano Carrara, Matteo Favaretti Camposampiero e a Vit­ torio Morato, del Dipartimento di Filosofia di Padova, per aver fornito un am­ biente ideale per la stesura del volume. Grazie a Gianluca Mori per aver creduto nel progetto e a Barbara Cane­ strelli e Roberta Giannini per il preziosissimo supporto editoriale. Grazie anche a Marina Laterza e al suo staff della Progedit per la cura re­ dazionale. Infine, grazie ai miei amati coinquilini e a Maria Baetzing: la loro presenza è stata una fonte di gioia durante la stesura di questo libro, e in molti altri mo­ menti. 2010 ,

II

I

Ontologia: i numeri esistono?

Supponiamo che qualcuno voglia sostenere che: (r)

( 2)

tutto ciò che esiste è concreto; la matematica è vera, nel senso che tutti i teoremi matematici sono veri.

Da un lato, prese singolarmente, le due tesi sembrano altamente plausi­ bili: la matematica è vera se mai qualcosa lo è, viene da dire, e che l'esi­ stente si esaurisca nel mondo fisico sembra una tesi per cui alcuni han­ no simpatia. D'altro canto, però, sembra che le due cose non si concili­ no così bene: la matematica pare descrivere un mondo di oggetti ben di­ versi da quelli concreti e abbonda di teoremi esistenziali, ovvero di teo­ remi che, presi alla lettera, affermano l'esistenza di ogni tipo di numeri, insiemi, funzioni ecc. 1• Per esempio, il teorema di Euclide afferma che esistono infiniti numeri primi. Se questo teorema è vero, non ne conse­ gue forse che esistono dei numeri primi, quindi dei numeri, quindi de­ gli oggetti astratti? La verità degli enunciati matematici sembra quindi, a prima vista, fornire un argomento per concludere che esistono degli oggetti astratti come, per esempio, i numeri. Questo sembra porre il problema dell'esi­ stenza di tali oggetti su un piano ben diverso rispetto ad altri problemi oggetto di famose (famigerate) dispute filosofiche, come il dibattito sul­ l'esistenza di Dio. Certo, se la teologia è vera, Dio esiste; ma la teologia non è una scienza, mentre la matematica sì. n fatto che la matematica af­ fermi l'esistenza dei numeri, se confermato da un'attenta analisi filosofi­ ca, avrebbe quindi un peso ben diverso rispetto al fatto che la teologia affermi l'esistenza di Dio (come nota Linnebo, 2009).

I. La precisazione "presi alla lettera" è necessaria, per ragioni su cui torneremo più volte nel corso del capitolo. È possibile infatti accettare i teoremi esistenziali e allo stesso tempo negare che i numeri esistano (o rimanere agnostici sulla questione) .

13

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

Ma è davvero così? Non è possibile interpretare il discorso matemati­ co in modo da renderlo compatibile con l'idea che tutto sia concreto? O non dovremmo forse concludere, dal fatto che non esistono oggetti astrat­ ti, che, malgrado le apparenze iniziali, gli enunciati matematici in realtà non sono veri? Ma ha veramente senso domandarsi se, indipendentemen­ te da quello che la scienza (di cui la matematica fa parte) afferma, i nume­ ri esistono davvero? Oppure, potremmo iniziare a domandarci cosa ci sia di così sbagliato negli oggetti astratti da costringerci a non ammetterli nel nostro catalogo universale insieme a montagne, protoni e vicini di casa. Questi problemi hanno a che fare con la scelta se schierarsi con i pla­ tonisti, per i quali i numeri sono altrettanto reali quanto le banane, e i nominalisti, per i quali non esistono oggetti astratti come i numeri. In mezzo a questo turbinio di domande, tuttavia, non mancheranno quelli a cui verrà spontaneo domandarsi: che senso ha chiedersi se i numeri esi­ stono? Cosa si intende con questa domanda? A questo tema sono dedi­ cati i prossimi paragrafi.

I. I

Di cosa parliamo quando parliamo di esistenza? Come ha giustamente sottolineato Stephen Yablo (1998) le domande an­ tologiche sembrano ad alcuni ingenue fino al punto da risultare comi­ che: che senso ha domandarsi se esistano veramente entità come il nu­ mero 17, la lingua spagnola, la città di Chicago? Tuttavia, come Yablo stesso riconosce, una sensazione resta sempre solo una sensazione. Chi ritiene che le questioni antologiche non vada­ no prese sul serio, per essere convincente, deve fornire una spiegazione del perché, in questi casi, ci si trovi di fronte a domande insensate e non a quesiti estremamente difficili da risolvere. Ed è qui che iniziano i problemi. Di fronte alla domanda se i numeri esistano o meno, a qualche lettore verrà naturale rispondere più o meno così: i numeri esistono, certamente, ma a modo loro; non esistono nello stesso senso in cui esistono le montagne e gli elettroni, e il problema è pro­ prio chiarire questa differenza. Se la persona che argomenta così ha qual­ che familiarità con il lessico filosofico, riassumerà le sue considerazioni di­ cendo che 'esistere' è un verbo dai molteplici significati, e le questioni di esistenza sono sempre relative a quale di questi significati si ha in mente. L'idea che ci siano modi diversi di esistenza ha una lunga tradizione, che arriva fino ai nostri giorni (cfr. Turner, 2010). Nonostante ciò, è una posizione minoritaria nell'ambito della filosofia analitica, ed è bene ca14

I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

pire il perché, analizzando vari modi in cui si può declinare la proposta che 'esistere' abbia molteplici significati. Un modo di intendere la tesi è sostenere che, anche se qualcosa può non esistere in un certo senso, almeno in un senso tutto esiste: tutto esi­ ste nel pensiero, dal momento che qualsiasi cosa può essere pensata. Per prendere un esempio famoso, per chi sposa questa posizione, il cavallo alato Pegaso non esisterà nella realtà fisica, ma esiste certamente nella fantasia: Pegaso sarebbe una mia immagine interna, quello che mi viene in mente ogni volta che ascolto un mito greco in cui viene nominato. Se Pegaso non esistesse nemmeno come immagine mentale, a cosa starei pensando, quando penso a Pegaso? Per quanto a molti appaia a prima vista naturale, questa posizione dif­ ficilmente può essere quella giusta: come notava Quine (1948), nessuno ha mai confuso il Partenone, un oggetto fisico dal peso considerevole, con la rappresentazione mentale del Partenone, un oggetto mentale molto più leggero. Non si capisce perché nel caso di Pegaso le cose dovrebbero an­ dare diversamente: proprio come un disegno di Pegaso non è Pegaso, co­ sì non lo è il pensiero o la rappresentazione di Pegaso. Dire che Pegaso esiste nel pensiero perché noi lo pensiamo sarebbe un po' come dire che esiste nei disegni perché noi lo disegniamo. La verità è invece che esisto­ no immagini mentali e disegni di Pegaso, ma non esiste Pegaso. Ovviamente, alcune cose esistono nella nostra mente e non al di fuo­ ri di essa: emozioni, ricordi, immagini mentali ecc., ed è anche possibile sostenere che i numeri siano cose di questo tipo, ovvero oggetti menta­ li. Di norma, tuttavia, non si ritiene che i numeri siano oggetti mentali, per varie ragioni. Per esempio, gli oggetti mentali sono solitamente pri­ vati: io ho il mio mal di denti e tu hai il tuo; i numeri, invece, non sono privati, visto che suonerebbe strano dire che tu hai il tuo numero cinque e io il mio. Convincenti o meno, queste considerazioni hanno spinto molti, a partire da Frege, a rifiutare l'idea che i numeri siano oggetti psi­ cologici. Se è così, il fatto che i numeri siano oggetto del nostro pensie­ ro non prova nulla. L'esempio di Pegaso testimonia infatti come sia una mossa molto dubbia sostenere, in generale, che è sufficiente che una co­ sa sia pensata per poter concludere che esiste (nel pensiero). Una proposta da prendere più seriamente è quella di Gilbert Ryle. Secondo Ryle (1949), ha ovviamente senso dire: (r)

Esistono montagne più alte del Cervino,

e pure: (2)

Esistono numeri primi maggiori di 5, 15

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

ma non avrebbe senso cercare di riassumere il contenuto di questi due enunciati in qualcosa come: (3 )

Esistono montagne più altre del Cervino e numeri primi maggiori di



Proprio come non ha senso iniziare un catalogo di tutto l'esistente in questo modo: (4)

Esistono venerdì, numeri primi, opinioni e forze armate.

L'idea di Ryle è che un enunciato come (4) è grammaticalmente scorret­ to: gli oggetti sono divisi in tipi, in categorie logiche, e per ogni catego­ ria il verbo 'esistere' ha un senso diverso. A voler essere precisi, biso­ gnerebbe dire che in (r) e (2) compaiono due verbi diversi, espressi dal­ la stessa parola: un caso di omonimia. Come si vede, qui Ryle non si sta impegnando a sostenere che 'esistere' sia ambiguo nel senso in cui può esserlo, per esempio, un termine come 'buono'. Almeno secondo il sen­ so comune, uno stesso cocktail può essere buono per qualcuno e non per qualcun altro, a seconda dei gusti, e non ha senso cercare di stabilire chi abbia ragione, visto che i due intendono cose diverse con 'buono'. Non è questa la posizione di Ryle: per lui, chi dice che esistono numeri primi maggiori di cinque ha ragione, chi lo nega torto e lo stesso vale nel caso delle montagne più alte del Cervino; tuttavia, questo non deve indurre a pensare che 'esistere' sia usato nei due casi con lo stesso significato. 'Esi­ stere' è ambiguo nel senso che ha un significato diverso a seconda di ciò a cui si applica, un po' come succede anche con 'alto' : ha senso dire sia ' che '7 è un numero più alto di 5 sia che 'l'Everest è più alto del Cervi­ no', ma da questo non concluderemmo che 'alto' voglia dire la stessa co­ sa in entrambi i casi. Merita di essere notato che è possibile considerare esempi che sem­ brano smentire la posizione di Ryle, come questo (van Inwagen, 1998, p. 237):

Il primo ministro aveva l'abitudine di ignorare l'esistenza delle cose che non sa­ peva gestire, come l'opinione pubblica e le forze armate. A parte questo, è possibile replicare ad una posizione del genere soste­ nendo che il fatto che i numeri esistano in modo diverso dal modo in cui esistono le sedie è dovuto semplicemente al fatto che i numeri non sono sedie. Gli oggetti astratti e quelli concreti sono tipi di cose differenti, ma il senso di 'esistere' è identico quando diciamo che esistono quelle del primo o del secondo tipo: in entrambi i casi affermiamo che il numero r6

I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

di cose di un certo genere è maggiore di o. Peter van Inwagen (1998) ha sostenuto che la possibilità di riformulare l'affermazione circa l'esisten­ za di un certo genere di cose come l'affermazione che il numero di cose di un certo genere è maggiore di o suggerisce che non ci sia alcuna am­ biguità nel significato del verbo 'esistere'. Nel dire che 'il numero delle lauree di Gino è due' e che 'il numero delle cravatte di Pino è due' non usiamo certo le parole 'due' o 'il numero di' in due significati diversi, tan­ to è vero che possiamo dire che il numero di cravatte di Gino è identico al numero di lauree di Marco; ma allora lo stesso vale quando diciamo che 'il numero delle cravatte e il numero dei solidi platonici sono en­ trambi maggiori di o', ovvero quando diciamo che esistono sia le cravat­ te che i solidi platonici. Inoltre, sembra che il concetto di 'entità' o 'cosa' possieda una ge­ neralità tale da farvi rientrare tanto le sedie quanto i numeri; è naturale pensare che la nozione di esistenza abbia un'applicazione altrettanto am­ pia, così da permetterei di concludere, dal fatto che esiste almeno una sedia ed esiste almeno un numero primo, che esistono almeno due cose. Un problema più sottile è legato al fatto che la sensazione di difficoltà suscitata da una domanda come "i numeri esistono? " non può essere spiegata secondo uno schema classico, applicabile ad altri casi di doman­ de che non sembrano ammettere una risposta univoca (cfr. Yablo, 1998, p. 231) . È infatti chiara la ragione per cui può essere indeterminato come una cosa è. La spiegazione, in linea generale, è che ci sono dei problemi nell'applicare il nostro apparato descrittivo alla cosa in questione. Posti di fronte al problema di stabilire se un certo cocktail sia buono o se una persona con una statura di 1,77 m sia alta, o altri casi più complicati, non si può fornire una risposta diretta, ma è necessario aggiungere delle pre­ cisazioni: per come intendo io il termine 'buono' o 'alto', il cocktail è buo­ no e la persona è alta, per come lo intende lui magari no ecc. C'è una spie­ gazione del perché le cose vadano così in casi come questi: non sappiamo se applicare o meno certi termini a certe cose, perché il nostro linguaggio possiede termini vaghi o comunque con delle condizioni di applicazione non definite in certe situazioni. Ma questa spiegazione non funziona nel caso in cui ci si stia domandando se una cosa c'è o meno. TI nostro imba­ razzo di fronte alla domanda non può essere causato dal fatto che non sappiamo come descrivere la cosa in questione: per chiedersi come de­ scrivere una cosa, infatti, bisogna che la cosa esista; ma in questo caso, avremmo già una risposta affermativa alla nostra domanda. Una volta stabilito che per l'impostazione standard della filosofia analitica l'esistenza ha un significato univoco, viene naturale domandar­ si quale sia tale significato. Due sono i punti più importanti a questo ri­ guardo (cfr. sempre van Inwagen, 1998) : 17

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

(r)

Le espressioni 'esiste almeno una cosa del tipo X', 'c'è almeno una cosa del tipo X', 'qualche cosa è una cosa del tipo X' sono tra loro equivalenti. Per esempio è equivalente affermare che esiste almeno un numero pari, che c'è almeno un numero pari e che qualche numero è pari.

(2)

ll senso di espressioni come 'ci sono delle cose del tipo X' o 'le cose del ti­ po X esistono' è ben rappresentato formalmente attraverso l'uso di quello che in logica si chiama " quantificatore esistenziale" , reso con il simbolo 3.

n punto ( r ) pone un'equivalenza tra la questione se le cose di un certo ti­ po esistano e la questione se ci sia almeno una cosa di un certo tipo. Le questioni del primo tipo meritano il titolo di questioni antologiche, dal momento che vertono su cosa esiste; quelle del secondo tipo possono es­ sere chiamate questioni " quantificazionali" , dal momento che la que­ stione che pongono ha a che fare con quante sono le cose di un certo ti­ po: in particolare, se ce ne sia almeno una. L'equivalenza tra le due que­ stioni può sembrare ovvia, e come un'ovvietà viene presentato nell'inci­ pit di Quine (1948) : per Quine, è una banalità affermare che tutto esiste, proprio perché negare che tutto esista equivarrebbe ad affermare che qualcosa non esiste, il che a sua volta è considerato equivalente alla tesi che ci sono cose che non esistono e quindi all'assurda posizione per cui esistono cose che non esistono. Questo non vieta di dire che esiste il mio vicino di casa ma non esiste Pegaso: per Quine questo vuol dire sempli­ cemente che esiste una cosa con certe caratteristiche, ovvero essere il mio vicino di casa, mentre non esiste una cosa con altre caratteristiche, ov­ vero quelle di essere un cavallo alato bianco ecc. Nonostante questo, non tutti ritengono scontato che tutto esista: come vedremo nel PAR. r. 6.3, i seguaci vecchi e nuovi del filosofo austriaco Alexius Meinong prendono molto sul serio l'idea che sia sensato rispettare il nostro modo naturale di esprimerci ed affermare che molte cose, da Babbo N atale ad Atlanti­ de, non esistono. Questo significa rifiutare l'equivalenza tra le questioni antologiche e quelle quantificazionali e i (neo)meinonghiani non sono gli unici ad assumere una posizione del genere. La tesi (2) , ossia che una certa sequenza di simboli, 3x . . . , vada letta come 'esistono cose tali che . . . ' o 'ci sono cose tali che . . . ', sembra aver a che fare con una questione puramente convenzionale: non essendo il lin­ guaggio formale la nostra lingua madre, siamo liberi di attribuire ai sim­ boli il significato che vogliamo. In effetti, Quine stesso (cfr. Quine, 1969a) sembra vedere le cose in questo modo: chiedersi se 3x ... venga usato per affermare l'esistenza di qualcosa sarebbe un po' come chie­ dersi se + venga usato per indicare l'addizione di due numeri, ovvero co­ me chiedersi se + vada letto come 'più' .

r8

I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

Per capire meglio se il problema sia davvero così semplice, è tutta­ via utile ripercorrere il modo in cui si introduce l'uso del quantificatore esistenziale all'interno del linguaggio della logica del primo ordine \ se­ condo le linee indicate in v an Inwagen (1998) 3 • Nel linguaggio della logica del primo ordine una frase come 'Gigi è un uomo' viene rappresentata simbolicamente in U (g) : g sta per 'Gigi' ed è un nome, mentre U simbolizza il predicato 'essere un uomo' . In certi casi, però, è utile parlare non di un uomo in particolare come Gigi, ma di un signor X in generale: in questo caso, si usano le variabili, ovvero le ul­ time lettere dell'alfabeto: x, y, Z, W ecc. 4 n ruolo delle variabili è simile a quello dei pronomi: Bx può essere utilmente paragonato ad un'afferma­ zione come 'lui è bello' . Come non ha senso domandarsi se lui sia bello fino a che non si è chiarito chi sia lui, così non ha senso domandarsi se Bx, fino a che non si è chiarito per cosa stia x, ovvero , come si dice, fino a che non si sia stabilito quale è il valore della variabile x. A differenza dei pronomi, le variabili non hanno alcuna connotazione di genere, per cui x può essere una donna e y un maschio: per sottolineare la somiglianza tra i due tipi di espressioni, conviene quindi considerare un nuovo pronome, anch'esso privo di qualsiasi connotazione di genere, 'essa (x) '. Se il significato delle variabili può essere spiegato considerandole rimpiazzi formali dei pronomi, il ruolo del quantificatore esistenziale 3x può essere chiarito trattandolo come un'abbreviazione formale di un'espressione come: 'è vero di almeno una cosa che essa (x) è tale che . . . ' . n significato di 3xBx può essere spiegato attraverso questi passaggi (cfr. Von Inwagen, 1998) : . . .

(3I) È vero di almeno una cosa che essa(x) è tale che essa(x) è bella. (32) Per almeno una cosa, è vero che essa(x) è bella. (33) Per almeno una cosa, è vero che essa è bella. (34) Almeno una cosa è bella. (35) C'è almeno una cosa bella.

In base alla tesi (1) , (35) è equivalente all'affermazione che esistono del­ le cose belle.

2. Sulla distinzione tra logica del primo e del secondo ordine, cfr. PAR. 3·7· Per una prima spiegazione di cosa sia il linguaggio della logica del primo ordine, cfr. più avanti . 3· A chi trovasse la seguente spiegazione del significato del quantificatore esistenzia­ le insufficiente si raccomanda la consultazione di un qualsiasi manuale di logica: per esem­ pio, a caso, Berto (2oo6). 4· Lolli (1996) suggerisce che si usino le ultime lettere dell'alfabeto per suggerire l'i­ dea di indeterminatezza.

19

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

Siamo ora in grado di comprendere un aspetto della nozione di Qui­ ne di impegno antologico. Definiamo "teoria" , in modo non del tutto fe­ dele all'uso comune, semplicemente come un insieme qualsiasi di enun­ ciati (come conseguenza di ciò , un enunciato è una teoria, la teoria for­ mata da quell'unico enunciato) . Per Quine, una teoria è impegnata an­ tologicamente nei confronti di un certo tipo di cose se almeno una cosa di quel tipo deve esistere perché la teoria sia vera. Quello che la discus­ sione sul significato del quantificatore esistenziale fin qui condotta ci permette di concludere è che: (OC) Se una teoria T, formulata nel linguaggio del primo ordine (chiamato an­ che da Quine "notazione canonica " ) implica un enunciato della forma 3xFx, allora T implica che ci sono delle cose di tipo F (ed è quindi anto­ logicamente impegnata alle cose di tipo F).

Abbiamo chiarito che cosa significhi dire che un enunciato si impegna antologicamente all'esistenza degli F, ma non abbiamo chiarito cosa si­ gnifichi dire che un certo enunciato si impegna all'esistenza di un'entità particolare a. L'idea di Quine è che come dire che a si nutre vuol dire che a mangia qualcosa, così dire che a esiste significa dire che a è qualcosa, ovvero che c'è qualcosa a cui a è identico. Dato che = sta per la relazio­ ne di identità, l'affermazione ' a esiste' viene rappresentata con 3x = a. Ora abbiamo tutti gli elementi per comprendere il motto di Quine se­ condo cui «essere è essere il valore di una variabile quantificata» (Qui­ ne, 1939 , p. 708) 5• Come vedremo nel PAR. r.8, è molto importante sottolineare che (OC) ci dice solo quali sono gli impegni antologici di una teoria formu­ lata nel linguaggio del primo ordine. Né le nostre affermazioni quoti­ diane né alcuna teoria scientifica interessante sono però formulate in questo linguaggio. Per indagare gli impegni antologici di una teoria, bi­ sogna quindi tradurla nel linguaggio della logica del primo ordine, ed è qui che sorgono i problemi. Di questo, tuttavia, ci occuperemo in segui­ to, come pure di due modi abbastanza naturali di reagire alla posizione standard qui presentata: negare (r), come fanno i (neo) meinonghiani, e sostenere che la spiegazione del significato del quantificatore esistenzia­ le fornita per difendere (2) coglie solo uno dei modi in cui si può legge­ re un'espressione quantificata, come fanno (alcuni) teorici della quanti­ ficazione sostituzionale.

5· Cfr. Liggins (2oo8) per una ricostruzione della posizione di Quine molto vicina a quella presentata qui.

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I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

Lo scopo di questo paragrafo era chiarire il senso della domanda o n­ tologica sui numeri. n risultato raggiunto è che per l'approccio tradizio­ nale la domanda a cui vogliamo rispondere in questo capitolo può esse­ re espressa nei seguenti modi: r.

2.



4-

I numeri esistono? Ci sono dei numeri? ll numero dei numeri è maggiore di o ? L'enunciato del linguaggio del primo ordine 3xNx, dove N sta per 'essere un numero', è vero? I.2

Oggetti matematici

vs

oggettività della matematica

Per alcuni, il quesito se i numeri esistano o no, legittimo o meno che sia, non rappresenta comunque il problema filosofico più interessante da di­ scutere. Michael Dummett 6, per esempio, riadattando un motto da lui attribuito a Georg Kreisel, ha proposto di spostare l'attenzione dalla questione se esistano oggetti matematici a quella circa l'oggettività della matematica. A livello di etichette, sostenere che la matematica è oggetti­ va significa essere dei "realisti" in campo matematico, nel senso di Dum­ mett. Chiarire cosa si intenda con "oggettività della matematica" e con " realismo " all'interno di questo dibattito non è semplicissimo. Cercherò di spiegarmi con un esempio (Marconi, 2oo6, p. 3 ) : Considerate il DC9 dell'Itavia, disgraziatamente caduto nel mare di Ustica il 27 Giugno 1980. Forse non sapremo mai come andarono le cose: se l'aereo fu col­ pito da un missile, se c'era una bomba a bordo, o se ebbe un guasto meccanico. E le cose potrebbero essere andate ancora in altri modi. Ma -viene da dire -an­ che se non sapremo mai come andarono le cose, non può non esserci alcun mo­ do in cui sono andate: o è vero che l'aereo è stato colpito da un missile o è vero che è stato distrutto da una bomba, o è vera una delle alternative.

L'intuizione in questo caso è che «c'è un modo in cui le cose stanno indi­ pendentemente dal fatto che qualcuno sappia o possa sapere che stanno così, e che, di conseguenza, gli enunciati che dicono che le cose stanno in

6. Dummett tratta del legame tra la questione del fondamento di una corretta teoria del significato e i problemi classici della filosofia della matematica in Dummett (1975). Si vedano anche Dummett (1978 e 2ooo) . Per un'esposizione simile alla mia dell e idee di Dummett, cfr. Casalegno (1997, cap. w). Per un'analisi e una critica dell'argomento della manifestazione di Dummett, si veda il quarto capitolo di Usberti (1995).

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INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

quel modo sono veri, che lo sappiamo o no; mentre quelli che dicono che le cose stanno diversamente sono falsi» (Marconi, 2oo6, pp. 3-4) . Formu­ lata così, sembra quasi impossibile non condividere quest'intuizione; tuttavia, se cerchiamo di trarre da essa alcune conseguenze, ci imbattia­ mo immediatamente in qualche problema. Come dice Marconi, un enunciato è vero in alcune circostanze (quando le cose stanno come l'enunciato dice) e falso in tutte le altre: chiamiamo queste circostanze le condizioni di verità di un enunciato . Un'idea abbastanza naturale è, per dirla con Wittgenstein , che «com­ prendere una proposizione significa sapere che cosa accade se essa è ve­ ra» (Wittgenstein, 1922, proposizione numero 4.024) 7• Dato che quando comprendiamo una proposizione ne comprendiamo il significato , pos­ siamo parafrasare la cosa dicendo che comprendere il significato di una proposizione (enunciato 8) significa conoscerne le condizioni di verità, ovvero che le condizioni di verità di una proposizione sono il significato di quella proposizione. Per la concezione classica di verità, la questione se un enunciato sia vero o meno è indipendente da quella se si disponga di un metodo per stabilire se è vero o falso . Dato che l'essere vero o falso di un enunciato è anche chiamato il valore di verità di un enunciato, si esprime lo stesso con­ cetto dicendo che, nella concezione classica, un enunciato ha un valore di verità determinato, indipendentemente dalla disponibilità per noi di un metodo per stabilire quale sia il valore di verità. La domanda se ad Usti­ ca il DC9 sia stato abbattuto o meno da un missile ha, secondo questa con­ cezione, una risposta determinata. La risposta, in quest'ottica, dipende infatti unicamente dal modo in cui sono andate le cose e la nostra intui­ zio ne è che c'è un modo in cui sono andate le cose, anche se non sappia­ mo qual è: di conseguenza, c'è una risposta alla domanda, anche se non la conosciamo. Lo stesso vale anche in casi più estremi: potremmo per esempio domandarci se il numero dei pianeti in una data regione spazio­ temporale a noi inaccessibile sia maggiore di r.ooo o meno; e potrebbe ri­ sultare fisicamente impossibile per noi riuscire a risolvere la questione; tuttavia, secondo la prospettiva classica, questo non pregiudicherebbe il fatto che la questione ammetta una e una sola soluzione corretta. Un fenomeno del genere sembra presentarsi anche in matematica: ci sono problemi molto semplici da formulare per i quali, tuttavia, non si 7· L'idea che il significato di un enunciato siano le sue condizioni di verità e che, più in generale, la nozione di verità sia alla base di una teoria del significato è il punto di par­ tenza della cosiddetta semantica vero-condizionale. Si veda Casalegno (r997) per un' ec­ cellente presentazione di questo approccio e dei suoi problemi. 8. Ignoro qui la differenza tra proposizione ed enunciato.

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I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

conosce nessun metodo in grado di risolverli, ovvero, nella terminologia di Dummett, non si ha un " metodo di decisione" . Un esempio di pro­ blema "indecidibile " in questo senso è la congettura di Golbach, secon­ do la quale ogni numero pari maggiore di due è la somma di due nume­ ri primi. Esiste infatti una procedura con cui possiamo stabilire, per ogni numero pari n, se n sia o meno la somma di due numeri primi; ma i nu­ meri pari sono infiniti: non si può quindi cercare di risolvere la conget­ tura di Goldbach semplicemente applicando tale procedura ad un nu­ mero dopo l'altro. Così facendo potremmo stabilire se tutti i numeri pa­ ri minori di I. ooo. ooo. ooo siano la somma di due numeri primi, ma non se questo valga per tutti i numeri pari senza limitazioni. Per metodo di decisione Dummett intende una procedura mecca­ nica di cui siamo a conoscenza, applicando la quale si può risolvere, " decidere", una certa questione. Gli enunciati in decidibili sono quelli per cui non è disponibile un metodo di decisione. Questo senso di "in­ decidibile " non va confuso con quello adottato in logica matematica, se­ condo cui un enunciato è indecidibile in una certa teoria formalizzata se né l'enunciato in questione, né la sua negazione sono teoremi della teoria. Quello che caratterizza il realismo nel senso di Dummett è un modo di concepire la verità tale che anche gli enunciati indecidibili hanno un valore di verità determinato. Una delle conseguenze dell'adozione di una simile prospettiva è l'accettazione della legge del terzo escluso, secondo la quale ogni enunciato è vero o falso , o, per essere più precisi, per ogni enunciato E di un linguaggio L, vale che "E o non E"9• Per esempio, o tutti i numeri pari maggiori di due sono la somma di due numeri primi, oppure non tutti i numeri pari sono la somma di due numeri primi, an­ che se non sappiamo, e forse non sapremo mai, quale delle due alterna­ tive sia quella giusta. Questa concezione della verità si riflette ovviamente sul modo in cui sono concepite le condizioni di verità di un enunciato indecidibile, ed è qui che Dummett interviene. Per la concezione classica della verità, in­ fatti, un enunciato indecidibile ha un valore di verità, che pure noi non riconosciamo e non possiamo riconoscere; da questo segue che un tale enunciato ha delle condizioni di verità, soddisfatte o non soddisfatte, che pure un parlante competente non sarebbe in grado, nemmeno in linea 9· TI principio secondo cui ogni enunciato è vero o falso non è il principio del terzo escluso, ma il principio di bivalenza. La differenza tra i due principi è rilevante in alcuni contesti, ma non qui, visto che per la prospettiva realista valgono entrambi i principi e per quella antirealista nessuno dei due.

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INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

di principio, di riconoscere come soddisfatte o non soddisfatte. Ma che senso ha dire che il parlante possiede una conoscenza che ha che fare con il significato di certe espressioni linguistiche, se non c'è modo per que­ sta conoscenza di manifestarsi nell'uso che un parlante fa del linguaggio? In cosa si differenzierebbe qualcuno in possesso di una tale conoscenza da chi ne è privo? Come potrebbe comunicarla agli altri? Per Dummett, non c'è modo di rispondere a queste domande da una prospettiva reali­ sta, e tanto basta per mostrare l'insostenibilità di una tale posizione. Per lui vale infatti l'insegnamento del secondo Wittgenstein in base al quale la conoscenza linguistica deve manz/estarsi nell'uso che facciamo del lin­ guaggio e questo non sarebbe possibile se il significato fosse identifica­ to con le condizioni di verità in senso classico. La conoscenza del significato di un enunciato non può quindi con­ sistere nella conoscenza delle condizioni di verità classiche. N o n può nemmeno consistere nella capacità di un parlante di parafrasare un cer­ to enunciato: si può ovviamente dire che l'enunciato 'Gianni è mio zio' è vero a condizione che Gianni sia fratello di uno dei miei due genito­ ri, ma non è detto che spiegazioni del genere siano sempre disponibili, ed in ogni caso ad un certo punto devono giungere al termine. La com­ petenza linguistica deve andare al di là di questo tipo di conoscenza esplicita: deve consistere in una qualche forma di conoscenza "implici­ ta" , che sia però pur sempre manifestabile nell'uso del linguaggio. L'u­ nico modo, secondo Dummett, per soddisfare questi requisiti è sosti­ tuire il concetto di verità con quello di verz/icazione10• La conoscenza del significato di un enunciato si manifesterebbe nella capacità da par­ te di un parlante di riconoscere in quali situazioni siamo legittimati ad affermarlo , cosa conta come un elemento decisivo per asserire tale enunciato. Nel caso di un enunciato empirico come 'piove' , questa conoscenza potrebbe consistere nel saper riconoscere le situazioni in cui l'evidenza percettiva ci permette di concludere che piove. Nel caso della matema­ tica, invece, diventa centrale la nozione di prova o dimostrazione: cono­ scere il significato di un enunciato matematico significa sapere in quali circostanze potremmo asserirlo, ovvero sapere cosa costituirebbe una prova di tale enunciato. Ovviamente un enunciato può essere dimostra­ to in molti modi, il che pone il problema di capire cosa intenda Dum­ mett quando parla del riconoscere la forma di una prova di un enunciaIo . Da qui il nome di veri/icazionismo per riferirsi alla posizione di Dummett. L'altra celebre forma di verificazionismo è quella del Circolo di Vienna: per un primo rapido confronto tra le due, si veda Casalegno (1997, cap. 5).

I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

to. Ai nostri fini è sufficiente sottolineare due aspetti: a) per ogni enun­ ciato esiste quella che Dummett chiama la sua prova canonica , la quale ha un ruolo prioritario rispetto ad altre prove; b) la prova in questione non deve necessariamente essere formalizzata 11 • La proposta di rimpiazzare la nozione di verità con quella di verifi­ cazione viene alle volte espressa da Dummett come l'idea che l'unica no­ zione di verità comprensibile sia una nozione di verità intesa a partire da quella di verificazione. Grosso modo, l'idea è quella di concepire la ve­ rità come risultato della verificazione. Se si adotta questa nozione di ve­ rità si è chiaramente molto lontani dalla prospettiva classica, di cui face­ va parte l'adozione della legge del terzo escluso: non sembra ragionevo­ le assumere a priori che per ogni enunciato sia disponibile una procedu­ ra di decisione. Non dovrebbe sorprendere, quindi, che Dummett pro­ ponga di abbandonare anche questo principio e adottare un tipo di lo­ gica non-classica chiamata logica intuz'zionz'sta. L'intuizionismo è stata una delle tre grandi scuole (assieme al logici­ smo e al formalismo) che hanno dominato la filosofia della matematica del primo Novecento, grazie soprattutto al lavoro di Luitzen E. J. Brouwer e Arend Heyting 12, e ha trovato proprio in Dummett il suo di­ fensore principale all'interno del panorama contemporaneo. Secondo l'intuizionismo, la matematica è una libera costruzione della mente uma­ na, ovvero i numeri sono oggetti mentali, costruzioni dall'attività dei ma­ tematici e non un dominio di oggetti astratti che esiste indipendente­ mente da noi, come afferma invece l'impostazione platonista (cfr. PAR. 1 . 7 ) . Questa posizione veniva di solito riassunta nell'idea che in mate­ matica non si scopre, ma si inventa. Questa divergenza metafisica ha delle ripercussioni sulla pratica ma­ tematica: per un intuizionista, affermare un enunciato matematico A si­ gnifica ratificare il successo di una certa costruzione matematica, men­ tre negare un enunciato A significa averlo ridotto all'assurdo, nel senso di aver ricavato una contraddizione da esso, dimostrando così che un certo tipo di costruzione è impossibile. Ovviamente esistono casi in cui non si è in grado né di dimostrare un enunciato, né di ridurlo all' assur­ do: in questi casi, secondo un intuizionista, l'enunciato non è né vero né falso e non si può quindi assumere, nel corso di una dimostrazione, che II. n fatto che il concetto di "prova" a cui fa riferimento Dummett non sia riducibi­ le alla dimostrabilità formale è rilevante per la sua discussione del significato del teorema di Godei: cfr. Dummett (1978, saggio n. 12) . 12. Si vedano gli scritti di Brouwer e Heyting raccolti in Benacerraf, Putnam (1983). Per approfondire, Heyting (1956) .

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

per ogni enunciato matematico E, valga 'E o non E' . Per esempio, nella situazione attuale non si può iniziare una dimostrazione assumendo che o tutti i numeri pari sono la somma di due numeri primi o non tutti i nu­ meri pari lo sono. Più in generale, il significato dei connettivi (•, A, V , ____.,. da leggersi rispettivamente come 'non' , 'e', 'o' , 'implica') e dei quan­ tificatori ('per almeno un x' , 'per tutti gli x' , resi con 3x . . e 'Vx . . . ) riceve una precisa reinterpretazione nella logica intuizionista. Per esempio , consideriamo due enunciati p e q e la loro disgiunzione p o q. Per l'in­ tuizionismo, si è legittimati ad affermare p o q solo nel caso in cui si di­ sponga di una prova di uno dei due tra p e q, detti i disgiunti, o almeno di un metodo per ottenerne una: una dimostrazione che abbia come conclusione una disgiunzione ma non indichi come ottenere una prova di uno dei due disgiunti risulta quindi scorretta. Per esempio, suppo­ niamo di voler dimostrare che devono esistere due numeri x e y , en­ trambi irrazionali, tali che xY = z, con z razionale. La prova classica pro­ cede così: Y2 è irrazionale; Y2Y2 o è razionale o non lo è; se è razionale, allora ponendo x e y uguali a Y2 e z = Y2Y2 1' equazione è soddisfatta; se non è razionale, allora, dato che ({2Y2)Y2 = ({2Y2Y2) = ({2)2 = 2, ponendo x = {2Y2 e y = Vi.' e 'z = 2, l'equazione è soddisfatta anche in questo ca­ so. Possiamo quindi concludere che l'equazione sia comunque soddi­ sfatta. La prova tuttavia non è corretta da un punto di vista intuizioni­ sta, visto che non ci dà nessun modo per stabilire quale delle due alter­ native sia quella corretta. La prova dimostra comunque qualcosa, anche da un punto di vista intuizionista, ovvero che sarebbe contraddittorio ritenere che non esi­ stano due numeri m ed n, entrambi irrazionali, tali che mn dia un nume­ ro razionale. Non si può però andare oltre, dal momento che dimostra­ re che una certa affermazione p non è contraddittoria, ovvero che ••P non equivale a fornire una prova diretta di p . Data la sua interpretazio­ ne della negazione, non dovrebbe sorprendere che nella logica intuizio­ nista salti il principio dell'eliminazione della doppia negazione, in base a cui se si dimostra che la negazione di un'affermazione è falsa si può concludere che l'affermazione in questione è vera. Questo risulta chiaro anche considerando il caso del principio del terzo escluso. Dal momen­ to che •p implica p V -p, è chiaro che la negazione del principio del ter­ zo escluso è contraddittoria: perché pV•p sia falso, p deve infatti essere falso, ovvero •P deve essere vero, per cui da • (pV•p) segue che •p; ma da •P segue pV•p ; per cui da • (pV•p) segue (p V-p) e quindi una con­ traddizione. Tutto questo dimostra che anche da una prospettiva intui­ zionista il principio del terzo escluso non può essere negato , ovvero va­ le che ••(pV•p) . Più in generale, per ogni teorema della logica proposi.

I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

zionale classica a si può dimostrare intuizionisticamente la sua doppia negazione -,-,a (Glivenko, 1929) 1 3 • Dal punto di vista dell'intuizionismo, però, questo prova solo la non contraddittorietà della logica classica, non la sua correttezza. Ovviamente, le dimostrazioni che Dummett e gli intuizionisti vor­ rebbero bandire fanno parte della matematica classica, ovvero della ma­ tematica come è stata praticata fino ad ora. Chiedere di abbandonarle si­ gnifica quindi voler cambiare l'uso del nostro linguaggio, matematico e non , e può risultare sorprendente che una teoria come quella di Dum­ mett, basata sull'assunto che il significato delle nostre espressioni lingui­ stiche si manifesta nell'uso che ne facciamo, possa giungere ad una tale conclusione. La risposta di Dummett, sulla quale non mi soffermerò, è che alcuni usi sono prioritari rispetto ad altri e sono questi a determina­ re la correttezza di un argomento, e di conseguenza la scelta della logica. Quello su cui mi soffermerò sarà invece una importante differenza tra la prospettiva dell'intuizionismo classico e quella di Dummett, la quale chiarirà la differenza tra una negazione dell'esistenza degli ogget­ ti matematici da un lato e la negazione dell'oggettività della matematica dall'altro. Per gli intuizionisti classici, numeri ed altre entità matematiche so­ no oggetti mentali, «non semplicemente nel senso di poter essere ogget­ to di pensiero, ma nel senso che il loro essere consiste nell'essere pensa­ ti. Per essi vale che esse est condpi» (Dummett, 19 7 5, p. 228) . Questo si­ gnifica che gli intuizionisti classici, se non negano del tutto l'esistenza de­ gli oggetti matematici, negano l'esistenza degli oggetti matematici con­ cepiti come esistenti indipendentemente dalla nostra attività mentale. Un elemento del platonismo matematico, invece, è la concezione secon­ do cui gli oggetti matematici sono altrettanto reali e indipendenti dalla nostra mente quanto stelle o protoni. Se per l'intuizionista il matemati­ co è simile ad un artista, in quanto svolge un'attività creativa, per il pla­ tonista è invece molto più fedele alla realtà vederlo come un astronomo intento ad osservare il cosmo o un esploratore intento a scoprire nuove aree geografiche. Impostata così, tuttavia, la discussione sembra vertere 13. TI risultato può essere esteso alla logica predicativa in questa direzione (cfr. Go­ del, 1932 e Gentzen, 1934-35) : è possibile definire una funzione g, la quale ad ogni teorema A della logica classica associa una formula g(A) tale che: (I) nella logica classica si dimo­ stra che A se e solo se g(A); (2) nell a logica intuizionista si dimostra che g(A) se e solo se -,-,g(A) ; (3) nella logica intuizionista si dimostra g(A) se e solo se in logica classica si di­ mostra A. Dalla definizione della funzione g (qui omessa) e dalle proprietà (1)-(3) si può dedurre che la logica classica è consistente se e solo se quella intuizionista lo è. Cfr. Mo­ schovakis (2010), da cui ho ripreso la formulazione del risultato in questione.

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INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

sulla scelta di una metafora piuttosto che un'altra, e pare legittimo met­ terne in questione l'interesse. Per questo Dummett ha suggerito di spo­ stare l'attenzione dal problema circa l'esistenza degli oggetti matema ti­ ci, concepiti come indipendenti dalle nostre attività mentali e culturali, al problema dell'oggettività della matematica. Si può non essere convinti che il dibattito circa l'esistenza degli og­ getti matematici sia privo di interesse, tuttavia il punto importante è no­ tare come la questione su cui Dummett e Kreisel hanno posto l'accento sia indipendente da esso (cfr. l'Introduzione a Wright, 1983) . Si può in­ fatti essere persuasi dalle considerazioni di Dummett e allo stesso tem­ po non aderire all'idea che gli oggetti matematici siano creazioni menta­ li. Questo dovrebbe risultare chiaro dal fatto che le considerazioni di Dummett riguardano il nostro linguaggio nella sua massima generalità: se corrette, dimostrerebbero che bisognerebbe rinunciare all'idea di ve­ rità classica e al terzo escluso tanto in geologia quanto in matematica. L'adozione di una concezione del significato come quella di Dummett porta a concludere che non tutti gli enunciati hanno un valore di verità determinato, ma non dice nulla di per sé sulla natura degli oggetti in que­ stione. Si può quindi ritenere che gli oggetti matematici siano tanto rea­ li quanto i fossili, e allo stesso tempo che il nostro discorso sui fossili e sui numeri non sia oggettivo, nel senso di dotato di un valore di verità indipendente dalla possibilità per noi di stabilirlo . Abbiamo ora tutti gli elementi per comprendere la differenza tra due tipi di realismo: realismo sugli oggetti matematici, che afferma l'esistenza degli og­ getti matematici, concepiti come oggetti astratti indipendenti dalla men­ te (e dal linguaggio, pratiche sociali ecc.); realismo sui valori di verità, per cui ogni enunciato matematico do­ tato di significato ha un valore di verità definito (è vero o falso) indi­ pendentemente dal fatto che si disponga di un metodo per stabilire se sia vero o meno. n tipico platonista è un realista in entrambi i sensi (cfr. Godel, 1944; Wright, 1983; Shapiro, 199 7 ) . n tipico antiplatonista è un antirealista in entrambi i sensi (Field, 1980, 1989). Le posizioni miste, tuttavia, non man­ cano : per esempio, lo strutturalismo modale di Hellman (1989) , che rie­ labora le idee presentate in Putnam (1967 ) , reinterpreta gli enunciati ma­ tematici come enunciati che vertono non sull' attuale esistenza di certi oggetti astratti, ma sulla possibile esistenza di certe strutture e su quello che necessariamente vale in tali strutture. Per questa posizione, quindi, gli oggetti matematici potrebbero non esistere; dal momento però che le questioni circa la possibilità e la necessità sono concepite come oggetti­ ve, Hellman è un realista circa i valori di verità degli enunciati materna-

I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

tici. Lo stesso vale per Charles Chihara (19 7 3, 1990) . Infine, Tennant (199 7 ) sembra completare il quadro, fornendo un esempio di realismo circa gli oggetti matematici combinato con un antirealismo circa il loro valore di verità. n dibattito iniziato da Dummett è stato ricco di spunti interessanti e senza dubbio molto profondi; tuttavia è stato il dibattito attorno la que­ stione se esistano o meno oggetti matematici a dominare la scena con­ temporanea. È giunto quindi il momento di tornare ad occuparcene. 1.3

Domande facili e domande difficili La nostra domanda guida ("i numeri esistono? " o " ci sono dei numeri? " ) è molto facile d a formulare e questo è certamente u n bene. n problema è che sembra anche molto facile trovarvi una risposta. Cosa c'è infatti di sbagliato nel seguente ragionamento? 14 (r) (2) (3)

(4)

Giove ha quattro lune. Il numero delle lune di Giove è quattro. C ' è un numero che è il numero delle lune di Giove, owero quattro. Ci sono dei numeri, tra i quali il numero quattro.

Se l'argomento è corretto (e intuitivamente sembra proprio di sì) , dal momento che la premessa (o una premessa equivalente) l5 è vera (alme­ no stando a quanto dicono gli astronomi) , allora anche la conclusione deve essere vera: quindi ci sono dei numeri, quindi i numeri esistono e abbiamo trovato una risposta alla domanda chiave del capitolo, il quale dovrebbe quindi terminare qui. Ovviamente, qualcuno protesterà: le questioni antologiche come l'esistenza dei numeri dovrebbero essere questioni dzf/icili da risolvere, come testimoniano duemila anni di di­ battiti: com'è possibile che nessuno prima di Frege si sia accorto che esi­ steva un modo così semplice di chiudere la questione? E perché, dopo Frege, si è continuato a discuterne? Ci sono varie risposte a questa domanda: alcuni, come Hartry Field (r989) , hanno sostenuto che il ragionamento è semplicemente sbagliato, dato che il passaggio tra ( r ) e (2) è scorretto: (r ) e (2) sono equivalenti so­ lo postulando l'esistenza dei numeri, ma nel caso i numeri non esistano

14. Cfr. Frege (1884) . 15. La precisazione è necessaria, visto che Giove ha più di quattro lune, ma ovvia­ mente questo è un problema che possiamo ignorare.

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

(come Field pensa) , non sono equivalenti: (r) è vero e (2) falso , quindi (2) non segue da ( r ) . Un'altra possibilità è sostenere che il ragionamento è corretto e la conclusione vera, ma questo non significa che si sia trovata una risposta alla domanda se esistano i numeri, almeno se si intende la domanda nel senso in cui di solito la intendono i filosofi. Questo o perché la doman­ da che i filosofi si pongono non ha realmente senso (come sosteneva Car­ nap) oppure perché non è vero, come vuol farci credere Quine, che le questioni ontologiche del tipo "esistono i numeri? " possono essere ri­ dotte a (o considerate identiche a) questioni quantificazionali come "ci sono dei numeri? " . Nei prossimi paragrafi esaminerò alcuni tentativi che vanno in que­ sta direzione. L4

La visione di Carnap dell'antologia . . . Seguendo Yablo (1998) possiamo dire che di fronte domande ontologi­ che come se esistano «la città di Chicago, il numero 17 , la proprietà del­ la rotondità e la lingua spagnola» (ivi, p. 230) è possibile assumere due atteggiamenti: si può essere curiosi e cercare una risposta, oppure per­ plessi e interrogarsi sul senso della domanda. In un certo senso è infat­ ti ovvio che esiste una città chiamata Chicago , la lingua spagnola ecc. : chi fa ontologia non intende mettere in dubbio tutto questo, ma si do­ manda se queste cose esistano davvero ; ma una domanda del genere ha senso? Chi condivide l' attitudine dei perplessi ne dubita, magari perché ritiene che la questione non sia risolvibile in maniera scientifica ( Car­ nap, 19 50) . Quine è stato il primo e il più influente rappresentante della corren­ te della curiosità; la difesa delle ragioni del partito della perplessità è sta­ ta invece affidata, storicamente, a Rudolf Carnap. Si ritiene comune­ mente che Carnap abbia perso lo scontro e questa è una delle ragioni per cui nella seconda metà del Novecento l'approccio quiniano è diventato standard: vale quindi la pena di analizzare la proposta di Carnap e le ra­ gioni comunemente addotte per ritenerla insoddisfacente. TI

punto di partenza di Carnap è la distinzione tra due tipi di enunciati 16:

16. Carnap (1950) . Gli esempi sono tratti da Carnap, ma parzialmente modificati per esigenze di simmetria.

30

I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

(Tipo A)

(Tipo B)

Esistono i centauri? Insetti e mammiferi hanno proprietà anatomiche in comune? Esistono numeri primi maggiori di 1.ooo.ooo?

Esistono oggetti materiali o solo atomi nel vuoto? Esistono delle proprietà universali o solo individui particolari? I numeri esistono ( dawero) ?

Che ci sia una differenza tra i due tipi di domande è difficilmente nega­ bile: le domande di tipo A sono percepite come del tutto innocenti e una loro risposta non richiede di prendere posizione in alcun dibattito filo­ sofico; piuttosto , richiede un lavoro di diverso tipo: un'indagine empiri­ ca nel primo caso, uno studio di anatomia comparata nel secondo e uno sforzo creativo per trovare una dimostrazione nel terzo . Se le domande sensate si esaurissero in quelle di tipo A, i filosofi resterebbero ben pre­ sto disoccupati. C'è un'altra differenza tra i due tipi di domande che Carnap è molto interessato a sottolineare: le domande di tipo A chiedono se, all'interno di un certo insieme più generale di entità (per esempio gli oggetti materiali) , ne esistano alcune di un certo tipo (per esempio i centauri) . Nel caso delle domande di tipo B, invece, quello che si vuoi sapere è se un sistema di en­ tità di un certo tipo esiste o meno, senza caratterizzarle come un sottoin­ sieme di un sistema più ampio: nel caso matematico infatti non ci si chiede se un certo insieme di numeri (per esempio, i numeri primi maggiori di cen­ to) sia o meno vuoto, ma ci si domanda se i numeri esistano o meno. Carnap chiama le domande di tipo A interne ad un certo sistema di rz/erimento (/ramework) linguistico, mentre quelle di tipo B sono, se­ condo lui, domande esterne al sistema di riferimento. Un sistema di ri­ ferimento per Carnap è un insieme di espressioni linguistiche introdot­ te per parlare di un nuovo tipo di entità e una serie di regole che gover­ nano l'uso di tali espressioni: L'accettazione di un nuovo tipo di entità è rappresentata nel linguaggio dall'in­ troduzione di un sistema di riferimento di nuove forme d'espressione, che de­ vono essere usate in accordo a un nuovo insieme di regole. [ . . ] i due passi es­ senziali sono i seguenti. Primo, l'introduzione di un termine generale, un predi­ cato di livello più elevato, per il nuovo tipo di entità, predicato che ci consenta di affermare di ogni particolare entità che essa appartiene a detto tipo (ad esem­ pio "Rosso è una proprietà" , "Cinque è un numero " ) . Secondo, l'introduzione di variabili del nuovo tipo. Le nuove entità sono i valori di queste variabili [ . . ] . Con l'ausilio delle variabili, si possono formulare affermazioni generali concer­ nenti le nuove entità (ivi, trad. it. p. 55) . .

.

31

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

Una volta adottato un sistema di riferimento, sostiene Carnap, si posso­ no formulare, grazie alle sue risorse espressive, una serie di questioni: una volta accettato di parlare di oggetti materiali si può cercare di sco­ prire se esistono delle macchie di inchiostro sul foglio sopra il mio tavo­ lo e se la città di Troia è esistita o meno, e in questo caso la risposta alla questione arriverà attraverso delle indagini empiriche; una volta accet­ tato di parlare di numeri naturali, ovvero una volta ammesso che ci sia­ no dei numeri 17, ci si può chiedere se ogni numero pari diverso da 2 è la somma di due numeri primi o meno: in questo caso la risposta andrà cer­ cata in una dimostrazione a partire dagli assiomi della teoria dei nume­ ri, quindi per via logica 18• Le domande interne non creano quindi grandi problemi. Ora, se­ condo Carnap, è certamente possibile, per quanto bizzarro , intendere una domanda del tipo "esistono i numeri? " come una domanda interna, ma il risultato sarebbe qualcosa del tipo: " una volta ammesso che i nu­ meri esistono , i numeri esistono? " . La risposta è ovviamente affermati­ va, ma la domanda è troppo banale per essere quello che intendono i fi­ losofi impegnati in dispute antologiche (cfr. PAR. 1.3): nessuno sarebbe incline a rispondere seriamente a l quesito "esistono i numeri? " , interpretato nel senso interno, i n maniera negativa. Ciò rende plausibile sup­ porre che quei filosofi, i quali trattano il problema dell'esistenza dei numeri co­ me un problema filosofico serio presentando complesse argomentazioni in chia­ ve tanto affermativa, quanto negativa, non abbiano in mente il problema inter­ no (ivi, trad. it. p. 50 ).

Che senso si può dare, secondo Carnap, alla domanda antologica, se la intendiamo come una domanda esterna a qualsiasi sistema di riferimen­ to? La risposta di Carnap è che le questioni esterne sono prive di signi­ ficato, se intese alla maniera tradizionale come questioni teoriche ri­ guardanti la reale esistenza di un certo sistema di entità; tuttavia, è pos­ sibile interpretarle come questioni pratiche, che pongono il problema se sia conveniente o meno adottare un certo modo di esprimersi, un certo tipo di linguaggio: L'essere reale in senso scientifico significa essere un elemento del sistema; que­ sto concetto, quindi, non può essere sensatamente applicato al sistema stesso. Quelli che sollevano il problema della realtà del mondo stesso, contrariamente a quanto sembra suggerire la loro formulazione, non hanno in mente una queDifficilmente si introdurrebbe un sistema di entità vuoto. 18. Carnap non affronta qui alcuni problemi spinosi legati ai teoremi di incomple­ tezza di Godei, cfr. cap. III, par. I I . 17.

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I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

stione teoretica, bensì piuttosto una questione pratica, un problema di decisio­ ne pratica concernente la struttura del nostro linguaggio. Dobbiamo scegliere se accettare e usare, o no, le relative forme di espressione nel sistema di riferimen­ to in questione (ivi, trad. it. p. 48) .

La prospettiva di Carnap accetta la dottrina quiniana secondo la quale «essere è essere il valore di una variabile quantificata», salvo aggiungere che, essendoci tipi diversi ed irriducibili di variabili associate ad ogni/ra­ mework, le questioni esistenziali sono sempre relative al /ramework in cui si opera (alle variabili che si utilizzano) 19 • N on dovrebbe quindi sor­ prendere che la critica di Quine al suo maestro prenda le mosse proprio dal problema se l'uso di differenti stili di variabili vada preso sul serio . 1. 5

. . . e i suoi problemi primo attaCCO di Quine ( Quine, 1951b) è rivolto COntrO la distinzione tra questioni che riguardano una parte di un sistema di entità (della for­ ma 'esistono X che sono Y?', per esempio 'esistono numeri che sono pa­ ri ma non sono la somma di due numeri primi? ') e questioni che inve­ stono l'esistenza del sistema di entità come un tutto (della forma 'esisto­ no gli X? ', per esempio 'esistono i numeri?') . Questa distinzione, dice Quine, è del tutto convenzionale. È vero che alle volte si usano tipi di variabili diverse per entità diverse: nei trat­ tati di probabilità, p e q possono assumere come valori solo un numero reale compreso tra o e r, nei trattati di teoria dei numeri m e n variano solo su numeri naturali, non su altri tipi di numeri o su insiemi o altro ancora. Insomma, di solito si usano variabili diverse per tipi di cose di­ verse, ma la scelta, secondo Quine, non è affatto forzata: per esempio, in teoria degli insiemi si usa un unico tipo di variabili per tutti gli insiemi e, dato che i numeri sono un particolare tipo di insiemi, chiedersi se esi­ stano i numeri significa chiedersi se esistano o meno insiemi di un certo tipo; ovviamente, se i numeri sono un particolare tipo di insiemi, anche i numeri primi maggiori di r.ooo lo sono . In questo tipo di teoria le due domande 'esistono i numeri? ' e 'esistono numeri primi maggiori di roo?' sono quindi del tutto analoghe, avendo la forma comune 'esistono in­ siemi del tipo X? ' . il

1 9 . Per lo meno, è possibile per noi, dall'esterno, leggere Carnap in questo modo (e in effetti, così è stato spesso letto), anche se Carnap stesso non si esprime esattamente in questi termini.

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INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

Quine si dilunga a dimostrare come sia possibile ridurre una teoria che usa stili di variabili diverse (come la teoria dei tipi di Russell e Whi­ tehead) ad una con un solo tipo di variabili (come la teoria degli insiemi di Zermelo-Fraenkel) , ma il punto è chiaro: tecnicamente è possibile usare sempre un unico tipo di variabili e introdurre dei predicati quan­ do ce ne è bisogno - invece di dire 'per ogni p, (p) ', si può dire 'per ogni x, se x è un numero reale compreso tra o e 1, (x) '. Oltre a questo, il suggerimento che le questioni ontologiche vadano intese come questioni pratiche circa l'adottare o meno un qualche tipo di linguaggio sembra contraria allo spirito di chi si interroga o si è inter­ rogato su di esse (Hofweber, 2005; Fine, 2009) . Carnap lo riconosce, ma sostiene che non c'è modo di dare un senso a questo tipo di problemi, dato che non si dispone di alcun metodo per cercare di risolverli; tutta­ via, il presupposto di Carnap che una questione abbia senso solo se si è in grado di indicare un metodo per dirimerla è sindacabile di suo ; inol­ tre, come vedremo, per Quine esiste un criterio per decidere quale sce­ gliere tra due ontologie concorrenti. Come se non bastasse, per come è formulata da Carnap, la distinzio­ ne esterno/interno si basa su quella tra giudizi analitici e giudizi sintetici, altro classico bersaglio polemico di Quine. I giudizi analitici sarebbero quelli veri solo in virtù del significato delle parole, come 'un oculista è un dottore che cura gli occhi' o 'tutti gli scapoli non sono sposati', mentre i giudizi sintetici dipenderebbero dalla realtà empirica, come nel caso di 'l'accelerazione di gravità sulla terra è 9,81 m/s2' , 'Marco è uno scapolo' , 'il gatto è sul tappeto' . Quine Ù951a) argomenta che non esiste un modo soddisfacente di tracciare un confine tra i due tipi di problemi 20 e che l'u­ nica distinzione possibile è quella tra enunciati a cui rinunceremmo più facilmente ed enunciati a cui rinunceremmo meno facilmente: le nostre credenze formano una rete 21 in cui gli enunciati logici e matematici co­ stituiscono un nucleo più difficile da intaccare delle osservazioni speri­ mentali; la distinzione, tuttavia, è solo di gradi: non si può escludere che di fronte ad una mole notevole di risultati inspiegabili non si arrivi a mo­ dificare un principio logico ritenuto incontrovertibile. È chiaro che in un quadro come quello di Quine, dove non esistono più distinzioni nette tra l'accettare un linguaggio e aderire ad una teoria, 20. Ovviamente, dire che riusciamo a fare delle distinzioni tra enunciati analitici ed enunciati sintetici non prova nulla: anche i teorici del flogisto ritenevano di poter distin­ guere i fenomeni in cui questa sostanza interveniva da quelli in cui era assente, ma que­ sto non prova che esista una cosa come il flogisto. Allo stesso modo, secondo Quine, le nostre distinzioni intuitive non provano l'esistenza di una caratteristica degli enunciati chiamata "analiticità" (cfr. Priest, 1979, p. 290) . 21. Sull'olismo di Quine cfr. il PAR. 1.7.

34

I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

tra questioni di fatto e questioni di significato, la proposta di Carnap per­ de molta della sua forza, almeno per come è formulata originariamente. Un altro argomento usato contro Carnap è che la sua visione dei si­ stemi di riferimento renderebbe impossibile il confronto stesso tra siste­ mi (Gallois, 1998) : da cosa dipenderebbe, infatti, secondo Carnap , la scelta tra un sistema di riferimento come quello degli oggetti materiali (dove si parla di esseri umani, occhi, tavoli rossi eccetera) e un sistema di pure percezioni fenomeniche (dove si parla di punti nello spazio visi­ vo, volumi, suoni, ovvero solo delle esperienze private di un soggetto) ? n criterio dovrebbe essere l'utilità: ma quale sistema di riferimento dob­ biamo adottare per stabilire quale sistema è più utile (o ci sembra più uti­ le, o siamo inclini ad adottarlo) ? Anche senza dare troppo peso a quest'ultima obiezione, il quadro di Carnap sembra presupporre un'idea della competenza linguistica diffi­ cilmente difendibile. L'idea che comprendere e padroneggiare un lin­ guaggio significhi accettare esplicitamente delle regole che governino l'uso dei termini sembra trovare infatti numerosi controesempi: ci sono logici che non accettano il modus ponens come regola corretta, pur com­ prendendo perfettamente il significato della locuzione 'se' (McGee, 198 5, commentato da Williamson, 2003 e da Yablo, 2oo8) ed è possibile im­ maginare che per qualcuno i sofà siano divinità e non pezzi di mobilio come normalmente viene insegnato, senza che questo comprometta la sua comprensione del termine 'sofà' (Burge, 1986) ; infine, se qualcuno negasse certi assiomi della teoria degli insiemi (per esempio l'assioma dell'infinito) la reazione più naturale non sarebbe quella di negare che comprenda il significato della parola 'insieme' , ma di cercare di capire perché abbia una visione tanto strana degli insiemi (Yablo, 2002) . Nonostante i suoi problemi, la visione di Carnap è comunque stata uno dei punti di partenza per alcuni approcci devianti all'antologia, che hanno cercato di porre rimedio ai suoi limiti rinunciando ad alcuni trat­ ti della formulazione originaria ritenuti inessenziali. I.6

Tre alternative e mezzo r . 6.r. DUE SENSI DEL QUANTIFICATORE

Una prima strategia, sviluppata in Hofweber (1999, 2ooo, 2005) e da Dorr (2005, 2oo8) è di sostenere che il quantificatore esistenziale non ha solo il ruolo di esprimere il proprio impegno ontologico, ma anche un senso più leggero. Avrebbe quindi senso dire che ci sono numeri in senso leg35

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

gero, anche se in senso forte i numeri potrebbero non esistere. Questo risolverebbe il problema delle something /rom nothing trans/ormations, ovvero di quelle inferenze in cui le premesse sembrano metafisicamente innocenti, mentre le conclusioni paiono metafisicamente impegnative. Nel PAR. 1 .3 ci eravamo chiesti cosa ci fosse di sbagliato in un ragiona­ mento come il seguente: (r) (2) (3) (4)

Giove ha quattro lune. ll numero delle lune di Giove è quattro. C ' è un numero che è il numero delle lune di Giove, owero quattro. Ci sono dei numeri, tra i quali il numero quattro.

n motivo per cui ci si domanda se ci sia qualcosa di sbagliato nel ragio­ namento di Frege è che si assume un condizionale del tipo: se il ragio­ namento fosse corretto, porrebbe fine in modo banale ad una millenaria e difficilissima disputa metafisica, dimostrando conclusivamente che i numeri esistono. Secondo i teorici del doppio significato del quantifica­ tore, questa assunzione è sbagliata. Non c'è niente di sbagliato nel ra­ gionamento da (I) a (4) , a patto che le espressioni 'c'è un numero', 'ci so­ no dei numeri' siano lette in senso leggero. Questo però non risolve la disputa metafisica, che era stata formulata dando all'espressione 'ci so­ no dei numeri' un senso pesante, antologicamente impegnativo. Di fronte a quest'affermazione, si può rimanere perplessi: che cosa si­ gnifica dire che all'espressione 'ci sono dei numeri' si può dare o meno un senso antologicamente impegnativo? La stessa nozione di impegno antologico non era stata spiegata utilizzando esempi come ' ci sono dei gatti', 'ci sono dei pianeti che distano dalla terra I o . ooo anni luce' ecc.? Sostenere che 'ci sono dei numeri' possa essere vero, anche se non c'è al­ cun numero, non è un po' come dubitare che l'affermazione 'J ohn è alto' possa essere vera, anche se John non è alto (Kripke, 19 7 6, sezione 9)? L'obiezione solleva un punto importante, ma ad un'attenta analisi non sembra decisiva. n teorico del doppio significato del quantificatore può rispondere così (Hofweber, 1999): la nozione di impegno antologi­ co è spiegata attraverso il riferimento ad alcuni usi, nel linguaggio co­ mune, di espressioni come 'ci sono degli X tali che . . . '. Per esempio, si può spiegare che quando dico che ci sono dei gatti nel giardino, mi sto impegnando nei confronti dell'esistenza dei gatti, nel senso che, affinché la mia affermazione risulti vera, il mondo deve essere fatto in un certo modo, in particolare devono esistere dei gatti nel mio giardino. Non è detto tuttavia che una categoria di espressioni linguistiche, co­ me i quantificatori, debba essere utilizzata in un solo modo. Per esem­ pio , i plurali possono essere utilizzati per esprimere un'azione compiuta collettivamente da un gruppo di persone, come in 'tre filosofi hanno tra-

I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

sportato un piano' , o per esprimere un'azione compiuta da ciascuno dei membri di un gruppo, come in 'tre filosofi hanno scritto un libro ' (Hofweber, 2000, 2005) . Qualcosa di simile accade, secondo Hofweber, con i quantificatori. Oltre ad essere utilizzati per esprimere certi fatti ri­ guardo a ciò che esiste nel mondo, i quantificatori possono essere sfrut­ tati in altro modo. Per esempio, supponiamo che uno psicologo, nel cor­ so di una seduta con Fred, scopra che Fred nutre un'enorme ammira­ zione per Sherlock Holmes. L'informazione di cui lo psicologo entra in possesso può essere espressa come: (r)

Fred ammira Sherlock Holmes.

Può ovviamente succedere che lo psicologo , il giorno seguente, dimen­ tichi l'identità esatta dell'idolo di Fred, ma tuttavia conservi una parte dell'informazione. Per esempio , potrebbe provare ad appuntarsi che: (2)

Fred ammira

__

e

__

è ammirato da molti detective.

Intendendo che è possibile rimpiazzare con un nome in modo da ottenere un enunciato vero. Dal momento che (2) non è una frase in ita­ liano corretto e dire che potrebbe diventarlo sostituendo lo spazio vuo­ to con un nome risulterebbe un modo un po' contorto di esprimersi, si può cercare di comunicare l'informazione rilevante con qualcosa come: __

(3)

Fred ammira qualcuno che è ammirato anche da molti detective.

L'uso che viene fatto qui del quantificatore esistenziale 'qualcuno' sfrut­ ta una sua proprietà caratteristica: il poter passare da un'asserzione con­ tenente un nome come 'Fred è tale che . . . ' ad un'asserzione in cui si rim­ piazza il nome in questione con una variabile e vi si premette un quanti­ ficatore esistenziale, nel caso in questione 'qualcuno è tale che . . . ' . Questo viene chiamato il ruolo in/erenziale del quantificatore esi­ stenziale (Hofweber, 2002) , ovvero il modo in cui questo operatore vie­ ne utilizzato all'interno di una certa pratica linguistica, quella di passare da certi enunciati ad altri enunciati, dove il "passaggio " da un insieme di premesse ad una conclusione viene chiamato inferenza. L'altro modo in cui il quantificatore esistenziale può essere usato è per fissare certe condizioni del dominio di discorso (cfr. sempre Hofweber, 2002) : questo è un modo più complicato per dire che il quantificatore esi­ stenziale può essere anche usato per dire come è fatto il mondo, quali ti­ pi di oggetti contiene, ovvero cosa esiste (' qualche gatto abita nel mio giardino' esprime il fatto che il mondo contiene dei gatti nel mio giardi­ no) . Si parla anche di uso re/erenziale o oggettuale del quantificatore. 37

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

La proposta di Hofweber si avvicina a quella dei teorici dell'inter­ pretazione sostituzionale del quantificatore (Gottlieb, 198o; cfr. anche la recensione di Field, 1984) . Grosso modo l'interpretazione sostituzionale del quantificatore esistenziale può essere definita così. Con x si espri­ me una condizione generica, x è tale che. .. Data una classe di espres­ sioni C, i cui elementi t sono detti termini, (x/t) è l'espressione otte­ nuta a partire da x sostituendo in modo uniforme la variabile x con il termine t. Considerando, per semplicità espositiva, come classe di so­ stituzione quella dei nomi, la lettura sostituzionale del quantificatore esistenziale è quella per cui un enunciato della forma 3xx è vero se e solo se è vero almeno un enunciato della forma (x/t) . (x/t) è detta un'istanza di x. Ovviamente, se tutti i nomi denotassero un oggetto, sarebbe impossi­ bile sfruttare unicamente l'uso inferenziale del quantificatore esistenziale: dire che, per qualche termine t, (x!t) è vero implicherebbe che un qual­ che oggetto, precisamente quello denotato da t, soddisfa la condizione espressa da x. Che tutti i nomi denotino, tuttavia, non è affatto sconta­ to: anche ammesso che la funzione dei nomi sia riferirsi ad un oggetto, non si può escludere a priori la possibilità che alcuni di essi non riescano a svol­ gere la loro funzione. Finché non si dispone di un argomento per esclu­ dere la possibilità che, accanto a lavatrici rotte e non funzionanti, si diano anche nomi " rotti" e non denotanti, l'uso inferenziale del quantificatore esistenziale sembra poter essere indipendente da quello che impone del­ le condizioni al dominio di discorso. 'Sherlock Holmes' potrebbe non ri­ ferirsi a nessun individuo, non denotare nessun oggetto, e tuttavia rima­ nere vero che ieri Fred stava pensando a Sherlock Holmes, il che basta a concludere, se si usa il quantificatore esistenziale nel senso debole defini­ to dal suo ruolo inferenziale, che stava pensando a qualcuno. Altrettanto chiaramente, anche se tutti i nomi denotassero un og­ getto, dire da un lato che almeno un'istanza di x è vera e dall'altro che esiste un oggetto che soddisfa la condizione espressa da x non sareb­ bero comunque modi equivalenti di esprimersi: esistono innumerevoli granelli di sabbia, anche se probabilmente nessuno si è mai sognato di dar loro un nome, e quindi non è possibile trovare una istanza di 'x è un granello di sabbia' che sia vera; e lo stesso vale per numerosi tipi di en­ tità, dai capelli ai protoni, senza contare casi più complicati 22• E anche dove è possibile trovare un'istanza vera di certi enunciati quantificati, 22. Come quelli in cui si ha a che fare con una teoria che quantifica su numeri reali o dimostra contemporaneamente un enunciato quantificato esistenzialmente e la nega­ zione di tutte le sue istanze (alcune teorie di questo genere sono consistenti). Cfr. Kripke (1976) e Hofweber (1999).

I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

non è detto che sia la lettura sostituzionale quella che si ha in mente: an­ che se mia madre ha un nome, quando dico che ho una madre, o che esi­ ste qualcuno che è mia madre, non intendo affatto usare il quantificato­ re esistenziale in senso debole (cfr. Hofweber, 1999) . Sarebbe dunque irragionevole sostenere che il quantificatore esisten­ ziale, per come è utilizzato nel linguaggio naturale, vada sempre letto in senso sostituzionale, come sembra sostenere Bonevac (1982) , o che una ta­ le lettura vada adottata ogni qual volta è possibile farlo senza rendere le proprie asserzioni inconsistenti, come sembra sostenere Gottlieb (1980) . Questi sono solo due esempi di posizioni non troppo felici che si sono in­ contrate nella fase iniziale del dibattito sulla quantificazione sostituzio­ nale. Altri problemi legati a quel modo di impostare il dibattito sono do­ vuti al fatto che la questione centrale da discutere veniva alle volte posta in questi termini: quale lettura dobbiamo adottare per il quantificatore che compare in un certo linguaggio formale non ancora interpretato? La domanda lascia un po' perplessi, per la semplice ragione che un linguag­ gio formale non interpretato resta pur sempre tale, cioè non interpretato (cfr. Kripke, 19 7 6, sezione 7 e Hofweber, 1999, pp. 61 e ss.) e quindi di­ sponibile a varie interpretazioni. E la quantificazione sostituzionale è un'opzione che non presenta problemi da un punto di vista tecnico, co­ me è chiarito da Kripke (19 76) 23 , considerato un'autorevole risposta a quanti avevano tentato di dimostrare che la quantificazione sostituziona­ le non è intellegibile 24• In altri casi la questione era posta prima specifi­ cando una semantica diversa per il quantificatore oggettuale e per quello sostituzionale, a volte considerati come due diversi quantificatori, e do­ mandandosi poi quale delle due letture adottare per il quantificatore im­ piegato nel linguaggio naturale. È ovvio che, per un teorico del doppio si23. Si veda in particolare il teorema centrale della sezione I e l'analisi che ne fa Kripke. 24. Più interessante è la questione se la quantificazione sostituzionale non sia sem­ plicemente equivalente ad una quantificazione oggettuale su espressioni linguistiche. N on è detto che debba essere così: si può considerare la quantificazione sostituzionale come una risorsa espressiva sfruttata per rendere in una notazione finita una disgiunzione infi­ nita di tutte le istanze di x, del tipo (ti) v (t2) . . . ((tn) . . . , come suggerisce Field (1984) . Una tale disgiunzione infinita usa ovviamente dei termini, ma non ne asserisce l'e­ sistenza. Ovviamente, nella metateoria intuitiva utilizzata per dare le condizioni di verità degli enunciati di un tale linguaggio si farà riferimento all'esistenza di espressioni lingui­ stiche e termini. Questo mostra tuttavia solamente che la metateoria si impegna antolo­ gicamente a tali entità linguistiche; non comporta, però, che la teoria lo faccia (la meta­ teoria che fornisce le condizioni di verità di ']ohn è alto' afferma l'esistenza di entità co­ me il nome proprio 'John', ma certo chi afferma che ]ohn è alto non dice nulla che abbia a che fare con l'esistenza di entità linguistiche) . Questo problema è rilevante per le criti­ che alla quantificazione sostituzionale nello stile di van Inwagen (1981) . Si veda Burgess, Rosen (1997, pp. 183-5 e 203-4) per ulteriori discussioni.

39

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

gnificato del quantificatore, questa è una falsa alternativa; in alcuni con­ testi, il linguaggio naturale impiega il quantificatore nella sua lettura de­ bole, in altri in quella forte: sarebbe pertanto errato volerlo rendere sem­ pre in un modo o sempre nell'altro (cfr. Hofweber, 1999, p. 62) . Proprio a causa della scarsa limpidezza di dibattiti di questo genere, un teorico contemporaneo del doppio significato della quantificazione come Hofweber (1999) ha delle resistenze ad identificare il senso debo­ le del quantificatore con la lettura sostituzionale; ma, fatte le dovute pre­ cisazioni, le due proposte si possono considerare analoghe. La distinzione tra uso inferenziale e uso legato alle condizioni del do­ minio di discorso del quantificatore esistenziale viene anche chiamata di­ stinzione tra uso interno ed uso esterno del quantificatore, in analogia con la proposta di Carnap, di cui i teorici del doppio uso del quantifica­ tore si sentono eredi. Con una differenza importante: secondo Hofwe­ ber (2005) , le questioni esterne non sono affatto insignificanti, come so­ stenuto dal maestro. Semplicemente, si tratta di problemi molto diffici­ li, che non possono essere risolti con argomenti del tipo (1-4) . Un altro modo di reinterpretare la distinzione carnapiana tra que­ stioni interne ed esterne è stato elaborato da Stephen Yablo (1998, 2001 , 2002, 2005, 2oo8) . Si tratta di una proposta estremamente sofisticata e an­ cora in fase di sviluppo . Almeno a livello storico, il punto di partenza di Yablo è una distinzione tra usi seri o letterali del linguaggio e usi non se­ ri o meta/orici. r.6.2. ESISTENZA E METAFORA TI punto di partenza di Yablo è difficilmente contestabile: si può comu­ nicare qualcosa di vero anche dicendo qualcosa che, preso alla lettera, vero non è - quando diciamo che l'Italia è uno stivale e Crotone si trova sulla pianta dello stivale, stiamo comunicando qualcosa che riguarda la geografia dell'Italia, anche se è ovvio che l'Italia non è uno stivale con Crotone sulla pianta. Analogamente, quando diciamo che l'italiano medio guarda la tele­ visione due ore al giorno non vogliamo essere presi alla lettera, dato che non c'è alcun italiano medio. In questi due casi sembra possibile esprimere il contenuto reale del­ le nostre asserzioni, ad esempio fornendo una descrizione dell'Italia in termini non figurati e parlando di medie statistiche invece che di italia­ ni medi. Non è detto, però , che questo tipo di parafrasi siano sempre possibili: nel caso della matematica, per comunicare certi contenuti po­ trebbe essere necessario fare finta che esistano degli oggetti astratti co­ me i numeri, le funzioni, gli insiemi ecc.

I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

Yablo non dice che tali oggetti non esistono, ma solo che non è pos­ sibile determinare se i nostri enunciati aritmetici ci impegnino alla loro esistenza o meno. Questo perché, in alcuni casi, se un enunciato vada inteso letteral­ mente o meno può dipendere, per Yablo , dal suo essere vero o falso e questo porterebbe ad un circolo: come vedremo, secondo l'approccio di Quine i numeri esistono se nella nostra pratica scientifica noi ci impe­ gniamo antologicamente nei loro confronti; ma, aggiunge Yablo, il fatto di impegnarci antologicamente o meno all'esistenza dei numeri dipende dalla questione se i nostri enunciati siano veri o meno, ovvero se i numeri esistano o no: i problemi antologici sarebbero quindi irrimediabilmente circolari. Yablo non fa molti esempi di enunciati la cui lettura metaforica o let­ terale dipende dal loro essere veri o meno 25, ma ovviamente questo pun­ to della sua posizione è uno di quelli più discussi (per esempio da Bur­ gess, Rosen, 2005) . La distinzione di Carnap tra questioni interne e questioni esterne viene intesa, nella prospettiva di Yablo, come quella tra letterale e me­ taforico (Yablo, 1998) o come la distinzione tra questioni poste presup­ ponendo che un certo tipo di entità esistano e questioni poste senza p re­ supposizioni di sorta. La critica classica che viene rivolta a questo approccio è che o la pos­ sibilità di intendere il linguaggio quantificazionale in senso metaforico è sospetta, perché mancando dei criteri definiti non ha senso applicare la distinzione letterale/metaforico in questi casi (Fine, 2009) ; oppure va ri­ fiutata, dato che per gli standard comunemente adottati il linguaggio matematico non sembra metaforico (Burgess , Rosen, 2005) . r.6.3. L' ERESIA MEINONGHIANA Tra le deviazioni dall'impostazione quiniana delle questioni antologiche occupa un posto del tutto particolare la prospettiva (neo)meinonghiana, ispirata ai lavori del logico Alexius Meinong e difesa in tempi recenti da autori come Richard Routley, Graham Priest e Edward Zalta (cfr. Berto, 2010 , per un'esposizione) . 25. Eccone uno (Yablo 1998 , p . 258) : in seguito ad un incidente, un aereo su cui viag­ giava Hemingway cadde mentre sorvolava una regione africana. Un giornale titolò «He­ mingway perso (last) in Africa»: la lettura sarebbe ambigua, perché lascia aperto un sen­ so figurato secondo cui Hemingway sarebbe morto. Solo quando più tardi si scoprì che era vivo si optò definitivamente per la lettura letterale, secondo cui era semplicemente di­ sperso. 41

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

La posizione dei meinonghiani può essere riassunta nella tesi secon­ do cui: (M) Qualcosa non esiste,

da cui segue la conclusione antiquiniana che: (NonQ ) Non tutto esiste.

Che qualcosa non esista è una conseguenza del fatto che Pegaso non esi­ ste, e neppure Babbo Natale o Atlantide: questi, secondo i meinonghia­ ni, sono tutti esempi di cose o oggetti o entità non esistenti, da affianca­ re alle più mondane entità esistenti come vicini di casa e protoni. Negare che tutto esista per Quine è contraddittorio. Questo perché il predicato 'esistere' è definito da Quine come 'essere identici a qual­ cosa', 3y(x = y) e, dal momento che ogni cosa è identica a se stessa, tut­ to esiste: il passaggio da V x (x = x) a Vx3y (x = y) è infatti ovviamente corretto. Per evitare questa conclusione, il meinonghiano introduce delle di­ stinzioni nel suo apparato formale che non sono presenti nella spiega­ zione tradizionale del linguaggio della logica del primo ordine. 'Esiste­ re' per un meinonghiano è una proprietà di cui alcune cose godono e al­ tre no: proprio come alcune cose sono belle, e altre no, alcune cose esi­ stono, e altre no . L'esistenza viene quindi definita in modo diverso da quello di Quine, come un predicato primitivo, indicato dal simbolo Ex. n quantificatore 'per qualche x . . ' viene invece reso con un nuovo sim­ bolo, come LX, e viene inteso in modo neutro: per almeno un oggetto , vale una certa condizione, ma questo non comporta affatto che tale og­ getto esista. Sarebbe appropriato chiamare un tale quantificatore il quantificatore particolare, proprio per distinguerlo dal quantificatore classico, con portata esistenziale, 'esiste almeno un x tale che . . . '. Que­ st'ultimo può essere definito a partire dal quantificatore neutro e dal pre­ dicato di esistenza: 'esiste un x tale che . . . se e solo se per qualche x, x esi­ ste e x è tale che . . . ', cioè 3xx =def Lx(Ex & x) . Nella prospettiva mei­ nonghiana, solo il quantificatore classico merita il nome di quantificato­ re esistenziale, ed è semplicemente un quantificatore particolare ristret­ to all'ambito delle cose esistenti: come quando diciamo che nessun gior­ nalaio è aperto molto spesso intendiamo dire che nessun giornalaio nel­ le vicinanze è aperto, così quando diciamo che nessun uomo vola, stia­ mo restringendo il quantificatore agli uomini esistenti. Dovrebbe essere chiaro che se si prova a riprodurre in questo tipo di linguaggio l'argo­ mento di Quine, quello che si ottiene è che, dal momento che ogni cosa .

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I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

è identica a se stessa, ogni cosa è identica a qualcosa, dunque ogni cosa è una cosa. Una conclusione che suona molto più banale di quella se­ condo cui tutto esiste. Ovviamente, una volta ammesso che alcune cose non esistano, e quindi che si possa quantificare sugli oggetti inesistenti, diventa naturale anche l'idea che li si possa contare, e dire quindi che i Fantastici 4 sono quattro o che il numero delle città ideali mai esistite è ben maggiore di o, senza che questo significhi ammettere che le città ideali esistano. n mondo si divide dunque in due categorie: alcune cose esistono , ed altre no. I numeri, in compagnia di molte altre entità problematiche, ap­ parterrebbero al secondo tipo di cose. Sebbene dire che tali cose esisto­ no sarebbe falso, sugli oggetti inesistenti si possono dire un sacco di co­ se vere. Anche se la spiegazione di come ciò sia possibile varia da teoria a teoria (cfr. per esempio Priest, 2003 e Linsky e Zalta, 199 5), un'idea di fondo le accomuna: il fatto che i numeri non godano della proprietà di esistere non toglie che godano di altre proprietà e che sia quindi possi­ bile interpretare la matematica come la teoria che stabilisce proprio qua­ li siano le proprietà in questione. In particolare, si può notare un' analo­ gia tra gli oggetti della finzione matematica e quelli della finzione lette­ raria. Sembra naturale dire che Sherlock Holmes possiede tutte le ca­ ratteristiche che gli vengono esplicitamente attribuite nei romanzi di Co­ nan Doyle, come quella di essere un detective, più quelle che ne conse­ guono, in base a ragionevoli assunzioni, come essere un umano e quindi avere due polmoni. Allo stesso modo le proprietà degli oggetti matema­ tici sarebbero quelle codificate negli assiomi della loro teoria matemati­ ca di riferimento, l'aritmetica per i numeri naturali, l'analisi per quelli reali, e così via, più le loro conseguenze logiche. Questo dovrebbe spie­ gare anche come sia possibile conoscere gli oggetti matematici, ovvero at­ traverso le teorie che li caratterizzano: per il meinonghiano, una teoria matematica non può che descrivere correttamente un certo tipo di og­ getti matematici, proprio perché ogni teoria definisce un certo genere di oggetti (si confronti questa posizione con il platonismo della pienezza di Mark Balaguer che incontreremo nel CAP . 3) . Proprio come per il platonista, anche per il meinonghiano la mate­ matica consiste nella descrizione di un mondo di oggetti astratti; la dif­ ferenza sta solo nel fatto che per il primo questi oggetti astratti esistono , mentre per il secondo no 26• Lewis (1990) mette in dubbio che questa di-

26. In realtà, questo non vale per tutti i meinonghiani. Tutti i meinonghiani sosten­ gono che l'esistenza non sia espressa attraverso l'uso del quantificatore 'qualcosa' o 'per qualche x' , ma attraverso un predicato, 'esistere'. Che il significato di questo predicato sia

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INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

stinzione sia davvero significativa (cfr. Priest, 2003 , per una replica) . Ov­ viamente, se il meinonghiano vede una differenza tra dire che alcuni og­ getti sono numeri ed affermare che i numeri esistono , il non-meinon­ ghiano non vede alcuna differenza tra le due formulazioni. Da una pro­ spettiva classica, si pone quindi il problema se prendere in parola il mei­ nonghiano quando sostiene che secondo la sua dottrina gli oggetti ma­ tematici non esistono. La frase 'gli oggetti matematici non esistono' ha un significato diverso in bocca al meinonghiano e al non meinonghiano e non è detto quindi che, intendendo con 'esistere' quello che intende il logico classico, non sia corretto descrivere la dottrina meinonghiana co­ me una posizione per cui gli oggetti matematici esistono. Può essere utile confrontare l'approccio meinonghiano e quello dei teorici del doppio significato della quantificazione riguardo al problema se l'inferenza 'Pegaso non esiste, quindi qualcosa non esiste' sia da con­ siderarsi corretta o meno. Secondo entrambe le scuole, lo è. La spiega­ zione del perché lo sia è però diversa. Per il meinonghiano, in generale, un enunciato come 'qualcosa ha la proprietà X' ammette un'unica lettu­ ra, mentre per i teorici del doppio significato del quantificatore chiara­ mente no. In particolare, riguardo all'enunciato 'qualcosa non esiste' , quest' affermazione indica per il meinonghiano che non tutti gli oggetti esistono; mentre per Hofweber (2002) quello che rende l'affermazione banalmente vera, nella lettura debole del quantificatore, è che si può riempire lo spazio vuoto in un un'espressione come non esiste' con un nome in modo da ottenere un enunciato vero. L'affermazione del meinonghiano sarebbe invece equivalente a quella secondo cui 'qualco­ sa non esiste' è vero nella lettura forte del quantificatore e questo è tutt'altro che scontato, secondo i teorici del doppio significato del quan­ tificatore. La stessa differenza si riflette sulla semantica dei nomi e sul rappor­ to tra l'uso dei nomi e quello dei quantificatori: per molti meinonghiani non esistono nomi vuoti, non denotanti 27• Se il referente di un nome non esiste, vuoi dire che il nome denota un oggetto inesistente. In questa pro­ spettiva, se un enunciato contenente un nome proprio è vero, allora un certo oggetto, quello denotato dal nome, gode di una certa proprietà. È precisamente questo fatto a rendere valida un'inferenza da un enuncia­ to come 'Fred stava pensando a Sherlock Holmes' a 'Fred stava pensan' ___

uno solo, tuttavia, è una questione ulteriore. Per un meinonghiano secondo cui 'esistere' ha un significato diverso nel caso in cui sia applicato ad oggetti concreti o ad oggetti astratti, è perfettamente legittimo sostenere che i numeri esistono. 27. Questo non vale per tutti i meinonghiani. Cfr. per esempio Parsons (1979, p. 96) , commentato in Berto (2010, pp. 146 e ss.). 44

I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

do a qualcuno'. La spiegazione dei teorici del doppio significato del quantificatore è invece svincolata dall'assunzione che ogni nome deno­ ti, e si basa unicamente sull'idea che un certo uso del quantificatore con­ servi parte dell'informazione che si può trasmettere utilizzando un enun­ ciato che contiene un nome proprio. In entrambi i casi, comunque, è presente l'idea che un quantificato­ re come 'qualcosa' possa essere utilizzato anche in modo neutro, tale da non implicare l'esistenza di qualcosa, ma solo esprimere un'informazio­ ne con un grado di generalità superiore rispetto ad un enunciato conte­ nente un nome proprio. Tanto il quantificatore dei meinonghiani quanto il quantificatore utilizzato nel senso debole di Hofweber meriterebbero il titolo di quantificatore particolare e non di quantificatore esistenziale. Un approccio che condivide con i meinonghiani l'idea che non sia la quantificazione ad esprimere una presa di posizione riguardo ad una questione ontologica è anche quello di Kit Fine (2009) . In questo caso, però , non è con un predicato, bensì con un operatore, che quest'ultima viene espressa. r . 6. 4. LA REALTÀ È UN OPERATORE

Secondo Kit Fine (2oor, 2009) , il quantificatore esistenziale ha un senso so­ lo e non è quello di esprimere il proprio impegno ontologico. L'errore al­ la base dell'impostazione standard in ontologia è proprio quello di aver equiparato le questioni antologiche ("i numeri esistono? " ) a questioni quantificazionali ("ci sono dei numeri? " ) . Segnali che questa equivalenza sia fuorviante sarebbero le nostre reazioni intuitive di fronte a chi soste­ nesse che ovviamente ci sono delle sedie nella stanza accanto, ma propria­ mente parlando esistono solo atomi nel vuoto. A parere di Fine questo ti­ po di posizioni sono perfettamente comprensibili: il compito dell'antolo­ gia non è rispondere alla domanda "che cosa c'è? " , ma alla domanda "che cosa c'è realmente? ". La distinzione tradizionale per cui all'antologia spet­ ta il compito di redigere un catalogo di tutto l'esistente (ovvero dirci cosa esiste) e alla metafisica quello di chiarire la natura dell'esistente (dirci che cos'è quello che c'è) perde di senso in questa prospettiva: compito del­ l'ontologia è delineare la struttura ultima della realtà, ovvero chiarire se i tavoli che abbiamo davanti sono solo atomi nel vuoto o entità ulteriori, se i numeri di cui parliamo sono solo finzioni o oggetti reali e così via. N on si tratta di fare un inventario dell'esistente, ma di farne l'inventario ultimo e questo è possibile solo dopo che si è chiarita la struttura ultima della realtà, ovvero dopo che si è compiuta un'indagine metafisica. L'ambizioso progetto di Fine si scontra però con lo scetticismo che suscita in alcuni l'idea che abbia senso chiedersi cosa esiste realmente: 45

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

secondo la prospettiva del figuralismo di Yablo (1998), incontrato poco sopra, il nostro linguaggio contiene infatti una ineliminabile componen­ te metaforica e non si può stabilire se un'affermazione di esistenza vada intesa letteralmente o meno . !. 7

Argomenti per il platonismo Supponiamo di accettare l'idea quiniana secondo cui il predicato di esi­ stenza ha un significato univoco , ben rappresentato formalmente dal quantificatore esistenziale. Sappiamo cosa significhi impegnarsi all'esi­ stenza dei numeri: affermare che ci sono dei numeri o che qualche cosa è un numero. Non sappiamo ancora, però, come fare a stabilire se i nu­ meri esistano o meno. Secondo la terminologia corrente non sappiamo se schierarci a favore del platonismo matematico (la tesi secondo cui i numeri esistono) 28 o del nominalismo (la tesi secondo cui non esistono entità astratte come gli oggetti matematici) . Quine h a una risposta anche a questo problema, m a prima d i consi­ derare la sua strategia, vale la pena soffermarsi su uno schema molto ge­ nerale in cui quasi tutti gli argomenti a favore del platonismo possono essere fatti rientrare. Secondo Linnebo (2009) , la madre di tutti gli argomenti per il pla­ tonismo avrebbe una struttura a due premesse, dalle quali si passa alla conclusione che le entità matematiche come numeri e classi esistono . Al­ l'interno di questa struttura comune, le differenze si riscontrano nei principi usati per argomentare a favore delle due premesse in questione. Premessa I (verità): la maggior parte degli enunciati accettati come teoremi ma­ tematici è vera.

La prima premessa sembra difficilmente contestabile, almeno a chi si riconosce nell'atteggiamento espresso da Davi d Lewis in passi come questo : 28 . La tesi secondo cui le entità matematiche esistono viene di solito chiamata anti­ il platonismo, invece, sarebbe la combinazione dell' antinominalismo e di altre due tesi: che gli oggetti matematici sono oggetti astratti (astrattezza) e che gli ogget­ ti matematici, se esistono, esistono indipendentemente dalle nostre pratiche linguistiche e culturali e dalla nostra attività mentale (indipendenza) . Molto spesso però, gli argomen­ ti per il platonismo si limitano ad essere argomenti la cui conclusione è l'esistenza di og­ getti matematici: l'astrattezza di tali oggetti è di solito data per scontata (cfr. tuttavia il CAP. 2 per una discussione) e definire che cosa si intende con 'indipendenza' è un problema spinoso e non molto discusso (cfr. Linnebo, 2009) . nominalismo;

I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

Rinunciare alle classi significa rinunciare alla matematica. Questo non funzio­ nerebbe. La matematica è un'azienda solida e avviata. La filosofia è più trabal­ lante che mai. Rifiutare la matematica per ragioni filosofiche sarebbe assurdo. Se noi filosofi siamo dannatamente perplessi dalle classi, che costituiscono la realtà matematica, questo è un nostro problema. Non dovremmo aspettarci che la matematica se ne vada per renderei la vita più facile. Anche se rifiutiamo la matematica in modo delicato, spiegando come possa essere un'utilissima finzio­ ne, 'b uona senza essere vera' , la stiamo comunque rifiutando, e questo è co­ munque assurdo [. .. ] . Rido della presunzione di rifiutare la matematica per ra­ gioni filosofiche. Con che faccia andreste a dire ai matematici che devono cam­ biare il loro modo di fare, e abiurare un n umero incalcolabile di errori, ora che la filosofia ha scoperto che non esistono le classi? Avrete la faccia tosta di dirgli di seguire gli argomenti filosofici dovunque conducano? Se mettono in discus­ sione le vostre credenziali, vi vanterete delle grandi scoperte filosofiche: che il movimento è impossibile, che un essere, tale che non è possibile concepirne uno maggiore, non si può pensare che non esista, che non si può pensare che qual­ cosa esista al di fuori del pensiero, [. .. ] , e avanti così, fino alla nausea? Io no di certo ! (Lewis, 1998, p. 218 ) .

Ovviamente, questo non basta : una cosa è la matematica, un'altra il pla­ tonismo. In che modo la verità degli enunciati matematici è collegata al­ l' esistenza di entità astratte come le classi? A questa domanda cerca di rispondere la seconda premessa: Premessa 2 (semantica classica): la semantica del linguaggio matematico è ana­ loga a quella del linguaggio ordinario: se un enunciato contenente un termine singolare è vero, deve esistere un oggetto denotato da tale termine; e se un enun­ ciato che quantifica esistenzialmente su un certo tipo di oggetti è vero, allora esi­ ste almeno un oggetto di quel tipo 29.

Nelle lingue naturali esiste una certa classe di espressioni chiamate ter­ mini singolari, ovvero le espressioni usate per riferirsi ad un individuo. I termini singolari sono o nomi propri come 'Silvio' o descrizioni definite come 'TI presidente del Consiglio' : normalmente si ritiene che, perché un enunciato contenente tali espressioni sia vero, debba esistere uno e un solo oggetto a cui esse si riferiscono. Termini come i numerali 2, -{3, L sembrano comportarsi come termini singolari. La nostra seconda pre29 . Ironia della sorte, un teorico del doppio significato del quantificatore potrebbe concordare con il primo requisito della semantica classica, ossia che il significato delle espressioni quantificare nel linguaggio matematico sia analogo a quello della quantifica­ zione nel linguaggio ordinario. Si limiterebbe ad aggiungere che il quantificatore esisten­ ziale può svolgere due ruoli diversi nel linguaggio ordinario, e non solamente quello re­ ferenziale, come la semantica classica assume.

47

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

messa afferma che questa apparenza è corretta: quelli che sembrano ter­ mini singolari lo sono davvero. Lo stesso vale per l'uso del quantificato­ re esistenziale: quando affermiamo che esistono numeri primi maggiori di r . ooo, il quantificatore esistenziale ha la stessa funzione di quando af­ fermiamo che esistono uomini più alti di 1,70 m, ovvero affermare che almeno un oggetto gode di una certa proprietà. Combinando le due premesse, si può concludere che esistono entità astratte in questo modo: consideriamo un enunciato contenente termini singolari come 3 + 5 = 8 o un enunciato esistenziale come 'esistono nu­ meri trascendenti' . In base alla premessa 1 , questi enunciati, o altri con la medesima forma sintattica, sono veri. In base alla premessa 2, questo significa che esistono degli oggetti matematici su cui questi enunciati quantificano o a cui i termini singolari presenti nell'enunciato si riferi­ scono. Quindi, esistono oggetti matematici astratti. Le due vie più battute dai fautori del platonismo si ispirano a Qui­ ne e a Frege : nel primo caso l'idea di base è che l'unica formalizzazione possibile delle nostre migliori teorie scientifiche nel linguaggio del pri­ mo ordine richiede la quantificazione su entità matematiche e questo comporta l'impegno antologico su di esse: questo è un modo per difen­ dere la semantica classica. A questo si aggiunge la considerazione che spetta alla nostra pratica scientifica decidere quali enunciati siano veri o meno; e questo giustifica la prima premessa. Nel secondo caso , si cerca invece di mostrare che la verità degli enunciati matematici può essere stabilita su base puramente concettuale e si sviluppa un complesso ar­ gomento a sostegno della seconda premessa. I.8

La via di Quine La ricetta di Quine per risolvere le questioni antologiche 30 si articola in tre fasi : (r)

( 2) (3)

formulare le nostre migliori teorie scientifiche in notazione canonica (ov­ vero nel linguaggio della logica del primo ordine); prendere nota degli impegni antologici delle teorie così riformulate; accettare questi impegni antologici (e solo questi).

30. Cfr. Quine (r969a) , Quine (r96o, cap. VII, in particolare il par. 49) e Quine (r98ra) . È a questa strategia che mi riferirò con il termine «criterio di Quine per l'impegno onto­ logico» (cfr. van Inwagen, 1998, e il PAR. u ) .

I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

n passo (I) è reso necessario da una semplice constatazione circa il lin­ guaggio naturale. Dove non ci sono questioni filosofiche in ballo, affer­ miamo senza esitazioni cose come: (I) (II)

Ci sono gol di Maradona che non si possono dimenticare. Ci sono molti modi in cui le cose sarebbero potute andare ma non sono andate. (III) C'è un buco nel muro. (IV) Ci sono delle virtù che devi ancora sviluppare. (v) Ci sono delle ragioni per cui non mi sono iscritto a Medicina. (VI) Ci sono delle possibilità di lavoro che dovresti considerare.

La spensieratezza con cui pronunciamo frasi come queste fa pensare che l'uso di espressioni quantificate esistenzialmente ('ci sono degli x che so­ no F') non sia un segno sicuro di impegno antologico. Sarebbe quindi sbagliato registrare gli impegni antologici del nostro discorso quotidia­ no prendendo nota in modo meccanico di tutte le occorrenze di espres­ sioni quantificate. Anzi, aggiunge Quine, sarebbe addirittura scorretto pensare che il nostro uso quotidiano del linguaggio comporti di per sé degli impegni antologici: TI mio punto è che il linguaggio quotidiano è impreciso [. .. ] . Dobbiamo ricono­

scere [. . . ] che un 'antologia irreggimentata non è semplicemente implicita nel linguaggio ordinario. L'antologia dell'uomo comune è vaga e confusa in due sensi. Accetta molti oggetti che sono definiti in modo vago o inadeguato. Inoltre, cosa ancora più si­ gnificativa, è vaga nel suo ambito; non si può dire nemmeno in linea generale quali di queste cose vaghe attribuire all'antologia di un uomo, quali cose anno­ verare tra quelle che assume (Quine, 1981a, pp. 9-10 ). n linguaggio naturale serve a ben altri scopi che non chiarire quali entità far rientrare in un catalogo universale, e si rivela quindi una ben misera guida nel fare ontologia:

L'idea di un confine tra essere e non essere è un 'idea filosofica, l'idea di una di­ sciplina tecnica in senso lato. Scienziati e filosofi cercano un sistema compren­ sivo del mondo, uno che sia orientato al riferimento in modo ancora più preci­ so e diretto del linguaggio ordinario. Lo scrupolo antologico non è una corre­ zione del pensiero e della pratica comune; è estraneo alla cultura comune, seb­ bene sia un suo prodotto (ivi, p. 9).

Abbiamo appena toccato un punto molto importante: il passaggio attra­ verso il filtro della notazione canonica non serve quindi ad esplicitare im49

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

pegni ontologici già presenti prima della traduzione, ma ad avere una teo­ ria di cui si possano indagare gli impegni ontologici in modo definitivo . Possiamo tracciare confini antologici espliciti se si vuole. Possiamo irreggimen­ tare la nostra notazione, ammettendo solo termini generali e singolari, predica­ zione singolare e plurale, funzioni di verità, il macchinario delle clausole relati­ ve [ ] poi [ ] possiamo dire che gli oggetti assunti sono i valori delle variabili, o dei pronomi. Vari giri di parole che nel linguaggio ordinario sembravano in­ vocare nuovi generi di oggetti possono scomparire sotto l'effetto di una tale ir­ reggimentazione. In altri punti possono emergere nuovi impegni ontici. C 'è margine di scelta, e uno sceglie con uno sguardo alla semplicità del proprio si­ stema complessivo del mondo (ivi, pp. 9 -10 ). ...

...

Visto che la notazione canonica impone una chiarezza circa i propri im­ pegni ontologici che è estranea al linguaggio ordinario, è naturale aspet­ tarsi che il passaggio dal linguaggio naturale alla notazione canonica non sia qualcosa di meccanico (cfr. van Inwagen, 1998 ; Quine, 1960, trad. it . p. 242) . C'è margine di scelta, come dice Quine. Per esempio, un filo­ sofo poco incline ad accettare entità astratte come le virtù nella sua o n­ tologia si rifiuterà di tradurre (IV) quantificando sulle virtù, ma prima tradurrà (IV) con (rv* ) Avresti potuto essere più virtuoso di quanto tu non sia.

E poi darà una versione formale di (IV'") . n fatto che alcune espressioni di un linguaggio naturale ammettano più di una traduzione in notazione canonica non significa tuttavia che la scelta tra di esse sia arbitraria. Per esempio (cfr. van lnwagen, 1998) in casi in cui non ci siano chiare ragioni per adottare un'altra parafrasi, è del tutto naturale tradurre 'qualche x è F' o 'ci sono x che sono F' con 3xFx. Dato che la notazione 3x . . . non è altro che un'abbreviazione del­ l'espressione 'ci sono degli x tali che . . . ' , fare altrimenti sarebbe un po' come rifiutarsi di tradurre 'due più due fa quattro' con 2 + 2 = 4· Oltre a questo, un altro vincolo da rispettare è quello di preservare i legami di conseguenza logica. I due enunciati: (a)

Ci sono tre buchi nella mia fetta di formaggio,

e (b)

ci sono quattro buchi nella tua fetta di formaggio,

implicano che

I.

(c)

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

ci sono più buchi nella tua fetta di formaggio che nella mia.

Se traduciamo (a) e (b) in notazione canonica quantificando sui buchi (e quindi ammettendo entità come i buchi nella nostra ontologia) non è dif­ ficile vedere come dedurre (c) da (a) e (b) . Non è altrettanto facile se si adottano parafrasi devianti. Chiarito il passo (r ) del criterio ontologico di Quine, restano da spiegare gli altri due. Nel caso del passo (2) non c'è molto da dire: una volta compiuta la traduzione in notazione canonica, la risposta all'inter­ rogativo circa gli impegni ontologici di una teoria ci è fornita dalla de­ finizione di impegno ontologico di Quine che abbiamo già incontrato nel PAR. 1.1: (OC) S e u n enunciato E del linguaggio del primo ordine (chiamato anche da Quine "notazione canonica " ) implica un enunciato della forma 3xFx, al­ lora E implica che ci sono delle cose di tipo F (ed è quindi antologicamente impegnato alle cose di tipo F). n punto (3) richiede qualche precisazione in più: in che senso gli impe­ gni ontologici delle nostre migliori teorie scientifiche dovrebbero essere accettati? La risposta è che (3) è una conseguenza della tesi filosofica chiamata da Quine 'naturalismo' 3\ ovvero:

N aturalismo: l'abbandono dell'obbiettivo della filosofia prima. Esso vede la scienza come una ricerca riguardo la realtà, fallibile e correggibile, ma che non risponde ad alcun tribunale sopra scientifico, e che non ha bisogno di alcuna giustificazione al di là dell'osservazione e del metodo ipotetico-deduttivo (Qui­ ne, 1981C, p. 72) . Naturalismo: il riconoscimento che è all'interno della scienza stessa, e non in qualche filosofia, che la realtà deve essere caratterizzata e descritta (ivi, p. 21).

La concezione dei rapporti tra filosofia e scienza, secondo i fautori del­ la "filosofia prima" (il riferimento è alle Meditazioni Meta/z"siche o Medi­ tazioni sulla filosofia prima di Cartesio) , può essere riassunta così: alla fi­ losofia spetta il compito di passare al vaglio del dubbio radicale tutte quelle convinzioni che nella pratica scientifica vengono adottate senza 31. Esistono modi diversi di concepire il naturalismo. Per esempio Colyvan (2001) chiama "naturalismo " la tesi secondo cui andrebbero accettati solo gli impegni ontologi­ ci dell e nostre migliori teorie scientifiche; "olismo della conferma" sarebbe invece il no­ me della dottrina che implica, tra le altre cose, di accettare tutti gli impegni ontologici del­ le nostre migliori teorie scientifiche.

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INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

sentire il bisogno di giustificarle. Nessuno scienziato si propone di di­ mostrare, nel corso dei suoi esperimenti, che esiste davvero un mondo esterno indipendente dalle nostre attività mentali, o che l'esistenza altro non è che un grande sogno: questo viene semplicemente assunto (acriti­ camente, secondo il filosofo primo) . La filosofia si presenterebbe dun­ que come un tribunale dove giudicare la validità o meno delle opinioni correnti, teorie scientifiche comprese, per scoprire se quello che è nor­ malmente creduto è davvero "fondato" o meno, ovvero se esiste una giu­ stificazione definitiva delle nostre credenze, in grado di rispondere an­ che al più iperbolico dei dubbi. n filosofo naturalista rifiuta questa di­ stinzione di ruoli e considera la scienza come l'insieme dei nostri più riu­ sciti tentativi di conoscere il mondo, e i suoi metodi come i migliori di­ sponibili. Si può criticare una teoria scientifica applicando questi meto­ di interni, ma non si può pensare che le argomentazioni filosofiche sia­ no sufficienti a dimostrare che qualcosa che è giustificato secondo gli standard scientifici non è realmente giustificato. È questo tipo di critica esterna che il naturalismo rifiuta. Lo spirito del naturalismo di Quine è ben rappresentato nella citazione di David Lewis riportata nel paragrafo precedente: un filosofo naturalista preferisce dubitare di un argomento filosofico che abbia la pretesa di mettere in discussione un risultato scientifico, piuttosto che dubitare del risultato scientifico in questione. r . 8 . r . L'ARGOMENTO DI QUINE

Applicando questa strategia generale al caso dei numeri 32, Quine è in grado di argomentare a favore dell'esistenza dei numeri considerando il problema di come tradurre in notazione canonica enunciati del tipo: (S) Il diametro della Terra è lungo Io . ooo km.

Enunciati del genere ovviamente abbondano in ogni teoria scientifica. n problema è che il modo più naturale di parafrasarli, secondo Quine, ci costringe ad impegnarci antologicamente all'esistenza dei numeri. L'idea di Quine ( r 9 6o , trad . it . p . 242) è che invece di tradurre 'Manhattan è lunga n miglia' come 'n miglia = la lunghezza di Manhat­ tan' sarebbe meglio adottare come parafrasi 'n = la lunghezza in miglia di Manhattan' 33. 32. La ricostruzione segue le linee di Liggins (2oo8, p. n7) . 33· TI vantaggio di questo approccio è che invece di aver a che fare con entità come 'n miglia' o 'wo grammi' ecc . , ovvero numeri con unità di misura, ci si limita ai numeri puri (cfr. Burgess, Rosen, 1997, pp. 77-9).

I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

(S) andrà quindi tradotto con: (TS) ro.ooo è la lunghezza in km del diametro della Terra.

Che (TS) sia antologicamente impegnato ai numeri si vede dal fatto che implica: (TS2) 3x3y(x = ro.ooo & y = il diametro della Terra & x = la lunghezza in km di y ).

TS si impegna quindi all'esistenza dei numeri: questo segue o diretta­ mente dal fatto che TS è antologicamente impegnato all'entità partico­ lare n (cfr. PAR. r .1) e dalla constatazione che 1o.ooo è un numero, o dal fatto che da 3x(x = n) e da Nn segue 3xNx, il che basta (in base a OC) a concludere che TS è impegnata antologicamente ai numeri. Dato che pa­ rafrasi alternative di TS non sono a suo avviso disponibili (nonostante lui stesso ne avesse cercate: cfr. Goodman, Quine, 1947 ) , Quine ne con­ clude che abbiamo ragioni scientifiche per credere a TS, avendo ragioni scientifiche per credere a T; ma dal momento che per essere vera TS ri­ chiede che i numeri esistano, questo comporta che abbiamo ragioni scientifiche per credere all'esistenza dei numeri. Questo è, in breve, l'argomento di Quine per il platonismo come è presentato nei suoi scritti. Esistono tuttavia altri argomenti, che ad esso si sono ispirati in modo più o meno diretto. Dal momento che sono que­ sti ultimi a dominare la scena contemporanea, è giunto il momento di ri­ volgere ad essi la nostra attenzione. r . 8 .2. L'ARGOMENTO DI INDISPENSABILITÀ 34

L'argomento che è stato più utilizzato per sostenere l'esistenza delle en­ tità matematiche è conosciuto sotto il nome di argomento di indispen­ sabilità (Indispensabzlity Argument) di Quine-Putnam. n punto di partenza è la constatazione di come nel linguaggio delle nostre migliori teorie scientifiche (in particolare le parti più avanzate del­ la fisica contemporanea) vengano continuamente utilizzate espressioni che denotano oggetti matematici o quantificano su di essi. Putnam (19 7 1, p. 3 7 ) cita la legge di gravitazione universale di New­ ton , ovvero l'equazione che stabilisce il valore della forza con cui due corpi si attraggono:

34· Per una discussione approfondita di questo tema il riferimento obbligato è Pan­ za, Sereni ( 2oro, cap. III) .

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INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

Dove g è la costante di gravitazione universale, Ma ed Mb sono le masse di due corpi espresse in grammi e d è la distanza tra i due corpi. Formulata in questo modo (e non si vede in quale altro modo sarebbe possibile for­ mularla esattamente) la legge di Newton esprime una relazione tra gran­ dezze fisiche espresse in numeri reali e, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, questo comporta, attraverso una parafrasi ragionevole, un impegno antologico nei confronti dei numeri reali. Oppure si consideri questo modo di definire la funzione di campo elettromagnetico (Field, 1989, pp. 16-7 ) : «c'è una funzione bilineare differenziabile, la funzione del campo elettromagnetico, che assegna un numero ad ogni tripla compo­ sta da un punto dello spazio tempo e due vettori situati in quel punto , e tale funzione obbedisce alle equazioni di Maxwell e alla forza di Lo­ rentz». Anche in questo caso, nel chiarire un concetto fisico (il campo elettromagnetico) stiamo quantificando su (e quindi impegnandoci all'e­ sistenza di) funzioni e numeri. L'idea è quindi che persino un empirista (ovvero qualcuno per cui lo scopo della scienza è solamente quello di ren­ dere conto della nostra esperienza sensibile) dovrebbe accettare alcune entità astratte nella sua ontologia. La nostra migliore teoria scientifica glo­ bale comprende infatti certamente la fisica e non si può fare fisica senza impegnarsi antologicamente alle entità matematiche. Nella sua formula­ zione più semplice (Colyvan 2001) l'argomento è questo: ( Pr ) Dovremmo impegnarci antologicamente a tutte e sole le entità in dispen­

sabili per la formulazione delle nostre migliori teorie scientifiche.

( P2 ) Le entità matematiche sono indispensabili alla formulazione delle nostre

(C)

migliori teorie scientifiche 3 5 . Dovremmo impegnarci antologicamente alle entità matematiche.

Prima di discutere quale sia la forza dell'argomento e cercare di chiari­ re il concetto di indispensabilità qui impiegato, è importante notare una caratteristica che dà all'argomento il suo carattere tipicamente moderno (post -quiniano) . Prima di Quine la visione tradizionale 36 era che la ve35· La formulazione classica è di Hilary Putnam (da cui il nome dell'argomento) : x & Py ) )

crea dei problemi, dal momento che richiede che, per ogni numerale, ne esista uno maggiore; qualunque cosa significhi questa relazione applicata ai numerali 50, questo comporta che per ogni numerale esista un numerale diverso da tutti quelli che lo precedono, ovvero che esistano infiniti nu­ merali. Per ragioni già discusse, non è detto che questa condizione sia sod­ disfatta dal mondo fisico. Tuttavia, un'idea presente fin dall'antichità è sta­ ta quella di interpretare l'infinito in termini potenziali: affermare che i nu­ meri primi sono infiniti significa solamente, in questa prospettiva, che è sempre possibile, per ogni numerale scritto, scriverne uno più grande: per esempio, che è sempre possibile, nella notazione a stanghette (1,1 1,1 1 1 ,1 1 1 1 ecc.) continuare la serie con un numerale più lungo dei precedenti. 48. Per i quali rimandiamo il lettore interessato a Burgess, Rosen (1997, parte n). 49 · Rispetto a Burgess (1983) , da cui ho preso ispirazione per l'esposizione della stra­ tegia di Chihara, ho preferito rendere esplicita l'implicazione esistenziale del teorema. 50. Potrebbe significare, per esempio, 'avere una lunghezza maggiore'. 72

I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

Utilizzando gli operatori m odali D (da leggersi come 'è necessario che') e O (da leggersi come 'è possibile che') , il teorema di Euclide viene riscritto come: o'v'x(Nx -- 03y(Ny & y > x & Py) ) n problema principale di questa strategia è capire la nozione di moda­ lità qui impiegata: che cosa significa dire che è sempre possibile scrive­ re un numerale più grande di tutti quelli che abbiamo già scritto? Signi­ fica forse dire che, per quanti numerali scriviamo, esiste sempre un mon­ do possibile dove è stato scritto un numerale più grande di tutti quelli scritti finora, o che esiste un mondo possibile in cui sono stati scritti in­ finiti numerali? Se si accetta di tradurre la modalità in termine di quan­ tificazione sui mondi possibili, dicendo che P è possibile se e solo se c'è un mondo possibile in cui P è vero , si è solo spostato il problema: presa alla lettera, come in Lewis (1986) , una tale affermazione sembra impe­ gnare ad un tipo di entità altrettanto problematiche quanto gli oggetti astratti. L'unica strada praticabile da un nominalista coerente sembra al­ lora quella effettivamente scelta di Chihara: trattare la modalità come una nozione primitiva, non riducibile ad altro. Se la proposta sia accettabile o meno è una questione spinosa, ma di sicuro non incontrerebbe i favori di chi condivide lo scetticismo di Qui­ ne sull'uso di nozione modali, ritenendole irrimediabilmente oscure:

tanto tempo fa, io e Goodman abbiamo ottenuto tutto il possibile nel campo della matematica [. .. ] sulla base di un 'antologia nominalista e senza assumere un universo infinito. Non abbiamo ottenuto abbastanza da essere soddisfatti. Ma non abbiamo considerato nemmeno per un istante l'idea di aggiungere alla lista l'aiuto delle modalità. La cura sarebbe stata di gran lunga peggiore del male (Quine, 198 6, p. 396). 1 . 13

Field: che cosa si prova ad essere un nominalista Mentre per Chihara il problema fondamentale è trovare un'interpreta­ zione dei teoremi matematici tale da renderli veri senza postulare l'esi­ stenza di un dominio di oggetti astratti, per Hartry Field (1980, 1989) si tratta invece di spiegare come la matematica possa rivelarsi utile pur non essendo vera (cfr. per esempio Field, 19 89, p. 58) . La risposta di Field coinvolge due aspetti: per prima cosa, mostrare che le affermazioni del­ la scienza naturale potrebbero essere riformulate senza bisogno di quan­ tificare su oggetti astratti. Questo significa formulare la fisica in modo 73

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

tale che i suoi enunciati risultino veri anche nel caso in cui non esistano né numeri, né funzioni, né insiemi, ossia anche nel caso in cui gli enun­ ciati della fisica standard risultino, se presi alla lettera, falsi 51 • Resta poi da capire perché non sia necessario né utile ricorrere a questa formula­ zione della fisica: capire cioè perché, sebbene una scienza formulata sen­ za riferimento ad oggetti astratti sia possibile, non è tuttavia necessaria e nemmeno conveniente, in modo da giustificare la pratica scientifica cor­ rente, in cui le teorie scientifiche non sono nominalizzate. Per chiarire il primo passo del programma di Field, consideriamo un enunciato come: (P)

La distanza in metri tra Marco e Silvia è maggiore della distanza in metri tra Franco e Laura.

Applicando il metodo di parafrasi presentato al PAR. r . 8 .r , otteniamo qualcosa come: (Pr) 3n3m(n è un numero & n la distanza in metri tra Marco e Silvia & m è un numero & m = la distanza in metri tra Franco e Laura & n > m). =

Stando a questa parafrasi, quando asseriamo (P) stiamo asserendo una re­ lazione tra due numeri reali, quindi tra due oggetti astratti. Questo suona molto strano: sembra che l'interesse di chi pronuncia frasi come (P) o chi si domanda se (P) sia vera sia tutto rivolto a stabilire in quale delle due cop­ pie i membri siano più vicini tra di loro, e sia indirizzato quindi al mondo concreto molto più che a quello astratto. Un modo alternativo di conside­ rare il contenuto di (P) potrebbe essere questo: identifichiamo le persone con i loro baricentri, quindi con punti geometrici x, y, z, w. Introduciamo poi una relazione a tre posti 'tra(x, y, z) ' , da leggersi come 'y fa parte del segmento avente come estremi x e z' e una relazione 'Cong (x, y, z, w) ' da leggersi come 'il segmento avente come estremi x e y è congruente con il segmento avente come estremi z e w' . Indichiamo Marco, Silvia, Franco e Laura rispettivamente con a, b, c, d. Possiamo tradurre (P) con: (P2) C'è un punto x che sta tra a e b tale che Cong (a,

x, c,

d) .

(P2) dice che una sottoparte del segmento che collega Marco e Silvia è congruente al segmento che collega Franco e Laura, il che significa che 51. La precisazione "presi alla lettera" è necessaria, ma non molto importante nel ca­ so di Field, il quale dichiara candidamente di nutrire ben poco interesse nei confronti dei tentativi di reinterpretare la matematica in modo da rendere i suoi enunciati veri, anche se a ben vedere lui stesso fa qualche passo in questa direzione (Field, 1989, Introduzion e).

74

I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

il primo segmento è più lungo, e quindi che la distanza tra Marco e Sil­ via è maggiore di quella tra Franco e Laura. Ossia proprio quello che vo­ levamo esprimere con (P) , senza bisogno di far riferimento ad una mi­ sura della distanza attraverso i numeri reali. Considerare punti, linee e segmenti come entità spaziali e quindi concrete non è forse molto naturale, ma sembra possibile. Per lo meno , sembra molto più facile considerare concreta una linea che l'insieme vuoto . Se accettiamo di considerare gli enti geometrici come enti con­ creti, come Field ci chiede di fare, possiamo dire di aver sostituito, nel passaggio da (P1) a (P2) , un enunciato che quantifica su numeri oltre che su oggetti concreti, ovvero un enunciato platonista o quantitativo , con un enunciato nominalisticamente accettabile, o qualitativo, ossia un enunciato che quantifica unicamente su oggetti concreti e usa predica­ ti che esprimono caratteristiche e relazioni tra oggetti concreti. Hilbert (1900) dopo aver fornito una versione assiomatica della geometria in cui vengono menzionati solo punti, segmenti, angoli e relazioni definite tra queste entità 5\ ha dimostrato un risultato molto importante per la no­ stra discussione: tra numeri reali e punti geometrici esiste un omeo­ morfismo, ovvero una funzione d (per distanza) che associa numeri rea­ li a punti in modo tale che (a)

per ogni punto x, y, z, w: Cong (x, y , z, w ) se e solo se d(x, y)

=

d(z, w)

e (b)

per ogni punto x, y, z, x: tra (x, y , z) se e solo se d(x, y)

+

d(y, z)

=

d(x, z).

Questo significa, secondo Field, che i numeri reali e le relazioni tra di essi sono «controparti astratte» (Field, 1980, p. 27 ) di entità concrete e di relazioni tra di esse. Per Field questa non è l'eccezione, ma la norma, nelle teorie scientifiche: per esempio, Field (1980) si propone di mo­ strare come formulare la termodinamica nei termini di una relazione co­ me 'essere più freddo di' , concepita come relazione qualitativa tra re­ gioni dello spazio, invece che in termini di misure quantitative espresse Questo tipo di geometria è chiamata sintetica, in opposizione alla geometria ana­ che si studia alla superiori, in cui lo studio della geometria passa attraverso lo stu­ dio dell'algebra (per esempio quando si dice che due linee si intersecano se e solo se due equazioni hanno una soluzione in comune) . La geometria sintetica rappresenta un ritor­ no alle origini, nel senso che ai tempi di Euclide il teorema di Pitagora non era percepito come un'affermazione di eguaglianza tra la somma di due numeri elevati al quadrato ed un altro numero elevato al quadrato, bensì come l'equivalenza fisico-geometrica tra l'a­ rea occupata dai quadrati costruiti sui cateti e quello costruito sull'ipotenusa. 52.

litica

75

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

attraverso una qualche scala misurata dai numeri reali (come si fa nor­ malmente parlando di gradi Celsius o Fahrenheit) . Secondo Field que­ sto tipo di sostituzioni sono sempre possibili e quindi tutte le informa­ zioni sul mondo fisico che vogliamo registrare sono esprimibili in un linguaggio qualitativo o nominalista (1980, pp . 2 e ss. ) . Per sostenere questo Field si appoggia ad alcuni risultati raccolti in Field (1980) , in particolare ad un teorema di rappresentazione che dovrebbe provare per lo spazio fisico l'analogo di quanto Hilbert ha provato a proposito dello spazio euclideo. Questo primo passo si chiama nominalizzazione della fisica e spiega secondo Field perché la matematica è dispensabile, ovvero perché se ne potrebbe fare a meno nella nostra impresa scientifica; tuttavia, stabilire che una scienza senza numeri è possibile non spiega ancora come possa funzionare una pratica scientifica, come quella attuale, che senza numeri non è. Come è possibile giustificare l'uso della matematica nella scienza? La risposta di Field, già anticipata , è che la matematica non deve per for­ za essere vera per essere buona (ovvero utile) . L'utilità della matematica sta nel suo facilitare le deduzioni di enunciati nominalisti a partire da al­ tri enunciati nominalisti, unita all'assenza di rischi di un tale utilizzo: se si utilizza una teoria matematica N come strumento per dedurre delle con­ seguenze da una teoria nominalista F, non si deduce nessun enunciato del linguaggio di F che non fosse già derivabile dagli assiomi e regole di in­ ferenza di F. Questa caratteristica è chiamata da Field conservatività ed è essa, non la verità, che distingue la matematica applicabile al mondo fisi­ co, quindi la buona matematica, da quella non buona. Anche questo aspetto del programma di Field può essere chiarito con un esempio geo­ metrico (cfr. Field, 1980, p. 28) . Supponiamo di voler dimostrare che l'i­ potenusa di un certo triangolo rettangolo è più lunga di quella di un al­ tro triangolo rettangolo , i cui lati sono misurati in relazione a un segmento cd: d(a, b) = 4d(c, d) ; d(a1 b1) = 5d(c, d) ecc. Tutte queste affermazioni so­ no esprimibili nella geometria di Hilbert, nella quale è anche possibile stabilire quale delle due ipotenuse sia più lunga; tuttavia, è molto diffici­ le immaginare come costruire una tale dimostrazione; mentre sfruttando il teorema di rappresentazione il problema può essere risolto semplice­ mente applicando il teorema di Pitagora, come sa ogni scolaretto di pri­ ma media. L'uso delle controparti numeriche degli enti geometrici non aumenta quindi le nostre risorse espressive: tutto quello che ci interessa dire sullo spazio può essere detto in modo equivalente senza riferimento ad esse, dato il teorema di rappresentazione. No n aumenta neppure le no­ stre risorse deduttive in modo pericoloso: non è possibile dedurre teore­ mi (nel linguaggio nominalista) che non siano già dimostrabili nella geo­ metria di Hilbert; tuttavia, migliora le nostre capacità deduttive in modo

I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

utile: il passaggio attraverso le controparti astratte consente di dimostra­ re in modo molto più veloce i teoremi che ci interessano, ed è quindi un utile strumento per lo studio del mondo geometrico. L'idea che il programma di nominalizzazione sia applicabile con suc­ cesso a tutte le teorie scientifiche non è certo scontata. Field (1980) si li­ mita a riformulare la teoria della gravitazione newtoniana in un linguag­ gio nominalista, nella convinzione che questo serva come modello a cui ispirarsi per nominalizzare altre teorie, fornendo solo qualche indizio su come estendere il metodo alla fisica relativistica e lasciando come pro­ blema aperto quello di trovare una strategia per la meccanica quantisti­ ca. L'opinione diffusa sembra essere che, almeno nell'ultimo caso, sia ne­ cessario trovare un approccio radicalmente diverso da quello sfruttato da Field (cfr. Burgess, Rosen, 1997, pp. II? e ss. e Field, 1989, p. 65; Balaguer, 1996, ritiene invece che sia possibile estendere l'approccio originario di Field anche a questo campo) . Oltre a questo, qualcuno ha contestato a Field l'uso di entità come punti e regioni spazio-temporali dotate di una struttura tanto complessa quanto quella richiesta per provare il teorema di rappresentazione. Una volta postulata l'esistenza di infiniti punti geo­ metrici nello spazio e di opportune relazioni tra di essi, non sembra poi così difficile trovare nel mondo fisico dei surrogati delle entità astratte che si volevano eliminare. Resta da capire in che senso l'assunzione di queste entità sarebbe meno problematica di quella delle entità astratte (cfr. Re­ snik, 1985) . La risposta di Field (1980, pp. 30 e ss.) consiste nel sottolinea­ re che non è né la quantità né la struttura dei numeri reali a creare pro­ blemi, ma la loro natura causalmente inerte. Una risposta interessante, perché sembra presupporre l'idea che le entità matematiche abbiano una natura ulteriore rispetto alla loro struttura: un'assunzione contestata dal­ la prospettiva strutturalista che incontreremo nel prossimo capitolo. Anche il secondo passo del programma di Field, la dimostrazione della conservatività della matematica, solleva qualche problema. In par­ ticolare, è naturale domandarsi come vada inteso, da parte di un nomi­ nalista, il risultato di Field. Nel formulare il requisito stesso di conser­ vatività, Field menziona infatti teorie, deduzioni, enunciati, e varie altre entità sintattiche. Tutte queste entità, però, sono di solito concepite co­ me modelli astratti di sequenze di segni, dei quali potrebbe non esistere alcuna realizzazione concreta, come types e non come tokens (quando di­ ciamo che i teoremi di una teoria sono infiniti, non ci riferiamo certo ai teoremi che sono stati scritti o proferiti) . Resta allora da trovare un mo­ do di intendere i risultati della teoria della dimostrazione accettabile per il nominalista. Si tratta di un problema molto interessante, sul quale tor­ nerò nel terzo capitolo. Ora, invece, è tempo di considerare il dibattito tra platonismo e nominalismo da una prospettiva diversa. 77

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

1 . 14

Da che parte stare? Dopo questa breve presentazione delle strategie nominaliste, è ora di tornare a porci la domanda di apertura del capitolo: i numeri esistono o no? Se i nominalisti hanno ragione e si può effettivamente fare scienza senza impegnarsi alla loro esistenza, vuol forse dire che i numeri non esi­ stono? E se invece hanno ragione i sostenitori dell'argomento di indi­ spensabilità e questo progetto non è realizzabile, davvero non abbiamo altra scelta che abbracciare il platonismo, se non vogliamo gettare dei dubbi irrazionali sulle nostre migliori teorie scientifiche? Questo è un modo molto diffuso di impostare il dibattito, ma non è l'unico. Per esempio, abbiamo visto che secondo Burgess e Rosen il con­ fronto tra le teorie nominaliste e quelle platoniste deve avvenire tenen­ do conto di tutte le qualità in base a cui una teoria scientifica viene giu­ dicata: eleganza, semplicità, familiarità dei principi, fruttuosità delle conseguenze contano tanto quanto l'economia antologica. E visto che le teorie nominaliste vincono il confronto con quelle tradizionali solo su quest'ultimo piano, mentre vengono nettamente superate per quanto ri­ guarda gli altri aspetti, il fatto di aver reso la matematica dispensabile non basta a sancire la vittoria del nominalismo. L' indispensabilità della matematica non è quindi, secondo questa prospettiva, una condizione necessaria per rendere razionale la posizio­ ne platonista. Secondo qualcuno, tuttavia, non è nemmeno una condizione suffi­ ciente: il fatto che non si possa fare a meno della quantificazione su og­ getti astratti, non significa che sia irrazionale negare l'esistenza di tali og­ getti. Una posizione del genere, per esempio, è quella sostenuta da Stephen Yablo. Secondo Yablo, numeri e altre entità astratte servono es­ senzialmente come strumenti rappresentazionali: parlare, per esempio , di numeri, ci permette di dire qualcosa sul mondo concreto che altri­ menti risulterebbe incredibilmente difficile, se non impossibile, dire. Per esempio, consideriamo, come suggerito da Yablo (2005) , una tribù, agli albori della civiltà, che abbia come principale attività il commercio di pietre preziose. n linguaggio di questa comunità contiene inizialmente solo predicati per oggetti concreti, come 'essere un rubino' o 'essere uno zaffiro' . Per esprimere il fatto che il numero di zaffiri di Thor è 5, 4 ecc. i nostri antenati sfruttano i quantificatori numerici introdotti al PAR. r . n : 30xPx =d/ -3xPx; 3 n+xxPx =df 3y(Py & 3 nx (Px & x ;.t y)).

I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

I nostri antenati sanno qual è una condizione sufficiente perché uno scambio sia equo: sapendo che Thor ha 5 rubini e Gnor ha 5 zaffiri, per esempio, possono concludere che lo scambio tra i due bottini è equo (le gemme hanno infatti tutte lo stesso valore) e lo stesso vale nel caso Thor abbia 4 zaffiri e Gnor 4 rubini ecc. Tuttavia, non è affatto necessario che Thor abbia 5 rubini e Gnor 5 zaffiri perché lo scambio sia equo, e nep­ pure che ne abbiano entrambi 4, 3 ecc., ma che si verifichi almeno uno di questi casi; il che si può esprimere, utilizzando R per 'essere un rubi­ no' e Z per 'essere uno zaffiro' e !imitandoci all'uso dei quantificatori nu­ merici, solo attraverso una disgiunzione infinita: (30 xRx

1\

3o xZx)

V (31 xRx 1\ 31 xZx) V (32 xRx 1\ 32 xZx) V (33 xRx 1\ 33 xZx) ecc.

Questo potrebbe essere stato percepito dai nostri avi come un proble­ ma, perché tanto allora quanto oggi sembra ragionevole richiedere co­ me condizione per la sensatezza di un enunciato che sia di lunghezza fi­ nita (e quindi sia possibile leggerlo tutto) . La soluzione del problema consiste nel fare finta che alcune entità, chiamate numeri, esistano e che ad ogni predicato di oggetti concreti sia associata una di queste entità, secondo una regola schematica e:s)·: va letto come 'si fa finta che S' e #x Fx come 'il numero degli F') : )':#xFx = N* se e solo se 3n xFx; *#xFx ;.t N* se e solo se -3n xFx.

A questo punto è possibile esprimere in modo compiuto quali sono i ca­ si in cui uno scambio è equo: lo scambio di pietre F per le pietre G è equo se e solo se il numero degli F è identico al numero dei G. La cosa interessante, secondo Yablo , è che la regola che governa l'uso dei termi­ ni numerici appena considerata funziona in modo molto simile ad alcu­ ni principi che i bambini adottano nei loro giochi di finzione, come per esempio: 'x è il re della Francia' è vero nella nostra finzione se e solo se x porta un cap­ pello colorato. 'x è morto' è vero nella nostra finzione se e solo se x giace a terra.

Queste regole, chiamate da Walton (1993) principi di generazione, stabi­ liscono un legame tra quello che è vero nella finzione, o nel gioco, o quel­ lo che si/a finta sia vero, e quello che è vero simpliciter: nel caso in que­ stione, se sia vero o meno nella finzione che il re è morto dipende dal rea­ lizzarsi nel mondo reale di un fatto preciso, ossia che la persona che por79

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

ta un cappello colorato in testa giaccia stesa al suolo. La situazione, nel caso dei giochi di finzione, è quindi questa: si fa finta che alcune cose sia­ no vere (per esempio, si fa finta che la Francia sia una monarchia) , an­ che se queste cose vere non sono ; eppure, quello che è vero nella finzio­ ne dipende da quello che è vero nella realtà: per esempio, se il re sia mor­ to nella finzione dipende dalla posizione rispetto al suolo di un certo in­ dividuo in carne ed ossa. Qualcosa di simile avviene anche nel caso del discorso figurativo o metaforico. Interrogati sulla posizione geografica di Crotone, potremmo rispondere dicendo che: (F)

L'Italia è uno stivale e Crotone è sulla pianta dello stivale.

Ovviamente, (F) non è letteralmente vero, visto che l'Italia non è uno sti­ vale; eppure, fingere che l'Italia sia uno stivale può aiutare a comunicare un contenuto vero, ovvero la posizione geografica di una città. Come nel caso precedente, il fatto che (F) sia un enunciato corretto, una volta ac­ cettato di far finta che l'Italia sia uno stivale, dipende da come stanno le cose nel mondo reale, dipende dalla geografia del nostro paese. Questa caratteristica (la dipendenza dalle condizioni del mondo reale) del con­ cetto di "vero nella finzione" di Yablo (e Walton) è molto particolare e merita un commento. Per essere vero nella finzione, un certo enunciato deve essere appropriato in base alle regole della finzione, certo, ma la co­ sa non finisce qui. n contenuto reale di un enunciato figurato non è in­ fatti che l'enunciato è vero nella finzione, ma àò che lo rende vero nella finzione, ovvero la condizione del mondo reale che permette, all'interno della finzione, di asserire l'enunciato. n contenuto della frase 'il re di Francia è morto' , pronunciato all'interno del gioco descritto poco sopra, è che l'individuo con il buffo cappello è steso sul pavimento, non che è corretto dire all'interno del gioco che il re della Francia è morto. Si può esprimere lo stesso punto dicendo che gli enunciati di finzione non han­ no come oggetto del discorso la finzione, ma il mondo reale, di cui si par­ la attraverso la finzione. Nel dire che l'Italia è uno stivale non si parla di metafore, ma si parla di geografia attraverso una metafora; proprio come, quando si parla in italiano di filosofia della matematica, si parla attraver­ so le regole della lingua italiana, ma non delle regole della nostra lingua. Analogamente, il contenuto reale di 2 + 2 = 4 per Yablo non è «secondo la matematica standard, 2 + 2 = 4» (come invece propone, ad un certo pun­ to, Field, 1989, Introduzione) , ma qualcosa come 'se ci sono due cose di tipo A, due cose di tipo B, e tutto ciò che è di tipo A non è di tipo B, al­ lora ci sono quattro cose che sono o di tipo A o di tipo B'. Secondo Yablo (2002, sezione 6) alcune analogie suggeriscono che la matematica funzioni in modo simile al discorso figurativo: grazie alle sue 8o

I.

ONTOLOGIA: I NUMERI ESISTONO?

risorse concettuali riusciamo ad esprimere qualcosa che non sapremmo (o faremmo fatica ad) esprimere altrimenti. Quando i nostri antenati dicono che il numero delle gemme di Gnor è diverso da quello degli zaffiri di Thor, fanno finta che esistano i numeri, e quindi affermano (o presup­ pongono) qualcosa che potrebbe non essere vero (l'esistenza di oggetti astratti) , per essere in grado di dire, in una notazione finita, qualcosa di vero sul mondo concreto (che non ci sono tanti zaffiri quanti rubini) . È interessante confrontare l'approccio di Yablo con quello di Field . Yablo ritiene possibile che i nostri enunciati matematici, presi alla lette­ ra, siano falsi; inoltre, almeno se ci si limita a linguaggi dalle risorse espressive finite, non c'è modo di trovare delle parafrasi vere di questi enunciati; quindi questi enunciati risultano utili, anzi indispensabili, co­ me risorse espressive. Yablo è quindi d 'accordo con Field nel ritenere che la matematica possa essere utile pur non essendo vera . Tuttavia, la spiegazione del perché sia utile è radicalmente diversa: per Yablo (2002, 2005) , gli enunciati matematici, puri o applicati, pur non essendo neces­ sariamente del tutto (o letteralmente) veri, sono tuttavia parzialmente (o metaforicamente) veri 53 • Questo significa che il riferimento alla verità è pur sempre centrale per la teoria di Yablo, a differenza di quanto acca­ de con quella di Field (cfr. però Yablo 2005, nota n, per qualche com­ plicazione) .

5 3 · Nel senso che il loro contenuto reale è vero, o che una parte del loro contenuto letterale è vero.

81

2

Metafisica: che cosa sono i numeri?

È arrivato il momento di affrontare un problema a cui finora ho solo ac­ cennato. Nel primo capitolo ho cercato di chiarire cosa si intende con 'esistere' quando ci si domanda se i numeri esistono o meno . Resta da spiegare, tuttavia, che tipo di cose siano i numeri e altre entità matema­ tiche, altrimenti non sarebbe nemmeno chiaro sull'esistenza di cosa ci stiamo interrogando. Vengono definiti "oggetti astratti" , ma cosa signi­ fica esattamente questo aggettivo? Se la metafisica è l'indagine circa la natura di ciò che esiste, ossia il tentativo di chiarire " che cos'è quello che c'è" , la domanda circa la natura degli oggetti astratti in generale, e di quelli matematici in particolare, è un esempio di domanda metafisica. Qualcuno potrebbe addirittura pensare che la domanda metafisica "che cosa sono i numeri? " abbia la precedenza su quella ontologica ("i numeri esistono? " ) : che senso può avere infatti domandarsi se un certo tipo di cose esiste o meno, quando non si è nemmeno chiarito che cosa sono esattamente le cose in questione? Almeno secondo l'approccio tra­ dizionale, tuttavia, i fatti stanno diversamente: due sostenitori dell'argo­ mento di indispensabilità, per esempio, potrebbero concordare che i nu­ meri esistono e tuttavia essere in disaccordo circa la loro natura, perché, per esempio , li identificano con insiemi diversi. Oppure, uno dei due po­ trebbe limitarsi a prendere posizione circa la questione antologica e ri­ manere neutrale sulla disputa metafisica; o addirittura potrebbe soste­ nere che i numeri esistono, ma sono oggetti concreti (cfr. Maddy, 1990) . Analogamente, ci si può trovare d'accordo circa l'esistenza degli ogget­ ti materiali e discutere però se siano da considerarsi come entità quadri­ dimensionali (che si estendono nel tempo tanto quanto nello spazio e hanno quindi parti tanto temporali quanto spaziali) o come oggetti tri­ dimensionali (che mutano nel tempo) 1•

1. Per una discussione di questi esempi su linee simili a quelle qui presentate, ri­ mando a Varzi (2005, pp. 13-8).

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

Tra problemi metafisici ed ontologici esiste quindi una certa indi­ pendenza, il che non esclude ovviamente la possibilità di interessanti re­ lazioni tra i due campi di indagine. Nel nostro caso d'interesse, per esem­ pio , va notato che il motivo per cui la maggior parte dei nominalisti non accetta l'idea che i numeri esistano ha a che fare con un rifiuto delle en­ tità astratte in generale. Sembrerebbe quindi importante, ai fini stessi del programma nominalista, definire che cosa sia un oggetto astratto. 2.1

L'eredità di F rege Nonostante ci siano dei dubbi sul come definire il concetto di oggetto astratto, l'idea che i numeri (e le altre entità matematiche) siano oggetti astratti si è imposta in filosofia analitica a partire da Frege (r884) 2• In par­ ticolare, ha avuto successo l'insistenza di Frege circa l'importanza di non concepire i numeri come oggetti mentali. Abbiamo già visto al PAR. 1.1 al­ cune ragioni per dubitare dell'idea che oggetti come Pegaso esistano, ma 'nel pensiero' , ossia come rappresentazioni mentali. Se i numeri fossero oggetti di questo tipo, non avrebbe senso, per le ragioni viste, sostenere che i numeri esistono nel pensiero, come rappresentazioni mentali. Que­ sto tuttavia non basta ad escludere la possibilità che i numeri siano og­ getti di un altro tipo, oggetti mentali come idee ed emozioni, i quali, al­ meno in un certo senso, si può dire esistano nel pensiero. Perché, dun­ que, non considerare i numeri come idee di un qualche tipo? Una delle considerazioni di Frege già anticipata è che le idee sono sempre idee di qualcuno, mentre i numeri sono gli stessi per tutti. Questo si riflette nel contrasto tra l'uso dell'articolo determinativo senza aggettivi per i nu­ meri, indicati da termini come 'il numero uno', e l'uso di aggettivi pos­ sessivi quando si vuole riferirsi ad un'idea, come, per esempio, 'la mia idea di libertà' . Se i numeri fossero idee, sostiene Frege, allora dovrebbe esserci un numero due per ogni essere umano: il mio numero due, il tuo, il suo ecc. Intuitivamente, però, di numero due ce n'è uno solo: altri­ menti, cosa ci giustificherebbe a dire che c'è un solo numero pari che sia primo (il numero due, per l'appunto) ? A chi fosse tentato di rispondere a quest'ultima osservazione conce­ pendo il numero due non come un'idea privata di un singolo, ma come un'idea condivisa di una comunità, si può far osservare che i numeri so­ no infiniti, mentre le idee umane, collettive o meno, sembrano essere in numero enorme, ma comunque finito. Dovremmo forse concludere dal 2. Per un'utile esposizione di alcuni argomenti di Frege, cfr. Burgess (2004, primo saggio).

2. METAFISICA: CHE COSA SONO I NUMERI ?

fatto che i numeri sono idee che non esistono infiniti numeri primi? 3 Analogamente, sembra difficile attribuire all'esistenza dei numeri delle qualifiche temporali: quando, esattamente, avrebbe iniziato ad esistere il numero due? O ci si rifiuta di rispondere alla domanda, proprio per­ ché non ha senso cercare di datare la nascita di un numero, o si è tenta­ ti di rispondere che il numero due esiste da sempre e per sempre. In ogni caso, nulla di tutto ciò sembra valere per le idee umane: certamente al tempo dei dinosauri non esistevano ancora idee umane, dal momento che non esistevano uomini. Al tempo dei dinosauri non esistevano idee umane, collettive o me­ no, mentre esistevano i numeri, per esempio il numero dei dinosauri; ha senso chiedersi quando è comparsa per la prima volta nella storia la no­ zione o il concetto di numero, mentre non ha senso cercare di datare la comparsa dei numeri. Tutto questo sembra indicare che i numeri non so­ no idee. Considerazioni analoghe a queste possono essere sfruttate per argomentare che i numeri non sono entità fisiche. Che quanto abbiamo detto a proposito del tempo valga anche per lo spazio non è del tutto pa­ cifico: l'idea che il numero due esista dovunque esiste una coppia non sembra altrettanto assurda quanto quella di assegnargli un'origine tem­ porale. In ogni caso, resta il secondo tipo di problema: gli oggetti fisici esistenti nel mondo potrebbero non essere infiniti come i numeri, il che sembra rendere difficile l'idea di identificare i numeri con oggetti fisici attualmente esistenti 4• Da questo tipo di considerazioni è nata l'idea che i numeri non siano né entità fisiche, né entità mentali. Da qui, l'etichetta di oggetti astratti. Da un'etichetta ad un concetto ben definito, però, la strada è ancora lunga. 3· A voler esser pignoli, dal fatto che i numeri siano infiniti e le idee no, segue "sola­ mente" che alcuni (infiniti) numeri non sono idee; ma è chiaro che se qualche numero non è un'idea, nessun numero lo è. 4· Ovviamente questo lascia aperta la possibilità di identificare i numeri e altre entità astratte con oggetti fisici possibili, come nelle teorie nominaliste di Chihara (cfr. PAR. 1.12) e Hellman (cfr. PAR. 3.3). Va notato che Frege (1884, § 38) in qualche passo sembra suggeri­ re un argomento contro l'identificazione dei numeri con oggetti fisici parallelo a quello usa­ to a proposito degli oggetti mentali: come non ha senso identificare il numero uno con un'i­ dea, perché altrimenti dovremmo parlare del mio, tuo, suo numero uno, così non ha sen­ so identificare il numero uno con un'unità, cioè una cosa, perché allora dovremmo parla­ re di questo e quest1altro numero uno, proprio come parliamo di questa e quest'altra cosa. Ammesso che l'argomento stabilisca qualcosa, non dimostra che un numero non abbia una locazione spaziale: per esempio, Frege identifica il numero due con l'insieme di tutte le coppie, e non è assurdo pensare che l'insieme di tutte le coppie si trovi in tutti i luoghi oc­ cupati da una coppia (una coppia, a sua volta, occupa tutti i luoghi in cui si trova un mem­ bro della coppia, come un bikini occupa tutto lo spazio occupato da uno dei due pezzi che lo compongono) . Su quest'ultimo punto, cfr. il PAR. 2.2.

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

2.2

Quattro vie La discussione più articolata circa il problema di come definire gli og­ getti astratti resta quella condotta da David Lewis in un'appendice ad On the Plurality o/Worlds (Lewis, 1986, pp . 8r-6) . Secondo Lewis, le stra­ tegie utilizzate dai filosofi analitici per distinguere gli oggetti astratti da quelli concreti possono essere ricondotte a quattro "vie" principali. La prima via è semplicemente quella dell'esempio, secondo cui la distinzio­ ne tra enti concreti e astratti viene tracciata elencando casi paradigmati­ ci di oggetti che rientrano nelle due categorie. Lewis si limita a porre i numeri dal lato degli oggetti astratti e scimmie, protoni, stelle e budini dal lato di quelli concreti; una tabella un po' più comprensiva può rias­ sumere quest'aspetto (cfr. Rosen, 2009). TABELLA I Concreto

Astratto

Scimmie, protoni, stelle, budini

Numeri, insiemi, funzioni

La mia copia di Orgoglio e Pregiudizio

Universali e tropi

Questa concreta iscrizione (token ) della lettera "a": a

I romanzi di J an e Austen Forme geometriche

Un proferimento concreto dell'enunciato: 'Maria è bionda'

Proposizioni Sistemi formali So/twares per computer( ? )

Casi famosi i n cui l a distinzione tra oggetti concreti e astratti viene chia­ mata in causa sono la distinzione condotta in linguistica e filosofia del linguaggio tra entità linguistiche concepite come types (forme o modelli astratti) e tokens (realizzazioni materiali, fatte di inchiostro, gesso, onde sonore) . La differenza può essere apprezzata notando che nelle p rossi­ me righe compaiono tre tokens dello stesso type: gatto gatto gatto 86

2. METAFISICA: CHE COSA SONO I NUMERI ?

Solitamente si pensa alle parole come types, visto che il modo più natu­ rale di descrivere quanto compare nelle righe precedenti è dire che la stessa parola è stata scritta tre volte, mentre suonerebbe un po' strano di­ re che ci sono tre parole con la stessa forma. Allo stesso modo , quando diciamo che Jan e Austen ha scritto sei romanzi, non ci stiamo riferendo alle copie cartacee dei romanzi, le quali sono ben di più (per riprendere l'esempio di Burgess, Rosen, 1997, p. 4) . Infine, se Mario pronuncia la frase 'Jane ama Tarzan' , mentre Giulio dice 'Tarzan è amato da Jane' e John invece 'Jane loves Tarzan' , c'è un senso in cui tutti e tre hanno det­ to la stessa cosa : questa cosa sembra non essere nulla di materiale, visto che i suoni emessi sono diversi nei tre casi; sembra essere il contenuto di questi enunciati, un'entità non linguistica chiamata anche proposizione (proposition) . Altri esempi di oggetti classicamente, ma non universal­ mente, ritenuti astratti sono proprietà universali come 'l'esser saggi' e proprietà particolari, dette anche tropi, come 'la saggezza di Mario'. n problema della via dell'esempio è che le differenze tra i numeri e i protoni sono molte e non ci viene detto quali siano quelle rilevanti per decidere in quale categoria collocare un oggetto. Come scegliere quan­ do le entità in questione sono le regioni spazio-temporali (magari com­ poste unicamente di vuoto) o addirittura l'universo nella sua interezza? La via della negazione tenta di rimediare a questo problema, cogliendo nell'assenza di certe caratteristiche tipiche degli oggetti materiali il trat­ to distintivo delle entità astratte: mentre ha senso chiedersi, dell'autore di questo libro, quando sia comparso sulla faccia della terra e dove fos­ se alle 12: 58 dell'n febbraio 2010 (nella biblioteca del Dipartimento di fi­ losofia di Padova) , non avrebbe senso fare altrettanto con il numero tre. Inoltre, mentre ad una scimmia si può dare un pugno e riceverne molti in risposta, la stessa cosa non accade con i numeri, ai quali non si può far nulla e dai quali non si deve temere nessun danno. C'è un punto ancora più generale: non solo i numeri non possono essere visti o percepiti da­ gli esseri umani - questo vale anche per particelle come gli elettroni ma, a differenza degli elettroni, i numeri non sono neppure in grado di produrre degli effetti sul mondo fisico, di lasciare una traccia della loro esistenza. n tutto viene di solito riassunto dicendo che numeri ed altre entità astratte, a differenza di oggetti concreti come le scimmie e i filo­ sofi della matematica, mancano di una collocazione spazio-temporale 5 e sono casualmente inerti (non possono né agire causalmente su qualcosa, né subirne l'azione) . 5. L'alternativa, nel caso del tempo, è dire che i numeri sono eterni, ovvero esistono da sempre e per sempre. Nel caso dello spazio è molto più raro sostenere che i numeri so­ no ovunque e in generale è raro sostenere che abbiano una qualsiasi locazione; tuttavia

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

La via della negazione è stata molto popolare a partire dai tempi di Frege (1884) e si adatta molto bene al caso dei numeri ed insiemi di nu­ meri; in altri casi, tuttavia, non funziona altrettanto bene. Per prima co­ sa, il criterio della mancanza di collocazione spazio-temporale non sem­ bra adattarsi altrettanto bene a tutti i casi di oggetti astratti. Consideria­ mo per esempio l'insieme delle copie di On the Plurality o/ Worlds: suo­ na abbastanza plausibile dire che questo insieme ha una collocazione spa­ zio-temporale, anche se sparsa; occupa tutte le regioni in cui c'è una co­ pia del libro ed è quindi un po' a Padova e un po' a Boston, un po' a Sid­ ney ed un po' ad Oxford 6. Come non bastasse, per qualcuno anche i gio­ chi, intesi come insiemi di regole e di ruoli, sono oggetti astratti: sembra naturale però datarne l'origine e darle una collocazione geografica, come fa ogni buono storico dei giochi. Le cose non vanno molto bene nemme­ no con il criterio dell'inerzia causale: di solito la relazione di essere una causa di vige tra eventi, nel senso che è un evento a causarne un altro. Per prima cosa, c'è chi, come Lewis stesso, ama definire gli eventi come in­ siemi di regioni spazio-temporali (dove gli eventi avvengono) . Inoltre, supponiamo di voler estendere la nozione di causa ad un oggetto, dicen­ do che un oggetto è causa di un evento se partecipa ad uno degli eventi che ne sono causa: dato che il mio comprendere il teorema di Pitagora da bambino è stato causa della mia promozione in quarta elementare e dato che il teorema di Pitagora sembra partecipare all'evento in cui consiste il mio comprendere tale teorema, sembra che il teorema di Pitagora dopo tutto abbia una qualche influenza causale (sulla mia promozione) . Secondo la via dell'assimilazione (con/lation) invece, la distinzione tra concreto e astratto non è altro che la distinzione tra individui e uni­ versali, o individui e proprietà, o tra particolari ed universali. A parte il fatto che non è scontato che i numeri siano insiemi, né che siano uni­ versali, non è detto che tutti gli universali debbano essere ritenuti astrat­ ti: perché non identificare la proprietà di essere rosso con le regioni spa­ zio-temporali occupate da tutte e sole le cose rosse? La via dell'astrazione, infine, sostiene che l'oggetto astratto è quello che si ottiene quando da un oggetto concreto vengono tralasciate tutte le sue caratteristiche tranne una, la quale viene quindi astratta da esso. La buona volontà in generale, o la buona volontà di Matteo in particolare, è quello che si ottiene sottraendo da Matteo tutto quello che lo distingue dagli uomini e donne di buona volontà, o in alternativa considerando unianche qui non mancano le eccezioni: cfr. per esempio Maddy (1990) e Lewis stesso nel passo in questione. 6. Se vi preoccupa l'idea di un oggetto sparso nello spazio, pensate ad un piatto rot­ to o ad un mazzo di poker sparpagliato su di un tavolo (cfr. Goodman, Quine, 1947) .

88

2. METAFISICA: CHE COSA SONO I NUMERI ?

camente una delle sue caratteristiche 7• n problema in questo caso è capi­ re esattamente come funzioni il processo di astrazione a cui si fa riferi­ mento. La difficoltà è riuscire a concepire astrazioni in grado di genera­ re entità come i numeri, gli insiemi, le forme geometriche, ma non entità come la posizione spazio-temporale (concreta, almeno stando alla via del­ la negazione) , la quale sembrerebbe pur sempre una caratteristica di un oggetto che è possibile astrarre da tutto il resto; secondo i fautori della via dell'assimilazione, poi, bisogna trovare un modo per distinguere tra le astrazioni buone, che producono proprietà come la saggezza e quelle cat­ tive, che si limitano a estrarre da un individuo caratteristiche totalmente accidentali come il cognome o l'indirizzo. Torneremo ad occuparci della via dell'astrazione, in una nuova ed interessante variante, nel PAR. 2 . 5 ; pri­ ma, però, è bene affrontare un'altra questione. 2. 3

Numeri e insiemi Prima di considerare i tentativi recenti di riscattare la via dell'astrazione, vale la pena di soffermarsi su un problema, che, sebbene diverso da quel­ li posti fin qui, merita comunque il titolo di "problema metafisica" . n problema ha a che fare con la natura degli insiemi ed è rilevante per le questioni fino ad ora poste ( '' che cosa sono i numeri? " " che cos'è un og­ getto astratto? " ) per almeno due ragioni: per prima cosa, è possibile iden­ tificare i numeri con un certo tipo di insiemi (con troppi, come vedremo) , per cui si potrebbe pensare ( e si è pensato) che i numeri siano insiemi; in secondo luogo, la teoria degli insiemi è stata considerata da alcuni come il modo astratto di concepire la relazione tra gli elementi di un tutto e il tutto stesso, mentre la mereologia sarebbe stata la teoria "concreta" de­ gli aggregati: Nelson Goodman riteneva che un confronto tra le due teo­ rie potesse quindi gettare luce sulla distinzione astratto/concreto di cui ci stiamo occupando (anche se oggi in pochi accetterebbero questa tesi, per ragioni che vedremo) . Inoltre, un breve détour insiemistico servirà ad ac­ cumulare alcuni risultati a cui farò spesso riferimento in seguito 8•

7· Lewis glossa la cosa dicendo che una descrizione incompleta di un individuo con­ creto può essere una descrizione completa di un individuo astratto: se dico di un trian­ golo rettangolo concreto che ha 90 ° , questo non esaurisce tutto quello che si può dire su di esso; del triangolo rettangolo in generale, invece, si può e si deve dire solamente che ha 90 Tuttavia, il parlare di ''oggetti incompleti " non mi sembra una scelta molto felice, per ragioni chiarite nel PAR. 2 . 5. 8. La presentazione della teoria degli insiemi fornita nel prossimo paragrafo è in­ completa sotto moltissimi aspetti. Per chi volesse farsi un'idea più precisa a riguardo si o.

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

2. 3 . 1 .

CHE COS ' È UN INSIEME?

«Un insieme», si dice di solito, «è una collezione di oggetti qualsiasi, a sua volta concepita come un oggetto» (Casalegno, Mariani, 2004, p. 17) . Ci si può legittimamente domandare se questa spiegazione chiarisca o meno qualcosa. In realtà ci sono due elementi importanti: per prima cosa, il fat­ to che si possano formare insiemi a partire da oggetti qualsiasi - e in nu­ mero qualsiasi; e in secondo luogo, l'idea che un insieme sia un oggetto ulteriore rispetto a ciò che raccoglie, qualcosa in più rispetto ai suoi ele­ menti: la relazione tra il contenitore e i contenuti, ossia tra l'insieme e cia­ scuno dei suoi elementi, è la relazione di appartenenza, indicata dal sim­ bolo ' l', e viene concepita come una relazione tra due oggetti. Nelle pa­ role del fondatore della teoria degli insiemi, Georg Cantor, un insieme è «un molti (una molteplicità) , pensato come un uno (una unità)» ( Cantor, 1932, p. 282) , dove però il rapporto tra la molteplicità e l'unità è quello tra vari " elementi" e un unico "contenitore" , a cui gli elementi "apparten­ gono " . Un insieme viene quindi distinto dai suoi elementi, come appare evidente nel caso dell'insieme vuoto, dove non esistono i contenuti, ma esiste il contenitore 9• Un insieme tuttavia, è, in un certo senso, definito dai suoi elementi. L'assioma di estensionalità afferma infatti che non pos­ sono esistere insiemi diversi aventi gli stessi elementi: VxVy [x

=

y � Vz(z E x � z E y)] .

Questa è sempre stata considerata una caratteristica essenziale degli in­ siemi: se ci trovassimo di fronte a qualcuno che nega l'assioma, la rea­ zione più naturale sarebbe pensare che questa persona intenda con "in­ sieme" qualcosa di diverso da quello che intendiamo noi. Un'idea che pareva abbastanza naturale era di continuare a procedere in questo mo­ do, aggiungendo man mano nuovi assiomi in grado di catturare il con­ tenuto intuitivo della nozione di "insieme" . Sembrava inoltre che non servisse spingersi molto lontano: per ottenere la teoria ingenua degli in­ siemi basta infatti aggiungere un solo altro assioma a quello di estensio­ nalità, il cosiddetto principio di comprensione (astrazione) illimitata : il contenuto dell'assioma 1 0 è che, data una qualsiasi proprietà, esiste un inconsigliano Moriconi (2003) come introduzione e Casalegno, Mariani (2004) per un pri­ mo approfondimento. 9· Odifreddi (1999, p. 175) illustra la situazione con la differenza tra non avere alcun conto in banca e averne uno vuoto (su cui si pagano le spese di mantenimento) . IO. Questa (naturale) formulazione dell'assioma richiede la logica del secondo ordi­ ne (cfr. il CAP. 3). Volendo restare al primo ordine, si può dire che ad ogni condizione espri-

2. METAFISICA: CHE COSA SONO I NUMERI ?

sieme contenente tutte le cose che godono di tale proprietà (ed unica­ mente quelle) . Indichiamo con { x l - - - x- - - - } l'insieme determinato da una certa proprietà: per definizione, vale che per ogni x, (D)

x

E

{ x l - - - x- - - - } se e solo se - - -x- - - .

principio di astrazione illimitata garantisce che esista un insieme del genere per ogni proprietà - --x- - - . L'assioma sembra permetterei di espri­ mere un fatto fondamentale riguardante gli insiemi. Per ogni proprietà infatti, il mondo si divide in due tipi di cose: quelle che godono di quel­ la proprietà e quelle che non ne godono. Perché dunque non identifica­ re i due tip i di cose con due rispettivi insiemi n? Inoltre, l'assioma di com­ prensione ha molte felici conseguenze. La sua adozione permette infatti di dimostrare molte cose intuitivamente corrette circa l'universo insie­ mistico: per esempio, considerando la proprietà 'essere diversi da se stes­ si' e applicando l'assioma, si dimostra che esiste un insieme vuoto, ov­ vero un insieme privo di elementi. Inoltre si può dimostrare che: dati due individui qualunque, a e b, esiste un insieme composto unicamente da quegli elementi, { a, b } (si tratta infatti dell'insieme a cui appartengono tutte le cose che hanno la proprietà di essere identiche ad a o di essere identiche a b) ; che è sempre possibile riunire tutti gli elementi di due in­ siemi a e b in un unico insieme, detto la loro unione, e gli elementi co­ muni ai due insiemi (quelli che appartengono ad entrambi) nell'insieme intersezione; infine, tramite i due assiomi si può dimostrare non solo l'e­ sistenza di infiniti insiemi, ma anche l'esistenza di un insieme infinito (un insieme con infiniti elementi) . Grazie al principio di comprensione illimitata si può quindi dimo­ strare molto; il problema, tuttavia, è che si può dimostrare troppo. Già il fatto che si possa dimostrare l'esistenza di un insieme universale, ovve­ ro un insieme che contiene tutto, dovrebbe mettere in guardia. L'esi­ stenza di un insieme del genere è certamente una conseguenza del prin­ cipio di astrazione illimitata, visto che l'insieme universale V può essere identificato con { x l x = x } ; dal fatto che V = V segue però che V E { x l x = x } e quindi che VEV. L'insieme universale, infatti, contenendo tutto contiene anche se stesso; l'idea di un contenitore che contiene se stesso , tuttavia, ha qualcosa di sospetto: se la formazione di un insieme a parti­ re dai suoi elementi è pensata come il prodotto del raggruppare alcune n

rnibile nel linguaggio della logica del primo ordine, ovvero per ogni formula (x) con x unica variabile libera, esiste un insieme contenente tutti e soli gli individui che soddisfa­ no tale condizione. n. Riprendo qui Boolos (1971, p. 216) . 91

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

cose, del lanciare un lazo 12 intorno ad esse, viene naturale pensare che le cose in questione (gli elementi dell'insieme) esistano in un certo senso già prima dell'insieme stesso, prima che vengano messe assieme; mentre nel caso di un insieme che contiene se stesso questo ovviamente non va­ le (uno degli elementi dell'insieme non può esistere prima dell'insieme stesso, visto che è l'insieme stesso) . In ogni caso, è una mossa abbastan­ za naturale considerare l'insieme universale e gli altri insiemi che con­ tengono se stessi come l'eccezione piuttosto che la regola, per cui gli in­ siemi che non contengono se stessi vengono definiti insiemi normali. Per rifiutare la teoria ingenua degli insiemi, non è comunque neces­ sario condividere la sensazione che nell'idea di un insieme che contiene se stesso si annidi una sorta di circolarità viziosa. La teoria ha infatti un problema ben più serio: è contraddittoria, e, almeno se si rimane all'in­ terno della logica classica, all'interno di una teoria contraddittoria si può dimostrare qualsiasi enunciato formulabile nel linguaggio della teoria (la teoria diviene, in termini tecnici, triviale 13) . Per derivare una contraddi­ zione dal principio di comprensione illimitata, è sufficiente considerare l'insieme di tutti gli insiemi normali. L'insieme in questione è xl x $:. x, in­ dicato di solito con R. In base a (D) vale che per ogni x: x E R � x f/:. x.

Considerando il problema se R appartenga a se stesso o meno , la rispo­ sta è che: R E R � R f/:. R,

ovvero, R è membro di se stesso se e solo se non lo è. Questo è il famoso paradosso di Russe!!, sul quale vale la pena fare una riflessione. In una ver­ sione divulgativa del paradosso, si racconta la storia di un barbiere il qua­ le rade qualsiasi essere umano non si rada da solo ed unicamente quelli; ci si domanda poi se il barbiere rada o meno se stesso e si constata che ogni risposta alla domanda sarebbe contraddittoria, proprio come prima. In realtà, come ha fatto notare Raymond Smullyan ( 1998, p. 166 ) , se il pa­ radosso di Russell consistesse in questo, la soluzione sarebbe molto sem­ plice. Un barbiere come quello che Russell ci chiede di immaginare sem­ plicemente non può esistere, proprio perché se esistesse avrebbe caratte-

12. L'immagine è di Saul Kripke (cfr. Boolos, 1971). 13. Esistono logiche non standard in cui si contempla la possibilità di teorie con­ traddittorie e non banali, le cosiddette logiche paraconsistenti, su cui si veda Berto (2oo6) . 92

2. METAFISICA: CHE COSA SONO I NUMERI ?

ristiche contraddittorie, come nel caso di un barbiere alto più di 1,8o m e meno di 1,50 m. Si può infatti dimostrare, con un ragionamento del tutto analogo a quello sfruttato nel paradosso di Russell, che, per ogni relazio­ ne R, non esiste un individuo che sta nella relazione R con tutti e soli gli individui che non stanno in tale relazione con se stessi: -3x'Vy(Rxy

++

-Ryy) .

Questo teorema è appropriatamente chiamato teorema di Russel! e ci di­ ce che non esiste un barbiere che rade tutti quelli che non si radono da sé e solo quelli, un insegnante in grado di insegnare a tutti e soli i non autodidatti, una persona in grado di amare chiunque non ama se stes­ so . . . e nessun insieme che contiene tutti e soli gli insiemi normali. Tutta­ via, mentre non c'è nessun problema a negare che esistano barbieri e in­ segnanti del genere, visto che non abbiamo nessuna ragione per credere che le cose stiano altrimenti, nel caso degli insiemi la situazione è ben più drammatica: l'esistenza di un insieme di tutti gli insiemi normali è ga­ rantita infatti dal principio di comprensione illimitata, un principio la cui validità sembrava scaturire da una delle nostre intuizioni più basila­ ri circa gli insiemi. È per questa ragione che il teorema di Russell porta a conseguenze paradossali quando è applicato al caso degli insiemi (e non in altri casi) : come sua conseguenza, il principio di comprensione il­ limitata va rifiutato e con esso la concezione ingenua degli insiemi su cui si basava. TI problema diventa con cosa sostituirlo. In particolare è na­ turale chiedersi se sia possibile scegliere dei nuovi assiomi per la nostra teoria degli insiemi in modo tale da farli risultare la conseguenza di un'immagine intuitiva della forma dell'universo insiemistico , proprio come accadeva nel caso del principio di comprensione illimitata. La risposta è affermativa, come dimostra Boolos (1971) . Si può infat­ ti costruire una teoria degli insiemi ispirandosi all'idea che gli elementi di ogni insieme devono essere presenti prima che si formi l'insieme stes­ so (secondo l'immagine della 'presa al lazo' ) . Si può dare un'immagine dell'universo insiemistico basato su questa idea facendo corrispondere ad ogni insieme un livello (si può pensarlo come lo stadio della sua for­ mazione, sebbene si tratti di una formazione atemporale) e postulando che ogni insieme si trovi ad un livello successivo a quello a cui si trova­ no i suoi elementi. Si parte quindi dagli individui concreti ( = non insie­ mi) e si formano tutti gli insiemi possibili di questi individui (nel caso non si voglia ammettere l'esistenza di nulla di concreto, si forma un uni­ co insieme, l'insieme vuoto) . Questo è il livello o. Al livello I si formano tutti gli insiemi che si possono formare a partire dagli individui concre­ ti e da tutti gli insiemi formati al livello o. Al livello 2 si fa lo stesso con i 93

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

livelli I, o e gli individui concreti e si va avanti in questo modo ai livelli 3, 4, 5 ecc. Immediatamente dopo tutti questi livelli, viene un livello, chia­ mato Omega, al quale si formano tutti gli insiemi di qualsiasi cosa sia sta­ ta formata ai livelli o, r , 2, 3··· Omega può essere pensato come l'insieme {r, 2, 3, . . }. Aggiungendo a tutti gli individui formati ad Omega un ulte­ riore individuo, cioè proprio l'insieme formato a livello Omega, si ottie­ ne Omega più uno (Omega + I = {I, 2, 3, . . . Omega} ) , continuando così Omega più due. Con un'operazione analoga a quella che ci ha portati dai vari n ad Omega si può passare da Omega più n a Omega più Omega, cioè due volte Omega; quindi a tre volte Omega, quattro volte Omega, Omega volte Omega, ovvero Omega elevato al quadrato. Seguirà Ome­ ga elevato al cubo, al quadruplo, fino ad Omega volte Omega ecc. Ovviamente questa è solo una rozza formulazione informale, ma Boolos ha mostrato come tradurla in una teoria al primo ordine da cui è possibile dedurre tutti gli assiomi della teoria degli insiemi più comune­ mente accettata, ZF 14• Questi assiomi possono essere classificati in tre ti­ pi (cfr. Casalegno, Mariani, 2004, pp. 27-8) . Alcuni assiomi garantiscono l'esistenza di alcuni tipi di insieme, per esempio dell'insieme vuoto o di almeno un insieme infinito (cfr. infra) . Altri permettono di dedurre l'e­ sistenza di certi insiemi a partire da quella di altri: per esempio, in base all'assioma della coppia, dati due insiemi qualsiasi a e b, esiste l'insieme {a, b}; altri esempi sono gli assiomi che garantiscono l'esistenza dell'u­ nione e dell'intersezione di due insiemi e dell'insieme potenza di un da­ to insieme, ovvero l'insieme di tutti i suoi sottoinsiemi. Per finire, rien­ tra in questa categoria il principio di comprensione limitata di cui trat­ terò più sotto. Esistono poi assiomi che specificano alcune proprietà ge­ nerali degli insiemi, come il già incontrato principio di estensionalità e come il cosiddetto assioma di fondazione, il quale rende impossibile l'e­ sistenza di un insieme che appartenga a se stesso o di cicli di insiemi ta­ li che x E y e y E x, o x E y, y E z e z E x ecc., proprio come ci si sareb­ be aspettati basandosi sull'immagine della gerarchia insiemistica abboz­ zata poco sopra. L'interesse del risultato di Boolos sta proprio nell'aver mostrato come la scelta di questi assiomi, la cui consistenza sembra con­ fermata da più di cinquanta anni di pratica, durante i quali non si è ri­ cavata alcuna contraddizione da essi, non è un modo puramente arbi­ trario di risolvere il paradosso di Russell, visto che gli assiomi seguono logicamente dalla formalizzazione della teoria dei livelli insiemistici esposta informalmente poco sopra. Una conseguenza importante, per vari motivi, di quest'immagine è che non esiste un insieme universale. A raggiungere questa conclusione .

14.

Fanno eccezione l'assioma di rimpiazzamento e quello di scelta.

94

2. METAFISICA: CHE COSA SONO I NUMERI ?

basta la considerazione che non esistono insiemi in grado di contenere se stessi: se l'insieme universale esistesse, sarebbe uno di questi, quindi non può esistere. Lo stesso risultato si può raggiungere, all'interno di ZF, attraverso altre vie. Una ha a che vedere con il sostituto, in ZF, del prin­ cipio di comprensione illimitata, ossia la sua versione più debole, detta appunto principio di comprensione limitata o assioma di separazione. In base a questo assioma, non tutte le proprietà determinano un insieme, ma dato un insieme A, ogni proprietà determina l'insieme formato da tutti gli elementi di A con tale proprietà (l'insieme in questione è il sot­ toinsieme di A ottenuto isolando tutti gli elementi di A con la proprietà in questione - da cui il nome di assioma di separazione) . Se esistesse un insieme universale V, tuttavia, esisterebbe un insieme contenente tutti gli insiemi normali appartenenti a V; dal momento che ogni insieme appar­ tiene a V, l'insieme in questione sarebbe l'insieme di tutti gli insiemi nor­ mali, ovvero il contraddittorio R. Dal principio di comprensione limita­ ta segue quindi che non esiste un insieme universale. Allo stesso risulta­ to si può arrivare anche per una terza via: il teorema di Cantar afferma che, per qualsiasi insieme A, l'insieme potenza di A contiene più ele­ menti di A (dove all'espressione ' contenere più elementi di' può essere dato un senso preciso) . Se esistesse, l'insieme universale V conterrebbe quindi meno insiemi del suo insieme potenza P(V) , il che è assurdo , vi­ sto che V avrebbe dovuto contenere tutti gli insiemi. L'idea che non esi­ sta un insieme di tutti gli insiemi può risultare difficile da accettare. n si­ gnificato di un predicato , infatti, viene identificato di solito con l'insie­ me di tutte le cose a cui quel predicato può essere attribuito corretta­ mente: il significato di 'essere un cane' è l'insieme di tutti i cani; ma al­ lora il significato di 'essere un insieme' non dovrebbe essere l'insieme di tutti gli insiemi 1 5? Una possibile risposta è che esiste certamente una col­ lezione di tutti gli insiemi, ma questa non è a sua volta un insieme, ben­ sì una classe. La differenza tra classi ed insiemi viene chiarita dicendo che un insieme è una classe che appartiene ad un'altra classe : tutti gli insie­ mi sono quindi classi, ma non tutte le classi sono insiemi; quando una

15. Una variante di questo argomento si ispira al cosiddetto principio del dominio di Cantor (cfr. Hallett, 1984, p. 7) secondo cui ad ogni infinito potenziale corrisponde un in­ finito attuale. In un'altra variante, il principio implica che l'uso di una variabile v pre­ supponga il campo di variazione della variabile, ovvero l'insieme di tutti i valori che v può assumere: usare una variabile per i numeri naturali presuppone che si sia delimitata l'e­ stensione dei numeri naturali, l'uso di una variabile per gli insiemi presuppone che si sia delimitata l'estensione degli insiemi, ovvero l'insieme degli insiemi o la classe dell e classi. L'argomento di Cantor è stato recentemente ripreso da Graham Priest (cfr. Priest, 1995, pp. 136 e ss.; Berto, 2oo6, pp. 74-5) .

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INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

classe non è un insieme viene detta classe propria ed, in base al parados­ so di Russell, sappiamo che devono esistere delle classi proprie (per esempio, sono classi proprie la classe di tutti gli insiemi che non appar­ tengono a se stessi e la classe di tutti gli insiemi - si tratta per altro della stessa classe, in base all'assioma di fondazione) . Le classi proprie posso­ no essere pensate come collezioni troppo grandi per formare un insie­ me, essendo in corrispondenza I a I tra di loro, e in questo senso rap­ presentando immagini diverse della classe di tutti gli insiemi. n fatto che esista una classe di tutti gli insiemi non comporta che esista una classe di tutte le classi, la quale sarebbe altrettanto contraddittoria che l'insie­ me universale: il principio di comprensione va comunque presentato in forma limitata, in questo caso quella per cui non ogni proprietà deter­ mina una classe, ma solo ogni proprietà di insiemi. La distinzione tra classi ed insiemi non sembra quindi sufficiente a salvare l'intuizione di base della teoria ingenua degli insiemi e non è nemmeno detto che sia necessaria per formulare la teoria degli insiemi non ingenua, come ve­ dremo nel prossimo capitolo discutendo la posizione di Boolos sulla quantificazione plurale. Un punto al quale vale la pena accennare e che sarà ripreso nel pros­ simo capitolo è come sia possibile conoscere le verità insiemistiche. Al­ le origini della teoria degli insiemi, quando l'unico assioma non chiara­ mente logico della teoria era il principio di comprensione illimitata, si pensava che tale principio rappresentasse comunque una verità tanto evidente da meritare di essere considerato una legge del pensiero, quin­ di una legge logica. La situazione della moderna teoria degli insiemi è ben diversa: sia che si consideri la teoria come l'insieme di assiomi da cui solitamente si parte, sia che si cerchi di dedurre questi assiomi dalla teo­ ria degli stadi di Boolos, in ogni caso quello che si ha di fronte sembra la descrizione di un certo universo matematico e quindi una teoria mate­ matica e non una logica: la riduzione dell'aritmetica (e di quasi tutte le teorie esistenti) alla teoria degli insiemi non è quindi considerata una ri­ duzione della matematica alla logica, ma solo una unificazione di varie teorie e dei vari universi matematici che tali teorie studiano. Per farsi almeno una vaga idea di come funzionino queste riduzio­ ni, accennerò a come sia possibile ridurre l'aritmetica (la teoria dei nu­ meri naturali) alla teoria degli insiemi. L'idea di base è di dare una defi­ nizione insiemistica dei numeri naturali. La sequenza dei numeri natu­ rali o, I, 2, 3 ecc. è una struttura descrivibile in questo modo: si parte dal­ lo zero e si itera l'operazione di passaggio al successore (l' aggiunta di un'unità) . La definizione può essere resa con i mezzi della teoria degli insiemi definendo innanzi tutto la nozione di insieme induttivo: un in­ sieme induttivo è un insieme che contiene lo o e contiene il successore

2. METAFISICA: CHE COSA SONO I NUMERI ?

di ogni suo elemento (se x appartiene ad un insieme induttivo, anche il successore di x vi appartiene: l'insieme è chiuso rispetto all'operazione di successore, nel senso che applicando ad un elemento dell'insieme questa operazione non si esce dall'insieme) . Ogni insieme induttivo con­ tiene quindi o , il successore di o (ossia r ) , il successore del successore di o (ossia 2) , e tutti gli elementi ottenibili in questo modo: il più piccolo in­ sieme induttivo non ne conterrà altri e quindi conterrà tutti e soli i nu­ meri o, r , 2 ecc. In base all'assioma dell'infinito, esiste almeno un insie­ me induttivo e non è difficile dimostrare che se esiste un insieme indut­ tivo esiste il più piccolo insieme induttivo 16: si può quindi dedurre in ZF l'esistenza di un insieme con le caratteristiche richieste, il quale può es­ sere identificato con l'insieme dei numeri naturali. Ovviamente l'insie­ me risulta diverso a seconda di come si definisce l'operazione di pas­ saggio al successore: la cosa deve essere fatta in tennini insiemistici, e questo è certamente possibile; il problema è che esistono vari modi per farlo. Un metodo, proposto da Ernst Zermelo, è di identificare lo zero con l'insieme vuoto 0 il successore di un numero con il suo insieme unità, dove il tinsieme unità di a è {a} : la sequenza dei numeri naturali risulta in questo caso composta da 0, { 0 } , { {0} }, { { { 0 } } }, . . . Si può tuttavia anche identificare il successore di un numero con l'unione del numero stesso e del suo insieme unità, come nella teoria di John von Neumann, nel qual caso otteniamo la sequenza 0, {0}, {0, {0} } , {0, {0}, {0, { 0 } } }, . . . 17• In entrambi i casi, la definizione insiemistica del­ l'insieme dei numeri naturali così ottenuta permette di ricavare come teoremi della teoria degli insiemi i corrispettivi, in linguaggio insiemi­ stico, degli assiomi di Peano, ovvero gli assiomi base dell'aritmetica, la teoria dei numeri naturali. La scelta di una ricostruzione piuttosto che un'altra non sembra dunque fare nessuna differenza da questo punto di vista. Questa considerazione è all'origine di un noto argomento di Be­ nacerraf volto a dimostrare che i numeri non sono insiemi e più in ge­ nerale non sono oggetti. Prima di dedicarci a questo tema, tuttavia, vale la pena soffermarsi su una caratteristica della teoria degli insiemi, ovve­ ro il suo modo di concepire il rapporto tra parti e tutto.

16. Se esiste un insieme induttivo I, in base all'assioma di separazione si dimostra l'e­ sistenza del sottoinsieme di I formato da tutti gli elementi di I che appartengono a tutti gli insiemi induttivi: tale sottoinsieme di I è il più piccolo insieme induttivo. 17. Nella sequenza di von Neumann, ogni numero n ha esattamente n elementi, con­ tenendo tutti i numeri che lo precedono nella serie (la sequenza può essere vista come o, {o}, {o, I } , {o, I, 2}, {o, I, 2, 3}, ... ): si può quindi dire che un insieme ha n elementi se e solo se può essere messo in corrispondenza con il numero n. Se si adotta la versione di Zermelo questo ovviamente non vale.

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INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

2.3 . 2 .

CONFRONTO CON LA MEREOLOGIA

Consideriamo questo principio : (M) Un composto x è identico ad un composto y se e solo se sono ottenuti a partire dagli stessi elementi semplici (= non composti) .

L'idea alla base del principio (M) , come illustra Quine (1953) (cfr. anche Varzi, 2005, p. 109) è che se si mettono assieme tutte le molecole di un certo oggetto quello che si ottiene è la stessa cosa che si ottiene nel caso in cui si mettano assieme tutti gli atomi di cui l'oggetto è composto , ov­ vero l'oggetto stesso. Eppure, secondo la teoria degli insiemi, l'insieme delle molecole di un dato oggetto e l'insieme dei suoi atomi , avendo ele­ menti diversi, sono insiemi diversi. Più in generale, se con 'composto' intendiamo 'insieme', con 'ele­ mento semplice' un 'individuo che non è un insieme' e con ' x è uno de­ gli elementi da cui y è stato ottenuto' qualcosa come ' x è un elemento di y, oppure x è un elemento di un insieme che è un elemento di y, oppure '1 x è un elemento di un elemento . . . di y 8, è chiaro che la teoria degli in­ siemi viola in molti modi il principio (M) . Per esempio, consideriamo i due insiemi ' { {Marco} , {Paola, Marco } } ' e ' { {Paola } , {Paola, Mar­ co} } ' : i due insiemi sono formati a partire dagli stessi individui, eppure sono distinti, avendo elementi diversi; lo stesso vale per un insieme e il suo insieme-unità e ovviamente vale per gli insiemi puri, i quali, pur es­ sendo diversi tra di loro , sono ovviamente tutti formati a partire dagli stessi individui (non essendo formati a partire da nessun individuo) . n rispetto del principio (M) è stato considerato da Nelson Goodman un requisito di ogni teoria che voglia descrivere le caratteristiche forma­ li (nel senso di più generali possibile) del rapporto tra un tutto e le par­ ti che lo compongono. Goodman (1956) collegava questa idea al rifiuto delle entità astratte, secondo questo ragionamento: per lui le entità astratte coincidevano con gli insiemi e la teoria degli insiemi non poteva essere accettata, in quanto questo avrebbe comportato una violazione di (M) . n principio (M) avrebbe quindi fornito un argomento contro l'esi­ stenza degli oggetti astratti, meritando il titolo di principio del nominali­ smo. n rifiuto delle entità astratte era quindi dovuto al fatto che la teo­ ria degli oggetti astratti per eccellenza concepisce in modo errato il rap­ porto parti-tutto. 18. ' x è uno degli elementi da cui y è stato ottenuto' sta a ' y appartiene a x' come ' x è un antenato di y ' sta a ' x è il padre di x' : un antenato di y è infatti il padre di y o padre del padre di y, o il padre del padre . . . del padre di y.

2. METAFISICA: CHE COSA SONO I NUMERI ?

Ci sono vari aspetti del ragionamento di Goodman che possono es­ sere contestati . Per prima cosa, sembra possibile che esistano oggetti astratti che non sono insiemi, quindi non si capisce perché il rifiuto del­ la teoria degli insiemi dovrebbe coincidere con l'adesione al nominali­ smo. Questo in realtà non sembra un problema per Goodman, per il quale il nominalismo è definito come l'accettazione del principio (M) e dal conseguente rifiuto della teoria degli insiemi, e non dalla negazione dell'esistenza di entità astratte. Si tratta tuttavia di una definizione che in pochi hanno fatto propria. n problema più serio è però un altro, in un certo senso opposto. C'è un aspetto per il quale Goodman ha ragione nell'assimilare la sua posizione al nominalismo : la teoria degli insiemi è una potentissima teoria matematica, un paradiso da cui i matematici non si fanno cacciare volentieri 19, per cui, come nota Lewis (1998, p . 218 ) «ri­ nunciare alle classi è rinunciare alla matematica» (o almeno ad una par­ te di essa) . n nominalista goodmaniano ha gli stessi problemi o quasi di quello classico: deve spiegare come riconciliare la sua posizione filosofi­ ca con la pratica scientifica, nella quale si fa abbondante uso della teoria degli insiemi. Come abbiamo visto , non è detto che questa impresa sia disperata, ma resta comunque difficile. Se non si vuole rinunciare al principio (M) , una strada più semplice è dubitare che la teoria degli insiemi voglia essere una teoria della com­ posizione di un tutto a partire dalle sue parti. Perché non assumere un'attitudine conciliatoria nel confronto tra le due teorie, distinguendo gli ambiti di competenza? Alla mereologia andrebbe il compito di deli­ neare i principi generali che governano la relazione tra un tutto e le sue parti costituenti, e alla teoria degli insiemi quello di fare lo stesso con la relazione di appartenenza tra una classe e i suoi elementi 20• È in uno spi­ rito simile che Lewis (1991, pp. 38-41) sostiene che la generazione di un insieme a partire dai suoi elementi non è una forma legittima di compo­ sizione semplicemente perché non è una /orma di composizione. Si con­ sideri il rapporto tra un individuo i e il suo insieme unità {i} : qui non c'è un uno generato da un molti, ma una nuova entità generata a partire da un'altra entità. La relazione di appartenenza, in questo caso, è quin­ di semplicemente una relazione tra due oggetti distinti, proprio come quella tra moglie e marito (cfr. Lewis, 1991 , p. 41 ) . Collegato a questo c'è il sospetto che i principi formali del rapporto tra un tutto e le sue parti dovrebbero essere difesi indipendentemente dalla questione se esistano

19. L'espressione viene da Hilbert (1926, trad. it. p. 171): «Nessuno ci caccerà dal pa­ radiso che Cantor ha costruito per noi». 20. Come suggerito in Varzi (1996, p. 26o).

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INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

o meno oggetti astratti. In questa prospettiva, dunque, sarebbe errato identificare il dominio degli oggetti concreti come l'ambito in cui vale il principio (M) , il quale avrebbe invece validità universale 21 • TI rapporto tra teoria degli insiemi e mereologia resta in ogni caso un tema ricco di spunti da approfondire: per esempio, Lewis (1991) propo­ ne una interpretazione della teoria degli insiemi all'interno della mereo­ logia, basandosi sul principio per cui x E y può essere reso come {x} è parte di y' , dove la relazione 'essere parte di' è definita dalla teoria me­ teologica. Non si tratta di una riduzione completa: resta ovviamente da spiegare la relazione tra un insieme-unità e il suo unico elemento, ma l'i­ dea di Lewis è di considerare questa relazione come primitiva, ovvero non definita in base ad altre relazioni, ma solo in base agli assiomi che la governano, e di ricostruire il resto della teoria degli insiemi attraverso i principi della mereologia. La relazione di insieme-unità viene comunque considerata misteriosa da Lewis, il quale, nell'appendice al libro del 1991 22, considera alcune strategie per eliminare la stessa nozione di in­ sieme-unità, ottenendo un sistema chiamato megetologia 23, nel quale ri­ costruire una teoria altrettanto potente rispetto a quella classica degli in­ siemi, ma senza la relazione misteriosa in questione. Questo testimonia, forse, che il fantasma delle sue origini nominalistiche non ha ancora completamente abbandonato la mereologia. '

2.3.3.

QUELLO CHE

I NUMERI NO

POSSONO ESSERE

Torniamo ora al rapporto tra numeri e insiemi. Per capire il significato della riduzione dell'aritmetica alla teoria degli insiemi è opportuno con­ siderare la situazione seguente: immaginate che, in quanto fan di Dou­ glas Hofstadter (1979 , trad. it. pp. 236-7) , io abbia sviluppato una teoria di certe misteriose entità chiamate " genidi" . Non so dirvi esattamente

21. In realtà si può contestare la validità del principio anche limitandosi all'ambito degli oggetti concreti. È un principio della mereologia che dati due oggetti esiste sempre la loro "somma" , anche se i due oggetti non sono tenuti insieme da nessuna "colla" (pro­ prio come, dati i due pezzi di un bikini, esiste il bikini, anche se i due pezzi non sono te­ nuti insieme da nulla) . Esiste quindi un aggregato di pane e prosciutto anche prima di preparare un panino al prosciutto: in base al principio (M) si tratta dello stesso oggetto, ma questo si scontra con l'intuizione che per fare un panino al prosciutto non basti ave­ re del pane e del prosciutto. Stamattina sul mio tavolo c'era del pane e del prosciutto, ma non c'era il panino: non basta questo a concludere che si tratta di oggetti diversi? Per una risposta all'obiezione, rimando a Varzi (2005, pp. no e ss. ). 22. Scritta insieme a John P. Burgess e Alan P. Hazen. 23. Dal greco: megethos = grandezza e logos = teoria.

100

2. METAFISICA: CHE COSA SONO I NUMERI ?

che cosa sia un genide, ma posso illustrarvi alcune loro caratteristiche, in particolare cinque: ( r)

(2) (3 )

(4)

( 5)

Genio è un genide. Ogni genide ha un meta-genide (e uno solo) . Genidi distinti hanno meta-genidi distinti. Genio non è il meta-genide di alcun genide. Se una proprietà X vale per Genio e si trasmette da ogni genide al suo me­ ta-genide, allora tutti i genidi godono della proprietà X.

In base a questo, sono in grado di farmi un'idea della struttura, se non della natura intrinseca dei genidi. La si può rappresentare così: Genio, Meta-Genio , Meta-Meta-Genio , Meta-Meta-Meta-Genio, Meta-Meta­ Meta-Meta-Genio, . . .

Aggiungo poi che esistono delle operazioni tra genidi, i quali si possono 'g­ sommare' (genide x più genide y = genide z) e 'g-moltiplicare' (genide x x genide y = genide z) . La 'g-somma' è una iterazione del passaggio da un ge­ nide al suo meta e la g-moltiplicazione è un'iterazione della g-somma: (6)

(7) (8) (9)

Genio + un qualsiasi genide x = genide x. Il meta - genide di Genio ++ un qualsiasi genide x = genide x. Genide x + il meta-genide di y = Il meta-genide di (genide x + genide y). Genide x ++ il meta-genide y = (genide x ++ genide y) + genide x.

Formalizzando nel modo opportuno ( I ) - ( 6 ) si può produrre una "teoria formale dei genidi" all'interno della quale dimostrare vari teoremi sui ge­ nidi, come che ogni genide è diverso dal suo meta-genide o che esistono infiniti genidi tali che non si può ottenerli moltiplicando due altri geni­ di maggiori di meta-genio. Confrontando questa teoria con l' aritmetica formalizzata, ben presto ci si renderebbe conto di una cosa: utilizzando un manuale di traduzione per cui 'Genio' è sinonimo di 'zero', 'meta' è sinonimo di 'successore', 'genide' di 'numero naturale', 'g-somma' di 'somma' e 'g-moltiplicazione' di 'moltiplicazione' si può tradurre ogni teorema di una teoria in uno dell'altra. Per esempio, si riconosceranno nei due teoremi sopra citati l'enunciato aritmetico per cui ogni numero è diverso dal suo successore e quello per cui esistono infiniti numeri pri­ mi. Un a cosa simile accade nel caso in cui si consideri la versione insie­ mistica dell'aritmetica: se si sostituisce 'numero naturale' con 'insieme appartenente ad w (il più piccolo insieme induttivo) ', 'successore di n' con 'insieme unione di n e {n}', 'zero' con 0 ecc. si può tradurre ogni teorema dell'aritmetica in un teorema della teoria degli insiemi. IO!

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

La teoria dei genidi e l'aritmetica possono essere rese equivalenti at­ traverso opportune scelte di traduzioni: se disponiamo della teoria dei genidi e identifichiamo i genidi con i numeri naturali, siamo in grado di dedurre gli stessi teoremi aritmetici di chi ha studiato la teoria dei nu­ meri naturali secondo i metodi tradizionali. Basta forse questo per con­ eludere che i genidi sono i numeri naturali, pur non sapendo nulla circa la natura dei genidi? Sono oggetti astratti e non, come il nome sembra suggerire, spiritelli? E sono numeri, funzioni o insiemi? Se si risponde di sì, allora, visto che i numeri naturali sono identz/icabzli con certi insiemi, bisogna concludere che i numeri naturali e i genidi sono insiemi. Chiunque fosse tentato di seguire questa linea, deve confrontarsi con un problema sollevato da Paul Benacerraf ( r965 ) . Immaginiamo due ra­ gazzini che abbiano imparato l'aritmetica non nel modo tradizionale, co­ me una teoria a sé, ma come un frammento della teoria degli insiemi: i numeri naturali sono per loro gli elementi dell'insieme w. Entrambi so­ no in grado di derivare gli equivalenti insiemistici di ( r ) - ( 6 ) , ed entram­ bi sono in grado di utilizzare i numeri per contare (per dire che ci sono n cose di tipo F diranno che c'è una correlazione uno a uno tra le cose di tipo F e i numeri da r ad n) quindi, ai fini aritmetici (puri ed applica­ ti) , le loro teorie sono altrettanto buone. Eppure, ad uno dei due ragaz­ zini (Ernie) viene insegnata la riduzione di Zermelo, mentre all'altro Gonny) quella di von Neumann (cfr. PAR. 2.3 .r) . In numeri sono insiemi per entrambi, ma si tratta di insiemi differenti: per il primo ragazzino, per esempio, 2 = { { 0 } }, mentre per il secondo 2 = {0, {0} } . A livello di teoremi sui numeri naturali formulati nel linguaggio aritmetico ('suc­ cessore' , 'addizione' . . . ) i due ragazzini concordano pienamente, eppure a livello di teoremi insiemistici sono in disaccordo: per J onny o E 2, dal momento che 0 E {0, {0} } , mentre per Ernie no, dal momento che 0 ft_ { {0} } . Visto che entrambe soddisfano tutti i requisiti plausibili per una riduzione dell'aritmetica alla teoria degli insiemi (sostanzialmente, rendere conto della nostra pratica dell'aritmetica pura ed applicata) o entrambe le riduzioni sono corrette, o nessuna delle due lo è. n punto è che non possono essere entrambe corrette, visto che il numero 2 non può essere identico a due insiemi diversi, quindi nessuna delle due riduzioni è corretta: i numeri non sono insiemi. n problema nasce, secondo Benacerraf, da un'assunzione sbagliata: credere che abbia senso identificare i numeri con oggetti determinati, i quali avrebbero delle proprietà ulteriori rispetto a quella di avere altre relazioni con gli altri oggetti dello stesso tipo (con altri numeri) . Al con­ trario, sostiene Benacerraf, l'identità di un numero è data dal suo far par­ te di una certa struttura e dal suo posto in essa: dal venire prima di un certo numero e dopo un altro, dall'essere seguito da un numero infinito !02

2.

METAFISICA: CHE COSA SONO I NUMERI ?

di numeri e dall'avere solo un certo numero (finito) di numeri che lo pre­ cedono. Le riduzioni hanno successo nella misura in cui attribuiscono ai numeri queste proprietà strutturali, mentre il loro errore sta nell' attri­ buire ai numeri anche altre proprietà. (Le proprietà strutturali dei nu­ meri sono quelle aritmetiche, mentre, nel caso preso in esame, quelle in­ siemistiche sono le proprietà ulteriori. ) Per vedere come questa linea di ragionamento possa portare alla conclusione che i numeri non sono oggetti, notiamo che l'argomento di Benacerraf presentato finora ha questa forma: ( Pr ) I numeri hanno solo proprietà aritmetiche. ( P2 ) Nessun insieme ha solo proprietà aritmetiche.

(C)

I numeri non sono insiemi.

Questa conclusione sembra compatibile con l'idea che i numeri siano oggetti 24• Se non c'è ragione di preferire una riduzione a un'altra, que­ sto potrebbe significare semplicemente che nessuna riduzione è corret­ ta: i numeri non sarebbero insiemi, ma, appunto, numeri. I numeri non andrebbero identificati con nessun altro tipo di oggetti astratti , ma sa­ rebbero oggetti sui generis. Si tratta di una posizione plausibile nel caso dei numeri (in fondo, il fatto che si sia iniziato a studiare i numeri mol­ to prima degli insiemi induce a pensare che si tratti di oggetti diversi) , ma il problema, sottolineato più volte d a Hartry Field (1989, 2001) è che sembra difficile estenderla ad altri casi in cui si presenta un problema del tutto analogo a quello appena considerato. La possibilità di identificare i numeri con insiemi diversi è solo un caso particolare di un fenomeno che si verifica con ogni teoria matematica. I numeri reali possono essere infatti identificati con insiemi diversi e lo stesso vale per oggetti come gli spazi topologici, le funzioni ecc., senza contare i casi di identificazione incrociata: non solo si possono definire le funzioni come insiemi di un certo tipo, ma si può andare anche nell'altra direzione e definire gli in­ siemi come funzioni particolari. Inoltre, è possibile generalizzare l'argo­ mento di Benacerraf in modo da raggiungere la conclusione voluta, ov24· Benacerraf (1996, pp. 22-3) nota come la struttura di Benacerraf (1965) possa es­ sere descritta così: le prime due sezioni presentano un puzzle per il realista (come sce­ gliere tra riduzioni diverse? Quale tra i due enunciati 2 ={ { 0 } } e 2= {0, { 0 } } è vero?), mentre la terza sezione sviluppa la tesi che i numeri siano oggetti e una visione struttura­ lista della matematica (cfr. PAR. 2.4) . Benacerraf stesso nota che si tratta di punti in una certa misura indipendenti, come testimonia il fatto che non è immediatamente contrad­ dittorio rispondere al puzzle sostenendo che tutte le riduzioni sono false (i numeri non sono insiemi), perché i numeri sono oggetti sui generis. Su quest'ultimo punto cfr. anche Steiner (1975) .

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INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

vero che i numeri non sono oggetti di nessun tipo, neppure sui generis. L'idea di base è che la scelta tra l'identificare i numeri con gli insiemi di von Neumann, con quelli di Zermelo , o con degli oggetti sui generis è to­ talmente arbitraria: tutte le tre alternative stanno sullo stesso piano, quindi nessuna è corretta. Si può esplicitare l'argomento così 25: (Pr) I numeri hanno solo proprietà strutturali. (P2) Nessun oggetto ha solo proprietà strutturali. (C) I numeri non sono oggetti.

Ci sono due modi per rifiutare la conclusione dell'argomento: si può pensare che la natura dei numeri vada al di là delle loro proprietà strut­ turali, come sostengono i difensori contemporanei della scuola di Frege, o si può cercare di esplorare la nozione di oggetti con proprietà pura­ mente strutturali. Infine, l'idea secondo cui la matematica non tratte­ rebbe di oggetti astratti può essere la base per una reinterpretazione dei teoremi matematici che li renda compatibili con il rifiuto delle entità astratte e quindi con il nominalismo . 2. 4

Strutturalismi problema su cui Benacerraf ha sollevato l'attenzione può essere rias­ sunto così: ai fini dell'aritmetica, la natura degli oggetti matematici sem­ bra del tutto indifferente, mentre è la loro struttura ad essere d etermi­ nante. Perché non definire allora la matematica come lo studio di struttu­ re matematiche invece che oggetti matematici? Se si segue questa opzione si può facilmente spiegare perché, da un punto di vista matematico, la teo­ ria dei genidi, l'aritmetica tradizionale in varie notazioni e quella insiemi­ stica in varie versioni sembrano tutte equivalenti: la ragione è che studia­ no tutte la stessa struttura, esemplificata da sistemi di oggetti diversi: TI

I,

2,

3, 4 . . .

l, I l , I l i , 1 1 1 1 1, . . .

0, { 0 } , { { 0 } } , { { {0 } } } , { { { {0} } } } , . . . 0, {0} , {0, {0} } , {0, { 0 } , {0, { 0 } } } , {0, { 0 } , {0, {0} }, {0, {0}, {0, {0} } } }, . . . Genio, Meta-Genio , Meta-Meta-Genio, Meta-Meta-Meta-Genio, Meta-Meta­ Meta-Meta-Genio, . . 26 .

25. Seguo qui Linnebo (2009). 26. Si parla a volte di w-sequenze, o progressioni, per indicare questo tipo di strutture.

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2. METAFISICA: CHE COSA SONO I NUMERI ?

Se l'oggetto di studio dell'aritmetica è la struttura dei numeri naturali, al­ lora i numeri naturali sono posti in una struttura: il numero zero è il pri­ mo posto nella struttura, il numero uno il secondo, e così via. Se un si­ stema è una pluralità di oggetti tra i quali vigano certe relazioni, allora una struttura può essere considerata come la forma comune a vari siste­ mi, in analogia con quanto accade ad un universale, inteso come una pro­ prietà comune a più oggetti. Questo dovrebbe gettare luce sul senso del­ le identificazioni di numeri, ovvero posti in una struttura, con oggetti di un certo tipo. La nozione di posto in una struttura può essere infatti util­ mente confrontata con quella di ruolo 27: come ci sono varie persone che possono ricoprire il ruolo di playmaker in una squadra o quello di sin­ daco in un'amministrazione, così ci sono molti oggetti che possono ri­ coprire il ruolo di primo posto nella struttura dei numeri naturali; tutta­ via, proprio come sarebbe sbagliato identificare 'il ruolo di presidente della Repubblica' con 'Giorgio Napolitano', così il numero tre non va identificato né con I l i , né con { { {0} } } , né con il Meta-Meta-Meta­ Genio. Secondo questa prospettiva, i posti in una struttura sono considera­ ti ruoli o uffici, che alcuni individui possono ricoprire. Questo non è in­ compatibile con l'idea che i posti in una struttura possano essere consi­ derati a loro volta come oggetti, come sembra accadere nel linguaggio naturale, nel quale si usano espressioni come 'il presidente della Repub­ blica è membro del CSM ' o 'il numero 2 è il più piccolo numero primo' , dove l'articolo determinativo sembra testimoniare il riferimento ad un'u­ nica entità e non ad uno dei tanti individui che possono occupare un cer­ to ruolo. I posti di una struttura in generale, ed i numeri in particolare, sarebbero quindi oggetti, anche se oggetti sui generis. In questa opzio­ ne, sostenuta da autori come Shapiro e Resnik, lo strutturalismo è una forma di platonismo che risponde al problema di Benacerraf con una concezione in cui si ammette l'esistenza di oggetti, le cui uniche pro­ prietà sono esprimibili in termini di ruolo svolto in una struttura. Si può sostenere che si tratta di oggetti incompleti, per i quali la questione se godano o meno di certe proprietà (come 'essere un insieme') non è de­ terminata (e quindi non ha senso porla) oppure più semplicemente di­ chiarare falsa l'attribuzione di qualsiasi proprietà non riconducibile al ruolo strutturale degli oggetti in questione. Una difficoltà per questa ver­ sione dello strutturalismo (detta anche ante rem, visto che le strutture so27. Come suggerisce Shapiro (1997) . Cfr. anche Shapiro (2ooo, pp. 257-89), per un'e­ sposizione molto efficace delle varie prospettive strutturaliste, ripresa in parte in questo paragrafo.

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INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

no pensate come esistenti prima dei sistemi che le esemplificano , in ana­ logia con le Idee di Platone) è rappresentata dalle entità simmetriche presenti in matematica, ovvero entità considerate distinte, come i e -i nel caso dei numeri complessi, eppure tali da soddisfare esattamente gli stes­ si predicati 28 • n problema è rappresentato dal fatto che quelli che sono considerati oggetti diversi dalla teoria hanno però le stesse proprietà strutturali, il che sembra minacciare l'idea che il ruolo strutturale deter­ mini l'identità di un oggetto. Allo stato attuale delle ricerche, questo rap­ presenta il punto più discusso dai sostenitori di uno strutturalismo del ti­ po appena presentato (cfr. Shapiro, 2009) . Vale la pena inoltre notare che l'idea dello strutturalismo ante rem di considerare i posti in una struttu­ ra a loro volta come oggetti di un sistema, ha una conseguenza curiosa: la struttura dei numeri naturali è un sistema di oggetti che esibisce una for­ ma comune ad altri sistemi, ovvero la struttura dei numeri naturali. Esiste però un altro tipo di strutturalismo, il quale accetta la con­ clusione di Benacerraf per cui le teorie matematiche non studiano un certo dominio di oggetti. Si tratta dello strutturalismo eliminativista, svi­ luppato in lavori come Hellman (r989) e lo stesso Benacerraf (r965) . In questa prospettiva, descrivere una struttura non significa parlare in par­ ticolare dell'unica forma astratta come a più sistemi, ma parlare in gene­ rale di un sistema qualsiasi che soddisfa certe condizioni. Alternativa­ mente si può dire che nel descrivere i posti di una struttura non si sta parlando di un oggetto incompleto, ma si sta parlando in modo incom­ pleto di un oggetto, ovvero si stanno descrivendo le caratteristiche di un qualsiasi oggetto che ricopra un certo ruolo. L'idea è stata espressa da Bertrand Russell (1903, p. 75) dicendo che in matematica «non sappiamo di cosa stiamo parlando», ovvero non conosciamo l'identità degli ogget­ ti di cui ci occupiamo, ma solo alcune loro caratteristiche, dalle quali ne deduciamo altre. Come sostiene Russell (1919 , p. ro) : Invece di considerare " o " , "numero" e "successore" come termini di cui cono­ sciamo il significato [. ] , possiamo lasciare che questi termini stiano per tre ter­ mini qualsiasi che soddisfino i cinque assiomi di Peano. Non sarebbero più ter­ mini che possiedono un significato definito ed indefinito allo stesso tempo: sa­ rebbero "variabili " , termini riguardo ai quali noi facciamo certe ipotesi, cioè quelle elencate negli assiomi, ma che per il resto lasciamo indeterminati [ ] I no­ stri teoremi [ . . ] riguarderebbero tutti gli insiemi di termini con certe proprietà. ..

.. .

.

.

Dire che '3 > 2' vuol dire soltanto che 'il terzo membro di una progres­ sione viene dopo il secondo' e questo vale per chiunque sia il terzo mem28 . Tranne i predicati in cui compare il nome dell'oggetto in questione, come x = i. ro6

2. METAFISICA: CHE COSA SONO I NUMERI ?

bro di una successione, qualunque sia la relazione di successione in que­ stione e quindi chiunque sia il secondo membro della progressione. Ana­ logamente, 'il capitano di una squadra di calcio è l'unico a poter parlare con l'arbitro' vale per ogni squadra di calcio, ogni arbitro e ogni scelta di capitano possibile. L'aritmetica delinea le caratteristiche proprie di ogni sistema con certe caratteristiche, intuitivamente la caratteristica di esemplificare una certa struttura 29. Ironicamente, la controversa affer­ mazione che i numeri esistono si ridurrebbe alla ben più innocua con­ statazione che un sistema con la struttura dei numeri naturali non è vuo­ to, o che ogni progressione contiene almeno un elemento ! Per evitare il riferimento a strutture intese come entità astratte, Hellman (r989) ha proposto di definire «il sistema s esemplifica la struttura S», come «il si­ stema s rende veri gli assiomi X», dove gli assiomi in questione sono quelli della teoria di riferimento per ciascuna struttura (per esempio, gli assiomi di Peano al secondo ordine nel caso della struttura dei numeri naturali) . Una struttura è quindi semplicemente uno qualsiasi di questi sistemi, per cui non esistono le strutture come entità ulteriori rispetto ai sistemi che le esemplificano. Per questa ragione, si parla dello struttura­ lismo eliminativista come di uno strutturalismo senza strutture. Resta tuttavia un problema da risolvere, legato al fatto che, come diceva sem­ pre Russell, in matematica non sappiamo se quello che diciamo è vero , ossia, quando consideriamo un certo tipo di sistemi, non sappiamo se ef­ fettivamente esistano sistemi di quel tipo. Consideriamo un semplice enunciato aritmetico, come 2 + 2 = 3· Secondo lo strutturalismo elimi­ nativista, il suo significato sarebbe: (SE) In ogni sistema che esemplifica la struttura � (in qualsiasi progressione) l'oggetto che occupa la posizione 2 + 2 è identico a quello che occupa la posizione 3·

L'enunciato è ovviamente falso : nel caso gli oggetti esistenti fossero in numero finito, però, nessun sistema esistente esemplificherebbe la strut­ tura dei numeri naturali, quindi, in tutti i sistemi che esemplificano tale struttura , sarebbe vacuamente vero che 2 + 2 = 3, e la versione struttu­ ralista dell'aritmetica contraddirebbe quella standard. Se ci si limita al mondo fisico, l'ipotesi che le entità a disposizione siano in numero fini-

29. In modo molto interessante, Russell (1919, p. 199) collega l'idea che i termini ma­ tematici siano implicitamente variabili vincolate ('numero' starebbe per 'un qualunque x tale che fa parte di un sistema in grado di soddisfare gli assiomi di Peano') con l 'idea che la matematica sia uno studio di /orme.

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INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

to non sembra scartabile a priori30• E in ogni caso i sistemi studiati in ma­ tematica sono ben più ricchi di quello dei numeri naturali. L'unica an­ tologia in grado di garantire l'esistenza di sistemi di oggetti sufficiente­ mente ricchi da esemplificare tutte le strutture studiate in matematica dovrebbe comprendere l'equivalente della gerarchia cumulativa insie­ mistica. Assumere la teoria degli insiemi (o qualcosa di equivalente) co­ me una teoria di sfondo in grado di garantire l'esistenza di sistemi del tipo desiderato vorrebbe però dire rinunciare a trattare in modo strut­ turalista la teoria in questione. L'idea dello strutturalismo è infatti de­ scrivere quali condizioni si realizzano se si prendono in considerazione sistemi di oggetti con una certa struttura, non di asserire l'esistenza di tali sistemi: una teoria strutturalista degli insiemi non permetterebbe quindi di dedurre l'esistenza di infiniti insiemi. Di fronte a questo pro­ blema, la proposta di Hellman è di prendere in considerazione tutti i si­ sterni possibili, non solo quelli esistenti: anche se non esistessero infini­ ti oggetti, sembra certamente plausibile sostenere che sarebbero potuti esistere 31• La matematica si presenterebbe come uno studio di tutti i si­ sterni possibili dotati di certe strutture, per cui il motto di Russell ver­ rebbe rispettato: non sapremmo se gli assiomi sono veri, ma ci limite­ remmo a trarne le conseguenze, ovvero a studiare cosa accadrebbe se fossero veri (e lo studio non è banale, se si assume che gli assiomi de­ scrivano una situazione logicamente possibile) . n problema diventa co­ me intendere la nozione di possibilità utilizzata qui. Come nel caso del nominalismo di Chihara 32 e in quello di Field 33, non si può trattare di nessuna delle due definizioni classiche di possibilità logica: né di quel­ la per cui un insieme di enunciati è logicamente possibile se esiste un modello che rende tutti gli enunciati veri (i modelli sono entità insie­ mistiche, quindi oggetti astratti, quindi il tipo di entità di cui non si vuo­ le assumere l'esistenza) , né di quella per cui un insieme di enunciati è logicamente possibile se non esiste alcuna derivazione di una contra d­ dizione a partire da essi (le derivazioni formali, infatti, sono tradizio­ nalmente pensate come sequenze di type, perché alcune potrebbero es­ sere troppo lunghe per essere costituite da una sequenza di token) . De­ ve quindi trattarsi di una nozione primitiva, come Hellman stesso am-

30. Come notava già Hilbert (1926). Field (1980, 1989) ritiene l'assunzione di infinite entità fisico-geometriche non problematica. 31. Se la questione se il mondo fisico sia finito o meno sembra una questione empiri­ ca, questo non è dovuto anche al fatto che sembrerebbe molto bizzarro riuscire a dimo­ strare che l'ipotesi che sia infinito contiene una contraddizione? 32. Cfr. CAP. I . 3 3 · Cfr. CAP. 1. ro8

2. METAFISICA: CHE COSA SONO I NUMERI ?

mette. Anche in questo caso, resta da capire se questo non renda la no­ zione irrimediabilmente oscura 34• 2. 5

Astrazioni vecchie e nuove Un metodo di astrazione proposto fin dai tempi di Locke prende spun­ to dal ruolo delle figure nelle dimostrazioni geometriche. In questi casi quello che si tiene di fronte agli occhi è sempre un disegno di un ogget­ to geometrico particolare (per esempio, un certo triangolo rettangolo) , mentre quello che si vuole dimostrare è tipicamente una proprietà d i tut­ ti gli enti geometrici di un certo tipo (il teorema di Pitagora, per esem­ pio) , una proprietà di un triangolo in generale. Si parla in questi casi di ragionamento astratto. Siamo in grado di fare ciò , secondo i teorici del­ la versione tradizionale dell'astrazione, perché nel nostro ragionamento non prendiamo in considerazione nessuna proprietà del triangolo in questione, eccetto il suo avere un angolo di 90° : prescindiamo, astraia­ mo da tutte le altre proprietà. Secondo la concezione tradizionale del­ l' astrazione, il triangolo generale sarebbe quell'oggetto di cui si ottiene un'idea partendo da un triangolo particolare e applicando questo pro­ cesso . Varie cose possono lasciare perplessi circa questo modo di conce­ pire la via dell'astrazione. Per prima cosa, si basa su una teoria psicolo­ gica dalle dubbie credenziali (si tratta infatti di un caso tipico di psico­ logia non scientifica, ma filosofica) e un po' nebulosa: cosa significa esat­ tamente ottenere un concetto partendo da un oggetto concreto e tra­ scurando man mano sempre più particolari? 35 «La disattenzione è una facoltà logica estremamente efficace; ecco perché gli studenti sono so­ vrappensiero» ironizzava Frege (1894, p. 181 ) , ma non si capisce bene che ruolo giochi qui. Inoltre, la teoria psicologistica dell'astrazione fa sem­ brare gli oggetti astratti qualcosa di creato dalle nostre attività psicologi­ che, contrariamente alla convinzione tipica del platonista che l'esistenza degli oggetti astratti sia tanto indipendente dalle nostre attività mentali quanto quella di montagne e protoni. Anche la spiegazione del ragiona34· Sui vari generi di strutturalismo, si consigliano i contributi di Hellman e Mac­ Bride in Shapiro (2005) . 35· Per esempio, Frege (1894, p. r8r) si domandava come sia possibile formarsi il con­ cetto di coppia partendo da due gatti, uno nero e uno bianco. Secondo la teoria psicolo­ gista dell'astrazione, ci si dovrebbe formare il concetto di 'due qualcosa' partendo dai due gatti e trascurando tutte le loro proprietà distintive: ma allora non è chiaro in cosa diffe­ riscano i due qualcosa ottenuti, e quindi non è chiaro cosa fa sì che si sia ottenuto il con­ cetto di due qualcosa e non di uno solo.

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INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

mento astratto citata prima, nella quale si invocano oggetti incompleti, può essere criticata. TI ragionamento astratto può essere concepito come un ragionamento su un oggetto perfettamente determinato, ma di cui non conosciamo l'identità, ma solo alcune proprietà: l'incompletezza ri­ guarda le nostre informazioni sull'oggetto, non l'oggetto stesso (è epi­ stemica, non antologica) . Inoltre, non si capisce come applicare questa strategia al caso degli insiemi e ci sono dei dubbi anche riguardo a quel­ lo dei numeri (per quest'ultimo caso, cfr. però Parsons, 1979, 2oo8) . Esiste tuttavia un altro modo di concepire l'astrazione, basato su quelle che in matematica si chiamano classi di equivalenza. Supponiamo che R sia una relazione tale che: ( r) ogni individuo sta nella relazione R con se stesso (rz/lessività) ; (2) se x sta nella relazione R con y, y sta nella relazione R con x (simmetria) ; (3) se x sta nella relazione R con y e y sta nella relazione R con z, x sta nella relazione R con z (transitività) . Esem­ pi di relazione del genere sono 'avere lo stesso peso (la stessa altezza) di' , 'essere consanguinei' , 'aver frequentato l o stesso liceo di' . Dato un in­ sieme A, una relazione con le proprietà di R determina una divisione di A in classi di equivalenza: con classe di equivalenza di x, indicata con [x] , si intende un insieme i cui elementi stanno nella relazione R con x (per esempio, una classe di equivalenza di x è l'insieme i cui elementi hanno tutti lo stesso peso di x) . La caratteristica delle classi di equivalenza di un insieme è che ogni elemento deve appartenere ad almeno una di esse (in base al requisito di riflessività) e non può appartenere a più di una di esse, in base alla simmetria e alla transitività, come avviene per gli stu­ denti con le classi scolastiche 36 • Le classi di equivalenza possono rende­ re conto del processo di "perdere specificità" coinvolto nell'astrazione, nel senso che ogni elemento di una classe di equivalenza è tanto adatto a rappresentare la classe stessa quanto gli altri. Non è immediatamente chiaro come sfruttare questa versione della via dell'astrazione per generare oggetti astratti come il gioco degli scac­ chi o l'insieme vuoto (che non è certamente una classe di equivalenza) . L'idea che ci sia un legame stretto tra le relazioni di equivalenza e i prin­ cipi di astrazione è tuttavia alla base di uno dei programmi di ricerca più ambiziosi sulla scena contemporanea, ovvero il neo-fregeanesimo di Cri­ spin Wright e Bob Hale. 36. Per dimostrare che x appartiene ad una sola classe di equivalenza, dimostriamo che se x appartiene ad una classe di equivalenza [y] , [y] è identica ad [x] . Se x appartie­ ne a [y] , owero la classe di equivalenza di y, allora xRy; quindi, per ogni w appartenente a [x] , wRx e xRy: in base alla transitività, wRy, il che significa che w appartiene a [y] . Con un ragionamento analogo si dimostra che ogni w appartenente a [y] appartiene ad [x] . Dato che ogni elemento di [x] è un elemento di [y] e viceversa, [x] e [y] sono lo stesso insieme.

no

2. METAFISICA: CHE COSA SONO I NUMERI ?

2.5.1.

IL PI Ù PREGNANTE PARAGRAFO FILOSOFICO DI TUTTI TEMPI

Nel bel mezzo di una discussione su come sia possibile conoscere i nu­ meri pur non avendo alcun contatto sensibile con essi, Frege (18 84, § 62) ha un'idea: Come potranno dunque esserci dati i numeri, se non abbiamo di essi alcuna rap­ presentazione o intuizione? Se le parole hanno un significato solo nel contesto di un enunciato, il nostro problema diventa questo: spiegare il senso di un enun­ ciato in cui compare un termine numerico.

Secondo Dummett (!991, p. In) si tratta di un pensiero davvero profon­ do, tanto da rendere quello appena citato il paragrafo filosofico più pre­ gnante di tutti i tempi. L'idea è che, per comprendere cosa sia un nume­ ro, sia necessario (e sufficiente) capire qual è il significato della parola 'numero' 37; poiché capire il senso di una parola significa capire il suo ruolo negli enunciati in cui compare, comprendere il significato della pa­ rola 'numero' significa comprendere gli enunciati in cui si parla di nu­ meri. In particolare, dirà poco più avanti Frege, bisogna riuscire a chia­ rire il senso di enunciati di uguaglianza come: (= N) Il numero degli F è identico al numero dei G.

Come indizio della via da percorrere per risolvere questo problema, Fre­ ge (1884, § 64) prende ad esempio il modo in cui viene risolto un proble­ ma analogo nel caso del concetto di direzione: Il giudizio " La retta a è parallela alla retta b " , in simboli a

Il b ,

può venir concepito come un 'uguaglianza. Ciò facendo, otteniamo il concetto di direzione, e possiamo affermare: " La direzione della retta a è uguale a quella della retta b " . Sostituiamo così il segno di Il con quello, più generale, di = , e ri37· Questa idea è considerata da Dummett (1981, pp. 1n-2) un punto centrale della svolta linguistica, intesa come lo stile di analisi filosofica basato sul precetto di studiare il funzionamento del linguaggio per comprendere il funzionamento del pensiero. Abbiamo già incontrato un'altra applicazione di questa metodologia nel CAP. I, discutendo la tesi dei neo-fregeani secondo cui la comprensione di una categoria ontologica come quella di oggetto sia mediata dalla comprensione di una categoria linguistica come quella di ter­ mine singolare (secondo il motto «oggetto è ciò che può essere designato da un termine singolare»).

III

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

partiamo il contenuto particolare del primo sui due membri a e b. In altre pa­ role: ne suddividiamo il contenuto in modo diverso da quello primitivo, e otte­ niamo in tal modo un nuovo concetto.

Esprimiamo il principio che fornisce le condizioni di identità per le di­ rezioni in questo modo: (DIR) Dir (a) = Dir (b) � a!! b.

L'idea che (DIR) possa fungere da guida alla comprensione del concet­ to di direzione, secondo Bob Hale e Crispin Wright (2oo2) , è davvero fe­ conda. Esiste infatti un analogo per i numeri di quello che (DIR) è per le direzioni. Generalizzando la constatazione che per sapere che il nu­ mero dei mariti è uguale al numero delle mogli è sufficiente riflettere sul fatto che (assumendo la monogamia e la monoandria) ad ogni marito spetta una sola moglie e ad ogni moglie un solo marito, il "principio di Hume" afferma che a due concetti spetta lo stesso numero nel caso in cui gli oggetti che cadono sotto quei concetti possano essere messi in una corrispondenza 1 a 1 . In formula (HP) N(Fx)

=

N(Gx) � F = G 38•

li principio di Hume e

(DIR) hanno una forma comune: stabiliscono che condizione necessaria e sufficiente affinché un certo oggetto astratto x e un certo oggetto astratto y (le direzioni di due linee, per esempio) siano identici è che due oggetti di un tipo diverso (per esempio, due linee) stia­ no in una certa relazione tra di loro (siano parallele, in questo caso). N el caso di (DIR) , le linee possono essere considerate oggetti concreti, nel caso di (HP) resta da stabilire in che senso vada inteso l'apparente rife­ rimento ai concetti (cfr. PAR. 3.5) . Per il momento, assumiamo che la ca­ pacità di stabilire se due insiemi possano essere messi in corrisponden­ za biunivoca sia un fenomeno altrettanto pacifico quanto la mia capacità di riconoscere che ho tante scarpe destre quante sinistre nel mio arma­ dio. La forma comune ai due principi può essere formalizzata come se­ gue, introducendo un termine 'L' per una funzione avente come argo­ menti entità di un certo tipo e come valore oggetti e indicando con '=' una relazione di equivalenza tra gli oggetti del tipo in questione: (AP) V'aV'�(L(a) = L( �) � a = � ) . 3 8 . L a nozione di 'essere i n corrispondenza I a I', simbolizzata con =, può essere de­ finita esplicitamente nel linguaggio della logica del secondo ordine (cfr. CAP. 3) .

II2

2. METAFISICA: CHE COSA SONO I NUMERI ?

Principi della forma (AP) vengono chiamati principi di astrazione e avrebbero, a detta di Hale e Wright, il grande merito di rimediare al pro­ blema centrale della via della negazione, ossia il suo essere troppo mon­ taliana 39: capace di dirci solamente cosa i numeri non sono, quali rela­ zioni non possono avere con noi. I principi di astrazione costituirebbe­ ro infatti una definizione implicita di concetti come quelli di direzione e numero . Cosa intendano i neo-fregeani parlando di definizione implici­ ta non è chiarissimo, ma l'idea è questa: chi comprende (HP) o (DIR) sa tutto quello che c'è da sapere su cosa sono i numeri e le direzioni, visto che questi principi introducono i rispettivi concetti di numero e direzio­ ne; viceversa, chi si rifiutasse di riconoscere la validità di tali principi di­ mostrerebbe di non padroneggiare tali concetti. Nelle parole di Wright e Hale (cfr. Shapiro, 2005, p . 172) : abbiamo la possibilità, fornendo un principio di astrazione 'Va'V�(�(a) = �(�) � a = � ) , di d-descrivere o d-concettualizzare il tipo di stato di cose che può essere descritto da enunciati della forma a =� - possiamo concepire nuova­ mente questi stati di cose in modo tale che finiscono per costituire l'identità di un nuovo tipo di oggetto del quale, proprio tramite questa stipulazione, noi in ­ troduciamo il concetto.

I principi di astrazione spiegano quindi tutto quello che c'è da spiegare circa la natura degli oggetti astratti. La risposta alla domanda metafisica " cosa sono i numeri? " è che sono il tipo di cose la cui natura è esaurita nel soddisfare il principio di Hume. Questo tipo di risposta alla doman­ da metafisica ha il grande vantaggio di fornire una risposta anche alle questioni epistemologiche " come possiamo conoscere delle verità sui numeri o sulle direzioni? " e innanzitutto " come facciamo a sapere che esistono? " . Prendiamo in esame, per ragioni di semplicità, il caso delle direzioni: come sappiamo che esistono? La cosa non è difficile da dimo­ strare. Se identifichiamo le linee con entità concrete, è possibile fornire una prova empirica che esiste almeno una linea. Eccone una:

Chiamiamo la linea disegnata a. Ora, ogni linea è parallela a se stessa, quindi a Il a. In base a (DIR) : Dir (a) = Dir (a) � a ll a 39· «Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» (E. Montale, Non chiederci la parola, 1925).

113

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

Dal che si può concludere che Dir (a) = Dir (a) e, per generalizzazione esistenziale, che 3x (x = Dir (a) ) , ovvero che esiste almeno una direzio­ ne, quella della linea a. La questione problematica circa l'esistenza di un tipo di entità come le direzioni è stata quindi ricondotta alla questione circa l'esistenza delle linee, una questione che, per come abbiamo defi­ nito le linee, non risulta per nulla problematica. 2. 5.2. IL PROBLEMA DI CESARE L'idea di introdurre il concetto di un nuovo tipo di oggetto astratto at­ traverso principi di astrazione è motivata innanzitutto da una conside­ razione di natura epistemologica: se i principi di astrazione definiscono cosa sono linee, numeri, insiemi, allora cessa di essere un mistero come sia possibile conoscere questi tipi di oggetti. Abbiamo visto un'applica­ zione di questa strategia in cui si sfrutta il principio (DIR) . Nel caso del­ l' aritmetica, la situazione sembra ancora più promettente. Utilizzando il principio di Hume e alcuni principi della logica del secondo ordine si può arrivare a dimostrare l'esistenza dei numeri in modo analogo a quan­ to abbiamo fatto con le direzioni (cfr. il CAP. 3), ma la cosa non finisce qui: esiste una formulazione dell'aritmetica nella teoria del secondo or­ dine avente come unico assioma non logico il principio di Hume (o un principio equivalente) . In base al teorema di Frege (Boolos, 1987) in que­ sta teoria è possibile derivare gli assiomi di Peano e quindi tutti i teore­ mi dell'aritmetica (standard) . TI principio di Hume, sostengono i neo­ fregeani, è semplicemente una definizione implicita del concetto di nu­ mero; quindi si può sostenere che l'aritmetica è riducibile a logica (del secondo ordine) e definizioni (il principio di Hume) . È chiaro che ci so­ no (almeno) due modi per mettere in discussione questa linea argomen­ tativa, ovvero attaccare una delle due premesse: si può sostenere che la logica del secondo ordine non è logica e si può mettere in discussione che il principio di Hume possa davvero funzionare come definizione di cosa sia un numero . Nel prossimo capitolo discuterò la prima obiezione; prenderò in analisi anche il problema dell 'innocenza del principio di Hume, ovvero il problema di come facciamo a sapere che il principio di Hume è vero, ossia un'obiezione epistemologica al principio di Hume. Esiste tuttavia un'altra obiezione squisitamente metafisica, secondo la quale il problema del principio di Hume non risiede (solo nel fatto) di non essere conoscibile a priori, ma di non fornire una buona risposta al­ la domanda circa cosa siano i numeri. L'obiezione risale a Frege stesso, il quale, dopo aver considerato il tentativo di spiegare attraverso un principio come (DIR) il concetto di direzione, riteneva la proposta insoddisfacente in base a questa consideII4

2. METAFISICA: CHE COSA SONO I NUMERI ?

razione (Frege, I88 4 , §66) : il principio dovrebbe dirci che tipo di cose so­ no le direzioni e fornire quindi dei criteri per stabilire se qualcosa sia una direzione o meno, eppure sembra impossibile, basandosi unicamente sulle informazioni fornite da (DIR) , escludere la possibilità che l'Inghil­ terra sia la direzione dell'asse terrestre. Ovviamente noi sappiamo che l'Inghilterra non è una direzione, ma non per merito di (DIR) . (DIR) permette di decidere se Dir (a) = q nel caso in cui q sia rappresentato co­ me Dir(b) , ma non dice nulla circa gli altri casi. Nel caso dei numeri, il problema con il principio di Hume è che «non possiamo, per mezzo del­ la nostra definizione, decidere se Giulio Cesare [ .. .] sia o meno un nu­ mero» (ivi, §56) . n problema può essere riformulato così (cfr. Hale, Wri­ ght, 200I, Introduzione) : i numeri e le direzioni sono oggetti di un certo tipo. Quando diciamo che qualcosa è un numero stiamo dicendo di qua­ le genere, di che sorta di oggetto si tratta 40 • Un concetto come quello di numero merita quindi di essere chiamato sorta/e. Seguendo una termi­ nologia introdotta da Dummett, si ritiene che la particolarità dei concetti sortali risieda nel fatto che per comprendere un concetto sortale F biso­ gna disporre di un criterio di identità, in grado di fissare le condizioni in cui x e y, entrambi F, sono lo stesso F 41• Oltre a questo è necessario però (come avviene anche con i concetti non sortali) , conoscere il criterio di applicabilità del concetto in questione, il quale stabilisce, per ogni x, se x è o meno un F. n problema di Giulio Cesare può essere formulato co­ sì: il principio di Hume non può dirci tutto quello che c'è da sapere per comprendere il concetto di numero, perché il concetto di numero è un concetto sortale e richiede quindi un criterio di applicabilità per essere compreso, e tale criterio non è fornito da (HP) . Può essere interessante notare quale fosse secondo Frege il modo corretto di affrontare il problema di Cesare. La sua idea era di definire i numeri come estensioni di concetti: in particolare, 'il numero degli F' avrebbe denotato l'estensione del concetto 'è in corrispondenza I a I con gli F' . Questa strategia richiede ovviamente una definizione della nozio­ ne di estensione. A questo scopo, Frege, nei Grundgesetze (I893 ) , intro­ duce la famigerata legge fondamentale V, la quale afferma che le esten­ sioni di due concetti sono identiche se e solo se ogni oggetto che cade sotto un concetto cade anche sotto l'altro: (LFV) VFVG {x: Fx } = { x: Gx }



Vx(Fx



Gx).

40 . Lo stesso non accade quando diciamo che qualcosa è famoso: potrebbe trattarsi di un film, quanto di un attore o addirittura di un numero famoso. 41 . Questo è esattamente quello che fa (HP) . Un altro esempio di criterio di identità (per insiemi, questa volta) è il principio di estensionalità incontrato al PAR. 3 di questo ca­ pitolo.

Il 5

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

Se si definisce la relazione E di appartenenza come una relazione tra og­ getti ed estensioni 42, non è difficile ricavare dalla (LFV) un equivalente per le estensioni del principio di comprensione illimitata per gli insiemi incontrato al PAR. 2.3 .I (anzi, la teoria delle estensioni di Frege è solita­ mente citata come un esempio di teoria ingenua degli insiemi) . n princi­ pio, come sappiamo dal paradosso di Russe/l, è inconsistente, per cui la soluzione di Frege non può essere ritenuta soddisfacente. Oltre a questa difficoltà logica, ce n'è un'altra di natura metafisica: cosa impedisce di riproporre a Frege una versione adattata al caso delle estensioni del pro­ blema di Cesare? (LFV) infatti non ci permette di decidere se Cesare sia o meno un'estensione 43. La linea di risposta principale seguita dai suoi discepoli si basa inve­ ce sull'idea che i principi di astrazione come il principio di Hume, for­ nendo un criterio di identità per il tipo di oggetti che implicitamente de­ finiscono, forniscono un criterio per stabilire se un oggetto appartiene a quel tipo di oggetti o ad un tipo diverso . Se Cesare fosse un numero, al­ lora, per stabilire se Cesare sia identico ad un altro individuo della sua stessa sorta, basterebbe accertare se tra certi concetti vige una relazione di corrispondenza I a I; ma Cesare è una persona e il criterio di identità per stabilire se x e y sono o meno la stessa persona non fa in alcun mo­ do riferimento alle relazioni di corrispondenza I a I, il che significa che le persone (e tra loro Cesare) non sono numeri. Se questo tipo di indicazioni possano portare ad una soluzione sod­ disfacente del problema di Cesare è una questione aperta, ma la perce­ zione in ogni caso è che il problema di Cesare e quello di Benacerraf (i quali possono essere considerati come speculari) siano molto difficili da affrontare partendo da una prospettiva realista. Sul fronte opposto, gli anti-platonisti dispongono invece di una spiegazione molto semplice del fenomeno in questione 44• Come abbiamo notato nel primo capitolo , molti nominalisti sono infatti /inzionalistz': ritengono cioè che il discorso matematico non sia vero alla lettera, ma descriva degli universi materna­ tici fittizi. L'universo dei numeri naturali sarebbe quindi il mondo de­ scritto dalla finzione dell'aritmetica, proprio come l'universo delle Ter­ re di Mezzo è quello descritto da Tolkien nei suoi romanzi. È ovvio che non tutte le domande che hanno senso quando riguardano individui realmente esistenti continuano ad essere sensate quando riguardano en-

42. x E y = def. 3X(y = { x : Xx} & Xx) . 43· Hale e Wright ( 2oor, pp. 222 e 339) sottolineano spesso il punto. 44· Come ha sottolineato spesso Hartry Field, per esempio (r989, p. 22) , si veda an­ che Wagner (r982) . u6

2. METAFISICA: CHE COSA SONO I NUMERI ?

ti di finzione45: come non ha senso chiedersi cosa abbia mangiato Bilbo il terzo giorno del viaggio descritto nello Hobbit, così non ha senso chie­ dersi se il numero due sia un insieme . Un problema analogo è quello di spiegare una differenza fondamentale tra oggetti astratti e concreti: men­ tre un oggetto concreto come me possiede molte proprietà non essenziali (come avere un peso di 77 kg) , se un oggetto astratto possiede una pro­ prietà, la possiede necessariamente46• Se gli oggetti astratti fossero, nel­ l' espressione di Stephen Yablo, «strumenti rappresentazionali», ossia oggetti che fingiamo esistano per poter descrivere certe situazioni che al­ trimenti avremmo problemi a descrivere 47, si potrebbe facilmente spie­ gare il fenomeno : se si finge che un oggetto esista perché è utile a certi scopi, è naturale attribuire all'oggetto solo le proprietà necessarie a svol­ gere la sua funzione. Se i numeri servono a misurare la cardinalità - gran­ dezza - di una pluralità di oggetti è ovvio attribuire loro solo le proprietà rilevanti a tal fine.

45· Quali sono le domande riguardanti oggetti di finzione matematica per le quali ha senso attendersi una risposta? Questo è un modo di formulare la questione di cui ci oc­ cuperemo nel PAR. 3 .n. 46. TI problema della necessità delle proprietà degli oggetti astratti è discusso in Ya­ blo (2002) . In Yablo (2oor, p. 89) si nota un punto simile: tutte le proprietà possedute da un numero sono implicite nel concetto di numero (ovviamente, non sappiamo esplicita­ re questo concetto pienamente) . È per questo che l'attribuzione ai numeri di una pro­ prietà non implicita nel loro concetto (come la posizione spaziale, o il peso) ci appare ri­ dicola. I numeri sembrano non avere una «natura sostanziale nascosta», nelle parole di Mark Johnson. Questo non è certo il caso degli enti naturali: l'acqua ha delle proprietà essenziali (per esempio la sua struttura chimica) che certamente non sono implicite nel concetto di acqua. La differenza potrebbe essere spiegata dal fatto che, a differenza del­ l' acqua, i numeri sono oggetti postulati per servire a certi scopi e non si attribuiscono quindi loro proprietà irrilevanti per la loro funzione. 47· Esempi potrebbero essere enti geografici come i paralleli e i meridiani, i quali continuerebbero ad essere utilissimi per descrivere alcune situazioni anche se si dovesse scoprire che non esistono, proprio come è utile descrivere l'Italia come uno stivale anche se la descrizione è falsa. La concezione dei numeri come aiuti alla rappresentazione è svi­ luppata in Yablo (2005), discussa in parte nel CAP. r .

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3

Epistemologia: com'è possibile conoscere gli oggetti matematici?

3·1

Conoscenza fantasma Nel film Ghost (1990) il personaggio interpretato da Patrick Swayze, in seguito ad una morte violenta, abbandona il suo corpo e diviene un fan­ tasma. Una condizione, quella di ectoplasma, non del tutto priva di van­ taggi, come quello di non poter essere ferito o ucciso, ma anche fonte di notevoli seccature, come non poter interagire con gli oggetti che lo cir­ condano, in particolare con l'amata (ancora in carne ed ossa) . In gene­ rale, questi problemi sono dovuti alla mancanza di un'interazione cau­ sale con il mondo fisico, in entrambi i sensi: gli spiriti non possono toc­ care né essere toccati. Come abbiamo visto, la mancanza di interazione causale viene di so­ lito citata come caratteristica distintiva degli oggetti astratti, la qual co­ sa ha indotto molti a pensare che il rapporto tra i matematici e gli oggetti astratti sia tanto problematico quanto quello tra lo spettro e la sua bella. L'idea di base è questa: se la conoscenza matematica consistesse nella scoperta di come è fatto un dominio di enti matematici astratti, sarebbe molto difficile spiegare come sia possibile che un tale fenomeno si veri­ fichi; ma deve esserci una spiegazione della conoscenza matematica ; quindi la conoscenza matematica non va spiegata in termini di un rap­ porto tra un soggetto concreto (il matematico in carne ed ossa) ed un mondo di oggetti astratti (i numeri) ; ma se si può (e si deve) fare a meno degli oggetti astratti nello spiegare la conoscenza matematica, non rima­ ne nessun motivo per postularne l'esistenza e anzi conviene fare a meno di questa assunzione, ed abbracciare il nominalismo. Trasformare queste considerazioni in un argomento cogente contro l'esistenza degli oggetti astratti non è però un compito facile. n primo ten­ tativo in questo senso viene fatto di solito risalire all'articolo di Benacer­ raf Mathematical Truth (1973 ) . È da qui che conviene prendere le mosse per discutere la forza degli argomenti epistemologici contro il platonismo. II9

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

3·2

L'argomento di Benacerraf n problema con cui Benacerraf si confrontava, come viene suggerito dal titolo del suo articolo del 1973 è quello di chiarire come la nozione di ve­ rità possa essere applicata agli enunciati matematici. Si tratta di un pro­ blema legato a quello che abbiamo incontrato nel primo capitolo, ov­ vero se un enunciato come ' esistono num eri p rimi m aggiori di r .ooo.ooo' vada interpretato in base alla sua struttura logica superficia­ le o meno. Benacerraf pone la questione in modo più complesso, domandan­ dosi cosa significhi applicare il predicato 'è vero' ad un enunciato mate­ matico. Quando si ha a che fare con il linguaggio ordinario (o con suoi frammenti) e con enunciati come 'esistono città americane più grandi di New York' , esiste (secondo Benacerraf) un metodo consolidato per da­ re un senso preciso all'uso della nozione di verità, ovvero quello di Tar­ ski. Anche se la maggior parte dei lettori avrà certamente familiarità con tale tipo di definizione, vale la pena riepilogare brevemente le sue tappe principali. n primo passo è quello di (ri)formulare tutti gli enunciati nel lin­ guaggio della logica del primo ordine, che per comodità espositiva pos­ siamo ritenere composto dai due connettivi -, A , dal quantificatore 3, da un certo numero di predicati a n posti, P, Q, R, da costanti individuali come a, b ecc., e da un certo numero di variabili, x, y, z ecc. Nel nostro caso possiamo !imitarci ad un solo predicato ad un posto P, un predica­ to a due posti D e uno a tre posti T. n secondo passo è associare una denotazione ai termini del linguag­ gio. n nostro linguaggio intende parlare unicamente di città, quindi pos­ siamo immaginare che le costanti individuali, a, b, c fungano da nomi per le città; ad a viene dato il valore di New York, a b quello di 'Chicago' e così via. Con P intendiamo invece 'essere una città americana' : a questo predicato viene dunque associato l'insieme delle città americane. Al pre­ dicato a due posti D possiamo associare la relazione 'essere ad est di' , che identificheremo con l'insieme d i coppie d i città tali che a è ad est di b. Infine, come predicato a tre posti possiamo considerare 'essere situato tra', in simboli T, al quale associamo l'insieme di tutte le triplet­ te di città tali che b è situata nel mezzo tra a e c. Per finire si introduce la nozione di assegnazione arbitraria di valo­ ri alle variabili. Ogni assegnazione fa corrispondere ad ogni variabile un individuo, che la variabile denota. In certe assegnazioni x denoterà 'New York', in altre 'Chicago' ecc. Mentre la denotazione dei nomi in un lin­ guaggio L è quindi costante, quella delle variabili dipende dalle asse!20

3· EPISTEMOLOGIA: COM'È POSSIBILE CONOSCERE GLI OGGETTI MATEMATICI?

gnazioni 1 • Questo introduce una piccola complicazione, per cui invece di parlare di verità in un 'assegnazione, bisogna parlare di soddisfaci­ mento in un'assegnazione. Per definire la nozione di soddisfacimento , si procede per via induttiva, fornendo prima le condizioni di soddisfaci­ mento per gli enunciati elementari (quelli composti solo da un predica­ to P n seguito da uno o più termini singolari, ossia un nome come a o una variabile come x) . Nel nostro caso, il modo più semplice di procedere è questo: dal mo­ mento che ad ogni nome e ad ogni variabile è associata una città, pos­ siamo dire che ogni nome ed ogni variabile denotano una città (relativa­ mente ad un'assegnazione) ; e dal momento che ad ogni predicato ad un posto è associato un insieme di città, possiamo chiamare tali insiemi la denotazione dei predicati. Le clausole per le condizioni di verità di un enunciato atomico formato da un predicato ad un posto ed un termine singolare saranno quindi: P( ti ) è soddisfatto dall'assegnazione g se e solo se l'individuo denotato da ti ap­ partiene alla denotazione di P.

Nel caso di predicati a più di un posto, si può procedere così: con intendiamo la coppia ordinata formata dalle città de­ notate dai due termini e con la tripla ordina­ ta formata dalla denotazione dei tre termini. Sappiamo che ad ogni pre­ dicato a due posti è stato assegnato un insieme di coppie di città, a ogni predicato a tre posti un insieme di triplette di città: chiamiamo tali in­ siemi di coppie e triplette la denotazione dei predicati a due o tre posti. La definizione di verità per le formule atomiche con predicati a due o tre posti sarà: D( ti , t2) è soddisfatto dall'assegnazione se e solo se la coppia ordinata appartiene alla denotazione d i D . T( ti , t2, t3 ) è soddisfatta dall'assegnazione g se e solo se la tripla ordinata < den(ti), den(t2), den(t3)> appartiene alla denotazione di T.

Possiamo quindi definire induttivamente le condizioni di verità per gli enunciati chiusi applicando i connettivi logici e i quantificatori a partire dagli enunciati atomici: -a

è soddisfatta dall'assegnazione g se e solo se a non è soddisfatta da g.

L Questo perché quello che stiamo considerando è, in termini tecnici, un linguaggio interpretato.

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INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

a 1\ � è soddisfatta dall'assegnazione g se e solo se a è soddisfatta da g e � è sod­ disfatta da g. 3xja è soddisfatta dall'assegnazione g se e solo se a è soddisfatta da almeno un'assegnazione di valori di variabili che differisca da g al massimo per il valore assegnato alla variabile xj.

L'ultima clausola vorrebbe catturare il significato del quantificatore esi­ stenziale: se per almeno un individuo vale a, allora è possibile trovare un valore da assegnare a xj tale da rendere a soddisfatta; e se non c'è nem­ meno un individuo per cui non vale a, allora qualsiasi sia il valore che un'interpretazione assegna ad xj, tale assegnazione renderà a non sod­ disfatta. Per passare dalla nozione di soddisfacimento a quella di verità, basta definire vero un enunciato solo nel caso in cui sia soddisfatto da tutte le assegnazioni. Per gli enunciati privi di variabili libere, cioè quel­ li in cui ogni variabile cade nel raggio d'azione di un quantificatore, va­ le sempre che o sono veri o sono falsi (= la loro negazione è vera) , come il lettore potrà facilmente verificare. La semantica tarskiana, sostiene Benacerraf, è uno strumento molto potente, che permette di rendere conto delle condizioni di verità del no­ stro linguaggio quotidiano in modo elegante e intuitivo; tuttavia, è una semantica tipicamente re/erenziale: ai termini del linguaggio vengono as­ segnati come valori o individui o insiemi di individui e la quantificazio­ ne esistenziale su una formula viene resa vera solo nel caso si dia un in­ dividuo in grado di soddisfare la condizione espressa dalla formula. Se vogliamo che la semantica per il linguaggio matematico proceda in analogia con quella del linguaggio naturale, la verità di un enunciato come 'esistono numeri primi maggiori di ro.ooo.ooo' andrà quindi spie­ gata dicendo che esiste un individuo in grado di soddisfare il predicato ' essere un numero primo' e quello 'essere maggiore di ro.ooo.ooo' e quindi trattando i numeri alla stregua delle città o delle altre entità di cui parliamo nel linguaggio quotidiano e fisico . Secondo Benacerraf l'u­ niformità è un valore molto importante in semantica: Una teoria della verità per il linguaggio in cui parliamo, argomentiamo, teoriz­ ziamo, facciamo matematica, dovrebbe [. ] fornire condizioni di verità simili ad enunciati simili. Le condizioni di verità assegnate a due enunciati contenenti dei quantificatori dovrebbero riflettere in maniera rilevantemente simile il contri­ buto dei quantificatori (Benacerraf, 1973, p. 662). ..

Quello che Benacerraf vuole, nel richiedere «una teoria semantica unifor­ me, nella quale la semantica per le proposizioni matematiche vada in pa­ rallelo con la semantica del resto del linguaggio» (ivi, p. 66r) è che: 122

3· EPISTEMOLOGIA: COM'È POSSIBILE CONOSCERE GLI OGGETTI MATEMATICI?

l'apparato semantico della matematica sia visto come una parte del linguaggio naturale nel quale [la matematica] viene svolta, e che quindi qualsiasi sia la spie­ gazione semantica che siamo inclini a fornire dei nomi, o, più in generale, dei ter­ mini singolari, dei predicati, e dei quantificatori usati nella lingua madre, tale spiegazione includa quelle parti della lingua madre che classifichiamo come ma­ tematese (ivi, p. 666) .

Secondo questa linea di pensiero, sostenere che il significato del quanti­ ficatore esistenziale 3 vada spiegato in modo diverso nel caso del lin­ guaggio matematico rispetto al linguaggio naturale sarebbe altrettanto poco plausibile quanto sarebbe sostenerlo per il connettivo A (cfr. Hart, 1996, pp. 2-3) . Questo tipo di considerazioni possono essere viste come una difesa di quella che nel primo capitolo abbiamo chiamato "seman­ tica classica" (cfr. PAR. 1. 7) . Parlare di condizioni di verità di un enun­ ciato, tuttavia, consente a Benacerraf di formulare il suo problema in questo modo: la semantica classica attribuisce agli enunciati matematici delle condizioni di verità tali che sia possibile, per un essere umano, sta­ bilire se si verificano o meno? Se sapere che esistono numeri primi mag­ giori di 1oo .ooo significa verificare che un certo oggetto esiste, senza pe­ raltro poter constatare i risultati della sua azione su di noi o su altri og­ getti in alcun modo, questa conoscenza sembra diventare qualcosa di in­ spiegabile. La semantica classica, quindi, spiega in modo elegante le con­ dizioni di verità degli enunciati matematici, ma non spiega affatto, e sem­ bra addirittura rendere inspiegabile, come sia possibile per noi sapere che tali condizioni si verificano. Detto in maniera ingenua: se gli enun­ ciati matematici dicono quello che sembrano dire, allora non si capisce come sia possibile sapere che gli enunciati matematici sono veri. Ecco quindi il dilemma di Benacerraf o rinunciamo ad una spiega­ zione soddisfacente del significato dei nostri enunciati matematici, op­ pure non possiamo avere una spiegazione soddisfacente della nostra co­ noscenza della verità di tali enunciati. Resta da capire se il dilemma non nasca da un pregiudizio nei confronti degli oggetti astratti. N el sostene­ re che non si può conoscere la verità su un regno di oggetti astratti, Be­ nacerraf argomenta così 2: (Pr) Perché un soggetto S sappia che P, S deve essere in una relazione causale con i referenti dei nomi, dei predicati e dei quantificatori di P. (P2) Nessun soggetto è in una relazione causale con degli oggetti matematici. (C) Q uindi, nessun soggetto può conoscere una proposizione i cui referenti sono oggetti matematici.

2. La struttura dell'argomento è discussa in Liggins (2oo6) .

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INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

Ovviamente la forma dell'argomento è: (Pr) Perché un soggetto conosca una proposizione P, deve darsi la condizione x.

(P2) Nel caso delle proposizioni riguardanti gli oggetti matematici non si dà la condizione X. (C) Non è possibile conoscere proposizioni riguardanti gli oggetti matemati­ ci.

La premessa (r) pone una condizione necessaria per la conoscenza della verità di una proposizione, ovvero un rapporto causale con i referenti della proposizione. Si tratta quindi di una tesi sulla natura generale del­ la conoscenza, ovvero di una (parte di una) teoria della conoscenza, la quale merita il nome di teoria causale della conoscenza. Le teorie causali della conoscenza erano abbastanza in voga ai tempi di Benacerraf, il qua­ le nel suo articolo si rifà alla versione fornita da Goldman (r967) e altri. In tempi più recenti, tuttavia, questo tipo di teorie hanno perso consen­ so presso gli epistemologi, soprattutto perché erano inizialmente state presentate come soluzione ad un problema, che sembrano invece non es­ sere in grado di risolvere 3• Di solito, si aggiunge anche che la teoria è confutata da controesem­ pi plateali, come la nostra conoscenza del futuro, col quale ovviamente non abbiamo rapporti causali (cfr. Burgess, Rosen, 2005, p. 521) . Sono d'accordo con Liggins (2010, p. 68) 4 nel ritenere che le cose non siano così semplici: se si ritiene corretta l'intuizione di base della teoria causa­ le della conoscenza, è possibile modificarla in modo da renderla com­ patibile con alcuni di questi presunti contro esempi. Per esempio, ci si può basare sull'idea (cfr. Goldman, 1967) che quello che conta, affinché 3· n problema in questione ha a che fare con i controesempi proposti da Edmund Gettier (r963) a quella che (prima del suo articolo) era la definizione standard di cono­ scenza: credenza vera giustificata. n punto di Gettier è che è possibile che qualcuno, per esempio Mario, creda correttamente che le cose stiano in un certo modo, e abbia delle ra­ gioni per crederlo, e tuttavia non sappia che le cose stanno in quel modo. Se Mario crede che Roma sia in Inghilterra, per esempio, Mario crede anche che Roma sia in Europa; tut­ tavia suonerebbe un po' strano dire che Mario sa che Roma è in Europa, visto che lo cre­ de sì, e con delle ragioni, ma queste ragioni sono le ragioni sbagliate. La teoria causale del­ la conoscenza vorrebbe aggiungere un ulteriore requisito all'analisi della conoscenza: cre­ denza vera, giustificata e tale che ci sia un contatto causale tra il soggetto conoscente e i componenti della proposizione conosciuta. Ironia della sorte, proprio Goldman (r976) presenta dei controesempi in stile Gettier a questo tipo di analisi. 4· Ho avuto modo di discutere a lungo il problema degli argomenti epistemologici contro il platonismo con Ivan Kasa, il quale mi ha fatto notare molti dei problemi del mo­ do tradizionale di presentare il dibattito, tra cui l'idea che le teorie causali della cono­ scenza siano irrimediabilmente destinate al fallimento (cfr. Kasa, 2oro) .

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3· EPISTEMOLOGIA: COM'È POSSIBILE CONOSCERE GLI OGGETTI MATEMATICI?

si dia conoscenza, è che ci sia un )appropriata connessione causale tra gli oggetti su cui si possiedono delle conoscenze e il soggetto di tali cono­ scenze. Si può sostenere che gli eventi futuri e le nostre credenze intor­ no ad essi hanno una causa comune e questo basta a soddisfare le con­ dizioni della versione rivista della teoria (cfr. sempre Goldman, 1967) , o che il contatto causale è un requisito necessario solo per la conoscenza di ciò che esiste (Cheyne, 2oor) . In ogni caso, sviluppare una teoria cau­ sale della conoscenza è sicuramente un'impresa ardua, se non impossi­ bile, come testimoniano Steiner (1975) e Colyvan (2oor) 5• Oltre ai possibili controesempi, un ulteriore problema per l'argo­ mento basato sulla teoria causale della conoscenza ha a che fare con la sua struttura. Supponiamo che un teorico X affermi: se la mia teoria è corretta, allora non ci può essere conoscenza di oggetti astratti. A que­ sto il platonista risponderà che la nostra conoscenza dei numeri basta a smentire la sua teoria. N elle parole di Stephen Yablo: Un argomento con questa forma [ ] richiede premesse molto forti a proposito del tipo di entità sulle quali si può conoscere qualcosa, o che possono plausibil­ mente esistere. E questo genere di premesse può essere sempre messo in ridi­ colo proponendo i n umeri stessi come caso paradigmatico di un controesempio (Yablo, 200 1 , p. 87). ...

Un punto simile è suggerito nella risposta di David Lewis al dilemma di Benacerraf. Di fronte agli scettici che dicono «se la nostra epistemologia è corretta, allora bisogna dubitare dei risultati matematici», Lewis (1986, p. 4) risponde che i risultati matematici sono molto più sicuri di qualsiasi premessa su cui si basano le considerazioni epistemologiche in base alle quali si vorrebbe metterli in discussione 6• Tanto basta a far sorgere dei 5· Cheyne, per esempio, ha sostenuto il principio che per sapere che gli F esistono, la nostra credenza nella loro esistenza deve essere causata da almeno un evento al qua­ le gli F partecipano; a questo Colyvan risponde che gli astronomi hanno ragione di cre­ dere nell'esistenza di pianeti posti anche al di fuori del nostro cono di luce, ossia pia­ neti con i quali, stando alle leggi della fisica, non possiamo avere nessuna interazione causale. 6. La risposta di Lewis tradisce una certa tendenza da parte sua a confondere il ri­ fiuto di una tesi filosofica, come l'affermazione che esistono entità astratte, con il rifiuto di un risultato matematico, come il teorema di Euclide. Che le cose non debbano per for­ za andare così è testimoniato dal fatto che esistono versioni del nominalismo, come lo strutturalismo modale incontrato nel capitolo precedente, per le quali il teorema di Eu­ clide sarebbe vero anche nel caso non esistessero oggetti astratti, visto che si limita ad af­ fermare che in un certo tipo di sistemi valgono certe relazioni tra i membri del sistema, senza asserire che strutture di quel tipo esistono. Se una posizione del genere fosse cor­ retta, sarebbe possibile rifiutare il platonismo e allo stesso tempo affermare la validità del teorema di Euclide. Su questo punto, cfr. anche Liggins (2oro) .

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INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

dubbi sulla forza di un argomento che dipende in maniera cruciale dal­ l' assunzione di una (problematica) teoria della conoscenza. 3·3

La versione aggiornata di Field Non è detto, tuttavia, che questa assunzione sia necessaria ad ogni for­ mulazione di un argomento epistemologico contro il platonismo. Hartry Field (r989, pp . 230-9) ha presentato un argomento a suo giudizio im­ mune da questo vizio; un argomento che non solo, a differenza di quel­ lo di Benacerraf, non si basa su una teoria causale della conoscenza, ma che addirittura «non si basa su alcuna teoria della conoscenza», se per teoria della conoscenza si intende «una qualsiasi assunzione circa le con­ dizioni necessarie e sufficienti perché si dia conoscenza» (ivi, pp. 232-3) ; l'argomento , infatti, «non usa nemmeno il termine tecnico " conoscen­ za"» (ivi, p. 230) . Piuttosto, si basa sul principio che «dovremmo vedere con sospetto ogni affermazione di conoscere dei fatti in un certo campo, se crediamo impossibile spiegare l'affidabilità delle nostre opinioni in quel campo» (i vi, p. 233) . Per farsi un'idea del problema che Field ha in mente, consideriamo questo caso: immaginiamo un club di padovani la cui principale attività sia formarsi delle opinioni intorno ad uno sperduto villaggio del N epal. Nessuno di loro ha mai visitato il villaggio, né ha avuto contatti con nes­ suno che l'abbia fatto, né ha visto foto, documentari ecc. Eppure, non solo il villaggio in questione esiste, ma i padovani sono incredibilmente ben informati su di esso: tutto o quasi quello che credono circa il villag­ gio si rivela vero . Come reagiremmo, di fronte ad una situazione del ge­ nere? Sicuramente, la troveremmo misteriosa, se non addirittura incre­ dibile: se la stragrande maggioranza di quello che i padovani credono circa il villaggio nepalese è vero, deve esistere una spiegazione di qual­ che tipo; ma l'idea che i padovani siano totalmente isolati dal villaggio sembra rendere impossibile ogni spiegazione del fenomeno. L'idea di Field è che, se il platonismo fosse vero, si verificherebbe una situazione del tutto analoga a quella descritta, con i matematici nella parte dei p a­ dovani e il dominio delle entità matematiche astratte in quella del vil­ laggio nepalese. Il punto di partenza di Field è questo: un platonista che non voglia passare per scettico ritiene che, nella stragrande maggioranza dei casi, se una prova di una congettura matematica viene accettata dalla co­ munità scientifica, allora la congettura in questione è vera. Questo fe­ nomeno viene chiamato da Field (ivi, p . 230) affidabilità e definito in questo modo: 126

3· EPISTEMOLOGIA: COM'È POSSIBILE CONOSCERE GLI OGGETTI MATEMATICI?

Affidabilità I: Se la maggior parte dei matematici accetta p come teorema, allora p è vero 7•

L'affidabilità dei matematici non può essere un mistero, da cui il bisogno di una spiegazione, analogo a quello che si proverebbe in qualsiasi caso in cui si verifica una correlazione sistematica tra eventi (nel caso in cui un giocatore vincesse sempre alla roulette, o uno studente si recasse in bi­ blioteca tutti e soli i giorni in cui si presenta anche una certa studentessa, non sospetteremmo forse che ci sia una ragione? ) . In altri casi, come quel­ lo dei giudizi basati sulla vista o delle nostre credenze sugli elettroni, è possibile fornire almeno un abbozzo di una spiegazione del fenomeno dell'affidabilità: nel primo caso, per esempio, spiegando come la luce che colpisce gli oggetti giunga ad impressionare la retina, come il cervello ela­ bori queste informazioni e come questo processo porti alla formazione di giudizi normalmente affidabili riguardo al mondo esterno. Ovviamente esiste una spiegazione condizionale del fenomeno del­ l' affidabilità dei giudizi dei matematici: una caratteristica distintiva del­ le teorie matematiche moderne è la possibilità di presentare ogni dimo­ strazione come una serie di applicazioni di regole formali a partire dagli assiomi e Field non ha intenzione di sollevare dubbi circa la competen­ za logica dei matematici (la loro capacità di giudicare la correttezza di una dimostrazione) . Questo significa che se un enunciato viene accetta­ to come teorema, segue logicamente dagli assiomi della teoria matema­ tica di cui fa parte: se gli assiomi sono veri, anche il teorema lo è. Quel­ lo che resta da spiegare è come sia possibile giustificare l'affidabilità dei matematici nei confronti della scelta degli assiomi, ovvero giustificare il fatto che: Affidabilità II: Se la maggior parte dei matematici accetta p come assioma, allo­ ra p è vero.

Parte della spiegazione sta sicuramente nel fatto che la competenza lo­ gica dei matematici permette loro di riconoscere (nella maggior parte dei casi) se un insieme di assiomi sono consistenti o meno ; tuttavia, sostiene Field, come non è sufficiente, per spiegare la nostra tendenza a formar­ ci credenze vere sul mondo fisico, mettere in luce che le nostre teorie fi­ siche tendono ad essere consistenti, così non basta riconoscere la capa­ cità dei matematici di scegliere teorie matematiche consistenti a spiega­ re l'affidabilità delle loro credenze circa il dominio degli oggetti mate­ matici. 7·

Su come vada inteso il predicato di verità, si veda il PAR.

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3+

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

Perché c'è un grosso divario tra la consistenza di una teoria assiomatica e la sua verità. Nel caso della fisica possiamo riempire il divario, almeno in linea di prin­ cipio: possiamo abbozzare il percorso attraverso cui le proprietà, diciamo, del campo elettromagnetico portano a vari fenomeni fisici osservabili e attraverso questi influenzano le nostre credenze percettive e quindi in direttamente in ­ fluenzano le nostre credenze sul campo elettromagnetico (ivi, p. 232).

È proprio quando si tratta di spiegare come mai i matematici tendano a scegliere non solo assiomi tra di loro consistenti, ma veri, il platonismo incontra una difficoltà decisiva. ma nulla di lontanamente simile sembra possibile nel caso della matematica [. .. ] Il problema nasce in parte dal fatto che gli enti matematici, per come sono con­ cepiti dal platonista, non hanno interazioni causali con i matematici, né con nient'altro. Questo significa che non possiamo spiegare le credenze e i proferì­ menti dei matematici come causati da alcuni fatti matematici, o sostenere che i fatti matematici sono causati dalle credenze e dai proferimenti, o pensare a una qualche causa comune che li produca entrambi. Forse che un qualche tipo di spiegazione non causale è possibile? Forse, ma è molto difficile capire quale for­ ma potrebbe avere questa presunta spiegazione non causale. Si ricordi che, se­ condo l'immagine tradizionale del platonismo, gli oggetti matematici si presu­ me siano mente- e linguaggio- indipendenti; si suppone che non intrattengano nessuna relazione spazio-temporale con niente, etc. n problema è che le affer­ mazioni che il platonista fa riguardo gli oggetti matematici sembrano eliminare qualsiasi strategia in grado di spiegare la correlazione sistematica in questione (ivi, p. 231).

L'argomento può quindi essere schematizzato così (cfr. Hale, 1994) : (PI) (P2) (P3 ) (C)

I matematici sono affidabili nelle loro credenze matematiche. Il fenomeno dell'affidabilità va spiegato. Il platonismo non è in grado di spiegare il fenomeno dell'affidabilità. Il platonismo non è accettabile. 3 ·4

Critiche all'argomento di Field L'argomento sembra strutturato correttamente, per cui, se non si vuole accettare la conclusione, pare necessario indicare quale premessa sia er­ rata. Vista la plausibilità di Pr e P2, la scelta dei critici è ricaduta quasi inevitabilmente su P3 e la strategia più comunemente adottata è stata ne­ gare che il fenomeno della affidabilità necessiti davvero di una spiega­ zione o che questa spiegazione sia veramente così difficile da trovare co­ me Field ritiene. 128

3· EPISTEMOLOGIA: COM'È POSSIBILE CONOSCERE GLI OGGETTI MATEMATICI?

Per cercare di fare chiarezza sulla nozione di affidabilità delle cre­ denze matematiche, si può procedere per analogia con altri casi. In cosa consiste, per esempio , l'affidabilità delle credenze basate su ciò che ve­ do, ovvero il fatto che, normalmente, quando credo di avere una mela di fronte a me - perché ho una certa immagine sulla retina - le cose stan­ no davvero così? Una spiegazione a prima vista plausibile è questa: la mia vista (e di conseguenza le credenze basate su di essa) è affidabile, nel sen­ so che se non ci fosse stata una mela di fronte a me, allora non avrei avu­ to un certo tipo di immagine visiva sulla retina. Lo stesso vale nel caso delle nostre credenze fisiche: nel caso degli elettroni, una spiegazione del perché riteniamo che gli elettroni esistano è che se non fossero esistiti, non avremmo avuto certi riscontri sperimentali. Questo tipo di spiega­ zione dell'affidabilità è di natura contro/attuale, dato che un controfat­ tuale è un enunciato con il quale si descrive quale situazione si sarebbe verificata se qualcosa fosse andato diversamente da come di fatto è an­ data ('se non avessi fatto colazione, a quest'ora sarei affamato' ) . Nel caso della conoscenza matematica, tuttavia, secondo alcuni que­ sto modello è inapplicabile: non ha infatti semplicemente senso chieder­ si cosa sarebbe accaduto se un teorema matematico fosse stato falso. Que­ sto perché la spiegazione controfattuale ha senso quando si ha a che fare con enunciati contingentemente veri, ovvero enunciati che sono veri ma avrebbero potuto essere falsi: proprio per questo ha senso chiedersi qua­ li sarebbero state le nostre credenze nel caso tali enunciati non fossero stati veri. Gli enunciati matematici, tuttavia, se sono veri sono necessaria­ mente veri, ossia veri in tutti i casi possibili, e non ha quindi senso chie­ dersi come sarebbero andate le cose nel caso si fossero rivelati falsi. Nulla può dipendere controfattualmente da qualcosa di non-contingente. Per esempio nulla può dipendere controfattualmente da quali oggetti matematici ci sono [ . . ] . Nulla di sensato può essere detto circa come l e nostre opinioni sarebbero cambiate se non ci fosse stato nessun numero diciassette (Lewis, 1986, p. ni) . .

Ci sono almeno tre modi in cui Field può rispondere a questo tipo di obiezione. n primo è negare che tutti gli enunciati matematici veri lo sia­ no necessariamente (Field, 1989, p. 233 ) . Questo vale solo se si confina la propria attenzione agli enunciati matematici puri (2 + 2 4) e non si prendono in considerazione gli enunciati matematici misti, come 'il nu­ mero delle lune di Marte è due', il quale non sembra certo esprimere una verità necessaria. Ovviamente, nel caso dell'enunciato sulle lune di M ar­ te, è possibile sostenere che sia composto di due parti, una puramente matematica ('due è il numero degli x tali che Px se e solo se ci sono due =

129

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

x tali che Px' ) e una non matematica ('ci sono due lune di Marte' ) , tut­ tavia non è chiaro come questo avvenga in casi più complessi ( 'c'è una funzione differenziabile da punti dello spazio a numeri naturali tale che il gradiente di 'tjJ fornisce la forza di attrazione gravitazionale per unità di massa dell'oggetto ', ivi, p. 234) . Ironia della sorte, è proprio ad esem­ pi come questi che si rifanno i sostenitori dell'indispensabilità della ma­ tematica nelle scienze empiriche, per cui, se si vuol abbracciare l' obie­ zione di Lewis, sostiene Field, bisognerebbe concedere che il program­ ma di nominalizzazione della fisica sia realizzabile ! 8 A parte questo, l'idea che tutti i controfattuali con antecedenti ne­ cessariamente falsi siano banalmente veri sembra smentita da esempi co­ me questi: se fossi riuscito a dimostrare la tal congettura, non avrei esultato ( detto da un matematico che per tutta la vita ha cercato di dimostrare una congettura poi rivelatasi falsa, quindi impossibile da dimostrare - cfr. Liggins, 2010 ); se l'assioma di scelta fosse falso, il teorema di Tarski-Banach varrebbe co­ munque (Field, 1989, p. 238).

Questi controfattuali, infatti, pur avendo un antecedente necessaria­ mente falso, non sembrano intuitivamente veri. Il problema è collegato (sebbene non identico 9) ad una certa elusività della nozione di necessità a cui si fa riferimento quando si afferma che le verità matematiche sono necessarie. La distinzione tra diversi tipi di necessità è introdotta riflet­ tendo su esempi come i seguenti: (1) (2) (3) (4)

È impossibile per un essere umano correre i cento metri in meno di cin­ que secondi. È impossibile che un essere umano muti la sua velocità senza l'intervento di una qualche forza. È impossibile che un uomo sia alto più di un metro e mezzo e allo stesso tempo sia alto meno di un metro e mezzo. È impossibile che esista un numero naturale più grande di tutti gli altri.

Sembra chiaro che l'impossibilità a cui si fa riferimento in ( r ) e in (3) sia­ no diverse: non c'è nessuna difficoltà ad immaginare un uomo che cor8. Sull'argomento di indispensabilità e il programma di nominalizzazione della fisi­ ca, cfr. il CAP. r . 9· È possibile sostenere che esistano condizionali con antecedenti logicamente im­ possibili eppure non vacuamente veri ('Se il principio del terzo escluso non valesse, . . . ' , cfr. Nolan, 1997) . I n ogni caso, il fatto che l a necessità matematica venga solitamente te­ nuta distinta da quella logica rappresenta un problema ulteriore, come Field sottolinea (1989, p. 235).

130

3· EPISTEMOLOGIA: COM'È POSSIBILE CONOSCERE GLI OGGETTI MATEMATICI?

ra a una velocità superiore a quello che la nostra struttura anatomica di fatto permette, come sembra testimoniato dal fatto che nessuno perce­ pisce come assurda la storia di Flash Gordon. Una storia su un perso­ naggio contraddittorio come quello descritto in (3) provocherebbe ben altra reazione. Questo sembra segnalare una differenza tra la necessità biologica - o fisica, come nell'esempio (2) - e la necessità logica: il primo tipo di necessità è ristretta, vale in tutte e sole quelle situazioni in cui val­ gono le leggi della biologia o della fisica, mentre le leggi logiche valgono in assoluto, in tutte le situazioni possibili. n problema è dove collocare la necessità matematica: da un lato sembra assoluta (si riesce ad imma­ ginare una situazione in cui 2 + 2 = 5? ) , dall'altra, secondo Field, la ne­ cessità matematica non può essere identificata con quella logica (cfr. PAR. 3 .7) , dato che la matematica abbonda di teoremi che affermano l'esi­ stenza di un'infinità di enti (insiemi, numeri naturali, funzioni) , mentre le leggi logiche dovrebbero valere in qualsiasi universo, anche in un uni­ verso vuoto (in cui non esiste nulla) . In ogni caso, il problema dell'affidabilità non deve necessariamente essere concepito in termini controfattuali. n problema è infatti quello di spiegare cosa renda possibile una correlazione sistematica tra i "fatti " matematici e le credenze dei matematici. Anche ammesso che non abbia senso chiedersi se questa correlazione sarebbe rimasta tale se i fatti fos­ sero stati diversi, questo non esclude che abbia senso chiedere una spie­ gazione della correlazione attualmente presente tra le credenze e i fatti in questione. Le considerazioni sulla necessità non sono tuttavia le uniche a cui ci si può appellare per cercare di disinnescare l'argomento di Field: anche ammesso che le considerazioni sul fenomeno dell'affidabilità dimostri­ no che c'è qualcosa da spiegare, resta da capire se non si disponga di una semplice spiegazione del fenomeno. Per esempio Burgess e Rosen (1997, pp . 41-9) riformulano così Affidabilità II: Affidabilità III: Se i matematici accettano p come un assioma della teoria degli in­ siemi, allora p è vero.

Questo tipo di riformulazione è giustificato facendo appello all'idea che tutte le principali teorie matematiche possano essere ridotte alla teoria degli insiemi, ma può essere anche considerata semplicemente una utile semplificazione della formulazione originaria. Gli assiomi possono esse­ re ridotti unicamente ad uno solo, la loro congiunzione (Ar A A2 A . . . ) chiamiamola Con. Gli assiomi della teoria degli insiemi possono essere 131

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

considerati come una descrizione implicita di una certa struttura astrat­ ta, la gerarchia cumulativa degli insiemi incontrata nel CAP. 2 (cfr. Bur­ gess, Rosen, 1997, p. 45) , per cui Con può essere considerata equivalente all' affermazione che la gerarchia cumulativa esiste. Formulata in questo modo IO, più che esprimere una correlazione sistematica, Affidabilità III si limita a prendere nota di una felice connessione di eventi: Affidabilità N: Con è vero (o 'la gerarchia cumulativa esiste' è vero) e i matema­ tici accettano Con. A questo punto resta ben poco da spiegare: a chiarire come si è arrivati ad accettare gli assiomi basta infatti una buona storia della matematica. Quanto al fatto che Con sia vero, è opportuno riflettere su quale sia il con­ cetto di verità impiegato da Field. Field è esplicito nel dire che il predi­ cato 'è vero' che compare nelle varie versioni di Affidabilità va inteso in senso deflazionista. L'idea base del deflazionismo è che i due enunciati: (r)

P

e (rr)

è vero

sono equivalenti a livello di contenuto, nel senso che applicare il predi­ cato 'è vero' ad un enunciato non significa affermare una qualche pro­ prietà sostanziale circa il significato dell'enunciato, ma è equivalente a quello che si ottiene se si eliminano le virgolette, ovvero l'enunciato stes­ so. Per usare l'esempio classico, affermare che l' enunciato 'la neve è bianca' è vero equivale ad affermare che la neve è bianca. Risulta quin­ di chiaro che, con questo concetto di verità a cui fare riferimento, spie­ gare perché Con sia vero equivale a spiegare perché la gerarchia cumu­ lativa esiste; nel caso di un oggetto astratto, tuttavia, ha ben poco senso chiedersi per quali ragioni esista, dal momento che esiste necessaria10. Come viene notato in Linnebo (2oo6b, p. 560), il tentativo di eliminare l'impres­ sione che esista una correlazione da spiegare, traducendo Affidabilità I in questo modo, dovrebbe risultare per lo meno sospetto. Cercare di spiegare Affidabilità riducendola ad una congiunzione, per poi spiegare cosa rende veri i congiunti, sembra un po' come cer­ care di spiegare il fatto che tutti i presidenti degli Stati Uniti finora eletti siano di sesso maschile elencando i nomi e il genere sessuale di tutti i presidenti finora eletti e spiegan­ do poi cosa li ha portati a vincere le elezioni (si tratta di spiegare la congiunzione di una serie di enunciati dalla forma 'x è stato l'n-esimo presidente degli Stati Uniti ed x è di ses­ so maschile' - con l'aggiunta che l'elenco dei presidenti è esaustivo) .

13 2

3· EPISTEMOLOGIA: COM'È POSSIBILE CONOSCERE GLI OGGETTI MATEMATICI?

mente. Può tuttavia aver senso chiedersi in base a quali ragioni sia led­ to affermare che la gerarchia cumulativa esiste (ovvero che gli assiomi della teoria degli insiemi sono veri) . Burgess e Rosen (2005, p. 522) rias­ sumono la sfida di Field in questa domanda: «Qualcuno ha mai mostra­ to che il processo attraverso il quale si è arrivati a stabilire gli assiomi è un processo affidabile, che tende a condurre ad assiomi verz? Gli assio­ mi sono stati giustificati?». n problema di questa sfida, secondo Burgess e Rosen è che, per gli standard adottati dagli scienziati, in questo caso i matematici, sembra che l'accettazione degli assiomi sia pienamente giu­ stificata, per cui la domanda di Field sembra diventare ' ammesso che ac­ cettare gli assiomi della teoria degli insiemi sia una mossa giustificata in base agli standard scientifici, è giustificata in assoluto? ' . Questa doman­ da, tuttavia, non può essere accettata da chi sposa la prospettiva natura­ lista incontrata nel primo capitolo, dato che il nucleo di questa prospet­ tiva sta proprio nel sostenere che non c'è uno standard di giustificazio­ ne superiore a quello adottato nei contesti scientifici (cfr. Burgess, Ro­ sen, 1997, p. 48 ) . n carattere scettico della richiesta di spiegazione avan­ zata da Field verrebbe illuminato, a detta degli autori, da un paragone con una sfida analoga nel caso delle credenze basate sulla percezione: «è mai stato dimostrato che il processo con cui si formano i nostri giudizi percettivi è un processo affidabile, che tende a dare giudizi veri? I nostri giudizi percettivi ordinari sono stati giustz/icati?» (Burgess, Rosen, 2005, p. 522) . La sfida ha un carattere scettico nel senso che, a detta degli au­ tori, nella normale pratica scientifica, si dà per scontato che i giudizi ba­ sati sulla percezione siano corretti e non si sente nessun bisogno di for­ nire prove che convincano lo scettico: nessuno studio scientifico inizia con una prova che la vita non è sogno. Questo vale anche quando si for­ nisce una spiegazione scientifica dell'affidabilità della vista: nel condur­ re i loro esperimenti su come la luce impressiona la retina, gli scienziati si fidano (fino a prova contraria) della loro capacità di leggere corretta­ mente i dati riportati dagli strumenti n fatto che Burgess e Rosen identifichino una spiegazione del feno­ meno della affidabilità con una giustificazione dovrebbe insospettire, data l'insistenza di Field nel ribadire che il suo argomento non chiama in causa nessuna nozione epistemica 1 2• In effetti, dire che dovrebbe es­ sere possibile rendere conto dell'affidabilità dei giudizi dei matematici, sembra una richiesta basata non su una controversa teoria della cono­ scenza, ma sul semplice principio che qualsiasi correlazione sistematica n.

Cfr. Linnebo (2oo6) . 12. Liggins (2010, p. 74) muove la stessa critica a Burgess e Rosen.

n.

133

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

tra fatti dovrebbe poter in linea di principio essere spiegata. Disporre di una spiegazione del fenomeno dell'affidabilità è una cosa, giustificare una credenza in modo assoluto (a prova di scettico) un'altra. La richie­ sta di Field riguarda il primo punto, non il secondo. Come nota Liggins (2oo6, pp. 139-40) l'attacco è ad una posizione filosofica, non ad una teo­ ria scientifica e l'analogo nel caso della percezione sarebbe questo: una teoria filosofica della visione che renda un mistero l'affidabilità della no­ stra vista andrebbe rifiutata. Questo, tuttavia, non dovrebbe affatto spin­ gerei a dubitare di quello che vediamo. Se ho discusso così a lungo gli argomenti epistemologici contro il platonismo è per far comprendere come il problema della conoscenza matematica non sia facile da accantonare. Quello di Field non è un ar­ gomento che dimostri per qualsiasi versione del platonismo l'impossibi­ lità di spiegare l'affidabilità dei matematici 13 • La sua è piuttosto una "sfi­ da" (Linnebo , 2oo6b , p. 533) , a cui ogni concezione platonista della ma­ tematica deve rispondere. Le risposte non sono mancate: nei prossimi paragrafi ne considereremo alcune; in seguito ci chiederemo se il pro­ blema della conoscenza matematica non si presenti, seppure in forme di­ verse, anche all'interno di una prospettiva nominalista. 3·5

Logica e matematica Nel PAR. 3·3 abbiamo visto come Field riconosca ai matematici una com­ petenza logica. Questo, tuttavia, a suo parere non basta a spiegare l'affi­ dabilità dei matematici nei loro giudizi matematici. La competenza logi­ ca consiste in due cose: riconoscere se un enunciato B segua logicamen­ te o meno da un insieme di enunciati A e se un insieme di enunciati A sia consistente o meno. Esistono quindi almeno due modi per rifiutare la distinzione tra conoscenza logica e matematica tracciata da Field: so­ stenere che la verità degli assiomi è qualcosa di diverso dalla consisten­ za e tuttavia è qualcosa che può essere accertato in base ad un ragiona­ mento di natura puramente logica, oppure negare che la distinzione tra consistenza e verità si applichi anche nel caso delle teorie matematiche. La prima strada è quella seguita dal neo-logicismo di Bob Hale e Crispin Wright già incontrato nel CAP. 2 (sotto il nome di neo-fregeanesimo, ve­ dremo presto quale sia il legame tra le due dottrine) ; la seconda strate­ gia, invece, è alla base di una versione decisamente poco classica del pla­ tonismo difesa recentemente da Mark Balaguer. 13. Come riconosce lo stesso Field (1989, p. 231); cfr. anche Liggins (2o10, p. 74) .

134

3· EPISTEMOLOGIA: COM'È POSSIBILE CONOSCERE GLI OGGETTI MATEMATICI?

3 ·6

Il platonismo della pienezza (Balaguer) Perché, secondo Field, la consistenza di un insieme di assiomi non basta a garantirne la verità? li motivo è che la verità di un enunciato matema­ tico dipende, secondo il platonismo classico , dalle proprietà e dalle re­ lazioni presenti in un dominio di entità astratte, considerate dal platoni­ sta tanto indipendenti dalle nostre pratiche linguistiche e mentali quan­ to lo sono enti fisici come gli elettroni e le montagne. Sapere quindi che le nostre affermazioni su questi oggetti sono conseguenze logiche di un insieme consistente di assiomi non basta a garantire che rappresentino correttamente la realtà matematica, per la stessa ragione per cui non ba­ sta provare la consistenza di una teoria fisica per dichiararla corretta: l'i­ potesi che l'universo contenga più di dieci miliardi di galassie e quella che ne contenga al massimo tre miliardi sono entrambe coerenti (nessu­ no potrebbe rifiutarle a priori mostrando che implicano qualcosa di con­ traddittorio) , eppure non possono essere entrambe vere, dal momento che l'universo è uno solo e non può contenere allo stesso tempo più e me­ no di tre miliardi di galassie. L'idea fondamentale del Full Blooded Platonism (FBP) di Mark Bala­ guer è che l'analogia con il mondo fisico non tiene: ci sono infatti molti universi matematici, uno per ogni teoria matematica consistente, che è quindi è vera dei suoi oggetti matematici. Il conflitto tra due teorie in­ ternamente consistenti ma incompatibili tra di loro (per esempio tra una teoria degli insiemi a cui si aggiunga l'ipotesi del continuo e una a cui si aggiunga la negazione dell'ipotesi del continuo) è solo apparente, visto che le due teorie trattano di cose diverse: gli insiemi della prima non so­ no gli insiemi della seconda. Resta da capire in che senso ad ogni teoria matematica consistente corrisponda un universo di oggetti matematici, o nella formulazione di Balaguer, come mai «tutte le teorie matematiche pure consistenti sono vere di una qualche parte dell'universo matematico» (Balaguer, 1995, p. 306) . Questa affermazione segue da quello che Balaguer pone come il principio fondamentale del FBP, ovvero che «tutti gli oggetti matematici possibili esistono» o, in maniera meno imprecisa, come l'idea che «tutti gli oggetti matematici che potrebbero esistere, di fatto esistono» (ivi, p. 304) . Vedremo tra poco quali problemi si pongono a chi voglia dare un senso preciso a questa affermazione. Per il momento , è interessante no­ tare che per Balaguer 'possibile' qui va inteso in senso logico e che il principio va letto come «per ogni genere di oggetto matematico , se è pos­ sibile che esista un oggetto di quel genere, allora un oggetto di quel ge­ nere esiste». Una teoria puramente matematica viene intesa qui come un 13 5

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

insieme di enunciati (al limite anche uno solo) formulati nel linguaggio della matematica pura. Se si assume che 'consistente' qui sia sinonimo di «logicamente possibile» (cfr. ivi, p. 305) , allora risulta chiaro che se una teoria matematica consistente contiene l'affermazione che un certo og­ getto matematico esiste, è possibile che questo oggetto matematico esi­ sta; stando a quanto afferma il FBP, quindi, un oggetto del genere deve esistere e la teoria matematica in questione è quindi vera di quell' ogget­ to, lo descrive cioè correttamente. Ricordando che il problema di Field era stato presentato come ana­ logo a quello di spiegare la capacità di formarsi credenze affidabili circa un villaggio nepalese mai visitato e di cui non si ha nessuna notizia, Ba­ laguer risponde: Ammetto che non potrei avere nessuna conoscenza di un villaggio nepalese sen ­ za avere accesso ad esso; ma se tutti i possibili villaggi nepalesi esistessero, allo­ ra potrei conoscere questi villaggi, anche senza avere alcun accesso ad essi. Per ottenere tale conoscenza, dovrei semplicemente sognare un possibile villaggio nepalese: poiché, assumendo che tutti i villaggi nepalesi possibili esistano, se­ guirebbe che il villaggio che ho immaginato esiste e che le mie credenze circa questo villaggio corrispondono ai fatti che lo riguardano. Certo, non si dà il ca­ so che tutti i possibili villaggi nepalesi esistano, e quindi non possiamo ottenere conoscenza di essi in questo modo; ma, secondo il FBP, tutti i possibili oggetti matematici esistono. Perciò, se adottiamo il FBP, siamo liberi di adottare questa epistemologia per gli oggetti matematici (ibid. ).

La spiegazione dell' affidabilità dei giudizi dei matematici passa attra­ verso la constatazione che, se il FBP fosse corretto, una spiegazione di: (Br) Se i matematici accettano p, allora p è consistente

diventerebbe automaticamente una spiegazione di: Affidabilità�": Se i matematici accettano p , allora p è vero di una parte dell'uni­ verso matematico.

n problema di spiegare l'affidabilità dei giudizi matematici dei matema­ tici viene quindi ridotto dal FBP al problema di spiegare l'affidabilità dei loro giudizi logici e dato che Field e molti altri sono disposti a ricono­ scere la necessità di una tale spiegazione, il sostenitore del FBP può di­ chiarare di aver risposto alla loro sfida epistemologica. n FBP è una teoria interessante, che riprende ed elabora un'idea con una nobile tradizione alle spalle. Già Hilbert, nella sua corrispondenza con Frege (Frege, r893) spiegava come per lui la consistenza degli assio-

3· EPISTEMOLOGIA: COM'È POSSIBILE CONOSCERE GLI OGGETTI MATEMATICI?

mi fosse il criterio della verità degli assiomi e dell'esistenza di un sistema di oggetti in grado di soddisfare tali assiomi ed è su un'idea molto simi­ le a quella di Balaguer che si sviluppa la teoria degli oggetti matematici esposta in Linsky e Zalta (1995) . Vale quindi la pena di esaminarne alcu­ ni dettagli. n problema principale è capire come formulare con preci­ sione l'idea base del FBP . Dire che tutti gli oggetti matematici possibili esistono (la formulazione approssimativa di Balaguer) induce infatti il sospetto che si vogliano includere nel nostro universo di discorso (quin­ di nel nostro universo di quantificazione, e - in base alla definizione di Quine - nella nostra ontologia) anche " oggetti possibili " ; resta poi da chiarire se si voglia utilizzare o meno un predicato di esistenza . Balaguer evita entrambi i problemi formulando il FBP nel linguaggio della logica del secondo ordine 14 così: (FBPr) : VY(03x(Mx & Yx)



3x(Mx

A

Yx) )

Questa è una controparte formale della versione informale data ad ini­ zio paragrafo: "Per qualsiasi proprietà Y - il primo quantificatore quan­ tifica su proprietà, non su oggetti, per questo è detto del secondo ordi­ ne -, se è possibile che un oggetto matematico x - M simbolizza il pre­ dicato 'essere un oggetto matematico'- abbia la proprietà Y, allora esiste un oggetto matematico con la proprietà Y " : non si parla di oggetti pos­ sibili, ma della possibile esistenza di un certo tipo di oggetti 15 e l'esistenza

14. Per la logica del secondo ordine, cfr. in/ra. La formulazione è solo parziale, visto che non è sufficiente ad implicare l'esistenza di alcun oggetto matematico, mentre il FBP si impegna anche in questa tesi. Tuttavia, questo non ha conseguenze per le critiche che ora vedremo (riprese da Restall, 2003), per le quali è sufficiente che il sostenitore del FBP accetti di formalizzare con (FBPI) parte del contenuto della sua dottrina. 15. La modalità, come si usa dire, è de dieta e non de re. Intuitivamente con la mo­ dalità de dieta si vuole esprimere il fatto che una certa proposizione è necessariamente ve­ ra (necessariamente, 2 + 2 4) , mentre con la modalità de re si vuole esprimere una ca­ ratteristica essenziale di una certa cosa, un aspetto della sua natura intrinseca ('l'uomo è necessariamente un animale pensante'). Uno stesso enunciato del linguaggio naturale può essere letto in entrambi i modi, come testimoniano esempi del tipo: 'I poveri sono neces­ sariamente poveri' . Letta de dieta l'affermazione si limita a registrare il fatto che necessa­ riamente, in base alle leggi della logica, se uno è povero è povero: qualcosa di difficilmente contestabile. Nella lettura de re, invece, quell o che si intende dire è qualcosa di molto più controverso: che se uno è povero, allora non avrebbe potuto non esserlo, che se uno è po­ vero la povertà gli appartiene in maniera essenziale. La differenza può essere chiarita no­ tando la diversa posizione (il diverso ambito) dell'operatore modale 'necessariamente' in una formalizzazione dei due enunciati: (I) Modalità de dieta: (Necessariamente) ['v'x (Po­ vero (x) -+ Povero (x)] ; (2) Modalità de re: ) 'v'x (Povero (x) -+ (Necessariamente) Pove­ ro (x) ). Per un primo approfondimento, cfr. Casalegno (1997, capitolo quinto). =

137

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

è espressa attraverso un quantificatore e non un predicato . Pur risol­ vendo alcuni problemi, (FBPI) ne crea altri, come ha notato Greg Restall (2003) . Se infatti, in (FBPI) sostituiamo ad Yx la proprietà 'essere un x ta­ le che x è identico a se stesso e tale che l'Inter non ha vinto il campiona­ to nel 2oo7', ovvero x = x & -p otteniamo quanto segue: ( r)

03x(Mx & x = x & -p ) ---+ 3x( Mx

A

x = x &- p)

che per contrapposizione diventa: (2)

-3x(Mx

A

x=

x

& -p ) ---+ - 03x(Mx & x = x & -p ).

Dal momento che p implica -3 x ( Mx seguenza di (FBPI) che: (3)

A

x=x

& -p) abbiamo come con­

p ---+ - 03x(Mx & x = x & -p) .

Questa sembra una conseguenza davvero implausibile: è difficile accet­ tare che la vittoria dell'lnter nel 2007 implichi che sia logicamente im­ possibile che esistano oggetti matematici (identici a se stessi) e che l'In­ ter non vinca il campionato nel 2oo7. Per quale ragione l'esistenza degli oggetti matematici dovrebbe dipendere dalle sorti di una squadra di cal­ cio ? Sembra legittimo protestare che (FBPI) implica conseguenze così im­ plausibili solo perché si è voluta considerare una proprietà bizzarra co­ me 'essere un oggetto identico a se stesso e tale che l'lnter ha vinto il campionato nel 2oo7' . Le proprietà a cui si fa riferimento in (FBPI) era­ no ovviamente pensate proprietà matematiche, per cui la dottrina di Ba­ laguer dovrebbe essere formulata utilizzando il predicato della logica del terzo ordine 'essere una proprietà matematica' - qui reso con 'Mat(Y) ' : ( FBP2): 'v'Y(Mat(Y) & 03x(Mx & Yx) ---+ 3x(Mx

A

Yx)).

Questa mossa, tuttavia, sposta solamente il problema. Consideriamo in­ fatti un enunciato indecidibile della teoria degli insiemi come l'ipotesi del continuo. All'interno di ZF non si può dimostrare né l'ipotesi né la sua negazione - per questo ZF rimane consistente sia nel caso le si ag­ giunga come assioma l'ipotesi del continuo, sia nel caso le si aggiunga la sua negazione. Sembra logicamente possibile sia che l'ipotesi sia falsa 16 ,

16. Se si ritiene che la logica del secondo ordine basti a decidere l'ipotesi del conti­ nuo, si possono scegliere altri esempi: cfr. Restall (2003, pp. 85-6).

3· EPISTEMOLOGIA: COM'È POSSIBILE CONOSCERE GLI OGGETTI MATEMATICI?

sia che sia vera, sembra cioè possibile tanto che esista un oggetto mate­ matico in grado di soddisfare l'ipotesi, quanto che ne esista uno che la confuta, ovvero : (r)

03x(Mx & x = 2 & x xo= X J

e

Dal momento che è naturale considerare 'essere un oggetto matematico che soddisfa (confuta) l'ipotesi del continuo' come una proprietà mate­ matica, da ( r ) e (2) e da (FBP2) segue che:

e

Da (3) e ( 4) a sua volta segue facilmente che 2 x o = X I & 2 x o � X I (d'ora in poi C) : (FBP2) implica quindi una contraddizione. Si può sostenere, tuttavia, che la contraddizione è solo apparente (cfr. Rabin, 2007) , visto che nasce dall'illusione che il termine X I denoti in entrambi i casi lo stes­ so oggetto, mentre è chiaro che nello spirito del FBP l'oggetto denotato da X I in una teoria che soddisfi l'ipotesi del continuo è diverso da quel­ lo denotato da X I in una teoria che la rende falsa. Balaguer (1998, p. 58) considera un caso analogo: una teoria degli insiemi è consistente sia nel caso che includa l'assioma di scelta (ZF + C) sia in quello in cui include la sua negazione (ZF + -C) ; secondo il FBP entrambe le teorie sono quin­ di vere: ne segue forse che l'assioma di scelta è contemporaneamente ve­ ro e falso? Questa [il fatto che ZF + C e ZF + -C siano entrambe vere, N. d.A. ] non è una vera contraddizione. Secondo il FBP, sia ZFC+C che ZF + -C descrivono cor­ rettamente parti dell'universo matematico, ma non c'è nulla che non vada in questo, perché descrivono parti diverse di quell'universo. In altre parole, de­ scrivono diversi tipi di insiemi, o diversi universi di insiemi, per cui mentre se­ gue effettivamente da FBP che sia C che -C sono vere di parti dell'universo ma­ tematico, possiamo ottenere questo risultato solo a patto di interpretare C in due modi differenti nei due casi, assegnando cioè differenti tipi di entità all'espres­ sione di C nei due casi differenti. Perciò, nella misura in cui "C e non C " de­ scrive correttamente l'universo matematico, non è una contraddizione genuina

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INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

più di quanto non lo sia la frase "Aristotele ha sposato Jackie Kennedy e Ari­ stotele non ha sposato Jackie Kennedy" [nel primo caso ci si riferisce al famoso magnate dell'economia Aristotele Onassis , nel secondo al maestro di Platone, N. d.A .] (Balaguer, 1998 , p. 58 ) .

La nozione di riferimento adottata dal FBP lascia quindi aperta la possi­ bilità che il riferimento di un termine sia indeterminato . � 1 andrebbe in­ teso alla stregua di una descrizione definita (come 'il secondo cardinale transfinito') più che come un nome proprio; a partire da Kripke (1980) è stato messo in luce come la differenza di comportamento delle due ca­ tegorie di termini singolari rispetto al fenomeno del riferimento sia es­ senziale 17. Queste considerazioni vengono utilizzate da Rabin (2007) per mo­ strare come la derivazione da (FBP2) di C sia scorretta. il punto è che, es­ sendo il riferimento di � 1 indeterminato, il predicato Mx & x = 2 & x x o= � 1 non esprime una proprietà matematica finché non sia precisato 18 al­ meno a quale tipo 1 9 di cardinale transfinito ci stiamo riferendo, esatta­ mente come 'essere la moglie di Aristotele' non esprime nessuna pro­ prietà finché non si è stabilito se intendiamo riferirei al magnate della marina o allo Stagirita. Chiamiamo una precisazione l'assegnamento di un referente a tutti i termini ambigui del linguaggio: in alcune precisa­ zioni X 1 si riferisce al secondo cardinale transfinito in un universo insie­ mistico che rende vera l'ipotesi del continuo (indico con X 1c H questo ti­ po di cardinali) , in altri casi si riferisce al secondo cardinale in un uni­ verso insiemistico che rende l'ipotesi falsa, chiamiamoli X 1_c H· Nel pri­ mo tipo di precisazioni il predicato Mx & x = 2 & x x o= X esprime la proprietà che possiamo denotare con Mx & x = 2 & x xo= � �eH (d'ora in poi P r ) , mentre nel secondo la proprietà espressa è Mx & x = 2 & x x o= x I-CH (P2) . Quello che il FBP afferma è: 1

17. La differenza viene espressa solitamente dicendo che i nomi propri sono desi­ gnatori rigidi, owero si riferiscono allo stesso individuo in tutti i mondi possibili, il che significa che vengono usati per far riferimento sempre al medesimo individuo, anche quando li si impiega per descrivere situazioni diverse da quella attuale, mentre le descri­ zioni no. Per esempio, sebbene 'Berlusconi' e 'il presidente del Consiglio' abbiano lo stes­ so referente finché si parla del mondo nel 2on, ha senso dire: 'Nel caso il PD avesse vinto le scorse elezioni, il presidente del Consiglio nel 2oo8 sarebbe stato Walter Veltroni' , per­ ché 'il presidente del Consiglio nel 2oo8' in questo caso cambia referente (da Berlusconi a Veltroni); al contrario non ha senso dire 'Nel caso il PD avesse vinto le scorse elezioni, Berlusconi sarebbe stato Walter Veltroni' , perché 'Berlusconi' e 'Veltroni' denotano sem­ pre gli stessi (distinti) individui. 18. Chiamiamo una precisazione l'assegnamento di un referente a tutti i termini am­ bigui del nostro linguaggio. 19. Non serve infatti specificare esattamente quale sia il riferimento di X •.

3· EPISTEMOLOGIA: COM'È POSSIBILE CONOSCERE GLI OGGETTI MATEMATICI?

(s)

03x(Mx & x = 2 & x X o= X rcH ) --+ 3x (Mx & x = 2 & x X o= X 1c )

e (6)

03x(Mx & x = 2 & x Xo= x r-CH ) --+ 3x(Mx & x = 2 & x Xo= x r-CH) .

03x(Mx & x = 2 & x x o= X x-C H ) è però falsa, dal momento che non è lo­ gicamente possibile che un oggetto abbia la proprietà P1 (intuitivamente P1 è la proprietà di rendere vera l'ipotesi del continuo in un universo do­ ve l'ipotesi del continuo è falsa/) . Tornando ai nostri esempi iniziali (1) e (2) , quello che abbiamo detto può essere espresso anche come il fatto che la verità di (1) e (2) dipende da come si precisa il riferimento di X 1 : ( 1 ) non è vera in tutte le precisazioni, esattamente come (2) , anzi, in ogni precisazione almeno una delle due risulta logicamente falsa. Se si vuoi rendere sia (1) che (2) vere, bisogna formalizzarle così: (7) (8)

03x(Mx & X = 2 & X x o= X rcH ) ; 03x(Mx & x = 2 & x X o ;o! x x-CH ) .

Da (?) e (8) segue che x = 2 & x Xo= X rcH e x = 2 & x Xo ;Il! x r-CH· Appli­ cando la legge di Leibniz , otteniamo:

Lungi dall'esprimere una contraddizione, (9) implica solamente che il secondo cardinale transfinito non sia lo stesso insieme negli universi in cui l'ipotesi del continuo è vera e in quelli in cui è falsa. Per quanto non definitive, le obiezioni di Restall mettono comunque in luce alcune difficoltà che si presentano a chi voglia definire in modo preciso il contenuto della posizione delineata da Balaguer. La discussio­ ne riassunta qui sopra ha messo in luce come il (FBP) richieda una no­ zione di riferimento radicalmente diversa da quella standard; lo stesso vale per la nozione di 'significato' : quando Balaguer sostiene che un enunciato matematico come l'assioma di scelta ha un significato diverso in una teoria degli insiemi in cui lo si adotta come assioma e in una in cui si adotta la sua negazione, sembra echeggiare le tesi più controverse di Wittgenstein sulla matematica 20• Contro l'idea che la scelta degli assio20. Wittgenstein ha sostenuto che la dimostrazione di un enunciato matematico non è un metodo per stabilire la verità di un'affermazione dal significato già determinato, ma un processo attraverso cui un enunciato acquista un significato che prima non aveva (cfr. Frascolla, 2004) . Una conseguenza di questa posizione è che in una teoria che adotta l'e141

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

mi di una teoria definisca gli oggetti della teoria, si possono avanzare del­ le obiezioni classiche (cfr. , per esempio , Yablo, 2002) : davvero un teori­ co degli insiemi che si rifiuti di accettare l'assioma di scelta intende con il termine 'insieme' qualcosa di diverso da chi invece considera l'assio­ ma vero? Se è così è legittimo chiedersi come mai si è discusso a lungo se adottarlo o meno: la comunicazione tra un fautore dell'assioma di scelta e un suo negatore sembra un fenomeno reale, ma il FBP sembra renderla puramente illusoria (i due parlano di cose diverse, quando par­ lano degli 'insiemi') . In Balaguer (1998) vengono più volte accennate le linee per una risposta a questa e ad altre obiezioni 2\ ma capire come svi­ luppare queste indicazioni (per esempio , capire come sviluppare la logi­ ca della precisazione e del riferimento indeterminato nel caso della ma­ tematica) resta un compito non banale. Un problema ulteriore è che per una valutazione del FBP gioca un ruolo essenziale la comprensione della nozione di " corretta descrizione" : ossia in che senso «ogni teoria consi­ stente descrive correttamente una parte dell'universo matematico» (ivi, p. 50) . Balaguer vuoi forse sostenere semplicemente che: (ModM) Ogni teoria matematica consistente ha un modello?

Balaguer è esplicito nel negare che la sua dottrina possa essere ridotta a questa (non controversa) tesi, per varie ragioni (cfr. Restall, 2003 , p. 88) . Per prima cosa, il platonismo della pienezza si chiama così perché so­ stiene che, a differenza di quanto avviene in fisica, in matematica teorie (consistenti) diverse descrivono universi diversi - e ognuna descrive cor­ rettamente il proprio universo. Ora (ModM) non è controversa perché per le teorie assiomatiche formulate nel linguaggio della logica del pri­ mo ordine vale il seguente metateorema: nunciato matematico E ha un significato diverso in una teoria in cui viene adottato come assioma e in una in cui viene adottata la sua negazione. 21 . Come quella avanzata da Tony Martin (vedi Balaguer, 2009, nota 15): consideria­ mo l'universo insiemistico composto dall'unione di tutti gli universi correttamente de­ scritti dalle varie teorie degli insiemi; non è questo il vero universo insiemistico, quello che contiene tutti gli insiemi? L'obiezione non mi pare affatto devastante: una risposta del tut­ to plausibile è che quello che differenzia le varie teorie insiemistiche è proprio il diverso significato attribuito al quantificatore 'tutti gli insiemi' . Si può anche pensare che esiste un unico universo insiemistico, ma sostenere che è altrettanto legittimo intendere con 'tutti gli insiemi' tanto un sottoinsieme proprio di questo dominio, quanto l'intero domi­ nio. Questa risposta è in effetti una variazione sull'argomento usato da Putnam in Models an d Reality che incontreremo nel PAR. 3 . n , dove si assumeva esplicitamente l'esistenza di un unico universo insiemistico, per dimostrare poi l'indeterminatezza del significato del­ la nozione di insieme, di appartenenza, o di quantificazione (cfr. anche Field, 2001, sag­ gio 12 per considerazioni simili a queste) .

3· EPISTEMOLOGIA: COM'È POSSIBILE CONOSCERE GLI OGGETTI MATEMATICI?

(Mod) Ogni teoria consistente ha un modello.

Ma da (Mod) segue anche che: (ModF) Ogni teoria fisica consistente ha un modello.

(ModF) tuttavia non esprime il fatto (falso) che ogni teoria fisica consi­ stente descrive correttamente un universo fisico: dato che l'universo fi­ sico si suppone unico 2\ questo implicherebbe la conclusione inaccetta­ bile che tutte le teorie fisiche consistenti sono vere. La conclusione non segue da (ModF) proprio perché si può sostenere che l'esistenza di mo­ delli delle teorie fisiche false segnala semplicemente la possibilità di in­ terpretare quelle teorie in modo da renderle vere 23• n problema è reso evidente dal fatto che il rappresentante paradigmatico del platonismo standard è Quine, il quale però, essendo anche un sostenitore della lo­ gica del primo ordine, non avrebbe problemi ad accettare (ModM ) . 3 ·7

La tesi che la matematica è logica Sostenere, come fa il FBP, che la consistenza di una teoria matematica coincida con la sua verità non è comunque l'unico modo per cercare di spiegare la conoscenza matematica (l'affidabilità dei matematici) in ter­ mini di conoscenza (affidabilità) logica. Un'altra via, percorsa dai neo­ fregeani incontrati nei capitoli precedenti, è sostenere che le verità ma­ tematiche sono deducibili per via puramente logica a partire da quella che può essere considerata una definizione implicita del concetto di nu­ mero, ovvero il già nominato principio di Hume. L'idea, come riassume Bob Hale (1994) , è che l'esistenza dei numeri sia un fatto necessario, e che la conoscenza di fatti (verità) necessari sia conoscenza di fatti logici, e quindi un fenomeno del tutto analogo (sebbene non identico) alla co­ noscenza di fatti logici come la consistenza di una teoria.

22. Sarebbe forse più corretto dire che l'universo fisico attuale si suppone unico, per non escludere la posizione di chi, a partire da Lewis (r986) , sostiene che esista una plura­ lità di mondi possibili, dove i mondi possibili meritano il titolo di "universi fisici " . 23. Per i l concetto di 'modello' si veda l a discussione della semantica tarskiana con­ dotta al PAR. 3 . 2 e i rispettivi riferimenti bibliografici . Per capire la differenza intuitiva tra verità e verità in un modello, si consideri che un enunciato come 'Roma è la capitale del­ la Francia' è vero in qualsiasi modello in cui ' Roma' denota un oggetto a , 'Francia' un og­ getto b, ed 'essere la capitale di Francia' una relazione che conta la coppia ordinata tra i suoi elementi.

143

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

Dal principio di Hume si può infatti derivare l'esistenza dei numeri in questo modo: (I)

(2)

(3) (4) (5)

Il concetto 'essere diverso da se stesso' può essere messo in corrispon­ denza biunivoca con il concetto 'essere diverso da se stesso' (deduzione logica a partire dalla premessa che non esistono oggetti diversi da se stes ­ si, cfr. in/ra) . (HP): Il numero che spetta al concetto 'essere diverso da se stesso' è iden­ tico al numero che spetta al concetto 'essere diverso da se stesso' se e so­ lo se il concetto 'essere diverso da se stesso ' può essere messo in corri­ spondenza biunivoca con il concetto 'essere diverso da se stesso'. Il numero che spetta al concetto 'essere diverso da se stesso' è identico al numero che spetta al concetto 'essere diverso da se stesso' (da (I) e (2) ) , Esiste un numero che spetta al concetto 'essere diverso da se stesso' (da (3) per generalizzazione esistenziale) . Esiste almeno un numero (da (4) , per generalizzazione esistenziale) .

n problema è capire in che senso un ragionamento del genere sia logico, ovvero quale sia la teoria all'interno della quale un ragionamento come quello appena mostrato può essere formalizzato; innanzitutto, è da ca­ pire quale sia il suo linguaggio. Consideriamo il principio di Hume, reso semi-formalmente come: (HPI) Il numero degli oggetti tali che è identico al numero degli oggetti tali che se e solo se c'è una corrispondenza I a I tra gli oggetti tali che e quelli tali che __

_ _ _ _

___

_ _ _ _

.

Per formalizzare un'affermazione di questo tipo abbiamo bisogno di un operatore, che indichiamo con #, da leggersi come 'il numero dei' . L'ope­ ratore si applica a formule aperte Q> con una sola variabile libera e, associa­ to ad ogni formula libera, forma un termine singolare, ovvero un termine che denota un oggetto. Dire che i mariti sono in una relazione I a I con le mogli significa che ad ogni marito corrisponde una e una sola moglie e che non ci sono mogli che non abbiano uno e un solo marito. Si può dire quin­ di che gli F sono in corrispondenza I a I con gli G se e solo se c'è una rela­ zione R tale che: per ogni x, se x è un F, c'è un solo y che è G tale che x sta nella relazione R con y e per ogni y, se y è uno G, allora c'è un solo x tale sta nella relazione R con y. Sfruttando il quantificatore (3 !x)Q>x, da legger­ si come 'c'è un solo x tale da soddisfare la condizione cp' 24, possiamo for­ malizzare nel linguaggio allargato (un caso del) principio di Hume così: 24· n nuovo quantificatore è definibile a partire da quelli già esistenti nel linguaggio del primo ordine: (3 ! x)x = def. 3x (x) & 'r/y (y - y = x).

I 44

3· EPISTEMOLOGIA: COM'È POSSIBILE CONOSCERE GLI OGGETTI MATEMATICI?

(HP) #(Fx) Fx)] .

=

# (Gx)



3R['v'x (Fx� 3 !y (Rxy & Gy) & 'v'y(Gy �3 !x (Rxy &

n problema è la formalizzazione di ' c'è una relazione tale che . . . ' resa qui ' con 3R . . . TI quantificatore esistenziale che abbiamo incontrato fino ad ora vincolava infatti variabili individuali. Un'inferenza del tipo 'Gino è un inglese ed è simpatico, quindi esistono degli inglesi simpatici' veniva tradotta così: ( r)

la

1\

Sa � 3x (Ix 1\ Sx) .

L'operazione "sin tattica" di sostituire ad un nome una variabile indivi­ duale e di vincolare la variabile con un quantificatore esistenziale è giu­ stificabile in base alla semantica standard per i linguaggi del primo or­ dine. Le variabili funzionano infatti come pro-nomi: un enunciato come 'c'è un lui, tale che lui è inglese e simpatico' è vero se e solo se è possi­ bile dare a 'lui' un valore (far denotare a 'lui' un individuo) tale da ren­ dere vero l'enunciato 'lui è inglese e simpatico' ; e se il nome 'Gino' de­ nota un individuo con queste caratteristiche, per far ciò è sufficiente da­ re al pronome 'lui' il valore Gino. Supponiamo però di aver a che fare con un'inferenza del tipo: Matteo è simpatico e Riccardo è simpatico, quindi Matteo e Riccardo hanno qual­ cosa in comune. Le cose si complicano. L'inferenza ha infatti la forma: ( 2)

Sa " Sb � 3X (Xa " Xb ) .

Quello di cui si vuole dedurre l'esistenza qui non è un individuo, ma qualcosa come una proprietà di cui più individui possono godere (o un'entità affine come un insieme, a cui più individui possono apparte­ nere) . Le variabili in questo caso sono di tipo diverso: prendono il posto delle costanti predicative e meriterebbero quindi il titolo di pro-predi­ cati. Se al linguaggio del primo ordine si aggiungono variabili (e quanti­ ficatori) di questo nuovo tipo si ottiene il linguaggio della logica del se­ condo ordine. I predicati non devono necessariamente essere ad un po­ sto solo, per esempio un ragionamento come 'Giocasta è la madre di Edi­ po, Agrippina è la madre di Nerone, quindi Giocasta ed Edipo stanno nella stessa relazione di Agrippina e N ero ne' può essere resa come: (3)

aRb

A

cRd � 3X (a X b

A c

X d).

n linguaggio della logica del secondo permette quindi di formulare la quantificazione su relazioni, che è quanto serve per esprimere il principio 14 5

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

di Hume. Dal principio di Hume e da una formulazione standard delle regole di inferenza e degli assiomi della logica del secondo ordine si pos­ sono derivare gli assiomi di Peano e quindi l'aritmetica, intesa come la teo­ ria dei numeri naturali. Questo risultato, conosciuto come il teorema di Frege è alla base del tentativo neo-fregeano di sostenere che almeno una parte della nostra conoscenza matematica può essere spiegata in termini di conoscenza logica, ossia nei termini della capacità di trarre le conse­ guenze logiche della definizione (implicita) di numero naturale. Ci sono ovviamente due fronti su cui è possibile attaccare la strate­ gia. Per prima cosa si può contestare l'affermazione che l'adozione del principio di Hume sia una mossa altrettanto innocente che una sempli­ ce stipulazione del significato dell'operatore 'numero di . . . '. Come ve­ dremo nei prossimi paragrafi, principi di astrazione analoghi conduco­ no a contraddizioni, come ci ricorda la bad company objection , e l'ado­ zione del principio di Hume stesso comporta delle conseguenze non ba­ nali a livello antologico. In alternativa, si può sostenere che il tentativo di ridurre la cono­ scenza aritmetica (matematica) a conoscenza logica risulterebbe circola­ re, se la logica chiamata in causa nel derivare gli assiomi di Peano (e gli assiomi dell'Analisi) richiedesse l'appello a certe conoscenze matemati­ che per essere giustificata. Questo è il senso del detto di Quine secondo cui la logica del secondo ordine in realtà è teoria degli insiemi (un lupo) travestita da logica (pecora) . Sebbene al momento della sua nascita le co­ se non fossero così chiare, oggi, grazie anche all'influsso di Quine, la teo­ ria degli insiemi non è più considerata logica: la teoria degli insiemi è ap­ punto una teoria matematica, la quale descrive un dominio di oggetti con caratteristiche ben determinate (ci sono infiniti oggetti, i quali intratten­ gono certe relazioni gli uni con gli altri ecc.), mentre la caratteristica del­ le verità logiche è di valere per qualsiasi dominio di oggetti, indipenden­ temente da quanti siano quegli oggetti e da quali siano le loro relazioni. L'idea viene espressa di solito dicendo che la logica non ha un oggetto di studio determinato, ma mostra quali condizioni valgono qualsiasi campo di studio si scelga; dal momento che si può scegliere come campo di stu­ dio un dominio di oggetti finiti, non può certamente essere una verità lo­ gica che esistano infiniti oggetti: anzi, la logica dovrebbe essere del tutto neutrale riguardo alla questione circa quante cose esistano, al punto che è considerato da alcuni un difetto delle logica del primo ordine il fatto che in essa si possa dimostrare l'esistenza di almeno un oggetto. n pro­ blema per il teorico della logica del secondo ordine è questo : se per rico­ noscere la validità degli schemi di inferenza propri della logica del se­ condo ordine fosse necessario riconoscere la validità di certi principi in­ siemistici, la riduzione della (conoscenza) aritmetica a (conoscenza) logi-

3· EPISTEMOLOGIA: COM'È POSSIBILE CONOSCERE GLI OGGETTI MATEMATICI?

ca sarebbe in realtà solamente una riduzione dell'aritmetica alla teoria de­ gli insiemi, ovvero un risultato scontato e non in grado di risolvere il pro­ blema che era chiamato a risolvere (il problema di spiegare come sia pos­ sibile conoscere alcune verità sui numeri viene sostituito col problema di spiegare come sia possibile conoscere alcune verità sugli insiemi, con l' ag­ gravante del problema dell'identificazione discusso nel CAP. 2) . Resta da capire se l'accusa sia fondata. Le ragioni per sostenere che la logica del secondo ordine sia in realtà matematica possono essere riassunte in tre gruppi (seguo qui MacBride, 2003 , pp. 135- 42) . Per prima cosa, la semantica del linguaggio della logica del secondo ordine è di tipo insiemistico, nel senso che la nozione di validità è defi­ nita come verità in tutti i modelli e quella di conseguenza logica di certe premesse come verità in tutti i modelli in cui sono vere le premesse, do­ ve i modelli sono insiemi di un certo tipo. Questo non dovrebbe sor­ prendere, visto che lo stesso vale nel caso del linguaggio della logica del primo ordine, come si può capire fin dal breve resoconto della semanti­ ca tarskiana fornito al PAR. 3.2. Più preoccupante è il fatto che la validità di una formula dipenda dalla verità di certi assiomi insiemistici. Anche questo, di per sé, non è un fatto sorprendente, visto che un fenomeno analogo si verifica anche al primo ordine; un enunciato come: ( r)

'v'x[o � s(x) & 'v'y (y � x � s(y) � s(x))]

è vero solo in un modello con infiniti elementi: se esistessero unicamen­ te insiemi (quindi modelli) con un numero finito di elementi, (1 ) sareb­ be falso in tutti i modelli e la sua negazione di conseguenza vera in tutti i modelli e quindi logicamente valida. Per escludere, come vorremmo , che la negazione di (1) sia una verità logica bisogna assumere l'assioma deltin/inito, che garantisce l'esistenza di un insieme con infiniti elemen­ ti e quindi di un modello in grado di soddisfare (1) e rendere falsa la sua negazione. Anche al primo ordine una formula è valida o meno a secon­ da di quali tipi di modelli si prendono in considerazione. Questo signi­ fica che, anche nel caso della logica del primo ordine, la validità di una formula dipende da alcuni principi insiemistici, precisamente quei prin­ cipi che garantiscono l'esistenza o meno di certi insiemi, in grado di fun­ gere da modelli. Nel caso della logica del secondo ordine, tuttavia, le co­ se sono complicate dal fatto che la validità di una formula dipende dal valore di verità di certi enunciati che sono indecidibili nella teoria degli insiemi (ovviamente al primo ordine) , per esempio dall'zpotesi del conti­ nuo. Sembra quindi che la connessione tra i valori di verità di certe ipo­ tesi insiemistiche e la nozione di validità logica impiegata al secondo or­ dine siano molto più strette che nel caso del primo ordine. Inoltre, la lo147

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

gica del secondo ordine, a differenza di quella del primo, non è comple­ ta 25: non esiste nessun algoritmo in grado di produrre tutte e sole le for­ mule logicamente valide e nessun calcolo logico in grado di derivarle tut­ te come teoremi. Questo, oltre ad essere un problema per chi ritiene che una logica sia essenzialmente una procedura di derivazione, significa che la comprensione della nozione di logicamente valido (e di conseguenza lo­ gica) al secondo ordine, non potendo essere spiegata in termini sintatti­ ci, deve essere spiegata in termini modellistici; ma sapere cos'è un mo­ dello del secondo ordine richiede una conoscenza di com'è fatto l'uni­ verso insiemistico (cfr. Wagner, 1987; Quine, 1970; MacBride, 2003) . Resta da capire se per riconoscere la correttezza di alcuni principi di inferenza utilizzati al secondo ordine sia necessario o meno sviluppare una semantica in grado di confermare quei giudizi. Sembra che la correttezza di un'inferenza come 'Mario e Gianni sono entrambi romanisti, quindi hanno qualcosa in comune' possa essere riconosciuta senza chiamare in causa l'apparato della teoria dei modelli (cfr. Wright, 1983 , pp. 132-3) . Questo si collega ad un altro punto: applicando al caso della logica del secondo ordine il motto secondo cui una teoria si impegna antologi­ camente a quelle entità che devono esistere perché la teoria sia vera, Qui­ ne ha sostenuto che la logica del secondo ordine ha impegni antologici troppo forti. La logica del secondo ordine sarebbe teoria degli insiemi mascherata non perché ha una semantica insiemistica (non vale lo stesso per il primo ordine? ) , ma perché la logica stessa richiede l'esistenza degli insiemi (o delle proprietà) perché sia vero, per esempio, il suo assioma di comprensione (secondo cui esiste una proprietà goduta da - un insieme comprendente - tutti gli oggetti che soddisfano una certa condizione) : (Comp) 3X( 'v'x,y, . . . (X(x,y, . . . )



cp(x, y) ) ) .

I valori delle variabili del secondo ordine secondo Quine non possono che essere insiemi, per cui un enunciato che, come il principio di com­ prensione, quantifichi esistenzialmente su di esse si impegna antologica­ mente all'esistenza degli insiemi. Questa è una conseguenza inaccettabi­ le per Quine, dal momento che il tratto distintivo della logica dovrebbe essere la sua parsimonia di impegni antologici: le leggi logiche, dovendo valere in tutte le situazioni possibili, non dovrebbero includere tra di es­ se enunciati che richiedono l'esistenza di certi tipi di entità. In realtà, già al primo ordine risulta logicamente valido l'enunciato che afferma l'esi­ stenza di un individuo: se è possibile tollerare questo difetto, non altret25 .

Almeno se si adotta la semantica standard, cfr. PAR. 3.rr.

3· EPISTEMOLOGIA: COM'È POSSIBILE CONOSCERE GLI OGGETTI MATEMATICI?

tanto si può fare con gli "esorbitanti" impegni antologici della logica del secondo ordine nei confronti degli insiemi (Quine, 1969c, 1970) . In realtà, non è affatto scontato che gli impegni antologici siano co­ sì esorbitanti: per esempio, la logica del secondo ordine ammette modelli con meno di due elementi, per cui è la formula 3X(3x3y(Xx & -Xy) ) non è una verità logica, il che sembra rivelare impegni antologici abbastanza "leggeri" , almeno al livello della cardinalità (cfr. Boolos, 1985) . Quanto all'impegno antologico nei confronti degli insiemi, Quine lo attribuisce all'uso delle variabili del secondo ordine quantificate perché non vede altro modo per interpretare la quantificazione di ordine supe­ riore, se non come equivalente a una quantificazione su insiemi al primo ordine: !imitandoci al caso dei predicati ad un posto , 3X (Xx & Xz & . . . ) sarebbe equivalente al più tradizionale 3y (y è un insieme & x E y & z E y . . & . . ) . Non è affatto detto, tuttavia, che questo sia l'unico modo di interpretare la quantificazione al secondo ordine e nemmeno il più na­ turale. Quine insiste sul fatto che, per giudicare gli impegni antologici della logica del secondo ordine, quest'ultima venga tradotta al primo or­ dine, ma non sembra necessario cedere a questa richiesta (ibid. ) . Consi­ derando l'enunciato di Geach-Kaplan: .

.

(GK) Alcuni critici si ammirano unicamente tra di loro,

Boolos sostiene che (GK) intuitivamente sembra impegnarsi unicamente nei confronti dell'esistenza dei critici: sembra che, perché (GK) sia vero, sia sufficiente che esistano dei critici con certe caratteristiche. Eppure, non esiste un enunciato formulabile al primo ordine equivalente a ( ( G K)) , il quale può invece essere reso al secondo ordine. Se restringiamo il campo delle variabili delle variabili del primo ordine ai soli critici, e rendiamo con A(x, y) la relazione 'x ammira y', possiamo rendere (GK) come: (GKi() 3X(3xXx & Vx\::fy (Xx & A(x, y) --+ Xy & y ;a! x) ) .

L a situazione sembra descrivibile così: c'è almeno u n enunciato , per esprimere il contenuto del quale il ricorso alla quantificazione al secon­ do ordine è essenziale, eppure il contenuto dell'enunciato sembra non avere niente a che fare con l'esistenza delle classi; l'enunciato non suo­ nerebbe contraddittorio in bocca ad un nominalista, come sarebbe il ca­ so se davvero l'enunciato fosse impegnato antologicamente alle classi; quindi l'enunciato, e la quantificazione al secondo ordine che in esso compare, non impegnano antologicamente nei confronti delle classi. L'idea di Boolos è che il quantificatore 3X vada letto come una quan­ tificazione plurale: 'ci sono degli individui tali che . . . ' . Boolos (1984) col149

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

lega a questo anche una indicazione semantica: il valore di una variabile possono essere uno o più individui, a seconda del tipo di variabili con cui si ha a che fare. I problemi con l'approccio di Boolos alla quantificazione sono es­ senzialmente di due tipi: c'è chi, come Resnik (r988) ritiene che l' ap­ proccio non funzioni nemmeno nel caso dei predicati monadici, perché l'unico modo per renderlo comprensibile richiederebbe un tacito riferi­ mento alle classi. Il problema più discusso, tuttavia, è stato come appli­ care la strategia di Boolos ai predicati a due o più posti. Per usare l'e­ sempio di Rayo (Rayo, Yablo, 2oor) non ha infatti molto senso cercare di leggere 3R(Rab) , che intuitivamente afferma che c'è almeno una relazio­ ne tale che a sta in tale relazione con b con 'ci sono delle cose tali che a intrattiene tali cose con b', semplicemente perché si perde la relaziona­ lità: uno intrattiene una relazione, non 'le cose' con b. Questo non vuoi dire che non si possano cercare altri modi per leggere la quantificazione su predicati a più di un posto della logica del secondo ordine in modo neutro, come testimonia il contributo stesso di Rayo, Yablo (2oor ) . Se ho discusso la logica del secondo ordine in relazione al program­ ma neo-logicista, è perché è un punto fondamentale, per questa scuola. La questione degli impegni antologici del linguaggio del secondo ordi­ ne ha tuttavia anche un interesse indipendente. Per esempio, anche un nominalista potrebbe avere interesse ad esprimere un enunciato come ( G K) senza tradire la sua posizione antologica, e lo stesso vale, per esem­ pio, per la definizione di 'antenato ' di Frege. Formulata in stile platani­ sta, la definizione dice che io sono un discendente di Napoleone se ho tutte le proprietà tali che: (a) Napoleone gode di tali proprietà e (b) tali proprietà vengono trasmesse di padre in figlio. Sembra una buona defi­ nizione, che anche un nominalista potrebbe avere interesse ad adottare (Boolos, 1985) . La definizione è formulabile al secondo ordine come (a sta per 'Napoleone' ) : 3w(wFa) & -3X(3wXw & 't/ w (wFa � Xw) & 't/w't/z(wFz & Xz� Xw) & -Xx)

e può essere letta, seguendo i suggerimenti di Boolos, come 'ci sono dei figli di Napoleone e non esistono degli individui tali che: (a) ogni figlio di Napoleone è uno di quegli individui; (b) se x è uno di quegli indivi­ dui, allora anche tutti i suoi figli lo sono e (c) io non sono uno di essi' , in modo tale che il riferimento alle classi scompaia. Infine 'ci sono cose che sono troppe per formare un insieme' sembra un enunciato della logica del secondo ordine in grado di esprimere correttamente il nucleo della concezione non ingenua degli insiemi (cfr. PAR. 2.3.1; ma così non sareb­ be se, contrariamente a quanto sostenuto da Boolos, la quantificazione

3· EPISTEMOLOGIA: COM'È POSSIBILE CONOSCERE GLI OGGETTI MATEMATICI?

del secondo ordine ' ci sono cose che . . . ' fosse solo un modo nascosto per quantificare su insiemi (cfr. Rayo , Yablo, 2001, p. 75) . A parte questi problemi generali, c ' è almeno u n problema legato specificatamente al neo-logicismo: resta infatti da chiarire quale sia il ti­ po di logica del secondo ordine impiegata nella derivazione dell' arit­ metica a partire dal principio di Hume, ossia nella teoria nota come arit­ metica di Frege, FA. In particolare è una questione tecnica ricca di in­ teresse se e quali limitazioni possano essere imposte al principio di com­ prensione visto sopra, senza precludere la derivazione degli assiomi di Peano 26• 3·8

Come facciamo a sapere che (HP) è vero? Come abbiamo già visto, la proposta neo-fregeana si articola su due pun­ ti: 1. sostenere che i numeri sono oggetti e che il dominio di questi og­ getti è l'oggetto di studio dell'aritmetica, per cui le verità aritmetiche so­ no verità che riguardano questi oggetti (platonismo fregeano) e 2. soste­ nere che queste verità possono essere conosciute per via logica (logici­ smo fregeano) , dal momento che è possibile dedurle a partire dal prin­ cipio di Hume attraverso gli assiomi e gli schemi di inferenza della logi­ ca del secondo ordine, in base al teorema di Frege. È chiaro che ci sono due modi per attaccare il ragionamento secondo il quale il teorema di Frege sancirebbe il riscatto del logicismo : si può mettere in questione lo statuto della logica del secondo ordine e si può sostenere che il princi­ pio di Hume resta comunque un 'assunzione extra-logica, per cui FA (l'a­ ritmetica di Frege, ovvero il sistema ottenuto aggiungendo ad un siste­ ma di logica del secondo ordine il principio di Hume come assioma) contiene comunque un assioma non-logico, non diversamente dalla teo­ ria degli insiemi. n punto dei neo-fregeani è di trattare (HP) come una definizione implicita del concetto di numero, qualcosa di vero per stipu­ lazione: 'numero' significa quel concetto per il quale vale il principio di Hume. Nonostante questo , per qualcuno rimangono delle ragioni per domandarsi quali garanzie abbiamo che (HP) sia vero. Per prima cosa, si è formulata un'obiezione di tipo riduzionista. n principio di Hume, proprio come il principio delle direzioni ed ogni principio di astrazione, è un bicondizionale: 26. Cfr. Burgess (2005), di cui Linnebo (2oo6a) fornisce un riassunto. Ho capito l'im­ portanza di questo aspetto grazie ad alcune osservazioni di Marco Panza. Si veda anche Martino (2004) circa il problema del principio di comprensione della logica del secondo ordine.

INTROD ZIONE ALLA FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

(DIR) Dir (a) = Dir (b) � a llb, (HP) N(Fx) = N(Gx) � F� G.

Come va inteso il rapporto tra i due lati del condizionale? Se si tratta di un'equivalenza, sostiene il riduzionista, allora, dato che nel lato destro non si fa riferimento né ai numeri né alle direzioni, lo stesso deve valere per il lato sinistro. Per considerare il caso più semplice, Dir (x) = Dir (y) non esprimerebbe una relazione di identità tra le direzioni di due linee, ma esprimerebbe la relazione di 'avere la stessa direzione di' , ovvero una relazione che vige tra linee ed è equivalente a quella di 'essere parallela a' . Di fronte a questa obiezione i neo-fregeani solitamente fanno notare che le equivalenze possono essere lette in entrambe le direzioni: come con 'la direzione di a è identica alla direzione di b' si afferma unicamen­ te che ' a e b sono parallele' , così, affinché sia vero quello che si afferma dicendo che a e b sono parallele, è necessario (e sufficiente) che la dire­ zione di a e quella di b siano identiche. A chi è tentato di replicare che non può essere così, visto che quando si afferma che a e b sono paralle­ le non si menzionano le direzioni (di cui si potrebbe addirittura non pos­ sedere il concetto) , viene fatto notare che è anche possibile affermare che Gigi è fratello di mia madre senza possedere il concetto di 'zio' (e quin­ di senza impiegare questa nozione) , ma la cosa non toglie che l'afferma­ zione implichi che Gigi è mio zio . Allo stesso modo, secondo i neo-fre­ geani, i lati destri dei bi -condizionali in questione, pur non menzionan­ do oggetti astratti come i numeri e le direzioni, richiedono tuttavia la lo­ ro esistenza per essere veri. Di fronte a questa risposta, si può semplice­ mente negare che il principio di Hume o (DIR) siano accettabili senza restrizione. Limitandoci al caso di (DIR) , per esempio, un nominalista potrebbe sostenere che il principio cerca di stipulare un'equivalenza tra enunciati che equivalenti non sono. Per esempio, in una prospettiva no­ minalista 'Dir (a) = Dir (a) se e solo se a ll a' è un bicondizionale falso , essendo il lato destro del bicondizionale vero e quello sinistro no, dal momento che esistono le linee ma non le direzioni. (DIR) andrebbe rim­ piazzato, come ha suggerito Hartry Field (r989, p. r69) con enunciato condizionale, il quale stabilisce quali sarebbero le condizioni di identità tra le direzioni, nel caso in cui le direzioni esistessero: (DIR+ ) Se esistono direzioni, allora Dir (a) = Dir (b) � a!! b.

I neo-fregeani hanno protestato contro questa proposta di sostituzione ragionando in questo modo: ipotizzare l'esistenza delle direzioni ha ov­ viamente senso, sembra un'ipotesi almeno logicamente possibile; il si­ gnificato di un concetto astratto come quello di direzione è fissato dal

3· EPISTEMOLOGIA: COM'È POSSIBILE CONOSCERE GLI OGGETTI MATEMATICI?

principio di astrazione che introduce tale concetto; se si nega la validità di (DIR) , quindi, il concetto di direzione perde di significato e non si è più in grado di comprendere cosa significhi ipotizzare l'esistenza delle direzioni (e per lo stesso motivo neppure negare che tale ipotesi sia ve­ ra, come fa il nominalista) . Si tratta di un'obiezione tutt'altro che decisi­ va: il nominalista può sostenere di possedere il concetto di numero o di­ rezione, nel senso di sapere che 'direzione di x ' e 'numero degli F' sono termini con i quali si intende riferirsi ad un certo tipo di funzioni; rima­ ne poi da stabilire se funzioni di quel tipo esistano o meno. Nella mede­ sima prospettiva, si può dare un senso alla negazione dell'esistenza del­ le direzioni e dei numeri semplicemente riformulandola così: non esiste una funzione che assegni alle linee x e y lo stesso oggetto se e solo se x e y sono parallele e non esiste una funzione che assegni al concetto F e al concetto G lo stesso oggetto se e solo se F e G possono essere messi in COrrispondenza I a I 27 • fl fattO che il nominalista possa formulare la SUa tesi senza contraddirsi, non basta ovviamente a renderla vera: la tesi dei neo-fregeani è che è legittimo introdurre alcuni concetti per mezzo di certi principi di astrazione, l'accettazione dei quali sarebbe condizione necessaria alla comprensione del concetto in questione. Rifiutare (DIR) o il principio di Hume equivarrebbe quindi a rifiutare un certo concetto di direzione o numero, quelli di cui i principi di astrazione sono analiti­ camente veri, ovvero "veri in virtù del significato " . Tralasciando le celebri critiche di Quine (cfr. PAR. 1 . 5 ) alla nozione di analitico qui impiegata, il problema principale per i neo-fregeani è quel­ lo di trovare un modo per rendere convincente la tesi che introdurre un concetto attraverso un principio di astrazione in grado di definirlo im­ plicitamente sia una mossa legittima, diversa da altri tentativi fatti in pas­ sato di dimostrare l'esistenza di un ente a partire dalla sua definizione 28 • Questa è la morale dell'obiezione delle cattive compagnie che in­ contreremo nel prossimo paragrafo. Esistono però altri problemi legati in particolare all'epistemologia del principio di Hume: come ha notato George Boolos (I998 , saggio I9) , il principio di Hume implica l'esisten­ za di infiniti oggetti, per cui se si considera la neutralità antologica co­ me una caratteristica della conoscenza logica e in generale della cono­ scenza a priori, sembra di dover concludere che il principio di Hume non è conoscibile a priori. Inoltre, proprio come il principio di Hume impli­ ca l'esistenza di un numero degli oggetti diversi da se stessi, ovvero il nu27. -3f (j (x) = f (y) x/ly) , -3X(X(F) = X(G) F = G). 28. Sul riduzionismo, cfr. Hale, Wright ( 2001, 2002 ) , Per il dibattito con Field, cfr. Field (1989, cap. 5), Hale, Wright ( 2om , settimo saggio) . �



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mero zero , così implica l'esistenza di un numero di tutti gli oggetti iden­ tici a se stessi (cioè tutti) , chiamato anti-zero: secondo le formulazioni contemporanee della teoria degli insiemi (nelle quali è possibile definire una nozione di numero cardinale infinito) , un numero del genere sem­ plicemente non esiste (per motivi analoghi a quelli per cui non esiste un insieme universale) . Per finire, la prova della consistenza dell'aritmetica di Frege è una prova di consistenza relativa: se la logica del secondo or­ dine è consistente, allora lo è anche con l'aggiunta del principio di Hu­ me. Le garanzie che la logica del secondo ordine sia consistente non so­ no però assolute, per cui non sembra possibile escludere a priori che an­ che la fondazione dell'aritmetica dei neo-fregeani soffra degli stessi pro­ blemi di quella del loro maestro. 3·9

Cattive compagnie I due più celebri argomenti presentati nella storia della filosofia per di­ mostrare l'esistenza di qualcosa sono il Cogito cartesiano e l'argomento antologico di Anselmo. Viene naturale paragonare il tentativo dei neo­ fregeani al secondo, dato che una premessa dell'argomento di Cartesio (il fatto che lui stia pensando) sembra di natura empirica, mentre i neo-fre­ geani vorrebbero basarsi solo su affermazioni conoscibili a priori. Da qui il sospetto che il tentativo di dimostrare l'esistenza di Dio di Anselmo e quello di dimostrare l'esistenza dei numeri dei neo-fregeani soffrano de­ gli stessi difetti (cfr. Field, 1989, cap. v) . Questa è una delle forme dell'o­ biezione delle cattive compagnie, in cui si sfida il neo-fregeano a spiegare in cosa il suo progetto differisca da altri, manifestamente fallimentari. Nel caso in cui il paragone sia con l'argomento antologico, viene obiettato ai neo-fregeani che tentare di dedurre l'esistenza dei numeri definendoli come gli oggetti introdotti attraverso il principio di Hume assomiglia molto al tentativo di dedurre l'esistenza di Dio dalla sua de­ finizione come 'l'essere tale che non se ne può pensare uno migliore' . In questo caso, la risposta da parte di Hale e Wright consiste nel mettere in luce la differenza tra le due stipulazioni: nel caso dell'argomento anto­ logico, quello che si stipula circa il termine 'Dio' è che 'Dio = l'essere ta­ le che non si può pensare . . . ', ovvero si stipula che 'Esiste uno e un solo individuo tale che non si può pensare . . . e quell'essere è Dio'. Questa, più che una definizione, è un'affermazione di esistenza, che si può ovvia­ mente rifiutare. Nel caso del principio di Hume e in quello di (DIR) , in­ vece, quello che si stipula sono le condizioni di identità per i numeri e direzioni (e di conseguenza le condizioni di esistenza) . I principi, infat­ ti, hanno una forma condizionale: 'Se c'è una corrispondenza biunivo! 54

3· EPISTEMOLOGIA: COM'È POSSIBILE CONOSCERE GLI OGGETTI MATEMATICI?

ca, allora . . . ', 'Se la retta a e la retta b sono parallele, allora . . . '. Che que­ ste condizioni effettivamente si verifichino va stabilito per altra via: con una constatazione empirica nel caso delle linee e con una deduzione lo­ gica in quello delle corrispondenze r a r . n problema più serio per il tentativo di introdurre una categoria di oggetti astratti attraverso un principio di astrazione è rappresentato però dal fatto che ci sono principi di astrazione inconsistenti, come il famige­ rato assioma v di Frege incontrato nel capitolo secondo, al quale spetta­ va il compito di definire implicitamente il concetto di estensione. Dal fat­ to che non tutti i principi di astrazione possano essere utilizzati per in­ trodurre un concetto, non segue però che nessun principio di astrazio­ ne possa essere utilizzato a questo scopo. Come amano sottolineare Wri­ ght e Hale (cfr. Shapiro, 2005, p. r 8r ) , sarebbe irragionevole negare che in molti casi si possa spiegare il significato di un predicato specificando le condizioni sotto le quali può essere applicato con verità, solo perché questa strategia non può essere applicata in tutti i casi, in base al para­ dosso di Grelling 29. Perché non dovrebbe valere lo stesso per i principi di astrazione? Inoltre, ci sono buone ragioni per ritenere che il principio di Hume, a differenza dell'assioma v, sia consistente. La consistenza, tut­ tavia, pur essendo una condizione necessaria, non può essere una con­ dizione sufficiente a distinguere i principi di astrazione accettabili da quelli che non lo sono. Esistono infatti principi di astrazione individual­ mente consistenti, ma non consistenti tra loro ed esistono principi di astrazione consistenti ma incompatibili con il principio di Hume. L'o­ biezione delle cattive compagnie va quindi intesa come la richiesta (le­ gittima) ai neo- fregeani di fornire dei criteri per isolare i principi di astrazione utilizzabili ai loro fini. Fine (2002) costituisce il punto di par­ tenza per un trattamento approfondito del problema, basandosi sull'i­ dea che la caratteristica distintiva dei principi di astrazione ((buoni " sia evitare un problema fondamentale del principio di astrazione illimitata (e dell'assioma v che lo implica) , ovvero il postulare un dominio di og­ getti con una cardinalità eccessiva. n paradosso di Cantor mostra infat­ ti che non può esistere un dominio di oggetti con una cardinalità ugua­ le o superiore all'insieme di tutti i suoi sottoinsiemi, per cui, per ogni do­ minio di oggetti, vale che non ci possono essere più oggetti nel dominio di quante siano le collezioni di oggetti. 29 . Definiamo eterologico un aggettivo che non può essere applicato con verità a se stesso. Vale lo schema: è eterologico se e solo se non è Per esempio 'lungo' non è lungo, quindi è un aggettivo eterologico, mentre 'corto' è corto, quindi non è ete­ rologico. Applicato ad 'eterologico' lo schema dà come risultato: 'eterologico' è eterolo­ gico se e solo se 'eterologico' non è eterologico. '_'

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Matematica, logica e modalità n problema della conoscenza matematica si presenta al platonista nella forma: com'è possibile conoscere delle verità su delle entità astratte co­ me i numeri, con le quali non abbiamo nessun contatto causale ecc.? È ovvio che questo problema non si pone per il nominalista, secondo il quale semplicemente non esistono entità astratte da conoscere. Si pone tuttavia un altro problema, legato al fatto che lo studio della matemati­ ca sembra comunque un'impresa in grado di accrescere le nostre cono­ scenze. Seguendo Field (1989, capitolo quarto) , lo possiamo porre in questi termini. Supponiamo che A abbia studiato matematica per anni con successo e B sia quasi totalmente incompetente in materia: sembra naturale dire che A sa qualcosa che B non sa, ma cosa? Se non si tratta di riconoscere delle verità riguardo un mondo di oggetti astratti, di cosa si tratta? La risposta di Field è che si tratta in parte di conoscenze empiriche, come quelle circa gli assiomi delle teorie matematiche standard , ed inol­ tre di conoscenze di natura modale, di due tipi: si conoscono relazioni di implicazione necessaria tra i teoremi e gli assiomi di una teoria, e si è in grado di riconoscere la possibilità logica di una teoria (o una proprietà analoga come la conservatività) . Ovviamente se si definisse la possibilità logica di una teoria nei termini dell'esistenza di un modello, si sarebbe costretti ad ammettere che la possibilità logica di una teoria rende falso il nominalismo (i modelli sono infatti oggetti astratti) e problemi analo­ ghi si incontrano se si definisce una teoria logicamente possibile nel ca­ so non esistano derivazioni di contraddizioni a partire dagli assiomi. De­ finire la possibilità logica come verità in un mondo possibile (strategia comune in logica modale a partire dai lavori di Kripke nei primi anni ses­ santa) non risolve ovviamente questo problema. Quando diciamo che un enunciato è logicamente possibile se è vero in almeno un mondo possi­ bile quantifichiamo su mondi possibili. n problema diventa allora capi­ re cosa siano i mondi possibili: se li si concepisce come universi altret­ tanto reali quanto quello in cui viviamo, il nostro accesso ad essi sembra altrettanto problematico di quello agli oggetti astratti. E concepirli in modo diverso comporta comunque dei problemi 30• Per queste ragioni, Field tratta la nozione di possibilità logica come primitiva, esattamente come fanno i suoi compagni nominalisti Hellman e Chihara. Oltre ad av30. Un problema ulteriore è rappresentato dal fatto che la semantica standard per la logica modale è una semantica insiernistica, inaccettabile per nominalisti come Chihara e Hellman , i quali cercano invece di invertire la tendenza e ricostruire la teoria degli insie-

3· EPISTEMOLOGIA: COM'È POSSIBILE CONOSCERE GLI OGGETTI MATEMATICI?

vicinarlo ad altri nominalisti, la sua prospettiva lo avvicina sorprenden­ temente anche ai neo-logicisti. Sapere che una teoria è logicamente pos­ sibile equivale a riconoscerla consistente e questa per Field è una forma di conoscenza logica. Seppur con significati diversi, la tesi che la cono­ scenza matematica sia conoscenza logica unisce quindi il platonismo di Balaguer, quello dei neo-logicisti e la prospettiva di Field, rivelandosi co­ sì come uno dei grandi temi ricorrenti nella riflessione sull' epistemolo­ gia della matematica 3I. 3 . 11

Oggetti matematici vs oggettività della matematica (n) rifiuto dell'oggettività della matematica è posto dall'intuizionismo in stretta connessione con il rifiuto della logica classica. N ella prospettiva di Dummett, inoltre, la causa dell'intuizionismo è sostenuta basandosi su una concezione generale del linguaggio, per cui le stesse considera­ zioni fatte valere a proposito della matematica potrebbero essere appli­ cate anche allo studio della fisica o della geologia. Esiste tuttavia un mo­ do di considerare il problema dell'oggettività della matematica, il quale, pur meritando il titolo di anti-oggettivismo, non comporta l'adozione di una logica non -classica e il rifiuto di una semantica vero-condizionale per il linguaggio naturale, ed è un anti-oggettivismo confinato alla ma­ tematica. n problema è stato posto da Hartry Field (2oo1 , p. 336) in que­ sti termini: n

(DVV) Quali tra gli enunciati matematici in decidibili hanno un valore di verità determinato?

Un enunciato E appartenente al linguaggio L di una teoria T è indecidi­ bile se e solo se né E né la negazione di E sono teoremi di T. Come nota lo stesso Field, formulata così la domanda riceverebbe una risposta ba­ nale da un nominalista, per il quale tutti gli enunciati matematici, deci­ dibili o meno, sono o falsi o vacuamente veri. Per il nominalista il pro­ blema non banale è stabilire un criterio per distinguere tra enunciati ma­ tematici corretti e non, o, se si adotta la prospettiva finzionalista, enunmi all'interno della logica modale. Per un'introduzione alla logica modale e al problema dei mondi possibili cfr. Casalegno (1997, cap. 5), Divers (2002) e Morato (2009) . 31. ll programma di Hilbert era molto simile a quello di Field: l o scopo di Hilbert era di giustificare l'uso della matematica infinitaria mostrando che questa è conservativa ri­ spetto alla matematica finitaria, proprio come per Field la matematica è buona pur non essendo vera perché è conservativa rispetto alla fisica (cfr. Shapiro, 2ooo, p. 235).

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dati veri secondo la storia della matematica e non. Il problema diventa quindi se ci sia un criterio in grado di stabilire se un enunciato sia cor­ retto o meno diverso da quello per cui la correttezza coincide con la de­ rivabilità da una certa teoria di riferimento (cfr. Balaguer, 2009) . Il punto interessante posto da Field è che anche assumendo mo­ mentaneamente la prospettiva del realismo antologico , in base alla qua­ le gli oggetti matematici esistono realmente, è possibile sostenere che la risposta alla domanda (DVV) sia " nessuno " . La stessa posizione può es­ sere espressa affermando che l'oggettività matematica si può ridurre ad oggettività logica (Field, 2001, saggi rr e 12) , nel senso che la questione se l'enunciato T sia corretto o meno si riduce alla questione se l'enunciato o la sua negazione seguano dalla teoria matematica standard per gli enun­ dati di un certo linguaggio: essendo la conseguenza logica una nozione logica, la posizione comporta che la domanda circa la correttezza di un enunciato matematico sia una questione altrettanto oggettiva, nel senso di indipendente dalle nostre pratiche culturali, linguistiche ecc., e dalle nostre attività mentali, quanto una questione logica (il fatto che un cer­ to enunciato segua da certi assiomi) . Si potrebbe pensare che un realista antologico non possa essere un anti -oggettivista nel senso appena descritto in base ad un ragionamento di questo tipo: se una teoria matematica tratta di un certo dominio di og­ getti astratti, il valore di verità di un enunciato formulato nel linguaggio della teoria dipende unicamente dalle proprietà e dalle relazioni degli og­ getti astratti in questione; quindi, tutti gli enunciati, decidibili o meno, hanno un valore di verità determinato. Putnam (1980) presenta questa obiezione contro un ragionamento come quello appena incontrato: che cosa determina di quali oggetti parlano le nostre teorie, a cosa ci riferia­ mo con termini come 'insieme' , 'numero naturale' ecc., oltre al fatto che gli oggetti in questione debbano soddisfare gli assiomi delle nostre teorie matematiche? Se un enunciato E di un linguaggio L è indecidibile, que­ sto comporta che esistono modelli della teoria matematica T costruita sul linguaggio L in cui E è vero e modelli in cui è falso. Una situazione di que­ sto genere si verifica all'interno della teoria degli insiemi con l'ipotesi del continuo : esistono modelli degli assiomi che assegnano una denotazione ai termini 'insieme' e 'appartiene' tali da rendere l'ipotesi vera e altri in cui invece risulta falsa; l'argomento di Putnam è che, nella misura in cui entrambi i tipi di modelli soddisfano gli assiomi di ZFC, entrambi sono candidati altrettanto rispettabili come ipotesi circa il riferimento dei no­ stri termini insiemistici. Detto in altro modo, l'argomento di Putnam è che tutti i modelli in grado di soddisfare gli assiomi di ZFC sono candi­ dati altrettanto legittimi ad essere il "modello inteso" della teoria degli in­ siemi. Questo mostra come, anche assumendo una prospettiva di reali-

3· EPISTEMOLOGIA: COM'È POSSIBILE CONOSCERE GLI OGGETTI MATEMATICI?

smo antologico, sia possibile sostenere che gli enunciati indecidibili non posseggono un valore di verità determinato, in base alla considerazione che potrebbe non essere determinato (per Putnam, è indeterminato) a quali oggetti ci riferiamo con i termini matematici. L' argomentazione di Putnam va in una direzione opposta ad alcune considerazione svolte da Kurt Godei (r944, 1947) proprio a partire da una riflessione su quali strategie si possano seguire per tentare di risol­ vere l'ipotesi del continuo. Mentre per Putnam sono gli assiomi di ZFC a fissare la nostra nozione di insieme, per Godei è solo in base alla no­ stra intuizione circa il concetto di insieme che «gli assiomi ci si impon­ gono come veri» (Godei, 1947, trad. it. p. 133) . Di qui, il suo suggerimento di cercare nuovi assiomi in grado di risolvere i problemi insiemistici an­ cora aperti, affinando la nostra comprensione del concetto di insieme. I concetti, per Godei, costituiscono una realtà oggettiva, della quale è pos­ sibile fare esperienza attraverso una facoltà da lui chiamata "intuizione" e pensata in analogia con la percezione sensibile. L'idea di attingere alle risorse dell'intuizione matematica può essere intesa anche come una via per rispondere ai dubbi epistemologici sul platonismo, sviluppata da au­ tori come Maddy (1997) e Parsons (1980, 2oo8) , a dimostrazione del col­ legamento tra i problemi trattati. La risposta a queste considerazioni da parte di un fautore della po­ sizione di Putnam può essere duplice: oltre a sollevare dubbi sulla no­ zione di intuizione matematica, può sostenere che le varie estensioni del­ la teoria degli insiemi rappresentano corrispondenti estensioni, raffina­ menti, precisazioni del concetto di insieme, più che sue esplicitazioni. Se ZFC+ A è una teoria degli insiemi preferibile a ZFC in base a certi stan­ dard, e in ZFC+ A l'ipotesi del continuo è decisa, allora conviene adot­ tare ZFC+A, modificare la nostra concezione di insieme e attribuire al­ l'ipotesi del continuo un valore di verità determinato. Tutto questo è compatibile con l'anti-oggettivismo per come è stato definito sopra: ov­ viamente un enunciato in decidibile in una teoria può diventare decidi­ bile in un'altra, ma questo non vuoi dire che gli enunciati indecidibili ab­ biano un valore di verità determinato. Anche in questa situazione, sa­ rebbe pur sempre sostenibile che l'unica nozione di oggettività è co­ munque sempre logica: si tratta di derivabilità a partire da certi assiomi, i quali possono cambiare nel tempo . Torna qui uno dei temi guida del capitolo, ovvero l'idea che la co­ noscenza matematica sia (in buona parte) conoscenza logica. In realtà, Field stesso riconosce una complicazione, che lo spinge a ritenere che il concetto di logica qui impiegato non possa essere del tutto formalizza­ to. In base al teorema di Godei, ogni estensione ricorsivamente assio­ matizzabile dell'aritmetica di Peano (PA) contiene enunciati indecidibi1 59

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li, il che significa che non esiste una teoria aritmetica (almeno al primo ordine 32) in grado di avere come unico modello il modello standard del­ l' aritmetica N. L'esistenza di un modello non standard per una teoria T non è però sufficiente, secondo Field, per concludere che tutto il voca­ bolario di T sia indeterminato. L'idea che un concetto come quello di numero naturale sia indetermi­ nato è infatti estremamente difficile da accettare, a causa della sua rela­ zione con il concetto di finito o con il significato del quantificatore F, da leggere come 'esiste un numero finito di x tali che . . . '. TI legame può essere compreso considerando la teoria ottenuta aggiungendo a PA l'assioma 'tutti i numeri naturali hanno solo un numero finito di predecessori', PA+. Tutti i modelli di PA+ nei quali viene attribuito al quantificatore F il suo significato inteso sono isomorfi tra loro e caratterizzano dunque la strut­ tura del modello standard. Ovviamente, PA+ è incompleta come (PA) , ma questo significa solo che esistono modelli non-standard della teoria, e quindi che il significato del quantificatore F non è caratterizzabile al pri­ mo ordine. Concludere da questo che la nozione di finito è indeterminata avrebbe la spiacevole conseguenza di dover concludere che nozioni sin­ tattiche come quella di numerale, formula ben formata, dimostrazione, consistenza sono indeterminate. Un numerale infatti è una sequenza di se­ gni ottenuta partendo dal segno 'o ' e iterando un numero finito di volte l'operazione di aggiunta di un apice, le formule sono sequenze finite di se­ gni di un certo tipo, le dimostrazioni sono sequenze finite di formule di un certo tipo e un sistema è consistente se e solo se non esiste una dimostra­ zione di una contraddizione all'interno del sistema. Questo era uno dei motivi per cui anche un formalista come Hilbert riteneva che l'intuizione non fosse del tutto eliminabile in matematica, es­ sendo la comprensione della nozione di sequenza finita di segni fonda­ mentale per lo stesso progetto di studio dei sistemi formali e delle loro pro­ prietà metalogiche (come la consistenza) 33• Per queste ragioni, Field ha elaborato un argomento a favore della tesi per cui il concetto di finito non sarebbe indeterminato. L'idea è che, nel caso di una teoria che impieghi anche un vocabolario fisico, la determinatezza del riferimento può essere 32. "Almeno" perché si può sostenere che il problema dei modelli non standard non è risolvibile utilizzando la logica del secondo ordine. Sebbene, infatti, adottando la se­ mantica standard per i quantificatori del secondo ordine si possa dimostrare che tutti i modelli della versione al secondo ordine di PA sono isomorfi, la cosa non vale se si adot­ ta la semantica di Heinkin; l'argomento di Putnam (r98o) può essere sfruttato per soste­ nere che è indeterminato quale sia la semantica "corretta" , owero quale sia il significato del quantificatore 'tutti gli X'. Cfr. Weston (1976) e Martino (2oo6) , a cui molte delle con­ siderazioni qui sviluppate si ispirano. 33· Cfr. Martino (2oo6) . r 6o

3· EPISTEMOLOGIA: COM'È POSSIBILE CONOSCERE GLI OGGETTI MATEMATICI?

assicurata da considerazioni causali. Field costruisce quindi una teoria fi­ sica che, sotto certe ipotesi, avrebbe come unico modello un sistema iso­ morto a quello dei numeri naturali e la sfrutta per fissare il significato del quantificatore F. A questo punto diventa possibile dire che gli enunciati aritmetici corretti sono quelli che seguono da PA+ quando ad F è attri­ buito il suo significato inteso. Anche gli enunciati matematici indecidibili della teoria dei numeri hanno quindi un valore di verità determinato. Il problema della caratterizzazione del «mitico modello standard dell'aritmetica» (Lolli, 2004, p. r65) riguarda anche lo strutturalismo eli­ minativista di Hellman incontrato nel secondo capitolo. In questa pro­ spettiva, infatti, la matematica è lo studio di tutti i possibili sistemi di un certo tipo, dove "essere un sistema di un certo tipo" significa soddisfare certi assiomi: nel caso dei numeri naturali, gli assiomi dell'aritmetica di Peano al secondo ordine (PA2) . L'idea alla base di questo approccio è che gli assiomi costituiscano una definizione implicita del concetto di nu­ mero, per cui i numeri naturali sarebbero semplicemente quegli oggetti in grado di soddisfare tali assiomi. Per prendere sul serio la prospettiva nel caso dell'aritmetica, bisogna però mostrare che la teoria in questio­ ne è categorica (ammette solo modelli isomorfi) . Che questo sia il caso di PA2 è vero solo sotto certe assunzioni, questionabili 34• Il problema dell'oggettività della matematica si rivela quindi inte­ ressante sotto molte prospettive, e ha provocato proposte di soluzione in competizione, compresa quella secondo cui semplicemente non esiste un modello standard dell'aritmetica (avanzata per esempio in Bellotti, 2007) . Si può anche notare come la questione dell'oggettività della ma­ tematica, anche intesa nella versione di Field, si riveli indipendente da quella circa l'esistenza degli oggetti matematici. Il problema è infatti se la nostra concezione del modello standard sia determinata. Potrebbe es­ serlo anche se i numeri non esistessero e d'altra parte, se la nostra con­ cezione dei numeri fosse indeterminata, non si capisce come l'esistenza di certe strutture e non di altre potrebbe risolvere il problema di stabili­ re a quali strutture intendiamo riferirei quando parliamo dei numeri na­ turali (cfr. Yablo, 2oor, pp. 88-9) . Sebbene indipendente dal problema antologico, il problema dell'oggettività della matematica è invece stret­ tamente legato alle questioni epistemologiche, come testimonia la di­ scussione del ruolo dell'intuizione in matematica, e alle questioni meta­ fisiche, come rivelato dal riferimento allo strutturalismo, e si presta quin­ di bene a concludere la nostra introduzione.

34·

Cfr. la nota 30.

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Indice dei nomi

Anselmo d 'Aosta, 154 Austen Jane, 86-7

Dumm ett Michael, IO, 21 e n, 23, 24 e n, 25 e n, 27 - 9, 63, rn e n, II5, 157

Baetzing Maria, n Balaguer Mark, 43, 77, 134-41, 142 e n, 157-8 Bellotti Luca, r6r Benacerraf Paul, IOn, 25n, 97, 102, 103 e n, 104-6, n6, n9-20, 122-6 Berlusconi Silvio, 14on Berto Francesco, n, r9n, 41, 44n, 7rn, 92n, 95n Boccuni Francesca, n Bonevac Daniel, 39 Boolos George, 9 rn, 92n, 93-4, 96, n4, 149-50, 153 Brouwer Luitzen Egbertus Jan, 25 e n Burge Taylor, 35 Burgess John P. , 39n, 41, 52n, 58, 59 e n, 6o- r, 66-7, 68n, 70, 71 e n, 72n, 77-8, 84fl, 87, IOon, 124, 131-2, 133 e n, 15rn

Favaretti Camposampiero Matteo, n Field Hartry, 28-30, 38, 39n, 54- 6, 6on, 64, 66, 71, 73 e n, 73, 74 e n, 75-7, 8o-r, 103, 108 e n, n6n, 126-9, 130 e n, 131-3, 134 e n, 135-6, 142n, 152, 153n, 154, 156, 157 e n, I58-6r. Fine Kit, 34, 41, 45, 155 Frascolla Pasquale, n, 14m Frege Gottlob, 15, 29 e n, 36, 48, 55n, 6265, 84 e n, 85n, 88, 104, 109 e n, rn, II4n6, 136, 146, 150-r, 154-5 Fuhrman André, n

Cantor Georg, 7m, 90, 95 e n, 99n, 155 Carnap Rudolf, 30 e n, 31, 32 e n, 33 e n, 34-5, 40- 1, 56 Carrara Massimiliano, n Cartesio Renato, 51, 55, 154 Casalegno Paolo, 21n, 22n, 24fl, 71n, 90 e n, 94, 137n, 157n Cheyne Colin, 125 e n Chihara Charles, 29, 6r, 71, 72n, 73, 85n, I08, I56n, 157 Colyvan Mark, 5m, 54, 125 e n Divers John, I57ll Dorr Cian, 35

Gallois André, 35 Gates Bill, 6r Gentzen Gerhard, 27n Gettier Edmund, I24fl Giaretta Pierdaniele, n Glivenko Valerij lvanovi, 27 Godei Kurt, 25n, 27n, 28, 32n, 159 Goldman Alvin, 124 e n, 125 Goodman Nelson, 53, 66-7, 68n, 69, 73, 88n, 89, 98-9. Gottlieb Dale, 38-9 Grelling Kurt, 155 Hale Bob, 62-5, no, n2-3, n5, n6n, 128, 134, 143, 153n, 154-5 Hazen Alan P., IOon Hellman Geoffrey, 28, 85n, 106-8, 109n, I56n, 157, r6r Heyting Alrend, 25 e n

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Hilbert David, 75-6, 99n, ro8n, 136, 157n, r6o Hofstadter Douglas, roo Hofweber Thomas, 34-7, 38 e n, 39-40, 44-5 Hume David, 55n, n2 - 6, 143-4, 146, 151-5 Kasa lvan, n, I24fl Kreisel Georg, 21, 28 Kripke Saul, 36, 38n, 39 e n, 92n, 140, 156 Lewis David, 43, 46 - 7, 52, 59, 73 , 86, 88 e n, 89n, 99 - roo, 125 e n, 129 - 30, 143n Liggins David , 2on, 52n, 54n, 6r, r23n, 124, 125n, 130, 133, 134 e n Linnebo 0ystein, 13, 46 e n, I04fl, 132n, 133n, 134, I5 ill Linsky Bernard, 43, 55, 137 Locke J ohn, 109 Lolli Gabriele, r9n, r6r Maddy Penelope, 56-7, 83, 88n, 159 Marconi Diego, 21-2 Mariani Mauro, 7rn, 90 e n, 94 Martin Tony, 142n Martino Enrico, n McGee Vann, 35 Meinong Alexious, r8, 41 Montale Eugenio, n3n Morato Vittorio, n, 157n Moriconi Enrico, 90n Moschovakis Joan, 27n

e n, 57, 62, 66, 67 e n, 68n, 69, 73, 88n, 98, 137, 143, 146, 148-9, 153 Rabin Gabriel, 139 - 40 Resnik Michael, 57, 77, 105, 150 Restall Georg, 137n, 138 e n, 141-2 Rosen Gideon, 39n, 41, 52n, 58-6r, 66-8, 70, 71 e n, 77 - 8, 86 - 7, 124, 131 - 2, 133 e n Routley Richard, 41 Russell Bertrand, 34, 92-4, 96, ro6, 107 e n, ro8, n6 Ryle Gilbert, 15-6 Salmon Nathan, 68 Sereni Andrea, n, 53 Shapiro Stuart, 28, 54fl, 105 e n, ro6, ro9n, II3, 155, I57n Smullyan Raymond, 7m, 92 Steiner Mark, 103n, 125 Swayze Patrick, II9 Tarski Alfred, 120 Tennant Niel, 29, 55n Turner Jason, 14 Usberti Gabriele, 2rn Van lnwagen Peter, 16-17, 19, 39n, 48n, 50 Varzi Achille, 68n, 83n, 98, 99n, roon Veltroni Walter, 140n

N apolitano Giorgio, 105 N olan Daniel, 13on Odifreddi Piergiorgio, 90n Panza Marco, n, 53n, 15m Parsons Charles, 44ll, no, 159 Perissinotto Luigi, n Plebani Matteo, n Priest Graham, 34fl, 41, 43-4, 95n Putnam Hilary, 28, 53, 54fl, 67, 142n, 158159, r6on Quine Willard Van Orman, 15, r8, 20 e n, 30, 33, 34 e n, 41 - 2, 46, 48 e n, 49-55, 56

Wagner Steven, n6n, 148 Walton Kendall, 79-80 Weston Thomas, 16on Whitehead Alfred N orth, 34 Wigner Eugene, ro Williamson Timothy, 35 Wittgenstein Ludwig, 22, 24, 141 e n Wright Crispin, 28, 62-5 , rro, rr2-3, rr5, n6n, 134, 148, 153n, 154-5 Yablo Stephen, 14, 17, 30, 35, 40, 41 e n, 46, 6r, 67n, 78-8r, 117 e n, 125 , 142, I50I5I, r6r Zalta Edward, 41, 43, 55, 137 Zermenlo Ernst, 97 e n, 102, 104

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Hilbert David, 75-6, 99n, ro8n, 136, 157n, r6o Hofstadter Douglas, roo Hofweber Thomas, 34-7, 38 e n, 39-40, 44-5 Hume David, 55n, n2 - 6, 143-4, 146, 151-5 Kasa lvan, n, I24fl Kreisel Georg, 21, 28 Kripke Saul, 36, 38n, 39 e n, 92n, 140, 156 Lewis David, 43, 46 - 7, 52, 59, 73 , 86, 88 e n, 89n, 99 - roo, 125 e n, 129 - 30, 143n Liggins David , 2on, 52n, 54n, 6r, r23n, 124, 125n, 130, 133, 134 e n Linnebo 0ystein, 13, 46 e n, I04fl, 132n, 133n, 134, I5 ill Linsky Bernard, 43, 55, 137 Locke J ohn, 109 Lolli Gabriele, r9n, r6r Maddy Penelope, 56-7, 83, 88n, 159 Marconi Diego, 21-2 Mariani Mauro, 7rn, 90 e n, 94 Martin Tony, 142n Martino Enrico, n McGee Vann, 35 Meinong Alexious, r8, 41 Montale Eugenio, n3n Morato Vittorio, n, 157n Moriconi Enrico, 90n Moschovakis Joan, 27n

e n, 57, 62, 66, 67 e n, 68n, 69, 73, 88n, 98, 137, 143, 146, 148-9, 153 Rabin Gabriel, 139 - 40 Resnik Michael, 57, 77, 105, 150 Restall Georg, 137n, 138 e n, 141-2 Rosen Gideon, 39n, 41, 52n, 58-6r, 66-8, 70, 71 e n, 77 - 8, 86 - 7, 124, 131 - 2, 133 e n Routley Richard, 41 Russell Bertrand, 34, 92-4, 96, ro6, 107 e n, ro8, n6 Ryle Gilbert, 15-6 Salmon Nathan, 68 Sereni Andrea, n, 53 Shapiro Stuart, 28, 54fl, 105 e n, ro6, ro9n, II3, 155, I57n Smullyan Raymond, 7m, 92 Steiner Mark, 103n, 125 Swayze Patrick, II9 Tarski Alfred, 120 Tennant Niel, 29, 55n Turner Jason, 14 Usberti Gabriele, 2rn Van lnwagen Peter, 16-17, 19, 39n, 48n, 50 Varzi Achille, 68n, 83n, 98, 99n, roon Veltroni Walter, 140n

N apolitano Giorgio, 105 N olan Daniel, 13on Odifreddi Piergiorgio, 90n Panza Marco, n, 53n, 15m Parsons Charles, 44ll, no, 159 Perissinotto Luigi, n Plebani Matteo, n Priest Graham, 34fl, 41, 43-4, 95n Putnam Hilary, 28, 53, 54fl, 67, 142n, 158159, r6on Quine Willard Van Orman, 15, r8, 20 e n, 30, 33, 34 e n, 41 - 2, 46, 48 e n, 49-55, 56

Wagner Steven, n6n, 148 Walton Kendall, 79-80 Weston Thomas, 16on Whitehead Alfred N orth, 34 Wigner Eugene, ro Williamson Timothy, 35 Wittgenstein Ludwig, 22, 24, 141 e n Wright Crispin, 28, 62-5 , rro, rr2-3, rr5, n6n, 134, 148, 153n, 154-5 Yablo Stephen, 14, 17, 30, 35, 40, 41 e n, 46, 6r, 67n, 78-8r, 117 e n, 125 , 142, I50I5I, r6r Zalta Edward, 41, 43, 55, 137 Zermenlo Ernst, 97 e n, 102, 104

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Hilbert David, 75-6, 99n, ro8n, 136, 157n, r6o Hofstadter Douglas, roo Hofweber Thomas, 34-7, 38 e n, 39-40, 44-5 Hume David, 55n, n2 - 6, 143-4, 146, 151-5 Kasa lvan, n, I24fl Kreisel Georg, 21, 28 Kripke Saul, 36, 38n, 39 e n, 92n, 140, 156 Lewis David, 43, 46 - 7, 52, 59, 73 , 86, 88 e n, 89n, 99 - roo, 125 e n, 129 - 30, 143n Liggins David , 2on, 52n, 54n, 6r, r23n, 124, 125n, 130, 133, 134 e n Linnebo 0ystein, 13, 46 e n, I04fl, 132n, 133n, 134, I5 ill Linsky Bernard, 43, 55, 137 Locke J ohn, 109 Lolli Gabriele, r9n, r6r Maddy Penelope, 56-7, 83, 88n, 159 Marconi Diego, 21-2 Mariani Mauro, 7rn, 90 e n, 94 Martin Tony, 142n Martino Enrico, n McGee Vann, 35 Meinong Alexious, r8, 41 Montale Eugenio, n3n Morato Vittorio, n, 157n Moriconi Enrico, 90n Moschovakis Joan, 27n

e n, 57, 62, 66, 67 e n, 68n, 69, 73, 88n, 98, 137, 143, 146, 148-9, 153 Rabin Gabriel, 139 - 40 Resnik Michael, 57, 77, 105, 150 Restall Georg, 137n, 138 e n, 141-2 Rosen Gideon, 39n, 41, 52n, 58-6r, 66-8, 70, 71 e n, 77 - 8, 86 - 7, 124, 131 - 2, 133 e n Routley Richard, 41 Russell Bertrand, 34, 92-4, 96, ro6, 107 e n, ro8, n6 Ryle Gilbert, 15-6 Salmon Nathan, 68 Sereni Andrea, n, 53 Shapiro Stuart, 28, 54fl, 105 e n, ro6, ro9n, II3, 155, I57n Smullyan Raymond, 7m, 92 Steiner Mark, 103n, 125 Swayze Patrick, II9 Tarski Alfred, 120 Tennant Niel, 29, 55n Turner Jason, 14 Usberti Gabriele, 2rn Van lnwagen Peter, 16-17, 19, 39n, 48n, 50 Varzi Achille, 68n, 83n, 98, 99n, roon Veltroni Walter, 140n

N apolitano Giorgio, 105 N olan Daniel, 13on Odifreddi Piergiorgio, 90n Panza Marco, n, 53n, 15m Parsons Charles, 44ll, no, 159 Perissinotto Luigi, n Plebani Matteo, n Priest Graham, 34fl, 41, 43-4, 95n Putnam Hilary, 28, 53, 54fl, 67, 142n, 158159, r6on Quine Willard Van Orman, 15, r8, 20 e n, 30, 33, 34 e n, 41 - 2, 46, 48 e n, 49-55, 56

Wagner Steven, n6n, 148 Walton Kendall, 79-80 Weston Thomas, 16on Whitehead Alfred N orth, 34 Wigner Eugene, ro Williamson Timothy, 35 Wittgenstein Ludwig, 22, 24, 141 e n Wright Crispin, 28, 62-5 , rro, rr2-3, rr5, n6n, 134, 148, 153n, 154-5 Yablo Stephen, 14, 17, 30, 35, 40, 41 e n, 46, 6r, 67n, 78-8r, 117 e n, 125 , 142, I50I5I, r6r Zalta Edward, 41, 43, 55, 137 Zermenlo Ernst, 97 e n, 102, 104

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Hilbert David, 75-6, 99n, ro8n, 136, 157n, r6o Hofstadter Douglas, roo Hofweber Thomas, 34-7, 38 e n, 39-40, 44-5 Hume David, 55n, n2 - 6, 143-4, 146, 151-5 Kasa lvan, n, I24fl Kreisel Georg, 21, 28 Kripke Saul, 36, 38n, 39 e n, 92n, 140, 156 Lewis David, 43, 46 - 7, 52, 59, 73 , 86, 88 e n, 89n, 99 - roo, 125 e n, 129 - 30, 143n Liggins David , 2on, 52n, 54n, 6r, r23n, 124, 125n, 130, 133, 134 e n Linnebo 0ystein, 13, 46 e n, I04fl, 132n, 133n, 134, I5 ill Linsky Bernard, 43, 55, 137 Locke J ohn, 109 Lolli Gabriele, r9n, r6r Maddy Penelope, 56-7, 83, 88n, 159 Marconi Diego, 21-2 Mariani Mauro, 7rn, 90 e n, 94 Martin Tony, 142n Martino Enrico, n McGee Vann, 35 Meinong Alexious, r8, 41 Montale Eugenio, n3n Morato Vittorio, n, 157n Moriconi Enrico, 90n Moschovakis Joan, 27n

e n, 57, 62, 66, 67 e n, 68n, 69, 73, 88n, 98, 137, 143, 146, 148-9, 153 Rabin Gabriel, 139 - 40 Resnik Michael, 57, 77, 105, 150 Restall Georg, 137n, 138 e n, 141-2 Rosen Gideon, 39n, 41, 52n, 58-6r, 66-8, 70, 71 e n, 77 - 8, 86 - 7, 124, 131 - 2, 133 e n Routley Richard, 41 Russell Bertrand, 34, 92-4, 96, ro6, 107 e n, ro8, n6 Ryle Gilbert, 15-6 Salmon Nathan, 68 Sereni Andrea, n, 53 Shapiro Stuart, 28, 54fl, 105 e n, ro6, ro9n, II3, 155, I57n Smullyan Raymond, 7m, 92 Steiner Mark, 103n, 125 Swayze Patrick, II9 Tarski Alfred, 120 Tennant Niel, 29, 55n Turner Jason, 14 Usberti Gabriele, 2rn Van lnwagen Peter, 16-17, 19, 39n, 48n, 50 Varzi Achille, 68n, 83n, 98, 99n, roon Veltroni Walter, 140n

N apolitano Giorgio, 105 N olan Daniel, 13on Odifreddi Piergiorgio, 90n Panza Marco, n, 53n, 15m Parsons Charles, 44ll, no, 159 Perissinotto Luigi, n Plebani Matteo, n Priest Graham, 34fl, 41, 43-4, 95n Putnam Hilary, 28, 53, 54fl, 67, 142n, 158159, r6on Quine Willard Van Orman, 15, r8, 20 e n, 30, 33, 34 e n, 41 - 2, 46, 48 e n, 49-55, 56

Wagner Steven, n6n, 148 Walton Kendall, 79-80 Weston Thomas, 16on Whitehead Alfred N orth, 34 Wigner Eugene, ro Williamson Timothy, 35 Wittgenstein Ludwig, 22, 24, 141 e n Wright Crispin, 28, 62-5 , rro, rr2-3, rr5, n6n, 134, 148, 153n, 154-5 Yablo Stephen, 14, 17, 30, 35, 40, 41 e n, 46, 6r, 67n, 78-8r, 117 e n, 125 , 142, I50I5I, r6r Zalta Edward, 41, 43, 55, 137 Zermenlo Ernst, 97 e n, 102, 104

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