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Italian Pages 270 Year 2023
Enrico Arduin
K. Bucefalo e i Cavalli del Dottore Prefazione di Gianfranco Bettin Postfazione di Massimo Donà
Il confronto costante con Angelika Riganatou, Massimo Donà e Gianfranco Bettin ed i loro suggerimenti sono stati determinanti per-ideare e realizzare K. Bucefalo e i Cavalli del Dottore. Un riconoscimento particolare, inoltre, ad Alberto Genovese, Antonio Viglietti e Giorgio Vianello,, senza i quali forse non avrei mai scritto questo libro.
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Cavalcando con Bucefalo Prefazione di Gianfranco Bettin
Chissà se, dopo essere stato il destriero del magno Alessandro e prima di mutarsi nel «nuovo avvocato» descritto da Franz Kafka nel primo dei Kleine Erziihlungen raccolti attorno al 1920 sotto il titolo di Un medico condotto, chissà se prima di questa sagace metamorfosi, il mitico, l"arrembante Bucefalo, nel suo attraversare i secoli accompagnando lo Spirito della Storia di turno, non ha sorretto altre terga imperiali. «Ho visto l''Imperatore, queseanima del mondo, uscire dalla città per andare in ricognizione. È una sensazione meravigliosa vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto, seduto su un cavallo, si irradia sul mondo e lo domina>>. Cosl Hegel, gran cacciatore di spiriti della storia, nella celebre lettera allllamico Niethammer del 13 ottobre 1806. Il > contemporanea, osserva ora la realtà solitario. Determinato a non svanire nel gorgo degli umani, l"animale scava allora un inedito varco tra le procedure e la polvere delle pagine dei «nostri antichi tomi». L"isolamento di Bucefalo non è come la solitudine indecifrabile di un essere vivente. Kafka scruta, nell"insolito giurista, un impulso spontaneo, una forza Huida, la quale awerte il pericolo della mediocrità corrosiva che la circonda e quindi si ritira nel profondo della propria stessa genesi a studiare la situazione. Lo scrittore distilla la metafora Bucefalo nella mente umana. La figura del togato cavallo da guerra di Alessandro viene delineata tramite una rete di espressioni che connette indizi, riferimenti alla storia, pure invenzioni, velate allusioni al continuo processo magmatico dell"individuo e della cultura. Il «nuovo awocato» concepito dal]"artista di Praga, dunque, abita solo il pensiero e la nostra immaginazione è la sua stessa vita.
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Bucefalo e Alessandro
Il purosangue greco, invece, veniva dalla Tessaglia. Plutarco descrive il primo incontro tra il principe macedone e !"irrequieto stallone nero. Naturalmente non è possibile dipanare r'intreccio di agiografia, brama del prodigio e notizie autentiche che articola il lavoro prezioso degli antichi biografi di Alessandro. Tuttavia, neU'opera Vite Parallek, Plutarco riporta l"episodio in modo piuttosto suggestivo. Seguiremo pertanto il suo racconto nella nostra esposizione. Un mercante di cavalli, Filonico di Farsala, portò Bucefalo a Pella in Macedonia, alla corte di Filippo, padre di Alessandro. Filonico offrl di vendere r'ammale al re per trenta talenti, una somma apprezzabile per una transazione di quel genere ali"epoca. Bucefalo, pertanto, doveva essere già ritenuto un cavallo di valore al momento della trattativa. Un gruppo di persone era radunato nel luogo in cui gli esperti reali avrebbero dovuto esaminare !"animale. «Bucefalo sembrava selvaggio e intrattabile», non prestava ascolto ai comandi e nessuno poteva avvicinarlo. Filippo si irritò all"istante e ordinò che lo stallone venisse portato via, pensando che tentare di domarlo fosse solo tempo perso.
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Alessandro era presente, cosl prese la parola e disse che stavano rinunciando ad un cavallo eccezionale solo per la loro incompetenza. Filippo, conscio del temperamento polemico del 6glio, lo lasciò protestare per qualche minuto, quindi, infastidito, chiese al ragazzo se dawero pensava di essere più bravo dei consumati professionisti che stavano operando con r'animale. Il principe rispose senza esitare che lui avrebbe saputo trattare con Bucefalo meglio cli chiunque altro. Il re, sempre più seccato, domandò quale penale sarebbe stato disposto a pagare Alessandro se avesse fallito. Il giovane assicurò che poteva pagare il prezzo intero del cavallo sem.a alcun problema. Si levò una risata generale e stabilirono la scommessa. Alessandro aveva notato che r'animale era impaurito perché la sua stessa ombra gli cadeva davanti, dato che dava le spalle al sole. Il ragazzo allora si awicinò, prese le reclini e girò Bucefalo verso la fonte della luce. Poi, dopo averlo fatto trottare un poco tenendolo per le briglie, saltò sul cavallo e lo lanciò al galoppo. Il dispetto del sovrano si tramutò cli colpo in apprensione. Un silenzio teso calò sulla piccola folla, ma quando il principe tornò verso di loro cavalcando scoppiò un applauso. Sembra che il padre, addirittura commosso, abbia detto ad Alessandro: «Figlio cerca un regno degno cli te perché la Macedonia non ti può contenere». La frase è divenuta famosa per il suo carattere profetico, anche se, quasi certamente, non è mai stata pronunciata da Filippo. Comunque siano andate realmente le cose, la leggenda vuole che quel giorno sia cominciato un rapporto del tutto esclusivo tra Alessandro e Bucefalo. Arriano di Nicomedia, cronista molto più sobrio di Plutarco, riporta che Bucefalo alla fine della sua vita si lasciava ancora montare solo da Alessandro. Lo storico poi racconta che quando una tribù, in una parte remota della Persia, ebbe la non felice idea cli rapire r'animale per chiedere un riscatto, Alessandro minacciò cli uccidere senza
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distinzione tutti gli abitanti della regione se il cavallo non fosse stato subito restituito. Nella Anabasi di Alessandro Aniano registra con parole misurate la morte del destriero. Bucefalo morl in India, nel 326 a.e., alcuni giorni dopo una terribile battaglia sul fiume Idaspe nella quale le truppe macedoni sconfissero resercito del sovrano indiano Porus. Lo storico greco riferisce che l'animale non fu ferito nello scontro. Le probabili cause del decesso furono invece r età avanzata, lo stress micidiale e i traumi patiti durante i lunghi anni di campagna militare trascorsi nell'armata di Alessandro. Aniano scrive inoltre che Alessandro fondò nella zona due città. La prima - Nicea - fu costruita nel luogo in cui awenne il combattimento. La seconda venne edificata dove le divisioni macedoni iniziarono il guado dell'Idaspe ed Alessandro decise di chiamarla Bucefala, perché fosse ricordato il suo cavallo. Vintesa tra Alessandro e Bucefalo era dunque dawero singolare. Gli storici antichi in questo sono concordi, malgrado la favola dalle diverse intonazioni con cui spesso awolgono la loro cronaca di notizie, in parte probabilmente autentiche.
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Le radici storiche dell'Avvocato Bucefalo
Kafka tratteggia nel Nuovo Aooocato il profilo di alcuni elementi comuni tra il tempo di Alessandro e la nostra attualità. Anche oggi, awerte lo scrittore, come al]>epoca di Alessandro: 1) Molti uomini sanno come uccidere. 2) Non manca nemmeno la destrezza necessaria ad ammazzare un amico all''improvviso. 3) Per molte persone il mondo in cui nascono è troppo piccolo, cosl maledicono il padre ed il suo nome.
L"artista individua inoltre una frattura essenziale che separa i due periodi storici: 4) Nessuno nella realtà contemporanea sa indicare una via verso una meta irraggiungibile. Per quanto riguarda il primo punto della lista non è necessario un effettivo commento. L"assidua esplosione di violenza omicida è un fatto lugubre e persistente che distingue l"esistenza stessa dell"umanità. Alessandro, non diversamente da una moltitudine di altri condottieri e generali nella storia, ha compiuto e ordinato lo spietato sterminio di intere popolazioni.
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La seconda nota della rubrica richiede però di essere illustrata. La frase autentica di Kafka allude ad un episodio awenuto durante la spedizione del giovane re di Macedonia alla conquista dell''impero persiano. Siamo nel 3.28 a.e. in autunno. Vambienteè quello aspro della Bactriae dellaSodania, unaregione impervia oggi tagliata dal confine che separa Afghanistan, Uzbekistan e Tajikistan. Dopo la primavera e l'estate passate combattendo una guerriglia violenta contro tribù locali insorte, Alessandro e il suo stato maggiore tornano a Samarcanda.
Il passaggio originale di Kafka - immaginazione, scivolata ormai fuori dall"orizzonte del comune senso del fantastico, ha cambiato il suo registro, divenendo cos} più astratta. Alla portata della ordinaria sensibilità delle persone rimangono solo fascinazioni futili, ma il loro utilizzo strumentale ottiene J>unico effetto di lasciare interdetto e spaesato lo sguardo di chi osserva. Nessuno, quindi, nella realtà attuale, può escogitare, sintonizzato sulle frequenze moderne del comprendere o del congetturare, una rotta attendibile, perché ]"in-
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telligenza contemporanea non possiede !"abilità di concepire un"idea plausibile di "destinazione ultima".
L"artista Kafka, però, non resta muto e nel N-uooo Aooocato affida al cavallo Bucefalo il compito di suggerire agli umani quello che essi, forse, non sono più nemmeno in grado di capire. La narrazione termina in modo inatteso. Cosl forse è davvero meglio fare come Bucefalo ed immergere se stessi nei libri di legge. Nella luce tranquilla della lampada, i suoi fìanchi non impediti dalle cosce di un cavaliere, libero e lontano dal clamore della battaglia, egli legge e volta le pagine dei nostri antichi tomi.
Bucefalo non teme l"astrazione e le difficoltà dell"immaginare. Il suo interesse si concentra dunque su una delle forme più eteree della lingua: i «libri di legge». Il vecchio destriero, prima di accostare la dimensione più fondamentale e sfuggente peculiare a questo tipo di letteratura, reali12a alcune condizioni opportune. Innanzi tutto, Bucefalo sceglie la calma di una luce tenue; poi si svincola da ogni sudditanza ed oppressione; infine, libero e discosto dallo strepito mondano «egli legge e volta le pagine dei nostri antichi tomi». Nel racconto la presenza dell"animale ibridato con }"idioma conferisce ad ogni parola un sottile potere corrosivo, cosl la coltre di decoro, con cui la nostra comunità umana addobba la propria parvenza, si sfalda lungo la narrazione. Tra i vocaboli filtra !"immagine di una umanità simile ad una boriosa compagnia di avanspettacolo di provincia, che non comprende l"effettivo stato fallimentare in cui versa la propria carriera nel volubile campo d"arte del varietà. La diagnosi è senza pietà. La farsa, amara, effigia ogni aspetto della vicenda degli uomini: l"erudizione, la storia, Alessandro, il mondo moderno ed i suoi storditi abitanti, il pensiero, aereo, spirituale, che si astrae «in luoghi più remoti e più alti».
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Nondimeno, Kafka protegge Bucefalo. Lo scrittore osserva la sintesi di stile mediante la quale il cavallo tutela il proprio esistere. La libertà di Bucefalo è un requisito, una precauzione dell"istinto per fìutare meglio le insidie dissimulate come sapere tra le pagine dei «nostri antichi tomi». Lo strale di Kafka sibila diretto contro una delle dottrine più gettonate nel mondo degli uomini, costruita attorno all"idea che quella umana non sia una specie vivente tra le tante, ma che, anzi, la natura stessa abbia distillato ]"uomo come proprio vertice. Il culto è che il pensiero sia la via maestra che porta ai «cancelli dell"India». Kafka, invece, sfila }"emancipazione dalla sfera di inHuen:za della ragione e la mostra, muta, in dote all"animale. L"avvocato Bucefalo, garantito dalla sua natura selvatica, si trova a vivere cosl una delicata vicenda intellettuale. In una composizione di poche righe, titolata Desiderio di diventare un Pellerossa, l"artista di Praga capta il pulsare animale della fìsiologia nei sensi. Se solo uno fosse un Indiano, vigile alJ>istante, e su un cavallo lanciato, appoggiato contro il vento, continuasse a sobbalzare, sul terreno che freme, fino a lasciare cadere gli speroni, perché non ci sono speroni, gettare le redini, perché non servono redini, e a stento vedesse la terra davanti a lui liscia come una brughiera falciata, con il collo e la testa del cavallo ormai andati.
La sensibilità è immediata. Il battere del tempo non valica il presente. Il desiderio imprime un moto retroverso alle sequenze che compongono la scena e }"organismo torna ad esistere nella fìsica di quello che accade. Le inquadrature slittano quindi sullo smottare di ogni fotogramma. Le parole dissolvono il loro stesso contenuto, fìno a quando l"impalcatura mentale che suppone il desiderare scompare, inghiottita dalle sensazioni. L"animaleumano e }"orizzonte materiale dell"esistenzaconvergono nell"individuo. Kafka coglie }"istante. Un alito, mentre }"impulso mediato dal corpo irradia }"intuito.
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I:infiltrazione della scrittura di Kafka, nel reticolo di richiami e allusioni che fa da sfondo al procedere del Nuovo Aooocato, destabilizza l"espressione più evidente del testo stesso. I:artista utiliv.a l"effetto di instabilità cosl ottenuto per lasciare la narrazione aperta al formarsi di un senso inedito nella mente di chi legge. Kafka, tuttavia, semina indizi lungo la prosa, suggerendo, nel conciso svolgersi della storia, i luoghi più fertili per l"interesse dei lettori più attenti e dediti allo scavo.
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Il mito del Mito
Rivolgiamo adesso, ancora una volta, la nostra meditazione all'India immaginata dai greci e ai suoi «cancelli», verso i quali, osserva Kafka, Alessandro e la sua «spada>> riuscivano a indicare una via fantastica, che si realizzava, tuttavia, nella pratica funesta della guerra. L'obiettivo politico e militare del «Re» consisteva nella missione di estendere l'impero macedone fino ai limiti della terra. Arriano, però, non ha dubbi su quale fosse la reale aspirazione che stregava il monarca. NellaAnabasi lo storico scrive che Alessandro non era in grado di tenersi lontano dal pericolo, perché la brama per la gloria ed il furore in battaglia lo attraevano, «come accade a coloro che sono posseduti da ogni altro piacere». L'annalista, altrove nell'opera, afferma inoltre che Alessandro non concentrava la sua mente su nulla di ordinario e non sarebbe mai stato soddisfatto, nemmeno «se avesse unito l'Europa al]>Asia o le isole dei Bretoni all'Europa». Le forze che agitavano }>animo di Alessandro, dunque, non avevano la loro principale radice nell'ideologia imperialista ereditata da Filippo. «lo credo dawero - sintetizza Arriano - che se egli non
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avesse trovato più nessuno contro cui lottare, avrebbe combattuto con se stesso». Nel discorso tenuto durante la riunione con gli ufficiali nei pressi del fiume Ipasico, Alessandro aveva spiegato senza misteri la passione che orientava ogni suo impeto e la sua strategia bellica. In proposito, la frase scandita dal monarca era stata, come già sappiamo, cristallina. [ ... ] è mirabile e bello vivere una vita di valore e morire lasciando dietro di sé una gloria immortale.
Alessandro mette poi in evidenza che solo azioni affini alle gesta degli antichi eroi conferiscono bellezza sublime alla vita e possono ottenere dai posteri un riconoscimento awolto daJI>aura di una «gloria» destinata a non tramontare.
Kafka sembra scorgere, in questa dimensione più interiore, la forz.a propulsiva della malia contagiosa che pervadeva l>indole di Alessandro. Il fascino emanava dall>idea che alla vita di un uomo, se vissuta in modo intrepido fino alla morte, potesse poi venire riconosciuto lo stesso valore che la tradizione attribuiva alle figure esemplari degli eroi, simili a dei. Il campo di battaglia era il luogo in cui la metafisica dell>eroismo trovava la sua realtà. r:epopea delle awenture dei guerrieri più valorosi diveniva lo spazio mentale in cui la «gloria» veniva attribuita e celebrata. Una mistica della guerra, quindi, che azionava il carisma del «Re», trasmettendo alla «spada» del sovrano il potere di indicare una «via», diretta ad una meta favolosa, prodotta dall>immaginazione, ma abbigliata con le sembianze della realtà. I:ideale eroico non ha attratto a sé soltanto la psiche di Alessandro, ma ha assunto nei secoli la funzione di uno sfondo dinamico, il quale ha garantito una continuità narrativa alle trasformazioni del modo in cui i greci sono venuti formando la loro concezione del cosmo e della loro stessa vicenda umana. La saga delle awenture di remoti semidei sorge nella pri-
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ma, frammentaria, trasmissione orale del mito. Nell,.ordito del racconto mitico, la fantasia poteva lavorare indisturbata, alterando voci e notizie, la cui origine autentica era stata ormai inghiottita dall,.oblio. Il potere di plasmare emozioni nella mente umana, proprio delle parole, ha una radice nel lavoro dei poeti arcaici che hanno inventato rmcantesimo generato dalle leggende, composte e cantate nelle loro esibizioni.
La relazione tra Alessandro e il mondo evocato dagli antichi poeti viene resa evidente dai suoi biografi, che raccontano la venerazione provata dal comandante macedone per l'Iliade di Omero. Plutarco riferisce che Aristotele attese all,.istruzione di Alessandro fino all'età di sedici anni e regalò al principe una trascrizione del poema omerico appuntata dal filosofo di Stagira. Alessandro, prosegue Plutarco, considerava !>Iliade «un manuale per l'arte della guerra» e portò con sé nella campagna militare in Persia «il testo annotato da Aristotele, conosciuto come "la copia dello scrigno», che egli teneva sempre sotto il cuscino insieme alla sua daga». Non è chiaro come potessero entrare in un bauletto, oppure essere sistemati sotto un guanciale, i numerosi rotoli di pergamena che all'epoca componevano una edizione integrale dell,.Iliade, eppure rimmagine che Plutarco trasmette lascia intendere quanto viscerale fosse il trasporto di Alessandro per il poema attribuito ad Omero. Il saggista greco, inoltre, all'inizio della Vita di Alessandro, riferisce di un lignaggio, il quale pretendeva che la discendenza di Olimpia, moglie di Filippo, madre di Alessandro e principessa dell'Epiro, derivasse «da Eaco attraverso Neottolemo». Il mito narra che Eaco, re delrisola di Egina, fosse il padre di Peleo, dalla cui unione con la dea Teti nacque Achille, reroe principale nell'Iliade. Neottolemo, invece, sempre secondo la
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leggenda, era il figlio di Achille e quindi il pronipote di Eaco. Dopo la conquista e il saccheggio della città di Troia, gli Achei destinarono a Neottolemo, come schiava e concubina, Andromaca, moglie del principe Troiano Ettore che Achille aveva ucciso in un duello. Dall>unione tra Neottolemo e Andromaca nacque Molosso, roriginario progenitore della casa reale dell>Epiro, a cui apparteneva, appunto, la principessa Olimpia, la quale partorl Alessandro. Nell>opinione comune più condivisa dell>epoca, il principe macedone ed Achille provenivano quindi dalla medesima stirpe, e questo «è accettato da tutte le autorità», precisa Plutarco. Il biografo del comandante macedone, in aggiunta, rivela che Lisimaco, addetto alla persona dell>adolescente Alessandro, per blandire il principe era solito «chiamare Filippo Peleo, Alessandro Achille e se stesso Fenice». Llliade menziona Fenice come una sorta di padre putativo, che allevò e istrul Achille e lo segul, su incarico del vero genitore Peleo, nella spedizione Achea contro la città di Troia. L>indole di Alessandro, se diamo credito alla redazione di Plutarco della biografia del condottiero, si formò cosl in un ambiente che trasferiva nella mente del giovane principe la nozione di potere essere, in primo luogo, di natura semidivina, dato che la madre di Achille, suo supposto antenato, era la dea Teti; quindi, proprio per questo, di avere il compito e il destino di emulare le gesta delJ>eroe omerico, ritratto nell>Iliade come «il migliore degli Achei». Altri episodi, riportati da Arriano e da Plutarco, sono interessanti per comprendere quale genere di concezione fosse cresciuta nella mente di Alessandro in relazione al suo modello e rivale Achille. Quando rannata macedone attraversò rEllesponto ed approdò in Asia, Alessandro volle rendere omaggio ai guerrieri Achei
47 che avevano combattuto sulla piana di Troia Arriano scrive che il re offrl un sacrificio propiziatorio dove si pensava fosse sepolto Protesilao, nei pressi di Eleusi, sulla sponda tracia dello stretto. Nella sinossi del Ciclo Epico stilata da Proclo, si narra che durante lo sbarco dell,esercito Acheo sulla spiaggia davanti alla forte7.7.a di Troia, Protesilao fu il primo tra i greci ad essere ucciso dalle frecce troiane. Giunti nei pressi delle vestigia delle mura di Troia, Alessandro e i suoi compagni, cosparsi di olio, fecero poi una gara di corsa nudi, «come era costume», ricorda Plutarco, dinanzi alle supposte tombe di Achille e Patroclo, per onorare i due eroi. Alessandro depose quindi corone di fiori attorno al tumulo sotto il quale si riteneva fosse sepolto Achille, mentre Efesto, l'amico più intimo di Alessandro, celebrò allo stesso modo il presunto sepolcro di Patroclo. L'audacia, il disprezzo del pericolo e la voluttà per la battaglia sono, però, gli attributi del comandante macedone che più lasciano intendere quanto fosse intenso il carisma che la figura di Achille esercitava su Alessandro. Dopo che i soldati macedoni si erano rinutati di procedere all,interno dell,India, verso la valle del Gange, il sovrano decise con riluttan7.a di interrompere l,avan7.ata. Alessandro non rinunciò, tuttavia, all,idea di raggiungere l'Oceano Esterno. Il contingente macedone si trovava allora in una regione dell,odiemo Punjab, in cui scorrono cinque grandi numi, che convergono progressivamente in un unico affluente dell,Indo, il quale sfocia poi nel Mare Arabico davanti al Golfo Persico. Il re elaborò dunque il progetto di utilizzare le vie Huviali, per arrivare a quello che all'epoca si pensava fosse il Mare Esterno. Il piano prevedeva di annettere all,impero macedone tutti i territori attraversati dagli imponenti corsi d,acqua e di sottomettere le genti che li abitavano. Alcune delle tribù che esercito incontrò durante il tragitto, terrori7.7.ate, si arresero senza provare a resistere. Quando giunsero nei paesi abitati dai po-
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poli più bellicosi, le milizie di Alessandro si trovarono invece di fronte una strenua opposizione armata. Arriano e Plutarco raccontano l'attacco delle forze macedoni alla forte7.7.a dei Malli. I guerrieri indiani erano barricati dietro le mura che cingevano la roccaforte, all'interno della quale la popolazione civile aveva cercato riparo. Le manovre delle truppe macedoni per inerpicarsi sulla fortificazione stavano procedendo troppo a rilento, cosl Alessandro strappò una scala dalle mani di un soldato, la puntò contro il fortilizio e cominciò per primo a salire lo spalto. Raggiunta la cima del bastione il comandante, resosi conto di essere un facile bersaglio per la pioggia di sassi e frecce nemiche che gli arrivavano addosso, saltò dalla muraglia all'interno della cittadella. La furia con cui Alessandro, ormai in mezzo alla mischia dei nemici, si batteva sbigotfl i militi Malli. Nel frattempo solo tre uomini, Peuceste, Leonnato e Abreo, avevano raggiunto il sovrano nella roccaforte indiana, perché le scale, utilizzate dalle unità di incursione macedoni per issarsi sulla rocca, erano poi collassate sotto il peso della calca. Arriano menziona che Peuceste era l'addetto allo Scudo Sacro, che Alessandro aveva portato via dal tempio di Atena a Troia e voleva fosse tenuto sempre vicino a lui durante le battaglie. Lo storico greco, tramite la nota sullo Scudo Sacro custodito da Peuceste, ispira un'allusione al celebre Scudo di Achille, autentico oggetto d'arte intarsiato dal dio zoppo, il fabbro Efesto. Lo Scudo esce dalla fucina di Efesto come parte dell'armatura che Achille indossa nell'Iliade quando il principe Acheo torna a combattere dopo la morte di Patroclo. Alessandro e i suoi tre compagni rimasero quindi isolati nella fortezza dei Malli, accerchiati dai guerriglieri indiani. Abreo venne freddato da una freccia sulla fronte. Alessandro, furibondo, uccideva chiunque gli capitasse a tiro, mentre Peuceste, impugnando lo Scudo Sacro, tentava di proteggerlo dai
49 dardi nemici. Leonnato fu amma72ato subito dopo ed una freccia scoccata da una breve distanza colpl anche Alessandro, penetrando in un polmone. Arriano racconta che l"aria sbuffava dalla lesione al petto del condottiero, unita ai fiotti di sangue. Alessandro, barcollando, resisteva comunque agli attacchi dei guerrieri Malli, insieme a Peuceste, pure lui ferito. Plutarco narra che, nel tumulto, percosso da un nemico con una mazza sulla testa, Alessandro alla fine stramazzò a terra privo di sensi. Intanto il corpo speciale addetto alla sicureZ7.a del sovrano e le squadre d"assalto macedoni avevano trovato il modo di irrompere nel forte dei Malli. La carneficina fu totale. I civili furono tutti trucidati, donne e bambini inclusi. La città venne rasa al suolo e i combattenti indiani furono massacrati. Le guardie reali trasportarono Alessandro nell"accampamento macedone, dove, in mancanza di personale medico, }"ufficiale della Falange Macedone Perdicca esegul l"intervento chirurgico per estrarre la punta della freccia dal polmone del re. Alessandro rimase tra la vita e la morte per alcuni giorni. Poi, scrive Plutarco, fu costretto ad osservare «un lungo periodo di stretto regime», prima di poter tornare a comandare i suoi uomini per guidarli verso l"Oceano Esterno. Il modo in cui Alessandro, nella vita militare, interpretò il proprio anelito verso la nobiltà eroica fu, senza dubbio, radicale ed efficace. Nel discorso tenuto all"assemblea degli ufficiali sulle rive dell"Ipasico, il monarca fece giustamente notare che i traguardi ottenuti dall"esercito macedone sotto il suo comando erano più rilevanti di quelli raggiunti da Dioniso e da Eracle. La leggenda, infatti, riporta che la conquista dell"India da parte di Dioniso si interruppe prima dell"Indo, nella zona più a nord dell"odierno Pakistan confinante con l"attuale Afghanistan, dove il dio dell"ebbrezza fondò la città di Nisa. Alessandro, invece, guadò l"Indo e coprl con i suoi uomini una considerevole distanza oltre il corso del fiume, soggiogando gli
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abitanti di tutte le regioni indiane invase dalle milizie macedoni. Il mito, inoltre, racconta che Eracle non riuscl ad espugnare }"inaccessibile rocca di Aorno, situata in un"area impervia della Bactria. Alessandro, viceversa, conquistò quella stessa forte7.7.a, costruita sulla sommità di un dirupo, tramite una ardita operazione di ingegneria militare. Aniano avverte che le leggende non andrebbero analizzate troppo da vicino, perché «molte cose che la ragione rigetta non sembrano più cosl incredibili, una volta che un dio viene messo nella storia». Tuttavia, quando vengono accostate le imprese di Alessandro con le gesta di eroi leggendari, oppure addirittura di divinità, si viene a creare una situazione particolare. Una delle peculiarità dei racconti mitici è quella di formulare una sorta di parametro dell"impossibile: quello che gli dèi e gli eroi del mito possono ottenere è quasi sempre inaccessibile per gli umani. Alessandro sovverte questa dinamica. Il giovane re ha in effetti realizzato imprese che gli antichi, ignoti redattori delle narrazioni mitiche nemmeno supponevano si sarebbero mai potute concepire. La funzione fantastica del mito, dunque, si inabissa quando }"effetto concreto delrazione umana toglie all"impossibile il suo aspetto fittizio di limite dato.
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Bucefalo, r animale e il processo chiamato mente (2)
Kafka afferra lo sviluppo paradossale che conduce al collasso del potere evocativo deU'immaginazione. Il fascino effuso dalle storie inventate da remoti bardi, filtrate dalla tradizione, prowede r energia che permette alla «spada del Re» di indicare «una via verso tlndia». La malla raggiunge un''intensità capace di assumere, nella percezione degli individui, la consistenza di una simulazione che surroga il reale. Quando la prassi, però, rivela la meccanica e }"efficacia del proprio incedere, il carisma dell"incanto evapora. Il disorientamento tesse allora i progetti di quelli che seguitano a brandire spade e la confusione occupa «rocchio che cerca di seguirli». Lo scrittore, tuttavia, non si unisce allo sbandamento pragmatico, ma affida all"ibrido Bucefalo il compito di rileggere «i nostri antichi tomi». Il «Dr. Bucefalo» non possiede una esistenza propria, ma abita la mente umana, come un"attività simbolica interna al circuito di elaborazione e smistamento di informazioni e suggestioni, nell"ignoto traffico che connette la nsiologia con la sostanza delle creature che emergono dall"uso delle parole.
Kafka, alla nne, suggerisce ad ognuno di «fare come ha fatto Bucefalo ed immergere se stessi nei libri di legge». L"invito
52 suona come uno stimolo a prendere possesso del proprio intelletto e della sua fibra creativa. Bucefalo non si ritira nella quiete solo per assimilare l"arcaica saggeva, ma «legge e volta le pagine dei nostri antichi tomi» per riattivare }>utilizzo di antichi impulsi all>interpretazione ed inventarne di nuovi.
I «tomi» che Kafka consegna all>intelligenza animale di Bucefalo non possono avere versioni canoniche, oppure un testo finito, ma nemmeno vere e proprie «pagine». L'artista di Praga sembra riferirsi ad un processo più fondamentale della scrittura. La fabbrica della mente lavora come un cantiere frammentario, che non smette di operare fino a che il suo correlato cerebrale funziona. Il filamento verbale dei contenuti mentali è costretto continuamente ad assicurare una miriade di effetti simultanei, per potersi realizz.are. Bucefalo ha quindi a che fare con le forze che innervano la composizione delle parole. Quando Arriano descrive il momento in cui Alessandro raggiunge la sommità della fortificazione che proteggeva la roccaforte dei Malli, il biografo presenta nel suo racconto una nota interessante. Una volta in cima al baluardo, Alessandro diventa ]>impotente bersaglio di uno sciame di frecce nemiche. Il comandante capisce che, cosl esposto, egli non sarebbe stato in condizione di «realizzare nessun atto meritevole di considerazione». Alessandro decide allora di balzare dentro il forte, in mezzo ai guerrieri Malli, pensando che in quel modo, nella peggiore delle ipotesi, «sarebbe morto in modo non ignobile dopo avere compiuto imprese di valore, degne di essere ricordate dagli uomini dei tempi a venire». Arriano illustra cosl ]>attimo in cui l"anelito alla «fama» rivela la sua essenza ed il proprio prezzo. La «gloria immortale» pretende il decesso del!>eroe. Nel mondo greco non è presente ]>idea di una vita oltre la barriera della morte. Nell>Ade non esiste nulla di vitale. r:oltretomba del mito è abitato dalle anime defunte di coloro che
53 un tempo erano vivi. I greci davano dunque alla vita un valore estremo. Il tipo di eroe cantato dagli aedi non cade nella trappola costituita dalla paura di perdere l"esistenza ed ha il coraggio di condurre la propria vita, proiettandola in un futuro che a lui sarà comunque negato. Il luogo in cui le «imprese di valore» degli eroi vengono inventate, celebrate e divulgate alle generazioni che verranno è ]"opera di artisti e di bardi che raccontano in musica istinto animale di Bucefalo mantiene }>astrazione connessa al corpo, come funzione della materia, in conflitto con la prassi offuscata di quelli che agitano spade. Vautorevolezza del «Re» era radicata nella abilità del monarca di controllare il frutto dell>affabulare. Nel mondo odierno, invece, una legge incorporea attira le sorgenti di ogni cosa, mentre i suoi concreti funzionari annaspano attorno ai posti di potere. Vavversione di Bucefalo rispetto a tutto questo non è meno strenua della ripugnanza dimostrata da Kafka, che ospitava }>avvocato nel proprio ingegno. Nella visione di Alessandro, J>accesso ai «cancelli dell>India» avrebbe consentito altesercito imperiale di raggiungere !>Oceano Esterno e di assoggettare poi tutti i popoli che abitano la terra. Il valore della vita, secondo la prospettiva metafisica del re macedone, consisteva nel compiere in modo esemplare le azioni necessarie a realizzare il progetto di conquista totale del mondo. Quelle «imprese di valore» avrebbero dovuto assicurare agli eroi protagonisti di tali gesta una «gloria immortale».
«Oggi i cancelli - scrive Kafka - sono ritirati in luoghi più alti e più remoti». Una entità ineffabile rileva il ruolo del monarca e svuota le parole. Lo scopo di questo moderno strumento di potere non è più occupare le terre e dominare le moltitudini. Il suo nne è etereo, almeno quanto la sua essenza immateriale: vocaboli, lemmi, definizioni, sono irrilevanti e non possono imbrigliare nella rete del senso la forma assente della legge.
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Il balzo metafisico
La nota di Kafka, riguardo i luoghi rarefatti in cui «i cancelli dell'India» sarebbero retrocessi, stimola livelli di riflessione diversi, tra loro integrati. Vosservazione sembra registrare la mutazione awenuta nella forma del linguaggio che il pensiero utilizza per descrivere l'ambiente in cui l>esperienza umana si accorge di esistere. Tramite sensazioni, immagini, parole e concetti, ]>umanità ha inventato se stessa e un mondo conforme alle variazioni delle proprie esigenze. n contenuto delle narrazioni che plasmano lo sfondo letterario della psiche umana, tuttavia, risulta inutile e fuorviante al fine di comprendere il funzionamento della realtà fisica e delle fluttuazioni di energia che costituiscono la materia. I numeri e una rete di connessioni logiche, d>altra parte, consentono all'intelligenza di formare i modelli concettuali utilizzati per pensare le trasformazioni continue di tutto quello che esiste. Matematica e logica formale sono le estensioni della ragione che intercettano le strutture elementari della materia, le quali si mostrano, per un singolare paradosso, più astratte di ogni astrazione intellettuale. La fabbrica della natura si rivela indifferente alle necessità della mente. Il bagaglio razionale rimane quindi dimensionato e la sua sede naturale slitta nell'ambito degli attributi animali che distinguono la specie umana.
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Nella realtà fisica che conosciamo, lo spazio mentale in cui si formano vocaboli sembra emergere dall"attività elettrica e chimica degli organismi umani. Tra gli esseri viventi che producono immagini e suoni, gli umani sono gli unici ad applicare il filtro delle parole all"interpretazione dell"effetto che stimoli diversi hanno sulla fisiologia. L"indagine della scien7.a non rileva però la preseD7.a di un fenomeno osservabile che possa coincidere con l"entità cui allude il senso più diffuso della parola "mente". Le procedure delranalisi scientifica mostrano, invece, }"attività continua di un processo, teso a tramutare gli esiti elettrici e chimici del lavoro organico nel Busso di elementi utili alla creazione del mondo psichico, in cui avviene l"esperienza degli individui. Vastratta proiezione della "mente"" svanisce non appena si arrestano le mansioni organiche dell"individuo, necessarie all"esisten7.a immateriale della "mente"" stessa. Il metabolismo che forma le articolazioni mentali, dunque, non trascende la materia, ma si manifesta come una funzione dell"organismo. La scena condivisa del dinamismo mentale, inoltre, che sembra essere forse !"invenzione evolutiva più prolifica della specie umana, sussiste solo in quanto percepita dalle persone coinvolte nel traffico delle informazioni. Il balzo metafisico, innescato dal procedere del pensiero speculativo e dell"osservazione scientifica, muove !"umanità in un cosmo dove frammenti del reale vorticano, «in luoghi più remoti e più alti», lontano dalla possibilità di essere afferrati dagli umani. Come effetto dello sviluppo iperbolico della intelligen7.a che comprende ed interpreta le trasformazioni naturali, alle parole sfugge la presa sulla realtà. Lo sguardo di Kafka è lucido: nel mondo contemporaneo «nessuno in assoluto può tracciare una via verso }"India», perché la consistenza simbolica dei «cancelli dell"India» esprime la loro sostan7.a solo verbale. I «cancelli dell"India» risolvono in se stessi e non indicano nulla
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di reale. Un costrutto di vocaboli edifica il mondo immaginato dagli uomini, ma non esistono parole fuori dalla realtà astratta inventata dagli umani. Una sola differenza distingue le élites politiche, militari, economiche, intellettuali e sacerdotali, le quali filtrano nel racconto di Kafka attraverso !"effigie di Alessandro, dai gruppi di potere che oggi «portano spade, ma solo per brandirle». Le aristocrazie in generale hanno sempre sfruttato il fascino psicologico dei miti al fìne di legittimare il proprio ruolo nella gerarchia sociale e le azioni necessarie a difendere la propria egemonia. Il carisma della forma mitologica, radicato su un>esagerata valutazione della funzione del linguaggio simbolico, abilita una esegesi di profilo teleologico delle narrazioni mitiche. Alessandro poteva cosl segnare la via verso i fantastici «cancelli dell>India», perché quasi nessuno dubitava la solidità effettiva dell>intera prospettiva generata dal mito.
Le attuali classi dirigenti, invece, sprovviste di una qualsiasi concezione dell>esperien7.a umana, brancolano nel buio e vivono alla giornata. I numeri descrivono una realtà che procede in modo inatteso, dove ogni sviluppo dipende da una infinità di opzioni che reticolano verso mete indeterminate: architettare una visione coesa dell>accadere, oppure anche metaforica, sarebbe impossibile e inutile. Un potere impersonato da mezze figure e da burocrati, per garantire se stesso, escogita allora una mitologia evanescente. Una versione diffusa di questo idolo moderno mistifica, in modo sistematico e in ogni campo, gli esiti dell'indagine scientifica. Le proposizioni della scienza, falsifìcate, si impongono cosl come prescrizioni all>individuo e indicano un supposto ordine etereo nella natura, al quale il singolo sarebbe, comunque, uniformato. La varietà più pervasiva del feticcio, tuttavia, forse è proprio la stessa idea di legge. Kafka esplora nel romanzo Il Processo la relazione tra }>individuo e la dottrina metafisica che emana
58 dal concetto di legge. Una legge non tangibile, priva di codice e di precetti, che attira l''ombra della persona in un gorgo, fino al punto in cui, con un gesto volontario, il soggetto rinnega se stesso e consegna il governo della propria vita ad un apparato e ai suoi funzionari. Non è un caso che Kafka abbia pensato il veterano di molte battaglie Bucefalo come un legale. L"animale fiuta il subdolo profilo impalpabile della legge e decide autonomo la propria condizione di individuo; quindi, svincolato da ogni impedimento, lontano dal chiasso mondano, r originale giurista studia la trama sparsa dei «nostri antichi tomi» per inventare il futuro. Kafka scrive che anche adesso, come all"epoca di Alessandro, «per molti la Macedonia è troppo piccola». Bucefalo ed Alessandro non potevano sopportare il limite angustodel mondo di Filippo, cosl hanno stracciato insieme quel confine. La vicenda storica è nota. Kafka sembra però rilevare che nella mente degli uomini la via percorsa dal comandante macedone ed il varco aperto dall'intangibile destriero non hanno avuto un medesimo destino. D condottiero rivolse la sua «spada» verso «l"India», propagando oltre frontiera il regno del padre e la suadente mania del potere articolata dalla cultura greca. Alessandro fondò un impero di cui Filippo sarebbe stato fiero. Bucefalo è posto da Kafka, invece, sul lato ignoto, dove le parole sorgono in mezzo a quello che ancora non esiste.
Il Nuovo Aooocato fu pubblicato nel 1919, come primo racconto nella raccolta Un Dottore di Campagna. Kafka non poteva prevedere quindi che la marcia della scienza, lo sviluppo della logica e la conversione digitale della realtà umana avrebbero confermato, ad un secolo di distan7.a, la lucidità delle sue intuizioni: per noi non ci sono forse oggi >. Miraggi simili alla chimerica «India» di Alessandro hanno fatto ormai il loro tempo. I nostri «cancelli» sporgono sospesi su altre ipotesi. Possibilità inedite deU'organismo divengono ora avventure della mente. Noi possiamo immaginarle reali, oppure spingerle nel nulla.
II
Il Bardo origina la Forma
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Omero: il mito come critica del Mito
Achille, il principe Acheo che per Alessandro era un modello ed un rivale, condivide con l'avvocato Bucefalo e rAlessandro inventato da Kafka un'esistenza solo letteraria. Tratti molto scarsi, invece, assimilano il personaggio storico del condottiero macedone al guerriero omerico. Prima di proseguire proviamo a rendere più esplicito il rapporto tra la sensibilità speculativa di Kafka e l'opera di Omero. Walter Benjamin, nel saggio Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte (Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962), osserva che «Kafka pensa in termini di epoche cosmiche». Il cosmo percorso dall'intelletto di Kafka, naturalmente, non è lo spazio siderale in cui esplosioni atomiche generano corpi celesti e sistemi di stelle. L'artista si muove all'interno di un universo più modesto ed etereo: il pensiero di Kafka attraversa l'estensione immateriale della mente umana.
Le tre prospettive dello spazio e quella del tempo, nelle quali si manifestano le leggi che regolano la fìsica classica, interagiscono immediate, nella realtà della mente, con la non-località, propria delle Huttuazioni dei quanti. L'assema della materia dallo spazio mentale, tuttavia, accorda alle modalità di intera-
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zione derivate dalla fisica una prese117.a solo virtuale nelle galassie aperte dalla percezione degli individui. Nella mente si formano creature composte da concetti quando si cerca di ottenere un senso dagli stimoli emessi nella diffusione, apparentemente sconnessa, di frammenti verbali, immagini, suoni, sensazioni. Il magmatico fluire si presenta come una sorta di versione analogica mentale del traffico digitale di scariche elettrochimiche che attraversano I,organismo. Il nesso, tra le quantità di energia che animano il corpo e la sostanza che nella mente prelude a parole e forme, pare stabilito, però, da una logica negativa. La materia in cui risolve il corpo e }"assenza di materia, peculiare a tutto ciò che è mentale, si negano reciprocamente. La presenza della materia, infatti, impedisce il proprio sincrono mancare e viceversa. Nonostante ciò, tuttavia, le due condizioni di esistenza (stato fisico e stato mentale), in quanto esprimono il medesimo individuo, sono fuse in una unità indissolubile. La negazione logica e la sua derivazione metafisica - il non essere - sembrano regolare anche lo snodato reticolo che stabilisce legami tra le diverse architetture concettuali, le quali generandosi plasmano la mente. Non esistono due pensieri uguali, due identiche rappresentazioni, due sensazioni medesime. Inoltre è impossibile enunciare }"identità di una stessa impressione, dato che una percezione si mostra immediatamente per quello che essa, in effetti, non è. Le affinità che attivano cascate di agganci tra addentellati di concetti, stimolate dalla presenza della negazione che effonde lo spazio logico, sono, quindi, risonanze di similarità, analogie, assonanze, rapporti di familiarità. Questa situazione logica, tipica dei contenuti mentali non relativi alla computazione, restringe e definisce il campo razionale inerente alla possibilità di asserire con criterio verità determinate nei propri giudizi.
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L"universo che un intelletto può solcare si forma tramite intuizioni percepite di energie, sensazioni> stati d,animo> suoni, immagini e parole. Le epoche cosmiche traversate dal pensiero di Kafka ed indicate da Walter Benjamin, dunque, sono in effetti molto più modeste delle distanze nello spazio galattico tagliate da esplosioni di stelle, ma hanno, tuttavia, la stessa immateriale dilatazione dell,interiorità umana. L"indole dei singoli individui trova i modi del proprio sviluppo tra le parole anche grazie al lavoro di autori sorgivi, come, ad esempio, Franz Kafka ed Omero. Molti narratori sono inventori di storie. In senso più generale, parecchi artisti realizzano lavori originali con la loro attività. Le fonti autentiche dalle quali nascono stimoli in grado di _generare stati d,animo del tutto inediti, tuttavia, sono rare. Dell,antico poeta, che una tradizione arcaica vuole cieco e proveniente dall'isola greca di Chios, abbiamo però solo l'opera a lui attribuita. Ma per quanto riguarda il bardo "Omero", l,individuo, in realtà non sappiamo nulla. Un passo del libro Homeric Questions (University of Texas Press, Austin 1996) di Gregory Nagy può aiutare a capire la situazione inattesa a cui sono apErodati gli studi di storia e filologia classica contemporanei nel tentativo di stabilire un,origine attendibile dei poemi omerici e l,identità del loro autore. Fino ad ora abbiamo visto una varietà di miti che offrono una spiegazione tipo "bigbang' dell'opera omerica. [ ... ] All'inizio c'è il mito di Omero autore dei poemi omerici. Una metafora associata con questo mito è quella di un maestro artigiano che produce un capolavoro. Poi ci sono i miti di un rifacimento post-omerico dei poemi. Tra le metafore usate in questi miti c'è quella di una tela integrale prodotta dal "cucire insieme" pezzi di tessuto, che corrisponde al poema che rapsodi diversi mettono insieme cantando in sequell7.a parti di canzoni differenti. Ma forse la metafora più saliente di tutte viene da storie più tarde che riguardano un testo scritto prototipico, disinte-
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grato in brani separati, i quali sono stati tutti ad un certo punto reintegrati da un eroe che nella cultura funge da archetipo.
La genesi del mito si rivela in un proliferare indecifrabile di miti. In modo non diverso, la sorgente del nome "Omero", associato alla figura di un «maestro artigiano», prototipo dell7idea stessa di autore, dirama in una molteplicità di indizi filologici. Jonathan S. Burgess (Homer, I.B. Tauris & Co., London 2015) sintetizza in poche righe 17attuale stato deU'arte della ricerca. L'etimologia del nome "Omero" viene ugualmente esplorata. La radice del nome è spiegata in modo suggestivo come "redattore" (della canzone) oppure "raduno" (ai festival). La traduzione antica di Homerus come "ostaggio" può essere giustificata dalla stessa radice. Nagy compie un passo ulteriore suggerendo che i poemi omerici rappresentavano un legame nella cultura pan-Ellenica. Il leggendario nome "Omero" potrebbe cos} indicare ali'origine, performance e diffusione della poesia omerica.
L'incontro con le storie immaginate da Kafka, oppure con i poemi cantati dai bardi sepolti nella sigla "Omero", si rivela perciò singolare e disloca il lettore in un luogo dell"intendere popolato dalle creature che si formano mediante l,utilizzo delle parole. Possiamo provare a trovare qualche aggancio tra il lavoro di Kafka e le saghe che la tradizione orale micenea protende oltre il proprio oblio. In particolare, osservando Alessandro e Bucefalo, protagonisti del racconto di Kafka, si può rilevare qualche analogia tra lo sfondo teoretico che affiora da Il Nuovo Avvocato di Kafka e il modo in cui tra le parole di Omero prende forma la scena dell"Iliade. La vicenda che spinge in una spirale tragica l"esercito greco e gli abitanti della città di Ilio si svolge nello spazio aperto dalla narrazione omerica. Kafka contrae l"orizzonte del mito in una invenzione di poche righe.
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Alessandro, se stiamo alle notizie biografiche compilate da Plutarco e da Aniano, venne allevato nella convinzione di essere lui stesso, non solo un discendente, ma l'autentico erede carismatico di Achille. La principessa Olimpia, madre del comandante macedone, apparteneva infatti alla casa reale dell'Epiro, il cui ceppo, secondo una leggenda ancestrale, derivava dal progenitore Molosso nato da Neottolemo, il quale a sua volta era figlio del principe Acheo. L'orizzonte intero della vita di Achille è contenuto nei versi dell'Iliade e in pochi altri remoti frammenti di antiche canzoni. Alessandro, infatti, se prestiamo ascolto ad Aniano e Plutarco, traeva le motivazioni più intime e profonde del suo agire da una interpretazione tipica delle vicende degli eroi narrate nel poema omerico. Il personaggio del «Re» creato da Kafka nell'ideare Il Nuovo Avvocato, un condottiero capace di incendiare l'animo dei suoi uomini puntando la «spada» verso i «cancelli» fantastici dell'India, emerge dunque da un fondale che emana la luce crepuscolare diffusa dal mito, attribuito a «Omero», in cui si attiva la vicenda della guerra combattuta sulla piana di Ilio. Bucefalo, invece, riverbera nella trama del Nuovo Avvocato alcune delle mosse più cruciali compiute da Achille lungo lo svolgersi della saga omerica. Bucefalo trasforma se stesso, mantenendo nel proprio divenire tutta la genesi di ogni suo mutamento. La metamorfosi attiva nell'animale il continuo processo in cui consiste l'individuo. Il cavallo ibrido, in primo luogo, svincola i «suoi fianchi» dall'ostacolo costituito «dalle cosce di un cavaliere». Poi, «libero e distante dal clamore della battaglia», Bucefalo si ritirain uno spazio interiore, dove «nella &oca luce di una lampada» inizia un modo inedito di concepire, mentre «legge e gira le pagine dei nostri antichi tomi».
Kafka delinea con pochi tratti una sorta di anatomia del tipo di entità che Bucefalo si accinge ad iniziare. Un individuo non soggetto ad alcun potere sorge in una relazione ininterrotta
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con rambiente in cui la propria esistenza accade. Nel metabolismo deU'esperienza individuale, gli elementi sono le informazioni, le parole, gli aggregati di concetti, le narrazioni inventate, le sensazioni, che formano il mondo psichico senza materia e privo di confini abitato dagli umani. Gli «antichi tomi>> meditati da Kafka sbucano improvvisi alla fine del Nuooo Aooocato come una breccia sul limite delle parole. Una soglia che pennette a Bucefalo di sporgersi sulla vertiginosa apertura del possibile.
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Il Mondo in Pezzi: Achille e la Forma del Potere
Se Bucefalo nel Nuovo Avvocato si rivela arguto e non prono al compromesso, la condotta con cui Achille procede nelriliade mostra un personaggio lucido, risoluto e radicale. Achille opera un taglio nel reale. Nella lesione cresce la forma di un esperimento. Uindividuo interpretato dal principe di Phthia tra le parole del poema rtHette nella trama lo svolgersi deU'esperimento stesso.
I.:Iliade mette in scena la collera di Achille. I versi iniziali rendono evidente la portata "cosmica" assunta nel poema dagli eventi correlati alla «rovinosa ira>> del giovane principe. Il cosmo indicato dal racconto è quello del mito. Nella fibra moderna della nostra sensibilità possiamo forse afferrare meglio la consisten7.a del mito pensando al fondamentale esercizio "letterario" della mente. Una dimensione virtuale, dunque, che aziona in una forma narrativa la realtà psichica effusa dalle funzioni della fisiologia. Lo sfondo delr'universo mitico indica r orizzonte della natura. Le forze della natura entrano nel mito tramite le divinità che le raffigurano in una versione accessibile al fantasticare proprio degli umani. Quando la performance inizia, la Musa viene invocata mentre il rapsodo precipita in uno stato di sintonia con la coeren7.a
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metalogica che pervade il poema, in cui si realiz7.a arcana «la volontà di Zeus». Vartifìcio divino offre almeno la parvenza di una prospettiva alle vicende degli umani. L"artista ottiene la scienza totale della propria creazione mentre inventa il racconto stesso. Lo snodo della vicenda, tuttavia, non sorge dal nulla. La tradizione orale veicola frammenti, temi, formule, intere canzoni. I «nostri antichi tomi>> radicano senza forma in una specie di preludio alla possibilità medesima di comporre. La metafora della narrazione astrae dall"organismo, dove è assente ogni verbalità, le sensazioni che supportano i vocaboli. Il mito accade dunque nella percezione di chi ascolta ]"esibizione dell"aedo, oppure nell"intelletto del lettore che ha tra le mani una residua traccia scritta dell"evento costituito dalla performance. Personaggi,. luoghi, accadimenti, assumono cosl una vita propria, senza muovere un passo, però, oltre il limite delle parole che articolano la nostra mente. Il paradosso interiore della coscienza,. in effetti, non pare scostarsi dal mito in nulla di essenziale. L"invocazione alla dea avvia la formazione del mito. Il processo della trasmissione si innesca nella mente dell"aedo e nell"esperienza di coloro che sono presenti alla performance. r;Jliade si apre nell"attimo in cui l"oracolo divino, la visione del rapsodo e ]"immaginazione di chi ascolta, ad un tratto collassano indistinti nel mezzo degli avvenimenti che affliggono i guerrieri Achei accampati su una spiaggia nei pressi della città di Troia. La peste falcidia l"esercito greco. Nel registro del mito le epidemie vengono intese come una espressione della «furia» di Apollo. Un oltraggio al dio era stato infatti perpetrato dal comandante della coalizione militare greca Agamennone, il quale aveva impaurito e offeso Crise, sacerdote del «figlio di Leto e Zeus». Crise era giunto nel campo greco mostrando le insegne del dio, per implorare gli Achei di rilasciare sua figlia Criseide sequestrata dai soldati greci come parte del bottino
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razziato durante il sacco della città Crisa, situata non distante da Tebe nella regione della Troade. Per rispetto verso il sacerdote di Apollo, gli Achei si dichiararono tutti d'accordo. Agamennone infastidito, tuttavia, liquidò Crise in malo modo dopo averlo minacciato. Terrori7Zélto e afflitto, il religioso pregò allora Apollo di fare pagare ai Danai lo sfregio subito e il nume furente non tardò ad esaudire la sua supplica. Apollo, dio della forma, mantiene la distanza e colpisce da lontano. La peste iniziò dunque di Il a poco a piovere dal cielo sulle navi greche, diffusa dai dardi invisibili scagliati dalla divinità. Nel decimo giorno della pestilenza Achille convocò una assemblea degli Achei per fare luce sul motivo che aveva scatenato l'ira di Apollo. L'indovino Calcante venne cosi chiamato per svelare l'origine dell'affronto al dio. L'apparizione di Calcante segna il principio dello scontro tra Achille ed Agamennone. L'alterco porterà ad una rottura insanabile tra il principe Acheo e la cultura di cui il despota di Micene era un emblema, alla quale fino a quel momento Achille stesso apparteneva. l:Iliade mette in scena, dunque, l"awentura di un mondo scisso nella propria essenza. L'individuo e le forze che plasmano in qualche modo un consonio umano sono tenuti insieme, nella performance del rapsodo, dal medesimo conflitto che ne determina, al tempo stesso, la reciproca distinzione. Sul punto di annunciare il vaticinio, Calcante pretese una protezione totale da parte di Achille. Il veggente temeva la ritorsione di Agamennone. Calcante sapeva che la sua divinazione avrebbe irritato il sovrano e che «quando un re è adirato con un uomo di umili origini» prima o poi gliela fa pagare. Achille iniziò a capire la situazione e rassicurò l'aruspice. Prendi coraggio e parla liberamente [ ... ] nessun uomo fino a che io vivo e vedo la luce su questa terra alzerà una mano su di te[ ... ] nessuno dei Danai, nemmeno se tu nomini per-
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fino Agamennone, che ora sostiene di essere di gran lunga il migliore degli Achei.
Voracolo del veggente fu sbingato e argentino, ma al tempo stesso cupamente presago. Vindovino disse che Agamennone aveva disonorato il sacerdote di Apollo e rifiutato di rilasciare sua figlia. Il dio che colpisce da lontano aveva dunque saettato sugli Achei la sventura deU'epidemia. La peste non sarebbe terminata 6no a quando la fanciulla non fosse stata restituita al padre sen7.a condizioni. Calcante concluse e si mise a sedere. Agamennone si alzò e prese la parola. Molto contrariato, con il cuore scuro consumato dalla rabbia, i suoi occhi infuocati. Truce, si rivolse a Calcante: "Profeta di sventura, mai una volta che tu mi abbia detto qualcosa di buono, predire il male è l'unica cosa che ti aggrada".
Con l'ambiente che iniziava rapidamente a farsi saturo per la tensione gli eventi precipitarono. Agamennone sbraitò di avere rifiutato il riscatto per Criseide perché preferiva la ragazza a sua moglie Clitennestra e voleva averla nella sua casa. In ogni caso era disposto a liberare la giovane se la cosa serviva per placare Apollo e a salvare i suoi uomini dalla pestilen7.a. Ma il sovrano esigeva di essere risarcito. Un uomo del suo rango non poteva restare «il solo tra gli Achei» a mani vuote. La spartizione del bottino razziato durante i saccheggi seguiva, nella civiltà militare micenea, criteri di distribuzione abbastan7.a rigidi, legati al riconoscimento del valore e del grado nella gerarchia proprio di coloro a cui veniva assegnata la frazione di refurtiva. Criseide venne destinata dagli Achei ad Agamennone, come parte della ricompensa dovuta al monarca dopo la razzia delle città di Crisa e Tebe. Agamennone, quindi, pretendeva ora un'altra donna per rimpiaz1.are la schiava di cui era costretto a privarsi per calmare il dio.
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Achille intervenne a questo punto per rispondere ad Agamennone. Figlio di Atreo, il più onorato e di tutti gli uomini il più avido di possesso, come possono gli Achei dal grande cuore darti un compenso? Non ci sono eccedenze stipate in un deposito comune da qualche parte, ma tutto quello che abbiamo portato via dalle città è stato distribuito e non è possibile togliere agli uomini quello che è stato loro già assegnato.
Le parole di Achille sono affilate. n principe ha inteso la dottrina veicolata da Agamennone. Il re vuole legittimare una verticale concezione del potere fondato sull>arbitrio. Achille esprime invece una visione opposta, inconciliabile con }"anelito della casta effigiata dal monarca di Micene. n figlio di Teti profila un"idea del diritto radicato in accordi e patti tra individui di uguale valore. In questo suo primo breve discorso, Achille sottolinea infatti alcuni dei termini, stipulati durante la formazione delle alleanze belliche tra i diversi principati greci, i quali regolavano le ripartizioni dei bottini di guerra. La parte finale dell"intervento dimostra quanto tali suggelli, nonostante la loro inviolabilità, fossero alla fine anche Hessibili. Se Agamennone avesse rinunciato alla ragazza, terminò Achille, gli Achei avrebbero poi pagato a lui anche quattro volte tanto, se mai Zeus avesse concesso ai Danai «Troia dalle splendide mura da saccheggiare». La collisione tra le due personalità più influenti dello stato maggiore Acheo è ormai in atto. Agamennone prova un"ulteriore mossa per aggirare l"urto, ma l"impatto risulta inevitabile. L"approccio del monarca si rivela maldestro. Agamennone prova a blandire il figlio di Peleo, articolando le parole in un amalgama di intimidazione e lusinga. Lo scopo è confinare Achille in una posizione subalterna, soggetto ad una autorità fondata sul rango e impersonata dal sovrano.
74 Non provare ad ingannarmi in questo modo, divino Achille, perché non sei più furbo di me e non mi convinci. Oppure intendi che mentre tu hai un premio io stia seduto qui sen2:a nulla? Mi stai ordinando di restituire la ra~? No, o gli Achei dal grande cuore mi danno un compenso che mi soddisfa, oppure io stesso verrò a prendere il tuo premio, o quello di Aiace, sennò vado e mi porto via la ricompensa di Odisseo; e chiunque andrò a trovare sarà pieno di rabbia; ma penseremo a queste cose più tardi.
Agamennone espone la logica che anima il potere. Pretende forse il principe di Phthia di ordinare al re di rilasciare Criseide? Achille si sta muovendo sul filo dell'insubordinazione. Non conta quanto alto sia il suo valore come uomo e guerriero, ma nella catena di comando il grado di Achille rimane inferiore a quello di Agamennone. Anche se è il figlio di una dea, Achille deve obbedire. L'arbitrio del monarca è legittimo e necessario per mantenere inalterato l'ordine costituito da Zeus. La chiusa dell'arringa di Agamennone è indirizzata ad irretire Achille. Una nave comandata da un uomo accorto e idoneo ad officiare l'olocausto dovuto al figlio di Leto avrebbe ricondotto Criseide dal padre, annunciò Agamennone. Il sovrano menzionò Aiace, Idomeneo, Odisseo, ma terminò poi dicendo: [ ... ] oppure tu, figlio di Peleo, il più terrificante di tutti gli uomini, potresti riconciliare a noi Apollo il quale agisce da lontano, e celebrare il sacrificio.
L'approccio di Agamennone risultò del tutto fallace. Achille fissò il despota con uno sguardo feroce e iniziò a parlare. Sei sen7.a vergogna, astuto nello spirito, come può un Acheo ubbidire con cuore sincero le tue parole, mettersi in viaggio con te, oppure unirsi a te in battaglia?
75 L"attacco del figlio di Peleo al mondo rappresentato da Agamennone cominciò, lucido, calibrato, fino ad assumere velocemente una dimensione consona alla portata del poema. In primo luogo, Achille ristabill i fatti. I soldati Troiani non gli avevano fatto nulla, non gli avevano rubato il bestiame, non avevano distrutto il suo raccolto a Phthia. Non era a causa loro che lui stava combattendo quella guerra. Il tono si fece poi implacabile. Ma noi abbiamo seguito te, grande impudente, per la tua soddisfazione, e per fare risarcire Menelao e te, faccia di cane, dai Troiani. Di questo non consideri nulla e nemmeno ti importa.
Rivolto ad Agamennone, Achille saettò che il despota avrebbe ora voluto togliergli il premio che lui aveva ricevuto dagli Achei, ma, prosegul il principe, «sono le mie mani che conducono la parte maggiore di questa guerra furiosa». Inoltre, quando si arrivava alla divisione delle spoglie dopo il saccheggio di qualche città nella Troade, la parte più cospicua del bottino andava sempre ad Agamennone. La misura era colma. Ora me ne vado a Phthia, perché è molto meglio andare a casa con le mie navi curve, e non intendo restare qui disonorato, accumulando ricchezze e sfarzo per te.
La decisione di ritornare a Phthia non verrà mai resa operativa da Achille. Il ritiro dalla battaglia del guerriero più temibile tra i soldati Achei sarà, invece, il modo in cui l'ira di Achille si manifesta nel poema. Ascoltate le parole del principe Acheo, Agamennone realizzò che il suo scontro con Achille non era più solo un cruento alterco tra i due generali più prestigiosi dell'esercito greco. Il disprezzo di Achille non era diretto unicamente al sovrano di Micene, ma investiva la stessa struttura tradizionale dell'ap-
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parato di potere degli Achei. Achille andava, dunque, subito emarginato. L"invettiva del figlio di Peleo poteva infatti rivelarsi contagiosa e diffondere un"inquietudine infida tra i soldati.
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Il morale della truppa
Dopo un interminabile assedio, giunto ad una situazione di stallo, combattimenti e razzie, il malumore, in verità, si era fatto ormai più che percepibile nei diversi reparti dell'annata capitanata dal figlio di Atreo. I.:Iliade restituisce l"idea di quanto fragile possa essere il morale di una truppa costretta per un tempo lungo in condizioni sfibranti. Alcuni episodi nel racconto possono essere emblematici in proposito. Uno di tali passi coincide con l"ingresso di Calcante all'inizio del poema. Vindovino non professò certo stima per Agamennone, oppure un consenso per l'attitudine all'abuso di potere, prerogativa dei sovrani nell'esercizio delle loro funzioni di dominio. Inoltre la risposta del monarca all'oracolo del veggente - «profeta di sventura, mai una volta che tu mi abbia detto qualcosa di buono, predire il male è l"unica cosa che ti aggrada» - fa un esplicito rtferimento a precedenti iatture annunciate da Calcante al comandante Acheo. Nei frammenti del Ciclo Epico appare infatti un mito antico, il quale accenna al sacrificio di Ifigenia, figlia di Agamennone. La leggenda narra, in effetti, che anche in quella circostanza fu il veggente Calcante a rivelare al despota il motivo arcano della furia divina ed il truce modo per placarla.
78 La spedizione si raduna ad Aulide per la seconda volta. Agamennone uccide un cervo durante la caccia e si vanta di essere migliore perfino di Artemide. La dea si infuria e impedisce il viaggio inviando loro tempo awerso, ma Calcante spiega l'ira della dea e dice di sacrificare Ifigenia ad Artemide. Essi la mandano a prendere come se dovesse sposare Achille e stanno per sacrificarla. Ma Artemide la strappa via dal]'altare e la porta a Tauride e la rende immortale, mettendo nel frattempo un cervo sull'altare al posto della ra-
gaz1.a. I brani del Ciclo Epico sono residui di una tradizione rapsodica, da cui provengono alcune leggende che appaiono poi, in forma più omogenea, nell>opera omerica. Un libro del Ciclo Epico, titolato Cipria e attribuito a Stasino da Cipro, racconta gli eventi antecedenti la partenza della Hotta Achea per la Troade. Una descrizione abbozzata dell'olocausto di Ifigenia figura tra gli episodi tratteggiati nel Ci'[Jria. In versioni diverse del mito, tuttavia, Artemide non interviene per salvare la fanciulla ed Ifigenia, alla fine, viene sgozzata sull'ara da suo padre. Eschilo, ad esempio, qualche secolo più tardi, riverbera nella sua tragedia Agamennone la variante più lugubre della leggenda. Lo spettro di Ifigenia e }>allusione alla sequenza di awenimenti che condussero al sacrificio della ragazza filtrano, inosservati, anche nei versi dell'Iliade, tra le parole che tessono }>invettiva scagliata da Agamennone contro Calcante. L>uccisione della figlia del despota di Micene, in realtà, non entra mai esplicita nell'esposizione del poema, ma durante la narrazione J>ombra del misfatto incombe su Agamennone e sugli alti ufficiali dell>esercito Acheo. Il rapporto tra la gerarchia militare e la casta sacerdotale, impersonata dall'aruspice Calcante, si presenta cosl, già nelle battute iniziali dell'Iliade, alquanto incrinato.
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Un ulteriore momento nella saga, il discorso di Tersite all>assemblea degli Argivi, riflette un malessere diffuso anche nei diversi contingenti delle milizie greche. L"architettura dell'lntera scena occupa quasi trecento versi nell~avvio del Libro II dell~Iliade. Dopo la fissione del mondo Acheo, prodotta dallo scontro tra Achille ed Agamennone, il figlio della dea Teti chiese alla madre di intercedere con Zeus. Il tenore della richiesta di Achille lascia intendere che il dissidio tra il principe di Phthia e la cultura impersonata dal despota di Micene non è più sanabile. Ora ricorda a Zeus queste cose, siedi vicino a lui e abbraccia le sue ginocchia e vedi se egli possa essere disposto ad aiutare i Troiani, e a confinare gli Achei attorno alla prua delle loro navi e al mare, a morire, cos} che tutto possa essere a profitto del loro re, ed egli saprà allora, il figlio di Atreo, signore supremo Agamennone, il proprio inganno, quando disonorò il migliore degli Achei.
Zeus, alla fine, accoglie la supplica di Teti e decide di inviare un sogno ingannatore ad Agamennone. Troia può essere finalmente conquistata, recita il miraggio onirico suscitato dal figlio di Crono al sovrano, gli dèi dell~Olimpo hanno deciso di sostenere uniti ]~assalto dei greci alle mura di Ilio. La subdola rivelazione di Zeus comanda quindi al monarca di ordinare un immediato attacco alle postazioni delle truppe Troiane. Agamennone si sveglia, siede sul letto ancora trasognato dal1"effluvio della sua allucinazione notturna. Rimuginando il sogno, il figlio di Atreo si veste, mette la spada sulle spalle, «prende su lo scettro dei suoi padri, imperituro, eterno» ed esce diretto verso le navi per convocare un consiglio urgente degli anziani. Una volta confidato ai notabili Achei ]"annuncio recatogli nel sonno dal sogno mandato da Zeus, il despota espone
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un"idea balzana. Agamennone svela ai dignitari la sua intenzione di sondare con un tranello quale sia il reale anelito dei soldati Greci a nove anni dall"inizio della campagna bellica nella Troade. Soltanto dopo essere stati messi alla prova i militari Achei sarebbero stati poi comunque schierati in assetto da battaglia. Tutta la faccenda, il sogno rivelatore provocato da Zeus e la trovata di testare il morale degli uomini escogitata dal figlio di Atreo, lasciò i presenti alquanto perplessi. Nestore, re di Pilo, il veterano tra i nobili Achei, prese la parola. Se chiunque altro tra i Greci avesse riferito simili visioni, osseivò Nestore, queste sarebbero state considerate solo abbagli da cui liberarsi al più presto. Ma un tale vaneggiare non poteva essere proprio del «potente Agamennone». Nestore concluse esortando quindi i membri del consiglio a non dubitare del sovrano, ma a muoversi senza indugi per preparare gli Argivi al combattimento.
I.:Iliade offre in un"abile narrazione il momento in cui Agamennone, assorto nel suo proposito di testare il morale della truppa, prese la parola davanti all"intero esercito radunato in tutta fretta per ordine del re. [ ... ] Si alzò allora il potente Agamennone Impugnando il suo scettro, realizzato con grande maestria dal]>arte di Efesto; Efesto lo diede a Zeus, il signore, il fìglio di Crono, poi Zeus lo diede ad Ermes, ruccisore di Argo, ed Ermes lo passò a Pelope, conduttore di cavalli, poi Pelope a sua volta lo diede ad Atreo, il pastore del popolo; ed Atreo morendo lo lasciò a Tieste, ricco di molte greggi, e Tieste a sua volta lo lasciò ad Agamennone, che lo tiene ora, come signore di tutto r Argolide e di molte isole. Con questo scettro come suo supporto, Agamennone parlò agli Argivi.
La situazione è solenne. La descrizione della genealogia del-
lo «scettro», giunto attraverso la stirpe di Atreo da Zeus ad
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Agamennone, testimonia la ieratica ufficialità del frangente. Le evenienze, però, portano alla luce uno stato delle cose che evolve in modo paradossale. La forma dello «scettro» viene dal fabbro Efesto. Ma il dio che infonde }>energia divina nel legno è «il signore» degli dèi dell''Olimpo. Parlare, in appropriate occasioni, impugnando lo «scettro» indistruttibile ed «eterno», signilìcava porsi sotto PinHusso del potere di Zeus impresso nell>oggetto sacro. Achille, nel Libro I del poema, artigliando a sua volta lo «scettro» durante }>alterco con Agamennone, aveva espresso il significato "giuridico" proiettato sul legno scolpito da Efesto nell>ambito della società Achea ritratta nell'Iliade. Questo scettro i figli degli Achei prendono in mano ogni volta che devono fare giustizia in nome di Zeus. Un giuramento su questo ha potere.
Agamennone, invece, appoggiato al simbolo e veicolo del potere divino rappresentato dallo «scettro», si accingeva ora a rivolgere agli Achei un discorso ricurvo e bugiardo. Il re di Micene si avvita nella menzogna, allucinato da una sequenza di eventi innescata dall'infido sogno mendace inviatogli dallo stesso Jìglio di Crono. Nel luogo canonico, definito dalla presenza ieratica dello «scettro» immortale, preposto ali>emergere del vero, l'espressione stessa della verità mostra di essere, in realtà, nulla più che la tortuosa geomebia di un inganno. Il despota di Micene avviò }>arringa per testare i soldati. Zeus !>aveva illuso, si lamentò Agamennone. Il dio del tuono gli aveva assicurato che gli Argivi avrebbero espugnato Ilio. La spedizione greca nella Troade si stava rivelando, invece, un fallimento e una tragedia. Agamennone riconobbe poi di essere stato il principale artefice della disfatta Achea. Vinganno di Zeus lo costringeva a tornare ad Argo nel disonore, colpevole di avere distrutto una moltitudine dei suoi uomini. Dopo nove sterili anni di assedio era giunto ora il momento di sai-
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pare le vele. La conclusione di Agamennone piombò inaspettata sugli Achei. [ ... ] abbiamo mancato in modo definitivo Io scopo per cui siamo venuti qui. Ma andiamo, convinciamoci a fare come dico; fuggiamo con le nostre navi verso la nostra amata patria, perché noi non prenderemo mai Troia dagli ampi viali.
L'epilogo del discorso lasciò sbigottiti e increduli i militari che stavano ascoltando. Per qualche attimo ratmosfera delPintera assemblea sembrò come colpita da una paresi improvvisa. Subito dopo, però, il caos divampò nell"accampamento greco. L'annata iniziò prima ad ondeggiare, agitata tutta da una stessa foga. Poi, strillando in una baraonda, la tonna degli uomini sciamò verso le navi, provando nella confusione a togliere i puntelli da sotto i fasciami sulla spiaggia per spingere in acqua gli scafi. Gli ufficiali Argivi, disorientati dalla reazione dei soldati, non erano in grado di reagire. Persino sulle alture del monte Olimpo, gli dèi, colti di sorpresa, restarono allibiti. Agamennone aveva voluto mettere alla prova i guerrieri Achei. I militi greci, reclutati per conquistare Ilio, stavano adesso mostrando al sovrano la realtà cruda del loro sentire. L'urlo degli uomini che bramavano casa raggiungeva il cielo.
I.:Iliade rende qui evidente un ulteriore sintomo dell'incongruen7.a annidata nella struttura dell"apparato di potere Acheo. Lo sconcerto che stava ora paralizzando la catena di comando dei reggimenti Argivi, in effetti, era stato provocato dalla circostanza più normale nel funzionamento ordinario della vita militare. Gli ordini provenienti dal grado più alto nella gerarchia dell"esercito erano stati prontamente eseguiti. I soldati, infatti, avevano semplicemente obbedito a quello che il sovrano aveva intimato: fuggiamo con le navi e torniamo nella terra da dove siamo venuti. Se la riottosa moglie di Zeus, Era, non fosse prontamente intervenuta, gli Achei avrebbero preso il
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mare verso la Grecia in quel momento senza indugi, deviando cosl la traccia stessa del Fato. Uincedere degli eventi segul invece il corso fissato dal volere del figlio di Crono nel destino narrativo del mito. Era affidò ad Atena !''incarico di andare tra gli Argivi per trovare il modo di impedire lo sbaraglio completo della spedizione Achea. Atena si rivolse allora a Odissea. La dea sorprese il re di Itaca fermo, in piedi presso le sue navi, attonito. Atena ordinò a Odissea di scuotersi, precipitarsi in mezzo alla truppa e fermare la ritirata. La voce della dea riportò Odissea all~azione. Il figlio di Laerte corse agli alloggi di Agamennone, afferrò lo «scettro» che il sovrano stringeva ancora tra le mani e si fiondò verso le navi nella folla dei soldati, sbraitando di ritornare all~assemblea immediatamente perché il discorso di Agamennone era stato frainteso. La guerra non era finita. Turbinando tra gli ufficiali e i militari, roteando lo «scettro», Odissea si prodigò per reintegrare l'ordine gerarchico che il sermone di Agamennone aveva mandato in frantumi. Odissea strigliava gli ufficiali, ricordando loro che il figlio di Atreo era il sovrano prediletto da Zeus e la sua autorità regale sovrastava quella di ogni altro monarca. Il governo di Agamennone andava obbedito e temuto. I soldati dovevano essere riportati subito in assemblea perché il figlio di Atreo non aveva ancora terminato di dire quello che aveva in mente. Gli uomini della truppa venivano invece percossi da Odissea con lo «scettro». Il re di Itaca redarguiva i soldati, articolando una logica tipica utinz7.ata dagli apparati di potere per legittimare il proprio dominio: Non sembra che tutti noi Achei possiamo essere re qui;
il comando dei molti non porta nulla di buono; lasciamo che sia solo uno a governare, un unico re, al quale il figlio di Crono diede la sovranità.
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Gli sfora di Odisseo riuscirono a radunare di nuovo r esercito Acheo in assemblea. I militari alla fìne erano tutti seduti. Solo Tersite, «!>uomo più repellente tra quelli giunti sotto le mura di Ilio», blaterava sell7.a ritegno parole ostili ai sovrani e ai principi, «ma che lui pensava fossero gradite dai soldati Achei».
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La Verità di Tersite
Vautore delJ>Iliade introduce la figura di Tersite nel poema attraverso una velenosa descrizione del suo aspetto. Il rapsodo disegna un milite della truppa, il quale, zoppo da una gamba, trascina i piedi ed ha le spalle curve, piegate attorno al petto. La sua testa è a punta, deformata, con una sparuta stoppia di peli che spunta sulla cima del cranio. Tersite è !>antitesi dell"eroe. Un"incolmabile distanza separa, nell"Iliade, la sovrumana prestanza fisica degli aristocratici intenti alla battaglia dall"immagine sardonica del corpo di Tersite. La bellezza «divina", attribuita, tramite cenni ed epiteti, a guerrieri come Achille, Ettore, Odisseo, Diomede, Glauco, Agamennone, Sarpedonte, Enea, esprime un"indole protesa verso la «gloria», comune ai diversi personaggi, unitamente all"orizzonte fulgido di nobiltà nel quale si succedono le controverse vicende degli eroi narrate nel poema. Tersite, invece, trasforma in abiezione qualunque cosa gli capiti di pensare ed ogni parola gli venga in mente di pronunciare. La sua sagoma agisce nel racconto come il riflesso esteriore prodotto da una particolare sensibilità, un"inclinazione sordida, la quale può stagliarsi e spesso lievitare nell"animo urna-
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no. Una logica sottile, tuttavia, articola il profilo prismatico di Tersite. r:effigie di Tersite appare nell,lliade in una connessione immediata con quattro figure fondamentali nella narrazione: Agamennone, Odisseo, Achille e la massa indistinta della milizia Achea. Agamennone è il bersaglio effettivo degli strali lanciati da Tersite nel suo intervento davanti all,esercito ricondotto in assemblea da Odisseo. I:invettiva del milite, però, insulta anche gli uomini della truppa e lambisce, inoltre, in maniera più velata, Achille. Tersite si rivolge ad Agamennone in modo sprezzante, accusandolo di essere avido, interessato solo al bottino che altri soldati e lo stesso Tersite, rischiando la vita in combattimento, gli consentono di stipare nei suoi depositi. Cosa vuole ancora Agamennone, recrimina sibillino Tersite, oltre all,oro e al bronzo di cui sono pieni i suoi forzieri? Una nuova donna con cui fornicare nella sua tenda, anche se già molte schiave dimorano negli alloggi del sovrano? La più grave tra le accuse mosse da Tersite al despota di Micene imputa ad Agamennone di essere «un comandante che conduce alla rovina i 6gli degli Achei>>. Tersite si scaglia quindi contro i suoi compagni. Derelitti, vergogne codarde, femmine Achee, non più uomini della Acaial Ritorniamo alle nostre case con le nostre navi, lasciamo questo uomo qui a Troia a rimuginare sulle sue ricchezze, cosl che egli possa capire se anche noi, in qualche modo, siamo di qualche utilità per lui, oppure no.
Prendiamo il mare, abbandoniamo la Troade e torniamo a casa, tuona Tersite ai suoi commilitoni. Lo sprone del soldato semplice Tersite aggancia il falso ordine impartito dal re Agamennone per testare l"esercito.
87 Ma andiamo, convinciamoci a fare come dico; fuggiamo con le nostre navi verso la nostra amata pattia, perché noi non prenderemo mai Troia dagli ampi viali.
Simultaneamente, però, l'esortazione di Tersite reitera anche l opzione verso cui pare risolvere Achille durante il suo alterco con il sovrano. 1
Ora me ne vado a Phthia, perché è molto meglio andare a casa con le mie navi curve, e non intendo restare qui disonorato, accumulando ricchezze e sfarzo per te.
Le parole di Achille, Agamennone e Tersite sembrano esprimere in sostanza il medesimo contenuto: la decisione più saggia a questo punto della guerra sarebbe alzare le vele e tornare nei luoghi da dove si è venuti. Il significato delle tre dichiarazioni, nondimeno, diverge in modo radicale. L identità rilevabile di tali annunci consiste solo nel fatto che l intento di abbandonare la Troade non verrà mai realizzato durante lo svolgersi della narrazione. I.:Iliade termina con il lamento delle donne Troiane sul corpo di Ettore, la cremazione dell eroe e la tumulazione dell urna contenente i suoi resti. I Greci, nel frattempo, restano ritirati presso i loro accampamenti e attendono, rispettando la tregua di dodici giorni concessa da Achille a Priamo per consentire al re di Ilio di celebrare il rito funebre per la morte di suo nglio. Nessuno degli Achei, pertanto, durante l'evolvere degli eventi messi in scena dai versi del poema, si awentura in mare alla volta della terra natia. 1
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Le diverse versioni del medesimo proposito di ritornare in patria, esposte da Achille, Agamennone eTersite, mostrano, d altra parte, delle differenze rilevanti. Agamennone, ad esempio, nel suo sermone davanti all assemblea, mentre mette in atto la strampalata idea di testare i soldati Achei, mente sapendo di mentire. Tersite, invece, proferendo il suo discorso riottoso rivela il proprio autentico pensiero, dunque dice la verità. 1
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Inoltre, Agamennone è indotto alla menzogna da una sequenza di circostanze innescata dal sogno mendace inviatogli da Zeus; una rivelazione onirica, da parte del «signore» degli dèi, che il figlio di Atreo, naturalmente, crede assolutamente vera. Il despota, per giunta, arringando gli Achei per attirarli nell'inganno costituito dal proprio discorso volto a sondare gli umori della truppa, impugna lo stesso «scettro» che, come attesta l'enunciazione di Achille, «i figli degli Achei prendono in mano ogni volta che devono fare giustizia in nome di Zeus». Giustizia e verità, in genere, in ambito giuridico almeno, dovrebbero essere connesse in modo reciproco da un vincolo, spesso problematico, ma comunque indissolubile. L'artista che compone nliade presenta invece una situazione alternativa, la quale consente però di scrutare più in profondità la struttura dell'organigramma che implementa la forma della legge. In questo frangente della saga, l'intero congegno sacralizzato, il quale assicura verità e giustizia, nelle occasioni congrue, alle parole proclamate dagli oratori, risulta essere nulla più che una sinergia truffaldina. Il dispositivo dell'inganno è attivato, oltretutto, dagli stessi simboli deputati a certificare l'autenticità del canone: la divinità (Zeus), l'espressione del divino nel mondo della materia (lo «scettro»), il grado più alto nella gerarchia del potere politico e militare (Agamennone). L'eloquio che enuncia il vero è affidato invece dall'autore all'infida dialettica di un soldato, presentato nel poema come «l'uomo più repellente tra quelli giunti sotto le mura di Ilio». Il personaggio obliquo di Tersite, a sua volta, utilizza la verità come strumento di dileggio, nel tentativo di realizzare le sole cose che gli stanno dawero a cuore: fuggire al più presto dal teatro di guerra della Troade e denigrare tramite lo scherno coloro che, nell'ordinamento fisso della società Achea, hanno una posizione migliore di quella a lui concessa.
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r:ulttma parte del discorso di Tersite riguarda Achille. Agamennone «ha disonorato Achille, un uomo di gran lunga migliore di lui», rumoreggia Tersite, perché per il proprio interesse con un sopruso gli ha sottratto «il suo premio». Il trofeo requisito ad Achille è Briseide. La ragazza era parte del bottino assegnato dagli Achei al principe di Phthia come ricompensa dopo la razzia compiuta dalle sue milizie nelle città di Lirnesso e Tebe, alleate di Troia Tersiteprende dunque una posizione esplicita, anche se capziosa, nella disputa tra Agamennone ed Achille. Vintetvento, tuttavia, non rende solo pubblico il subdolo impeto personale di Tersite, ma al tempo stesso riporta davanti all>assemblea degli Achei un>opinione diffusa tra i soldati dei diversi contingenti. La truppa appoggia Achille. Il sovrano pretende di esercitare il potere derivato dal suo rango per svilire il valore che i Greci riconoscono ad Achille. Il simbolo di tale valore è Briseide. La ragazza è il premio che gli Argivi avevano convenuto al figlio di Peleo per significare la reputazione guadagnata da Achille tramite le sue imprese in battaglia, dalle quali traevano vantaggio tutti gli Achei. Secondo il codice di guerra fondato sul merito, in vigore nell>esercito Acheo, Achille aveva conquistato sul campo la propria fama, insieme al diritto di tenere con sé la ragaz7.a come compenso per le sue fatiche belliche. Agamennone voleva invece imporre la mera logica del potere, utiliZVllldo ogni mezzo necessario: arbitrio, forza, corruzione, inganno, abuso. I soldati disdegnano l>esplicito esercizio di tracotanza del despota di Micene. Il dissenso, nondimeno, resta circoscritto nell>ambito del mormorio tra camerati. Il solo segno di disapprovazione che si leva dalla truppa è la voce di Tersite. Giunto al1e battute finali del suo discorso, però, Tersite non può resistere al1a tentazione di gettare del fango anche sul principe di Phthia. Achille non ha nerbo, conclude Tersite, altrimenti non sarebbe stato cosl restio ad agire e quello che lui ha subito sarebbe risultato l'ultimo oltraggio perpetrato dal
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figlio di Atreo. L"idea è che Achille avrebbe fatto meglio ad uccidere Agamennone senza esitazione, se solo ne avesse avuto il coraggio. Una ultima, tossica insinuazione, con la quale Tersite chiude il suo discorso davanti all>assemblea degli Achei. I motivi che hanno in realtà indotto Achille a non risolvere la lite con Agamennone tramite un rapido colpo di spada, naturalmente, sfuggono del tutto a Tersite. Tra qualche istante proveremo ad indagare il modo in cui il figlio di Peleo conduce il proprio incedere lungo lo svolgersi del poema. Prima, però, prestiamo attenzione all>effetto provocato tra gli Achei dalle parole venefiche di Tersite. L'autore dell>Iliade mette in scena ]>immediato frangente che segue la conclusione dell>arringa di Tersite. Odisseo balza in avanti ed aggredisce Tersite con parole durissime. Stai zitto e smettila di sproloquiare, sbotta il re di Itaca, ringhiando che Tersite è «I>uomo più ignobile tra i molti venuti con i figli degli Achei sotto le mura di Ilio». Il soldato Tersite non si deve permettere nemmeno di nominare un sovrano come Agamennone, in modo particolare quando il milite briga di pontificare dinanzi all>assemblea solo per lanciare insulti e scherno con }>unico intento di rimediare un espediente per defilarsi dai combattimenti. Odisseo, furibondo, afferrato lo «scettro», colpisce quindi ripetutamente con il legno scolpito da Efesto !>atterrito Tersite sulla schiena, lasciandolo in lacrime, sanguinante. Il mugugnare della moltitudine indistinta dei soldati adesso supporta Odisseo e beffeggia Tersite. Il re di Itaca sembra cosl, per il momento, essere riuscito a trovare il modo giusto per portare a termine }>incarico che Atena gli aveva assegnato. L'azione risoluta di odisseo limita provvisoriamente le ripercussioni nocive attivate dalle scelte dissennate di Agamennone. Un minimo di ordine è ristabilito. Il rigore necessario per mantenere saldi i ruoli in una gerarchia è ripristinato. Il
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trattamento inflessibile riservato da Odisseo a Tersite serve inoltre da monito e da esempio per tutti i militari. I soldati si devono rivolgere ai loro superiori solo con il debito rispetto e ai militi non è consentito, in definitiva, neppure di prendere la parola in assemblea. Il Hutto degli umori annidati nell'animo degli Argivi, dopo avere sparso il caos negli accampamenti, pare ora quasi domato. Odisseo sta fermo in piedi, marziale, davanti ali'esercito. Atena appare alle spalle del figlio di Laerte all'improwiso. Celata dietro l'aspetto di un araldo la dea intima alla tonna degli Argivi il silenzio. La catena di comando riprende a funzionare. Impugnando lo «scettro», Odisseo inizia finalmente a parlare agli Achei. Non si ritorna a casa, la guerra continua. Giunto al termine dell'episodio che raffigura il discorso di Tersite all'assemblea, l'autore dell'Iliade ha ormai reso evidente al suo pubblico la crisi che sta debilitando, dopo molti anni di campagna militare, la struttura dell'apparato di potere Acheo. Gli Achei assistono, in effetti, al progressivo collasso del loro stesso mondo, ma nessuno dei personaggi attivi nel poema lascia intendere di awertire l'imminenza della catastrofe. Il solo Achille escluso. A differenza degli altri attori che appaiono nella saga, il figlio di Peleo, infatti, mostra subito di percepire la profondità del dissesto indicato dalla pestilem.a divampata tra gli Achei e raccontata dal bardo all'inizio della sua narrazione. La condotta di Agamennone, poi, rivela ad Achille la realtà nuda dei rapporti di potere che istituivano la vita dei Greci accampati sotto le mura di Ilio.
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Achille, Atena e la guerra di parole
Ritorniamo ora al Libro I dell"Iliade per seguire da vicino }"evolversi dello scontro tra Achille ed Agamennone davanti all"assemblea degli Achei. Ora me ne vado a Phthia, perché è molto meglio andare a casa con le mie navi curve, e non intendo restare qui disonorato, accumulando ricchezze e sfarzo per te.
Achille medita di abbandonare gli Achei impegnati nell"assedio alle mura di Ilio e di tornare a casa. n bersaglio degli strali scagliati dal principe diPhthia non è più dunque solo il despota di Micene. Vintendere di Achille si è fatto più nitido. Agamennone è il vertice di una gerarchia eil veicolodi una precisa dottrina che mira a legittimare ]"autorità assoluta del monarca e l"arbitrio nell"esercizio del potere. n giudizio di Achille riferito agli Achei che si assoggettano ad un tale genere di dominio è severissimo. Nessuno dei Danai, tuttavia, confutava seriamente il dovere di obbedire comunque agli ordini dettati da Agamennone. Il carisma del fìglio di Atreo discendeva direttamente da Zeus, dunque le direttive del sovrano, anche se incongrue oppure balorde, semplicemente andavano eseguite. Nessuno degli Achei, in dennitiva, avrebbe avuto mai r'ardire di opporsi realmente alla prepotenza e alle intemperanze del
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suo re. Achille realizza cos} di essere solo e riflette se a questo punto sia dawero il caso di andarsene via dalla Troade. Udito che il principe valutava il proposito di ritirare i suoi uomini dal conflitto e salpare le sue navi verso Phthia, Agamennone capl che lo screzio con il figlio di Peleo non era più rimediabile. Achille stava sJìdando la maestà del monarca, apertamente, dinanzi esercito riunito in assemblea. Agamennone decise allora di dimostrare il proprio potere e di lanciare un awertimento diretto a chiunque altro potesse pensare di avere la licenza di disputare con lui.
an~
[ ... ] Altri uomini stanno con me che mi rispettano, e specialmente l'imperscrutabile Zeus. [ ... ] Vai a casa con le tue navi e i tuoi compagni comanda pure i Mirmidoni. Tu non mi piaci e non mi importa della tua ira. Ma ti prometto questo: come Apollo mi toglie Criseide, io ti porterò via Briseide, il tuo premio, verrò a prenderla io stesso nella tua tenda. Cog capirai quanto io sono superiore a te, e un altro uomo non sarà più cos\ propenso a parlare come fosse un mio eguale, pretendendo in pubblico di essere un mio pari.
L'artista che ha composto 1~1liade scrive che come Agamennone smise di parlare «!~angoscia scese sul figlio di Peleo». Nell~economia delrintera vicenda messa in scena nel poema questo è uno dei momenti forse più cruciali. Achille viene posto davanti ad una scelta decisiva. Le parole di Agamennone hanno reso esplicita la logica che anima ]~apparato di potere di cui il despota di Micene è 1~emblema. L'investitura del potere proviene direttamente da Zeus e discende poi lungo la linea dinastica della casa di Atreo fino ad Agamennone. Il mito narra Porigine divina della casa di Atreo, trasmettendo attraverso le generazioni il racconto che sostanzia il conferimento di una autorità assoluta al sovrano. Il postulato di essere, dunque, lui stesso il depositario di un potere non soggetto a
95 condizioni, derivato dagli dèi, sostiene la condotta e le arringhe di Agamennone. I:idea non è affatto bal7.ana, ma appare invece profondamente radicata nel mito che esprime l,orizzonte narrativo del mondo in cui accadono gli eventi figurati nelriliade. Il racconto veicolato dalla tradizione legittima la pretesa ostentata dal monarca di possedere, pertanto, un prestigio di fatto superiore al valore dimostrato dal figlio di Peleo e da ogni altro Acheo. Achille si trova cosl a dovere scegliere in pratica tra tre opzioni: 1) Abbassare la testa, riconoscere la supremazia di Aga-
mennone predicata nella narrativa veicolata dalla tradizione e sottomettersi, quindi, alresercizio arbitrario del potere operato dal despota di Micene. 2) Opporre il racconto della propria condizione di semi-
dio al mito della radice divina della dinastia di Atreo, figurata dalla genealogia dello scettro consegnato da Zeus a Pelope, capostipite della stirpe degli Atreidi. Achille era infatti conosciuto come il figlio generato dall,unione di Peleo, re di Phthia, con la dea Teti, progenie a sua volta del «vegliardo del mare», il dio Nereo. Se Achille avesse alla fine optato per questa alternativa, le ambizioni dispotiche di Agamennone si sarebbero probabilmente infrante su un definitivo fendente sprigionato dalla spada del figlio di Teti e Peleo. Decidendo di uccidere I,erede di Atreo, però, Achille in realtà avrebbe in questo modo abbracciato rmtero impianto della visione che concepisce un impiego del potere essenzialmente vessatorio, brandita da Agamennone. 3) Mettere in questione la matrice dell,ideologia veico-
lata dal mito, articolata e propugnata da Agamennone, smantellando cosl la fabbrica narrativa del mondo in cui si era formata, d,altra parte, resistenza dello stesso Achille.
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La prima delle possibilità appena indicate appare subito in-
compatibile con il profilo del personaggio di Achille coniato dall"autore deU'Iliade. Il principe di Phthia medesimo, formulando la sua risposta ad Agamennone, esclude dal novero delle eventualità !>ipotesi di subordinare il proprio volere all~autorità di un sovrano che «divora il suo popolo» come il despota di Micene. I versi immediatamente successivi alle ultime tiranniche battute di Agamennone riportano, infatti, che il figlio di Peleo, dopo avere udito le minacce del monarca, dibatteva nella sua mente solo due alternative. [ ... ] e il cuore nel suo petto ispido valutava due vie, se egli avesse dovuto estrarre la spada affilata dal suo fìanco e disperdere gli uomini ed uccidere il figlio di Atreo, oppure reprimere la propria rabbia e tenere a bada il proprio spirito.
Achille aveva già impugnato la spada, quando Atena, inviata da Era, apparve alle sue spalle, «percepibile da lui soltanto, e nessuno degli altri la vide». La visione degli occhi infuocati della dea, manifesta solo ad Achille, precipita il figlio di Peleo e Teti nei fondali dell~esperien7.a. La decisione di ammaz7.are Agamennone era ormai presa. Achille si trovava cosi sul punto di liquidare il figlio di Atreo. Vintervento improvviso di Atena spinse però il principe a riconsiderare !"intera situazione da una prospettiva diversa. Le parole della dea lasciarono intuire ad Achille la possibilità di muovere la sua disputa con Agamennone ad un livello dello scontro più ampio e più radicale. Vieni, rinuncia a questa contesa, ferma la tua mano sulla tua spada, ma fallo invece a pezzi con le parole, dicendogli come andranno le cose. Perché ti dico quello che accadrà. A causa delrarrogam.a di Agamennone un giorno doni tre volte più grandi di questa ragazza
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verranno posti davanti a te. Controlla te stesso e fai quello che ti dico.
Atena simboleggia una attitudine della mente in cui convergono insieme intelligen7.a e guerra. Nel mito la dea emerge daU'intemo del corpo di Zeus, attraverso una apertura operata con un colpo di scure dal dio fabbro Efesto sulla testa del figlio di Crono. La leggenda racconta che la madre di Atena fosse la Titana
Metis, una delle prime mogli di Zeus, figlia a sua volta di Oceano e Tethys. Nella Teogonia di Esiodo, Metis è considerata una delle forze primigenie attive nella creazione dell>universo. In origine la parola greca metis significava una combinazione di astuzia, abilità e saggeZ7.a. Una profezia rivelò che Metis avrebbe partorito un figlio che sarebbe potuto divenire una minaccia per la sovranità di Zeus. Volendo impedire la nascita di una prole pericolosa per la propria signoria, il figlio di Crono elucubrò allora di trasformare Metis in una mosca ed inghiottirla. Metis era però già in stato interessante quando fu ingerita da Zeus. Mentre si trovava nel ventre del dio del tuono, la Titana diede quindi alla luce Atena, la figlia concepita nel suo matrimonio con Zeus. Metis, confinata nelle viscere del signore degli dèi, forgiò poi per Atena anni ed elmo, ma i colpi di martello battuti per modellare il metallo del]>equipaggiamento procurarono al figlio di Crono dolori insopportabili. Efesto per lenire il male aprl cosl una breccia sul cranio del dio con un>ascia ed Atena spuntò dal capo di Zeus, inattesa, con }>elmo in mano, adulta e completamente armata. Il processo che conduce alla nascita di Atena avviene all>interno del corpo di Zeus. Il dio si rivela, tuttavia, del tutto ignaro di quello che accade nell>inttmo del proprio organismo etereo. Il figlio di Crono awerte la dinamica della sua stessa interiorità come un forte dolore, un sintomo che solo l>intetvento escogitato da un esperto pioniere delle tecniche dell>arte come
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Efesto riesce ad alleviare. I:ordito di simboli che esprime !"immagine divina mostra il limite congenito delle costruzioni simboliche. Le icone di concetti velano !"assenza. I:artista Efesto recide la trama. n taglio fende il reale dietro la forma. La possibilità di intendere evapora e si spalanca il vuoto. Nella voragine mentale indicata dal}"apertura che rende possibile nel mito !"apparire della figlia di Metis e Zeus venne dunque attratto Achille, calamitato dalle parole di Atena scandite a sorpresa nei versi dell"Iliade. I:introspezione provocata dalla visione della deadisloca il principe di Phthia in una condizione originale. Il racconto che avvolge il mondo degli Achei in una cosmogonia fissa, utile per il culto del potere rappresentato da Agamennone, perde la sua presa su Achille. n figlio di Peleo rimette nel fodero la spada ed ingaggia allora un tipo nuovo di conflitto, uttliz7.3ndo come anni le parole. Una guerra inedita, logica, destinata a smontare, tramite un vaglio sottile, !"universo dei Greci accampati su una spiaggia nei pressi della città di Ilio e i suoi valori.
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La prova di forza del Figlio di Atreo
Alla fine della serie di improperi e minacce indiriz7ate al principe di Phthia, Agamennone dichiara che sarebbe andato di persona neU'alloggio di Achille per prelevare Briseide. Gli Argivi, come già sappiamo, avevano assegnato Briseide al principe di Phthia in qualità di «premio», un segno dovuto per significare in modo ufficiale r'estrema considerazione in cui i figli degli Achei tenevano il valore dimostrato da Achille in combattimento. Agamennone pretende però di avere comunque il diritto di sequestrare Briseide. Il sovrano sostiene che intende compensare cosl la perdita di Criseide, la ragazza destinata al monarca, anche lei parte di un bottino di guerra, che egli si trova costretto a riconsegnare al padre Crise, sacerdote di Apollo, al fine di placare la furia del figlio di Leto.
Le battute conclusive deU'invettiva di Agamennone rivelano, però, le reali motivazioni che regolavano la strategia del despota. [ ... ] Ma ti prometto questo: come Apollo mi toglie Criseide, io ti porterò via Briseide, il tuo premio, verrò a prenderla io stesso nella tua tenda. Cos} capirai quanto io sono superiore a te, e un altro uomo non sarà più cosl propenso a parlare come fosse un mio eguale, pretendendo in pubblico di essere un mio pari.
100 D figlio di Atreo risolve per la prova di forz.a. Lo scopo è ribadire una dottrina del potere, della quale, in quanto sovrano, Agamennone stesso figura come emblema. Nel cosmo degli Achei il figlio di Atreo è una manifestazione diretta del potere. La sua investitura proviene da Zeus. Agamennone parla da regnante, come vertice di un ordine gerarchico supportato dal racconto di un mito alimentato da una tradizione atavica. Secondo la concezione delineata dal despota, l'essenza del potere viene innescata nella relazione di asservimento stabilita tra gli agenti del dominio e coloro che sono tenuti soggetti allo stato di sottomissione. L'apogeo della gerarchia, il re, funziona come una sorta di filtro attraverso il quale il potere realizza il proprio ordine. Agamennone proclama dunque di essere, in ragione della stirpe a cui appartiene, «superiore» ad Achille e ad ogni altro Acheo. D despota promette poi di irrompere all'interno della dimora del figlio di Peleo per affermare la sua supremazia, dimostrando di avere la facoltà, derivata dal suo rango, di agire nell'intimità di Achille e di ogni suddito in un modo conforme al proprio arbitrio e alle proprie convenienze. Agamennone terminò di parlare e la reazione del principe di Phthia scattò immediata. Razza di avvinazzato, tu che hai gli occhi di un cane e il cuore di un cervo, non hai mai il coraggio di armarti per la battaglia insieme alla tua gente, ne di andare in incursione con i migliori degli Achei; quello per te è come la morte. Per te è molto meglio, in mezzo al grande esercito degli Achei, impossessarti dei doni che appartengono all"uomo che si oppone a te.
La risposta di Achille fu breve, vetriolica, ma strutturata con estrema precisione. La prima parte della ribattuta è indiriz7.ata al figlio di Atreo. La sentenza è definitiva: Agamennone è un
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codardo, non possiede la statura necessaria per guidare nella mischia i soldati, perciò non ha ]"autorevolezza indispensabile per essere un sovrano. La seconda sezione del discorso pronunciato dal giovane principe prende di mira, insieme ad Agamennone, coloro che ubbidiscono gli ordini del despota. Un re che divora il suo popolo! Tu comandi uomini senza valore; altrimenti, figlio di Atreo, questo ora sarebbe il tuo ultimo oltraggio.
In questa frazione della sua replica il figlio di Peleo aggancia due aspetti nodali che istituivano la missione militare degli Achei nella Troade. Il primo punto riguarda gli accordi sulla base dei quali era stato possibile mettere insieme esercito degli Argivi impegnato nell"assedio della città di Ilio. La violazione da parte di Agamennone di tali patti induce Achille ad accusare il monarca di essere «un re che divora il suo popolo».
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Il secondo elemento si profila quando il principe di Phthia scaraventa davanti all"assemblea degli Achei la questione del «valore». Per provare ad interpretare il senso articolato dalle parole di Achille, richiamiamo alcuni dei connotati costitutivi della presenza delle milizie Achee sotto le mura di Ilio. Agamennone e Menelao riuscirono ad unire in una coalizione truppe provenienti dai diversi regni disseminati nella Grecia e nelle isole dell"Egeo. Il motivo ufficiale che presentò ai 6gli di Atreo la possibilità di assemblare un"annata cos} imponente ed eterogenea viene reso esplicito nell" Iliade in diversi momenti della narrazione. Achille, nella sua celebre, affilata risposta a Odisseo nel Libro IX del poema, indica in una sintesi la ragione che spinse gli Achei sulle spiagge della Troade.
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Ma perché gli Argivi devono essere in guerra con i Troiani? Perché i figli di Atreo hanno assemblato e guidato un esercito qui? Non è stato forse per Elena dagli splendidi capelli?
Il movente fu dunque la vendetta, una rappresaglia armata contro la città e gli abitanti di Ilio per lavare l'offesa subita da Menelao, re cli Sparta, ad opera del principe Paride, figlio di Priamo, re di Troia. Mentre era ospite presso la corte cli Menelao a Sparta, Paride aveva sedotto la moglie del sovrano, la regina Elena. Gli amanti erano poi fuggiti insieme, per riparare, dopo una lunga navigazione, alrintemo delle mura cli Troia, nel cuore del regno di Priamo. Menelao ed Agamennone volevano quindi punire per l'affronto subito Paride e tutti i Troiani. Lo scopo della spedizione greca, pertanto, era quello di conquistare Ilio, saccheggiare e radere al suolo la città, riportare infine a Sparta Elena, la regina.
I.:lliade lascia comunque intendere che la ragione di volere ristabilire l'integrità dell'onore di Menelao, motivazione addotta per legittimare le operazioni belliche degli Achei nella Troade, rappresentava una finalità in sé pregnante, in pratica, solo per lo stesso Menelao. La lega militare che univa contingenti giunti dai luoghi più disparati della Grecia era tenuta insieme, in realtà, da accordi innanzi tutto di carattere economico. Nel Libro I dell'Iliade, mentre ralterco con Agamennone iniziava a divampare, Achille ricordò al despota di Micene che patti precisi erano stati sottoscritti dai regnanti che avevano aderito all'alleanza degli Argivi. Tali impegni dovevano essere rispettati da tutti ed Agamennone non costituiva un'eccezione. n figlio cli Peleo fece notare al despota che gli Achei non potevano destinare a lui un altro premio per sostituire Criseide, perché non avevano nessun deposito comune e la refurtiva saccheggiata nelle città era stata tutta distribuita. Nel rispetto
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degli accordi presi, disse Achille, «non è giusto togliere adesso agli uomini quello che è ormai stato loro assegnato». La spartizione del bottino costituiva il legame più solido che teneva unita l'alleam.a degli Argivi. Le norme che stabilivano la ripartizione dei proventi delle razzie determinavano il guadagno che ogni aristocratico ed ogni soldato avrebbe potuto ricavare partecipando alle operazioni militari dei Greci nella Troade. Questi patti erano stati accettati da tutti gli eserciti che facevano parte della coalizione, sosteneva in sostam.a Achille, quindi erano "gimidicamente" inviolabili. Ora però Agamennone stava minacciando di requisire arbitrariamente i premi che gli Argivi avevano assegnato e si vantava di possedere, inoltre, un rango che lo svincolava dagli obblighi imposti dagli impegni contratti tra gli Achei. Nessuno tra i Greci accampati sotto le mura di Ilio, eccetto Achille, mostrava di avere, d'altronde, nulla da eccepire.
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Il Codice dei Guerrieri
Guerrieri come Diomede, Achille, Aiace, Odisseo, non erano invece mossi alla guerra da stimoli scadenti quali sono gli interessi di natura meramente economica. I migliori tra i combattenti Achei e Troiani, gli artisti della battaglia e del duello, tenevano la questione del valore al centro della loro esistenza. I.:Iliade mette in scena, in forma di arte, alcune delle diverse procedure di valutazione che producono "valori". Il codice dei guerrieri esprime r1dea di valore impersonata nell"Iliade dalla élite dei combattenti. I tratti essenziali del codice dei guerrieri emergono dalle parole rivolte da Sarpedonte a Glauco, nel Libro XII del poema. Sarpedonte, re della Licia, era venuto nella Troade alla testa delle truppe Licie, in aiuto ali"esercito Troiano nel conflitto contro le milizie Achee. La genealogia di Sarpedonte appare nel Libro VI dell'Iliade. La figlia del re di Licia diede tre figli a Bellerofonte, Isandro, lppoloco e Laodamia; Zeus che inventa ogni cosa giacque con la ragaz7J1, e lei partorl il divino Sarpedonte, guerriero dalla armatura di bronzo.
106 Il mito racconta dunque che Sarpedonte fosse figlio di Zeus. Il Libro XII dell'Iliade inizia però in modo inatteso. Sulla piana davanti alla città di Ilio infuria una battaglia selvaggia. «Le torme degli uomini continuavano a combattere nella calca, Argivi e Troiani». I contingenti Troiani in questo frangente delle ostilità hanno il sopravvento. I soldati greci sono costretti ad una ritirata precipitosa per riparare oltre il muro di difesa costruito per proteggere gli accampamenti degli Argivi e le navi greche tirate in secco sulla spiaggia. La macchina militare Achea è ad un passo dal collasso, mentre le milizie comandate da Ettore, dirette ad attaccare ed incendiare le imbarcazioni dei Greci, stanno per assaltare il fortilizio Acheo da più parti. Le divinità immortali assistono allo spettacolo di una guerra che devasta gli umani, mentre il figlio di Crono mantiene nel suo intelletto il controllo della sorte di coloro che sono destinati a morire. Il fragore della carneficina che incendia la battaglia sembra calamitare nella pianura compresa tra la riva del mare e la città di Ilio il centro dell'intero Universo. L"autore dell,Iliade effettua a questo punto una mossa cinematografica degna di un esperto regista. Tramite una tecnica di zoom-out, il rapsodo dilata all'improvviso l'orizzonte temporale degli eventi, assumendo per la voce che racconta la saga uno sguardo radicato in una scala di grandezza indefinitamente cosmica. Il profondo fossato fortificato che i Greci avevano scavato attorno al loro muro, la stessa imponente muraglia, le vicissitudini dei mortali che si scannavano a vicenda sulla piana brulla davanti a Ilio, l'intero impianto del mondo degli umani, nulla di tutto questo era votato a durare. Le forze che attivano i mutamenti naturali avrebbero continuato a variare senza sosta la morfologia della Troade, come quella totale della terra e delle galassie. I numi che traversavano la Troade - lo Scamandro, il Samoenta, il Cranico - avrebbero alterato il loro corso e il livello del mare sarebbe forse salito sulla spiaggia. Le fondazioni del largo muro edificato dai «figli degli
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Achei>> sarebbero state divelte, il bastione distrutto, il fossato completamente cancellato. Le volubili vicende dei mortali e le loro tragedie hanno un rilievo solo per gli umani. La natura consiste semplicemente nel proprio stesso immediato mutare. Il modo in cui l'esistenza dei mortali rivela la sua effimera essenza naturale viene espresso in altri due episodi dell,Iliade. Nel mezzo della mischia di un combattimento descritto nel Libro VI, Diomede e Glauco finiscono ad un tratto l'uno di fronte all>altro e sono sul punto di battersi. Diomede, impressionato dall,audacia dimostrata fino a quel momento nella battaglia dal guerriero Licio, chiede a Glauco: Chi sei tu, impavido amico, tra gli uomini consegnati alla morte?
Il coraggio palesato da Glauco era tale da far pensare a Diomede che egli potesse essere addirittura «un immortale sceso dal cielo». n figlio di Tideo non voleva assolutamente trovarsi nella situazione di combattere contro un dio. Le prime battute della risposta di Glauco rivelano tuttavia la sobria statura di un guerriero, una levatura, in realtà, negata a qualunque dio, celeste e imperituro. Figlio di Tideo dal grande cuore, perché mi chiedi il mio lignaggio? Come una generazione di foglie, cosl è la generazione degli uomini. Il vento disperde alcune foglie a terra, ma la foresta ne cresce altre che fioriscono e nel tempo della primavera succedono a quelle; cosi una generazione di uomini cresce, un"altra muore.
Nelle parole di Glauco, il singolo essere umano, non diversamente dal fogliame nella foresta, rimane assorbito nel Huire indistinto dell,esistere, in un fiotto ininterrotto in cui le generazioni crescono e muoiono. Nel Libro IX dell,Iliade, durante un discorso mediante il quale Achille smantella la pretesa
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solidità del mondo Acheo fondato sulla tradizione, il figlio di Peleo mette a fuoco, invece, il tragico orizzonte in cui accade l"esistenza propria deU'individuo. La vita di un uomo non torna indietro, non tramite il saccheggio, non per mezzo del possesso, una volta che passa la baniera dei suoi denti.
Il bardo espande quindi il campo della sua visuale, mostrando la contingenza di ogni cosa. Non solo, dunque, appare in primo piano sulla scena la caducità degli eventi, ma le stesse «grandi azioni degli uomini», evocate dalr'oblio nella performance dall'artista, rivelano la loro essenziale inconsistenza. Il tempo esprime la sua labile stabilità nell~attimo in cui il presente si consuma. «Le grandi azioni degli uomini» indicano un orizzonte narrativo, che diventa tale, una forma di vita, solo in quanto percepito dalla sensibilità di qualcuno, un individuo, un mortale. Nelio spazio dell~arte aperto dall~ Iliade viene sollevata la questione abissale del «valore». Emblema di quello che vale sono «le grandi azioni degli uomini», le quali risultano però essere, in effetti, niente altro che lo svolgersi dell~Iliade attivato nella performance. Nel medesimo frangente, tuttavia, anche il rapsodo, lo spettatore, il lettore, }~invenzione espressa, !"intero evento generato dalla performance, assimilati nel divenire della natura, seguono }~inevitabile destino in dote alle generazioni dei viventi e alle cose. Pochi istanti prima che le guarnigioni venute dalla Licia comandate da Sarpedonte iniziassero 1~assalto alle fortincazioni degli Achei, il figlio mortale di Zeus rivolse la parola a Glauco. Sarpedonte pone a Glauco un interrogativo, la cui risposta, peraltro, entrambi i guerrieri sapevano già bene. Glauco, perché noi due siamo stimati più di tutti con posti d'onore in Licia, con tagli di carne e coppe colme e tutti ci guardano come dèi,
109 e perché ci hanno destinato un grande lotto di terra sulle rive dello Xanthos, un bellissimo podere, con un orto e un campo per coltivare il grano?
Senza interrompere il corso dei suoi pensieri, lo stesso Sarpedonte rispose alla domanda. La risposta esprime in una sintesi l"essenza del codice dei guerrieri, mettendo a fuoco due livelli tra loro connessi della situazione. In primo luogo Sarpedonte rileva la portata sociale della relazione tra popolazione e guerrieri. Gli onori e i riguardi riservati dai loro concittadini ai leader militari costituivano il segno concreto dell>altissima considerazione in cui erano tenuti i combattenti che rischiavano la vita nelle guerre e nei conflitti per proteggere la collettività. Sarpedonte accosta poi la dimensione più profonda, interiore, che definisce un uomo nel momento in cui ]"individuo si trova di fronte all"occasione imminente della propria morte. Vecchio amico, se noi due salvandoci in questa guerra fossimo destinati a vivere per sempre e non invecchiare mai, io stesso non combatterei mai più in prima linea, né farei andare te in battaglia dove gli uomini guadagnano la fama; ma ora, spiriti di morte stanno davanti a noi a migliaia e nessun mortale può sottrarsi o sfuggire. Andiamo allora! Diamo gloria al nemico o conquistiamola per noi!
Il codice dei guerrieri espresso dalle parole di Sarpedonte non rivela alcuna traccia di fanatismo militare, euforia bellica, infatuazione per la guerra. Il sogno impossibile fantasticato dal figlio mortale di Zeus sarebbe «vivere per sempre e non invecchiare mai». Difficile non sentirsi più che empatici con la strenua immaginazione di Sarpedonte. In una simile prospettiva, ostinarsi in feroci conflitti marziali, per conseguire lo scopo altisonante di meritare la «fama», sarebbe davvero solo un in-
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dice folle di stupidità. La realtà si manifesta tuttavia in modo assai diverso. U endemica attitudine che accomuna ogni vivente risulta essere proprio la mortalità. Uorizzonte dei viventi sigillato dalla morte, inoltre, figura come un caso particolare della impenetrabile costrizione cieca che presenta la natura, segnata dalla contingenza elementare in cui risolve qualunque aspetto dell"esistere e dell"accadere. Una condizione alla quale «nessun mortale può sottrarsi o sfuggire». Nelle parole di Sarpedonte, l"artificio narrativo della «battaglia» lascia intendere una valenza metaforica. Nel frangere della «battaglia» la realtà si mostra nuda. La vita diventa identica al proprio immediato sparire. Una contraddizione appare nella fonte dell"esistere, mentre la distinzione tra annientamento ed esistenza dissolve, alla fine, nella caducità dell"attimo presente. U effetto della contraddizione accomuna guerrieri tra di loro nemici in una profonda, tragica relazione: varcare la soglia ultima della mortalità esponendosi al rischio estremo di essere uccisi dall"altro. Per non venire ucciso, un combattente ha l"unica alternativa di riuscire ad eliminare a sua volta il guerriero nemico, il suo simile, il proprio rivale, l"intimo fondo negativo di sé che identinca il mortale. Nella furia indiscriminata della «battaglia», awerte il figlio mortale di Zeus, «spiriti di morte stanno davanti a noi a migliaia». Tutto quello che resta è solo il baratro di una desolazione priva di senso. Le ultime parole che Sarpedonte rivolge a Glauco sono uno sprone ad avanzare nell"abisso. Andiamo allora! Diamo gloria al nemico o conquistiamola per noi!
Dall"esposizione del mortale all"immediata vanità dell"esistere affiora la possibilità dell"arte. Le «grandi azioni degli uomini>> emergono nella performance, tra le parole cantate dal rapsodo, come la creazione di un effetto potenziale. L"invenzione di un valore virtuale, sensibile, che si oppone all"oblio, men-
111 tre il flutto ininterrotto dell>esistenza seguita il suo istantaneo corso. Nell>esibizione in cui è trasmessa !>idea stessa di «grandi azioni degli uomini», la forma del «valore» implementa la realtà dei mortali, mostrando, in uno stesso sguardo, J>entità fantastica dell>astrazione e la sua irrilevanza nel vuoto indicato dalla mancanza che manifesta il reale.
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Achille e il Valore
Se il codice dei guerrieri figurato da Sarpedonte illumina la fatua consistenra di un mondo che riesce a conservare comunque una sua stabilità, rapproccio di Achille alla questione del «valore» scardina invece la connessione che salda tra loro tradizione, potere, valori. L'incedere del figlio di Peleo nello sviluppo dell~Iliade diventa cosl una operazione al tempo stesso psicologica e politica. L'espressione più essenziale e sintetica della posizione tenuta da Achille riguardo al «valore» appare nel Libro IX dell~Iliade. Durante un infiammato scambio di vedute con Odisseo, Aiace e Fenice, gli ambasciatori inviati nella sua tenda dallo stato maggiore Acheo e da Agamennone, il figlio di Peleo espone il suo giudizio rispetto a quello che merita di essere considerato un «valore». La vita ha per me più valore di tutta la ricchezza che dicono la grande città di Ilio possedesse nei giorni andati, in tempo di pace, prima che venissero i lìgli degli Achei, più valore di tutti i tesori accatastati sul pavimento di pietra dell'arciere Febo Apollo nella rocciosa Pytho. Le mandrie e le greggi vengono razziate come bottino, si possono ottenere tripodi e cavalli fulvi;
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ma la vita di un uomo non torna indietro, non tramite il saccheggio, non per mezzo del possesso, una volta che passa la baniera dei suoi denti.
Nelle parole di Achille, la vita ha un «valore» che non ha prezw perché la vita «non torna indietro». Il tempo del corpo non è reversibile. r:esistenza non termina solo con la morte. La «vita di un uomo», in realtà, «passa la barriera dei suoi denti» in ogni istante e non ritorna. Il potere tratta risorse, ricchezze, oggetti, vuole il possesso e il dominio sopra ogni cosa. Tutto può andare perduto ed essere poi riconquistato, oppure comprato ancora. Ma la «vita di un uomo», invece, accade effimera e senza replica. Achille annuncia poi la "scelta" deputata a determinare la propria sorte. Mia madre, la dea Thetis dai piedi d"argento, mi ha detto che due destini possono condurmi al termine della morte; se rimango qui a combattere contro la città dei Troiani non vedrò più la mia casa, ma la mia gloria sarà indistruttibile; se tomo alla terra di mio padre invece la fama mi sarà negata, ma avrò una vita lunga e la morte non giungerà presto.
I versi che formulano la celebre "scelta di Achille" nell'Iliade rendono esplicite alcune nervature essenziali al codice dei guerrieri. Nel dialogo con Odisseo e gli altri ambasciatori, il «valore» attribuito da Achille alla vita presuppone una valutazione della vita. La dinamica del valutare appare evidente nelle medesime parole utilizzate dal principe di Phthia per sillabare il proprio giudicare. Se proviamo ad analizzare brevemente la sentenza iniziale pronunciata da Achille - Iliade. La potenziale volontà di Achille di rimanere invece a combattere nella piana di Ilio porta alla luce altri aspetti relativi alla questione del «valore». Tali connotazioni appaiono tanto basilari quanto la necessità biologica che risuona> nondimeno, nell>opzione più assennata di ritornare a Phthia. Nel processo del valutare che conduce Achille a conferire alla vita un «valore» in sé incalcolabile, dovuto alla contingenza cieca dell>esistere, affiora il tratto di un «valore» anomalo, nonché paradossale, il quale viene di fatto ritenuto inestimabile perché, sfuggendo alla possibilità di essere misurato, non può nemmeno essere propriamente valutato. Nell>eventuale decisione da parte del giovane principe di restare nella Troade, oltretutto, la "idea» di «valore» inestimabile sembrerebbe calamitare un rilievo primario, affermandosi come preminente rispetto alla medesima «vita>> caduca alla quale il «valore» "invalutabile» stesso viene attribuito. Trattenendosi in terra straniera per dare battaglia, infatti, Achille
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sarà destinato ad incontrare una morte precoce, percorrendo una via non certo fausta, che lo porterà a conseguire, ciò nonostante, una «fama>> non soggetta a tramontare. Se il figlio di Peleo decidesse alla fine di rimanere a combattere e morire prematuramente nella Troade, lo svolgimento della saga potrebbe allora profilare uno scenario che tentiamo di abbozzare servendoci del seguente schema. 1) Il «valore» inestimabile conferito da Achille alla «vita» si presenta scorporato dalla medesima «vita>> alla quale il «valore» era stato assegnato.
2) La «vita di un uomo» si rivela in sé priva di ogni valore, dato che, separata dal «valore» inestimabile che le era stato aggiudicato, la «vita» viene destinata a terminare in modo prematuro. 3) Il «valore» inestimabile, scorporato dalla «vita», converge sulla «gloria>>. La «fama imperitura» sembra cosl prevalere sulla «vita>>. Al fine di ottenere una «gloria>> non effimera, infatti, un «uomo» abdica alla propria stessa «vita>> e r' abbandona all~oblio nel nulla in cui risolve il suo destino mortale.
Se torniamo alla sentenza che fonda il brano che stiamo provando ad indagare - «la vita ha per me più valore di tutta la ricchezza [ ... ]» - possiamo rilevare ancora alcune informazioni salienti. Tra il soggetto che valuta e Poggetto della valutazione, dunque tra la forma riHessiva «per me» e «la vita», si stabilisce una relazione di identità complessa. Un individuo non è distinto dalla sua vita. Achille assegna «più valore di tutta la ricchezza» alla «vita>> ed attribuisce, quindi, un «valore» inestimabile a se stesso. Nel medesimo frangente, tuttavia, il figlio di Peleo, in una tensione trascendentale, si riferisce alPessenza effimera della «vita di un uomo», una condizione che non è peculiare esclusi-
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vamente della sua vita individuale. La caduca consistenza della «vita di un uomo», difatti, risulta costitutiva dell"esistenza di qualunque essere vivente. Il soggetto che valuta, articolato dalle parole del principe di Phthia, non è un individuo ripiegato su se stesso. Uesistenza del singolo accade in una situazione e in un ambiente. Tenendo fermo lo scorcio esistenziale del proprio valutare, Achille, pertanto, aggiudica un «valore» inestimabile all"esistenza di ogni singolo individuo, in ragione del fatto che «la vita di un uomo non torna indietro una volta che passa la barriera dei suoi denti».
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« Uomini
senza valore» vs lo Scettro come Simbolo
La frase che Achille pronuncia in una delle ultime battute del suo alterco con Agamennone nel Libro I dell~Iliade, letta alla luce delle parole rivolte dal figlio di Peleo a Odisseo nel Libro IX del poema, rivela di essere una sentenza meditata che colpisce l~intero mondo Acheo come un colpo di rasoio. Un re che divora il suo popolo! Tu comandi uomini senza valore; altrimenti, figlio di Atreo, questo ora sarebbe il tuo ultimo oltraggio. Gli uomini che obbediscono agli ordini di Agamennone sono «sen7.a valore» perché acconsentono di essere considerati una merce, alla pari di «mandrie», «greggi», altro e tienilo bene in mente. Io non combatterò per la ragaz7.a con la forza delle mie mani, non con te e nemmeno con ogni altro uomo, dato che voi me la prendete e voi me ravete data.
Il veterano Nestore aveva appena avvertito Agamennone che sottrarre Briseide ad Achille non sarebbe stata un''idea conveniente, perché «i figli degli Achei avevano dato la ragazza a lui come premio». L"accezione simbolica del «premio» profila le transazioni previste dal codice dei guerrieri tra opera omerica.
Varticolo The Language of Achilles fu pubblicato su «Transactions and Proceeclings of the American Philological Association» nel 1956. Vautore, Adam Pany, era figlio di Milman Pany, un classicista americano descritto anche come il "Darwin degli studi omerici", le cui teorie sull>origine delle opere di Omero hanno rivoluzionato lo studio dell>epica omerica ad un livello fondamentale. Milman Pany, in una sua ricerca pubblicata nel 1928, giunse alla conclusione che lo «stile omerico» fosse caratterizzato da]J>uso di espressioni fisse, «formule», adattate per esprimere una determinata idea sotto le stesse condizioni metriche. La natura dell>originaria trasmissione orale dei poemi epici rivelava la loro dipendenza da questi dispositivi costituiti da «formule», come aiuti per la me-
138 moria, ma anche per permettere una più facile improvvisazione. La diffusa presenza di «formule» suggeriva che entrambi i poemi omerici non erano l'invenzione di un singolo artista, ma fossero invece un ultimo gesto creativo, evoluto gradualmente in una antica e ben stabilita tradizione. Robert Kanigel, in Hearing Homers Song. The Brief Life and Big Idea af Milman Pany (Alfred A. Knopf, New York 2021) sintetizza: «Milman Parry non ha risolto la "Homeric Question" (chi era Omero?); ma ha dimostrato invece che la domanda era irrilevante». Adam Parry, basato sulla teoria ideata dal padre e con il contributo del suo studente e assistente Albert Lord, nota che l-
liade dal principe di Phthia appare nella «tragedia di Achille, il suo finale isolamento». Achille, difatti, «in nessun senso, incluso quello del linguaggio, può lasciare la società divenuta a lui aliena». Una contraddizione, dunque, vincola e separa al tempo stesso, ad un livello fondamentale, individuo e società. Adam Parrytermina la sua riflessione facendo però notare che «Omero usa il discorso epico che una lunga tradizione poetica gli ha tramandato per trascendere i limiti di quel discorso». Vindagine filologica, naturalmente, costituisce lo sfondo che abilita Adam Parry a scrivere un saggio acuto come The Language of Achilles. Negli stimoli che l~articolo offre, tuttavia, filtra anche una prospettiva senza dubbio filosofica. Proviamo allora a seguire almeno alcune delle numerose sollecitazioni presenti nel testo. La considerazione con cui Parry conclude la sua dissertazione, riportata per intero, recita: La tragedia di Achille, il suo finale isolamento, è che egli in nessun senso, incluso quello del linguaggio (diversamente da, diciamo, Amleto) può lasciare la società che è divenuta a lui aliena. E Omero usa il discorso epico che una lunga tradizione poetica gli ha tramandato per trascendere i limiti di quel discorso.
V alienazione di Achille, parafrasando per tentare un'interpretazione dell~argomento speculativo di Adam Parry, consiste dunque nel fatto che risolamento del figlio di Peleo non è la
142 mera condizione di chi si ritrova, per qualche ragione, davvero solo e avulso dal corpo sociale in cui la sua esistenza accade. L'isolamento di Achille diventa la sua «tragedia» perché egli, in nessun modo, nemmeno al livello astratto del linguaggio, può estraniarsi dalla «società che è divenuta a lui aliena». Il punto è che !"assetto sociale nel quale il giovane principe conduce la propria vita «impone sugli uomini>> una «verità» diversa da «quello che Achille ha visto essere vero per se stesso». L'iinpossibilità di isolarsi, quindi, dall"ambiente alieno in cui egli vive, trasmuta, in Achille, nell'essenza del proprio isolamento. Trovandosi ad esistere in un mondo definito dall'orizzonte limitato della narrazione di una tradizione, la situazione di inevitabile "non isolamento" in cui è costretto significa, per la «persona di Achille», una specie essenziale di "isolamento". La contraddizione che pennette di vedere il coincidere di "non isolamento" ed "isolamento", in questo loro senso fondamentale, d'altra parte, emerge nell'utilizzo del linguaggio. Nel racconto dell'Iliade, !"uso del linguaggio connette «Omero» ad «una lunga tradizione poetica» che ha «tramandato» al bardo «il discorso epico» ed il suo rigore. Il rapsodo «usa» il «discorso epico» stesso, unitamente ai vincoli che comporta il suo impiego, per attivare le risorse dinamiche della contraddizione e «trascendere i limiti di quel discorso». Superare le costrizioni imposte dal «carattere fonnulaico» tipico del linguaggio poetico tradizionale, per andare oltre il «discorso epico», sembra dunque essere, nella prospettiva aperta da Adam Parry, un effetto cruciale dell'arte messa in scena dal bardo «Omero», chiunque egli in realtà sia stato. In due cruciali episodi nell'Iliade possiamo forse rinvenire !"indizio di una forma di tale movimento trascendentale, volto ad oltrepassare l'ambito contingente della saga narrata dal poema. Il primo brano, nel Libro IX, rappresenta Achille che suona la lira e canta davanti a Patroclo «le grandi azioni degli uomini».
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Il secondo passo appare nel Libro XXIV dell'' Iliade, quando Priamo riesce di nascosto a penetrare di notte nel campo Acheo per offrire ad Achille un riscatto in cambio della restituzione del corpo di suo 6glio Ettore.
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Libro IX: Achille, Patroclo, la Lira e lo Spirito del Bardo
Il Libro IX dell7Iliade è noto come il capitolo in cui il rapsodo racconta la vicenda degli ambasciatori mandati da Agamennone e dagli alti ufficiali dell~esercito Acheo ad incontrare Achille nei suoi alloggi sulla spiaggia, presso le «navi dei Mirmidoni». I:idea di inviare una delegazione di messi nell~accampamento del corpo speciale venuto da Phthia e guidato dal figlio di Peleo era stata proposta da Nestore, Pattempato re di Pilo. Il piccolo gruppo, composto da Odisseo, Fenice, Aiace e da due araldi, aveva un compito delicato e difficile, pressoché impossibile, da espletare. Vincarico affidato dal consiglio di guerra degli Achei agli ambasciatori era di riuscire a «persuadere Pirriducibile cuore» di Achille, il discendente di Eaco, «PEacide», di ritornare a combattere nello schieramento più avanzato dell>armata Argiva. Dal momento in cui Achille si era ritirato dalla guerra, infatti, dopo la drastica rottura con Agamennone e Pintero apparato di potere Acheo, esercito comandato dal despota di Micene aveva subito una serie di sconfitte contro le truppe capitanate da Ettore e si trovava ormai ad un passo dalla resa.
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Il Libro VIII dell~Iliade descrive una feroce collisione tra le legioni dei due eserciti.
146 Quando le annate giunsero in uno stesso posto si gettarono una contro r altra, scontrarono i loro scudi, le loro lance, la forza dei loro uomini armati di bronzo, e gli scudi borchiati picchiarono runo contro raltro, e si alzò un grande fragore. Poi le urla straziate e le vanterie degli uomini che uccidevano e venivano uccisi si levarono insieme, e la terra grondò di sangue.
Solo il calare della notte salvò i Greci dalla disfatta. Ettore, alla testa delle milizie Troiane, aveva seminato durante tutta la battaglia terrore e morte tra gli Argivi, costringendo i soldati Achei ad una fuga disordinata per cercare riparo nello spazio compreso tra la palizzata di difesa e la fortificazione che i Greci avevano costruito per proteggere le navi. Il Libro IX del poema inizia svelando che il «Panico immortale, compagno del freddo Terrore, aveva afferrato gli Achei», dato che perfino i loro uomini migliori erano «afflitti da una pena insopportabile» e storditi. Agamennone convocò allora un"assemblea. Il sovrano, lamentandosi che Zeus ]"aveva tratto «in un terribile inganno», dichiarò che il fìglio di Crono gli imponeva ora di «tornare ad Argos disonorato per avere distrutto una moltitudine di uomini». Agamennone, alla fine, in lacrime, esortò gli Argivi attoniti a «fuggire con le navi» verso casa, perché gli Achei non avrebbero mai conquistato «Troia dagli ampi vialli>. Un lungo silenzio segul il termine del discorso di Agamennone. Poi il giovane Diomede prese la parola attaccando il despota senza indugi. A te il figlio del tortuoso Crono ha dato me7.7.a misura; egli ha garantito che grazie al tuo scettro tu fossi onorato più di tutti gli uomini, ma il coraggio non te rha dato, che è il potere più grande.
Diomede Iifìutò di seguire }"invito di Agamennone ad abbandonare la guerra e scappare via dalla Troade e «i figli degli
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Achei urlarono il loro assenso in ammirazione delle parole» del figlio di Tideo. L"opposizione di Diomede ad Agamennone è situata ad un livello diverso dalla posizione presa da Achille nei confronti del sovrano e dell>ordinamento di valori rivelato dal mondo degli Achei descritto nella saga. Il figlio di Tideo riconosce la legittimità del potere che deriva dall>essere il depositario dello «scettro» ed il suo orizzonte è del tutto inscritto nella tradizione. La critica di Diomede è rivolta alla persona di Agamennone che dimostra di essere un codardo, non alla sua autorità in quanto monarca. Nel giudizio di Diomede, il figlio di Atreo, valutato attraverso il filtro etico del codice dei guerrieri, non è al]>altezza della carica che ricopre. Agamennone non è degno di essere il comandante supremo degli Achei e il sovrano che possiede lo «scettro». Achille nega, invece, la liceità del fondamento su cui poggiano i valori espressi dalla tradizione. L"essema di tale fondazione appare evidente, ancora una volta, dallo scambio di battute tra Nestore ed Agamennone che succede, nel Libro IX dell>Iliade, all>inteivento di Diomede. Compreso il pericolo annidato nella confusione e nel disorientamento palesati dall>assemblea 6no a quel momento, il re di Pilo assume su di sé !>onere di trovare una mediazione e indicare ai figli degli Achei una linea d>azione almeno plausibile. Per prima cosa Nestore suggerisce di sciogliere }>assemblea e di riunire lo stato maggiore dell,esercito negli alloggi del sovrano. Davanti agli ufficiali, poi, il re di Pilo dispiega la sua abilità di diplomatico veterano, ciambellano della tradizione. Diomede ha ragione, inizia Nestore, ma la sua giovane età gli impedisce di afferrare per intero le difficoltà che la situazione presenta. Agamennone «comanda molti uomini» perché Zeus gli ha dato in consegna «lo scettro e la tradizione», prosegue il vecchio generale, l,ultima parola per decidere spetta dunque,
148 in ogni caso, di diritto al figlio di Atreo. StabWZ7ata rautorità
del sovrano, Nestore si rivolge allora ad Agamennone dicendo in modo esplicito che «disonorare il migliore degli uomini, stimato dagli dèi immortali» è stato un grave errore. Ora si tratta di capire come fare ammenda, termina il re di Pilo, cercando di riconquistare il figlio di Peleo, «con doni propiziatori e parole gentili». Agamennone, ascoltato il discorso di Nestore, coglie immediatamente la possibilità di ricompattare la compagine sbandata degli Achei attorno al prestigio che la tradizione conferiva alla propria figura e al suo ruolo. Per captare esattamente la lucidità di Agamennone in quanto uomo di potere, conviene saltare subito alla fine del sermone tenuto dal despota di Micene. Le ultime parole di Agamennone sono dirette agli emissari che verranno scelti per andare ad incontrare Achille nella sua tenda. Fatelo cedere. Perché Ade non concede, ed è sen7.a pietà, e per questo egli tra tutti gli dèi è il più odioso ai mortali. Convincetelo a sottomettersi a me, dato che io sono il re più potente e sono anche il più anziano.
Nella sua arringa il figlio di Atreo aveva vestito i contriti panni del pentito per avere offeso in modo folle, guidato dalla sua «ragione derelitta», Achille, il quale «vale molti guerrieri>> e che «Zeus ama nel suo cuore» cosl tanto da mandare «la sconfitta al popolo Acheo» per onorare un solo uomo. Agamennone proclama quindi di volere offrire «un compenso inaudito» al figlio di Peleo per rimediare r oltraggio ed inizia ad enumerare tutti i suoi «doni nel loro splendore». Uintero elenco di regali confluisce, tuttavia, in un'unica, gelida, calcolata condizione, a cui Achille si deve assoggettare per rendere reale la proposta del sovrano. Achille è tenuto a «sottomettersi» ad Agamennone, perché il figlio di Atreo è «il re più potente». Accettando
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l'offerta di Agamennone, il principe di Phthia non solo avrebbe ottenuto la restituzione di Briseide, ma Achille avrebbe potuto sposare una delle figlie del sovrano, senza versare la sontuosa dote prevista e ricevendo invece terre, onori e ricchezze. Il figlio di Peleo sarebbe entrato a fare parte della famiglia di Agamennone e avrebbe potuto regnare con lui, divenendo cosl il fiduciario più intimo del despota ed il suo suddito più illustre. La somma dei «doni nel loro splendore» mostra dunque di essere nulla più del prezzo che Agamennone era disposto a pagare per comprare la vita del «migliore degli Achei». L"attitudine alla corruzione alimentala nsiologiacli un apparato di potere ed organi7.7.a la logica utilizzata dai suoi funzionari. L"anelito essenziale del potere risolve nel riuscire ad ottenere ubbidienza. Ma l'articolazione del potere per realiZ7.are la propria brama si avvale solitamente, in definitiva, cli due diverse procedure: schiacciare oppure corrompere. L"apparato cli potere Acheo non poteva usare la forza nel soggiogare Achille per un motivo preciso: l'apporto del figlio di Peleo nella guerra era indispensabile agli Argivi per evitare «la sconfitta del popolo Acheo» e conquistare finalmente «Ilio dai grandi vialh>. Per provare a riportare Achille alla battaglia, la sola via disponibile ad Agamennone e alla burocrazia militare degli Achei rimaneva allora, in effetti, la corruzione. Insieme alla corruzione, naturalmente, lavora l"inganno. Molto spesso, infatti, la corruzione avanza occultata da subdole fattezze. Terminato il discorso di Agamennone, la sinergia tra il sovrano e Nestore è attiva. Il re cli Pilo nomina in tutta fretta gli ambasciatori. I tre emissari prescelti, Odisseo, Fenice e Aiace, seguiti da due araldi, partono subito diretti agli alloggi del figlio di Peleo. Odisseo fu ],.ambasciatore destinato ad essere il primo a parlare per blandire il figlio cli Peleo, annunciando ad Achille i doni offerti da Agamennone ed il rimorso che af-
fliggeva il sovrano per avere vilipeso l"onore del principe. Nel riferire ad Achille }"intera lista dei magnifici regali offerti da Agamennone, Odisseo, }"ineguagliato artista dell"eloquio fraudolento, tralasciò però di menzionare solo la clausola posta dal figlio di Atreo, alla 6ne del suo discorso dolente, come la condizione che si doveva awerare sen7.a riseive affinché la proposta potesse diventare dawero operativa: Achille, appunto, si sarebbe dovuto «sottomettere» alla maestà di Agamennone. Mentre ascolta le parole suadenti del re di Itaca, il principe di Phthia fiuta il sotterfugio. Nella sua risposta, rivolgendosi al figlio di Laerte con l"appellativo «Odisseo dai molti stratagemmi», Achille, infatti, ammonisce immediatamente il re di Itaca dicendo di odiare «come i cancelli dell"Ade l"uomo che nasconde una cosa nel suo cuore, e ne dice un"altra>>. La ribattuta del giovane principe a Odisseo permette di seguire lo sviluppo dell"analisi condotta da Achille per marcare le incongruenze e l"utilizzo dell"arbitrio tessuti nella retorica della tradizione che strutturava il mondo degli Achei. Alla fine dell"inteivento del principe di Phthia, quella che Adam Parry riconosce come unico idioma disponibile presente sulla scena, il medesimo linguaggio, dunque, che la sua disamina sta scomponendo e smembrando. I:indice di un movimento trascendentale, diretto a forzare il limite del linguaggio di cui si compone il cosmo del poema, appare quando ci si rende conto, awisa Party, che «Omero in realtà, non ha nessun linguaggio, nessun termine, nei quali esprimere questo tipo di disillusione basilare con la società ed il mondo esterno». Se vogliamo allora provare a cogliere una possibile ngurazione del moto trascendentale "architettato" dal rapsodo dobbiamo forse tornare al momento in cui il piccolo drappello degli ambasciatori giunge alr'ultimo bivacco degli Achei, sulla spiaggia davanti a Ilio, dove sono accampati i guerrieri Mirmidoni. Nell>istante in cui i messi fanno il loro ingresso nella tenda del nglio di Peleo, la temperie trafelata del mondo di cui gli ambasciatori sono emissari rimane confinata ali>esterno dell>alloggio del principe di Phthia. La scena che il rapsodo descrive muta all>improvviso !>atmosfera del racconto. E cosi arrivarono ai rifugi e alle navi dei Mirmidoni, e lo trovarono mentre deliziava il suo cuore suonando una lira dal timbro cristallino, squisitamente lavorata, con applicato un ponte d'argento, che egli stesso aveva scelto dalle spoglie quando aveva distrutto la città di Eetione. Con questa egli recava piacere al suo cuore e cantava le grandi azioni degli uomini, mentre Patroclo seduto di fronte a lui, da solo, in silenzio, ascoltava attentamente l'Eacide, aspettando il momento in cui avrebbe smesso di cantare.
Nell>Iliade la propensione all>arte di un eroe si esprime nella guerra. In particolare, il talento di un guerriero si realiu.a nel combattimento ed il furore dell>estasi trova il suo apice quan-
153 do il contatto con la morte diviene, non solo prossimo e probabile, ma immediatamente reale. Al tempo stesso, non esiste forse un altro libro capace di portare il lettore nel mezzo di una rappresentazione dell"orrore della guerra cos} sobria e priva di ciancecome l"Iliade. Sulla piana davanti a Ilio non si scontrano eserciti, orde, tonne, ma si scannano tra loro uomini, individui, persone. Ognuno è qualcuno, ha madre, padre, famiglia, una casa in qualche luogo e fa parte di una società. Ogni morte significa cosl, non solo la distruzione dell"individuo ucciso, ma lo sfregio della vita di un numero imprecisato di persone. Al calare della notte, quando le ostilità devono essere sospese per il sopraggiungere del buio, i cani, gli uccelli da preda e le fiere iniziano a spolpare fino all"osso i cadaveri maciullati dei morti rimasti nel campo di battaglia. La vicenda umana è irrilevante per l"intero ambito degli esseri viventi e degli enti che umani non sono. La natura fa il suo corso. Allo spuntare dell"alba, comunque, oppure quando l"opportunità lo consente, le operazioni militari riacquistano vigore e la guerra tra i mortali continua, come se nulla fosse accaduto. La correlazione tra arte e guerra, nondimeno, viene mante-
nuta salda dal bardo. Il nesso appare nella performance che mette in scena >, dunque nella genesi dell"arte attiva nell"Iliade. Gli ambasciatori entrano nella dimora del principe di Phthia ed il rapsodo trasferisce nei nostri occhi il loro sguardo. Vediamo attraverso la vista dei messi la visione allestita dai versi del bardo. Achille sta cantando >, il solo luogo dove la genesi dell"arte, attiva nell"Iliade come in ogni frangente dove l"arte appare, può in realtà awenire e accade. La guerra entra nella creazione dell"arte come quello che, in essenza, la guerra non è. Una guerra reale, infatti, non è una rappresentazione e l"Iliade, nondimeno, raffigura una guerra. Un"opera d"arte, tuttavia, espone se stessa, non quello che è dipinto, descritto, suonato, oppure ciò di cui si parla nell"opera medesima. Non esiste distinzione tra un"opera d"arte ed il suo contenuto. Una ragione di questa presenza immediata dell"operad"arte si può forse cercare nelladisparità tra fatto ed evento. Un fatto compare in una costruzione logicache è sempre possibile riprodurre e delineare. Un evento è invece un accadimento, il quale appare, repentino ed irripetibile. Un"opera d"arte sembra avere l"intangibile profilo di un evento. Il motivo che spinge a collocare ]"opera d"arte nella classe degli eventi, piuttosto che in quella dei fatti, si può probabilmente indagare ponendosi la domanda: dove prende forma, in realtà, un"opera d"arte? A prima vista, però, una risposta sensata a tale quesito non sembra illuminare troppo la questione. Un"opera
156 d>arte, infatti, assume la sua sembianza nel luogo unico dove anche i fatti vengono connessi nel loro significato, cioè nella mente/corpo degli umani. Nella mente, d>altra parte, emergono due diversi tipi di parvenza: il tratto della stabilità e l>espressione contingente senza materia dell>organismo. I fatti devono l>immagine di solidità che riflettono alla loro essen7.a di strutture logiche. Le opere d>arte, invece, derivano la possibilità dellaloro forma dall>esposizione dell>organismo a particolari stimolazioni e condividono, in questo loro modo peculiare, la consisten7.a fulminea degli eventi. Le opere d>arte, quindi, in maniera più direttaed esplicita dei fatti, emergono nella mente come forme cli vita ed hanno cosl }>identico destino fugace che Achille riconosce alla «vita cli un uomo», la quale, «non torna indietro una volta che passa la barriera dei suoi denti». Nella consuetudine intendiamo essere un>opera d>arte un oggetto sul quale un artista fisicamente proietta, modella, una forma che risponde ad un certo gusto. Voggetto d>arte, tuttavia, può trarre in inganno ed indurci a confondere la possibilità della forma con il reale apparire della forma. Se insieme aIJ>oggetto non fossero presenti anche gli organi di senso e la loro funzione, la genesi della forma sarebbe, difatti, impossibile. Nondimeno, corpo ed oggetto sono necessari, ma non sufficienti, affinché l>effettivo generarsi della forma accada. Un appropriato assetto del mondo fisico è soltanto una condizione di possibilità per l>emergere della forma. Nella forma non c>è materia. La forma affiora nella mente, come effetto traslato, metafisico, delle interazioni che awengono nell>ambito della materia trarorganismo e l>ambiente esterno al corpo. Una forma si manifesta, dunque, come un oggetto mentale ed esiste, in quanto tale, solo nella mente. Nel corpo non ci sono forme. Nell>espressione mentale del corpo, invece, la forma appare. Owiamente, non tutte le forme che emergono nella mente sono "arte" e non è possibile, inoltre, marcare un>autentica dif-
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ferenza per distinguere l"apparire di forme dell"arte dai tratti mentali che assumono altre percezioni dell"organismo, molto più utili e diffuse. Quello che solitamente indichiamo come oggetto d"arte, non diversamente da altri enti presenti fuori dalla mente, veicola nel teatro mentale solamente la possibilità del generarsi della forma, tramite organismo che riceve stimoli e produce percezioni. Ma la genesi della forma in quanto tale avviene solo in quella proiezione immateriale del corpo che noi chiamiamo mente.
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La scena che il bardo appronta nella tenda del nglio di Peleo mostra gli elementi essenziali perché la forma di un"opera d"arte possa accadere. Achille suona, Patroclo ascolta. La musica è inafferrabile e scompare non appena il suo sorgere lascia l>effetto di una traccia mutevole nella mente e nel corpo dell>artista e dell"uditore. Durante il tragitto attraverso lo spazio per giungere da Achille nno a Patroclo, «le grandi azioni degli uomini>> che il principe di Phthia sta cantando dileguano nella dimensione nsica della loro consistenza. Il mondo interiore dei mortali è il luogo unico in cui la forma dell>arte può varcare la soglia contingente dell>esistere. Nel fluire della performance, cosl, nella mente del bardo e degli uditori si origina }"Iliade. «Le grandi azioni degli uomini» sono Plliade, ma paiono avere, in realtà, poco a che fare con le prodezze belliche degli eroi nei campi di battaglia. Il dispositivo della performance che porta alla vita l"Iliade appare fulmineo nella tenda del nglio di Peleo. Gli attori che rendono attuale episodio sono Achille, Patroclo, poi gli ambasciatori Achei che assistono alla scena e noi, che vediamo l"evento attraverso i loro occhi. Si viene cosl a creare la possibilità di trasmettere nella caducità qualcosa che, nonostante tutto, possa suscitare un"impressione capace di divenire «gloria», «fama», il pregio di un valore, un effetto fragile, un"intangibile esperienza.
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158 Gli umani, i «mortali», possono distinguere ed inventare, in modi diversi, l'espressione in un suono, il quale, come le note emesse dalla «lira» del bardo Achille, può anche veicolare un «timbro cristallino», inedito, in mezzo alla bolgia incessante della loro stessa produzione di rumore.
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LibroXXN: Priamo, Achille e la Contraddizione
Allestendo la parte introduttiva del Libro XXIV deltiliade, il rapsodo coglie Achille e Priamo nella loro intimità. n padre di Ettore ed il figlio di Peleo vengono ritratti ognuno nella sua solitudine, afflitto dal dolore, in una condizione di spirito molto simile, quasi identica, allo stato d,animo dell,altro. Al tempo stesso, tuttavia, Priamo ed Achille appaiono entrambi in una disposizione interiore ferocemente contrapposta ed inconciliabile con J>indole dell,altro. Terminati i giochi funerari che si erano tenuti in onore di Patroclo, mentre nel campo Acheo tutti si accingevano a rifocillarsi prima di ritirarsi per cercare ristoro nel sonno, «solo Achille ancora piangeva ricordando il suo compagno, e non dormiva», rigirandosi sul letto di continuo. Il principe di Phthia alla fine si al7a ed esce a girovagare sulla spiaggia per distrarsi. Al sorgere dell,alba, Achille, «attaccati i suoi cavalli veloci al suo carro, lega Ettore dietro alla biga per tirarlo; e dopo averlo trascinato tre volte attorno alla tomba del 6glio morto di Menezio, egli torna a riposare nel suo rifugio, e lascia Ettore steso a terra con la faccia nella polvere». Dopo alcune decine di versi nel poema, quando Iris, poi, inviata da Zeus, giunge nel palazzo di Priamo ad flio, la dea tro-
160 va il re della città di Troia devastato dalla morte di suo figlio Ettore, «awolto, sagomato nel suo mantello; uno spesso strato di sterco, in mezzo al quale si era rotolato e che aveva raschiato con le mani, era imbrattato intorno al collo e alla testa del vecchio uomo». Priamo ed Achille sono dunque raffigurati dal bardo neU'antitesi in cui stanno l"uno rispetto ali"altro. Achille è l"assassino del figlio di Priamo. La morte di Ettore, inoltre, rende inevitabile la caduta di Troia, l"eccidio dei suoi abitanti e la distruzione della città per mano degli Achei. n principe di Phthia è quindi un diretto responsabile, un"autentica causa, del tormento di Priamo. La collusione tra il re di Ilio ed il fatto che origina lo stru~mento di Achille, l"uccisione di Patroclo, pare invece non cosl immediata, ma non per questo meno determinante. Priamo è il padre di Ettore, il comandante dell"esercito Troiano che ha ucciso Patroclo. Inoltre, il re di Tuo si era sempre opposto con la propria autorità alla restituzione di Elena al marito Menelao, il sovrano della città di Sparta, fratello di Agamennone. La regina Elena aveva abbandonato Menelao ed era fu~ta da Sparta insieme a Paride, il principe Troiano anche lui figlio di Priamo. La fuga degli amanti Elena e Paride aveva fornito il pretesto ad Agamennone e Menelao per assemblare un"armata ed iniziare contro la città di Troia una guerra, la quale, dopo dieci anni di combattimenti, stava recando ancora devastazione e morte sia ai Greci che ai Troiani. Offrendo asilo e protezione alla regina Spartana, Priamo aveva di fatto impedito una soluzione diplomatica del conflitto ed il termine delle ostilità che avrebbe evitato il decesso di una moltitudine di soldati e civili, ma anche la morte del figlio di Menezio. Il coinvolgimento del re di Tuo negli awenimenti che avevano contribuito a causare l"angustia ed il dolore di Achille,. perciò,. si rivela comunque evidente. Da un punto di vista puramente logico, sarebbe forse possibile, in una sorta di esercizio intellettuale, persino immaginare Priamo ed Achille come gli elementi tra loro antitetici in una
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contraddizione. Nella forma logica del paradosso, i termini presentati dalla contraddizione si negano a vicenda. Risulta dunque logicamente assurdo, in una medesima sentenza, ritenere vero uno dei termini tra di loro contraddittori sen2:a considerare falso l"altro e viceversa. La contraddizione mostra, quindi, l'impossibile relazione tra i termini che essa stessa, però, mantiene in una connessione palesata dalla coeren2:a di un nesso che si mostra incoerente. La forma incongruente del legame logico esibito nella contraddizione espone un confine dell'intelletto, un limite ultimo interno allo "spazio logico", oltre il quale !"universo dei simboli, presupposto dall'attività razionale, semplicemente, dilegua. Nella mente dei mortali, senso e mancanza di senso denotano, dentro lo "spazio logico", l'orizzonte relativo della ragione. Il collidere di non contraddizione e contraddizione affiora nella formazione e nell'articolazione delle parole e dei numeri, immediatamente, generando la possibilità medesima del senso. La facoltà di determinare un signifìcato, invece, sembra derivare da questo estremo sfondo mobile dei processi logici, il quale, al tempo stesso, indica un limite ed esprime }"indistinta abilità potenziale di distinguere, sempre all"interno dello "spazio logico", il vero dal falso. Contemplare, attraverso la dimensione instabile originata da uno sguardo logico, la relazione tra Priamo ed Achille, messa in scena nel Libro XXIV dell"Iliade, può prospettare alcuni vantaggi. L'approccio logico, innanzi tutto, induce ad intendere il rapporto tra Achille e Priamo come una contraddizione, evidente, tuttavia, non solo al livello astratto della mera ragione. Il figlio di Peleo e l"anziano re di Ilio stanno infatti tra loro in un"antitesi radicata nell"esistenza. Le posizioni e l"equa maestà di Priamo innescano nella saga una serie di awenimenti che porta all"uccisione di Patroclo da parte di Ettore. La morte di Patroclo determina il ritorno di Achille alla battaglia e l'uccisione del figlio di Priamo. Il rientro del principe di Phthia nel conflitto attiva, inoltre, la catena degli eventi che saranno
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alla nne cagione della catastrofe in procinto di abbattersi su entrambi, Achille e Priamo. Il re di Ilio ed il figlio di Peleo, in modo reciproco, signtlìcano runo la morte e rannientamento dell"altro. L"antitesi tra Achille e Priamo non riguarda quindi solo la logica. La contraddizione che mostra }"impossibile intimo nesso tra il principe di Phthia ed il nobile sovrano di Ilio affonda i suoi tentacoli nella vita. Nello stesso momento, nondimeno, il dolore per il lutto subito, insieme al lugubre presagio che ognuno signtlìca per }"altro, azionano una forza dinamica nel paradosso che mantiene i due uomini uniti in un vincolo indissolubile. Il lavoro della contraddizione non termina qui. Dopo essere precipitati dal mondo impalpabile delle prospettive logiche, giù, nno alle asperità incongruenti della vita, realizziamo che noi, in realtà, non abbiamo mosso un passo fuori dall"astrazione. Priamo ed Achille, infatti, sono, non uomini, ma parole. Il figlio di Peleo ed il re di Ilio sono personaggi in un poema, un"opera d"arte, r1liade. Achille e Priamo appaiono, in verità, solo dietro allo schermo dei nostri occhi e la loro vita è il mutevole processo di quella proiezione immateriale del nostro corpo che noi chiamiamo mente. Torniamo allora al testo dell"Iliade, per seguire da vicino dove può portare la traccia labile lasciata dal bardo ai cultori della sua arte. Impigliato in una sete ormai sterile di vendetta, Achille seguitava a replicare roltraggio del corpo senza vita di Ettore. Gli dei, riuniti nella loro residenza sulle alture del monte Olimpo, rimasero turbati guardando lo spettacolo dello scempio reiterato dal nglio di Peleo. Spuntata nel cielo >, Priamo e Achille fendono la trama come individui, senza casta, senza terra, senza mito. I:arte del rapsodo, tramite le figure inafferrabili di Achille e Priamo, immette cosl nella fine tragica dell'Iliade la presenza effettiva di un inizio.
III
L'Animale che parla
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Il Silenzio delle Sirene e lo Scudo di Ulisse
Una relazione più esplicita tra Kafka e i bardi sepolti e perpetuati dal marchio "Omero"" appare nel racconto Il Silenzio delle Sirene, redatto nel 1917 dallo scrittore di Praga e pubblicato solo dopo la sua morte. Il mito delle Sirene affiora nell"Odissea. Odisseo, riemerso dal suo viaggio regno dei morti, approda nuovamente, assieme ai suoi compagni, nell"isola di Eea, dimora della dea incantatrice Circe. La maga, dopo avere offerto ristoro all"equipaggio, conduce Odisseo sulla spiaggia per ascoltare da lui il racconto della sua esperiell7.a nell"Ade. La dea, quindi, predice al 6glio di Laerte le insidie che attendono in mare i naviganti sulla rotta per tornare a Itaca. Il primo pericolo, avvisa Circe, saranno le Sirene. Un uomo che passa nelle loro vicinanze e sente il loro canto non torna più indietro, perché la voce delle Sirene strega il suo cuore. «Esse stanno sedute in un prato - prosegue la dea - circondate da un mucchio di ossa umane in putrefazione avvolte in pelle avvizzita. Remate lontano da loro». La maga avverte Odisseo di ostruire le orecchie dei suoi compagni con della cera, per impedire loro di udire. Se però il figlio di Laerte vorrà ascoltare il suono delle Sirene, il monito della dea è di ordinare ai
suoi uomini di legarlo ali"albero della nave e di non scioglierlo in nessun caso, nemmeno se egli dovesse scongiurarli di farlo. Circe poi aggiunge che lei non ha la facoltà di indicare a Od.isseo quale direzione seguire una volta che il vascello sarà passato oltre le Sirene, ma può solo svelare al re di Itaca quali saranno le opzioni possibili. Odisseo per decidere la rotta potrà confidare solo in se stesso. Il giorno seguente allo spuntare dell"alba i marinai greci prepararono la nave e ripresero la via del mare. Durante la navigazione Odisseo riunl l'equipaggio per riferire le informazioni sul potere fascinoso e sinistro delle Sirene rivelate da Circe e le istruzioni della maga. Quando l'imbarcazione giunse nei pressi dell"isola dove vivevano le fatali creature il vento cessò di colpo. «Tutto era calmo, senza un alito. Qualche dio aveva fermato le onde». Le vele furono ammainate. Il controllo del vascello venne affidato ai rematori, mentre Odisseo, seguendo le disposizioni della dea, modellata la cera sigillò le orecchie di tutti gli altri e si fece legare all"albero della nave. Giunti tanto vicino agli scogli quanto un grido proveniente dalle rocce potesse essere avvertito, le Sirene «iniziarono il loro verso cristallino». Odisseo fu in breve rapito, posseduto dal desiderio di ascoltare le «melodie cantate dolcemente» dalle Sirene. Il politropo Odisseo, uomo dalle mille arguzie, abilità, esploratore dalle incredibili esperienze, in totale balia dell"incanto sonoro delle Sirene, implorò i compagni di snodare le funi, mandando loro segnali con le sopracciglia dato che essi non potevano sentirlo. I suoi uomini, invece, lo legarono più stretto ancora e remando superarono }"isola, portando l"imbarcazione ad una distanza in mare dalla quale il canto delle Sirene non poteva più essere udito. I marinai solo allora, rimossa la cera dalle proprie orecchie, allentarono le corde e liberarono Odisseo. Nel racconto di Omero, l'influenza seduttiva delle Sirene sembra agire sul livello fisico della stimolazione. Il senso dell"udi-
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to di Odisseo viene eccitato da impulsi sonori inusu~ i quali provocano sensazioni di una intensità a lui sconosciuta fino a quel momento. Le conseguenze del picco di sensualità provato da Odisseo sono, in primo luogo una diversione della sua mente, poi lo sconcerto della ragione e la perdita del controllo su se stesso. Lo sconfìnamento in un campo inesplorato delle possibilità del corpo di reagire alle sollecitazioni sensoriali, tuttavia, non è scevro da insidie anche peggiori degli effetti subiti dal re di Itaca. Il mucchio di cadaveri putrefatti nel prato fìorito dell>isola dove vivono le Sirene, menzionato da Circe, indica il non raro esito letale provocato tra gli umani dalrattitudine a consegnarsi a sollecitazioni dei sensi dagli effetti troppo iperbolici. Il modo in cui Omero disegna }>aspetto multiforme che !>illusione assume nell>esperire degli uomini, però, non è lineare e non appoggia su un senso comune consolidato. La dea fattucchiera Circe, infatti, suggerisce a Odisseo le condizioni per sperimentare, con un margine di tutela, le potenzialità ancora ignote dell>orgamsmo nella natura, propagate dal contatto con le forze diffuse dalla voce delle Sirene. Le indicazioni della maga suonano come dettami, che prescrivono a Odisseo il modo per irrobustire i legami concreti, materi~ che tengono insieme la sua vita, prima di inoltrarsi nel territorio schiuso dall>incontro tra la sua sensibilità e il fenomeno acustico delle Sirene. Le istruzioni della dea sono tutte riferite alla materia come struttura delle relazioni. I nodi, i lacci, la nave, }>albero di maestra, gli uomini, la cera per impedire J>udito ai compagni, il mare, le creature marine, J>isola, i cadaveri putrescenti, segnano il biotopo in cui J>awentura si svolge. Riorganizzare }>affidabilità e la tenuta della rete di connessioni che annette solidità al mondo individuale dell>esperien7.a, infatti, spesso permette quelresposizione all>incognito inevitabile quando si vuole muovere un>indagine oltre il margine del noto.
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La stesuraomerica delmito delle Sirene colloca Odisseo in una condizione definita deU'esisten7.a, propria e dei suoi compagni. I marinai abitano un vascello in balia del proprio equipaggio, in mezzo al mare. I navigatori prendono decisioni, sono uomini liberi. La loro autonomia è una condotta, ha frangenti e contesto, conseguenze, non è allucinata. La libertà non cancella il limite che essa stessa induce a valicare. La radice che imbarcazione ed equipaggio affondano nella concreta contingem.a dellllesistere supporta resperimento estremo. Tramite il rischio presentato dallllesposizione di Odisseo ad unllinedita esperien7.a sensoriale, !>intero ecosistema della nave approccia una sostanza indefinita del reale. Il gaudio, il miraggio, !>abbaglio, !>inclinazione a flettersi davanti alla lusinga, emergono come strutture della mente. Il mondo costruito intorno ad efficaci espedienti ingenui, come cera, nodi e funi, perde cos} la sua verosimile semplicità. Lllestasi fatata, indotta dalle creature del mare, prometteva a Od.isseo senno, conoscenza, lllintendere ''divino" delle pene umane. Alla fine, non si può dire che fossero tutte menzogne.
Dove gli antichi rapsodi lasciarono la loro esposizione del mito, si apre Il Silenzio delle Sirene di Franz Kafka. Se la navigazione omerica nel regno del chimerico solca un mare che costeggia la materia, la meditazione di Kafka, invece, abbandona il mondo materiale.
Le parole che fungono da preludio alla vicenda di Ulisse ricostruita da Kafka connettono le mitiche acque arcaiche della Sicilia scandagliate da Omero, tra le rocce occupate da Scilla dalle sei teste e le s~liere governate dal mostro Cariddi, con lo spazio abitato daltillusione nella mente umana contemporanea. «Inadeguate, perfino infantili misure possono servire a salvare uno dal pericolo», scrive Kafka, sostenendo che il suo testo saprà fornire di questo una «prova». VUlisse di Kafka, come
183 Odisseo nel mito, sembra propenso a servirsi di artifici per sfumare !"impatto con le fascinose entità marine. Quando la lettura comincia, tuttavia, si awerte in breve che lo sguardo di Kafka intercetta frequenze a noi precluse, se non precipitiamo nella sua, dunque anche nella nostra, mente. «Per proteggere se stesso dalle Sirene Ulisse ostrul le sue orecchie con cera e si legò aWalbero della sua nave». L'awentura ha inizio. Il sortilegio funziona. Il gioco di specchi prende forma. Il mito viene smontato e di nuovo assemblato. Kafka opera subito, dalle battute iniziali del suo racconto, prima ancora che il canto delle Sirene si riveli un silenzio. Gli elementi che articolano la leggenda vengono decostruiti e ricomposti, combinati in modo alternativo, mentre un lembo rarefatto della storia affiora tra le righe. La ceraottura le orecchie di Ulisse, il quale incatena se stesso all,albero della sua nave. Gli altri marinai sono spariti, insieme al cuore omerico dell,episodio. Se Ulisse non mantiene il proprio udito attivo, infatti, per ascoltare le Sirene e sfidare il loro potere ipnotico, viene meno il motivo che sorregge !"intera antica narrazione. Ulisse, in una simile eventualità, sarebbe un ordinario capitano di vascello, intento come gli altri marinai ad evitare pericoli e stranezze che possano minare il corso della navigazione. Nessuna ragione, quindi, di sottrarsi al lavoro necessario per rendere efficienti le funzioni dello scafo legandosi all,albero della nave. Nella vicenda concepita da Kafka, però, Ulisse è solo. Nella sua imbarcazione non c,è nessuno. L'investigazione si è ormai inoltrata in una regione più intima e personale. La nave non ha più materia, ma è un luogo della mente in cui i sensi riflettono percezioni distorte dalle parole.
I trucchi di Ulisse, nota Kafka, potrebbero essere messi in atto da chiunque, sebbene non sembra abbiano molto senso. Tutti sanno che «cose del genere non sono di nessun aiuto». Le Sirene, inoltre, sono in grado di irretire ad una distanza tale per
184 cui la vittima può anche essere attirata nel miraggio ancora priva di una effettiva consapevolezza di quello che le sta accadendo. Il punto è che «il canto delle Sirene sapeva passare attraverso ogni cosa, e la brama di coloro che esse sedussero avrebbe spezzato legami di gran lunga più forti che catene e alberi maestri». Ulisse, non ignaro di ciò, «in un giubilo innocente» salpò comunque incontro alle Sirene, sprofondato nella rassicurazione prodotta dalla «assoluta fiducia» nel suo «piccolo stratagemma» di ceppi e cera. Appartato nel suo mondo interiore, stregato dalla propria ossessione per sicurezza e conforto, Ulisse scivola in una deriva beata di travisamento. Kafka muove la meditazione ad un livello di profondità ulteriore. L'autentica «arma fatale» in possesso delle Sirene non è il canto, ma il loro silenzio. Se pure nessuno mai è riuscito, in realtà, a sfuggire al suono del verso delle Sirene, una simile evenienza rimane perlomeno concepibile. Sottrarsi all,.assenza del loro richiamo, tuttavia, è impossibile. «Nessun potere terrestre può resistere», scrive Kafka, contro l>euforia prodotta «dal sentimento di avere trionfato» sulle creature del mare «con le proprie sole forze». Il silenzio pervade J>intima persuasione che la potenza individuale sia una misura efficace e sufficiente per ponderare il reale. L>esaltazione indotta da una simile fascinazione trascina a sé ogni cosa, ma il silenzio permane, impercettibile, nella fibra dell,.ebbrezza. Quando Ulisse fu vicino, le Sirene restarono atone. Egli invece pensò che avessero cantato e di essere stato !>unico a non udirle, grazie ai propri accorgimenti. Poco dopo, però, non appena Ulisse «fissò il suo sguardo più lontano, le Sirene svanirono davanti alla sua risolutezza, e nel momento preciso in cui esse gli erano più vicine egli non ebbe più nessuna cognizione di loro».
Le Sirene silenti dileguano, riassorbite nel mito. Sdraiate sugli scogli, languide, «belle come mai», non avevano più alcun estro
185 di sedurre. L'unico desiderio rimasto era «sostenere quanto più potevano la luce radiosa che sgorgava dai grandi occhi di Ulisse». Se fossero state entità autonome, coscienti, indipendenti dalla mente di Ulisse, autentiche creature del mare, le Sirene «sarebbero annichilite in quel momento». Non avvenne invece nulla. «Tutto quello che accadde fu che Ulisse riuscl a sfuggirle».
Kafka aggiunge una postilla. L'ingegnoso Ulisse, si dice, poteva avere notato che le Sirene erano mute, «sebbene qui la comprensione umana sia oltre la sua misura». Egli avrebbe in questo caso opposto «ad esse e agli dèi la suddetta finzione solo come una sorta di scudo». Nell'antico mito omerico Odisseo vuole ampliare il proprio orizzonte e conoscere. Nella sua prospettiva sapere signifìca passare attraverso l'esperienza. Il bardo pone lo sperimentare nella realtà fisica degli eventi. Lo sviluppo dell'intelletto realizzato dal re di Itaca ha luogo mediante una investigazione delle percezioni, avvertite durante l'esperimento, sincrona alla sperimentazione stessa. L'indagine guida l'esploratore alle condizioni che gli permettono di valutare, quindi di esprimere giudizi, relativamente al contesto sondato e alle sue ramificazioni. La dea Circe, infatti, dopo avere predetto a Odisseo le insidie celate nel futuro incontro con le Sirene, lo avverte che quando lui e il suo equipaggio avranno navigato oltre le divinità marine egli non potrà più contare sui consigli della maga, ma dovrà «fidarsi del suo cuore» per prendere decisioni. Ragione, disposizioni d'animo, emozioni, intuizioni, non operano in modo disgiunto nel processo individuale del comprendere, ma lavorano presenti nelle stesse condizioni in cui si viene a trovare il singolo. Le sensazioni, provate da Odisseo e dai suoi compagni durante l'escursione in luoghi ancora sconosciuti ali'esperienza, trovano una loro possibilità di senso nelle stratificazioni di signifìcati che costituiscono l'orizzonte
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del mito, messo in scena dai poeti arcaici. Il mondo astratto della narrazione si rivela cosl, al tempo stesso, immaginario e reale. La creazione mitica avviene nella performance. Senza la relazione tra il rapsodo e i suoi ascoltatori, il mito non appare. Inoltre, se viene meno la coesione tra la contrazione scritta della composizione e elaborazione che il lettore fa del testo, anche il fondo mobile delle parole che formano la versione redatta del mito rimane muto.
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L,ambiente naturale esteriore alla mente viene rappresentato, dentro esposizione epica, con particolare attenzione. Un,esistenza fuori dalla narrazione, tuttavia, non è presente nella concezione mitica. Il mito delimita un universo, il quale assorbe la realtà esterna ormai metabolizzata dalla lente deformante attivata dalle necessità umane.
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L,individuo che interpreta Ulisse, nella variante della leggenda omerica rielaborata da Kafka, diversamente, awerte di avere ormai costruito la sua interiorità in una dimensione senza materia, intrisa di parole. Pensare di potersi riferire a qualcosa che, nell,orizzonte letterario della propria mente, vada oltre un qualche tipo di finzione, diventa quindi un,idea, non solo ingenua, ma anche assurda. Ovvio che avere risolto r esistenza interiore in una simile entità, aliena rispetto alla struttura fisica della natura, complica molto le relazioni tra il processo mentale, la sua base in una forma della materia e I>ambiente, cui ogni genere di unità corpo/mente comunque appartiene. Kafka, tuttavia, lascia balenare sullo sfondo del racconto solo il riflesso di tale difficoltà. Il suo interesse si concentra invece su come !"intelaiatura della finzione possa divenire, per J>individuo, lo scheletro della realtà. Nel codicillo posto verso la flne della breve prosa, il profilo di Ulisse, che nella storia interpreta J>illuso, viene sfocato da una possibilità inattesa. Ulisse potrebbe non essere, in verità, lo sproweduto e ingenuo navigante, vittima di un mirag-
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gio prodotto dal suo stesso repertorio di trucchi, tratteggiato daU'autore fino a quel momento. Si presenta, al contrario, l"eventualità che rarguzia e r astuzia di Ulisse siano talmente raffinate da riuscire ad ingannare perfino dèi e creature del mare. Forse egli aveva percepito davvero il silenzio delle Sirene ed era ricorso alla simulazione nel tentativo di fare della messa in scena il proprio ultimo «scudo». Se questa fosse l"evenienza, notarappunto affilato di Kafka, l"intelletto di Ulisse si sarebbe spinto in recessi inaccessibili alla comprensione umana. Quanto poi l"onna del silenzio corroda comunque, anche allo svanire delle Sirene, la supposta solidità di un asilo per la mente, nessuno può saperlo. Nemmeno una intelligenzascaltra come quella di Ulisse. Kafka qui si ferma. Ulisse non può evitare di sapere di essere lui stesso Partefice della «suddetta finzione». La dissimulazione, però, si rivela essenziale alla possibilità di Ulisse di sopravvivere in quanto processo mentale. Egli, dunque, abita la scena della propria mente come }"alchimia che anima la simulazione. Vindividuo immortalato da Kafka nella sua riedizione del mito omerico, nondimeno, non sembra destinato a trovare la rassicurazione che Ulisse mostra di cercare lungo lo svolgersi della narrazione. Le parole ingannano. Odisseo e Ulisse sono due 6gure molto diverse. Odisseo, nel racconto omerico, non si ferma davanti al pericolo, vuole conoscere e deve osare. Ulisse, viceversa, appare intento a scavare nella sua esistenza lo spazio irreale per un rifugio, assemblato con i moduli e le astuzie delle proprie illusioni. n mondo interiore dell"Ulisse di Kafka emerge disarticolato dall"impatto con il silenzio delle Sirene. Ogni suono ammutolisce. Dissolve ogni cenno. Vesploratore si ritrova cosl distinto dalle certezze infuse nel suo animo dal confidare nei propri espedienti. Ulisse tenta allora un ennesimo trucco e mette in atto la parvenza di se stesso come uno «scudo», simulando, alla fine, la medesi-
188 ma autenticità del proprio giubilo, della beatitudine e della determinata risolutezza che gli consente di fissare la lontananza. Il silenzio filtra tra i vocaboli, avvolge e peIVade la mente. Le Sirene mute mostrano di essere creature puramente mentali, evocate dalle parole, mentre svaniscono dalla cognizione di Ulisse perché nella loro essen:za reale sono a lui troppo vicine. Vesposizione è estrema. Ulisse barcolla e si ritira nel rifugio formato dalle sue stesse rappresentazioni. odisseo, uomo di mare, scandaglia segni quando scruta la distanza. Ulisse, invece, come un odierno abitatore delle metropoli, guarda lontano mentre finge 1~orizzonte.
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Arte e Digiuno
Un approccio all>alimentazione, originale, ma senza dubbio piuttosto ''essenziale>>, si rivela nel digiuno. Un impulso spinge }>organismo al nutrimento. Una sorta di vincolo biologico al sostentamento pennette cosl agli esseri viventi, in effetti, di esistere. La facoltà di digiunare, presente, tra tutti gli animali, solo negli umani, esprime dunque una possibilità per J>individuo di provare ad allentare almeno uno tra i molti limiti fisici della natura in cui la sua vita si trova costretta. I digiunatori, tuttavia, non appartengono tutti ad un medesimo ceppo. Vasceta, ad esempio, durante le sue pratiche di astensione, rinuncia al cibo perché vuole tenere il suo corpo sotto il dominio del proprio spirito. Una limpida concezione gerarchica del potere è impressa nell'ideale ascetico. L'inflessione platonica della prospettiva adottata dal}>asceta conduce questo particolare tipo di mistico a fìgurare un caratteristico assetto del reale. Nella visione dell'asceta, la dimensione spirituale può raggiungere la pieneu.a della propria essenza allorché il singolo, tramite una disciplina rigorosa, riesce a disporsi in una condizione in cui nell'orizzonte del soggetto rimane un desiderio unico. Vanima dell'asceta vuole essere assorbita, in un'estasi eterea, nella regione più pura e astratta dello spirito. L'astrazione di
190 colui che anela ad una scalata delle altezze spirituali indica, nondimeno, la struttura metafisica di una legge intangibile. Una dottrina veicola i precetti, i quali mostrano la legge, senra però costituirla, in un canone verbale accessibile alla comprensione dell"asceta. Osservare le parole emanate dalla legge signifìca regolare i comportamenti del corpo e della mente secondo le prescrizioni espresse dalla dottrina. I dettami dottrinali, d"altra parte, non rivelano l"intimo profilo della legge, perché la legge non ha contenuto e non può essere rappresentata. L"essem.a del comando è ottenere obbedienza. Raggiunto tale scopo, l"architettura della forma che sostiene l"ingiunzione non ha più ragione di apparire e si eclissa. La volontà del singolo, a questo punto, brama solo di sottostare all"idea invisibile della legge, perdendo cosl il proprio carattere individuale. Il soggetto ha rinnegato se stesso. L"asceta ha vinto la sua battaglia contro la propria stessa costituzione materiale ed è libero di essere attratto nella dimensione senza tempo, indistinta, dello spirito. Il digiuno può essere sospeso. Non ha più senso ormai, in verità, nessuna privazione. L"individuo è trasfigurato, smaterializzato. In quanto tale, in realtà, l"individuo non esiste più. La prospettiva di privazione e digiuno imbracciata dall"asceta si potrebbe definire, in fondo, persino estrosamente edonistica. Una specie del tutto diversa di digiunatore, molto più sobrio, prende vita nella breve storia Un Artista del Digiuno ideata da Franz Kafka. Il titolo originale tedesco Ein Hungerkanst"ler, tradotto in modo letterale, recita Un Artista della Fame. La sobrietà del personaggio creato da Kafka si mostra nel modo con cui l"inedito digiunatore accosta l"esistenza. A differenza dell"asceta, che condivide con lui }"attitudine ad una dieta frugale, l"artista del digiuno non è un dualista. La vita del digiunatore di Kafka accade in situazione. Il corpo è lo strumento e l"opera stessa della sua arte, la fame l"intima condizione del
191 suo talento. Vambiente in cui si svolge il racconto tesse la proiezione di parole dalla quale affiora il profilo delle figure che popolano la narrazione. «Noi adesso viviamo in un mondo diverso», scrive Kafka, mentre la vicenda inizia a serpeggiare tra le pagine. n tempo in cui Pinteresse per «il digiuno professionale» inebriava «r'intera città» è ormai andato. Vartista del digiuno, a quelrepoca, si esibiva seduto a terra tra la paglia, dietro le sbarre di una piccola gabbia, «pallido in calzamaglia nera con le costole sporgenti», ritirato in se stesso, senza badare a niente e nessuno, «fissando il vuoto con gli occhi semichiusi». Unico arredo, un orologio batteva lo scorrere del tempo. Durante le sue performance «tutti volevano vederlo almeno una volta al giorno». I bambini sostavano in piedi davanti a lui «a bocca aperta, tenendosi per mano per maggiore sicureZ7.a, stupefatti», anche se il più delle volte i genitori ritenevano lo spettacolo poco più che un divertimento alla moda. Vartista veniva sorvegliato notte e giorno da turni di guardiani «selezionati dal pubblico, di solito macellai, piuttosto stranamente». La vigilanza era pretesa dall'lmpresario, il quale, d,altra parte, non aveva alcuna attenzione per la qualità dell,arte espressa nel corso dell,esibizione. Il solo interesse dell,impresario era certificare r autenticità dell,astinenza agli occhi degli spettatori. Solo un digiuno dimostrato «rigoroso e continuo», infatti, sarebbe diventato un evento straordinario abbastanza da poter essere venduto ad una folla in cerca di emozioni forti, come quella che si accalcava ogni giorno intorno alla gabbia dell,artista. Il digiunatore, tuttavia, non avrebbe assolutamente mai toccato cibo nel periodo dell,astensione: interesse suscitato dall'arte del digiuno iniziò improwisamente ad affievolirsi e «I>artista digiunatore viziato dal pubblico si ritrovò un bel giorno di colpo abbandonato dalla folla in cerca di divertimento». L'artista prese congedo dall'impresario e si fece assumere in un circo. La fortuna però aveva ormai voltato le spalle al digiunatore. La gabbia dell'artista venne sistemata fuori dall'arena del circo, lungo un passaggio stretto che dava accesso al serraglio degli animali, dove avrebbe potuto più facilmente attirare l'attenzione dei visitatori diretti ad ammirare la fauna esotica e le bestie feroci. Le cose andarono, però, diversamente. In un tempo non lungo nessuno fece più caso all'artista del digiuno, nemmeno gli addetti alla pulizia della gabbia, oppure i sorveglianti del circo. Le persone, in realtà, avevano perso ogni confidenza con il concetto stesso di "arte digiunatoria" e ne avevano completamente smarrito la comprensione. L'artista, ignorato da tutti, fu cos} alla nne libero di digiunare come aveva sempre desiderato, senza un limite e senza controllo. Un mattino, rovistando nella gabbia che pareva vuota, un guardiano trovò l'artista esangue sotto la paglia. Le sue ultime parole esalarono per chiedere scusa. L'ammirazione per il suo digiuno, disse l'artista, non era meritata per niente, perché lui, in effetti, non poteva evitare di digiunare. Il guardiano gli chiese come mai non poteva fame a meno. «Perché - rispose l'artista - non ho potuto trovare il cibo che mi piaceva. Se l'avessi trovato, credimi, non avrei fatto storie e mi sarei rimpinzato come tutti voi».
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Gli inservienti pulirono tutto e «seppellirono },artista del digiuno, con la paglia ed il resto». Nella gabbia fu messa una giovane pantera. Nutrita con il cibo che preferiva, la nera non aveva problemi per mangiare e si aggirava a proprio agio dietro le sbarre, portando in giro, insieme alla gioia di vivere che le usciva dalla gola, la sua libertà annidata tra i denti. Gli spettatori, eccitati dal vigore selvatico dell,animale, «si affollavano attorno alla gabbia e non volevano più andare via». Il digiunatore restò in vita nno a quando la rappresentazione della sua arte, dunque I,esibizione della fame dell,artista, riuscl a destare una qualche attenzione nel mondo in cui si svolgeva la sua esisten7.a. La gente vuole divertirsi. La folla si muove, sull>onda di sensazioni erogate nei luoghi dove l>arte viene esposta. Da questo punto di vista, tra il digiuno di un artista e renergia ferina, piena di vita, di un animale, non c,è una differen7.a sostanziale. Anche la scena, la gabbia, non varia. Il digiunatore, tuttavia, diversamente dalla nera inconsapevole, immette nel mondo la fame. Naturalmente, una denutrizione non solo organica, ma una fame di stile. Un digiuno d,artista, distribuito come attrazione e venduto come arte.
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Parole e Materia
Nulla, a quanto pare, rende legittimo !"asserire il sussistere di una intelligen7.a, un,impressione, una coscienza, oppure di un,esperien7.a, che non derivi, in qualche maniera, da disposizioni più o meno complesse e transitorie della materia. La realtà psichica, mentale, di un essere vivente, in un determinato tempo, non sembra avere una sua esistenza distinta dalla dimensione :fisica dello stesso individuo nel tempo medesimo. Non si ha notizia, infatti, di una mente, costituita da stimoli, percepiti, processati e raffigurati in forme diverse, che possa vivere e lavorare a prescindere dal corpo dell,individuo soggetto a tali eccitazioni. Possiamo estendere una considerazione simile anche al mondo minerale. I software di "Machine Learning", infatti, calcolano strategie di comportamento in ordine all'attuazione di scopi, elaborando gli impulsi ricevuti da particolari sensori, innestati come autentici organi di senso sul loro corpo inorganico. L'Intelligenza Artifìciale è attiva in macchine che possono eseguire funzioni tipicamente rese possibili dall,intelligenza umana. In particolare nel "Deep Learning", ulteriore sviluppo di "Machine Learning", ispirato alla struttura e al modo di operare del cervello umano, algoritmi che lavorano come reti
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neurali artinciali mimano la struttura biologica cerebrale. Le linee di codice e gli algoritmi, inoltre, assumono consistenza solo durante il tempo in cui componenti hardware e dispositivi - microprocessori, computer, router, infrastrutture per la diffusione wireless di dati, ecc. - aprono il campo alla possibilità fisica di una trasmissione delle informazioni, sottoposta ad una certa soglia di regolazione. Il corpo sintetico di un software comprende tutti gli oggetti elettronici che abilitano il programma informatico ad operare nella rete che consente la connessione tra i medesimi congegni. Le tecnologie wireless permettono di trasmettere dati ad enormi distanze. Le apparecchiature che fungono da base materiale alla computazione algoritmica di uno stesso programma possono muoversi, oppure essere collocate, quindi, in luoghi tra loro anche molto lontani. Per quanto riguarda },Intelligenza Artinciale, dunque, l,unità "corpo/mente" propaga amorfa tra i dispositivi ed i codici che costituiscono l>intero apparato di trasmissione di informazioni e dati. La totalità dell,impianto sintetico, tuttavia, nonostante la sua
parvenza eterea, risolve le proprie funzioni nell,ambito fisico della materia. Ali,attuale stadio di svil1.4>po della tecnologia, infatti, diversamente dalle forme di inteillgenza animale, i programmi di Intelligenza Artificiale non hanno rivelato la facoltà senziente di awertire se stessi mediante la base hardware del corpo diffuso che li costituisce, ma si limitano ad eseguire le operazioni di computo previste dalle istruzioni impartite dai loro algoritmi. La conduzione dell,infonnazione, attraverso fibre, nervi, neuroni e vasi sanguigni, peculiare della fisiologia animale, invece, impone ancora agli esseri viventi, al livello corrente raggiunto dalla possibilità tecnologica di modificare l,organismo, un corpo definito e una natura individuale. Gli animali, inoltre, hanno la percezione delle impressioni diffuse dalla superficie
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sensoria del proprio corpo. Tale dimensione di sensibilità, in sé, non può però essere sondata dagli strumenti di calcolo, specinci solo per indagare la consistenza elettrica e chimica degli impulsi, che rappresentano r essenza organica di tutto quello che l'animale awerte. Gli animali umani, poi, hanno lentamente sviluppato la propria sensazione di esistere, mutandola nel processo repentino che noi, in un modo ambiguo e abbastanza confuso, chiamiamo "mente". La parte conscia della mente occupa una posizione eminente nel dibattito culturale sulla "mente". Studi di psicologia, neuroscienze e genetica, unitamente ad una parte della speculazione filosofica, mostrano, d"altra parte, che l'effettivo ruolo della coscienza nei processi mentali non è primario. I contenuti consapevoli della mente, infatti, risultano essere costruzioni che dipendono dal flusso di unainfìnità di elementi, i quali solo nella loro continua combinazione assumono la forma degli atomi di senso necessari alla fabbrica del tessuto immateriale della coscienza. Sebbene il nesso tra la derivazione fìsiologica delle funzioni psichiche e essenza emotiva, verbale, delle percezioni interiori, non sia stato ancora compreso, per ora, da scienziati, fìlosofì e ricercatori, proviamo a richiamare almeno alcune delle sue caratteristiche.
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Il contesto logico, in cui appare il fenomeno dell"unità corpo/ mente, presenta una parte cruciale dell'lntera questione. Il corpo non è mente e la mente non è corpo. Nondimeno, una distinzione tra corpo e mente non esiste. Se fosse possibile rilevare una, seppure parziale, identità tra corpo e mente, almeno alcune qualità proprie di una delle due entità dovrebbero essere presenti nell"altra e viceversa. La mancanza di una comunione tra gli attributi della mente e del corpo, però, appare evidente. Nella struttura materiale del corpo, ad esempio, non si nota la presenza di vocaboli, pensieri, immagini, oppure di emozioni. n traffico delle informazioni sensoriali è veicolato
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dalle quantità misurabili in cui si risolvono i segnali elettrici, mediati in modo chimico, i quali, in ultima analisi, compongono },organismo. In modo inverso, nella mente è del tutto assente la materia, che costituisce invece i tessuti, i Suidi e gli impulsi che formano il corpo. I processi mentali, quindi, in quanto tali, non si possono quantificare e sfuggono all,indagine del calcolo. Mente e corporimangono, tuttavia, indistinguibili. Il corpo e le procedure delle sue trasformazioni sembrano, in linea di principio, interamente conoscibili e governabili solo attraverso un esercizio rigoroso dell,attività mentale. Un accesso alla mente risulta possibile, d,altro canto, solo tramite comportamenti del corpo: senza un organismo, per quanto ne sappiamo, non c,è una mente. Le due "entità", corpo e mente, sono quindi distinte, ma sprovviste di una reale distinzione. I:interazione, che caratterizza la dinamica vitale dell,unità corpo/mente, infatti, sembra produrre un continuo cambio di fase: nella proiezione mentale dell,attività organica, la materia evapora. I:intensità dell,impulso determina, nell,organismo, la direzione del segnale, il suo tragitto e le variazioni dei suoi codici. Alle cariche elettriche che originano e trasmettono gli stimoli corrispondono, nell>ineffabile mondo interiore, il fascino, 1,energia eterea e la funzione pratica dei contenuti mentali correlati che si vengono a formare. I:emergere delPintelligenza dall,ordito fisico della realtà esprime cosl la possibilità della materia di proiettare, nel campo inedito dell,esistenza che si apre nella mente, la propria stessa evanescenza.
Per gli esseri viventi, la probabilità di permanere nelPesistenza è subordinata alla capacità degli individui, appartenenti ad una determinata specie, di realizzare nell,ambiente un adeguato biotopo, compatibile con le opportunità di sopravvivenza accessibili da parte dei membri della specie medesima. Le costrizioni che informano il costituirsi di un ecosistema derivano
199 da una continua relazione tra le condizioni ambientali e le necessità fisiologiche degli individui intenti, in uno stadio particolare della storia evolutiva della specie di cui fanno parte, alla costruzione di una loro nicchia ecologica nell'ambiente medesimo. Da questo punto di vista, ogni forma di vita, costretta da vincoli Hessibili, collabora alla genesi incessante di un habitat utile, in primo luogo, alla sussistenza propria e dei suoi simili.
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L;,Invenzione ~l Tempo: fuori dalla «prigione ~l qui e ora»
Seguendo gli stimoli del linguista statunitense Derek Bickerton (Adam"s Tongµe. How Humans Made IAnguage,, How lAngµage Made Humans, Hill &Wang, NewYork2010) possiamo individuare uno scarto tra il pensiero degli animali non umani e !"intelletto degli animali umani. Secondo la teoria di Bickerton, gli esseri viventi non umani pensano esclusivamente online, mentre gli umani hanno sviluppato un genere di intelligenza che lavora, al tempo stesso, online e offl,ine. La rete che supporta il pensiero online coincide con il fluttuare delle informazioni luminose, elettriche, chimiche, attraverso i campi magnetici che strutturano !"ambiente fisico. Questo è }"ambito subitaneo dell"esistere, in cui ]"accadere di ogni evento è immediato. Gli animali- suggerisce Bickerton - [ ... ] possono solo comunicare circa il qui e l'ora perché le loro menti possono operare unicamente nel qui e ora. [ ... ] Qualunque loro conoscen7.a può essere selezionata, ogni memoria attivata, solo da eventi nel mondo reale. Una memoria, una volta accesa, può avviarne un,altra, se è rilevante allo scopo del momento.
Gli animali non umani vivono nel presente. Nel cervello non umano non ci sono schiere particolari di neuroni, il cui lavoro
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elettrochimico possa proiettare nella mente immagini e simboli riferiti agli oggetti che appaiono nella realtà fisica. I:organismo deU'animale processa gli stimoli che ricavadaU'ambiente, per impartire fulminee istruzioni ai muscoli: opzioni di comportamento, che possono, in ogni istante, permettere, oppure pregiudicare, la sua sopravvivenza. Il pensiero online è l"attività organica di interazione con «oggetti ed eventi nel mondo esterno», che consente all'animale di contribuire alla costruzione di una nicchia ecologica, compatibile con le possibilità di conservazione della specie a cui l"animale stesso appartiene. La risoluzione delle urgenze - nutrimento, sicurezza e procreazione - che la realizzazione della nicchia impone, innesca specifici sviluppi dell>intelligenza degli individui e direziona la lenta modincazione della specie. «Tutto questo è quanto basta alla vita sulla terra». «I cervelli - ricorda Bickerton - non erano fatti per pensare alla natura dell"universo o alle leggi che lo governano». Il pensiero online processa dunque informazioni che riguardano oggetti ed eventi, la cui realtà non dipende dalla mente dell>animale. Tali contingenze, infatti, accadono nel mondo fisico e sono immediatamente presenti all>apparato sensoriale dell>organismo. Anche gli animali umani, naturalmente, serbano l"attitudine organica a pensare online. Una forma di vita, sprowista di questa propria abilità fisiologica di rimanere connessa al fermento di impulsi che costituisce la fisica dell>esistenza, si scoprirebbe non idonea a sopravvivere nell>ambiente, in verità, nemmeno pochi istanti. La qualità che distingue gli umani dagli altri animali è invece la loro attitudine al pensiero o.ffl,ine. I contenuti elaborati dalla dimensione affl,ine dell>intelligenza umana sono mente dipendenti ed esistono solo nella mente degli uomini. Una difformità essenziale, osserva Bickerton, differenzia le configurazioni online e affl,ine del pensiero: «nel pensare online quello su cui
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verte il pensiero è proprio là davanti a te, mentre nel pensare offiine non è presente fuori da te». Il pensiero online, inoltre, può interagire in modo consapevole con gli oggetti nel mondo esterno, oppure rimanere una funzione inconscia dell'organismo. Il pensare offl,ine, viceversa, deve per necessità essere cosciente, perché nella mente ci sono solo i concetti delle cose a cui il pensiero si rivolge, ma, naturalmente, non le cose stesse. In base alla speculazione scienttflca di Bickerton, il pensiero offl,ine inizia il suo percorso nell'evoluzione, antico almeno due milioni di anni, quando alcuni nostri progenitori, sotto la pressione ambientale della nicchia che si stavano awenturando a costruire, furono forzati a tentare di passare attraverso la costrizione biologica che bloccava ogni «sistema di comunicazione animale» nella «prigione del qui e ora». L'urgenza era quella di riuscire a trasmettere ai propri simili informazioni relative alla esistenza di risorse alimentari e insidie, presenti in zone diverse, distanti dal luogo in cui si stava svolgendo lo scambio di notizie. La natura non prevedeva nulla del genere: la possibilità che affiorassero fonemi, parole, concetti, nemmeno esisteva, perché la loro base neuronale non si era ancora sviluppata nella fisiologia cerebrale degli individui. I nostri precursori avevano a propria disposizione solo il bagaglio animale di segnali, utilizzati per divulgare la condizione in cui si veniva a trovare il loro organismo nella sua relazione contingente con l'ambiente. I primi ominidi, nella particolare visione paleoantropologica sostenuta da Bickerton, abitavano quella parte del pianeta che noi oggi chiamiamo Africa. L'ambiente in cui vivevano i progenitori degli uomini era una estesa pianura, popolata da predatori e animali che si nutrivano di carcasse e di piante. Per ragioni facili da intuire, la convivenza con gatti selvaggi, rapaci, leopardi, rettili, iene e leoni confinava i nostri antesignani all'ultimo posto della catena alimentare che regolava le
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possibilità di accedere al nutrimento e il grado di probabilità di riuscire a mantenersi in vita nella savana. Una volta che predatori e saprofagi, dopo avere terminato di spolpare la preda, si erano allontanati, gli umani potevano infine accedere a quello che rimaneva della carogna. Restavano le ossa e qualche lembo di carne, attaccato allo scheletro in zone che gli altri animali non riuscivano a ripulire. Per sopravvivere alla scarsità e scampare i pericoli che marcavano la vita quotidiana nella prateria africana, i nostri precursori si trovarono costretti ad awalersi di quelle poche differenze che, distinguendoli dagli altri animali, si sarebbero potute rivelare anche dei vantaggi, piuttosto che solo degli handicap.
La pressione della nicchia spingeva i soggetti preumani ed umani, appartenenti ad una medesima specie, verso un livello di collaborazione del tutto inedito. All"epoca, infatti, in natura non esisteva nulla di quello che sarebbe potuto servire al fine di attivare una forma di comunicazione adeguata alla realizzazione del tipo di cooperazione richiesta. La necessità consisteva nel riuscire a radunare, intorno alle risorse alimentari accessibili, costituite dai carcami di animali ancora commestibili sparsi per il territorio, un numero di individui organiz7ati, folto abbastanza per fronteggiare gli altri predatori e sowertire cosl il loro predominio nella catena alimentare. fl fallimento, non essere quindi idonei a fronteggiare le urgenze imposte dalla propria interazione con r'ambiente, avrebbe significato per il genere Homo, come per le specie Ominidi che l'hanno preceduto, una più che probabile estinzione. Derek Bickerton, in un suo ulteriore volume (More than Nature Need.s. Language, Mind andEoolution, Harvard University Press, Cambridge-London 2014), ipotizza che una fondamentale mutazione degli animali umani e del loro apparato comunicativo sia awenuta in quattro fasi.
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Il primo stadio di questa trasformazione accade nella nicchia ecologica definita dal conflitto con altri predatori per l,accesso al cibo. Qui «gli umani apprendono le basi per la cooperazione», perché se ognuno non avesse contribuito «nel mettere al sicuro una carcassa, nessuno sarebbe riuscito a mangiarne nemmeno un pezzo». Un esito essenziale di questa prima fase è racquisizione della facoltà di potersi riferire ad oggetti ed eventi che capitano spostati rispetto alle possibilità percettive del proprio apparato sensoriale. La graduale intuizione di circostanze che accadono oltre il raggio di azione della sensibilità corporea, lentamente, guida i progenitori dell,uomo contemporaneo fuori dalla «prigione del qui e ora», che come una «camicia di forz.a» sigilla r essenza organica del «sistema di comunicazione animale» e i suoi segnali. Il secondo momento dell,esodo verso la possibilità di creare le parole è costituito dal «simbolismo». Nella speculazione di Bickerton, il livello dei simboli proviene «dalla tendenza delle unità di riferimento dislocato di indicare in modo sempre più generale ed astratto fino a che divengono, in effetti, etichette per concetti mentali». Il dispositivo biologico che processa gli impulsi elettrici nel corpo, proiettato nella virtualità della mente, genera la logica dell,informazione e schiude, nella struttura della materia, la possibilità di un campo immateriale dell,esistenza. Il terzo periodo del processo, tuttavia, avviene interamente all,interno della fisiologia cerebrale. «I cervelli - ricorda Bickerton - devono essersi auto-organizzati e ri-auto-organizzati più volte nell,ultimo mezzo milione di anni, quando una specie dopo 1,altra aumentava e/o cambiava la propria attrezzatura sensoriale». I primi due stadi ("cooperazione" e ''simbolismo") della metamorfosi esplorata dalla speculazione di Bickerton presentano al cervello fenomeni del tutto inusitati. La risposta dei neuroni a questi stimoli inediti consiste nella costruzione
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di «una vasta e densa foresta di interconnessioni relativamente locali», che devono potere essere attivate prima che il passaggio alla fase ulteriore della trasformazione diventi possibile. Lo scopo della dinamica neuronale risolve infatti nel «rendere il compito del cervello leggero e aiutare a conservare la sua energia», perché nelle funzioni cerebrali non esistono differenze, quindi «mentale, fisico, fisico-e-mentale, sono tutti eseguiti nello stesso codice di scariche elettrochimiche». Solo nel quarto stadio della mutazione fìgurata da Bickerton si mostra tinconsapevole azzardo a cui si espone l'esperienza peculiare degli animali umani nei primordi della loro esistenza. A questo punto, il «potere potenziale» dei meccanismi che le fasi precedenti hanno generato non ha più «nessuna relazione con i bisogni ecologici degli umani» e la produzione del «linguaggio come noi lo conosciamo», dunque, alla fine può effettivamente iniziare.
Le parole sono entità mentali che trovano il proprio senso nella loro attinema ai concetti cui sono riferite. La forma del concetto è vuota. Il signifìcato emerge dal nesso tra le formulazioni verbali e il contenuto dei relativi concetti, stabilito dall,.uso ripetuto di particolari espressioni nei medesimi contesti. Il pensiero offline, insieme alla possibilità indefìnita di elaborare enunciati, assumono una paradossale consistenza in sincronia con il lento «divorziare delle parole da ogni cosa del mondo reale cui esse si riferiscono». I vocaboli presentano cog «la forma esterna di concetti veri, applicabile ad alcuni oppure a tutti i membri di una data classe, siano essi ipotetici o reali». I concetti e le loro diramazioni, però, non sono presenti nella natura elettrochimica della realtà, che non dipende dalla mente. Il contatto tra il pensiero offl,ine e le «entità indipendenti dalla mente che hanno una esistenza fìsica nel mondo reale» si regge sulla abilità fìsiologica, sviluppata per gradi dalle risposte da parte degli individui alle pressioni della nicchia che
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rende loro possibile la vita, di riferire porzioni della propria attività cerebrale ad «enti che non sono necessariamente presenti all"apparato sensoriale, né esistono nella mente».
Le funzioni biologiche del cervello riattivano le memorie elettriche registrate, nel viluppo delle sinapsi, dalla frequen7.a degli impulsi connessi alla presenza di determinati enti nel mondo esterno. La proiezione mentale del processo, invece, tramite l"edificio astratto che il Husso verbale inizia ad articolare, inventa negli umani !"insorgere di una cognizione particolare e di una interiorità intrisa di parole. Gli oggetti «che hanno una esisten7.a fisica nel mondo reale» appaiono cosl nella mente trasformati dal linguaggio in quello che nella realtà essi non sono. La sinergia tra pensare online e pensare offl,ine forza il limite della materia nella natura. Il conoscere mantiene una radice nelle strutture fisiche degli eventi, intese mediante la lente del calcolo, mentre il mondo interiore, che affiora dall"esperienza della percezione negli individui, si forma in una dimensione immateriale, propria delle correlazioni tra vocaboli, ma del tutto inaccessibile alla sostanza elettrica degli impulsi. Nella parte finale di Adam's Tongpe, Derek Bickerton sintetizza la scena dello sviluppo in cui si è realizzata fino ad ora la capacità di costruire un susseguirsi di nicchie ecologiche diverse da parte degli umani. Gli animali umani giungono alla loro provvisoria condizione attuale molto lentamente. Numerose specie Homo hanno contribuito alla selezione dei tratti che consentirono agli umani di risalire dal fondo all"apice della catena alimentare. Nessuna di tali specie è sopravvissuta, eccetto l"Homo Sapiens. Noi siamo quindi gli ultimi umani. Nelle società attuali }"accesso alla nubizione è mutato rispetto alle possibilità che consentivano ai nostri più atavici progenitori di strappare all"ambiente il loro sostentamento. Gli umani moderni sono produttori e producono ogni cosa. Noi non solo fabbrichiamo il nostro
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cibo, dunque forme di vita animale e vegetale, ma costruiamo l"ecosistema in cui viviamo e la nostra attività medesima è la fonte di noi stessi. Bickerton osserva che il «Grande Salto in Avanti>> dell"Homo Sapiens, rispetto alle altre specie umane, sembra essere stato attivato dal «conflitto con una specie di quasi equivalenti abilità, la Neanderthal», durante il quale si è rivelato necessario impiegare «tutta l"energia e l"ingenuità dei Cro-Magnon». Gli umani dopo di allora hanno iniziato a ediJìcare nuove nicchie «ad una velocità sen:za precedenti». La nicchia pastorale, quella agricola e la presente nicchia industriale, sono state le prime, originali manifestazioni di un adattamento evolutivo inverso. Gli umani, «controllando prima gli altri animali, poi le piante, poi l"energia e la materia», si sono infatti ingegnati per «adattare il mondo a se stessi>>, piuttosto che sforzarsi per il proprio adeguamento all"ambiente in cui accadeva loro di vivere. L"invenzione di un ambito originale del!>esistere comporta, tuttavia, !"apparire anche del limite proprio a tale inedita dimensione. Insieme alle altre nicchie da essi realizzate, gli animali umani stanno infatti creando una speculare «nicchia negativ&>>. In questo modo, «esaurendo la capacità della nicchia, oppure soffocando sui detriti causati dalla sua produzione, una specie potrebbe costruire se stessa nell"estinzione». Un'ulteriore tendenza, correlata alla materiale fabbricazione delle nicchie positive e di quella negativa, sembra affermarsi, secondo Bickerton, lungo la storia dell'evoluzione dell"Homo Sapiens. Il linguista americano nota che il mutamento genetico degli umani non è stabilizzato, ma procede «in modi che noi ancora non riusciamo a capire completamente». Durante l'avvicendarsi delle civiltà degli uomini si sono generati nel mondo, in modo diffuso, «sistemi di caste, sistemi come quelli del-
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le formiche, dove le occupazioni e il destino di un individuo sono predestinati alla nascita». Fino dalle prime forme di organizzazione sociale, «ribelli, rivoluzionari, eretici, criminali, martiri - tutti quelli contrapposti alle nonne correnti della società- sono stati sistematicamente imprigionati, esiliati, assassinati oppure giustiziati». Naturalmente noi, che abitiamo un mondo nel quale lievita una «mareacrescentedi democrazia», perlopiù consideriamo i vari sistemi di caste come «aberrazioni obsolete e piuttosto repellenti». Ma questa opinione potrebbe in realtà rivelarsi «pericolosamente ottimistica». La maggior parte degli individui ritenuti, sotto diversi profili, non adattabili alle convenzioni che regolano le società, infatti, «sono morti giovani oppure hanno passato i loro anni procreativi in detenzione, dunque il loro contributo al genoma umano è stato trascurabile». I tipi più remissivi, invece, hanno prosperato «spargendo il loro seme in lungo e in largo». I sistemi di caste, quindi «potrebbero essere visti piuttosto come un processo in corso, prematuri precursori di quello che accadrà una volta che le ultime riottosità nella nostra natura di scimmia saranno state eliminate». Nulla però è a priori stabilito. Nella costruzione delle diverse nicchie ecologiche, gli organismi sono autonomi, pertanto nelle specie è celata la possibilità di «influenzare il loro proprio destino». Dall'organismo degli animali umani emergono individui articolati da parole, cosl l'autonomia, cui si riferisce Bickerton, perde, tra gli uomini, il suo orizzonte prettamente fisiologico. Lo sviluppo delle astrazioni fabbrica il senso delle creazioni mentali. Inscindibile dall'effetto degli impulsi che attraversano il corpo nell'ambiente, la vicenda astratta dei contenuti psichici costituisce lo sfondo dell'esperienza umana, atipico nell'intero consorzio animale. Un filtro di concetti permea l'approccio degli uomini ali'esistenza, lasciando ai singoli un margine di consapevolezza, uno spazio in cui awengono scelte che posso-
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no anche influire, per estensione ed indirettamente, sulla sorte stessa della specie. Il campo della libertà appare dunque limitato, ma non per questo meno cruciale. A prescindere da quanto la sua teoria sia corroborata nell,_am-
bito della paleoantropologia, uno dei molti meriti dell,-acuta speculazione di Derek Bickerton è di avere pensato il linguaggio verbale come lo sviluppo lento e incerto di una funzione animale. La strada nell,_evoluzione, per formare un sistema di comunicazione mediante aggregati innaturali come le parole, fu percorsa dalla condotta contingente, frammentaria, di ignoti individui, preumani ed umani, durante lo svolgersi della loro vita. «I cambiamenti nel comportamento - ricorda Bickerton - innescano mutamenti nei geni almeno tanto spesso (forse di gran lunga più spesso) di quanto le modifiche genetiche attivano variazioni di comportamento». Un numero indefinito di esseri viventi, al fine di sopravvivere, furono costretti a tentare di forzare il limite fisico della natura. Il loro tendersi nel vuoto è stato totale, ma, al tempo stesso, in larga parte inconsapevole. Il lascito che hanno trasmesso è la metamorfosi del corpo che rende possibile la nostra mente. Un intelletto senza materia. Una mente che non appare, peraltro, distinta dall"organismo nel quale affonda la sua radice concreta.
IV Il Reale tra le Ombre
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I Cavalli del Dottore
Vinizio del racconto Un Dottore di Campagna, scritto da Kafka nel 1917, presenta la possibilità di notare una coincidenza. Una notte d,inverno, il medico condotto di uno sperduto villaggio viene svegliato dal suono improvviso del suo «campanello notturno». Il dottore realizza in breve di trovarsi in una «grande difficoltà». Un «paziente seriamente malato» era infatti in attesa di cure in una contrada distante «dieci miglia» dal borgo in cui il dottore aveva la sua sede e la dimora. Una tempesta di neve infuriava nel villaggio, ma il medico, afferrata la «borsa degli strumenti» necessaria per I,esercizio della professione clinica, uscl comunque dalla propria casa, fuori nella fredda oscurità. «Infagottato nella pelliccia», il dottore raggiunse in mezzo alla bufera il suo «calesse leggero con grandi ruote», perfetto per percorrere gli sterrati accidentati della campagna. Un problema imprevisto tuttavia apparve. «Mancava un cavallo. Niente cavallo». Non si poteva rimediare un cavallo. E il cavallo del dottore era «morto nella notte, schiantato dai rigori di questo inverno gelato».
Un Dottore di Campagna venne pubblicato nel 1919, come secondo racconto in una raccolta di storie brevi, titolata anch"essa, come il racconto, Un Dottore di Campagna. Kafka, alcuni mesi prima che l'opera venisse stampata, aveva selezionato
214 una lista di quattordici narrazioni, insieme ali'ordine nel quale le concise invenzioni sarebbero dovute comparire nel volume. La storia destinata da Kafka ad aprire la collezione risultò essere Il Nuovo Avvocato. n ruolo del personaggio protagonista nel Nuovo Avvocato, come già sappiamo, venne affidato dall'artista di Praga al cavallo Bucefalo, il destriero da battaglia di Alessandro, divenuto ora nel racconto, in circostanze ignote, un legale. Due cavalli, dunque, Bucefalo ed il cavallo morto di stenti del dottore, sbucano tra le parole nelle prime due storie della raccolta Un Dottore di Campagna. I due animali si trovano separati tra loro nel libro da un"unica pagina. Anzi, la distanza posta nel volume tra Bucefalo ed il cavallo morto del dottore si riduce, in effetti, solo a qualche riga. Questo il primo aspetto della strana coincidenza che possiamo rilevare mentre iniziamo a leggere Un Dottore di Campagna. L'apparente casualità non termina qui. Proseguiamo addentrandoci nel racconto e dopo appena qualche battuta, infatti, incrociamo altri «due cavalli, enormi creature con fianchi poderosi» che balzano «fuori dal buco della porta» di una «porcilaia». Uno «stalliere» brado, selvatico, un «bruto», aggioga le bestie al «calesse leggero» del dottore ed il cocchio, ad un segnale dello zotico, si ritrova all"istante catapultato dai due animali nell"immediato di una dimensione estranea, inaccessibile alla matematica che descrive e regola lo spazio-tempo. n medico, privo di ogni controllo sul veicolo, in un attimo viene assorbito nel vorticoso evaporare del proprio mondo costruito su abitudini e ragioni.
ndottore stesso descrive l'immediatezza dell"accaduto. Ma questo solo per un momento, dato che, come se l'aia della fattoria del mio paziente si fosse aperta davanti al cancello del mio cortile, io ero già Il; i cavalli erano calmi e fermi; la tempesta era terminata; la luce della luna era tutto intorno.
215 Incontriamo, allora, quattro cavalli, distribuiti in due racconti, nello spazio di poche righe. Una coincidenza dawero singolare. Proviamo ad indagare brevemente questa fatalità, prima di inoltrarci nella lettura di Un Dottore di Campagna. I quattro cavalli sembrano mostrare al lettore la loro affinità reciproca. Nel medesimo frangente, nondimeno, una cardinale diversità rende questi destrieri contrastanti }>uno con raltro. La congruenza tra i quattro animali non si riduce al fatto elementare di appartenere tutti alla stessa specie e di essere, quindi, ognuno di loro un cavallo. Un,analogia forse più rilevante balena tra le parole dei due racconti. I quattro cavalli sembrano :figurare nella narrazione quasi come simboli dell,energia animale che abilita l,agire degli umani. Un,energia che emana dal co~, per la quale rarte di Kafka inventa la panimale appartiene. Si crea allora una contraddizione, un artificio logico, utile per tenere la forma di vita, che nella sua caducità per esistere immagina, parla e pensa, integrata al proprio ambiente, il quale, altresl, dilegua all,istante nell,apparire subitaneo del presente. Il medico inventato da Kafka doveva «iniziare un viaggio urgente». Le awersità che il dottore avrebbe incontrato, per percorrere il tragitto e portare a termine la propria missione, sono subito evidenti. «Una fitta tempesta di neve riempiva tutto lo spazio» tra il medico ed «un paziente seriamente malato» che lo attendeva «in un villaggio lontano dieci miglia». Varsenale utilizzato dal dottore per fare fronte alla situazione è sobrio ed essenziale, come appaiono sostanziali, d, altra parte, anche le difficoltà da superare. Vuomo di scienza affronta il gelo «infagottato nella pelliccia», armato della sua «borsa di strumenti» ed in possesso di «un calesse leggero con grandi ruote, esatto per le nostre strade di campagna». La notte rivela, tuttavia, una contrarietà ulteriore, inaspettata, che rischia di erodere la possibilità stessa di tentare il viaggio. Il «cavallo» del dottore è morto, «schiantato dalle fatiche di questo inverno gelato». Bloccato dalla neve che gli si accumula addosso, lo scienziato non può nemmeno più contare sul suo «cavallo». Nessuna sorgente di energia, pertanto, per attivare la vettura del dottore, il «calesse leggero con grandi ruote», pronto in attesa nel «cortile». Ogni movimento sembra precluso. Il medico si ritrova cosl costretto in una condizione di immobilità. Proviamo ora brevemente ad intuire quali possano mai essere stati i motivi reali, le ragioni che potrebbero avere provocato la morte del «cavallo» del dottore. La vicenda narrata da Kafka in Un Dottore di Campagna giunge a noi tramite le parole dell,unico personaggio della storia
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presente in prima battuta nella nostra mente. Il medico condotto, infatti, racconta in prima persona le traversie dell"avventura e dei suoi protagonisti. Il dottore pilota cosi il lettore nel mezzo degli awenimenti in una realtà immaginaria. Nel medesimo istante il medico attira la mente che lo sta ospitando nei meandri della propria psiche di uomo di scien:za. n dottore di Kafka, mentre confida la sua storia al lettore, mediante le stesse parole conferisce dunque una forma anche a quello che accade nella propria interiorità di scienziato.
I motivi che hanno spinto fino al decesso il cavallo del dottore non costituiscono un mistero. Leggiamo nel racconto, appunto, che l"animale è «morto nella notte, schiantato dalle fatiche di questo inverno gelato». Se però scrutiamo attraverso la lente delle parole possiamo indovinare !"intimo del medico, il suo mondo, la sua vita abbarbicata ad abitudini e certezze. Il dottore riceve una disagevole chiamata notturna in pieno inverno e risponde applicando una routine. «Calesse», «pelliccia», «borsa degli strumenti» e il dottore in un baleno era fuori «nel cortile pronto per il viaggio». Realizzato che il cavallo del medico era morto, la sua «domestica>> non si perde d"animo ed inizia subito a girare per il villaggio in mezzo alla tormenta, agitando una alloggio del suo «paziente», il dottore viene accolto dai «genitori» e dalla «sorella» del malato che si precipitano verso di lui farfugliando parole che ruomo di scienza non sa comprendere e quasi lo sollevano per tirarlo giù dal «calesse» e spingerlo dentro r abitazione. AlJ>interno della casa, «nella camera del malato rana era praticamente irrespirabile; la stufa negletta fumava». n medico avrebbe «voluto aprire una fìnestra», ma prima doveva «dare un>occhiata» al «paziente». Il «giovane», emaciato, «scarno, senza febbre, non freddo, non caldo, con gli occhi vacui, senza maglia», si solleva un poco da «sotto il piumino», allunga un braccio attorno al collo del medico e gli «sussurra» in un «orecchio»: «Dottore lasciami morire». Lo scienziato, interdetto, si guarda intorno nella stanza. «Nessuno aveva sentito». Il «giovane», comunque, andava visitato. Il dottore rovista allora nella sua «borsa degli strumenti» ed estrae «un paio di pinze», mentre il ragazzo dal letto seguitava a tentare di trattenerlo per ricordargli la «sua supplica». Dopo avere esaminato le «pinze» alla «luce di una candela», il medico, però, ripone gli «strumenti>> nella «borsa».
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Uartista di Praga attiva un'elaborata dinamica di effetti. Il dottore veicola nel racconto la sua esperienza, parlando, dunque, dal solo luogo da cui ognuno di noi unicamente può parlare. Le parole dello scienziato di Kafka vengono da dentro, dall'interiorità, dall>interno della sua mente. Il mondo esterno - il immagine e il racconto. Ritrovatosi appena da qualche istante proiettato nel «villaggio» del «paziente», nella «camera del malato», circondato dai congiunti del «giovane», il dottore inizia ad awertire di essere stato in effetti sbalzato in una realtà costituita da idee, pensieri sconnessi, 6gure, brandelli di trama. Il medico stesso fa parte dell>ordito. Nessuna distan7.a disgiunge il dottore e la storia, i luoghi, i personaggi, le voci, i suoni, le canzoni monche. In particolare, nessun divario scosta medico e «paziente» dalla loro intima contiguità. Il dottore è il malato. Ma, al tempo stesso, la distinzione permane. Il ruolo del medico non è quello del «paziente» e rintelletto del malato ha un>attitudine diversa daU'intelligenza razionale del dottore. Nel racconto, inoltre, la congruenza interna all,intreccio si sfalda. La trama dissolve la vicenda descritta dal medico inventato da Kafka in un reiterato groviglio di rimandi, frammenti, risonanze di senso. La ''sostanza>> che rende possibile la narrazione è la dissoluzione medesima del racconto. In sintesi, una "sostanza narrativa>> non esiste. L'artista di Praga mostra la contingenza come fibra di ogni formazione linguistica. Il dottore dunque è il malato. Nondimeno, il malato non è il dottore. L'orizzonte del malato discorda dalla visione del medico. Il «paziente» non aspira a curare nessuno. Ma, innanzi tutto, il «paziente» di Kafka non vuole guarire. Il malato pretende di essere salvato, altrimenti vuole essere lasciato morire. Precipitato nel sottobosco magmatico della sua mente, il dottore si sente subito a disagio con se stesso. L'indole dello scienziato è dissonante con le sembianze che le proprie medesime percezioni seguitano a prendere, espresse dalle parole, manifeste in immagini, ordite in 6gure, personaggi e sensazioni. Uuomo di scienza nel racconto sembra provare un>autentica repulsione, istintiva e concettuale, verso I,origine, fosca, ma-
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gica, confusa, in cui affonda le radici quello che accade nella sua psiche. Il malato non è solo il «paziente» che il dottore ha di fronte e deve curare. In quanto appare come fìgura nella mente del medico, il malato diventa anche lo specchio interiore che mostra allo scienziato la matrice fantastica dalla quale si era staccata e sviluppata la stessa prospettiva scientifica. Una volta dentro la casa del «paziente», trascinato dai congiunti nella «camera» intasata di fumo del «giovane», il dottore intuisce rapidamente che il «paziente seriamente malato», in verità, non è malato per niente. Invece, a quanto pare, almeno da un punto di vista medico, il ragazzo sta piuttosto bene. L'osservazione clinica indaga la materia, il corpo, Punico fenomeno che rende un individuo accessibile ad un esame medico effettivo. Il dottore, infatti, estrae dalla sua «borsa» gli «strumenti» per attivare le condizioni che gli avrebbero consentito di visitare ed osservare l'organismo del «paziente». La malattia riguarda la fìsiologia. Si potrebbe, in generale, considerare forse una malattia come un:l'alterazione dei processi fisico-chimici, omeostatici, mediante i quali !>organismo preserva il proprio equilibrio dinamico con r ambiente. Il medico, però, coglie che il malessere del «paziente» non ha una causa diretta nel modo in cui funziona il suo organismo. I processi fisico-chimici che rispecchiano il corpo del «paziente» come oggetto osservabile lavorano nella nonna. Il corpo del malato è «sano». Il «giovane», tuttavia, nonostante la buona salute sta male e mostra i sintomi del proprio dolore. Kafka sembra indicare il margine che pennette di distinguere una malattia da uno stato di dolore che non abbia nessuna causa tracciabile nell:l'organismo della persona afllitta. La malattia concerne il corpo e può venire accertata, in ultima istama, esclusivamente mediante un>indagine diagnostica della fisiologia dell:11organismo che si trova nelle condizioni awertite dal paziente come i sintomi prodotti dalla patologia. La scien-
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za e la specifica disciplina medica, naturalmente, lavorano in conflitto costante con i propri variabili limiti e talora possono mostrarsi non in grado di rilevare una situazione morbosa presente nell"organismo. Una malattia può progredire nel corpo inossetvata, sen7.a manifestare nessuna delle mutazioni patologiche che essa stessa sta provocando. In un caso tale, una malattia può protrarsi latente fino alla fine, rimanendo cosl invisibile allo scrutinio medico ed impercettibile dal malato medesimo. Il malato, dunque, potrebbe anche improvvisamente morire ed i motivi clinici del suo decesso rimanere comunque del tutto ignoti. Dolore e malattia sono condizioni non atipiche, in cui ognuno si può venire a trovare nel corso della vita, ma non risultano avere tra di loro una connessione necessaria. La malattia riguarda il corpo, quindi può essere diagnosticata realmente solo attraverso un"ossetvazione e un"analisi clinica dell"organismo. Un dolore la cui eziologia non dimostri cause organiche, invece, non è sintomo di una malattia. Un corpo «sano», inoltre, può anche divenire il segno dolente che esprime un"afHizione, senza che la fisiologia abbia nulla a che fare con le origini della pena. In realtà un dolore senza radici nell"organismo non può nemmeno avere delle vere e proprie cause, ma riesce ad essere indagato, eventualmente, soltanto dal tentativo di comprenderne le ragioni. Nella «camera» del «malato» di Kafka si svolge un dramma non connesso con lo stato di salute del «paziente». Il medico si accorge che per quanto riguardava la fisiologia «il ragazzo era abbastanza sano» e riflette che sarebbe stato forse più utile «buttarlo fuori dal letto con una spinta». Il male del «giovane» rivela cosl di avere una genesi elusiva, più complessa delle conoscenze che si possono ottenere tramite una diagnosi medica. Appena riposte le «pinze» nella «borsa degli strumenti», il dottore si trova a riflettere «in modo blasfemo».
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In casi come questi gli dèi sono utili, mandano il cavallo che manca, ne aggiungono anche un secondo data rurgenza, e per coronare il tutto elargiscono perfino uno stalliere.
La patogenesi dei sintomi accusati dal «paziente» non rivela cause di origine organica, dunque lo scienziato, cercando di cogliere la costituzione del malessere del «giovane», rivolge la sua attenzione ad un ambito che non è presente nel corpo del «ragazzo». I pensieri dell>uomo di scienza vengono attratti dal polimorfo magnete immateriale di racconti, credenze, narrazioni, pulsioni, che rende possibile all>animale che parla l>autopercezione cosciente del proprio esistere. La nebulosa di parole e forme, nella quale affiora l>esperien7.a degli animali umani, però, in quanto tale è del tutto assente nell>essenza fisica della natura. Vanimale che parla si ritrova allora attraversato da una contraddizione fondamentale. n corpo umano, come tutti gli altri organismi, consiste nella materia che lo costituisce. Il Husso di informazioni che configura il mondo interiore degli animali umani quando gli individui pensano e comunicano tra loro, al contrario, non ha in sé nulla di materiale ed del tutto astratto, intangibile, etereo. La presen7a della materia nega nell>organismo l>assen7.a di materia che differenzia la mente, e viceversa.
I processi mentali, al tempo stesso, sembrano esistere soltanto come un esito proiettato dalle funzioni organiche, mentre il corpo, d>altro canto, si rende conoscibile unicamente grazie all>attività dell>intelletto. Vunità corpo/mente riflette nel paradosso la propria endogena, controintuitiva dinamica. L>osservazione della materia che compone J>organismo, pertanto, non solo risulta possibile, ma si pro6la come la condizione necessaria che permette all>indagine medica di operare. I processi intellettivi, invece, essendo immateriali e contingenti nel loro svolgersi, sfuggono ad ogni tentativo di essere osservati direttamente. La stessa idea di "mente», una volta analiZ7.ata,
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evapora nel diramarsi di concetti che conferiscono alla parola "mente" un senso, peraltro ambiguo e confuso. Uattività cognitiva pare esprimersi, in effetti, nel Huire più o meno complesso di vocaboli, immagini, sensazioni, che si genera negli animali umani, mentre gli individui inventano, pensano, parlano, elaborando i frammenti dell'interazione che li connette tra loro e con l'ambiente cui appartengono. Ma l'interiorità viva di una persona- l'accadere dei processi nella loro reale, evanescente forma di esistenza - rimane inaccessibile ad un osservatore esterno. Il dottore di Kafka, nondimeno, non funge nel racconto come un protagonista dotato dall'autore dell'abilità particolare di riuscire a squadrare dalPinterno le proprie alchimie mentali. Uartista di Praga, all'opposto, imprime nel personaggio del medico la facoltà anomala di raccontare tra le pagine l'esperienza della sua peripezia professionale e psichica, mostrando, nel medesimo frangente, di essere anche lui, il dottore, la voce che narra come la sua storia, solo un esito indotto dagli andamenti che consentono il formarsi della narrazione. L'entità che parla consiste nei processi che rendono possibile l'espressione del proprio eloquio. Subito dopo avere volto, > e al loro ruolo nel nostro mondo fantastico ordito di parole, il dottore capovolge l'attenzione ed inizia a rimuginare su se stesso. «E solo ora - dice il medico -pensai nuovamente a Rosa; cosa dovevo fare, come potevo salvarla, come potevo toglierla dalle grinfìe dello stalliere, con un tiro di cavalli che non potevo controllare». Le parole edificano i ricordi e li assemblano, attivando nel presente la memoria del passato e la proiezione del futuro. Lo svanire dell'attimo assimila nel suo dileguare tutto quello che si affaccia nell'istante stesso. I pensieri, insieme alle diramazioni che li articolano, affiorano cosl nella scena della coscienza già attraversati dal loro stesso dissolversi.
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Il medico di Kafka non ha controllo alcuno sulle cavalcature che muovono il suo cocchio nel presente ininterrotto della sua esistenza. I «cavalli» usciti dal «porcile» sono «non terreni», si lamenta il dottore alla fìne del racconto, ma il «veicolo» affidato al loro traino, a cui gli animali sono aggiogati, invece è «terreno» più che mai. I «cavalli non terreni>> del dottore, però, non vengono dal cielo, non sono esseri celesti governati dagli «dèi», ma nemmeno si prospettano simili alle cavalle logiche che tiravano il carro di Parmenide oltre la «casa della Notte» sotto lo sguardo attento delle Figlie del Sole. I «cavalli non terreni» immaginati da Kafka sono alieni da tutto e da ogni cosa. Estranee a parole, simboli e concetti, avulse dalla materia, come dalPassenza di materia simulata dalPautopercezione nell>intimo della vita psichica dell~individuo, le «enormi creature», immediate, traversano Pistante nel modo più reale, senza comprendere, senza nessuno scarto. Il «veicolo terreno» del dottore, nondimeno, ha le proprie necessità. L'assetto delPanimale che parla nell~esistenza deve essere inteso, si muove nel tempo e nello spazio, non supera mai il limite dei suoi sensi, anche se si combina, in forme singolari, di elementi all~animale del tutto trascendenti. Nel racconto di Kafka, la radicale alienazione delle «enormi creature» si fa strada nell~animo del dottore mentre Puomo di scienza, nella «camera del malato», sta precipitando in una condizione di consapevolezza estrema e pericolosa. Il medico nella stanza del «giovane» stava ancora meditando sugli «dèi», su «Rosa» e sul losco «stalliere», quando i «cavalli» che «avevano ora in qualche modo allentato le redini, spinsero le fìnestre da fuori e le aprirono». Non si sa come, ma le «enormi creature» erano riuscite a fìccare «la testa ognuna in una finestra e, del tutto indifferenti alle grida di spavento dei familiari, stavano Il ferme a guardare il paziente». Pensando che i «cavalli» lo stessero chiamando per «il viaggio di ritor-
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no», il dottore riflette allora che in effetti a questo punto era «meglio tornare indietro immediatamente». La narrazione non evolve, però, seguendo la logica consequenziale, che lega le cause con gli effetti e la volontà con }>atto. Nella «camera del malato» agisce una coerenza insolita che pennette ai pensieri di generare pensieri e alle possibilità di diffondere un numero indefinito di possibilità ulteriori. La scena gravita intorno al letto del «paziente» e la situazione si svolge in un modo che contempla la simultanea presenza dei contrari ed un agire opposto alla direzione ed alla forz.a deU'intento che anima il soggetto che conduce Pazione stessa. Proprio mentre stava decidendo di andarsene da Il al più presto e di ritornare da dove era venuto, il medico concede alla «sorella» del «paziente» di togliergli la «pelliccia» e si accinge quindi a restare nella stanza intasata di fumo del «malato». Il padre del «ragazzo» si fa poi incontro al dottore e gli dà un tocco gioviale su una spalla, porgendogli un bicchiere del suo prezioso «rum». n medico scuote la testa e rifiuta, per }>unico motivo che «nei confini angusti dei pensieri del vecchio uomo si sentiva male». La «madre» del «giovane» prega il dottore di avvicinarsi al figlio. n «medico acconsente». Ma appena il dottore appoggiala testa sul «petto del ragazzo», «mentre uno dei cavalli nitriva rumorosamente verso il soffitto», il «giovane» rabbrividisce «al contatto con la barba umida».
Le stesse forze che plasmano le figure e tengono insieme il tessuto narrativo sono attraversate da tensioni ad esse opposte, le quali minano il comporsi delle immagini che emanano dalle parole. Il dottore di Kafka veicola nel racconto il processo che produce vocaboli, pensieri, visioni. Si origina cosl tra le righe un effetto paradossale. Quanto più il dottore affonda nel suo inesbicabile groviglio interiore, tanto più egli viene proiettato fuori di sé, nitido, negli stralci instabili di linguaggio che si formano nella nostra mente mentre leggiamo le parole con cui il medico narra la propria storia.
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Un passo ancora e lo iato incolmabile che separa l'interno dall'esterno, il percepire dal percepito, il fenomeno dall'orizzonte negativo aperto dal concetto di "cosa in sé", scompare. Il dentro coincide dunque con il fuori e viceversa, in una distinzione intangibile, che tuttavia permane e prende vita originale in ogni esperienza. La parte finale della storia evolve in un modo che forse merita una particolare attenzione. L'uomo di scienza viene progressivamente spinto dall'incedere degli eventi nella narrazione a condividere, appena prima del termine del racconto, il epilogo della storia, la prossimità tra il medico ed il «giovane» si fa sempre più intima. Mentre «i due cavalli nitrivano insieme», emettendo un «rumore» che il dottore, con una frase sibillina, dice di supporre fosse stato «ordinato dal cielo per assistere» il suo ulteriore «esame del paziente», il medico scopre alla fine «che il ragazzo era proprio malato». Non solo, ma «una ferita aperta, grande come il palmo di una mano» piagava il corpo del «ragazzo» nel «suo fianco destro, vicino all'anca».
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Riportiamo la descrizione della «ferita». Un''immagine tramite la quale il dottore inventato da Kafka rende il lettore partecipe di un dramma che in effetti lo può riguardare non meno di quanto tale rivelazione affligga, nel racconto, il medico stesso, il «giovane» ferito e le «persone» a lui vicine. Rosa-rossa, in molte variazioni di sfumature, scura nelle cavità, più chiara ai bordi, soffusamente granulata, con grumi irregolari di sangue, aperta come la superfìcie di una miniera alla luce del giorno. Cos} sembrava da una certa distanza. Ma ad un'ispezione più ravvicinata sorgeva un'altra complicazione. Non potei trattenere un sommesso fischio di sorpresa. Venni, grossi e lunghi come il mio dito mignolo, essi stessi rosa-rossi e macchiati di sangue, si divicolavano dal loro rifugio nell'interno della ferita verso la luce del sole, con minuscole teste bianche e molte piccole :zampe. Povero ragazzo, non ti si poteva più aiutare. Avevo scoperto la tua grande ferita; questo fiore nel tuo fianco ti stava distruggendo.
La «ferita» affiora tra le parole del dottore come una piaga
simbolica. Non potrebbe essere diversamente, d"altronde. Le parole non sono cose e rinevitabile essere cosa della parola stessa - il modo in cui si configura il substrato fisico che abilita il formarsi di un vocabolo - non è una parola, ma viene concepito il più delle volte come un mero accidente dell"organismo. L"immagine della «ferita» raffigurata dalle parole del dottore rappresenta, dunque, simboli. Un registro in cui paiono agire i simboli che prendono vita nell"immagine della «ferita» è quello della sessualità, figurata come grembo, culla, cruccio, poi infine, sepolcro della vicenda umana. La «ferita» a prima vista, «da una certa distanza», appare «Rosa-rossa», dice il medico. Ma «Rosa» risulta essere anche il nome della «domestica» del dottore. La «ragaZ7.a», nella scansione di tempo in cui accade il racconto, si trova ora alla mercé dello «stalliere», il «bruto» balzato fuori dall"uscio fatiscente di una «porcilaia». Un luogo inaccessibile, un «porci-
le» inconscio, che il medico non avrebbe mai pensato potesse profilarsi nella propria interiorità regolata e temperata da abitudini e metodo, riversando cosl anche nella vita del suo accostumato villaggio le esuberanze recondite che abitavano }>antro. «Rosa», confessa il dottore, «aveva vissuto nella mia casa per anni senza che quasi mi accorgessi di lei». Adesso, inaspettatamente, il torpore dei sensi era stato sconvolto ed il medico aveva dovuto «sacrificare» la sua «domestica». La «ragazza» era stata abbandonata, preda della libido dello «stalliere», durante il turbinio di energia vitale fuoriuscita dal «porcile». Le entità sbucate dalla «porta» della «porcilaia» hanno riattivato }>esistenza del dottore in pochi istanti. Il «bruto» ha ridestato lo scienziato dallo stato di inerzia in cui era caduto dopo la morte del suo «cavallo», mentre le «enormi creature» con «fianchi poderosi» hanno proiettato in un lampo il dottore nel «villaggio» del suo «paziente». Il vortice di vitalità scaturito dal «porcile», al tempo stesso, stava ora precipitando tuomo di scienza in un>introspezione destinata turbare il suo affidabile mondo vigilato da un>accreditata routine. Osservando la «ferita» dischiusa come un «flore» sul «fianco destro» del «ragazzo», il medico di Kafka awerte, non solo J>inaffidabilità delle proprie certezze, ma anche la fragilità dei simboli e }>emergere della loro crisi. Il corpo leso, quindi, non è }>organismo, il corpo fisico, del «ragazzo». L>indagine medica condotta dal dottore con il supporto dei suoi «strumenti» aveva diagnosticato, infatti, che «il ragazzo era abbastanza sano, qualche piccolo malessere dovuto alla sua circolazione, saturata con il caffè dalla sua premurosa madre, ma sano e sarebbe stato meglio buttarlo fuori dal letto con una spinta». Costretto dai familiari e dal persistere dello stato di prostrazione del «giovane» nonostante la sua buona salute, il dottore sposta allora la propria attenzione sulle parole,
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i simbo~ i racconti, che alimentano r economia di quello che accade nell''interiorità cosciente di un individuo. La «ferita» scoperta dal medico si apre, pertanto, sul «fianco destro» di un corpo immaginario, concepito nello svolgersi di un'analisi della psiche. In altri termini, si potrebbe forse anche dire che la «ferita>> dei simboli incide un corpo astratto, tratteggiato mentre si indagano gli artlnci del linguaggio e r emergere delle forme, nell'assenza di materia inventata dalranimale che parla mediante ruso delle parole. In ogni caso, rironia di Kafka filtra dalla descrizione della «ferita».
Una piccola danza di simboli sessuali anima I"immagine della «ferita>> dipinta dal dottore. Il colore della piaga, «rosa-rosso», con le sue «variazioni di sfumature», rende già il movimento, insieme alla forma cava, «grande come il palmo di una mano». Affiorano inaspettate tra le parole le fattezze poetiche, immagininche, di una sorta di vulva, più «scura>> al suo interno, ma rivolta all'esterno, «aperta», come la «superficie di una miniera alla luce del sole». Abitata, in modo geniale, ma nemmeno troppo sorprendente, da «vermi», anch'essi «rosa-rosso», simili a modesti falli guizzanti, che con le testine bianche e le loro numerose zampette annaspano, dal «rifugio» nel fondo dell'alveo della fistola doverano annidati, «verso la luce». Con un'abilità vetriolica, Kafka contrae nella descrizione della «ferita>> millenni di fallocrazia e patriarcato. Il medico, nondimeno, nella «camera del malato», incontra un problema più fondamentale del dissesto provocato dai danni prodotti da secoli e secoli di miti imbracciati in modo strumentale dagli apparati di potere. Vuomo di scienza si accorge che la «grande ferita» incisa sul «fianco» del «ragazzo» era un «fiore» letale e lo «stava distruggendo». Non c'era più rimedio. La «ferita>> simbolica descritta dal dottore di Kafka avvisa che i simboli hanno perduto la loro magica malia e non sanno più evocare. L'efficacia dei simboli dipende dalla loro capacità di
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irradiare un riflesso sensibile da delle suggestioni, facendole cosi sembrare, nella percezione degli individui, dotate di una consistenza che non dipende dall'effetto prodotto dal potere evocativo dei simboli stessi e dal loro utilizzo. La prospettiva scientifica debilita l'espressività dei simboli in due modi. In primo luogo, le indagini della scienza consentono, con una tendenza progressiva, interventi diretti sull'organismo non necessariamente mediati dal linguaggio nelle sue forme fìgurative e verbali. Tecnologie sempre più accurate si mostrano in grado di generare e modulare nel corpo sensazioni impossibili da ottenere tramite le proprietà fascinatorie dei simboli. Poi, ad un livello di profondità maggiore, il procedere della scienza permette di comprendere che l'ordine simbolico è parte di un network di comunicazione che connette tra loro gli animali umani, configurandosi, in un modo ogni volta originale, soltanto nelPautopercezione degli individui coinvolti nel trafficodi informazioni. Nell'universo esterno all'esperienza degli umani non esistono parole e la rete di nessi, lo spazio logico, l'ambito avviato e pervaso dal senso, l'intero nostro mondo, sono semplicemente assenti. I simboli, dunque, che alludono inevitabilmente ad un altrove e fingono sempre una sostanza, senza mai riuscire a spingersi, però, oltre la fìnzione, dimorano ora malconci, awerte Kafka, nella «ferita» che afHigge l'interiorità evanescente dell'animale che parla.
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Nel Letto di Morte
«La famiglia era soddisfatta». Il dottore aveva :finalmente snidato il male. NelPeuforia generale il «padre» del «paziente» invita nella stanza del figlio «numerosi ospiti», i quali fanno il loro ingresso e passano attraverso la «luce della luna>> che illuminava la «porta aperta» avan7.alldo «sulle punte dei piedi, tenendosi in equilibrio con le braccia tese». La circostanza, tuttavia, viene del tutto fraintesa dai congiunti, dagli «ospiti» e dallo stesso «giovane». Il medico racconta che «il ragazzo, con un singulto, completamente accecato dalla vita dentro la sua ferita>>, gli chiese con un filo di voce: «Mi salverai?». Vincomponibile differenza nei rispettivi concetti che distingue un miracolo da una terapia sfugge alla comprensione delle «persone» convenute nella «camera del malato».
Le «persone», riflette il medico sconcertato, «hanno perduto le loro antiche credenze», cosl adesso si aspettano che il dottore sia «onnipotente». Ad un tratto, senza un motivo esplicito, la situazione si fa convulsa e precipita. Attorno al letto del «giovane» il gruppo dei sodali giubilanti si trasforma all'improvviso in una piccola folla inferocita. «La famiglia e gli anziani del villaggio - riferisce il
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medico - vennero e mi strapparono i vestiti di dosso». Davanti alla «casa» del malato, nel frattempo, il «coro di una scuola» iniziò a cantare «queste parole su una melodia semplicissima»: Spogliatelo, allora ci guarirà, Se non lo fa, uccidetelo! Solo un dottore, solo un dottore.
Lo scienziato, nudo, sempre più perplesso, rimase lo stesso «composto e idoneo alla situazione». La torma eccitata afferrò il medico «per la testa e per i piedi» e lo sdraiò sul «letto» del malato, «vicino al muro, dal lato della ferita». Uscirono tutti dalla stan7a, «il canto si fermò; nubi coprirono la luna». Il dottore ed il «ragazzo» rimasero soli nella «camera». «Le teste dei cavalli nelle fìnestre aperte ondeggiavano come ombre». Steso sul medesimo giaciglio su cui era coricato il «giovane», il medico si ritrova in una specie di zona germinale del proprio esistere. La scena colloca il lettore all"intemo della dinamica interiore dell"uomo di scienza, dove la storia inventata da Kafka ha una genesi che prende la sua inedita forma particolare, d"altronde, solo nell"autopercezione del lettore stesso. I simboli, dunque, tramite il racconto, rivelano la loro «ferita» direttamente, senza veli, nell"identica costituzione narrativa che compone }"interiorità del dottore e quella di chi legge la sua enigmatica awentura. Il dottore è il malato. Ma a differenza del «giovane» sdraiato insieme a lui nel «letto», lo scienziato percorre una via inaspettata che lo porta a capire che il suo male, come la «ferita» del «ragazzo», esprime simboli. Il corpo è «sano». Se anche fosse affetto da una patologia, comunque, }"organismo potrebbe essere probabilmente curato e guarito. In un futuro non troppo inverosimile, l"efficacia della sinergia tra scienza e tecnica potrebbe forse garantire all"organismo, ovviamente senza renderlo immune dalla morte, almeno un"apprezzabile salute per tutta la durata del suo funzionamento.
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I simboli, invece, non si possono sanare. La sola idea di una terapia diretta ad ottenere una qualche salute dei simboli e del loro impiego è sinistra. La «ferita» dei simboli immaginata dall"artista di Praga lascia affiorare tra le parole, non solo l'incognito, in quanto percezione che genera l"ordine simbolico come possibile, ma anche la «ferita» stessa come cruda risorsa. Il «giovane», costretto a dividere il proprio «letto di morte» con il dottore, nei suoi ultimi istanti si rivela sorprendentemente lucido e caustico al riguardo. «Una bella ferita è tutto quello che ho portato nel mondo», mormora il «ragazzo» al medico steso vicino a lui, «quella è stata la mia unica dote». La relazione tra il «giovane» ed il dottore si mostra tanto inti-
ma quanto densa di asperità. Il «ragazzo», trovandosi il medico accanto nella branda, reagisce aspramente. Il dottore riporta nel racconto le prime parole che il «giovane» gli rivolse quando si ritrovarono soli nella «camera». Sai - disse una voce nel mio orecchio - ho pochissima fiducia in te. Perché, sei stato solo trascinato qui, non sei venuto di tua volontà. Invece di aiutarmi, tu mi blocchi sul mio letto di morte. Quello che mi piacerebbe fare di più è strapparti gli occhi.
Lo scienziato non obietta, anzi conviene con il «ragazzo» e risponde che era proprio una «vergogna». Ma lui era un dottore. Cosa doveva fare? Il medico prova anche a recepire la prospettiva del «giovane», suggerendo poi una visione ulteriore. Mio giovane amico - dissi - il tuo errore è che non hai una veduta abbastanza ampia. Io sono stato in molte stanze di malati, dappertutto, e ti dico: la tua ferita non è cos} grave. Fatta con due colpi d'accetta ad angolo acuto. Più di qualcuno porge il suo fianco e a stento riesce a sentire l'ascia nella foresta, ancora meno che gli sta arrivando più vicina.
Il «ragazzo», titubante, fatica a credere e non è in ~do di capire, ma non ha alternative, cosl chiede al medico: «È pro-
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prio cosl, oppure mi stai ingannando nella mia febbre?». La spiegazione della «ferita» presentata dallo scienziato non convince il malato e pare non funzionare. L"unica confusa nozione espressa dal dottore sembra essere che la «ferita» del suo «giovane amico», in realtà, non è anomala per niente e molti, anzi, offrono il «fianco» spontaneamente per riceverla, senza neanche rendersi conto di quello che sta accadendo. La prospettiva scientifìca, per sua indole, dovrebbe chiarire, fornire dati, apportare conoscenza, dimostrare, spiegare. Le spiegazioni, però, non sempre sono possibili. Inoltre, quando si approcciano le turbolenze che inquietano ]"animo inosservabile di un individuo, anche il mero tentativo di spiegare appare inadeguato. n dottore, nondimeno, guidato dal rasoio speculativo di Kafka, lascia trapelare dal suo apparentemente sommario ed improbabile suggerimento al «ragazzo» un"intuizione valida. La «ferita» dei simboli, incisa nel corpo astratto del suo «giovane amico», non è atipica, non è indice di malattia, ma affiora inscritta nell"inedita natura dell"animale che parla. Una «ferita» cosl naturale che «più di qualcuno porge il suo fianco», candidamente, senza nemmeno accorgersi che il colpo fatale sta arrivando.
Alla fine il medico risponde alla domanda che gli aveva rivolto il suo «giovane amico» chiedendo al «ragazzo» un atto di fede. L"unica credenziale che il dottore offre al «giovane» per indurlo a credere è il prestigio del suo ruolo e della sua professione. «È proprio cosl- disse il dottore -prendi la parola d"onore di un medico condotto». Il «ragazzo» accettò la parola del dottore e «giacque immobile».
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Io Vago Randagio
Il «tempo» per «fuggire» da quella palude era dawero arrivato. Non c>era un attimo da perdere. Raccolti in fretta i suoi «vestiti», la «pelliccia», la sua «borsa», il medico si accinge a partire. «Se i cavalli corressero veloci come ali>andata - pensò il dottore - dovrei essere catapultato, come dire, fuori da questo letto nel mio». Un «cavallo», come avesse captato il frangente, «si tirò indietro dalla finestra». In tutta velocità, il medico lanciò il suo «fagotto nel calesse», la «pelliccia» stava cadendo, ma fu «presa al volo». Il dottore saltò in groppa ad un «cavallo» malamente allacciato all>altro, le «redini penzolavano lasche», il «calesse» seguiva dietro traballando e la «pelliccia» alla nne di tutto strascicava «nella neve». fl dottore ripeté convinto il medesimo segnale con cui lo «stalliere» aveva spronato i «cavalli» fuori dalla «porta>> del «porcile». «Arri!», gridò. Ma non ci fu nessun «galoppo». Nel racconto, nno ali>epilogo, gli eventi procedono in una direzione opposta alle propensioni palesate dai personaggi. «Lentamente, come vecchi - dice il dottore - ci trascinavamo attraverso le lande innevate». In lontanan7.a, intanto, risuonava ]>eco di una «nuova, ma fallace canzone dei bambini».
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Siate contenti, tutti voi pazienti, Il dottore è steso nel letto con voi!
La «canzone dei bambini» non poteva essere più sbagliata. Nel «letto di morte» del «paziente» si è chiusa un"epoca. La prospettiva dello scienziato aveva sostituito }"immaginazione escatologica del malato che anelava alla salvezza. Lo sfondo psichico dell"animale che parla si era trasformato. Il «dottore» non è più «steso nel letto» con il «paziente». Il medico, d"altra parte, era stato attraversato dalla tragedia del suo «giovane amico» e la sua strada nella vita si fa cosi molto più complessa e perigliosa. Il prezzo del conoscere non è affatto marginale. Ad ogni vantaggio acquisito, infatti, corrisponde }"incremento impietoso della consapevole percezione della propria naturale irrilevanza. Il mondo di parole, la narrazione in qualsiasi forma, sorge come un"invenzione tutta nostra e riuscire a creare una trama interiore, frammentaria ed agile abbastanza da non risultare delirante, sembra essere ora il problema. «Non rawungerò mai casa di questo passo - si arrovella il dottore - la mia fiorente professione è finita; il mio successore mi sta derubando, ma invano, perché non può prendere il mio posto». Kafka, non solo studia la tradizione, ma vaglia le "epoche cosmiche"" del narrare con il fiuto e la sensibilità dell"animale. L"accenno alla figura di un «successore» del «dottore» richiama alla mente la parte finale del Nuovo Awocato, dove l"artista di Praga nota che adesso «molti portano spade, ma solo per brandirle, e l"occhio che cerca di seguirli resta confuso». In un modo analogo, il «successore» di cui parla il dottore sembra destinato a brandire, al posto di una spada, una funzione, una professione. Nessuno, però, indica «la via». Una "direzione"" da seguire non si può trovare, per il semplice motivo che non esiste un "luogo"" dove "arrivare". Il medico di Kafka si inoltra in un percorso diverso dall"itinerario intellettuale indagato dal destriero di Alessandro, divenuto
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un avvocato. Il tragitto del dottore, al tempo stesso, si mostra del tutto complementare alla rotta esplorata da Bucefalo. Le due figure sono parte di un medesimo sforzo speculativo, tracciato da Kafka per espandere rmteriorità generata dall'animale che parla tramite tuso delle parole. Il dottore, suo malgrado, affronta la realtà di petto. Strano a dirsi di un personaggio che sonda fino in fondo la propria fragilità. Oppure è vero esattamente il contrario: senza investigare la realtà nuda e cruda, nella sua istantanea presenza, diviene forse impossibile avere una dimensione della propria inconsisten7.a. Nudo, esposto al gelo di questa epoca infelicissima, con un veicolo terreno, cavalli non terreni, vecchio uomo che sono, io vago randagio.
Uenergia vitale sprigionata dai «cavalli non terreni>> qui non ha più l'aspetto della combustione continua, immediata, conforme ali'esistenza, schi7.7ata fuori dal «porcile». Ora l'energia indefinita delle due «enormi creature» esprime una condizione del reale più fondamentale. Il tempo dissolve. Il presente si contrae, insieme ai suoi orpelli passati e futuri, in un unico gesto interminabile. Ogni minimo movimento resta «randagio», sell7.a fine. L'esposizione consapevole e ininterrotta nell'assen7.a per creare quello che ancora non esiste richiede un dispendio di energia notevole. I «cavalli» del dottore, alieni, «non terreni», dunque, continuano a svolgere indubbiamente un inaudito e incessante lavoro. La trappola tesa da Kafka al lettore, tuttavia, scatta nell'ultima frase del racconto. Tradito! Tradito! Una volta risposto al falso allarme del campanello notturno [ ... ] non c,.è più rimedio.
Come dire, una volta assecondata la malia del mistero effusa da un suono nella notte, le parole poi fanno il resto e alludono,
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per logica interna ed implicita necessità, ad un mondo dietro al mondo, a qualcosa di recondito da svelare, ad un senso da scoprire, ad una plausibile ragione per tutto. Ma noi, appunto, da tempo immemorabile abbiamo ceduto a questo sortilegio endogeno ed autoindulgente. Adesso, se Kafka ha ragione, ormai siamo ubriachi di parole e forse anche per noi «non c,è più rimedio». Sarà dawero meglio «fare come ha fatto Bucefalo» e «leggere e voltare le pagine» scritte da maestri, antichi e no, per almeno provare a non smettere di imparare.
Smerillo, 10-09-2022 E.A.
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Di una irrinunciabile inconsistenza Enrico Arduin: in bilico, tra Omero e Kafka Postfazione di Massimo Donà
Ad un certo punto di questo teso e coraggioso lavoro - essenzialmente e radicalmente metafisico-, Enrico Arduin ci ricorda come, se per un verso e non di rado, nelle guerre dell,antichità (come quella narrata dall,Iliade), ragioni ideali e ragioni materiali ebbero a contrapporsi in modo non poco confuso, resta comunque inconfutabile che un certo numero di guerrieri queste sfide mortali riusciva a viverle ponendo al centro una vera e propria questione di oolore. Tanto radicale quanto (come vedremo) assolutamente paradossale. Se cioè la volontà di ristabilire l'integrità dell,onore di Menelao (re di Sparta, la cui moglie era stata sedotta da Paride, figlio di Priamo, il re di Troia) sembra costituire il vero e proprio movente dell,attacco alla città di Ilio, la lega militare impegnata a realizzarlo è tenuta insieme da accordi di natura anzitutto economica. Che riguardano la spartizione del bottino di guerra; patti in virtù dei quali Criseide era stata consegnata ad Agamennone. Il fatto che poi egli sia stato costretto a restituirla (per placare le ire di Apollo - s,era infatti dimostrato disposto a liberare la giovane che gli era spettata come bottino di guerra, a condizione che ciò potesse servire a placare le ire di Apollo e a salvare i suoi uomini dalla pestilenza), non lo
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avrebbero autori72ato a pretendere una sostituzione; anche perché la refurtiva era già stata tutta distribuita. Agamennone vuole sequestrare Briseide, e toglierla ad Achille; perciò impone al guerriero di sottomettersi alla sua (di Agamennone) supposta superiorità Oegittimata, secondo la tradizione, da Zeus in persona). Mentre Achille si muove sul filo delr'insubordinazione; e rende evidente come, ormai, di contro all'attitudine di Agamennone per l'abuso di potere, il dissidio tra il principe di Phthia e la cultura impersonata dal despota di Micene si sia fatto pressoché insanabile. Anche Tersite smaschera la prepotenza di Agamennone; considerando Achille uomo di gran lunga migliore del suo sovrano. Il fatto è che una crisi sempre più profonda stava debilitando la struttura dell"apparato di potere Acheo. Quella messa in scena dall"Iliade è insomma «l"awentura di un mondo scisso nella propria essenza» (supra, p. 67). D"altro canto, solo Achille avrebbe avuto il coraggio e la forza di ribellarsi. Achille non uccide il re, ma ingaggia una vera e propria guerra di parole; potente, inedita. . . comunque in grado di smontare !"universo dei Greci, in quel momento accampati su una spiaggia nei pressi di Ilio. Agamennone vuole andare di persona nella tenda di Achille a prelevare Briseide. Ma Achille, insieme a Diomede, Aiace e Odisseo ... non approva il principio economico che regola le guerre in quell"epoca (implicante la giusta distribuzione del bottino di guerra). D"altronde, erano Achille e pochi altri, a tenere «la questione del valore al centro della loro esistenza» (p. 101). Ma Achille, ribellandosi alle pretese dispotiche di Agamennone, non sta chiedendo il semplice risarcimento di un premio che gli sarebbe spettato. No, egli ha ben presente la contrapposizione tra la tradizione, o il potere dalla medesima legitti-
271 mato, e l"onore del singolo, owero la sua dignità di fronte alla morte. D"altronde, le parole di Sarpedonte, re della Licia, venuto in soccorso dell"esercito troiano, non lasciano dubbi: anche queste contrapposizioni hanno senso solo per gli umani. Lo scannarsi a vicenda che vede gli umani combattersi gli uni contro gli altri non ha senso alcuno. Perché nulla di ciò per cui gli umani sono disposti a mettere in gioco la propria vita è destinato a durare. Il fatto è che nulla "sta"; e dunque ha valore. Tutto, cioè, si lascia travolgere da un mutamento senza sosta, analogo a quello che anima qualsivoglia espressione della natura; una natura che consiste, di fatto, «semplicemente nel proprio stesso immediato mutare» (p. 103). Glauco lo dice con la massima nettezza: ogni singolo essere umano, come il fogliame della foresta, si fa assorbire dal Huire indistinto del tutto; quello in cui tutto nasce e muore senza scopo, sem.a direzione, sem.a principi. Lo sa bene anche Achille, che proprio per questo avrebbe potuto spingersi a smontare la pretesa solidità del mondo Acheo, fondato peraltro su una antichissima tradizione. Anche le grandi azioni degli umani sono del tutto inconsistenti; «la vita di un uomo non torna indietro» (p. 104), afferma il ribelle Achille. D"altronde, le grandi azioni degli umani disegnano un orizzonte narrativo solo in quanto qualcuno, ossia un individuo, si presti a riconoscerne il valore; un valore aperto peraltro solo dallo spazio dell"arte. Dalle narrazioni di cui è fatta }"Iliade, ad esempio.
Solo questo "vale"; sl, solo il soffio di cui è fatta J>opera d"arte. Per quanto si tratti di pura inconsistenza priva di effettivi contatti con il reale. Struttura valoriale che sussiste solo in virtù del canto del rapsodo; ma anche quest"ultimo, come tutto, rileva giustamente Arduin, è travolto dal destino della natura,
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e segue l inevitahile successione delle generazion~ che vanno e vengono, come le foglie degli alberi. D altro canto, Sarpedonte lo dice chiarissimamente: il nostro unico sogno è vivere in eterno; anche perché, se vivessimo in eterno, non avrebbe senso alcuno combattere in prima linea. Ma solo se vivessimo in eterno, per rappunto. 7
In questo caso, infatti, che senso avrebbe meritare la fama? Si tratterebbe di una folle stupidità.
D fatto è che, comunque, tutti gli umani muoiono. Da cui la contingenza assoluta di tutto; condizione intrascendibile cui appare sottoposto ogni essere umano. Ed è proprio nei momenti culminanti della battaglia che la realtà si mostra nuda e cruda per quel che essa veramente è: caduca, inconsistente, insensata. Una sorte che accomuna tutti quelli che pur si combattono gli uni contro gli arti armati: quella che li costringe, tutti, cioè, ad esporsi al rischio della morte. O muoio io o muore !7altro; mors tua -vita mea. Se voglio vivere, devo eliminare il nemico: ecco il baratro di una desolazione assolutamente priva di senso. Insomma, è proprio sullo sfondo di questo caos universale che irrompe la possibilità delParte; ossia, le parole cantate dal rapsodo. Da intendersi come invenzione di un valore assolutamente virtuale; che, solo, peraltro, sembra in grado di contrapporsi al Husso inarrestabile che, di ogni cosa, mette in luce l insensata caducità, ossia la natura effimera ed assolutamente inconsistente. 7
Solo il valore generato dal rapsodo, infatti, sembra essere in grado di contrapporsi al destino di morte cui tutto appare sottoposto; ma lo fa, appunto, rendendo nello stesso tempo palese 17irrilevanza di quello che è da ultimo un puro vuoto. Pura mancan7.a di senso, cioè, come quella che caratterizza il reale tutto intero.
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Ed è proprio nel nome di questo valore assolutamente paradossale che Achille sfida Odisseo, Aiace e Fenice - gli ambasciatori inviati dallo stato maggiore acheo. Ossia, da Agamennone. Per Achille, infatti, la "vita"", la nuda vita, ha più valore di tutte le ricchezze possedute dalla città di Ilio. Il suo, infatti, è un valore, che, se lo perdi, non puoi recuperarlo, come accade invece con le ricchezze materiali - sempre scambiabili, vendibili e ricomprabili. Solo la vita, una volta perduta, non torna più indietro. Da ciò la sua natura irrimediabilmente effimera; che però supera tutta la ricchezza costituita da merci comunque scambiabili e quantificabili; e per ciò stesso paragonabili. Il fatto è che Achille paragona la vita (non quantificabile) alle grandezze quant:incabili; dando vita ad un paradosso assoluto. Sl, perché la vita non dovrebbe lasciarsi paragonare; non dovrebbe venire paragonata, proprio in quanto non quantificabile. Un maius, questo, che ricorda tanto l"inqualifìcabile superiorità che avrebbe caratterizzato il Dio anselmiano, e che si presenta già qui, comunque, come istituzione di un "paradosso assoluto"": che consente di valutare come non-valutabile, per !"appunto, la vita; la quale viene valutata in questo modo :eroprio in virtù di un paragone che tiene insieme l"inqualifìcabìle e l"orizzonte del qualificabile (tutta la ricchezza - la sfera dei valori che possono essere calcolati e determinati). Dove, il "di-più" conferito alla vita indica una quantificazione assolutamente paradossale, che costringe a rompere !"anello che avvolge la totalità del quant:ifìcabile. Un di-più, insomma, che rompe la catena dei meno e dei più. Un di-più, cioè, che equivale al meno. Un più che "non-è" un più. E che non ha il senso che ha. Che si distingue, cioè, senza distinguersi dall"insensatezza che caratterizza tutto il quantificabile e scambiabile (che, proprio in quanto scambiabile e tranquillamente sostituibile con qualsiasi altra cosa, non ha alcun significato, o meglio alcun valore
274 "specifico"); che si distingue da esso, dunque, solo in quanto si pone oltre il criterio della scambiabilità. Anche se, per far questo, deve istituirsi come non-quantificabile, ossia come non riducibile all>indifferenza che caratterizza le cose scambiabili, negando cioè che il di-più che lo pone al di fuori dell>universo della scambiabilità sia un vero e proprio "di-più>>··· analogo, cioè, a quello che dice la misurabiiltà caratterizzante le cose di un mondo sempre e comunque riducibile al quantum. Deve cioè dire che il proprio "di-più" non è un "di-più"; anzi, che tale più è identico al meno. D>altro canto, chi valuta in modo tanto paradossale la vita del!>essere umano è un individuo, un soggetto comunque inscritto nell>insensato Huire che tutto rende contingente e da ultimo inessenziale. Il suo è dunque un valore che non è un valore, rileva giustamente Arduin. Inestimabile, quindi, finisce per essere anzitutto il paradosso che fa di quel valore la stessa cosa di un non-valore. Decisione assolutamente arbitraria, cioè, quella di attribuire un valore assoluto a ciò che non dura, che è unico e non restituibile proprio per la sua contingenza assoluta. Perciò, rileva ]>autore di questo bellissimo volume, Achille si ritrova a indagare «il vuoto che pervade il "valore", incalcolabile, aggiudicato da un umano mortale ali>effimera "vita di un uomo"» (p. 112). Alla vita caduca viene assegnato un valore inestimabile; un valore che viene peraltro scorporato dalla vita che in verità appare irrimediabilmente caduca. Ecco perché la vita, scorporata dal "suo" valore assoluto, può anche terminare prematuramente; a "rimanere" essendo sempre e solamente la "gloria". Una fama che prevale separandosi dalla vita; la quale può anche
275 finire repentinamente, rivelando cosl tutta la propria costitutiva inconsisten7.a. D"altro canto, la vita cui Achille assegna un inestimabile valore (pur paradossale, in quanto connesso e insieme non connesso alla vita di cui dice appunto il valore) è la sua.
Achille, cioè, attribuisce un valore inestimabile a sé medesimo; alla propria assoluta contingen7.a. Alla propria effimera esisten7.a. A quella caducità che lo rende simile a tutti gli altri esseri umani; insomma, Achille attribuisce un valore inestimabile all"esistenza di ogni singolo individuo; in quanto ogni vita, nel terminare, non può certo tornare indietro. Ma gli uomini che vengono considerati come merce da Agamennone, in quanto suoi semplici sudditi, non sono depositari di una vita dal valore inestimabile; infatti, in quanto semplici sudditi, essi sono assoggettati ad un apparato di potere che li rende in ogni caso scambiabili e dunque mai realmente insostituibili. Non a caso Agamennone avrebbe voluto che anche Achille si adeguasse a tale sudditan7.a; che riconoscesse cioè }"incondizionato potere del sovrano. Ma Achille si ribella e (nel discorso che rivolge ad Agamennone per introdurre il suo grande giuramento) giunge ad affermare che anche il simbolo di quella sovranità (lo scettro, simbolo di un potere divino, indistruttibile, derivante dagli dèi) è solo un bastone senza vita; un pezzo di legno mozzato. Anche il suo valore è cioè tutto nella mente degli umani. Ma cos} facendo, Achille rompe il legame con !"orizzonte narrativo rappresentato appunto da Agamennone, e dal potere da quest"ultimo effettivamente incarnato. E disegna un vero e proprio "taglio""; un po" come quelli di Fontana; un taglio che parla di una scissione non solo autentica, radicale e assoluta, ma in quanto tale anche perfettamente irrimediabile.
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Ormai, la visione di Achille appare in tutta la sua inassimilabilità alla narrazione del potere rappresentato da Agamennone, e dall"assenso a lui riservato dai figli degli Achei.
Achille, cioè, non può sottomettersi alla logica del potere; egli non riesce a sottostare a quell'indistinto plesso che fa, di ogni discorso, "un'azione'". D"altronde, solo lui capisce che le parole possono anche rivelarsi fuorvianti; e contrappone alle medesime un discorso capace di distinguersi dalla menzogna che la società sembra non poter fare a meno di imporre agli umani, e di imporla come indistinguibile da una verità altra dalla medesima. Certo, Achille non può tirarsi fuori; sl, perché fa anche lui parte di quella società; anche contrapponendovisi, infatti, mostra di partecipare alle sue contraddizioni. Qualcosa, dunque, vincola e separa, in-uno, Achille alla società del suo tempo. Achille si ritrova solo sen7a potersi mai separare dalla società rispetto a cui si sente assolutamente avulso; il suo è cioè un isolamento ancora una volta paradossale. L"essen7.a del suo isolamento manifestandosi proprio nella semplice impossibilità di isolarsi. Achille nega il fondamento su cui poggiano i valori espressi dalla tradizione; perché ha visto il "vero'" - ci spiega Adam Pany. Perciò non può accettare il linguaggio comune; ossia, le doxae che sente non corrispondere più alla realtà. Eppure, la sua vita continua ad accadere nel mondo rispetto a cui si sente ormai totalmente estraneo. Egli, cioè, canta le grandi azioni degli umani; ma quelle vicende gloriose accadono solo nella sua mente. Il poema, infatti, è un oggetto mentale nello spazio virtuale in cui la guerra non è affatto. C"è quindi uno scarto incolmabile tra "fatto" ed "evento"; e il poema è un evento. Nessun fatto venendovi in
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verità assolutamente rappresentato; si tratta cioè di un evento che accade, repentino ed irripetibile, come la vita dei mortali. Non a caso, non vè materia in esso. E la forma affiora nella mente ... affiorando in quella proiezione immateriale del corpo a cui diamo il nome di mente. S}, perché, secondo Arduin, anche l"evento mentale nasce dal
corpo; anzi, si confì~ proprio come una proiezione immateriale del medesimo. È dalla materia che si genera, dunque, l"assolutamente immateriale. Ecco perché l"arte può varcare la soglia contingente dell"esistere e lasciare una traccia durevole nella mente dell"uditore; può farlo sol,o per il suo farsi immateriale. Solo cosl essa può infatti procurare "fama"" e "gloria""; e acquisire un valore - al punto da trasformare una contingenza assoluta nell"intangibile esperienza di un valore. Tutto questo, comunque, trova la sua defìnizione più radicale nel Libro XXIV dell"Iliade; dove il rapsodo coglie Achille e Priamo in una sorprendente intimità. Il padre di Ettore e !"iracondo Achille si contrappongono rendendo evidente una inguaribile inconciliabilità. Perché quella che finiscono per disegnare è una vera e propria opposizione
assoluta. Perciò i due si contraddicono come gli elementi antitetici di una vera e propria contraddizione logica; mostrandosi in ogni caso indispensabili, ognuno al proprio altro; in virtù di una connessione palesata dalla coerenza di un nesso che si mostra sub eodem perfettamente incoerente. Ecco perché, nello spazio logico disegnato dalla mente e dalla ragione, senso e mancanza di senso disegnano un orizzonte radicalmente insuperabile. Contraddizione e non contraddizione collidono e costituiscono una medesima possibilità di
278 senso, che sempre dovrà peraltro riconoscere la propria costitutiva e originaria insensatezza. Priamo era il padre di Paride, che aveva sottratto Elena a Menelao; maera anche il padre di Ettore,che aveva ucciso Patroclo. Achille rappresentava chi tutto questo stava per l''appunto combattendo; sia pur da estraneo, anche rispetto alla propria compagine militare. D,altro canto, anche i significati nascono da uno sfondo mobile fatto di sinapsi e circuiti neuronali del tutto privi di significato. Achille, insomma, combatte solo per vendicare Patroclo; e non come rappresentante di una tradizione o di un potere rispetto a cui si sente invero radicalmente estraneo. Egli combatte per un valore che non coincide con J>interscambiabilità sancita da un principio comparativo concepito in termini puramente economici. L'abilità di distinguere e confrontare, di paragonare, dunque, è essa medesima espressione dell,indistinto e dell,imparagonabile. Cosi come il valore assoluto e inquanttfìcabile della vita vive quale espressione dei movimenti insensati prodotti da uno scambio che rende e fa essere tutto equivalente. Ogni opposto facendosi espressione dell,assolutamente altro da sé. In ciò la radice della loro indisgiungibilità. Ma 1,antitesi tra Priamo e Achille non è solo "logica"; ma anche esistenziale. Da cui la contraddizione di cui essi costituiscono i poli (assolutamente contrapposti J>uno all,altro); ognuno dei quali, peraltro, funge da lugubre presagio per l,altro, e rende cocente il dolore per il lutto sublto. Eppure, tutto accade entro J>orizzonte disegnato dalla mente; Priamo e Achille sono semplici parole, rileva rigorosamente Arduin.
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Sono personaggi di un poema, di un,opera d,arte; per quanto, anche nella loro vita, ad esprimersi sia sempre e comunque «il mutevole processo di quella proiezione immateriale del nostro corpo che chiamiamo mente» (p. 158). Insomma, l"astrazione dice il farsi altro da sé della più afona delle materialità. In cui nulla signinca, eppure tutto sembra destinato a produrre },inconsistente signifìcatività che è propria anche dell,opera d,arte. Nonché le sue astrazioni concettuali. Il sacerdote Crise era stato maltrattato da Agamennone, che non voleva riconsegnare la figlia Criseide, mentre qui Achille accoglie Priamo con tutte le attenzioni del caso. Quest>ultimo, infatti, è venuto a chiedere la restituzione del corpo di Ettore. Ad ogni modo, !>iracondo Achille incarna una modalità di gestione del potere totalmente estranea e radicalmente incompatibile con i principi che governano le decisioni nell,universo degli Achei governati da Agamennone. Il bardo percorre un oceano di storie inventate, e rappresenta i due nemici uniti in un abbraccio che comprende le loro comuni lacrime. Unità indissolubile è infatti la loro; che è tale proprio in ragione dell'assoluta inimicizia che li contrappone ]>uno ali,altro. Paradosso dei paradossi. D,altronde, è la sorte di ognuno di noi a venire decisa dal!>estro di Zeus; mescolando gioie e dolori, infatti, la divinità estrae da due urne contrapposte (una contiene il male, l"altra il bene) gli inconciliabili ... e li confonde nell,animo di ogni essere umano (li confonde perché gli opposti assoluti non possono, in alcun modo, distinguersi). La mistura è ogni volta diversa, e dipende da una origine imperscrutabile che i moderni avrebbero definito "caso".
Anche qui, il destino di ognuno dipende da un gesto del tutto contingente, eventuale, da nessuno prevedibile o in qualche modo modincabile. Comunque, la percezione del dolore
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dell,altro unisce Priamo e Achille; eppure ognuno dei due è causa del dolore delPaltro. Insomma, essi si incontrano «nella dimensione liminale della loro alienazione dal mondo di cui fanno parte» (p. 167). Ognuno è causa del male dell,altro; ma sa anche di essere il suo semplice rovescio; allo stesso modo in cui le astrazioni concettuali o mentali sono il rovescio di dinamiche cerebrali del tutto estranee ali,ordine logico e mentale istituito dalle parole. E viceversa. La sorte di entrambi dipende da un semplice capriccio degli dèi; dall,estrazione del tutto casuale del bene e del male dalle due urne di cui sopra. E proprio la comune consapevolezza di tale arbitrio li fa sentire, proprio nell,opposizione radicale che li fa essere ognuno nemico del proprio altro, assolutamente fratelli. Espressioni di una opposizione tanto radicale da farsi capace di dire il medesimo. Ché, se l'uno è solo il negativo dell,altro, è anche vero che ognuno è quel che è solo in quanto dice l'altro da sé, sia pur negandolo. Negandolo, peraltro, sen7a sostituirlo con una determinazione diversa. Ognuno dei due, infatti, è dawero solo "negazione" dell,altro. Cosl come ogni parola e significato che il mentale riesce a comporre in un logos unitario e ordinato non sono altro che effetto del negarsi della natura elettrochimica di una realtà che non dipende certo dalla mente. Ormai Achille e Priamo assorbono in se stessi l'intero sfondo della saga; tutto si concentra nei corni di un,aporia che rende ragione di un anelito da sempre vocato a muovere gli umani verso i confini della totalità. Come la Macedonia non poteva contenere e bastare alle ambizioni di Alessandro (l,aveva capito anche il padre Filippo), cosl anche il mentale non può fare a meno di riconoscersi quale effetto del rovesciamento
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del materiale. E dunque non può evitare di oltrepassare una dimensione che nello stesso tempo continuerà ad impedirgli di varcare i propri confini. Il "logos non può fare a meno di riconoscersi oltrepassato da un alogos di cui nello stesso tempo dovrà riconoscersi effetto immediato. n~altronde, di cosa può dirsi negazione 1~a-logos, se non del "logos? Perciò queseulttmo si supera ab origine in un alogos di cui rimarrà comunque immediata espressione. E poi, dovel7alogos può manifestarsi come "negazione" se non là dove qualcosa come un "logos viene a costituirsi? Certo, nel nostro tempo nessuno osa più tracciare una via verso una meta irraggiungibile. Come fece Alessandro; volendo egli estendere i limiti «dell7impero macedone fino alle coste del Mare Esterno» (p. 34); sl da poter assoggettare da ultimo il mondo intero. Tanto da affacciarsi proprio sul nulla - cioè su nulla di esterno; guardando quindi ad una "destinazione veramente ultima~~. Ciò che nessuno oggi oserebbe più fare. Essendo venuto definitivamente alla luce il fatto che nessun limite può più dirsi realmente "ultimo". Essendo venuto in chiaro, cioè, che nessun limite può vincolarlo, il "tutto"; concetto per definizione in-condizionato. Mentre Alessandro poteva ancora immaginarsi di riuscire ad abbracciarlo, quel tutto; anzi, non poteva fare a meno di immaginarselo, e anzitutto per un motivo: per il fatto che ogni essere umano brama sempre e solamente di conoscere il vero; owero, ciò che può apparire solo là dove ogni cosa si dica insieme a tutto ciò che la de-termina. Solo in prossimità del vero, infatti, è possibile riposarsi; senza trovarsi costretti, da ultimo, a combattere finanche contro sé medesimi. Ma il tutto mai potrà apparire; Severino avrebbe detto: mai 1~apparire infinito può sopraggiungere nell~orizzonte dell~apparire finito. Perché,
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se apparisse, apparirebbe nella sua contrapposizione a "nulla''. Ma se si contrapponesse davvero al tutto, il nulla sarebbe. Se nulla si contrapponesse al tutto, il nulla non sarebbe nulla; ma sarebbe qualcosa. Anche solo il riflesso del ricercante. Quello con cui si sarebbe trovato a combattere lo stesso Alessandro. Arriano lo dice chiaramente, che, se non avesse trovato più nessuno contro cui lottare, Alessandro «avrebbe combattuto con se stesso» (p. 42). Insomma, un altro ci sarebbe sempre dovuto essere, per Alessandro; si fosse trattato anche della sua persona; in quanto altra da sé, e fattasi oggetto a sé medesimo. In ciò l'intrascendibilità di un orizzonte fatto tutto di alterità; e il farsi consapevoli del fatto che il valore incommensurabile è solo quello della vita; non della morte. Anche di fronte al nulla, infatti, Alessandro avrebbe continuato a riconoscere un nemico da combattere: sé stesso. Prodotto dall'ineludibile farsi altro da sé da parte della sua persona. D'altro canto, in quanto "altro" finalmente raggiunto, il nulla si sarebbe esso medesimo rovesciato in un altro essere. Da cui l'infinità del percorso, e una guerra senza fine. E la necessità di un oltrepassamento che, proprio volendo il tutto, vuole quell'assoluta alterità che, proprio in quanto assoluta (quale è appunto l'alterità del nulla), è destinata a dire la più radicale delle identità. L'identità tra Priamo ed Achille; tra mente e corpo; tra senso e non-senso; tra essere e nulla. L'identità che solo gli assolutamente opposti sono in grado di dire. Individui assoluti, dunque, Priamo e Achille, fendono la trama di una lunghissima tradizione; individui senza terra, senza casta, senza mito, rileva acutamente Arduin; essi sono l'unica condizione di possibilità di un vero e proprio nuovo inizio. Assoluto, incondizionato, irripetibile ... come la vita.
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D'altro canto, ogni determinazione positiva ha il suo rovescio; anche il tutto, infatti, ce l'ha - l'impossibile nulla che lo destina a non finire mai. A riconoscersi vuoto; assolutamente silente. Ché solo di silenzio è fatto il brusio che ogni cosa produce nel contrasto e nella corrispondenza anche polemica con tutte le altre. Come il canto delle sirene; che Arduin analizza sullo sfondo del rovesciamento operato da Kafka rispetto alla narrazione omerica. La potenza di un canto che travolge un'innnità di esseri umani ha infatti il suo segreto proprio nel silenzio; vera e propria arma fatale, come ben dimostrato dallo scrittore praghese. L"Ulisse kafkiano, insomma, non poteva che essere solo; assoluto, consegnato a sfidare il silenzio che mostra l'illusorietà di tutto quel che costituisce il molteplice esperienziale. Anche dei compagni di Ulisse, dunque. Per questo l'Ulisse kafkiano non poteva che svelare la propria vuotez7.a; la nullità di tutto quel che avrebbe dovuto metterlo in pericolo. Ulisse è un puro processo mentale; a cui non corrisponde nessun pericolo concreto ali'esterno, nel mondo reale. Perché lo stesso mondo reale ormai palesa il proprio costituirsi come prodotto di una semplice costruzione mentale. Creature puramente mentali, anche le Sirene, dunque; come l'artista del digiuno, che non è certo un asceta, rileva giustamente Arduin. Non è un dualista; non aborre il corpo per far emergere la potenza dello spirito. L"artista del digiuno vive ed ha senso solo per i suoi spettatori; esiste solo in relazione al costituirsi di uno stuolo di spettatori. Per questo la sua vera meta è costituita da un digiuno infinito; che peraltro gli viene costantemente sottratto dal padrone: l'impresario che non vuole che il digiuno comprometta la possibilità di far continuare il suo spettacolo.
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Il digiunatore avrebbe voluto continuare all>infìnito; nulla potendo limitare dall>estemo la sua scelta. Fermo restando che anche il suo show, come ogni prodotto della mente, sarebbe dipeso da «disposizioni più o meno complesse e transitorie della materia» (p. 189). Ma non perché siamo tutti convinti che la mente dipenda dal corpo; ossia, per il fatto che non si è mai vista una mente che non funzioni in quanto animata dal «Husso di una infinità di elementi, i quali solo nella loro continua combinazione assumono la forma degli atomi di senso necessari alla fabbrica del tessuto immateriale della coscienza» (p. 191). No; quello che tiene insieme mente e corpo è semplicemente quel legame di assoluta differenza che comporta }>impossibilità di determinare la loro stessa distinzione. Si tratta infatti di opposti assoluti. Come potrebbe quindi la mente uscire da sé, e toccare }>alterità del corpo? Come, se non "concependo" lo stesso corpo, che rimane dunque un concetto della mente, posto e riconosciuto come tale da una mente? E poi: come calcolare i processi mentali, owero i contenuti consapevoli della mente? Impossibile misurarli, calcolarne i Hussi e le dinamiche, come facciamo con le quantità misurabili immediatezza che solo il discorso avrebbe potuto riconoscere e signifìcare come !>assolutamente insignificante (anche se perfettamente calcolabile). Mentre il pensiero offline proprio degli esseri umani non riconosce alcuna realtà esterna; tutto costituendosi appunto come oggetto della coscienza per una coscienza. Tutto essendo oggetto di una consapevolezza che non lascia spazio adinconsci di sorta (necessariamente appartenenti, tutti, al pensiero online). Certo, alquanto problematico risulterà quindi far derivare le capacità connesse al pensiero offline da un mutamento nel pensiero online. Se è vero che > (p. 197), allora come, e in base a cosa, ipotiz7.are che «una fondamentale mutazione degli animali umani e del loro apparato comunicativo sia awenuta» (p. 198)? Come avrebbe potuto, cioè, il pensiero online trasformarsi e farsi pensiero offline? Come, se non in virtù di una semplice ipotesi del pensiero offline, che sembra non poter fare a meno di riconoscersi fondato su qualcosa che nulla può aver a che fare con i discorsi ed i fonemi ad esso familiari. Se i concetti e le loro diramazioni «non sono presenti nella natura elettrochimica della realtà, che non dipende dalla mente»
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(p. 200), da cosa potrebbe essere stata generata una trasfigurazione tanto radicale? Che il conoscere mantenga una radice nelle strutture 6siche degli eventi {le quali mai potranno accedere e farsi davvero riconoscere dalla dimensione immateriale propria delle correlazioni tra vocaboli) non può venire riconosciuto se non a partire dall>orizzonte disegnato da quell>immateriale che nulla può sapere, appunto, del puramente fisico; quello che si limita «ad eseguire le operazioni di computo previste dalle istruzioni impartite dai loro algoritmi» (p. 190). Eppure, J>immateriale familiare alla mente le presuppone; deve porle, cioè, come propria condizione originaria. Deve porle per il semplice fatto di essere in grado di riconoscere roriginaria insensatezza su cui si fondano ogni senso e ogni discorso ... sempre e comunque necessariamente vuoti. Ossia, del tutto privi di fondamento. E che nessun conflitto dell>Homo Sapiens avrebbe mai potuto giustificare. Nessuna materia avrebbe infatti potuto immaginare e sognare di muoversi contro J>impossibile. Perciò, forse, oggi - nel tempo delle infinite connessioni e delle sinapsi cerebrali - la mente rischia di rinunciare ai propri sogni. Perché troppo ingenuamente rischia di consegnarsi ai calcoli di un hardware; e nnisce per far credere che ]>intelligen7.a possa davvero emergere daJl>ordito 6sico della realtà. E non sia altro che ]>effetto di una evoluzione che «dall>organismo degli animali umani [avrebbe fatto emergere] individui articolati di parole» (p. 203). Se cosl fosse, come potremmo spiegare J>irrompere di sorprendenti creazioni mentali capaci di immaginare J>impossibile?
n salto, se è avvenuto, ha la stessa natura della sorte gratuita e casuale in base alla quale Zeus assegna ad ognuno il proprio destino; ossia non spiega nulla. E consegna quella che un tempo era la capacità di pensare J>impossibile (e che animava
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Alessandro il Grande) ad un semplice awocato; del tutto privo deU'inquietudine che aveva animato l"originario Bucefalo, il cavallo di Alessandro. Non a caso, affidato alle proprie creazioni mentali, l'awocato kafkiano, risolve il proprio universo mentale in una stanza senza limiti, ormai dimentica della necessità di un assolutamente altro. E dunque perfettamente identica ad un plesso di stimoli elettrici del tutto privi di un mito o di una tradizione da negare. Che scivolano, perciò, fluidi, nella dimensione senza materia e senza tempo di un semplice "racconto"". Proiezione diafana di un soggetto impegnato a comunicare; e a trasformare l'energia vitale in assenza di materia, e dunque in mondo interiore. Come quello che, nel racconto kafkiano analizzato al termine di questo itinerario da Arduin, fatica a definire il crinale mobile che distingue il vero dal falso o il senso dal non senso. Per quanto ne abbia bisogno; almeno per sopravvivere, infatti, ha bisogno di figurarsi quanto meno un frammento di stabilità. Per quanto ]"ambiente che lo accoglie (quel mondo interiore) non preveda il costituirsi di alcuna identità o permanenza. Esso è infatti costituito di sola energia; che ha continuamente bisogno di alimentarsi e rilanciarsi. Ma l'universo interiore dal medesimo di fatto ospitato e reso possibile potrebbe anche dimenticare la propria origine, la propria condizione di possibilità e crescere con le proprie certezze ... finendo per perdere ogni contatto con il miasma indomabile che, solo, può averlo alimentato. S} da dimenticare la propria essenziale funzione critica; e adagiarsi nella comoda bambagia costituita da una inquantifìcabile teoria di dogmi. La cui rigidità corrisponderebbe, peraltro,. alla rigidità del ghiaccio che ha ucciso il cavallo del dottore. Ossia, del medico di campagna che si trova bloccato in virtù del gelo provocato dallo stesso calore tiepido infuso dalla sua protetta realtà interiore. E da oggetti mentali che assumono di volta in volta
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la parveiml di oggetti materiali od oggetti immateriali. E che, per quanto prodotti dalle sinapsi neuroniche di un cervello decisamente materiale, si risolvono tutti nell"inconsisteiml di parole connesse tra loro solo da vincoli grammaticali, quali flgure senza corpo in relazione a cui il senso nnisce per obliare la propria origine paradossale. Potendo peraltro riverberare l"autentica energia che attraversa ed anima finanche le creature più evidentemente immateriali (come le enormi creature che sbucano fuori dal porcile); come quelle che testimoniano di costrizioni prodotte addirittura dalle più innocenti esigenze di signiflcato, e che reclamano sempre e comunque un "impossibile"", ma purtuttavia necessario, aggancio con il reale. Che è sempre difficile, faticoso ... e che destina il medico di campagna alla perdita di qualsiasi cognizione non nttizia di sé. Per quanto rendendolo capace di un"azione incomprensibile come quella di uno stalliere che finisce per mostrare l"equivalenza di falso e vero. Per mostrare, cioè, che la stessa «articolazione della verità affonda le radici nell"assurdo della propria stessa negazione, dove parole e pensiero agganciano }"esistere» (p. 225). Diventando un"unica possibilità di vita - come aveva avuto modo di capire Bucefalo, intento a sfogliare i suoi antichi tomi. Eppure, !"indomita e irrazionale energia che la coscienza del medico ha modo di "concepire"", descrivere e fagocitare nel vortice dei propri ragionamenti, è }"unico possibile teatro sul cui palco le parole del dottore possano farsi autentica forma di vita. E signiflcare; finanche !"istantanea presenza del corpo nella mente. Testimoniando un immateriale che neppure appartiene alla mente; ma che ha un unico impossibile compito - quello di traghettare i processi mentali attraverso il moto impossibile, immediato, del presente. Facendone }"immediata flgura di ciò che nessuna mente avrebbe mai potuto abbracciare con il pro-
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prio sguardo necessariamente oggettivante. Owero, di quella dimensione sen7.a materia in cui spazio e tempo perdono la propria consisten7.a fisica e matematica; in cui, insomma, non vè più direzione ... in cui non vè un luogo dove andare. Ma dove l>energia - come quella rappresentata dai due cavalli, ossia dalle enormi creature, alogiche e non terrene - consente di raggiungere la meta indipendentemente da ogni processo, ma anche da ogni ordine logico, e dunque da ogni seque117.a temporale. Di raggiungerla cioè nell>immediateZ7.a di un presente se117.a tempo come quello che catapulta il medico davanti all>alloggio del suo paziente sen7.a che alcun viaggio sia stato empiricamente compiuto. Ma anche qui viene a disegnarsi un>ennesima lJ'J!POsizione assoluta: quella tra le parole nel medico, owero dello scienziato, cioè tra la sua interiorità ... e il mondo esterno: emblematizzato appunto dal paziente, da Rosa, dal cavallo morto nella notte, dalla camera del malato, dal paziente. Vintimo da cui scaturiscono le parole nel suo animo, nel suo intimo si mostra appunto come una semplice "assen7.a". Come un luogo che non c>è; ma che affiora etereo e reale quale processo volto a generare anzitutto la propria stessa possibilità. A generarla dal nulla di senso che tutto sostiene e rende possibile; dicendo anzitutto se medesimo. O meglio la propria volontà di essere qualcosa; «figurando nella contingenza lo spazio ed il tempo necessari per il generarsi dei vocaboli e di un registro astratto dell>esistere» (p. 232). Per fare di ogni parola una storia, ed originare una sorta di nicchia nella materia cosmica; quella che chiamiamo appunto "narrazione", precisa Arduin. E che purtuttavia sperimenta- e non potrebbe farne a meno - il proprio ineludibile sfaldamento. Ossia, la trasformazione della storia in un semplice e «reiterato groviglio di rimandi, frammenti, risonanze di senso» (p. 233). Che rendono i diversi identici, ma lasciano nello stesso tempo in vita anche
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la loro differenza. Per questo il malato non è il dottore, ma il dottore può invece essere il malato. Vuomo di scienza, il medico, prova infatti un"autentica repulsione verso }"origine fosca e confusa in cui affonda le proprie radici }"immateriale di cui è responsabile la sua psiche; e dunque la sua stessa storia. La stessa in virtù della quale il paziente diventa un semplice specchio, destinato a mostrare allo scienziato la matrice fantastica del suo stesso sapere. Un sapere che ogni volta finisce per mostrargli che il malato non è affatto malato. Il medico, infatti, capisce bene che il malessere del paziente non ha una causa diretta nel modo in cui funziona il suo organismo. Eppure quello sta male; ma è quanto mai complesso distinguere una malattia da uno stato di dolore che «non abbia nessuna causa tracciabile nell"organismo della persona afflitta» (p. 234). In ogni caso, nessuna connessione necessaria tiene insieme il dolore e la malattia. Il ragazzo disteso sul letto è in fondo abbastanza sano. Il male del giovane, dunque, deve aver avuto una genesi ben più complessa; sicuramente non organica. Che deve aver avuto a che fare con quel polimorfo magnete immateriale di «racconti, credenze, narrazioni, pulsioni, che rende possibile all"animale che parla Pautopercezionecosciente del proprio esistere» (p. 236). D"altronde, }"universo di informazioni che confìgura il nostro mondo interiore non ha in sé nulla di materiale, pur costituendosi come semplice proiezione di un dinamismo totalmente organico e materiale. Sl, perché