K. Bucefalo e i cavalli del dottore 9788855293853, 9788855293921

Nel corpo, la sorta di “hardware” che proietta l’apertura immateriale che noi chiamiamo “mente” non esistono parole. L’o

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Italian Pages 302 Year 2023

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Table of contents :
Cavalcando con Bucefalo
Il Nuovo Avvocato
I Mito, Arbitrio e Legge
Bucefalo
Bucefalo e Alessandro
Le radici storiche dell’Avvocato Bucefalo
Alessandro e il miraggio indiano
Bucefalo, l’animale e il processo chiamato mente (1)
Il mito del Mito
Bucefalo, l’animale e il processo chiamato mente (2)
Il balzo metafisico
II Il Bardo origina la Forma
Omero: il mito come critica del Mito
Il Mondo in Pezzi: Achille e la Forma del Potere
Il morale della truppa
La Verità di Tersite
Achille, Atena e la guerra di parole
La prova di forza del Figlio di Atreo
Il Codice dei Guerrieri
Achille e il Valore
La Scelta di Achille e il Valore inestimabile
«Uomini senza valore» vs lo Scettro come Simbolo
Il Codice dei Guerrieri come funzione dell’apparato di potere
Il Linguaggio di Achille
Libro IX: Achille, Patroclo, la Lira e lo Spirito del Bardo
Libro XXIV: Priamo, Achille e la Contraddizione
III L’Animale che parla
Il Silenzio delle Sirene e lo Scudo di Ulisse
Arte e Digiuno
Parole e Materia
L’Invenzione del Tempo: fuori dalla «prigione del qui e ora»
IV Il Reale tra le Ombre
I Cavalli del Dottore
Il Tedio Gelido del Dogma
La Borsa degli Strumenti
I Cavalli Non Terreni e Lo Stalliere
Nella Camera del Malato
La Ferita
Nel Letto di Morte
Io Vago Randagio
Di una irrinunciabile inconsistenza
Indice
Zeugma
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K. Bucefalo e i cavalli del dottore
 9788855293853, 9788855293921

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Enrico Arduin

K. Bucefalo e i Cavalli del Dottore Prefazione di Gianfranco Bettin Postfazione di Massimo Donà

Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 31 - Proposte

Enrico Arduin

K. Bucefalo e i Cavalli del Dottore Prefazione di Gianfranco Bettin Postfazione di Massimo Donà

Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2023, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 31 - aprile 2023 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-385-3 ISBN – Ebook: 978-88-5529-392-1 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Massimo Donà, In sorvolo, per essere, non riuscendoci, disegno digitale

Il confronto costante con Angelika Riganatou, Massimo Donà e Gianfranco Bettin ed i loro suggerimenti sono stati determinanti per ideare e realizzare K. Bucefalo e i Cavalli del Dottore. Un riconoscimento particolare, inoltre, ad Alberto Ge­ novese, Antonio Viglietti e Giorgio Vianello, senza i qua­ li forse non avrei mai scritto questo libro.

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Cavalcando con Bucefalo Prefazione di Gianfranco Bettin

Chissà se, dopo essere stato il destriero del magno Alessandro e prima di mutarsi nel «nuovo avvocato» descritto da Franz Kafka nel primo dei Kleine Erzählungen raccolti attorno al 1920 sotto il titolo di Un medico condotto, chissà se prima di questa sagace metamorfosi, il mitico, l’arrembante Bucefalo, nel suo attraversare i secoli accompagnando lo Spirito della Storia di turno, non ha sorretto altre terga imperiali. «Ho visto l’Imperatore, quest’anima del mondo, uscire dalla città per andare in ricognizione. È una sensazione meravigliosa vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto, seduto su un cavallo, si irradia sul mondo e lo domina». Così Hegel, gran cacciatore di spiriti della storia, nella celebre lettera all’amico Niethammer del 13 ottobre 1806. Il «tale individuo» è ovviamente Napoleone Bonaparte, il quale, alla testa della Grande Armée, sta andando incontro alle truppe prussiane, che il giorno dopo sbaraglierà nella battaglia di Jena. Hegel non tarderà, poi, a dirsi deluso di Bonaparte, ma intanto. C’era Bucefalo, quel giorno, a farsi cavalcare dal provvisorio Spirito della Storia?

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Sarebbe stata l’ultima volta che cotanto Spirito andava a cavallo. Incombeva già il vapore, infatti, si profilavano rotaie, pompavano e stridevano e fiammeggiavano i primi opifici. Le enclo­ sures britanniche venivano formalizzate in atti (e cacciavano i millenari abitanti dei campi e dei boschi in direzione delle neonate città industriali e delle nuove fabbriche). Nasceva l’economia politica e vi s’incistava la finanza. Nuove terre e ricchezze venivano assicurate ai mercanti e alla Corona. La Compagnia delle Indie arrivava là dove proprio il magno Alessandro non era riuscito, e sottometteva quell’Oriente, e non solo, controllando terre, materie prime, merci e – soprattutto – armi. Registrando il tutto nel nuovo Diritto imperiale. C’era, dunque, gran lavoro per avvocati e notai. Fu lungimirante, Bucefalo. Nessun culo imperiale si sarebbe mai più appoggiato su un cavallo, per far avanzare lo Spirito della Storia, e depredarne le vittime. Dopo Waterloo finisce il tempo dei condottieri che sono anche costruttori di Imperi. Gli Imperi viaggeranno ancora per un po’ sulla spinta delle grandi armate per poi esprimersi con le Grandi Armi: cannoni, mitragliatrici, carri armati, l’aviazione, i droni e, su tutto, la Bomba, l’arma assoluta nelle sue varie e sempre più perfezionate e annichilenti versioni, lo scheletro armato che sorregge l’impalcatura economica e il metabolismo mercantile e finanziario, la vita reale degli imperi dei secoli XIX, XX e XXI. Lungimirante, dunque, Bucefalo. Non più magnifico animale da combattimento, certo, ma nemmeno un Azzeccagarbugli o un burocrate kafkiano (un grigio aggettivo, qui). Proprio perché libero dal peso del cavaliere e lontano dal fragore della battaglia, «egli legge, volta le pagine dei nostri vecchi libri» (ma, c’è da giurarci, anche dei libri correnti – almanacchi, almanacchi nuovi! – e bollettini, gazzette, report, Google, Wikipedia, web e dark web e intranet e, sempre, felpati e impenetrabili arcana imperii). E proprio perché reca in sé l’antica

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sapienza del potere e della guerra, e però ha sgamato cosa serve nei tempi nuovi, Bucefalo si rende necessario al Principe nuovo, a volte nel palazzo del Sovrano, più spesso nei circoli del denaro e delle sue tramutazioni astratte e delle sue spire stringenti – sulla cosa viva, sulla materia prima – sempre nel bisogno “borghese” di dare veste formale e legale (vecchia o nuova) ai propri dominii. Enrico Arduin, in questo saggio spiazzante e profondo, analizza e, in un certo senso, evoca ai nostri occhi questa sorta di romanzo epico che si tramuta, appunto, in racconto kafkiano. Qui l’aggettivo è di fatto un sostantivo, invece, di adamantina oscurità, dentro la quale Arduin scava partendo dall’origine (su questo è illuminante anche il saggio complesso e avvincente di Massimo Donà qui presente) e arrivando alle soglie del tempo nostro, seguendo la metamorfosi del cavallo di Alessandro. Che del suo antico cavaliere ritrova lo spirito – l’oltranza che lo spinge avanti, la furia combattiva, quella che, secondo l’annalista Arriano citato da Arduin, lo avrebbe spinto se non avesse più trovato nessuno contro cui lottare, «a combattere contro se stesso» – nello Spirito della Storia incarnato dal Capitale, con la sua smania implacabile di espandersi e omologare tutto il mondo conosciuto, tutto ciò che esiste, e al cui servizio potrebbe porsi. Potrebbe, diciamo per intanto. Per questo, scrive Arduin, in realtà, «Bucefalo non si ritira nella quiete solo per assimilare l’arcaica saggezza, ma […] per riattivare l’utilizzo di antichi tomi all’interpretazione ed inventarne di nuovi». Così, «Bucefalo trasforma se stesso», anche, ritrovandosi in uno «spazio interiore» dove «inizia un modo inedito di concepire» nel confronto con le antiche pagine (secondo il folgorante raccontino di Kafka, così compassato, così trafiggente).

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E dunque, in questa metamorfosi, cosa diviene davvero Bucefalo? Potrebbe porsi – si è detto così più sopra: al condizionale, appunto – al servizio del nuovo Imperatore, reggere il culo e lo strascico dei poteri armati e astratti nella dimensione geopolitica, nell’economia finanziarizzata e nella funzionalità digitale dei nuovi millenni, almeno finché dura l’equilibrio strategico garantito dalle bombe contrapposte e finché reggono le biosfere e i cieli arroventati dalla CO2. Ma potrebbe anche fare altro, riscoprirsi altero animale che non si mette più al servizio di nessuno, avendo servito un vero Imperatore ed essendo di costui scomparso lo stampo. Potrebbe essere lui quell’individuo «non soggetto ad alcun potere» che «sorge in una relazione ininterrotta con l’ambiente in cui la propria esistenza accade», mentre «nel metabolismo dell’esperienza individuale, gli elementi sono le informazioni, le parole, gli aggregati di concetti, le narrazioni inventate, le sensazioni, che formano il mondo psichico senza materia e privo di confini abitato dagli umani». È una soglia che dà le vertigini varcare, per quanto si apre di fronte alla Storia ma anche per quanto si spalanca sull’abisso di un mondo che sta dietro, o sotto, quello visibile e materiale e che sfugge a ogni formalizzazione, comprese quelle dei “nuovi avvocati” e dei loro potenti clienti. A questo sottosuolo del presente e della storia Enrico Arduin aveva dedicato qualche anno fa il suo primo sorprendente e penetrante saggio. Qui, ora, ci mostra dove porti l’infinita cavalcata del destriero più famoso del Mito e della Storia. Forse, perduto l’impaziente allievo di Aristotele e disarcionato l’effimero idolo di Hegel, sta ora portando proprio noi, da qualche parte.

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Il Nuovo Avvocato

«Abbiamo un nuovo avvocato, il Dr. Bucefalo. Poco nel suo aspetto ti ricorda che lui un tempo era il cavallo da battaglia di Alessandro di Macedonia. Naturalmente, se conosci la sua storia, ti rendi conto di qualcosa. Ma perfino un semplice usciere che ho visto l’altro giorno sulla scalinata davanti al Palazzo di Giustizia, un uomo con la perizia professionale di un piccolo scommettitore alle corse dei cavalli, stava lanciando una occhiata ammirata all’avvocato mentre saliva i gradini di marmo con un portamento solenne che li faceva risuonare sotto i suoi piedi. In generale il Foro approva l’ammissione di Bucefalo. Con intuito sorprendente la gente si dice che, essendo la società moderna quello che è, Bucefalo si trova in una posizione difficile, e quindi, considerando anche la sua importanza nella storia del mondo, egli merita perlomeno una accoglienza amichevole. Al giorno d’oggi – non può essere negato – non c’è nessun Alessandro il Grande. Ci sono parecchi uomini che sanno come ammazzare la gente; la destrezza necessaria per saltare oltre una tavolata ed infilzare un amico con una lancia non manca; e per molti la Macedonia è troppo piccola, così maledicono Filippo, il padre. Ma nessuno, proprio nessuno, può tracciare

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una via verso l’India. Anche al suo tempo i cancelli dell’India erano oltre la possibilità di essere raggiunti, eppure la spada del Re indicava la via verso di essi. Oggi i cancelli sono retrocessi in luoghi più remoti e più alti; nessuno indica la via; tanti portano spade, ma solo per brandirle, e l’occhio che cerca di seguirli resta confuso. Così forse è davvero meglio fare come ha fatto Bucefalo e immergere se stessi nei libri di legge. Nella luce tranquilla della lampada, i suoi fianchi non impediti dalle cosce di un cavaliere, libero e lontano dal clamore della battaglia, egli legge e volta le pagine dei nostri antichi tomi». Franz Kafka

Contro i mediatori – Quelli che vogliono mediare tra due pensatori risoluti mostrano di essere mediocri: essi non hanno gli occhi per vedere quello che è unico. Vedere le cose come simili e rendere le cose uguali è il segno di uno sguardo debole.

(Nietzsche, La gaia scienza, III, 228)

I Mito, Arbitrio e Legge

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Bucefalo

L’acuto occhio mentale di Franz Kafka vede in che modo, nel mondo sbiadito in cui viviamo, il cavallo Bucefalo sia divenuto un avvocato. Bucefalo, nella sua inconsueta veste di giurista, balza all’improvviso nella scena dell’intelletto umano grazie al genio di Kafka, che immagina, in un racconto molto breve titolato Il Nuovo Avvocato, un incedere per il pensiero di rara profondità ed intelligenza. Molto poco nell’aspetto attuale di Bucefalo, avverte subito Kafka, può evocare il suo celebre passato: un tempo Bucefalo era il destriero da battaglia del giovane re guerriero «Alessandro di Macedonia». Ora anche un «semplice usciere», con «la perizia professionale di un piccolo scommettitore alle corse dei cavalli», lanciando solo una rapida occhiata, può contemplare deliziato l’anomalo avvocato salire con «portamento solenne» l’imponente scala di marmo del «Palazzo di Giustizia». La singolare presenza del corsiero, mitico compagno del comandante macedone, effonde nella vicenda volubile degli uomini un’energia ineffabile. Un’idea di grandezza, indefinita, appena percettibile dal «sorprendente intuito delle persone»,

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irradia da Bucefalo e «dalla sua importanza nella storia del mondo». La sensibilità moderna, poi, nell’intuire lo spessore sfuggente che emana dall’avvocato, dilata un poco il proprio respiro. La cosa è più che sufficiente perché Bucefalo venga accolto con simpatia dagli individui e dal «Foro». Inoltre – nessuno può negarlo – non c’è più davvero nulla simile ad un «Alessandro» in circolazione. Anche la difficoltà che sembra affliggere il cavallo nel suo sforzo di adattamento al tenue grigiore della nostra epoca risulta, quindi, accolta con simpatia e vagamente compresa. Nondimeno, il dramma vero di Bucefalo è un altro. La terribile e sublime vocazione cieca di Alessandro incendiava ogni conflitto: indicare la via ed avventarsi contro l’impossibile. Oggi nessuno sogna niente del genere. Il fuoco è spento. Bucefalo, «lontano dal clamore della battaglia» contemporanea, osserva ora la realtà solitario. Determinato a non svanire nel gorgo degli umani, l’animale scava allora un inedito varco tra le procedure e la polvere delle pagine dei «nostri antichi tomi». L’isolamento di Bucefalo non è come la solitudine indecifrabile di un essere vivente. Kafka scruta, nell’insolito giurista, un impulso spontaneo, una forza fluida, la quale avverte il pericolo della mediocrità corrosiva che la circonda e quindi si ritira nel profondo della propria stessa genesi a studiare la situazione. Lo scrittore distilla la metafora Bucefalo nella mente umana. La figura del togato cavallo da guerra di Alessandro viene delineata tramite una rete di espressioni che connette indizi, riferimenti alla storia, pure invenzioni, velate allusioni al continuo processo magmatico dell’individuo e della cultura. Il «nuovo avvocato» concepito dall’artista di Praga, dunque, abita solo il pensiero e la nostra immaginazione è la sua stessa vita.

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Bucefalo e Alessandro

Il purosangue greco, invece, veniva dalla Tessaglia. Plutarco descrive il primo incontro tra il principe macedone e l’irrequieto stallone nero. Naturalmente non è possibile dipanare l’intreccio di agiografia, brama del prodigio e notizie autentiche che articola il lavoro prezioso degli antichi biografi di Alessandro. Tuttavia, nell’opera Vite Parallele, Plutarco riporta l’episodio in modo piuttosto suggestivo. Seguiremo pertanto il suo racconto nella nostra esposizione. Un mercante di cavalli, Filonico di Farsala, portò Bucefalo a Pella in Macedonia, alla corte di Filippo, padre di Alessandro. Filonico offrì di vendere l’animale al re per trenta talenti, una somma apprezzabile per una transazione di quel genere all’epoca. Bucefalo, pertanto, doveva essere già ritenuto un cavallo di valore al momento della trattativa. Un gruppo di persone era radunato nel luogo in cui gli esperti reali avrebbero dovuto esaminare l’animale. «Bucefalo sembrava selvaggio e intrattabile», non prestava ascolto ai comandi e nessuno poteva avvicinarlo. Filippo si irritò all’istante e ordinò che lo stallone venisse portato via, pensando che tentare di domarlo fosse solo tempo perso.

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Alessandro era presente, così prese la parola e disse che stavano rinunciando ad un cavallo eccezionale solo per la loro incompetenza. Filippo, conscio del temperamento polemico del figlio, lo lasciò protestare per qualche minuto, quindi, infastidito, chiese al ragazzo se davvero pensava di essere più bravo dei consumati professionisti che stavano operando con l’animale. Il principe rispose senza esitare che lui avrebbe saputo trattare con Bucefalo meglio di chiunque altro. Il re, sempre più seccato, domandò quale penale sarebbe stato disposto a pagare Alessandro se avesse fallito. Il giovane assicurò che poteva pagare il prezzo intero del cavallo senza alcun problema. Si levò una risata generale e stabilirono la scommessa. Alessandro aveva notato che l’animale era impaurito perché la sua stessa ombra gli cadeva davanti, dato che dava le spalle al sole. Il ragazzo allora si avvicinò, prese le redini e girò Bucefalo verso la fonte della luce. Poi, dopo averlo fatto trottare un poco tenendolo per le briglie, saltò sul cavallo e lo lanciò al galoppo. Il dispetto del sovrano si tramutò di colpo in apprensione. Un silenzio teso calò sulla piccola folla, ma quando il principe tornò verso di loro cavalcando scoppiò un applauso. Sembra che il padre, addirittura commosso, abbia detto ad Alessandro: «Figlio cerca un regno degno di te perché la Macedonia non ti può contenere». La frase è divenuta famosa per il suo carattere profetico, anche se, quasi certamente, non è mai stata pronunciata da Filippo. Comunque siano andate realmente le cose, la leggenda vuole che quel giorno sia cominciato un rapporto del tutto esclusivo tra Alessandro e Bucefalo. Arriano di Nicomedia, cronista molto più sobrio di Plutarco, riporta che Bucefalo alla fine della sua vita si lasciava ancora montare solo da Alessandro. Lo storico poi racconta che quando una tribù, in una parte remota della Persia, ebbe la non felice idea di rapire l’animale per chiedere un riscatto, Alessandro minacciò di uccidere senza

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distinzione tutti gli abitanti della regione se il cavallo non fosse stato subito restituito. Nella Anabasi di Alessandro Arriano registra con parole misurate la morte del destriero. Bucefalo morì in India, nel 326 a.C., alcuni giorni dopo una terribile battaglia sul fiume Idaspe nella quale le truppe macedoni sconfissero l’esercito del sovrano indiano Porus. Lo storico greco riferisce che l’animale non fu ferito nello scontro. Le probabili cause del decesso furono invece l’età avanzata, lo stress micidiale e i traumi patiti durante i lunghi anni di campagna militare trascorsi nell’armata di Alessandro. Arriano scrive inoltre che Alessandro fondò nella zona due città. La prima – Nicea – fu costruita nel luogo in cui avvenne il combattimento. La seconda venne edificata dove le divisioni macedoni iniziarono il guado dell’Idaspe ed Alessandro decise di chiamarla Bucefala, perché fosse ricordato il suo cavallo. L’intesa tra Alessandro e Bucefalo era dunque davvero singolare. Gli storici antichi in questo sono concordi, malgrado la favola dalle diverse intonazioni con cui spesso avvolgono la loro cronaca di notizie, in parte probabilmente autentiche.

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Le radici storiche dell’Avvocato Bucefalo

Kafka tratteggia nel Nuovo Avvocato il profilo di alcuni elementi comuni tra il tempo di Alessandro e la nostra attualità. Anche oggi, avverte lo scrittore, come all’epoca di Alessandro: 1) Molti uomini sanno come uccidere. 2) Non manca nemmeno la destrezza necessaria ad ammazzare un amico all’improvviso. 3) Per molte persone il mondo in cui nascono è troppo piccolo, così maledicono il padre ed il suo nome. L’artista individua inoltre una frattura essenziale che separa i due periodi storici: 4) Nessuno nella realtà contemporanea sa indicare una via verso una meta irraggiungibile. Per quanto riguarda il primo punto della lista non è necessario un effettivo commento. L’assidua esplosione di violenza omicida è un fatto lugubre e persistente che distingue l’esistenza stessa dell’umanità. Alessandro, non diversamente da una moltitudine di altri condottieri e generali nella storia, ha compiuto e ordinato lo spietato sterminio di intere popolazioni.

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La seconda nota della rubrica richiede però di essere illustrata. La frase autentica di Kafka allude ad un episodio avvenuto durante la spedizione del giovane re di Macedonia alla conquista dell’impero persiano. Siamo nel 328 a.C. in autunno. L’ambiente è quello aspro della Bactria e della Sodania, una regione impervia oggi tagliata dal confine che separa Afghanistan, Uzbekistan e Tajikistan. Dopo la primavera e l’estate passate combattendo una guerriglia violenta contro tribù locali insorte, Alessandro e il suo stato maggiore tornano a Samarcanda. Il passaggio originale di Kafka – «l’abilità richiesta per balzare oltre una tavolata ed infilzare un amico con una lancia non manca» – accenna a quello che accadde in quei giorni. Alessandro, i generali macedoni e svariati alti funzionari persiani, attorniati da un seguito di cortigiani, stavano celebrando con un banchetto, come era consueto, un sacrificio ad alcune divinità. I convivi della corte macedone andavano a finire spesso in bagordi senza misura, quindi anche quella sera molti degli invitati alla fine erano ubriachi. Nel 331 a.C. le truppe macedoni avevano sbaragliato l’esercito persiano nella battaglia di Gaugamela. Dario III, ultimo re Achemenide, era stato ucciso l’anno dopo, in un complotto ordito da alcuni dei suoi stessi gerarchi. Alessandro era ormai il re di tutta la Persia. Il capo macedone viveva circondato da adulatori. In particolare i burocrati persiani, superstiti di un regime in sfacelo, avevano ragioni sufficienti per dedicarsi con zelo all’arte infida della lusinga. Alessandro aveva infatti bisogno di mantenere operativa la vecchia rete amministrativa, per riuscire a governare un impero così esteso. Tuttavia il giovane condottiero poteva sostituire, oppure eliminare, singoli dirigenti, senza dovere rendere conto a nessuno. Tra gli ufficiali di Alessandro, intanto, cresceva il malcontento perché il re adottava sempre più spesso costumi orientali nelle pose, nelle abitudini e nell’abbigliamento. La mente greca dei

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generali macedoni, comunque, non poteva accettare un fatto in particolare tra i nuovi modi di Alessandro. Il monarca aveva cominciato a pretendere di essere riverito da tutti con il saluto al re in voga in Persia durante l’impero Achemenide: ogni suddito, ammesso alla presenza del sovrano, doveva prostrarsi nell’ossequio, fino a toccare il suolo con la fronte. I macedoni non potevano ammettere nulla di simile. Nel mondo greco la questione nemmeno si poneva: un re non era nulla più di un uomo e nessuno si sarebbe mai abbassato in quel modo davanti ad un altro essere umano. Tra Alessandro e i suoi colonnelli si era creata così una tensione palpabile. Quella notte a Samarcanda, durante il simposio, alcuni adulatori dissero che Alessandro meritava gli onori dovuti ad un dio, dato che le imprese compiute dal monarca macedone non erano inferiori alle fatiche di tanti dei. Il tema era rovente e si scatenò un putiferio. Clito il Nero, comandante del corpo speciale delegato a difendere la sicurezza personale di Alessandro in battaglia, scaldato anche dal vino, prese la parola. Clito protestò che le gesta di Alessandro non erano tutto quello che vantava la piaggeria e inoltre il re non aveva combattuto da solo, ma le sue conquiste erano state possibili solo per il valore dei soldati macedoni. Qualcuno ebbe allora la pessima idea di parlare anche di Filippo, il padre di Alessandro, affermando che egli non aveva fatto nessuna azione comparabile alle gesta eccezionali di suo figlio. Clito perse il controllo e iniziò a gridare che solo i risultati raggiunti da Filippo avevano permesso ad Alessandro di essere nella posizione in cui si trovava; poi, rivolto ad Alessandro, ringhiò che lui era ancora vivo solo perché Clito stesso l’aveva salvato dalla morte. Alessandro, che fino a quel punto aveva resistito senza fiatare, saltò al di là del tavolo, in un lampo strappò una lancia dalle mani di una delle guardie e con un colpo uccise Clito.

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Il giovane re si rese conto subito di quello che aveva fatto e sembra che poco dopo l’accaduto Alessandro abbia addirittura tentato il suicidio. Per alcuni giorni il monarca restò nei suoi alloggi, sconvolto, muto, stordito, senza bere o mangiare, senza vedere nessuno. Lui e Clito erano amici da sempre, cresciuti insieme, fratelli. Poi una vampa di ira regale. Clito il Nero salvò davvero la vita di Alessandro nel 334 a.C. sulle rive del fiume Granico, durante la prima grande battaglia combattuta dalla spedizione macedone in Asia Minore contro l’esercito persiano. Arriano, Plutarco e Diodoro Siculo, nelle rispettive cronache della campagna di Alessandro alla conquista dell’impero Achemenide, narrano l’episodio, sebbene le rispettive descrizioni della dinamica del fatto siano leggermente diverse. Clito era ufficiale nel corpo di cavalleria dei Compagni, il reparto più micidiale di tutto l’esercito macedone che in combattimento passava sotto il comando diretto di Alessandro. All’interno dei Compagni esisteva poi una ulteriore unità speciale – la Agema – che fungeva da Guardia Reale e tutelava in battaglia la sicurezza personale del re. Clito il Nero comandava la Agema. Arriano racconta che il Granico era un flusso abbastanza impetuoso, a tratti molto profondo, con gli argini ripidi, che si alzavano in alcuni punti a precipizio sul letto sconnesso del torrente. L’esercito macedone e l’armata persiana erano schierati sulle sponde opposte del turbolento corso d’acqua, in un grande silenzio, per valutarsi in modo reciproco prima dello scontro. I greci si trovavano in una situazione tattica di svantaggio perché dovevano attraversare il fiume, diventando così il facile bersaglio della pioggia di frecce e giavellotti che la cavalleria persiana, disposta in attesa sulla ripa alta al termine del guado, era pronta a scagliare.

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Alessandro ordinò l’attacco. Il primo drappello di soldati macedoni che uscì dall’acqua venne fatto a pezzi. Il plotone di cavalleria guidato da Alessandro invece, proprio grazie al sacrificio di quella avanguardia di uomini, fu in grado di sortire dal fiume in un assetto compatto abbastanza per avventarsi sul quartiere generale persiano, che venne colto di sorpresa dall’audacia dell’attacco sferrato dalle milizie macedoni. Seguì una mischia furibonda. Arriano riporta che, sebbene si combattesse a cavallo, la battaglia fu più simile ad una collisione tra fanterie ostili che ad un conflitto di cavalleria. Divampò una lotta all’ultimo sangue, i cavalli pigiati tra di loro e gli uomini che si scannavano a vicenda. Alessandro uccise Mitridate, genero del re Dario III, con un colpo di lancia al volto. Subito dopo Resace, vedendo suo fratello Mitridate stramazzare al suolo, si gettò su Alessandro e lo colpì con la sua ascia da guerra sulla testa, spezzando l’elmo del condottiero macedone. Alessandro rimase però solo stordito e, con una stoccata al petto, riuscì ad ammazzare Resace. In quel frangente, il generale persiano Spitridate balzò alla schiena di Alessandro ed aveva già alzato su di lui la sua scimitarra, quando un fendente della spada di Clito lo raggiunse alla spalla, staccandogli di netto il braccio e uccidendolo. Il gruppo di colonnelli a capo delle truppe macedoni ed Alessandro avevano ricevuto insieme lo stesso inflessibile addestramento militare nelle forze armate del re Filippo. Il despota attuò una rivoluzione nell’esercito della Macedonia. I frusti contingenti, composti da improvvisati soldati di leva, vennero infatti trasformati in reggimenti di professionisti della guerra, regolarmente retribuiti e provvisti delle armi più sofisticate. Il modello di riferimento nell’educazione bellica divenne Sparta nel periodo del suo fulgore. I giovani ufficiali, forgiati alla scuola marziale dei continui conflitti che portarono Filippo ad assumere il totale controllo della Grecia, strinsero tra loro così un sodalizio viscerale e polimorfo. All’epoca della lite tra Clito

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e Alessandro, i colonnelli macedoni avevano combattuto uniti in feroci battaglie, senza interruzione, per più di dieci anni. Per noi oggi è dunque difficile intuire il deturpante effetto provocato in ognuno degli ufficiali dalla catastrofe piombata ad un tratto su tutto lo stato maggiore macedone a Samarcanda. Lo sguardo di Kafka sulle sorti forensi di Bucefalo obbliga a dire qualcosa, però, anche sul terzo appunto della nostra nota: per tante persone il mondo in cui nascono è troppo piccolo, così maledicono il padre ed il suo nome. Le parole utilizzate dall’artista di Praga – «per molti la Macedonia è troppo piccola, così maledicono Filippo, il padre» – rimandano al racconto di Plutarco. La prima parte dell’espressione riporta il contesto della frase che Filippo non ha mai proferito: «Figlio cerca un regno degno di te perché la Macedonia non ti può contenere». La seconda metà della proposizione di Kafka – «… così maledicono Filippo, il padre» – scosta il drappo che copre una palude. Non sembra poi così arduo, infatti, scalciare contro il limite piccolo del mondo ed imprecare soffocati alla figura del padre che sorveglia quel confine. Altra cosa è non lasciarsi corrompere dal pantano della propria stessa impotenza. Nella vicenda con Bucefalo, alla corte di Pella, Alessandro riuscì dove gli esperti del padre Filippo avevano fallito. Un fiero stallone, una volta domo, spezzato il suo temperamento scontroso, diventava un acquisto ottimo per le stalle reali. I praticanti di rodei al soldo del re, però, rimasero inefficaci davanti al carattere strenuo del cavallo. Bucefalo era «selvaggio e intrattabile» e non permetteva a nessuno di avvicinarlo. Per la mente scaltra di Filippo una simile indole adamantina era impenetrabile. Alessandro, viceversa, non avrebbe provato interesse alcuno per un destriero soggiogato. Il ragazzo avvertì all’istante quello che suo padre non sarebbe mai stato in grado di afferrare.

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Il mondo costruito dall’abilità diplomatica del re macedone poggiava sull’ipotesi che ognuno potesse essere corrotto in qualche modo, oppure schiacciato. Un pensiero non nuovo, né abissale, ma efficace. La storia di rado ha smentito Filippo. Alessandro stesso, se stiamo ai semplici fatti, sfoltiti dalla leggenda, non ha mosso un passo fuori dalla logica torva del genitore. Il giovane, bellicoso principe, una volta salito al trono, stregato dall’idea divina di una «gloria immortale», nonostante il rilievo storico delle sue gesta, si limitò, in ultima analisi, a mutare la vita di molti e la propria in una tragedia. Kafka sposta, invece, il fuoco della nostra attenzione su un altro piano e addita, tramite la figura di Bucefalo, uno spazio particolare nella mente degli uomini. Nel racconto, il corsiero, abituato alla battaglia, capisce che le cose reali sono molto più complicate. Una spada di furia, puntata dal «Re» verso «i cancelli dell’India», o verso il cielo, non può bastare. Anzi, quando «la spada del Re» indica «la via verso l’India», tutta l’enfasi allegorica che figura la vicenda rivela in realtà di essere, regolarmente, il veicolo di un inganno. Nel processo interiore che lo spinge verso l’avvocatura, Bucefalo raffina quindi il grezzo spirito da guerra di Alessandro e lo porta ad una rarefazione estrema. Siamo però ormai collocati nell’ambito indicato dalla quarta chiosa presente nelle nostre annotazioni: nessuno nel mondo contemporaneo sarebbe capace di aprire una via indicando una meta irraggiungibile. Kafka colloca le considerazioni esplorate finora tra due affermazioni che accentuano la sottile indole teoretica del racconto. L’enunciato «Al giorno d’oggi – non può essere negato – non c’è nessun Alessandro il Grande» inizia la sequenza; mentre l’asserzione «ma oggi nessuno, nessuno in assoluto, può tracciare una via verso l’India», parafrasata nella nostra quarta nota, chiude la serie di pensieri. Nondimeno, lo scrittore precisa

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rapido che anche al tempo di Alessandro «i cancelli dell’India erano oltre la possibilità di essere raggiunti, eppure la spada del Re segnava il tragitto verso di essi». Nel Nuovo Avvocato il riferimento all’India pare assumere una funzione simbolica per indicare l’intensa forza di attrazione diffusa in una narrazione da quello che viene proiettato nel racconto con una certa lena propulsiva. Le parole dell’artista di Praga alludono allo stratificato potere di suggestione esercitato dall’India immaginata dai greci: un luogo mitico, liminale, oltre il quale terminava il mondo abitabile ed iniziava l’Oceano Esterno, una distesa d’acqua insondabile che circondava tutta la terraferma. L’evidenza fisica, geografica, dei fatti si è rivelata poi, come sappiamo, totalmente diversa. La spada di Alessandro, quindi, segnava una via, la cui fiabesca destinazione, «l’India», però, non è mai esistita. Di conseguenza, spingersi fino ai «cancelli» di quello che, nella civiltà antica dei greci si riteneva fosse «l’India», allora come adesso, naturalmente era impossibile. La concezione greca della geografia era fondata su errori di metodo. I greci ritenevano vere molte informazioni, relative a diversi luoghi, che una disamina successiva ha scoperto essere completamente false. Gli antichi esploratori riportavano le esperienze dei loro viaggi in resoconti di osservazioni credibili mescolate con interpretazioni letterali di miti e leggende. Il composto, così miscelato, plasmava il contenuto di cronache, ad un tempo, meravigliose e fuorvianti. D’altronde, il rigore della procedura che costituisce e genera l’approccio scientifico è stato distillato dagli umani lungo l’intera vicenda del loro esistere. In particolare, proprio la civiltà greca ha avuto un ruolo eminente in questo processo di sublimazione rivolta al concreto, grazie all’istituzione, operata dai filosofi greci, della prima autentica distinzione logica del vero dal falso.

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Kafka percepisce, tuttavia, un livello particolare della malia diffusa dalla mitica «India» dei Greci, una dimensione che consentiva a quella stessa fascinazione geografica di avere il suo effetto. Si tratta della proiezione metafisica di una passione, un ardore viscerale, che brama la propria intima realizzazione dipanata su scala cosmica. I greci sagomavano il loro mondo poggiando su una visione spuria della scienza; eppure il tessuto resistente e flessibile della loro mente riusciva, attraverso una lente fantastica, a vedere l’impossibile. La realtà così vagheggiata aveva un fascino magnetico, pur conservando la qualità particolare di esistere solo nell’immaginazione. Comunque sia, proviamo ora a cogliere in modo più definito il senso greco dell’India, intuito da Kafka.

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Alessandro e il miraggio indiano

Nell’estate del 326 a.C., trascorso qualche mese dalla sconfitta inflitta al re indiano Porus sul fiume Idaspe, l’esercito macedone, giunto sulle rive dell’Ipasico, che corrisponde al fiume Sutlej nel moderno Pakistan, rifiutò di seguire Alessandro nel progetto di spingersi all’interno dell’India fino a raggiungere la valle del Gange. Il contrasto tra l’armata e il comandante fu durissimo. Arriano riferisce che i soldati erano irremovibili e una parte degli uomini era decisa ad ammutinarsi se Alessandro avesse comunque dato l’ordine di avanzare. Alessandro, compresa la serietà e la delicatezza della situazione, riunì in consiglio gli ufficiali delle brigate. Il discorso pronunciato è un piccolo capolavoro per la chiarezza con cui il monarca espone all’assemblea dei graduati le radici della visione che incendiava la sua smania di aprire una strada verso l’Oceano Esterno. Il comandante macedone nella sua arringa evidenzia subito l’importanza della riunione, nella quale deve essere presa una decisione cruciale: procedere con la campagna militare di conquista fino al limite della terra, oppure troncare l’avanzata ed imboccare la via del ritorno in patria. La retorica dell’orazione è tesa a persuadere gli ufficiali che la guerra d’occupazione deve proseguire perché ancora non

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è stato raggiunto l’obiettivo predominante della spedizione. Un elenco dei paesi sottomessi e delle popolazioni soggiogate funge da preambolo, segnalando lo spessore delle imprese compiute fino a quel momento. L’intervento del sovrano, poi, abbandona la superficie dell’argomento ed espone le proprie ragioni, radicandole nelle profondità della cultura greca. Alessandro presenta, a questo punto, la prospettiva da cui egli osserva e valuta l’intera vicenda della durissima campagna militare sostenuta fino a quel momento. Un uomo coraggioso che vuole realizzare grandi imprese, afferma Alessandro, non conosce il termine delle proprie fatiche, per quanto esse possano rivelarsi terribili. Lo scopo ultimo delle operazioni militari in Asia è quello di estendere i limiti dell’impero macedone fino alle coste del Mare Esterno, situate non lontano dalle sponde del fiume Gange ormai vicino. L’idea è di spingersi fino al Grande Mare, per provare così che anche il Mare Ircanio (l’odierno Mare Caspio), il Golfo Indiano e il Golfo Persico, confluiscono nell’Oceano che circonda la terra. In questo modo, una volta conquistato l’accesso al Mare Esterno, l’armata macedone si sarebbe trovata nella condizione di potere navigare attorno alle coste della Libia (Africa) fino alle Colonne d’Ercole (Stretto di Gibilterra) ed espandere così la propria egemonia, fino ad assoggettare quello che allora si riteneva fosse l’intero mondo. Fermarsi e prendere la via del ritorno, invece, avrebbe permesso alle molte nazioni non ancora sottomesse di fomentare instabilità e rivolte nelle zone di confine più remote dell’impero. Per non vedere svanire il frutto degli azzardi e delle tribolazioni passate, dunque, sarebbe stato inevitabile, in ogni caso, riprendere a combattere. Fino a qui il condottiero evidenzia il rilievo tattico e strategico che l’invasione dell’India aveva avuto ed avrebbe dovuto avere, per riuscire a realizzare le mire di espansione dell’imperialismo macedone. Il pathos autentico di Alessandro è rivelato, però, nella parte centrale del discorso, quando il sovrano

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condensa in poche parole l’energia effettiva, avvertita da Kafka, che spronava «la spada del Re» ad indicare «la via» verso i «cancelli dell’India». Alessandro, infatti, ricorda ai suoi ufficiali che sfidare pericoli e sopportare privazioni si rivela indispensabile per compiere azioni che fanno sembrare gli uomini simili a dei, perché: […] è mirabile e bello vivere una vita di valore e morire lasciando dietro di sé una gloria immortale.

Una sequenza di concetti con implicazioni notevoli, su cui tra non molto proveremo a riflettere. Per il momento seguiamo l’evolversi della riunione tra Alessandro e lo stato maggiore dell’esercito macedone. Nella parte conclusiva del suo l’intervento, Alessandro introdusse la prospettiva a cui forse i suoi generali erano più sensibili. Infatti, dopo avere rimarcato che egli, come comandante, aveva sempre condiviso con i suoi uomini tutti i pericoli in battaglia e le spartizioni del bottino, il re terminò ricordando che ricchezza ulteriore e privilegi attendevano coloro che sarebbero rimasti al suo fianco fino alla fine della campagna militare in Asia. Quando il discorso si chiuse seguì un lungo silenzio. Alessandro invitò più volte gli ufficiali presenti ad esprimere il loro pensiero in libertà, ma nessuno trovava il coraggio di dire qualcosa. Trascorso un intervallo di tempo non breve, Ceno prese la parola. Ceno era uno dei generali più intelligenti e audaci dell’esercito macedone. L’ufficiale, che comandava in genere la falange destra, una unità di fanteria strategica in combattimento, aveva dimostrato in più occasioni una fedeltà assoluta ad Alessandro. Ceno apre il suo monologo riconoscendo al re di avere guidato i soldati nella guerra tramite la persuasione e non con la tirannia. Quindi, dopo avere annunciato di non parlare a nome proprio, oppure come portavoce degli altri graduati, ma di riferire l’umore della truppa, Ceno si rivolge

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ad Alessandro con onestà. Il generale descrive una situazione drammatica. Di tutti i militari arruolati in Grecia dieci anni prima, all’inizio della campagna alla conquista della Persia, sono ora rimasti solo pochi uomini. Molti sono stati rimpatriati perché non erano più in grado di combattere; altri, dislocati nelle città fondate dal condottiero e sparse nelle zone di guerra occupate, hanno obbedito solo per disciplina. I soldati macedoni e quelli greci che ancora si battono sono insufficienti, perché tanti sono morti in battaglia, parecchi sono inabili per le ferite e ancora più numerosi sono coloro che sono stati falciati dalle malattie, oppure dispersi. I superstiti combattono ancora, con Alessandro hanno ottenuto denaro e onore, ma adesso basta. Ceno chiude il suo discorso supplicando Alessandro di non obbligare gli uomini ad avanzare contro il loro volere, perché in battaglia il sovrano avrebbe poi potuto non riconoscere più in loro i guerrieri su cui aveva sempre contato. Arriano riferisce che quando Ceno terminò di parlare molti soldati presenti scoppiarono in lacrime. Alessandro sciolse l’assemblea e si ritirò nei suoi appartamenti, in solitudine. Dopo alcuni giorni, il re comunicò ai suoi uomini che l’offensiva in territorio indiano per conquistare i confini della terra era interrotta: si tornava a casa. La via del rimpatrio, tuttavia, si sarebbe rivelata densa di difficoltà enormi e un epilogo tragico attendeva Alessandro a Babilonia.

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Bucefalo, l’animale e il processo chiamato mente (1)

Torniamo, però, a concentrare l’attenzione sul testo di Kafka. Lo scrittore, dunque, rileva che la «spada» di Alessandro riusciva a segnare il tragitto verso «i cancelli dell’India», nonostante essi fossero fuori della possibilità di essere raggiunti, poiché non avevano una consistenza fisica, ma godevano di una esistenza puramente immaginaria. Nel mondo odierno nessuno può inventare nulla di simile, osserva Kafka, poiché adesso quei «cancelli sono ritirati in luoghi più remoti e più alti; nessuno indica la via; molti portano spade, ma solo per brandirle, e l’occhio che cerca di seguirli resta confuso». In altre parole, Kafka sembra voler avvisare che l’immaginazione, scivolata ormai fuori dall’orizzonte del comune senso del fantastico, ha cambiato il suo registro, divenendo così più astratta. Alla portata della ordinaria sensibilità delle persone rimangono solo fascinazioni futili, ma il loro utilizzo strumentale ottiene l’unico effetto di lasciare interdetto e spaesato lo sguardo di chi osserva. Nessuno, quindi, nella realtà attuale, può escogitare, sintonizzato sulle frequenze moderne del comprendere o del congetturare, una rotta attendibile, perché l’in-

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telligenza contemporanea non possiede l’abilità di concepire un’idea plausibile di “destinazione ultima”. L’artista Kafka, però, non resta muto e nel Nuovo Avvocato affida al cavallo Bucefalo il compito di suggerire agli umani quello che essi, forse, non sono più nemmeno in grado di capire. La narrazione termina in modo inatteso. Così forse è davvero meglio fare come Bucefalo ed immergere se stessi nei libri di legge. Nella luce tranquilla della lampada, i suoi fianchi non impediti dalle cosce di un cavaliere, libero e lontano dal clamore della battaglia, egli legge e volta le pagine dei nostri antichi tomi.

Bucefalo non teme l’astrazione e le difficoltà dell’immaginare. Il suo interesse si concentra dunque su una delle forme più eteree della lingua: i «libri di legge». Il vecchio destriero, prima di accostare la dimensione più fondamentale e sfuggente peculiare a questo tipo di letteratura, realizza alcune condizioni opportune. Innanzi tutto, Bucefalo sceglie la calma di una luce tenue; poi si svincola da ogni sudditanza ed oppressione; infine, libero e discosto dallo strepito mondano «egli legge e volta le pagine dei nostri antichi tomi». Nel racconto la presenza dell’animale ibridato con l’idioma conferisce ad ogni parola un sottile potere corrosivo, così la coltre di decoro, con cui la nostra comunità umana addobba la propria parvenza, si sfalda lungo la narrazione. Tra i vocaboli filtra l’immagine di una umanità simile ad una boriosa compagnia di avanspettacolo di provincia, che non comprende l’effettivo stato fallimentare in cui versa la propria carriera nel volubile campo d’arte del varietà. La diagnosi è senza pietà. La farsa, amara, effigia ogni aspetto della vicenda degli uomini: l’erudizione, la storia, Alessandro, il mondo moderno ed i suoi storditi abitanti, il pensiero, aereo, spirituale, che si astrae «in luoghi più remoti e più alti».

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Nondimeno, Kafka protegge Bucefalo. Lo scrittore osserva la sintesi di stile mediante la quale il cavallo tutela il proprio esistere. La libertà di Bucefalo è un requisito, una precauzione dell’istinto per fiutare meglio le insidie dissimulate come sapere tra le pagine dei «nostri antichi tomi». Lo strale di Kafka sibila diretto contro una delle dottrine più gettonate nel mondo degli uomini, costruita attorno all’idea che quella umana non sia una specie vivente tra le tante, ma che, anzi, la natura stessa abbia distillato l’uomo come proprio vertice. Il culto è che il pensiero sia la via maestra che porta ai «cancelli dell’India». Kafka, invece, sfila l’emancipazione dalla sfera di influenza della ragione e la mostra, muta, in dote all’animale. L’avvocato Bucefalo, garantito dalla sua natura selvatica, si trova a vivere così una delicata vicenda intellettuale. In una composizione di poche righe, titolata Desiderio di di­ ventare un Pellerossa, l’artista di Praga capta il pulsare animale della fisiologia nei sensi. Se solo uno fosse un Indiano, vigile all’istante, e su un cavallo lanciato, appoggiato contro il vento, continuasse a sobbalzare, sul terreno che freme, fino a lasciare cadere gli speroni, perché non ci sono speroni, gettare le redini, perché non servono redini, e a stento vedesse la terra davanti a lui liscia come una brughiera falciata, con il collo e la testa del cavallo ormai andati.

La sensibilità è immediata. Il battere del tempo non valica il presente. Il desiderio imprime un moto retroverso alle sequenze che compongono la scena e l’organismo torna ad esistere nella fisica di quello che accade. Le inquadrature slittano quindi sullo smottare di ogni fotogramma. Le parole dissolvono il loro stesso contenuto, fino a quando l’impalcatura mentale che suppone il desiderare scompare, inghiottita dalle sensazioni. L’animale umano e l’orizzonte materiale dell’esistenza convergono nell’individuo. Kafka coglie l’istante. Un alito, mentre l’impulso mediato dal corpo irradia l’intuito.

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L’infiltrazione della scrittura di Kafka, nel reticolo di richiami e allusioni che fa da sfondo al procedere del Nuovo Avvocato, destabilizza l’espressione più evidente del testo stesso. L’artista utilizza l’effetto di instabilità così ottenuto per lasciare la narrazione aperta al formarsi di un senso inedito nella mente di chi legge. Kafka, tuttavia, semina indizi lungo la prosa, suggerendo, nel conciso svolgersi della storia, i luoghi più fertili per l’interesse dei lettori più attenti e dediti allo scavo.

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Il mito del Mito

Rivolgiamo adesso, ancora una volta, la nostra meditazione all’India immaginata dai greci e ai suoi «cancelli», verso i quali, osserva Kafka, Alessandro e la sua «spada» riuscivano a indicare una via fantastica, che si realizzava, tuttavia, nella pratica funesta della guerra. L’obiettivo politico e militare del «Re» consisteva nella missione di estendere l’impero macedone fino ai limiti della terra. Arriano, però, non ha dubbi su quale fosse la reale aspirazione che stregava il monarca. Nella Anabasi lo storico scrive che Alessandro non era in grado di tenersi lontano dal pericolo, perché la brama per la gloria ed il furore in battaglia lo attraevano, «come accade a coloro che sono posseduti da ogni altro piacere». L’annalista, altrove nell’opera, afferma inoltre che Alessandro non concentrava la sua mente su nulla di ordinario e non sarebbe mai stato soddisfatto, nemmeno «se avesse unito l’Europa all’Asia o le isole dei Bretoni all’Europa». Le forze che agitavano l’animo di Alessandro, dunque, non avevano la loro principale radice nell’ideologia imperialista ereditata da Filippo. «Io credo davvero – sintetizza Arriano – che se egli non

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avesse trovato più nessuno contro cui lottare, avrebbe combattuto con se stesso». Nel discorso tenuto durante la riunione con gli ufficiali nei pressi del fiume Ipasico, Alessandro aveva spiegato senza misteri la passione che orientava ogni suo impeto e la sua strategia bellica. In proposito, la frase scandita dal monarca era stata, come già sappiamo, cristallina. […] è mirabile e bello vivere una vita di valore e morire lasciando dietro di sé una gloria immortale.

Alessandro mette poi in evidenza che solo azioni affini alle gesta degli antichi eroi conferiscono bellezza sublime alla vita e possono ottenere dai posteri un riconoscimento avvolto dall’aura di una «gloria» destinata a non tramontare. Kafka sembra scorgere, in questa dimensione più interiore, la forza propulsiva della malia contagiosa che pervadeva l’indole di Alessandro. Il fascino emanava dall’idea che alla vita di un uomo, se vissuta in modo intrepido fino alla morte, potesse poi venire riconosciuto lo stesso valore che la tradizione attribuiva alle figure esemplari degli eroi, simili a dei. Il campo di battaglia era il luogo in cui la metafisica dell’eroismo trovava la sua realtà. L’epopea delle avventure dei guerrieri più valorosi diveniva lo spazio mentale in cui la «gloria» veniva attribuita e celebrata. Una mistica della guerra, quindi, che azionava il carisma del «Re», trasmettendo alla «spada» del sovrano il potere di indicare una «via», diretta ad una meta favolosa, prodotta dall’immaginazione, ma abbigliata con le sembianze della realtà. L’ideale eroico non ha attratto a sé soltanto la psiche di Alessandro, ma ha assunto nei secoli la funzione di uno sfondo dinamico, il quale ha garantito una continuità narrativa alle trasformazioni del modo in cui i greci sono venuti formando la loro concezione del cosmo e della loro stessa vicenda umana. La saga delle avventure di remoti semidei sorge nella pri-

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ma, frammentaria, trasmissione orale del mito. Nell’ordito del racconto mitico, la fantasia poteva lavorare indisturbata, alterando voci e notizie, la cui origine autentica era stata ormai inghiottita dall’oblio. Il potere di plasmare emozioni nella mente umana, proprio delle parole, ha una radice nel lavoro dei poeti arcaici che hanno inventato l’incantesimo generato dalle leggende, composte e cantate nelle loro esibizioni. La relazione tra Alessandro e il mondo evocato dagli antichi poeti viene resa evidente dai suoi biografi, che raccontano la venerazione provata dal comandante macedone per l’Iliade di Omero. Plutarco riferisce che Aristotele attese all’istruzione di Alessandro fino all’età di sedici anni e regalò al principe una trascrizione del poema omerico appuntata dal filosofo di Stagira. Alessandro, prosegue Plutarco, considerava l’Iliade «un manuale per l’arte della guerra» e portò con sé nella campagna militare in Persia «il testo annotato da Aristotele, conosciuto come “la copia dello scrigno”, che egli teneva sempre sotto il cuscino insieme alla sua daga». Non è chiaro come potessero entrare in un bauletto, oppure essere sistemati sotto un guanciale, i numerosi rotoli di pergamena che all’epoca componevano una edizione integrale dell’Iliade, eppure l’immagine che Plutarco trasmette lascia intendere quanto viscerale fosse il trasporto di Alessandro per il poema attribuito ad Omero. Il saggista greco, inoltre, all’inizio della Vita di Alessandro, riferisce di un lignaggio, il quale pretendeva che la discendenza di Olimpia, moglie di Filippo, madre di Alessandro e principessa dell’Epiro, derivasse «da Eaco attraverso Neottolemo». Il mito narra che Eaco, re dell’isola di Egina, fosse il padre di Peleo, dalla cui unione con la dea Teti nacque Achille, l’eroe principale nell’Iliade. Neottolemo, invece, sempre secondo la

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leggenda, era il figlio di Achille e quindi il pronipote di Eaco. Dopo la conquista e il saccheggio della città di Troia, gli Achei destinarono a Neottolemo, come schiava e concubina, Andromaca, moglie del principe Troiano Ettore che Achille aveva ucciso in un duello. Dall’unione tra Neottolemo e Andromaca nacque Molosso, l’originario progenitore della casa reale dell’Epiro, a cui apparteneva, appunto, la principessa Olimpia, la quale partorì Alessandro. Nell’opinione comune più condivisa dell’epoca, il principe macedone ed Achille provenivano quindi dalla medesima stirpe, e questo «è accettato da tutte le autorità», precisa Plutarco. Il biografo del comandante macedone, in aggiunta, rivela che Lisimaco, addetto alla persona dell’adolescente Alessandro, per blandire il principe era solito «chiamare Filippo Peleo, Alessandro Achille e se stesso Fenice». L’Iliade menziona Fenice come una sorta di padre putativo, che allevò e istruì Achille e lo seguì, su incarico del vero genitore Peleo, nella spedizione Achea contro la città di Troia. L’indole di Alessandro, se diamo credito alla redazione di Plutarco della biografia del condottiero, si formò così in un ambiente che trasferiva nella mente del giovane principe la nozione di potere essere, in primo luogo, di natura semidivina, dato che la madre di Achille, suo supposto antenato, era la dea Teti; quindi, proprio per questo, di avere il compito e il destino di emulare le gesta dell’eroe omerico, ritratto nell’Ilia­de come «il migliore degli Achei». Altri episodi, riportati da Arriano e da Plutarco, sono interessanti per comprendere quale genere di concezione fosse cresciuta nella mente di Alessandro in relazione al suo modello e rivale Achille. Quando l’armata macedone attraversò l’Ellesponto ed approdò in Asia, Alessandro volle rendere omaggio ai guerrieri Achei

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che avevano combattuto sulla piana di Troia. Arriano scrive che il re offrì un sacrificio propiziatorio dove si pensava fosse sepolto Protesilao, nei pressi di Eleusi, sulla sponda tracia dello stretto. Nella sinossi del Ciclo Epico stilata da Proclo, si narra che durante lo sbarco dell’esercito Acheo sulla spiaggia davanti alla fortezza di Troia, Protesilao fu il primo tra i greci ad essere ucciso dalle frecce troiane. Giunti nei pressi delle vestigia delle mura di Troia, Alessandro e i suoi compagni, cosparsi di olio, fecero poi una gara di corsa nudi, «come era costume», ricorda Plutarco, dinanzi alle supposte tombe di Achille e Patroclo, per onorare i due eroi. Alessandro depose quindi corone di fiori attorno al tumulo sotto il quale si riteneva fosse sepolto Achille, mentre Efesto, l’amico più intimo di Alessandro, celebrò allo stesso modo il presunto sepolcro di Patroclo. L’audacia, il disprezzo del pericolo e la voluttà per la battaglia sono, però, gli attributi del comandante macedone che più lasciano intendere quanto fosse intenso il carisma che la figura di Achille esercitava su Alessandro. Dopo che i soldati macedoni si erano rifiutati di procedere all’interno dell’India, verso la valle del Gange, il sovrano decise con riluttanza di interrompere l’avanzata. Alessandro non rinunciò, tuttavia, all’idea di raggiungere l’Oceano Esterno. Il contingente macedone si trovava allora in una regione dell’odierno Punjab, in cui scorrono cinque grandi fiumi, che convergono progressivamente in un unico affluente dell’Indo, il quale sfocia poi nel Mare Arabico davanti al Golfo Persico. Il re elaborò dunque il progetto di utilizzare le vie fluviali, per arrivare a quello che all’epoca si pensava fosse il Mare Esterno. Il piano prevedeva di annettere all’impero macedone tutti i territori attraversati dagli imponenti corsi d’acqua e di sottomettere le genti che li abitavano. Alcune delle tribù che l’esercito incontrò durante il tragitto, terrorizzate, si arresero senza provare a resistere. Quando giunsero nei paesi abitati dai po-

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poli più bellicosi, le milizie di Alessandro si trovarono invece di fronte una strenua opposizione armata. Arriano e Plutarco raccontano l’attacco delle forze macedoni alla fortezza dei Malli. I guerrieri indiani erano barricati dietro le mura che cingevano la roccaforte, all’interno della quale la popolazione civile aveva cercato riparo. Le manovre delle truppe macedoni per inerpicarsi sulla fortificazione stavano procedendo troppo a rilento, così Alessandro strappò una scala dalle mani di un soldato, la puntò contro il fortilizio e cominciò per primo a salire lo spalto. Raggiunta la cima del bastione il comandante, resosi conto di essere un facile bersaglio per la pioggia di sassi e frecce nemiche che gli arrivavano addosso, saltò dalla muraglia all’interno della cittadella. La furia con cui Alessandro, ormai in mezzo alla mischia dei nemici, si batteva sbigottì i militi Malli. Nel frattempo solo tre uomini, Peuceste, Leonnato e Abreo, avevano raggiunto il sovrano nella roccaforte indiana, perché le scale, utilizzate dalle unità di incursione macedoni per issarsi sulla rocca, erano poi collassate sotto il peso della calca. Arriano menziona che Peuceste era l’addetto allo Scudo Sacro, che Alessandro aveva portato via dal tempio di Atena a Troia e voleva fosse tenuto sempre vicino a lui durante le battaglie. Lo storico greco, tramite la nota sullo Scudo Sacro custodito da Peuceste, ispira un’allusione al celebre Scudo di Achille, autentico oggetto d’arte intarsiato dal dio zoppo, il fabbro Efesto. Lo Scudo esce dalla fucina di Efesto come parte dell’armatura che Achille indossa nell’Iliade quando il principe Acheo torna a combattere dopo la morte di Patroclo. Alessandro e i suoi tre compagni rimasero quindi isolati nella fortezza dei Malli, accerchiati dai guerriglieri indiani. Abreo venne freddato da una freccia sulla fronte. Alessandro, furibondo, uccideva chiunque gli capitasse a tiro, mentre Peuceste, impugnando lo Scudo Sacro, tentava di proteggerlo dai

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dardi nemici. Leonnato fu ammazzato subito dopo ed una freccia scoccata da una breve distanza colpì anche Alessandro, penetrando in un polmone. Arriano racconta che l’aria sbuffava dalla lesione al petto del condottiero, unita ai fiotti di sangue. Alessandro, barcollando, resisteva comunque agli attacchi dei guerrieri Malli, insieme a Peuceste, pure lui ferito. Plutarco narra che, nel tumulto, percosso da un nemico con una mazza sulla testa, Alessandro alla fine stramazzò a terra privo di sensi. Intanto il corpo speciale addetto alla sicurezza del sovrano e le squadre d’assalto macedoni avevano trovato il modo di irrompere nel forte dei Malli. La carneficina fu totale. I civili furono tutti trucidati, donne e bambini inclusi. La città venne rasa al suolo e i combattenti indiani furono massacrati. Le guardie reali trasportarono Alessandro nell’accampamento macedone, dove, in mancanza di personale medico, l’ufficiale della Falange Macedone Perdicca eseguì l’intervento chirurgico per estrarre la punta della freccia dal polmone del re. Alessandro rimase tra la vita e la morte per alcuni giorni. Poi, scrive Plutarco, fu costretto ad osservare «un lungo periodo di stretto regime», prima di poter tornare a comandare i suoi uomini per guidarli verso l’Oceano Esterno. Il modo in cui Alessandro, nella vita militare, interpretò il proprio anelito verso la nobiltà eroica fu, senza dubbio, radicale ed efficace. Nel discorso tenuto all’assemblea degli ufficiali sulle rive dell’Ipasico, il monarca fece giustamente notare che i traguardi ottenuti dall’esercito macedone sotto il suo comando erano più rilevanti di quelli raggiunti da Dioniso e da Eracle. La leggenda, infatti, riporta che la conquista dell’India da parte di Dioniso si interruppe prima dell’Indo, nella zona più a nord dell’odierno Pakistan confinante con l’attuale Afghanistan, dove il dio dell’ebbrezza fondò la città di Nisa. Alessandro, invece, guadò l’Indo e coprì con i suoi uomini una considerevole distanza oltre il corso del fiume, soggiogando gli

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abitanti di tutte le regioni indiane invase dalle milizie macedoni. Il mito, inoltre, racconta che Eracle non riuscì ad espugnare l’inaccessibile rocca di Aorno, situata in un’area impervia della Bactria. Alessandro, viceversa, conquistò quella stessa fortezza, costruita sulla sommità di un dirupo, tramite una ardita operazione di ingegneria militare. Arriano avverte che le leggende non andrebbero analizzate troppo da vicino, perché «molte cose che la ragione rigetta non sembrano più così incredibili, una volta che un dio viene messo nella storia». Tuttavia, quando vengono accostate le imprese di Alessandro con le gesta di eroi leggendari, oppure addirittura di divinità, si viene a creare una situazione particolare. Una delle peculiarità dei racconti mitici è quella di formulare una sorta di parametro dell’impossibile: quello che gli dèi e gli eroi del mito possono ottenere è quasi sempre inaccessibile per gli umani. Alessandro sovverte questa dinamica. Il giovane re ha in effetti realizzato imprese che gli antichi, ignoti redattori delle narrazioni mitiche nemmeno supponevano si sarebbero mai potute concepire. La funzione fantastica del mito, dunque, si inabissa quando l’effetto concreto dell’azione umana toglie all’impossibile il suo aspetto fittizio di limite dato.

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Bucefalo, l’animale e il processo chiamato mente (2)

Kafka afferra lo sviluppo paradossale che conduce al collasso del potere evocativo dell’immaginazione. Il fascino effuso dalle storie inventate da remoti bardi, filtrate dalla tradizione, provvede l’energia che permette alla «spada del Re» di indicare «una via verso l’India». La malìa raggiunge un’intensità capace di assumere, nella percezione degli individui, la consistenza di una simulazione che surroga il reale. Quando la prassi, però, rivela la meccanica e l’efficacia del proprio incedere, il carisma dell’incanto evapora. Il disorientamento tesse allora i progetti di quelli che seguitano a brandire spade e la confusione occupa «l’occhio che cerca di seguirli». Lo scrittore, tuttavia, non si unisce allo sbandamento pragmatico, ma affida all’ibrido Bucefalo il compito di rileggere «i nostri antichi tomi». Il «Dr. Bucefalo» non possiede una esistenza propria, ma abita la mente umana, come un’attività simbolica interna al circuito di elaborazione e smistamento di informazioni e suggestioni, nell’ignoto traffico che connette la fisiologia con la sostanza delle creature che emergono dall’uso delle parole. Kafka, alla fine, suggerisce ad ognuno di «fare come ha fatto Bucefalo ed immergere se stessi nei libri di legge». L’invito

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suona come uno stimolo a prendere possesso del proprio intelletto e della sua fibra creativa. Bucefalo non si ritira nella quiete solo per assimilare l’arcaica saggezza, ma «legge e volta le pagine dei nostri antichi tomi» per riattivare l’utilizzo di antichi impulsi all’interpretazione ed inventarne di nuovi. I «tomi» che Kafka consegna all’intelligenza animale di Bucefalo non possono avere versioni canoniche, oppure un testo finito, ma nemmeno vere e proprie «pagine». L’artista di Praga sembra riferirsi ad un processo più fondamentale della scrittura. La fabbrica della mente lavora come un cantiere frammentario, che non smette di operare fino a che il suo correlato cerebrale funziona. Il filamento verbale dei contenuti mentali è costretto continuamente ad assicurare una miriade di effetti simultanei, per potersi realizzare. Bucefalo ha quindi a che fare con le forze che innervano la composizione delle parole. Quando Arriano descrive il momento in cui Alessandro raggiunge la sommità della fortificazione che proteggeva la roccaforte dei Malli, il biografo presenta nel suo racconto una nota interessante. Una volta in cima al baluardo, Alessandro diventa l’impotente bersaglio di uno sciame di frecce nemiche. Il comandante capisce che, così esposto, egli non sarebbe stato in condizione di «realizzare nessun atto meritevole di considerazione». Alessandro decide allora di balzare dentro il forte, in mezzo ai guerrieri Malli, pensando che in quel modo, nella peggiore delle ipotesi, «sarebbe morto in modo non ignobile dopo avere compiuto imprese di valore, degne di essere ricordate dagli uomini dei tempi a venire». Arriano illustra così l’attimo in cui l’anelito alla «fama» rivela la sua essenza ed il proprio prezzo. La «gloria immortale» pretende il decesso dell’eroe. Nel mondo greco non è presente l’idea di una vita oltre la barriera della morte. Nell’Ade non esiste nulla di vitale. L’oltretomba del mito è abitato dalle anime defunte di coloro che

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un tempo erano vivi. I greci davano dunque alla vita un valore estremo. Il tipo di eroe cantato dagli aedi non cade nella trappola costituita dalla paura di perdere l’esistenza ed ha il coraggio di condurre la propria vita, proiettandola in un futuro che a lui sarà comunque negato. Il luogo in cui le «imprese di valore» degli eroi vengono inventate, celebrate e divulgate alle generazioni che verranno è l’opera di artisti e di bardi che raccontano in musica «le grandi azioni degli uomini». Le canzoni dei poeti danno all’evocazione delle vicende eroiche una forma, la quale può diventare «gloria immortale» solo in quanto è percepita da coloro che partecipano alle esibizioni dei rapsodi. L’etica degli eroi non è un’apologia dell’audacia di individui speciali, della potenza marziale di eserciti, di stati, oppure di imperi. Da questo punto di vista è impossibile considerare Alessandro un “eroe”, nonostante il suo coraggio spericolato in battaglia e la sua abilità di generale e di stratega. Il motivo che esclude Alessandro di Macedonia dalla lista delle figure epiche, comunque, risulta essere più semplice e profondo della repulsione che può provocare la sua ideologia imperialista, prototipo della nozione di imperialismo globale ancora in voga nel mondo contemporaneo. La ragione è che Alessandro rimane, alla fine, un personaggio storico, anche se la sua immagine è stata plasmata dalle tendenze fiabesche ed agiografiche dei suoi biografi. Gli eroi protagonisti dei miti e dei racconti epici, viceversa, sono creature costituite da parole. Le figure che animano le saghe antiche non hanno un’esistenza fuori dal racconto in cui appaiono le loro imprese, ma condividono con noi la virtualità della propria essenza, dato che abitano, appunto, solo la nostra mente. Kafka delinea con tratti veloci lo scadere progressivo della capacità di immaginare mediata dall’idioma, quindi muove Bucefalo all’interno dell’ambiente astratto in cui la creazione dei

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contenuti verbali forma la mente. L’istinto animale di Bucefalo mantiene l’astrazione connessa al corpo, come funzione della materia, in conflitto con la prassi offuscata di quelli che agitano spade. L’autorevolezza del «Re» era radicata nella abilità del monarca di controllare il frutto dell’affabulare. Nel mondo odierno, invece, una legge incorporea attira le sorgenti di ogni cosa, mentre i suoi concreti funzionari annaspano attorno ai posti di potere. L’avversione di Bucefalo rispetto a tutto questo non è meno strenua della ripugnanza dimostrata da Kafka, che ospitava l’avvocato nel proprio ingegno. Nella visione di Alessandro, l’accesso ai «cancelli dell’India» avrebbe consentito all’esercito imperiale di raggiungere l’Oceano Esterno e di assoggettare poi tutti i popoli che abitano la terra. Il valore della vita, secondo la prospettiva metafisica del re macedone, consisteva nel compiere in modo esemplare le azioni necessarie a realizzare il progetto di conquista totale del mondo. Quelle «imprese di valore» avrebbero dovuto assicurare agli eroi protagonisti di tali gesta una «gloria immortale». «Oggi i cancelli – scrive Kafka – sono ritirati in luoghi più alti e più remoti». Una entità ineffabile rileva il ruolo del monarca e svuota le parole. Lo scopo di questo moderno strumento di potere non è più occupare le terre e dominare le moltitudini. Il suo fine è etereo, almeno quanto la sua essenza immateriale: vocaboli, lemmi, definizioni, sono irrilevanti e non possono imbrigliare nella rete del senso la forma assente della legge.

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Il balzo metafisico

La nota di Kafka, riguardo i luoghi rarefatti in cui «i cancelli dell’India» sarebbero retrocessi, stimola livelli di riflessione diversi, tra loro integrati. L’osservazione sembra registrare la mutazione avvenuta nella forma del linguaggio che il pensiero utilizza per descrivere l’ambiente in cui l’esperienza umana si accorge di esistere. Tramite sensazioni, immagini, parole e concetti, l’umanità ha inventato se stessa e un mondo conforme alle variazioni delle proprie esigenze. Il contenuto delle narrazioni che plasmano lo sfondo letterario della psiche umana, tuttavia, risulta inutile e fuorviante al fine di comprendere il funzionamento della realtà fisica e delle fluttuazioni di energia che costituiscono la materia. I numeri e una rete di connessioni logiche, d’altra parte, consentono all’intelligenza di formare i modelli concettuali utilizzati per pensare le trasformazioni continue di tutto quello che esiste. Matematica e logica formale sono le estensioni della ragione che intercettano le strutture elementari della materia, le quali si mostrano, per un singolare paradosso, più astratte di ogni astrazione intellettuale. La fabbrica della natura si rivela indifferente alle necessità della mente. Il bagaglio razionale rimane quindi dimensionato e la sua sede naturale slitta nell’ambito degli attributi animali che distinguono la specie umana.

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Nella realtà fisica che conosciamo, lo spazio mentale in cui si formano vocaboli sembra emergere dall’attività elettrica e chimica degli organismi umani. Tra gli esseri viventi che producono immagini e suoni, gli umani sono gli unici ad applicare il filtro delle parole all’interpretazione dell’effetto che stimoli diversi hanno sulla fisiologia. L’indagine della scienza non rileva però la presenza di un fenomeno osservabile che possa coincidere con l’entità cui allude il senso più diffuso della parola “mente”. Le procedure dell’analisi scientifica mostrano, invece, l’attività continua di un processo, teso a tramutare gli esiti elettrici e chimici del lavoro organico nel flusso di elementi utili alla creazione del mondo psichico, in cui avviene l’esperienza degli individui. L’astratta proiezione della “mente” svanisce non appena si arrestano le mansioni organiche dell’individuo, necessarie all’esistenza immateriale della “mente” stessa. Il metabolismo che forma le articolazioni mentali, dunque, non trascende la materia, ma si manifesta come una funzione dell’organismo. La scena condivisa del dinamismo mentale, inoltre, che sembra essere forse l’invenzione evolutiva più prolifica della specie umana, sussiste solo in quanto percepita dalle persone coinvolte nel traffico delle informazioni. Il balzo metafisico, innescato dal procedere del pensiero speculativo e dell’osservazione scientifica, muove l’umanità in un cosmo dove frammenti del reale vorticano, «in luoghi più remoti e più alti», lontano dalla possibilità di essere afferrati dagli umani. Come effetto dello sviluppo iperbolico della intelligenza che comprende ed interpreta le trasformazioni naturali, alle parole sfugge la presa sulla realtà. Lo sguardo di Kafka è lucido: nel mondo contemporaneo «nessuno in assoluto può tracciare una via verso l’India», perché la consistenza simbolica dei «cancelli dell’India» esprime la loro sostanza solo verbale. I «cancelli dell’India» risolvono in se stessi e non indicano nulla

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di reale. Un costrutto di vocaboli edifica il mondo immaginato dagli uomini, ma non esistono parole fuori dalla realtà astratta inventata dagli umani. Una sola differenza distingue le élites politiche, militari, economiche, intellettuali e sacerdotali, le quali filtrano nel racconto di Kafka attraverso l’effigie di Alessandro, dai gruppi di potere che oggi «portano spade, ma solo per brandirle». Le aristocrazie in generale hanno sempre sfruttato il fascino psicologico dei miti al fine di legittimare il proprio ruolo nella gerarchia sociale e le azioni necessarie a difendere la propria egemonia. Il carisma della forma mitologica, radicato su un’esagerata valutazione della funzione del linguaggio simbolico, abilita una esegesi di profilo teleologico delle narrazioni mitiche. Alessandro poteva così segnare la via verso i fantastici «cancelli dell’India», perché quasi nessuno dubitava la solidità effettiva dell’intera prospettiva generata dal mito. Le attuali classi dirigenti, invece, sprovviste di una qualsiasi concezione dell’esperienza umana, brancolano nel buio e vivono alla giornata. I numeri descrivono una realtà che procede in modo inatteso, dove ogni sviluppo dipende da una infinità di opzioni che reticolano verso mete indeterminate: architettare una visione coesa dell’accadere, oppure anche metaforica, sarebbe impossibile e inutile. Un potere impersonato da mezze figure e da burocrati, per garantire se stesso, escogita allora una mitologia evanescente. Una versione diffusa di questo idolo moderno mistifica, in modo sistematico e in ogni campo, gli esiti dell’indagine scientifica. Le proposizioni della scienza, falsificate, si impongono così come prescrizioni all’individuo e indicano un supposto ordine etereo nella natura, al quale il singolo sarebbe, comunque, uniformato. La varietà più pervasiva del feticcio, tuttavia, forse è proprio la stessa idea di legge. Kafka esplora nel romanzo Il Processo la relazione tra l’individuo e la dottrina metafisica che emana

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dal concetto di legge. Una legge non tangibile, priva di codice e di precetti, che attira l’ombra della persona in un gorgo, fino al punto in cui, con un gesto volontario, il soggetto rinnega se stesso e consegna il governo della propria vita ad un apparato e ai suoi funzionari. Non è un caso che Kafka abbia pensato il veterano di molte battaglie Bucefalo come un legale. L’animale fiuta il subdolo profilo impalpabile della legge e decide autonomo la propria condizione di individuo; quindi, svincolato da ogni impedimento, lontano dal chiasso mondano, l’originale giurista studia la trama sparsa dei «nostri antichi tomi» per inventare il futuro. Kafka scrive che anche adesso, come all’epoca di Alessandro, «per molti la Macedonia è troppo piccola». Bucefalo ed Alessandro non potevano sopportare il limite angusto del mondo di Filippo, così hanno stracciato insieme quel confine. La vicenda storica è nota. Kafka sembra però rilevare che nella mente degli uomini la via percorsa dal comandante macedone ed il varco aperto dall’intangibile destriero non hanno avuto un medesimo destino. Il condottiero rivolse la sua «spada» verso «l’India», propagando oltre frontiera il regno del padre e la suadente mania del potere articolata dalla cultura greca. Alessandro fondò un impero di cui Filippo sarebbe stato fiero. Bucefalo è posto da Kafka, invece, sul lato ignoto, dove le parole sorgono in mezzo a quello che ancora non esiste. Il Nuovo Avvocato fu pubblicato nel 1919, come primo racconto nella raccolta Un Dottore di Campagna. Kafka non poteva prevedere quindi che la marcia della scienza, lo sviluppo della logica e la conversione digitale della realtà umana avrebbero confermato, ad un secolo di distanza, la lucidità delle sue intuizioni: per noi non ci sono forse oggi «luoghi più remoti e più alti» del fervore astratto del nostro corpo e del nostro cer-

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vello. L’artista di Praga, nondimeno, segnala tramite Bucefalo l’avvento possibile di una forma inconsueta di individuo, un processo reticolare di impulsi e di parole, il quale potrebbe coniare soglie nuove, tra la polvere accumulata sulle «pagine dei nostri antichi tomi». Miraggi simili alla chimerica «India» di Alessandro hanno fatto ormai il loro tempo. I nostri «cancelli» sporgono sospesi su altre ipotesi. Possibilità inedite dell’organismo divengono ora avventure della mente. Noi possiamo immaginarle reali, oppure spingerle nel nulla.

II Il Bardo origina la Forma

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Omero: il mito come critica del Mito

Achille, il principe Acheo che per Alessandro era un modello ed un rivale, condivide con l’avvocato Bucefalo e l’Alessandro inventato da Kafka un’esistenza solo letteraria. Tratti molto scarsi, invece, assimilano il personaggio storico del condottiero macedone al guerriero omerico. Prima di proseguire proviamo a rendere più esplicito il rapporto tra la sensibilità speculativa di Kafka e l’opera di Omero. Walter Benjamin, nel saggio Franz Kafka. Per il decimo an­ niversario della sua morte (Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962), osserva che «Kafka pensa in termini di epoche cosmiche». Il cosmo percorso dall’intelletto di Kafka, naturalmente, non è lo spazio siderale in cui esplosioni atomiche generano corpi celesti e sistemi di stelle. L’artista si muove all’interno di un universo più modesto ed etereo: il pensiero di Kafka attraversa l’estensione immateriale della mente umana. Le tre prospettive dello spazio e quella del tempo, nelle quali si manifestano le leggi che regolano la fisica classica, interagiscono immediate, nella realtà della mente, con la non-località, propria delle fluttuazioni dei quanti. L’assenza della materia dallo spazio mentale, tuttavia, accorda alle modalità di intera-

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zione derivate dalla fisica una presenza solo virtuale nelle galassie aperte dalla percezione degli individui. Nella mente si formano creature composte da concetti quando si cerca di ottenere un senso dagli stimoli emessi nella diffusione, apparentemente sconnessa, di frammenti verbali, immagini, suoni, sensazioni. Il magmatico fluire si presenta come una sorta di versione analogica mentale del traffico digitale di scariche elettrochimiche che attraversano l’organismo. Il nesso, tra le quantità di energia che animano il corpo e la sostanza che nella mente prelude a parole e forme, pare stabilito, però, da una logica negativa. La materia in cui risolve il corpo e l’assenza di materia, peculiare a tutto ciò che è mentale, si negano reciprocamente. La presenza della materia, infatti, impedisce il proprio sincrono mancare e viceversa. Nonostante ciò, tuttavia, le due condizioni di esistenza (stato fisico e stato mentale), in quanto esprimono il medesimo individuo, sono fuse in una unità indissolubile. La negazione logica e la sua derivazione metafisica – il non essere – sembrano regolare anche lo snodato reticolo che stabilisce legami tra le diverse architetture concettuali, le quali generandosi plasmano la mente. Non esistono due pensieri uguali, due identiche rappresentazioni, due sensazioni medesime. Inoltre è impossibile enunciare l’identità di una stessa impressione, dato che una percezione si mostra immediatamente per quello che essa, in effetti, non è. Le affinità che attivano cascate di agganci tra addentellati di concetti, stimolate dalla presenza della negazione che effonde lo spazio logico, sono, quindi, risonanze di similarità, analogie, assonanze, rapporti di familiarità. Questa situazione logica, tipica dei contenuti mentali non relativi alla computazione, restringe e definisce il campo razionale inerente alla possibilità di asserire con criterio verità determinate nei propri giudizi.

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L’universo che un intelletto può solcare si forma tramite intuizioni percepite di energie, sensazioni, stati d’animo, suoni, immagini e parole. Le epoche cosmiche traversate dal pensiero di Kafka ed indicate da Walter Benjamin, dunque, sono in effetti molto più modeste delle distanze nello spazio galattico tagliate da esplosioni di stelle, ma hanno, tuttavia, la stessa immateriale dilatazione dell’interiorità umana. L’indole dei singoli individui trova i modi del proprio sviluppo tra le parole anche grazie al lavoro di autori sorgivi, come, ad esempio, Franz Kafka ed Omero. Molti narratori sono inventori di storie. In senso più generale, parecchi artisti realizzano lavori originali con la loro attività. Le fonti autentiche dalle quali nascono stimoli in grado di generare stati d’animo del tutto inediti, tuttavia, sono rare. Dell’antico poeta, che una tradizione arcaica vuole cieco e proveniente dall’isola greca di Chios, abbiamo però solo l’opera a lui attribuita. Ma per quanto riguarda il bardo “Omero”, l’individuo, in realtà non sappiamo nulla. Un passo del libro Homeric Questions (University of Texas Press, Austin 1996) di Gregory Nagy può aiutare a capire la situazione inattesa a cui sono approdati gli studi di storia e filologia classica contemporanei nel tentativo di stabilire un’origine attendibile dei poemi omerici e l’identità del loro autore. Fino ad ora abbiamo visto una varietà di miti che offrono una spiegazione tipo “big bang” dell’opera omerica. […] All’inizio c’è il mito di Omero autore dei poemi omerici. Una metafora associata con questo mito è quella di un maestro artigiano che produce un capolavoro. Poi ci sono i miti di un rifacimento post-omerico dei poemi. Tra le metafore usate in questi miti c’è quella di una tela integrale prodotta dal “cucire insieme” pezzi di tessuto, che corrisponde al poema che rapsodi diversi mettono insieme cantando in sequenza parti di canzoni differenti. Ma forse la metafora più saliente di tutte viene da storie più tarde che riguardano un testo scritto prototipico, disinte-

66 grato in brani separati, i quali sono stati tutti ad un certo punto reintegrati da un eroe che nella cultura funge da archetipo.

La genesi del mito si rivela in un proliferare indecifrabile di miti. In modo non diverso, la sorgente del nome “Omero”, associato alla figura di un «maestro artigiano», prototipo dell’idea stessa di autore, dirama in una molteplicità di indizi filologici. Jonathan S. Burgess (Homer, I.B. Tauris & Co., London 2015) sintetizza in poche righe l’attuale stato dell’arte della ricerca. L’etimologia del nome “Omero” viene ugualmente esplorata. La radice del nome è spiegata in modo suggestivo come “redattore” (della canzone) oppure “raduno” (ai festival). La traduzione antica di Homerus come “ostaggio” può essere giustificata dalla stessa radice. Nagy compie un passo ulteriore suggerendo che i poemi omerici rappresentavano un legame nella cultura pan-Ellenica. Il leggendario nome “Omero” potrebbe così indicare all’origine, performance e diffusione della poesia omerica.

L’incontro con le storie immaginate da Kafka, oppure con i poemi cantati dai bardi sepolti nella sigla “Omero”, si rivela perciò singolare e disloca il lettore in un luogo dell’intendere popolato dalle creature che si formano mediante l’utilizzo delle parole. Possiamo provare a trovare qualche aggancio tra il lavoro di Kafka e le saghe che la tradizione orale micenea protende oltre il proprio oblio. In particolare, osservando Alessandro e Bucefalo, protagonisti del racconto di Kafka, si può rilevare qualche analogia tra lo sfondo teoretico che affiora da Il Nuo­ vo Avvocato di Kafka e il modo in cui tra le parole di Omero prende forma la scena dell’Iliade. La vicenda che spinge in una spirale tragica l’esercito greco e gli abitanti della città di Ilio si svolge nello spazio aperto dalla narrazione omerica. Kafka contrae l’orizzonte del mito in una invenzione di poche righe.

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Alessandro, se stiamo alle notizie biografiche compilate da Plutarco e da Arriano, venne allevato nella convinzione di essere lui stesso, non solo un discendente, ma l’autentico erede carismatico di Achille. La principessa Olimpia, madre del comandante macedone, apparteneva infatti alla casa reale dell’Epi­ro, il cui ceppo, secondo una leggenda ancestrale, derivava dal progenitore Molosso nato da Neottolemo, il quale a sua volta era figlio del principe Acheo. L’orizzonte intero della vita di Achille è contenuto nei versi dell’Iliade e in pochi altri remoti frammenti di antiche canzoni. Alessandro, infatti, se prestiamo ascolto ad Arriano e Plutarco, traeva le motivazioni più intime e profonde del suo agire da una interpretazione tipica delle vicende degli eroi narrate nel poema omerico. Il personaggio del «Re» creato da Kafka nell’ideare Il Nuovo Avvocato, un condottiero capace di incendiare l’animo dei suoi uomini puntando la «spada» verso i «cancelli» fantastici dell’India, emerge dunque da un fondale che emana la luce crepuscolare diffusa dal mito, attribuito a «Omero», in cui si attiva la vicenda della guerra combattuta sulla piana di Ilio. Bucefalo, invece, riverbera nella trama del Nuovo Avvoca­ to alcune delle mosse più cruciali compiute da Achille lungo lo svolgersi della saga omerica. Bucefalo trasforma se stesso, mantenendo nel proprio divenire tutta la genesi di ogni suo mutamento. La metamorfosi attiva nell’animale il continuo processo in cui consiste l’individuo. Il cavallo ibrido, in primo luogo, svincola i «suoi fianchi» dall’ostacolo costituito «dalle cosce di un cavaliere». Poi, «libero e distante dal clamore della battaglia», Bucefalo si ritira in uno spazio interiore, dove «nella fioca luce di una lampada» inizia un modo inedito di concepire, mentre «legge e gira le pagine dei nostri antichi tomi». Kafka delinea con pochi tratti una sorta di anatomia del tipo di entità che Bucefalo si accinge ad iniziare. Un individuo non soggetto ad alcun potere sorge in una relazione ininterrotta

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con l’ambiente in cui la propria esistenza accade. Nel metabolismo dell’esperienza individuale, gli elementi sono le informazioni, le parole, gli aggregati di concetti, le narrazioni inventate, le sensazioni, che formano il mondo psichico senza materia e privo di confini abitato dagli umani. Gli «antichi tomi» meditati da Kafka sbucano improvvisi alla fine del Nuovo Avvocato come una breccia sul limite delle parole. Una soglia che permette a Bucefalo di sporgersi sulla vertiginosa apertura del possibile.

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Il Mondo in Pezzi: Achille e la Forma del Potere

Se Bucefalo nel Nuovo Avvocato si rivela arguto e non prono al compromesso, la condotta con cui Achille procede nell’Ilia­ de mostra un personaggio lucido, risoluto e radicale. Achille opera un taglio nel reale. Nella lesione cresce la forma di un esperimento. L’individuo interpretato dal principe di Phthia tra le parole del poema riflette nella trama lo svolgersi dell’esperimento stesso. L’Iliade mette in scena la collera di Achille. I versi iniziali rendono evidente la portata “cosmica” assunta nel poema dagli eventi correlati alla «rovinosa ira» del giovane principe. Il cosmo indicato dal racconto è quello del mito. Nella fibra moderna della nostra sensibilità possiamo forse afferrare meglio la consistenza del mito pensando al fondamentale esercizio “letterario” della mente. Una dimensione virtuale, dunque, che aziona in una forma narrativa la realtà psichica effusa dalle funzioni della fisiologia. Lo sfondo dell’universo mitico indica l’orizzonte della natura. Le forze della natura entrano nel mito tramite le divinità che le raffigurano in una versione accessibile al fantasticare proprio degli umani. Quando la performance inizia, la Musa viene invocata mentre il rapsodo precipita in uno stato di sintonia con la coerenza

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metalogica che pervade il poema, in cui si realizza arcana «la volontà di Zeus». L’artificio divino offre almeno la parvenza di una prospettiva alle vicende degli umani. L’artista ottiene la scienza totale della propria creazione mentre inventa il racconto stesso. Lo snodo della vicenda, tuttavia, non sorge dal nulla. La tradizione orale veicola frammenti, temi, formule, intere canzoni. I «nostri antichi tomi» radicano senza forma in una specie di preludio alla possibilità medesima di comporre. La metafora della narrazione astrae dall’organismo, dove è assente ogni verbalità, le sensazioni che supportano i vocaboli. Il mito accade dunque nella percezione di chi ascolta l’esibizione dell’aedo, oppure nell’intelletto del lettore che ha tra le mani una residua traccia scritta dell’evento costituito dalla performance. Personaggi, luoghi, accadimenti, assumono così una vita propria, senza muovere un passo, però, oltre il limite delle parole che articolano la nostra mente. Il paradosso interiore della coscienza, in effetti, non pare scostarsi dal mito in nulla di essenziale. L’invocazione alla dea avvia la formazione del mito. Il processo della trasmissione si innesca nella mente dell’aedo e nell’esperienza di coloro che sono presenti alla performance. L’Iliade si apre nell’attimo in cui l’oracolo divino, la visione del rapsodo e l’immaginazione di chi ascolta, ad un tratto collassano indistinti nel mezzo degli avvenimenti che affliggono i guerrieri Achei accampati su una spiaggia nei pressi della città di Troia. La peste falcidia l’esercito greco. Nel registro del mito le epidemie vengono intese come una espressione della «furia» di Apollo. Un oltraggio al dio era stato infatti perpetrato dal comandante della coalizione militare greca Agamennone, il quale aveva impaurito e offeso Crise, sacerdote del «figlio di Leto e Zeus». Crise era giunto nel campo greco mostrando le insegne del dio, per implorare gli Achei di rilasciare sua figlia Criseide sequestrata dai soldati greci come parte del bottino

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razziato durante il sacco della città Crisa, situata non distante da Tebe nella regione della Troade. Per rispetto verso il sacerdote di Apollo, gli Achei si dichiararono tutti d’accordo. Agamennone infastidito, tuttavia, liquidò Crise in malo modo dopo averlo minacciato. Terrorizzato e afflitto, il religioso pregò allora Apollo di fare pagare ai Danai lo sfregio subito e il nume furente non tardò ad esaudire la sua supplica. Apollo, dio della forma, mantiene la distanza e colpisce da lontano. La peste iniziò dunque di lì a poco a piovere dal cielo sulle navi greche, diffusa dai dardi invisibili scagliati dalla divinità. Nel decimo giorno della pestilenza Achille convocò una assemblea degli Achei per fare luce sul motivo che aveva scatenato l’ira di Apollo. L’indovino Calcante venne così chiamato per svelare l’origine dell’affronto al dio. L’apparizione di Calcante segna il principio dello scontro tra Achille ed Agamennone. L’alterco porterà ad una rottura insanabile tra il principe Acheo e la cultura di cui il despota di Micene era un emblema, alla quale fino a quel momento Achille stesso apparteneva. L’I­ liade mette in scena, dunque, l’avventura di un mondo scisso nella propria essenza. L’individuo e le forze che plasmano in qualche modo un consorzio umano sono tenuti insieme, nella performance del rapsodo, dal medesimo conflitto che ne determina, al tempo stesso, la reciproca distinzione. Sul punto di annunciare il vaticinio, Calcante pretese una protezione totale da parte di Achille. Il veggente temeva la ritorsione di Agamennone. Calcante sapeva che la sua divinazione avrebbe irritato il sovrano e che «quando un re è adirato con un uomo di umili origini» prima o poi gliela fa pagare. Achille iniziò a capire la situazione e rassicurò l’aruspice. Prendi coraggio e parla liberamente […] nessun uomo fino a che io vivo e vedo la luce su questa terra alzerà una mano su di te […] nessuno dei Danai, nemmeno se tu nomini per-

72 fino Agamennone, che ora sostiene di essere di gran lunga il migliore degli Achei.

L’oracolo del veggente fu stringato e argentino, ma al tempo stesso cupamente presago. L’indovino disse che Agamennone aveva disonorato il sacerdote di Apollo e rifiutato di rilasciare sua figlia. Il dio che colpisce da lontano aveva dunque saettato sugli Achei la sventura dell’epidemia. La peste non sarebbe terminata fino a quando la fanciulla non fosse stata restituita al padre senza condizioni. Calcante concluse e si mise a sedere. Agamennone si alzò e prese la parola. Molto contrariato, con il cuore scuro consumato dalla rabbia, i suoi occhi infuocati. Truce, si rivolse a Calcante: “Profeta di sventura, mai una volta che tu mi abbia detto qualcosa di buono, predire il male è l’unica cosa che ti aggrada”.

Con l’ambiente che iniziava rapidamente a farsi saturo per la tensione gli eventi precipitarono. Agamennone sbraitò di avere rifiutato il riscatto per Criseide perché preferiva la ragazza a sua moglie Clitennestra e voleva averla nella sua casa. In ogni caso era disposto a liberare la giovane se la cosa serviva per placare Apollo e a salvare i suoi uomini dalla pestilenza. Ma il sovrano esigeva di essere risarcito. Un uomo del suo rango non poteva restare «il solo tra gli Achei» a mani vuote. La spartizione del bottino razziato durante i saccheggi seguiva, nella civiltà militare micenea, criteri di distribuzione abbastanza rigidi, legati al riconoscimento del valore e del grado nella gerarchia proprio di coloro a cui veniva assegnata la frazione di refurtiva. Criseide venne destinata dagli Achei ad Agamennone, come parte della ricompensa dovuta al monarca dopo la razzia delle città di Crisa e Tebe. Agamennone, quindi, pretendeva ora un’altra donna per rimpiazzare la schiava di cui era costretto a privarsi per calmare il dio.

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Achille intervenne a questo punto per rispondere ad Agamennone. Figlio di Atreo, il più onorato e di tutti gli uomini il più avido di possesso, come possono gli Achei dal grande cuore darti un compenso? Non ci sono eccedenze stipate in un deposito comune da qualche parte, ma tutto quello che abbiamo portato via dalle città è stato distribuito e non è possibile togliere agli uomini quello che è stato loro già assegnato.

Le parole di Achille sono affilate. Il principe ha inteso la dottrina veicolata da Agamennone. Il re vuole legittimare una verticale concezione del potere fondato sull’arbitrio. Achille esprime invece una visione opposta, inconciliabile con l’anelito della casta effigiata dal monarca di Micene. Il figlio di Teti profila un’idea del diritto radicato in accordi e patti tra individui di uguale valore. In questo suo primo breve discorso, Achille sottolinea infatti alcuni dei termini, stipulati durante la formazione delle alleanze belliche tra i diversi principati greci, i quali regolavano le ripartizioni dei bottini di guerra. La parte finale dell’intervento dimostra quanto tali suggelli, nonostante la loro inviolabilità, fossero alla fine anche flessibili. Se Agamennone avesse rinunciato alla ragazza, terminò Achille, gli Achei avrebbero poi pagato a lui anche quattro volte tanto, se mai Zeus avesse concesso ai Danai «Troia dalle splendide mura da saccheggiare». La collisione tra le due personalità più influenti dello stato maggiore Acheo è ormai in atto. Agamennone prova un’ulteriore mossa per aggirare l’urto, ma l’impatto risulta inevitabile. L’approccio del monarca si rivela maldestro. Agamennone prova a blandire il figlio di Peleo, articolando le parole in un amalgama di intimidazione e lusinga. Lo scopo è confinare Achille in una posizione subalterna, soggetto ad una autorità fondata sul rango e impersonata dal sovrano.

74 Non provare ad ingannarmi in questo modo, divino Achille, perché non sei più furbo di me e non mi convinci. Oppure intendi che mentre tu hai un premio io stia seduto qui senza nulla? Mi stai ordinando di restituire la ragazza? No, o gli Achei dal grande cuore mi danno un compenso che mi soddisfa, oppure io stesso verrò a prendere il tuo premio, o quello di Aiace, sennò vado e mi porto via la ricompensa di Odisseo; e chiunque andrò a trovare sarà pieno di rabbia; ma penseremo a queste cose più tardi.

Agamennone espone la logica che anima il potere. Pretende forse il principe di Phthia di ordinare al re di rilasciare Criseide? Achille si sta muovendo sul filo dell’insubordinazione. Non conta quanto alto sia il suo valore come uomo e guerriero, ma nella catena di comando il grado di Achille rimane inferiore a quello di Agamennone. Anche se è il figlio di una dea, Achille deve obbedire. L’arbitrio del monarca è legittimo e necessario per mantenere inalterato l’ordine costituito da Zeus. La chiusa dell’arringa di Agamennone è indirizzata ad irretire Achille. Una nave comandata da un uomo accorto e idoneo ad officiare l’olocausto dovuto al figlio di Leto avrebbe ricondotto Criseide dal padre, annunciò Agamennone. Il sovrano menzionò Aiace, Idomeneo, Odisseo, ma terminò poi dicendo: […] oppure tu, figlio di Peleo, il più terrificante di tutti gli uomini, potresti riconciliare a noi Apollo il quale agisce da lontano, e celebrare il sacrificio.

L’approccio di Agamennone risultò del tutto fallace. Achille fissò il despota con uno sguardo feroce e iniziò a parlare. Sei senza vergogna, astuto nello spirito, come può un Acheo ubbidire con cuore sincero le tue parole, mettersi in viaggio con te, oppure unirsi a te in battaglia?

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L’attacco del figlio di Peleo al mondo rappresentato da Agamennone cominciò, lucido, calibrato, fino ad assumere velocemente una dimensione consona alla portata del poema. In primo luogo, Achille ristabilì i fatti. I soldati Troia­ni non gli avevano fatto nulla, non gli avevano rubato il bestiame, non avevano distrutto il suo raccolto a Phthia. Non era a causa loro che lui stava combattendo quella guerra. Il tono si fece poi implacabile. Ma noi abbiamo seguito te, grande impudente, per la tua soddisfazione, e per fare risarcire Menelao e te, faccia di cane, dai Troia­ni. Di questo non consideri nulla e nemmeno ti importa.

Rivolto ad Agamennone, Achille saettò che il despota avrebbe ora voluto togliergli il premio che lui aveva ricevuto dagli Achei, ma, proseguì il principe, «sono le mie mani che conducono la parte maggiore di questa guerra furiosa». Inoltre, quando si arrivava alla divisione delle spoglie dopo il saccheggio di qualche città nella Troade, la parte più cospicua del bottino andava sempre ad Agamennone. La misura era colma. Ora me ne vado a Phthia, perché è molto meglio andare a casa con le mie navi curve, e non intendo restare qui disonorato, accumulando ricchezze e sfarzo per te.

La decisione di ritornare a Phthia non verrà mai resa operativa da Achille. Il ritiro dalla battaglia del guerriero più temibile tra i soldati Achei sarà, invece, il modo in cui l’ira di Achille si manifesta nel poema. Ascoltate le parole del principe Acheo, Agamennone realizzò che il suo scontro con Achille non era più solo un cruento alterco tra i due generali più prestigiosi dell’esercito greco. Il disprezzo di Achille non era diretto unicamente al sovrano di Micene, ma investiva la stessa struttura tradizionale dell’ap-

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parato di potere degli Achei. Achille andava, dunque, subito emarginato. L’invettiva del figlio di Peleo poteva infatti rivelarsi contagiosa e diffondere un’inquietudine infida tra i soldati.

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Il morale della truppa

Dopo un interminabile assedio, giunto ad una situazione di stallo, combattimenti e razzie, il malumore, in verità, si era fatto ormai più che percepibile nei diversi reparti dell’armata capitanata dal figlio di Atreo. L’Iliade restituisce l’idea di quanto fragile possa essere il morale di una truppa costretta per un tempo lungo in condizioni sfibranti. Alcuni episodi nel racconto possono essere emblematici in proposito. Uno di tali passi coincide con l’ingresso di Calcante all’inizio del poema. L’indovino non professò certo stima per Agamennone, oppure un consenso per l’attitudine all’abuso di potere, prerogativa dei sovrani nell’esercizio delle loro funzioni di dominio. Inoltre la risposta del monarca all’oracolo del veggente – «profeta di sventura, mai una volta che tu mi abbia detto qualcosa di buono, predire il male è l’unica cosa che ti aggrada» – fa un esplicito riferimento a precedenti iatture annunciate da Calcante al comandante Acheo. Nei frammenti del Ciclo Epico appare infatti un mito antico, il quale accenna al sacrificio di Ifigenia, figlia di Agamennone. La leggenda narra, in effetti, che anche in quella circostanza fu il veggente Calcante a rivelare al despota il motivo arcano della furia divina ed il truce modo per placarla.

78 La spedizione si raduna ad Aulide per la seconda volta. Agamennone uccide un cervo durante la caccia e si vanta di essere migliore perfino di Artemide. La dea si infuria e impedisce il viaggio inviando loro tempo avverso, ma Calcante spiega l’ira della dea e dice di sacrificare Ifigenia ad Artemide. Essi la mandano a prendere come se dovesse sposare Achille e stanno per sacrificarla. Ma Artemide la strappa via dall’altare e la porta a Tauride e la rende immortale, mettendo nel frattempo un cervo sull’altare al posto della ragazza.

I brani del Ciclo Epico sono residui di una tradizione rapsodica, da cui provengono alcune leggende che appaiono poi, in forma più omogenea, nell’opera omerica. Un libro del Ciclo Epico, titolato Cipria e attribuito a Stasino da Cipro, racconta gli eventi antecedenti la partenza della flotta Achea per la Troade. Una descrizione abbozzata dell’olocausto di Ifigenia figura tra gli episodi tratteggiati nel Cipria. In versioni diverse del mito, tuttavia, Artemide non interviene per salvare la fanciulla ed Ifigenia, alla fine, viene sgozzata sull’ara da suo padre. Eschilo, ad esempio, qualche secolo più tardi, riverbera nella sua tragedia Agamennone la variante più lugubre della leggenda. Lo spettro di Ifigenia e l’allusione alla sequenza di avvenimenti che condussero al sacrificio della ragazza filtrano, inosservati, anche nei versi dell’Iliade, tra le parole che tessono l’invettiva scagliata da Agamennone contro Calcante. L’uccisione della figlia del despota di Micene, in realtà, non entra mai esplicita nell’esposizione del poema, ma durante la narrazione l’ombra del misfatto incombe su Agamennone e sugli alti ufficiali dell’esercito Acheo. Il rapporto tra la gerarchia militare e la casta sacerdotale, impersonata dall’aruspice Calcante, si presenta così, già nelle battute iniziali dell’Iliade, alquanto incrinato.

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Un ulteriore momento nella saga, il discorso di Tersite all’assemblea degli Argivi, riflette un malessere diffuso anche nei diversi contingenti delle milizie greche. L’architettura dell’intera scena occupa quasi trecento versi nell’avvio del Libro II dell’Iliade. Dopo la fissione del mondo Acheo, prodotta dallo scontro tra Achille ed Agamennone, il figlio della dea Teti chiese alla madre di intercedere con Zeus. Il tenore della richiesta di Achille lascia intendere che il dissidio tra il principe di Phthia e la cultura impersonata dal despota di Micene non è più sanabile. Ora ricorda a Zeus queste cose, siedi vicino a lui e abbraccia le sue ginocchia e vedi se egli possa essere disposto ad aiutare i Troia­ni, e a confinare gli Achei attorno alla prua delle loro navi e al mare, a morire, così che tutto possa essere a profitto del loro re, ed egli saprà allora, il figlio di Atreo, signore supremo Agamennone, il proprio inganno, quando disonorò il migliore degli Achei.

Zeus, alla fine, accoglie la supplica di Teti e decide di inviare un sogno ingannatore ad Agamennone. Troia può essere finalmente conquistata, recita il miraggio onirico suscitato dal figlio di Crono al sovrano, gli dèi dell’Olimpo hanno deciso di sostenere uniti l’assalto dei greci alle mura di Ilio. La subdola rivelazione di Zeus comanda quindi al monarca di ordinare un immediato attacco alle postazioni delle truppe Troiane. Agamennone si sveglia, siede sul letto ancora trasognato dal­ l’effluvio della sua allucinazione notturna. Rimuginando il sogno, il figlio di Atreo si veste, mette la spada sulle spalle, «prende su lo scettro dei suoi padri, imperituro, eterno» ed esce diretto verso le navi per convocare un consiglio urgente degli anziani. Una volta confidato ai notabili Achei l’annuncio recatogli nel sonno dal sogno mandato da Zeus, il despota espone

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un’idea balzana. Agamennone svela ai dignitari la sua intenzione di sondare con un tranello quale sia il reale anelito dei soldati Greci a nove anni dall’inizio della campagna bellica nella Troade. Soltanto dopo essere stati messi alla prova i militari Achei sarebbero stati poi comunque schierati in assetto da battaglia. Tutta la faccenda, il sogno rivelatore provocato da Zeus e la trovata di testare il morale degli uomini escogitata dal figlio di Atreo, lasciò i presenti alquanto perplessi. Nestore, re di Pilo, il veterano tra i nobili Achei, prese la parola. Se chiunque altro tra i Greci avesse riferito simili visioni, osservò Nestore, queste sarebbero state considerate solo abbagli da cui liberarsi al più presto. Ma un tale vaneggiare non poteva essere proprio del «potente Agamennone». Nestore concluse esortando quindi i membri del consiglio a non dubitare del sovrano, ma a muoversi senza indugi per preparare gli Argivi al combattimento. L’Iliade offre in un’abile narrazione il momento in cui Agamennone, assorto nel suo proposito di testare il morale della truppa, prese la parola davanti all’intero esercito radunato in tutta fretta per ordine del re. […] Si alzò allora il potente Agamennone Impugnando il suo scettro, realizzato con grande maestria dall’arte di Efesto; Efesto lo diede a Zeus, il signore, il figlio di Crono, poi Zeus lo diede ad Ermes, l’uccisore di Argo, ed Ermes lo passò a Pelope, conduttore di cavalli, poi Pelope a sua volta lo diede ad Atreo, il pastore del popolo; ed Atreo morendo lo lasciò a Tieste, ricco di molte greggi, e Tieste a sua volta lo lasciò ad Agamennone, che lo tiene ora, come signore di tutto l’Argolide e di molte isole. Con questo scettro come suo supporto, Agamennone parlò agli Argivi.

La situazione è solenne. La descrizione della genealogia dello «scettro», giunto attraverso la stirpe di Atreo da Zeus ad

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Agamennone, testimonia la ieratica ufficialità del frangente. Le evenienze, però, portano alla luce uno stato delle cose che evolve in modo paradossale. La forma dello «scettro» viene dal fabbro Efesto. Ma il dio che infonde l’energia divina nel legno è «il signore» degli dèi dell’Olimpo. Parlare, in appropriate occasioni, impugnando lo «scettro» indistruttibile ed «eterno», significava porsi sotto l’influsso del potere di Zeus impresso nell’oggetto sacro. Achille, nel Libro I del poema, artigliando a sua volta lo «scettro» durante l’alterco con Agamennone, aveva espresso il significato “giuridico” proiettato sul legno scolpito da Efesto nell’ambito della società Achea ritratta nell’Iliade. Questo scettro i figli degli Achei prendono in mano ogni volta che devono fare giustizia in nome di Zeus. Un giuramento su questo ha potere.

Agamennone, invece, appoggiato al simbolo e veicolo del potere divino rappresentato dallo «scettro», si accingeva ora a rivolgere agli Achei un discorso ricurvo e bugiardo. Il re di Micene si avvita nella menzogna, allucinato da una sequenza di eventi innescata dall’infido sogno mendace inviatogli dallo stesso figlio di Crono. Nel luogo canonico, definito dalla presenza ieratica dello «scettro» immortale, preposto all’emergere del vero, l’espressione stessa della verità mostra di essere, in realtà, nulla più che la tortuosa geometria di un inganno. Il despota di Micene avviò l’arringa per testare i soldati. Zeus l’aveva illuso, si lamentò Agamennone. Il dio del tuono gli aveva assicurato che gli Argivi avrebbero espugnato Ilio. La spedizione greca nella Troade si stava rivelando, invece, un fallimento e una tragedia. Agamennone riconobbe poi di essere stato il principale artefice della disfatta Achea. L’inganno di Zeus lo costringeva a tornare ad Argo nel disonore, colpevole di avere distrutto una moltitudine dei suoi uomini. Dopo nove sterili anni di assedio era giunto ora il momento di sal-

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pare le vele. La conclusione di Agamennone piombò inaspettata sugli Achei. […] abbiamo mancato in modo definitivo lo scopo per cui siamo venuti qui. Ma andiamo, convinciamoci a fare come dico; fuggiamo con le nostre navi verso la nostra amata patria, perché noi non prenderemo mai Troia dagli ampi viali.

L’epilogo del discorso lasciò sbigottiti e increduli i militari che stavano ascoltando. Per qualche attimo l’atmosfera dell’intera assemblea sembrò come colpita da una paresi improvvisa. Subito dopo, però, il caos divampò nell’accampamento greco. L’armata iniziò prima ad ondeggiare, agitata tutta da una stessa foga. Poi, strillando in una baraonda, la torma degli uomini sciamò verso le navi, provando nella confusione a togliere i puntelli da sotto i fasciami sulla spiaggia per spingere in acqua gli scafi. Gli ufficiali Argivi, disorientati dalla reazione dei soldati, non erano in grado di reagire. Persino sulle alture del monte Olimpo, gli dèi, colti di sorpresa, restarono allibiti. Agamennone aveva voluto mettere alla prova i guerrieri Achei. I militi greci, reclutati per conquistare Ilio, stavano adesso mostrando al sovrano la realtà cruda del loro sentire. L’urlo degli uomini che bramavano casa raggiungeva il cielo.

L’Iliade rende qui evidente un ulteriore sintomo dell’incongruenza annidata nella struttura dell’apparato di potere Acheo. Lo sconcerto che stava ora paralizzando la catena di comando dei reggimenti Argivi, in effetti, era stato provocato dalla circostanza più normale nel funzionamento ordinario della vita militare. Gli ordini provenienti dal grado più alto nella gerarchia dell’esercito erano stati prontamente eseguiti. I soldati, infatti, avevano semplicemente obbedito a quello che il sovrano aveva intimato: fuggiamo con le navi e torniamo nella terra da dove siamo venuti. Se la riottosa moglie di Zeus, Era, non fosse prontamente intervenuta, gli Achei avrebbero preso il

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mare verso la Grecia in quel momento senza indugi, deviando così la traccia stessa del Fato. L’incedere degli eventi seguì invece il corso fissato dal volere del figlio di Crono nel destino narrativo del mito. Era affidò ad Atena l’incarico di andare tra gli Argivi per trovare il modo di impedire lo sbaraglio completo della spedizione Achea. Atena si rivolse allora a Odisseo. La dea sorprese il re di Itaca fermo, in piedi presso le sue navi, attonito. Atena ordinò a Odisseo di scuotersi, precipitarsi in mezzo alla truppa e fermare la ritirata. La voce della dea riportò Odisseo all’azione. Il figlio di Laerte corse agli alloggi di Agamennone, afferrò lo «scettro» che il sovrano stringeva ancora tra le mani e si fiondò verso le navi nella folla dei soldati, sbraitando di ritornare all’assemblea immediatamente perché il discorso di Agamennone era stato frainteso. La guerra non era finita. Turbinando tra gli ufficiali e i militari, roteando lo «scettro», Odisseo si prodigò per reintegrare l’ordine gerarchico che il sermone di Agamennone aveva mandato in frantumi. Odisseo strigliava gli ufficiali, ricordando loro che il figlio di Atreo era il sovrano prediletto da Zeus e la sua autorità regale sovrastava quella di ogni altro monarca. Il governo di Agamennone andava obbedito e temuto. I soldati dovevano essere riportati subito in assemblea perché il figlio di Atreo non aveva ancora terminato di dire quello che aveva in mente. Gli uomini della truppa venivano invece percossi da Odisseo con lo «scettro». Il re di Itaca redarguiva i soldati, articolando una logica tipica utilizzata dagli apparati di potere per legittimare il proprio dominio: Non sembra che tutti noi Achei possiamo essere re qui; il comando dei molti non porta nulla di buono; lasciamo che sia solo uno a governare, un unico re, al quale il figlio di Crono diede la sovranità.

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Gli sforzi di Odisseo riuscirono a radunare di nuovo l’esercito Acheo in assemblea. I militari alla fine erano tutti seduti. Solo Tersite, «l’uomo più repellente tra quelli giunti sotto le mura di Ilio», blaterava senza ritegno parole ostili ai sovrani e ai principi, «ma che lui pensava fossero gradite dai soldati Achei».

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La Verità di Tersite

L’autore dell’Iliade introduce la figura di Tersite nel poema attraverso una velenosa descrizione del suo aspetto. Il rapsodo disegna un milite della truppa, il quale, zoppo da una gamba, trascina i piedi ed ha le spalle curve, piegate attorno al petto. La sua testa è a punta, deformata, con una sparuta stoppia di peli che spunta sulla cima del cranio. Tersite è l’antitesi dell’eroe. Un’incolmabile distanza separa, nell’Iliade, la sovrumana prestanza fisica degli aristocratici intenti alla battaglia dall’immagine sardonica del corpo di Tersite. La bellezza “divina”, attribuita, tramite cenni ed epiteti, a guerrieri come Achille, Ettore, Odisseo, Diomede, Glauco, Agamennone, Sarpedonte, Enea, esprime un’indole protesa verso la «gloria», comune ai diversi personaggi, unitamente all’orizzonte fulgido di nobiltà nel quale si succedono le controverse vicende degli eroi narrate nel poema. Tersite, invece, trasforma in abiezione qualunque cosa gli capiti di pensare ed ogni parola gli venga in mente di pronunciare. La sua sagoma agisce nel racconto come il riflesso esteriore prodotto da una particolare sensibilità, un’inclinazione sordida, la quale può stagliarsi e spesso lievitare nell’animo uma-

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no. Una logica sottile, tuttavia, articola il profilo prismatico di Tersite. L’effigie di Tersite appare nell’Iliade in una connessione immediata con quattro figure fondamentali nella narrazione: Agamennone, Odisseo, Achille e la massa indistinta della milizia Achea. Agamennone è il bersaglio effettivo degli strali lanciati da Tersite nel suo intervento davanti all’esercito ricondotto in assemblea da Odisseo. L’invettiva del milite, però, insulta anche gli uomini della truppa e lambisce, inoltre, in maniera più velata, Achille. Tersite si rivolge ad Agamennone in modo sprezzante, accusandolo di essere avido, interessato solo al bottino che altri soldati e lo stesso Tersite, rischiando la vita in combattimento, gli consentono di stipare nei suoi depositi. Cosa vuole ancora Agamennone, recrimina sibillino Tersite, oltre all’oro e al bronzo di cui sono pieni i suoi forzieri? Una nuova donna con cui fornicare nella sua tenda, anche se già molte schiave dimorano negli alloggi del sovrano? La più grave tra le accuse mosse da Tersite al despota di Micene imputa ad Agamennone di essere «un comandante che conduce alla rovina i figli degli Achei». Tersite si scaglia quindi contro i suoi compagni. Derelitti, vergogne codarde, femmine Achee, non più uomini della Acaia! Ritorniamo alle nostre case con le nostre navi, lasciamo questo uomo qui a Troia a rimuginare sulle sue ricchezze, così che egli possa capire se anche noi, in qualche modo, siamo di qualche utilità per lui, oppure no.

Prendiamo il mare, abbandoniamo la Troade e torniamo a casa, tuona Tersite ai suoi commilitoni. Lo sprone del soldato semplice Tersite aggancia il falso ordine impartito dal re Agamennone per testare l’esercito.

87 Ma andiamo, convinciamoci a fare come dico; fuggiamo con le nostre navi verso la nostra amata patria, perché noi non prenderemo mai Troia dagli ampi viali.

Simultaneamente, però, l’esortazione di Tersite reitera anche l’opzione verso cui pare risolvere Achille durante il suo alterco con il sovrano. Ora me ne vado a Phthia, perché è molto meglio andare a casa con le mie navi curve, e non intendo restare qui disonorato, accumulando ricchezze e sfarzo per te.

Le parole di Achille, Agamennone e Tersite sembrano esprimere in sostanza il medesimo contenuto: la decisione più saggia a questo punto della guerra sarebbe alzare le vele e tornare nei luoghi da dove si è venuti. Il significato delle tre dichiarazioni, nondimeno, diverge in modo radicale. L’identità rilevabile di tali annunci consiste solo nel fatto che l’intento di abbandonare la Troade non verrà mai realizzato durante lo svolgersi della narrazione. L’Iliade termina con il lamento delle donne Troiane sul corpo di Ettore, la cremazione dell’eroe e la tumulazione dell’urna contenente i suoi resti. I Greci, nel frattempo, restano ritirati presso i loro accampamenti e attendono, rispettando la tregua di dodici giorni concessa da Achille a Priamo per consentire al re di Ilio di celebrare il rito funebre per la morte di suo figlio. Nessuno degli Achei, pertanto, durante l’evolvere degli eventi messi in scena dai versi del poema, si avventura in mare alla volta della terra natia. Le diverse versioni del medesimo proposito di ritornare in patria, esposte da Achille, Agamennone e Tersite, mostrano, d’altra parte, delle differenze rilevanti. Agamennone, ad esempio, nel suo sermone davanti all’assemblea, mentre mette in atto la strampalata idea di testare i soldati Achei, mente sapendo di mentire. Tersite, invece, proferendo il suo discorso riottoso rivela il proprio autentico pensiero, dunque dice la verità.

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Inoltre, Agamennone è indotto alla menzogna da una sequenza di circostanze innescata dal sogno mendace inviatogli da Zeus; una rivelazione onirica, da parte del «signore» degli dèi, che il figlio di Atreo, naturalmente, crede assolutamente vera. Il despota, per giunta, arringando gli Achei per attirarli nell’inganno costituito dal proprio discorso volto a sondare gli umori della truppa, impugna lo stesso «scettro» che, come attesta l’enunciazione di Achille, «i figli degli Achei prendono in mano ogni volta che devono fare giustizia in nome di Zeus». Giustizia e verità, in genere, in ambito giuridico almeno, dovrebbero essere connesse in modo reciproco da un vincolo, spesso problematico, ma comunque indissolubile. L’artista che compone l’Iliade presenta invece una situazione alternativa, la quale consente però di scrutare più in profondità la struttura dell’organigramma che implementa la forma della legge. In questo frangente della saga, l’intero congegno sacralizzato, il quale assicura verità e giustizia, nelle occasioni congrue, alle parole proclamate dagli oratori, risulta essere nulla più che una sinergia truffaldina. Il dispositivo dell’inganno è attivato, oltretutto, dagli stessi simboli deputati a certificare l’autenticità del canone: la divinità (Zeus), l’espressione del divino nel mondo della materia (lo «scettro»), il grado più alto nella gerarchia del potere politico e militare (Agamennone). L’eloquio che enuncia il vero è affidato invece dall’autore al­ l’infida dialettica di un soldato, presentato nel poema come «l’uomo più repellente tra quelli giunti sotto le mura di Ilio». Il personaggio obliquo di Tersite, a sua volta, utilizza la verità come strumento di dileggio, nel tentativo di realizzare le sole cose che gli stanno davvero a cuore: fuggire al più presto dal teatro di guerra della Troade e denigrare tramite lo scherno coloro che, nell’ordinamento fisso della società Achea, hanno una posizione migliore di quella a lui concessa.

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L’ultima parte del discorso di Tersite riguarda Achille. Agamennone «ha disonorato Achille, un uomo di gran lunga migliore di lui», rumoreggia Tersite, perché per il proprio interesse con un sopruso gli ha sottratto «il suo premio». Il trofeo requisito ad Achille è Briseide. La ragazza era parte del bottino assegnato dagli Achei al principe di Phthia come ricompensa dopo la razzia compiuta dalle sue milizie nelle città di Lirnesso e Tebe, alleate di Troia. Tersite prende dunque una posizione esplicita, anche se capziosa, nella disputa tra Agamennone ed Achille. L’intervento, tuttavia, non rende solo pubblico il subdolo impeto personale di Tersite, ma al tempo stesso riporta davanti all’assemblea degli Achei un’opinione diffusa tra i soldati dei diversi contingenti. La truppa appoggia Achille. Il sovrano pretende di esercitare il potere derivato dal suo rango per svilire il valore che i Greci riconoscono ad Achille. Il simbolo di tale valore è Briseide. La ragazza è il premio che gli Argivi avevano convenuto al figlio di Peleo per significare la reputazione guadagnata da Achille tramite le sue imprese in battaglia, dalle quali traevano vantaggio tutti gli Achei. Secondo il codice di guerra fondato sul merito, in vigore nell’esercito Acheo, Achille aveva conquistato sul campo la propria fama, insieme al diritto di tenere con sé la ragazza come compenso per le sue fatiche belliche. Agamennone voleva invece imporre la mera logica del potere, utilizzando ogni mezzo necessario: arbitrio, forza, corruzione, inganno, abuso. I soldati disdegnano l’esplicito esercizio di tracotanza del despota di Micene. Il dissenso, nondimeno, resta circoscritto nell’ambito del mormorio tra camerati. Il solo segno di disapprovazione che si leva dalla truppa è la voce di Tersite. Giunto alle battute finali del suo discorso, però, Tersite non può resistere alla tentazione di gettare del fango anche sul principe di Phthia. Achille non ha nerbo, conclude Tersite, altrimenti non sarebbe stato così restio ad agire e quello che lui ha subito sarebbe risultato l’ultimo oltraggio perpetrato dal

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figlio di Atreo. L’idea è che Achille avrebbe fatto meglio ad uccidere Agamennone senza esitazione, se solo ne avesse avuto il coraggio. Una ultima, tossica insinuazione, con la quale Tersite chiude il suo discorso davanti all’assemblea degli Achei. I motivi che hanno in realtà indotto Achille a non risolvere la lite con Agamennone tramite un rapido colpo di spada, naturalmente, sfuggono del tutto a Tersite. Tra qualche istante proveremo ad indagare il modo in cui il figlio di Peleo conduce il proprio incedere lungo lo svolgersi del poema. Prima, però, prestiamo attenzione all’effetto provocato tra gli Achei dalle parole venefiche di Tersite. L’autore dell’Iliade mette in scena l’immediato frangente che segue la conclusione dell’arringa di Tersite. Odisseo balza in avanti ed aggredisce Tersite con parole durissime. Stai zitto e smettila di sproloquiare, sbotta il re di Itaca, ringhiando che Tersite è «l’uomo più ignobile tra i molti venuti con i figli degli Achei sotto le mura di Ilio». Il soldato Tersite non si deve permettere nemmeno di nominare un sovrano come Agamennone, in modo particolare quando il milite briga di pontificare dinanzi all’assemblea solo per lanciare insulti e scherno con l’unico intento di rimediare un espediente per defilarsi dai combattimenti. Odisseo, furibondo, afferrato lo «scettro», colpisce quindi ripetutamente con il legno scolpito da Efesto l’atterrito Tersite sulla schiena, lasciandolo in lacrime, sanguinante. Il mugugnare della moltitudine indistinta dei soldati adesso supporta Odisseo e beffeggia Tersite. Il re di Itaca sembra così, per il momento, essere riuscito a trovare il modo giusto per portare a termine l’incarico che Atena gli aveva assegnato. L’azione risoluta di Odisseo limita provvisoriamente le ripercussioni nocive attivate dalle scelte dissennate di Agamennone. Un minimo di ordine è ristabilito. Il rigore necessario per mantenere saldi i ruoli in una gerarchia è ripristinato. Il

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trattamento inflessibile riservato da Odisseo a Tersite serve inoltre da monito e da esempio per tutti i militari. I soldati si devono rivolgere ai loro superiori solo con il debito rispetto e ai militi non è consentito, in definitiva, neppure di prendere la parola in assemblea. Il flutto degli umori annidati nell’animo degli Argivi, dopo avere sparso il caos negli accampamenti, pare ora quasi domato. Odisseo sta fermo in piedi, marziale, davanti all’esercito. Atena appare alle spalle del figlio di Laerte all’improvviso. Celata dietro l’aspetto di un araldo la dea intima alla torma degli Argivi il silenzio. La catena di comando riprende a funzionare. Impugnando lo «scettro», Odisseo inizia finalmente a parlare agli Achei. Non si ritorna a casa, la guerra continua. Giunto al termine dell’episodio che raffigura il discorso di Tersite all’assemblea, l’autore dell’Iliade ha ormai reso evidente al suo pubblico la crisi che sta debilitando, dopo molti anni di campagna militare, la struttura dell’apparato di potere Acheo. Gli Achei assistono, in effetti, al progressivo collasso del loro stesso mondo, ma nessuno dei personaggi attivi nel poema lascia intendere di avvertire l’imminenza della catastrofe. Il solo Achille escluso. A differenza degli altri attori che appaiono nella saga, il figlio di Peleo, infatti, mostra subito di percepire la profondità del dissesto indicato dalla pestilenza divampata tra gli Achei e raccontata dal bardo all’inizio della sua narrazione. La condotta di Agamennone, poi, rivela ad Achille la realtà nuda dei rapporti di potere che istituivano la vita dei Greci accampati sotto le mura di Ilio.

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Achille, Atena e la guerra di parole

Ritorniamo ora al Libro I dell’Iliade per seguire da vicino l’evolversi dello scontro tra Achille ed Agamennone davanti all’assemblea degli Achei. Ora me ne vado a Phthia, perché è molto meglio andare a casa con le mie navi curve, e non intendo restare qui disonorato, accumulando ricchezze e sfarzo per te.

Achille medita di abbandonare gli Achei impegnati nell’assedio alle mura di Ilio e di tornare a casa. Il bersaglio degli strali scagliati dal principe di Phthia non è più dunque solo il despota di Micene. L’intendere di Achille si è fatto più nitido. Agamennone è il vertice di una gerarchia e il veicolo di una precisa dottrina che mira a legittimare l’autorità assoluta del monarca e l’arbitrio nell’esercizio del potere. Il giudizio di Achille riferito agli Achei che si assoggettano ad un tale genere di dominio è severissimo. Nessuno dei Danai, tuttavia, confutava seriamente il dovere di obbedire comunque agli ordini dettati da Agamennone. Il carisma del figlio di Atreo discendeva direttamente da Zeus, dunque le direttive del sovrano, anche se incongrue oppure balorde, semplicemente andavano eseguite. Nessuno degli Achei, in definitiva, avrebbe avuto mai l’ardire di opporsi realmente alla prepotenza e alle intemperanze del

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suo re. Achille realizza così di essere solo e riflette se a questo punto sia davvero il caso di andarsene via dalla Troade. Udito che il principe valutava il proposito di ritirare i suoi uomini dal conflitto e salpare le sue navi verso Phthia, Agamennone capì che lo screzio con il figlio di Peleo non era più rimediabile. Achille stava sfidando la maestà del monarca, apertamente, dinanzi all’esercito riunito in assemblea. Agamennone decise allora di dimostrare il proprio potere e di lanciare un avvertimento diretto a chiunque altro potesse pensare di avere la licenza di disputare con lui. […] Altri uomini stanno con me che mi rispettano, e specialmente l’imperscrutabile Zeus. […] Vai a casa con le tue navi e i tuoi compagni comanda pure i Mirmidoni. Tu non mi piaci e non mi importa della tua ira. Ma ti prometto questo: come Apollo mi toglie Criseide, io ti porterò via Briseide, il tuo premio, verrò a prenderla io stesso nella tua tenda. Così capirai quanto io sono superiore a te, e un altro uomo non sarà più così propenso a parlare come fosse un mio eguale, pretendendo in pubblico di essere un mio pari.

L’artista che ha composto l’Iliade scrive che come Agamennone smise di parlare «l’angoscia scese sul figlio di Peleo». Nell’economia dell’intera vicenda messa in scena nel poema questo è uno dei momenti forse più cruciali. Achille viene posto davanti ad una scelta decisiva. Le parole di Agamennone hanno reso esplicita la logica che anima l’apparato di potere di cui il despota di Micene è l’emblema. L’investitura del potere proviene direttamente da Zeus e discende poi lungo la linea dinastica della casa di Atreo fino ad Agamennone. Il mito narra l’origine divina della casa di Atreo, trasmettendo attraverso le generazioni il racconto che sostanzia il conferimento di una autorità assoluta al sovrano. Il postulato di essere, dunque, lui stesso il depositario di un potere non soggetto a

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condizioni, derivato dagli dèi, sostiene la condotta e le arringhe di Agamennone. L’idea non è affatto balzana, ma appare invece profondamente radicata nel mito che esprime l’orizzonte narrativo del mondo in cui accadono gli eventi figurati nell’Iliade. Il racconto veicolato dalla tradizione legittima la pretesa ostentata dal monarca di possedere, pertanto, un prestigio di fatto superiore al valore dimostrato dal figlio di Peleo e da ogni altro Acheo. Achille si trova così a dovere scegliere in pratica tra tre opzioni: 1) Abbassare la testa, riconoscere la supremazia di Agamennone predicata nella narrativa veicolata dalla tradizione e sottomettersi, quindi, all’esercizio arbitrario del potere operato dal despota di Micene. 2) Opporre il racconto della propria condizione di semidio al mito della radice divina della dinastia di Atreo, figurata dalla genealogia dello scettro consegnato da Zeus a Pelope, capostipite della stirpe degli Atreidi. Achille era infatti conosciuto come il figlio generato dall’unione di Peleo, re di Phthia, con la dea Teti, progenie a sua volta del «vegliardo del mare», il dio Nereo. Se Achille avesse alla fine optato per questa alternativa, le ambizioni dispotiche di Agamennone si sarebbero probabilmente infrante su un definitivo fendente sprigionato dalla spada del figlio di Teti e Peleo. Decidendo di uccidere l’erede di Atreo, però, Achille in realtà avrebbe in questo modo abbracciato l’intero impianto della visione che concepisce un impiego del potere essenzialmente vessatorio, brandita da Agamennone. 3) Mettere in questione la matrice dell’ideologia veicolata dal mito, articolata e propugnata da Agamennone, smantellando così la fabbrica narrativa del mondo in cui si era formata, d’altra parte, l’esistenza dello stesso Achille.

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La prima delle possibilità appena indicate appare subito incompatibile con il profilo del personaggio di Achille coniato dall’autore dell’Iliade. Il principe di Phthia medesimo, formulando la sua risposta ad Agamennone, esclude dal novero delle eventualità l’ipotesi di subordinare il proprio volere all’autorità di un sovrano che «divora il suo popolo» come il despota di Micene. I versi immediatamente successivi alle ultime tiranniche battute di Agamennone riportano, infatti, che il figlio di Peleo, dopo avere udito le minacce del monarca, dibatteva nella sua mente solo due alternative. […] e il cuore nel suo petto ispido valutava due vie, se egli avesse dovuto estrarre la spada affilata dal suo fianco e disperdere gli uomini ed uccidere il figlio di Atreo, oppure reprimere la propria rabbia e tenere a bada il proprio spirito.

Achille aveva già impugnato la spada, quando Atena, inviata da Era, apparve alle sue spalle, «percepibile da lui soltanto, e nessuno degli altri la vide». La visione degli occhi infuocati della dea, manifesta solo ad Achille, precipita il figlio di Peleo e Teti nei fondali dell’esperienza. La decisione di ammazzare Agamennone era ormai presa. Achille si trovava così sul punto di liquidare il figlio di Atreo. L’intervento improvviso di Atena spinse però il principe a riconsiderare l’intera situazione da una prospettiva diversa. Le parole della dea lasciarono intuire ad Achille la possibilità di muovere la sua disputa con Agamennone ad un livello dello scontro più ampio e più radicale. Vieni, rinuncia a questa contesa, ferma la tua mano sulla tua spada, ma fallo invece a pezzi con le parole, dicendogli come andranno le cose. Perché ti dico quello che accadrà. A causa dell’arroganza di Agamennone un giorno doni tre volte più grandi di questa ragazza

97 verranno posti davanti a te. Controlla te stesso e fai quello che ti dico.

Atena simboleggia una attitudine della mente in cui convergono insieme intelligenza e guerra. Nel mito la dea emerge dall’interno del corpo di Zeus, attraverso una apertura operata con un colpo di scure dal dio fabbro Efesto sulla testa del figlio di Crono. La leggenda racconta che la madre di Atena fosse la Titana Metis, una delle prime mogli di Zeus, figlia a sua volta di Ocea­ no e Tethys. Nella Teogonia di Esiodo, Metis è considerata una delle forze primigenie attive nella creazione dell’universo. In origine la parola greca metis significava una combinazione di astuzia, abilità e saggezza. Una profezia rivelò che Metis avrebbe partorito un figlio che sarebbe potuto divenire una minaccia per la sovranità di Zeus. Volendo impedire la nascita di una prole pericolosa per la propria signoria, il figlio di Crono elucubrò allora di trasformare Metis in una mosca ed inghiottirla. Metis era però già in stato interessante quando fu ingerita da Zeus. Mentre si trovava nel ventre del dio del tuono, la Titana diede quindi alla luce Atena, la figlia concepita nel suo matrimonio con Zeus. Metis, confinata nelle viscere del signore degli dèi, forgiò poi per Atena armi ed elmo, ma i colpi di martello battuti per modellare il metallo dell’equipaggiamento procurarono al figlio di Crono dolori insopportabili. Efesto per lenire il male aprì così una breccia sul cranio del dio con un’ascia ed Atena spuntò dal capo di Zeus, inattesa, con l’elmo in mano, adulta e completamente armata. Il processo che conduce alla nascita di Atena avviene all’interno del corpo di Zeus. Il dio si rivela, tuttavia, del tutto ignaro di quello che accade nell’intimo del proprio organismo etereo. Il figlio di Crono avverte la dinamica della sua stessa interiorità come un forte dolore, un sintomo che solo l’intervento escogitato da un esperto pioniere delle tecniche dell’arte come

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Efesto riesce ad alleviare. L’ordito di simboli che esprime l’immagine divina mostra il limite congenito delle costruzioni simboliche. Le icone di concetti velano l’assenza. L’artista Efesto recide la trama. Il taglio fende il reale dietro la forma. La possibilità di intendere evapora e si spalanca il vuoto. Nella voragine mentale indicata dall’apertura che rende possibile nel mito l’apparire della figlia di Metis e Zeus venne dunque attratto Achille, calamitato dalle parole di Atena scandite a sorpresa nei versi dell’Iliade. L’introspezione provocata dalla visione della dea disloca il principe di Phthia in una condizione originale. Il racconto che avvolge il mondo degli Achei in una cosmogonia fissa, utile per il culto del potere rappresentato da Agamennone, perde la sua presa su Achille. Il figlio di Peleo rimette nel fodero la spada ed ingaggia allora un tipo nuovo di conflitto, utilizzando come armi le parole. Una guerra inedita, logica, destinata a smontare, tramite un vaglio sottile, l’universo dei Greci accampati su una spiaggia nei pressi della città di Ilio e i suoi valori.

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La prova di forza del Figlio di Atreo

Alla fine della serie di improperi e minacce indirizzate al principe di Phthia, Agamennone dichiara che sarebbe andato di persona nell’alloggio di Achille per prelevare Briseide. Gli Argivi, come già sappiamo, avevano assegnato Briseide al principe di Phthia in qualità di «premio», un segno dovuto per significare in modo ufficiale l’estrema considerazione in cui i figli degli Achei tenevano il valore dimostrato da Achille in combattimento. Agamennone pretende però di avere comunque il diritto di sequestrare Briseide. Il sovrano sostiene che intende compensare così la perdita di Criseide, la ragazza destinata al monarca, anche lei parte di un bottino di guerra, che egli si trova costretto a riconsegnare al padre Crise, sacerdote di Apollo, al fine di placare la furia del figlio di Leto. Le battute conclusive dell’invettiva di Agamennone rivelano, però, le reali motivazioni che regolavano la strategia del despota. […] Ma ti prometto questo: come Apollo mi toglie Criseide, io ti porterò via Briseide, il tuo premio, verrò a prenderla io stesso nella tua tenda. Così capirai quanto io sono superiore a te, e un altro uomo non sarà più così propenso a parlare come fosse un mio eguale, pretendendo in pubblico di essere un mio pari.

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Il figlio di Atreo risolve per la prova di forza. Lo scopo è ribadire una dottrina del potere, della quale, in quanto sovrano, Agamennone stesso figura come emblema. Nel cosmo degli Achei il figlio di Atreo è una manifestazione diretta del potere. La sua investitura proviene da Zeus. Agamennone parla da regnante, come vertice di un ordine gerarchico supportato dal racconto di un mito alimentato da una tradizione atavica. Secondo la concezione delineata dal despota, l’essenza del potere viene innescata nella relazione di asservimento stabilita tra gli agenti del dominio e coloro che sono tenuti soggetti allo stato di sottomissione. L’apogeo della gerarchia, il re, funziona come una sorta di filtro attraverso il quale il potere realizza il proprio ordine. Agamennone proclama dunque di essere, in ragione della stirpe a cui appartiene, «superiore» ad Achille e ad ogni altro Acheo. Il despota promette poi di irrompere all’interno della dimora del figlio di Peleo per affermare la sua supremazia, dimostrando di avere la facoltà, derivata dal suo rango, di agire nell’intimità di Achille e di ogni suddito in un modo conforme al proprio arbitrio e alle proprie convenienze. Agamennone terminò di parlare e la reazione del principe di Phthia scattò immediata. Razza di avvinazzato, tu che hai gli occhi di un cane e il cuore di un cervo, non hai mai il coraggio di armarti per la battaglia insieme alla tua gente, ne di andare in incursione con i migliori degli Achei; quello per te è come la morte. Per te è molto meglio, in mezzo al grande esercito degli Achei, impossessarti dei doni che appartengono all’uomo che si oppone a te.

La risposta di Achille fu breve, vetriolica, ma strutturata con estrema precisione. La prima parte della ribattuta è indirizzata al figlio di Atreo. La sentenza è definitiva: Agamennone è un

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codardo, non possiede la statura necessaria per guidare nella mischia i soldati, perciò non ha l’autorevolezza indispensabile per essere un sovrano. La seconda sezione del discorso pronunciato dal giovane principe prende di mira, insieme ad Agamennone, coloro che ubbidiscono gli ordini del despota. Un re che divora il suo popolo! Tu comandi uomini senza valore; altrimenti, figlio di Atreo, questo ora sarebbe il tuo ultimo oltraggio.

In questa frazione della sua replica il figlio di Peleo aggancia due aspetti nodali che istituivano la missione militare degli Achei nella Troade. Il primo punto riguarda gli accordi sulla base dei quali era stato possibile mettere insieme l’esercito degli Argivi impegnato nell’assedio della città di Ilio. La violazione da parte di Agamennone di tali patti induce Achille ad accusare il monarca di essere «un re che divora il suo popolo». Il secondo elemento si profila quando il principe di Phthia scaraventa davanti all’assemblea degli Achei la questione del «valore». Per provare ad interpretare il senso articolato dalle parole di Achille, richiamiamo alcuni dei connotati costitutivi della presenza delle milizie Achee sotto le mura di Ilio. Agamennone e Menelao riuscirono ad unire in una coalizione truppe provenienti dai diversi regni disseminati nella Grecia e nelle isole dell’Egeo. Il motivo ufficiale che presentò ai figli di Atreo la possibilità di assemblare un’armata così imponente ed eterogenea viene reso esplicito nell’Iliade in diversi momenti della narrazione. Achille, nella sua celebre, affilata risposta a Odisseo nel Libro IX del poema, indica in una sintesi la ragione che spinse gli Achei sulle spiagge della Troade.

102 Ma perché gli Argivi devono essere in guerra con i Troia­ni? Perché i figli di Atreo hanno assemblato e guidato un esercito qui? Non è stato forse per Elena dagli splendidi capelli?

Il movente fu dunque la vendetta, una rappresaglia armata contro la città e gli abitanti di Ilio per lavare l’offesa subita da Menelao, re di Sparta, ad opera del principe Paride, figlio di Priamo, re di Troia. Mentre era ospite presso la corte di Menelao a Sparta, Paride aveva sedotto la moglie del sovrano, la regina Elena. Gli amanti erano poi fuggiti insieme, per riparare, dopo una lunga navigazione, all’interno delle mura di Troia, nel cuore del regno di Priamo. Menelao ed Agamennone volevano quindi punire per l’affronto subito Paride e tutti i Troia­ni. Lo scopo della spedizione greca, pertanto, era quello di conquistare Ilio, saccheggiare e radere al suolo la città, riportare infine a Sparta Elena, la regina. L’Iliade lascia comunque intendere che la ragione di volere ristabilire l’integrità dell’onore di Menelao, motivazione addotta per legittimare le operazioni belliche degli Achei nella Troade, rappresentava una finalità in sé pregnante, in pratica, solo per lo stesso Menelao. La lega militare che univa contingenti giunti dai luoghi più disparati della Grecia era tenuta insieme, in realtà, da accordi innanzi tutto di carattere economico. Nel Libro I dell’Iliade, mentre l’alterco con Agamennone iniziava a divampare, Achille ricordò al despota di Micene che patti precisi erano stati sottoscritti dai regnanti che avevano aderito all’alleanza degli Argivi. Tali impegni dovevano essere rispettati da tutti ed Agamennone non costituiva un’eccezione. Il figlio di Peleo fece notare al despota che gli Achei non potevano destinare a lui un altro premio per sostituire Criseide, perché non avevano nessun deposito comune e la refurtiva saccheggiata nelle città era stata tutta distribuita. Nel rispetto

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degli accordi presi, disse Achille, «non è giusto togliere adesso agli uomini quello che è ormai stato loro assegnato». La spartizione del bottino costituiva il legame più solido che teneva unita l’alleanza degli Argivi. Le norme che stabilivano la ripartizione dei proventi delle razzie determinavano il guadagno che ogni aristocratico ed ogni soldato avrebbe potuto ricavare partecipando alle operazioni militari dei Greci nella Troade. Questi patti erano stati accettati da tutti gli eserciti che facevano parte della coalizione, sosteneva in sostanza Achille, quindi erano “giuridicamente” inviolabili. Ora però Agamennone stava minacciando di requisire arbitrariamente i premi che gli Argivi avevano assegnato e si vantava di possedere, inoltre, un rango che lo svincolava dagli obblighi imposti dagli impegni contratti tra gli Achei. Nessuno tra i Greci accampati sotto le mura di Ilio, eccetto Achille, mostrava di avere, d’altronde, nulla da eccepire.

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Il Codice dei Guerrieri

Guerrieri come Diomede, Achille, Aiace, Odisseo, non erano invece mossi alla guerra da stimoli scadenti quali sono gli interessi di natura meramente economica. I migliori tra i combattenti Achei e Troia­ni, gli artisti della battaglia e del duello, tenevano la questione del valore al centro della loro esistenza. L’Iliade mette in scena, in forma di arte, alcune delle diverse procedure di valutazione che producono “valori”. Il codice dei guerrieri esprime l’idea di valore impersonata nell’Iliade dalla élite dei combattenti. I tratti essenziali del codice dei guerrieri emergono dalle parole rivolte da Sarpedonte a Glauco, nel Libro XII del poema. Sarpedonte, re della Licia, era venuto nella Troade alla testa delle truppe Licie, in aiuto all’esercito Troiano nel conflitto contro le milizie Achee. La genealogia di Sarpedonte appare nel Libro VI dell’Iliade. La figlia del re di Licia diede tre figli a Bellerofonte, Isandro, Ippoloco e Laodamia; Zeus che inventa ogni cosa giacque con la ragazza, e lei partorì il divino Sarpedonte, guerriero dalla armatura di bronzo.

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Il mito racconta dunque che Sarpedonte fosse figlio di Zeus. Il Libro XII dell’Iliade inizia però in modo inatteso. Sulla piana davanti alla città di Ilio infuria una battaglia selvaggia. «Le torme degli uomini continuavano a combattere nella calca, Argivi e Troia­ni». I contingenti Troia­ni in questo frangente delle ostilità hanno il sopravvento. I soldati greci sono costretti ad una ritirata precipitosa per riparare oltre il muro di difesa costruito per proteggere gli accampamenti degli Argivi e le navi greche tirate in secco sulla spiaggia. La macchina militare Achea è ad un passo dal collasso, mentre le milizie comandate da Ettore, dirette ad attaccare ed incendiare le imbarcazioni dei Greci, stanno per assaltare il fortilizio Acheo da più parti. Le divinità immortali assistono allo spettacolo di una guerra che devasta gli umani, mentre il figlio di Crono mantiene nel suo intelletto il controllo della sorte di coloro che sono destinati a morire. Il fragore della carneficina che incendia la battaglia sembra calamitare nella pianura compresa tra la riva del mare e la città di Ilio il centro dell’intero Universo. L’autore dell’Iliade effettua a questo punto una mossa cinematografica degna di un esperto regista. Tramite una tecnica di zoom-out, il rapsodo dilata all’improvviso l’orizzonte temporale degli eventi, assumendo per la voce che racconta la saga uno sguardo radicato in una scala di grandezza indefinitamente cosmica. Il profondo fossato fortificato che i Greci avevano scavato attorno al loro muro, la stessa imponente muraglia, le vicissitudini dei mortali che si scannavano a vicenda sulla piana brulla davanti a Ilio, l’intero impianto del mondo degli umani, nulla di tutto questo era votato a durare. Le forze che attivano i mutamenti naturali avrebbero continuato a variare senza sosta la morfologia della Troade, come quella totale della terra e delle galassie. I fiumi che traversavano la Troade – lo Scamandro, il Samoenta, il Granico – avrebbero alterato il loro corso e il livello del mare sarebbe forse salito sulla spiaggia. Le fondazioni del largo muro edificato dai «figli degli

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Achei» sarebbero state divelte, il bastione distrutto, il fossato completamente cancellato. Le volubili vicende dei mortali e le loro tragedie hanno un rilievo solo per gli umani. La natura consiste semplicemente nel proprio stesso immediato mutare. Il modo in cui l’esistenza dei mortali rivela la sua effimera essenza naturale viene espresso in altri due episodi dell’Iliade. Nel mezzo della mischia di un combattimento descritto nel Libro VI, Diomede e Glauco finiscono ad un tratto l’uno di fronte all’altro e sono sul punto di battersi. Diomede, impressionato dall’audacia dimostrata fino a quel momento nella battaglia dal guerriero Licio, chiede a Glauco: Chi sei tu, impavido amico, tra gli uomini consegnati alla morte?

Il coraggio palesato da Glauco era tale da far pensare a Diomede che egli potesse essere addirittura «un immortale sceso dal cielo». Il figlio di Tideo non voleva assolutamente trovarsi nella situazione di combattere contro un dio. Le prime battute della risposta di Glauco rivelano tuttavia la sobria statura di un guerriero, una levatura, in realtà, negata a qualunque dio, celeste e imperituro. Figlio di Tideo dal grande cuore, perché mi chiedi il mio lignaggio? Come una generazione di foglie, così è la generazione degli uomini. Il vento disperde alcune foglie a terra, ma la foresta ne cresce altre che fioriscono e nel tempo della primavera succedono a quelle; così una generazione di uomini cresce, un’altra muore.

Nelle parole di Glauco, il singolo essere umano, non diversamente dal fogliame nella foresta, rimane assorbito nel fluire indistinto dell’esistere, in un fiotto ininterrotto in cui le generazioni crescono e muoiono. Nel Libro IX dell’Iliade, durante un discorso mediante il quale Achille smantella la pretesa

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solidità del mondo Acheo fondato sulla tradizione, il figlio di Peleo mette a fuoco, invece, il tragico orizzonte in cui accade l’esistenza propria dell’individuo. La vita di un uomo non torna indietro, non tramite il saccheggio, non per mezzo del possesso, una volta che passa la barriera dei suoi denti.

Il bardo espande quindi il campo della sua visuale, mostrando la contingenza di ogni cosa. Non solo, dunque, appare in primo piano sulla scena la caducità degli eventi, ma le stesse «grandi azioni degli uomini», evocate dall’oblio nella performance dall’artista, rivelano la loro essenziale inconsistenza. Il tempo esprime la sua labile stabilità nell’attimo in cui il presente si consuma. «Le grandi azioni degli uomini» indicano un orizzonte narrativo, che diventa tale, una forma di vita, solo in quanto percepito dalla sensibilità di qualcuno, un individuo, un mortale. Nello spazio dell’arte aperto dall’Iliade viene sollevata la questione abissale del «valore». Emblema di quello che vale sono «le grandi azioni degli uomini», le quali risultano però essere, in effetti, niente altro che lo svolgersi dell’Iliade attivato nella performance. Nel medesimo frangente, tuttavia, anche il rapsodo, lo spettatore, il lettore, l’invenzione espressa, l’intero evento generato dalla performance, assimilati nel divenire della natura, seguono l’inevitabile destino in dote alle generazioni dei viventi e alle cose. Pochi istanti prima che le guarnigioni venute dalla Licia comandate da Sarpedonte iniziassero l’assalto alle fortificazioni degli Achei, il figlio mortale di Zeus rivolse la parola a Glauco. Sarpedonte pone a Glauco un interrogativo, la cui risposta, peraltro, entrambi i guerrieri sapevano già bene. Glauco, perché noi due siamo stimati più di tutti con posti d’onore in Licia, con tagli di carne e coppe colme e tutti ci guardano come dèi,

109 e perché ci hanno destinato un grande lotto di terra sulle rive dello Xanthos, un bellissimo podere, con un orto e un campo per coltivare il grano?

Senza interrompere il corso dei suoi pensieri, lo stesso Sarpedonte rispose alla domanda. La risposta esprime in una sintesi l’essenza del codice dei guerrieri, mettendo a fuoco due livelli tra loro connessi della situazione. In primo luogo Sarpedonte rileva la portata sociale della relazione tra popolazione e guerrieri. Gli onori e i riguardi riservati dai loro concittadini ai leader militari costituivano il segno concreto dell’altissima considerazione in cui erano tenuti i combattenti che rischiavano la vita nelle guerre e nei conflitti per proteggere la collettività. Sarpedonte accosta poi la dimensione più profonda, interiore, che definisce un uomo nel momento in cui l’individuo si trova di fronte all’occasione imminente della propria morte. Vecchio amico, se noi due salvandoci in questa guerra fossimo destinati a vivere per sempre e non invecchiare mai, io stesso non combatterei mai più in prima linea, né farei andare te in battaglia dove gli uomini guadagnano la fama; ma ora, spiriti di morte stanno davanti a noi a migliaia e nessun mortale può sottrarsi o sfuggire. Andiamo allora! Diamo gloria al nemico o conquistiamola per noi!

Il codice dei guerrieri espresso dalle parole di Sarpedonte non rivela alcuna traccia di fanatismo militare, euforia bellica, infatuazione per la guerra. Il sogno impossibile fantasticato dal figlio mortale di Zeus sarebbe «vivere per sempre e non invecchiare mai». Difficile non sentirsi più che empatici con la strenua immaginazione di Sarpedonte. In una simile prospettiva, ostinarsi in feroci conflitti marziali, per conseguire lo scopo altisonante di meritare la «fama», sarebbe davvero solo un in-

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dice folle di stupidità. La realtà si manifesta tuttavia in modo assai diverso. L’endemica attitudine che accomuna ogni vivente risulta essere proprio la mortalità. L’orizzonte dei viventi sigillato dalla morte, inoltre, figura come un caso particolare della impenetrabile costrizione cieca che presenta la natura, segnata dalla contingenza elementare in cui risolve qualunque aspetto dell’esistere e dell’accadere. Una condizione alla quale «nessun mortale può sottrarsi o sfuggire». Nelle parole di Sarpedonte, l’artificio narrativo della «battaglia» lascia intendere una valenza metaforica. Nel frangere della «battaglia» la realtà si mostra nuda. La vita diventa identica al proprio immediato sparire. Una contraddizione appare nella fonte dell’esistere, mentre la distinzione tra annientamento ed esistenza dissolve, alla fine, nella caducità dell’attimo presente. L’effetto della contraddizione accomuna guerrieri tra di loro nemici in una profonda, tragica relazione: varcare la soglia ultima della mortalità esponendosi al rischio estremo di essere uccisi dall’altro. Per non venire ucciso, un combattente ha l’unica alternativa di riuscire ad eliminare a sua volta il guerriero nemico, il suo simile, il proprio rivale, l’intimo fondo negativo di sé che identifica il mortale. Nella furia indiscriminata della «battaglia», avverte il figlio mortale di Zeus, «spiriti di morte stanno davanti a noi a migliaia». Tutto quello che resta è solo il baratro di una desolazione priva di senso. Le ultime parole che Sarpedonte rivolge a Glauco sono uno sprone ad avanzare nell’abisso. Andiamo allora! Diamo gloria al nemico o conquistiamola per noi!

Dall’esposizione del mortale all’immediata vanità dell’esistere affiora la possibilità dell’arte. Le «grandi azioni degli uomini» emergono nella performance, tra le parole cantate dal rapsodo, come la creazione di un effetto potenziale. L’invenzione di un valore virtuale, sensibile, che si oppone all’oblio, men-

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tre il flutto ininterrotto dell’esistenza seguita il suo istantaneo corso. Nell’esibizione in cui è trasmessa l’idea stessa di «grandi azioni degli uomini», la forma del «valore» implementa la realtà dei mortali, mostrando, in uno stesso sguardo, l’entità fantastica dell’astrazione e la sua irrilevanza nel vuoto indicato dalla mancanza che manifesta il reale.

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Achille e il Valore

Se il codice dei guerrieri figurato da Sarpedonte illumina la fatua consistenza di un mondo che riesce a conservare comunque una sua stabilità, l’approccio di Achille alla questione del «valore» scardina invece la connessione che salda tra loro tradizione, potere, valori. L’incedere del figlio di Peleo nello sviluppo dell’Iliade diventa così una operazione al tempo stesso psicologica e politica. L’espressione più essenziale e sintetica della posizione tenuta da Achille riguardo al «valore» appare nel Libro IX dell’Iliade. Durante un infiammato scambio di vedute con Odisseo, Aiace e Fenice, gli ambasciatori inviati nella sua tenda dallo stato maggiore Acheo e da Agamennone, il figlio di Peleo espone il suo giudizio rispetto a quello che merita di essere considerato un «valore». La vita ha per me più valore di tutta la ricchezza che dicono la grande città di Ilio possedesse nei giorni andati, in tempo di pace, prima che venissero i figli degli Achei, più valore di tutti i tesori accatastati sul pavimento di pietra dell’arciere Febo Apollo nella rocciosa Pytho. Le mandrie e le greggi vengono razziate come bottino, si possono ottenere tripodi e cavalli fulvi;

114 ma la vita di un uomo non torna indietro, non tramite il saccheggio, non per mezzo del possesso, una volta che passa la barriera dei suoi denti.

Nelle parole di Achille, la vita ha un «valore» che non ha prezzo perché la vita «non torna indietro». Il tempo del corpo non è reversibile. L’esistenza non termina solo con la morte. La «vita di un uomo», in realtà, «passa la barriera dei suoi denti» in ogni istante e non ritorna. Il potere tratta risorse, ricchezze, oggetti, vuole il possesso e il dominio sopra ogni cosa. Tutto può andare perduto ed essere poi riconquistato, oppure comprato ancora. Ma la «vita di un uomo», invece, accade effimera e senza replica. Achille annuncia poi la “scelta” deputata a determinare la propria sorte. Mia madre, la dea Thetis dai piedi d’argento, mi ha detto che due destini possono condurmi al termine della morte; se rimango qui a combattere contro la città dei Troia­ni non vedrò più la mia casa, ma la mia gloria sarà indistruttibile; se torno alla terra di mio padre invece la fama mi sarà negata, ma avrò una vita lunga e la morte non giungerà presto.

I versi che formulano la celebre “scelta di Achille” nell’Ilia­ de rendono esplicite alcune nervature essenziali al codice dei guerrieri. Nel dialogo con Odisseo e gli altri ambasciatori, il «valore» attribuito da Achille alla vita presuppone una valutazione della vita. La dinamica del valutare appare evidente nelle medesime parole utilizzate dal principe di Phthia per sillabare il proprio giudicare. Se proviamo ad analizzare brevemente la sentenza iniziale pronunciata da Achille – «la vita ha per me più valore di tutta la ricchezza […]» – forse possiamo orientare meglio la nostra comprensione dell’intero ragionamento svolto dal figlio di Peleo.

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Nella frase scandita da Achille, «la vita» definisce l’oggetto della valutazione, mentre la forma riflessiva «per me» indica il soggetto impegnato nel valutare. La locuzione «più valore», poi, fissa uno dei termini della comparazione, il cui insieme stabilisce l’esito ultimo della valutazione stessa. Il parametro di pregio, messo a confronto con «più valore» nella comparazione, viene espresso dalle parole «tutta la ricchezza», le quali denotano la sfera intera dei valori che possono essere, in qualche modo, calcolati e determinati. Il complemento di comparazione «di», posto fra «più valore» e «tutta la ricchezza» (producendo così la formazione linguistica «più valore di tutta la ricchezza») definisce, infine, il modo della relazione che connette tra loro i termini del paragone. La possibilità di riferirsi a “quantità”, al livello del valore, apre alla possibilità di reiterare, sostituire, scambiare, gli oggetti ai quali viene conferita una determinata grandezza di valore. L’espressione «tutta la ricchezza» appare allora, nel ragionamento di Achille, come un simbolo per tutto quello che, per il fatto stesso di essere reiterabile, sostituibile, scambiabile, può e deve essere anche valutabile. La vita, viceversa, sottolinea Achille, non è reiterabile né sostituibile, perché «non torna indietro». La vita non si può convertire in altro e tradurre in un valore. Pertanto, in termini di quantità, la vita non si può valutare. La misura del «valore» che Achille attribuisce alla vita non si dimostra, però, iperbolica, troppo grande per essere eguagliata o superata dalla quantità di valore assegnabile a «tutta la ricchezza». Il figlio di Peleo, svolgendo la logica implicita nel valutare, rende esplicita una “posizione” fondamentale: il «valore» attribuibile alla «vita di un uomo» non può essere afferrato tramite un calcolo e si dimostra, così, impossibile da stimare. La conclusione a cui giunge la valutazione articolata dal principe di Phthia risolve, quindi, per aggiudicare all’inafferrabile «vita di un uomo» un «valore», che, nondimeno, risulta in sé inestimabile.

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Il fatto di attribuire alla vita un «valore» imponderabile produce alcune notevoli conseguenze. Una radice della genesi di questi sviluppi risiede, non solo nel tipo di «valore» assegnato alla vita dalla valutazione, ma anche nella forma riflessiva «per me», posta all’inizio del discorso che enuncia l’atto del valutare, la quale definisce il soggetto che conduce la valutazione medesima. Il soggetto che vaglia la vita è l’individuo, il mortale, l’umano compreso nell’immediato e contingente accadere della sua stessa vita. Un valore inestimabile, d’altra parte, reca con sé una contraddizione endemica. Esso, infatti, implementa una forma “assoluta” del «valore», dato che sfugge alle costrizioni relative alle esigenze del calcolo. Al tempo stesso, tuttavia, un «valore» inestimabile si mostra privo della qualità più essenziale congenita ad un valore effettivo, rappresentata proprio dalla prerogativa di potere essere in qualche modo calcolato. Un «valore» inestimabile, in verità, propriamente non è un valore, ma palesa la contraddizione nella forma del valore, una forma vuota, la quale assume, nella valutazione, il rango del paradosso giudicato inestimabile. La mancanza di valore sostanziale emerge nell’esistenza elementare di un individuo. La «vita di un uomo», infatti, non è reiterabile, sostituibile, scambiabile, come dovrebbe convenire ad ogni valore effettivo, perché «non torna indietro, non tramite il saccheggio, non per mezzo del possesso, una volta che passa la barriera dei suoi denti». Il «valore» inestimabile appare perciò come l’esito ultimo di una valutazione che sfocia in una “posizione”. Una decisione arbitraria, dunque, determinata dall’intima riflessione di un individuo esposto nell’esistere a considerare un’assenza fondamentale. Affacciato sul bordo caduco del vivente, Achille muove rapido lo sguardo, per indagare, quindi, il vuoto che pervade il «valore», incalcolabile, aggiudicato da un umano mortale all’effimera «vita di un uomo».

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La Scelta di Achille e il Valore inestimabile

Il passo che nell’Iliade presenta allo spettatore, oppure al lettore, la “scelta di Achille”, introduce una ulteriore mossa effettuata dal figlio di Peleo. La rivelazione fatta ad Achille da sua madre, la dea Thetis, pone il giovane principe di Phthia davanti ad un dilemma più complesso di quello che potrebbe a prima vista sembrare. La dea Thetis, in primo luogo, definisce la condizione in cui suo figlio si trova ad esistere: il giovane guerriero è destinato a morire. Achille è un mortale. L’alternativa posta di fronte al principe, la “scelta di Achille”, riguarda unicamente le modalità nelle quali il figlio di Peleo deciderà di affrontare il tempo che lo tiene ad una qualche distanza dall’attimo in cui la sua vita passerà, definitivamente, «la barriera dei suoi denti». Le opzioni prospettate da Thetis ad Achille, come è noto, sono due. Una ipotesi è quella di abbandonare la Troade, ritornare a Phthia, trascorrere nel regno di suo padre un’esistenza lunga e giungere così alla morte ad un’età tarda e per quanto possibile serena. In questo caso, tuttavia, Achille perderebbe la possibilità di vivere una vita meritevole di «gloria». L’altra evenienza consiste nel rimanere nel mezzo del conflitto per combattere e morire giovane, in un tempo breve, in terra straniera, ma riuscendo a condurre la

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propria vita in una maniera idonea a guadagnare una «fama» destinata a non tramontare. Considerando il «valore» attribuito da Achille alla vita, estremo, incalcolabile, essenzialmente motivato dalla labile realtà dell’esistenza, la decisione più oculata per il figlio di Peleo sembrerebbe quella di provare a proteggere in tutti i modi la propria condizione vivente di mortale, soggetta alla possibilità di terminare repentinamente, in verità, in ogni istante. Issare le vele e salpare le navi nere dei Mirmidoni, dunque, verso Phthia, dirette alla terra che era il regno di suo padre, il più possibile al riparo dalle insidie annidate nell’ambiente non domestico del mondo. Naturalmente la «gloria» andrebbe perduta, ma quanto potrebbe giovare, d’altronde, una fulgida reputazione ad un cadavere? Il pensiero che potrebbe spingere Achille ad optare per il ritorno a Phthia sembra avere anche un centro gravitazionale nel soggetto e nel suo organismo. In termini moderni, sarebbe forse possibile ritenere la logica di tale ragionamento radicata nelle necessità in cui l’evoluzione costringe la fisiologia dell’essere vivente. Le esigenze primarie essenziali e sufficienti alle forme di vita per avere la possibilità di perdurare nell’esistere, infatti, paiono ridursi alla non banale capacità di garantirsi la triade “nutrimento-sicurezza-riproduzione”. Una carenza perniciosa di nutrimento e sicurezza comprometterebbe la vita dell’individuo, mentre un semplice difetto nello specifico svolgimento del ciclo riproduttivo può mettere a rischio anche la sopravvivenza dell’intera specie a cui il singolo organismo appartiene. La soluzione di ritornare a Phthia, paventata dalla dea Thetis al figlio, non suona perciò come l’ipotesi balzana di una scelta che, se fosse stata alla fine adottata da Achille, avrebbe denotato un’attitudine subdolamente codarda e un po’ sedentaria del prode guerriero Acheo. Al contrario, dai versi dell’Iliade sem-

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bra trasparire la consapevolezza che un essere vivente, se intende rimanere vivo, non può esimersi dal fare ritorno sempre, in qualche modo, alla forma di “Phthia” che si viene rivelando, nel proprio inevitabile mutare, più adatta alla particolare condizione in cui versa l’esistenza di quello stesso essere vivente. Se proviamo a scostare, inoltre, la nostra attenzione dalla più classica alternativa binaria che pare emergere dall’annuncio della famosa “scelta di Achille” – restare a combattere nella Troade e performare il codice dei guerrieri per guadagnare la «gloria», rimettendoci però la vita; oppure tornare a Phthia per condurre, fino ad un’età veneranda, l’esistenza agiata, ma non troppo brillante, tipica di un aristocratico – possiamo forse scorgere la struttura di un pensiero più ramificato, il quale tiene insieme l’intero passo finale del primo dei tre discorsi che il figlio di Peleo rivolge come risposta ai suoi compagni nel Libro IX dell’Iliade. La potenziale volontà di Achille di rimanere invece a combattere nella piana di Ilio porta alla luce altri aspetti relativi alla questione del «valore». Tali connotazioni appaiono tanto basilari quanto la necessità biologica che risuona, nondimeno, nell’opzione più assennata di ritornare a Phthia. Nel processo del valutare che conduce Achille a conferire alla vita un «valore» in sé incalcolabile, dovuto alla contingenza cieca dell’esistere, affiora il tratto di un «valore» anomalo, nonché paradossale, il quale viene di fatto ritenuto inestimabile perché, sfuggendo alla possibilità di essere misurato, non può nemmeno essere propriamente valutato. Nell’eventuale decisione da parte del giovane principe di restare nella Troade, oltretutto, la “idea” di «valore» inestimabile sembrerebbe calamitare un rilievo primario, affermandosi come preminente rispetto alla medesima «vita» caduca alla quale il «valore» “invalutabile” stesso viene attribuito. Trattenendosi in terra straniera per dare battaglia, infatti, Achille

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sarà destinato ad incontrare una morte precoce, percorrendo una via non certo fausta, che lo porterà a conseguire, ciò nonostante, una «fama» non soggetta a tramontare. Se il figlio di Peleo decidesse alla fine di rimanere a combattere e morire prematuramente nella Troade, lo svolgimento della saga potrebbe allora profilare uno scenario che tentiamo di abbozzare servendoci del seguente schema. 1) Il «valore» inestimabile conferito da Achille alla «vita» si presenta scorporato dalla medesima «vita» alla quale il «valore» era stato assegnato. 2) La «vita di un uomo» si rivela in sé priva di ogni valore, dato che, separata dal «valore» inestimabile che le era stato aggiudicato, la «vita» viene destinata a terminare in modo prematuro. 3) Il «valore» inestimabile, scorporato dalla «vita», converge sulla «gloria». La «fama imperitura» sembra così prevalere sulla «vita». Al fine di ottenere una «gloria» non effimera, infatti, un «uomo» abdica alla propria stessa «vita» e l’abbandona all’oblio nel nulla in cui risolve il suo destino mortale. Se torniamo alla sentenza che fonda il brano che stiamo provando ad indagare – «la vita ha per me più valore di tutta la ricchezza […]» – possiamo rilevare ancora alcune informazioni salienti. Tra il soggetto che valuta e l’oggetto della valutazione, dunque tra la forma riflessiva «per me» e «la vita», si stabilisce una relazione di identità complessa. Un individuo non è distinto dalla sua vita. Achille assegna «più valore di tutta la ricchezza» alla «vita» ed attribuisce, quindi, un «valore» inestimabile a se stesso. Nel medesimo frangente, tuttavia, il figlio di Peleo, in una tensione trascendentale, si riferisce all’essenza effimera della «vita di un uomo», una condizione che non è peculiare esclusi-

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vamente della sua vita individuale. La caduca consistenza della «vita di un uomo», difatti, risulta costitutiva dell’esistenza di qualunque essere vivente. Il soggetto che valuta, articolato dalle parole del principe di Phthia, non è un individuo ripiegato su se stesso. L’esistenza del singolo accade in una situazione e in un ambiente. Tenendo fermo lo scorcio esistenziale del proprio valutare, Achille, pertanto, aggiudica un «valore» inestimabile all’esistenza di ogni singolo individuo, in ragione del fatto che «la vita di un uomo non torna indietro una volta che passa la barriera dei suoi denti».

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«Uomini senza valore» vs lo Scettro come Simbolo

La frase che Achille pronuncia in una delle ultime battute del suo alterco con Agamennone nel Libro I dell’Iliade, letta alla luce delle parole rivolte dal figlio di Peleo a Odisseo nel Libro IX del poema, rivela di essere una sentenza meditata che colpisce l’intero mondo Acheo come un colpo di rasoio. Un re che divora il suo popolo! Tu comandi uomini senza valore; altrimenti, figlio di Atreo, questo ora sarebbe il tuo ultimo oltraggio.

Gli uomini che obbediscono agli ordini di Agamennone sono «senza valore» perché acconsentono di essere considerati una merce, alla pari di «mandrie», «greggi», «tripodi» e «cavalli fulvi», dai mandatari di un apparato di potere che decide il prezzo del “valore di mercato” assegnabile alla loro vita. L’intangibile consistenza della «vita di un uomo», effimera, immediata, incalcolabile, in questo modo viene divorata ed evapora la stessa possibilità di attribuire alla «vita» un «valore» inestimabile. Gli «uomini senza valore» divengono così il parametro reale della quantità di valore aggiudicata alla «vita» di un individuo nel diagramma del potere.

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Le parole che concludono l’icastico intervento di Achille in risposta ad Agamennone spingono l’analisi svolta dal figlio di Peleo ad una profondità ulteriore. I versi dell’Iliade rendono a questo punto noto agli spettatori ed ai lettori che, nel proferire il suo discorso, il principe di Phthia sta ora impugnando lo «scettro borchiato con chiodi d’oro», il simbolo materiale della congruenza tra il contenuto delle dichiarazioni solenni enunciate dai re e dai nobili Achei riuniti in assemblea ed il nucleo più ancestrale della tradizione espressa dal mito. Il rilievo simbolico dello «scettro» appare subito nell’Iliade, all’inizio del poema. Crise, il sacerdote del figlio di Leto, giunge, per l’appunto, presso «le navi degli Achei recando doni immensi per riscattare sua figlia e stringendo tra le mani, avvolte su un bastone d’oro, le insegne di Apollo che colpisce da lontano». Quando poi Agamennone, rifiutando di restituire Criseide al padre, caccia in malo modo il prete, il despota scaglia le sue minacce intimando al religioso di non farsi più vedere nell’accampamento Acheo altrimenti «il suo bastone e le insegne del dio» non sarebbero più stati sufficienti a proteggerlo. Lo «scettro», già nei primi versi del poema, viene così presentato come il segno della suprema autorevolezza di cui era investito il dignitario che, in circostanze ufficiali, stringeva nel pugno il «bastone» intarsiato d’oro. Nell’episodio descritto nel prologo dell’Iliade lo «scettro» funge come il simbolo della relazione di appartenenza che vincola Crise ad Apollo. Lo «scettro» tenuto in mano da Crise indicava la presenza del dio, manifesta nella situazione tramite il suo sacerdote. Mancare di rispetto a Crise significava offendere in modo diretto il figlio di Leto e scatenare la sua ira. Gli insulti di Agamennone rivolti al sacerdote, infatti, incendiano la furia di Apollo, il quale infetta con una pestilenza il campo Argivo per vendetta, saettando «da lontano» i suoi dardi avvelenati.

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Il «bastone d’oro» di Crise, il simbolo sacro osteso dal sacerdote di Apollo, comunque, non è ovviamente il medesimo oggetto, lo «scettro», che la tradizione narrava essere giunto, attraverso la dinastia della casa di Atreo, da Zeus ad Agamennone. L’esposizione “canonica” della valenza simbolica dello «scettro» del figlio di Atreo, come già sappiamo, appare nel Libro II del poema, quando «il potente Agamennone impugnando il suo scettro» si alza davanti all’esercito degli Achei riunito in assemblea per tenere il suo discorso sbilenco, congetturato per mettere alla prova i soldati. Il rapsodo, lasciando forse trasparire la sfumatura di una velenosa arguzia, sceglie proprio questo momento, in cui il disorientamento generale precipita nel caos l’intera armata degli Argivi, per fornire, in pochi versi, la genealogia dello «scettro» radicata nella tradizione. Richiamiamo il breve passo dell’Iliade: […] Si alzò allora il potente Agamennone Impugnando il suo scettro, realizzato con grande maestria dall’arte di Efesto; Efesto lo diede a Zeus, il signore, il figlio di Crono, poi Zeus lo diede ad Ermes, l’uccisore di Argo, ed Ermes lo passò a Pelope, conduttore di cavalli, poi Pelope a sua volta lo diede ad Atreo, il pastore del popolo; ed Atreo morendo lo lasciò a Tieste, ricco di molte greggi, e Tieste a sua volta lo lasciò ad Agamennone, che lo tiene ora, come signore di tutto l’Argolide e di molte isole. Con questo scettro come suo supporto, Agamennone parlò agli Argivi.

Nelle pagine precedenti abbiamo seguito l’esito surreale provocato dal discorso pronunciato dal despota di Micene per testare la truppa. Nella situazione di sbandamento venutasi a creare in seguito al sermone balzano del tiranno, Odisseo, riportato all’azione da una provvida apparizione di Atena, realizza di dovere intervenire in modo tempestivo per fermare

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l’ondeggiare della torma Achea istigata dalle parole di Agamennone, diretta già alle navi con l’intenzione di abbandonare la Troade e salpare verso casa. Il re di Itaca, nonostante l’urgenza dettata dal precipitare degli eventi nel campo degli Argivi, si catapulta innanzi tutto negli alloggi del sovrano. Odisseo, per rendere più evidente la propria autorità agli occhi dei soldati, «prende» dal figlio di Atreo lo «scettro dei suoi padri, indistruttibile, eterno». Le descrizioni del «bastone» intarsiato d’oro presenti nell’Ilia­ de che più riverberano l’ortodossia della tradizione narrano di uno «scettro» ritenuto «indistruttibile, eterno», il quale, «realizzato con grande maestria dall’arte di Efesto», venne poi passato di generazione in generazione lungo la linea dinastica della casa di Atreo, per essere consegnato, infine, nelle mani del «potente Agamennone». Il despota di Micene, l’ultimo dei sovrani Atreidi, «con questo scettro come suo supporto», in ripetute occasioni lungo lo svolgimento del poema, nell’esercizio della funzione della sua sovranità si accinge a prendere la parola davanti all’assemblea degli «Argivi». Nel mito lo «scettro» agisce quindi come segno e simbolo sincretico del potere, politico, militare, religioso. L’oggetto «indistruttibile, eterno», il «bastone», rende visibile, perfino tangibile – come potrebbe testimoniare l’incauto Tersite percosso da Odisseo con lo «scettro» di Agamennone – l’investitura dell’autorità conferita dagli dèi immortali alle figure che, ai vertici della gerarchia sociale, in quanto espressioni di una derivazione metafisica del potere, esercitano ruoli di comando. Il significato autentico del dettato veicolato dalla narrazione canonica della tradizione, in effetti, non potrebbe essere più esplicito: il dominio esercitato da coloro che sono legittimati dalle parole “originarie” trasmesse tramite la tradizione deve essere temuto ed obbedito. Tale potere, «indistruttibile, eterno», di cui lo «scettro» è un simbolo concreto, infatti, viene concesso dal volere del «figlio di Crono».

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Achille coglie perfettamente il nucleo del problema attorno al quale divampa il suo alterco con Agamennone. Il despota di Micene, appoggiato dall’apparato di potere degli Argivi, pretendeva un gesto di sottomissione incondizionato da parte del principe di Phthia all’autorità del sovrano. Una pretesa vana, destinata a rendere la rottura, tra il figlio di Peleo e il mondo di cui Agamennone era un emblema, inevitabile ed impossibile da riparare. Impugnando lo «scettro», dunque, Achille conclude il suo intervento lapidario con una «promessa solenne». Il «grande giuramento» di Achille figura come una formulazione che sarebbe forse possibile collocare nello spazio di differenza che distingue una profezia da una previsione. Il giovane principe predice all’assemblea degli Argivi l’accadere funesto degli avvenimenti innescati come conseguenze dalla condotta vessatoria di Agamennone nei confronti di Achille. Un comportamento del sovrano reso possibile dal consenso degli Achei in supporto al figlio di Atreo. E questo sarà il mio grande giuramento davanti a voi. Un giorno la brama per Achille coglierà di sorpresa i figli degli Achei, ogni uomo; allora niente vi salverà, nonostante tutto il vostro dolore, quando per mano di Ettore l’assassino molti uomini cadranno uccisi; e voi farete a pezzi il cuore dentro di voi, dilaniati perché non avete rispettato l’onore del migliore degli Achei.

La «promessa» di Achille appare nel Libro I del poema, ma prefigura al pubblico dell’Iliade il corso degli eventi che avranno luogo durante lo svolgimento della saga. La parte più notevole ed interessante di questa sezione finale del discorso scandito dal figlio di Peleo, però, sono le parole rivolte ad Agamennone che il principe utilizza per introdurre il suo «grande giuramento».

128 Ma io te lo dico apertamente, e faccio una promessa solenne su questo scettro che non porterà mai più foglie e germogli ora che ha lasciato indietro il suo ceppo tagliato sulle montagne, e nemmeno fiorirà ancora, dato che una lama di bronzo l’ha spogliato di corteccia e fogliame, e ora alla fine i figli degli Achei lo tengono nelle loro mani quando amministrano la giustizia di Zeus. E questo sarà il mio grande giuramento davanti a voi.

L’affondo di Achille piombò inatteso sull’assemblea degli Argivi, già sconcertata dal modo in cui si stava rapidamente deteriorando, davanti agli occhi impotenti di tutti, lo scontro tra il figlio di Peleo ed Agamennone. Stringendo in mano lo «scettro», il «migliore tra gli Achei» dirigeva ora la sua analisi sull’anatomia del simbolo di legno che egli brandiva di fronte al consesso dei soldati e degli ufficiali. La narrazione tradizionale riportava di un oggetto «indistruttibile, eterno», il quale fu «realizzato con grande maestria dall’arte di Efesto» ed affidato da «Zeus, il signore», tramite Ermes, a Pelope, il capostipite della casa di Atreo. Lo «scettro», sempre stando al racconto canonico della tradizione, come già sappiamo, venne poi passato da una generazione della dinastia degli Atreidi all’altra, per giungere alla fine in possesso del «potente Agamennone». La lucida dissezione del simbolo attivata da Achille riferisce invece ai «figli degli Achei» una realtà del tutto diversa. Il giovane principe rileva che lo «scettro» impugnato dai nobili Argivi «quando amministrano la giustizia di Zeus» è in verità solo un bastone senza vita. Un pezzo di legno mozzato dal «suo ceppo» dalle scuri dei tagliaboschi «sulle montagne», un ramo morto, un moncone di materia ormai inerte. La valenza simbolica dello «scettro» non dimora affatto nella costituzione fisica dell’oggetto, nella sua provenienza, oppure nella sua foggia. L’origine del simbolo ha il suo luogo nella mente dei mortali. I «figli degli Achei» proiettano sullo «scettro» la convenzione

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di un simbolo, solo per questa ragione «lo tengono tra le mani quando amministrano la giustizia di Zeus». L’idea di giustizia stessa viene messa in questione dalle parole del figlio di Peleo. Il concetto di giustizia non è univoco. Concezioni dissimili, inoltre, discordi su quali posizioni possano essere considerate, in qualche modo, eque, legittime, oneste, legali, possono anche arrivare, naturalmente, a divergere l’una dall’altra in una maniera tale da non essere più tra di loro compatibili. La visione di Achille, focalizzata sulla vicenda imponderabile dell’individuo nell’esistenza, si rivela a questo punto non più conciliabile con un orizzonte narrativo cristallizzato attorno alla necessità di preservare ad ogni costo la forma del potere. La frattura tra il principe di Phthia e le convenienze dell’élite degli Argivi che il despota di Micene rappresenta diviene così un’autentica scissione, effettiva ed irrimediabile. Il rapsodo suggella l’importanza decisiva delle circostanze che stanno determinando lo sviluppo successivo del racconto, recitando poche ruvide parole. Così parlò il figlio di Peleo e gettò a terra lo scettro borchiato con chiodi d’oro, e tornò a sedere.

Achille scaglia al suolo «lo scettro» di Agamennone e manda così in frantumi la solidità del cosmo degli Achei, radicata nella tradizione. Lo sfondo ordito di storie, l’ambiente, la lingua, in cui l’immagine stessa del figlio di Peleo e Teti si era formata ed era cresciuta, perdono la loro statica coesione. Una possibilità inedita per l’individuo, nondimeno, appare tra i frammenti.

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Il Codice dei Guerrieri come funzione dell’apparato di potere

Il sollecito intervento del decano Nestore conferma la comprensione arguita da Achille della reale dinamica che regolava le relazioni tra i figli degli Achei. Il re di Pilo, «la cui voce fluiva dalla sua bocca dolcemente più del miele», in un tentativo estremo volto a calmare per quanto possibile l’atmosfera divenuta incandescente, iniziò a parlare. Dopo un’ampollosa introduzione volta a presentare le sue credenziali di guerriero veterano e di sagace consigliere, l’esperto Nestore mostra subito di possedere anche l’indole propria di un camerlengo. Con uno zelo che riporta alla mente la celebre pedanteria di Polonio, il ciambellano della reggia di Elsinore che il principe Amleto uccide per errore nella tragedia scritta da Shakespeare, Nestore si affretta ad assumere il ruolo di tutore degli interessi di palazzo e della salvaguardia della tradizione. Il breve discorso del re di Pilo permette di capire quale fosse in realtà il motivo autentico che stava trasformando l’alterco tra Agamennone ed Achille in una tragica sciagura per tutti «i figli degli Achei». Nestore si adopera per apparire equanime. Rivolto al sovrano, l’attempato ufficiale suggerisce di fare un passo indietro e di non togliere Briseide ad Achille, dato che

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«i figli degli Achei avevano dato la ragazza a lui come premio». Quando indirizza il suo eloquio flautato verso il giovane guerriero, invece, «l’oratore cristallino di Pilo» sembra non avere per niente afferrato lo stato drammatico in cui era precipitata la situazione. Oppure, all’opposto, il consumato diplomatico aveva colto esattamente il nodo più profondo di tutta la faccenda. Comunque sia, le frasi di Nestore dirette ad Achille siglano il destino che sta iniziando ad abbattersi sugli Argivi, innescato dallo scontro tra il despota di Micene ed il principe di Phthia. E neanche tu, figlio di Peleo, azzardati a misurarti faccia a faccia con il tuo re, perché il re che detiene lo scettro gode di un onore molto diverso, ed è lui a cui Zeus ha dato distinzione. E se tu sei un uomo più forte e la madre che ti ha partorito è una dea lo stesso questo è un uomo più potente, visto che comanda più uomini.

Parole più incendiarie difficilmente potevano essere proferite in un frangente così critico per gli sviluppi dell’intera saga. Agamennone, però, rispondendo al re di Pilo, ancora una volta riesce a dire qualcosa in grado di rendere peggiore un momento già di per sé pessimo. Davvero tutte queste cose, anziano signore, tu affermi giustamente; ma questo uomo pretende di essere sopra tutti gli altri uomini; lui vuole essere signore su tutti, governare tutti, dare a tutti ordini, che io penso almeno un uomo non obbedirà.

Achille interruppe di colpo il sovrano e prese di nuovo la parola per chiarire in modo definitivo come stavano le cose. Le ultime battute del discorso di Achille non suonano solo come una sfida lanciata dal figlio di Peleo al despota di Micene, ma lasciano anche trapelare due questioni fatali. Il primo aspetto

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indicato dalle parole del giovane principe riguarda il codice dei guerrieri. E ti dirò qualcos’altro e tienilo bene in mente. Io non combatterò per la ragazza con la forza delle mie mani, non con te e nemmeno con ogni altro uomo, dato che voi me la prendete e voi me l’avete data.

Il veterano Nestore aveva appena avvertito Agamennone che sottrarre Briseide ad Achille non sarebbe stata un’idea conveniente, perché «i figli degli Achei avevano dato la ragazza a lui come premio». L’accezione simbolica del «premio» profila le transazioni previste dal codice dei guerrieri tra «i figli degli Achei» e i combattenti che più brillavano in battaglia grazie al loro valore. Nell’Iliade un unico codice dei guerrieri appare attivo in modo trasversale rispetto alle diverse popolazioni menzionate dal bardo lungo lo svolgimento della saga. A Sarpedonte, il figlio mortale di Zeus venuto dalla Licia, il rapsodo affida il compito narrativo di esprimere nel poema il codice dei guerrieri. Nella prima parte della sua esposizione, come già sappiamo, Sarpedonte evidenzia come i compensi e gli onori, conferiti dalla collettività e dai compagni d’armi ai combattenti che si erano dimostrati più audaci, fossero, in realtà, prescritti dal codice dei guerrieri. Briseide rappresentava, perciò, un «premio» dovuto dai «figli degli Achei» ad Achille come riconoscimento per le sue imprese belliche. La decisione arbitraria presa da Agamennone di requisire la ragazza scatena l’ira del figlio di Peleo, per il motivo che, in questo modo, il codice dei guerrieri veniva tradito e l’onore del principe di Phthia malamente offeso dal sovrano. L’evoluzione del diverbio con il figlio di Atreo, tuttavia, spinge Achille a trasformare la sua posizione in una maniera sostanziale, anche riguardo al codice dei guerrieri. La dinamica dell’alterco con Agamennone, unitamente all’inane assenso dato dai «figli degli Achei» alla condotta del sovra-

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no, rivelano ad Achille la dimensione più radicale della propria incompatibilità con un mondo che pretendeva dall’individuo, per potervi appartenere, un atto di sottomissione alla logica fissa del potere che regolava l’ordine gerarchico. Il codice dei guerrieri risultava alla fine essere non più che un’aggiuntiva capziosa funzione dell’articolazione del potere, perdendo così del tutto il suo ascendente atavico sul figlio di Peleo. Nel momento in cui, al termine della disputa con il sovrano, la rottura tra il principe di Phthia ed il cosmo degli Argivi diviene effettiva, la narrativa implementata nel codice dei guerrieri ed espressa nel dialogo tra Sarpedonte e Glauco nel libro XII dell’Iliade, non costituisce più quindi per il figlio di Peleo il metro di una condotta che permetteva di meritare, esercitando in battaglia il valore nel suo grado più estremo, una «gloria» destinata a non tramontare. La medesima consistenza della «fama», strettamente connessa con la prassi della virtù e del valore in combattimento, figurata dal codice dei guerrieri divulgato dalla tradizione, inoltre, mostra ora la sua natura fittizia e non significa più nulla per Achille. Al tempo stesso, Achille, «il migliore degli Achei», in questo momento ancora iniziale del poema, smette di rappresentare un modello fulgido agli occhi dei suoi compagni, i Danai venuti dalla Grecia nella Troade per conquistare «Ilio dai grandi viali». La seconda allusione contenuta nelle ultime battute proferite dal figlio di Peleo richiama invece il consiglio di Atena che aveva esortato il giovane principe a non sguainare la spada contro Agamennone, ma a farlo piuttosto «a pezzi con le parole, dicendogli come andranno le cose». Ma di altre cose che possiedo presso le mie veloci navi nere tu non prenderai niente contro la mia volontà. E ti invito a provare, così anche questi altri uomini potranno vedere; all’istante il tuo sangue scuro gronderà dalla punta della mia lancia.

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Achille traccia un limite all’opportunità di adeguarsi agli avvertimenti provenienti dagli dèi. L’ispirazione effusa dall’apparizione di Atena rimane comunque valida. Lungo l’intero svolgersi dell’Iliade, infatti, il dissidio tra Agamennone ed il figlio di Peleo non assumerà mai la forma di una ostilità armata, oppure del duello. Il ricorso alla violenza, nondimeno, nel trattare le complesse relazioni tra individui ed apparati di potere, resta un’opzione aperta che potrebbe diventare, in talune circostanze, non solo preferibile, ma perfino necessaria. Il principe di Phthia definisce allora un margine fatale, il quale sbarra l’ingresso al luogo riservato della propria intimità. Una soglia custode di uno spazio privato, aggiustato, però, con il flusso dell’economia che plasma l’ambito sociale, indicato dal verso «altre cose che possiedo presso le mie veloci navi nere». La possibilità di accesso alla sfera personale, intima, del soggetto viene decisa dalla «volontà» dell’individuo. Violare il confine, interiore, imbastito di parole, che marca il libero diffondersi di un individuo in genere non porta nulla di buono. Il monito indirizzato da Achille ad Agamennone, pertanto, giunge diretto e privo di significati arcani. «E ti invito a provare», sibila difatti il figlio di Peleo al sovrano, così «all’istante il tuo sangue scuro gronderà dalla punta della mia lancia».

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Il Linguaggio di Achille

La rottura tra Achille e i «figli degli Achei» comandati da Agamennone introduce, nelle narrazioni in cui i mortali alloggiano il proprio mondo, un collasso che conduce ad uno stato dinamico di crisi. La scena unica in cui tale dissesto avviene è il teatro della nostra mente. Per provare a capire meglio l’entità degli eventi messi in scena dal bardo e registrati nelle pagine dell’Iliade, rivolgiamo ora la nostra attenzione su un breve saggio, seminale tra gli studi classici dedicati all’opera omerica. L’articolo The Language of Achilles fu pubblicato su «Transactions and Proceedings of the American Philological Association» nel 1956. L’autore, Adam Parry, era figlio di Milman Parry, un classicista americano descritto anche come il “Darwin degli studi omerici”, le cui teorie sull’origine delle opere di Omero hanno rivoluzionato lo studio dell’epica omerica ad un livello fondamentale. Milman Parry, in una sua ricerca pubblicata nel 1928, giunse alla conclusione che lo «stile omerico» fosse caratterizzato dall’uso di espressioni fisse, «formule», adattate per esprimere una determinata idea sotto le stesse condizioni metriche. La natura dell’originaria trasmissione orale dei poemi epici rivelava la loro dipendenza da questi dispositivi costituiti da «formule», come aiuti per la me-

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moria, ma anche per permettere una più facile improvvisazione. La diffusa presenza di «formule» suggeriva che entrambi i poemi omerici non erano l’invenzione di un singolo artista, ma fossero invece un ultimo gesto creativo, evoluto gradualmente in una antica e ben stabilita tradizione. Robert Kanigel, in Hearing Homer’s Song. The Brief Life and Big Idea of Milman Parry (Alfred A. Knopf, New York 2021) sintetizza: «Milman Parry non ha risolto la “Homeric Question” (chi era Omero?); ma ha dimostrato invece che la domanda era irrilevante». Adam Parry, basato sulla teoria ideata dal padre e con il contributo del suo studente e assistente Albert Lord, nota che «il carattere formulaico del linguaggio di Omero evidenzia che ogni cosa nel mondo è regolarmente presentata come tutti gli uomini nel poema comunemente la percepiscono». Il coincidere di linguaggio e mondo rivela una «grande unità di esperienza» che trova la sua enfasi nello «stile di Omero». Il bardo nell’espressione della propria arte si trova costretto, dall’architettura di «formule» germogliate ed evolute nella tradizione, ad avvalersi creativamente di «frasi stabilite, ognuna con il suo speciale ed economico scopo». Un indice essenziale di questa «unità di esperienza» emerge nella «moralità dell’eroe», testimoniata dal codice dei guerrieri che Sarpedonte descrive nel Libro XII dell’Iliade. Il discorso di Sarpedonte amalgama due distinte sezioni. «La prima esprime gli aspetti strettamente sociali della vita di un principe omerico». L’aristocratico deve meritare con «azioni di valore» gli «onori tangibili» che vengono conferiti al nobile dai suoi «sudditi». La seconda parte delle considerazioni meditate dal re della Licia, invece, mette in rilievo «un aspetto più metafisico» significato dalla «consapevolezza dell’imminenza della morte», che guida il guerriero a «sdegnare la morte nell’azione». Il discorso di Sarpedonte, spiega Adam Parry, perlopiù è

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stato assemblato tramite l’impiego di «formule tradizionali» e «gli stessi pensieri, nelle stesse parole, appaiono in altre parti dell’Iliade». L’esegesi di Adam Parry rileva che «l’unità di esperienza viene così resa manifesta a noi da un linguaggio comune». Nell’utilizzare le medesime parole per dire «le stesse cose circa le stesse cose», nell’epica di Omero gli uomini mostrano che «il mondo per loro, dalla sua più concreta alla sua più metafisica parte, è uno». I personaggi che calcano la scena delle opere omeriche, dal politropo Odisseo, a Sarpedonte, a Tersite, «l’uomo più repellente tra quelli giunti sotto le mura di Ilio», tutti articolano parole che «sono sentite come una chiara riflessione della realtà» perché «essi sono in armonia con le assunzioni di tutta la società». Il coincidere di «discorso» ed «azione» abbarbica tra le radici biologiche della mente. «Gli eroi epici», così, «vivono una vita d’azione». Fenice, il tutore di Achille, che su richiesta del padre Peleo segue il principe di Phthia nella spedizione Achea alla conquista di Ilio, menziona le «abilità dell’eroe» necessarie al guerriero per «acquisire prestigio tra i suoi compagni». Nel Libro IX dell’Iliade, Fenice evoca l’essenza dell’educazione data al giovane principe. Il precettore confida ad Achille di avergli «insegnato tutte le cose» che un guerriero non può non sapere per essere un uomo che «opera con le parole e con le azioni». Adam Parry sottolinea che «il discorso è una forma di azione». Nella «economia dello stile formulaico», la quale «confina il discorso in sequenze accettate che tutti gli uomini assumono essere vere», non emerge dunque il bisogno di segnare «una fondamentale distinzione tra discorso e realtà, oppure tra pensiero e realtà». La differenza che discerne «apparenza e realtà» viene assorbita dalla «unità di esperienza» che conforma tutti i personaggi nel poema, perché «il linguaggio della società è il modo in cui la società fa sembrare le cose».

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Il solo «indizio» autentico che «le apparenze possano essere fuorvianti, e le concezioni, in forma di parole, una cosa falsa e rovinosa», origina nella «persona di Achille». L’idea di verità che il figlio di Peleo tiene ferma in tutta la vicissitudine della sua vicenda nel poema trova la sua definizione forse più adeguata se ci si avvale di una logica articolata dalla negazione. Nel giudizio di Achille, infatti, “dire il vero” assume lo schietto significato di “non mentire”. Rispondendo a Odisseo, nel Libro IX dell’Iliade, il giovane principe premette di detestare «come l’inferno l’uomo che nasconde una cosa nel suo cuore, e ne dice un’altra». Nell’approccio al vero reso attivo dal figlio di Peleo, pertanto, mentire ha il senso eminente di ingannare, non dire la verità, quindi, del tutto consci della frode. Subito dopo, Achille avverte che parlerà allora a Odisseo «senza trucchi», francamente, senza menzogne. L’incedere del figlio di Peleo inaugura una sorta di aggancio critico alla realtà che permette alla «terribile distanza […] tra la verità che la società impone sugli uomini e quello che Achille ha visto essere vero per se stesso» di emergere nel poema. Il principe di Phthia figura dunque come «l’unico eroe omerico che non accetta il linguaggio comune e sente che non corrisponde alla realtà». Il «carattere formulaico» dello «stile omerico», d’altra parte, impedisce a «Omero come narratore» ed ai «personaggi che egli disegna» di «parlare un linguaggio diverso da quello che riflette le assunzioni della società eroica». Omero ed Achille mancano del «linguaggio» e dei «termini» idonei ad esprimere la loro «fondamentale disillusione con la società ed il mondo esterno». Achille introduce così il modo negativo, non solo nella logica di cui si serve per condurre la sua analisi critica della realtà, ma anche in quanto espediente per stabilire lo spazio della propria esistenza. Il figlio di Peleo si esprime «utilizzando in maniera inadeguata il linguaggio di cui dispone», senza rispettarne il canone. Nei momenti della narrazione quando «da lui meno ce lo aspettiamo», realizziamo che Achille «usa

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espressioni convenzionali», svuotandole però del significato tradizionale che la «natura del verso epico», tramite esse, di norma intende veicolare. Questo accade, ad esempio, quando il giovane principe proclama di avere ottenuto «grande gloria uccidendo Ettore, mentre noi sappiamo che egli sta combattendo solo per vendicare il suo amico» Patroclo e che Achille non riconosce più «nessun valore nella gloria che la società può conferire». La condizione delicata a cui approda l’individuo effigiato nell’I­ liade dal principe di Phthia appare nella «tragedia di Achille, il suo finale isolamento». Achille, difatti, «in nessun senso, incluso quello del linguaggio, può lasciare la società divenuta a lui aliena». Una contraddizione, dunque, vincola e separa al tempo stesso, ad un livello fondamentale, individuo e società. Adam Parry termina la sua riflessione facendo però notare che «Omero usa il discorso epico che una lunga tradizione poetica gli ha tramandato per trascendere i limiti di quel discorso». L’indagine filologica, naturalmente, costituisce lo sfondo che abilita Adam Parry a scrivere un saggio acuto come The Lan­ guage of Achilles. Negli stimoli che l’articolo offre, tuttavia, filtra anche una prospettiva senza dubbio filosofica. Proviamo allora a seguire almeno alcune delle numerose sollecitazioni presenti nel testo. La considerazione con cui Parry conclude la sua dissertazione, riportata per intero, recita: La tragedia di Achille, il suo finale isolamento, è che egli in nessun senso, incluso quello del linguaggio (diversamente da, diciamo, Amleto) può lasciare la società che è divenuta a lui aliena. E Omero usa il discorso epico che una lunga tradizione poetica gli ha tramandato per trascendere i limiti di quel discorso.

L’alienazione di Achille, parafrasando per tentare un’interpretazione dell’argomento speculativo di Adam Parry, consiste dunque nel fatto che l’isolamento del figlio di Peleo non è la

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mera condizione di chi si ritrova, per qualche ragione, davvero solo e avulso dal corpo sociale in cui la sua esistenza accade. L’isolamento di Achille diventa la sua «tragedia» perché egli, in nessun modo, nemmeno al livello astratto del linguaggio, può estraniarsi dalla «società che è divenuta a lui aliena». Il punto è che l’assetto sociale nel quale il giovane principe conduce la propria vita «impone sugli uomini» una «verità» diversa da «quello che Achille ha visto essere vero per se stesso». L’impossibilità di isolarsi, quindi, dall’ambiente alieno in cui egli vive, trasmuta, in Achille, nell’essenza del proprio isolamento. Trovandosi ad esistere in un mondo definito dall’orizzonte limitato della narrazione di una tradizione, la situazione di inevitabile “non isolamento” in cui è costretto significa, per la «persona di Achille», una specie essenziale di “isolamento”. La contraddizione che permette di vedere il coincidere di “non isolamento” ed “isolamento”, in questo loro senso fondamentale, d’altra parte, emerge nell’utilizzo del linguaggio. Nel racconto dell’Iliade, l’uso del linguaggio connette «Omero» ad «una lunga tradizione poetica» che ha «tramandato» al bardo «il discorso epico» ed il suo rigore. Il rapsodo «usa» il «discorso epico» stesso, unitamente ai vincoli che comporta il suo impiego, per attivare le risorse dinamiche della contraddizione e «trascendere i limiti di quel discorso». Superare le costrizioni imposte dal «carattere formulaico» tipico del linguaggio poetico tradizionale, per andare oltre il «discorso epico», sembra dunque essere, nella prospettiva aperta da Adam Parry, un effetto cruciale dell’arte messa in scena dal bardo «Omero», chiunque egli in realtà sia stato. In due cruciali episodi nell’Iliade possiamo forse rinvenire l’indizio di una forma di tale movimento trascendentale, volto ad oltrepassare l’ambito contingente della saga narrata dal poema. Il primo brano, nel Libro IX, rappresenta Achille che suona la lira e canta davanti a Patroclo «le grandi azioni degli uomini».

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Il secondo passo appare nel Libro XXIV dell’Iliade, quando Priamo riesce di nascosto a penetrare di notte nel campo Acheo per offrire ad Achille un riscatto in cambio della restituzione del corpo di suo figlio Ettore.

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Libro IX: Achille, Patroclo, la Lira e lo Spirito del Bardo

Il Libro IX dell’Iliade è noto come il capitolo in cui il rapsodo racconta la vicenda degli ambasciatori mandati da Agamennone e dagli alti ufficiali dell’esercito Acheo ad incontrare Achille nei suoi alloggi sulla spiaggia, presso le «navi dei Mirmidoni». L’idea di inviare una delegazione di messi nell’accampamento del corpo speciale venuto da Phthia e guidato dal figlio di Peleo era stata proposta da Nestore, l’attempato re di Pilo. Il piccolo gruppo, composto da Odisseo, Fenice, Aiace e da due araldi, aveva un compito delicato e difficile, pressoché impossibile, da espletare. L’incarico affidato dal consiglio di guerra degli Achei agli ambasciatori era di riuscire a «persuadere l’irriducibile cuore» di Achille, il discendente di Eaco, «l’Eacide», di ritornare a combattere nello schieramento più avanzato dell’armata Argiva. Dal momento in cui Achille si era ritirato dalla guerra, infatti, dopo la drastica rottura con Agamennone e l’intero apparato di potere Acheo, l’esercito comandato dal despota di Micene aveva subito una serie di sconfitte contro le truppe capitanate da Ettore e si trovava ormai ad un passo dalla resa. Il Libro VIII dell’Iliade descrive una feroce collisione tra le legioni dei due eserciti.

146 Quando le armate giunsero in uno stesso posto si gettarono una contro l’altra, scontrarono i loro scudi, le loro lance, la forza dei loro uomini armati di bronzo, e gli scudi borchiati picchiarono l’uno contro l’altro, e si alzò un grande fragore. Poi le urla straziate e le vanterie degli uomini che uccidevano e venivano uccisi si levarono insieme, e la terra grondò di sangue.

Solo il calare della notte salvò i Greci dalla disfatta. Ettore, alla testa delle milizie Troiane, aveva seminato durante tutta la battaglia terrore e morte tra gli Argivi, costringendo i soldati Achei ad una fuga disordinata per cercare riparo nello spazio compreso tra la palizzata di difesa e la fortificazione che i Greci avevano costruito per proteggere le navi. Il Libro IX del poema inizia svelando che il «Panico immortale, compagno del freddo Terrore, aveva afferrato gli Achei», dato che perfino i loro uomini migliori erano «afflitti da una pena insopportabile» e storditi. Agamennone convocò allora un’assemblea. Il sovrano, lamentandosi che Zeus l’aveva tratto «in un terribile inganno», dichiarò che il figlio di Crono gli imponeva ora di «tornare ad Argos disonorato per avere distrutto una moltitudine di uomini». Agamennone, alla fine, in lacrime, esortò gli Argivi attoniti a «fuggire con le navi» verso casa, perché gli Achei non avrebbero mai conquistato «Troia dagli ampi viali». Un lungo silenzio seguì il termine del discorso di Agamennone. Poi il giovane Diomede prese la parola attaccando il despota senza indugi. A te il figlio del tortuoso Crono ha dato mezza misura; egli ha garantito che grazie al tuo scettro tu fossi onorato più di tutti gli uomini, ma il coraggio non te l’ha dato, che è il potere più grande.

Diomede rifiutò di seguire l’invito di Agamennone ad abbandonare la guerra e scappare via dalla Troade e «i figli degli

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Achei urlarono il loro assenso in ammirazione delle parole» del figlio di Tideo. L’opposizione di Diomede ad Agamennone è situata ad un livello diverso dalla posizione presa da Achille nei confronti del sovrano e dell’ordinamento di valori rivelato dal mondo degli Achei descritto nella saga. Il figlio di Tideo riconosce la legittimità del potere che deriva dall’essere il depositario dello «scettro» ed il suo orizzonte è del tutto inscritto nella tradizione. La critica di Diomede è rivolta alla persona di Agamennone che dimostra di essere un codardo, non alla sua autorità in quanto monarca. Nel giudizio di Diomede, il figlio di Atreo, valutato attraverso il filtro etico del codice dei guerrieri, non è all’altezza della carica che ricopre. Agamennone non è degno di essere il comandante supremo degli Achei e il sovrano che possiede lo «scettro». Achille nega, invece, la liceità del fondamento su cui poggiano i valori espressi dalla tradizione. L’essenza di tale fondazione appare evidente, ancora una volta, dallo scambio di battute tra Nestore ed Agamennone che succede, nel Libro IX dell’Ilia­ de, all’intervento di Diomede. Compreso il pericolo annidato nella confusione e nel disorientamento palesati dall’assemblea fino a quel momento, il re di Pilo assume su di sé l’onere di trovare una mediazione e indicare ai figli degli Achei una linea d’azione almeno plausibile. Per prima cosa Nestore suggerisce di sciogliere l’assemblea e di riunire lo stato maggiore dell’esercito negli alloggi del sovrano. Davanti agli ufficiali, poi, il re di Pilo dispiega la sua abilità di diplomatico veterano, ciambellano della tradizione. Diomede ha ragione, inizia Nestore, ma la sua giovane età gli impedisce di afferrare per intero le difficoltà che la situazione presenta. Agamennone «comanda molti uomini» perché Zeus gli ha dato in consegna «lo scettro e la tradizione», prosegue il vecchio generale, l’ultima parola per decidere spetta dunque,

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in ogni caso, di diritto al figlio di Atreo. Stabilizzata l’autorità del sovrano, Nestore si rivolge allora ad Agamennone dicendo in modo esplicito che «disonorare il migliore degli uomini, stimato dagli dèi immortali» è stato un grave errore. Ora si tratta di capire come fare ammenda, termina il re di Pilo, cercando di riconquistare il figlio di Peleo, «con doni propiziatori e parole gentili». Agamennone, ascoltato il discorso di Nestore, coglie immediatamente la possibilità di ricompattare la compagine sbandata degli Achei attorno al prestigio che la tradizione conferiva alla propria figura e al suo ruolo. Per captare esattamente la lucidità di Agamennone in quanto uomo di potere, conviene saltare subito alla fine del sermone tenuto dal despota di Micene. Le ultime parole di Agamennone sono dirette agli emissari che verranno scelti per andare ad incontrare Achille nella sua tenda. Fatelo cedere. Perché Ade non concede, ed è senza pietà, e per questo egli tra tutti gli dèi è il più odioso ai mortali. Convincetelo a sottomettersi a me, dato che io sono il re più potente e sono anche il più anziano.

Nella sua arringa il figlio di Atreo aveva vestito i contriti panni del pentito per avere offeso in modo folle, guidato dalla sua «ragione derelitta», Achille, il quale «vale molti guerrieri» e che «Zeus ama nel suo cuore» così tanto da mandare «la sconfitta al popolo Acheo» per onorare un solo uomo. Agamennone proclama quindi di volere offrire «un compenso inaudito» al figlio di Peleo per rimediare l’oltraggio ed inizia ad enumerare tutti i suoi «doni nel loro splendore». L’intero elenco di regali confluisce, tuttavia, in un’unica, gelida, calcolata condizione, a cui Achille si deve assoggettare per rendere reale la proposta del sovrano. Achille è tenuto a «sottomettersi» ad Agamennone, perché il figlio di Atreo è «il re più potente». Accettando

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l’offerta di Agamennone, il principe di Phthia non solo avrebbe ottenuto la restituzione di Briseide, ma Achille avrebbe potuto sposare una delle figlie del sovrano, senza versare la sontuosa dote prevista e ricevendo invece terre, onori e ricchezze. Il figlio di Peleo sarebbe entrato a fare parte della famiglia di Agamennone e avrebbe potuto regnare con lui, divenendo così il fiduciario più intimo del despota ed il suo suddito più illustre. La somma dei «doni nel loro splendore» mostra dunque di essere nulla più del prezzo che Agamennone era disposto a pagare per comprare la vita del «migliore degli Achei». L’attitudine alla corruzione alimenta la fisiologia di un apparato di potere ed organizza la logica utilizzata dai suoi funzionari. L’anelito essenziale del potere risolve nel riuscire ad ottenere ubbidienza. Ma l’articolazione del potere per realizzare la propria brama si avvale solitamente, in definitiva, di due diverse procedure: schiacciare oppure corrompere. L’apparato di potere Acheo non poteva usare la forza nel soggiogare Achille per un motivo preciso: l’apporto del figlio di Peleo nella guerra era indispensabile agli Argivi per evitare «la sconfitta del popolo Acheo» e conquistare finalmente «Ilio dai grandi viali». Per provare a riportare Achille alla battaglia, la sola via disponibile ad Agamennone e alla burocrazia militare degli Achei rimaneva allora, in effetti, la corruzione. Insieme alla corruzione, naturalmente, lavora l’inganno. Molto spesso, infatti, la corruzione avanza occultata da subdole fattezze. Terminato il discorso di Agamennone, la sinergia tra il sovrano e Nestore è attiva. Il re di Pilo nomina in tutta fretta gli ambasciatori. I tre emissari prescelti, Odisseo, Fenice e Aiace, seguiti da due araldi, partono subito diretti agli alloggi del figlio di Peleo. Odisseo fu l’ambasciatore destinato ad essere il primo a parlare per blandire il figlio di Peleo, annunciando ad Achille i doni offerti da Agamennone ed il rimorso che af-

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fliggeva il sovrano per avere vilipeso l’onore del principe. Nel riferire ad Achille l’intera lista dei magnifici regali offerti da Agamennone, Odisseo, l’ineguagliato artista dell’eloquio fraudolento, tralasciò però di menzionare solo la clausola posta dal figlio di Atreo, alla fine del suo discorso dolente, come la condizione che si doveva avverare senza riserve affinché la proposta potesse diventare davvero operativa: Achille, appunto, si sarebbe dovuto «sottomettere» alla maestà di Agamennone. Mentre ascolta le parole suadenti del re di Itaca, il principe di Phthia fiuta il sotterfugio. Nella sua risposta, rivolgendosi al figlio di Laerte con l’appellativo «Odisseo dai molti stratagemmi», Achille, infatti, ammonisce immediatamente il re di Itaca dicendo di odiare «come i cancelli dell’Ade l’uomo che nasconde una cosa nel suo cuore, e ne dice un’altra». La ribattuta del giovane principe a Odisseo permette di seguire lo sviluppo dell’analisi condotta da Achille per marcare le incongruenze e l’utilizzo dell’arbitrio tessuti nella retorica della tradizione che strutturava il mondo degli Achei. Alla fine dell’intervento del principe di Phthia, quella che Adam Parry riconosce come «la terribile distanza […] tra la verità che la società impone sugli uomini e quello che Achille ha visto essere vero per se stesso» sembra occupare ormai in modo esplicito il centro narrativo della saga. In nessuna maniera, al tempo stesso, la consistenza di tale «terribile distanza» viene proclamata tramite un impiego positivo del linguaggio. Non ci sono descrizioni, definizioni, visioni dipinte dall’abilità cromatica delle parole, in grado di rendere conto della «terribile distanza», il vuoto divario, tra due incompatibili attitudini al vero. L’individuo abita l’assenza in mezzo alle parole, esposto tra la prassi della verità come menzogna, ordita nell’idioma controllato dagli apparati di potere, e la comprensione logica del processo che permette di distinguere il vero dal falso.

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Achille respinge i regali «odiosi» di Agamennone. L’elenco dei «doni nel loro splendore» implementa al grado più alto quello che la società considera essere un valore. Nel giudizio del figlio di Peleo, i valori veicolati dal corpo sociale sono però fittizi e non valgono nulla. L’etica espressa dal codice dei guerrieri non ha una sorte diversa. Subito dopo avere presentato l’opzione nota come “la scelta di Achille”, l’alternativa tra due fati opposti situata nell’imminente futuro della propria vita che gli aveva rivelato la madre, la dea del mare Teti, il principe di Phthia chiude la sua digressione lasciando intendere che egli non sarebbe rimasto a «combattere attorno alla città dei Troia­ ni» per morire giovane ed ottenere una «gloria immortale». Achille afferma di voler tornare nella terra di suo padre, una decisione che avrebbe di fatto annichilito ogni possibilità per lui di conquistare la «fama» e realizzare così l’essenza del codice dei guerrieri. Il destino narrativo del poema si svilupperà poi svincolato dalle singole vicende dei diversi personaggi ed il figlio di Peleo, alla fine, non farà mai ritorno a Phthia. Ma quando nel Libro IX la replica a Odisseo si conclude, nelle valutazioni di Achille, ormai, il codice dei guerrieri mostra di non avere più per lui alcun valore. Adam Parry osserva che «Achille è l’unico personaggio omerico che non accetta il linguaggio comune, e sente che non corrisponde alla realtà». La situazione che emerge nel poema, d’altra parte, illustra delle asperità le cui diramazioni difficilmente possono essere contenute nell’ambito rigoroso della filologia. La non accettazione del «linguaggio comune», da parte di Achille, dimostra di essere, in verità, una confutazione della maniera in cui il linguaggio viene utilizzato nelle sue relazioni con la «realtà». L’indagine e la dissezione giungono ad una profondità che spinge però l’ambito della narrazione in una condizione nella quale, come rileva Parry, «Achille non ha un linguaggio con cui esprimere la sua disillusione». Per comunicare il proprio pensiero, il figlio di Peleo impiega così in

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modo negativo l’unico idioma disponibile presente sulla scena, il medesimo linguaggio, dunque, che la sua disamina sta scomponendo e smembrando. L’indice di un movimento trascendentale, diretto a forzare il limite del linguaggio di cui si compone il cosmo del poema, appare quando ci si rende conto, avvisa Parry, che «Omero in realtà, non ha nessun linguaggio, nessun termine, nei quali esprimere questo tipo di disillusione basilare con la società ed il mondo esterno». Se vogliamo allora provare a cogliere una possibile figurazione del moto trascendentale “architettato” dal rapsodo dobbiamo forse tornare al momento in cui il piccolo drappello degli ambasciatori giunge all’ultimo bivacco degli Achei, sulla spiaggia davanti a Ilio, dove sono accampati i guerrieri Mirmidoni. Nell’istante in cui i messi fanno il loro ingresso nella tenda del figlio di Peleo, la temperie trafelata del mondo di cui gli ambasciatori sono emissari rimane confinata all’esterno dell’alloggio del principe di Phthia. La scena che il rapsodo descrive muta all’improvviso l’atmosfera del racconto. E così arrivarono ai rifugi e alle navi dei Mirmidoni, e lo trovarono mentre deliziava il suo cuore suonando una lira dal timbro cristallino, squisitamente lavorata, con applicato un ponte d’argento, che egli stesso aveva scelto dalle spoglie quando aveva distrutto la città di Eetione. Con questa egli recava piacere al suo cuore e cantava le grandi azioni degli uomini, mentre Patroclo seduto di fronte a lui, da solo, in silenzio, ascoltava attentamente l’Eacide, aspettando il momento in cui avrebbe smesso di cantare.

Nell’Iliade la propensione all’arte di un eroe si esprime nella guerra. In particolare, il talento di un guerriero si realizza nel combattimento ed il furore dell’estasi trova il suo apice quan-

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do il contatto con la morte diviene, non solo prossimo e probabile, ma immediatamente reale. Al tempo stesso, non esiste forse un altro libro capace di portare il lettore nel mezzo di una rappresentazione dell’orrore della guerra così sobria e priva di ciance come l’Iliade. Sulla piana davanti a Ilio non si scontrano eserciti, orde, torme, ma si scannano tra loro uomini, individui, persone. Ognuno è qualcuno, ha madre, padre, famiglia, una casa in qualche luogo e fa parte di una società. Ogni morte significa così, non solo la distruzione dell’individuo ucciso, ma lo sfregio della vita di un numero imprecisato di persone. Al calare della notte, quando le ostilità devono essere sospese per il sopraggiungere del buio, i cani, gli uccelli da preda e le fiere iniziano a spolpare fino all’osso i cadaveri maciullati dei morti rimasti nel campo di battaglia. La vicenda umana è irrilevante per l’intero ambito degli esseri viventi e degli enti che umani non sono. La natura fa il suo corso. Allo spuntare dell’alba, comunque, oppure quando l’opportunità lo consente, le operazioni militari riacquistano vigore e la guerra tra i mortali continua, come se nulla fosse accaduto. La correlazione tra arte e guerra, nondimeno, viene mantenuta salda dal bardo. Il nesso appare nella performance che mette in scena «le grandi azioni degli uomini», dunque nella genesi dell’arte attiva nell’Iliade. Gli ambasciatori entrano nella dimora del principe di Phthia ed il rapsodo trasferisce nei nostri occhi il loro sguardo. Vediamo attraverso la vista dei messi la visione allestita dai versi del bardo. Achille sta cantando «le grandi azioni degli uomini» mentre suona uno strumento di pregio, dal «timbro cristallino», una «lira», parte della refurtiva razziata durante il saccheggio e la distruzione della «città di Eetione», il padre di Andromaca, moglie di Ettore. L’intera saga è attratta dal magnete dell’aedo nella tenda del figlio di Peleo. La solitudine di Achille diviene più nitida. L’isolamento essenziale del giovane principe consiste nell’impossibile distacco da un mondo che gli è alieno restando pur

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sempre l’ambito unico in cui la sua vita accade. Ma l’affetto che unisce Achille ed i suoi compagni non viene dilaniato dalla «terribile distanza» presente tra il figlio di Peleo e gli «uomini senza valore» che ubbidiscono agli ordini di «un re che divora il suo popolo». Nel vedere Odisseo, Fenice, Aiace, gli ambasciatori dell’apparato di potere degli Argivi, Achille balza in piedi sorpreso e li accoglie con calore. Benvenuti! Di sicuro venite come veri amici, di voi ho davvero bisogno, voi che siete per me i più cari tra gli Achei, anche nella collera.

Un particolare ancora attira l’attenzione. In nessun altro momento del poema stati d’animo di ebbrezza quasi felice, come la delizia ed il piacere intenso del cuore, vengono associati ad Achille. Di solito la persona del giovane principe è il teatro di passioni violente e turbolenze che possono andare anche fuori controllo, come avviene nel tratto dell’Iliade che arriva dall’uccisione di Patroclo fino alla morte di Ettore e allo scempio del suo corpo. Nella tenda del figlio di Peleo succede però qualcosa di diverso. Achille canta «le grandi azioni degli uomini». Patroclo lo ascolta attento, in silenzio, in attesa probabilmente del suo turno, per cominciare a sua volta a suonare. Noi assistiamo all’evento tramite gli occhi degli ambasciatori. Ma «le azioni gloriose degli uomini», in effetti, sono l’Iliade, in tutti i modi in cui la portata del poema si dipana. Lo slittamento nel moto trascendentale allestito dal bardo comincia quando avvertiamo che Achille canta l’Iliade nell’Ilia­ de nell’attimo stesso in cui noi lo vediamo attraverso gli occhi dei messi mentre stiamo leggendo l’Iliade. La nostra presenza nella tenda del figlio di Peleo si rivela dunque subitanea e reale. Noi non possiamo, tuttavia, sedere di fronte ad Achille, vicino a Patroclo e ascoltare il canto, oppure confabulare con Aiace, Fenice e Odisseo. Patroclo, Fenice, Aiace, Odisseo, Achille, la tenda, la «lira», con il suo puro «timbro cristallino»,

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«le azioni gloriose degli uomini», l’Iliade, sono tutti oggetti mentali. Noi siamo la “mente”. Volendo esprimere la cosa in una maniera più accurata: ognuno di noi è immediatamente, in un’unica soluzione, la “mente del corpo ed il corpo della mente” che legge l’Iliade. Il bardo proietta se stesso nella propria creazione, il figlio di Peleo, il quale diviene nell’Iliade il rapsodo che canta l’Iliade. Ma il poema per essere tale, una forma di vita, deve apparire come oggetto mentale nello spazio virtuale, senza materia, della mente di un umano, un individuo, un mortale. L’abilità del bardo aggancia lo scorrere del tempo in una sincronia inedita. Siamo così catapultati dalla dimensione astratta delle parole alla consistenza fisica, sebbene immateriale, della nostra mente. La mente dei «mortali», il solo luogo dove la genesi dell’arte, attiva nell’Iliade come in ogni frangente dove l’arte appare, può in realtà avvenire e accade. La guerra entra nella creazione dell’arte come quello che, in essenza, la guerra non è. Una guerra reale, infatti, non è una rappresentazione e l’Iliade, nondimeno, raffigura una guerra. Un’opera d’arte, tuttavia, espone se stessa, non quello che è dipinto, descritto, suonato, oppure ciò di cui si parla nell’opera medesima. Non esiste distinzione tra un’opera d’arte ed il suo contenuto. Una ragione di questa presenza immediata dell’opera d’arte si può forse cercare nella disparità tra fatto ed evento. Un fatto compare in una costruzione logica che è sempre possibile riprodurre e delineare. Un evento è invece un accadimento, il quale appare, repentino ed irripetibile. Un’opera d’arte sembra avere l’intangibile profilo di un evento. Il motivo che spinge a collocare l’opera d’arte nella classe degli eventi, piuttosto che in quella dei fatti, si può probabilmente indagare ponendosi la domanda: dove prende forma, in realtà, un’opera d’arte? A prima vista, però, una risposta sensata a tale quesito non sembra illuminare troppo la questione. Un’opera

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d’arte, infatti, assume la sua sembianza nel luogo unico dove anche i fatti vengono connessi nel loro significato, cioè nella mente/corpo degli umani. Nella mente, d’altra parte, emergono due diversi tipi di parvenza: il tratto della stabilità e l’espressione contingente senza materia dell’organismo. I fatti devono l’immagine di solidità che riflettono alla loro essenza di strutture logiche. Le opere d’arte, invece, derivano la possibilità della loro forma dall’esposizione dell’organismo a particolari stimolazioni e condividono, in questo loro modo peculiare, la consistenza fulminea degli eventi. Le opere d’arte, quindi, in maniera più diretta ed esplicita dei fatti, emergono nella mente come forme di vita ed hanno così l’identico destino fugace che Achille riconosce alla «vita di un uomo», la quale, «non torna indietro una volta che passa la barriera dei suoi denti». Nella consuetudine intendiamo essere un’opera d’arte un oggetto sul quale un artista fisicamente proietta, modella, una forma che risponde ad un certo gusto. L’oggetto d’arte, tuttavia, può trarre in inganno ed indurci a confondere la possibilità della forma con il reale apparire della forma. Se insieme all’oggetto non fossero presenti anche gli organi di senso e la loro funzione, la genesi della forma sarebbe, difatti, impossibile. Nondimeno, corpo ed oggetto sono necessari, ma non sufficienti, affinché l’effettivo generarsi della forma accada. Un appropriato assetto del mondo fisico è soltanto una condizione di possibilità per l’emergere della forma. Nella forma non c’è materia. La forma affiora nella mente, come effetto traslato, metafisico, delle interazioni che avvengono nell’ambito della materia tra l’organismo e l’ambiente esterno al corpo. Una forma si manifesta, dunque, come un oggetto mentale ed esiste, in quanto tale, solo nella mente. Nel corpo non ci sono forme. Nell’espressione mentale del corpo, invece, la forma appare. Ovviamente, non tutte le forme che emergono nella mente sono “arte” e non è possibile, inoltre, marcare un’autentica dif-

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ferenza per distinguere l’apparire di forme dell’arte dai tratti mentali che assumono altre percezioni dell’organismo, molto più utili e diffuse. Quello che solitamente indichiamo come oggetto d’arte, non diversamente da altri enti presenti fuori dalla mente, veicola nel teatro mentale solamente la possibilità del generarsi della forma, tramite l’organismo che riceve stimoli e produce percezioni. Ma la genesi della forma in quanto tale avviene solo in quella proiezione immateriale del corpo che noi chiamiamo mente. La scena che il bardo appronta nella tenda del figlio di Peleo mostra gli elementi essenziali perché la forma di un’opera d’arte possa accadere. Achille suona, Patroclo ascolta. La musica è inafferrabile e scompare non appena il suo sorgere lascia l’effetto di una traccia mutevole nella mente e nel corpo dell’artista e dell’uditore. Durante il tragitto attraverso lo spazio per giungere da Achille fino a Patroclo, «le grandi azioni degli uomini» che il principe di Phthia sta cantando dileguano nella dimensione fisica della loro consistenza. Il mondo interiore dei mortali è il luogo unico in cui la forma dell’arte può varcare la soglia contingente dell’esistere. Nel fluire della performance, così, nella mente del bardo e degli uditori si origina l’Iliade. «Le grandi azioni degli uomini» sono l’Iliade, ma paiono avere, in realtà, poco a che fare con le prodezze belliche degli eroi nei campi di battaglia. Il dispositivo della performance che porta alla vita l’Iliade appare fulmineo nella tenda del figlio di Peleo. Gli attori che rendono attuale l’episodio sono Achille, Patroclo, poi gli ambasciatori Achei che assistono alla scena e noi, che vediamo l’evento attraverso i loro occhi. Si viene così a creare la possibilità di trasmettere nella caducità qualcosa che, nonostante tutto, possa suscitare un’impressione capace di divenire «gloria», «fama», il pregio di un valore, un effetto fragile, un’intangibile esperienza.

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Gli umani, i «mortali», possono distinguere ed inventare, in modi diversi, l’espressione in un suono, il quale, come le note emesse dalla «lira» del bardo Achille, può anche veicolare un «timbro cristallino», inedito, in mezzo alla bolgia incessante della loro stessa produzione di rumore.

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Libro XXIV: Priamo, Achille e la Contraddizione

Allestendo la parte introduttiva del Libro XXIV dell’Iliade, il rapsodo coglie Achille e Priamo nella loro intimità. Il padre di Ettore ed il figlio di Peleo vengono ritratti ognuno nella sua solitudine, afflitto dal dolore, in una condizione di spirito molto simile, quasi identica, allo stato d’animo dell’altro. Al tempo stesso, tuttavia, Priamo ed Achille appaiono entrambi in una disposizione interiore ferocemente contrapposta ed inconciliabile con l’indole dell’altro. Terminati i giochi funerari che si erano tenuti in onore di Patroclo, mentre nel campo Acheo tutti si accingevano a rifocillarsi prima di ritirarsi per cercare ristoro nel sonno, «solo Achille ancora piangeva ricordando il suo compagno, e non dormiva», rigirandosi sul letto di continuo. Il principe di Phthia alla fine si alza ed esce a girovagare sulla spiaggia per distrarsi. Al sorgere dell’alba, Achille, «attaccati i suoi cavalli veloci al suo carro, lega Ettore dietro alla biga per tirarlo; e dopo averlo trascinato tre volte attorno alla tomba del figlio morto di Menezio, egli torna a riposare nel suo rifugio, e lascia Ettore steso a terra con la faccia nella polvere». Dopo alcune decine di versi nel poema, quando Iris, poi, inviata da Zeus, giunge nel palazzo di Priamo ad Ilio, la dea tro-

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va il re della città di Troia devastato dalla morte di suo figlio Ettore, «avvolto, sagomato nel suo mantello; uno spesso strato di sterco, in mezzo al quale si era rotolato e che aveva raschiato con le mani, era imbrattato intorno al collo e alla testa del vecchio uomo». Priamo ed Achille sono dunque raffigurati dal bardo nell’antitesi in cui stanno l’uno rispetto all’altro. Achille è l’assassino del figlio di Priamo. La morte di Ettore, inoltre, rende inevitabile la caduta di Troia, l’eccidio dei suoi abitanti e la distruzione della città per mano degli Achei. Il principe di Phthia è quindi un diretto responsabile, un’autentica causa, del tormento di Priamo. La collusione tra il re di Ilio ed il fatto che origina lo struggimento di Achille, l’uccisione di Patroclo, pare invece non così immediata, ma non per questo meno determinante. Priamo è il padre di Ettore, il comandante dell’esercito Troiano che ha ucciso Patroclo. Inoltre, il re di Ilio si era sempre opposto con la propria autorità alla restituzione di Elena al marito Menelao, il sovrano della città di Sparta, fratello di Agamennone. La regina Elena aveva abbandonato Menelao ed era fuggita da Sparta insieme a Paride, il principe Troiano anche lui figlio di Priamo. La fuga degli amanti Elena e Paride aveva fornito il pretesto ad Agamennone e Menelao per assemblare un’armata ed iniziare contro la città di Troia una guerra, la quale, dopo dieci anni di combattimenti, stava recando ancora devastazione e morte sia ai Greci che ai Troia­ni. Offrendo asilo e protezione alla regina Spartana, Priamo aveva di fatto impedito una soluzione diplomatica del conflitto ed il termine delle ostilità che avrebbe evitato il decesso di una moltitudine di soldati e civili, ma anche la morte del figlio di Menezio. Il coinvolgimento del re di Ilio negli avvenimenti che avevano contribuito a causare l’angustia ed il dolore di Achille, perciò, si rivela comunque evidente. Da un punto di vista puramente logico, sarebbe forse possibile, in una sorta di esercizio intellettuale, persino immaginare Priamo ed Achille come gli elementi tra loro antitetici in una

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contraddizione. Nella forma logica del paradosso, i termini presentati dalla contraddizione si negano a vicenda. Risulta dunque logicamente assurdo, in una medesima sentenza, ritenere vero uno dei termini tra di loro contraddittori senza considerare falso l’altro e viceversa. La contraddizione mostra, quindi, l’impossibile relazione tra i termini che essa stessa, però, mantiene in una connessione palesata dalla coerenza di un nesso che si mostra incoerente. La forma incongruente del legame logico esibito nella contraddizione espone un confine dell’intelletto, un limite ultimo interno allo “spazio logico”, oltre il quale l’universo dei simboli, presupposto dall’attività razionale, semplicemente, dilegua. Nella mente dei mortali, senso e mancanza di senso denotano, dentro lo “spazio logico”, l’orizzonte relativo della ragione. Il collidere di non contraddizione e contraddizione affiora nella formazione e nell’articolazione delle parole e dei numeri, immediatamente, generando la possibilità medesima del senso. La facoltà di determinare un significato, invece, sembra derivare da questo estremo sfondo mobile dei processi logici, il quale, al tempo stesso, indica un limite ed esprime l’indistinta abilità potenziale di distinguere, sempre all’interno dello “spazio logico”, il vero dal falso. Contemplare, attraverso la dimensione instabile originata da uno sguardo logico, la relazione tra Priamo ed Achille, messa in scena nel Libro XXIV dell’Iliade, può prospettare alcuni vantaggi. L’approccio logico, innanzi tutto, induce ad intendere il rapporto tra Achille e Priamo come una contraddizione, evidente, tuttavia, non solo al livello astratto della mera ragione. Il figlio di Peleo e l’anziano re di Ilio stanno infatti tra loro in un’antitesi radicata nell’esistenza. Le posizioni e l’equa maestà di Priamo innescano nella saga una serie di avvenimenti che porta all’uccisione di Patroclo da parte di Ettore. La morte di Patroclo determina il ritorno di Achille alla battaglia e l’uccisione del figlio di Priamo. Il rientro del principe di Phthia nel conflitto attiva, inoltre, la catena degli eventi che saranno

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alla fine cagione della catastrofe in procinto di abbattersi su entrambi, Achille e Priamo. Il re di Ilio ed il figlio di Peleo, in modo reciproco, significano l’uno la morte e l’annientamento dell’altro. L’antitesi tra Achille e Priamo non riguarda quindi solo la logica. La contraddizione che mostra l’impossibile intimo nesso tra il principe di Phthia ed il nobile sovrano di Ilio affonda i suoi tentacoli nella vita. Nello stesso momento, nondimeno, il dolore per il lutto subito, insieme al lugubre presagio che ognuno significa per l’altro, azionano una forza dinamica nel paradosso che mantiene i due uomini uniti in un vincolo indissolubile. Il lavoro della contraddizione non termina qui. Dopo essere precipitati dal mondo impalpabile delle prospettive logiche, giù, fino alle asperità incongruenti della vita, realizziamo che noi, in realtà, non abbiamo mosso un passo fuori dall’astrazione. Priamo ed Achille, infatti, sono, non uomini, ma parole. Il figlio di Peleo ed il re di Ilio sono personaggi in un poema, un’opera d’arte, l’Iliade. Achille e Priamo appaiono, in verità, solo dietro allo schermo dei nostri occhi e la loro vita è il mutevole processo di quella proiezione immateriale del nostro corpo che noi chiamiamo mente. Torniamo allora al testo dell’Iliade, per seguire da vicino dove può portare la traccia labile lasciata dal bardo ai cultori della sua arte. Impigliato in una sete ormai sterile di vendetta, Achille seguitava a replicare l’oltraggio del corpo senza vita di Ettore. Gli dei, riuniti nella loro residenza sulle alture del monte Olimpo, rimasero turbati guardando lo spettacolo dello scempio reiterato dal figlio di Peleo. Spuntata nel cielo «la dodicesima alba dopo la morte di Ettore», Apollo prese infine la parola nel consesso degli dèi «immortali». L’intervento rivolto agli altri numi dal dio «che colpisce da lontano» introduce una serie di impliciti raffronti speculari tra alcune figure protagoniste nel-

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la narrazione. La fine dell’Iliade viene così resa ancora più intensa e complessa tramite le allusioni che richiamano, in una forma capovolta, nell’epilogo della saga l’inizio del racconto. In questo frangente finale della storia, Apollo recita un ruolo simile a quello del supplice, interpretato nel prologo del poema dal suo sacerdote Crise. Nei versi che introducono l’Iliade, il religioso era giunto nel campo Acheo per implorare il rilascio di Criseide, sua figlia, segregata come schiava da Agamennone. Apollo, nell’apertura del Libro XXIV che conclude l’intera narrazione, evocando il contegno e la condotta di Crise, intercede invece con gli altri dei affinché intervenendo facessero in modo che il corpo di Ettore fosse ritornato alla sua famiglia e agli abitanti di Ilio per essere «onorato con i riti funebri». La prepotenza e lo sprezzo con cui Agamennone aveva cacciato il supplice Crise sembrano poi stigmatizzati anche dalla decisione di Zeus, il quale, in opposizione alla tracotanza esibita dal despota di Micene, architetta un piano per rendere possibile la restituzione della salma del comandante Troiano, da parte di Achille a Priamo. L’intera scena dell’incontro tra Achille e Priamo diviene, allora, una versione sovvertita del contatto brutale avuto dal sacerdote del figlio di Leto con Agamennone, raccontato dalle parole che avviano il poema. L’attenzione con cui Achille accoglie il padre di Ettore rovescia l’incedere tramite il quale il sovrano degli Argivi aveva stroncato la supplica di Crise. Il principe di Phthia, inoltre, nel condurre i diversi aspetti presentati dalla situazione, esprime una modalità nella gestione del potere totalmente estranea alle coordinate che avevano regolato le decisioni dell’apparato di potere degli Achei lungo lo svolgersi di tutta la saga. Achille, nell’ultima sua presenza tra le parole dell’Iliade, attiva così l’immagine di un individuo in grado di interpretare anche la responsabilità di governo con uno stile del tutto opposto ed incompatibile con la figura di Agamennone.

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Il re di Ilio, nel sottile finale dell’opera, si rivela a sua volta connesso al supplice Crise, ma anche al despota di Micene. La vicenda della supplica di Priamo ad Achille riverbera, al contrario del modo in cui era stato bistrattato il sacerdote di Apollo da Agamennone, il tatto con cui potrebbe essere, comunque, ricevuto un ospite e dovrebbero essere ascoltate le sue richieste. Un’attinenza esplicita tra Priamo ed Agamennone, d’altra parte, sembra evidente. Lungo tutto lo svolgersi della saga i due sovrani stanno tra loro in una relazione che palesa come essi siano, in effetti, sotto ogni rispetto, l’uno il modello inverso dell’altro. Il sentimento che tiene unito Priamo ad Ettore lascia trapelare un’ulteriore allusione al despota di Micene, forse più velata, ma senza dubbio molto più affilata. Il re di Ilio, infatti, non esita nel mettere a rischio la propria vita, infiltrandosi nell’accampamento dei guerrieri Mirmidoni per provare a riscattare il corpo morto di suo figlio. Quando invece l’armata degli Argivi era rimasta bloccata da un’immota bonaccia nell’Aulide, durante i preparativi per la guerra contro la città di Troia, Agamennone aveva sgozzato la propria figlia Ifigenia in sacrificio ad Artemide per indurre la dea a ripristinare i venti favorevoli che avrebbero permesso alla flotta greca di prendere il mare verso le spiagge della Troade. La distanza incommensurabile tra Priamo ed Agamennone affiora nel racconto, tuttavia, non come giudizio morale, ma solo in quanto parte costitutiva dell’opera d’arte messa in scena dall’Iliade. I giudizi di ogni tipo, infatti, appartengono alla riflessione sull’arte e non all’opera d’arte stessa, se intendiamo l’apparire di un’opera d’arte come un evento che, nella sua essenza, accade solo nel contesto dell’esperienza di un individuo. Il piano concepito da Zeus attiva un congegno narrativo idoneo a fare arrivare Priamo come supplice nella tenda del figlio di Peleo.

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Un’idea che circolava nelle sommità dell’Olimpo tra gli dèi, dopo che «per nove giorni un bisticcio si era acceso tra gli immortali riguardo il corpo di Ettore ed Achille», era quella di mandare il dio Ermes a rubare il cadavere del comandante Troiano. Il figlio di Crono, però, non è d’accordo, perché vuole «dare questo onore ad Achille». Iris viene così inviata nelle profondità del mare ad incontrare la nereide Thetis, madre del principe di Phthia, per convocare la dea al cospetto di Zeus. Il dio del tuono affida a Thetis il compito di informare Achille che gli dèi sono arrabbiati, mentre lui, Zeus, è proprio infuriato. Il momento è giunto, quindi, per rendere il corpo di Ettore alla sua gente. Thetis, allora, «partì, sfrecciando giù dalle alture dell’Olimpo, percorrendo la via fino al rifugio di suo figlio». L’intimità tra Thetis ed Achille, intrisa di affetto e di dolore, ma venata da una profonda tristezza, accorda il tono dell’atmosfera diffusa nella tenda del figlio di Peleo. Prima di riferire ad Achille il messaggio di Zeus, la dea del mare afflitta mormora del fato ormai segnato che incalza sul figlio. «Tu non vivrai con me ancora a lungo», sussurra Thetis al giovane principe, «ma già la morte ed il potente destino stanno vicini sopra di te». Ritornando a combattere, per vendicare Patroclo ed uccidere Ettore, Achille aveva fatto la sua scelta. La decisione presa dal principe, tuttavia, non era inglobata nell’orizzonte tracciato dalla tradizione veicolata dal mito, in cui aveva preso la sua forma il racconto della “scelta di Achille”, annunciata dal figlio di Thetis e Peleo nel Libro IX dell’Iliade. L’opzione, presentata ad Achille dalla dea sua madre, ricordiamo, consisteva nel decidere se tornare a Phthia e vivere un’esistenza agiata fino ad un’età veneranda, ma senza «gloria», oppure se rimanere nella Troade a combattere e morire, quindi, giovane, in terra straniera, ma riuscendo a guadagnare una «fama» che non tramonta. Achille, nondimeno, come rileva Adam Parry, non riconosce più «nessun valore nella gloria che la società può

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conferire» e rientra nel conflitto «solo per vendicare il suo amico» Patroclo. Il destino rivelato da Thetis ad Achille, ciò nonostante, rimane attivo nel mito, perché non esiste un mondo dietro al mondo. Il luogo immaginario abitato dai «mortali» non può essere definito, ma resta unico. Il bardo naviga l’oceano di storie inventate dagli umani da cui emerge l’indistinto ordito delle tradizioni. Un abisso di suoni e parole riflette così l’arte del rapsodo nella mente di chi ascolta. Thetis comunica ad Achille il messaggio di Zeus e il giovane principe senza indugio risponde immediatamente. Fate venire l’uomo che porta il riscatto e prende il corpo, se l’Olimpico stesso davvero lo chiede.

La dea, parlando al figlio per informarlo sul volere di Zeus, non aveva però menzionato Priamo. Achille, dunque, in questo momento non conosce ancora l’identità dell’uomo che arriverà nel campo dei Mirmidoni per prelevare il corpo di Ettore. Per quanto ne sapeva, pertanto, il figlio di Peleo avrebbe anche potuto trovarsi nell’umiliante situazione di dovere rendere la salma di Ettore, non a suo padre Priamo in persona, il re di Ilio, ma a un semplice funzionario incaricato dalla casa reale Troiana di portare a termine la trattativa. Il principe di Phthia, lo stesso, non ha dubbi nell’accettare subito la volontà del figlio di Crono. Per un breve scorcio, fulmineo, nel racconto sembra dissolvere così anche l’ultima presa che teneva Achille, sebbene in modo negativo, connesso alla struttura narrativa che esprime l’esperienza umana. Nemmeno le immagini della furia e della vendetta, inoltre, irradiano più un sentire non vano, ed il corpo dell’uomo che ha ucciso Patroclo rivela adesso di essere ormai, per Achille, un mero feticcio inefficace. Il filtro verbale che rende l’esistere perlomeno concepibile per il mortale si scorpora nella sua inconsistenza. L’esistenza è nuda ed il destino incombe. Il tempo è maturo nella trama perché Achille e Priamo si guardino alla fine negli occhi per un’ultima volta.

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Zeus, nel frattempo, aveva mandato Iris a Ilio, nel palazzo di Priamo, per avvertire l’anziano re di preparare un riscatto e muovere verso il campo degli Achei, accompagnato solo da un araldo. Priamo doveva presentarsi come supplice nell’alloggio del principe di Phthia e chiedere ad Achille il rilascio del corpo di Ettore. La salma sarebbe stata restituita ed il vecchio padre, indenne, avrebbe potuto a riportare il corpo del figlio dentro le mura di Ilio. Ermes, delegato da Zeus, avrebbe protetto e guidato Priamo e l’araldo lungo tutto il tragitto. Giunto nell’accampamento dei Mirmidoni, Priamo riuscì ad eludere la sorveglianza delle guardie e ad introdursi da solo nella tenda di Achille. Il giovane principe aveva appena finito la sua cena ed accanto a lui la tavola era ancora apparecchiata. Il vecchio re, entrato nella stanza, «strinse tra le sue braccia le ginocchia di Achille, e baciò le terribili mani assassine che avevano ucciso molti dei suoi figli». Il principe restò stupefatto. I due attendenti che erano con Achille nella tenda si guardavano interdetti senza capire quello che stava accadendo. Priamo iniziò allora la sua supplica. Il re di Ilio ricordò ad Achille che suo padre Peleo, anziano come Priamo, ancora sperava di vedere un giorno il proprio figlio vivo ritornare da Troia. Lui, invece, Priamo, aveva cinquanta figli quando iniziò la guerra. Molti erano stati ammazzati durante il conflitto. «Ma uno era rimasto, a proteggere la nostra città e la sua gente», disse Priamo, «quello che tu hai ucciso pochi giorni fa, mentre combatteva in difesa del suo paese, Ettore». Achille era rimasto immobile, come impietrito. Il re di Ilio terminò pronunciando, rivolte al principe, ancora poche frasi. Rendi onore agli dèi, Achille, e abbi pietà di me pensando a tuo padre, sebbene io sia più derelitto; ho sopportato cose tali, come nessun altro mortale sulla terra; io ho messo le mie labbra sulle mani dell’uomo che ha ucciso mio figlio.

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Il giovane principe, turbato dalle parole di Priamo, in silenzio, toccò allora le mani del vecchio re per allontanarle leggermente, con delicatezza, dalle proprie ginocchia. I due uomini, poi, scoppiarono a piangere, ed «il suono del loro lamento si levò in tutta la sala». Priamo era accasciato ai piedi di Achille, mentre il figlio di Peleo stava seduto tenendo ancora la sua mano appoggiata a quella dell’anziano sovrano. Le lacrime dei due uomini rendono viva la contraddizione che li mantiene uniti. Priamo ed Achille sono quasi piegati l’uno sull’altro, trafitti dal dolore. La contraddizione però consente alla loro reciproca opposizione di rimanere presente sulla scena, impedendo al dolore che condividono di diventare cieco e di assumere così, prima o dopo, le sembianze dell’indifferenza. Le lacrime uniscono i due uomini in un’intimità indissolubile, nella quale, comunque, il figlio di Peleo e l’anziano re di Ilio restano i nemici che, nel destino narrativo della saga, non hanno mai potuto evitare di essere. Achille poi si alza e porge la sua mano al vecchio re per aiutarlo a sollevarsi. Il figlio di Peleo inizia dunque a parlare, rivolgendo a Priamo «parole alate». Povera anima, tu davvero hai sopportato molto male nel tuo cuore. Come hai avuto il coraggio di venire alle navi degli Achei da solo, e davanti ai miei occhi, io che sono l’uomo che ha ucciso tanti dei tuoi figli? Il cuore nel tuo petto è ferro. Ma vieni e siediti su questa sedia, e lasciamo le nostre pene giacere indisturbate nei nostri cuori, anche se stiamo soffrendo; perché non c’è nessun profitto nel dolore che ottunde il cuore.

La formula «parole alate» appare in contesti diversi lungo lo svolgersi dell’Iliade. Le «parole alate» volano, raggiungono distanze inaccessibili nel cosmo del racconto, per giungere poi, rapide, immediate, dal personaggio che parla, in quel momen-

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to della saga, a quello che ascolta. Ma, in ultima istanza, le «parole alate» decollano dal teatro mentale del rapsodo, riflesso nel poema, dirette a prendere il volo nella mente di colui che, nell’istante presente, come noi, sta leggendo, oppure ascolta la narrazione. Le «parole alate», così, in questo frangente del poema, sembrano agire in opposizione a tutto quello che «ottunde il cuore» e volano quindi attraverso il dolore senza l’intento di spiegare la pena. Il discorso di Achille procede illustrando la fatalità, il nesso casuale che determina, alla fine, nel racconto del mito, le disgrazie e le fortune che capitano ai mortali. Zeus estrae sventura e prosperità, dice Achille, da «due urne», una che contiene «il male, l’altra il bene». Il dio, secondo il proprio estro, «conferisce ad un uomo una sorte mista» di gioie e di dolori. La quantità di gaudio e di tormento nel destino di un mortale dipende, dunque, unicamente dall’umore del dio del tuono. Il volere stesso di Zeus, in cui risolve l’intera trama dell’Ilia­ de, in ultima analisi, esprime la forma che assume nel mito il piacere volubile del padre degli dèi. Nel linguaggio del mito, la dinamica insondabile che decide la sorte degli umani viene figurata dal termine «fato», oppure «destino». Nella nostra lingua di mortali, invece, attratti dall’origine imperscrutabile e dal futuro imprevedibile della sorte umana, utilizziamo di frequente anche la più agile parola “caso”. Achille conclude il flusso dei suoi pensieri suffragando il disincanto che accompagna spesso il patire. Sopporta, non tenere un lutto senza posa nel tuo cuore, perché non c’è niente che puoi guadagnare dal soffrire per tuo figlio; non riuscirai a riportarlo indietro dai morti; prima dovrai soffrire ancora altro male.

Le ultime parole rivolte dal figlio di Peleo a Priamo, «prima dovrai soffrire ancora altro male», prefigurano la rovina in procin-

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to di accadere, ma presente nell’Iliade, nondimeno, solo come presagio. Gli spettatori della performance del bardo conoscevano, molto meglio di noi lettori moderni, l’epilogo dell’intero racconto della guerra mossa dai Greci alla città di Ilio. L’esercito Argivo, alla fine, avrebbe conquistato e distrutto Troia, mentre i suoi abitanti sarebbero stati massacrati oppure ridotti in schiavitù. Priamo sarebbe stato ucciso durante il saccheggio della città dal figlio di Achille, Neottolemo, il quale avrebbe preso come sua schiava la moglie di Ettore, Andromaca, facendola poi diventare sua sposa. Achille, in una torsione paradossale del destino, sarebbe morto prima della caduta di Ilio, freddato da una freccia scoccata dall’arco di Paride, uno dei figli di Priamo superstiti ed il meno marziale dei guerrieri Troia­ni. Nella condotta del principe Paride il mito così inscrive, non solo l’innesco, ma anche il compimento degli eventi che hanno generato e consumato il disastroso, funereo conflitto tra i figli degli Achei e gli abitanti di Ilio, messo in scena dal bardo nella saga. Il principe di Phthia sembra allora anticipare al vecchio sovrano l’imminente incombere della catastrofe. Una tragedia inevitabile, in quanto prevista dalla strategia estetica dei rapsodi espressa nel mito. Il suggerimento di Achille al vecchio re, «sopporta, non tenere un lutto senza posa nel tuo cuore», richiama invece un pensiero espresso dal figlio di Peleo nella prima parte del suo discorso, «non c’è nessun profitto nel dolore che ottunde il cuore». La maniera in cui un dolore irriducibile possa essere affrontato rappresenta un momento cruciale nella relazione tra Priamo ed Achille. Il rapporto tra i due uomini è fondato su una contraddizione esplosiva, sempre sul punto di detonare. La reciproca percezione del dolore dell’altro unisce Achille e Priamo. I due uomini, al tempo stesso, sanno di essere ognuno l’inevitabile causa del dolore dell’altro. La cosa peggiore sarebbe coprire il dramma, oscurarne la vista, intorpidendo «il cuore», ma rendendo ottusa in questo modo anche la mente. Achille

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si dimostra lucido in proposito. Priamo non si rivela invece altrettanto rapido nell’afferrare la complessità della situazione. L’anziano sovrano di Ilio ed il principe di Phthia si incontrano nella dimensione liminale della loro alienazione dal mondo di cui fanno parte. La leggenda di Troia, il suo fasto, l’indistruttibile entità divina delle sue mura, l’opulenza della sua vita di corte, la prosperità dei suoi abitanti, la presenza ieratica e provvida del sovrano, l’intera favolosa narrazione che avvolge Ilio nei versi dell’Ilia­ de anche durante il tempo cupo dell’assedio Acheo alla città, tutto questo per Priamo ormai non significa più nulla. Quando nella prima parte del Libro XXIV dell’Iliade, Iris, l’inviata di Zeus, giunge nel palazzo reale di Ilio per recare a Priamo il messaggio del dio del tuono, invece di un re, la dea si trova davanti un uomo sudicio di sterco, gettato a terra, disperato, spezzato dalla morte del figlio. Trascorso qualche verso nel poema, udita l’intenzione del monarca di presentarsi al cospetto di Achille con un riscatto per supplicare la restituzione del corpo di Ettore, la regina Ecuba trasalisce sbigottita domandando se Priamo avesse perduto il senno arguto per il quale era sempre stato «famoso tra la gente di altri paesi’ come tra gli abitanti di Ilio che governava. Volta al marito, la regina mostra poi il proprio furore nei confronti di Achille. «Vorrei potere affondare i denti nel mezzo del suo fegato e mangiarlo», dice Ecuba a Priamo, «quella sarebbe la vendetta per cosa ha fatto a mio figlio». La replica dell’anziano re è rude. «Non trattenermi mentre sto andando», risponde il sovrano alla moglie, «non essere un uccello del malaugurio nel mio palazzo. Non riuscirai a persuadermi». Prelevando dai forzieri e dallo stoccaggio di corte, Priamo mette allora insieme un riscatto sontuoso e sferza i suoi figli con parole aspre per incitarli a caricare rapidi un carro ed attaccare i cavalli, in modo da potere partire subito diretto al campo dei Mirmidoni. «Fate in fretta, non valete

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niente, mie disgrazie». Il vecchio re inveisce. «Vorrei che tutti voi insieme foste morti presso le navi veloci al posto di Ettore». Priamo si muove come un lucido folle, un alieno nella sua stessa reggia, tra la sua gente, in mezzo alla sua famiglia. Suo figlio è morto, assassinato. Il dolore è divampato ed il mondo di Ilio è divenuto per Priamo solo un intralcio senza senso. Le parole che Achille rivolge al vecchio re dopo avere ascoltato la supplica del sovrano colgono la condizione di alienazione radicata nel dolore che costituisce lo sfondo e l’essenza della relazione tra i due uomini. Il discorso di Achille esprime una sorta di fatalismo, utile, tuttavia, per catalizzare una comprensione sintetica della dinamica che ha condotto Priamo e il principe di Phthia nella tenda del figlio di Peleo a piangere insieme, accasciati l’uno sull’altro. La sorte degli umani, dice in sostanza Achille, viene decisa dal capriccio imprevedibile degli dèi. Zeus estrae da due urne, una che contiene gli effetti propizi e l’altra gli esiti maligni, il destino fortuito dei mortali. Accade quindi che perfino uomini la cui vita sembra baciata da una fortuna inaudita, come Peleo e Priamo, possano ad un tratto precipitare nell’abisso della disgrazia. L’avvitarsi imponderabile del fato, poi, unisce nella sventura Peleo e Priamo. Peleo, oltrepassata la soglia amara della tarda età, avrebbe adesso bisogno che il figlio facesse ritorno a Phthia e si prendesse cura della sua vecchiaia. Achille deve invece rimanere confinato nella Troade, destinato a morire, costretto dalle necessità del mito a seminare distruzione e lutto nella casa di Priamo e tra gli abitanti di Troia. L’origine delle sciagure del sovrano di Phthia e del re di Ilio non può dunque essere disgiunta dagli effetti dovuti alla presenza di Achille nella loro vita. Il nucleo che costituisce la relazione radicata nel dolore tra Achille e Priamo attira nel proprio vortice connettivo l’intero tessuto narrativo del mito, sfondo inevitabile del mondo. Dal

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rapporto tra i due uomini traluce un fenomeno non raro dell’esistenza dei mortali: l’assurda alienazione del singolo, non solo dal suo mondo, ma dalla propria stessa vita. Nel turbinio del paradosso, la nuda esposizione all’esistere diviene la più autentica e instabile condizione in cui possono sorgere relazioni profonde tra gli umani. L’alienazione, in un estremo colpo d’ala della contraddizione, si mostra così come un modo essenziale dell’essere presente dell’individuo nella propria esistenza e nel mondo. Achille finisce di parlare esortando il vecchio re a sopportare il lutto senza permettere al dolore di ottundere il suo cuore e la sua mente. Rimanere devitalizzato a causa della mestizia non servirebbe a niente. Ettore non farà mai ritorno dalla morte. E l’incedere imprevedibile del caso seguiterà, comunque, a muovere il fato dei mortali. Priamo, sprofondato nell’angustia, pare non avere neanche ascoltato la riflessione di Achille e risponde, chiedendo al giovane principe di non trattenerlo oltre a «sedere su una sedia, mentre Ettore giace abbandonato in qualche posto nella dimora». L’anziano sovrano sembra interessato solo ad ottenere il rilascio del corpo del figlio il più presto possibile, per riportare Ettore ad Ilio e potere celebrare allora il dovuto rito funebre. La reazione è immediata. «Non provocarmi vecchio», saetta Achille, «perché ho già deciso di ritornarti Ettore. […] Non agitare il mio cuore nella sua pena, altrimenti, vecchio, potrei anche non risparmiarti la vita qui nella mia casa, sebbene tu sia un supplice, ma trasgredire i comandi di Zeus». Il principe di Phthia minaccia di morte l’anziano sovrano di Ilio, mettendo in evidenza il fondo del tutto precario su cui poggia l’intera situazione ed il rapporto tra i due uomini. Achille e Priamo rimangono nemici, anche se sono uniti in modo indissolubile dal loro dolore. Al tempo stesso, tuttavia, Achille dà immediate disposizioni ai suoi attendenti e alle domestiche perché il riscatto venga scari-

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cato dal carro di Priamo ed il corpo di Ettore sia lavato e unto, preparato per essere restituito al padre. Una volta che la salma fu ricomposta, Achille prese tra le sue braccia il corpo del figlio di Priamo per sollevarlo, adagiarlo su una barella e permettere agli attendenti di sistemare il cadavere sul carro del vecchio re. Achille e Priamo, dopo, presero posto seduti per mangiare insieme, trovando così entrambi un istante di comune ristoro e conforto. Al momento del congedo, prima di andare a dormire, Achille però sorprende l’anziano sovrano un’ultima volta. «Dormi qui fuori, vecchio amico», suggerisce con un certo sarcasmo il figlio di Peleo a Priamo, «non vorrei che qualche comandante degli Achei capitasse all’improvviso per discutere con me i loro piani, come accade spesso; e com’è giusto e debito». Il «migliore degli Achei», Achille, non fa più parte della gerarchia militare degli Argivi e non riconosce più i valori che sostengono il mondo degli Achei. Ma i generali dell’esercito Greco si rivolgono comunque al figlio di Peleo per ottenere da lui consiglio e approvazione nel concepire le loro strategie. Nelle battute finali, prima di uscire dalla scena dell’Iliade, il principe di Phthia dà un’ultima stilettata alla forma morente del suo mondo, spalancando la visuale del mito su un orizzonte ignoto. Il figlio di Peleo affonda il colpo. Se qualcuno si accorgesse della presenza di Priamo, avverte Achille, Agamennone verrebbe subito informato, quindi «ci sarebbe un ritardo nella restituzione del corpo». La fine del poema è ormai prossima e Agamennone appare senza più nemmeno il potere di opporsi realmente alle decisioni di Achille. Il despota di Micene sembra ora solo in grado di creare qualche problema, provocando un mero «ritardo» alla realizzazione concreta delle disposizioni date dal figlio di Peleo. Il “grande stile” che il bardo imprime nel personaggio di Achille illumina anche l’ultima inquadratura in cui il principe di

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Phthia compare nell’Iliade. Achille, a sorpresa, rivolge ancora una domanda all’anziano sovrano di Ilio. Ma vieni e dimmi esattamente quanti giorni desideri per i riti funebri del grande Ettore. Dimmelo, così io stesso non mi muoverò e terrò fermo l’esercito.

La relazione tra Priamo e Achille assorbe ormai lo sfondo della saga. Achille pensa mettendosi nei panni del mortale a lui più vicino. Ma nella necessità narrativa del mito il contatto più intimo tra i due uomini non può apparire disgiunto dal loro inevitabile rimanere, al tempo stesso, nemici. Priamo, stupito, toccato dalla richiesta di Achille, risponde che undici giorni sarebbero serviti per i riti funebri, la cremazione e la tumulazione dei resti del corpo del «grande Ettore». «Il dodicesimo giorno», conclude il vecchio re, «torneremo a combattere, se davvero dobbiamo». Achille accoglie le istanze del re di Ilio senza riserve. Queste cose, vecchio Priamo, saranno come chiedi; sospenderò la guerra per il tempo che ti serve, come tu comandi.

Il principe di Phthia e l’anziano sovrano di Ilio stabiliscono, senza consultare nessuno, una tregua delle ostilità di dodici giorni. Priamo ed Achille dimostrano così di avere, al termine del racconto, nonostante l’incolmabile distanza che separa entrambi dai loro rispettivi mondi, il completo controllo dei relativi eserciti. Nondimeno, le ragioni profonde che inducono i due uomini a pattuire la tregua, l’imponderabile natura del loro rapporto, la sensibilità fine del loro sentire, divergono da ogni emanazione effusa dalle narrazioni controllate dagli apparati di potere. Il figlio di Peleo ed il re di Ilio sono del tutto attraversati ed articolati dalle parole in cui consiste la tradizione. Ma come accade nella comune condizione dell’esistenza di noi «morta-

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li», Priamo e Achille fendono la trama come individui, senza casta, senza terra, senza mito. L’arte del rapsodo, tramite le figure inafferrabili di Achille e Priamo, immette così nella fine tragica dell’Iliade la presenza effettiva di un inizio.

III L’Animale che parla

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Il Silenzio delle Sirene e lo Scudo di Ulisse

Una relazione più esplicita tra Kafka e i bardi sepolti e perpetuati dal marchio “Omero” appare nel racconto Il Silenzio delle Sirene, redatto nel 1917 dallo scrittore di Praga e pubblicato solo dopo la sua morte. Il mito delle Sirene affiora nell’Odissea. Odisseo, riemerso dal suo viaggio regno dei morti, approda nuovamente, assieme ai suoi compagni, nell’isola di Eea, dimora della dea incantatrice Circe. La maga, dopo avere offerto ristoro all’equipaggio, conduce Odisseo sulla spiaggia per ascoltare da lui il racconto della sua esperienza nell’Ade. La dea, quindi, predice al figlio di Laerte le insidie che attendono in mare i naviganti sulla rotta per tornare a Itaca. Il primo pericolo, avvisa Circe, saranno le Sirene. Un uomo che passa nelle loro vicinanze e sente il loro canto non torna più indietro, perché la voce delle Sirene strega il suo cuore. «Esse stanno sedute in un prato – prosegue la dea – circondate da un mucchio di ossa umane in putrefazione avvolte in pelle avvizzita. Remate lontano da loro». La maga avverte Odisseo di ostruire le orecchie dei suoi compagni con della cera, per impedire loro di udire. Se però il figlio di Laerte vorrà ascoltare il suono delle Sirene, il monito della dea è di ordinare ai

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suoi uomini di legarlo all’albero della nave e di non scioglierlo in nessun caso, nemmeno se egli dovesse scongiurarli di farlo. Circe poi aggiunge che lei non ha la facoltà di indicare a Odisseo quale direzione seguire una volta che il vascello sarà passato oltre le Sirene, ma può solo svelare al re di Itaca quali saranno le opzioni possibili. Odisseo per decidere la rotta potrà confidare solo in se stesso. Il giorno seguente allo spuntare dell’alba i marinai greci prepararono la nave e ripresero la via del mare. Durante la navigazione Odisseo riunì l’equipaggio per riferire le informazioni sul potere fascinoso e sinistro delle Sirene rivelate da Circe e le istruzioni della maga. Quando l’imbarcazione giunse nei pressi dell’isola dove vivevano le fatali creature il vento cessò di colpo. «Tutto era calmo, senza un alito. Qualche dio aveva fermato le onde». Le vele furono ammainate. Il controllo del vascello venne affidato ai rematori, mentre Odisseo, seguendo le disposizioni della dea, modellata la cera sigillò le orecchie di tutti gli altri e si fece legare all’albero della nave. Giunti tanto vicino agli scogli quanto un grido proveniente dalle rocce potesse essere avvertito, le Sirene «iniziarono il loro verso cristallino». Odisseo fu in breve rapito, posseduto dal desiderio di ascoltare le «melodie cantate dolcemente» dalle Sirene. Il politropo Odisseo, uomo dalle mille arguzie, abilità, esploratore dalle incredibili esperienze, in totale balia dell’incanto sonoro delle Sirene, implorò i compagni di snodare le funi, mandando loro segnali con le sopracciglia dato che essi non potevano sentirlo. I suoi uomini, invece, lo legarono più stretto ancora e remando superarono l’isola, portando l’imbarcazione ad una distanza in mare dalla quale il canto delle Sirene non poteva più essere udito. I marinai solo allora, rimossa la cera dalle proprie orecchie, allentarono le corde e liberarono Odisseo. Nel racconto di Omero, l’influenza seduttiva delle Sirene sembra agire sul livello fisico della stimolazione. Il senso dell’udi-

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to di Odisseo viene eccitato da impulsi sonori inusuali, i quali provocano sensazioni di una intensità a lui sconosciuta fino a quel momento. Le conseguenze del picco di sensualità provato da Odisseo sono, in primo luogo una diversione della sua mente, poi lo sconcerto della ragione e la perdita del controllo su se stesso. Lo sconfinamento in un campo inesplorato delle possibilità del corpo di reagire alle sollecitazioni sensoriali, tuttavia, non è scevro da insidie anche peggiori degli effetti subiti dal re di Itaca. Il mucchio di cadaveri putrefatti nel prato fiorito dell’isola dove vivono le Sirene, menzionato da Circe, indica il non raro esito letale provocato tra gli umani dall’attitudine a consegnarsi a sollecitazioni dei sensi dagli effetti troppo iperbolici. Il modo in cui Omero disegna l’aspetto multiforme che l’illusione assume nell’esperire degli uomini, però, non è linea­re e non appoggia su un senso comune consolidato. La dea fattucchiera Circe, infatti, suggerisce a Odisseo le condizioni per sperimentare, con un margine di tutela, le potenzialità ancora ignote dell’organismo nella natura, propagate dal contatto con le forze diffuse dalla voce delle Sirene. Le indicazioni della maga suonano come dettami, che prescrivono a Odisseo il modo per irrobustire i legami concreti, materiali, che tengono insieme la sua vita, prima di inoltrarsi nel territorio schiuso dall’incontro tra la sua sensibilità e il fenomeno acustico delle Sirene. Le istruzioni della dea sono tutte riferite alla materia come struttura delle relazioni. I nodi, i lacci, la nave, l’albero di maestra, gli uomini, la cera per impedire l’udito ai compagni, il mare, le creature marine, l’isola, i cadaveri putrescenti, segnano il biotopo in cui l’avventura si svolge. Riorganizzare l’affidabilità e la tenuta della rete di connessioni che annette solidità al mondo individuale dell’esperienza, infatti, spesso permette quell’esposizione all’incognito inevitabile quando si vuole muovere un’indagine oltre il margine del noto.

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La stesura omerica del mito delle Sirene colloca Odisseo in una condizione definita dell’esistenza, propria e dei suoi compagni. I marinai abitano un vascello in balia del proprio equipaggio, in mezzo al mare. I navigatori prendono decisioni, sono uomini liberi. La loro autonomia è una condotta, ha frangenti e contesto, conseguenze, non è allucinata. La libertà non cancella il limite che essa stessa induce a valicare. La radice che imbarcazione ed equipaggio affondano nella concreta contingenza dell’esistere supporta l’esperimento estremo. Tramite il rischio presentato dall’esposizione di Odisseo ad un’inedita esperienza sensoriale, l’intero ecosistema della nave approccia una sostanza indefinita del reale. Il gaudio, il miraggio, l’abbaglio, l’inclinazione a flettersi davanti alla lusinga, emergono come strutture della mente. Il mondo costruito intorno ad efficaci espedienti ingenui, come cera, nodi e funi, perde così la sua verosimile semplicità. L’estasi fatata, indotta dalle creature del mare, prometteva a Odisseo senno, conoscenza, l’intendere “divino” delle pene umane. Alla fine, non si può dire che fossero tutte menzogne. Dove gli antichi rapsodi lasciarono la loro esposizione del mito, si apre Il Silenzio delle Sirene di Franz Kafka. Se la navigazione omerica nel regno del chimerico solca un mare che costeggia la materia, la meditazione di Kafka, invece, abbandona il mondo materiale. Le parole che fungono da preludio alla vicenda di Ulisse ricostruita da Kafka connettono le mitiche acque arcaiche della Sicilia scandagliate da Omero, tra le rocce occupate da Scilla dalle sei teste e le scogliere governate dal mostro Cariddi, con lo spazio abitato dall’illusione nella mente umana contemporanea. «Inadeguate, perfino infantili misure possono servire a salvare uno dal pericolo», scrive Kafka, sostenendo che il suo testo saprà fornire di questo una «prova». L’Ulisse di Kafka, come

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Odisseo nel mito, sembra propenso a servirsi di artifici per sfumare l’impatto con le fascinose entità marine. Quando la lettura comincia, tuttavia, si avverte in breve che lo sguardo di Kafka intercetta frequenze a noi precluse, se non precipitiamo nella sua, dunque anche nella nostra, mente. «Per proteggere se stesso dalle Sirene Ulisse ostruì le sue orecchie con cera e si legò all’albero della sua nave». L’avventura ha inizio. Il sortilegio funziona. Il gioco di specchi prende forma. Il mito viene smontato e di nuovo assemblato. Kafka opera subito, dalle battute iniziali del suo racconto, prima ancora che il canto delle Sirene si riveli un silenzio. Gli elementi che articolano la leggenda vengono decostruiti e ricomposti, combinati in modo alternativo, mentre un lembo rarefatto della storia affiora tra le righe. La cera ottura le orecchie di Ulisse, il quale incatena se stesso all’albero della sua nave. Gli altri marinai sono spariti, insieme al cuore omerico dell’episodio. Se Ulisse non mantiene il proprio udito attivo, infatti, per ascoltare le Sirene e sfidare il loro potere ipnotico, viene meno il motivo che sorregge l’intera antica narrazione. Ulisse, in una simile eventualità, sarebbe un ordinario capitano di vascello, intento come gli altri marinai ad evitare pericoli e stranezze che possano minare il corso della navigazione. Nessuna ragione, quindi, di sottrarsi al lavoro necessario per rendere efficienti le funzioni dello scafo legandosi all’albero della nave. Nella vicenda concepita da Kafka, però, Ulisse è solo. Nella sua imbarcazione non c’è nessuno. L’investigazione si è ormai inoltrata in una regione più intima e personale. La nave non ha più materia, ma è un luogo della mente in cui i sensi riflettono percezioni distorte dalle parole. I trucchi di Ulisse, nota Kafka, potrebbero essere messi in atto da chiunque, sebbene non sembra abbiano molto senso. Tutti sanno che «cose del genere non sono di nessun aiuto». Le Sirene, inoltre, sono in grado di irretire ad una distanza tale per

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cui la vittima può anche essere attirata nel miraggio ancora priva di una effettiva consapevolezza di quello che le sta accadendo. Il punto è che «il canto delle Sirene sapeva passare attraverso ogni cosa, e la brama di coloro che esse sedussero avrebbe spezzato legami di gran lunga più forti che catene e alberi maestri». Ulisse, non ignaro di ciò, «in un giubilo innocente» salpò comunque incontro alle Sirene, sprofondato nella rassicurazione prodotta dalla «assoluta fiducia» nel suo «piccolo stratagemma» di ceppi e cera. Appartato nel suo mondo interiore, stregato dalla propria ossessione per sicurezza e conforto, Ulisse scivola in una deriva beata di travisamento. Kafka muove la meditazione ad un livello di profondità ulteriore. L’autentica «arma fatale» in possesso delle Sirene non è il canto, ma il loro silenzio. Se pure nessuno mai è riuscito, in realtà, a sfuggire al suono del verso delle Sirene, una simile evenienza rimane perlomeno concepibile. Sottrarsi all’assenza del loro richiamo, tuttavia, è impossibile. «Nessun potere terrestre può resistere», scrive Kafka, contro l’euforia prodotta «dal sentimento di avere trionfato» sulle creature del mare «con le proprie sole forze». Il silenzio pervade l’intima persuasione che la potenza individuale sia una misura efficace e sufficiente per ponderare il reale. L’esaltazione indotta da una simile fascinazione trascina a sé ogni cosa, ma il silenzio permane, impercettibile, nella fibra dell’ebbrezza. Quando Ulisse fu vicino, le Sirene restarono atone. Egli invece pensò che avessero cantato e di essere stato l’unico a non udirle, grazie ai propri accorgimenti. Poco dopo, però, non appena Ulisse «fissò il suo sguardo più lontano, le Sirene svanirono davanti alla sua risolutezza, e nel momento preciso in cui esse gli erano più vicine egli non ebbe più nessuna cognizione di loro». Le Sirene silenti dileguano, riassorbite nel mito. Sdraiate sugli scogli, languide, «belle come mai», non avevano più alcun estro

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di sedurre. L’unico desiderio rimasto era «sostenere quanto più potevano la luce radiosa che sgorgava dai grandi occhi di Ulisse». Se fossero state entità autonome, coscienti, indipendenti dalla mente di Ulisse, autentiche creature del mare, le Sirene «sarebbero annichilite in quel momento». Non avvenne invece nulla. «Tutto quello che accadde fu che Ulisse riuscì a sfuggirle». Kafka aggiunge una postilla. L’ingegnoso Ulisse, si dice, poteva avere notato che le Sirene erano mute, «sebbene qui la comprensione umana sia oltre la sua misura». Egli avrebbe in questo caso opposto «ad esse e agli dèi la suddetta finzione solo come una sorta di scudo». Nell’antico mito omerico Odisseo vuole ampliare il proprio orizzonte e conoscere. Nella sua prospettiva sapere significa passare attraverso l’esperienza. Il bardo pone lo sperimentare nella realtà fisica degli eventi. Lo sviluppo dell’intelletto realizzato dal re di Itaca ha luogo mediante una investigazione delle percezioni, avvertite durante l’esperimento, sincrona alla sperimentazione stessa. L’indagine guida l’esploratore alle condizioni che gli permettono di valutare, quindi di esprimere giudizi, relativamente al contesto sondato e alle sue ramificazioni. La dea Circe, infatti, dopo avere predetto a Odisseo le insidie celate nel futuro incontro con le Sirene, lo avverte che quando lui e il suo equipaggio avranno navigato oltre le divinità marine egli non potrà più contare sui consigli della maga, ma dovrà «fidarsi del suo cuore» per prendere decisioni. Ragione, disposizioni d’animo, emozioni, intuizioni, non operano in modo disgiunto nel processo individuale del comprendere, ma lavorano presenti nelle stesse condizioni in cui si viene a trovare il singolo. Le sensazioni, provate da Odisseo e dai suoi compagni durante l’escursione in luoghi ancora sconosciuti all’esperienza, trovano una loro possibilità di senso nelle stratificazioni di significati che costituiscono l’orizzonte

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del mito, messo in scena dai poeti arcaici. Il mondo astratto della narrazione si rivela così, al tempo stesso, immaginario e reale. La creazione mitica avviene nella performance. Senza la relazione tra il rapsodo e i suoi ascoltatori, il mito non appare. Inoltre, se viene meno la coesione tra la contrazione scritta della composizione e l’elaborazione che il lettore fa del testo, anche il fondo mobile delle parole che formano la versione redatta del mito rimane muto. L’ambiente naturale esteriore alla mente viene rappresentato, dentro l’esposizione epica, con particolare attenzione. Un’esistenza fuori dalla narrazione, tuttavia, non è presente nella concezione mitica. Il mito delimita un universo, il quale assorbe la realtà esterna ormai metabolizzata dalla lente deformante attivata dalle necessità umane. L’individuo che interpreta Ulisse, nella variante della leggenda omerica rielaborata da Kafka, diversamente, avverte di avere ormai costruito la sua interiorità in una dimensione senza materia, intrisa di parole. Pensare di potersi riferire a qualcosa che, nell’orizzonte letterario della propria mente, vada oltre un qualche tipo di finzione, diventa quindi un’idea, non solo ingenua, ma anche assurda. Ovvio che avere risolto l’esistenza interiore in una simile entità, aliena rispetto alla struttura fisica della natura, complica molto le relazioni tra il processo mentale, la sua base in una forma della materia e l’ambiente, cui ogni genere di unità corpo/mente comunque appartiene. Kafka, tuttavia, lascia balenare sullo sfondo del racconto solo il riflesso di tale difficoltà. Il suo interesse si concentra invece su come l’intelaiatura della finzione possa divenire, per l’individuo, lo scheletro della realtà. Nel codicillo posto verso la fine della breve prosa, il profilo di Ulisse, che nella storia interpreta l’illuso, viene sfocato da una possibilità inattesa. Ulisse potrebbe non essere, in verità, lo sprovveduto e ingenuo navigante, vittima di un mirag-

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gio prodotto dal suo stesso repertorio di trucchi, tratteggiato dall’autore fino a quel momento. Si presenta, al contrario, l’eventualità che l’arguzia e l’astuzia di Ulisse siano talmente raffinate da riuscire ad ingannare perfino dèi e creature del mare. Forse egli aveva percepito davvero il silenzio delle Sirene ed era ricorso alla simulazione nel tentativo di fare della messa in scena il proprio ultimo «scudo». Se questa fosse l’evenienza, nota l’appunto affilato di Kafka, l’intelletto di Ulisse si sarebbe spinto in recessi inaccessibili alla comprensione umana. Quanto poi l’orma del silenzio corroda comunque, anche allo svanire delle Sirene, la supposta solidità di un asilo per la mente, nessuno può saperlo. Nemmeno una intelligenza scaltra come quella di Ulisse. Kafka qui si ferma. Ulisse non può evitare di sapere di essere lui stesso l’artefice della «suddetta finzione». La dissimulazione, però, si rivela essenziale alla possibilità di Ulisse di sopravvivere in quanto processo mentale. Egli, dunque, abita la scena della propria mente come l’alchimia che anima la simulazione. L’individuo immortalato da Kafka nella sua riedizione del mito omerico, nondimeno, non sembra destinato a trovare la rassicurazione che Ulisse mostra di cercare lungo lo svolgersi della narrazione. Le parole ingannano. Odisseo e Ulisse sono due figure molto diverse. Odisseo, nel racconto omerico, non si ferma davanti al pericolo, vuole conoscere e deve osare. Ulisse, viceversa, appare intento a scavare nella sua esistenza lo spazio irreale per un rifugio, assemblato con i moduli e le astuzie delle proprie illusioni. Il mondo interiore dell’Ulisse di Kafka emerge disarticolato dall’impatto con il silenzio delle Sirene. Ogni suono ammutolisce. Dissolve ogni cenno. L’esploratore si ritrova così distinto dalle certezze infuse nel suo animo dal confidare nei propri espedienti. Ulisse tenta allora un ennesimo trucco e mette in atto la parvenza di se stesso come uno «scudo», simulando, alla fine, la medesi-

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ma autenticità del proprio giubilo, della beatitudine e della determinata risolutezza che gli consente di fissare la lontananza. Il silenzio filtra tra i vocaboli, avvolge e pervade la mente. Le Sirene mute mostrano di essere creature puramente mentali, evocate dalle parole, mentre svaniscono dalla cognizione di Ulisse perché nella loro essenza reale sono a lui troppo vicine. L’esposizione è estrema. Ulisse barcolla e si ritira nel rifugio formato dalle sue stesse rappresentazioni. Odisseo, uomo di mare, scandaglia segni quando scruta la distanza. Ulisse, invece, come un odierno abitatore delle metropoli, guarda lontano mentre finge l’orizzonte.

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Arte e Digiuno

Un approccio all’alimentazione, originale, ma senza dubbio piuttosto “essenziale”, si rivela nel digiuno. Un impulso spinge l’organismo al nutrimento. Una sorta di vincolo biologico al sostentamento permette così agli esseri viventi, in effetti, di esistere. La facoltà di digiunare, presente, tra tutti gli animali, solo negli umani, esprime dunque una possibilità per l’individuo di provare ad allentare almeno uno tra i molti limiti fisici della natura in cui la sua vita si trova costretta. I digiunatori, tuttavia, non appartengono tutti ad un medesimo ceppo. L’asceta, ad esempio, durante le sue pratiche di astensione, rinuncia al cibo perché vuole tenere il suo corpo sotto il dominio del proprio spirito. Una limpida concezione gerarchica del potere è impressa nell’ideale ascetico. L’inflessione platonica della prospettiva adottata dall’asceta conduce questo particolare tipo di mistico a figurare un caratteristico assetto del reale. Nella visione dell’asceta, la dimensione spirituale può raggiungere la pienezza della propria essenza allorché il singolo, tramite una disciplina rigorosa, riesce a disporsi in una condizione in cui nell’orizzonte del soggetto rimane un desiderio unico. L’anima dell’asceta vuole essere assorbita, in un’estasi eterea, nella regione più pura e astratta dello spirito. L’astrazione di

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colui che anela ad una scalata delle altezze spirituali indica, nondimeno, la struttura metafisica di una legge intangibile. Una dottrina veicola i precetti, i quali mostrano la legge, senza però costituirla, in un canone verbale accessibile alla comprensione dell’asceta. Osservare le parole emanate dalla legge significa regolare i comportamenti del corpo e della mente secondo le prescrizioni espresse dalla dottrina. I dettami dottrinali, d’altra parte, non rivelano l’intimo profilo della legge, perché la legge non ha contenuto e non può essere rappresentata. L’essenza del comando è ottenere obbedienza. Raggiunto tale scopo, l’architettura della forma che sostiene l’ingiunzione non ha più ragione di apparire e si eclissa. La volontà del singolo, a questo punto, brama solo di sottostare all’idea invisibile della legge, perdendo così il proprio carattere individuale. Il soggetto ha rinnegato se stesso. L’asceta ha vinto la sua battaglia contro la propria stessa costituzione materiale ed è libero di essere attratto nella dimensione senza tempo, indistinta, dello spirito. Il digiuno può essere sospeso. Non ha più senso ormai, in verità, nessuna privazione. L’individuo è trasfigurato, smaterializzato. In quanto tale, in realtà, l’individuo non esiste più. La prospettiva di privazione e digiuno imbracciata dall’asceta si potrebbe definire, in fondo, persino estrosamente edonistica. Una specie del tutto diversa di digiunatore, molto più sobrio, prende vita nella breve storia Un Artista del Digiuno ideata da Franz Kafka. Il titolo originale tedesco Ein Hungerkünst­ ler, tradotto in modo letterale, recita Un Artista della Fame. La sobrietà del personaggio creato da Kafka si mostra nel modo con cui l’inedito digiunatore accosta l’esistenza. A differenza dell’asceta, che condivide con lui l’attitudine ad una dieta frugale, l’artista del digiuno non è un dualista. La vita del digiunatore di Kafka accade in situazione. Il corpo è lo strumento e l’opera stessa della sua arte, la fame l’intima condizione del

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suo talento. L’ambiente in cui si svolge il racconto tesse la proiezione di parole dalla quale affiora il profilo delle figure che popolano la narrazione. «Noi adesso viviamo in un mondo diverso», scrive Kafka, mentre la vicenda inizia a serpeggiare tra le pagine. Il tempo in cui l’interesse per «il digiuno professionale» inebriava «l’intera città» è ormai andato. L’artista del digiuno, a quell’epoca, si esibiva seduto a terra tra la paglia, dietro le sbarre di una piccola gabbia, «pallido in calzamaglia nera con le costole sporgenti», ritirato in se stesso, senza badare a niente e nessuno, «fissando il vuoto con gli occhi semichiusi». Unico arredo, un orologio batteva lo scorrere del tempo. Durante le sue performance «tutti volevano vederlo almeno una volta al giorno». I bambini sostavano in piedi davanti a lui «a bocca aperta, tenendosi per mano per maggiore sicurezza, stupefatti», anche se il più delle volte i genitori ritenevano lo spettacolo poco più che un divertimento alla moda. L’artista veniva sorvegliato notte e giorno da turni di guardiani «selezionati dal pubblico, di solito macellai, piuttosto stranamente». La vigilanza era pretesa dall’impresario, il quale, d’altra parte, non aveva alcuna attenzione per la qualità dell’arte espressa nel corso dell’esibizione. Il solo interesse dell’impresario era certificare l’autenticità dell’astinenza agli occhi degli spettatori. Solo un digiuno dimostrato «rigoroso e continuo», infatti, sarebbe diventato un evento straordinario abbastanza da poter essere venduto ad una folla in cerca di emozioni forti, come quella che si accalcava ogni giorno intorno alla gabbia dell’artista. Il digiunatore, tuttavia, non avrebbe assolutamente mai toccato cibo nel periodo dell’astensione: «l’onore della sua professione lo proibiva». L’artista del digiuno, il mondo e le pratiche di omologazione utili all’organizzazione sociale, collidono in un corto circuito

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inevitabile. Il mondo nel suo continuo formarsi ha bisogno di una rappresentazione dell’arte. La sorgente dell’arte, invece, fuori dal campo visivo del consorzio umano, coincide con la vita intima dell’artista, ma è per il mondo irrilevante. L’artista concepito da Kafka vive così in un ambiente che lo misconosce in modo radicale. L’alienazione diventava oltremodo acuta quando l’esibizione del digiuno dell’artista raggiungeva l’apice della sua popolarità. Sotto la regia dell’impresario, lo spettacolo dell’astinenza dell’artista aveva il suo ciclico momento di gala proprio quando il digiuno veniva interrotto. Si era osservato che, dopo quaranta giorni, invariabilmente, l’interesse degli spettatori per la performance del digiunatore iniziava a diminuire. L’impresario allestiva allora una cerimonia, una vera celebrazione, durante la quale l’artista, ormai scheletrico e consunto, veniva forzato, davanti al suo pubblico commosso, a sospendere il digiuno. Il digiunatore veniva «osteso come un martire sofferente». La gente convenuta era estasiata. Solo l’artista rimaneva desolato e deluso. Il pensiero comune, istigato dall’impresario, riteneva «che la sua melanconia fosse causata probabilmente dal digiunare». Questa idea però era uno stravolgimento della realtà che faceva infuriare il digiunatore, al punto che «tra l’allarme generale egli cominciava a scuotere le sbarre della sua gabbia come un animale selvaggio». Kafka descrive come la «perversione della verità» fosse la ragione che stava all’origine dell’afflizione dell’artista. Per indicare tale sovversione del vero, lo scrittore utilizza poche parole, tra loro connesse da una logica cristallina. Quello che era una conseguenza del termine prematuro del suo digiuno era qui presentato come la causa di esso.

Kafka poi aggiunge, lapidario: combattere contro questa mancanza di comprensione, contro una universale incomprensione, era impossibile.

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L’artista avrebbe potuto digiunare per un tempo indefinito, molto più lungo dei convenzionali quaranta giorni stabiliti. Sarebbe stato in grado di tendere arte e vita all’estremo, per tentare qualcosa di genuino, istantaneo e unico. Ma contro una simile distorsione totale non c’era niente da fare. Le epoche cambiano. Spesso una stagione si mostra conclusa senza preavviso, in modo brusco e inatteso. Avvenne così che l’interesse suscitato dall’arte del digiuno iniziò improvvisamente ad affievolirsi e «l’artista digiunatore viziato dal pubblico si ritrovò un bel giorno di colpo abbandonato dalla folla in cerca di divertimento». L’artista prese congedo dall’impresario e si fece assumere in un circo. La fortuna però aveva ormai voltato le spalle al digiunatore. La gabbia dell’artista venne sistemata fuori dall’arena del circo, lungo un passaggio stretto che dava accesso al serraglio degli animali, dove avrebbe potuto più facilmente attirare l’attenzione dei visitatori diretti ad ammirare la fauna esotica e le bestie feroci. Le cose andarono, però, diversamente. In un tempo non lungo nessuno fece più caso all’artista del digiuno, nemmeno gli addetti alla pulizia della gabbia, oppure i sorveglianti del circo. Le persone, in realtà, avevano perso ogni confidenza con il concetto stesso di “arte digiunatoria” e ne avevano completamente smarrito la comprensione. L’artista, ignorato da tutti, fu così alla fine libero di digiunare come aveva sempre desiderato, senza un limite e senza controllo. Un mattino, rovistando nella gabbia che pareva vuota, un guardiano trovò l’artista esangue sotto la paglia. Le sue ultime parole esalarono per chiedere scusa. L’ammirazione per il suo digiuno, disse l’artista, non era meritata per niente, perché lui, in effetti, non poteva evitare di digiunare. Il guardiano gli chiese come mai non poteva farne a meno. «Perché – rispose l’artista – non ho potuto trovare il cibo che mi piaceva. Se l’avessi trovato, credimi, non avrei fatto storie e mi sarei rimpinzato come tutti voi».

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Gli inservienti pulirono tutto e «seppellirono l’artista del digiuno, con la paglia ed il resto». Nella gabbia fu messa una giovane pantera. Nutrita con il cibo che preferiva, la fiera non aveva problemi per mangiare e si aggirava a proprio agio dietro le sbarre, portando in giro, insieme alla gioia di vivere che le usciva dalla gola, la sua libertà annidata tra i denti. Gli spettatori, eccitati dal vigore selvatico dell’animale, «si affollavano attorno alla gabbia e non volevano più andare via». Il digiunatore restò in vita fino a quando la rappresentazione della sua arte, dunque l’esibizione della fame dell’artista, riuscì a destare una qualche attenzione nel mondo in cui si svolgeva la sua esistenza. La gente vuole divertirsi. La folla si muove, sull’onda di sensazioni erogate nei luoghi dove l’arte viene esposta. Da questo punto di vista, tra il digiuno di un artista e l’energia ferina, piena di vita, di un animale, non c’è una differenza sostanziale. Anche la scena, la gabbia, non varia. Il digiunatore, tuttavia, diversamente dalla fiera inconsapevole, immette nel mondo la fame. Naturalmente, una denutrizione non solo organica, ma una fame di stile. Un digiuno d’artista, distribuito come attrazione e venduto come arte.

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Parole e Materia

Nulla, a quanto pare, rende legittimo l’asserire il sussistere di una intelligenza, un’impressione, una coscienza, oppure di un’esperienza, che non derivi, in qualche maniera, da disposizioni più o meno complesse e transitorie della materia. La realtà psichica, mentale, di un essere vivente, in un determinato tempo, non sembra avere una sua esistenza distinta dalla dimensione fisica dello stesso individuo nel tempo medesimo. Non si ha notizia, infatti, di una mente, costituita da stimoli, percepiti, processati e raffigurati in forme diverse, che possa vivere e lavorare a prescindere dal corpo dell’individuo soggetto a tali eccitazioni. Possiamo estendere una considerazione simile anche al mondo minerale. I software di “Machine Learning”, infatti, calcolano strategie di comportamento in ordine all’attuazione di scopi, elaborando gli impulsi ricevuti da particolari sensori, innestati come autentici organi di senso sul loro corpo inorganico. L’Intelligenza Artificiale è attiva in macchine che possono eseguire funzioni tipicamente rese possibili dall’intelligenza umana. In particolare nel “Deep Learning”, ulteriore sviluppo di “Machine Learning”, ispirato alla struttura e al modo di operare del cervello umano, algoritmi che lavorano come reti

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neurali artificiali mimano la struttura biologica cerebrale. Le linee di codice e gli algoritmi, inoltre, assumono consistenza solo durante il tempo in cui componenti hardware e dispositivi – microprocessori, computer, router, infrastrutture per la diffusione wireless di dati, ecc. – aprono il campo alla possibilità fisica di una trasmissione delle informazioni, sottoposta ad una certa soglia di regolazione. Il corpo sintetico di un software comprende tutti gli oggetti elettronici che abilitano il programma informatico ad operare nella rete che consente la connessione tra i medesimi congegni. Le tecnologie wireless permettono di trasmettere dati ad enormi distanze. Le apparecchiature che fungono da base materiale alla computazione algoritmica di uno stesso programma possono muoversi, oppure essere collocate, quindi, in luoghi tra loro anche molto lontani. Per quanto riguarda l’Intelligenza Artificiale, dunque, l’unità “corpo/mente” propaga amorfa tra i dispositivi ed i codici che costituiscono l’intero apparato di trasmissione di informazioni e dati. La totalità dell’impianto sintetico, tuttavia, nonostante la sua parvenza eterea, risolve le proprie funzioni nell’ambito fisico della materia. All’attuale stadio di sviluppo della tecnologia, infatti, diversamente dalle forme di intelligenza animale, i programmi di Intelligenza Artificiale non hanno rivelato la facoltà senziente di avvertire se stessi mediante la base hardware del corpo diffuso che li costituisce, ma si limitano ad eseguire le operazioni di computo previste dalle istruzioni impartite dai loro algoritmi. La conduzione dell’informazione, attraverso fibre, nervi, neuroni e vasi sanguigni, peculiare della fisiologia animale, invece, impone ancora agli esseri viventi, al livello corrente raggiunto dalla possibilità tecnologica di modificare l’organismo, un corpo definito e una natura individuale. Gli animali, inoltre, hanno la percezione delle impressioni diffuse dalla superficie

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sensoria del proprio corpo. Tale dimensione di sensibilità, in sé, non può però essere sondata dagli strumenti di calcolo, specifici solo per indagare la consistenza elettrica e chimica degli impulsi, che rappresentano l’essenza organica di tutto quello che l’animale avverte. Gli animali umani, poi, hanno lentamente sviluppato la propria sensazione di esistere, mutandola nel processo repentino che noi, in un modo ambiguo e abbastanza confuso, chiamiamo “mente”. La parte conscia della mente occupa una posizione eminente nel dibattito culturale sulla “mente”. Studi di psicologia, neuroscienze e genetica, unitamente ad una parte della speculazione filosofica, mostrano, d’altra parte, che l’effettivo ruolo della coscienza nei processi mentali non è primario. I contenuti consapevoli della mente, infatti, risultano essere costruzioni che dipendono dal flusso di una infinità di elementi, i quali solo nella loro continua combinazione assumono la forma degli atomi di senso necessari alla fabbrica del tessuto immateriale della coscienza. Sebbene il nesso tra la derivazione fisiologica delle funzioni psichiche e l’essenza emotiva, verbale, delle percezioni interiori, non sia stato ancora compreso, per ora, da scienziati, filosofi e ricercatori, proviamo a richiamare almeno alcune delle sue caratteristiche. Il contesto logico, in cui appare il fenomeno dell’unità corpo/ mente, presenta una parte cruciale dell’intera questione. Il corpo non è mente e la mente non è corpo. Nondimeno, una distinzione tra corpo e mente non esiste. Se fosse possibile rilevare una, seppure parziale, identità tra corpo e mente, almeno alcune qualità proprie di una delle due entità dovrebbero essere presenti nell’altra e viceversa. La mancanza di una comunione tra gli attributi della mente e del corpo, però, appare evidente. Nella struttura materiale del corpo, ad esempio, non si nota la presenza di vocaboli, pensieri, immagini, oppure di emozioni. Il traffico delle informazioni sensoriali è veicolato

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dalle quantità misurabili in cui si risolvono i segnali elettrici, mediati in modo chimico, i quali, in ultima analisi, compongono l’organismo. In modo inverso, nella mente è del tutto assente la materia, che costituisce invece i tessuti, i fluidi e gli impulsi che formano il corpo. I processi mentali, quindi, in quanto tali, non si possono quantificare e sfuggono all’indagine del calcolo. Mente e corpo rimangono, tuttavia, indistinguibili. Il corpo e le procedure delle sue trasformazioni sembrano, in linea di principio, interamente conoscibili e governabili solo attraverso un esercizio rigoroso dell’attività mentale. Un accesso alla mente risulta possibile, d’altro canto, solo tramite comportamenti del corpo: senza un organismo, per quanto ne sappiamo, non c’è una mente. Le due “entità”, corpo e mente, sono quindi distinte, ma sprovviste di una reale distinzione. L’interazione, che caratterizza la dinamica vitale dell’unità corpo/mente, infatti, sembra produrre un continuo cambio di fase: nella proiezione mentale dell’attività organica, la materia evapora. L’intensità dell’impulso determina, nell’organismo, la direzione del segnale, il suo tragitto e le variazioni dei suoi codici. Alle cariche elettriche che originano e trasmettono gli stimoli corrispondono, nell’ineffabile mondo interiore, il fascino, l’energia eterea e la funzione pratica dei contenuti mentali correlati che si vengono a formare. L’emergere dell’intelligenza dall’ordito fisico della realtà esprime così la possibilità della materia di proiettare, nel campo inedito dell’esistenza che si apre nella mente, la propria stessa evanescenza. Per gli esseri viventi, la probabilità di permanere nell’esistenza è subordinata alla capacità degli individui, appartenenti ad una determinata specie, di realizzare nell’ambiente un adeguato biotopo, compatibile con le opportunità di sopravvivenza accessibili da parte dei membri della specie medesima. Le costrizioni che informano il costituirsi di un ecosistema derivano

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da una continua relazione tra le condizioni ambientali e le necessità fisiologiche degli individui intenti, in uno stadio particolare della storia evolutiva della specie di cui fanno parte, alla costruzione di una loro nicchia ecologica nell’ambiente medesimo. Da questo punto di vista, ogni forma di vita, costretta da vincoli flessibili, collabora alla genesi incessante di un habitat utile, in primo luogo, alla sussistenza propria e dei suoi simili.

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L’Invenzione del Tempo: fuori dalla «prigione del qui e ora»

Seguendo gli stimoli del linguista statunitense Derek Bickerton (Adam’s Tongue. How Humans Made Language, How Language Made Humans, Hill & Wang, New York 2010) possiamo individuare uno scarto tra il pensiero degli animali non umani e l’intelletto degli animali umani. Secondo la teoria di Bickerton, gli esseri viventi non umani pensano esclusivamente online, mentre gli umani hanno sviluppato un genere di intelligenza che lavora, al tempo stesso, online e offline. La rete che supporta il pensiero online coincide con il fluttuare delle informazioni luminose, elettriche, chimiche, attraverso i campi magnetici che strutturano l’ambiente fisico. Questo è l’ambito subitaneo dell’esistere, in cui l’accadere di ogni evento è immediato. Gli animali – suggerisce Bickerton – […] possono solo comunicare circa il qui e l’ora perché le loro menti possono operare unicamente nel qui e ora. […] Qualunque loro conoscenza può essere selezionata, ogni memoria attivata, solo da eventi nel mondo reale. Una memoria, una volta accesa, può avviarne un’altra, se è rilevante allo scopo del momento.

Gli animali non umani vivono nel presente. Nel cervello non umano non ci sono schiere particolari di neuroni, il cui lavoro

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elettrochimico possa proiettare nella mente immagini e simboli riferiti agli oggetti che appaiono nella realtà fisica. L’organismo dell’animale processa gli stimoli che ricava dall’ambiente, per impartire fulminee istruzioni ai muscoli: opzioni di comportamento, che possono, in ogni istante, permettere, oppure pregiudicare, la sua sopravvivenza. Il pensiero online è l’attività organica di interazione con «oggetti ed eventi nel mondo esterno», che consente all’animale di contribuire alla costruzione di una nicchia ecologica, compatibile con le possibilità di conservazione della specie a cui l’animale stesso appartiene. La risoluzione delle urgenze – nutrimento, sicurezza e procreazione – che la realizzazione della nicchia impone, innesca specifici sviluppi dell’intelligenza degli individui e direziona la lenta modificazione della specie. «Tutto questo è quanto basta alla vita sulla terra». «I cervelli – ricorda Bickerton – non erano fatti per pensare alla natura dell’universo o alle leggi che lo governano». Il pensiero online processa dunque informazioni che riguardano oggetti ed eventi, la cui realtà non dipende dalla mente dell’animale. Tali contingenze, infatti, accadono nel mondo fisico e sono immediatamente presenti all’apparato sensoriale dell’organismo. Anche gli animali umani, naturalmente, serbano l’attitudine organica a pensare online. Una forma di vita, sprovvista di questa propria abilità fisiologica di rimanere connessa al fermento di impulsi che costituisce la fisica dell’esistenza, si scoprirebbe non idonea a sopravvivere nell’ambiente, in verità, nemmeno pochi istanti. La qualità che distingue gli umani dagli altri animali è invece la loro attitudine al pensiero offline. I contenuti elaborati dalla dimensione offline dell’intelligenza umana sono mente dipendenti ed esistono solo nella mente degli uomini. Una difformità essenziale, osserva Bickerton, differenzia le configurazioni online e offline del pensiero: «nel pensare online quello su cui

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verte il pensiero è proprio là davanti a te, mentre nel pensare offline non è presente fuori da te». Il pensiero online, inoltre, può interagire in modo consapevole con gli oggetti nel mondo esterno, oppure rimanere una funzione inconscia dell’organismo. Il pensare offline, viceversa, deve per necessità essere cosciente, perché nella mente ci sono solo i concetti delle cose a cui il pensiero si rivolge, ma, naturalmente, non le cose stesse. In base alla speculazione scientifica di Bickerton, il pensiero offline inizia il suo percorso nell’evoluzione, antico almeno due milioni di anni, quando alcuni nostri progenitori, sotto la pressione ambientale della nicchia che si stavano avventurando a costruire, furono forzati a tentare di passare attraverso la costrizione biologica che bloccava ogni «sistema di comunicazione animale» nella «prigione del qui e ora». L’urgenza era quella di riuscire a trasmettere ai propri simili informazioni relative alla esistenza di risorse alimentari e insidie, presenti in zone diverse, distanti dal luogo in cui si stava svolgendo lo scambio di notizie. La natura non prevedeva nulla del genere: la possibilità che affiorassero fonemi, parole, concetti, nemmeno esisteva, perché la loro base neuronale non si era ancora sviluppata nella fisiologia cerebrale degli individui. I nostri precursori avevano a propria disposizione solo il bagaglio animale di segnali, utilizzati per divulgare la condizione in cui si veniva a trovare il loro organismo nella sua relazione contingente con l’ambiente. I primi ominidi, nella particolare visione paleoantropologica sostenuta da Bickerton, abitavano quella parte del pianeta che noi oggi chiamiamo Africa. L’ambiente in cui vivevano i progenitori degli uomini era una estesa pianura, popolata da predatori e animali che si nutrivano di carcasse e di piante. Per ragioni facili da intuire, la convivenza con gatti selvaggi, rapaci, leopardi, rettili, iene e leoni confinava i nostri antesignani all’ultimo posto della catena alimentare che regolava le

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possibilità di accedere al nutrimento e il grado di probabilità di riuscire a mantenersi in vita nella savana. Una volta che predatori e saprofagi, dopo avere terminato di spolpare la preda, si erano allontanati, gli umani potevano infine accedere a quello che rimaneva della carogna. Restavano le ossa e qualche lembo di carne, attaccato allo scheletro in zone che gli altri animali non riuscivano a ripulire. Per sopravvivere alla scarsità e scampare i pericoli che marcavano la vita quotidiana nella prateria africana, i nostri precursori si trovarono costretti ad avvalersi di quelle poche differenze che, distinguendoli dagli altri animali, si sarebbero potute rivelare anche dei vantaggi, piuttosto che solo degli handicap. La pressione della nicchia spingeva i soggetti preumani ed umani, appartenenti ad una medesima specie, verso un livello di collaborazione del tutto inedito. All’epoca, infatti, in natura non esisteva nulla di quello che sarebbe potuto servire al fine di attivare una forma di comunicazione adeguata alla realizzazione del tipo di cooperazione richiesta. La necessità consisteva nel riuscire a radunare, intorno alle risorse alimentari accessibili, costituite dai carcami di animali ancora commestibili sparsi per il territorio, un numero di individui organizzati, folto abbastanza per fronteggiare gli altri predatori e sovvertire così il loro predominio nella catena alimentare. Il fallimento, non essere quindi idonei a fronteggiare le urgenze imposte dalla propria interazione con l’ambiente, avrebbe significato per il genere Homo, come per le specie Ominidi che l’hanno preceduto, una più che probabile estinzione. Derek Bickerton, in un suo ulteriore volume (More than Na­ ture Needs. Language, Mind and Evolution, Harvard University Press, Cambridge-London 2014), ipotizza che una fondamentale mutazione degli animali umani e del loro apparato comunicativo sia avvenuta in quattro fasi.

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Il primo stadio di questa trasformazione accade nella nicchia ecologica definita dal conflitto con altri predatori per l’accesso al cibo. Qui «gli umani apprendono le basi per la cooperazione», perché se ognuno non avesse contribuito «nel mettere al sicuro una carcassa, nessuno sarebbe riuscito a mangiarne nemmeno un pezzo». Un esito essenziale di questa prima fase è l’acquisizione della facoltà di potersi riferire ad oggetti ed eventi che capitano spostati rispetto alle possibilità percettive del proprio apparato sensoriale. La graduale intuizione di circostanze che accadono oltre il raggio di azione della sensibilità corporea, lentamente, guida i progenitori dell’uomo contemporaneo fuori dalla «prigione del qui e ora», che come una «camicia di forza» sigilla l’essenza organica del «sistema di comunicazione animale» e i suoi segnali. Il secondo momento dell’esodo verso la possibilità di creare le parole è costituito dal «simbolismo». Nella speculazione di Bickerton, il livello dei simboli proviene «dalla tendenza delle unità di riferimento dislocato di indicare in modo sempre più generale ed astratto fino a che divengono, in effetti, etichette per concetti mentali». Il dispositivo biologico che processa gli impulsi elettrici nel corpo, proiettato nella virtualità della mente, genera la logica dell’informazione e schiude, nella struttura della materia, la possibilità di un campo immateriale dell’esistenza. Il terzo periodo del processo, tuttavia, avviene interamente all’interno della fisiologia cerebrale. «I cervelli – ricorda Bickerton – devono essersi auto-organizzati e ri-auto-organizzati più volte nell’ultimo mezzo milione di anni, quando una specie dopo l’altra aumentava e/o cambiava la propria attrezzatura sensoriale». I primi due stadi (“cooperazione” e “simbolismo”) della metamorfosi esplorata dalla speculazione di Bickerton presentano al cervello fenomeni del tutto inusitati. La risposta dei neuroni a questi stimoli inediti consiste nella costruzione

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di «una vasta e densa foresta di interconnessioni relativamente locali», che devono potere essere attivate prima che il passaggio alla fase ulteriore della trasformazione diventi possibile. Lo scopo della dinamica neuronale risolve infatti nel «rendere il compito del cervello leggero e aiutare a conservare la sua energia», perché nelle funzioni cerebrali non esistono differenze, quindi «mentale, fisico, fisico-e-mentale, sono tutti eseguiti nello stesso codice di scariche elettrochimiche». Solo nel quarto stadio della mutazione figurata da Bickerton si mostra l’inconsapevole azzardo a cui si espone l’esperienza peculiare degli animali umani nei primordi della loro esistenza. A questo punto, il «potere potenziale» dei meccanismi che le fasi precedenti hanno generato non ha più «nessuna relazione con i bisogni ecologici degli umani» e la produzione del «linguaggio come noi lo conosciamo», dunque, alla fine può effettivamente iniziare. Le parole sono entità mentali che trovano il proprio senso nella loro attinenza ai concetti cui sono riferite. La forma del concetto è vuota. Il significato emerge dal nesso tra le formulazioni verbali e il contenuto dei relativi concetti, stabilito dall’uso ripetuto di particolari espressioni nei medesimi contesti. Il pensiero offline, insieme alla possibilità indefinita di elaborare enunciati, assumono una paradossale consistenza in sincronia con il lento «divorziare delle parole da ogni cosa del mondo reale cui esse si riferiscono». I vocaboli presentano così «la forma esterna di concetti veri, applicabile ad alcuni oppure a tutti i membri di una data classe, siano essi ipotetici o reali». I concetti e le loro diramazioni, però, non sono presenti nella natura elettrochimica della realtà, che non dipende dalla mente. Il contatto tra il pensiero offline e le «entità indipendenti dalla mente che hanno una esistenza fisica nel mondo reale» si regge sulla abilità fisiologica, sviluppata per gradi dalle risposte da parte degli individui alle pressioni della nicchia che

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rende loro possibile la vita, di riferire porzioni della propria attività cerebrale ad «enti che non sono necessariamente presenti all’apparato sensoriale, né esistono nella mente». Le funzioni biologiche del cervello riattivano le memorie elettriche registrate, nel viluppo delle sinapsi, dalla frequenza degli impulsi connessi alla presenza di determinati enti nel mondo esterno. La proiezione mentale del processo, invece, tramite l’edificio astratto che il flusso verbale inizia ad articolare, inventa negli umani l’insorgere di una cognizione particolare e di una interiorità intrisa di parole. Gli oggetti «che hanno una esistenza fisica nel mondo reale» appaiono così nella mente trasformati dal linguaggio in quello che nella realtà essi non sono. La sinergia tra pensare online e pensare offline forza il limite della materia nella natura. Il conoscere mantiene una radice nelle strutture fisiche degli eventi, intese mediante la lente del calcolo, mentre il mondo interiore, che affiora dall’esperienza della percezione negli individui, si forma in una dimensione immateriale, propria delle correlazioni tra vocaboli, ma del tutto inaccessibile alla sostanza elettrica degli impulsi. Nella parte finale di Adam’s Tongue, Derek Bickerton sintetizza la scena dello sviluppo in cui si è realizzata fino ad ora la capacità di costruire un susseguirsi di nicchie ecologiche diverse da parte degli umani. Gli animali umani giungono alla loro provvisoria condizione attuale molto lentamente. Numerose specie Homo hanno contribuito alla selezione dei tratti che consentirono agli umani di risalire dal fondo all’apice della catena alimentare. Nessuna di tali specie è sopravvissuta, eccetto l’Homo Sapiens. Noi siamo quindi gli ultimi umani. Nelle società attuali l’accesso alla nutrizione è mutato rispetto alle possibilità che consentivano ai nostri più atavici progenitori di strappare all’ambiente il loro sostentamento. Gli umani moderni sono produttori e producono ogni cosa. Noi non solo fabbrichiamo il nostro

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cibo, dunque forme di vita animale e vegetale, ma costruiamo l’ecosistema in cui viviamo e la nostra attività medesima è la fonte di noi stessi. Bickerton osserva che il «Grande Salto in Avanti» dell’Homo Sapiens, rispetto alle altre specie umane, sembra essere stato attivato dal «conflitto con una specie di quasi equivalenti abilità, la Neanderthal», durante il quale si è rivelato necessario impiegare «tutta l’energia e l’ingenuità dei Cro-Magnon». Gli umani dopo di allora hanno iniziato a edificare nuove nicchie «ad una velocità senza precedenti». La nicchia pastorale, quella agricola e la presente nicchia industriale, sono state le prime, originali manifestazioni di un adattamento evolutivo inverso. Gli umani, «controllando prima gli altri animali, poi le piante, poi l’energia e la materia», si sono infatti ingegnati per «adattare il mondo a se stessi», piuttosto che sforzarsi per il proprio adeguamento all’ambiente in cui accadeva loro di vivere. L’invenzione di un ambito originale dell’esistere comporta, tuttavia, l’apparire anche del limite proprio a tale inedita dimensione. Insieme alle altre nicchie da essi realizzate, gli animali umani stanno infatti creando una speculare «nicchia negativa». In questo modo, «esaurendo la capacità della nicchia, oppure soffocando sui detriti causati dalla sua produzione, una specie potrebbe costruire se stessa nell’estinzione». Un’ulteriore tendenza, correlata alla materiale fabbricazione delle nicchie positive e di quella negativa, sembra affermarsi, secondo Bickerton, lungo la storia dell’evoluzione dell’Homo Sapiens. Il linguista americano nota che il mutamento genetico degli umani non è stabilizzato, ma procede «in modi che noi ancora non riusciamo a capire completamente». Durante l’avvicendarsi delle civiltà degli uomini si sono generati nel mondo, in modo diffuso, «sistemi di caste, sistemi come quelli del-

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le formiche, dove le occupazioni e il destino di un individuo sono predestinati alla nascita». Fino dalle prime forme di organizzazione sociale, «ribelli, rivoluzionari, eretici, criminali, martiri – tutti quelli contrapposti alle norme correnti della società – sono stati sistematicamente imprigionati, esiliati, assassinati oppure giustiziati». Naturalmente noi, che abitiamo un mondo nel quale lievita una «marea crescente di democrazia», perlopiù consideriamo i vari sistemi di caste come «aberrazioni obsolete e piuttosto repellenti». Ma questa opinione potrebbe in realtà rivelarsi «pericolosamente ottimistica». La maggior parte degli individui ritenuti, sotto diversi profili, non adattabili alle convenzioni che regolano le società, infatti, «sono morti giovani oppure hanno passato i loro anni procreativi in detenzione, dunque il loro contributo al genoma umano è stato trascurabile». I tipi più remissivi, invece, hanno prosperato «spargendo il loro seme in lungo e in largo». I sistemi di caste, quindi «potrebbero essere visti piuttosto come un processo in corso, prematuri precursori di quello che accadrà una volta che le ultime riottosità nella nostra natura di scimmia saranno state eliminate». Nulla però è a priori stabilito. Nella costruzione delle diverse nicchie ecologiche, gli organismi sono autonomi, pertanto nelle specie è celata la possibilità di «influenzare il loro proprio destino». Dall’organismo degli animali umani emergono individui articolati da parole, così l’autonomia, cui si riferisce Bickerton, perde, tra gli uomini, il suo orizzonte prettamente fisiologico. Lo sviluppo delle astrazioni fabbrica il senso delle creazioni mentali. Inscindibile dall’effetto degli impulsi che attraversano il corpo nell’ambiente, la vicenda astratta dei contenuti psichici costituisce lo sfondo dell’esperienza umana, atipico nell’intero consorzio animale. Un filtro di concetti permea l’approccio degli uomini all’esistenza, lasciando ai singoli un margine di consapevolezza, uno spazio in cui avvengono scelte che posso-

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no anche influire, per estensione ed indirettamente, sulla sorte stessa della specie. Il campo della libertà appare dunque limitato, ma non per questo meno cruciale. A prescindere da quanto la sua teoria sia corroborata nell’ambito della paleoantropologia, uno dei molti meriti dell’acuta speculazione di Derek Bickerton è di avere pensato il linguaggio verbale come lo sviluppo lento e incerto di una funzione animale. La strada nell’evoluzione, per formare un sistema di comunicazione mediante aggregati innaturali come le parole, fu percorsa dalla condotta contingente, frammentaria, di ignoti individui, preumani ed umani, durante lo svolgersi della loro vita. «I cambiamenti nel comportamento – ricorda Bickerton – innescano mutamenti nei geni almeno tanto spesso (forse di gran lunga più spesso) di quanto le modifiche genetiche attivano variazioni di comportamento». Un numero indefinito di esseri viventi, al fine di sopravvivere, furono costretti a tentare di forzare il limite fisico della natura. Il loro tendersi nel vuoto è stato totale, ma, al tempo stesso, in larga parte inconsapevole. Il lascito che hanno trasmesso è la metamorfosi del corpo che rende possibile la nostra mente. Un intelletto senza materia. Una mente che non appare, peraltro, distinta dall’organismo nel quale affonda la sua radice concreta.

IV Il Reale tra le Ombre

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I Cavalli del Dottore

L’inizio del racconto Un Dottore di Campagna, scritto da Kafka nel 1917, presenta la possibilità di notare una coincidenza. Una notte d’inverno, il medico condotto di uno sperduto villaggio viene svegliato dal suono improvviso del suo «campanello notturno». Il dottore realizza in breve di trovarsi in una «grande difficoltà». Un «paziente seriamente malato» era infatti in attesa di cure in una contrada distante «dieci miglia» dal borgo in cui il dottore aveva la sua sede e la dimora. Una tempesta di neve infuriava nel villaggio, ma il medico, afferrata la «borsa degli strumenti» necessaria per l’esercizio della professione clinica, uscì comunque dalla propria casa, fuori nella fredda oscurità. «Infagottato nella pelliccia», il dottore raggiunse in mezzo alla bufera il suo «calesse leggero con grandi ruote», perfetto per percorrere gli sterrati accidentati della campagna. Un problema imprevisto tuttavia apparve. «Mancava un cavallo. Niente cavallo». Non si poteva rimediare un cavallo. E il cavallo del dottore era «morto nella notte, schiantato dai rigori di questo inverno gelato». Un Dottore di Campagna venne pubblicato nel 1919, come secondo racconto in una raccolta di storie brevi, titolata anch’essa, come il racconto, Un Dottore di Campagna. Kafka, alcuni mesi prima che l’opera venisse stampata, aveva selezionato

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una lista di quattordici narrazioni, insieme all’ordine nel quale le concise invenzioni sarebbero dovute comparire nel volume. La storia destinata da Kafka ad aprire la collezione risultò essere Il Nuovo Avvocato. Il ruolo del personaggio protagonista nel Nuovo Avvocato, come già sappiamo, venne affidato dall’artista di Praga al cavallo Bucefalo, il destriero da battaglia di Alessandro, divenuto ora nel racconto, in circostanze ignote, un legale. Due cavalli, dunque, Bucefalo ed il cavallo morto di stenti del dottore, sbucano tra le parole nelle prime due storie della raccolta Un Dottore di Campagna. I due animali si trovano separati tra loro nel libro da un’unica pagina. Anzi, la distanza posta nel volume tra Bucefalo ed il cavallo morto del dottore si riduce, in effetti, solo a qualche riga. Questo il primo aspetto della strana coincidenza che possiamo rilevare mentre iniziamo a leggere Un Dottore di Campagna. L’apparente casualità non termina qui. Proseguiamo addentrandoci nel racconto e dopo appena qualche battuta, infatti, incrociamo altri «due cavalli, enormi creature con fianchi poderosi» che balzano «fuori dal buco della porta» di una «porcilaia». Uno «stalliere» brado, selvatico, un «bruto», aggioga le bestie al «calesse leggero» del dottore ed il cocchio, ad un segnale dello zotico, si ritrova all’istante catapultato dai due animali nell’immediato di una dimensione estranea, inaccessibile alla matematica che descrive e regola lo spazio-tempo. Il medico, privo di ogni controllo sul veicolo, in un attimo viene assorbito nel vorticoso evaporare del proprio mondo costruito su abitudini e ragioni. Il dottore stesso descrive l’immediatezza dell’accaduto. Ma questo solo per un momento, dato che, come se l’aia della fattoria del mio paziente si fosse aperta davanti al cancello del mio cortile, io ero già lì; i cavalli erano calmi e fermi; la tempesta era terminata; la luce della luna era tutto intorno.

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Incontriamo, allora, quattro cavalli, distribuiti in due racconti, nello spazio di poche righe. Una coincidenza davvero singolare. Proviamo ad indagare brevemente questa fatalità, prima di inoltrarci nella lettura di Un Dottore di Campagna. I quattro cavalli sembrano mostrare al lettore la loro affinità reciproca. Nel medesimo frangente, nondimeno, una cardinale diversità rende questi destrieri contrastanti l’uno con l’altro. La congruenza tra i quattro animali non si riduce al fatto elementare di appartenere tutti alla stessa specie e di essere, quindi, ognuno di loro un cavallo. Un’analogia forse più rilevante balena tra le parole dei due racconti. I quattro cavalli sembrano figurare nella narrazione quasi come simboli dell’energia animale che abilita l’agire degli umani. Un’energia che emana dal corpo, per la quale l’arte di Kafka inventa la possibilità di una forma. L’indivisibile unità dell’energia vitale, presente nei due racconti tramite l’identica forma animale del cavallo, si manifesta, però, solo attraverso l’emergere e il risaltare delle difformità che distinguono, l’uno dall’altro, i cavalli immaginari di Kafka ed il loro vigore. L’energia vitale si esprime indifferente nelle differenze. In quanto esito e condizione del funzionamento di un organismo, la vita trova le sue vie nell’ambiente e nel contesto in cui la fisiologia del corpo opera. In una prospettiva simile, potremmo così considerare semplicemente l’energia vitale come l’espressione di un organismo vivo perché funziona. Tra vita, corpo ed energia vitale, in verità, non sembra emergere alcuna diversità reale. Nell’istante stesso in cui un organismo smette di lavorare, la sua vita cessa e l’energia che proviene dal corpo scompare. Le figure inventate da Kafka, tuttavia, mostrano come la vita animale del corpo diffonde negli umani tra le parole. Lo spazio mentale aperto dall’utilizzo delle parole, d’altra parte, a sua volta influenza l’energia emanata dal corpo che proietta la mente del singolo nell’esistenza. Kafka mette dunque in

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scena, in forma letteraria, l’intima vicenda dell’individuo, nella cui interiorità la vita del corpo crea ed avviluppa a sé vocaboli, simboli e tensioni. Bucefalo diviene nel racconto di Kafka un animale razionale. L’attività dell’organismo di un animale che pensa, non solo manifesta la meccanica del suo agire, ma mostra anche il proprio aspetto verbale. L’utilizzo delle parole riflette poi la presenza di una rete connettiva che assume la parvenza di una «legge» presupposta dalla possibilità stessa di parlare e pensare. L’impiego critico della ragione qualifica l’approccio di Bucefalo alle vicissitudini mutevoli del mondo degli umani e dell’esperienza. Il cavallo è divenuto ormai un dottore in materia legale. Nelle ultime battute di Il Nuovo Avvocato, il narratore suggerisce a tutti di «fare come ha fatto Bucefalo ed immergere se stessi nei libri di legge». Il cosmo degli umani poggia sull’apertura del senso generata dalla prassi del linguaggio come forma di vita. La riflessione sull’uso degli idiomi permette poi di scorgere la logica esibita dalle espressioni verbali. In questo sforzo di cognizione, d’altronde, avviene sovente nell’intendere una specie di inversione che induce a confondere le cause con gli effetti. L’articolazione delle parole, infatti, viene spesso interpretata come un effetto raggiungibile grazie a leggi logiche, le quali godrebbero, a loro volta, un’esistenza indipendente dagli umani, l’unica specie animale che parla. La realtà delle cose lascia intuire, all’opposto, una situazione del tutto diversa. Le formazioni linguistiche pronunciate dagli animali umani, in verità, sembrano essere le autentiche cause, le condizioni, elementari ed inevitabili, che rendono possibile l’analisi da cui emergono le connessioni logiche espresse dalle proposizioni nella loro forma analizzata. Da un tale punto di vista, dunque, la logica e le sue leggi appaiono alla fine in quanto semplice prodotto del vitale anelito volto al comunicare degli animali umani.

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Bucefalo sprofonda se stesso «nei libri di legge». Il cavallo viene così attraversato dal proprio uso del linguaggio e del pensiero. Assorto nello spazio mentale che emana dal corpo, dove trovano la propria origine le parole, Bucefalo – scrive Kafka – «nella luce tranquilla della lampada, i suoi fianchi non impediti dalle cosce di un cavaliere, libero e lontano dal clamore della battaglia, […] legge e volta le pagine dei nostri antichi tomi». Le ultime frasi scritte dall’artista di Praga per concludere Il Nuovo Avvocato scivolano fluide nella dimensione senza materia e senza tempo che il racconto schiude davanti a noi. Il destriero da guerra di Alessandro si sbarazza dall’impaccio provocato dal suo cavaliere e dal mito rifratto che la figura del comandante macedone esala nella mente. Immerso «nei libri di legge», l’inedito «avvocato» capisce di essere, in essenza, «libero». L’animale inventa la forma. «Le pagine dei nostri antichi tomi» cumulano le mutazioni dello sfondo sul quale si susseguono le esperienze degli umani. La «legge», dove l’intelligenza dell’animale assorbe se stessa, in ogni sua veste presenta l’astrazione di uno strumento delineato dall’indagine razionale avanzata dal medesimo animale. Nella narrazione emerge così la proiezione diafana di un soggetto. L’individuo che spunta nel racconto di Kafka sorge però soltanto nella mente di noi lettori, il luogo unico dove la vicenda intera accade mentre stiamo leggendo. Bucefalo affiora dietro ai nostri occhi, intangibile come le parole in cui consiste la sua natura, resa possibile dalle funzioni del nostro corpo. Quando l’invenzione in cui consiste Il Nuovo Avvocato si chiude, l’unità corpo/mente si mostra attiva. L’energia vitale, espressione del corpo dell’animale, genera l’assenza di materia in cui si forma il mondo interiore. Una mancanza aperta, un cosmo abitato solo da inediti organismi parlanti e dalle loro creature, al tempo stesso reali e fantastiche. Alla fine del racconto l’insolito avvocato capta l’epoca e la propria condizione. Il caval-

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lo non è più preda della malia mondana, oppure soggiogato da un mito e da un «cavaliere». Bucefalo si congeda libero e vivo più che mai.

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Il Tedio Gelido del Dogma

Scorsa appena qualche riga nel volume Un Dottore di Campa­ gna, ancora un cavallo attrae la nostra attenzione. Tra le pagine inizia a crescere la seconda storia della raccolta di narrazioni brevi presentata dal libro. Il medico di un borgo remoto viene svegliato nel cuore della notte. In un «villaggio distante dieci miglia», un «paziente seriamente malato» ha un bisogno urgente di cure. Il medico si trova subito in una «grande difficoltà». Una tempesta di neve sferza l’oscurità. L’uomo di scienza si avventura nella tormenta, insieme a «Rosa», la «domestica» che lo accompagna ondeggiando nel buio una «lanterna». Il «calesse leggero» dello scienziato, il suo mezzo di trasporto, attendeva già pronto per partire, ma la cavalcatura per trainare il cocchio mancava. Il «cavallo» del dottore, sfibrato, era infatti «morto nella notte, schiantato da questo inverno gelato». Non si riusciva a trovare un altro cavallo. «Niente cavallo». Il flusso di energia necessario al veicolo del medico per funzionare si era interrotto. Bucefalo, nel pieno della sua vitalità, ha da poco preso commiato dai lettori che lo ospitano nella loro mente, quando nel

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secondo racconto della raccolta Un Dottore di Campagna, dopo soltanto alcune linee di prosa, incontriamo il «cavallo» morto stecchito di un dottore. L’energia necessaria ad un medico per esercitare la sua professione esce dalle parole dell’artista di Praga annichilita nella figura di un animale stroncato dai rigori di un gelido «inverno». Privo del suo «cavallo», deluso dall’esito nullo ottenuto dal prodigarsi della «domestica» per recuperare un’altra qualsiasi cavalcatura, magari in prestito, da attaccare al suo «calesse», il medico di Kafka cade in uno stato di disperazione. «Non potevo vedere una via d’uscita», ammette lo scienziato. Intanto, mentre il dottore stava fermo in piedi in mezzo alla bufera desolato e solo, «la neve si ammucchiava sempre più spessa» addosso a lui, rendendolo «sempre più incapace di muoversi». La scienza ha i suoi limiti. Forse si può addirittura dire che il metodo scientifico stesso, se condotto in modo corretto, ha come suo portato la ridefinizione assidua di un crinale mobile, segno del limite che comunque distingue il senso dal non senso, il vero dal falso, le verità determinate da quelle indeterminate, il conoscere dal mero ritenere, oppure dal credere. Senza l’emergere di un limite insito nell’atto stesso della cognizione, ogni supposta conoscenza si inabissa in un gorgo di confusione. Da un punto di vista logico, l’asserzione di un contenuto come vero, insieme alla sua immediata negazione, in un’unica soluzione costituiscono la fisiologia del processo che permette di determinare l’esatta contingenza della verità e della falsità espresse dal contenuto stesso. Il riverbero della contraddizione sembra esprimere il modo della connessione attiva tra un animale che parla e l’ambiente dove vive il medesimo animale. L’organismo di un animale che parla e pensa ha bisogno di figurare almeno un frammento di stabilità al fine di

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poter sopravvivere, ma nessuna stabilità è presente nell’ambiente naturale a cui l’animale appartiene. Si crea allora una contraddizione, un artificio logico, utile per tenere la forma di vita, che nella sua caducità per esistere immagina, parla e pensa, integrata al proprio ambiente, il quale, altresì, dilegua all’istante nell’apparire subitaneo del presente. Il medico inventato da Kafka doveva «iniziare un viaggio urgente». Le avversità che il dottore avrebbe incontrato, per percorrere il tragitto e portare a termine la propria missione, sono subito evidenti. «Una fitta tempesta di neve riempiva tutto lo spazio» tra il medico ed «un paziente seriamente malato» che lo attendeva «in un villaggio lontano dieci miglia». L’arsenale utilizzato dal dottore per fare fronte alla situazione è sobrio ed essenziale, come appaiono sostanziali, d’altra parte, anche le difficoltà da superare. L’uomo di scienza affronta il gelo «infagottato nella pelliccia», armato della sua «borsa di strumenti» ed in possesso di «un calesse leggero con grandi ruote, esatto per le nostre strade di campagna». La notte rivela, tuttavia, una contrarietà ulteriore, inaspettata, che rischia di erodere la possibilità stessa di tentare il viaggio. Il «cavallo» del dottore è morto, «schiantato dalle fatiche di questo inverno gelato». Bloccato dalla neve che gli si accumula addosso, lo scienziato non può nemmeno più contare sul suo «cavallo». Nessuna sorgente di energia, pertanto, per attivare la vettura del dottore, il «calesse leggero con grandi ruote», pronto in attesa nel «cortile». Ogni movimento sembra precluso. Il medico si ritrova così costretto in una condizione di immobilità. Proviamo ora brevemente ad intuire quali possano mai essere stati i motivi reali, le ragioni che potrebbero avere provocato la morte del «cavallo» del dottore. La vicenda narrata da Kafka in Un Dottore di Campagna giunge a noi tramite le parole dell’unico personaggio della storia

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presente in prima battuta nella nostra mente. Il medico condotto, infatti, racconta in prima persona le traversie dell’avventura e dei suoi protagonisti. Il dottore pilota così il lettore nel mezzo degli avvenimenti in una realtà immaginaria. Nel medesimo istante il medico attira la mente che lo sta ospitando nei meandri della propria psiche di uomo di scienza. Il dottore di Kafka, mentre confida la sua storia al lettore, mediante le stesse parole conferisce dunque una forma anche a quello che accade nella propria interiorità di scienziato. I motivi che hanno spinto fino al decesso il cavallo del dottore non costituiscono un mistero. Leggiamo nel racconto, appunto, che l’animale è «morto nella notte, schiantato dalle fatiche di questo inverno gelato». Se però scrutiamo attraverso la lente delle parole possiamo indovinare l’intimo del medico, il suo mondo, la sua vita abbarbicata ad abitudini e certezze. Il dottore riceve una disagevole chiamata notturna in pieno inverno e risponde applicando una routine. «Calesse», «pelliccia», «borsa degli strumenti» e il dottore in un baleno era fuori «nel cortile pronto per il viaggio». Realizzato che il cavallo del medico era morto, la sua «domestica» non si perde d’animo ed inizia subito a girare per il villaggio in mezzo alla tormenta, agitando una «lanterna» in cerca di un altro cavallo. I problemi possono essere quindi tutti risolti e le malattie, in linea di principio almeno, potrebbero essere tutte curate. Le cose nel racconto, invece, evolvono in modo diverso. Kafka sembra indicare un pericolo. L’orizzonte interiore del­ l’uomo di scienza potrebbe in realtà crescere, privo di dubbi, ripetitivo, fondato su certezze. L’universo intellettuale del medico potrebbe lievitare così tanto da smarrire ogni contatto con il suo stesso fondale malfermo, non afferrabile dai numeri, in parte inaccessibile, di animale che parla. L’impulso critico, scettico, dubbioso, essenza dell’impresa scientifica e di qualunque scienza autentica, potrebbe alla fine eclissarsi nella pa-

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lude dei dogmi. Il ghiaccio che ha essiccato la fonte di energia uccidendo il cavallo del dottore sembra avere, quindi, il verso rovesciato di un gelo paradossale, prodotto, non da una tempesta artica, ma dal calore diffuso da un sistema, da un riparo. Un freddo sinistro, inavvertito, propaga dal tepore, dietro l’invisibile schermo della mente che protegge dal reale. Un clima amabile, naturalmente, risulta propizio all’animale per sopravvivere, ma può rivelarsi, al tempo stesso, infido oltre misura. Il dottore di Kafka, spaesato dallo stallo in cui si arena la propria condizione, rimane immobile, sconsolato, senza futuro, solo.

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La Borsa degli Strumenti

La presenza, lungo lo svolgersi di tutto il racconto, della «borsa degli strumenti» del medico porge al lettore ulteriori questioni su cui riflettere. Scienza e tecnica sono unite da un nesso indissolubile. Senza «strumenti», infatti, non ci può essere scienza. In assenza di sapere scientifico, inoltre, niente tecnologia. Il campo caratteristico studiato dalla scienza è la materia. Un’osservazione dei fenomeni fisici, però, si rende in realtà possibile solo utilizzando «strumenti». Per trarre poi le sue conclusioni dall’esplorazione dei fenomeni indagati e stabilire le eventuali relative verità, determinate e contingenti, l’animale che parla calcola. La saldatura tra scienza e tecnica, in effetti, emerge congenita, non importa quanto in nuce possa essere stato in origine l’approccio al conoscere, né quanto rudimentali ed elementari fossero i primi «strumenti» e le tecnologie più primitive. Il dottore escogitato da Kafka rimane nell’orbita della sua «borsa degli strumenti» dall’inizio fino all’epilogo della storia inventata dall’artista di Praga. Tramite gli «strumenti» contenuti nella sua «borsa», il medico era solito condurre un’ispezione del corpo del malato. L’indagine avrebbe così abilitato una diagnosi e la conseguente prescrizione di una cura adatta a combattere

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e guarire la malattia. Il dottore nel racconto si ritrova tuttavia a scivolare impotente in un vortice che lo precipita nel mezzo di un ambiente tossico, il quale genera sintomi impermeabili ed indifferenti ai criteri di osservazione che lo scienziato può adottare per mezzo dei suoi «strumenti». L’idea stessa di “osservazione” presuppone l’esistenza di un oggetto da osservare. Il concetto di oggetto, d’altra parte, si presenta subito obliquo. Oggetto e soggetto, per definizione, divergono. La relazione che tiene in rapporto soggetto ed oggetto, oltretutto, non potrebbe essere più limpida. Un soggetto, infatti, ad un qualche livello, mira un oggetto. Ma sarebbe strano anche solo pensare, naturalmente, ad un oggetto in grado di mettere a fuoco un soggetto, senza immediatamente diventare a sua volta, nella nuova connessione, il soggetto che focalizza. Un soggetto, dunque, già nell’intuire l’evenienza di una cognizione più chiara, distingue da sé la possibilità di un oggetto, il quale, in quanto tale, quando viene delineato rimane ridotto nella relazione allo stato inerte di una cosa. Esistono, poi, due tipi di oggetti: gli oggetti materiali e gli oggetti immateriali. Gli oggetti materiali indicano stati della materia che appaiono nell’ambiente esterno all’organismo che percepisce. Gli oggetti immateriali, invece, sono assenti nel mondo fisico fuori dall’organismo. Tenendo però conto che il concetto di oggetto – in mancanza del quale ogni riferimento ad un qualsiasi oggetto dileguerebbe nel nulla – emerge solo nella mente di un animale che parla, possiamo pensare allora a tutti gli oggetti, materiali ed immateriali, come ai membri di un unico intangibile insieme: gli oggetti mentali. Questa breve divagazione consente di notare, nondimeno, che l’idea di osservazione, nel momento in cui mostra di presupporre l’esistenza di un possibile oggetto da scrutare, lascia affiorare anche la più sostanziale, necessaria congettura che esista pure un soggetto, attore primo nella scena intera dell’osser-

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vare. Il percorso logico compie qui una torsione su se stesso ed esorta ad includere anche il soggetto e le sue emanazioni nel novero degli oggetti mentali che sbocciano nella mente di un animale che parla. Il soggetto non ha un corpo. Nell’organismo di una forma di vita che parla e pensa, nella fisiologia del suo cervello, non troviamo una traccia che induca a desumere l’esistenza di un nucleo di neuroni configurati in modo da fondare nel corpo il proliferare delle narrative che implementano nella nostra mente di animali umani l’idea mutevole di soggetto. Per quanto ne sappiamo, in verità, l’esistere del soggetto risolve nelle parole che articolano il suo concetto. Gli addentellati tra parole, d’altra parte, sono regolati dai loro vincoli grammaticali. In una medesima frase, quindi, oggetto e soggetto devono recitare comunque ognuno il proprio ruolo, distinto e preciso, se si vuole che la forma della proposizione possa comunicare un senso. Torniamo ora alla «borsa degli strumenti» del dottore di Kafka e proviamo a domandarci quale tipo di oggetto si aspettava di osservare ed investigare il medico nella sua visita notturna al «paziente seriamente malato» che lo attendeva in una contrada persa nella campagna «dieci miglia» distante dal suo villaggio. Inoltre, come mai tale osservazione si è infine rivelata impossibile?

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I Cavalli Non Terreni e Lo Stalliere

Lo scienziato tergiversava nella piazza del borgo, muovendosi in giro per cercare una soluzione, rimediare un altro «cavallo», ma non riusciva a «vedere una via d’uscita». Assorto nella sua «confusa angoscia», il dottore diede «un calcio» distratto alla «porta fatiscente di un porcile abbandonato da anni». L’anta iniziò a «girare avanti e indietro sui suoi cardini», lasciando uscire dall’antro «un vapore ed un lezzo come di cavalli». Da dentro il tugurio si fece allora avanti «un uomo […] carponi in quello spazio basso […] strisciando a quattro zampe». Il medico rimase attonito e si fermò «per vedere cos’altro c’era nella porcilaia». Il losco individuo, «con gli occhi blu spalancati», domandò: «Devo aggiogarli?». La «domestica» che stava «in piedi vicino» al dottore, sorpresa ma divertita, disse al medico: «Non sai mai cosa puoi trovare nella tua stessa casa». Entrambi scoppiarono in una risata. A quel punto lo «stalliere» lanciò un richiamo. “Ehilà Fratello, ehilà Sorella” e due cavalli, enormi creature con fianchi poderosi, uno dopo l’altro, le loro zampe piegate aderenti ai loro corpi, ognuno con una bella testa abbassata come quella di un cammello, con tutta la forza delle natiche schizzarono fuori dal buco della porta che riempivano com-

230 pletamente. Ma di colpo erano già dritti in piedi, le zampe lunghe e i loro corpi che esalavano un denso vapore.

Ancora, dunque, «due cavalli». Inediti, imprevisti, insperati. Animali, questa volta, «non terreni», assurdi. Un «calcio» casuale alla «porta» di un «porcile» ed il medico, ignaro, forza il proprio cosmo, aprendo uno spiraglio surreale, una visuale sul limite e sul prezzo del conoscere. Il cavallo del dottore è morto, esausto, ucciso dal tedio, impigliato nella gelida rete di un metodo inteso come dogma e sfondo. Il flusso di energia è prosciugato. Il medico, perplesso, si ritrova così a girare senza meta nella notte gelata tra i vicoli del suo piccolo villaggio, rovistando tra le consuetudini per scovare una «via d’uscita», ma ogni possibilità pare interdetta. L’impasse in cui resta invischiato il dottore non riguarda soltanto la sua relazione con il mondo esterno. Il modo stesso in cui l’esperienza personale si viene formando sembra difatti essere messo sotto scrutinio nel racconto. L’uomo di scienza immaginato da Kafka appare intrappolato in una sorta di emiplegia estetica. I sensi, in un primo momento, restituiscono al medico solo il riflesso delle interazioni tra l’organismo e le configurazioni instabili della materia in cui risolve l’ambiente cui il corpo appartiene. Un «calcio» svagato, disattento, all’uscio di una vecchia «porcilaia», tuttavia, provoca l’effetto di un sisma nella percezione di sé che il medico mostra di avere. Le «enormi creature» che sbucano fuori dal «porcile» sono immateriali. L’antro medesimo non è nulla più di un’immagine, un recesso mentale generato dalle parole. Il medico precipita in se stesso. L’assenza di materia che abita l’anfratto, nondimeno, rilascia un’energia autentica nella mente del dottore. I tipi di entità – lo «stalliere» e i due animali – che escono dalla «porcilaia», inoltre, si rivelano tra loro difformi in essenza. Lo «stalliere» striscia «carponi» fuori dal tugurio. Quando l’agire del «bruto» si riversa nella parte conscia della mente sem-

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bra collidere con il buon senso mondano, con il costume, con ogni stereotipo consolidato. La «domestica» del dottore si fa avanti per aiutare lo «stalliere» ad aggiogare i cavalli, ma lui le salta addosso e la morde sul viso, lasciando impresso «sulla sua guancia stagliato in rosso il marchio di due file di denti». Il «bruto», malgrado ciò, recita un ruolo nell’architettura del linguaggio. Dal «porcile», tramite l’immagine dello «stalliere», balza nella coscienza un controcanto logico, una reazione alle costrizioni prodotte dalle esigenze del significato. La presenza del «bruto» assolve una funzione, fondamentale ed impossibile, di aggancio con il reale. Nel buio del «porcile» il limite del senso dilaga nell’alienazione. Il torbido «stalliere», refrattario al tono che aleggia nel mondo civile, viene allora attirato da Kafka fuori dal buco del suo esilio, per divenire nel racconto ambasciatore di una logica di frontiera, troppo veloce e ruvida, però, per funzionare davvero nella scena cosciente della nostra mente. Mentre lo «stalliere» emerge dalla «porcilaia», la sua figura ottiene uno spazio nella coscienza, ma a questo punto Kafka sgonfia il suo profilo. Lo «stalliere» viene accolto nella dimensione consapevole dell’intelletto come un «bruto», un’icona grottesca delle pulsioni rimosse insieme ai traumi nell’inconscio. La sessualità, lo stimolo sessuale, l’eccitazione, diviene il centro di gravità, il «marchio», che orienta l’approccio di un’epoca all’analisi e alle vicissitudini della psiche. La forza vitale dello «stalliere», nondimeno, affiora nel suo rapporto con le «enormi creature» che abitano con lui la cavità ignota del «porcile». Kafka delinea in negativo l’ascendente che lo «stalliere» dimostra di avere sui due animali. «Devo aggiogarli?», chiede «l’uomo» al medico, accennando ai «cavalli» che si stavano pigiando l’uno addosso all’altro per riuscire a passare attraverso la «porta» angusta della «porcilaia». La domanda innesca una serie paradossale di circostanze.

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Stando al quesito, il dottore dovrebbe adesso decidere se imbrigliare gli animali e se affidare eventualmente l’incarico allo «stalliere». Il medico, però, ha ormai smarrito una qualsiasi cognizione non fittizia di sé ed ora vaga per il villaggio in balia degli eventi. L’uomo di scienza sta scivolando in una dimensione indecifrabile del proprio cosmo e non ha più potere su nulla. Lo «stalliere», nel frattempo, varcata «a quattro zampe» la soglia del «porcile», si sta rialzando in piedi per entrare nella coscienza del dottore come il trito simulacro del «bruto» annidato nell’inconscio. All’esterno della «porcilaia», assimilato nel senso comune, lo «stalliere» non è più un elemento di crisi. Il «bruto» trova così uno spazio nell’intelletto del medico, ma non porta fuori dal «porcile» un’energia sufficiente e utile per riattivare una dinamica nell’interiorità consapevole. Come il dottore riconosce, non si può «vedere una via d’uscita» dalla stasi che lo paralizza nei cortili del suo villaggio. Kafka compie così una mossa narrativa che inabissa l’uomo di scienza in una cruda introspezione. L’artista di Praga affida il destino del cosmo interiore del dottore ai «due cavalli», le «enormi» inconsapevoli «creature» che dividevano con lo «stalliere» il buco alieno del «porcile». L’intesa tra lo «stalliere» e le «enormi creature», d’altra parte, nonostante l’apparente vincolo tra il «bruto» e i due animali, fuori dal tugurio rapidamente si consuma. L’empatia tra entità difformi, possibile forse nell’oscurità dell’antro, all’esterno, nel chiarore che irradia dall’intelletto, in breve dissolve. Il mondo della coscienza ha le sue regole. Lo «stalliere», strisciando fuori dalla «porcilaia», domanda, dunque, al dottore: «Devo aggiogarli?». Senza attendere una risposta, il «bruto» chiama «Ehilà Fratello, ehilà Sorella» e «due cavalli» escono, impacciati ma «poderosi», dall’ingresso stretto del «porcile». Quando «Rosa» si affretta per aiutarlo ad aggiogare i «cavalli» al «calesse», improvvisamente, lo «stalliere» afferra la ragazza e la morde sul

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viso. Il medico, «infuriato», minaccia allora: «Vuoi assaggiare la frusta?». Al tempo stesso, il dottore riflette che, comunque, «l’uomo era uno straniero» e non si sapeva da dove era venuto. Ma bisognava ammettere che adesso lo «stalliere» lo stava «aiutando di sua volontà», mentre «tutti gli altri» avevano rifiutato di soccorrerlo. Kafka lavora con il paradosso. La contraddizione destabilizza l’ordine del discorso, non perché afferma l’identità tra il falso e il vero, ma soltanto in quanto mostra tale equivalenza. L’articolazione della verità affonda le radici nell’assurdo della propria stessa negazione, dove parole e pensiero agganciano l’esistere. L’animale che parla inventa. Nel presente istantaneo in cui accade ogni esistenza, d’altronde, non appare il tempo indispensabile al formarsi anche di un solo vocabolo. L’osservazione di Kafka, tramite l’arte e non mediante la scienza, si spinge pertanto dentro la mente, fino al punto ignoto dove la materia dell’organismo combina con l’assenza di materia che pervade il cosmo mentale. Lo «stalliere», quindi, attacca i «cavalli» al «calesse leggero» del dottore. Le «enormi creature» completano la compagine di cavalcature stipate da Kafka in poche linee di prosa trasversali ai primi due racconti della raccolta Un Dottore di Campagna. L’identità di specie tra i «cavalli» di Kafka, l’energia vitale informe che riflettono nei racconti, rende impossibile tra di loro distinzioni in essenza. Ma le differenze tra i medesimi animali impediscono, al tempo stesso, una loro essenziale comune identità. Il cavallo del dottore è morto sfinito, stroncato dal gelo generato dal tedio, vittima di abitudini, metodo e dogmi. Bucefalo realizza invece l’animale razionale. Il destriero da guerra di Alessandro percorre il mito per intero, diviene un

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legale, «legge e volta le pagine dei nostri antichi tomi», smonta annose storie e le riassesta in forme inedite. Le parole sono per Bucefalo l’unica possibilità di vita. Per l’insolito avvocato la propria consistenza verbale non è un mistero. Bucefalo abita così in modo diverso ogni singolo intelletto all’occasione, libero, intangibile, consapevole. Le «creature» sbucate dal «porcile», distinte come «Fratello» e «Sorella», da parte loro, riportano nel mondo astenico del dottore un fluire di energia. I due «cavalli» giungono dal corpo ed introducono l’enigma nell’universo della mente. Indifferenti ai simboli, estranee alle parole, le «enormi creature» di Kafka veicolano nella psiche il modo assente della forma, l’immediato. L’artista di Praga orchestra nella narrazione la visione della «porta» del «porcile» suscitando l’immagine nell’unico luogo in cui una forma può in effetti apparire: la parte conscia della nostra mente. Noi vediamo attraverso gli occhi del dottore l’uscio della «porcilaia». Il medico osserva il «vapore» delle percezioni esalare dal vano della «porta» insieme ad un «lezzo come di cavalli»; poi lo «stalliere» striscia «a quattro zampe» fuori dall’apertura; infine le «enormi creature» irrompono nella scena cosciente del cosmo mentale del dottore. Nessuna figura, tuttavia, viene colta nell’incognito spazio interno del «porcile». Kafka colloca la visuale del medico all’esterno dell’antro, nella sola regione in cui un’immagine può formarsi: la dimensione conscia del dottore che riverbera nell’intelletto di noi lettori. In definitiva, l’unità corpo/mente di chi legge è il teatro peculiare dove le parole pronunciate nel racconto dal dottore divengono e possono divenire un’autentica forma di vita. Lo spazio “inconscio” dentro il «porcile» si dà solo come un riflesso inaccessibile, un mero effetto, implicato dalle immagini prodotte attraverso lo sguardo del medico. Il flusso di energia che esce dal «porcile» mediante il goffo incedere dei «due

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cavalli» non proviene quindi da un altrove arcano, ma rivela l’istantanea presenza del corpo nella mente. Le «enormi creature» sono aliene sotto ogni rispetto. Gli animali aggiogati al traino del «calesse leggero» del medico di Kafka non possono essere organismo, perché sono immateriali; ma nemmeno appartengono alla mente, dato che sono avulsi dalle parole, da ogni senso e dalla geometria che tesse il tempo e le forme. I «cavalli» usciti dal «porcile» subito dopo lo «stalliere», in realtà, hanno tutto l’aspetto di «creature» endogene, affiorate nel racconto per traghettare il medico e noi lettori nel mezzo dell’astratto fiotto dei processi mentali, attraverso il moto impossibile, immediato, del presente. Lo «stalliere», intento ancora ad imbrigliare i «cavalli», senza badare alle «minacce» del dottore, come se ne «conoscesse» già i «pensieri», rivolto al medico disse: «Sali!» All’istante «tutto era pronto». Legati al «calesse», «un magnifico paio di cavalli» attendevano scattanti nello spiazzo davanti al «porcile». Le migliori cavalcature dietro alle quali il dottore si fosse «mai seduto». Il medico si arrampicò allora «felice» sul suo cocchio dicendo allo «stalliere»: «Ma guido io, tu non conosci la strada». «Naturalmente» – rispose il «bruto» senza fare una piega – «ma io non vengo con te, io resto con Rosa». Il viaggio normalissimo, routinario, sebbene «urgente» e notturno, che il medico pensava di dover fare per giungere al capezzale del «paziente», si era subito rivelato, a sorpresa, denso di avversità ed imprevisti. Ora però, inerpicandosi sul «calesse» tirato dalle due «enormi creature», il dottore vede mutare davanti ai suoi occhi la natura stessa del proprio viaggiare. Prima ancora che i «cavalli» trainassero con la rapidità dell’attimo passeggero e cocchio all’interno dello spazio mentale del medico, il mondo intero del dottore iniziò a vorticare. Udito che il «bruto» non voleva salire sul «calesse» e pretendeva anzi di rimanere con lei, «Rosa» inorridita scappò strillando

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per rifugiarsi nella dimora da dove la «domestica» ed il dottore erano usciti. Il medico tentò allora di prendere il controllo della situazione intimando allo «stalliere»: «Tu vieni con me, oppure io non vado». Senza badare alle parole del dottore, il «bruto» invece batté le «mani» e gridò «Arri!» ai «due cavalli», per lanciarsi poi all’inseguimento della ragazza fino a dentro la «casa». Il medico stesso descrive il precipitare rocambolesco degli eventi. Il calesse turbinò come un tronco in un torrente; potevo udire la porta della mia casa sbattere ed andare in pezzi mentre il bruto la sfondava e poi rimasi assordato ed accecato da un impeto di tempesta che sferzava costantemente tutti i miei sensi.

Al cenno del «bruto» i «cavalli» scattano. Le due «creature» muovono il «calesse» in una dimensione senza materia, in cui spazio e tempo perdono di colpo la loro consistenza fisica, matematica, di intuizioni volte all’esistere che orientano le percezioni degli animali umani. «Cavalli non terreni» al traino di un «veicolo terreno». Una vettura, tuttavia, eterea, come immagini e pensieri. Ma alla guida del «calesse» non c’è nessuno. Il dottore affonda in una realtà farraginosa, insieme al cocchio ed alle due «enormi creature». Tutto è immediato, non c’è direzione, non c’è un luogo dove andare. Ogni sensazione è un riflesso subitaneo, presente e incompatibile, destinato ad un repentino mutamento. In un lampo, il medico ed il carro sprofondano in un ambiente pervaso di parole, ordito di storie instabili e fugaci figure. I due «cavalli» sono l’energia che rende possibile il prodursi e l’apparire delle forme. Avulse da ogni limite e dal senso, le «enormi creature», alogiche, «non terrene», risolvono l’istante in una mera, continua, estatica, combustione. Il dottore di Kafka riporta così l’inusitata esperienza: Ma questo solo per un momento, dato che, come se l’aia della fattoria del mio paziente si fosse aperta davanti al cancello del

237 mio cortile, io ero già lì; i cavalli erano calmi e fermi; la tempesta era terminata; la luce della luna era tutto intorno […].

Il «villaggio lontano dieci miglia» dal borgo in cui aveva la sua «casa» il dottore e «l’aia» della cascina dove dimorava il «paziente seriamente malato» si spalancano improvvisamente dinanzi al «calesse» del medico. Il «viaggio urgente» si contrae in un singolo baleno.

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Nella Camera del Malato

Catapultato davanti all’alloggio del suo «paziente», il dottore viene accolto dai «genitori» e dalla «sorella» del malato che si precipitano verso di lui farfugliando parole che l’uomo di scienza non sa comprendere e quasi lo sollevano per tirarlo giù dal «calesse» e spingerlo dentro l’abitazione. All’interno della casa, «nella camera del malato l’aria era praticamente irrespirabile; la stufa negletta fumava». Il medico avrebbe «voluto aprire una finestra», ma prima doveva «dare un’occhiata» al «paziente». Il «giovane», emaciato, «scarno, senza febbre, non freddo, non caldo, con gli occhi vacui, senza maglia», si solleva un poco da «sotto il piumino», allunga un braccio attorno al collo del medico e gli «sussurra» in un «orecchio»: «Dottore lasciami morire». Lo scienziato, interdetto, si guarda intorno nella stanza. «Nessuno aveva sentito». Il «giovane», comunque, andava visitato. Il dottore rovista allora nella sua «borsa degli strumenti» ed estrae «un paio di pinze», mentre il ragazzo dal letto seguitava a tentare di trattenerlo per ricordargli la «sua supplica». Dopo avere esaminato le «pinze» alla «luce di una candela», il medico, però, ripone gli «strumenti» nella «borsa».

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L’artista di Praga attiva un’elaborata dinamica di effetti. Il dottore veicola nel racconto la sua esperienza, parlando, dunque, dal solo luogo da cui ognuno di noi unicamente può parlare. Le parole dello scienziato di Kafka vengono da dentro, dall’interiorità, dall’interno della sua mente. Il mondo esterno – il «paziente», il «calesse», «Rosa», il «cavallo» morto nella notte, il «villaggio» di «campagna» dove il medico abitava, la «camera del malato», il «paziente», ecc. – prende tra le parole la consistenza dei diversi riferimenti indicati dai vocaboli e pertanto il modo di esistere incorporeo dei concetti. Il discorso tra le pagine, la storia, nondimeno, emerge ed assume una forma solamente in quanto appare a noi lettori, percepito e trasformato dal variare della cognizione che emana, in ultima analisi, dalla nostra fisiologia. Nel corpo, la sorta di “hardware” che proietta l’apertura immateriale che noi chiamiamo “mente”, d’altra parte, non esistono parole. L’organismo è materiale fino alla sua più estrema subatomica essenza. L’intimo da cui tutti parliamo, noi, non diversamente dal dottore nel racconto o da Kafka che inventa il medico, spunta come un’assenza, un luogo che in verità non c’è, una dimensione priva di un’esistenza propria, ma che lo stesso affiora, eterea e reale. In definitiva, il processo della mente si affaccia esposto nella vacuità, come un’attività incessante tesa, in primo luogo, a creare e protrarre la propria medesima possibilità. L’animale che parla appartiene ad un ambiente, vive in un ecosistema, ma immette nella natura un gesto iperbolico: il tentativo impossibile di essere qualcosa e di saperlo, figurando nella contingenza lo spazio ed il tempo necessari per il generarsi dei vocaboli e di un registro astratto dell’esistere. Un elemento vitale mediante il quale l’astrazione origina per sé una nicchia nella materia cosmica è la narrazione. Una parola è già una storia. Le sillabe parlano alla mente dalla mente.

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Lo sguardo astratto traversa la materia e la distorce con l’immagine e il racconto. Ritrovatosi appena da qualche istante proiettato nel «villaggio» del «paziente», nella «camera del malato», circondato dai congiunti del «giovane», il dottore inizia ad avvertire di essere stato in effetti sbalzato in una realtà costituita da idee, pensieri sconnessi, figure, brandelli di trama. Il medico stesso fa parte dell’ordito. Nessuna distanza disgiunge il dottore e la storia, i luoghi, i personaggi, le voci, i suoni, le canzoni monche. In particolare, nessun divario scosta medico e «paziente» dalla loro intima contiguità. Il dottore è il malato. Ma, al tempo stesso, la distinzione permane. Il ruolo del medico non è quello del «paziente» e l’intelletto del malato ha un’attitudine diversa dall’intelligenza razionale del dottore. Nel racconto, inoltre, la congruenza interna all’intreccio si sfalda. La trama dissolve la vicenda descritta dal medico inventato da Kafka in un reiterato groviglio di rimandi, frammenti, risonanze di senso. La “sostanza” che rende possibile la narrazione è la dissoluzione medesima del racconto. In sintesi, una “sostanza narrativa” non esiste. L’artista di Praga mostra la contingenza come fibra di ogni formazione linguistica. Il dottore dunque è il malato. Nondimeno, il malato non è il dottore. L’orizzonte del malato discorda dalla visione del medico. Il «paziente» non aspira a curare nessuno. Ma, innanzi tutto, il «paziente» di Kafka non vuole guarire. Il malato pretende di essere salvato, altrimenti vuole essere lasciato morire. Precipitato nel sottobosco magmatico della sua mente, il dottore si sente subito a disagio con se stesso. L’indole dello scienziato è dissonante con le sembianze che le proprie medesime percezioni seguitano a prendere, espresse dalle parole, manifeste in immagini, ordite in figure, personaggi e sensazioni. L’uomo di scienza nel racconto sembra provare un’autentica repulsione, istintiva e concettuale, verso l’origine, fosca, ma-

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gica, confusa, in cui affonda le radici quello che accade nella sua psiche. Il malato non è solo il «paziente» che il dottore ha di fronte e deve curare. In quanto appare come figura nella mente del medico, il malato diventa anche lo specchio interiore che mostra allo scienziato la matrice fantastica dalla quale si era staccata e sviluppata la stessa prospettiva scientifica. Una volta dentro la casa del «paziente», trascinato dai congiunti nella «camera» intasata di fumo del «giovane», il dottore intuisce rapidamente che il «paziente seriamente malato», in verità, non è malato per niente. Invece, a quanto pare, almeno da un punto di vista medico, il ragazzo sta piuttosto bene. L’osservazione clinica indaga la materia, il corpo, l’unico fenomeno che rende un individuo accessibile ad un esame medico effettivo. Il dottore, infatti, estrae dalla sua «borsa» gli «strumenti» per attivare le condizioni che gli avrebbero consentito di visitare ed osservare l’organismo del «paziente». La malattia riguarda la fisiologia. Si potrebbe, in generale, considerare forse una malattia come un’alterazione dei processi fisico-chimici, omeostatici, mediante i quali l’organismo preserva il proprio equilibrio dinamico con l’ambiente. Il medico, però, coglie che il malessere del «paziente» non ha una causa diretta nel modo in cui funziona il suo organismo. I processi fisico-chimici che rispecchiano il corpo del «paziente» come oggetto osservabile lavorano nella norma. Il corpo del malato è «sano». Il «giovane», tuttavia, nonostante la buona salute sta male e mostra i sintomi del proprio dolore. Kafka sembra indicare il margine che permette di distinguere una malattia da uno stato di dolore che non abbia nessuna causa tracciabile nell’organismo della persona afflitta. La malattia concerne il corpo e può venire accertata, in ultima istanza, esclusivamente mediante un’indagine diagnostica della fisiologia dell’organismo che si trova nelle condizioni avvertite dal paziente come i sintomi prodotti dalla patologia. La scien-

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za e la specifica disciplina medica, naturalmente, lavorano in conflitto costante con i propri variabili limiti e talora possono mostrarsi non in grado di rilevare una situazione morbosa presente nell’organismo. Una malattia può progredire nel corpo inosservata, senza manifestare nessuna delle mutazioni patologiche che essa stessa sta provocando. In un caso tale, una malattia può protrarsi latente fino alla fine, rimanendo così invisibile allo scrutinio medico ed impercettibile dal malato medesimo. Il malato, dunque, potrebbe anche improvvisamente morire ed i motivi clinici del suo decesso rimanere comunque del tutto ignoti. Dolore e malattia sono condizioni non atipiche, in cui ognuno si può venire a trovare nel corso della vita, ma non risultano avere tra di loro una connessione necessaria. La malattia riguarda il corpo, quindi può essere diagnosticata realmente solo attraverso un’osservazione e un’analisi clinica dell’organismo. Un dolore la cui eziologia non dimostri cause organiche, invece, non è sintomo di una malattia. Un corpo «sano», inoltre, può anche divenire il segno dolente che esprime un’afflizione, senza che la fisiologia abbia nulla a che fare con le origini della pena. In realtà un dolore senza radici nell’organismo non può nemmeno avere delle vere e proprie cause, ma riesce ad essere indagato, eventualmente, soltanto dal tentativo di comprenderne le ragioni. Nella «camera» del «malato» di Kafka si svolge un dramma non connesso con lo stato di salute del «paziente». Il medico si accorge che per quanto riguardava la fisiologia «il ragazzo era abbastanza sano» e riflette che sarebbe stato forse più utile «buttarlo fuori dal letto con una spinta». Il male del «giovane» rivela così di avere una genesi elusiva, più complessa delle conoscenze che si possono ottenere tramite una diagnosi medica. Appena riposte le «pinze» nella «borsa degli strumenti», il dottore si trova a riflettere «in modo blasfemo».

244 In casi come questi gli dèi sono utili, mandano il cavallo che manca, ne aggiungono anche un secondo data l’urgenza, e per coronare il tutto elargiscono perfino uno stalliere.

La patogenesi dei sintomi accusati dal «paziente» non rivela cause di origine organica, dunque lo scienziato, cercando di cogliere la costituzione del malessere del «giovane», rivolge la sua attenzione ad un ambito che non è presente nel corpo del «ragazzo». I pensieri dell’uomo di scienza vengono attratti dal polimorfo magnete immateriale di racconti, credenze, narrazioni, pulsioni, che rende possibile all’animale che parla l’autopercezione cosciente del proprio esistere. La nebulosa di parole e forme, nella quale affiora l’esperienza degli animali umani, però, in quanto tale è del tutto assente nell’essenza fisica della natura. L’animale che parla si ritrova allora attraversato da una contraddizione fondamentale. Il corpo umano, come tutti gli altri organismi, consiste nella materia che lo costituisce. Il flusso di informazioni che configura il mondo interiore degli animali umani quando gli individui pensano e comunicano tra loro, al contrario, non ha in sé nulla di materiale ed del tutto astratto, intangibile, etereo. La presenza della materia nega nell’organismo l’assenza di materia che differenzia la mente, e viceversa. I processi mentali, al tempo stesso, sembrano esistere soltanto come un esito proiettato dalle funzioni organiche, mentre il corpo, d’altro canto, si rende conoscibile unicamente grazie all’attività dell’intelletto. L’unità corpo/mente riflette nel paradosso la propria endogena, controintuitiva dinamica. L’osservazione della materia che compone l’organismo, pertanto, non solo risulta possibile, ma si profila come la condizione necessaria che permette all’indagine medica di operare. I processi intellettivi, invece, essendo immateriali e contingenti nel loro svolgersi, sfuggono ad ogni tentativo di essere osservati direttamente. La stessa idea di “mente”, una volta analizzata,

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evapora nel diramarsi di concetti che conferiscono alla parola “mente” un senso, peraltro ambiguo e confuso. L’attività cognitiva pare esprimersi, in effetti, nel fluire più o meno complesso di vocaboli, immagini, sensazioni, che si genera negli animali umani, mentre gli individui inventano, pensano, parlano, elaborando i frammenti dell’interazione che li connette tra loro e con l’ambiente cui appartengono. Ma l’interiorità viva di una persona – l’accadere dei processi nella loro reale, evanescente forma di esistenza – rimane inaccessibile ad un osservatore esterno. Il dottore di Kafka, nondimeno, non funge nel racconto come un protagonista dotato dall’autore dell’abilità particolare di riuscire a squadrare dall’interno le proprie alchimie mentali. L’artista di Praga, all’opposto, imprime nel personaggio del medico la facoltà anomala di raccontare tra le pagine l’esperienza della sua peripezia professionale e psichica, mostrando, nel medesimo frangente, di essere anche lui, il dottore, la voce che narra come la sua storia, solo un esito indotto dagli andamenti che consentono il formarsi della narrazione. L’entità che parla consiste nei processi che rendono possibile l’espressione del proprio eloquio. Subito dopo avere volto, «in modo blasfemo», il pensiero agli «dèi» e al loro ruolo nel nostro mondo fantastico ordito di parole, il dottore capovolge l’attenzione ed inizia a rimuginare su se stesso. «E solo ora – dice il medico – pensai nuovamente a Rosa; cosa dovevo fare, come potevo salvarla, come potevo toglierla dalle grinfie dello stalliere, con un tiro di cavalli che non potevo controllare». Le parole edificano i ricordi e li assemblano, attivando nel presente la memoria del passato e la proiezione del futuro. Lo svanire dell’attimo assimila nel suo dileguare tutto quello che si affaccia nell’istante stesso. I pensieri, insieme alle diramazioni che li articolano, affiorano così nella scena della coscienza già attraversati dal loro stesso dissolversi.

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Il medico di Kafka non ha controllo alcuno sulle cavalcature che muovono il suo cocchio nel presente ininterrotto della sua esistenza. I «cavalli» usciti dal «porcile» sono «non terreni», si lamenta il dottore alla fine del racconto, ma il «veicolo» affidato al loro traino, a cui gli animali sono aggiogati, invece è «terreno» più che mai. I «cavalli non terreni» del dottore, però, non vengono dal cielo, non sono esseri celesti governati dagli «dèi», ma nemmeno si prospettano simili alle cavalle logiche che tiravano il carro di Parmenide oltre la «casa della Notte» sotto lo sguardo attento delle Figlie del Sole. I «cavalli non terreni» immaginati da Kafka sono alieni da tutto e da ogni cosa. Estranee a parole, simboli e concetti, avulse dalla materia, come dall’assenza di materia simulata dall’autopercezione nell’intimo della vita psichica dell’individuo, le «enormi creature», immediate, traversano l’istante nel modo più reale, senza comprendere, senza nessuno scarto. Il «veicolo terreno» del dottore, nondimeno, ha le proprie necessità. L’assetto dell’animale che parla nell’esistenza deve essere inteso, si muove nel tempo e nello spazio, non supera mai il limite dei suoi sensi, anche se si combina, in forme singolari, di elementi all’animale del tutto trascendenti. Nel racconto di Kafka, la radicale alienazione delle «enormi creature» si fa strada nell’animo del dottore mentre l’uomo di scienza, nella «camera del malato», sta precipitando in una condizione di consapevolezza estrema e pericolosa. Il medico nella stanza del «giovane» stava ancora meditando sugli «dèi», su «Rosa» e sul losco «stalliere», quando i «cavalli» che «avevano ora in qualche modo allentato le redini, spinsero le finestre da fuori e le aprirono». Non si sa come, ma le «enormi creature» erano riuscite a ficcare «la testa ognuna in una finestra e, del tutto indifferenti alle grida di spavento dei familiari, stavano lì ferme a guardare il paziente». Pensando che i «cavalli» lo stessero chiamando per «il viaggio di ritor-

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no», il dottore riflette allora che in effetti a questo punto era «meglio tornare indietro immediatamente». La narrazione non evolve, però, seguendo la logica consequenziale, che lega le cause con gli effetti e la volontà con l’atto. Nella «camera del malato» agisce una coerenza insolita che permette ai pensieri di generare pensieri e alle possibilità di diffondere un numero indefinito di possibilità ulteriori. La scena gravita intorno al letto del «paziente» e la situazione si svolge in un modo che contempla la simultanea presenza dei contrari ed un agire opposto alla direzione ed alla forza dell’intento che anima il soggetto che conduce l’azione stessa. Proprio mentre stava decidendo di andarsene da lì al più presto e di ritornare da dove era venuto, il medico concede alla «sorella» del «paziente» di togliergli la «pelliccia» e si accinge quindi a restare nella stanza intasata di fumo del «malato». Il padre del «ragazzo» si fa poi incontro al dottore e gli dà un tocco gioviale su una spalla, porgendogli un bicchiere del suo prezioso «rum». Il medico scuote la testa e rifiuta, per l’unico motivo che «nei confini angusti dei pensieri del vecchio uomo si sentiva male». La «madre» del «giovane» prega il dottore di avvicinarsi al figlio. Il «medico acconsente». Ma appena il dottore appoggia la testa sul «petto del ragazzo», «mentre uno dei cavalli nitriva rumorosamente verso il soffitto», il «giovane» rabbrividisce «al contatto con la barba umida». Le stesse forze che plasmano le figure e tengono insieme il tessuto narrativo sono attraversate da tensioni ad esse opposte, le quali minano il comporsi delle immagini che emanano dalle parole. Il dottore di Kafka veicola nel racconto il processo che produce vocaboli, pensieri, visioni. Si origina così tra le righe un effetto paradossale. Quanto più il dottore affonda nel suo inestricabile groviglio interiore, tanto più egli viene proiettato fuori di sé, nitido, negli stralci instabili di linguaggio che si formano nella nostra mente mentre leggiamo le parole con cui il medico narra la propria storia.

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Un passo ancora e lo iato incolmabile che separa l’interno dall’esterno, il percepire dal percepito, il fenomeno dall’orizzonte negativo aperto dal concetto di “cosa in sé”, scompare. Il dentro coincide dunque con il fuori e viceversa, in una distinzione intangibile, che tuttavia permane e prende vita originale in ogni esperienza. La parte finale della storia evolve in un modo che forse merita una particolare attenzione. L’uomo di scienza viene progressivamente spinto dall’incedere degli eventi nella narrazione a condividere, appena prima del termine del racconto, il «letto di morte» del malato. Proviamo a seguire lo svolgersi della vicenda. Il «contatto», l’aderenza fisica tra il medico e il «paziente», conferma al dottore quello che egli aveva del resto già capito. Il malato, in realtà, era «sano». Non c’era nessuna malattia. Fisicamente il «ragazzo» stava bene. Ma il medico realizza, inoltre, che i sintomi che affliggevano il «giovane» ed il proprio intimo sconcerto, palesato dallo scienziato lungo tutto il racconto della sua vicissitudine, stavano ora mostrando di avere, in effetti, un’unica, inafferrabile radice: un’origine allignata nell’essenza narrativa che funge da sfondo al formarsi dell’esperienza dell’animale che parla. Le parole hanno un potere ingannevole. Il solo indicare un oggetto, nominandolo tramite un vocabolo, occulta la reale, aporetica consistenza dell’oggetto stesso. Un nome, infatti, non è l’oggetto che il nome indica, ed un oggetto non è una parola. L’esistere materiale degli oggetti si estende in una dimensione che eccede i limiti del contatto con la nostra sensibilità, rimanendo così ignota, indipendente dalla presenza degli animali umani ed estranea alla sfera d’influenza delle nostre più efficaci strategie, sviluppate nell’adattarci all’ambiente di cui facciamo parte trasformandolo: le parole, i simboli ed il conoscere.

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Un nome, nondimeno, conferisce all’oggetto che il nome stesso denota fattezze che lo costituiscono come una sorta di “entità”, la quale risolve, alla fine, nell’insieme di concetti che formano il suo significato ed il suo senso. L’intera funzione del linguaggio, unita all’attitudine a comprendere necessaria all’esercizio dell’abilità linguistica, mostra allora di essere già in qualche modo al lavoro nell’animale che parla per rendere possibile il mero impiego di un nome per designare una cosa. Tali “entità” oggettuali, costituite di concetti tra loro legati in nessi regolati da informazioni e convenzioni, inoltre, non mostrano di avere un’esistenza esterna alle proiezioni attivate dagli organismi degli individui in cui prendono vita i processi cognitivi essenziali all’utilizzo di nomi per significare oggetti. Nomi, oggetti ed i loro agganci reciproci, d’altra parte, compaiono in proposizioni. Una certa soglia di coerenza narrativa – idonea almeno a rendere coeso un contesto al quale riferire l’identificazione di un oggetto tramite un nome – deve essere quindi operativa in un animale che parla per metterlo nella condizione di potere chiamare con un nome le cose che formano l’ambiente a cui egli appartiene. L’effettiva, pretesa, solidità di questo sfondo narrativo guadagna il centro della scena nel franoso epilogo ideato da Kafka per chiudere il racconto Un Dottore di Campagna. Il «ragazzo» è «sano», riflette dunque il medico dopo la sua rapida visita al «paziente», aggiungendo che poi, in definitiva, per aiutare il «giovane» sarebbe stato anche meglio «buttarlo fuori dal letto con una spinta». Ma «io non sono un riformatore del mondo», aggiunge subito lo scienziato, «così l’ho lasciato steso nel suo giaciglio». L’intuizione del dottore è centrata e più profonda di quello che potrebbe sembrare. L’animale che parla ha cresciuto dentro di sé due prospettive, le quali, nel racconto di Kafka, rivelano ora di coesistere in una condizione di progressiva incompatibilità reciproca. L’at-

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titudine scientifica indaga la materia e si prefigge di conoscere come funzionano gli accadimenti – in tutte le dimensioni, da quella macroscopica, infinitamente grande, al livello microscopico, infinitamente piccolo – delle trasformazioni in natura. La vocazione all’uso delle parole, invece, abilita un comunicare tra animali umani attivo su frequenze che contribuiscono allo sviluppo di un genere di autopercezione consapevole operativa negli individui coinvolti nel traffico di informazioni. Un pregiudizio induce a considerare che la prospettiva scientifica, nonostante i suoi effetti antitetici al generarsi dell’orizzonte fantastico prodotto dall’utilizzo delle parole in cui prende le sue sembianze la nostra esperienza, non potrebbe mantenersi in vita disgiunta dalla propensione al linguaggio verbale che distingue l’animale che parla. Il dottore di Kafka, in ogni caso, nella «camera del malato» si trova di fronte ad un problema più immediato. La stanza del «paziente», i congiunti del «ragazzo», i vicini invitati nella casa dai familiari, il «giovane» con cui il dottore giunge a condividere il «letto di morte», l’intera situazione e la stessa interiorità del medico, tutto è pervaso ed articolato dal pathos generato da un insieme di parole, racconti, idee, una sorta di sfondo mutevole contro il quale riverbera la forma che la vita dei personaggi e del dottore assume e riflette. Il medico – l’uomo di scienza – inizia ad intendere lo spessore della questione. Non solo il contenuto di narrazioni e storie viene scambiato per l’attestazione di un ordine recondito della realtà, ma l’interiorità degli individui stessa si è costituita nei limiti dell’alveo virtuale aperto dalle parole nell’organismo. «Mi salverai?», chiede «con un singulto» il «ragazzo» al medico. Ma, se non può essere “salvato”, il «malato» vuole essere lasciato morire. La «madre», da parte sua, non nasconde di essere «delusa» dal dottore perché egli si mostra ritroso a riconoscere una patologia come causa dello stato di prostrazione del

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figlio. La «sorella», afflitta per la stessa ragione, si fa avanti «in lacrime mordendosi le labbra» e «agitando un asciugamano inzuppato di sangue». La famiglia esige che venga diagnosticata una malattia e pretende dal medico la guarigione del «malato». Lo scienziato, interdetto, sconcertato, riflette in silenzio. Così sono le persone nel mio distretto. Si aspettano sempre l’impossibile dal dottore. Hanno perso le loro antiche credenze; il parroco siede in canonica e disfa i suoi paramenti uno dopo l’altro; ma il dottore è supposto essere onnipotente con la sua mano delicata di chirurgo.

La prospettiva scientifica denuda le «credenze». Sapere e credere sono tra loro connessi in una relazione antinomica. Il conoscere si profila come l’esito prodotto dallo scrutinio logico dell’ambito indagato. Credere, invece, sembra essere una risposta, in ultima analisi individuale, ad un effetto di fascinazione. Sapere, dunque, in linea teorica almeno, significa non credere. Il lavoro del conoscere implica non accettare nulla per vero, nemmeno il conoscere stesso e le sue procedure, che agiscono in modo autentico, in realtà, solo quando lavorano sotto il controllo costante operato dal vaglio critico. Il credere, all’opposto, infiltra ogni cosa. L’interiorità, in primo luogo, deve credere in se stessa e convincersi di essere quello che però il mondo interiore, in effetti, rivela di non essere. Il soggetto così si concepisce per natura coeso, coerente, continuo nel tempo, aderente al tessuto narrativo in cui si dipinge, mentre i suoi pensieri si affastellano instabili, le immagini si assemblano sfaldandosi all’istante ed i ricordi rabberciano solo frammenti della sua vita reale, immediata, la quale, peraltro, semplicemente in modo incessante dilegua. Nei fondali del proprio anelito, l’ardore del credere si avvinghia, non al tema, ma alla forma della narrazione. Il gesto estremo, quindi, consiste in credere nel sapere. Il conoscere viene così mistificato

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dal credere ed inteso, in un afflato quasi mistico, come fosse un oggetto di fede. Nella «camera del malato», il medico di Kafka realizza che le «persone» che si rivolgono a lui «hanno perso le loro antiche credenze». Le conoscenze acquisite tramite le procedure guidate dalla prospettiva scientifica hanno fatto implodere la plausibilità dei contenuti veicolati dai racconti arcaici. A nulla possono le acrobazie esegetiche del «parroco», il ministro del culto, che tenta inutilmente di sgarbugliare i pensieri che compilano la dottrina per renderli più congrui rispetto alla sensibilità contemporanea. Le «persone», tuttavia, si dimostrano più flessibili delle ideologie e non hanno difficoltà a convertire il loro oggetto di fede in una narrazione più attendibile, funzionale e moderna, mantenendo invariata, però, la forma del credere. L’ingegno logico che aziona le indagini razionali viene così frainteso, il medico viene deformato in un sacerdote e la scienza viene capovolta in una religione. Suo malgrado, dunque, «il dottore è supposto essere onnipotente» e le «persone» che lo consultano «si aspettano sempre» da lui «l’impossibile». Il medico di Kafka sembra reagire in due diversi modi alla situazione psicologica collettiva di travisamento che trova nella «camera del malato». Ad un livello più superficiale il dottore definisce i confini del proprio ruolo di scienziato nell’ambito del tessuto sociale. «Io non sono un riformatore del mondo», precisa il medico. Poche battute più avanti nel racconto il dottore chiarisce la propria posizione di uomo di scienza nel mezzo di una realtà ondivaga, mossa dai flutti generati dall’agitarsi di stati d’animo, desideri, paure, pulsioni. Bene, come vogliono; io non ho imposto a nessuno i miei servizi; se abusano di me per fini sacri, non mi oppongo; a cosa mai posso ambire di meglio, vecchio medico condotto che sono, privato della sua domestica!

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Ad un’altezza meno di superficie, il dottore rivolge però le proprie riflessioni verso se stesso come parte dell’apparire medesimo della realtà. «Ero il medico distrettuale», rimugina il dottore, «ed ho fatto il mio dovere al massimo, ad un punto che era diventato quasi troppo». Lo scienziato, subito dopo, prosegue la sua meditazione rendendo la propria condizione sempre più vicina a quella del «giovane». Venivo a malapena pagato e lo stesso ero generoso ed utile alla povera gente. Non sapevo ancora se Rosa stava bene, e inoltre il ragazzo poteva avere le sue ragioni e anch’io volevo morire. Cosa stavo facendo lì in quell’inverno senza fine! Il mio cavallo era morto e non una sola persona nel villaggio me ne avrebbe prestato un altro. Avevo dovuto tirare fuori la mia pariglia dal porcile; e se non fosse capitato per caso che erano cavalli mi sarei trovato a viaggiare con suini. Ecco come stavano le cose.

Mentre questi pensieri affollavano la sua mente il dottore fece con il capo un cenno d’intesa alla «famiglia» del «giovane», considerando che, d’altra parte, quelle persone «non sapevano nulla» di lui, di cosa gli frullava per la testa, di come una inverosimile serie di eventi l’avevano catapultato nella loro casa, nel loro mondo, vicino al «letto di morte» del loro congiunto. E «se l’avessero saputo, non ci avrebbero creduto». La vicenda interiore di un individuo è intangibile, evapora nell’istante stesso del suo accadere, come le parole assemblate con l’aspetto caduco dei pensieri nel vano tentativo di darle una forma. La prospettiva scientifica segue l’unica via forse possibile per decifrare il manifestarsi dell’esistere, indagando il corpo, la materia, mediante procedimenti logici. Si restringe così il campo dell’indagine, ma comprendere diventa perlomeno plausibile e spiegarsi molto più facile. L’accesso all’universo effimero generato dalla vita reale di una persona, vissuta e percepita da un individuo, resta però precluso. Il «medico

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condotto» di Kafka nella sua meditazione deriva una conclusione, con un’unica sentenza non facile da opinare. A scrivere prescrizioni non ci vuole molto, ma riuscire ad intendersi con le persone è molto difficile.

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La Ferita

Il tempo per andare infine è giunto. Lasciare la «camera del malato», quindi, la sua «famiglia» allucinata, per tornare verso casa e provare così a strappare «Rosa» dalla balìa dello «stalliere». Il dottore chiude allora la sua «borsa» ed allunga un «braccio» per indossare la «pelliccia», ma gli eventi nel racconto, ancora una volta, seguono un corso inverso rispetto all’attitudine del protagonista. I familiari del «ragazzo», contrariati, offesi per la ritrosia del medico a riconoscere la malattia del «paziente», rimbrottano il dottore in più maniere e riescono alla fine nel loro intento. L’uomo di scienza cede e si riconosce «pronto per qualche ragione ad ammettere sotto certe condizioni che dopo tutto il ragazzo potrebbe essere anche malato». Da questo punto in poi, fino all’epilogo della storia, la prossimità tra il medico ed il «giovane» si fa sempre più intima. Mentre «i due cavalli nitrivano insieme», emettendo un «rumore» che il dottore, con una frase sibillina, dice di supporre fosse stato «ordinato dal cielo per assistere» il suo ulteriore «esame del paziente», il medico scopre alla fine «che il ragazzo era proprio malato». Non solo, ma «una ferita aperta, grande come il palmo di una mano» piagava il corpo del «ragazzo» nel «suo fianco destro, vicino all’anca».

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Riportiamo la descrizione della «ferita». Un’immagine tramite la quale il dottore inventato da Kafka rende il lettore partecipe di un dramma che in effetti lo può riguardare non meno di quanto tale rivelazione affligga, nel racconto, il medico stesso, il «giovane» ferito e le «persone» a lui vicine. Rosa-rossa, in molte variazioni di sfumature, scura nelle cavità, più chiara ai bordi, soffusamente granulata, con grumi irregolari di sangue, aperta come la superficie di una miniera alla luce del giorno. Così sembrava da una certa distanza. Ma ad un’ispezione più ravvicinata sorgeva un’altra complicazione. Non potei trattenere un sommesso fischio di sorpresa. Vermi, grossi e lunghi come il mio dito mignolo, essi stessi rosa-rossi e macchiati di sangue, si divicolavano dal loro rifugio nell’interno della ferita verso la luce del sole, con minuscole teste bianche e molte piccole zampe. Povero ragazzo, non ti si poteva più aiutare. Avevo scoperto la tua grande ferita; questo fiore nel tuo fianco ti stava distruggendo.

La «ferita» affiora tra le parole del dottore come una piaga simbolica. Non potrebbe essere diversamente, d’altronde. Le parole non sono cose e l’inevitabile essere cosa della parola stessa – il modo in cui si configura il substrato fisico che abilita il formarsi di un vocabolo – non è una parola, ma viene concepito il più delle volte come un mero accidente dell’organismo. L’immagine della «ferita» raffigurata dalle parole del dottore rappresenta, dunque, simboli. Un registro in cui paiono agire i simboli che prendono vita nell’immagine della «ferita» è quello della sessualità, figurata come grembo, culla, cruccio, poi infine, sepolcro della vicenda umana. La «ferita» a prima vista, «da una certa distanza», appare «Rosa-­rossa», dice il medico. Ma «Rosa» risulta essere anche il nome della «domestica» del dottore. La «ragazza», nella scansione di tempo in cui accade il racconto, si trova ora alla mercé dello «stalliere», il «bruto» balzato fuori dall’uscio fatiscente di una «porcilaia». Un luogo inaccessibile, un «porci-

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le» inconscio, che il medico non avrebbe mai pensato potesse profilarsi nella propria interiorità regolata e temperata da abitudini e metodo, riversando così anche nella vita del suo accostumato villaggio le esuberanze recondite che abitavano l’antro. «Rosa», confessa il dottore, «aveva vissuto nella mia casa per anni senza che quasi mi accorgessi di lei». Adesso, inaspettatamente, il torpore dei sensi era stato sconvolto ed il medico aveva dovuto «sacrificare» la sua «domestica». La «ragazza» era stata abbandonata, preda della libido dello «stalliere», durante il turbinio di energia vitale fuoriuscita dal «porcile». Le entità sbucate dalla «porta» della «porcilaia» hanno riattivato l’esistenza del dottore in pochi istanti. Il «bruto» ha ridestato lo scienziato dallo stato di inerzia in cui era caduto dopo la morte del suo «cavallo», mentre le «enormi creature» con «fianchi poderosi» hanno proiettato in un lampo il dottore nel «villaggio» del suo «paziente». Il vortice di vitalità scaturito dal «porcile», al tempo stesso, stava ora precipitando l’uomo di scienza in un’introspezione destinata turbare il suo affidabile mondo vigilato da un’accreditata routine. Osservando la «ferita» dischiusa come un «fiore» sul «fianco destro» del «ragazzo», il medico di Kafka avverte, non solo l’inaffidabilità delle proprie certezze, ma anche la fragilità dei simboli e l’emergere della loro crisi. Il corpo leso, quindi, non è l’organismo, il corpo fisico, del «ragazzo». L’indagine medica condotta dal dottore con il supporto dei suoi «strumenti» aveva diagnosticato, infatti, che «il ragazzo era abbastanza sano, qualche piccolo malessere dovuto alla sua circolazione, saturata con il caffè dalla sua premurosa madre, ma sano e sarebbe stato meglio buttarlo fuori dal letto con una spinta». Costretto dai familiari e dal persistere dello stato di prostrazione del «giovane» nonostante la sua buona salute, il dottore sposta allora la propria attenzione sulle parole,

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i simboli, i racconti, che alimentano l’economia di quello che accade nell’interiorità cosciente di un individuo. La «ferita» scoperta dal medico si apre, pertanto, sul «fianco destro» di un corpo immaginario, concepito nello svolgersi di un’analisi della psiche. In altri termini, si potrebbe forse anche dire che la «ferita» dei simboli incide un corpo astratto, tratteggiato mentre si indagano gli artifici del linguaggio e l’emergere delle forme, nell’assenza di materia inventata dall’animale che parla mediante l’uso delle parole. In ogni caso, l’ironia di Kafka filtra dalla descrizione della «ferita». Una piccola danza di simboli sessuali anima l’immagine della «ferita» dipinta dal dottore. Il colore della piaga, «rosa-rosso», con le sue «variazioni di sfumature», rende già il movimento, insieme alla forma cava, «grande come il palmo di una mano». Affiorano inaspettate tra le parole le fattezze poetiche, immaginifiche, di una sorta di vulva, più «scura» al suo interno, ma rivolta all’esterno, «aperta», come la «superficie di una miniera alla luce del sole». Abitata, in modo geniale, ma nemmeno troppo sorprendente, da «vermi», anch’essi «rosa-rosso», simili a modesti falli guizzanti, che con le testine bianche e le loro numerose zampette annaspano, dal «rifugio» nel fondo dell’alveo della fistola dov’erano annidati, «verso la luce». Con un’abilità vetriolica, Kafka contrae nella descrizione della «ferita» millenni di fallocrazia e patriarcato. Il medico, nondimeno, nella «camera del malato», incontra un problema più fondamentale del dissesto provocato dai danni prodotti da secoli e secoli di miti imbracciati in modo strumentale dagli apparati di potere. L’uomo di scienza si accorge che la «grande ferita» incisa sul «fianco» del «ragazzo» era un «fiore» letale e lo «stava distruggendo». Non c’era più rimedio. La «ferita» simbolica descritta dal dottore di Kafka avvisa che i simboli hanno perduto la loro magica malia e non sanno più evocare. L’efficacia dei simboli dipende dalla loro capacità di

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irradiare un riflesso sensibile da delle suggestioni, facendole così sembrare, nella percezione degli individui, dotate di una consistenza che non dipende dall’effetto prodotto dal potere evocativo dei simboli stessi e dal loro utilizzo. La prospettiva scientifica debilita l’espressività dei simboli in due modi. In primo luogo, le indagini della scienza consentono, con una tendenza progressiva, interventi diretti sull’organismo non necessariamente mediati dal linguaggio nelle sue forme figurative e verbali. Tecnologie sempre più accurate si mostrano in grado di generare e modulare nel corpo sensazioni impossibili da ottenere tramite le proprietà fascinatorie dei simboli. Poi, ad un livello di profondità maggiore, il procedere della scienza permette di comprendere che l’ordine simbolico è parte di un network di comunicazione che connette tra loro gli animali umani, configurandosi, in un modo ogni volta originale, soltanto nell’autopercezione degli individui coinvolti nel traffico di informazioni. Nell’universo esterno all’esperienza degli umani non esistono parole e la rete di nessi, lo spazio logico, l’ambito avviato e pervaso dal senso, l’intero nostro mondo, sono semplicemente assenti. I simboli, dunque, che alludono inevitabilmente ad un altrove e fingono sempre una sostanza, senza mai riuscire a spingersi, però, oltre la finzione, dimorano ora malconci, avverte Kafka, nella «ferita» che affligge l’interiorità evanescente dell’animale che parla.

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Nel Letto di Morte

«La famiglia era soddisfatta». Il dottore aveva finalmente snidato il male. Nell’euforia generale il «padre» del «paziente» invita nella stanza del figlio «numerosi ospiti», i quali fanno il loro ingresso e passano attraverso la «luce della luna» che illuminava la «porta aperta» avanzando «sulle punte dei piedi, tenendosi in equilibrio con le braccia tese». La circostanza, tuttavia, viene del tutto fraintesa dai congiunti, dagli «ospiti» e dallo stesso «giovane». Il medico racconta che «il ragazzo, con un singulto, completamente accecato dalla vita dentro la sua ferita», gli chiese con un filo di voce: «Mi salverai?». L’incomponibile differenza nei rispettivi concetti che distingue un miracolo da una terapia sfugge alla comprensione delle «persone» convenute nella «camera del malato». Le «persone», riflette il medico sconcertato, «hanno perduto le loro antiche credenze», così adesso si aspettano che il dottore sia «onnipotente». Ad un tratto, senza un motivo esplicito, la situazione si fa convulsa e precipita. Attorno al letto del «giovane» il gruppo dei sodali giubilanti si trasforma all’improvviso in una piccola folla inferocita. «La famiglia e gli anziani del villaggio – riferisce il

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medico – vennero e mi strapparono i vestiti di dosso». Davanti alla «casa» del malato, nel frattempo, il «coro di una scuola» iniziò a cantare «queste parole su una melodia semplicissima»: Spogliatelo, allora ci guarirà, Se non lo fa, uccidetelo! Solo un dottore, solo un dottore.

Lo scienziato, nudo, sempre più perplesso, rimase lo stesso «composto e idoneo alla situazione». La torma eccitata afferrò il medico «per la testa e per i piedi» e lo sdraiò sul «letto» del malato, «vicino al muro, dal lato della ferita». Uscirono tutti dalla stanza, «il canto si fermò; nubi coprirono la luna». Il dottore ed il «ragazzo» rimasero soli nella «camera». «Le teste dei cavalli nelle finestre aperte ondeggiavano come ombre». Steso sul medesimo giaciglio su cui era coricato il «giovane», il medico si ritrova in una specie di zona germinale del proprio esistere. La scena colloca il lettore all’interno della dinamica interiore dell’uomo di scienza, dove la storia inventata da Kafka ha una genesi che prende la sua inedita forma particolare, d’altronde, solo nell’autopercezione del lettore stesso. I simboli, dunque, tramite il racconto, rivelano la loro «ferita» direttamente, senza veli, nell’identica costituzione narrativa che compone l’interiorità del dottore e quella di chi legge la sua enigmatica avventura. Il dottore è il malato. Ma a differenza del «giovane» sdraiato insieme a lui nel «letto», lo scienziato percorre una via inaspettata che lo porta a capire che il suo male, come la «ferita» del «ragazzo», esprime simboli. Il corpo è «sano». Se anche fosse affetto da una patologia, comunque, l’organismo potrebbe essere probabilmente curato e guarito. In un futuro non troppo inverosimile, l’efficacia della sinergia tra scienza e tecnica potrebbe forse garantire all’organismo, ovviamente senza renderlo immune dalla morte, almeno un’apprezzabile salute per tutta la durata del suo funzionamento.

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I simboli, invece, non si possono sanare. La sola idea di una terapia diretta ad ottenere una qualche salute dei simboli e del loro impiego è sinistra. La «ferita» dei simboli immaginata dall’artista di Praga lascia affiorare tra le parole, non solo l’incognito, in quanto percezione che genera l’ordine simbolico come possibile, ma anche la «ferita» stessa come cruda risorsa. Il «giovane», costretto a dividere il proprio «letto di morte» con il dottore, nei suoi ultimi istanti si rivela sorprendentemente lucido e caustico al riguardo. «Una bella ferita è tutto quello che ho portato nel mondo», mormora il «ragazzo» al medico steso vicino a lui, «quella è stata la mia unica dote». La relazione tra il «giovane» ed il dottore si mostra tanto intima quanto densa di asperità. Il «ragazzo», trovandosi il medico accanto nella branda, reagisce aspramente. Il dottore riporta nel racconto le prime parole che il «giovane» gli rivolse quando si ritrovarono soli nella «camera». Sai – disse una voce nel mio orecchio – ho pochissima fiducia in te. Perché, sei stato solo trascinato qui, non sei venuto di tua volontà. Invece di aiutarmi, tu mi blocchi sul mio letto di morte. Quello che mi piacerebbe fare di più è strapparti gli occhi.

Lo scienziato non obietta, anzi conviene con il «ragazzo» e risponde che era proprio una «vergogna». Ma lui era un dottore. Cosa doveva fare? Il medico prova anche a recepire la prospettiva del «giovane», suggerendo poi una visione ulteriore. Mio giovane amico – dissi – il tuo errore è che non hai una veduta abbastanza ampia. Io sono stato in molte stanze di malati, dappertutto, e ti dico: la tua ferita non è così grave. Fatta con due colpi d’accetta ad angolo acuto. Più di qualcuno porge il suo fianco e a stento riesce a sentire l’ascia nella foresta, ancora meno che gli sta arrivando più vicina.

Il «ragazzo», titubante, fatica a credere e non è in grado di capire, ma non ha alternative, così chiede al medico: «È pro-

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prio così, oppure mi stai ingannando nella mia febbre?». La spiegazione della «ferita» presentata dallo scienziato non convince il malato e pare non funzionare. L’unica confusa nozione espressa dal dottore sembra essere che la «ferita» del suo «giovane amico», in realtà, non è anomala per niente e molti, anzi, offrono il «fianco» spontaneamente per riceverla, senza neanche rendersi conto di quello che sta accadendo. La prospettiva scientifica, per sua indole, dovrebbe chiarire, fornire dati, apportare conoscenza, dimostrare, spiegare. Le spiegazioni, però, non sempre sono possibili. Inoltre, quando si approcciano le turbolenze che inquietano l’animo inosservabile di un individuo, anche il mero tentativo di spiegare appare inadeguato. Il dottore, nondimeno, guidato dal rasoio speculativo di Kafka, lascia trapelare dal suo apparentemente sommario ed improbabile suggerimento al «ragazzo» un’intuizione valida. La «ferita» dei simboli, incisa nel corpo astratto del suo «giovane amico», non è atipica, non è indice di malattia, ma affiora inscritta nell’inedita natura dell’animale che parla. Una «ferita» così naturale che «più di qualcuno porge il suo fianco», candidamente, senza nemmeno accorgersi che il colpo fatale sta arrivando. Alla fine il medico risponde alla domanda che gli aveva rivolto il suo «giovane amico» chiedendo al «ragazzo» un atto di fede. L’unica credenziale che il dottore offre al «giovane» per indurlo a credere è il prestigio del suo ruolo e della sua professione. «È proprio così – disse il dottore – prendi la parola d’onore di un medico condotto». Il «ragazzo» accettò la parola del dottore e «giacque immobile».

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Io Vago Randagio

Il «tempo» per «fuggire» da quella palude era davvero arrivato. Non c’era un attimo da perdere. Raccolti in fretta i suoi «vestiti», la «pelliccia», la sua «borsa», il medico si accinge a partire. «Se i cavalli corressero veloci come all’andata – pensò il dottore – dovrei essere catapultato, come dire, fuori da questo letto nel mio». Un «cavallo», come avesse captato il frangente, «si tirò indietro dalla finestra». In tutta velocità, il medico lanciò il suo «fagotto nel calesse», la «pelliccia» stava cadendo, ma fu «presa al volo». Il dottore saltò in groppa ad un «cavallo» malamente allacciato all’altro, le «redini penzolavano lasche», il «calesse» seguiva dietro traballando e la «pelliccia» alla fine di tutto strascicava «nella neve». Il dottore ripeté convinto il medesimo segnale con cui lo «stalliere» aveva spronato i «cavalli» fuori dalla «porta» del «porcile». «Arri!», gridò. Ma non ci fu nessun «galoppo». Nel racconto, fino all’epilogo, gli eventi procedono in una direzione opposta alle propensioni palesate dai personaggi. «Lentamente, come vecchi – dice il dottore – ci trascinavamo attraverso le lande innevate». In lontananza, intanto, risuonava l’eco di una «nuova, ma fallace canzone dei bambini».

266 Siate contenti, tutti voi pazienti, Il dottore è steso nel letto con voi!

La «canzone dei bambini» non poteva essere più sbagliata. Nel «letto di morte» del «paziente» si è chiusa un’epoca. La prospettiva dello scienziato aveva sostituito l’immaginazione escatologica del malato che anelava alla salvezza. Lo sfondo psichico dell’animale che parla si era trasformato. Il «dottore» non è più «steso nel letto» con il «paziente». Il medico, d’altra parte, era stato attraversato dalla tragedia del suo «giovane amico» e la sua strada nella vita si fa così molto più complessa e perigliosa. Il prezzo del conoscere non è affatto marginale. Ad ogni vantaggio acquisito, infatti, corrisponde l’incremento impietoso della consapevole percezione della propria naturale irrilevanza. Il mondo di parole, la narrazione in qualsiasi forma, sorge come un’invenzione tutta nostra e riuscire a creare una trama interiore, frammentaria ed agile abbastanza da non risultare delirante, sembra essere ora il problema. «Non raggiungerò mai casa di questo passo – si arrovella il dottore – la mia fiorente professione è finita; il mio successore mi sta derubando, ma invano, perché non può prendere il mio posto». Kafka, non solo studia la tradizione, ma vaglia le “epoche cosmiche” del narrare con il fiuto e la sensibilità dell’animale. L’accenno alla figura di un «successore» del «dottore» richiama alla mente la parte finale del Nuovo Avvocato, dove l’artista di Praga nota che adesso «molti portano spade, ma solo per brandirle, e l’occhio che cerca di seguirli resta confuso». In un modo analogo, il «successore» di cui parla il dottore sembra destinato a brandire, al posto di una spada, una funzione, una professione. Nessuno, però, indica «la via». Una “direzione” da seguire non si può trovare, per il semplice motivo che non esiste un “luogo” dove “arrivare”. Il medico di Kafka si inoltra in un percorso diverso dall’itinerario intellettuale indagato dal destriero di Alessandro, divenuto

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un avvocato. Il tragitto del dottore, al tempo stesso, si mostra del tutto complementare alla rotta esplorata da Bucefalo. Le due figure sono parte di un medesimo sforzo speculativo, tracciato da Kafka per espandere l’interiorità generata dall’animale che parla tramite l’uso delle parole. Il dottore, suo malgrado, affronta la realtà di petto. Strano a dirsi di un personaggio che sonda fino in fondo la propria fragilità. Oppure è vero esattamente il contrario: senza investigare la realtà nuda e cruda, nella sua istantanea presenza, diviene forse impossibile avere una dimensione della propria inconsistenza. Nudo, esposto al gelo di questa epoca infelicissima, con un veicolo terreno, cavalli non terreni, vecchio uomo che sono, io vago randagio.

L’energia vitale sprigionata dai «cavalli non terreni» qui non ha più l’aspetto della combustione continua, immediata, conforme all’esistenza, schizzata fuori dal «porcile». Ora l’energia indefinita delle due «enormi creature» esprime una condizione del reale più fondamentale. Il tempo dissolve. Il presente si contrae, insieme ai suoi orpelli passati e futuri, in un unico gesto interminabile. Ogni minimo movimento resta «randagio», senza fine. L’esposizione consapevole e ininterrotta nell’assenza per creare quello che ancora non esiste richiede un dispendio di energia notevole. I «cavalli» del dottore, alieni, «non terreni», dunque, continuano a svolgere indubbiamente un inaudito e incessante lavoro. La trappola tesa da Kafka al lettore, tuttavia, scatta nell’ultima frase del racconto. Tradito! Tradito! Una volta risposto al falso allarme del campanello notturno […] non c’è più rimedio.

Come dire, una volta assecondata la malia del mistero effusa da un suono nella notte, le parole poi fanno il resto e alludono,

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per logica interna ed implicita necessità, ad un mondo dietro al mondo, a qualcosa di recondito da svelare, ad un senso da scoprire, ad una plausibile ragione per tutto. Ma noi, appunto, da tempo immemorabile abbiamo ceduto a questo sortilegio endogeno ed autoindulgente. Adesso, se Kafka ha ragione, ormai siamo ubriachi di parole e forse anche per noi «non c’è più rimedio». Sarà davvero meglio «fare come ha fatto Bucefalo» e «leggere e voltare le pagine» scritte da maestri, antichi e no, per almeno provare a non smettere di imparare. Smerillo, 10-09-2022 E. A.

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Di una irrinunciabile inconsistenza Enrico Arduin: in bilico, tra Omero e Kafka Postfazione di Massimo Donà

Ad un certo punto di questo teso e coraggioso lavoro – essenzialmente e radicalmente metafisico –, Enrico Arduin ci ricorda come, se per un verso e non di rado, nelle guerre dell’antichità (come quella narrata dall’Iliade), ragioni ideali e ragioni materiali ebbero a contrapporsi in modo non poco confuso, resta comunque inconfutabile che un certo numero di guerrieri queste sfide mortali riusciva a viverle ponendo al centro una vera e propria questione di valore. Tanto radicale quanto (come vedremo) assolutamente paradossale. Se cioè la volontà di ristabilire l’integrità dell’onore di Menelao (re di Sparta, la cui moglie era stata sedotta da Paride, figlio di Priamo, il re di Troia) sembra costituire il vero e proprio movente dell’attacco alla città di Ilio, la lega militare impegnata a realizzarlo è tenuta insieme da accordi di natura anzitutto economica. Che riguardano la spartizione del bottino di guerra; patti in virtù dei quali Criseide era stata consegnata ad Agamennone. Il fatto che poi egli sia stato costretto a restituirla (per placare le ire di Apollo – s’era infatti dimostrato disposto a liberare la giovane che gli era spettata come bottino di guerra, a condizione che ciò potesse servire a placare le ire di Apollo e a salvare i suoi uomini dalla pestilenza), non lo

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avrebbero autorizzato a pretendere una sostituzione; anche perché la refurtiva era già stata tutta distribuita. Agamennone vuole sequestrare Briseide, e toglierla ad Achille; perciò impone al guerriero di sottomettersi alla sua (di Agamennone) supposta superiorità (legittimata, secondo la tradizione, da Zeus in persona). Mentre Achille si muove sul filo dell’insubordinazione; e rende evidente come, ormai, di contro all’attitudine di Agamennone per l’abuso di potere, il dissidio tra il principe di Phthia e la cultura impersonata dal despota di Micene si sia fatto pressoché insanabile. Anche Tersite smaschera la prepotenza di Agamennone; considerando Achille uomo di gran lunga migliore del suo sovrano. Il fatto è che una crisi sempre più profonda stava debilitando la struttura dell’apparato di potere Acheo. Quella messa in scena dall’Iliade è insomma «l’avventura di un mondo scisso nella propria essenza» (supra, p. 67). D’altro canto, solo Achille avrebbe avuto il coraggio e la forza di ribellarsi. Achille non uccide il re, ma ingaggia una vera e propria guerra di parole; potente, inedita… comunque in grado di smontare l’universo dei Greci, in quel momento accampati su una spiaggia nei pressi di Ilio. Agamennone vuole andare di persona nella tenda di Achille a prelevare Briseide. Ma Achille, insieme a Diomede, Aiace e Odisseo… non approva il principio economico che regola le guerre in quell’epoca (implicante la giusta distribuzione del bottino di guerra). D’altronde, erano Achille e pochi altri, a tenere «la questione del valore al centro della loro esistenza» (p. 101). Ma Achille, ribellandosi alle pretese dispotiche di Agamennone, non sta chiedendo il semplice risarcimento di un premio che gli sarebbe spettato. No, egli ha ben presente la contrapposizione tra la tradizione, o il potere dalla medesima legitti-

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mato, e l’onore del singolo, ovvero la sua dignità di fronte alla morte. D’altronde, le parole di Sarpedonte, re della Licia, venuto in soccorso dell’esercito troiano, non lasciano dubbi: anche queste contrapposizioni hanno senso solo per gli umani. Lo scannarsi a vicenda che vede gli umani combattersi gli uni contro gli altri non ha senso alcuno. Perché nulla di ciò per cui gli umani sono disposti a mettere in gioco la propria vita è destinato a durare. Il fatto è che nulla “sta”; e dunque ha valore. Tutto, cioè, si lascia travolgere da un mutamento senza sosta, analogo a quello che anima qualsivoglia espressione della natura; una natura che consiste, di fatto, «semplicemente nel proprio stesso immediato mutare» (p. 103). Glauco lo dice con la massima nettezza: ogni singolo essere umano, come il fogliame della foresta, si fa assorbire dal fluire indistinto del tutto; quello in cui tutto nasce e muore senza scopo, senza direzione, senza principi. Lo sa bene anche Achille, che proprio per questo avrebbe potuto spingersi a smontare la pretesa solidità del mondo Acheo, fondato peraltro su una antichissima tradizione. Anche le grandi azioni degli umani sono del tutto inconsistenti; «la vita di un uomo non torna indietro» (p. 104), afferma il ribelle Achille. D’altronde, le grandi azioni degli umani disegnano un orizzonte narrativo solo in quanto qualcuno, ossia un individuo, si presti a riconoscerne il valore; un valore aperto peraltro solo dallo spazio dell’arte. Dalle narrazioni di cui è fatta l’Iliade, ad esempio. Solo questo “vale”; sì, solo il soffio di cui è fatta l’opera d’arte. Per quanto si tratti di pura inconsistenza priva di effettivi contatti con il reale. Struttura valoriale che sussiste solo in virtù del canto del rapsodo; ma anche quest’ultimo, come tutto, rileva giustamente Arduin, è travolto dal destino della natura,

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e segue l’inevitabile successione delle generazioni, che vanno e vengono, come le foglie degli alberi. D’altro canto, Sarpedonte lo dice chiarissimamente: il nostro unico sogno è vivere in eterno; anche perché, se vivessimo in eterno, non avrebbe senso alcuno combattere in prima linea. Ma solo se vivessimo in eterno, per l’appunto. In questo caso, infatti, che senso avrebbe meritare la fama? Si tratterebbe di una folle stupidità. Il fatto è che, comunque, tutti gli umani muoiono. Da cui la contingenza assoluta di tutto; condizione intrascendibile cui appare sottoposto ogni essere umano. Ed è proprio nei momenti culminanti della battaglia che la realtà si mostra nuda e cruda per quel che essa veramente è: caduca, inconsistente, insensata. Una sorte che accomuna tutti quelli che pur si combattono gli uni contro gli arti armati: quella che li costringe, tutti, cioè, ad esporsi al rischio della morte. O muoio io o muore l’altro; mors tua vita mea. Se voglio vivere, devo eliminare il nemico: ecco il baratro di una desolazione assolutamente priva di senso. Insomma, è proprio sullo sfondo di questo caos universale che irrompe la possibilità dell’arte; ossia, le parole cantate dal rapsodo. Da intendersi come invenzione di un valore assolutamente virtuale; che, solo, peraltro, sembra in grado di contrapporsi al flusso inarrestabile che, di ogni cosa, mette in luce l’insensata caducità, ossia la natura effimera ed assolutamente inconsistente. Solo il valore generato dal rapsodo, infatti, sembra essere in grado di contrapporsi al destino di morte cui tutto appare sottoposto; ma lo fa, appunto, rendendo nello stesso tempo palese l’irrilevanza di quello che è da ultimo un puro vuoto. Pura mancanza di senso, cioè, come quella che caratterizza il reale tutto intero.

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Ed è proprio nel nome di questo valore assolutamente paradossale che Achille sfida Odisseo, Aiace e Fenice – gli ambasciatori inviati dallo stato maggiore acheo. Ossia, da Agamennone. Per Achille, infatti, la “vita”, la nuda vita, ha più valore di tutte le ricchezze possedute dalla città di Ilio. Il suo, infatti, è un valore, che, se lo perdi, non puoi recuperarlo, come accade invece con le ricchezze materiali – sempre scambiabili, vendibili e ricomprabili. Solo la vita, una volta perduta, non torna più indietro. Da ciò la sua natura irrimediabilmente effimera; che però supera tutta la ricchezza costituita da merci comunque scambiabili e quantificabili; e per ciò stesso paragonabili. Il fatto è che Achille paragona la vita (non quantificabile) alle grandezze quantificabili; dando vita ad un paradosso assoluto. Sì, perché la vita non dovrebbe lasciarsi paragonare; non dovrebbe venire paragonata, proprio in quanto non quantificabile. Un ma­ ius, questo, che ricorda tanto l’inqualificabile superiorità che avrebbe caratterizzato il Dio anselmiano, e che si presenta già qui, comunque, come istituzione di un “paradosso assoluto”: che consente di valutare come non-valutabile, per l’appunto, la vita; la quale viene valutata in questo modo proprio in virtù di un paragone che tiene insieme l’inqualificabile e l’orizzonte del qualificabile (tutta la ricchezza – la sfera dei valori che possono essere calcolati e determinati). Dove, il “di-più” conferito alla vita indica una quantificazione assolutamente paradossale, che costringe a rompere l’anello che avvolge la totalità del quantificabile. Un di-più, insomma, che rompe la catena dei meno e dei più. Un di-più, cioè, che equivale al meno. Un più che “non-è” un più. E che non ha il senso che ha. Che si distingue, cioè, senza distinguersi dall’insensatezza che caratterizza tutto il quantificabile e scambiabile (che, proprio in quanto scambiabile e tranquillamente sostituibile con qualsiasi altra cosa, non ha alcun significato, o meglio alcun valore

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“specifico”); che si distingue da esso, dunque, solo in quanto si pone oltre il criterio della scambiabilità. Anche se, per far questo, deve istituirsi come non-quantificabile, ossia come non riducibile all’indifferenza che caratterizza le cose scambiabili, negando cioè che il di-più che lo pone al di fuori dell’universo della scambiabilità sia un vero e proprio “di-più”… analogo, cioè, a quello che dice la misurabilità caratterizzante le cose di un mondo sempre e comunque riducibile al quantum. Deve cioè dire che il proprio “di-più” non è un “di-più”; anzi, che tale più è identico al meno. D’altro canto, chi valuta in modo tanto paradossale la vita del­l’essere umano è un individuo, un soggetto comunque inscritto nell’insensato fluire che tutto rende contingente e da ultimo inessenziale. Il suo è dunque un valore che non è un valore, rileva giustamente Arduin. Inestimabile, quindi, finisce per essere anzitutto il paradosso che fa di quel valore la stessa cosa di un non-valore. Decisione assolutamente arbitraria, cioè, quella di attribuire un valore assoluto a ciò che non dura, che è unico e non restituibile proprio per la sua contingenza assoluta. Perciò, rileva l’autore di questo bellissimo volume, Achille si ritrova a indagare «il vuoto che pervade il “valore”, incalcolabile, aggiudicato da un umano mortale all’effimera “vita di un uomo”» (p. 112). Alla vita caduca viene assegnato un valore inestimabile; un valore che viene peraltro scorporato dalla vita che in verità appare irrimediabilmente caduca. Ecco perché la vita, scorporata dal “suo” valore assoluto, può anche terminare prematuramente; a “rimanere” essendo sempre e solamente la “gloria”. Una fama che prevale separandosi dalla vita; la quale può anche

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finire repentinamente, rivelando così tutta la propria costitutiva inconsistenza. D’altro canto, la vita cui Achille assegna un inestimabile valore (pur paradossale, in quanto connesso e insieme non connesso alla vita di cui dice appunto il valore) è la sua. Achille, cioè, attribuisce un valore inestimabile a sé medesimo; alla propria assoluta contingenza. Alla propria effimera esistenza. A quella caducità che lo rende simile a tutti gli altri esseri umani; insomma, Achille attribuisce un valore inestimabile all’esistenza di ogni singolo individuo; in quanto ogni vita, nel terminare, non può certo tornare indietro. Ma gli uomini che vengono considerati come merce da Agamennone, in quanto suoi semplici sudditi, non sono depositari di una vita dal valore inestimabile; infatti, in quanto semplici sudditi, essi sono assoggettati ad un apparato di potere che li rende in ogni caso scambiabili e dunque mai realmente insostituibili. Non a caso Agamennone avrebbe voluto che anche Achille si adeguasse a tale sudditanza; che riconoscesse cioè l’incondizionato potere del sovrano. Ma Achille si ribella e (nel discorso che rivolge ad Agamennone per introdurre il suo grande giuramento) giunge ad affermare che anche il simbolo di quella sovranità (lo scettro, simbolo di un potere divino, indistruttibile, derivante dagli dèi) è solo un bastone senza vita; un pezzo di legno mozzato. Anche il suo valore è cioè tutto nella mente degli umani. Ma così facendo, Achille rompe il legame con l’orizzonte narrativo rappresentato appunto da Agamennone, e dal potere da quest’ultimo effettivamente incarnato. E disegna un vero e proprio “taglio”; un po’ come quelli di Fontana; un taglio che parla di una scissione non solo autentica, radicale e assoluta, ma in quanto tale anche perfettamente irrimediabile.

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Ormai, la visione di Achille appare in tutta la sua inassimilabilità alla narrazione del potere rappresentato da Agamennone, e dall’assenso a lui riservato dai figli degli Achei. Achille, cioè, non può sottomettersi alla logica del potere; egli non riesce a sottostare a quell’indistinto plesso che fa, di ogni discorso, “un’azione”. D’altronde, solo lui capisce che le parole possono anche rivelarsi fuorvianti; e contrappone alle medesime un discorso capace di distinguersi dalla menzogna che la società sembra non poter fare a meno di imporre agli umani, e di imporla come indistinguibile da una verità altra dalla medesima. Certo, Achille non può tirarsi fuori; sì, perché fa anche lui parte di quella società; anche contrapponendovisi, infatti, mostra di partecipare alle sue contraddizioni. Qualcosa, dunque, vincola e separa, in-uno, Achille alla società del suo tempo. Achille si ritrova solo senza potersi mai separare dalla società rispetto a cui si sente assolutamente avulso; il suo è cioè un isolamento ancora una volta paradossale. L’essenza del suo isolamento manifestandosi proprio nella semplice impossibilità di isolarsi. Achille nega il fondamento su cui poggiano i valori espressi dalla tradizione; perché ha visto il “vero” – ci spiega Adam Parry. Perciò non può accettare il linguaggio comune; ossia, le doxae che sente non corrispondere più alla realtà. Eppure, la sua vita continua ad accadere nel mondo rispetto a cui si sente ormai totalmente estraneo. Egli, cioè, canta le grandi azioni degli umani; ma quelle vicende gloriose accadono solo nella sua mente. Il poema, infatti, è un oggetto mentale nello spazio virtuale in cui la guerra non è affatto. C’è quindi uno scarto incolmabile tra “fatto” ed “evento”; e il poema è un evento. Nessun fatto venendovi in

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verità assolutamente rappresentato; si tratta cioè di un evento che accade, repentino ed irripetibile, come la vita dei mortali. Non a caso, non v’è materia in esso. E la forma affiora nella mente… affiorando in quella proiezione immateriale del corpo a cui diamo il nome di mente. Sì, perché, secondo Arduin, anche l’evento mentale nasce dal corpo; anzi, si configura proprio come una proiezione immateriale del medesimo. È dalla materia che si genera, dunque, l’assolutamente immateriale. Ecco perché l’arte può varcare la soglia contingente dell’esistere e lasciare una traccia durevole nella mente dell’uditore; può farlo solo per il suo farsi immateriale. Solo così essa può infatti procurare “fama” e “gloria”; e acquisire un valore – al punto da trasformare una contingenza assoluta nell’intangibile esperienza di un valore. Tutto questo, comunque, trova la sua definizione più radicale nel Libro XXIV dell’Iliade; dove il rapsodo coglie Achille e Priamo in una sorprendente intimità. Il padre di Ettore e l’iracondo Achille si contrappongono rendendo evidente una inguaribile inconciliabilità. Perché quella che finiscono per disegnare è una vera e propria opposizione assoluta. Perciò i due si contraddicono come gli elementi antitetici di una vera e propria contraddizione logica; mostrandosi in ogni caso indispensabili, ognuno al proprio altro; in virtù di una connessione palesata dalla coerenza di un nesso che si mostra sub eodem perfettamente incoerente. Ecco perché, nello spazio logico disegnato dalla mente e dalla ragione, senso e mancanza di senso disegnano un orizzonte radicalmente insuperabile. Contraddizione e non contraddizione collidono e costituiscono una medesima possibilità di

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senso, che sempre dovrà peraltro riconoscere la propria costitutiva e originaria insensatezza. Priamo era il padre di Paride, che aveva sottratto Elena a Menelao; ma era anche il padre di Ettore, che aveva ucciso Patroclo. Achille rappresentava chi tutto questo stava per l’appunto combattendo; sia pur da estraneo, anche rispetto alla propria compagine militare. D’altro canto, anche i significati nascono da uno sfondo mobile fatto di sinapsi e circuiti neuronali del tutto privi di significato. Achille, insomma, combatte solo per vendicare Patroclo; e non come rappresentante di una tradizione o di un potere rispetto a cui si sente invero radicalmente estraneo. Egli combatte per un valore che non coincide con l’interscambiabilità sancita da un principio comparativo concepito in termini puramente economici. L’abilità di distinguere e confrontare, di paragonare, dunque, è essa medesima espressione dell’indistinto e dell’imparagonabile. Così come il valore assoluto e inquantificabile della vita vive quale espressione dei movimenti insensati prodotti da uno scambio che rende e fa essere tutto equivalente. Ogni opposto facendosi espressione dell’assolutamente altro da sé. In ciò la radice della loro indisgiungibilità. Ma l’antitesi tra Priamo e Achille non è solo “logica”; ma anche esistenziale. Da cui la contraddizione di cui essi costituiscono i poli (assolutamente contrapposti l’uno all’altro); ognuno dei quali, peraltro, funge da lugubre presagio per l’altro, e rende cocente il dolore per il lutto subìto. Eppure, tutto accade entro l’orizzonte disegnato dalla mente; Priamo e Achille sono semplici parole, rileva rigorosamente Arduin.

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Sono personaggi di un poema, di un’opera d’arte; per quanto, anche nella loro vita, ad esprimersi sia sempre e comunque «il mutevole processo di quella proiezione immateriale del nostro corpo che chiamiamo mente» (p. 158). Insomma, l’astrazione dice il farsi altro da sé della più afona delle materialità. In cui nulla significa, eppure tutto sembra destinato a produrre l’inconsistente significatività che è propria anche dell’opera d’arte. Nonché le sue astrazioni concettuali. Il sacerdote Crise era stato maltrattato da Agamennone, che non voleva riconsegnare la figlia Criseide, mentre qui Achille accoglie Priamo con tutte le attenzioni del caso. Quest’ultimo, infatti, è venuto a chiedere la restituzione del corpo di Ettore. Ad ogni modo, l’iracondo Achille incarna una modalità di gestione del potere totalmente estranea e radicalmente incompatibile con i principi che governano le decisioni nell’universo degli Achei governati da Agamennone. Il bardo percorre un oceano di storie inventate, e rappresenta i due nemici uniti in un abbraccio che comprende le loro comuni lacrime. Unità indissolubile è infatti la loro; che è tale proprio in ragione dell’assoluta inimicizia che li contrappone l’uno all’altro. Paradosso dei paradossi. D’altronde, è la sorte di ognuno di noi a venire decisa dall’estro di Zeus; mescolando gioie e dolori, infatti, la divinità estrae da due urne contrapposte (una contiene il male, l’altra il bene) gli inconciliabili… e li confonde nell’animo di ogni essere umano (li confonde perché gli opposti assoluti non possono, in alcun modo, distinguersi). La mistura è ogni volta diversa, e dipende da una origine imperscrutabile che i moderni avrebbero definito “caso”. Anche qui, il destino di ognuno dipende da un gesto del tutto contingente, eventuale, da nessuno prevedibile o in qualche modo modificabile. Comunque, la percezione del dolore

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dell’altro unisce Priamo e Achille; eppure ognuno dei due è causa del dolore dell’altro. Insomma, essi si incontrano «nella dimensione liminale della loro alienazione dal mondo di cui fanno parte» (p. 167). Ognuno è causa del male dell’altro; ma sa anche di essere il suo semplice rovescio; allo stesso modo in cui le astrazioni concettuali o mentali sono il rovescio di dinamiche cerebrali del tutto estranee all’ordine logico e mentale istituito dalle parole. E viceversa. La sorte di entrambi dipende da un semplice capriccio degli dèi; dall’estrazione del tutto casuale del bene e del male dalle due urne di cui sopra. E proprio la comune consapevolezza di tale arbitrio li fa sentire, proprio nell’opposizione radicale che li fa essere ognuno nemico del proprio altro, assolutamente fratelli. Espressioni di una opposizione tanto radicale da farsi capace di dire il medesimo. Ché, se l’uno è solo il negativo dell’altro, è anche vero che ognuno è quel che è solo in quanto dice l’altro da sé, sia pur negandolo. Negandolo, peraltro, senza sostituirlo con una determinazione diversa. Ognuno dei due, infatti, è davvero solo “negazione” dell’altro. Così come ogni parola e significato che il mentale riesce a comporre in un logos unitario e ordinato non sono altro che effetto del negarsi della natura elettrochimica di una realtà che non dipende certo dalla mente. Ormai Achille e Priamo assorbono in se stessi l’intero sfondo della saga; tutto si concentra nei corni di un’aporia che rende ragione di un anelito da sempre vocato a muovere gli umani verso i confini della totalità. Come la Macedonia non poteva contenere e bastare alle ambizioni di Alessandro (l’aveva capito anche il padre Filippo), così anche il mentale non può fare a meno di riconoscersi quale effetto del rovesciamento

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del materiale. E dunque non può evitare di oltrepassare una dimensione che nello stesso tempo continuerà ad impedirgli di varcare i propri confini. Il logos non può fare a meno di riconoscersi oltrepassato da un alogos di cui nello stesso tempo dovrà riconoscersi effetto immediato. D’altronde, di cosa può dirsi negazione l’a-logos, se non del logos? Perciò quest’ultimo si supera ab origine in un alogos di cui rimarrà comunque immediata espressione. E poi, dove l’alogos può manifestarsi come “negazione” se non là dove qualcosa come un logos viene a costituirsi? Certo, nel nostro tempo nessuno osa più tracciare una via verso una meta irraggiungibile. Come fece Alessandro; volendo egli estendere i limiti «dell’impero macedone fino alle coste del Mare Esterno» (p. 34); sì da poter assoggettare da ultimo il mondo intero. Tanto da affacciarsi proprio sul nulla – cioè su nulla di esterno; guardando quindi ad una “destinazione veramente ultima”. Ciò che nessuno oggi oserebbe più fare. Essendo venuto definitivamente alla luce il fatto che nessun limite può più dirsi realmente “ultimo”. Essendo venuto in chiaro, cioè, che nessun limite può vincolarlo, il “tutto”; concetto per definizione in-condizionato. Mentre Alessandro poteva ancora immaginarsi di riuscire ad abbracciarlo, quel tutto; anzi, non poteva fare a meno di immaginarselo, e anzitutto per un motivo: per il fatto che ogni essere umano brama sempre e solamente di conoscere il vero; ovvero, ciò che può apparire solo là dove ogni cosa si dica insieme a tutto ciò che la de-termina. Solo in prossimità del vero, infatti, è possibile riposarsi; senza trovarsi costretti, da ultimo, a combattere finanche contro sé medesimi. Ma il tutto mai potrà apparire; Severino avrebbe detto: mai l’apparire infinito può sopraggiungere nell’orizzonte dell’apparire finito. Perché,

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se apparisse, apparirebbe nella sua contrapposizione a “nulla”. Ma se si contrapponesse davvero al tutto, il nulla sarebbe. Se nulla si contrapponesse al tutto, il nulla non sarebbe nulla; ma sarebbe qualcosa. Anche solo il riflesso del ricercante. Quello con cui si sarebbe trovato a combattere lo stesso Alessandro. Arriano lo dice chiaramente, che, se non avesse trovato più nessuno contro cui lottare, Alessandro «avrebbe combattuto con se stesso» (p. 42). Insomma, un altro ci sarebbe sempre dovuto essere, per Alessandro; si fosse trattato anche della sua persona; in quanto altra da sé, e fattasi oggetto a sé medesimo. In ciò l’intrascendibilità di un orizzonte fatto tutto di alterità; e il farsi consapevoli del fatto che il valore incommensurabile è solo quello della vita; non della morte. Anche di fronte al nulla, infatti, Alessandro avrebbe continuato a riconoscere un nemico da combattere: sé stesso. Prodotto dall’ineludibile farsi altro da sé da parte della sua persona. D’altro canto, in quanto “altro” finalmente raggiunto, il nulla si sarebbe esso medesimo rovesciato in un altro essere. Da cui l’infinità del percorso, e una guerra senza fine. E la necessità di un oltrepassamento che, proprio volendo il tutto, vuole quell’assoluta alterità che, proprio in quanto assoluta (quale è appunto l’alterità del nulla), è destinata a dire la più radicale delle identità. L’identità tra Priamo ed Achille; tra mente e corpo; tra senso e non-senso; tra essere e nulla. L’identità che solo gli assolutamente opposti sono in grado di dire. Individui assoluti, dunque, Priamo e Achille, fendono la trama di una lunghissima tradizione; individui senza terra, senza casta, senza mito, rileva acutamente Arduin; essi sono l’unica condizione di possibilità di un vero e proprio nuovo inizio. Assoluto, incondizionato, irripetibile… come la vita.

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D’altro canto, ogni determinazione positiva ha il suo rovescio; anche il tutto, infatti, ce l’ha – l’impossibile nulla che lo destina a non finire mai. A riconoscersi vuoto; assolutamente silente. Ché solo di silenzio è fatto il brusio che ogni cosa produce nel contrasto e nella corrispondenza anche polemica con tutte le altre. Come il canto delle sirene; che Arduin analizza sullo sfondo del rovesciamento operato da Kafka rispetto alla narrazione omerica. La potenza di un canto che travolge un’infinità di esseri umani ha infatti il suo segreto proprio nel silenzio; vera e propria arma fatale, come ben dimostrato dallo scrittore praghese. L’Ulisse kafkiano, insomma, non poteva che essere solo; assoluto, consegnato a sfidare il silenzio che mostra l’illusorietà di tutto quel che costituisce il molteplice esperienziale. Anche dei compagni di Ulisse, dunque. Per questo l’Ulisse kafkiano non poteva che svelare la propria vuotezza; la nullità di tutto quel che avrebbe dovuto metterlo in pericolo. Ulisse è un puro processo mentale; a cui non corrisponde nessun pericolo concreto all’esterno, nel mondo reale. Perché lo stesso mondo reale ormai palesa il proprio costituirsi come prodotto di una semplice costruzione mentale. Creature puramente mentali, anche le Sirene, dunque; come l’artista del digiuno, che non è certo un asceta, rileva giustamente Arduin. Non è un dualista; non aborre il corpo per far emergere la potenza dello spirito. L’artista del digiuno vive ed ha senso solo per i suoi spettatori; esiste solo in relazione al costituirsi di uno stuolo di spettatori. Per questo la sua vera meta è costituita da un digiuno infinito; che peraltro gli viene costantemente sottratto dal padrone: l’impresario che non vuole che il digiuno comprometta la possibilità di far continuare il suo spettacolo.

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Il digiunatore avrebbe voluto continuare all’infinito; nulla potendo limitare dall’esterno la sua scelta. Fermo restando che anche il suo show, come ogni prodotto della mente, sarebbe dipeso da «disposizioni più o meno complesse e transitorie della materia» (p. 189). Ma non perché siamo tutti convinti che la mente dipenda dal corpo; ossia, per il fatto che non si è mai vista una mente che non funzioni in quanto animata dal «flusso di una infinità di elementi, i quali solo nella loro continua combinazione assumono la forma degli atomi di senso necessari alla fabbrica del tessuto immateriale della coscienza» (p. 191). No; quello che tiene insieme mente e corpo è semplicemente quel legame di assoluta differenza che comporta l’impossibilità di determinare la loro stessa distinzione. Si tratta infatti di opposti assoluti. Come potrebbe quindi la mente uscire da sé, e toccare l’alterità del corpo? Come, se non “concependo” lo stesso corpo, che rimane dunque un concetto della mente, posto e riconosciuto come tale da una mente? E poi: come calcolare i processi mentali, ovvero i contenuti consapevoli della mente? Impossibile misurarli, calcolarne i flussi e le dinamiche, come facciamo con le quantità misurabili «in cui si risolvono i segnali elettrici, mediati in modo chimico» (p. 192); quelli che riguardano il cervello. Ossia, una sostanza materiale. Eppure, la mente riconosce tutta la propria arbitrarietà; il proprio doversi fondare su qualcosa di insignificante che pur si dispone al calcolo. Ovvero, la propria radicale infondatezza. Da cui il suo doversi riferire ad un “altro” (un assolutamente altro) che non si sarebbe mai dovuto ricondurre ad una “reale

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distinzione”; come quelle che stabiliamo e calcoliamo a livello di flussi cerebrali. Come quelle che connettono i “relativamente diversi”. Insomma, per dirla con Derek Bickerton, il pensiero online (quello animale e sensibile, connesso al corpo e alla materia) non fa altro che sperimentare un presente privo di discorso e dunque di senso. Esso sperimenta cioè un’immediatezza che solo il discorso avrebbe potuto riconoscere e significare come l’assolutamente insignificante (anche se perfettamente calcolabile). Mentre il pensiero offline proprio degli esseri umani non riconosce alcuna realtà esterna; tutto costituendosi appunto come oggetto della coscienza per una coscienza. Tutto essendo oggetto di una consapevolezza che non lascia spazio ad inconsci di sorta (necessariamente appartenenti, tutti, al pensiero online). Certo, alquanto problematico risulterà quindi far derivare le capacità connesse al pensiero offline da un mutamento nel pensiero online. Se è vero che «la natura non prevedeva nulla del genere: la possibilità che affiorassero fonemi, parole, concetti, nemmeno esisteva» (p. 197), allora come, e in base a cosa, ipotizzare che «una fondamentale mutazione degli animali umani e del loro apparato comunicativo sia avvenuta» (p. 198)? Come avrebbe potuto, cioè, il pensiero online trasformarsi e farsi pensiero offline? Come, se non in virtù di una semplice ipotesi del pensiero offline, che sembra non poter fare a meno di riconoscersi fondato su qualcosa che nulla può aver a che fare con i discorsi ed i fonemi ad esso familiari. Se i concetti e le loro diramazioni «non sono presenti nella natura elettrochimica della realtà, che non dipende dalla mente»

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(p. 200), da cosa potrebbe essere stata generata una trasfigurazione tanto radicale? Che il conoscere mantenga una radice nelle strutture fisiche degli eventi (le quali mai potranno accedere e farsi davvero riconoscere dalla dimensione immateriale propria delle correlazioni tra vocaboli) non può venire riconosciuto se non a partire dall’orizzonte disegnato da quell’immateriale che nulla può sapere, appunto, del puramente fisico; quello che si limita «ad eseguire le operazioni di computo previste dalle istruzioni impartite dai loro algoritmi» (p. 190). Eppure, l’immateriale familiare alla mente le presuppone; deve porle, cioè, come propria condizione originaria. Deve porle per il semplice fatto di essere in grado di riconoscere l’originaria insensatezza su cui si fondano ogni senso e ogni discorso… sempre e comunque necessariamente vuoti. Ossia, del tutto privi di fondamento. E che nessun conflitto dell’Homo Sapiens avrebbe mai potuto giustificare. Nessuna materia avrebbe infatti potuto immaginare e sognare di muoversi contro l’impossibile. Perciò, forse, oggi – nel tempo delle infinite connessioni e delle sinapsi cerebrali – la mente rischia di rinunciare ai propri sogni. Perché troppo ingenuamente rischia di consegnarsi ai calcoli di un hardware; e finisce per far credere che l’intelligenza possa davvero emergere dall’ordito fisico della realtà. E non sia altro che l’effetto di una evoluzione che «dall’organismo degli animali umani [avrebbe fatto emergere] individui articolati di parole» (p. 203). Se così fosse, come potremmo spiegare l’irrompere di sorprendenti creazioni mentali capaci di immaginare l’impossibile? Il salto, se è avvenuto, ha la stessa natura della sorte gratuita e casuale in base alla quale Zeus assegna ad ognuno il proprio destino; ossia non spiega nulla. E consegna quella che un tempo era la capacità di pensare l’impossibile (e che animava

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Alessandro il Grande) ad un semplice avvocato; del tutto privo dell’inquietudine che aveva animato l’originario Bucefalo, il cavallo di Alessandro. Non a caso, affidato alle proprie crea­ zioni mentali, l’avvocato kafkiano, risolve il proprio universo mentale in una stanza senza limiti, ormai dimentica della necessità di un assolutamente altro. E dunque perfettamente identica ad un plesso di stimoli elettrici del tutto privi di un mito o di una tradizione da negare. Che scivolano, perciò, fluidi, nella dimensione senza materia e senza tempo di un semplice “racconto”. Proiezione diafana di un soggetto impegnato a comunicare; e a trasformare l’energia vitale in assenza di materia, e dunque in mondo interiore. Come quello che, nel racconto kafkiano analizzato al termine di questo itinerario da Arduin, fatica a definire il crinale mobile che distingue il vero dal falso o il senso dal non senso. Per quanto ne abbia bisogno; almeno per sopravvivere, infatti, ha bisogno di figurarsi quanto meno un frammento di stabilità. Per quanto l’ambiente che lo accoglie (quel mondo interiore) non preveda il costituirsi di alcuna identità o permanenza. Esso è infatti costituito di sola energia; che ha continuamente bisogno di alimentarsi e rilanciarsi. Ma l’universo interiore dal medesimo di fatto ospitato e reso possibile potrebbe anche dimenticare la propria origine, la propria condizione di possibilità e crescere con le proprie certezze… finendo per perdere ogni contatto con il miasma indomabile che, solo, può averlo alimentato. Sì da dimenticare la propria essenziale funzione critica; e adagiarsi nella comoda bambagia costituita da una inquantificabile teoria di dogmi. La cui rigidità corrisponderebbe, peraltro, alla rigidità del ghiaccio che ha ucciso il cavallo del dottore. Ossia, del medico di campagna che si trova bloccato in virtù del gelo provocato dallo stesso calore tiepido infuso dalla sua protetta realtà interiore. E da oggetti mentali che assumono di volta in volta

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la parvenza di oggetti materiali od oggetti immateriali. E che, per quanto prodotti dalle sinapsi neuroniche di un cervello decisamente materiale, si risolvono tutti nell’inconsistenza di parole connesse tra loro solo da vincoli grammaticali, quali figure senza corpo in relazione a cui il senso finisce per obliare la propria origine paradossale. Potendo peraltro riverberare l’autentica energia che attraversa ed anima finanche le creature più evidentemente immateriali (come le enormi creature che sbucano fuori dal porcile); come quelle che testimoniano di costrizioni prodotte addirittura dalle più innocenti esigenze di significato, e che reclamano sempre e comunque un “impossibile”, ma purtuttavia necessario, aggancio con il reale. Che è sempre difficile, faticoso… e che destina il medico di campagna alla perdita di qualsiasi cognizione non fittizia di sé. Per quanto rendendolo capace di un’azione incomprensibile come quella di uno stalliere che finisce per mostrare l’equivalenza di falso e vero. Per mostrare, cioè, che la stessa «articolazione della verità affonda le radici nell’assurdo della propria stessa negazione, dove parole e pensiero agganciano l’esistere» (p. 225). Diventando un’unica possibilità di vita – come aveva avuto modo di capire Bucefalo, intento a sfogliare i suoi antichi tomi. Eppure, l’indomita e irrazionale energia che la coscienza del medico ha modo di “concepire”, descrivere e fagocitare nel vortice dei propri ragionamenti, è l’unico possibile teatro sul cui palco le parole del dottore possano farsi autentica forma di vita. E significare; finanche l’istantanea presenza del corpo nella mente. Testimoniando un immateriale che neppure appartiene alla mente; ma che ha un unico impossibile compito – quello di traghettare i processi mentali attraverso il moto impossibile, immediato, del presente. Facendone l’immediata figura di ciò che nessuna mente avrebbe mai potuto abbracciare con il pro-

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prio sguardo necessariamente oggettivante. Ovvero, di quella dimensione senza materia in cui spazio e tempo perdono la propria consistenza fisica e matematica; in cui, insomma, non v’è più direzione… in cui non v’è un luogo dove andare. Ma dove l’energia – come quella rappresentata dai due cavalli, ossia dalle enormi creature, alogiche e non terrene – consente di raggiungere la meta indipendentemente da ogni processo, ma anche da ogni ordine logico, e dunque da ogni sequenza temporale. Di raggiungerla cioè nell’immediatezza di un presente senza tempo come quello che catapulta il medico davanti all’alloggio del suo paziente senza che alcun viaggio sia stato empiricamente compiuto. Ma anche qui viene a disegnarsi un’ennesima opposizione as­ soluta: quella tra le parole del medico, ovvero dello scienziato, cioè tra la sua interiorità… e il mondo esterno: emblematizzato appunto dal paziente, da Rosa, dal cavallo morto nella notte, dalla camera del malato, dal paziente. L’intimo da cui scaturiscono le parole nel suo animo, nel suo intimo si mostra appunto come una semplice “assenza”. Come un luogo che non c’è; ma che affiora etereo e reale quale processo volto a generare anzitutto la propria stessa possibilità. A generarla dal nulla di senso che tutto sostiene e rende possibile; dicendo anzitutto se medesimo. O meglio la propria volontà di essere qualcosa; «figurando nella contingenza lo spazio ed il tempo necessari per il generarsi dei vocaboli e di un registro astratto dell’esistere» (p. 232). Per fare di ogni parola una storia, ed originare una sorta di nicchia nella materia cosmica; quella che chiamiamo appunto “narrazione”, precisa Arduin. E che purtuttavia sperimenta – e non potrebbe farne a meno – il proprio ineludibile sfaldamento. Ossia, la trasformazione della storia in un semplice e «reiterato groviglio di rimandi, frammenti, risonanze di senso» (p. 233). Che rendono i diversi identici, ma lasciano nello stesso tempo in vita anche

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la loro differenza. Per questo il malato non è il dottore, ma il dottore può invece essere il malato. L’uomo di scienza, il medico, prova infatti un’autentica repulsione verso l’origine fosca e confusa in cui affonda le proprie radici l’immateriale di cui è responsabile la sua psiche; e dunque la sua stessa storia. La stessa in virtù della quale il paziente diventa un semplice specchio, destinato a mostrare allo scienziato la matrice fantastica del suo stesso sapere. Un sapere che ogni volta finisce per mostrargli che il malato non è affatto malato. Il medico, infatti, capisce bene che il malessere del paziente non ha una causa diretta nel modo in cui funziona il suo organismo. Eppure quello sta male; ma è quanto mai complesso distinguere una malattia da uno stato di dolore che «non abbia nessuna causa tracciabile nell’organismo della persona afflitta» (p. 234). In ogni caso, nessuna connessione necessaria tiene insieme il dolore e la malattia. Il ragazzo disteso sul letto è in fondo abbastanza sano. Il male del giovane, dunque, deve aver avuto una genesi ben più complessa; sicuramente non organica. Che deve aver avuto a che fare con quel polimorfo magnete immateriale di «racconti, credenze, narrazioni, pulsioni, che rende possibile all’animale che parla l’autopercezione cosciente del proprio esistere» (p. 236). D’altronde, l’universo di informazioni che configura il nostro mondo interiore non ha in sé nulla di materiale, pur costituendosi come semplice proiezione di un dinamismo totalmente organico e materiale. Sì, perché «i processi mentali […] sembrano esistere soltanto come un esito proiettato dalle funzioni organiche» (ibidem). Perciò lo scienziato si impone di osservare e studiare la materia. Ché mai l’interiorità viva di un individuo si lascerebbe studiare ed osservare da un soggetto esterno. Eppure, ogni voce, in fondo, si risolve «nei processi che rendono possibile l’espressione del proprio eloquio» (p. 237). Processi che si producono e svaniscono nel tempo di un attimo;

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un attimo che «assimila nel suo dileguare tutto quello che si affaccia nell’istante stesso» (ibidem). Insomma, materiale e immateriale si confondono incessantemente; terreno e non terreno attraversano ogni istante dell’umana esistenza, come le enormi creature, senza comprensione, senza scarti. Senza assecondare la logica consequenziale della narrazione; ma modificando incessantemente la situazione con una logica che «contempla la simultanea presenza dei contrari ed un agire opposto alla direzione ed alla forza dell’intento che anima il soggetto che conduce l’azione stessa» (p. 239). Le forze che plasmano le figure del tessuto narrativo sono attraversate da tensioni ad esse opposte, che conducono appunto alla deflagrazione; sì che ogni soggetto rischi di venire proiettato fuori di sé, sino a far quasi scomparire lo iato che separa il suo dentro dal suo fuori; ma anche il paziente dal dottore. E il malato dal sano. I sintomi del malato e l’intimo sconcerto provato dal dottore mostrano così di avere un’unica inafferrabile radice, che funge, peraltro, da ineliminabile sfondo al formarsi dell’esperienza dell’animale che parla. L’esistere materiale permane incorruttibile, evocando una dimensione ignota, di cui ogni parola e ogni espressione immateriale custodiscono inesauribile memoria. Che è memoria di quelle entità oggettuali che, pur non vantando alcuna esistenza esterna, alludono a ciò che, in quanto né esterno né interno, anima ogni espressione linguistica o concettuale. Anche quelle che si sforzano di evocare una realtà in ogni caso oltreoggettuale od oltre-soggettuale. E dunque dicono la radicale comicità dell’esistere (quella per cui forse Kafka rideva come un ossesso ogni volta che leggeva i propri racconti agli amici); che, abbracciato e animato da una dinamica proposizionale che dice movimento e instabili-

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tà, viene comunque scambiato per «l’attestazione di un ordine recondito della realtà» (p. 242). Che invero il credere da un lato e il dubitare scettico dall’altro sembrano contendersi, condannando il credere a credere anzitutto in quel che il mondo interiore stesso riconosce non essere così come sembra essere. E costringendo l’uomo di scienza a barcamenarsi nel mezzo di «una realtà ondivaga, mossa dai flutti generati dall’agitarsi di stati d’animo, desideri, paure, pulsioni» (p. 244). Ossia, a riconoscere che, da ultimo, «l’accesso all’universo effimero generato dalla vita reale di una persona […] resta però precluso» (p. 246). Per questo il dottore può infine anche riconoscerlo, che il giovane è veramente malato. Che il suo corpo è in verità piagato nel fianco destro da una ferita aperta. Certo, le parole non sono cose; e l’esser cosa della parola stessa non è una parola. Lo iato è davvero incolmabile, e l’opposizione realmente assoluta. Il vortice di vitalità che era scaturito dal porcile all’inizio del racconto sta ormai precipitando lo scienziato verso una introspezione incapace di esito affidabile o in qualche modo soddisfacente. Il dottore capisce che i simboli generati dal linguaggio immateriale di cui è fatta questa stessa storia sono fragilissimi. Che il corpo piagato del paziente è un corpo astratto, tratteggiato «nell’assenza di materia inventata dall’animale che parla mediante l’uso delle parole» (p. 250). Una piccola danza di simboli sessuali fa della ferita scoperta fortuitamente e alla fine dei giochi qualcosa di risibile agli occhi dell’uomo di scienza; che debilita l’espressività dei simboli in più modi. E fa della soluzione finale la scoperta di un’insormontabile e sublime impotenza. La stessa che costringe il medico di famiglia a fare i conti con la convinzione di un’onnipotenza che si trasforma immantinente in ferocia rivolta contro il suo stesso fragile corpo. Il medico viene infatti riposto sul letto a fianco del malato; alla fine, insomma, «il dottore è il malato», pur capendo, il medi-

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co medesimo, che il suo male produce simboli, i quali, guarda caso, non si possono in alcun modo sanare. La scienza dovrebbe spiegare, rendere ragione, ma non sempre è possibile farlo. E bisogna prenderne atto. Perciò è quanto mai urgente fuggire, risaltare in groppa al cavallo che si è tirato indietro dalla finestra della stanza del malato. Insomma, il medico si rende conto di dover percorrere un itinerario intellettuale diverso da quello seguito dal destriero di Alessandro. Quello, infatti, s’era trasformato in un avvocato; a lui spetta invece il compito di riconsegnare il mondo interiore fatto di parole toto caelo immateriali al mondo reale; «ad un mondo dietro al mondo, a qualcosa di recondito da svelare, ad un senso da scoprire, ad una plausibile ragione per tutto» (p. 260). Sì, perché non possiamo farne a meno. Per quanto sia tutto così aereo, inconsistente; inconsistente, infatti, ma irrinunciabile. Ecco perché, forse, come rileva alla fine Arduin: «Sarà davvero meglio, sul serio, “fare come ha fatto Bucefalo” e “leggere e voltare le pagine” scritte da maestri, antichi e no, per almeno provare a non smettere di imparare» (ibidem).

Indice

Cavalcando con Bucefalo Prefazione di Gianfranco Bettin

p. 9

Il Nuovo Avvocato (Franz Kafka)

p. 13

I Mito, Arbitrio e Legge Bucefalo Bucefalo e Alessandro Le radici storiche dell’Avvocato Bucefalo Alessandro e il miraggio indiano Bucefalo, l’animale e il processo chiamato mente (1) Il mito del Mito Bucefalo, l’animale e il processo chiamato mente (2) Il balzo metafisico

p. 19 p. 21 p. 25 p. 35 p. 39 p. 43 p. 51 p. 55



II Il Bardo origina la Forma

Omero: il Mito come critica del Mito Il Mondo in Pezzi: Achille e la Forma del Potere

p. 63 p. 69

Il morale della truppa La Verità di Tersite Achille, Atena e la guerra di parole La prova di forza del Figlio di Atreo Il Codice dei Guerrieri Achille e il Valore La scelta di Achille e il Valore inestimabile «Uomini senza valore» vs lo Scettro come Simbolo Il Codice dei Guerrieri come funzione dell’apparato di potere Il Linguaggio di Achille Libro IX: Achille, Patroclo, la Lira e lo Spirito del Bardo Libro XXIV: Priamo, Achille e la Contraddizione

p. 77 p. 85 p. 93 p. 99 p. 105 p. 113 p. 117 p. 123 p. 131 p. 137 p. 145 p. 159

III L’Animale che parla

Il Silenzio delle Sirene e lo Scudo di Ulisse Arte e Digiuno Parole e Materia L’Invenzione del Tempo: fuori dalla «prigione del qui e ora» IV Il Reale tra le Ombre I Cavalli del Dottore Il tedio gelido del dogma La Borsa degli Strumenti I Cavalli non terreni e lo Stalliere

p. 179 p. 189 p. 195 p. 201

p. 213 p. 219 p. 225 p. 229

Nella Camera del Malato La Ferita Nel Letto di Morte Io Vago Randagio

p. 239 p. 255 p. 261 p. 265

Di una irrinunciabile inconsistenza. Enrico Arduin: in bilico, tra Omero e Kafka Postfazione di Massimo Donà

p. 269

Zeugma

Lineamenti di Filosofia italiana | Proposte Diretta da: Massimo ADINOLFI e Massimo DONÀ

1. Francesco Valagussa, La scienza incerta. Vico nel Nove­ cento. 2. Alfredo Gatto, René Descartes e il teatro della modernità. 3. Fabio Vander, Ortologia della contraddizione. Critica di Heidegger interprete di Aristotele. 4. Ernesto Forcellino (a cura di), Verità dell’Europa. 5. Lucilla Guidi, Il rovescio del performativo. Studio sulla fe­ nomenologia di Heidegger. 6. Armando d’Ippolito, Arte e metafisica delle forme. Crea­ zione. Crisi. Destino. 7. Guido Bianchini, L’inquietudine dell’Altro. Ebraismo e cri­ stianesimo. 8.  Pedro Manuel Bortoluzzi, Carlo Michelstaedter e la te­ stimonianza della verità dell’essere. 9. Antonio Branca (a cura di), Possibilità. Dell’uomo e delle cose. 10. Federico Croci, Deus Terribilis. Quattro studi su onni­ potenza e me-ontologia nel Medioevo.

11. Federica Buongiorno, La linea del tempo. Coscienza, percezione, memoria tra Bergson e Husserl. 12. Giuseppe Pintus (a cura di), Figure dell’alterità. 13. Marco Martino, Il sistema dei bisogni di Hegel. Un pos­ sibile itinerario. 14.  Maria Teresa Pansera, La specificità dell’umano. Percorsi di antropologia filosofica. 15. Massimo Donà - Francesco Valagussa (a cura di), Alte­ rità e negazione. 16. Giuseppe Pintus (a cura di), Relazione e alterità. 17.  Maurizio Maria Malimpensa, La scienza inquieta. Siste­ ma e nichilismo nella Wissenschaftslehre di Fichte. 18. Marco Bruni, La natura divisa. Hans Jonas e la questione del dualismo. 19. Nazareno Pastorino, Destino ed eternità di tutti gli enti. L’opera di Emanuele Severino. 20. Massimo Adinolfi, Qui, accanto. Movimenti del pensiero. 21. Giuseppe Gris, L’escatologia del destino. L’apocalisse del linguaggio nell’opera di Emanuele Severino. 22. Michele Ricciotti, Provare l’Io. Julius Evola e la filosofia. 23. Valentina Gaudiano, La filosofia dell’amore in Dietrich von Hildebrand. Spunti per una ontologia dell’amore. 24. Silvia Dadà, Il paradosso della giustizia. Levinas e Derrida. 25.  Giulio Goria, La filosofia e l’immagine del metodo. 26. Carmelo Marcianò, Essere epicurei. Divagazioni su Epi­ curo e noi. 27. Fabio Vander, Genesi e destino. Filosofia e onto-teologia del mysterium iniquitatis.

28. Massimo Villani, Time and History. Researches on the Ontology of the Present. 29. Massimo Villani, On Extension. Jean-Luc Nancy in the Wake of Hannah Arendt. 30. Raul Buffo, Pensare dal riconoscimento. Paul Ricoeur e il sapere come evento intersoggettivo. 31. Enrico Arduin, K. Bucefalo e i Cavalli del Dottore.

Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 31 - Proposte

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Nel corpo, la sorta di “hardware” che proietta l’apertura immateriale che noi chiamiamo “mente” non esistono parole. L’organismo è materiale fino alla sua più estrema subatomica essenza. L’animale che parla appartiene ad un ambiente, vive in un ecosistema, ma immette nella natura un gesto iperbolico: il tentativo impossibile di essere qualcosa e di saperlo, figurando nella contingenza lo spazio ed il tempo necessari per il generarsi dei vocaboli e di un registro astratto dell’esistere. Un elemento vitale mediante il quale l’astrazione origina per sé una nicchia nella materia cosmica è la narrazione. Una parola è già una storia. Le sillabe parlano alla mente dalla mente. Lo sguardo astratto traversa la materia e la distorce con l’immagine e il racconto.

Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

ISBN ebook 9788855293921

Enrico Arduin, veneziano, vive nelle Marche, dove da anni conduce una radicale ricerca filosofica insieme ad un affiatato gruppo di amici e pensatori. Arduin è autore di Il Sottosuolo del Presente (Mimesis/Filosofie, 2016). Un capitolo di K. Bucefalo e i Cavalli del Dottore, titolato “Arte e Digiuno”, è stato inoltre pubblicato nel volume Pantagruel - La filosofia del cibo e del vino (La Nave di Teseo, 2020) curato da Raffaella Toffolo e Massimo Donà.

€ 13,00