Interminati spazi ed eterno ritorno: Nietzsche e Leopardi [1 ed.]
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ANTIMO NEGRI

INTERMINATI SPAZI ED ETERNO RITORNO NIETZSCHE E LEOPARDI

FIRENZE CASA EDITRICE LE LETTERE

1994

Volume pubblicato con il contributo del Centro Nazionale di ~tudi Leopardiani e della Giunta N azionale Esecutiva del Comitato per le Celebraz1om Leopardiane.

È solo l'occhio tuo ..:__ infìnitudine, che immenso mi sta guardando!

Così tra questa immensità s'annega il pensier mio . (Giacomo Leopardi) Ogni divenire si muove nella ripetizione di un numero determinato di stati perfettamente uguali. (Friedrich Nietzsche) Venuti meno i pianeti, la terra, il sole e le stelle, ma non la materia loro, si formeranno di questa nuove creature, distinte in nuovi generi e nuove specie, e nasceranno per le forze eterne della materia nuovi ordini delle cose ed un nuovo mondo. (Giacomo Leopardi)

Copyright '© 1994 by Casa Editrice Le Lettere - Firenze

ISBN 88 7166 172 9

PREFAZIONE

Il primo problema che mi si è posto, nello stendere queste pagine, è stato quello di non trascurare mai che Nietzsche e Leopardi sono filosofi capaci di esprimere in mirabili forme poetiche, anche in queste forme, il loro pensiero, o poeti che hanno, per dirla con il primo che parla del secondo e lo colloca accanto a Pindaro, «anche dei pensieri». Un problema che non mi pare sia stato sempre adeguatamente posto negli interventi critici e storiografici, per altro per lo più incidentali, dei quali dò conto essenziale nel § 4 del cap. I, redatto, anche con lo scopo di offrire un quadro panoramico della letteratura sul tema, in modo che si possa leggere autonomamente (di qui, anche, in esso, l'insistenza su qualche argomentazione che trova il suo svolgimento più opportuno in questo o in quel capitolo). Un problema che, del resto, non si poteva porre nei suoi termini più giusti se non dopo che ci si fosse liberati, in particolare per ciò che riguarda Leopardi, del metro critico, ad esempio quello crociano, adoperato per distinguere poesia e filosofia nella sua opera; e, per ciò che riguarda Nietzsche, del criterio, più o meno accademico, secondo il quale una costruzione teoretica, soprattutto quando più > italiano, come vuole von Biilow? Ma Nietzsche oppone così il suo pessimismo al pessimismo dell'uno e dell'altro: . Del resto, Le devo, non senza afflizione, comunicare che, ora, con la terza parte, 11 povero [Zarathustra] realmente cade nella tetra tristezza (das «Dustere») tanto che Schopenhauer e Leopardi, a petto del suo «pessimismo», appariranno solo come dei principianti e dei novellini (Lettera a Heinrich Koselitz del 3 settembre 1883, SB, VI, 445).

Dal carteggio non proviene altra indicazione dell'effettiva conoscenza nietzscheana dell'opera di Leopardi: senz'altro limitata e attraverso traduzioni tedesche, anche se il filosofo ha potuto avere tra le mani l'edizione livorne~e delle opere in prosa del poeta-filosofo italiano. Dal carteggio, per altro, risulta che, nei confronti del poeta italiano, accostato soprattutto a Schopenhauer 9, Nietzsche non assume altro atteggiamento che quello di un filosofo che tende a distinguere il suo virile pessimismo, che affonda le radici in una sofferenza esistenziale non sufficiente tuttavia a consumare ogni sua gioia di vivere, da un pessimismo che a questa stessa gioia sbarre~ebbe la .strada. Pure, è vero che dallo stesso carteggio, qua e là, appare, 11:°provv1sa e sollecitante, la reminiscenza della poesia leopardiana, anche se piegata ad un senso del tutto diverso da quello del testo che la promuove, l'accende. Esemplifico leggendo la lettera a Rohde dell'11 novembre 1869: Voglio parlare il tuo linguaggio. Leggendo la tua lettera era come se mi risvegliassi all'improvviso, e come se intorno a me si stendesse profonda e bruna la notte,

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e di lontano risuonasse una voce così nostalgica come da tanto tempo non ne avevo udite (SB, III, 72; E, II, 70).

sche e Leopardi, dal quale il primo tende a distinguersi còn il suo zarathustriano pessimismo non negatore della vita 13 • Anche di ciò deve tener conto chi si pone il problema della conoscenza nietzscheana di Leopardi. Un problema che si può porre nei suoi termini più giusti solo guardando anche al modo in cui l'opera leopardiana è recepita nella cultura tedesca prima di Nietzsche.

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Si risponde, qui, a una lettera del Rohde del 5 novembre 1869. In essa l'amico filologo informa Nietzsche di una sua vacanza in Italia, mettendo a nudo lo stato d'animo di un giovane che sente quasi essiccata dentro di sé la passione amorosa. Allora scrive: «E te german di giovinezza, amore, / non curo, io non so come»; dice l'eccellente Leopardi: sicché, come la notte scorsa, svegliandomi nel buio profondo, sono rimasto singolarmente toccato da una malinconica canzone d'amore che risuonava giù per la strada, e un po' teneramente, un po' dolorosamente sono stato riportato con il ricordo a quella dolce eccitazione in qualche modo passata 10 •

La citazione diretta da Il passero solitario (vv. 20-22) non può distrarre dall'impressione che la «malinconica canzone d'amore», che nella notte risuona agli orecchi di Rohde, e, più ancora, la «voce così nostalgica» che nella «notte profonda e bruna» risveglia «all'improvviso» Nietzsche, trovi, soprattutto in quanto immagine poetica, l'abbrivo ne «il solitario canto / dell'artigiano che riede a tarda notte,/ dopo i sollazzi, al suo povero ostello» del canto leopardiano (La sera del dì di festa, vv. 25-27). E potrebbe essere, questa impressione, confortata anche dal ricordo nietzscheano di una notte veneziana (EH, Warum ich klug bin, 6, SW, VI, 291; ON, VI, 3, 300): Stavo sul ponte ora nella notte bruna. Di lontano veniva un canto [... ] La mia anima, una corda toccata dall'invisibile, a sé cantava in segreto una canzone di gondolieri, tremando di beatitudine multicolore 11 • Questo zittern von bunter Seligkeit, però, non ha nulla a che fare con la stretta al cuore che prova Leopardi «a pensar come tutto al mondo passa,/ e quasi orma non lascia» (La sera del dì di festa, vv. 28-30). Come potrebbe averci a che fare, se Nietzsche è, soprattutto, il filosofo dell' «eterno ritorno dell'eguale» 12 ? E, qui, si finisce con l'accennare ad una delle divergenze e dissonanze più profonde che è dato, quali che siano i giuochi interpretativi a metterne in ~videnza una «simpatia>> teoretica totale, registrare tra Nietz-

2. Il Leopardi nietzscheano: «filologo-poeta» e poeta che «ha anche dei pensieri» Sì, la prima fonte della conoscenza nietzscheana di Leopardi può benissimo essere stato Schopenhauer 14 , accanto al quale il filosofo-poeta tedesco colloca il poeta-filosofo italiano in quanto rappresenta il «pessimismo romantico», il più antizarathustriano, si può dire per il momento 15 • Ma quello di Schopenhauer è già un Leopardi filosofo e, più esattamente, un filosofo pessimista 16 • Senonché, ha ragione H. Helbling: «i primi tedeschi che si siano accorti di Leopardi erano filologi; e il primo Leopardi di cui si siano accorti i tedeschi fu il Leopardi filologo» 17 • I primi tedeschi che si accorgono di Leopardi filologo sono, ricorda anche Helbling, Georg Berthold Niebuhr (1776-1831), prestigioso professore di storia romana a Bonn, e Christian Karl Josias von Bunsen (1791-1860) , teologo protestante, archeologo e storico. Leopardi li conosce nel 1823, a Roma, dove incontra anche Angelo Mai (1782-1854), cui ha dedicato un canto (1820), «quando ebbe trovato i libri di Cicerone 'Della Repubblica'». Solo più tardi, il 25 ottobre 1830, conosce a Firenze il filologo svizzero Louis De Sinner (1801-1860). Ma sarà soprattutto il Bunsen a scoprire in Leopardi anche il filosofo. Lo stesso Nietzsche, oltre quaranta anni dopo, scopre in Leopardi un grande filologo. Lo scopre, si badi, quando ha già fatto alcune sue fondamentali prove filologiche e riesce ormai ben caratterizzata (attraverso Die Geburt der Tragodie, 1872, le Unzeitgemi:isse Betrachtungen, a cominciare dal 1872, e Uber Wahrheit und Liige in aussermoralischen Sin ne, 1873, ma pubblicato postumo) la sua vocazione filosofica, in cui traspare, qua e là, il fastidio per un esercizio filologico condotto con attitudine erudita, eccessivamente specialistica, micrologica, empiristico-razionalistica, privo di ogni tensione intuitiva, di ogni estro estetico-filosofico. Il fastidio che si esprime in Wir Philologen, esplode in Die Geburt der Tragodie, in cui quella che sarà detta la sua Zukunftsphilologie comincia a manifestarsi più apertamente e trova la sua espansione più aspramente ironica in Z, II, Von den Gelehrten:

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Abili e con dita versatili: che mai può la mia semplicità (Einfalt) a petto della loro complicatezza (Vielfalt)! Quelle dita sanno infilar l'ago, intrecciare i fili e tessere la trama: e così tessono le brache allo spirito (also wirken sie die Strumpfe des Geistes) (S W, IV, 161; ON, VI, I, 152).

per esempio, un Tedesco accanto a Leopardi? (fr. postumo 5 [56] primavera-estate 1875, SW, VIII, 56; ON, IV, I, 124).

Dice anche, qui, Nietzsche: E quando abitavo da loro, stavo sopra di loro. Perciò me ne vollero.

Non è improbabile che, qui, Nietzsche ripensi, per un momento, alla sua carriera accademica di filologo. Durante la quale anche le sue dita hanno saputo «infilar l'ago, intrecciare il filo» ecc. Non, tuttavia, fino a tal punto da non avvertire tutta la sofferenza di un filologo che tende a liberarsi dalla pania dell'erudizione fine a se stessa, dell'eccessivo specialismo, della micrologia, di una metodologia empiristico-razionalistica severamente impiegata fino a pretendere di fare della filologia una scienza più o meno esatta, perdendo di vista la «funzione del tutto» 18 • Né è da escludere che l'interesse per questa «funzione del tutto» possa derivare a Nietzsche dallo studio, non portato a termine, della seconda parte della kantiana Kritik der Urteilskraft (1790), che gli apre la vista sul mondo degli «esseri organizzati» 19 • È un fatto, cioè, che, quando Nietzsche scopre il Leopardi filologo, ha già preso congedo da una filologia che non riesce a dar conto della «funzione del tutto». Né è da escludere che anche la sua filologia non sempre ha dato conto di questa funzione. Di certo, circa mezzo sec?lo prima, a dar conto di questa non è riuscito neppure il Leopardi filologo. E, però, vero che Nietzsche, quale che sia la conoscenza che ha della filologia leopardiana 20 , la riscatta in una valutazione, estremamente lusinghiera, quella stessa che avrebbe potuto effettivamente meritare solo a patto che si fosse consapevolmente responsabilizzata di dar conto della «funzione del tutto». Di fatto, intanto, la valutazione del Leopardi filologo è una supervalutazione. A provarlo sono tre frammenti postumi, tutti .e tre del 1875: Leopardi è l'ideale moderno di filologo; i filologi tedeschi non sanno fare nulla

(fr. postumo 3 [23] marzo 1875, SW, VIII, 22; ON, IV, I, 93-94); La fine dei filologi-poeti è dovuta in buona parte alla loro depravazione personale. La loro stirpe ricresce più tardi: Goethe e Leopardi, ad esempio, sono fenomeni di questo genere. Dietro di loro lavorano i semplici filologi-eruditi. Questa ultima stirpe prende già inizio con la sofistica del secondo secolo (fr. postumo 5 [17] primavera-estate 1875, SW, VIII, 44; ON, IV, I, 114). Esisterebbe ancora la filologia come scienza, se i suoi servitori non fossero educatori stipendiati? In Italia ve ne erano. Chi può mettere,

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Come si spiega questa supervalutazione? Senza dubbio, _con la collera, ormai maturata in Nietzsche, contro il filologismo più accademicamente professionale, e, soprattutto, in forza dell'idea, che ormai si è fatta salda in lui, di una filologia, per dir così, superiore, che abbia il respiro della «classicità», la forza intuitiva della poesia. Sintomatici, in proposito, riescono l'accostamento di Leopardi a Goethe e il riferimento a Johann Heinrich Voss (1751-1826), uno scrittore e traduttore che, evidentemente, viene, anche lui, non poco sopravvalutato. Nella sopravvalutazione di Leopardi filologo, da ultimo, può aver agito la «confusione» 2 1 dell'opera filologica di Leopardi con una forma di scrittura «classica>>. Di qui, il passaggio dalla supervalutazione di Leopardi filologo alla valutazione, essa stessa lusinghiera ma stavolta non infondata, di Leopardi grande prosatore: Raccomando di coltivare lo stile greco, in luogo di quello latino, con riferimento soprattutto a Demostene. Semplicità! Tener presente Leopardi, che è forse il più grande stilista del nostro secolo (fr. postumo 3 [71] marzo 1875, SW, VIII, 35; ON, IV, I, 105).

Ma va da sé - e detto subito - che questo giudizio riguarda non tanto il Leopardi degli scritti filologici quanto piuttosto il Leopardi delle Operette morali che, stando alla lettera a von Bulow del 2 gennaio 1875 citata, Nietzsche già conosce. Ed è il Leopardi delle Operette morali che gli può suggerire quest'altro giudizio: E io sopporto soltanto più i poeti che tra l'altro hanno anche dei pensieri, come Pindaro e Leopardi (fr. postumo 8 [2] estate 1875, SW, VIII, 128; ON, IV, I, 187).

Dove, l'accostamento di Leopardi a Pindaro, che forse pur si può giustificare ricorrendo ad un passo dello Zibaldone che Nietzsche non conosceva 2 2 , è, certo, discutibile, ma nulla toglie alla validità dell'affermazione secondo la quale Leopardi è un poeta che ha «anche dei pensieri», cioè un poetafilosofo, in particolare il poeta-filosofo delle Operette morali. Anche filosofo, dunque, Leopardi, per Nietzsche. Solo filosofo del «pessimismo romantico» collocato accanto a Schopenhauer? Anche questo è un fatto : che, nella cultura tedesca, nella quale pur si è conosciuto in primo luogo Leopardi filologo, prima di Schopenhauer e prima di Nietzsche, si è

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cominciato a conoscere anche Leopardi filosofo. Per l'appunto, attraverso le Operette morali. È , infatti, il Bunsen - che, fo~se è oppor~unC> r_icordarlo, affronta anche questioni di filosofia e di teòlogia della stona (Agiptens Stellung in der Weltgeschichte, 185~; ~ot~ in der G~sc~ichte, 1857-185_8) - a conoscere e a riconoscere, tra i pnmi, Leopardi filosofo. Il 5 luglio 1835 (devo l'appunto a H. Helbling) 23 , egli scrive a Leopardi: La lettura delle vostre opere filosofiche mi aveva ispirato alcune_idee che desi~~ravo comunicarvi. Per confessarvelo francamente, non vi ritrovo m molte parti 11 mio antico platonico, ma bensì l'osservatore acuto e ipocondriaco dell'~pocrisi_a degl~ uomini, della viltà dei caratteri del nostro tempo, dell'abuso che s1 fa dei nomi eternamente sacri di virtù, di amor patrio, di religione. Vorrei che lasciaste alla vostra nazione un'opera filosofica che non risentisse tanto della vostra malinconia di dover vivere in tali tempi. Come il Bunsen abbia potuto vedere in Leopardi anche un «antico platonico» è una questione che, almeno per il momento, ~o~vie~e accantonare. Resta importante, ad ogni modo, nella sua lettera, 11 nfenmento alla leopardiana «malinconia di dover vivere in tali tempi'.>. Si tratta di un~ malinconia che fa non poco «inattuale», nel senso metzscheano che s1 preciserà più in là, Leopardi; di una malin~onia c~e ne procura l'immagine di un pessimista chiuso e tetro, la stessa 1mma~me c~e se ne _faranno ~ annota H. Helbling 24 - lo Heyse, il Vossler ed il Rud1ger. Ed importa, m particolare, qui, che si tratti di un'immagine che ha un peso nella valutazione nietzscheana del pessimismo leopardiano. Importa, altresì, che questa immagine entra nella cultura tedesca anche prima del 1_835 o, se s_i vuole'. del 1837, l'anno in cui K.L. Kannegiesser procura la pnma traduzione dei Canti che, certo, la rafforzano. Nel 1832 il corpus delle Operette morali è, ormai, arricchito. Due anni prima, con esse, Leopardi ha partecipato, senza successo, al concorso quinquennale dell'Accademia della Crusca. Eppure, sono scritte in una prosa mirabile. Lo ammette anche Manzoni che, certamente, non può condividerne le idee, parlandone al filologo De ~ini:ie_r, esprimendo un giudizio 25 che avrebbe potuto far suo Nietzsche che md1v1: dua in Leopardi «il più grande stilista del secolo>>. Ma l'apprezzamen~o, d1 carattere linguistico-letterario, non è quello che più int~ressa al De Smne~ che provvede a far dedicare, nella rivista > (fr. postumo 14 [25] primavera 1824, SW, XIII, 229-230; ON, VIII, 3, 20-21). In quanto a Schopenhauer, egli può andare anche orgoglioso del fatto che De Sanctis trovi una perfetta concordanza tra le sue idee e quelle di Leopardi («Leopardi e Schopenhauer sono una cosa»), ma poco si avvede o non si avvede affatto del modo sottilmente ironico in cui il critico italiano mette in evidenza che Leopardi «è scettico, e ti fa credente», «ha così basso concetto dell'umanità, e la sua anima alta, gentile e pura l'onora e la nobilita» 29 : un giudizio, questo, che, se l'avesse conosciuto, certamente Nietzsche non avrebbe condiviso. È, ad ogni modo, importante avvertire che a Schopenhauer perviene una immagine del pessimismo leopardiano che, pur decisamente personalizzata,

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è quella già preparata precedentemente nella cultura tedesca. Ed è la stessa immagine che perviene a Nietzsche che, per altro, può aver letto, nella prefazione alla traduzione tedesca dei Canti procurata da R. Hamerling, che «il pessimismo di Leopardi è forse divenuto più familiare allo spirito e all'ingegno (Geist und Wesen) tedesco da quando il filosofo A. Schopenhauer è diventato uomo di moda» 30 • «Diventato di moda», Schopenhauer, si deve precisare, tra gli anni '50 e gli anni '60, quando, si può dire ancora con il De Sanctis, «la nuova generazione più intelligente ha gittato via Hegel come un cencio» 3 1: una considerazione critica, questa, che potrebbe permettere anche di istituire, utilizzando il motivo che Schopenhauer è un Leopardi tedesco e Leopardi è uno Schopenhauer italiano, un rapporto tra l'esplicito antihegelismo di Nietzsche e l'implicito antihegelismo di Leopardi 3 2 • Il punto più importante, ora, è ben questo: leggendo, per quel che può leggere ed effettivamente legge, senza dubbio anche suggestionato dall'immagine che ne è data nella cultura tedesca sino a Schopenhauer ed oltre Schopenhauer, il poeta-filosofo italiano, Nietzsche può respingerne quanto si vuole il «pessimismo romantico», ma non può contestare, ed anzi lo afferma senza mezzi termini, che Leopardi è un poeta che ha «anche dei pensieri». Il problema è vedere quanto egli debba a questi «pensieri» . E va da sé che si tratta di un problema che non si può impostare e risolvere correttamente senza tener conto che sono «pensieri» anzi tutto «interpretati» da Nietzsche, nonché «interpretati» dallo stesso lettore che li riascolta o presume di ascoltarli, poter ascoltarli attraverso Nietzsche.

Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini, avrà spostato tutte le pietre di confine; esse tutte voleranno in aria per lui, ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola - «la leggera (die Leichte) » (SW, IV, 242; ON, VI, I, 235).

3. Leggendo Nietzsche con Leopardi e Leopardi con Nietzsche Capita, può capitare - come ho cominciato ad avvertire nella Prefazione - che leggi Leopardi e dici: questa idea si trova anche in Nietzsche, o che leggi Nietzsche e dici: questa idea si trova anche in Leopardi. Il giuoco di quelle che si son dette le convergenze o le consonanze tematiche tra Nietzsche e Leopardi diventa, può diventare, per questa via, molteplice e, ad un certo punto, anche arbitrario, soprattutto quando disobbedisce alle più elementari regole dell'esercizio più sorvegliatamente filologico . Tuttavia, è un giuoco che si è fatto, si fa . E non è che si potesse, si possa togliere il diritto di farlo. Soprattutto quando è il testo leopardiano che, più spontaneamente, ti fa pensare a Nietzsche; è il testo nietzscheano che, meno forzatamente, ti fa ricordare di Leopardi. Un esempio. Leggo Z , III, Vom Geist der Schwere:

L'alleggerimento della terra è - anticipando dei temi ch e troveran no adeguato svolgimento in seguito - certamente, qui, avvertito con sentimento copernicano ed anche, se si vuole, con un convincimento «antimaterialistico» boscovichiano 33 • Ma può capitare, se non altro perché c'è di mezzo un Copernico che sollecita non poco il pensiero sia di Leopardi che di Nietzsche, che ti venga in mente il Dialogo d'Ercole e di A tlante, in cui i due interlocutori si scambiano battute come queste: «Come può stare che [la terra] sia tanto alleggerita?» (Ercole); >, gli «eccelsi spiriti del mio tempo» vogliono provvedere alla «comun felicitade», ma poi rendono ogni uomo incapace di sentire con il proprio cuore, di pensare con la propria testa, di realizzare un suo modo personale di essere, anche un suo modo di essere felice. La massificazione è denunciata come aggregazione disindividualizzante, livellatrice, omogeneizzante. Tuttavia, alla massa Leopardi non guarda ancora con l'attitudine aristocratica, «superumanistica», certo anche antidemocratica e «reazionaria>>, di Nietzsche. Nessun dispregio, tutto sommato, da parte di Leopardi, verso la «massa». Solo, un'impennata di aspro sarcasmo contro gli ideologi ed i fautori della massificazione, dell'aggregazione: Lasci fare alle masse; le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo composte d'individui , desidero e spero che me lo spieghino gl'intendenti d'individui e di masse, che oggi illuminano il mondo (TO, I, 183). Il sarcasmo investe l'Aiifklarung più ideologicamente contraddittoria (ed

È l'epoca delle masse: esse si sdraiano sul ventre dinanzi a tutto quanto è quantitativamente esorbitante. E così pure in politicis. Uno statista che ammassi dinanzi ai loro occhi una nuova torre di Babele, un qualche sterminato impero o potere, lo dicono «grande» (JGB, VIII, 241, SW, V, 181; ON, VI, 2, 152).

Il fenomeno della massificazione, dell'aggregazione è osservato come quello proprio di un'epoca in cui la quantità vale più della qualità (ed il trionfo della quantità, del numero, del calcolo si registra non meno nel campo politico che in quello scientifico: la ragione della maggioranza nell'uno, la matematizzazione nell'altro). Nietzsche ne spiega anche la genesi: Il principio «il bene dei più sta al di sopra del bene degli individui» basta per far compiere all'umanità tutti i passi indietro fino all'infima animalità. Infatti, è stato il contrario («gli individui valgono di più della massa») a elevarla (fr. postumo 7 [83] fine 1880, SW, IX, 334; ON, V, I, 538). Ma l'«individuo», qui, non è quello, tutto sommato illuministico, ~i Leopardi. Almeno nell'ambito di una riflessione specificamente politica. E già l'«uomo superiore», l'uomo che_, secondo Nietzsche, può riapparire, storicamente, solo ad un patto: L'individuo può oggi realmente raggiungere una felicità impossibile per l'umanità. Un tempo, la nobiltà: oggi basta sentire gli altri come schiavi, come il nostro concime (unseren Dungen) (fr. postumo 10 [B51] inizio 1881 , SW, IX, 423; 10 [B52]; ON, V, I, 609-610). Dove, in sostanza, si ribadisce un dualismo che Nietzsche ha imparato a fondare fin da quando legge Teognide 38 • Un dualismo che fa della «massa» un coacervo indistinto di «uomini rozzi (grosse Menschen) » (fr. postumo 11 [57] estate-autunno 1881 , SW, IX, 462; 11 [87] ; ON, V, 2, 309). Da questo coacervo esce l'uomo egregio (da ex-grege). E può uscirne solo diventando ciò che è 39 , in ossequio a tutte le sue possibilità esistenziali,_rifiutando ogni indugio conformistico nel mondo degli «uomini rozzi»:

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L'uomo che non vuole appartenere alla massa non deve far altro che cessare di essere accomodante (bequem) verso se stesso; segua la sua coscienza che gli grida: «Sii te stesso! Tu non sei tutto ciò che adesso fai, pensi, desideri» (UB , III, I, SW, I, 338; ON, III, I, 360) 40 •

Ed è come dire che «inattuali » si diventa anche attraverso un impegno, con una volontà forte di non «appartenere alla massa» nel modo di pensare, di sentire, di agire, di desiderare e, da ultimo, nello stesso modo di essere. Soprattutto qui, ritengo, l'«inattualità» di Nietzsche, in quanto guadagno di un' «eccezionalità» umana, si distingue da quella di Leopardi: quella del filosofo-poeta tedesco è un'espressione di «volontà di potenza»; quella del poeta-filosofo italiano, di una condizione di «estraneità» al mondo degli uomini massificati, aggregati, avvertita, certo, con orgoglio, ma anche con estrema sofferenza da parte di un uomo - anche di un uomo di cultura che quella sua condizione osserva in anni che cominciano a costituire già «epoca delle masse» . È vero, del resto, che del fenomeno storico della «massificazione» Leopardi dà una spiegazione degna di un filosofo della storia: Col perfezionam. della società, col progresso dell'incivilimento, le masse guadagnano, ma l'individualità perde: perde di forza, di valore, di perfezione, e quindi di felicità: e questo è il caso de' moderni considerati rispetto agli antichi. Tale è il parere di tutti i veri e profondi savi moderni, anche i più partigiani della civiltà (Zib ., 4368, 5 sett. 1828).

Se ne trae lo spunto per ribadire che la civiltà «tira sempre [... ] ad uniformare>> (Zib., 1517, 18 agosto 1821). E, secondo Leopardi, quando il processo di uniformazione - lo stesso che di perdita dell'«individualità» si spinge alle estreme conseguenze, a venir meno è il senso del «popolo», della «nazione», della «patria». Da questo punto di vista, maturano riflessioni che si estendono all'Italia e all'Europa. «Individualità» è della cultura - basti pensare già ad un Goethe o ad un Kierkegaard 42 - possa essere chiamato ad anticipare lo svolgimento di un tema molto caro a Nietzsche, molto più violentemente avverso, quando esso è diventato più esasperato, al «fatto» epocale della «cultura di massa>>. Per conoscere tale Nietzsche, «leopardiano» anche in questo caso, non è meno possibile l'interrogazione di molti testi. Si potrebbe citare, ad esempio, Z, I, Von neuen Gotzen: «Sono sempre malati, vomitano la loro bile e la chiamano giornale» (SW, IV, 63; ON, VI, I, 56); e, più ancora, Z, III, Vom

Voriibergehen: Non vedi le anime penzolare come stracci sudici e stracchi? - E di questi stracci fanno anche i giornali! Non senti come lo spirito qui sia diventato giuoco di parole? Un liquame schifoso di parole ne vien fuori! E con questo liquame di parole essi fanno i giornali (SW, IV, 222; ON, VI, I, 214). Ma questo Nietzsche già va oltre Leopardi. In Leopardi c'è 1roma e

Bildungsanstalten (1872): Nel giornalismo, difatti, confluiscono insieme le due tendenze: qui si porgono la mano l'estensione della cultura e la riduzione della cultura. Il giornale si presenta addirittura in luogo della cultura, e chiunque coltivi ancora pretese culturali, anche come studioso, si appoggia abitualmente a quel vischioso tessuto connettivo, che stabilisce le giunture fra tutte le forme della vita, tutte le classi, tutte le arti, tutte le scienze, e che è solido e resistente come suole esserlo appunto la carta da giornale. Nel giornale culmina il vero indirizzo culturale della nostra epoca (SW, I, 671; ON, III, 2, 113-114). D'altronde, un «indirizzo culturale» che possa salvare dal destino giornalistico della cultura non si prevede affatto perseguibile negli ambulacri del sapere accademico più detestato. Si tratta di ambulacri dai quali, di fatto, Nietzsche fugge: con odio verso i «dotti>> che, «ingegnosi nelle piccole astuzie, aspettano coloro la cui scienza zoppica» (Z, II, Van den Gehlehrten, SW, IV, 161; ON, VI, I, 152). Leopardi, invece: Ora, eccetto forse in Germania, donde la dottrina non è stata ancora potuta snidare, non vi par egli che il veder sorgere di questi uomini dottissimi divenga ogni giorno meno possibile? (Dialogo di Tristano e di un amico, TO , I, 182). Dove, a meno che non vi si voglia veder espresso solo un senso di gratitudine verso un ambiente culturale in cui, almeno come filologo, si è sentito apprezzato 43 , Leopardi sembra lontanissimo dalla nietzscheana ostilità verso ogni forma di cultura, anzi di erudizione accademica. Di fatto, poi, Leopardi contesta, soprattutto, «quello che pensano i giornali» sulla «natura e i destini degli uomini e delle cose». Con forte e vibrante irrisione nella Palinodia: Aureo secolo ornai volgono, o Gino, i fusi delle Parche. Ogni giornale, gener vario di lingue e di colonne,

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da tutti i lidi lo promette al mondo concordemente (vv. 38-42)

È preoccupato, in particolare, Leopardi, che le gazzette, «anima e vita/ dell'universo», possano rimanere «a questa / ed alle età venture unica fonte!» (Palinodia, vv. 151-153). Preoccupazione fondata. Egli ben sa di vivere in un'epoca in cui è quasi stabilita una «legge tal, che da giornali in fuore, / libro non s'accogliesse in quelle mura,/ che di due fogli al più fosse maggiore», giacché si crede che . E in verità si autopresenta, Leopardi, presentando questo singolare personaggio, alieno da ogni vile, accomodante (ricordare il bequem di Nietzsche) ossequio al «dio del tempo»: Era questi un guerrier canuto e prode che per senno e virtù pregiato e culto d'un vano perigliar la vana lode foggia, vivendo a più potere occulto, trattar le ciance come cose sode a genti di cervel non bene adulto lasciando, e sotto non superbo tetto schifando del servaggio il grave aspetto (P, VIII, 30; TO, I, 290).

Né è azzardato pensare che Leopardi, quello più ostile a «trattar le ciance come cose sode», si autopresenti anche nell'eroico topo Rubatocchi che, dopo la spaventosa ma salutare esperienza infernale, e bene ascoltata la

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lezione di Dedalo 46 , «1:1scito / che fu dal buio a riveder le stelle» (P, VIII, 34; TO, I, 290), ritorna a Topaia, in cui dominano le «fole» spiritualistiche e platoniche invano mascherate come idee liberali, ma non per rimanervi: «Senza punto indugiarsi andò diritto, / dico al guerrier di cui più sopra è scritto» (P, VIII, 39; TO, I, 291). Chi vuol sapere ciò che è «sopra scritto», può leggere P, V, 43-48, dove è descritta la morte eroica del topo Rubatocchi: (P, V, 46; TO, I, 275). Ritorna, Rubatocchi, a combattere e a morire eroicamente ancora una · volta? Ma vi ritorna con la sua esperienza del viaggio infernale, con la memoria di quanto gli ha insegnato Dedalo e dell'esempio dell'Assaggiatore. In una parola, con la consapevolezza di non poter «trattar le ciance come cose sode». E sono, queste, anche le ciance dei giornali, delle gazzette, delle effemeridi che, nello stesso tempo in cui pretendono di «illuminare», in realtà obliano e lasciano obliare la lezione di Dedalo, mettono e lasciano mettere in ombra l'esempio dell'Assaggiatore. Si è detto che Rubatocchi costituisce «un preludio dell'uomo della Ginestra» 47 • Ma lo è soprattutto quando ritorna a combattere con la consapevolezza che «la natura e i destini degli uomini e delle cose» non sono quelli di cui pensano e lasciano pensare i giornali. I Paralipomeni (che certamente Leopardi scrive a cominciare dal 1831) si interrompono con una promessa: «Al narrato dinanzi un corollario/ aggiungerò, se ancor legger vorrete» (P, VIII, 46; TO, I, 292). Ed il «corollario» che il poeta-filosofo promette di aggiungere ben può ravvisarsi ne La ginestra (composta nella primavera del 1836, un anno prima di morire). Si sa che il motto de La ginestra, tratto da Giovanni, 3, 19, suona così: «E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce». La luce, di cui qui si parla, è tutt'altro che la «giornaliera luce delle gazzette» . Questa luce, secondo Leopardi, avvolge, piuttosto, nelle tenebre, producendo e facendo consumare un sapere che, da ultimo, nasconde l'«arido vero», una realtà che sovrasta sull'uomo come una potenza ostile ed invincibile, per lo meno mai una volta per sempre vincibile. Ma la «lenta ginestra» non china «indarno / codardamente suppliç:ando innanzi / al futuro oppressor» (La ginestra, vv. 307-309). Ritorna in mente Rubatocchi, topo-liberale. Ma non lo trovi «laddove i liberali fiorentini / siedono a distruzion dei pasticcini» 48 , «entro il fumo/ de' sigari onorato, al romorio / de ' crepitanti pas ticcini, al grido / militar, di gelati e di bevande/ ordinator, fra le percosse tazze/ e i branditi cucchiai» (Palinodia, vv. 13-18), soprattutto tra gli abitanti di Topaia che, «pensosi in su i caffè, con le gazzette / fra man, parlando della lor congiura, / mostraronsi ogni giorno» (P, VI, 17;

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TO, I, 277). Può darsi anche che Rubatocchi-Leopardi, non l'avresti incontrato, come pretende il De Sanctis, «confortatore e combattitore» per amor di patria, «se il destino gli avesse prolungata la vita insino al quarantotto» 49 • Ma una cosa è certa: il Leopardi del Dialogo di Tristano e di un amico, della Palinodia, dei Paralipomeni, de I nuovi credenti, de La ginestra, che pur rigetta le «ciance» presunte illuministiche dei giornali, delle gazzette, delle effemeridi, addita un destino umano, certo di morte, ma anche di lotta, di resistenza contro ogni forma di oppressione o, il che è lo stesso, di oscurantistica manipolazione ideologica falsamente liberale o ipocritamente spiritualistica. L'uomo leopardiano che si dispone a vivere questo destino non è l'Ubermensch nietzscheano. Unz eitgeméiss, «controcorrente», «inattuale>> quanto si vuole, egli non intende superbamente esiliarsi dalla città degli uomini comuni. A questi uomini, piuttosto, intende portare un messaggio che i giornali, le gazzette, le effemeridi non riescono e non sono interessati a portare. Il messaggio nietzscheano è diverso. Anch'esso si appoggia sulla polemica contro la cultura giornalistica che, ad un certo punto, tende ad essere, a farsi valere come l'unica cultura:

«felicità nella massima quantità possibile», in vista della risoluzione di quello che, ormai, si ritiene il >, della

La cultura (Bildung), che è soprattutto un veritiero bisogno di arte, si appoggia su una base terribile (auf einem erschrecklichen Grunde): questa si fa riconoscere nel sentimento indefinito della vergogna. Perché esista un terreno vasto , profondo e fertile per lo sviluppo dell'arte, la stragrande maggioranza degli u?mini dev~ essere al servizio di una minoranza, deve essere sottomessa - m una rrnsura superiore alla sua miseria individuale - alla schiavitù dei bisogni impellenti della vita. A spese di questa maggioranza e attraverso il suo lavoro supplementare (durch ihre Mehrarbeit) quella classe privilegiata Uene bevorz ugte Klasse) deve essere sottratta alla lotta per

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l'esistenza, per produrre un nuovo mondo di bisogni e per soddisfare a questi (Der griechische Staat, Vorrede [1872], SW, I, 767; ON, III, 2, 226).

io, se il dono delle lagrime non mi fosse stato sospeso, giacché m'avvedo pure di non averlo perduto affatto (TO, I, 1148) 57 •

Dove, è evidente, si giustifica anche la Mehrarbeit e, cioè, quel plus lavoro, la grande cifra ideologica del socialismo rivoluzionario. Dove, soprattutto, la «maggioranza degli uomini», assoggettata ad un pluslavoro al servizio di una «classe privilegiata», è, essa stessa, «massa>>, intesa in un senso che, si è visto, è da escludere dall'orizzonte mentale di Leopardi, se è fortemente «classista». Intanto, la polemica contro la giornalistizzazione della cultura si complica enormemente in Nietzsche. In un Nietzsche che, si capisce, non ha, a questo punto, nulla più a che fare con Leopardi, rispetto al quale, ancora legato alla visione del «lavoro usato>> di un mondo contadino ed artigianale52, egli è già osservatore della produzione e del lavoro del mondo industriale53. Anche, soprattutto di questo, bisogna tener conto, nel giuoco ermeneutico che si fa sulle consonanze problematiche o convergenze tematiche tra Nietzsche e Leopardi. E non già che non se ne siano trovate o non se ne possano trovare altre: ad esempio, sul denaro 54 o sulla grande città 55 . Anche su queste bisogna muoversi criticamente cum grano salis: ciò che Nietzsche deve e non deve a Leopardi va stabilito con molta circospezione interpretativa. È ciò che ho tentato di fare fin qui e tenterò di fare anche in seguito. Con la speranza di non essere già incorso e di non incorrere ancora nell'incidente, frequente in questi casi, di avvicinare o distanziare più del necessario questi due grandi spiriti dell'Ottocento, certo molto affratellati - assieme a Holderlin e a Kleist - nella «lotta col demone» 56 . Intanto, per concludere su questo punto, anche perché scrivo nell'anno delle celebrazioni del bicentenario della nascita di Gioacchino Rossini (1792-1868), mi pare utile esaminare una significativa divergenza, in fatto di gusto musicale, tra Leopardi e Nietzsche. Questa si può documentare, opportunamente, attraverso alcuni giudizi che essi hanno avuto modo di pronunciare sull'opera del grande musicista pesarese. Di Rossini Leopardi è il più prestigioso conterraneo marchigiano. Si legge nella sua lettera al fratello del 5 febbraio 1823:

Saranno anche, le «voci sorprendenti» cui accenna Leopardi, quelle stesse voci che, quattro anni dopo, nel 1827, stupiscono Hegel, ascoltatore della Semiramide rossiniana a Parigi 58 , a ridare il «dono delle lagrime» al poeta-filosofo; ma ciò che più importa è che questo dono gli deriva dall'ascolto di un'opera che, come la Donna del Lago, è, sì, un'opera «seria», ma piena di quel respiro non pateticamente romantico che, dopo un fiasco iniziale, la rende tanto gradevole e popolarissima. Resta, allora, da vedere perché l'opera rossiniana ha questa fortuna. Una spiegazione la dà lo stesso Leopardi, pochi mesi dopo, in una nota in cui scrive:

Mi congratulo con te dell'impressioni e delle lagrime che t'ha cagionato la musica di Rossini, ma tu hai torto di credere che a noi non tocchi niente di simile. Abbiamo in Argentina [il Teatro «Argentina» di Roma] la Donna del Lago, la qual musica eseguita da voci sorprendenti è una cosa stupenda, e potrei piangere ancor

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E non per altra ragione riesce universalmente grata la musica di Rossini, se non perché le sue melodie o sono totalmente popolari, e rubate, per così dire, alle bocche del popolo; o più di quelle degli altri compositori, si accostano a quelle successioni di tuoni che il popolo generalmente conosce ed alle quali esso è assuefatto (Zib., 3208-3209, 21 agosto 1823).

Almeno fin qui, in questa nota, che pur sembra articolarsi in un ben determinato appunto musicologico, non si pronuncia un vero e proprio giudizio di valore, suggerito dal gusto personale di Leopardi. Tuttavia, al livello di questo giudizio giunge, e questo gusto rivela, l'apprezzamento quando Leopardi osserva che, «nel giudizio degli intendenti circa il comporre di Rossini, e generalmente circa il modo della moderna composizione, la quale da tutti è sentita esser piena di melodia>>, questa musica «è giudicata non reggere in grammatica ed essere scorrettissima e irregolare». Intanto, sempre secondo Leopardi, il musicista rispettoso della grammatica e delle regole difficilmente o raramente, proprio perché non si affida al gusto popolare, sa «trovare nuove melodie». E se ne può dedurre che, per Leopardi, la musica di Rossini riesce «stupenda» proprio perché disubbidiente alla grammatica, alle regole, in una parola, popolare. Non dovrebbe, la stessa musica, riuscire per un Nietzsche «senza grammatica», «irregolare», «inattuale»? Senonché, questo Nietzsche è pur sempre un «aristocratico>>: anche per gusto musicale troppo Ubermensch per amare una musica troppo indulgente al gusto popolare. Si tratta di un Nietzsche che, in una lettera a Koselitz, suo amico musicista, del 16 clic. 1888, si dice «dottissimo in fatto di Rossini>>, conoscitore di ben otto sue opere (SB, VIII, 527). E proprio con Koselitz Nietzsche si trattiene a

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discutere di Rossini, dopo aver assistito, insieme con lui, alla rappresentazione del Barbiere di Siviglia . Gli scrive in una lettera della fine di febbraio 1882:

dono alla libertà di dire le cose più terribili (Lettera a Koselitz del 22 marzo 1883, SB, VI, 347).

Ma la sua musica non mi è piaciuta (SB, VI, 172).

Invano l'amico cerca di persuaderlo della bontà della musica rossiniana, lodando, ad es ., del Barbiere di Siviglia, i «crescendo, nei quali l'orchestra pare cominci a ribollire e a spumeggiare» 59 • Perentorio, gli risponde Nietzsche in data 4 marzo 1882: Quanto darei per pensarla come Lei sulla musica del Barbiere! Da ultimo, anche questo è un fatto di salute. La musica, per piacermi, deve essere molto appassionata (passionirt) e sensuale (sinnlich). Questa musica non è né l'uno né l'altro: la sua enorme agilità (Gelegenheit) mi è addirittura sgradevole, come la vista di un clown (SB, VI, 174).

Un giudizio netto ed aspro. Soprattutto, insistito: Un po' più di sfacciataggine (Frechheit) in Rossini e avrebbe fatto cantare dal principio alla fine la-la-la-la (FW, II, 80, SW, III, 437; ON, V, 2, 91); Non mi sfugge la volgarità (das Gemeine) di tutto ciò che piace al mezzogiorno europeo, sia questo l'opera italiana (per esempio, Rossini e Bellini) ... (FW, II, 77, SW, III, 432; ON, V, 2, 87); Vedo qui un musicista che parla la lingua di Rossini e Mozart come la sua lingua materna, quella lingua popolare della musica, tenera, folle, ora troppo morbida, ora troppo rumorosa, con la sua birichina indulgenza per tutte le cose, anche quelle «volgari» (fr. postumo 6 [22] estate 1886-primavera 1887, SW, XII, 239; ON, VIII, I, 227); La straripante animalità (uberstromende Animalitat) di un Rossini ... (FWG, SW, VI, 49; ON, VI, 3, 46).

«Tutto ciò che piace al mezzogiorno europeo», per Nietzsche, è «volgare». Può darsi che, in questo giudizio, pesi l'entusiasmo, che pure non dura a lungo, per la musica wagneriana, per quella stessa musica che, stando ad un giudizio poi da lui smentito, appare a Rossini, in quanto «musica priva di melodia», come «arrosto senza sugo>> 60 • D'altra parte, è vero che, a Nietzsche, della musica del mezzogiorno europeo, piace non poco !'«appassionato» e «sensuale», «irregolare» Bizet della Carmen: Mentre l'ascolto, compongo continuamente canti dionisiaci, dove mi abban-

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E Bizet rappresenta, per Nietzsche, «l'ultimo genio che abbia intravisto una nuova bellezza e una nuova seduzione - che abbia scoperto un lembo di mezzogiorno della musica (1GB, 254, SW, V, 200; ON, VI, 2, 170). Il capolavoro di Bizet è del 1875. Leopardi è morto da quasi quaranta anni. Può darsi che Nietzsche tragga dalla musica di Bizet, il quale amava Wagner non meno che Verdi, l'accensione dei suoi sentimenti più dionisiaci. Ma importa che anche questa musica è piena di accattivante melodia, «popolare>>, certo, per dirla con Leopardi, poco rispettosa della «grammatica» e delle «regole>>, addetta com'è a dare un «tuono» (anche questo termine è, come si è visto, leopardiano) ad una vicenda che ha il colore e il calore della Spagna più «zingaresca». E ci si può, allora, chiedere se, proprio sulla Carmen, un'opera così «popolare», Leopardi e N ietzsche, quest'ultimo pervenuto al punto di vista che il faut méditerraniser la musique (fr. postumo 19 [7] settembre 1888, SW, XIII, 544; ON, VIII, 3, 338), non avrebbero potuto convergere anche in un certo gusto musicale 6 1 •

4. La letteratura critica sul rapporto Nietzsche-Leopardi . La letteratura critica sul rapporto Nietzsche-Leopardi, in generale volta a mettere in luce consonanze e dissonanze delle loro visioni del mondo degli uomini e delle cose, è abbastanza ricca, soprattutto in Italia. Una delle sue prime voci, per lo più rapide ed occasionali (se ne possono trovare alcune indicazioni fatte con buona volontà di informare in M .A. Stefani, Nietzsche in Italia. Rassegna bibliografica 1893-1970, Carucci, Assisi-Roma 1975, e con apprezzabili tentativi di discussione in D.M. Fazio, Il caso Nietzsche. La cultura italiana di fronte a Nietzsche, 1872-1940, Marzorati, Milano 1988; ma, nell'uno e nell'altro caso, manca ogni riferimento alla voce dalla quale parto), è costituita da A. Graf, Foscolo, Manzoni e Leopardi. Preraffaelliti, simbolisti ed esteti. Letteratura dell'avvenire (1898) , C hiantore, Torino 1945. Il Graf contesta, anzi tutto, che quello leopardiano sia «un pessimismo lirico puro e semplice, tutto cioè formato di quel sentimento, o di quella mescolanza di sentimenti, che i tedeschi dicono Weltschmerz», ed afferma che esso è, piuttosto, «multiforme, empirico, civile, filosofico» . Si mostra, inoltre, perfettamente informato del giudizio di Schopenhauer su Leopardi (Die Welt als Wille und Vorstellung, III ed. del 1859, senza dubbio

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attraversato dalla più penetrante lettura di Nietzsche), nonché della letteratura sul pessimismo e sulla storia di esso. Condivide il giudizio di E.M. Caro (Le pessimisme au XIX' siècle. Leopardi, Schopenhauer, Hartmann, Paris 1879), secondo il quale il poeta «si distingue nettamente dalla scuola dei lirici e dei disperati, con i quali si è preteso di confonderlo», giacché «li supera per l'altezza del punto di vista cosmico cui si eleva»; polemizza con O. Plumacher (Der Pessimismus in Vergangenheit und Gegenwart, Weiss, Heidelberg 1888 2 ) che nega a Leopardi la dignità di filosofo; a J. Sully che, nel suo Pessimism, a History and a Criticism (King, London 1888, p. 27), traduce l'espressione «arcano infelice e terribile della vita dell'universo>> (lettera di Leopardi a Giordani del 6 maggio 1825) con «unblessed and terrible secret of life», obietta che, «tralasciando appunto quella parola 'universo'», «rimpicciolisce il concetto» leopardiano cui da quella parola stessa deriva «massima larghezza e veramente filosofica significazione». Ma ciò che importa, qui, è che il Graf tien conto anche del giudizio di uno dei primi «banditori» del pensiero nietzscheano, il danese G. Brandes (F. Nietzsche, in Menschen und Werke, Riitten u. Hanning, Frankfurt a.M. 1894), secondo il quale «Nietzsche, con sentimento affatto contrario a quello del nostro poeta, ama la vita per se stessa, anche se infelice» (pp. 213-216). Un giudizio, quello del Brandes riferito dal Graf, che, pur quando non si dovesse condividere, si iscrive coerentemente nell'area di un convincimento destinato a diffondersi, e a diventare quasi un luogo comune, nella «cultura italiana di fronte a Nietzsche»: che innegabili e bene individuabili affinità, sia pure con qualche precisa discrepanza, si possono riscontrare tra il filosofo-poeta tedesco ed il poeta-filosofo italiano che, comunque, lo precede nettamente nella rottura con una visione , anzi «spiritualisticamente» accomodante, visione del- mondo degli uomini e delle cose. È un convincimento, questo, che prende piede, nelle prime letture del filosofo-poeta tedesco in Italia, fin dagli inizi del '900. Si trova espresso, ad esempio, in una delle prime monografie italiane sul filosofo di Zarathustra (E. Zoccoli, F. Nietzsche. La filosofia religiosa, la morale, l'estetica, Bocca, Torino 1901; I ed., anteriore alla morte di Nietzsche [1900] e in un momento in cui si possono utilizzare alcune traduzioni francesi, sfruttate anche da d'Annunzio, dell'opera nietzscheana), in cui tuttavia, il rapporto Nietzsche-Leopardi è solo marginalmente ed epidermicamente tematizzato. Né una tematizzazione meno marginale ed epidermica offre il rapido appunto di F. Orestano, uno dei primi studiosi di Nietzsche in Italia: «Cresciuto alla scuola del classicismo, F. Nietzsche, giovanissimo ancora, simile in ciò al nostro Leopardi, esplorò con profon-

dità e originalità di indagine, le manifestazioni più importanti del genio ellenico» (Le idee fondamentali di F. Nietzsche nel loro progressivo svolgimento , Reber, Palermo 1903, p. 8). Dell'anno successivo è il lavoro di E. Giani (L'estetica nei «Pensieri>> di Giacomo Leopardi, Bocca, Torino 1904): qua e là (cfr. soprattutto pp. 34-36, 59-60, 252-253) si individuano alcuni temi (il bisogno di una vita intensa, l'oblio di sé, la vitalità dell'errore, l'ebbrezza nell'arte) comuni al Leopardi dello Zibaldone e a Nietzsche; ma gli accostamenti risultano piuttosto estrinseci. Da segnalare, dell'inizio del secolo, un altro intervento critico sul rapporto in questione: quello di P. Orano, secondo il quale Nietzsche, rifiutando la malattia, muove a Schopenhauer e al romanticismo critiche affini a quelle mosse a Leopardi che pure il filosofo-poeta tedesco ritiene, almeno ad un certo punto, un pessimista romantico come Schopenhauer (F. Nietzsche {Di lui e a proposito di lui}, in «Riv. pol. e letteraria>>, 1900, XII, 3, poi in I moderni, I, Treves, Milano 1908, pp. 185-206). Viceversa, G. Zuccarini è del parere che Nietzsche (e, accanto a lui, Carducci!) è contro il pessimismo romantico, accostato a quello schopenhaueriano (Schegge e sprazzi. Prose critiche e civili, Ancona 1912, pp. 7-18). Secondo A. Cippico, intanto, Nietzsche attua il > del nostro poeta-filosofo in un'area culturale apertissima - basti pensare a P. Klossowski e a Gilles Deleuze - alla ricezione di Nietzsche). Anche dei poeti, dunque, sentono la vicinanza di Nietzsche e Leopardi. Vicinanza tra due poeti che pensano o tra due filosofi che fanno poesia. «Pensatori lirici», soprattutto siffatti pensatori, Nietzsche e Leopardi. E un altro germanista, G. Necco, finisce col ritenerli più > che, secondo il Giusso, il filosofo-poeta tedesco avrebbe fatto sulla Riviera ligure, dove «trova il senso delle forze irrazionali della vita, il mistero dionisiaco, l'amor fati» (pp. 216-217), nel libro è gettata la tesi secondo la quale è possibile scorgere un passaggio dall'eroe romantico leopardiano al superuomo nietzscheano (F. Burzio, Leopardi, Stendhal, Nietzsche, in Uomini, paesi, idee, Bompiani, Milano 1937, pp. 3-12), o quella secondo la quale Leopardi e Nietzsche (accanto a Stendhal) prediligerebbero le epoche di conquista e, benché malati o proprio perché tali, sarebbero inclini a costruire sistemi di (C. Bonaccossa, I celebratori dell'istinto nel pensiero moderno, Ceschina, Milano 1943, soprattutto pp. 67 sgg.). Il Giusso è, certamente, un filosofo antiaccademico. Non meno antiaccademico è A. Tilgher, autore de La filosofia di Leopardi (Eoni, Bologna 1979; I ed. 1940). Di sicuro, al Tilgher spetta il merito di essere stato uno tra i primi a prestare un'attenzione specifica alla leopardiana: cfr. il mio saggio cit. Sugli studi leopardiani di Giovanni Gentile), nemché quello di aver precorso, in certo modo, la tesi di un Leopardi tutt'altro che fermo su posizioni conservatrici, se non reazionarie (C. Luporini, Leopardi progressivo, in Filosofi vecchi e nuovi, Sansoni, Firenze 194 7, poi Leopardi progressivo, Editori Riuniti, Roma 1981). E vanno attentamente vagliati alcuni suoi giudizi che, naturalmente, non possono essere avulsi da una ricerca puntata per espresso sulla >, e che Leopardi «è dentro la corrente di questo secolo» (p. 233); assicura che «Nietzsche vive, sia pure in una dimensione temporale scalata di mezzo secolo, il medesimo passaggio, insieme, di posizione e di crisi della dialettica che ha vissuto Leopardi» (p. 324 ); sottolinea che «in Leopardi l'ironia, e tutte le sue varianti, costituiscono un segno della verità e dell'insuperabilità della contraddizione, dunque della crisi dissolutiva del ritmo dialettico e che il poeta-filosofo recanatese, contro Hegel, con l'attitudine ironica che sarà di Nietzsche, «considera positiva» quella crisi (p. 326); suggestionato da G. Deleuze (Nietzsche et la philosophie, PUF, Paris 1962) afferma che Leopardi anticipa e promuove il «complesso processo» attraverso il quale la poesia «costituisce» il risultato di una teoria dell'espressione, di uno sforzo ermeneutico che attraversa la realtà e la riconfigura con intima «violenza», cioè di una teoria attorno alla quale «trovano coincidenza diversi filoni di pensiero», tra i quali «il pensiero nietzscheano della superficie e della volontà» (p. 378); precisa, infine, che si deve cogliere la «crisi del pensiero dialettico», comune a Leopardi e a Nietzsche, in quella che A. Prete (Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi, Feltrinelli, Milano 1980, p. 88) chiama la «disarticolazione del potere di una ratio che, sullo spossessamento delle passioni e delle 'illusioni', pretende di perseguire una perfezione della civiltà in nome di un 'perfezionamento' dell'uomo» (p. 402).

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Come è possibile vedere, nella lettura fatta da Antonio Negri del rapporto Nietzsche-Leopardi, è persistente l'individuazione di un motivo, che li avvicina, di una avvertita, ed anzi sofferta, «crisi del pensiero dialettico>>, un motivo che, poi, è svolto con riferimenti (a Schopenhauer, ai rappresentanti della Sinistra hegeliana, al giovane Marx e a Burckhardt) investiti criticamente per dare un posto al poeta-filosofo su una «grande linea filoso fica» dell'Ottocento, lungo la quale ci si libera del quietismo storicistico hegeliano che avalla la «ragione» come «presente». Si può accettare anche il tracciamento di una tale linea; tuttavia, ho l'impressione che la collocazione di Leopardi su di essa, magari per mettere in dialogo la filosofia leopardiana con quella europea (ed è quello che non avrebbe saputo fare Giovanni Gentile che, diversamente da Benedetto Croce, pur ne aveva le possibilità: p. 327), abbia un suo tratto di violenza ideologica che caratterizza la pur s~mpr~ intell~gente e vi~ace produzione storiografica dell 'autore. Antihegehano, mdubb1amente Nietzsche, come lo sono, ad esempio, Schopenhauer e Burckhardt; consapevolmente (come non pensare alla seconda Inattuale?) tale. E può essere accaduto che l'antihegelismo di Nietzsche sia stato fin troppo fortemente proiettato sulla figura del suo «precursore>> Leopardi. Ma ciò non toglie che, dal rapporto Nietzsche-Leopardi, così come è istituito da Antonio Negri, con acutezza ermeneutica ed anche con encomiabile responsabilità filologica, esce l'immagine di un Leopardi filosofo «europeo>>, tale malgré lui: un'immagine che permette, con risultati quanto si vuole discutibili, e pure criticamente sollecitanti, di trascinare il poeta-filosofo italiano verso il filosofo-poeta tedesco piuttosto che questo verso di quello. Successivamente, Antonio Negri è ritornato sul rapporto NietzscheLeopardi in uno studio dedicato al tema Fra infinito e comunità. Appunti sul materialismo in Spinoza e Leopardi (in Spinoza sovversivo. Variazioni (in)attuali, Intr. di Emilia Giancotti, Pellicani, Roma 1992, pp. 101 sgg.). Un discorso sullo «spinozismo leopardiano» aveva avviato già il Prete (op. cit., pp. 28-29). Un materialismo spinozistico vede, anche Antonio Negri, affacciarsi nell'opera di Leopardi. E, ad un certo punto, si chiede se Leopardi non avrebbe potuto dire di Spinoza ciò che ne dice Nietzsche: «Io ho un precursore e che razza di precursore!» (Lettera a F. Overbeck del 30 luglio 1881). Nietzsche, infatti, secondo l'autore, «soprattutto nella Gaia scienz a, tesse i visibili e potenti fili che si stendono fra Spinoza e Leopardi», in particolare perché, «quand'egli parla di Spinoza come filosofo dell "innocenza' dell'egoismo più alto e della fede nella grande passione come bene in sé» (Frohliche Wissenschaft, II, 99), «nello stesso momento egli vede in Leopardi uno dei pochissimi autori moderni che filtrando la prosa con la poesia

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raggiungono il medesimo risultato - quello di caricare l'intelligenza di tutte le determinazioni passionali dell'essere e di concepire conseguentemente l'etica come l'umanissima via che costruisce la virtù nella guerra degli egoismi, come espansione della potenza» (p. 114). Nel sostenere ciò, non senza una certa enfasi e vaghezza di scrittura, l'autore rimane fedele alla lettura di Spinoza offerta oltre dieci anni fa (L1anomalia selvaggia, Feltrinelli, Milano 1981), nella quale il filosofo olandese è fatto protagonista di un materialismo la cui cifra fondamentale è una «potenza>>, esaltata, come «contropotere», in tutta la sua infrenabile autonomia. In Lenta Ginestra, dedicato a Leopardi, questa cifra non è meno emergente. E non è che non si possa leggere come quella di una nietzscheana «volontà di potenza>>, destinata a mandare in rovina un mondo degli uomini, che a dispetto del ricorso a qualsiasi «mediazione» dialettica di stampo hegeliano, non riesce a nascondere le sue crepe borghesi e le magagne della sua iniquità. È Nietzsche che permette di istituire un tale confronto tra il materialismo spinoziano e quello leopardiano? Ma, da ultimo, l'autore è costretto ad ammettere che tale confronto può essere attuato solo «sulla continuità di strutture filosofiche» (p. 106), «nell'ambito di una omogenea struttura di pensiero materialistico» (p. 108) e che «nel pensiero e nella poesia di Leopardi emergono non tracce di spinozismo ma effetti di un medesimo dispositivo materialistico» (p. 105) . Due anni dopo il saggio di Antonio Negri viene pubblicato, a cura di C . Ferrucci, Leopardi e il pensiero moderno (Feltrinelli, Milano 1989), che raccoglie gli atti di un convegno internazionale svoltosi a Roma il 25 e 26 settembre 1988 . Per espresso dedicato al rapporto in questione l'intervento di A.G. Sabatini (Nietzsche e Leopardi, pp. 173-181), discretamente informato di qualche dato indispensabile per la costruzione di esso, in cui, da ultimo, come non fosse stato lo stesso filosofo-poeta tedesco a prendere le distanze dal poeta-filosofo italiano (fr. postumo 14 [25] primavera 1884), si sostiene che «per l'uno e per l'altro il richiamo alla vita è forte e irrinunciabile», come proverebbe la nozione leopardiana dell'«amor proprio» accostata a quella nietzscheana di «volontà di potenza>> (p. 179). Più curato filologicamente e più sufficientemente informato l'intervento di H. Helbling (Leopardi e il pensiero tedesco, pp. 214-220), atteso a svolgere un tema più vasto e più complesso di quello del rapporto che qui ci interessa, relativamente al quale si ricorda che, secondo W. Dilthey (Arthur Schopenhauer, in Werke, XV, 1970, pp. 53 sgg.; Zur Weltanschauungslehre, in Werke, VIII, 1960, p. 194), autori come Byron., ~ Leopardi, Schopenhauer e Nietzsche

sono, tutti, ingegni solitari «che oppongono a una Weltanschauung ottimistica le loro esperienze e la loro appassionata contemplazione del corso del mondo» e che «il cupo orgoglio e il pessimismo di un Byron, Leopardi e Nietzsche presuppone il dominio dello spirito scientifico sulla terra» (p. 219). Sono, questi, due giudizi, in verità generici, nei quali non si tien conto del fatto che Nietzsche ha cura di distinguersi da rappresentanti del «pessimismo romantico» come Schopenhauer e Leopardi (fr. postumo 14 [25] primavera 1884 cit.) e da falsi «grandi uomini» come Byron e Leopardi (Jenseits von Gut und Base, 269; Nietzsche contra Wagner, 2). Nell'intervento di C. Galimberti (La caduta, la noia, pp. 109-117), infine, trovo sobriamente svolto il motivo secondo il quale Leopardi rifiuta ogni «sforzo di costruzione» del pensiero moderno, da Cartesio in avanti, «per precorrere invece, in certi aspetti almeno, idee ed espressioni che, da Nietzsche a Heidegger, quel pensiero e quello stile hanno messo più aspramente in crisi>> (p. 115). A «motivi leopardiani che riappariranno, per esempio, in Nietzsche» accenna il Galimberti anche nel suo ottimo commento alle Operette morali (Guida, Napoli 19904, pp. 48-49), rinviando agli studi di G. Gabetti, M.A. Rigoni cui già si è fatto riferimento, di G. Amelotti (La filosofia di Leopardi, Degli Orfini, Genova 1937) e di A. Caracciolo (in «Giuseppe Rensi. Atti della Giornata rensiana», Milano 1967, pp. 156-157). Sempre nello stesso commento (p. 439), un più puntuale accostamento tra Leopardi e Nietzsche è operato su suggerimento di H. Blumenberg (Paradigmi per una metaforologia, trad. it., Il Mulino, Bologna 1969, pp. 137 sgg. , dove è chiamato in causa il Nietzsche della Genealogie der Mora!, III, 25) e si afferma che, dopo Copernico, «la terra, l'umanità, il singolo io vengono detronizzati»: il Leopardi de Il Copernico «appare il solo che preannunci, in contrasto con l'entusiasmo dell 'illuminismo e dello stesso Goethe, il lamento di Nietzsche sulla autolimitazione dell'uomo, per il quale si sarebbe dissolta la fede nella dignità, unicità, insostituibilità nell'ordine di rango degli esseri» . L'appunto è molto importante, anche se è da ritenere che, diversamente da Leopardi, o per lo meno in maniera più decisa, Nietzsche dal copernicanesimo è spinto non soltanto ad un «lamento sulla autolimitazione dell 'uomo», ma anche all'esaltazione di un universo infinito in cui, brunianamente, dappertutto è centro. Interessante, da ultimo, l'appunto nel commento alla tesi leopardiana (del Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco) che la materia, «mai non cresce né scema e mai non perisce» e, quindi, «si dovrà gi:idicare che mai non cominciasse e che non provenga da causa alcuna»: «E significativo che una ragione così squisitamente metafisica sia stata assunta

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da Leopardi per dimostrare l'eternità della materia: il suo materialismo si conferma di origine paradossalmente teistica, secondo l'accusa mossa poi da Nietzsche a tutto il suo pensiero » (p. 409). Tuttavia, che Nietzsche abbia mosso questa accusa al pensiero leopardiano resta un'affermazione da provare. Il Galimberti, senza dubbio uno dei più seri leopardisti dell'ultima generazione, si è interessato più volte del rapporto Nietzsche-Leopardi. Da ricordare, di lui, anzitutto l'articolo Di Leopardi «patrocinatore del circolo» (in «Sigma», n. 8, dic. 1965, pp. 23-42). In esso si avanza «l'ipotesi che, in Il Risorgimento, e più ancora nei grandi Idilli, Leopardi fosse, sia pure inconsapevolmente, e in un modo soltanto suo, 'patrocinatore dd circolo' come il nietzscheano Zarathustra». L'ipotesi, certo suggestiva ma azzardata, è avanzata esemplificando, ad es., su > , mentre Leopardi (basti pensare unicamente al Frammento apocrifo) concepisce, almeno su un piano cosmogonico, un «eterno ritorno», sì, ma giammai destituito di qualche novità. Sul rapporto Nietzsche-Leopardi il Galimberti ritorna anche nell'articolo Un canto del destino (in Sul destino, a cura di S. Zecchi, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 59-71). Dove, egli si affida ad un'indicazione interpretativa di W.F. Otto (su di lui cfr. le ultime pagine di questo capitolo), secondo il quale «nelle commoventi immagini leopardiane della vita e del comune operare riaffiorante lungo i secoli spira aria di eternità», sì che «già qui siamo presi dal fascino di un eterno ritorno dell'identico». Ma bisogna vedere se il nietzscheano «ritorno dell'identico» traduce effettivamente, come concetto - o, meglio, idea - il sentimento leopardiano dell'universale ed eterna, «metastorica>> condizione umana che, proprio perché «naturalmente» infelice, non fa - anzi non farebbe - «salti». Ma questo non impedisce a Remo Paganelli di sostenere: «La circolarità del moto e del tempo della Natura va intesa in due modi distinti: 1. quale essenza del-

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l" eterno ritorno', certifica la cifra tragica dell'esistenza (come la concepì, in seguito, Nietzsche), tipologia che Leopardi intende recuperare dalla civiltà antica; 2. quale 'sempre uguale ', segnala l'ossessivo ripetersi delle stagioni (del tempo atmosferico)» (Leopardi e la natura, in AA.VV. , Leopardi e noi. ~a vertigine cosmica, a cura di A. Frattini, G. Galeazzi e S. Sconocchia, Ediz. Studium, Roma 1990, pp. 323-324). Come se il leopardiano «ritorno uguale» delle stagioni (un motivo che non è assente neppure nel Frammento apocrifo) fosse effettivamente il nietzscheano >, anche se ni; :Jli;v o1n'.lm ojj'.:J.s:s:od o::>im::>2 olbn ,i;ùv dli; ilidi;2mq2ibni ,'.:JÌ1J;22'.:l::>'.:ln inoiwili '.:lmo::> i:Jb :Jnoi.si;lowo::> _i;l i;li;8'.l1 '.:lvoi8 :Jlwp li; ,ommu '.l1'.lf1'.l8 bb i;i1oj2 i;Ilu2 -.s1'.:liM ib ÌjjÌ1J2 imi1q i no::> i;.smno2no::> i;nu 5'::> iup :Jrl::>m» 5rl::>::>i;Ì8 ,«Ìf1802 «omili;ji'lbb 02wilni'l idu2 o::>2:Jb:Jj li '.:lrl::> 511b i;il8ov 6ò '.lrl::> i;.sm2 ,'.lr!::>2

(pp. 129-130). E al Nietzsche di Verità e menzogna in senso extramorale pensa anche C. Ferrucci nel suo saggio introduttivo (Un'estetica ontologica?, pp. 7-18; cfr., del Ferrucci, anche Leopardi filosofo e le ragioni della poesia, Marsilio, Venezia 1987, p. 19), attento al nesso intelletto-immaginazione che ha un ruolo determinante nella costruzione della poetica leopardiana. Infine, nello stesso volume, B. Pinchard scrive che «è estremamente interessante confrontare» il motivo della «comparazione» (L'infinito: Io quello/ infinito silenzio vo comparando ... ) con Frohliche Wissenschaft, IV, 337: >. Si comprende, così, dove conduce la strada che, secondo il Severino, apre Leopardi e, a un certo punto, prosegue Nietzsche: è, certo, la strada poi percorsa dal pensiero - o, senz'altro - l'«idea fissa» del Severino. Al quale, per non portarla per le lunghe, potrei anche semplicemente, perché fa troppo soffrire il poetafilosofo italiano ed il filosofo-poeta tedesco di ubbie contro la civiltà della scienza e della tecnica, chiedere: dove mettiamo Leopardi che plaude allo «spirito di energia che ora domina una gran parte di Europa, agli sforzi diretti a far progredire la civilizzazione in modo da render le nazioni e gli uomini sempre più attivi e più occupati>> (Zib., 4187, 13 luglio 1826)? dove mettiamo Nietzsche, per il quale il grande problema non è tanto quello di stabilire se i giudizi sintetici a priori kantiani, cioè le proposizioni della stessa scienza moderna, sono possibili, ma di «comprendere che tali giudizi devono essere creduti veri allo scopo di conservare gli esseri della nostra specie» (Jenseits van Gut und Bose, I, 11)? Questo Leopardi e questo Nietzsche non si prestano alla manipolazione interpretativa di un filosofo il quale ritiene che l'unico «rimedio contro l'angoscia è l'eterno» che la civiltà occidentale ha mandato in un esilio dal quale non può più ritornare. Del resto, sono «eterne>> le «illusioni», le «menzogne» cui Leopardi e Nietzsche affidano la , perché non più dell'essere in senso parmenideo?) dell'età della scienza e della tecnica. Il Severino, che riassume la sua tesi interpretativa in un articolo molto puntuale (Esistenza e disperazione in Leopardi e Nietzsche. L'orrendo volto della verità, «Corriere della sera» dell'8.1.1988), in verità schiaccia troppo il rapporto tra i due su una concezione, tutta sua, anche monotonamente insistita, del destino della civiltà occidentale fatta culminare in una «età della tecnica» che rivelerebbe il dèmone più sfrenato del divenire, la più inconfondibile sostanza nichilistica.' Intanto, è vero che Nietzsche individua, come si è visto, in Leopardi l'«ideale del moderno filologo», «il più grande stilista» dell'Ottocento, il «filologo-poeta». Si tratta di apprezzamenti che aprono una questione. E la questione è stata affrontata, in maniera esemplare, da uno studioso serio ed appartato che, più volte, è intervenuto con osservazioni perspicaci su Leopardi e non solo sul Leopardi filologo (Classicismo e illuminismo nell'Ottocento

italiano, Nistri-Lischi, Pisa 1965; Aspetti e figure della cu.ltura ottocentesca, Nistri-Lischi, Pisa 1980; Antileopardiani e neomoderati nella Sinistra italiana, Ets, Pisa 1982), S. Timpanaro (La filologia di Giacomo Leopardi , Laterza, Bari 1978, I ed., Le Monnier, Firenze 1955; ma v. anche G. Leopardi, Scritti filologici 1817-1832, Le Monnier, Firenze 1969). Il Timpanaro trova «iperbolica» e tale che cit. 53 Cfr. ANTIMO NEGRI, Nietzsche e la civiltà del lavoro, in AA. VV., Nietzsche e la fine della filosofia occidentale, Cittadella Editrice, Assisi 1986, pp. 30-62. 54 Mi limito , qui, ad accostare al Leopardi di Zib., 1174, 16 giugno 1821 («L'uso della moneta [... ] è l'una delle principalissime cagioni che introducono, e a poco a poco costringono la società all'oppressione, al dispotismo, alla servitù , alla gravitazione delle une classi sulle altre, insomma estinguono la vita morale ed intima delle nazioni») il Nietzsche del fr. postumo 6 (40] autunno 1880 (SW, IX, 204; ON, V, 1, 433), in cui si afferma che i «popoli attuali» sono «rincretiniti dalla politica e· dalla bramosia del denaro» . 55 F. IENGO, Il conte Leopardi e la grande città, in AA. VV., Leopardi e il pensiero moderno cit.,

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pp. 163-172. L'autore, che svolge il tema con molta accuratezza, trova che «da un Baudelaire a un Nietzsche nell 'Ottocento, a una sociologia come quella di Francoforte, e a un Walter Benjamin, nel Novecento, per tutto il confronto con la grande città è un punto di pensiero praticamente obbligato» (p. 163). Ai luoghi sulla «grande città» (per quanto «metropoli» possa essere una città dell'Ottocento, poniamo Roma, che entrambi conoscono) di Leopardi, ben visitati dallo Iengo, si possono accos tare molti luoghi di Nietzsche (vedili debitamente registrati alla voce Città (Stadt) , in G. TURCO LIVERI, Nietzsche. Lessico dei concetti e dei nomi delle opere nietzscheane, A~mando, Roma 1982). Dallo studio (che andrebbe fatto con molta attenzione) di questi luoghi «paralleli» può dedursi quale fastidio, sia pure nato da ragioni diverse, accomuna Leopardi e Nietzsche nei confronti di una città non vivibile, a misura d'uomo. Un atteggiamento francamente scettico nei confronti dell'ideologia dell'industrialismo e della tecnica, propria dell'età moderna, vede - e non credo che gli si possa dar torto - C. Luporini in Leopardi, soprattutto in quello della Palinodia al marchese Gino Capponi (Nichilismo e virtù nel percorso di Leopardi, in «MicroMega», 1990, 1, pp. 134-135), rinviando, per l'informazione del poeta-filosofo suHe invenzioni e sulle scoperte scientifiche e tecnologiche impiegate I).ell 'industria, alle quali guarda con simpatia ed ottimismo il gruppo dell'Antologia fiorentina, ad A_. PARRONCHI, Computar, in La nascita dell'infinito , Amadeus, Montebelluna 1989. Senza dubbio, in Leopardi permane il convincimento che il progresso tecnico, e qualsiasi ordinamento politico che possa avvalersene, non è determinante a che non restino «sfortunati», «afflitti e vinti» il «vero valor», la «virtù •>, la di quanti sono «alieni in tutto e lungi/ da' comuni negozi». Allora, egli accenna ad una legge scritta dalla «natura •> e dal «fato in adamante», che «l'Anglia tutta/ con le macchine sue •> non «cancellerà •> (Palinodia , vv. 70 sgg.). Il riferimento all'Inghilterra, che sarà il luogo ideale per le analisi di Marx sulla civiltà industriale che fa l'uso capitalisticamente più spregiudicato della macchina, è importante. Ma Leopardi non avverte in tutta la sua complessità il fenomeno del macchinismo. Da questo Leopardi resta molto distante Nietzsche che lo stesso fenomeno osserva in una stagione di grande sviluppo dell'industria e di organizzazione macchinistica del mondo del lavoro (e l'osserva anche Schopenhauer, soprattutto in Parerga und Paralipomena !) . Cfr., in proposito, ANTIMO NEGRI, Nietzsche e la civiltà del lavoro, in AA. VV., N ietzsche e la fine della civiltà occidentale cit., pp. 30-63. _ Non è dato incontrare in Leopardi una considerazione nietzscheana come questa: «E necessaria sempre meno forza fisica: con l'intelligenza si fanno lavorare le macchine, l'uomo diventa sempre più potente e spirituale» (fr. postumo 1 [133] autunno 1885-prirnavera 1886, SW, XII, 41; ON, VIII, 1, 32). Del resto, il mondo del lavoro che Leopardi mostra di conoscere è pur sempre quello di una civiltà prevalentemente contadina, artigianale, preindustriale (cfr. ANTIMO NEGRI, Leopa rdi e i giorni del «lavoro usato,,, in C. FERRUCCI (a cura di), Leopardi e il pensiero moderno cit., pp. 77-100). 6 1 Da leggere, intanto H.G. INGENKAMP, Leopa rdi und Schopenhauer uber Musik, in Giacomo Leopardi, Rezeption - Interpretation - Perspektiven, «Akten der ersten Jahrestagung der Deutschen Leopardi Gesellschafo•, Bonn-Koln, 9-11 nov. 1990, hrsg. H.L. Scheel-M. Lentzen, Stauffenburg, Bonn-Koln 1992, pp. 109-124. Sull'ironia versata da Leopardi sull '«età delle macchine», cfr. Proposta di premi fatta dall'Accademia dei Sillografi (TO, I, 90) . Un'ironia, quella di Leopardi, che investe anche i ritrovati tecnici più elementari e più casalinghi: ad es., la pentola economica, come in La scommessa di Prometeo (TO, I, 102) e nella stessa Palinodia: «E nove forme di paiuoli, e nove/ pentole, ammirerà l'arsa cucina •> (vv. 120-121) . Che avrebbe detto, oggi, Leopardi, degli elettrodomestici?

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56 Cfr. S. ZWEIG, La lotta col demone. Holderlin, Kleist, Nietzsche, trad. it. di A. Oberdorfer, Sperling & Kupfer, Milano 1933. Manca (e sarebbe auspicabile) nella storia della critica leopardiana qualche scritto in cui, sia pure attraverso Nietzsche, si faccia riferimento a Kleist. Sul rapporto Leopardi-Holderlin, cfr. K. VosSLER, Leopardi (1923), trad. it. di T. Gnoli, Ricciardi, Napoli 1925; G. NEcco, Leopardi e Holderlin, in «Romana>>, 1938-1939; ANTONIO NEGRI, Lenta Ginestra. Saggio sull'ontologia di Giacomo Leopardi cit., passim. 57 Cfr. A. ARBASINO, Signor Leopardi, gradisca un whisky, in «Cultura» de «la Repubblica» del 28 luglio 1992. 58 Cfr. ANTIMO NEGRI, Così Hegel si schierò con la melodia italiana, in «Il Sole 24 Ore», Domenica, 23 febbraio 1992. 59 Cfr. C,P. JANz, Vita di Nietzsche cit., II, p. 82. 6 ° Cfr. M: GREGOR-DELLIN, Wagner, trad. it., Rizzoli, Milano 1983, p. 397. 61 Da leggere, intanto H.G. INGENKAMP, Leopardi und Schopenhauer iiber Musik, in Giacomo Leopardi, Rezeption - Interpretation - Perspektiven, «Akten der ersten Jahrestagung der Deutschen Leopardi Gesellschaft», Bonn-Koln, 9-11 nov. 1990, hrsg. H.L. Scheel-M. Lentzen, Stauffenburg, Bonn-Koln 1992, pp. 109-124.

II LEOPARDI, NIETZSCHE E LA STORIA

1. La seconda >, almeno «non vede salvezza>> in un processo in cui si inscrive, per dir così, un futuro più «felice» del passato, comunque dissimile dal passato. Non scatta ancora la polemica antihegeliana, che si farà aspra soprattutto in UB, II, 8, in contrasto vibrante con la presunzione che si sia attinto «il vertice e il punto terminale del processo del mondo»; ma, certo, già si fa strada una delle idee più folgoranti di Nietzsche, quella di un perenne processo circolare, dell' «eterno ritorno dell'eguale (ewige Wiederkunft des Gleiches)»: Di contro a tutte le maniere storiche di considerare il passato, essi [gli «uomini sovrastorici »] giungono alla piena unanimità sulla proposizione: il passato e il presente sono la stessa e identica cosa (das Vergangene und das Gegenwiirtige ist Eines und dasselbe), cioè tipicamente uguali in ogni varietà (in aller Mannigfaltigkeit typisch gleich) e costituiscono, come onnipresenza di tipi non transitori (als Allgegenwart unvergiinglicher Typen), una struttura immobile di valore immutato e di significato eternamente uguale (ein stillstehendes Gebilde von unveriinderten Werthe und ewig gleicher Bedeutung) (UB, II, 1, SW, I, 256; ON, III, 1, 270). Questa idea, Nietzsche dirà, costituisce «il fardello più pesante (das schwerste Gewicht: FW, V, 341) >> di cui assumerà orgogliosamente il carico. Ma, qui, avverte come il «pensatore sovrastorico (ùberhistorischer Denker) » possa « giungere, nell'infinita sovrabbondanza di ciò che accade», cioè nell'eterno ritornare uguale di ogni evento, anche del più piccolo, «alla sazietà (Siittigung) >>, alla «saturazione ( Obersiittigung) », alla «nausea (Eikel) ». Per questo fardello, assai più pesante del «grande, sempre più grande carico del

Sicché infine il più audace [degli «uomini sovrastorici» che accedono all'idea dell'«eterno ritorno dell'eguale»] è forse pronto a dire al suo cuore con Giacomo Leopardi: Non val cosa nessuna i moti tuoi, né di sospiri è degna la terra. Amaro e noia la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. T'acqueta ornai (A se stesso, vv. 7-11) 9 • Tutto da spiegare questo nuovo ricorso a Leopardi. Il quale pur è molto lontano da Nietzsche, convintissimo che nell 'eterno circolo della storia non ci sono né guadagni né per1ite (fr. postumo 38 [12] giugno-luglio 1885, SW, XI, 611; ON, VII, 3, 293), quando svolge la malinconica considerazione che «se ne porta il tempo / ogni umano accidente» (La sera del dì di festa, vv. 32-33) o quando, come nel Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, in cui la riflessione storica si risolve in una suggestiva visione cosmogonica, pur non rinunciando al motivo di una «durazione eterna della materia», sempre la stessa come la sabbia della clessidra nietzscheana (FW, V, 341), parla della formazione, dovuta alle >, dal perenne >, in una parola come «la forza plastica della vita (die plastische Krajt des Lebens)» (UB, II, 10, SW, I, 329; ON, III, 1, 264), indispensabile «per determinare il limite in cui il passato deve essere dimenticato, se non vuole diventare l'affossatore del presente (Totengraber des Gegenwdrtigen) », come si legge sempre in UB, II, 1. Il tema della dimenticanza del passato ritorna in primo piano. E la dimenticanza del passato, sia pure limitata perché l'« uomo storico» non può e non deve regredire, come si avvertiva, al livello di un'assoluta animalità: o di un'assoluta infanzia, è tematizzata come quella propria dell 'animale o del fanciullo. Questo, dirà anche Nietzsche, è «oblio (Vergessen)» (Z, I, Von den drei Verwandlungen). «Oblio», specificamente oblio del passato, è, soprattutto, l'animale. Ed è il punto di vista fondamentale a Nietzsche suggerito da Leopardi: del resto, in un appunto fissato per la stesura di UB II, 1, si legge: «Nessuna considerazione del passato. Animale. Leopardi» (S W, VII, 676). Lo svolgimento dell'appunto spinge, come si è visto, Nietzsche sino all'enucleazione dell'idea dell'«eterno ritorno dell'eguale», alla quale non accede Leopardi che pure gli offre la possibilità di esprimere, nella maniera più efficace, la grande, sovrumana «pazienza» necessaria a «portare» il «fardello più pesante» dello stesso «grande, sempre più grande carico del passato». Eppure, Nietzsche, nonostante qualche evidentissimo debito, anche di ordine concettuale, che ha nei confronti del poeta-filosofo italiano, si preoccuperà non poco, ad un certo punto, di prendere orgogliosamente distanza dal pessimismo di Leopardi. La ragione sta nel fatto che egli, a dispetto di

ogni rifiuto, da parte di Leopardi, di una lo.che résignation di fronte al fato non riconosce, in quello leopardiano, un «pessimismo classico (klassischer Pessirnismus) », un «pessimismo della forza (Pessimismus der Starke)» , ma solo un «pessimismo romantico (romantischer Pessimismus)», , pensa sempre ad un futuro altro dal passato, anzi migliore del passato, e quindi nella conquista storica di una definitiva «salvezza», di un «presente» assolutamente razionale ed eterno. E si sa bene che un tale pensiero non trova ospitalità nella testa di Leopardi assolutamente ostile ad un ottimismo spiritualistico che apre alla fiducios a ed anche entusiastica attesa di un avvenire felice, e ad un certo punto felicissimo, del genere umano.

2. Che cosa è la storia per Leopardi (in un possibile dialogo con Schopenhauer, Burckhardt e Nietzsche) Ho avuto modo di accostare la «storia antiquaria» di Nietzsche alla storia come «racconto di avvenimenti successivi e susseguenti» di Leopardi 17 • Ma è

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opportuno vedere più da vicino perché, per Leopardi, la storia sia questo racconto e in che cosa più propriamente esso consista. Le considerazioni in proposito possono avviarsi accettando qualche suggerimento di F. De Sanctis, autore del saggio Schopenhauer e Leopardi, già chiamato in causa. Suggerisce, anzi tutto, De Sanctis: Leopardi non crede al progresso, si ride della filosofia della storia e reputa insanabili i nostri mali 18 • La «filosofia della storia» di cui >, Teofrasto, autore di una «storia delle piante», Plinio che chiamò «istoria naturale» un' «opera enciclopedica e non ristretta nei termini della storia così nominata». Tuttavia:

La storia si riduce a «cognizione di aneddoti». Né a questi aneddoti si può portare fiducia, come a quelli che si riferiscano a fatti che «hanno un interesse filosofico>>, se, spesso, > e non . A Newton Leopardi riconosce, come a Cartesio, Galileo e Locke, il merito di (Zib., 1857, 5-6 ottobre 1821). Avverte, tuttavia, che il «sistema positivo» di Newton «già vacilla nelle scuole» (Zib., 2709, 21 maggio 1823); e ne spiega le ragioni: Grandissima, e forse la maggior prova e segno del progresso che ha fatto negli ultimi tempi lo spirito e il sapere umano in generale e le scienze fisiche in particolare, è che per ispazio di quasi un secolo e mezzo, quanto ha dalla pubblicazione de' Principii matematici di filosofia naturale a' dì nostri ( 1687), non è sorto sistema alcuno di fisica che sia prevaluto a quello di Newton, e quasi niun altro sistema di fisica assolutamente, almeno che abbia pur bilanciato nella opinione p. un momento

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La philosophia naturalis di Newton, che pur voleva costituire un «sistema positivo», una «scienza esatta», escludente ogni ipotesi 38, è dichiarata insufficiente anche «per spiegare veramente a fondo i fenomeni naturali». Come ritenerla idonea, allora, a fornire uno statuto epistemologico alle scienze che hanno ad oggetto le res gestae degli uomini? E vero, del resto, che la «presente civiltà», cioè una civiltà in cui scienza e storia tendono a fondersi e a confondersi, mostra, secondo Leopardi, i segni di quella «estinzione» che egli aspetta per andare oltre quell'ibrido o quel grottesco individuato nella «storia naturale» che, in quanto «scienza esatta», di cui offre un modello Buffon 39 , a tutto può aspirare tranne che ad essere , è finita o sta per finire, secondo Leopardi. La prova sta nel fatto che non soltanto nella fisica, ma anche nelle altre scienze, e comunque nell' «andamento dell'intelletto», cioè nell'indirizzo generale dello spirito umano, prevale l' «esame fondato dei particolari», il riferimento alla «pratica», all' «esperienza>>, alle , invano, quindi, ascrivibili ad una Provvidenza (Zib ., 208, 13 agosto 1820) che agisca dentro o al di sopra di esse. Questo Leopardi, da ultimo, ben è quello per il quale è difficile, se non impossibile scrivere la storia degli «avvenimenti successivi e susseguenti» la cui chiave di lettura è fatta consistere nella conoscenza di aneddoti variamente raccontabili. Sì, è il Leopardi che, come vuole De Sanctis, «si ride della filosofia della storia» e che, finché si ride solo di questa, ben potrebbe avere come interlocutori Schopenhauer o, anche, Burckhardt e Nietzsche. Il problema è che Leopardi si ride della stessa storia. Anche di una storia che, si pretende antihegelianamente, non finisce ed anzi si ripete, «ritorna», instancabilmente, corre e ricorre 41 , sino al punto che le si può dare, comunque, un senso, sia pure solo quello che non faccia delle res gestae dei « gradini», più o meno «dialettici», verso una dorata mèta finale. E si ride della stessa storia, Leopardi, di essa sia come «accozzamento» di res gestae sia come historia rerum gestarum. Forse più di questa seconda che della prima, perché convinto che qualsiasi «racconto» delle res gestae è, più che una storia, una favola o, anche, un romanzo 4 2 , tessuto di «aneddoti sempre difficili, spesso impossibili a sapere>>. Una cosa è certa per altro: Leopardi non crede che la storia, in quanto historia rerum gestarum, possa istituire tra gli «avvenimenti successivi e susseguenti>> un rapporto che sia quello dell'hoc et propter hoc e non piuttosto quello del post post hoc. È una delle grandi categorie esplicative dei fatti umani, sociali, storici, cioè la categoria della causalità più deterministica che viene espulsa dalla storia in quanto «cognizione di aneddoti». Non che di questa categoria Leopardi non faccia conto. Anzi, precisa:

dagli individui particolari, in cui le «cagioni che operano» sono così grandi, tante, così varie, così «difficili a congetturare» . Resta, intanto che, anche quando queste «cagioni» fossero facilmente congetturabili, ad essere estromessa dalla storia - dalla storia, insisto, in quanto historia rerum gestarum è una causalità deterministica che solo potrebbe farne una «scienza>>ed anzi una «scienza esatta», per di più aperta sul futuro, cioè su ciò che non è ancora accaduto, immaginandolo come «quel che sempre accadde ed accade in un modo»: ad essere bandita è anche la categoria «positivistica» della prevedibilità. Non è per questo, anche, che Leopardi dice la storia «inutile ai lettori»? Soprattutto, aggiungerei, a quei lettori che ne volessero trarre un insegnamento (la , che di per se stessa ne è sfornita, allo stesso modo in cui non è provvista di uno «scopo», di una «segreta guida razionale», di un «istinto » idonei a non ridurla ad un ammasso di casi. Vero è, però, che questo stesso Nietzsche ancora una volta si allontana da Leopardi non appena «annienta» i fatti umani, sociali, storici, per casuali che vengano considerati anche da lui. Leopardi, si è visto, contro ogni sistemazione o generalizzazione violenta, dà spazio all' «esame fondato dei particolari», alla «pratica», all'« esperienza», alle che non è più quella dell 'Elogio degli uccelli: «Oimé, quanto somiglia/ al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,/ della novella età dolce famiglia, / e te german di giovinezza, amore, / sospiro acerbo de' provetti giorni, / non curo, io non so come ... » (vv. 17-22). 8 Questo tipo di storia, anche di «storia naturale », cui finisce col contestare il carattere scientifico, è ben quella sulla quale scriverà Leopardi: «Perché dunque si dà a questa scienza il nome di storia? Perocch 'essa fu fondata da Aristotele: il quale la chiamò istoria, perché questo nome in greco viene da istor (conoscente, intendente, dotto), verbale fatto dal greco isém i (scio) e vale conoscenza , notizia, erudiz ione, sapere, dottrina, scienza, > (Nietzsche), «si estraneano dal mondo (sich der Welt enifremden) >>.

Che peccato che tutto il sud d'Europa abbia perduto il retaggio di quella dominata sensualità (die Vererbu ng j ener gebandigten Sinnlichkeit), per l'astinenza del clero!

E d1 questo loro comune destino di estraneazione dal mondo (o di «inattualità» ) ride ancora, anzi ghigna 5 Nietzsche: Mi delizia (es ergotzt mich) pensare alle rivincite che la dura naturalità della natura (derbe Natiirlichkeit der Natur) si prende su tale sorta di uomini (fr. postumo 34 (95) aprile-giugno 1885, SW, XI, 451; ON, VII, 3, 130).

L'attenzione di Nietzsche si appunta, soprattutto, sulla rivincita che la «dura naturalità della natura» si prende su Leopardi. Nella natura più duramente naturale rientra il «bisogno di un buon posto» o il «bisogno di una donna» (fr. postumo 26 (405] estate-autunno 1884 cit. ). Bisogni insoddisfatti, soprattutto il secondo, in Leopardi. E, nell'occasione, Nietzsche non è alieno dal dar credito a delle dicerie infamanti: «~ecentemente i gesuiti hanno scoperto che Leopardi ... » (Ibidem); «Sento dire che Leopardi praticò prima l'onanismo e poi fu impotente» (fr. postumo 34 (96] aprile-giugno 1885 cit.). Si precisa il carattere del «falso idealismo» dei presunti «grandi uomini» 6 : si tratta, ritiene Nietzsche di «anime avvezze a tener celata una qualche crepa (Bruch)», di «uomini ~he spesso nelle loro opere si prendono vendetta di una interiore sozzura (innere B_es~delung)» (1GB, IX, 269, SW, V, 224; ON, VI, 2, 192), di «idealisti per la v1cmanza del pantano (Idealisten aus der Niihe des Sumpfes)» (Nietzsche contra Wagner, SW, VI, 434; ON, VI, 3, 409). E al «pantano» cui sarebbe vicino soprattutto Leopardi si fa riferimento senza mezzi termini nel fr. postumo 15 (34] primavera 1888: «Leopardi: deviazioni sessuali al principio, impotenza precoce come conseguenza» (SW, XIII, 429; ON, VIII, 3, 218)7.

Se vicino o dentro questo «pantano» si trova Leopardi, se in lui c'è una «crepa» che invano cerca di nascondere un' «interiore sozzura», sulla quale vuole prend~re vendetta nella sua opera, tutto ci si può aspettare da lui tranne che sia capace di far tacere i bisogni della , anzi tutto il bisogno di una donna in modo che questo, soprattutto quando più insoddisfatto, non abbia a prendersi la rivincita su di lui, anche attraversò «deviazioni sessuali». Nel fr. postumo 34 (95] aprile-giugno 1885 già citato:

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Il dominio sulla sensualità, ordinato da una morale a tendenza ascetica e antiestetica, in senso lato «platonica», può essere esercitato solo a patto che ci sia l'effettiva capacità di dominarla, l'inclinazione naturale alla castità. Ma:

Il guaio è che una certa incapacità di «dominarsi» (di non reagire agli stimoli, agli stimoli sessuali, per quanto piccoli) è proprio una delle più regolari conseguenze dell'esaurimento totale (fr. postumo 23 (1] ottobre 1888, SW, XIII , 599; ON, VIII, 3, 365).

L'«incapacità di dominarsi (Unfiihigkeit sich beherrschen)», di «reagire agli stimoli sessuali (auf Geschlechtssreize zu reagiren) » è provocata inevitabilmente da un «esaurimento totale (Gesamt-Erschopfung)». Una tale incapacità segna la vita di Leopardi, dal quale, una volta alle prese con la «dura naturalità della natura», invano si pretende, clericalmente e moralisticamente, una castità che, di fatto, attraverso «deviazioni sessuali », oggetto di studio e di cura più della medicina che della religione e della morale, non ha. E il prosieguo del frammento è, in proposito , estremamente esplicito: Si sbaglierebbe se ci si rappresentasse per esempio Leopardi come casto (keusch). Il prete e il moralista giocano qui una partita persa; e si fa ancor meglio a mandare in farmacia.

Malato, da ultimo, secondo Nietzsche, il poeta-filosofo italiano, «fisiologicamente decadente» (fr. postumo 15 (35] primavera 1888, SW, XIII, 395; ON, VIII, 3, 218), «impotente», non «casto>>, preso da un , come suona il titolo del frammento. E vuole essere, soprattutto, un comandamento forte, da far rispettare a qualsiasi costo. Accade anche che Nietzsche, pronto a spezzare la tavola dei «valori» sempre convenzionali della società, alla stessa società affida il compito di farla rispettare: La società, come grande mandataria della vita, deve rispondere di ogni vita fallita davanti alla vita stessa; deve anche espiare: e dunque la deve impedire. La società deve, in numerosi casi, prevenire la generazione; a tal fine le è lecito tener pronte, senza preoccuparsi dell'origine, del rango e dell'intelligenza, le più dure misure di costrizione, soppressioni di libertà e, in determinati casi, castrazioni. Più espressamente, nel fr. 15 (3] primavera 1888: In tutti i casi in cui un figlio sarebbe un delitto: per i malati cromc1 e i nevrastenici di terzo grado, e in cui d'altronde l'opporre un veto all'istinto sessuale in genere si risolverebbe in un pio desiderio (questo impulso presenta anzi spesso, in malcapitati del genere, una repugnante eccitabilità), è da prescrivere che la procreazione venga impedita (SW, XIII, 401; ON, VIII, 3, 191). E si spiega: Mettere un figlio in un mondo in cui uno non abbia lui stesso il diritto di stare, è peggio che togliere la vita a qualcuno. Il sifilitico, che fa un figlio, dà origine a tutta una catena di vite fallite, crea un'obiezione alla vita (Einwa nd gegen das Leben), è un pessimista dell'azione: ed effettivamente il valore della vita viene da lui ridotto fino a divenire incerto (Ibidem ).

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Il giovane Nietzsche è stato frequentatore di bordelli; e non è improba9

bile che in un bordello - una vera e propria istituzione sociale da lui difesa - abbia contratto la sifilide 10 • Si deve leggere, allora, nelle parole da ultimo citate, anche l'espressione della presa di coscienza della necessità di un impegno a non creare, contraendo un matrimonio 11 , un' «obiezione alla vita», da parte di Nietzsche che si sa malato di sifilide? Se si risponde positivamente a questa domanda, bisogna ammettere che la «castità» cui si vota Nietzsche non è quella che deriva da un atteggiamento di condanna della «sensualità», bensì quella che proviene dalla capacità di dominare un istinto sessuale che, rroprio perché di un uomo malato, ha una sua «repugnante eccitabilità». E un punto di forza che Nietzsche raggiunge contro la carne, il corpo, la sensualità; o, magari, pretende di raggiungere. Sfidando ogni prescrizione sociale, clericale e moralistica, sino a diventare, cessando di dissipare l'energia in un atto sessuale e conservando «una grande misura in eroticis», un «uomo superiore>> nei confronti della , un «prurito della parte interna» che si sfoga di fronte ad una «sciocchezza>>, come un «sonoro e convulsivo atto». «Facoltà», >, strano, che l'uomo fa del riso induce a ricordare la «cosa notabilissima» di Zib., 188, 26 luglio 1820, sulla quale già si è richiamata l'attenzione. Ma, in questo caso, non tanto di riso, come si avvertiva, si tratta, quanto piuttosto di una ghignante risposta all'infelice condizione umana, della quale prende, può prendere coscienza, secondo Leopardi, solo un uomo maturo e libero da ogni illusione infantile:

1825).

Pure, non tutti gli uomini, crescendo, si fanno incapaci di felicità e disponibili al riso. La «virtù», la «facoltà» o la «potenza» del riso, che suona come un grido di vendetta nei confronti di una vita spogliata di ogni attrazione (si è osservato che Nietzsche non crede a questo tipo di vendetta) , può essere esercitata solo da pochi. In Zib., 107: «Il riso dell'uomo sensitivo e oppresso da fiera calamità è segno di disperazione già matura»; e, sempre nell'Elogio degli uccelli, Leopardi incalza: Anzi, quanto conoscono meglio la vanità dei predetti beni, e l'infelicità della vita; e quanto meno sperano, e meno eziandio sono atti a godere; tanto maggiormente sogliono i particolari uomini essere inclinati al riso (TO, I, 153). I «particolari uomm1», fortemente «sens1t1v1», non sono uomm1 comuni. Si possono dire anche, con il Nietzsche già citato, «infelici raffinati», senza dare all'espressione il senso negativo che le dà il filosofo-poeta tedesco, con il quale ancora si può affermare che questi uomini costituiscono una sorta di Ubermenschen. Sembra si affacci, infatti, quasi la nozione di una aristocrazia di uomini ridenti, intrepidamente volti, se non a prenderne vendetta, certo a dominare un mondo di cui si scopre la «vanità» e a non esserne dominati: Chi ha il coraggio di ridere, è padrone del mondo, poco altrimenti di chi è preparato a morte (Pensieri, LXXVIII, TO, I, 237); Chi ha il coraggio di ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire (Zib. , 4391, 23 settembre 1828) .

Nulla, intanto, secondo Leopardi, hanno a che fare con questa aristocrazia (e non ne fa parte solo Bruto minore) gli uomini delle «nazioni civili» del «tempo presente» (si riaffaccia il motivo nietzscheano dell' «inattualità») , non tanto di «espressione della estrema disperazione e della somma infelicità>> (Zib., 87) quanto piuttosto di più o meno brillante frivolezza, idonea a conseguire un effimero successo mondano: Tanto l'uomo è gradito e fa fortuna nella conversazione e nella vita, quanto ei sa ridere (Zib ., 3360-3361, 5 sett. 1823).

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Un «pensiero», questo, ulteriormente sviluppato: Ridete franco e forte, sopra una qualunque cosa, anche innocentissima, con una o due persone, in un caffè, in una conversazione, in via: tutti quelli che vi sentiranno e vedranno rider così vi rivolgeranno gli occhi, vi guarderanno con rispetto, se parlavano, taceranno, resteranno come mortificati, non ardiranno mai rider di voi, se prima vi guardavano baldanzosi o superbi, perderanno tutta la loro baldanza e superbia verso di voi. In fine , il semplice rider alto vi dà una decisa superiorità sopra tutti gli astanti o circostanti, senza eccezione (Zib ., 4391, 23 sett. 1828).

Il riso, in questo caso, più che la «potenza» di uomini «particolari>> e «sensitivi», è un mezzo, tutto moderno, superficialmente mondano, di cui si servono gli uomini delle «nazioni civili>>, affaccendati, essi che ormai mancano della «virtù», della «giustizia» e dell'«onore» degli antichi (sempre vivace, anche virulenta la polemica contro i tempi moderni), in una gara anche slealmente condotta per emergere: Come con le donne abbattere i rivali, e far solitudine dintorno a sé, così nel mondo è necessario atterrare gli emuli e i compagni, e farsi via su pei loro corpi: e si abbattono questi e i rivali colle stesse armi; delle quali due sono principalissime, la calunnia e il riso (Pensieri, LXXV, TO, I, 236).

D'altra parte, nei tempi moderni, l'oggetto stesso del riso, ciò che provoca il riso, il ridicolo ha perduto, secondo Leopardi, la corposità, la solidità che aveva nei tempi antichi. Infatti, «i moderni mettono (nel ridicolo) un'ombra, uno spirito un vento un soffio un fumo»', trasferendolo dalle cose alle parole: Ora a forza di motti s'è renduto spirituale anche il ridicolo, assottigliato tanto che ornai non è più neppur liquore ma un etere un vapore, e questo solo si stima ridicolo degno delle persone di buon gusto e di spirito e di vero buon tuono, e degno del bel mondo e della civile conversazione (Zib., 41-42).

Il riso, nella modernità, diventa facezia, motto di spirito 15 • Il ridicolo perde ogni dimensione reale (non vi sono più cose effettivamente «ridicole»), sì che, ad un certo punto, si finisce col ridere anche e soprattutto di cose che «ridicole» non sono: Delle cose veramente ridicole nella società o negl'individui è ben raro trovar chi ne rida. E s'alcuno ne ride, difficilmente trova il compagno che l'aiuta a farlo, e che

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gli dia ragione, o che pur senta la causa del suo riso. Gli uomini per lo più ridono di cose che in effetto son tutt'altro che ridicole, e spesso ne ridono per questo appunto che non sono ridicole. E tanto più ne ridono quanto meno elle sono tali (Zib., 3000, 21 luglio 1823).

Avviene, questo, tra le «persone di buon gusto e di spirito e di vero buon tuono», le quali istituiscono, da ultimo, un conformismo nel modo di ridere, imponendo una misura del ridicolo che Leopardi, aristocraticamente ridente, respinge. Vicino, molto vicino a questo Leopardi, nonostante ogni avversione alla morbosa spiritualità (ma non solo a questa) del poeta-filosofo italiano, è Nietzsche che irride all'idea, non poco prepotente, del ridicolo, propria delle persone che, tutto sommato imponendola, generano la paura di essere e di diventare oggetto di riso: Quanto a me, non ho un'idea di una persona che voglia essere così come impone il buon tono: che non osa amare, odiare, giudicare, prima di sapere che cosa prescriva in tal caso il buon tono . Dunque, certamente, non ho un buon tono! Anzi, disprezzo tutti quelli che vogliono essere come un altro! che stanno a guardare per stabilire che cosa diranno gli altri sulle loro azioni! che pensano sempre agli altri, non per giovare loro, bensì per non essere ridicoli ai loro occhi (se fossero ridicoli, li divertirebbero! orrore!). Ma perché non dovremmo dare materia di riso? Noi stessi ne ricaviamo un vantaggio, se il nostro prossimo è di buon umore! «Ma non portano più rispetto, se ridono!». Ma perché debbono temervi? E, guai a me, se basta ~ualcos~ di ridicolo in me stesso a togliermi il rispetto per me! M a questo avviene net vanitosi, che vorrebbero distruggersi dopo un errore di etichetta (fr. postumo 8 [60] inverno 1880-1881, SW, IX, 395; ON, V, I, 587).

Del resto, che cosa c'è, per Nietzsche, di «ridicolo » in sé? Divenuto, proprio come vuole Leopardi, «spirituale» il «ridicolo» , una volta che esso, con la modernità, ha cessato di essere ). Oggi si chiede che cos'è il riso? Come nasce il riso? Dopo matura riflessione si è giunti infine a stabilire che non v'è nulla di buono, di bello, di sublime, di malvagio in sé, bensì stati d'animo, in cui attribuiamo tali parole a cose che sono fuori e dentro di noi. Ci siamo ripresi di nuovo i predicati delle cose, o per lo meno ci siamo ricordati che noi li abbiamo prestati ad esse (M, IV, 210, SW, III, 189-190; ON, V, 1, 158).

In Zib., 324, si legge che «il vino è il più certo, e (senza paragone) il più efficace consolatore». Consolatrice è l' >. Tuttavia, per Leopardi come per Nietzsche, ci sono cose non «ridicole in sé» che suscitano, e non dovrebbero, suscitare riso, ilarità, scherzo. Con evidente riferimento al suo stato fisico, allora, Leopardi: È molto facile lo scherzare sulle cose straordinarie, sui difetti del corpo ec. (Zib ., 1774, 23 sett. 1821);

e Nietzsche:

Il pazzo, l'invalido come suscitatore di ilarità. L'esempio raccapricciante di Don Chisciotte. Efesto nell'Olimpo» (fr. postumo 4 [19) estate 1880, SW, IX, 106; ON, V, 1, 351).

3. Perché Leopardi non ride come ride Nietzsche È vero, intanto, che il riso, da Leopardi, oltre che come >; per ciò stesso, non nesce ad avere l'« aureo riso» degli dèi, a conciliare la serietà del pensiero con la giocon~ità del riso. Leopardi, insomma, resta lontano, lontanissimo, dal concepire,

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A dispetto di quel filosofo che da vero inglese cercò di creare una cattiva fama al riso in tutte le teste pensanti - (Hobbes) - mi permetterei perfino di stabilire una gerarchia dei filosofi secondo la dignità del loro riso - su, su, fino a quelli che sono capaci dell'aureo riso. E posto che anche gli dèi filosofeggino come più di una deduzione mi ha indotto a credere - non dubito che essi sappiano · anche ridere in una guisa nuova e sovrumana - e in barba a tutte le cose serie! Gli dèi amano motteggiare: pare che nemmeno nelle sacre azioni possano impedirsi di ridere (SW, V, 236; ON, VI, 2, 202-203).

Il «riso olimpico», quello stesso che non sa ridere Leopardi, può e deve essere, intanto, secondo Nietzsche, anche il riso degli uomini. Il filosofopoeta tedesco, almeno, lo spera: È sperabile che vi siano ancora abbastanza persone le quali sappiano che cos'è una risata olimpica (fr. postumo 2 [40) primavera 1880, SW, IX, 40; ON, V, 1, 297-298).

Tra queste persone non c'è Leopardi, il cui riso è, appunto, tutt'altro che «olimpico». Eppure, nello stesso frammento postumo, Nietzsche assicura che la «risata olimpica viene quando qualcuno è sollevato perché gli altri non condividono i suoi gusti». Se è così, anche Leopardi, che per lo meno ride «inattualmente» e, come si è visto, è alieno dal ridere cedendo al conformismo del bon ton, merita di far parte, per dir così, di un'aristocrazia di uomini ridenti, anche se egli non riesce mai a ridere «olimpicamente». Afferma, da ultimo, Nietzsche, che «coloro i quali sono profondamente feriti hanno il riso olimpico» (fr. postumo 18 [1] luglio-agosto 1888, SW, XIII, 531; ON, VII, 3, 323). Senza dubbio, Leopardi è un uomo «profondamente ferito». Ma chi può dire che il suo sia un «riso olimpico»? Anche Nietzsche è un >, che «prometteva in premio a quello il cui ritrovamento fosse giudicato più bello e più fruttuoso, una corona di lauro », un premio dia anche a Bacco «per l'invenzione del vino» (TO, I, 102). Questo Leopardi, qualche buon bicchiere di vino, lui

Particolarmente là dove si fa riferimento ai «rapporti scambievoli» degli oggetti non «veduti insieme», si avverte la critica dell'analisi che >. Zarathustra non offre, come Cristo, pane e vino, il suo corpo e il suo sangue. Come può offrirli se è solo un «bevitore d'acqua»? Lo scherniscono, anche, per questo: Ma sentitelo questo goloso di Zarathustra [... ]. Forse che si va nelle caverne e sulle alte montagne per fare di questi pasti? (SW, VI, 354; ON, VI, 1, 346).

Potrebbe rispondere Zarathustra: Ecco che mi guardano e ridono: e nel ridere mi odiano anche. V'è del gelo nel loro riso (Z, Vorrede, 5, SW, IV, 21; ON, VI, 1, 12).

Ma resta «di buon umore» Zarathustra, lui che è, ormai, anche anticri-

L'estasi dello stato dionisiaco, con il suo annientamento delle barriere e dei l~n:1iti abituali ~ell'esistenza, contiene nel suo perdurare un elemento leta rgico, in cui s1 immerge tutto ciò che è stato vissuto nel passato. Attraverso questo abisso dell'oblio si dividono così l'uno dall'altro il mondo della realtà quotidiana e quello della realtà dionisiaca. Ma non appena quella realtà quotidiana rientra di nuovo nella coscienza, viene sentita come tale con digusto [... ]. N ella consapevolezza del risveglio dall'ebbrezza, egli vede ovunque l'atrocità o l'assurdità dell'esistenza umana (SW, I, 566; ON, III, 2, 63-64).

Anche qui è evidente l'influenza di Schopenhauer. L'«elemento letargico, in cui si immerge tutto ciò che è stato vissuto nel passato», nello stesso momento in cui richiama in mente qualche motivo della Inattuale sulla storia 27 , può far anche pensare all 'àvmcrOT)cria di cui si è sentito parlare Leopardi. Con il quale Nietzsche, almeno fin quando accenna ad una «ebbrezza per influsso delle bevande narcotiche», sembra condivida il punto di vista secondo cui l'ebbrezza da vino o da altre bevande alcoliche può alimentare l'ispirazione del «poeta lirico», quando scrive che, «perché vi sia arte,

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perché vi sia un qualche contemplare o agire estetico, a tal fine è indispensabile un presupposto fisiologico: l'ebbrezza» (CD, Streifz iige eines Unzeitgemassen, 8, SW, VI, 116; ON, VI, 3, 112). Questo Nietzsche, si può dire, non è ancora, pure in quanto cerca di spiegare l'«essenza del dionisiaco», un «bevitore d'acqua». Per lui, il vino non è ancora diventato feccia, non gli corre ancora dietro, come un cane, un bicchierino d'acqua. Ma, certo, anche quando maggiormente è convinto che a quell'essenza ci si può accostare >6. evidenziata, ancora con acerba ironia, ne Il Copernico: Ma ora se noi vogliamo che la Terra si parta da quel suo luogo di mezzo; se facciamo che ella corra, che ella si voltoli, che ella si affanni di continuo, che eseguisca quel tanto, né più né meno, che si è fatto di qui addietro dagli altri globi; infine, che ella divenga del numero dei pianeti; questo porterà seco che sua maestà

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LEOPARDI, NIETZSCHE E LA RIVOLUZIONE COPERNICANA

terrestre , e le loro maestà umane , dovranno sgomberare il trono, e lasciar l'impero; restandosene però tuttavia co ' loro cenci, e colle loro miserie, che non sono poche (TO, I, 169; il corsivo è mio).

L'antropomorfismo esalta l'uomo, lo lascia insuperbire quasi antropolatricamente. Colpendolo , il copernicanesimo m ette in questione anche la suprema dignitas horninis celebrata con retorica umanistico-rinascimentale 9 , sollevata a distintivo orgoglioso di un mortale che pur vive su un «granellino di sabbia» (Il Copernico , TO , I, 167), in «questo oscuro / granel di sabbia, il qual di terra ha nome>> (La ginestra , 190-1 91 ). L'abbassamento dell ' «idea ddl 'uomo», la Verkleinerung dell'uomo è perentoria: e maggiormente si fa tale quando si arriva alla conclusione che, in «questo globo» , > si espande in «pluralità di mondi>> in cui viene ridimensionata 8 la stessa «regalità>> del sole che, se pur guadagna una sua centralità, questa acquista in un mondo e non in un sistema di mondi.

Considerare l'ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell 'animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che l'animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che siffatto universo; e sempre accusare le cose d'insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto , e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana (TO, I, 234).

La rivoluzione copernicana trova, si sa, in Giordano Bruno, il filoso fo più coerente, pronto a trarne conseguenze non puramente astronomiche. È

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il destino stesso dell 'uomo, non solo della sua miseria nìa anche della sua grandezza, che si giuoca nella nuova filosofia che la stessa rivoluzione copernicana costituisce o genera, soprattutto con Bruno. Il quale, anche questo si sa, trasferisce la teoria eliocentrica dal piano dell'ipotesi a quello del «dogma» (è il termine usato da Leopardi nel passo citato dei Paralipomeni), esponendosi alla salita sul rogo cui, sempre con ironia, si accenna alla fine de Il Copernico: Ti (a Copernico) dico io dunque che forse, dopo te, ad alcuni i quali approveranno quello che tu avrai fatto, potrà essere che tocchi qualche scottatura, o altra cosa simile (TO, I, 171).

Bruno, qui da Leopardi citato per allusione l'unica volta, non si limita ad «approvare» la rivoluzione copernicana. L'autore di De l'infinito, universo e mondi (1584) fa di più: esalta, copernicamente appunto, una «potenza d'intelletto» che «puote aggiungere spacio a spacio, mole a mole, unitade ad unitade, numero a numero», in modo che «circolo di orizzonte, mentito de l'occhio in terra e finto da la fantasia nell'etere spacioso», non «ne possa imprigionare lo spirito» 12 • «Aggiungere spacio a spacio» è l' «immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito» di Leopardi. E questo «immaginarsi» vale la «finzione» de L'infinito, il miracoloso idillio del 1819: Sempre caro mi fu quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensidr mi fingo (vv. 1-7).

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Certo, intanto, Liopardi è anche lettore di Pascal 13 ; e indubbiamente pascaliano è lo spirito del LXVIII dei Pensieri citato, al «patire mancamento e voto, e però noia» del quale si può connettere il «per poco / il cor non si spaura» de L'infinito (vv. 7-8), almeno nel ricordo della penseé (206 ed. Brunschvicg) in cui Pascal afferma e quasi esclama: Le silence de ces espaces

infinis m'effraye 14 • Ma gli (Nietzsche) . Oltre l'orizzonte così segnato, si spalanca un infinito, quello stesso additato da una scienza naturale che, a meno che non faccia «tentativi di rifugiarsi nell'al di là», ha incalcolabili 1 I «conseguenze nichilistiche» (fr. postumo 2 (127) autunno 1885-autunno ) 1886 già citato) e atee. Si può cominciare a comprendere leggendo FW, III, 125: Chi ci dette la spugna per strusciar via l'intero orizzonte (u m den ganzen Horiz ont wegzuwischen)? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov'è che si muove ora? Dov'è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? (SW, III, 481; ON, V, 2, 129).

Nella bozza, prima della correzione, il testo nietzscheano suonava così: E senza questa linea, senza questo punto - che ne sarà di tutta la nostra architettura? Continueranno le nostre case a stare in piedi? Continueremo noi stessi a stare in piedi? (cfr. ON, V, 2, 544).

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La rivoluzione copernicana comporta un terremoto che destabilizza le case e gli uomini. Non possono essere stabili, le case e gli uomini, quando la terra è fatta scivolare lontana dal sole, con un movimento che è come una caduta libera, non si sa né da dove né verso dove: Non è il nostro un eterno precipitare? E all'indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla (Irren wir nicht wie dure/i ein unendliches Nichts)? (FW, III, 125 cit.).

Ed un respiro pascaliano sembra abbia anche una delle ultime domande di Nietzsche: «Non si è fatto più freddo (Ist es nicht kalter geworden)?». Ma non tanto, poi, da indurre Nietzsche, certo lettore di Pascal e conoscitore di Bruno 15 , a dimenticar la leopardiana «dolcezza» del naufragio nell'infinito. In questo infinito, l'uomo non perde solo la sua centralità, in quanto terrigena. Perde anche una stabilità che non può assolutamente avere quando non sa più se la sua casa mondana va indietro o in avanti, di fianco o da tutti i lati, in alto o in basso. Ha scritto A. Koyré che «al termine della rivoluzione (copernicana), troviamo il mondo privo di senso della moderna filosofia scientifica: troviamo, infine, nichilismo e disperazione» 16 • Senza dubbio, troviamo anche disperazione (il «mancamento e voto» o il cuore che «per poco non si spaura» di Leopardi; il «non si è fatto più freddo?» di Nietzsche che ricordano l'ef.frayamment di Pascal); ma non si può disconoscere che incontriamo anche un intrepido nichilismo, in forza del quale si instaura una «gaya scienza» 17 del mondo, cioè una scienza che non dà del mondo una conoscenza «positiva», certa ed ottimistica, più da favola che da storia, più poetica che filosofica, più consolatrice che veritiera, quella stessa che viene bandita dalla scienza o, se si vuole, dalla filosofia copernicana. Su quest'ultimo punto conviene reinterrogare brevemente Il Copernico. Dove, Leopardi lascia così parlare il Sole: I poeti, ora con una fola, ora con un'altra, dando ad intendere che le cose del mondo sieno di valuta e di peso, e che sieno piacevoli e belle molto, e creando mille speranze allegre, spesso invogliano gli altri di faticare; e i filosofi gli svogliano (Il Copernico, TO, I, 167).

Il leopardista attento ricorre, in proposito, ad una ricca ed istruttiva messe di citazioni dallo Zibaldone, per provare come Leopardi >. Nel Dialogo della Terra e della Luna, il satellite alla terra anticopernicanamente elevata a signora dell'universo: Perdona, monna Terra, se io ti rispondo un poco più liberamente che forse non converrebbe a una tua suddita e fantesca come io sono. Ma in vero tu mi riesci peggio che vanerella a pensare che tutte le cose di qualunque parte del mondo sieno conformi alle tue; come se la natura non avesse avuto altra intenzione che di copiarti puntualmente da per tutto. lo dico di essere abitata, e tu di questo conchiudi che gli abitatori miei debbono essere uomini (TO, I, 99). La luna parla alla terra >. E si potrebbe dire con Kant: andranno a «cercare i movimenti osservati non già negli oggetti del cielo, bensì nello «spettatore». E lo «spettatore», l'Ich kantiano, con il patrimonio delle sue forme, soprattutto quelle intellettuali, che si applicano non poco autorevolmente alle cose, ben si atteggia a soggetto che queste stesse cose toglie dal caos e dà loro un ordine, sino ad istituire (o a pretendere di istituire) una comunità gnoseologica (il giudizio sintetico a priori), della quale, anche solo in quanto soggetto che legifera, è l'autentico signore. La «trasformazione (copernicana) del modo di pensare», il «rivolgimento» nella «parte speculativa del sapere» umano sta per intero qui: nel «raziocinare. a rovescio». Il copernicanesimo, certo anche contraddittoriamente, «abbassa», sì, l'uomo, ma, nello stesso tempo, lo «sublima», investendolo di un ruolo in forza del quale ritorna a farsi centro del mondo delle cose chiamato a girargli intorno, come ad un asse centrale della ruota della conoscenza. Leopardi coglie il senso di questa contraddizione. È debitore, nel coglierla e nel metterla in evidenza, a Charles-François Dupuy (1742-1809) (cfr. Zib., 4126, 19 marzo 1825), cui non sfugge la resistenza, particolarmente sul terreno religioso, di un préjugé, tutto sommato «tolemaico», a dispetto della rivoluzione copernicana? Scrive Dupuy: L'homme s'est regardé comme le point centra! auquel aboutissent toutes !es vues de la Nature, par une erreur assez semblable à celle qui lui faisait croire que la I terre était le centre de l'Univers. Le système de Copernic a détruit ce dernier ' préjugé: mais le premier reste encore, et sert de base au culte religieux 38 • Copernico non è riuscito a"distruggere il «pregiudizio» dell'antropocen' trismo gnoseologico? In verità, se si vuole dar retta a Kant, bisogna dire che Copernico autorizza, proprio lui, a fondare questo antropocentrismo che, ad

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un certo punto, oltre Kant, si esaspera come gnoseologismo idealistico . E ~ non è che, per esso, l'uomo non continui a rimanere, a presumere di poter \ rimanere, almeno in quanto soggetto di conoscenza, «signor della creata mole» (P, VII, 15; TO, I, 282). Anzi, con certo antropocentrismo idealistico l'uomo finisce col sentirsi addirittura creatore di questa «mole». Autorizzato, in ciò, ancora dal copernicanesimo? Quale che sia la risposta a questa domanda, si deve convenire sul fatto che il copernicanesimo, ove non si voglia ritenere duplice nella sua portata rivoluzionaria, riesce contraddetto quando gli si ascrive unicamente la funzione di «abbassare» l'uomo. Ma perché, poi, se non per la ragione addotta da Leopardi, secondo il quale >. E Mattia può concludere: ' Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l'umanità irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell'Universo.

L'idea dell'uomo, proprio come vuole Leopardi, si è mdto , annuncia questa o quella «verità» sempre come «una negazione dell'errore contrario». E che cosa fa Copernico se non dimostrare che il geocentrismo è un «errore» (Ibidem)? La filosofia moderna segna, o intende segnare, il «progresso dello spirito umano», programmaticamente insistendo «nel conoscere la falsità di tutto quello che si era creduto conoscere». E che cosa fa Copernico se non convincere che «il creder la terra immobile e mobili gli astri» è una «fede» da «negare» (Ibidem)? D'altra parte, nonostante la sua «ragionevolezza», è pur vero che quella di Copernico resta un' «ipotesi del moto della terra» e solo un'ipotesi. Ed anche in questo caso non si può dire che l'astronomia ed anzi la filosofia copernicana «insegna» e «fabbrica», se in effetti «disinganna» e «atterra», aprendo, per di più, lo spazio unicamente ad un sapere ipotetico, congetturale, opinante, nel senso, perché no, di Popper, del quale, 59 allora, non è illecito chiamare in causa il motivo della «falsificazione» . In quest'ordine di idee, ben può darsi, altresì, che tutta la filosofia moderna si presenta, nella coscienza di Leopardi, come filosofia «negativa» nel senso emerso. Si spiega, così, ad esempio, la nota zibaldoniana, già presa in considerazione 60 , secondo la quale (Zib ., 2712-2713 , 22 maggio 1823) , proprio perché, ricorrendo all'osservazione e all'esperienza, aspirano a «piantare» una «verità positiva», non suscettibile di rovesciarsi, magari continuando a ricorrere all 'osservazione e all'espe. . nenza, 1n errore. · Resta, intanto, che, per un Leopardi tutto schierato in difesa dell'empirismo e del sensismo, la filosofia moderna si fa tanto più negativa e critica quanto più privilegia l'osservazione e l'esperienza. Con decisa attitudine contro ogni presunzione che si possa >62 • E vero, infatti, che ritiene «sapientissimo>> colui che «sa vedere le cose che gli stanno davanti agli occhi, senza prestar loro le qualità ch'esse non hanno» (Zib ., 2710, 21 maggio 1823). C'è di più: L'uomo non riceve nessuna idea se non per mezzo dei sensi; perch'ella [la «proposizione che tutte le idee vengono dai sensi»] mira espressamente ed unicamente ad escludere quell 'antica proposizione positiva che l'uomo riceve alcune idee per altro mezzo che quello dei sensi; ed è stata dettata dalla sottile speculazione di

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chi ben g~ardan~o _nel ?rop~io intelletto s'avvide che niuna idea gli era mai pervenuta fuon del mm1steno dei sensi (Zib ., 2714, 22 maggio 1823). È facile, molto facile avvertire come qui Leopardi resti fermo al nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, come non acceda all'accoglienza del leibniziano-prekantiano nisi intellectus ipse e sia, di conseguenza, lontanissimo dal far proprio l'hegeliano nihil est in sensu quod prius non Jiterit in intellectu 63 • In altri termini, le riflessioni, in sostanza gnoseologiche, di Leopardi restano, da ultimo, fuori della grande avventura di quello che si è detto il copernicanesimo kantiano e idealistico. Ne resta fuori perché dà alla sensibilità un ruolo conoscitivo troppo preponderante, per ciò stesso mettendo i_n que~tione il ruolo «padronale» ~ell'intelletto 64 , annunciato proprio dalla nvoluzione copernicana di Kant. E vero, tuttavia, che, pur restando fuori di quell'avventura, le riflessioni gnoseologiche di Leopardi convergono, da ultimo, con la veduta generale che da essa scaturisce: che non vi sono proposizioni che non degenerino in «errori>>, in «false opinioni», almeno quando all'osservazione e all'esperienza si assegna un ruolo destinato non tanto a convalidare una verità quanto piuttosto a confutarla. O non sono «errori», «false opinioni», i giudizi sintetici a priori, inimmaginabili senza la rivoluzione copernicana, di Kant, se sono quelli che, come si è visto, non illudono Kleist che si possa raggiungere la verità? In Zib., 2710, 21 maggio 1823, già in gran parte interrogato, ancora, Leopardi: E questo [«sempre togliere, niente sostituire»] è il vero modo di filosofare.

~n «~o~o ?i filosofare» che «ci impedisce di trovare il vero positivo». Ad impedirci di trovare questo vero, precisa Leopardi, non è «la debolezza dell'intelletto umano», bensì il fatto che >, «ch'è il' procedere di molti tedeschi» (Zi b., 3237, 23 _agosto 1823). Si può collocare tra questi tedeschi Kant: Certo, _se «ana~iz~are» significa