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Italian Pages 224 [213] Year 2005
BIBLIOTECHINA DI STUDI, RICERCHE E TESTI collezione fondata da giorgio varanini † diretta da davide de camilli, michele dell’aquila, bruno porcelli e gianvito resta
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COMITATO DI CONSULENZA lina bolzoni, alberto casadei, marcello ciccuto, maria luisa doglio, emerico giachery, salvatore silvano nigro, emilio pasquini, michelangelo picone, mario saccenti, alfredo stussi
BRUNO PORCELLI
IN PRINCIPIO O IN FINE IL NOME Studi onomastici su Verga, Pirandello e altro Novecento
mmv GIARDINI EDITORI E STAMPATORI IN PISA
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A Gabriella e a Livia la grande e la baby della famiglia parimenti decise e sorridenti.
INDICE Premessa i. Livelli di funzionalità onomastica in Eros di Verga ii. La nominazione in Rosso Malpelo e Ciàula scopre la luna iii. La prima narrativa pirandelliana: Amori senza amore, L’esclusa, Il turno iv. Il fu Mattia Pascal v. Simboli e nomi nella novella pirandelliana La veste lunga vi. Psicologia, abito, nome di due adolescenti pirandelliane vii. Misura e numero nell’onomastica di alcune novelle pirandelliane viii. Coppie di personaggi nelle novelle pirandelliane ix. Sino a che punto nomi parlanti? Esame di quattro novelle di Pirandello x. Per una lettura simbolica della novella La levata del sole xi. Nell’albergo è morto un tale xii. Nomi nella lirica di Gozzano xiii. Maschere e nomi dell’‘io’ nella lirica di Gozzano xiv. Arsenio, Arletta, Crisalide, Esterina e le metamorfosi dell’Alcyone xv. L’ultimo e il primo. Perdita e riacquisto del nome in Se questo è un uomo di Levi xvi. Modelli narrativi e onomastica nella Tregua di Levi xvii. Cerniere onomastiche nei racconti del Lager di Levi Indice degli autori Indice onomastico
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PREMESSA
I
l lettore vorrà scusarmi se la prima parte del titolo, quella provvista di funzione seduttrice (per dirla alla Genette), può apparire eco immotivata del Vangelo giovanneo. Ho in realtà messo in evidenza ciò che considero problema importante dell’Onomastica letteraria, vista dalla parte sia dell’autore sia dell’interprete, problema relativo al carattere fondante o conclusivo delle scelte autoriali. È possibile stabilire quali sono fatte all’inizio e quali alla Wne del processo creativo: concernano esse la connotazione delle res nominate o i rapporti di queste con le res di altri testi, della storia, dell’attualità, oppure la funzione di richiamo e collegamento fra parti della medesima struttura, la caratterizzazione del genere, del livello stilistico, del senso stesso dell’opera...? Interrompo un elenco che potrebbe essere assai lungo, come è già apparso in altri tentativi di individuare le funzioni del Nome anche limitatamente ai testi della Letteratura italiana. Per cui rinvio a due lavori di prossima pubblicazione: uno soltanto a mio nome presentato al Convegno internazionale su Toponimi e Antroponimi. Beni-documento e spie di identità per la lettura, la didattica e il governo del territorio, Salerno, novembre 2002; l’altro, scritto in collaborazione con Leonardo Terrusi per la rivista «Onoma». Il Nome, dunque, può porsi all’inizio del processo creativo («BuValo! – e il nome agì»: ma l’adattamento è capzioso!) come cellula originaria del tutto. Così, in un’intervista su «Epoca» del 1952, diceva di lavorare Italo Calvino. Così deve aver funzionato la nominazione Chiara, fornita nella langue letteraria di precise valenze, la quale direttamente o per antifrasi non poteva non rimandare al tipo della femminilità luminosa. Oppure può porsi alla sua Wne come summa dei signiWcati via via elaborati e bisognosi di una indicazione comprensiva: penso alla ricerca spesso puntigliosa, testimoniata dalle lettere di Verga e Capuana, del nome da dare a personaggi già esistenti sulla pagina. Il problema indicato è, per quanto importante, trascurato nei lavori degli onomasti, ed anche in questo libro, il cui titolo esprime pertanto un’esigenza di ricerca più che una presenza: del resto, a quale autore è imposto l’obbligo di «irreggimentare» (la terminologia di Eco è ripresa da Genette) sulle soglie del testo i lettori con indicazioni meramente descrittive? Individuato all’inizio o alla Wne, il Nome testimonia una dicotomia interpretativa fondamentale, ma ne testimonia tante altre, di cui sarà
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premessa
suYciente dare qualche cenno, come quelle fra senso del signiWcato e senso del signiWcante, interpretazione diretta e interpretazione antifrastica, valore della presenza e valore dell’assenza, ecc. ecc. Nel capitolo sul Fu Mattia Pascal se ne individua un’altra, fra nome che si colloca in sostituzione per mezzo dell’anagramma, oppure in contiguità per mezzo dell’allitterazione. Ogni studioso o lettore di buon senso è assolutamente convinto dell’importanza, anzi dell’imprescindibilità, dell’indagine onomastica, e si è trovato forse in più di un’occasione, pur non essendo per formazione un onomasta, alle prese con il signiWcato e la funzione dei Nomi. Erra però se ritiene che sia suYciente tener conto di quanto è stato fatto nella cultura di paesi antesignani di questo tipo di studi, senza considerare il contributo che la critica italiana ha cercato di dare in poco più dei dieci anni appena trascorsi per aYancare ai risultati di operazioni eccellenti ma puntuali ed isolate, quali quelle sui nomi di Boccaccio, di qualche altro novelliere medievale, di Manzoni..., un tessuto diVuso di analisi onomastiche. Rimando su questo argomento al panorama assai informato di L. Terrusi, I nomi e la critica: un decennio di studi di onomastica letteraria in Italia, «Italianistica», xxx, 2, maggio-agosto 2001; e ad un successivo panorama dello stesso Terrusi e mio, con prospettive cronologiche più ampie, che sarà presentato al xxii Congresso icos (Pisa, 28 agosto-4 settembre 2005), dedicato al tema I nomi nel tempo e nello spazio. Della più recente produzione di letture e interpretazioni onomastiche non tutti paiono essersi accorti in Italia, se è vero che talvolta, assai raramente per fortuna, si pubblicano su autorevoli riviste scritti che, privi di riferimenti bibliograWci essenziali, aVrontano col tono della scoperta questioni logorate dalle discussioni pregresse. Il lavoro fatto è notevole, anche se concentrato su particolari sezioni della Letteratura italiana, come i primi secoli di Dante, Petrarca, Boccaccio e degli altri novellieri sino al Sercambi, e il periodo che va da Leopardi e Manzoni, attraverso gli scapigliati, Verga, Pirandello, ecc. sino ai frequentatissimi scrittori del pieno Novecento. Assai meno è stato fatto per le epoche intermedie, anche se autori come Masuccio Salernitano, Machiavelli, Tasso, Marino, Della Porta ... hanno destato notevole interesse. Per l’Otto e il Novecento la ricerca presenta ancora zone d’ombra, data anche la gran mole del materiale da vagliare. Per questo è prematuro delineare una storia dell’uso onomastico degli autori; per questo forse è ancora opportuno procedere a tentativi di sistemazione parziali e provvisori, come quello rappresentato dal presente volume. Nel quale agli studi su Verga e Pirandello se ne aggiungono altri su Gozzano, Montale, Primo Levi, composti nel medesimo periodo dedi-
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cato da chi scrive all’analisi di opere comprese fra Wne Ottocento e Novecento. Fra tutti gli studi raccolti sei, corrispondenti ai numeri iv, ix, x, xi, xv, xvi, sono inediti, anche se il ix è stato composto per il x Convegno internazionale di «Onomastica & Letteratura», Pisa, 19-20 febbraio 2004; il x per il vii Congresso adi di Macerata, 24-27 settembre 2003, sul tema Le forme del narrare; il xv per gli Studi in onore di Dieter Kremer; il xvi per il Congresso adi di Venezia-Padova 2002. Gli altri undici sono già apparsi in riviste o in Atti di Convegni, e precisamente: il i in «Italianistica», xxxii, 2, maggio-agosto 2003; il ii in «Italianistica», xxx, 3, settembre-dicembre 2001, fasc. intitolato Da «Rosso Malpelo» a «Ciàula scopre la luna». Sei letture e un panorama di storia della critica; il iii in «reli», 23, 2004; il v in «gsli», clxxviii, 583, 2001; il vi in L’incanto del nome, a cura di M. G. Arcamone, G. Baroni, D. Bremer, Pisa, ets, 2002 e in «Italianistica», xxxi, 1, gennaio-aprile 2002; il vii in «il Nome nel testo», vi, 2004; l’viii in «Italianistica», xxxii, 3, settembredicembre 2003; il xii in «il Nome nel testo», ii-iii, 2000-2001; il xiii in «La Nuova Ricerca», xii, 12, 2003; il xiv in «reli», 15, 2000; il xvii in «gsli», clxxx, 591, 2003. I singoli lavori hanno autonoma leggibilità: sono infatti concepiti con bibliograWa indipendente. Si è dunque evitato di rinviare con sigle ad una bibliograWa Wnale per non ritardare con spostamenti dell’attenzione l’operazione della lettura. I già editi sono stati lasciati sostanzialmente immutati, salvo qualche taglio imposto dalla necessità di evitare le ripetizioni più evidenti. Quando lo si è ritenuto indispensabile, si è proceduto a piccole integrazioni del testo e dell’apparato bibliograWco. Nel licenziare l’opera l’autore ringrazia calorosamente gli amici e colleghi italiani e stranieri in compagnia dei quali ormai da un decennio, in occasione dei Convegni annuali organizzati dall’Associazione pisana di «Onomastica & Letteratura», discute i problemi dell’onomastica letteraria. Ringrazia anche il dott. Alessio Bologna, che ha sottoposto ad attenta revisione il testo prima e durante la stampa. Bruno Porcelli Pisa, luglio 2004
i LIVELLI DI FUNZIONALITÀ ONOMASTICA IN EROS DI VERGA
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i vuol qui dimostrare che nell’ultimo dei quattro romanzi preveristi dal Verga dedicati alle passioni amorose della società galante (Una peccatrice, Eva, Tigre reale, Eros) l’uso dei nomi risponde ad intenti sia di caratterizzazione-individuazione sia di collegamento dei personaggi e perciò, nel secondo caso, di strutturazione narrativa. Se meno capaci di vis connotativa sono le scelte toponomastiche, perché i luoghi, per lo più facenti parte del bel mondo e comuni agli aristocratici che li frequentano e vi s’incontrano, risultano sotto il proWlo del nome meno caratterizzati, assai più articolate e signiWcative sono quelle antroponomastiche, che possiamo agevolmente disporre su tre livelli di funzionalità. Il primo livello è quello del nome trasparentemente allusivo, il cui signiWcato è compreso dal lettore nel momento stesso della presentazione del personaggio in quanto connesso in modo perspicuo alle caratteristiche di chi lo porta. Il signiWcato può essereaddirittura dichiarato sotto specie di chiosa, come avviene per Selene, la ballerina al regio teatro alla Scala che interrompe la serie delle donne di lusso del protagonista e ha un «bel nome da palcoscenico»; o per Velleda, la giovane aristocratica raYnata, elegante e capricciosa a cui, «essendo un bel Wore da stufa», si addice «un bel nome straniero». 1 Il quale nome straniero poi ha almeno due altre ragioni di pertinenza, che si sveleranno nel corso della presentazione dinamica del personaggio: la prima, abbastanza superWciale, quando sarà noto che ella, sposata al principe Metelliani, viaggia molto all’estero (la coppia «scorazza per tutte le stazioni d’Europa segnate dalla moda», capitolo xlv); la seconda, più profonda, quando nel capitolo xvi la donna compie col canto e con lo sguardo un’opera di fascinazione nei confronti dei presenti e in particolare di Alberti, «che ascoltava, cogli occhi Wssi su di lei, pallido e turbato», e ammalia anche con la conversazione, «spiegando e raccogliendo le
1. Per le citazioni da Eros abbiamo tenuto presente l’edizione G. V., Tutti i romanzi, 3 voll., a cura di E. Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1983.
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ondeggianti sue reti di parole che avevano signiWcati diversi pei diversi attori di quella scena»: per molti aspetti simile alle incantatrici rinascimentali o alla sacerdotessa druida Velleda di Les Martyrs di Chateaubriand. Da quest’ultima, che è contemporaneamente donna Wera e innamorata, tenebrosa e innocente, violenta e gentile, l’eroina verghiana eredita il nome. L’antroponimo può essere trasparentemente allusivo anche se non accompagnato dall’interpretatio autoriale, come nel caso del glorioso e decorato capitano Marteni, che, pur partecipando ai riti del bel mondo, si distingue dagli altri uomini per la sua «galanteria un po’ soldatesca», iscrivendosi perciò anche onomasticamente nella schiera degli adepti di Marte. 2 Del nome del dottor Gemmati, che è amico del protagonista e che ai riti di quel mondo non partecipa perché semplice e sincero, diremo più avanti. Al secondo livello si colloca un tipo di onomastica la cui allusività non è esplicitata né da interpretatio autoriale né da caratteristiche del personaggio indicate nel momento della presentazione. Il rapporto nomen-res risulta alla Wne o ad un punto avanzato del percorso narrativo, concernendo dati di mutabilità o immutabilità, trasformazione o costanza del personaggio percepibili a lettura inoltrata. Si consideri la nominazione di Alberto Alberti, che all’inizio può apparire leggermente strana perché iterata nell’accostamento nome-cognome, senza però che tale stranezza possa essere messa in rapporto con alcuna delle presentazioni circostanziate del personaggio, quelle, p. es., dei capitoli ii e xl. Almeno un dato però emerge dal confronto dei due luoghi: la bipartizione della vita del marchese. La giovinezza dai 20 ai 28 anni è infatti nettamente separata, per mezzo di una lunga assenza occupata da un soggiorno in terre lontane, dalla maturità dei 40. A questo stacco cronologico corrisponde uno stacco narrativo: la giovinezza è presentata nei capitoli ii-xxxix; la maturità sino alla morte nei capitoli xl-l. L’incipit del capitolo xl segna in maniera decisa la frattura del tempo: «Dopo vent’anni che non s’erano più visti Alberto e sua cugina s’incontrarono a Firenze...». Il protagonista riemerge da lontananze geograWche e cronologiche come un defunto risuscitato: [riappare alle Cascine brulicanti di spettatori] e avea l’occhio smorto, il pallore cadaverico, e l’impassibilità quasi tetra. Guardava quella festa come un defunto avrebbe potuto guardarla dalla tomba. (cap. xlv) 2. La trasparenza del cognome Marteni era stata segnalata da M. Pieri in una nota a p. 235 della sua edizione dei Romanzi di Giovanni Verga, Torino, utet, 1998.
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Pertanto l’incipit del capitolo xl funziona da secondo incipit del romanzo. Il marchese ritorna sulla scena, e tutto accade con i colori di una prima volta, come se si trattasse di un primo ingresso: alle Cascine «era il primo giorno delle corse»; la stagione è la primavera; nel momento in cui Alberto e la cugina Adele si rivedono «una Wamma rapida come un lampo passò per la prima volta dopo tanti anni su quelle pallide guance». La bipartizione della storia di Alberti non è altro che iterazione; e sotto il segno dell’iterazione si prospettano le singole vicende, come se egli fosse costretto, per un’immodiWcabile coazione a ripetere, a compiere gli stessi passi. Le partenze per terre lontane che allontanano Alberti dal mondo elegante sono due, una al capitolo xxxviii, la seconda al capitolo xlviii. Al corteggiamento a 20 anni di Adele (capp. iniziali) ne segue un altro a 40 anni (capp. xl-xli); alla prima visita, presente il dottore, ad Adele gravemente ammalata (cap. xviii) succede la seconda alla presenza dello stesso dottore ormai vecchio, che commenta: «È la seconda volta che mi vede in questa camera» (cap. xlix). Gli incontri passionali con Velleda sono due, tutti nel profondo della notte: al capitolo xvii e al capitolo xlvi. Nella storia con Emilia, invece, la reiterazione, per quanto ricercata, non si realizza: dopo la scena di passione vissuta nella barchetta sul lago (cap. xxx), Alberti non riesce a ritrovarsi con l’amante nella medesima situazione. Ella, infatti, «giammai non avea voluto più andare una sola volta sul lago con lui» (cap. xxxiii); in seguito, quand’egli le chiede come prova di dedizione «la chiave del cancello che mette sul lago», la donna lo conduce da un’altra parte (cap. xxxvi). La coazione a ripetere dà luogo in questo caso soltanto ad una serie di tentativi in villa, nei viali del giardino, nel padiglione: molti baci furtivi e un incontro mancato. L’iterazione non comporta sviluppo, crescita, progresso. Chi itera comportamenti ed azioni non cambia nell’intimo. Il tema del cambiamento è spesso aVrontato nel romanzo in modo da portare alla conclusione della sostanziale immutabilità dei personaggi. Nel capitolo xlv la contessa Armandi, che era stata parecchi anni prima amante del protagonista, si ripresenta sulla scena quando ha ormai 60 anni, cambiata irrimediabilmente nel Wsico («Xoscia, sdentata e coi capelli grigi») ma non nel carattere: è infatti «sempre una donna di spirito» dalla battuta pronta ed ironica. Anche Alberti è Wsicamente cambiato, come dice la matura aristocratica e come lui stesso constata subito dopo osservandosi in casa allo specchio. È vero che nel proseguo dello stesso capitolo Alberti «si sentiva più cambiato dentro di sé che all’esteriore»; ma l’osservazione introspettiva riesce a portare alla luce soltanto Wacchezza, incertezza, sWducia e il «fatale spirito d’analisi», motivazioni tutte di irresolutezza costituzionalmente presenti in lui sin dall’inizio della sto-
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ria: come del resto sottolinea il titolo originario del romanzo, Aporeo («inabile a vivere», «che non sa risolversi»). Il marchese Alberti è dunque coerente in ogni momento. Le passioni per il Verga preverista non possono essere temporanee, cioè «durare la durata di una sensazione», difetto che egli rimproverava alla Madame Bovary di Flaubert. 3 La costanza degli atteggiamenti è ribadita nel momento del passaggio dalla prima alla seconda parte di Eros: «Erano trascorsi parecchi anni, ed Alberti avea ricominciato a far la vita di prima» (cap. xxxix). La vita matrimoniale con Adele comporta un «rintracciare a passo a passo i luoghi che racchiudevano i ricordi della loro prima giovinezza ...» (cap. xliii); un rivedere le cose di allora, come «quella tale balaustrata» già presente nel capitolo iii; rivivere lo spettacolo delle nuvolette sulle cime degli Appennini e il rumore del torrente in fondo alla valle «come allora» (cap. iii), salvo che, secondo il canone del simbolismo stagionale, allora era estate e ora che tutto sta volgendo al termine è novembre. Persino per Velleda, che pure è personaggio più volitivo e dinamico, la Wne può per un certo aspetto conWgurarsi come un ritorno all’inizio: «Ella disse che avevano Wnito come avevano incominciato» (cap. xlv; il corsivo è nel testo). Il nesso Alberto Alberti è dunque nominazione iterata in cui la seconda parte ripete la prima. Contrapposto è il nome di Gemmati, «il rinnovato», l’amico dottore rivale di Alberti nell’amore per Adele; il quale al capitolo xlviii dimostra la sua capacità di spezzare ogni pur tenue legame col bel mondo per trasferirsi a Napoli, ove infuria il colera, su cui egli ha «degli importanti studi da fare». I due amici rivali escono di scena alla Wne del romanzo: l’uno trasferendosi, l’altro togliendosi la vita. Il colpo di pistola conclusivo sancisce due incapacità del protagonista: quella di vedere nell’eros altro che passione, se è vero che le ultime sue parole riguardano il dubbio sulla possibilità, dopo la morte di Adele, di «amare un cadavere»; e l’altra di continuare nella coazione a ripetere ora che le combinazioni binarie sono esaurite. La trama dei rapporti onomastici a distanza ravvicinata fra il protagonista e i suoi omologhi non si limita al caso su esaminato. Se rivale sul fronte dell’amore per Adele è Gemmati, su quello dell’amore per Velleda, almeno prima che la giovinetta sposi l’anziano e brutto ma ricchissimo e nobilissimo Metelliani, il rivale è De Marchi, un giovane 3. Sulle ragioni dell’appunto verghiano a Madame Bovary cfr. P. Pellini, Verga e i “cavoli” di Flaubert Una lettera del 1874 e la logica del naturalismo, «Rivista di letteratura italiana», xx, 3, 2002, pp. 151-170.
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diplomatico che viene da Napoli. De Marchi si collega trasparentemente alla seconda nominazione del protagonista «il marchese»; la provenienza da Napoli, invece, instaura un rapporto col viaggio a Napoli dell’altro antagonista di Alberti. Legami onomastici così simmetricamente strategici sembrano studiati con lo scopo sia di suggerire singole equivalenze funzionali sia di servire da segni mnemonici utili più generalmente a distinguere e catalogare classi nel complesso dell’intreccio. Al secondo livello appartiene pure il rapporto che intercorre, sul terreno delle funzioni e dell’onomastica, fra i personaggi femminili omologhi della storia, le tre donne altolocate amate da Alberti: Emilia, Velleda, Adele. Anche in questo caso vigono aggregazioni binarie di tipo contrastivo. Basti individuarne due. La prima è l’opposizione Adele-Velleda. Adele, con gli equivalenti umili l’Adele, Adelina vs Velleda, con le nominazioni sostitutive alte la signorina, madamigella, la contessina, la principessa (anche prima che ella lo diventi eVettivamente sposando il principe Metelliani). Le due donne sono presentate come amiche rivali (cap. xlv), creature simili e antitetiche, belle ma di diversa bellezza: l’una delicata remissiva costante, l’altra forte aggressiva capricciosa; l’una bruna, l’altra bionda; l’una con un «corpicino svelto e gentile come una statua d’Ebe», l’altra magniWca «modellata come una Venere»; diVerenziate persino nelle occupazioni a cui contemporaneamente si dedicano quando Adele ricama e Velleda coglie Wori (cap. ix). L’opposizione fra le amiche va più in profondo investendo non solo dati sociali, Wsici e caratteriali ma anche elementi del luogo a cui esse si legano e del paesaggio in cui agiscono. Adele è in stretto rapporto con la realtà provinciale e tranquilla di Belmonte (non è un caso che il toponimo suggerisca, in virtù del richiamo al Belmonte del Mercante shakespeariano, l’idea di un ambiente sereno, lontano dalle insidie della città); Velleda con l’universo dei viaggi «per tutte le stazioni d’Europa segnate dalla moda» (cap. xlv). Adele, per di più, agisce nella luce estiva, solare o lunare, con una gestualità timida e delicata, richiamando realtà positive come angelo, aureola, stelle, abbagliare..., e suoni chiari. Ecco poche righe appartenenti ad un momento cruciale del personaggio, il primo appuntamento col cugino Alberti: Una striscia luminosa si disegnò sull’erba dell’aiuola, e la leggiadra cuYetta di Adele si mostrò timidamente; ella tremava un po’; la luna che si era levata tardi, illuminava il muro di contro, e riverberava un barlume livido e dolce sul candido viso di lei, che sorrideva con ineVabile imbarazzo, e guardava qua e là, senza di osare alzare gli occhi su di lui. [...] Infatti ella era bella come un
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angelo in quel momento; l’amore irradiavasi come una specie di aureola dal rossore che la copriva, dal suo sorriso incerto e pudico, dai suoi occhi chini. C’era tanta luce in quegli occhi, che allorché li Wssò in volto ad Alberto parvegli che due stelle lo abbagliassero. (cap. vii)
Velleda, invece, è più frequentemente immersa in atmosfere autunnali-invernali, comunque tenebrose, presentate con termini dal suono cupo e dal signiWcato negativo (gemere, uggiolare, ululare, terrore, vipera, vanità, spettro...). Segue un brano, parallelo a quello sopra citato, appartenente alla presentazione del primo appuntamento di Alberto e Velleda. La contrapposizione alla scena precedente è sottolineata dal ricorso, nonostante il passare del tempo, alla medesima localizzazione (Alberti salta da quella Wnestra da cui era già saltato per incontrare Adele): Era una di quelle ultime notti d’autunno che preludiano l’inverno, scura e tempestosa. Gli alberi si contorcevano sotto un vento furioso che gemeva come voce umana; i cani uggiolavano spaventati; l’aria era talmente carica di elettricità che sentivasi quel vago senso di terrore, fantastica attrattiva della notte. Alberti saltò giù dalla Wnestra, quella medesima Wnestra che avea scavalcato qualche tempo innanzi con tutt’altro amore nel cuore [...] mentre il vento ululava, e le foglie degli alberi sembravano scrosciare per gragnuola; il bujo che l’avvolgeva lo penetrava del tutto; sentiva dentro di sé certo mugolìo tempestoso, somigliante al vento che gli faceva sbattere sul viso le foglie morte. Due ore scorsero in un lampo; ei avrebbe passeggiato tutta la notte senza accorgersene, sotto la pioggia, sotto la neve, sotto l’uragano. Tutt’a un tratto sentì aVerrarsi da una mano, come se le tenebre avessero preso corpo. – Velleda! Esclamò [...] Alberto rispose con un fosco sorriso. (cap. xvii)
Non abbiamo avuto la necessità di dilungarci nelle citazioni per far apparire, all’inizio della prima e alla Wne della seconda, due sintagmi di grande interesse, «una striscia luminosa» e «un fosco sorriso», che ripropongono in modo paradigmatico, sotto il proWlo di luminosità vs assenza di luminosità (con le ovvie implicazioni psicologiche e caratteriali) il contrasto Adele-Velleda. Se Adele è angelica e luminosa, Velleda è fosca, di tipologia non proprio infernale, ma almeno magica, come certe sue caratteristiche già messe in evidenza e le stesse risonanze culturali del nome confermano. Adele-Velleda formano una coppia di opposti, compito che nel contemporaneo romanzo verghiano Tigre reale è aYdato a Erminia e Nata, in Faldella a Madonna di fuoco e Madonna di neve, in Tarchetti a Clara e Fosca. In Eros l’opposizione riguarda però non soltanto il signiWcato dei nomi, bensì anche la composizione dei signiWcanti: Adele è infatti il rovescio quasi perfetto di Velleda.
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Lo schema pare funzionare anche sul piano concreto della dislocazione delle due donne nel capitolo xlv, in cui esse, ormai sposate, si rincontrano durante la stagione estiva e si sistemano nello stesso albergo in posizione contrastiva: Le due amiche e rivali dimoravano nello stesso albergo, al medesimo piano, uscio contro uscio, si vedevano sovente, s’incontravano tutti i giorni alla medesima passeggiata e agli stessi ritrovi.
La seconda opposizione binaria, all’interno del terzetto omologo Adele-Velleda-Emilia, è quella vigente fra la matura moglie del conte Armandi e le giovani e per un certo tempo inseparabili amiche: cioè Emilia vs Velleda e Adele. Il rapporto è impostato nel capitolo xiii, ove il trio, presente già alla Wne del ix, in due si scema. Ecco il passaggio: alla Wne del ix Adele e Velleda in villa vedono passare il «cocchio superbo» dell’ancora bellissima Emilia. Le tre donne riscaldano, anche se in modi diversi – come cercheremo di indicare più avanti –, la fantasia erotica del giovane Alberti, anche lui presente, sì da proporglisi come tre diverse incarnazioni di un unico ideale femminile, dell’eva cioè che le lettere iniziali dei nomi di ciascuna ricompongono in acronimo: [Alberti] si sentiva gonWare in petto i germi di tutte le forze dell’amore, come un rigoglio di vita, come acri Wori di giovinezza: era uno strano miscuglio degli occhi turchini di Adele, del suo sorriso pudico, e delle lusinghe dei biondi capelli di Velleda, e della sua elegante civetteria – più in là, fra le nuvole azzurre e purpuree dell’avvenire ondeggiava vagamente la larva di un altro amore nebuloso come la mussolina che stendevasi da un capo all’altro della carrozza della contessa Armandi, a guisa di una veste di velo sciorinata in una cesta da modista. – Tutti cotesti fantasmi gli turbinavano confusamente nella testa, gli scorrevano per le vene col sangue acceso di febbre.
Nel capitolo xiii però Emilia si stacca decisamente dalle due giovani donne per il suo arguto e brillante atteggiamento di esperta della vita: rivolgendosi, infatti, ad un Alberti impacciato, lo esorta motteggiando a scegliere fra la bionda Velleda e la bruna Adele magari ricorrendo alla consultazione dell’oracolo. Emilia è una sorta di Wgura materna, strettamente collegata alle acque del lago, ambiente che è suo con una coerenza degna di Wgurare a pieno diritto fra le simbologie acquatiche di Gaston Bachelard. 4 Il rap4. G. Bachelard, L’eau et les rêves. Essai sur l’imagination de la matière, 6ª ed., Paris, José Corti, 1964. Citiamo dal capitolo L’eau maternelle et l’eau féminine, p. 156: «En particulier, ajoute Mme Bonaparte, la mer est pour tous les hommes l’un des plus grands, des plus constants symboles maternels».
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porto onomastico, inesistente con le giovani colleghe, s’instaura con Alberti attraverso la madre di lui, Cecilia. I nomi Emilia-Cecilia omofonici e omoteleutici appartengono a donne madri, coetanee, adultere. L’adulterio di Emilia con Alberto si presenta dunque come ritorsione e nemesi di quello compiuto da Cecilia con Armandi, in un’aura di ineluttabilità evidente sin da quando il sentimento è «nebuloso come la mussolina», «a guisa di una veste di velo». I due paragoni appartengono alla citata Wne del capitolo ix, sulla quale però conviene soVermarsi ulteriormente per metterne in luce tutte le implicazioni erotiche. Ad Alberto che segue «con un lungo sguardo» il passaggio della lussuosa carrozza di Emilia da lui non ancora conosciuta, la donna appare «mezzo sdraiata» «in mezzo ad una nuvola di mussolina fresca e leggiera come il tulle» e agli svolazzi del «velo azzurro del suo cappellino»: ella è rinchiusa nel «legno elegante, imbottito di seta come un elegante scatolino», vero e proprio scrigno, valva, hortus conclusus che protegge l’oggetto desiderabile e prezioso. Il giovane sente che l’amerà, insomma, ancor prima di conoscerla. Contempla dall’esterno la donna bramata, rinchiusa e protetta nella sua stanza e nella sua poltrona, anche Pietro Brusio di Una peccatrice, ma solo in una fase avanzata del proprio innamoramento. Così l’amico Raimondo si rende conto di quel che Pietro aveva già visto: vide la contessa, presso le tende del verone, di cui le invetriate erano aperte, sdraiata nella sua favorita posizione languida e voluttuosa, ancora colla veste del teatro, coi capelli ancora intrecciati di Wori... (cap. iii)
Diversa dalle posizioni di Alberti e Brusio è quella di Enrico Lanti in Eva, che lo scrigno lo osserva dall’interno, accoltovi dalla donna compiacente: si tratti in un caso della carrozza di Eva («Ero proprio io! Dentro quel legnetto! Sotto quel mucchio di velluto e di seta c’era proprio lei!»), in un altro dalla camera da letto di Eva («La camera era piccola, ed imbottita di seta bianca come un elegante scatolino. In un canto c’era un letto tutto velato di trine – con certe cortine diafane che sembravano i vapori di un sogno d’amore, e lasciavano trasparire certe coperte color rosa, di cui la seta sembrava carezzare l’epidermide»). 5
5. G. P. Marchi, Dallo “scatolino” all’ideale dell’ostrica. I romanzi Worentini nella lettura di Giacomo De Benedetti, in I romanzi Worentini di Giovanni Verga, Atti del ii Convegno di Studi (Catania, 21-22 novembre 1980), Catania, Fondazione Verga, 1981, sviluppando un’osservazione di De Benedetti, inserisce il tema verghiano dello «scatolino» nella dialettica agorafobia vs claustrofobia, paura degli spazi aperti vs desiderio di evasione.
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Ma ritorniamo ad Eros. Il collegamento fra gli adultèri di Cecilia ed Emilia è ribadito in più occasioni. Nel capitolo xxxv il conte Armandi, ricevendo in casa il giovane Alberti, gli parla «del fu marchese, ch’era stato suo amico, e della marchesa, ch’era detta a Milano la bella toscana» (sono i genitori di Alberti) e si professa grato alla consorte per «avergli fatto riannodare una vecchia conoscenza di famiglia». Nel capitolo xxxvii Armandi, che si è accorto dell’infedeltà della moglie, si preoccupa soprattutto di stabilire la parità fra sé e il più giovane rivale: - Marchese Alberti ... potrei uccidervi come un ladro stanotte, o passarvi la spada pel cuore domani ... Ma non voglio farlo ... non lo posso ... Un giorno forse ne saprete il perché ... e saprete anche che siamo pari.
Le scene inWne della scoperta degli adulteri sono rigorosamente parallele: Alberti padre si era reso conto, nel capitolo i, del tradimento di Cecilia, ma aveva evitato di sWdarne l’amante; Armandi si rende conto di quello di Emilia, ma rinuncia al duello con Alberti Wglio. Il legame fra le due situazioni è rinsaldato da un secondo più evidente richiamo nominale. Siamo qui al terzo livello di funzionalità onomastica. Cecilia si chiama la madre di Alberti, ma anche la Wglia di Emilia Armandi. 6 La coincidenza del nome non stabilisce equivalenze o collegamenti Wsici, caratteriali, comportamentali fra le nominate, che nemmeno si incontrano; costituisce soltanto un trait d’union fra vicende parallele ma distanti nel tempo della fabula e dell’intreccio. È perciò un rapporto strutturale a distanza. I richiami onomastici funzionano dunque per Wgure omologhe e sincroniche ma anche per Wgure non omologhe e disposte su piani narrativi asincronici, purché in qualche modo collegate nel plot generale (Cecilia-Cecilia). In quest’ultimo caso la ricerca onomastica mette in evidenza un rapporto fra vicende che ad un primo esame sarebbe forse sfuggito. È ovvio che della coincidenza fra nomi non si avverte la necessità quando le relazioni fra i personaggi sono impostate in modo palese sul piano Wsico, psicologico, comportamentale.
Ciò mi pare si addica alla cameretta «scatolino» della Capinera assai più che ai contenitori di oggetti preziosi e desiderati di Eros ed Eva, romanzi in cui la dialettica si conWgura come estraneità vs ingresso, contemplazione vs violazione. Sommamente istruttiva a questo riguardo è, in Eros, la scena della penetrazione di Alberti nelle sale di villa Armandi (inizio del capitolo x). Pertinente, invece, alla protagonista di Tigre reale è il desiderio di ritrarsi al fondo di cui parla V. Roda, Patologie della casa: l’abitare “in fondo” di Giovanni Verga, «Studi e problemi di critica testuale», 64, apr. 2002, pp. 133-154. 6. La coincidenza onomastica era già stata notata Pieri, op. cit., p. 245.
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La conclusione a cui siamo pervenuti potrebbe risultare valida anche dopo l’esame di altri romanzi verghiani. Considerando, per esempio, Tigre reale, il cui processo elaborativo è parallelo alla stesura di Eros, notiamo che nella sua prima redazione (Tigre reale i, da considerare cosa ben diversa rispetto alla redazione ultima Tigre reale ii), in cui il protagonista si chiama Gustavo di Marchi e la donna fatale Lida, esistono due forti assi di aggregazione onomastica. Uno, quello dei nomi delle donne di Gustavo: al livello alto Lida, al livello basso Palmira, di cui si dice, con evidente riferimento a Lida, «un nome orientale anche quello»; l’altro, quello dei nomi di uomini legati alla protagonista: di Marchi (innamorato), il marchese Anselmi (pretendente al ballo), MarkoV (antico conoscente). Quando in Tigre reale II Gustavo di Marchi diventa Giorgio La Ferlita, 7 l’asse onomastico si infrange integralmente, perché il marchese Anselmi prende il nome di capitano Guidoni e MarkoV scompare. 8 Qualche altra considerazione richiede la serie delle donne aristocratiche che formano in Eros l’universo erotico di Alberti: Emilia, Velleda, Adele, con l’appendice di livello basso della ballerina Selene. Esse, come abbiamo visto, incarnano aspetti diVerenziati della femminilità. Sono perciò Wgure relativamente monocordi, in sostanza fedeli ad un cliché rigido, variabili (ricordiamo il «souvent femme varie» del capitolo xxxi) con modesti spostamenti solo all’interno di quel cliché. Perciò nessuna può assurgere al ruolo di protagonista assoluta e dare titolo al romanzo, il quale prende nome dall’uomo (Aporeo, ricordiamo, era il titolo originale) o dalla passione che caratterizza insieme le creature femminili e il protagonista maschile. Negli altri romanzi preveristi descrittivi del bel mondo, invece, eroina è sempre una donna. Questa presenta diverse e anche opposte sfaccettature: Narcisa di Una peccatrice, infatti, è la seduttrice sedotta, l’ammaliatrice ammaliata; Eva è contemporaneamente donna fatale e fan-
7. Sul passaggio da Gustavo di Marchi a Giorgio La Ferlita ci paiono centrate le osservazioni di M. Spampinato Beretta nell’Introduzione, p. xlv, n. alla sua edizione di Tigre reale i (citata qui alla n. 9): «È da rilevare anche il cambiamento del cognome del protagonista, prima di Marchi, di sicura diVusione nell’area settentrionale, poi La Ferlita, di chiara appartenenza all’onomastica siciliana. Di Marchi, forse, secondo Verga, conferiva un’aria meno isolana e più cosmopolita al personaggio, mentre nell’adozione di un cognome prettamente siciliano potrebbe aYorare una nota di autobiograWsmo e un riferimento larvato a quell’ideale nostos verso la Sicilia che meglio si estrinsecherà nei romanzi successivi». 8. Si ricordi però, secondo quanto abbiamo già detto, che in Eros funziona l’asse marchese-De Marchi.
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ciulla appassionata; Lida di Tigre reale i è la femmina slava sfuggente, «statua di marmo» che diventa «tigre innamorata». 9 Col passaggio a Nata di Tigre reale ii, la caratterizzazione della donna si fa più monocorde, e richiede la compresenza di un’altra Wgura che rappresenti il versante opposto della femminilità: la dolce provinciale trasparente Erminia, anch’essa ritratta con coloriture decise. Si osservi in un caso e nell’altro la presenza dello stesso artiWcio stilistico: la sequenza anaforica di termini esprimenti totalità. Per Nata: Cotesta donna aveva tutte le avidità, tutti i capricci, tutte le sazietà, tutte le impazienze nervose di una natura selvaggia e di una civiltà raYnata – era boema, cosacca e parigina – e nella pupilla felina corruscavano delle bramosie inWnite ed ardenti. Anch’essa, come Giorgio, aveva strascinato la sua stanchezza irrequieta dappertutto, in carrozza o in slitta, colla rapidità del vento [...] Tutti avevano arso l’incenso dinanzi all’idolo moderno... (cap. ii) Con tutti gli impeti bruschi e violenti della passione inferma, vagabonda ed astratta, però forte e risoluta, col cuore di ghiaccio e l’immaginazione ardente [...] con tutte le veemenze, tutte le energie, tutti i dispotismi virili. (cap. ii)
Per Erminia: il cuore della donna si era formato con tutte le sue tenerezze, con tutta la sua delicata sensibilità, con tutti i tesori dell’aVetto, meglio di come non l’avessero fatto le prime impressioni della vita, della giovinezza, della felicità, dell’amore... (cap. xv)
Anche in Tigre reale ii lo scrittore arrivava dunque, come in Eros, all’abbandono della protagonista femminile unica. Si tratta di una scansione che dovrebbe essere messa a fuoco come si è fatto per altre della carriera narrativa del Verga.
9. Indichiamo a questo punto che le citazioni da Tigre reale i e Tigre reale ii sono tratte dalle edizioni critiche a cura di M. Spampinato Beretta, Firenze, Le Monnier, 1988 e 1993 (voll. v e vi dell’Edizione nazionale delle Opere di G. V.).
ii LA NOMINAZIONE IN ROSSO MALPELO E CIÀULA SCOPRE LA LUNA
I
n Rosso Malpelo i personaggi che hanno stretti rapporti col mondo chiuso e immobile della cava si dispongono su diVerenti livelli di integrazione e importanza sociale. Anche le nominazioni occupano diVerenti livelli. Il racconto Nedda, invece, presenta l’ambiente geograWcamente aperto e mobile delle raccoglitrici, e la protagonista, la varannisa, trae identiWcazione dal paese d’origine, Viagrande. In Jeli il pastore, i cui personaggi, rappresentando le varie occupazioni di un universo diVerenziato professionalmente, sono galantuomini, padroni, massari, campieri, fattori, vaccai, trecconi, frati, suonatori, Jeli è individuato dal suo mestiere. Il quale però è indicato genericamente sì da adattarsi alla progressiva degradazione del giovane, che da guardiano di cavalli passa, attraverso la mancata assunzione come porcaio, a guardiano di pecore. Ma ritorniamo ai livelli di Rosso Malpelo. Sono al primo posto i rappresentanti dell’autorità, lontani dai lavoratori subalterni, dai quali sono anche separati in virtù sia del minore spazio narrativo ad essi riservato sia del tipo di nominazione, consistente non in un nome proprio o in un’«ingiuria» 1 ma nella qualiWca professionale: il padrone della cava, l’ingegnere, il soprastante. Non partecipano agli scontri economicamente immotivati che si svolgono fra i proletari, perché i loro atteggiamenti sono determinati o da concreto interesse (il padrone fa morire Misciu appaltandogli un lavoro pericoloso e sottopagato, e punisce Malpelo levandogli il pane o la minestra, che costano; il soprastante sferra a Malpelo una pedata per rimandarlo al lavoro); o da superWcialità e disinteresse (l’ingegnere torna in teatro a veder seppellire Ofelia, senza provare angoscia per quanto poco prima è stato chiamato a constatare: il reale seppellimento di un vivo). Ad un altro livello si colloca l’operaio, come zio Mommu lo sciancato (se questi, come pare, è Wgura diversa dal soprastante), inserito nel
1. Verga è alla ricerca, in una lettera a Capuana del 17 maggio 1878, di una ‘ngiuria, cioè di un soprannome per il romanzo che sarà intitolato I Malavoglia: cfr. G. Raya, Carteggio Verga - Capuana, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1984, p. 61.
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gruppo dei compagni di lavoro in sintonia coi quali egli agisce («O siete in molti, come fa lo Sciancato») e parla («Zio Mommu lo sciancato aveva detto»; «lo sciancato disse»; «io l’ho udito [lo Sciancato], quella sera!»). Per la sua capacità di interpretare il pensiero degli altri può esserne considerato il portavoce, funzione a cui è adatto anche per l’età indicata dalla qualiWca zio. 2 L’essere un anziano e la voce del gruppo fa sì che egli si ponga come elemento di raccordo fra questo e i personaggi d’autorità, ai quali è accomunato in due episodi signiWcativi. In quello citato del sopralluogo dell’ingegnere nella cava, proprio lo Sciancato pronuncia il parere tecnico sull’impossibilità di raggiungere in tempo utile il cavatore sepolto: Lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo dal materiale caduto ci voleva almeno una settimana. 3
D’altra parte, Malpelo, quando accusa i responsabili della morte del padre, associa lo Sciancato al padrone: E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un’occhiata torva: – È stato lui per trentacinque tarì! – [il numero delle monete vicino a quello del tradimento di Giuda non dovrebbe stupire ove si consideri che per il Rosso la realtà è governata anche dalla logica del tradimento]. E un’altra volta, dietro allo sciancato: – E anche lui! E si metteva a ridere!
La doppia nominazione segnala lo statuto di personaggio dalla duplice funzione: zio (Mommu) lo raccorda alle Wgure d’autorità; lo Sciancato agli operai. Sciancato, infatti, è «ingiuria» che funge da marchio di un aspetto almeno del duro lavoro nella cava: Ranocchio si era lussato il femore quando faceva il manovale all’aria aperta, ma la nominazione gli è data alla cava, alla quale la menomazione Wsica pare adattarsi perfettamente; ivi gli asini possono rompersi una gamba, oppure, a forza di cadere, si ricoprono di piaghe alle gambe. Il terzo livello è occupato dall’operaio tenuto fuori dal gruppo perché non assimilabile per inadeguatezza intellettuale o Wsica. L’inadeguatezza è sancita da un’«ingiuria» desunta dal mondo animale: Bestia nel caso di mastro Misciu, il minchione che si è fatto gabbare nella
2. «I titoli di zù zì (zio) e zà (zia) sono dati agli umili quando vanno a nozze o sono innanzi negli anni»: in G. Pitré, Cartelli, pasquinate, canti, leggende, usi del popolo siciliano raccolti ed illustrati da G. P., Palermo, Reber, 1913, pp. 340-341. 3. Avvertiamo qui che si è tenuto presente, anche per la numerazione delle righe, il testo di Rosso Malpelo stabilito da C. Riccardi per l’edizione di Vita dei campi, Firenze, Le Monnier, 1987.
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valutazione del lavoro a cottimo; Ranocchio per il piccolo manovale passato a fare il cavatore, di cui si diceva che «non ne avrebbe fatto osso duro» al nuovo mestiere. Queste «ingiurie» non sono suggerite da un atteggiamento ferocemente avverso. Bestia, la più forte, irride; e la sua vis, demistiWcante delle illusioni del personaggio, non è molto diversa da quella che caratterizza la qualiWca «il cottimante», anch’essa espressione del punto di vista collettivo: tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n’erano andati dicendogli di divertirsi a grattarsi la pancia per amor del padrone, e raccomandandogli di non fare la morte del sorcio. Ei, che c’era avvezzo alle beVe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli ah! ah! dei suoi bei colpi di zappa in pieno; e intanto borbottava: – Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata! – e così andava facendo il conto di come avrebbe speso i denari del suo appalto, il cottimante!
L’irrisione si esercita, stemperata, anche nei confronti di Ranocchio: «arrancava in modo che sembrava ballasse la tarantella, e aveva fatto ridere tutti quelli della cava [...]». Bestia e Ranocchio connotano pertanto creature tollerate perché stanno remissivamente al di sotto senza ribellarsi. È sintomatico il fatto che per Bestia il signiWcato scivoli progressivamente da «stupido» ad «animale che sopporta i soprusi». 4 L’uomo e l’adolescente possono essere equiparati all’asino della cava, che riceve le battiture senza reagire. Un sistema di richiami lessicali mette sullo stesso piano Misciu, Ranocchio, l’asino. Se Misciu è Bestia, «bestia» è chiamato Ranocchio da Malpelo («To’, bestia! Bestia sei»); e «bestia» è nel resoconto dell’autore l’asino battuto: «Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture». Ma Misciu è anche asino: «era l’asino da basto di tutta la cava». «Battere senza misericordia» inoltre è espressione impiegata per Ranocchio e per l’asino: «Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia»; «ei lo batteva senza misericordia». Tre inappartenenze o estraneità al gruppo dunque, quelle di Misciu, di Ranocchio e dell’asino, confermate da tre morti e dalla similarità 4. Si consideri la successione di questi passi: «solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia» (31-33); «E quando era solo [Malpelo] borbottava: – Anche a me fanno così! E a mio padre gli dicevano Bestia, perché ei non faceva così! –» (121-122); «Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui» (159-160); «Mio padre era buono e non faceva male a nessuno, tanto che gli dicevano Bestia» (344-345).
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delle sorti post mortem. Il cadavere di Misciu è portato via al modo stesso degli asini morti; quando muore Ranocchio, Malpelo gli tributa l’estremo omaggio non direttamente ma indirettamente attraverso una visita alle ossa dell’asino, perché nel suo pensiero identico è il destino dei due esseri: Ora del grigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così.
Al quarto ed ultimo livello dei personaggi si colloca il protagonista, la cui assoluta esclusione da qualsiasi consorzio è sancita dall’assenza di nome di battesimo, di cui persino la madre si è quasi dimenticata, e di qualiWca professionale (si ricordi che Misciu è mastro e Ranocchio exmanovale). La logica che caratterizza l’atteggiamento degli altri è ferocemente escludente e distanziante: si ricorre alle pedate, alle sassate, alle bastonate col manico della scopa, e, dopo la morte di Misciu, alla chiusura della porta di casa. Il padrone lo distanzia in altro modo: «Il padrone mi manda lontano, dove gli altri hanno paura d’andare». È ovvio che Malpelo abbia fatto propria la logica di cui è vittima: 5 In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara. – Così si fa – brontolava Malpelo; – gli arnesi che non servono più si buttano lontano –.
Davanti al riWuto degli altri, un atteggiamento del protagonista è la chiusura in sé, l’icona insomma del cerchio senza contatti con l’esterno: egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe [è la risposta al cerchio escludente degli altri: «tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra»] andava a rannicchiarsi sul suo saccone quel curvare il capo e le spalle.
Altro suo atteggiamento è la ferocia di bestia pericolosamente reattiva: mordeva come un cane arrabbiato lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso come quei cani [...] aVamati spelati e selvatici come lui.
5. Cfr. R. Luperini, L’orgoglio e la disperata rassegnazione. Natura e società, maschera e realtà nell’ultimo Verga, Roma, Savelli, 1974, p. 79; Idem, Verga e le strutture narrative del realismo. Saggio su “Rosso Malpelo”, Padova, Liviana, 1976, pp. 68 ss.
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In realtà egli è al di sopra e al di sotto delle bestie feroci: al di sopra per l’intelligenza e la propensione al ragionamento, per la presenza accanto alla cattiveria di una sorta di pietas nei confronti degli esseri più deboli, per l’aVetto che lo lega al padre; al di sotto per l’identiWcazione, nella coscienza collettiva, con il diavolo. Le due ‘ingiurie’ che lo connotano, Rosso e Malpelo, sono accomunate nel titolo, a cui tien dietro nell’incipit la chiosa di un falso sillogismo, tanto rigido nelle sue interne articolazioni causali e consecutive (perché, perché, sicché) quanto disarticolato nella successione delle tre proposizioni, delle quali l’ultima, lungi dal concludere, riporta la conoscenza al punto di partenza: «sicché tutti [...] lo chiamavano Malpelo» rispecchia «Malpelo si chiamava così» dell’inizio. La straordinaria importanza qui conferita all’interpretatio onomastica trova giustiWcazione in almeno tre esigenze: 1. stabilire, attraverso l’equazione rosso-malpelo, la priorità, nel racconto, del punto di vista popolare; 2. riadattare un colore topico della narrazione ‘fantastica’ e perciò anche un nome (il Rosso) già utilizzato nel contesto tutto passione e sangue delle Storie del Castello di Trezza 6 (non è un caso che dei due nomi del protagonista proprio il Rosso sia in più larga misura sottoposto ad un’opera di assottigliamento degli echi perturbanti e di recupero del naturale, 7 come risulterà nelle pagine che seguono); 6. Si badi alla frequenza del colore rosso nel racconto ‘fantastico’, come risulta, per limitare gli esempi all’essenziale, dagli occhi dei ratti del Pozzo e il pendolo o dalla Morte della Mascherata della Morte Rossa o dalla cometa distruttrice del Dialogo di Eiros e Charmion di Edgard Allan Poe. In seno al topos del rosso si individua quello speciWco dei capelli rossi connotanti cattiveria e diabolicità. Ricordiamo altre due Wgure infantili della narrativa del secondo Ottocento italiano: Angelo (nome antifrastico!), «nerboruto e tracotante ragazzetto dai capelli fulvi e dallo sguardo battagliero», «genio maleWco delle mandre e dei pastori» che «piombava nei tuguri, rovesciava le pentole, gettava l’acqua della polenta sui focolari a stento attizzati, prendeva i vecchi per la barba, i marmocchi pel naso o le orecchie, attaccava dei razzi alle code dei gatti, trovava un gusto matto ad aVumicar le tane dei sorci» e si divertiva a tormentare il fratello rachitico (Memorie del presbiterio di Praga e Sacchetti, 1877); e Corbo, di cui è detto che, «sebbene avesse i capelli rossi e ritti [con allitterazione alla Verga: cfr. nota 10] come le Wamme dell’inferno, pure i suoi occhi erano verdi e lucenti, cosicché quando entrava in città dopo il tramonto o passeggiava nelle vie, od in camera senza lume, i suoi occhi parevano pieni di Wamme e di guizzi fosforescenti», e «gettava pietre ai poverelli, tirava la coda e le orecchie ai cagnolini, cavava gli occhi ai passeri e calpestava a bella posta i pulcini» (La bell’Alda di Calandra, 1884): anche gli occhi di gatto e le manifestazioni di malvagità sono elementi verghiani. 7. Di «perdita dell’intero ordine naturale d’esperienza» parlava Allen Tate a proposito di Poe: A. Tate, Saggi, trad. it., Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1957, p. 69.
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3. lasciare al punto di vista popolare la responsabilità della nominazione Malpelo non compiutamente rispondente alla caratteristiche obiettive del personaggio. Ma Rosso e Malpelo sono tenuti separati nel corso del racconto. Il doppio rapporto signiWca che essi hanno valenze identiche e diverse. Identiche per il gruppo, perché espressioni della credenza popolare; 8 diverse nella superiore consapevolezza del narratore, che separa un più oggettivo Rosso da un superstiziosamente connotato Malpelo. Malpelo è la nominazione di gran lunga prevalente in rapporto col prevalente punto di vista dell’osservatore collettivo ed anche del protagonista, quando quest’ultimo adotta il punto di vista degli altri recitando alla perfezione la parte impostagli: «A che giova? sono malpelo»; «ed era malpelo»; «Sapendo che era malpelo, ci si acconciava ad essere il peggio che potesse». Fa l’uYcio di marca connotativa anche la diVusa forma del peggiorativo: «monellaccio»; «visaccio»; «occhiacci»; «cervellaccio». Di tutt’altro tono risulta invece il «povero diavolaccio» usato per Misciu. L’«ingiuria» Rosso, il Rosso, di tono meno oVensivo nella sua oggettività, è impiegata tre volte nella seconda parte della novella, e precisamente nella zona in cui, per comune giudizio della critica, 9 si incrina la compattezza del punto di vista collettivo. Qui interviene frequentemente l’autore, che proprio al Rosso, e non a Malpelo, attribuisce tre momenti fondamentali della teorizzazione o della didattica svolta in cospetto di Ranocchio: ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. – Vedi quella cagna nera, gli diceva, che non ha paura delle tue sassate; non ha paura perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole! Adesso non soVriva più l’asino grigio [...] Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche, e anch’esso quando piegava sotto il peso o gli mancava il Wato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: Non più! Non più! Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. E se non fosse mai nato sarebbe stato meglio.
8. Vedi, p. es., in G. Pitré, Proverbi siciliani, i, Palermo, Pedone Lauriel, 1880 («Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane» viii), p. 174: «Russu è malu pilu», «Russu malignu». 9. G. Baldi, L’artiWcio della regressione. Tecnica narrativa e ideologia nel Verga verista, Napoli, Liguori, 1980, p. 62 (il saggio cui si fa riferimento era già stato pubblicato in «Lettere italiane», 4, 1973); R. Bigazzi, Su Verga novelliere, Pisa, Nistri-Lischi, 1975, p. 47; G. Verga, Novelle, a cura di A. Marchese, Torino, sei, 1994, p. 109.
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Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli ; ma il Rosso lo sgridava perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l’asino grigio aveva paura dei cani che lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il dolore di essere mangiate. – Tu eri avvezzo a lavorare sui tetti come i gatti – gli diceva – e allora era tutt’altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che sono topi vecchi con le ali; quelli ci stanno volentieri in compagnia dei morti –. Ma il povero Ranocchio non gli dava retta; sembrava che badasse a contare quanti travicelli c’erano sul tetto. Allora il Rosso si diede ad almanaccare che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo perché il suo Wgliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto [...].
Con la nominazione il Rosso il protagonista vive momenti privilegiati del suo rapporto non antagonistico con Ranocchio. I due nomi si richiamano per allitterazione: Rosso-Ranocchio. Ma egli ha come Malpelo un rapporto non antagonistico con un altro personaggio, il padre; e Malpelo allittera con Misciu, anzi con mastro Misciu. 10 Malpelo e Misciu si diVerenziano sul piano delle valenze semantiche e foniche. Malpelo connota una realtà maligna e diabolica ma anche ruvida ed aspra; mentre Misciu, ipocoristico di Domenico, non può non risentire della parziale sovrapponibilità al termine siciliano misciumugnu = «persona calma, Xemmatica» 11 e dell’accostamento paronomastico a liscio. Il rapporto ruvido - liscio è esibito in un punto del testo delle prime stampe, modiWcato a partire dall’edizione Treves 1897 probabilmente per ragioni di verisimiglianza: gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli, così ruvidi e rossi com’erano. 12
10. Per il valore aggregante dell’allitterazione si vedano questi sintagmi: «rena rossa» (3 e altrove), «Malpelo, un monellaccio» (11), «un minchione come mastro Misciu» (32), «un rumore sordo e soVocato» (62), «suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte» (144), «sforacchiare le siepi» (196), «spelati e selvatici» (202), «col sole sulla schiena» (216), «dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe» (217), «si sprofondava sotterra» (229), «ruvidi e rossi» (268), «lisci e lucenti» (278-279), «monellaccio malizioso» (341), ecc. 11. In Piccitto, Tropea, Vocabolario siciliano, II, Catania-Palermo, Centro di studi Wlologici e linguistici siciliani, 1985, misciumugnu, voce catanese = «persona calma, Xemmatica». 12. La modiWca riguarda la sostituzione di «quantunque fossero così ruvide e callose» (le mani) a «così ruvidi e rossi com’erano» (i capelli). Probabilmente l’autore riteneva opportuno sottolineare, dopo la fantasticheria di Malpelo, la caratteristica reale
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Si può a questo punto osservare che Verga, il quale insiste nella corrispondenza con Capuana sull’importanza del valore fonico dei nomi, 13 ha miracolosamente reinventato e riproposto il binomio fonico-semantico dantesco di vocabula yrsuta - vocabula pexa, i quali ultimi loquentem cum quadam suavitate relinquunt. 14 Liscio, lisciare sono termini usati con insistenza nella caratterizzazione dell’aVetto che lega Malpelo al padre: Malpelo se li lisciava sulle gambe Suo padre li ha resi così lisci e lucenti nel manico con le sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti.
Invece «Sua madre non aveva mai avuto una carezza da lui e quindi non gliene faceva mai». Gli operai della cava accarezzano, sì, Malpelo, ma antifrasticamente a pedate: «lo accarezzavano coi piedi». 15 Il duplice richiamo Malpelo-Misciu e Rosso-Ranocchio richiede una più precisa lettura di tipo socio-antropologico, che chiami in causa un legame di parentela privilegiato. Il portatore dei due nomi si trova con gli delle mani di Misciu, «ruvide e callose». Un’esigenza di verisimiglianza o realismo dovette spingere il Verga ad un’altra sostanziale modiWca del testo, quella concernente la sostituzione ai corvi dei cani e della cagna nera nello spolpamento delle ossa del grigio. DiVerenti motivazioni di questa modiWca danno R. Luperini, Verga e le strutture narrative del realismo, cit., pp. 29 ss., e M. G. Riccobono, Reminiscenze dantesche e foscoliane in “Rosso Malpelo”, «Rivista di letteratura italiana», xviii, 1, 2000, pp. 39 ss. 13. Ecco come Verga rispondeva il 1° febbraio 1879 a Luigi Capuana, che l’aveva più di una volta sollecitato a suggerirgli un cognome armonioso, adatto al carattere della protagonista del proprio romanzo: «Caro Luigi, Marzulli no! Se tieni all’elli piuttosto Dorselli o Marulli. Io preferirei il solo nome – Giacinta – mi suona meglio, oppure un cognome di due sillabe ma armoniose. Però sto sempre o per Giacinta, tout court, o per la Signora Giacinta» (da Raya, Carteggio Verga-Capuana, cit., p. 74). 14. De V. E. ii, vii 2-5. 15. Un’altra occorrenza di accarezzare è nelle correzioni successive all’edizione Treves 1880: «piegare di un pelo, come quando gli accarezzavano la schiena a badilate» prende infatti il posto di «piegar la schiena come il più semplice colpo di badile che solevano dargli» (296-297). D’Annunzio, che ha letto assai per tempo la novella di Malpelo, la utilizza, oltre che in DalWno (cfr. Appendice), anche in Canto novo, ove appaiono in suntuoso compendio molti elementi del personaggio verghiano: il nome, il peggiorativo, la qualiWca animalesca («cane»), la mancanza di carezze; con la macroscopica diVerenza però che le carezze di cui Rossaccio è privo sono di amante e non di madre. Ecco il passo dannunziano: «E Rossaccio pensava: io sono un cane / per me non c’è neanche una carezza / non c’è neanche un bacio! Io sono un cane». L’accostamento dei due testi è già in P. Gibellini, Per un diagramma del verismo dannunziano, in D’Annunzio giovane e il verismo, Atti del i Convegno internazionale di studi dannunziani (Roma, 21-23 settembre 1979), Pescara, Centro di studi dannunziani, 1981, p. 31.
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altri due personaggi al centro del rapporto reale e simbolico padre-Wglio: come Malpelo è Wglio biologico di Misciu, come Rosso è padre putativo di Ranocchio. Propria della paternità secondo gli schemi socio-antropologici è la funzione di insegnare, ammaestrare, preparare. Una volta perduto il padre biologico, che svolge del resto il suo compito nell’ambito della tecnica lavorativa, il protagonista, invece di indirizzarsi verso un sostituto paterno, inesistente nel mondo avverso della cava, assume la veste di padre, con connessa funzione di maestro di vita, nei confronti del Wglio putativo Ranocchio. Si può aggiungere che, a diVerenza di quanto è stato detto per la letteratura dell’Ottocento, 16 il rapporto padre-Wglio dà luogo in Verga ad un’opposizione non ideologico-generazionale ma soltanto caratteriale e comportamentale tra le due Wgure. Misciu subisce – Malpelo si ribella; Rosso si ribella – Ranocchio subisce (il che forma una perfetta Wgura di chiasmo). InWne le due nominazioni, Rosso e Malpelo, collegano il protagonista alla cava. La seconda, Malpelo, sul piano della coscienza del gruppo e dello stesso nominato, che – come sappiamo – è portato ad adottare il punto di vista collettivo: «Per noi che siamo fatti per vivere sottoterra – pensava Malpelo [...]». Nella superstizione popolare regno del diavolo sono le profondità sotterranee; e Malpelo, del quale si dice: «aveva il diavolo dalla sua»; «sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrava negli orecchi»; «pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo», compie un’azione che può essere considerata non un indizio ma addirittura una prova di perversione diabolica: disprezza la grazia di Dio («e il pane lo buttava al cane, come se non fosse grazia di Dio»). Col suo nome è indicata la cava, che per la gente è «“la cava di Malpelo”, e cotesto al padrone gli seccava assai». L’altra nominazione, Rosso, lega al luogo di lavoro secondo modalità accettate dall’autore e dal lettore. La rena è rossa, e la cava è quella «della rena rossa». 17 Il personaggio è come marcato dalla stessa rena: «era sempre cencioso e lordo di rena rossa»; «visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa». 16. Secondo P. Brooks, Trame, intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, Torino, Einaudi, 1995, p. 68, al cap. iii Il romanzo e la ghigliottina.Padri e Wgli in “Le Rouge et le Noir” (l’edizione originale dell’opera è del 1984) in Stendhal i Wgli sono rivoluzionari nei confronti dei padri che rappresentano la tradizione, la legittimità, l’ordine costituito. L’osservazione è ripresa da V. Coletti, Giovani e vecchi, Wgli e padri nella letteratura dell’età moderna, «Nuova Corrente», xliv, 1997, p. 336. 17. Cfr. Luperini, Verga e le strutture narrative del realismo, cit., p. 63: «Egli porta il medesimo colore della cava, nei capelli e nel nome: essa è il suo ambiente, ed è l’ambiente della morte».
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La sua Wne si può considerare consequenziale conclusione della breve vita del Rosso e di Malpelo: il Rosso Wnisce col far parte deWnitivamente della cava di rena rossa; Malpelo rientra nel regno ctonio, 18 da cui i ragazzi hanno paura di vederlo riemergere con aspetto diabolico. In ogni caso egli si congiunge per sempre con l’ambiente a cui appartiene e da cui ha tentato di evadere almeno col desiderio: Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare cantando sui ponti [...] o il carrettiere, come compare Gaspare, che veniva a prendersi la rena della cava [...] o meglio ancora avrebbe voluto fare il contadino che passa la vita fra i campi.
Il senso della vicenda è collocato en abîme nell’episodio del galeotto anonimo, che dopo il tentativo di evasione nel lavoro della cava, preferisce ritornare alla sua sede naturale dichiarando che «piuttosto si contentava di stare in galera tutta la vita». La straordinarietà della Wne corona degnamente la straordinarietà della vita: a diVerenza di ciò che è successo a Misciu, al grigio, a Ranocchio (i tre esseri meno lontani dal suo destino), di Malpelo «si persero persin le ossa». Della scomparsa totale una vera e propria convalida può considerarsi l’aura leggendaria che la circonda: vi convivono due miti, quello di origine popolare, ma nobilitato dal Carducci, di chi si è perduto e non può essere ritrovato perché non sente le grida disperate di chi lo cerca, 19 e quello colto, di ascendenza biblica e dantesca, del «non si seppe più sua sepoltura». 20 Valuto anche per la novella di Pirandello la possibilità che i nomi e le qualiWche dei personaggi, per quanto di numero assai ristretto, suggeriscano una suddivisione in gruppi. Per la diYcoltà di mettere nel novero Calicchio, la cui Wne tragica appartiene all’antefatto (è datata «quattr’anni addietro»), il cast si compone di quattro presenze: l’operaio tipico o standard, indicato non singolarmente ma come categoria, la categoria dei picconieri; zi’ Scarda; Cacciagallina; Ciàula. 18. «Creatura ctonia» è deWnito Malpelo in Baldi, L’artiWcio della regressione, cit., p. 58. 19. In Davanti San Guido (Rime nuove), 93-100. 20. Il mito del «non si seppe più sua sepoltura» riguarda Mosè come Buonconte da Montefeltro: ci si consenta di rinviare a B. Porcelli, Peccatum linguae, modello mosaico, climax narrativa nel canto di Ulisse, «Critica letteraria», xix, 3, 1991, pp. 423-443; poi in Idem, Nuovi studi su Dante e Boccaccio, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e PoligraWci Internazionali, 1997, pp. 9-26.
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I picconieri sono giovani: «Gioventù!» è il sospiro con cui zi’ Scarda indulge al loro comportamento; «gioventù» e «baldanza giovanile» sono deWnizioni della parte diegetica. Come giovani essi possono, almeno una volta, infrangere le rigide regole della cava smettendo «di lavorare senz’aver Wnito d’estrarre le tante casse di zolfo che bisognavano il giorno appresso a caricar la calcara». Zi’ Scarda, costretto a prolungare il turno per sopperire al lavoro che i giovani non fanno, è invece vecchio («vecchio com’era»): la sua posizione anagraWca è evidente anche nella qualiWca zio. Come vecchio non sa ribellarsi, sclerotizzato nello spirito. Ma è sclerotizzato persino nelle movenze Wsiche, incapace di nuove espressioni, perché «Wsso in quel suo strano atteggiamento», cioè nel «versaccio solito, con cui, non senza stento, si deduceva pian piano in bocca la grossa lacrima, che di tratto in tratto gli colava dall’altro occhio, da quello buono». Pertanto zi’ Scarda lacrima e prima ha pianto a lungo per la morte del Wglio; i giovani, invece, ridono ritornando in paese, il quale è indicato col suo nome una sola volta nella novella: precisamente quando il toponimo Comitini si associa col suono argentino delle sue i al suono argentino delle risate: «s’allontanavano per la stradetta che conduceva a Comitini; ridevano e gridavano: – Ecco sì! Tieniti forte codesto, Cacciagallì!». Sono individuate pertanto due tipologie di personaggi, il vecchio e il giovane, con abbinamento non insolito nella narrativa pirandelliana; anche se in I vecchi e i giovani il contrasto fra le diverse generazioni è determinato da precise ragioni politiche. Il sistema binario della novella non riguarda Cacciagallina, perché lo tengono fuori la qualiWca dirigenziale di soprastante e la caratterizzazione di personaggio eroicomico evidente tanto nel cognome burlesco (esemplato strutturalmente su termini dialettali del tipo cacciaciauli, cacciacimici, cacciadiavuli, cacciamuschi, e fors’anche su nomi letterari come l’aretiniano Cacciadiavoli), 21 la cui componente verbale Cacciaassume il senso di ‘incitare’, ‘spronare’, come altrove in Pirandello; 22
21. Cacciadiavoli è nel Filosofo il ruYano di Tullia meretrice, esemplato sul Buttafuoco del Boccaccio. 22. Cfr., p. es., in I vecchi e i giovani: «Caccia via! Andiamo! – ordinò al cocchiere. La carrozza si mosse» (da Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia e M. Costanzo, Milano, Mondadori, «I Meridiani», ii, 1973, p. 127). Sul valore dell’onomastica pirandelliana citiamo almeno questi studi: L. Salibra, Il nome “etichetta” nelle novelle di Pirandello, «Le forme e la storia», iv, 3, 1983, pp. 459-525; L. Sedita, La maschera del nome.Tre saggi di onomastica pirandelliana, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1988; S. C. Sgroi, L’onomastica letteraria pirandelliana (l’esempio del “Turno”), «Quaderni di semantica», ix,
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quanto nella considerazione che sul vecchio e cieco Scarda egli «poteva far bene il gradasso» (nelle edizioni anteriori alla Mondadori 1937: «poteva far bene il Rinaldo», che evidenzia l’aspetto marionettistico, da teatro dei pupi, della scena). Con la chiassosa e allegra astensione dal lavoro dei picconieri, così come con la burlesca nominazione e il fallimento del soprastante, Pirandello diVerenzia, ad apertura di racconto, in modi netti, il proprio tono ‘umoristico’ da quello tragico verghiano, oVrendo un esempio complesso di sentimento del contrario. 23 Basta accostare questi lacerti: «Wnché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata» (Verga) / «Cacciagallina, il soprastante s’aYerò contr’essi con la rivoltella in pugno» (con quel che segue), per avere chiara, nell’apparente similarità delle situazioni e degli attanti, l’antitesi a livello di linguaggio, nominazione dei personaggi, mezzi impiegati, risultati raggiunti. Per quanto concerne in particolare la nominazione, il contrasto, la scomposizione, lo smascheramento riguardano sia il nome Cacciagallina (la cui seconda parte ridimensiona la prima) sia la qualiWca di «soprastante», che passa da indicatore d’autorità a indicatore di posizione: il personaggio infatti, nello scontro con i picconieri, sta sopra di essi in senso puramente Wsico o spaziale; cerca di rimandarli «giù», ed essi lo canzonano «dal fondo della buca». 24 Il sistema binario di cui abbiamo poc’anzi parlato riguarda, invece, il protagonista Ciàula, il quale non è né giovane né vecchio o, per meglio dire, è contemporaneamente giovane e vecchio: fa infatti il caruso di zi’ Scarda, anche se ha più di trent’anni. 25 Persino mentalmente può 1988, pp. 135-164, poi in Idem, Per la lingua di Pirandello e Sciascia, Caltanissetta-Roma, Sciascia ed., 1990; P. D. Giovanelli, Dicendo che hanno un corpo. Saggi pirandelliani, Modena, Mucchi, 1994, cap. La trappola del nome, pp. 187-195; A. R. Pupino, Nomi e anonimi di Pirandello. Qualche esempio, «il Nome nel testo», ii-iii, 2000-2001, pp. 163-181. 23. Per Pirandello causa principale dell’umorismo è «il disaccordo che il sentimento e la meditazione scoprono o fra la vita reale e l’ideale umano o fra le nostre aspirazioni e le nostre debolezze e miserie»: da L’umorismo, in L. P., Saggi, poesie, scritti varii, a cura di M. Lo Vecchio-Musti, Milano, Mondadori, 1960. 24. Sono essenziali alla resa del sentimento del contrario anche l’espressione «s’aYerò contr’essi» e l’esclamazione dei picconieri «Bum!». La prima, più che formazione da Wero, pare adattamento del romanesco aYararsi, dal lat. aZagrare, di cui B. Migliorini, Parole nuove. Appendice di dodicimila voci al “Dizionario moderno” di Alfredo Panzini, Milano, Hoepli, 1963, p. 36, trova un’occorrenza in Tecchi col signiWcato di «avventarsi, scagliarsi contro qualcuno». Il verbo aYarasse però era stato usato frequentemente da Giuseppe Gioacchino Belli: cfr. I sonetti, a cura di G. Vigolo, Milano, Mondadori, 1952, vol. iii, Indice delle voci, p. 3124. 25. Trent’anni poteva essere l’età massima per un caruso, come otto l’età minima: F. Squarzina, Produzione e commercio dello zolfo in Sicilia nel secolo xix, Torino, ilte, 1963, p. 117; G. Giudice, Pirandello e Verga, «Galleria», xv, 1-2, 1965.
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appartenere all’una o all’altra parte; «poteva averne anche sette o settanta, scemo com’era». Almeno tre delle tessere verghiane reimpiegate da Pirandello sono adattate alle esigenze della nuova struttura narrativa. In primo luogo la morte per incidente sul lavoro, già presente in Rosso Malpelo, serve in Ciàula scopre la luna a mettere in rilievo la solitudine di un vecchio. Per la morte del padre tenevano a lavorare Malpelo, per la morte del Wglio tengono a lavorare zi’ Scarda. Secondariamente, la voce popolare che i soldi guadagnati da Malpelo erano anche troppi per il caratteraccio del ragazzo è ripresa in funzione del caso del vecchio Scarda, la cui paga è intesa come generoso risarcimento per la perdita del Wglio: «Perché, di regola, doveva presumersi che uno della sua età non poteva più lavorar bene». I due temi interconnessi sono trattati nelle novelle con gli stessi termini: Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu era morto in quella stessa cava. In considerazione di Calicchio morto [...] lo tenevano ancora lì a lavorare. Lavorava più e meglio di un giovane; ma ogni sabato sera la paga gli era data, e per dir la verità, lui stesso se la prendeva, come una carità che gli facessero.
InWne, gli sberleY dei lavoratori, che nel testo verghiano riguardano la bestialità del cottimante, sono in Ciàula scopre la luna trasposti a ferire l’illusione di Cacciagallina, che pensa di sostituire il lavoro dei giovani con quello di un vecchio, per quanto quel vecchio lavori «più e meglio di un giovane». Ma ritorniamo a Ciàula. L’età ancipite gli consente di essere a metà strada fra la sclerotizzazione del vecchio e la propensione al nuovo dei giovani. L’«ingiuria» che lo individua, nell’assenza, come per il protagonista verghiano, di ogni altro tipo di nominazione («lo avevano soprannominato Ciàula»: Cacciagallina e Scarda sono invece cognomi), 26 presuppone un dato incontrovertibile: egli imita «a ogni passo il verso della cornacchia – cràh! cràh –». Si basa pertanto su un tic, che, come nel caso della lacrima assaporata da zi’ Scarda, Wssa il personaggio nella ripetizione di un gesto. Da questo punto di vista Ciàula è il secondo vecchio del racconto: fra il picconiere e il caruso esiste lo stesso rappor26. Per il cognome Scarda cfr. G. Caracausi, Dizionario onomastico della Sicilia, 2 voll., Palermo, Centro di studi Wlologici e linguistici siciliani, 1993. Cacciagallina, che non è registrato nel Caracausi né Wgura negli elenchi telefonici della Sicilia, pare una creazione dell’autore, come sopra detto.
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to di somiglianza degradata intercorrente tra frate Cipolla e il servo Guccio Porco, il quale ultimo ripropone, nella seduzione fra le pentole, la verbosità ventosa che il frate esibisce nella predica religiosa. L’aggettivo solito è usato anche per Ciàula: «il solito verso della cornacchia» (per zi’ Scarda: «il versaccio solito»). Denotano Wssità anche le occorrenze di ogni: oltre quella su citata, quel suo crocchiare a ogni scalino rivedeva a ogni salita la luce del sole Ogni sera, terminato il lavoro, ritornava al paese con zi’ Scarda Cadeva subito in un sonno profondo, dal quale ogni mattina, alla punta dell’alba, soleva riscuoterlo [...],
e di noto: gli aspetti noti delle cose circostanti gli balzavano davanti soleva riscuoterlo un noto piede.
Soltanto il noto, il conosciuto mettono Ciàula a suo agio; il non conosciuto lo turba: Conosceva quello del giorno, laggiù [...] Ma il bujo della notte non lo conosceva atterrito, era scappato a ripararsi in un antro noto soltanto a lui la solitudine delle cose che restavan lì con un loro aspetto cangiato e quasi irriconoscibile [...] gli avevano messo in tale subbuglio l’anima smarrita [...].
La cava, con i suoi rumori cadenzati e incessanti, è ambiente idoneo ad accogliere la ritmica Wssità di zi’ Scarda e del suo caruso: Giungevano di lontano gli stridori e i tonW cadenzati della pompa che non posava mai, né giorno né notte. E nella cadenza di quegli stridori e di quei tonW s’intercalava il ruglio sordo di zi’ Scarda.
Se consideriamo però più attentamente i due personaggi, ci accorgiamo che la Wssità di zi’ Scarda si presenta diversa da quella di Ciàula: per il primo è di tipo monofasico, per il secondo, bifasico. Questi infatti è abituato a bipartire il mondo conosciuto in serie di opposti così individuabili: dentro la cava – fuori dalla cava, buio – luce, lavoro – riposo, spintoni e calci dei compagni di lavoro – pestate dei nipoti di Scarda; a cui corrisponde, nell’abbigliamento, la coppia camicia vs panciotto + calzoni + cappottello. Se si dispongono gli opposti delle coppie in insiemi similari risulta che al dentro corrispondono il buio, il lavoro, gli spintoni e i calci dei compagni, la camicia; al fuori la luce, il riposo, le pedate dei nipoti di Scarda, il panciotto + i calzoni + il cappottello.
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Con la bifasicità di Ciàula è in rapporto il duplice straniamento, raggiunto in corrispondenza degli unici due momenti individuabili nel Xuire uniforme del suo tempo. L’ogni («ogni sera», «ogni mattina», ecc.) è così spezzato bruscamente due volte dal deittico forte quella: «quella volta che il Wglio di zi’ Scarda, già suo padrone, aveva avuto il ventre e il petto squarciati dallo scoppio della mina» e «I picconieri, quella sera, volevano smettere di lavorare». Nella prima circostanza, appartenente all’antefatto, Ciàula, che ha ritardato sino a notte l’uscita per l’incidente occorso a Calicchio, si trova, una volta fuori dalla cava, davanti al buio invece che alla luce. Il suo stato d’animo nei confronti dell’aspetto mutato delle cose è di straniamento, a cui fa seguito un moto di fuga («una corsa pazza»). Nella seconda, Ciàula, che ritarda l’uscita per aiutare nel lavoro zi’ Scarda, vede non l’atteso e temuto buio, ma il chiarore di una notte di luna. Questa volta egli sente conforto e dolcezza. Possiamo dire che il secondo straniamento è da collegare alla faccia giovanile del personaggio, capace di una positiva accettazione del nuovo. Per questo Ciàula si diVerenzia anche dal Rosso, che è il personaggio del sempre immodiWcabile: Era sempre cencioso e lordo di rena rossa si sapeva sempre che era stato lui Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena ei si pigliava sempre i castighi Ei narrava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, pensava Malpelo, ci dovrebbe essere buio sempre e dappertutto;
sul quale risulta deWnitivo il giudizio di Asor Rosa: Si direbbe che Rosso pensi che le cose accadano in un certo modo (e non potrebbero accadere in modo diverso), perché prima delle cose vengono le leggi. 27
La legge fondamentale del Rosso, concernente la dialettica forte - debole, altra tessera verghiana utilizzata da Pirandello, 28 è da questo resa
27. A. Asor Rosa, Il primo e l’ultimo uomo del mondo. Indagine sulle strutture narrative e sociologiche in “Vita dei campi” (1968), in Il caso Verga, a cura di A. Asor Rosa, Palermo, Palombo, 1973, p. 62. 28. Verga: «sembrava che si volesse vendicare sui deboli»; Pirandello: «aveva anche lui, a sua volta, sotto di sé qualcuno più debole, sul quale rifarsi più tardi».
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meno drammatica nella constatazione che con Ciàula la catena degli oppressi si interrompe. La seconda uscita dalla cava, «ventre della montagna», «ventre della terra», e prima, più esplicitamente, «alvo materno» («e ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alvo materno»), equivale ad una vera e propria rinascita. 29 Se Rosso scompariva totalmente nelle tenebre, Ciàula con movimento inverso viene alla luce. Risalito con fatica al chiarore viviWcante attraverso un condotto simile alla natural burella dantesca, Ciàula «cadde a sedere», così come il viator medievale era stato posto «in su l’orlo a sedere» da Virgilio, dopo aver terminato il tratto più faticoso del percorso sotterraneo. Le analogie con il movimento e il processo spirituale danteschi sono sottolineate, nella conclusione della novella, da termini e sememi propri della zona narrativa compresa fra explicit della prima e incipit della seconda cantica della Commedia: salita, scala, buca, liberazione, chiaro, sole, cielo, dolcezza, conforto. Non solo. Un’altra vicenda dantesca di rinascita funge da ipotesto nel Wnale di Ciàula: quella dei superbi che procedono contratti sotto il pondo e anticipano col «Più non posso» il «sentiva che, proprio, non ne poteva più» della creatura pirandelliana. Ciàula, dunque, scopre la luna riattualizzando il «quindi uscimmo a riveder le stelle» e la metamorfosi da verme strisciante in farfalla. Appena sbucato all’aperto, gli cade dalle spalle il carico, e, quasi nell’atto di spiccare il volo, solleva le braccia e apre le mani. Il mutamento è chiaramente percepibile anche sul piano della caratterizzazione fonico-espressiva del personaggio, che abbandona «il solito verso della cornacchia» (cessa cioè di essere cornacchia) per passare, attraverso il «gemito raschiato, protratto» della soVerenza, al pianto di gioia della scoperta. 30 Rosso, invece, non aveva scoperto nulla, perché tutto a lui era 29. Di nascita-rinascita (o risurrezione) di Ciàula hanno parlato R. Alonge, Pirandello tra realismo e mistiWcazione, Napoli, Guida, 1972, pp. 21-22; G. Bárberi Squarotti, Il Wlosofo nella cava, in Giovanni Verga. Le Wnzioni dietro il verismo, Palermo, Flaccovio, 1982, pp. 142 ss.; F. Zangrilli, L’arte novellistica di Pirandello, Ravenna, Longo, 1983, pp. 208209; G. Baldi, L’inetto e il superuomo. D’Annunzio tra “decadenza” e vita ascendente, Torino, Paravia, 1997, pp. 35 e 58. E. Gioanola, Pirandello e la follia, Genova, Il melangolo, 1983, pp. 252-253, mette in rilievo, più che la rinascita, il rifugio di Ciàula nell’alvo materno, in accordo con la sua interpretazione psicanalitica della famiglia prigione e soprattutto del padre persecutore. 30. Non pare perciò da sottoscrivere il giudizio di G. Petronio, Le novelle surrealistiche di Pirandello, in Le novelle di Pirandello, Atti del vi Convegno internazionale di Studi pirandelliani raccolti e ordinati da S. Milioto, Agrigento, Edizioni del Centro nazionale di Studi pirandelliani, 1980, p. 218, che a proposito di Ciàula scopre la luna, come di altre novelle di ‘epifania’, «in cui l’uomo dal fondo della sua soVerenza scopre la natura e se ne
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stato sempre chiaro. Il Wnale della novella verghiana ripropone dati già acquisiti e fatti propri dalla coscienza del protagonista: sua madre si era rimaritata e se n’era andata a stare a Cifali sua sorella s’era maritata anch’essa La porta della casa era chiusa Ei non aveva altro che le scarpe di suo padre appese al chiodo gli commettevano sempre i lavori più pericolosi s’ei non si aveva riguardo alcuno, gli altri non ne avevano certamente per lui; 31
e un ricordo, cioè un ritorno all’indietro: «si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito». Al tono disforico del suo annullamento totale, basato sulla ricorrenza di negazioni assolute, si contrappone il tono euforico della rinascita di Ciàula, impostato sugli artiWci della ripetizione e dell’anafora: non aveva altro che le scarpe di suo padre s’ei non si aveva riguardo alcuno, gli altri non ne avevano certamente per lui senza che nessuno potesse udirlo Ma non disse nulla Del resto a che sarebbe giovato? né più si seppe nulla di lui Così si persero persin le ossa.
cresceva, cresceva sempre più Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era Ora, ora soltanto Eccola, eccola là, eccola là la Luna... C’era la Luna! La Luna! senza saperlo, senza volerlo dal gran conforto, dalla grande dolcezza ignara [...] ignara [...].
È presente nella conclusione di Ciàula scopre la luna anche la diVrazione (la «fonction séminale» di Saussure e Starobinski) 32 del nome del protaincanta e stupisce», parla non di «volontà di evasione e conforto», ma anzi «della disperazione di Pirandello, di un suo approdo a un malinconico pessimismo esistenzialistico». 31. Ecco quanto era stato detto precedentemente: «[la madre di Malpelo] adesso si era maritata un’altra volta, ed era andata a stare a Cifali» (399-400); «anche la sorella si era maritata» (400); «e avevano chiusa la casa» (400); «Quelle scarpe le teneva appese ad un chiodo» (268-269); «Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d’andare» (315-316); «se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno» (401-402). 32. Cfr. J. Starobinsky, Les mots sous les mots. Les anagrammes de Ferdinand de Saussure, Paris, Gallimard, 1971, p. 61: «Saussure découvrait dans la poésie la plus récente des noms propres humains, des épithètes, des noms de lieux, et même des noms communs – tous donés de la même fonction séminale. Le mécanisme allégué par Saussure n’est rien de plus qu’un rapport d’identité entre la suite des phonèmes de l’hypogramme supposé, et quelques-uns des phonèmes dans le vers intégral. Il s’agit, simplement, d’une duplication, d’une répétition, d’une apparition du même sous la Wgure de l’autre».
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gonista nei termini e sintagmi più signiWcativi della scoperta: scoperta della luna, che, secondo Mircea Eliade, è l’astro della morte e della rinascita: 33 gli stava di facCIA LA LUna E che poteva importare a Ciàula, che in CIELO CI fosse LA LUna C’era LA LUnA Saliva pel CIELO LA LUnA.
Che essa – aggiungiamo – sia leopardianamente ‘ignara’ degli uomini 34 poco importa nella vicenda di Ciàula, la quale procede per la capacità di scoperta del personaggio. Ciò fornisce una seconda chiave di lettura del nome. Alla rinnovata personalità di Ciàula corrisponde con perfetto parallelismo la rinnovata signiWcazione onomastica. 35 Pirandello trovava in Pascal che «non c’è uomo [...] che diVerisca più da un altro che da se stesso nella successione del tempo» 36 e traduceva la scoperta nel movimento doppio («il prima e il poi») di novelle come Quand’ero matto, Ieri e oggi, Sole e ombra, L’Avemaria di Bobbio... In altre la duplicità del personaggio trovava il suo corrispettivo nella duplicità del nome; il quale cessava così di essere «epigrafe funeraria» 37 inadatta a connotare la perenne mutevolezza dei vivi. Indichiamo, assieme a Ciàula, altri due casi di doppia signiWcazione onomastica. Nel Coppo (1912) il pittore Bernardo Morasco, che si avvia al suicidio perché ormai spiritualmente morto dopo vent’anni di rinunce ai propri ideali artistici, sopportate per mantenere la famiglia con i proventi di una pittura dozzinale, riesce, in un attimo di terrorizzato ripensamento, a sottrarsi alla morte, ritrovando l’incanto della notte e iniziando un rinnovamento dell’animo. Il nome Morasco ci dà il senso del prima e del poi: Morasco = muoio + rinasco. 38 Il binomio verbale esprime il 33. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino, Einaudi, 1954, pp. 175 ss.; cfr. anche A. Seppilli, Poesia e magia, Torino, Einaudi, 1971, p. 280. 34. È ovvio l’accostamento alla luna del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, su cui è ritornato ultimamente G. Lonardi, Pirandello, Leopardi e il ritorno di Socrate, in Studi di Wlologia e letteratura in onore di Gianvito Resta, Roma, Salerno Editrice, 2000, pp. 1139-1140. 35. Se può esser vero che i soprannomi «Wssano la peculiarità [di un individuo] in una immobilità che pare perpetua» (A. M. Cirese, Intellettuali, folklore, istinto di classe. Note su Verga, Deledda, Scotellaro, Gramsci, Torino, Einaudi, 1976, p. 22), ciò non vale per Ciàula, secondo il punto di vista dell’autore. 36. L’umorismo, cit., p. 150. 37. Da Uno, nessuno e centomila, in Tutti i romanzi, cit., ii, p. 901. 38. Aderisce alla duplicità del personaggio anche la coppia nome di battesimo - ipo-
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senso della vita anche di Vitangelo Moscarda, che alla Wne di Uno, nessuno e centomila conclude: «muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi». Nella Tragedia di un personaggio (1911) un protagonista romanzesco, creato per ricoprire il ruolo di un Wlosofo autore del testo La WlosoWa del lontano 39 non giunge né alla compiuta realizzazione della propria personalità né alla pubblicazione dell’opera, perché il romanziere, incurante delle premesse che avrebbero richiesto tutt’altra soluzione, lo spinge verso un Wnale artiWcioso e banale facendogli sposare una sciocca Graziella. Quel protagonista ha nome Fileno: il Wlosofo mancato, rimasto a mezzo (Fil-), perché dirottato verso una conclusione da romanzo rosa, si trasforma nella Wgura mediocre dell’attore amoroso, come il nome nella sua interezza testimonia. 40 Postilla Dedico solo un cenno all’onomastica della novella DalWno (di Terra vergine), altro testo strettamente legato a Rosso Malpelo, ma al di fuori dei conWni assegnati alla presente indagine. In DalWno il giovanissimo D’Annunzio utilizza un gran numero di ‘fonti’ verghiane. I nomi dei due protagonisti rimandano palesemente ai nomi dei due modelli maggiormente chiamati in causa, Rosso Malpelo e Mara (di Jeli il pastore): DalWno è un nomignolo introdotto con formula solo apparentemente analoga a quella di Malpelo; Zarra è fonicamente simile, ma assai più forte di Mara, e ovviamente di Maricchia («la povera Maricchia», Wglia della Lupa). 41 coristico: «Nardino. Sua moglie lo chiamava così, Nardino. Perdio, ci voleva coraggio! Un nome come il suo: Bernardo Morasco, divenuto in bocca a sua moglie Nardino. Ma, povera donna, così lo capiva lei ... ino, ino ... ino, ino». 39. In Da lontano (1909), serie di scritti giornalistici che hanno come personaggio il dottor Paulo Post, Pirandello aveva anticipato «la WlosoWa del lontano». Paulo Post, infatti, è colui che vede «tutta la vita nostra d’oggi [...] allontanata nel tempo, pur restandovi dentro, sprofondata nel passato»; «si pone idealmente nell’avvenire per guardare il presente e lo vede come passato»; «da varii anni egli attende a comporre un libro, che farà epoca certamente. Il libro s’intitola appunto FilosoWa del lontano. Vedrà la luce, quando il suo autore non la vedrà più» (Saggi, poesie, scritti varii, cit., p. 1067). 40. Per il nome Fileno, sempre attribuito a personaggi amorosi, si possono ricordare i precedenti, al maschile e al femminile, di Boccaccio (Filocolo), Giovanni Agostino Caccia, Matteo Franco, Straparola (nelle Piacevoli notti ci sono un Filenio e una Filenia), Marino (L’Adone), Goethe (Wilhelm Meister). 41. Sui rapporti Rosso Malpelo - DalWno cfr. R. Daverio, C. Ferri, Echi verghiani in “Terra vergine”, in Il xl della morte di D’Annunzio, «Quaderni del Vittoriale», viii, 1978, pp. 41-52; P. Gibellini, Terra vergine” e il verismo dannunziano, in D’Annunzio giovane e il
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Aggiungo con estrema concisione che anche il giovanissimo Pirandello paga sul piano dell’onomastica un tributo alle novelle veriste del Verga quando in Capannetta Bozzetto siciliano del 1884 42 nomina i due giovani protagonisti Jeli e Màlia. 43
verismo, cit., ripubblicato in Logos e mythos:studi su Gabriele D’Annunzio, Firenze, Olschki, 1985; G. Dalla Palma, Per Verga e D’Annunzio: modelli narrativi e lettura delle fonti in “Rosso Malpelo” e “DalWno”, «Strumenti critici», xvi, 3, 1982, pp. 221-245; Baldi, L’inetto e il superuomo, cit. 42. In Appendice all’edizione «I Meridiani» delle Novelle per un anno, vol. iii, tomo ii. 43. Sui precedenti di Capannetta si vedano almeno G. Andersson, Arte e teoria. Studi sulla poetica del giovane Pirandello, Stockholm, Almqvist & Wiksell, 1966; F. Bruni, Sulla formazione italiana di Pirandello, in Pirandello e la lingua, Atti del xxx Convegno internazionale (Agrigento, 1-4 dicembre 1993), Milano, Mursia, 1994, pp. 23-26.
iii LA PRIMA NARRATIVA PIRANDELLIANA : AMORI SENZA AMORE, L’ESCLUSA, IL TURNO 1
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rendiamo in esame un gruppo di opere narrative pirandelliane che, pur appartenendo al breve periodo 1893-1895, mostrano una grande diversità di generi, temi, forme narrative, toni, strutture, sistemi onomastici. Le disporremo secondo un ordine che, non intaccando il principio della successione cronologica delle stesure, tenga conto dell’appartenenza al medesimo genere, onde rendere possibili più stretti raVronti. Precedono, pertanto, le tre novelle comprese nella raccolta Amori senza amore pubblicata nel 1894 (Roma, Bontempelli), e cioè L’onda, La signorina, L’amica delle mogli, 2 per la composizione delle quali però ci si può forse sposatare indietro verso il 1893, in modo da stabilire un contatto immediato con l’aYne La ricca del 1892. Seguono i due romanzi, L’esclusa, che esamineremo nella prima stesura del 1893, pubblicata, quasi sicuramente senza modiWche, nel 1901; e Il turno, composto nel 1895, che considereremo secondo la prima edizione del 1902. La raccolta Amori senza amore mette in evidenza, sin dalla soglia del titolo, il tema, di notevole rilevanza storica e culturale, comune ai tre testi. Pirandello ha enucleato in questo caso ciò che in altri suoi insiemi novellistici parziali risulterà di meno immediata percezione, ma che lettori recenti non mancano di mettere in evidenza, cioè l’aggregarsi, 1. Ci siamo avvalsi delle seguenti edizioni: Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, Milano, Mondadori, 1990 («I Meridiani»); L’esclusa, ed. apparsa in Appendice a «La Tribuna» dal 19 giugno al 16 agosto 1901, riprodotta da G. Mazzacurati in L’esclusa. Testo deWnitivo seguito dalla prima redazione (1901), Torino, Einaudi, 1995; Il turno, ed. Catania, Giannotta, 1902, riproposta nella collezione «Cento pagine», Torino, Einaudi, 1978, con Introduzione di L. Sciascia. 2. Queste novelle, assieme ad altre dello stesso periodo, non furono ripubblicate da Pirandello. Troppo severa però appare la motivazione addotta da G. Andersson, Le varianti testuali nelle successive edizioni delle novelle, in Le novelle di Pirandello, Atti del 6° Convegno Internazionale di Studi pirandelliani raccolti e ordinati da S. Milioto, Edizioni del Centro nazionale di Studi pirandelliani, Agrigento, 1980, p. 57: «forse perché egli ha considerate queste novelle di secondaria importanza e di carattere ancora sperimentale».
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intorno ad un motivo, dei racconti di alcune raccolte, anche di quelle che mutuano il titolo da un singolo testo. 3 Amori senza amore manifesta il proposito di demistiWcare il quadro di passioni sublimi, spesso tragiche, tracciato dalla letteratura ottocentesca sino alle propaggini dei romanzi di Verga preverista e di D’Annunzio. Vi sono presentate, infatti, relazioni prive sia di amore passione sia di amore aVetto. Il sintagma «senza amore» compare nel testo della Signorina, e ancor prima in quello della Ricca (1892). Ci spostiamo, come annunciato, di poco indietro rispetto alla raccolta del 1894, adottando un criterio di lettura già sperimentato dalla critica nell’esame sinottico di Amori senza amore e di singole novelle vicine nel tempo. 4 L’amore è sostituito non dalle vaghe aspirazioni favorite da un’esistenza annoiata e dalla suggestione di letture romanzesche, come per la borghese madame Bovary, o dalla dissipazione sentimentale che nasce dall’ossequio ai riti del bel mondo, come per gli eroi di Verga e D’Annunzio. Giulia Antelmi della Signorina e Pia Tolosani dell’Amica delle mogli amano leggere romanzi, ma non se ne fanno troppo inXuenzare nei comportamenti della vita quotidiana. Della seconda è detto espressamente: Pareva ad alcuni amici, e tra questi a Paolo Baldìa, che la signorina Pia Tolosani fosse un po’ aVetta da quella vaga malinconia che suol derivare dalla troppa lettura, quando si sia preso l’abito d’adattar le pagine spesso bianche della propria vita sulla falsariga di quelle stampate in qualche romanzo; ma ciò senza molto scapito della propria spontaneità, stimava Giorgio Dàula, altro amico. Del resto, quella malinconia era compatibilissima, e poteva parere più che sincera in una signorina previdente, già sui ventisei anni, la quale sappia di non aver dote, e veda i propri genitori ormai avanzati in età.
La conclusione è che Giulia considera il rapporto amoroso come una sorta di astuta caccia o intrappolamento del maschio; Pia Tolosani, al contrario, per quanto abbia doti per diventare una «mogliettina saggia 3. Cfr. per Candelora L. Lugnani, L. Carotti, G. Goggi, A. Ricciardi, A. L. Turrini, Dalla raccolta al corpus, in Le novelle di Pirandello, Atti del 6° Convegno internazionale di Studi pirandelliani raccolti e ordinati da S. Milioto, cit., in particolare a p. 258: «Ma esteso alla raccolta e divenutone il titolo, quel nome [Candelora] dice ancora qualcosa e, soprattutto, è Wlo appropriato a legare insieme le quindici novelle del libro? Complessivamente riteniamo di sì, e crediamo si possa dimostrare che quel Wlo collega fra loro e attraversa come una motivazione forte più testi di quanti a prima vista non sembri...». 4. P. es. da P. Di Nepi, Le prime novelle di Pirandello, «Il Veltro», xix, 3-4, 1975, pp. 350354 e da M. Polacco, Gli amori, le beVe e la tragedia Storia di Pirandello novelliere (18941908), Lucca, Maria Pacini Fazzi, 1999, pp. 22-31.
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e intelligente», non fa assolutamente nulla per incoraggiare i pretendenti. I riti del bel mondo, inoltre, non han luogo in queste novelle, nelle quali ai locali d’arte e d’antiquariato della Roma suntuosa si sostituiscono le borghesi botteghe delle sarte e delle modiste o i magazzini in cui la merce di buon gusto convive con quella pacchiana, frequentati dalle creature femminili dell’Amica delle mogli, che hanno l’occhio attento alla qualità ma anche al costo e alla convenienza di ciò che acquistano: - Mamma, Anna – chiamò Pia per non tradirsi, avendo compreso l’interruzione. – Col Baldìa è inutile parlare. Venite. Per la camera da letto un bizantino, è vero? stoVa alta ... qualità Wna ... Forse un po’ troppo cara, no? – Non badi al prezzo! – disse Paolo. - Risparmierebbe sulla quantità: il bizantino è molto alto. Il negozio durò a lungo: si disputò sul colore (“Io adoro il giallo!” protestava Anna Venzi), sulla qualità, sulla quantità, sul prezzo...
I protagonisti non appartengono al mondo dell’aristocrazia né a quello dell’arte: gli uomini hanno un impiego o una professione che non sempre consentono di vivere nell’agio; le donne sono Wglie di famiglia in attesa di marito, cioè «signorine», com’è detto, con un termine che caratterizzerà ancora per Gozzano l’ambito borghese, 5 nella novella dal titolo omonimo La signorina; nell’Onda (la signorina Sarni); nell’Amica delle mogli (la signorina Pia Tolosani); nel ‘No’ di Anna, e ci spostiamo questa volta in avanti al 1895 (la signorina Anna e la signorina Rita). I più seri ostacoli alla nascita o all’approfondimento dell’amore, che possono portare spesso a soluzioni di ripiego, come avviene per i pretendenti di Pia Tolosani nell’Amica delle mogli, non sono solo di tipo economico, dato che l’attenzione esclusivamente o anche prevalentemente concentrata su di essi potrebbe sospingere i racconti verso esiti di tipo veristico. Pertanto si registrano, sì, ristrettezze Wnanziarie, che si speciWcano come mancanza di dote per le donne (Giulia nella Signorina «non aveva dote», Pia Tolosani nell’Amica delle mogli «sa di non aver dote», Anna nel ‘No’ di Anna «non aveva un soldo di dote») e assenza di sicurezza economica per gli uomini: Mario Corvaja nell’Onda è alla ricerca di una cattedra universitaria, Lucio Mabelli nella Signorina pensa di non
5. Basterà ricordare, accanto alla Signorina Felicita, quanto dice Gozzano su «quel nome brutto: Signorina» nella lettera ad Amalia Guglielminetti del 5 giugno 1907 da S. Francesco d’Albaro.
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poter cedere al proprio amore di fronte alle «dolorose imposizioni della ragione e della necessità», Tullo Marzani, ancora nella Signorina, e Mondino nel ‘No’ di Anna fanno, nell’accostarsi al matrimonio o al semplice corteggiamento, considerazioni di convenienza. Ma si veriWca anche il caso che l’amore non decolli né in presenza né in assenza di denaro, ad indicare proprio la rilevanza non costante delle condizioni economiche. Nella Ricca Giulia Montana non può coronare il suo sogno d’amore perché la famiglia si oppone al matrimonio col povero Enrico Santagnese; una volta diventata povera per il fallimento della compagnia di navigazione paterna, non riesce a coronarlo perché anche l’amore, concepito come donazione totale di sé, crolla con la fortuna familiare: Non la casa soltanto crollava, crollava anche il suo sogno d’amore. Ella aveva sognato di dare, di regalare il suo corpo magniWco e la sua ricchezza al mite adoratore...
Altri ostacoli allo sviluppo dell’amore sono, per gli uomini, mancanza di coraggio nell’avvicinarsi ad un impegno che essi cercano di evitare ad ogni costo (Giulio Accurzi nell’Onda, Lucio Mabelli nella Signorina); frigidità nei confronti dell’altro sesso e maggior propensione all’amicizia verso il proprio, nelle donne, come nell’Amica delle mogli Pia Tolosani, che stabilisce legami privilegiati con le giovani spose dei suoi pretendenti sino ad inXuenzarne i gusti e le scelte e ad ottenerne la totale sottomissione (Anna Venzi) oppure a provocarne la decisa resistenza (Elena Baldìa). Ma si può avere a che fare anche con un atteggiamento di superiorità verso l’ambiente culturalmente e socialmente ristretto in cui la donna vive, con conseguente antipatia nei confronti dei maschi che lo rappresentano, come è nel caso di Rita Prinzi (Il ‘No’ di Anna), che si sente oppressa dalla grettezza del piccolo mondo di Vignetta («la cittaduzza», i «dispettucci», l’amica «grettuccia») e perciò anche del personaggio maschile che lo rappresenta anche nel nome, il dottor Mondino Morgani; il quale, nonostante la assai scarsa avvenenza, «si stimava sinceramente il giovinotto più irresistibile di Vignetta». Si noti come l’altrove positivo di Rita sia l’immensità della natura che sta oltre la cittaduzza: Oltre il porto, il mare si stende vastissimo, rischiarato dalla luna, Wno all’orizzonte chiuso a sinistra da Punta Bianca, a destra da Monte Rossello, in ampio semicerchio. Quella relegazione nella cittaduzza di Vignetta, a causa del commercio dello zolfo a cui il padre s’era dato, aveva alterato l’indole, prima gaia e aperta, di
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Rita. Era troppo forte veramente il contrasto tra l’immensità della natura, del cielo, e del mare, e la grettezza opprimente degli abitanti di Vignetta.
In soluzione estrema l’amore può essere sostituito dal desiderio di far dispetto o addirittura dall’odio. Nella Signorina, Giulia, la quale non può sposare Lucio che sfugge, e non vuole sposare Tullo perché non lo ama, si risolve a concedersi ad Antonio, da lei considerato il partito peggiore, non certo per amore, ma per un sentimento «d’odio e di sprezzo» nei confronti di Lucio. In situazioni così diYcili l’amore è senza amore perché senza passione, ma anche perché senza la corresponsione dell’altro, senza contraccambio. Il titolo della raccolta potrebbe perciò assumere una seconda valenza, rovesciando la situazione topica di perfetto contraccambio che ha precedenti illustri nella storia dantesca di Paolo e Francesca e nell’esortazione del pappagallo tassiano. 6 Così, infatti, dice Giulia nell’Onda, commentando il proprio destino amoroso: «Amata quando amo; disamata amando. È già la seconda prova». La mancata corresponsione si complica nei terzetti che non comunicano, perché nessuno dei tre personaggi ha il dono di essere contemporaneamente soggetto e oggetto d’amore. Agata (L’onda), amata da Giulio Accurzi, ama Mario Corvaja; Giulia (La signorina), amata da Tullo Marzani, ama Lucio Mabelli; Mondino (Il ‘No’ di Anna), amato da Anna, ama Rita Prinzi. Tutto quanto è stato sinora detto costituisce solo una parte della complicata rete di rapporti fra personaggi vigenti in queste novelle. Le situazioni, infatti, non sono statiche, ma in continua evoluzione, sì da presentare, nei limiti cronologici in genere assai ristretti delle fabulae, una successione di passaggi, cioè di rapporti interpersonali via via diversiWcati da uno spostamento sentimentale. Iniziamo l’indagine da un testo preso a caso fra quelli del periodo considerato, Il ‘No’ di Anna. Ci scusi il lettore se di qualche isolato passaggio egli è stato già informato: lo riproponiamo ora in organico collegamento con gli altri della serie. Ecco dunque la successione completa nel ‘No’ di Anna: 1. Anna ama Mondino – Mondino ama Rita, che lo riWuta; 2. Anna, oVesa nel suo amor proprio, raVredda l’amore per Mondino – Mondino sente ora interesse per Anna, che lo riWuta; 3. Mondino rivolge ancora una volta le sue attenzioni a Rita – Rita accetta ora la corte di Mondino sino a sposarlo. 6. Gerus. Lib., xvi, 15: «amiamo or quando / esser si puote riamato amando».
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Un movimento continuo di questo tipo è paragonabile a quello apparentemente uguale ma sempre diverso degli spostamenti acquatici. «Corrente sentimentale» è la metafora usata nella novella: Mondino, dal canto suo, comprendeva e assecondava guardingo la corrente sentimentale favorevole, in cui s’era messo. Seguitando così, l’approdo era sicuro.
Una metafora analoga dà il titolo all’Onda, che è forse il testo in cui il procedimento è sfruttato al massimo: 1. Giulio corteggia Agata – Agata ama un altro; 2. Agata, pur non amandolo, accetta la corte di Giulio sino a sposarlo – Giulio spera che l’indiVerenza di Agata possa con tempo tramutarsi in amore; 3. Giulio, subito dopo il matrimonio, si dimostra freddo e annoiato nei confronti di Agata – mente Agata si interessa aVettuosamente a lui; 4. Agata cade in una condizione di mestizia – Giulio ritorna alle sue «antiche aVettuose premure»; 5. Agata «ridivenne allegra» – Giulio «ricadde nelle smanie, poi nel tedio»; 6. Giulio torna a sentirsi superiore – Agata è in una condizione di pena e di avvilimento per il corpo sformato. È opportuno rimarcare che l’autore, in concomitanza con l’ultima situazione sentimentale della coppia, chiarisce la logica che ha regolato per tutto il racconto i rapporti fra i protagonisti: «Dopo la scena del giornale, un altro cambiamento era avvenuto in Giulio...». La serie dei mutamenti è concentrata in una striscia cronologica di limitata estensione, sì che più evidente risulta il ritmo rapido dell’alternanza. I tempi della fabula sono brevi, coincidenti con le sole vicende amorose dei personaggi, e pausati spesso da cesure nella serie dei mutamenti; come quelle segnate dalle varie stagioni nell’Onda; dalle ricadute e dai peggioramenti della malattia di Anna nel ‘No’ di Anna; dal ricorso al Xashback nella Signorina; al Xashback e alla proiezione nel futuro nell’Amica delle mogli. Così, in un breve lacerto di quest’ultima novella, si alternano ricordo del passato e proiezione nel futuro con i loro immancabili mutamenti sentimentali. Filippo Venzi, parlando a Paolo Baldìa, collega il proprio presente al passato e contemporaneamente il presente dell’amico al futuro: Ma intendimi, compatiscimi, Paolo! – riprese Filippo in un altro tono di voce, quasi piangente. E gli parlò a lungo del suo primo amore per Pia Tolosani, rimasto ignorato, poi del suo matrimonio e delle delusioni seguite, del vuoto intorno a lui, della tremenda noia agitata da mille continue smanie, le quali
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man mano s’erano deWnitivamente concretate nel nuovo disperato amore per Pia Tolosani. - Ogni giorno che passa, la moglie va giù, sempre più giù ... Ed ella invece in alto, sempre più in alto! [...] Liberati da lei, da’ ascolto a me! Liberati da lei! O da qui a un anno, anche tu te ne innamorerai, senza fallo ...
Queste storie costruite su formule ricorrenti sono vissute in località urbane poco caratterizzate e comunque ininXuenti sulle vicende sentimentali descritte (salvo il caso della soVocante Vignetta circondata da una natura aperta, nel ‘No’ di Anna); in ambienti invariabilmente medio o piccolo borghesi; da personaggi costantemente giovani sorpresi nel momento in cui è giusto pensare al matrimonio. Le donne, ancor più degli uomini, presentano somiglianza o addirittura identità di dati anagraWci: Agata (L’onda) ha varcato da più anni il limitare della prima giovinezza; Giulia (La signorina) ha 25 anni; Pia Tolosani (L’amica delle mogli) 26; Giulia Montana (La ricca) anch’essa 26; Rita Prinzi (Il ‘No’ di Anna) 22. Le nominazioni sono borghesemente impostate non soltanto sull’accoppiata di nome e cognome, puramente denotativi, 7 e su nomi di battesimo di livello medio, non aristocraticamente eccezionali né banalmente volgari (cfr. infra quanto si dirà su Antonio), ma talvolta sul reiterato impiego degli stessi nomi di battesimo (Giulio Accurzi, L’onda; Giulia Antelmi, La signorina; Giulia Montana, La ricca; Anna Venzi, L’amica delle mogli; Anna Cesarò, Il ‘No’ di Anna). Il romanzo L’esclusa muta radicalmente gli elementi dell’impianto narrativo e descrittivo. L’aVermazione Wn troppo ovvia può forse essere proposta con qualche proWtto se ci si ricollega alle ultime osservazioni, quelle onomastiche, fatte sulle novelle. Anna è nel romanzo un nome fortemente connotativo e caratterizzante, perché appartiene ad una delle tre Wgure femminili, sentimentalmente solidali, possiamo dire di remota ispirazione evangelica, che costituiscono il côté familiare gentile della storia. Se teniamo in disparte, infatti, il personaggio della madre Agata, che funge da raccordo fra il terzetto su indicato e Francesco Ajala dalla mentalità tradizionalista, 8 Marta, Maria e Anna (Veronica) sono accomunate da elementi di tipo onomastico e comportamentale. Sull’origine evangelica e sul signiWcato simbolico delle due sorelle, Marta 7. Di nomi «in genere insigniWcanti e convenzionali» (ma nessun nome è insigniWcante!) parla M. Polacco, op. cit., p. 123. 8. Agata, alla Wne della Parte prima, si divide fra la stanza del moribondo Francesco e quella di Marta partoriente.
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e Maria, è stato detto ciò che era da dire. 9 Possiamo forse aggiungere che Marta e Maria, pur diverse, sono unite nel Vangelo di Luca dal culto della casa. 10 Anna Veronica, a meno che non sfugga qualche voce della bibliograWa pirandelliana, si è sottratta all’indagine. Eppure la nominazione rimanda, per il primo e il secondo degli elementi che la compongono, ad ambito cristologico: Veronica è la vera immagine del volto di Cristo oppure l’emorroissa secondo gli Acta Pilati; 11 Anna è la madre della Vergine, presente non nei Vangeli sinottici ma nel Protovangelo di Giacomo, entrata sin dai primissimi secoli nel culto dei Cristiani ed introdotta nel calendario delle feste di precetto da Gregorio XIII nel 1584. A S. Anna sono aYdate l’assistenza ai parti e la protezione del ricamo e del cucito. Per questo Anna è nel romanzo l’anziana e materna amica che prepara trine e ricami per la creatura che sta per nascere a Marta; che è presente durante il parto; che aiuta le tre donne Ajala, cacciate di casa e ridotte in miseria, a sopravvivere col lavoro di cucito e ricamo del corredo appartenente alla baronessina Troisi. Marta, Maria, Anna Veronica professano, chi con maggiore chi con minore ingenuità e abbandono, un culto mariano e cristologico di cui si individuano come testimonianze essenziali la venerazione per l’Ecce Homo d’avorio posto al capezzale nella stanza che Marta e Maria si scambiano; l’adorazione di Gesù attribuita ad Anna; la visita della Madonnina a casa di Marta convalescente procurata da Anna; l’andata di Marta in chiesa, in compagnia di Anna, della madre e della sorella, a ringraziare la Madonna; la confessione di Marta davanti a Gesù Cristo, non coronata però dall’assoluzione del sacerdote per difetto di contrizione. Il terzetto femminile si contrappone a quello maschile, rozzo e culturalmente arretrato, dei Pentagora, costituito da Antonio, Rocco e Nicola, 12 testimoni di una religiosità folclorica degradata che ha manifestazioni clamorose nel padre con la regia della feroce scena di censura a Marta durante la processione dei Santi Patroni del paese Cosimo e
9. Cfr. soprattutto N. Borsellino, StratigraWa dell’«Esclusa» (1975), in Ritratto e immagini di Pirandello, Bari, Laterza, 1991, p. 146; L. Sedita, La maschera del nome. Tre saggi di onomastica pirandelliana, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1988, pp. 47-48; G. Mazzacurati, nota a p. 36 della sua citata edizione dell’Esclusa. 10. M. Bocian, I personaggi biblici Dizionario di storia, letteratura, arte, musica, Milano, Mondadori, 1997, s.v. Marta (ed. orig. Lexicon der biblischen Personen, Stuttgart, Alfred Kröner Verlag, 1989). 11. Si rimanda ovviamente alla discussione in treno sulla Veronica, che induce Mattia Pascal a cambiar nome (Il fu Mattia Pascal, cap. viii). 12. N. Borsellino, op. cit., p. 146, parla di un rapporto speculare fra Antonio Pentagora con i due Wgli e Francesco Ajala con le due Wglie.
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Damiano; e nella sorella di lui Sidora (Isidora) con i suoi «lunghi discorsi col fuoco», «sotto la cappa del camino», che nell’edizione Treves 1908 si determineranno come « commercio misterioso con le Donne», Wgure della superstiziosità popolare. Per questo Sidora diventerà una sorta di «maga contadina». 13 È possibile mettere in rilievo il fatto che l’onomastica dei Pentagora (Rocco, Nicola, Sidora) 14 e dei santi protettori è perfettamente in linea col livello culturale e religioso in cui essi si collocano. Parrebbe sottrarsi ad una caratterizzazione negativa il nome del padre, Antonio, a proposito del quale però azzardiamo ricordare quanto dice Giulia, protagonista di una novella dei Tristi amori (La signorina), parlando di un suo antico corteggiatore: «Si chiama Antonio ... Brutto nome, eh?». Il giudizio di Giulia, la quale deve sminuire al cospetto di Lucio che ora l’accompagna l’importanza della storia passata, presenta statuto metaonomastico ed è formulato quasi sicuramente sulla base dell’eccessiva diVusione e perciò banalizzazione di Antonio, che, secondo Emidio De Felice, «è il terzo nome maschile (dopo Giuseppe e Giovanni) di più alta frequenza e di più ampia diVusione in Italia». 15 Giulia e Lucio, infatti, in quanto medio borghesi, ostentano superiorità nei confronti di ciò che è al di sotto, perché eccessivamente comune, del loro standard. La distanza fra i due livelli, per un ovvio processo di polarizzazione dei contrari, si accentua: per questa ragione il polo occupato da Giulia e Lucio si colora, almeno in questa parte della novella, di qualche venatura dannunziana. 16
13. La formula è di G. Mazzacurati, nota a p. 5 della sua citata edizione dell’Esclusa. 14. Rocco e Nicola sono nomi di diVusione prevalentemente sicula o meridionale; Isidora (Sidora) è il nome di una santa martire a Lentini nell’anno 236. Quest’ultimo nome (anche al maschile, Sidoro) è attribuito a personaggi di novelle che raccontano storie di superstizione e vendetta contadina: Chi la paga, Male di luna, Prima notte. 15. E. De Felice, Dizionario dei nomi italiani, Milano, Mondadori, 1992, sub voce. Aggiungiamo a riprova di quanto detto che mancano in queste novelle i nomi Giuseppe e Giovanni. 16. La presentazione del luogo («tornando dalle Tre Fontane a San Paolo») e del tempo («mentre il giorno moriva in un pallore ardente») della gita di Giulia e Lucio assembla elementi del Piacere di D’Annunzio. Ma il cronotopo è in Pirandello ridotto all’essenziale, come avviene in lui di norma: cfr. sul tema A. R. Pupino, Lo sguardo sulla natura. Un’idea di paesaggio in Pirandello (2002), in Ragguagli di modernità. Fogazzaro Pirandello «La Ronda» Contini Morante, Roma, Salerno Editrice, 2003, pp. 66-101. Sulla presenza di Roma nella narrativa di Pirandello esiste una consistente bibliograWa, che ovviamente ha al centro dei suoi interessi romanzi come Il fu Mattia Pascal, I vecchi e i giovani, Suo marito: cfr. G. Marchi, La Roma di Pirandello. Una, nessuna e centomila, «Studi romani», xxv, 1, 1977, pp. 45-65; N. Borsellino, La morte di Roma (1989), in Ritratti e
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Ci sentiamo autorizzati ad aggiungere che la contrapposizione onomastica fra i due terzetti si gioca anche sul piano dei cognomi, che sono, come i nomi, indicativi non di signiWcato ma di livello. Se Ajala, infatti, è di origine ispanica, Pentagora, non registrato nel Dizionario del Caracausi e inesistente negli elenchi telefonici e nei siti d’informazioni onomastiche della Sicilia, dovrebbe essere assimilato a Pintagura, che per lo stesso Caracausi è «forma corrotta di Pintacuda» ( coda dipinta), cioè formazione dialettale. 17 Lo schema contrappositivo innerva la struttura dell’Esclusa, ne potenzia la carica drammatica. Ad uno dei due estremi si colloca sempre Marta, che da sola regge il peso della complessa dinamica narrativa, in una serie di opposizioni binarie che non hanno possibilità di paciWcazione o accomodamento, destinate pertanto a diventare sempre più aspre sino alla deXagrazione Wnale, quando anche la contrapposizione, che è pur sempre una forma di coesistenza, si rivela non più possibile. Abbiamo pertanto, accanto allo scontro Marta – famiglia Pentagora, culminato con la cacciata della sposa ritenuta adultera e la censura della processione (il dialogo con Rocco si potrà riaprire solo con l’uscita di scena del più duro antagonista, Antonio), queste altre contrapposizioni: - di Marta al padre Francesco, con la conclusione della morte di lui in contemporanea con la morte del Wglio di Marta; - di Marta al bruttissimo spasimante professor Falcone, che impazzisce perché disprezzato e riWutato dalla donna; - di Marta all’Alvignani, prima semplice corteggiatore e poi amante, col disinganno di lei delusa dall’uomo e la rottura conclusiva. Marta, dunque, funge costantemente da polo oppositivo all’universo maschile del romanzo: la sua statura morale non le consente il raVronto con singole creature femminili. Nessuna donna può stare al suo li-
immagini di Pirandello, cit., pp. 185-196; Idem, Da acquasantiera a posacenere. Roma tra passato e presente, in Luoghi e paesaggi nella narrativa di Luigi Pirandello, Atti del Convegno di Roma, 19-21 dicembre 2001, a cura di G. Resta, Roma, Salerno Editrice, 2002; E. Ghidetti, I luoghi di Mattia Pascal, ivi; I. Crotti, In viaggio con Mattia Pascal: da Miragno a Roma, andata e ritorno, «La Rassegna della letteratura Italiana», 2002, 1, pp. 76-95; A. R. Pupino, Lo sguardo sulla natura. Un’idea di paesaggio in Pirandello (2002), in Ragguagli di modernità. Fogazzaro Pirandello «La Ronda» Contini Morante, cit., pp. 95-98. Sulla presenza di Roma nelle novelle in particolare si veda N. Longo, Roma nelle novelle pirandelliane, nel volume di autori vari Immagini riXesse. Studi sul moderno in letteratura, a cura di M. Olivieri, Roma, Bulzoni, 2000. 17. G. Caracausi, Dizionario onomastico della Sicilia, voll. 2, Palermo, Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani, 1993, s.v. Pintagura.
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vello. Quando ella si presenta agli esami di patente per l’insegnamento, incontra l’ostilità di quasi tutte le vecchie compagne che la evitano o la accolgono con imbarazzo; quando supera brillantemente il concorso, il posto non le è assegato per l’opposizione calunniatrice del paese che le preferisce la mediocre Breganze, nipote del consigliere comunale; quando è chiamata dal direttore a sostituire nell’insegnamento una collega, deve sostenere la guerra non solo delle altre maestre e delle scolare, ma anche del tronWo e furibondo «consigliere uYciale Ippolito Onorio Breganze» (si noti la valenza del doppio nome!), difensore della «moralità» e onorabilità dell’istituzione scolastica, il quale con le braccine e la gambette corte e la pancetta globulenta minaccia, da vero palloncino gonWato, di rivolgersi, per ottenere soddisfazione, «più in alto, più in alto (e si sforzava invano di sollevare il braccino) – sissignore, più in alto! A nome della moralità non solo dell’istituto, ma dell’intero paese». Gli incontri – scontri di Marta con gli altri si caratterizzano spesso per la presenza di forti coloriture e accentuazioni descrittive, metaforiche, onomastiche. L’avversione dei Pentagora parte da un supposto vulnus, quello delle corna, di cervo o di toro a seconda che siano sotto la protezione dell’uno o dell’altro dei santi chiamati in causa da Antonio, San Silvestro e San Martino, nelle sue ossessive meditazioni sulle disgrazie dei maschi della famiglia. 18 Che debbano essere più di cervo (cioè ramiWcate) che di toro si ricava da una battuta velenosa rivolta da Antonio al Wglio Niccolino che ha osato protestare per la persecuzione a cui il padre sottopone Marta: - E bravo Niccolino! – esclamò tranquillamente il padre. – Sentimenti nobili, generosi. Tientili bene radicati: vedrai col tempo come ramiWcheranno... (ii 6) 19
Anche Niccolino, che corteggia una ragazza, sarebbe destinato a fregiarsi dello stemma del casato. Le corna, di qualsiasi specie siano, na-
18. «- A lui, oibò! A lui ... ah, Wglio mio! – esclamò sogghignando don Antonio. – Ma San Sivestro ... Ma San Martino...» (i 1). Che qui si alluda a Silvestro santo delle selve e dei cervi e a Martino santo dei tori è detto anche da Mazzacurati in nota a p. 13 della cit. edizione dell’Esclusa. 19. Ricordiamo anche le corna di cui parla don Diego Alcozer nel Turno: «Son Wlosofo, don Pepè! Cinque mogli, capite! E Wguratevi perciò che selva su la mia testa. Certe sere, mentre voi ve ne state a pensare e a sospirare, di là, sul balconcino, ci ripenso, e me le sento crescere, crescere, su, su Wno al cielo ... fronzute, ramose...» (xxvi).
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scono in capo. E il capo è per i maschi Pentagora la parte del corpo continuamente chiamata in causa e posta in primo piano. Antonio, «levando su dal petto il testone sanguigno», si lamenta d’aver in fronte la sua croce; Rocco, nel tentativo di catturare la lettera che dovrebbe attestare il tradimento di Marta, si procura una ferita alla fronte; uno dei santi portati in segno di biasimo sotto la casa di Marta picchia più volte il testone di ferro alla ringhiera del balcone. 20 La passione senza speranza del deforme professor Falcone (che ha già un cognome chiaramente connotativo) prende i colori dell’infatuazione della bestia per la bella: i colleghi lo chiamano l’istrice; l’autore lo presenta e descrive con termini ed espressioni come grugniti, modi più d’orso che d’uomo, occhi da belva. Egli ha la tragica coscienza dell’inconciliabilità fra la propria mostruosa bruttezza e la bellezza di Marta, quando invoca pietà: Non si disperi ... Io sono il disperato! Mi perdoni. Abbia pietà di me ... Merito compassione, non disprezzo ... Non sono io il mostro, il mondo è un mostro, che ha fatto lei tanto bella e me così... (iii 14)
Un motivo su cui i lettori non si sono soVermati con l’attenzione dovuta è quello della bellezza seducente di Marta, causa dell’infatuazione per lei dannosa degli uomini: alla quale verrebbe voglia di applicare, eliminando ovviamente il risvolto ironico, la considerazione boccacciana su Alatiel: «quanto sventuratamente fosse bella». Marta oscilla in due scene allo specchio fra compiacimento per la propria bellezza (questa scena è fra le più sottilmente erotiche della letteratura di Wne Ottocento): Era senza corpetto, innanzi allo specchio, in piedi: trasse dal capo le forcinelle di tartaruga e il nero volume dei capelli le cascò fragrante sulle spalle, sulle braccia nude. Rovesciò indietro il capo e scosse così più volte la bella chioma pesante per distrigarla; poi sedette, e l’omero tondo, candidissimo, levigato, emerse tra i capelli che s’eran partiti tra il seno e le terga. Sull’omero il neo di viola venuto su, con gli anni, lentamente come una stella, dalla scapola, ove prima Maria lo aveva scoperto, quando ancora entrambe dormivano insieme. - Pettinami, Maria. (i 4)
e fastidio: 20. Sarà soltanto un caso che anche il padre di Marta, Francesco, si faccia come Rocco una ferita alla fronte (i 8)? Anch’egli, infatti, si sente travolto dall’ignominia delle corna.
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Non voleva più curarsi di sé. La madre si era rimessa a pettinarla ogni mattina; ma lei non voleva che perdesse tanto tempo ad acconciarla. - Basta, mamma ... Lascia ... Così va bene... E allontanava lo specchietto a bilico che teneva sul tavolino, quasi infastidita della propria immagine, dello splendore intenso degli occhi, delle labbra accese. Se poi la madre la costringeva a stare ancor seduta, sotto il pettine, ella sbuVava dall’impazienza, diventava irrequieta, smaniosa, come se sottostesse a una tortura. Perché, a che pro, adesso, tanto studio e tanto amore per la sua acconciatura? Non intendeva la madre che a lei, adesso, non doveva importar proprio nulla di comparir più o meno bella? (iii 2)
Il rapporto Marta-Alvignani, inWne, potremmo iscriverlo sotto la rubrica «la mosca e il ragno». L’accoppiata metaforica, assente nel romanzo, appare in una delle novelle prime esaminate, Il ‘No’ di Anna: «– Mi fa il ragno sotto gli occhi – pensava, vedendolo. – Non son mosca per te, caro mio». Gregorio Alvignani, «sincero in parte», soWstico nelle argomentazioni, preoccupato di «stordire», cioè di mettere in pace gli scrupoli della coscienza e di giustiWcare il proprio operato sino a credere lui stesso ai propri soWsmi, abilissimo nel perorare la chiusura «in un sogno continuo, sopra le volgarità e le comuni miserie dell’esistenza quotidiana» che sono «ostacolo e pastoia a ogni ascensione verso un’idealità», è specimen dell’uomo politico di Wne Ottocento e di ogni epoca. Tra la vita vera e le parole che la nobilitano egli pone la stessa distanza che intercorre fra la propria realtà morale e il motto latino che ne costituisce il pendant pubblicitario. Nihil mihi conscio, frase d’origine oraziana, non signiWca «La coscienza non mi basta» 21 e forse nemmeno «Non ho nulla da rimproverarmi di cui io sia cosciente»; 22 ma seccamente e brutalmente, eliminando ogni possibile giustiWcazione per mancata consapevolezza, «Non ho nulla da rimproverarmi, non ho nessun peso sulla coscienza». Questo è il biglietto di presentazione di chi, dopo aver compromesso deWnitivamente Marta, fa al Blandino un discorso carico di simulazione con lo scopo sostanziale di alleggerire le proprie colpe e di mostrare premura a buon mercato per la «povera signora», meritandosi la giusta accusa di impostore dalla donna che ha assistito nascosta alla scena. Nei confronti di Marta la sua rete è intessuta di parole orali e scritte, di colloqui e di lettere, con cui riesce ad «avviluppare» lentamente e progressivamente la donna «senza che questa lo voglia e lo sappia». Le
21. Interpretazione di N. Borsellino, StratigraWa dell’«Esclusa», cit., p. 153. 22. Interpretazione di G. Mazzacurati, in nota alle pp. 26-27 della citata edizione dell’Esclusa.
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espressioni poc’anzi virgolettate, riferentisi all’inizio della storia con l’Alvignani, appaiono nell’edizione 1908; 23 ma quante altre equivalenti sono presenti in tutta la vicenda sin dalla redazione 1893! Ne traggo alcune da iii 10, cioè dal capitolo che presenta la caduta deWnitiva di Marta nella rete dell’Alvignani: Non sapeva come spiegarsi la facilità con cui ella pareva si lasciasse condurre da lui Ella lo seguiva, come trascinata veramente come cieca Aveva perduto aVatto la coscienza di sé, d’ogni cosa; e andava innanzi senza volontà né speranza di poter più sciogliersi da quell’uomo che la avviluppava con la parola commossa - Di qua, vieni ... – insisté lui, attirandola dolcemente - Un momento, un momento solo ... – supplicò egli, attirandola vieppiù Marta si lasciò nuovamente attirare [...] E, come in un incubo, sentì l’impotenza di sottrarsi al pericolo imminente Quand’egli l’abbracciò, ella ebbe un fremito per tutte le membra, un singulto, come uno schianto, di chi cede, senza concedere. 24
E più avanti, in iii 12, con una variazione (da noi messa in corsivo) sulla formula «cede, senza concedere»: Marta ascoltava in silenzio, pendeva dalle labbra di lui, si lasciava avvolgere da quel linguaggio caldo e colorito, persuasa a credere, non convinta.
La preda non ha possibilità di scampo: Alvignani, per quanto «anche lui [...] preso e vinto dall’irresistibile fascino amoroso», le ha tagliato con astuzia ogni via di fuga, conducendola sempre più in alto e sempre più all’interno della propria abitazione. 25 23. Milano, Treves. 24. In maniera analoga è detto della donna violentata nella novella Scialle nero: «s’era abbandonata, sì, cedendo pur senza voler concedere». 25. «- Non eri mai arrivata Wn quassù? [...] - Perché no? Vedrai la chiostra dei monti ... Monreale lassù ... poi le montagne sottostanti, tutte Worite ... e da questa parte il mare, Monte Pellegrino ... e la città intera sotto gli occhi tuoi ... Ecco, la porta è qui ... Vieni [...] - Almeno qui, guarda ... sull’entrata ... Non saliremo. Ho la corte piena di colombi: tanti, tanti ... Vieni a vederli [...] - Ora guarda: due scalini ... Andremo su al terrazzo [...] - Come! Ora che sei entrata? Son due scalini ... Ridiscenderemo subito ... È uno spettacolo incantevole ... Via, Marta: ora sei qui ... Marta si lasciò nuovamente attirare, ma, appena pose piede nell’interno della casa, si sentì sciolta dall’incanto che l’aveva Wn lì trascinata [...] – Il terrazzo? dov’è il terrazzo? – balbettò [...] Gregorio la condusse, tenendola per mano, attraverso le stanze; poi salirono un’angusta scaletta di legno. Marta lassù sentì aprirsi il cuore» (iii 10).
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Allo schema strutturale contrappositivo sin qui messo in evidenza, piuttosto statico perché colloca gli opposti in sincronia, se ne aYanca nell’Esclusa uno che potremmo deWnire sequenziale, che dispone gli avvenimenti secondo un ritmo alterno di sistole e diastole, negatività e parziale ristabilimento, di tipo eminentemente dinamico, per cui la vicenda progressivamente e per gradi è condotta alla catastrofe, secondo principi ancora naturalistici, come avveniva nei Malavoglia del Verga e come avverrà nel Podere di Tozzi. Diciamo catastrofe anche perché non condividiamo il giudizio di coloro che vedono nella vicenda il progressivo passaggio all’autonomia psicologica di Marta 26 e quasi una sua vittoria, oppure, dando troppo credito ad un giudizio dell’autore di parecchi anni posteriore, concentrano l’interesse sul senso “umoristico” della narrazione che esclude dalla società una moglie onesta e ve la riammette quando è colpevole. 27 Ci pare più vicino al vero chi ha parlato di «coscienza della sua [di Marta] passività». 28 La prima redazione la mette in luce con maggior chiarezza. La protagonista confessa al marito Rocco, che la rivuole con sé vinto dalla passione, di «portare seco la prova della sua colpa», e sopporta il senso, che quello prova, di ribrezzo. Rimane nella redazione deWnitiva il ribrezzo di Rocco, ma non più suYcientemente motivato: la donna, infatti, tiene solo per sé il segreto della maternità adulterina. In tal modo però ottiene un risarcimento allo scacco e alla vergogna, 29 ma anche un secondo risarcimento per26. Cfr. L. Martinelli, La Wgura femminile in Pirandello. Una rilettura dei «Quaderni di SeraWno Gubbio operatore», in Uno nessuno rimozione e Wssazione in Pirandello, a cura di L. Martinelli, L’Aquila-Roma, Japadre Editore 1992, pp. 46-47. 27. È questo il senso attribuito al romanzo da Pirandello, nella lettera dedicatoria del 1907 a Luigi Capuana premessa all’edizione Treves del 1908. Ci pare che insista più di altri sul «fondo umoristico» (la formula è tratta dalla citata lettera pirandelliana) dell’Esclusa R. S. Dombroski, Le totalità dell’artiWcio Ideologia e forma nel romanzo di Pirandello, Padova, Liviana, 1978 (cap. Il fondo umoristico dell’«Esclusa» del 1977). Ma se l’umorismo è sostanzialmente non il grottesco o il rovesciamento del reale, ma l’opposizione fra sentimento e riXessione o il sentimento del contrario, allora nel 1893 esso era ancora in gestazione. Ricostruisce in maniera assai precisa la genesi terminologica e concettuale dell’umorismo pirandelliano P. Casella, L’ «umorismo» di Pirandello Ragioni intra- e intertestuali, Firenze, Edizioni Cadmo, 2002, per cui l’interesse teorico dello scrittore per l’umorismo compare la prima volta nel saggio su Cecco Angiolieri del 1896 (Un preteso poeta umoristico del secolo xiii), per non ricomparire che nel 1905 (cfr. soprattutto p. 60). 28. D. Budor, Les romans de Pirandello, «Situation», 14, Pirandello 1867-1967, études de Budor, Del Beccaro, Genot, Perrus, Plaisance, Renucci réunies et présentées par G. Genot, Paris, Minard, 1968, p. 22. 29. Cfr. nota di G. Mazzacurati a p. 230 della sua citata edizione dell’Esclusa.
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ché costringe Rocco a chiedere perdono per quanto lui e gli altri le hanno fatto e l’hanno costretta a fare. Di questo ritmo alterno individueremo soltanto le fasi negative, con la triplice avvertenza: 1 che esse, dopo lo spostamento di Marta a Palermo, cambiano motivazione perché nascono dalla passione dei persecutori; 2 che il ritmo con cui si succedono queste fasi negative si fa più incalzante nella Parte ii (centrale nella prima redazione); 3 che i momenti di rilassamento della tensione possono conWgurarsi come parziale risarcimento o come semplice interruzione della serie in attesa di un nuovo cominciamento. Abbiamo pertanto: - cacciata dalla casa maritale per accusa di tradimento - morte del padre oppresso dal disonore e contemporanea perdita del Wglio - malattia gravissima - riWuto del confessore di concedere l’assoluzione - fallimento della conceria paterna - censura dei paesani durante la processione dei Santi Protettori - sequestro dei mobili di casa - cattiva accoglienza delle vecchie compagne al concorso - sottrazione del posto meritatamente vinto - cacciata dalla supplenza per l’opposizione delle altre maestre, delle scolare e del consigliere Breganze - persecuzioni di Rocco Pentagora a Palermo - corteggiamento ossessivo del Falcone - caduta deWnitiva nella rete dell’Alvignani. 30 Per Il turno non sono state avanzate consistenti proposte di inserimento nella categoria dell’‘umorismo’ o del ‘pre-umorismo’ pirandelliano. Si è parlato giustamente di imprevedibilità e inconsequenzialità che rovesciano nel contrario la trama della vita invece che portarla alle estreme consequenze secondo regole precise e prevedibili, come avveniva per il naturalismo. 31 Il gusto del capovolgimento paradossale è spinto 30. M. Guglielminetti, Struttura e sintassi del romanzo italiano del primo Novecento, Milano, Silva, 1964, p. 66, accentua il signiWcato della bipartizione dell’Esclusa, «che si spacca e divide a metà [...], contrariamente all’abitudine dei naturalisti di proseguire nell’esposizione dei fatti Wn quando non fosse esaurito il loro sviluppo cronologico. Soltanto la prima parte dell’Esclusa si svolge secondo questo ritmo rettilineo e progressivo, perché la seconda mira a rovesciare l’andamento della prima utilizzandone molti elementi del plot». In realtà, la parte palermitana della vicenda non rovescia ciò che precede soprattutto se si tien conto della prima redazione del romanzo. 31. Aggiungo nel rivedere queste pagine che la lontananza del Turno dal verismo è
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all’estremo e interessa le vicende di tutti i personaggi principali, in ognuna delle quali, per di più, si altera o si rovescia il signiWcato di elementi antroponimici, numerici, lessicali. Il vecchio e ricco don Diego, ex spadaccino, ex conquistatore di donne, ex coniugato, ormai in disarmo su tutti i fronti, a cui è data in moglie la giovanissima Stellina, perché tanto lui morirà entro breve tempo e perciò cederà la ragazza, divenuta erede, al giovane ma povero Pepè, non muore nonostante una grave polmonite; anzi giunge a celebrare, dopo la separazione da Stellina, il sesto matrimonio, equiparando nel numero delle mogli il numero dei giovanotti (sei) con cui Stellina scherza e civetta durante la gita ai Tempii. Stellina ha nel nome il senso del proprio destino di splendore e decadenza. Bella, capricciosa, viziata, apparentemente destinata al trionfo sugli uomini, Wnirà, dopo la separazione da don Diego, per essere vittima timorosa e impotente del violento e geloso Ciro Coppa, sino ad abortire «dopo cinque mesi di cruccio senza parola». Da «cagnetta ringhiosa» passa a «povera vittima». La sua luce non più folgorante apparirà alla Wne a Pepè con la stessa indeWnitezza di un «lume lontano»: Si scorgeva di lì, lontana, la cascina del Coppa; e Pepè, col capo appoggiato alla ringhiera di ferro, appuntava gli occhi al lume che si vedeva acceso laggiù in mezzo al bujo della vasta vallosa campagna. Lì era Stellina [...] E si struggeva dentro, ringojando le lagrime silenziose che gli appannavano gli occhi Wssi là, a quel lume lontano. (xxv)
Fallisce miseramente anche il potere salviWco della sua seconda nominazione. Acclamata per gioco dai sei giovani, sulle rovine del tempio della Concordia, «Dea Concordia», svela a poco a poco una natura di provocatrice di liti e risse fra rivali: la rissa fra Pepè e il Borrani seguita da un duello, la prima e la seconda lite fra Pepè e Mauro Salvo, quella fra Pepè e Ciro Coppa. Collochiamo in terza posizione il granitico Ciro Coppa dal Wsico poderoso e dal temperamento prevaricatore, abituato non solo a vincere ma a stravincere nel lavoro professionale, nei rapporti sociali, nelle relazioni familiari. Ha il culto della robustezza Wsica e del ricorso alla lotta – reale o metaforica – per ottenere ragione. Alla lotta addestra i Wgli; vi ricorre lui stesso non solo contro i suoi simili, ma anche contro la morte: stata ultimamente dimostrata anche attraverso metodi computazionali: cfr. F. Ciotti, Tempi verbali e struttura narrativa del «Turno» di Pirandello: un esperimento di analisi ‘assistita dal computer’, «Linguistica e Letteratura», xxviii, 1-2, 2003, pp. 171-190.
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Egli credeva veramente di lottare così contro la morte, e non gli pareva possibile che questa gli portasse via la moglie, mentr’egli teneva lì ferma, vigile, agguerrita in difesa di lei la propria volontà; (x)
e contro se stesso: Arriva un giorno, in cui l’uomo forte sente il dovere d’impegnarsi in una lotta superiore, non più contro gli altri, ma contro sé stesso: vincere, dominar la propria natura, l’essenza bestiale, e acquistar sovr’essa una padronanza a bacchetta. (xxviii)
Ebbene, quest’uomo che il debole Pepè chiama a sua difesa muore poco dopo aver sposato in seconde nozze Stellina. Il senso del rapporto fra Ciro Coppa e don Diego è chiarito da Marcantonio Ravì, padre di Stellina: - Questo, che pareva un leone, eccolo qua: morto! E quel vecchiaccio, sano e pieno di vita! (xxx)
Non solo: Ciro scompare dalla scena per un colpo apoplettico, lui che vi era entrato dando ed insegnando colpi di frustino e di sciabola. Ancor più clamoroso è il caso di Pepè Alletto, il giovane destinato ad impalmare Stellina dopo l’auspicata morte di don Diego. Il suo iter non conduce al porto sperato. È soppiantato dal cognato Ciro Coppa chiamato in aiuto nel corteggiamento di Stellina. Al letto della donna ascende, dunque, Ciro, che rende irrealizzabile, anche dopo la sua morte, l’ascensione di Pepè. Il quale si ritrova perciò, con Stellina e il padre di lei (organizzatore del fallito accordo di turnazione), «attorno al letto» del morto a fargli la veglia. Aggiunge il narratore: «come in un’altra veglia, attorno a un altro letto», ricollegandosi alla situazione analoga del capitolo xiii, in cui i tre vegliano accanto al letto di don Diego in preda al delirio della polmonite. Dal letto d’amore, si potrebbe dunque dire, al letto intorno al quale vegliare i morti o gli ammalati. O al letto, in casa di Ciro Coppa, in cui potersi curare le ferite ricevute in duello: [Ciro Coppa] aveva fatto preparare un letto per accogliere il ferito; (ix)
o al letto collocato accanto a quello della madre, in cui egli dorme solitamente: Entrarono nella camera da letto, e Ciro, alla vista dei due lettini gemelli, sog-
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ghignò, tentennando il capo. – Eh, lo so ... – sospirò Pepè. – Ma se la mamma...; (xix)
o al letto, «lo stesso letto, ove Stellina aveva dormito», in cui Pepè tiene compagnia a don Diego, quando tutti e due sono stati abbandonati dalla donna convolata a nuove nozze con Ciro. Nelle non molte pagine dedicate alla vicenda di Pepè il termine letto (con una occorrenza per ognuno dei derivati lettuccio, lettino, lettiera) compare 22 volte; nel solo capitolo xxv, di appena 5 pagine, ben 7 volte. In questo capitolo, come abbiamo prima visto, Pepè dorme con don Diego per tenergli compagnia, occupando il posto che era appartenuto a Stellina. Previsioni e speranze dell’inizio si sono rovesciate in modo beVardo: Pepè non è subentrato a don Diego ma a Stellina. Ma la storia riserva al lettore stupefatto un tassello addirittura grottesco: don Diego, sia pure con l’intento di tener desto il compagno di letto, lo pizzica ripetutamente provocando le sue risentite proteste. Acquista ora ben altro senso il termine scarso («Voi siete nobile, ma siete scarso»), usato da Marcantonio Ravì per vincere le ultime resistenze di Pepè ad accettare il matrimonio della ragazza col vecchio: chi è scarso è schiavo: schiavitù e felicità possono andare d’accordo? No. Ergo prima base: i denari. La libertà sta di casa con la ricchezza; e quando Stellina sarà ricca, non sarà pur libera di fare ciò che le parrà e piacerà? (iii)
Pepè è scarso di fortuna economica; alla Wne risulterà scarso anche di fortuna erotica. È frequente nella lingua letteraria comica questo tipo di slittamento del termine, analogo allo slittamento di triste o tristo dall’ambito psicologico a quello erotico. Il cognome di Pepè, Alletto (al letto), è la palese trasposizione (all’occhio, se la e la pronunciamo chiusa) del suo destino di fallito, del suo scacco amoroso. Qualche considerazione richiede a questo punto il Wnale della storia, contenuto nel brevissimo capitolo xxx. Stellina e Pepè, come sappiamo, vegliano assieme a Marcantonio Ravì il morto Ciro Coppa. Quattro torce funebri poste agli angoli del letto rischiarano la camera. Il Ravì commenta l’evento, ovvero, per dirla col Manzoni, trova il sugo della storia, notando che chi pareva un leone è morto, mentre il vecchiaccio continua ad esser sano e pieno di vita e addirittura si sposa per la sesta volta. Aggiunge interrompendosi subito: «Don Pepè, dopo tutto...». La sospensione aYdata ai puntini è sottolineata nel racconto: «Non Wnì la frase». Tanto che il lettore è non solo tentato ma quasi
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costretto a integrare mentalmente: «...dopo tutto quel che è successo puoi trovare la fortuna: ora viene il tuo turno» (o qualcosa di simile). L’interruzione del Ravì pare determinata dalla preoccupazione di evitare non tanto una considerazione sconveniente all’atmosfera della veglia, col morto – possiamo dire – ancora caldo, quanto un giudizio sbagliato. Egli ha capito che è impossibile riprendere in mano il Wlo della vicenda: per Stellina e Pepè quel Wlo è non momentaneamente interrotto ma deWnitivamente spezzato: mancherà, infatti, quella conclusione che era stata prevista per personaggi concepiti e impostati sul piano della commedia. Stellina non può più ricoprire il ruolo brillante di fanciulla capricciosa e desiderata: ha perso il suo smalto prima come moglie succube e poi come vedova piangente di Ciro Coppa. D’altra parte, Pepè non sta più nei panni del giovane corteggiatore di belle speranze: gli sono rimasti sulle spalle i due piccoli orfani di Ciro e della prima moglie (la sorella di Pepè), sente addirittura che la defunta dal mondo di là glieli aYda. «Con lo sguardo dolorosamente Wsso su Stellina, aspettava, aspettava, che ella levasse gli occhi dal fazzoletto e lo vedesse così e comprendesse». «Comprendesse» che cosa? Che lui non era più adatto a fare il giovane pretendente, a corteggiarla, perché il suo ruolo era cambiato? Questa integrazione del lettore sembra godere di maggiore autorevolezza rispetto alla precedente in quanto poggia su un più brusco passaggio d’atmosfera dal comico al patetico. A questo punto il Ravì conclude il suo intervento e pone Wne alla storia, limitandosi a dare un consiglio sulle banali necessità del presente: - Un pajo di forbici, Wglia mia. Senti come scoppiettano queste torce? Bisogna aver occhio a tutto, nella vita, ed anche a questo...
Spostiamo ora l’attenzione a ritroso sul Wnale dell’Esclusa. La situazione è identica: Marta e Rocco fanno la veglia ad un letto di morte; agli angoli del letto ardono quattro torce; un terzo personaggio esorta Marta a smoccolarle ogni tanto con le forbici perché «scoppiano». Ma quale signiWcato veicola questo explicit ? Ci pare che esso non spezzi bruscamente, non chiuda, non metta la parola Wne ad una vicenda o ad un disegno. E possa, invece, accompagnare una ripresa, una continuazione, una sorta di quarantaquattresima puntata (43 furono le puntate eVettive dell’Esclusa nell’Appendice del giornale «La Tribuna» di Roma). Come potrebbe conWgurarsi un’ipotetica continuazione dell’Esclusa? Ci sia consentito giocare ancora col non detto. Sarebbe senz’altro disastrosa per Marta, se ella, dopo aver confessato di portare in grembo una creatura adulterina, accettasse di ritornare col marito. Continuerebbe la serie assai poco ‘umoristica’, che noi abbiamo anzi deWni-
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to di tipo veristico, delle sue disgrazie. Certo, non per caso nel 1907 soltanto, in epoca di consolidato ‘umorismo’, la chiusa radicalmente mutata col silenzio di Marta sulla sua gravidanza giustiWca il giudizio dell’autore sul «fondo essenzialmente umoristico del romanzo». Gli elementi sinora sparsamente individuati nel Turno, cioè il grottesco dell’accordo iniziale di turnazione, lo schema costantemente applicato del rovesciamento, l’onomastica irridente, l’impossibilità di procedere col patetico 32 sono già di per sé suYcienti a collocare la narrazione nell’ambito della farsa e dell’opera buVa o addirittura della commedia dell’arte. 33 Aggiungiamo l’assoluto predominio della mimesi dialogica a brevi battute sulle parti diegetiche, che non si registra nell’Esclusa. I personaggi hanno i tratti esasperati e tipici dei generi teatrali prima ricordati. Se talvolta possono inquadrarsi nella realtà storica o letteraria della Sicilia (Ciro Coppa per la smodata gelosia; don Diego per la decadenza del vecchio aristocratico dal nome spagnoleggiante e per l’ossessione delle corna; i giovinotti del paese per la limitazione degli interessi al corteggiamento della femmina), il più delle volte essi si richiamano ai tipi Wssi del teatro comico. Stellina, don Diego, Pepè formano ovviamente il triangolo della vicenda erotica; Marcantonio Ravì è l’organizzatore di patti matrimoniali; Ciro Coppa, detto bau bau, 34 è una sorta di Matamoros, di miles gloriosus, di Scarafone Buttafuoco, con le Wsique du rôle, che ricorre nei suoi tentativi di sopraVazione alle armi reali (le pistole e il frustino) o a quelle metaforiche dell’urlo e della pedanteria linguistica, calligraWca interpuntiva ortograWca. Ecco alcune sue apparizioni in scena: Ciro Coppa, tozzo, il petto e le spalle poderosi, enormi, per cui pareva anche più basso di statura, il collo taurino, il volto bruno e Wero, contornato da una corta barba riccia, folta e nerissima, la fronte resa ampia dalla calvizie incipiente, gli occhi grandi, neri, pieni di fuoco, passeggiava per il suo studio d’avvocato con una mano in tasca, nell’altra un frustino che batteva nervosamente su gli stivali da caccia. Le bocche di due grosse pistole apparivano luccicanti su le ànche, oltre la giacca. (v) 32. Ma sarà da mettere nell’elenco anche l’aspetto strutturale dell’opera, senza distinzione di parti quasi «lungo atto unico»: la citazione è da G. Mazzacurati, L’arte del titolo (1990), in Pirandello nel romanzo europeo, Bologna, il Mulino, 1995, p. 314. 33. Di «farsa espressionistica» parla N. Tedesco, Memoria genetica ed entropia farsescoespressionistica nel «Turno» di Pirandello, in Il «Romanzo» di Pirandello, a cura di E. Lauretta, Palermo, Palumbo, 1976, pp. 37-48. 34. Bau è il nomignolo di Francesco Ajala nell’Esclusa, anche lui violento e collerico, anche lui stroncato da un colpo, in un contesto ovviamente ‘tragico’.
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Quel frustino in mano e la saccenteria spavalda del cognato che l’atteggiava in guardia dandogli colpetti sulle gambe, gli parevano uno scherzo fuor di luogo. Ciro intanto gridava, spazientito, senz’intendere che col suo gridare lo imbalordiva peggio. Si dispose anche lui in guardia di fronte a Pepè e cominciò a insegnargli il colpo infallibile. Dàlli e dàlli, alla Wne si riscaldò sul serio, s’imbestialì e, gridando: – Mi rammento dei tempi antichi! – si slanciò in un assalto furibondo contro il povero cognato che, riparandosi la testa con le braccia, si chinò sotto la furia delle Wschianti frustinate, gridando ajuto e misericordia. (vii) Intanto, siedi là: quello è il tuo tavolino. Ci son carte da copiare: calligraWa chiara: attento alla punteggiatura, e bada all’ortograWa ... Non ti dico altro. Da quel giorno cominciò per Pepè una nuova vita di indicibili angustie. Andava ogni mattina allo studio con l’animo sospeso, nella più angosciosa incertezza, dopo aver meditato tutta la notte per comprendere, o intravedere, almeno, che cosa in fondo Ciro volesse da lui. Ciro passeggiava per lo scrittojo, davanti al tavolino. - L’ortograWa ... Mi raccomando. Jeri mi hai scritto prestigio con due g. (xxviii-xxix)
Del personaggio che incarna non gli manca nemmeno il lessico farsesco, contemporaneamente da Matamoros e da pedante: «Dimmi che ti faccio tremare!», «se ti do un pugno, ti parviWco, ti estinguo» (xxix). L’esasperazione e la parodizzazione investono ovunque nel racconto il tema della violenza. La preparazione del duello di Pepè col Borrani, con la scrittura della lettera di sWda (cap. v), accentua i toni ironici della discussione, fatta alla tavola di don Rodrigo, sulla sWda del cavaliere spagnolo al cavaliere milanese. Termini e frasi pirandelliane come «cavalleria», «E poi, quando mai s’era inteso? Calci, pugni ... tra gente per bene...», «mascalzone» riecheggiano il testo manzoniano. 35 Nel duello poi, che, secondo tradizione romanzesca, è combattuto «alla macchia fosca dei cipressi del camposanto», Pepè mette in imbarazzo i suoi padrini per il comportamento assai poco marziale: appena impugnata la sciabola, era divenuto più pallido di una carogna; per poco le braccia non gli cascavano su la persona, come se la sciabola fosse stata 35. E poco prima (cap. iv) il romanzo di Pirandello presenta, nella scena del trambusto nato dalla lite a bastonate e schiaY fra Pepè e il Borrani, altri echi manzoniani, provenienti, questa volta, dalla rappresentazione della notte degli imbrogli: «Ne nacque un parapiglia, un trambusto indiavolato: braccia e bastoni per aria, schiamazzo, strilli di donne, lumi e gente a tutte le Wnestre delle case vicine, abbajar di cani. - Che è stato? Che è stato? Giù per la via la folla agitata si allontanava confusamente, vociando. E la gente accorsa coi lumi alle Wnestre rimase a lungo incuriosita a spiare e a far supposizioni e commenti, Wnché la folla non si perdette nel buio in lontananza».
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di bronzo massiccio. Parare? Sfalsare? Niente! Lì come un pupazzo da teatrino... (ix)
I dissapori portano molto più spesso ai colpi di bastone, il quale, potremmo dire parafrasando il teorico della Rota Vergili, è lo strumento adatto a personaggi di questo tipo: e i colpi cadono per lo più sulla testa come nel teatrino dei pupi: Io vedete questo bastone? Ve lo rompo in testa la prima volta che vi vedo ripassare col naso per aria sotto le Wneste di casa mia;
il che provoca l’immediata risposta: Se vi dicessi che a me personalmente bastoni su la testa non ne ha mai rotti nessuno? (iii)
E ancora: L’Alletto alzò allora il bastone e giù su la testa del Borrani (iv) Se il medico non me la guarisce subito, Wnirà che lo bastono (v) Te li metto subito a posto io, senza bastone (xvi) Lui, lui, sissignore! Ha bastonato la Wglia, sissignore (xxii), ecc.
D’altra parte, il linguaggio di tutti, non soltanto di Ciro Coppa, è, anche nelle circostanze più banali, esasperato: Ajuto! Ajuto! S’ammazzano! Ciro! Pepè! (vii) E io t’ammazzo! (xv) Ho usato prudenza jeri; ma, questa sera, se lo vedo, parola d’onore, l’ammazzo (xvi) Volete che vada a scannare il Coppa? (xxi) Eravate d’accordo? Parla, perdio! o ti strozzo. (xxiii)
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isultano vari i signiWcati attribuiti alla storia di Mattia Pascal anche se ci si limita a considerare le indagini degli ultimi anni. E non si può dire che essa nella sua articolata complessità non li giustiWchi, se non tutti, almeno in buona parte. Cominciamo con la drammatica percezione del contrasto messo in rilievo da Leone de Castris 1 e ribadito da Mazzacurati 2 fra le due impossibilità di vivere nella prigione di una società soVocante e nell’anarchia di una asocialità che lascia soli e indifesi; per cui il protagonista si sente costantemente oppresso sia in paese e in famiglia sia nella grande città e al di fuori dei vincoli familiari (proprio perché questi vincoli non può assumerli). Si vieta a lui di trovare un soddisfacente ubi consistam anche in particolari circostanze del vivere quotidiano. È privato in paese della proprietà di un consistente patrimonio, ma non gli è consentito in città di comprarsi neppure un cagnolino. Potrebbe denunciare le spoliazioni sistematiche compiute dal Malagna, e non lo fa vuoi per coscienza della propria corresponsabilità («Noi fummo, è vero, scioperati, e spendevamo senza misura») vuoi per tornaconto («Egli ebbe l’arte di non farci mancare mai nulla, Wnché visse mia madre»); mentre a Roma vorrebbe ma non può denunciare il furto subito da Papiano. La Wliera dei parallelismi e dei contrasti potrebbe proWcuamente allungarsi sì da mettere in chiara evidenza la centralità del tema invano contestata da Alonge, 3 che ha voluto forzatamente scorgere il senso del romanzo nell’impossibilità del piccolo borghese di uscire dai limiti del proprio ceto medio. La suggestiva lettura di Mazzacurati 4 individua nel Fu Mattia Pascal l’archetipo dissacrato del viaggio; 5 mentre Borsellino, con pari origina1. A. Leone De Castris, Storia di Pirandello, Bari, Laterza, 1971, pp. 74-77. 2. G. Mazzacurati, Pirandello nel romanzo europeo, Bologna, il Mulino, 1987, pp. 198199. 3. R. Alonge, Pirandello tra realismo e mistiWcazione, Napoli, Guida, 1977, p. 161. 4. Mazzacurati, Pirandello nel romanzo europeo, cit., pp. 191, 219, ecc. 5. Di viaggio picaresco parla W. Geerts, “Il fu Mattia Pascal” in the Picaresque tradition, in Pirandello 1986, a cura di G. Biasin e N. J. Perella, Roma, Bulzoni, 1987: ma nel personaggio pirandelliano non c’è nulla di picaresco.
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lità, denuncia un’aporia fra la consapevolezza che ha Mattia di essere uomo copernicano, cioè privo del senso della propria centralità nell’universo, e la distrazione che lo induce a scrivere di sé e a porsi con ciò stesso come Wgura esemplare. 6 Più capillarmente diVuso nella critica e forse più fertile di acquisizioni ermeneutiche risulta un quarto tema, quello dell’antinomia, della dissociazione, dell’antitesi che caratterizzano il personaggio, contemporaneamente uno e bino; o, per usare metafore dell’autore, «violino» e «contrabbasso». 7 Jean-Michel Gardair ha addirittura identiWcato questo tema col romanzo, deWnito «la summa insieme tematica e strutturale delle Wgure del doppio che l’opera di Pirandello mette in gioco». 8 Accettiamo la deWnizione del critico francese, con l’avvertenza però che il «doppio» da lui chiamato in causa è concetto tanto generico e indiVerenziato da abbracciare tutta la produzione dell’autore. Per Il fu Mattia Pascal si dovrebbe parlare più che di doppio, che può risolversi anche in paciWca coesistenza, di dissociazione e dissimmetria, cioè di impossibilità della reductio ad unum, per cui gli aspetti della personalità si aVrontano senza fondersi in un tutto coerente. Trasferita sul piano della Wsiognomica, la dissimmetria riguarda il mancato accordo dei due occhi, perché l’uno «tendeva a guardare per conto suo altrove», e dopo l’operazione, pur riuscita, «sarebbe forse rimasto un pochino pochino più grosso dell’altro». L’impossibilità della reductio ad unum vale non solo per il protagonista narrante, che ne ha chiara coscienza tanto da vedersi scisso in due me: E invano quel povero me che per tanto tempo se n’era stato con le Wnestre chiuse e aveva fatto di tutto per alleviarsi la noja smaniosa della prigionia, ora – timido come un cane bastonato – andava appresso a quell’altro me che aveva aperte le Wnestre e si destava alla luce del giorno, accigliato, severo, impetuoso. (cap. xv)
e da giungere alla conclusione nell’explicit della storia: io non saprei proprio dire ch’io mi sia.
6. N. Borsellino, Immagini di Pirandello, Cosenza, Edizioni Lerici, 1979, pp. 50-51. 7. Cfr. Preludio orchestrale (1907) di Fuori di chiave (Saggi, poesie, scritti varii, a cura di M. Lo Vecchio-Musti, Milano, Mondadori, 1965, p. 619). 8. J.-M. Gardair, Pirandello e il suo doppio, Roma, Edizioni Abete, 1977, p. 85 (ed. orig. francese Paris, Larousse, 1972). Tenendo conto dell’analisi di Gardair, E. Gioanola, Pirandello e la follia, Genova, Il melangolo, 1983, considera «la struttura profonda di io diviso» come il «fondamento di tutto l’universo pirandelliano» (p. 66).
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Vale anche per gli altri personaggi più o meno importanti: per Adriana, p. es., che è contemporaneamente Wgura di ragazzetta e di mammina; per la signorina Caporale, che si trasforma con estrema facilità da brutta, vecchia, ubriacona in «bambina ingenua e capricciosa»; per Lorenzo Papiano, che non è soltanto un imbroglione ma sa apparire anche un sincero sostenitore del giusto: Aveva parole di fuoco, lui, Papiano, per bollare questo indegno ricatto del Pantogada. Ed era veramente sincera quella sua collera generosa. (cap. xii)
E più estensivamente per la realtà tutta, che possiamo sempre ricondurre entro schemi contrastivi, se è vero che persino due testimoni archetipici di un travagliato rapporto col padre e con la madre, cioè Oreste e Amleto, che anche Freud, nel suo Totem e Tabù, avrebbe potuto abbinare, imprimono alle proprie vicende sviluppi ed esiti diversi.9 L’Amleto di Shakespeare, rappresentante della tragedia moderna, ha in sé qualcosa che si trova anche nel protagonista pirandelliano, la pazzia e la razionalità, secondo quanto egli stesso intuisce parlando ad Orazio: Beati quelli nei quali sangue e ragione sono così ben mescolati che essi non sono una zampogna su cui il dito della Fortuna possa suonare il tasto che le piace. 10
Per Mattia si giustapponga l’interpretazione che il fratello, credendo di presentare tutta una personalità, dà di quel nome: Mattia, l’ho sempre detto io, Mattia, matto. Matto! Matto! Matto! – esclamò Berto
all’autodeWnizione del protagonista che insiste sulla qualità raziocinante del proprio essere: Ragioniamo un po’ ... Se dunque, arrivato a questo punto, voglio ragionare, è soltanto per la logica.
Nella vicenda esistenziale di Mattia Pascal la logica, la razionalità formano un altro binomio contrastivo con il caso, che guida ostentata9. Vedi la lezione di Paleari sullo strappo nel cielo di carta (cap. xii del Fu Mattia Pascal). Vale la pena di ricordare che Amleto era contrapposto da Ivan Turgeniev a Don Chisciotte in Amleto e Don Chisciotte (si veda ora l’opera nella traduzione di M. A. Curletto, Genova, Il melangolo, 2004): l’uno rappresentante dell’analisi, l’altro dell’entusiasmo. 10. Amleto, iii, 2.
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mente le scelte e le azioni fondamentali, quelle cioè che consentono mutamenti radicali, come la vincita alla roulette e il cambiamento d’identità alla notizia dell’aVogamento nella gora del mulino. Ma il personaggio è bino da qualsiasi punto di vista lo si consideri. Sul piano della collocazione sociale, possidente e misero impiegato; su quello dei rapporti familiari, contemporaneamente solo per la morte quasi simultanea della madre e delle due Wgliolette e intollerabilmente accompagnato da una moglie gelosa e da una suocera perWda; su quello etico, derubato e ladro sia nei confronti di Malagna da cui è depredato dei beni e a cui ruba l’onore seducendogli la nipote e la moglie, sia nei confronti dell’amico Pomino a cui sottrae Romilda e da cui la stessa Romilda gli è sottratta. È scisso persino sul piano culturale e intellettuale, fra consapevolezza copernicana della nullità dell’uomo e residua credenza che la luna è ancora in cielo per noi, se è vero che «in grazia di [una] distrazione provvidenziale» egli si accinge a raccontare la propria storia eternandosi come personaggio. Esaminata lungo l’intero asse del suo sviluppo, la storia appare suddivisa in segmenti diVerenziati, ognuno dei quali coincide non tanto con un diverso protagonista quanto – come vedremo meglio – con una sua diversa autocoscienza e ubicazione. A Mattia Pascal a Miragno succede Adriano Meis a Milano e Roma; a quest’ultimo, il fu Mattia Pascal di nuovo a Miragno, il quale ha altra coscienza di sé rispetto ad Adriano Meis e a Mattia Pascal. I rapporti oppositivi si moltiplicano e complicano ulteriormente, perché a Miragno-Milano-Roma, 11 sedi del diverso, si alterna Pisa come sede della ripetizione e dell’uguale. La seconda volta che passa per la città toscana nel viaggio di ritorno al paese d’origine e in procinto di incarnarsi nel fu Mattia Pascal, egli prova le stesse sensazioni già provate come Adriano Meis nel viaggio di allontanamento: Ma ricordavo che anche Adriano Meis, passeggiando due anni addietro per le vie di Pisa, s’era sentito importunato, infastidito allo stesso modo dall’ombra, ugualmente esosa, di Mattia Pascal, e avrebbe voluto con lo stesso gesto cavarsela dai piedi, ricacciandola nella gora del molino, là, alla Stìa.
Nel romanzo è possibile reperire un ulteriore Wlo conduttore, che corre per tutto il testo forse in modo più totalizzante degli altri perché coinvolge anche la maggior parte delle scelte antroponomastiche e to11. Roma è già in sé, come acquasantiera e portacenere, il non plus ultra della dissonanza. Su questo aspetto della città si soVerma soprattutto N. Borsellino, La morte di Roma (1989), in Ritratto e immagini di Pirandello, Bari, Laterza, 1991, p. 187.
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ponomastiche. È strettamente connesso alla concezione copernicana della Wne del geocentrismo, chiamata in causa nei colloqui con don Eligio Pellegrinotto, e alla teoria del lanternino di cui è maestro Anselmo Paleari. Ambedue le concezioni ribadiscono il senso della piccolezza, inconsistenza, non rilevanza dell’uomo non solo genere ma anche singolo, «del poco lume nostro, della nostra individualità». Pertanto gli esseri umani, incapaci sia di grandi ideali e azioni, sia di atti tragicamente malvagi, e destinati irrimediabilmente ad una piccola navigazione di cabotaggio fra beni e mali mediocri, si confondono l’uno con l’altro, addirittura tendono a copiarsi e a scambiarsi le parti. Se all’interno del singolo regna la discrasia e la separatezza, nei rapporti interpersonali prevale l’uniformità. Il giovane Pomino si adegua al comportamento ora di Mattia ora del fratello Berto; don Eligio Pellegrinotto e Anselmo Paleari hanno la stessa funzione di ammaestratori e pedagoghi nei confronti del protagonista; Malagna e Papiano ricoprono i medesimi ruoli di predatori di denari e predati della donna; il protagonista e Pomino si equivalgono, come abbiamo visto, nella vicendevole sottrazione della stessa donna. Aveva ragione in qualche modo Bontempelli, che già nel 1937, nell’Introduzione al romanzo pubblicato negli «Oscar» Mondadori, parlava di umanità «massa». Osservata da questo punto di vista, l’onomastica del romanzo appare scelta non certo col proposito di caratterizzare, distinguere le realtà nominate evidenziandone le peculiarità. Restando per ora nel settore dell’antroponomastica, notiamo innanzi tutto un uso abbastanza parco della connotazione. Il livello d’impiego però non è costante ma si dispone secondo scalature che cercheremo di individuare dalla più alta alla più bassa. Il grado più alto è segnato da nomi chiaramente parlanti a connotazione univoca, attribuiti a personaggi assolutamente secondari, tali cioè da sopportare con facilità, in virtù della loro semplicità psicologica e comportamentale, la nominazione-etichetta. In questi casi Pirandello fa sfoggio della sua icastica vis deWnitoria senza temere contraddizioni con sviluppi inesistenti del personaggio. Appartengono a questa categoria Pinzone, la cui funzione altamente connotativa è insita nel suo statuto di soprannome («Il suo [dell’aio] vero nome era Francesco, o Giovanni Del Cinque; ma tutti lo chiamavano Pinzone»), presente del resto col medesimo signiWcato e la medesima attribuzione anche nella novella La scelta; l’altro soprannome, Lodoletta, attribuito al giornalista, all’anagrafe Miro Colzi, autore di un volume di versi intitolato Lodoletta, ma anche del dolente pezzo cantato in morte di Mattia. Sono nominazioni parlanti anche i cognomi dei due numi tutelari della biblioteca Boccamazza che lavorano in quel posto «fuori mano»,
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non frequentato da nessuno e perciò estraneo al consorzio umano, Pellegrinotto e Romitelli. Nell’ambiente della biblioteca che raccoglie libri defunti e inutili è giusto che si concluda la storia del protagonista, che non ha ormai altra qualiWca che quella di essere stato Mattia Pascal e di essere ora anche lui un fu, un avanzo del passato che si sente come sempre estraneo alla vita 12 e ne vive «fuor fuori». 13 Mostra un grado di connotazione meno pronunciata ed univoca il cognome Malagna, il cui signiWcato può considerarsi polivalente. Indubbiamente Malagna suggerisce idee di male e lamentosità. Ma male e lamenti di chi e di quale tipo? L’amministratore è un ladro che, come sappiamo, deruba la famiglia dei padroni e che Pomino indica a Mattia come «il tuo Malanno»; ma è vero anche che è un infelice oppresso da un corpo deforme, oltre che dall’incapacità di generare Wgli, con una «voce molle, miagolante» che diventa facilmente lamento con la madre di Mattia per le malannate, con la vedova Pescatore per l’impossibilità di avere Wgli. La stessa voluta polivalenza si ha nel caso del cognome del protagonista, Pascal, per il quale si sono ipotizzate diverse derivazioni: dal Wlosofo - matematico Blaise Pascal, dal teosofo Théophile Pascal, da identiWcare con l’autore del libro sulla «rincarnazione» che il narratore «deWnisce ‘uno dei [...] prediletti del signor Anselmo’»; 14 da Pasqua, ad indicare le due risurrezioni-rincarnazioni del personaggio. Pirandello non fa nulla per suggerire un’interpretatio univoca; possiamo anzi dire che lavora per lasciare nel testo indizi contrastanti che spingono nell’una o nell’altra direzione. Rinvia a Blaise, che si interessò al calcolo per il gioco d’azzardo e la roulette, la lunga sezione dedicata al casino di Montecarlo; a Théophile l’insistenza con cui, dopo ogni morte del protagonista, si mette in rilievo la novità della reviviscenza. Per il nome Mattia l’interpretatio si pone su un piano ancora diverso: l’univocità manca non per difetto di indicazioni ma per bilanciamento fra ammissione e negazione. Se infatti il fratello Berto la autorizza quando parla di «Mattia, matto», l’interessato la smentisce subito dopo quando 12. Qualche citazione: «La mia vera, diciamo così, ‘estraneità’ era ben altra [...]»; «Ma la vita, a considerarla così, da spettatore estraneo»; «E poi un estraneo come me!». 13. «E mi proponevo di trarmi in disparte quanto più mi fosse possibile, ricordando di continuo a me stesso che non dovevo accostarmi troppo alla vita altrui, che dovevo sfuggire ogni intimità e contentarmi di vivere così fuor fuori» (cap. xi). 14. Cfr. le Note ai testi in appendice al volume i di Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia e M. Costanzo, Milano, Mondadori, 1973, «I Meridiani», pp. 1023-1024. L’accostamento era già stato fatto da Macchia, Pirandello e gli spiriti, «Corriere della Sera», 18 luglio 1972.
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protesta per il fatto che lo si creda capace di riprendersi come moglie Romilda: «Mi credete sul serio così pazzo da ridiventar vostro genero?». Un altro caso di certezza interpretativa negata lo oVre la nominazione di un personaggio secondario, quel marchese Giglio d’Auletta di origine napoletana e di profonda fede borbonica di cui si narra un gustoso episodio accaduto al tempo della caduta del regno di Napoli. L’episodio spiega la presenza nel salone della casa romana del marchese di una sorta di reliquia gelosamente conservata, costituita da un giglio di legno dorato che testimonia la difesa che egli aveva sostenuto del re nel giorno della sconWtta: La mattina del 15 settembre 1860 il Re usciva dalla Reggia di Napoli in un legnetto scoperto insieme con la Regina e due gentiluomini di corte: arrivato il legnetto in via di Chiaja dovette fermarsi per un intoppo di carri e di vetture innanzi a una farmacia che aveva su l’insegna i gigli d’oro. Una scala, appoggiata all’insegna, impediva il transito. Alcuni operaj, saliti su quella scala, staccavano dall’insegna i gigli. Il Re se n’accorse e additò con la mano alla Regina quell’atto di vile prudenza del farmacisata, che pure in altri tempi aveva sollecitato l’onore di fregiar la sua bottega di quel simbolo regale. Egli, il marchese d’Auletta, si trovava in quel momento a passare di là: indignato, furente, s’era precipitato entro la farmacia, aveva aVerrato per il bavero della giacca quel vile, gli aveva mostrato il Re lì fuori, gli aveva poi sputato in faccia e, uno di quei gigli staccati, s’era messo a gridare tra la ressa: “Viva il Re!”.
Il nome Giglio d’Auletta ha un qualche rapporto con l’episodio, magari sub specie di inveramento conseguente alle cose, oppure gli è del tutto estraneo, e la coincidenza è puramente casuale? Il testo non chiarisce: ciò non toglie però che il lettore sia posto nella condizione di dover fare i conti con questa ulteriore possibilità di interpretazione onomastica. Il fatto è che in tutti i casi esaminati manca quella che Barthes chiama fonction d’ancrage 15 e che dovrebbe costituirsi nel rapporto con elementi limitroW. 16 In un ulteriore depauperamento della vis connotativa, il nome appare destituito di ogni signiWcato nonostante qualche ammiccamento del testo. Il fenomeno si prospetta con diverse sfumature. L’accostamento si rivela soltanto un gioco di parole, un calembour privo di capacità
15. La fonction d’ancrage dovrebbe opporsi alla polisemia dei signiWcanti: cfr. R. Barthes, Rhétorique de l’image, «Communications», 4, 1964, pp. 40-51 (in part. p. 44). 16. Tz. Todorov, La description de la signiWcation en littérature, «Communications», 4, 1964, pp. 33-39 (in part. p. 36).
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ermeneutica, di vis connotativa anche momentanea e parziale. Così la zia Scolastica fa presente alla madre l’interesse che Mattia nutre per la Wglia del fattore, Oliva: - E non vedi, sciocca, che va sempre a Due Riviere? - Sì, per il raccolto delle olive. - D’un’oliva, d’un’oliva, d’un’oliva sola, bietolona!
Di Marianna Dondi, vedova Pescatore, il protagonista pensa sarcasticamente, appena ricevuta la notizia che un corpo riconosciuto come il suo è stato tratto dalla gora del mulino: Ma sarà stata lei, forse, lei, Marianna Dondi, la vedova Pescatore; oh! M’ha pescato subito, m’ha riconosciuto subito! Non le sarà parso vero, Wguriamoci!
La signorina Silvia Caporale è chiamata conWdenzialmente dallo screanzato Papiano Rea Silvia, e giustamente l’io che narra chiosa: «io non sapevo come interpretare queste sue maniere conWdenziali e burlesche». 17 Un altro aspetto della perdita di virtù connotativa della nominazione è la coincidenza del nome per personaggi diversi, senza che la coincidenza sia in funzione di accostamento caratteriale, comportamentale, funzionale, oppure di richiamo strutturale. Così, un padre e un Wglio si chiamano Girolamo Pomino; un altro padre e un altro Wglio (supposti parenti di Adriano) si chiamano Francesco Meis; la ragazza di cui Adriano s’invaghisce a Roma ha nome Adriana. 18 I casi or ora menzionati di coincidenza onomastica di padri e Wgli e di innamorati sono dunque poco signiWcativi. Un discorso più articolato richiedono i numerosissimi accostamenti onomastici per allitterazione. Alla sovrapposizione si accompagna la contiguità. Ma osserviamo come gli accostamenti per allitterazione si dispongano in due serie dipartendosi da un nucleo originario unico. Nell’incipit del racconto sta la nominazione, formata da nome e cognome, del protagonista: «mi chiamavo Mattia Pascal». Mattia e Pascal sono espressione della dualità del personaggio soprattutto se si considera la tendenza al reimpiego
17. Altro gioco verbale è quello fatto sul cognome Meis al capitolo xiii: «- Adriano Mei, – diceva, come se tutt’a un tratto fossimo diventati amiconi. – Adriano Tui, – mi veniva quasi di rispondergli» (cap. xiii). 18. Di diverso avviso è Pietro Gibellini nell’Introduzione a Il fu Mattia Pascal, a cura di N. Gazich, Firenze, Giunti, 1994, p. xii, per il quale «la categoria associativa AdrianoAdriana (stesso nome come vincolo pseudo-parentale, tratti materni della fanciulla amata) denuncia la base archetipica, se non psicanalitica, di quel legame d’aVetto».
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delle rispettive consonanti iniziali: la M di Mattia e la P di Pascal. Dovendo cambiare identità, il protagonista non trova di meglio, eliminando il De dal De Meis sentito in treno, che assumere il cognome Meis, aYdando ancora alle lettere P ed M (Pascal - Meis) lo scontro fra due personalità. 19 Il dittico P-M si ripropone nell’invenzione, per il nuovo personaggio, di un padre che si chiama Paolo Meis. 20 Poste queste premesse, è logico che in P o M allitteri anche la maggior parte dei nomi e cognomi degli altri attanti della storia. Appartengono alla serie P: Pellegrinotto, Pinzone, i due Pomino, padre e Wglio, la terribile vedova con Wglia, di cognome Pescatore, Paleari, Papiano, Pantogada con Wglia di nome Pepita. Ma Pomino Wglio, che è conosciuto come Mino, e la vedova Pescatore, che fa di nome Marianna, rientrano anche nella serie M, che conta Malagna, Margherita (la serva della mamma), Manuel (il pittore), Minerva (la cagnetta), Max (lo spirito). Alle due serie di personaggi si possono aggiungere coppie non attanziali in cui il gioco onomastico è ancor più complesso: fra i vecchi libri della biblioteca Boccamazza ce ne sono due attaccati dal tempo, un trattato licenzioso di Anton Muzio Porro e una Vita e morte di Faustino Materucci di Polirone, «biograWa edita a Mantova»; fra i cognomi che Mattia in fuga passa in rassegna prima di assumere quello di Meis, Wgurano Parbetta e Martoni. Sull’ultimo egli scherza prima di scartarlo: Martoni, per esempio, perché no? Carlo Martoni ... Uh, ecco fatto! Ma, poco dopo, davo una spallata: Sì! Carlo Martello ... E la smania ricominciava.
Le ultime nominazioni ricordate disposte in coppie non attanziali hanno un’altra caratteristica di rilevo. Sono accomunate oltre che dall’al19. La M di Meis sarebbe ancor più probante se si accettasse l’ipotesi di Sedita (Il personaggio risorto. Nomi e sembianze nel Fu Mattia Pascal, «Rivista di studi pirandelliani», v, 4, 1985, pp. 24-38, per cui «De Meis Wgura come prestanome [...] del padre barnabita Leopoldo de Feis che nel 1898, nella rivista di studi orientali ‘Bessarione’ aveva pubblicato un dotto articolo intitolato Del monumento di Paneas e delle immagini della Veronica e di Edessa» (p. 31). Non crediamo però che la sostituzione di De Meis a De Feis avvenga per un «calcolato depistaggio onomastico»: quale ne sarebbe, infatti, lo scopo? 20. Della dicotomia insita nell’accostamento di parti della stessa nominazione si possono addurre numerosi esempi. Ricordiamo sul piano relazionale Rosso-Malpelo (cfr. cap. ii); sul piano della qualiWca di classe, Mastro-don premessi a Gesualdo (J. Lacroix, Mitomania e culto della personalità: l’ascesa sociale di Mastro-don Gesualdo, in Il centenario di “Mastro-don Gesualdo”, Atti del Congresso internazionale di studi, i (Catania, 15-18 marzo 1989), Catania, Fondazione Verga, 1991, p. 37; L. Fava Guzzetta, Verga fra Manzoni e Flaubert, Roma, Edizioni Studium, 1997, p. 264); sul piano della resa dell’inquietudine moderna, Alba-Nigra (cfr. cap. xii); sul piano inWne della caratterizzazione etnica, Italo-Svevo.
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litterazione P- M-, anche dalla capacità di contenere in tutto o in parte le lettere di pater e di mater. Potrebbe allora il sistema onomastico in P e M corrispondere al desiderio di vedere in altri il corrispettivo delle due Wgure che all’io narrante mostrano tutta la loro assenza o carenza? Il padre, Mattia non l’ha conosciuto perché è morto quand’egli aveva quattro anni, non ha nome21 e la sua vita è avvolta nel mistero; 22 la madre muore quand’egli è già grande, ma ha la personalità inconsistente di una creatura inetta e non cresciuta («inetta», «pareva una bambina»). Ho posto il quesito senza aver la pretesa di trovare una risposta sicura, facendo però insieme presente che, secondo i moderni studi di psicobiologia integrata, è essenziale per un armonico sviluppo del temperamento e della personalità dell’individuo una corretta risposta alle sue esigenze emotive e un buon accordo con i suoi stati mentali da parte dei genitori; e che nell’assenza di queste condizioni risulta «gravemente ostacolato lo sviluppo della capacità di raggiungere una coerenza interna», «una coerenza del sé», e si giunge alla «dissociazione». 23 Il fatto che nella ricerca di possibili alternative paterne e materne Mattia commetta macroscopici errori potrebbe rientrare nel novero delle sconWtte e dei rovesciamenti a cui egli va incontro nella vita. Il caso più clamoroso è rappresentato certamente da Malagna che, oltre a contraddire coll’esser maschio qualsiasi possibilità di accostamento alla Wgura materna, si rivela anche per le arti predatorie una pessima Wgura paterna. La toponomastica del romanzo, almeno quella signiWcativa, è costruita con altri criteri, che deWniamo anagrammatici o ipogrammatici. Miragno è il nome d’invenzione del paese da cui il protagonista parte come Mattia Pascal per ritornarvi alla Wne, non riconosciuto da alcuno, con lo stesso nome sia pure preceduto dal fu. La vicenda si dipana dunque fra Miragno e Miragno, 24 fra la biblioteca e la biblioteca, senza
21. Nell’edizione del romanzo sulla «Nuova Antologia» (1904) il padre si chiamava Gian Luca e la sua parte era più estesa. 22. Sull’assenza della Wgura paterna in letteratura si possono consultare F. Ferrucci, Genealogia di Zeno Cosini, «Studi novecenteschi», x, 1983, pp. 165-173; A. Balduino, Orfani e padri nella narrativa italiana dell’Otto-Novecento, in Il Wlo della ragione. Studi e testimonianze per Sergio Romagnoli, a cura di E. Ghidetti e R. Turchi, Venezia, Marsilio, 1999, pp. 413-439. 23. Cfr. D. J. Siegel, La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, Milano, RaVaello Cortina Editore, 2001, p. 310 (ed. orig. The Developing Mind, 1999). 24. Da segnalare l’interpretazione di Miragno, che rimanda al «campo semantico dell’inganno», alla «rete tenace» da cui non ci si può liberare, che sono temi assai cari a Pirandello: cfr. I. Crotti, In viaggio con Mattia (Pascal): da Miragno a Roma, andata e ritorno, «La Rassegna della letteratura italiana», 1, 2002, pp. 76-95 (da p. 78).
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sostanziali crescite, conquiste, progressi: 25 con la consapevolezza, propria anche di altri reduci della letteratura, Ulisse ad Itaca, Renzo alla vigna e all’orto, l’internato Primo Levi alla sua città, 26 di aver trovato il proprio ambiente invaso, profanato da presenze estranee. Ma la successione delle tappe fondamentali del viaggio lo doveva far prevedere: in Miragno erano già contenuti in tutto o in parte gli elementi costitutivi, cioè le lettere di Milano e Roma.
25. Sulla mancanza di progresso propria dell’iter di Mattia Pascal c’è generale consenso: cfr. R. Luperini, Introduzione a Pirandello, Bari, Laterza, 1992, p. 59; P. Di Sacco, Mattia Pascal e i nomi del caso, «Studi novecenteschi», xix, 43-44, giugno-dicembre 1992, pp. 85-139 (in part. p. 112); F. Angelini, Miti moderni e miti classici nel “Fu Mattia Pascal”, «Rivista di studi pirandelliani», 11, dicembre 1993, pp. 7-15 (soprattutto p. 9). 26. L’accostamento Ulisse-Renzo-Primo Levi l’aveva fatto l’autore della Tregua nell’edizione scolastica 1965 della sua opera (Torino, Einaudi, collana «Letture per la scuola media»), in nota alla parola «tregua».
v SIMBOLI E NOMI NELLA NOVELLA PIRANDELLIANA LA VESTE LUNGA
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a veste lunga (1913) di Pirandello presenta un’azione che si svolge durante il viaggio di «circa otto ore di ferrovia» che dovrebbe portare la protagonista sedicenne Didì da Palermo a Zùnica, dove è l’antico e fosco palazzo dei marchesi Nigrenti, in vista del matrimonio d’interesse, architettato dal padre di lei, col maggiore erede della casata, il ricco e anziano marchese Andrea. Prima però di arrivare alla meta, Didì, a cui è stata fatta indossare per l’occasione la veste lunga da donna, si uccide, sopraVatta dallo sconforto per l’«impresa vergognosa» in cui il padre l’ha trascinata infrangendo deWnitivamente il sogno, da lei vissuto nell’infanzia, di Zùnica come paese felice, dalla paura di ciò che potrebbe attenderla nel fosco palazzo nobiliare, dal terribile senso di vuoto e di solitudine che la vita, ripercorsa in una serie di dolorosi Xashback, le ha lasciato dopo la morte della madre. Il Wnale, che registra a mo’ di epigrafe: Tre ore dopo, arrivò, piccola morta con quella sua veste lunga, a Zùnica, il paese di sogno della sua infanzia felice,
aduna, assieme all’iter della vicenda, consistente nel passaggio dal sogno dell’infanzia alla realtà tragica della Wne, e al senso dell’ultima avventura, ovvero l’insopportabile sproporzione fra la veste lunga imposta, con tutto ciò che essa signiWca, e la Wsica e psicologica immaturità dell’adolescente (piccola vs lunga), aduna dunque quelli che possiamo a buon diritto considerare i tre referenti fondamentali della storia, tutti provvisti di signiWcazione simbolica: Zùnica, il viaggio, la veste lunga. Su di essi cerchiamo di far chiarezza cominciando da quello che, per quanto connotato con maggiore insistenza, risulta di meno agevole comprensione, Zùnica. Per Didì bambina Zùnica «era un paese di sogno, lontano lontano, ma più nel tempo che nello spazio» (incipit di novella), o, com’è ribadito due volte nella conclusione, «il paese di sogno della sua infanzia felice». Quest’oggetto distanziato nel tempo non è ripudiato nemmeno quando Didì, uscita dall’infanzia, s’è resa conto che esso non sarà nella realtà così come è stato immaginato nel sogno. Per ora i suoi viaggi hanno toccato località meno lontane, «Bagheria, presso Palermo» o l’ancora più vicina S. Flavia.
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Zùnica dunque presenta le caratteristiche di una realtà che deve ancora venire e che la fanciulla immagina meravigliosa e beatiWcante a misura dei frutti che di lì crede le siano portati. Non può essere pertanto il duplicato della stessa «infanzia felice» vissuta dalla protagonista accanto alla madre: osta alla facile identiWcazione una serie di dati che concorrono nel dare inequivocabilmente al luogo le caratteristiche di meta non raggiunta né posseduta, collocata in un tempo lontano al futuro e non al passato in cui si realizzeranno Wnalmente i sogni, la realtà sostituirà le aspettative, i frutti verranno dopo i Wori. Zùnica, infatti, è indissolubilmente legata ai frutti che il padre porta alla bambina dai suoi viaggi: Da Zùnica infatti il padre recava un tempo, a lei bambina, certi freschi deliziosi frutti fragranti, che poi non aveva saputo più riconoscere, né per il colore, né per il sapore, né per la fragranza, in tanti altri che il padre le aveva pur recati di là: celse more in rustici ziretti di terracotta tappati con pampini di vite; perine ceree da una parte e sanguigne dall’altra, con la corona; e susine iridate e pistacchi e lumie.
Le località sinora raggiunte da Didì possono solo assai parzialmente oVrire quel che Zùnica promette: Bagheria, «sparsa tra il verde, bianca, sotto il turchino ardente del cielo», ha anticipato dei frutti i colori, S. Flavia ne ha anticipato una specie, gli aranci dei suoi boschi. Zùnica è in stretto rapporto metonimico con la veste lunga: se i frutti vengono da Zùnica, per arrivare a Zùnica occorre indossare la veste lunga, che sostituisce «le vesti corte» bastanti a raggiungere Bagheria e S. Flavia. Con le vesti corte della fanciullezza e dell’adolescenza si arriva a mete compatibili con quelle età; con le vesti lunghe proprie della donna si raggiunge l’età adulta in cui la bambina immagina che si realizzino i sogni. Anche quando le illusioni le sono venute meno, Didì sa bene che «nel mondo [...], a una certa età, lasciati i sereni, ingenui aVetti della famiglia, si entrava coi calzoni lunghi gli uomini, con le vesti lunghe le donne». Zùnica pertanto è il simbolo delle realizzazioni postadolescenziali. Per questo è legata alla Wgura paterna. Se il padre rappresenta la maturità, prima sognata e poi vista con paura e repulsione, la madre rappresenta l’infanzia sempre felice, sia quando è vissuta sia quando è ricordata. L’eden dei frutti non è quello dell’infanzia felice, bensì quello della maturità soltanto sperata felice, visto non nel ricordo ma nell’aspettazione, il cui momento essenziale può essere l’incontro con l’amore. Non è certo un caso che la veste che Didì indossa dopo aver da poco superato i sedici anni sia lunga come l’abito nuziale dell’amica Rorò. «L’ignota attesa» di Didì fa pendant con «quel vago avvenir che in men-
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te avevi» della Silvia recanatese. Un’altra creatura del Leopardi, SaVo, aveva parlato del «sogno della sua fanciullezza», e le gozzaniane Carlotta e Speranza sognavano l’amore «nei loro bei sogni trilustri». Quando e come il sogno infantile si tramuta nella realtà terribile della morte; alla quale è già andata incontro Rorò nella sua breve storia, che è una quasi perfetta mise en abîme della vicenda principale? Si dice quasi perfetta perché l’identità fra i due percorsi non è totale: Didì, p. es., non si sposa. Ella, ormai disillusa, non sai se più desideri o tema che l’identità sia totale: Poi s’era tirata su la veste davanti per rivedersi quel tanto, pochino pochino, delle gambe che aveva Wnora mostrato, e subito aveva pensato alle gambe di Rorò Campi, morta. A letto, aveva voluto riguardarsele sotto le coperte, immaginandosi morta anche lei dentro una bara, con l’abito da sposa, dopo il matrimonio col marchese Andrea dai capelli lunghi. Giusto lì la trascinavano, a Zùnica, ch’era il paese di sogno della sua infanzia felice! E perché ne morisse dopo un anno, come la sua amichetta Rorò Campi?
Il passaggio da sogno a realtà è graduale. Le sue varie tappe, individuabili sia nei frequenti Xashback memoriali sia nella presentazione del tempo attuale, quello del viaggio in treno, si possono così riordinare e ridisporre seguendo, per quanto è possibile, la successione cronologica, non osservata nei ritorni all’indietro via via stimolati da oggetti e sensazioni presenti: 1. Innanzi tutto, «già da un pezzo sapeva che Zùnica era una povera cittaduzza dell’interno della Sicilia, cinta da ogni parte dai lividi tuW arsicci delle zolfare e da scabre rocce gessose fulgenti alle rabbie del sole...». «Già da un pezzo», dunque, Didì, che ha poco più di sedici anni, ha cominciato a capire che il paradiso sognato non esiste. Non è indicato con esattezza l’inizio del disincanto, anche se possiamo ragionevolmente supporre che esso coincida soprattutto con la morte della madre avvenuta tre anni prima. La supposizione è suVragata dal fatto che anche per questa circostanza lo scrittore usa, abbinandola ad una più precisa, la medesima formula temporale indeWnita: «Da un pezzo, cioè dalla morte della madre, avvenuta tre anni addietro...». La morte della madre è per la pre- o protoadolescente un trauma dolorosissimo. Segna la prematura perdita del nido, della protezione, dell’universo chiuso, della guida. Senza l’elemento protettivo e uniWcante rappresentato dalla madre il mondo infantile si dissolve troppo presto, come è detto immediatamente dopo l’indicazione della sua scomparsa: aveva l’impressione che il padre si fosse come allontanato da lei, anzi staccato
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così, che lei, ecco, poteva osservarlo come un estraneo. E non il padre soltanto: anche Cocò. Le pareva che fosse rimasta lei sola a vivere ancora della vita della casa, o piuttosto a sentire il vuoto di essa, dopo la scomparsa di colei che la riempiva tutta e teneva tutti uniti.
Senza la guida materna, a cui subentra quella interessata, irrispettosa, oVensiva del padre, riesce impossibile a Didì qualsiasi non soltanto sogno ma anche seria previsione del futuro o realizzazione. Le sue velleità oscillano inconcludenti da un estremo all’altro: Senza più guida, senza più nulla di consistente attorno, non sapeva che cosa dovesse fare nella vita, qual via prendere. Un giorno avrebbe voluto essere in un modo, il giorno appresso in un altro. Aveva anche sognato tutta una notte, di ritorno dal teatro, di farsi ballerina, sì, e suora di carità la mattina dopo, quand’erano venute per la questua le monacelle del Boccone del povero. E per un po’ voleva chiudersi tutta in se stessa e andar vagando per il mondo assorta nella scienza teosoWca, come Frau Wenzel, la sua maestra di tedesco e di pianoforte; un po’ voleva dedicarsi all’arte, alla pittura.
2. Un altro traumatico momento di disincanto o di impatto con la realtà Didì lo vive quando «quell’imbecille di Carlino Volpi», venuto invece del padre ammalato a farle lezione di pittura, le dà un bacio a tradimento. Il gesto provoca in lei una forte sensazione di schifo diYcilmente superabile. È il primo contatto con la realtà dell’amore (dell’amore divenuto sesso), degradante e insozzante («S’era stropicciate Wno a sangue le labbra; e ancora a pensarci, istintivamente, si portava una mano alla bocca»), a tal punto da farle perdere il senso della propria unità e corporeità: Ma aveva una bocca veramente? ... Non se la sentiva! Ecco: si stringeva forte forte, con due dita il labbro, e non se lo sentiva. Forse perché era sempre assente da se stessa, lontana?
È lo stesso senso di diradazione o perdita del corpo che Didì comincia a provare subito dopo la morte della madre: aveva cominciato a non sentire più neanche il suo corpo, quasi che anch’esso si fosse diradato, come tutt’intorno la vita della famiglia.
Anche altrove perdita del corpo e diradarsi del gruppo familiare coincidono: Tutta la vita s’era come diradata e fatta vana, con la scomparsa di lei; tutte le cose pareva avessero perduto il loro corpo e fossero diventate ombre.
Perdere o non sentire più il corpo signiWca per Didì non avvertirne più
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la crescita. Lo sviluppo si è infatti fermato. «Il corpo di quella bimba, sì, viveva e si nutriva e cresceva sotto le carezze e cure della mamma»; ma poi ha cessato di svilupparsi rendendo anche Wsiologicamente impossibile il raggiungimento di Zùnica. 3. Un ulteriore traumatico contatto con la realtà Didì lo ha quando, poco prima del viaggio, sa di essere stata coinvolta nel progetto del matrimonio d’interesse: per risollevare le sorti paterne dovrebbe sposare un uomo che ha ventotto anni più di lei, un vecchio insomma, padrone di un vecchio palazzo, ove vivono «due vecchie ottuagenarie», abitudinario cavalcatore di una vecchia cavalla. Si tratta di un’altra degradazione dell’amore, di fronte alla quale Didì prova la stessa sensazione di schifo avvertita nei confronti dell’amore-sesso rappresentato dal tentativo di Carlino Volpi: Sposare per denari un vecchio, uno che aveva ventotto anni più di lei? – Ventotto, no - le aveva detto Cocò, ridendo di quella vampata di sdegno. - Che ventotto, Didì! Ventisette, siamo giusti, ventisette e qualche mese. - Cocò, mi fai schifo! Ecco: schifo! – gli aveva allora gridato Didì, tutta fremente, mostrandogli le pugna.
Quando sale in treno l’adolescente non ha più ragioni per continuare a vivere: ha esaurito la carica vitale; potremmo anche aggiungere, adattando una formula leopardiana, le è apparso il vero. La sognata Zùnica-eden cede il posto alla reale Zùnica-morte; e il viaggio verso il compimento si tramuta in viaggio verso l’annullamento. Il senso di schifo, di repulsione, già avvertito per Carlino Volpi e per il progetto matrimoniale, ora Didì lo ha anche nei confronti di quel che resta del vecchio mondo familiare, padre e fratello che l’accompagnano: Guardando di nuovo il padre e il fratello, Didì provò dentro, a un tratto, una profonda, violenta repulsione. Si erano addormentati entrambi in penosi atteggiamenti. Ridondava al padre da un lato, premuta dal colletto, la Xaccida giogaja sotto il mento. E aveva la fronte imperlata di sudore. E nel trarre il respiro, gli sibilava un po’ il naso.
Tanto più devastante è la repulsione quanto più rapidamente essa ha preso il posto di atteggiamenti sentimentali diversi: per il padre, paura di perderlo a causa della sua debolezza cardiaca («Se d’un tratto egli fosse venuto a mancarle ... Oh Dio, no, perché pensare a questo?»); per il fratello, pena della sua decadenza Wsica («Ora, in treno, Didì guardava il fratello sdrajato sul sedile dirimpetto e si sentiva prendere a mano a mano da una gran pena per lui»). Ciò che dovrebbe rappresentare il nuovo propaga un forte sentore
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di disfacimento e di morte, avendo della seconda l’indistinzione del tempo (eternità) e dello spazio (indiVerenza di «vicino, lontano»): L’ignota attesa, l’irriquietezza del suo spirito, dove, in che si sarebbero fermate? In una cittaduzza morta, in un fosco palazzo antico, accanto a un vecchio marito dai capelli lunghi Fissando gli occhi nel vuoto, Didì vide le stanze di quel fosco palazzo. Non c’era già stata una volta? Sì, in sogno, una volta, per restarvi per sempre ... Una volta? Quando? Ma ora, ecco ... e già da tanto tempo, vi era, e per starvi per sempre, soVocata nella vacuità d’un tempo fatto di minuti eterni, turbato da un ronzìo perpetuo, vicino, lontano, di mosche sonnolente nel sole che dai vetri pinticchiati delle Wnestre sbadigliava sulle nude pareti gialle di vecchiaja, o si stampava polveroso sul pavimento di logori mattoni di terracotta.
Il sonno accomuna gli abitanti del palazzo ai compagni di viaggio di Didì: Oh Dio, e non poter fuggire ... non poter fuggire ... legata com’era, qua, dal sonno di quei due, dalla lentezza enorme di quel treno, uguale alla lentezza del tempo là, nell’antico palazzo, dove non si poteva far altro che dormire, come dormivano quei due...
Se il palazzo si rivela un luogo fosco (cfr. le citazioni che precedono) di sonno-morte, il fosco ci oVre Wnalmente la chiave interpretativa del nome della casata che lo abita, Nigrenti, rovesciando i toni coloristici vivaci con cui Zùnica era sognata dalla bambina. È ovvio pertanto che a Zùnica Didì arrivi con la veste, se non matrimoniale, prematrimoniale, diventata mortuaria, così come era avvenuto per Rorò, deposta nella bara con l’abito da sposa. Il chiarimento del signiWcato di Zùnica comporta di necessità la comprensione delle altre realtà simboliche della novella: il viaggio e la veste lunga. Anch’esse come Zùnica hanno una duplice valenza, positiva e negativa: il viaggio al luogo sognato diventa iter di morte; la veste che permette il viaggio si tramuta in veste mortuaria. Zùnica associa a sé in un rapporto metonimico oltre alla veste anche il viaggio. Se Zùnica è un luogo da conquistare, il viaggio è «una specie di spedizione, un’impresa, qualcosa come la scalata a un castello ben munito in cima a una montagna»; e le vesti lunghe sono «macchine da guerra per quella scalata». La metonimia si ripropone sul piano dell’isotopia della lunghezza: per conquistare il paese lontano occorrono un viaggio lungo e una veste lunga. L’isotopia funziona anche nel momento della massima disillusione di Didì, quando ormai Zùnica le si prospetta come un «fosco palazzo» di morte abitato da «un vecchio marito dai capelli lunghi».
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Le circostanze, gli stati d’animo, le realtà simboliche della Veste lunga si ripropongono in buona parte in Pubertà del 1926, ove la «ragazzina» Dreetta si uccide come Didì nel momento del passaggio all’età superiore. Anche per Dreetta il cambiamento biologico è simboleggiato dal contrasto fra due diversi modi di vestirsi (avverte che «l’abitino alla marinara non è più per lei» e desidererebbe un vestito non più da ragazzina, anche se non ancora il fastidioso «sottanone [...] lungo» che altre indossano) e fra due diversi stati sociali: la vita infantile e il matrimonio; quest’ultimo collocato «lontano», ma lontano nello spazio e non nel tempo (come Zùnica), cioè a Londra o in America. Anche Dreetta contempla le proprie nudità, avverte forte lo schifo, sogna di uscire dalla condizione di adolescente, si uccide per disillusione non appena il sogno pare materializzarsi in una realtà assai diversa: il brutto e disgustoso professore inglese che le impartisce lezioni di lingua. Ma tutti questi elementi, solo astrattamente sovrapponibili a quelli della Veste lunga, sono inseriti in un contesto diverso, ove assumono nuovi signiWcati. Dreetta, infatti, non subisce l’imposizione di un abito non più infantile, ma lo desidera ardentemente, perché avverte l’irrompere prepotente della pubertà nella «fragrante esuberanza del suo corpo» e in particolare del seno. La nonna, invece, le nega quell’abito probabilmente per impedirle di raggiungere l’età in cui la madre e il padre erano scomparsi in modi tenuti segreti, ma forse laidi e truci. Gli stati d’animo non sono limpidi e univoci. Nell’avvertire l’esuberanza del corpo e dei sensi Dreetta guarda le proprie nudità, soprattutto il seno prepotentemente cresciuto, con compiacimento ma anche con fastidio, persino schifo. La liberazione dallo stato di soggezione alla nonna è vista non direttamente sotto forma di matrimonio immediato, ma, con pudore, attraverso lo schermo distanziante di una preventiva adozione, seguita da un viaggio in terra lontana, Londra o l’America, dove soltanto le sarebbe consentito sposarsi. Quando intuisce all’improvviso che l’inameno professore d’inglese che le sta davanti potrebbe essere il marito del sogno, cioè la realizzazione del desiderio, avverte così forte una sensazione di schifo (questa volta non più per la carnalità e sensualità prorompenti) che si toglie la vita, non silenziosamente come Didì, ma con un grido ambiguo che esprime insieme l’oVerta sensuale, anche se impossibile, del proprio corpo e la beVarda consapevolezza della scampata degradazione. Ma ritorniamo alla Veste lunga. In questo testo in cui le realtà hanno senso reale e simbolico, l’onomastica limita la propria valenza alla pura denotazione? La straordinaria simpatia di Pirandello per i nomi signiWcanti, da più parti messa in rilievo, e quanto abbiamo ora acclarato sul
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cognome Nigrenti inducono ad una estensione dell’indagine onomastica. Zùnica, toponimo che dà inizio e Wne al racconto e che ha nella prima sillaba, Zu-, l’ultima consonante e l’ultima vocale dell’alfabeto, connota la meta del percorso, sia essa positiva come la maturazione o negativa come la morte. Gli antroponimi, abbastanza numerosi, danno luogo a sistemi oppositivi a seconda di come i nominati si pongono in relazione con quella meta. Un primo sistema è costituito dalla coppia Nigrenti-Brilla, ‘callida junctura’ dell’inizio del racconto, di un punto cioè in cui essa non ha per il lettore ancora senso. Se il casato Nigrenti si rivelerà successivamente collegato al fosco di Zùnica-realtà, Brilla acquista la sua ragion d’essere in quanto espressione della luce e dei colori di Zùnica-sogno: Fin da bambina, vedendo andare il padre ogni settimana e talvolta anche due volte la settimana a Zùnica, e sentendo parlare del feudo di Ciumìa e delle solfare di monte Diesi e d’altre zolfare e poderi e case, Didì aveva sempre creduto che tutti questi beni fossero del padre, la baronia dei Brilla. Erano, invece, dei marchesi Nigrenti di Zùnica.
Un secondo sistema oppositivo chiama in causa coloro che hanno raggiunto oppure no Zùnica. Da una parte, infatti, si dispongono le nominazioni che potremmo chiamare estese, basate su nome + cognome magari accompagnati dal titolo (Carlino Volpi, Fana Lopes, Tuzza La Dia, il marchese Andrea Nigrenti), su nome + soprannome (Agata, chiamata in casa Titina e da Cocò soprannominata la Virtù), sul solo soprannome o titolo (don Arzigogolo, il Cavaliere); le quali riguardano personaggi già entrati nella maturità o nel mondo, perché nomi cognomi soprannomi titoli sono il segno dell’inserimento in una rete di rapporti sociali deWniti e stabili. Dall’altra parte stanno le nominazioni costruite su duplicazione, con accento Wnale, di una sillaba, come Didì, Rorò, Cocò, appartenenti a coloro che non sono giunti al traguardo, rimanendo incompiuti, inconclusi, immaturi. È il caso delle due amiche adolescenti e persino del fratello di ventisei anni, Cocò, che, nonostante le inclinazioni dissolute, è un essere non cresciuto, non maturo, ma anzi tempo sciupato ed arso. Non è il caso del marchese Andrea, che la sorella chiama conWdenzialmente Nenè, perché l’ipocoristico aVettuoso e di uso domestico è vaniWcato dall’accostamento ossimorico: «È davvero un uomo, Nenè, sai?» e dalle informazioni sul suo passato mondano: da giovane «fece vita» e «corse il mondo». Duplice è invece lo statuto esistenziale ed onomastico della governante di Didì: donna Sabetta in quanto appartiene alla realtà esterna,
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donna Bebé o addirittura donna Be’ (il nome è ridotto ad una sola sillaba), così come è chiamata dalla protagonista, in quanto collegata al chiuso universo infantile di quella e sostituta della madre. Il medesimo contrasto fra nominazione estesa e ipocoristico a duplicazione sillabica si propone per un personaggio di Ciascuno a suo modo, Delia Morello, quando rievoca l’innocenza infantile attraverso il nome con cui la madre soleva chiamarla, Lilì. I nomi a duplicazione sillabica sono signiWcanti anche per altra ragione: segno di incompiutezza è il non-sviluppo dell’unica sillaba, così come la lettera incipitaria, che, essendo ai primi posti dell’alfabeto (Didì, Cocò, Bebé), pone quegli antroponimi a grande distanza da Zùnica. Più vicina la R di Rorò, la quale, infatti, ha toccato immatura la meta e per questo ne è stata respinta. Nota finale Per il testo si è tenuta presente l’ed. delle Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, Milano, Mondadori, 1990, «I Meridiani». Della ricca bibliograWa critica sulle novelle si ricorda almeno il lavoro speciWco di L. Lugnani, L’infanzia felice e altri saggi su Pirandello, Napoli, Liguori, 1986, ove però Zùnica è l’equivalente dell’infanzia felice. Per un’informazione generale sugli studi di Onomastica pirandelliana si rimanda alla nota 22 del capitolo ii. InWne un’avvertenza metodologica. Ribadisco in questa sede quanto risulta dai miei interventi sull’onomastica letteraria: vedo il nome come oggetto d’analisi semiologica perché inserito in un sistema testuale da cui è improduttivo prescindere. Ciò è confermato dal fatto che il medesimo tipo onomastico o il medesimo nome hanno in testi diversi dello stesso autore valenze diverse. Consideriamo solo alcuni fra i diminutivi a raddoppiamento sillabico così frequenti in Pirandello. Nella Vendetta del cane la bambina Rorò è tutta ingenuità e innocenza. Ma si chiama Rorò anche la Wgliastra di Carlandrea Sciaramè, la quale provoca, seppure involontariamente, la morte del patrigno per aver mostrato allo spasimante Rosolino La Rosa le carte segrete che Sciaramè gelosamente conservava (Le medaglie). In questo caso l’ipocoristico Rorò da una parte accomuna, in virtù del richiamo allitterante Ro-, la ragazza al complice; dall’altra segna ironicamente il contrasto fra l’apparente innocenza del personaggio e la perversa conseguenza del suo agire (qualcosa di simile avviene con Nené e Ninì nella novella che da loro prende il nome). Cecè dell’omonimo atto unico del 1913 è un simpatico ed elegante imbroglione di 35 anni: «Per quanto già nel volto un po’ leso dagli stravizi, tuttavia è nel corpo ancora vivacissimo, anzi ir-
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requieto» (dai Connotati dei personaggi); ha dunque qualcosa di simile al Cocò della Veste lunga. Si ricordi che per B. Migliorini, Dal nome proprio al nome comune, Genève, Olschki, 1927, p. 283, l’ipocoristico Cocò signiWca, almeno a Napoli, «bellimbusto». Nella Fedeltà del cane, Giugiù e Lulù sono due uomini ingannati dalla stessa donna: il primo è il marito vanesio e presuntuoso, il secondo l’amante soppiantato, «imbecille, stupido, cieco»; sciocchi nei confronti delle rispettive mogli, Livia e Giannetta, ben altrimenti mature e accorte nel gioco amatorio, e per questo provviste di nome esteso.
vi PSICOLOGIA, ABITO, NOME DI DUE ADOLESCENTI PIRANDELLIANE
L
e due protagoniste delle novelle pirandelliane La veste lunga (1913) e Pubertà (1926) sono caratterizzate da una serie comune di dati anagraWci, psicologici, comportamentali che autorizzano l’accostamento, ai Wni d’una rilettura sinottica, dei loro ritratti. Procedendo in maniera schematicamente didascalica, collochiamo questi dati secondo la successione: 1. età. Didì (La veste lunga) ha nel momento culminante della storia «poco più di sedici anni»; Dreetta attraversa il periodo della «pubertà», come è indicato dal titolo che mette in primo piano, sin sulla soglia del testo, il dato anagraWco. Si rappresenta pertanto, in un caso e nell’altro, il passaggio diYcile dall’infanzia all’età adulta, simboleggiato sul piano dei comportamenti sociali dal mutamento d’abito. A Didì la veste corta infantile è sostituita dalla «veste lunga» (da cui il titolo), nella quale però ella non si sente a suo agio. A Dreetta l’abitino alla marinara non va più bene: vorrebbe qualcosa di adeguato al repentino sviluppo del Wsico; certo non il «sottanone grigio peloso lungo Wn quasi alla noce del piede» indossato dalla Gianchi, che le fa orrore, ma una soluzione graziosa, anche se non facile, «che fosse più da ragazzina e non ancora da grande». Le due adolescenti, dunque, avvertono un forte disagio – sia pure, come vedremo, per ragioni diverse – nei confronti del momento che vivono e dell’abito che sono costrette a indossare: la veste lunga è prematura per Didì; l’abitino alla marinara ormai inadeguato per Dreetta. Si direbbe che manca all’una e all’altra, spinte ai poli opposti, una tranquillizzante temporanea stazione intermedia. La metafora itinerale è suggerita dalla presenza nella prima novella del viaggio da Palermo a Zùnica, simbolo del passaggio dall’una all’altra età o condizione. 2. Crisi psicologica prodotta dalla diYcoltà d’adattamento ad un mutamento improvviso. A Didì la veste lunga è fatta indossare per il viaggio che ella compie, ancora Wsicamente e psicologicamente immatura, in vista del matrimonio d’interesse organizzato dal padre col maturo erede di una vecchia casata nobiliare. Dreetta ha «smanie più di nausea che d’ebrezza: per le tante cose segrete e ingombranti che quell’improvvisa e violenta crescenza le aveva d’un tratto rivelate». La crisi si accompagna nei due casi a movimenti psicologici contrapposti di
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3. Rifugio e fuga, attrazione e repulsione, sogno e schifo. Per Didì il sogno ha per oggetto Zùnica, che rappresenta l’eden delle conquiste adulte vagheggiato sin dall’infanzia; lo «schifo» e la «repulsione» riguardano le meschine realizzazioni di quel sogno, e in particolare del suo aspetto più signiWcativo, l’amore. Questo le si presenta, infatti, degradato prima nella violenza impudente di Carlino Volpi, che, venuto per darle lezioni di pittura, la bacia all’improvviso, poi nel matrimonio d’interesse impostole dal padre (anche lui alla Wne guardato con «repulsione») con l’anziano che vive in maniera inamena in compagnia di vecchi in un vecchio palazzo. Per Dreetta il «ribrezzo» e lo «schifo» riguardano tutto ciò che è manifestazione improvvisa della sessualità: dapprima nel corpo, come l’odore dei capelli, delle ascelle, della cipria intrisa di sudore, e il prorompere ingombrante del seno (qui si caratterizzano come ansie dismorfofobiche, per usare la terminologia dei moderni psicologi); in secondo luogo negli sguardi compiaciuti degli uomini per la strada; inWne nel momentaneo interesse che ella prova per la mascolinità un po’ bestiale del brutto professore d’inglese. Il sogno invece ha per oggetto l’uscita dalla casa della nonna e il raggiungimento della libertà in virtù non di un immediato matrimonio, perché questa soluzione le appare vergognosamente prematura e improponibile, ma di un’adozione da parte di qualche vecchio signore inglese o americano (si noti la forma di copertura del desiderio) che per il momento la porti via a Londra o in America per poi darla in sposa «a un nipote o al Wglio di un amico». La crisi adolescenziale è altresì accentuata da: 4. Mancanza dei genitori o almeno, nel primo caso, della madre. Didì ha perso la madre, che rappresentava per lei il punto di riferimento obbligato, la guida e il centro uniWcatore della famiglia, tre anni prima del viaggio a Zùnica. Dreetta non ha nemmeno conosciuto i genitori, di cui nessuno le ha parlato. Essi sono scomparsi nel nulla lasciando soltanto un’aura di «mistero [...] forse laido e truce» sulla loro Wne. Se per la prima adolescente la morte della madre corrisponde ad una assenza dolorosa, per la seconda il mistero sulla Wne dei genitori equivale ad una presenza ingombrante; 5. Contemplazione delle proprie nudità allo specchio. Didì, tirandosi su la veste lunga che si prova prima del viaggio, osserva le gambe ancora infantili, e poi le riosserva «impalate, stecchite» sotto le coperte, nel vano tentativo di trovare qualche possibilità di competizione con l’antica Wdanzata del marchese Andrea, la bella Fana Lopez. Dreetta con compiacimento e disgusto considera il proprio Wsico
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maturo, così come, facendo Wnta di doversi inchinare per raccattare qualcosa, sbircia nella scollatura il seno prorompente. Nell’una e nell’altra novella lo specchio è quello dell’armadio della camera, e il momento è quello serale in cui le adolescenti si spogliano per andare a letto: a conferma, se ce ne fosse bisogno, dell’identità del motivo. 6. La manifestazione ultima e più drammatica della crisi delle due adolescenti è la repulsione per un uomo anziano e squallido, in cui altri vedono, nel caso di Didì, o l’interessata stessa intravede, sia pure per un attimo, come nel caso di Dreetta, un marito. I due uomini hanno in comune, oltre alla maturità e alla mancanza di attrattiva, un altro aspetto: il fatto che realizzano in modi meschini il sogno di cose lontane delle due adolescenti. 7. Il suicidio come necessaria conclusione della vicenda. Esso fa di Didì e Dreetta delle creature incompiute. Se vogliamo, le due vicende si richiamano per un altro elemento: 8. La presenza di un’amica o coetanea in cui Didì e Dreetta vedono riXettersi, sia pure parzialmente, il senso della propria esistenza. Nel primo caso Rorò, che è arrivata, sì, alla meta della maturità-matrimonio, ma ne è stata subito respinta, anticipando in parte la soluzione di Didì; nell’altro la Gianchi, che, contrariamente a Dreetta, è riuscita ad abbandonare l’abito infantile per indossare però una veste lunga grigia, pelosa, che, impastoiandola, non costituisce fattore di liberazione. Si tenga presente che il tema del confronto con i coetanei è un topos della letteratura sulla psicologia dell’adolescenza. Gli elementi su elencati si inseriscono nelle due novelle con sostanziali diVerenze, come risulta dal discorso che precede. Cerchiamo di individuarne altre, richiamando con apice lo schema numerico formalizzato, senza però seguirne l’ordine. 2’. La crisi adolescenziale di Didì ha il culmine nello scontro fra sogno di Zùnica e realizzazione del tutto inadeguata del sogno, fra aspettativa infantile della maturità e dell’amore e realtà brutale. Si sono già individuate nel capitolo precedente le fasi successive del disincanto, l’ultima delle quali vissuta in treno accanto al padre e al fratello che la conducono al sacriWcio di uno squallido matrimonio d’interesse. Dunque ciò che infrange la capacità di resistere di Didì sono lo schifo e la paura per le brutte realizzazioni del sogno. Per Dreetta la crisi s’identiWca, invece, con lo sviluppo repentino ed eccessivo della femminilità. I suoi problemi, di carattere prevalentemente Wsiologico, la colgono impreparata. La costrizione soVocante e
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il senso di chiusura che ella patisce nella casa della nonna sono l’equivalente ambientale della costrizione nell’abito infantile. 3’. Didì avverte la colpa negli altri, Carlino Volpi, il padre, il marchese Andrea, che intendono sopraVarla distruggendo il suo sogno infantile. La repulsione e lo schifo si rivolgono pertanto a loro. Dreetta sente, come abbiamo visto, «ribrezzo» per il corpo, o meglio per lo sviluppo del corpo, che non ha ancora imparato a conoscere in tutti i suoi segreti: «provava un irritante ribrezzo, raYgurandosi nell’incertezza, senza volerlo, qualche intimo segreto del suo corpo, come se lo conosceva». 5’. Didì si guarda per constatare la sproporzione fra l’abito lungo impostole e le gambette infantili: cioè la violenza sopraVattrice degli altri. Dreetta si osserva per cogliere la sproporzione fra il corpo maturo e l’abito infantile: ovvero la prevalente violenza della natura. 1’. Sappiamo che Didì non desidera abbandonare la veste corta per quella lunga, mentre Dreetta vorrebbe lasciare l’abitino alla marinara per indossare qualcosa di adeguato al Wsico sviluppato. La veste lunga della Gianchi le appare brutta e soVocante: pertanto inaccettabile. Ma tra l’abito infantile e la veste da adulti non si intravedono vie intermedie. Allora che cosa vuole Dreetta? Una soluzione inesistente? Segno questo dell’incapacità del personaggio a trovare compromessi, ad adattarsi alle circostanze, e perciò premonizione di una sconWtta necessaria? Di diverso segno è anche nelle due novelle l’opposizione dei familiari ai legittimi desideri delle adolescenti. Il padre fa indossare a Didì la veste lunga perché la vuole grande e pronta al matrimonio; la nonna non vuol saperne di far abbandonare a Dreetta l’abitino alla marinara («l’abitino alla marinara non era più per lei: la nonna avrebbe dovuto capirlo»), perché vorrebbe conservarla sempre piccola e non farle raggiungere quell’età in cui la madre ha compiuto qualcosa di «laido e truce» da tenere segreto ad ogni costo. Per questo la nonna di Pubertà, «sempre vestita di nero», è la vestale, potremmo anche dire l’icona di un mondo chiuso secondo due direttrici: interno-esterno, onde impedire che il segreto fuoriesca: Sempre vestita di nero, aggobbita, se lo teneva stretto con tutt’e due le braccia dentro il petto, quel mistero: le mani sotto la gola: l’una a pugno chiuso; l’altra deformata dall’artrite, su quel pugno;
e esterno-interno, onde evitare che qualcosa – non solo la luce – possa penetrare a sconvolgere l’assetto di una realtà che si vuole conservare immobile: D’estate, nel pomeriggio, per ordine della nonna tutte le Wnestre del villino erano tenute ermeticamente chiuse. Dreetta, s’intende, le avrebbe volute tut-
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te spalancate. Le piaceva tanto, perciò, che il sole prepotentissimo, in quell’ombra voluta, ch’era quasi bujo, trovasse pur modo di penetrare.
3’. Il sogno di Didì, cullato sin dall’infanzia, riguarda un paese «lontano lontano, ma più nel tempo che nello spazio», un paese che realizzi, come abbiamo visto, le aspettative di maturazione della fanciulla. Al suo lontano nel tempo si contrappone il lontano nello spazio di Dreetta, identiWcato con l’Inghilterra o, addirittura, con l’America, dove un benefattore di sicuro aYdamento e perciò anziano dovrebbe portarla per farla sposare con un giovane. Le disillusioni provengono, pertanto, per le due fanciulle dalle due diverse lontananze: a Zùnica, proiettata nella lontananza temporale, appartiene l’inameno Andrea Nigrenti; dall’Inghilterra, proiettata nella lontananza spaziale, proviene il brutto Mr. Walston. 6’. Il tempo e lo spazio sono anche le categorie su cui pare impostarsi il rapporto contrastivo che vige all’interno delle coppie Didì-Andrea Nigrenti, Dreetta-Mr. Walston. Nel primo caso il contrasto insopportabile è di misure temporali: giovinetta vs vecchio, evidenziato in maniera assai precisa sin dall’inizio: Sposare per denari un vecchio, uno che aveva ventotto anni più di lei? - Ventotto, no, – le aveva detto Cocò ridendo di quella vampata di sdegno. – Che ventotto, Didì! Ventisette, siamo giusti, ventisette e qualche mese.
Nel secondo il contrasto è di misure spaziali: piccola vs grosso, enorme: un uomo di così grossa corporatura [...] Pareva più enorme, lì in piedi, presso il gracile tavolinetto dorato del salotto, davanti la Wnestra, dove di solito le impartiva la lezione [...] Sorrideva senza neppure sapere d’avere arrossito nell’alzarsi all’entrata della sua piccola alunna [...] Ora avvenne, che così grosso com’era [...].
Quell’uomo grosso e ingombrante ha per di più una sensibilità ottusa incapace di percepire il dramma di Dreetta. Pertanto se il cognome Nigrenti evoca il fosco e la morte, il cognome Walston non può non richiamare nelle sue due parti secondo la lingua inglese (whal + stone) l’idea di una realtà insuperabile, dura, refrattaria a qualsiasi possibilità di contatto e comprensione. 4’. La morte della madre, avvenuta tre anni prima del viaggio a Zùnica, non può avere per Didì lo stesso peso che ha per Dreetta il fatto di non aver conosciuto i genitori. Didì, infatti, ha sentito nell’infanzia l’inXusso di un modello positivo, di una Wgura rassicurante e uniWcatrice della famiglia. La sua crisi comincia proprio da quella scomparsa, a
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cui la fanciulla pensa di porre rimedio tentando di rievocare, nel modo che può, la defunta: Tuttora Didì ne sentiva un desiderio angoscioso, che la faceva piangere insaziabilmente, inginocchiata innanzi a un’antica cassapanca, ov’erano conservate le vesti della madre. L’alito della famiglia era racchiuso là, in quella cassapanca antica, di noce, lunga e stretta come una bara [...].
Il padre, interessato e sopraVattore, è il modello negativo da evitare. 7’. Uccidendosi con il farmaco del padre Didì Wnisce per gettare, forse inconsapevolmente, su di lui il peso della propria sconWtta. 4’. Dreetta, che non ha mai avuto accanto a sé né la Wgura materna né quella paterna, vive sino all’ultimo in un amalgama indiVerenziato di mascolino e femminino, di cui l’abito alla marinara, tendenzialmente unisex, è il correlativo oggettivo. La femminilità Wsica che prevale all’improvviso su quell’indiVerenziato la turba perché non trova un corrispettivo sul piano psicologico. Quello che gli studiosi anglosassoni chiamano lo spurt of growth contribuisce a creare una crisi d’identità. La parte femminile e quella maschile si aYancano estranee, anzi ostili. Per questa scissione della personalità Dreetta, come polo maschile, sbircia le proprie nudità e come polo femminile prova disgusto. Sono così Wssate le parti del corteggiamento: il maschio guarda; la femmina è guardata e abbassa gli occhi o prova disgusto: se un uomo la guardava per via, abbassava subito gli occhi [...] Turbata con gli occhi bassi, provava un irritante ribrezzo senza più guardare, si sentiva guardata.
Dreetta giunge persino a sdoppiarsi allo specchio in un duetto maschio guardone e lusingatore-femmina guardata e ironica: andava avanti allo specchio; si compiaceva anche della promettente curva dei Wanchi: -Seducentissima signorina! E scoppiava a ridere.
7’. Il suicidio di Dreetta è un modo di colpevolizzare o punire non gli altri, ma se stessa o, per meglio dire, il proprio corpo, responsabile, con l’«improvvisa e violenta crescenza», di sviluppi incontrollati. Quel corpo ella lo fa precipitare dall’alto distruggendolo: «orribile tonfo di quel corpo che s’abbatteva sfragellandosi ai suoi piedi». È attualmente nozione vulgata della psicologia dell’adolescenza il fatto che fra le possibili cause di suicidio sia da collocare la mancata corrispondenza tra identità sessuale e sesso biologico. Se il senso dell’atto compiuto da Dreetta è chiaro, fortemente ambiguo è il grido che l’accompagna «Professore, mi prenda!», che può in-
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dicare sia l’avvertimento ad essere aVerrata e salvata dato in un momento estremo di pentimento sia l’oVerta beVarda di sé accompagnata dal «riso» della «follia». 8’. Uno sguardo ora alle vicende che nelle due novelle sono secondarie e parallele a quelle delle protagoniste: la vicenda di Rorò per Didì e quella della Gianchi per Dreetta. La prima anticipa i tratti salienti della storia di Didì: l’incompiutezza Wsica, l’abito lungo imposto per il matrimonio, le gambe scoperte sotto l’abito, la morte; in modo tale da costituire per Didì un modello doloroso da imitare, un gouVre avvolgente e risucchiante. Ciò è chiaro al lettore già a metà del racconto: Poi s’era tirata su la veste davanti per rivedersi quel tanto, pochino pochino, delle gambe che aveva Wnora mostrato, e subito aveva pensato alle gambe di Rorò Campi, morta. A letto, aveva voluto riguardarsele sotto le coperte: impalate, stecchite; immaginandosi morta anche lei, dentro una bara, con l’abito da sposa, dopo il matrimonio col marchese Andrea dai capelli lunghi...
Per Dreetta, invece, la Gianchi col suo «sottanone grigio peloso lungo Wn quasi alla noce del piede», che impastoia le gambe, è un esempio detestabile («che orrore, poverina!») da evitare. Il lettore può intuire sin dall’incipit che Dreetta il sottanone non lo indosserà mai. I nomi delle due protagoniste sono signiWcanti in quanto rispecchiano gli aspetti essenziali delle loro personalità. Didì (si ripropongono alcune considerazioni del capitolo precedente) è un ipocoristico a duplicazione sillabica, come altri della stessa novella, e si adegua alla personalità di colei che non è giunta al traguardo rimanendo incompiuta, inconclusa, immatura. Si pensi all’indicativo confronto che l’adolescente istituisce, restando sul piano dell’immaturità Wsica, con la bella e matura Fana Lopez, che non per niente è provvista di nominazione intera: Dopo il gesto espressivo, con cui Cocò aveva descritto la bellezza di colei ... come si chiamava? Fana ... Fana Lopez ... – si era veduta, lì nello specchio, troppo piccola, magrolina, miserina...
Ma Didì è signiWcante per una seconda ragione: segno di incompiutezza è anche, come per altri ipocoristici a duplicazione sillabica dello stesso racconto, la lettera incipitaria D-, che, essendo ai primi posti dell’alfabeto, pone quel nome a grande distanza dalla meta Zùnica, che ha per lettere iniziali l’ultima consonante e l’ultima vocale (Zu-). Nella seconda novella, invece, la protagonista ha due nominazioni, Dreetta e Dreina, primo segno di una personalità scissa e in conXitto. Ella si riconosce nel nome Dreetta e così vuole essere chiamata; la nonna, invece, la chiama Dreina nel tentativo, abbastanza evidente, di fer-
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mare almeno nel nome la sua crescita, lasciandola «ragazzina», e impedirle di raggiungere l’età adulta, che è quella in cui la madre e il padre hanno compiuto l’azione sozza da nascondere. Anche sull’alternativa Dreetta-Dreina si combatte pertanto lo scontro fra nipote e nonna: La nonna, per farla stizzire, la chiamava al solito Dreina e non Dreetta come lei voleva esser chiamata. Bene: sarebbe discesa, quando Wnalmente alla nonna sarebbe venuto in mente di chiamarla Dreetta e non Dreina. - Dreetta! Dreetta! - Eccomi, nonna. - Eh, santo Dio. Fai aspettare il professore. - Scusami. Ho sentito ora.
Ma anche il solo nome Dreetta testimonia una scissione, questa volta interiore. Su una base quasi sicuramente maschile (Andrea) si innesta un diminutivo femminile in -etta, con la stessa terminazione – guarda caso! – della parte unisex dell’abito, la «giubbetta» alla marinara, che veste sino all’ultimo l’adolescente dalla personalità non deWnita. Bibliografia essenziale La novella La veste lunga è già stata presa in esame in maniera più articolata, nel capitolo precedente. Per Pubertà, che dà maggiore spazio alla presentazione dei problemi tipici della pubertà femminile, si indica uno dei tanti testi sulla psicologia di quell’età : Psicologia dell’adolescenza, a cura di A. Palmonari, Bologna, il Mulino, 1993 ; e, in particolare sulle dolorose conseguenze di una non raggiunta identità e coesione sessuale, Y. Cohen, Gender identity conXicts in adolescents as motivation for suicide, « Adolescence », ci, pp. 19-29.
vii MISURA E NUMERO NELL’ONOMASTICA DI ALCUNE NOVELLE PIRANDELLIANE
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criveva Pirandello nel 1895 che «per l’artista il nome [...] deve personiWcare il tipo da lui creato e innanzi a lui esistente come persona viva», cioè tradurre, in virtù della potenzialità di cui è dotato, «Wsionomia e caratteri» del personaggio. 1 Tale vis connotativa si esplica sui piani del signiWcato metaforico, del valore etimologico, della sedimentazione storico-culturale, del richiamo intertestuale, della collocazione nel testo, della qualità del signiWcante considerato per intero o nelle sue parti (lettere, fonemi, sillabe) ..., inWne (e l’‘inWne’ interrompe un elenco che non sarebbe diYcile prolungare) su quello della quantità e durata dei signiWcanti. È chiaro, infatti (si fanno qui pochissimi esempi), che la Pia di Dante esprime la modestia e delicatezza del comportamento anche con la brevità e leggerezza dell’autonominazione che appare come sussurrata: «Ricorditi di me che son la Pia»; e che Omberto ha basato l’arroganza di schiatta di cui ora è pentito su quel nome paterno che si distende ampio e sonoro nel verso «Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre». In altri casi la connotazione è aYdata alla prolungata ripetizione di suoni o alla quantità delle parti che compongono il nome, in un surplus di nominazione allitterante che facilmente scade da elazione in caricatura: come avviene per messer Fabrizio Fabroni da Fabriano, scriteriato dilapidatore del patrimonio nell’Arcadia in Brenta di Goldoni, o per Donna Fabia Fabron De-Fabrian del Porta. Queste pagine prendono in esame, in alcune novelle pirandelliane, il potere che ha la nominazione di sottolineare, in virtù dell’estensione data dalla durata e dal numero delle parti, i diVerenti livelli d’importanza e autorevolezza dei personaggi. Un’attenzione dunque alla quantità più che alla qualità, alla misura più che alle valenze metaforiche e ai signiWcati del nome. L’avvertenza che precede mira a sgombrare il campo da un possibile equivoco, quello per cui ogni nominazione sesquipedale signiWchi solo 1. Cfr. Su “Le Vergini delle rocce” di Gabriele D’Annunzio, in L. Pirandello, Verga e D’Annunzio, a cura di M. Onofri, Roma, Salerno Editrice, 1993, p. 97.
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in base alla sua estensione. In realtà le vie del segno sono inWnite (o almeno molteplici), sempre funzionali al testo, nel nostro caso alla singola novella. Faccio l’esempio di Tirocinio, in cui Casa Castiglione Montroni è presentata come una «tra le più rispettabili e rispettate» di Milano. Il cognome doppio serve però non tanto all’innalzamento del casato, che non ha alcun peso nel racconto, quanto piuttosto, scisso nelle componenti, alla caratterizzazione, per via di senso, dei due personaggi che ne fanno parte: l’«enorme mammifero in gonnella», l’«orribile mostro» in esposizione sia in «botte» al Corso sia sul palcoscenico del teatro, cioè la cantante Pompea Montroni, a cui è attribuito il solo cognome che connota contemporaneamente mostruosità ed esposizione di sé, qualcosa che va da monstre a montrer; e il legittimo consorte, «custode geloso della illibatezza della propria casa» e lui stesso «d’una illibatezza da fare spavento», Michelangelo Castiglione, fregiato del solo cognome connotante, con la prima sezione, il culto dell’illibatezza.2 La vis caratterizzante del nome risiede, anche per il terzo personaggio, il piccolo e panciutello marchese Mino Colli che forma il terzo lato del triangolo amoroso, nel signiWcato più che nel signiWcante onomastico, se è vero che Mino Colli è una scomposizione di «minuscolo». 3 Cominciamo, nell’esame dell’estensione del nome, da un racconto che già nel titolo suggerisce o addirittura impone un criterio di lettura attento alla misura degli oggetti della narrazione, Pari. Ne sono protagonisti due amici indivisibili la cui ‘parità’ si determina sia come identità di cose, luoghi, tempi, sia come diversità complementare. Essi, infatti, per un verso sono due entità sovrapponibili, per l’altro si integrano a comporre un’unità sola. Sul piano dell’identità sta una serie cospicua di dati esistenziali e comportamentali qui elencati nell’ordine in cui appaiono nel testo: gli amici sono contemporaneamente entrati per concorso come vice-segretari al Ministero dei Lavori pubblici; sono poi stati insieme promossi segretari di terza, seconda e prima classe; coabitano in due camere ammobiliate al Babuino; hanno vita e passatempi comuni; sono entrambi estimatori delle arti belle; hanno fratelli minori che aiutano negli studi universitari; alla stessa ora si alzano, prendono il caVè, entrano al Ministero; dove lavorano nella stessa stanza l’uno di fronte all’altro; a mezzogiorno desinano nella stessa trattoria; insieme sono proposti per la croce di cavaliere... 2. Sono trasparentemente espressivi nella stessa direzione dei cognomi anche i nomi dei due coniugi, Pompea e Michelangelo. 3. ‘Minuscolo’ è aggettivo usato per caratterizzare il piccolissimo Cosimo Todi della novella Un matrimonio ideale, che sarà ricordata in seguito.
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Ma la medesimezza del giogo che li appaia sul piano degli accadimenti e dei comportamenti non esclude che, per quanto concerne più strettamente la caratterizzazione della persona (abbigliamento, dati Wsici e psicologici), essi si presentino, come abbiamo detto, diversi e complementari. La virata descrittiva si ha al culmine della presentazione dell’identità: e insomma, come appajati sotto il medesimo giogo, conducevano una vita aVatto uguale [...] Quantunque si servissero dallo stesso sarto, pagato puntualmente a tanto al mese, non vestivano allo stesso modo. Spesso Bartolo Barbi sceglieva la stoVa per l’abito di Guido Pagliocco e viceversa; giudiziosamente; perché sapevano bene quale sarebbe stata più adatta all’uno, quale all’altro. Non erano già come due gocce d’acqua in tutto.
Si servono dunque dallo stesso sarto, ma non vestono allo stesso modo, perché scelgono l’uno per l’altro stoVe evidentemente diverse, adatte a quel tanto di diVerenziato che è in loro. Ecco il momento in cui la parità-identità volta in peculiarità e in complementarità. Se l’uno, infatti, è «alto di statura, magro, di scarso pelo rossiccio, pallido in volto e lentigginoso, lungo di braccia, un po’ dinoccolato»; l’altro, invece, è «robusto e sveglio, tozzo, bruno, bene azzampato [...] e ricciuto»; se il primo è più intelligente, il secondo è più bello. Sì che insieme, come non manca di esplicitare l’autore, vagheggiavano «uno stesso tipo ideale, che s’ingegnavano di raggiungere e d’incarnare in due, ponendovi ciascuno dal canto suo quel tanto che mancava all’altro»; e anche: apparivano «così uniti idealmente [...] che quasi formavano un uomo solo, da amare insieme». Il tema trattato in questa novella è, col sovrappiù di umorismo caricaturale che contraddistingue Pirandello, un topos dell’universo culturale di tutti i tempi a cominciare dalla letteratura classica e poi medievale, attraverso l’epica rinascimentale, sino a giungere alla coscienza comune contemporanea, nella quale è stato individuato anche da un articolo d’attualità recentemente apparso su un settimanale femminile. 4 Ritornando a Pirandello, quando i due pari, che allo stesso modo considerano il «feminismo» come espediente a cui ricorrono le donne per trovare più facilmente marito e perciò insieme hanno da un pezzo chiuso la porta del cuore al gentil sesso, sono avviati al matrimonio
4. L’articolo, su Fruttero e Lucentini, dal titolo Due amici per sempre è apparso su «Donna moderna», settimanale Mondadori del 21 agosto 2002, p. 29.
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con persuasiva autorità dal loro superiore diretto e dalla consorte impicciona, essi sposano due amiche che ripresentano, con perfetta simmetria, identità di eventi, tempi e luoghi e diversità-complementarità di aspetto Wsico. Si formano pertanto due coppie pari, ognuna delle quali basata sulla perfetta integrazione di elementi complementari: la bionda va col bruno, che è più bello dell’altro; la bruna, invece, con quello che, se non proprio biondo, è almeno rossiccio e più intelligente. Le nominazioni dei quattro componenti delle coppie si collocano in un quadro di generica parità in quanto tutte formate da nome e cognome semplici, uniti in nessi pentasillabici: Bartolo Barbi / Guido Pagliocco // Giulia Montà / Gemma Gandini. Possiamo aggiungere, forse senza timore di incorrere in eccessi interpretativi, che anche sotto il proWlo della nominazione le coppie integrano elementi diversi e complementari, confermando così la parità raggiunta sul piano delle res, in un gioco di allitterazione presente–allitterazione assente. Così Bartolo Barbi è con Giulia Montà e Guido Pagliocco con Gemma Gandini. Con il raggiunto equilibrio delle diversità gli eventi si troverebbero in una situazione di stallo, la vicenda narrativa sarebbe bloccata, se non intervenisse un elemento di rottura, introdotto dall’invidia femminile. Essa fa aggio, anche se dosata in piccola quantità, sull’amore che aveva sino ad allora regnato fra gli uomini. Giulia Montà, infatti, moglie di Bartolo Barbi, prova «segretamente, in fondo all’anima, una punta d’invidia non confessata neppure a se stessa, per quel tanto che del tipo ideale Barbi-Pagliocco toccava a Gemma Gandini», sente cioè la propria unione col Barbi in perdita per una minore dose di animalità maschile; mentre Gemma Gandini sente la propria unione col Pagliocco in perdita per una minore dose di intellettualità maschile. Le perdite sono subito compensate, in nome della parità e dell’equilibrio, dal tradimento delle donne coi giovani fratelli dei due mariti: la moglie che ha più bisogno di animalità va col giovane «più tacchinotto e violento», quella che richiede una maggiore intellettualità va col giovane «più intelligente». La virata narrativa fa entrare in gioco anche il sistema delle nominazioni. I due giovani, che assomigliano moltissimo ai fratelli più grandi di cui riproducono i tratti caratterizzanti (per l’uno Wsici, per l’altro intellettuali) accentuandoli, hanno i nomi di Attilio Pagliocco e Federico Barbi, in tutto simili, per assenza di signiWcati metaforici o etimologici, a quelli dei fratelli maggiori, ma diVerenti per estensione, perché di misura esa ed eptasillabica. La misura è dunque l’elemento della nominazione che evidenzia uguaglianze e diVerenze fra i sei personaggi e struttura il tema fondamentale della parità ricercata. Essa si rivela caratterizzante anche per
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un altro personaggio del testo, il capo-divisione dei due amici, e perciò strutturante per un secondo, anche se meno importante motivo, quello del rapporto esistente nell’ambiente burocratico romano, in particolare ministeriale, fra livelli superiori ed inferiori. Il superiore, che si è dato da fare con la consorte per sottrarre i sottoposti alla tranquilla condizione di scapoli, entra in scena con una nominazione sesquipedale che assomma, rinsaldandole con l’artiWcio dell’allitterazione, grado burocratico, titolo onoriWco, cognome doppio: «il loro Capo-divisione Commendator Cargiuri-Crestari». L’ambiente ministeriale, con le diversità di livello polarizzate negli estremi del superiore e dell’inferiore, e la nominazione diVerenziata in cognome singolo e cognome doppio sono contemporaneamente presenti in due altre novelle, L’illustre estinto e Va bene. Con le diVerenze però, rispetto a Pari, che in esse l’attenzione ai rapporti superiore-inferiore assume maggiore importanza e che la misura doppia della nominazione è in rapporto espressivo, e perciò ironicamente antifrastico, con la minorità e addirittura insigniWcanza del personaggio di rango inferiore. Si ricordi che per antifrasi è nominata anche la protagonista in Piuma: Amina Berardi del fu Francesco, vedova Vismara, «lungo nome goVo» per la piccolezza e leggerezza di chi lo porta. 5 Nell’Illustre estinto sono protagonisti il ministro dei lavori pubblici di nome Costanzo Ramberti e il suo segretario particolare cav. SpigulaNonnis. All’inferiore, che è oltretutto Wsicamente insigniWcante, un «uomo squallido, allampanato, miope», spetta dunque il cognome doppio. La novella s’incentra sulla parallela ma diversa degradazione dei due personaggi. Per il ministro, gravemente ammalato, si tratta di spoliazione, restringimento, deminutio nell’autorevolezza e nel Wsico. L’autorità e il prestigio sono venuti meno perché Costanzo Ramberti è stato invitato dal Presidente del Consiglio a lasciare il portafoglio; relegato in camera, «se ne sta ormai tutto ristretto in sé, vietandosi anche d’allungare lo sguardo oltre le sponde del letto», «raccolto, rimpiccolito entro quel limite angustissimo». La degradazione estrema si veriWca dopo la morte e per vari motivi: la cancellazione dei tratti del volto, tumefatto dalle iniezioni di formalina praticate al cadavere; il «borboglio lugubre, squacquarato [...] che intronò e atterrì tutti gli astanti» 5. Ciò non toglie che Amina Berardi del fu Francesco, vedova Vismara alluda direttamente alla lunghezza, fastidiosa per tutti, di un vita ridotta al lumicino ma incapace di esaurirsi. Quella nominazione ha anche altre valenze: occorrerebbe a metterle in luce un esame particolareggiato della novella.
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della digestio post mortem; lo scambio del carro funebre con quello che porta la salma di un povero seminarista, per cui l’«illustre estinto» arriva con ritardo e di nascosto al paese d’origine in un «carro nudo e polveroso [...] senza un Wore, senza un nastro: povera spoglia [...]» e non riceve nessuna delle accoglienze trionfali che gli erano state preparate. Per il segretario particolare, invece, che già in partenza si trova al livello basso dell’apparenza Wsica e della gerarchia ministeriale, è solo possibile una deminutio onomastica che riduca in un certo qual modo la nominazione ingombrante. Nel necrologio del ministro che appare su uno dei giornali della sera, il cognome di colui che lo ha assistito sino alla Wne con amore e dedizione appare decurtato di una lettera: «Peccato che il Nonnis del suo cognome fosse stampato con un’enne sola!». 7 A questo punto non è facile sottrarsi alla tentazione di collegare l’altra parte del cognome, Spigula, al verbo ‘spigolare’ nel senso di ‘cogliere singolarmente le spighe di un campo’, vedendovi un richiamo alla sottrazione di una delle tre ‘n’ di Nonnis. 8 La riduzione Nonnis-Nonis può agire però anche sul piano del signiWcato, in quanto Nonis richiama l’idea di negazione, annullamento. Il già misero segretario particolare privo del superiore diventa un ‘nessuno’? 6
6. Il motivo della digestio post mortem appariva già nella novella giovanile di D’Annunzio La veglia funebre (1885). Ma quanto diversa è la sua funzione nei due testi! Nella novella pirandelliana, come sappiamo, è elemento di degradazione dell’illustre estinto, tant’è vero che l’inconveniente si veriWca «proprio nel momento più solenne, allorché il Presidente della Camera e quello del Consiglio con tutti i ministri e i sotto-segretarii e i deputati e la folla dei curiosi entrarono nella camera ardente, a capo scoperto». Rientra anche nel quadro delle immaginazioni del morente clamorosamente contraddette dai fatti post mortem: dalla deWnizione del Wlosofo tedesco secondo cui l’anima è «essenza che si rende in noi cosciente di se stessa» si passa, infatti, alla deWnizione data dal medico di un’altra essenza, il «borboglìo lugubre, squacquerato nel ventre del cadavere». Nella novella di D’Annunzio, invece, il «gorgoglìo roco» provoca orrore nella moglie del defunto facilitando e insieme ritardando, nella suggestiva notte di giugno, l’incontro amoroso col giovane cognato. Sulle vicende della digestio post mortem nella sola novella pirandelliana, cfr. S. Zappulla Muscarà, In margine ad una novella sconosciuta dell’ultimo Pirandello, in Le novelle di Pirandello, Atti del 6° Convegno internazionale di Studi pirandelliani raccolti e ordinati da S. Milioto, Agrigento, Ediz. del Centro nazionale di Studi pirandelliani, 1980. 7. Si consideri l’importanza attribuita da Zola al raddoppiamento di consonante nella scelta, per un personaggio de La Curée, del nome Saccard, «avec deux c». H. Guillemin, Présentation des Rougon-Macquart, Paris, 1964, p. 34, chiarisce ulteriormente ciò che è detto nel testo zoliano aVermando che le due c contribuiscono «à une impression d’ampleur». 8. Diversa l’interpretazione del cognome Spigula proposta da E. Caffarelli, Il cavalier Spigula-Nonnis dell’ Illustre estinto di Luigi Pirandello: un caso di memoria familiare?, « RIOn», v, 1, 1999, p. 155: «nome parlante per via del Wsico allampanato del personaggio».
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In virtù della perdita di consonante il personaggio rientrerebbe allora nella categoria dei tanti ‘nessuno’, per marchio d’origine o vicende biograWche, delle letterature moderne. Anche se le ultime considerazioni dovessero apparire un po’ ardite, credo si possa tranquillamente accettare l’idea che la nominazione è essenziale per Wssare le diVerenze fra il ministro e il suo segretario: al Nonnis depauperato si contrappone il Costanzo Ramberti, costante nella valenza esteriormente onomastica (come il personaggio lo è nel carattere: 9 Costanzo è un altro nome allusivo?), anzi arricchito dal passaggio da antroponimo a odonimo, dato che il Municipio del paese d’origine stabilisce di dedicare all’illustre estinto «una piazza, quella della Posta, ribattezzata col nome di lui». In Va bene il protagonista, già misero professore di ginnasio inferiore e poi, con ulteriore abbassamento di prestigio (gli scolaretti che facevano gazzarra in classe in fondo gli volevano bene), assunto nella piccola burocrazia ministeriale come scrivano correttore di cui nessuno dei colleghi ha rispetto, è soprannominato Vabene per la supina accettazione di ogni sorta di contrarietà e sopruso; almeno sino al momento in cui, in un estremo sussulto di furiosa ribellione, aVerra per i piedi la giovane moglie che costantemente lo tradisce, facendola precipitare dalla Wnestra addosso o davanti all’amante di turno a cui ella sta dando un appuntamento. È la Wgura di un essere «subalterno» (il termine compare due volte), sopraVatto non solo dalle altre persone, ma anche dagli eventi della vita, della meteorologia, del caso; sempre perciò alle prese con realtà forti e prevaricatrici: il padre manesco, il direttore di ginnasio duro nelle frequenti riprensioni, il collega prepotente Dolfo DolW, la giovane moglie traditrice, il rozzo e ispido prete sardo che lo vuole riportare alla fede, persino la pigna che dall’alto gli cade sulla testa spaccandogliela e il vento veemente che gli impedisce di godere i beneWci del mese di villeggiatura pagato a caro prezzo. Ecco come si conWgura la sua subalternità nei confronti di uno dei sopraVattori, il collega Dolfo DolW, prepotente nei tratti Wsionomici, nell’uso della parola, negli atteggiamenti esteriori, nella sottrazione del tempo e dello stipendio, il quale si fa pagare quel poco di protezione che gli concede: Protetto da Dolfo DolW, vorrebbe Wnalmente riWatare, ma non può: il suo protettore non gliene lascia il tempo: gli parla dei suoi viaggi, delle sue campagne giornalistiche, de’ suoi duelli; gli narra le sue innumerevoli, straordinarie
9. «Avrebbero forse tenuto conto de’ suoi meriti, de’ suoi studii lunghi e pazienti, della sua passione costante, unica, assorbente, per la vita pubblica, dello zelo che aveva posto sempre...».
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avventure, e vuole anche discutere con lui di WlosoWa, di religione, ecc. ecc. Bestialità, con tanto di petto in fuori. (Nota bene: Dolfo DolW ha la faccia piena di nèi e, parlando se li arriccia tutti; una gamba qua, una gamba là) [...] si fa piccino piccino, man mano che quegli le sballa più grosse, e approva, approva senza mai contradire. Egli ormai è ben protetto, non si nega; gli alunni e i monellacci di strada per paura del DolW lo lasciano in pace; ma è vero altresì ch’egli non è più padrone di sé, del suo tempo, del suo misero stipendiuccio di professore di ginnasio inferiore. Se ha bisogno imprescindibile di qualche soldino, deve domandarlo a Satanina [la Wglia del DolW che il protagonista dopo poco sposerà].
La vita del professore-correttore si realizza dunque come continuo processo di riduzione, spoliazione, rinuncia, sino a condurre quasi all’azzeramento delle funzioni vitali e sociali del personaggio. Ne indichiamo i momenti fondamentali seguendone l’ordine nell’intreccio, senza la pretesa dunque di stabilire fra di essi connessioni e rapporti di priorità: in ciò favoriti dal testo, che adotta, soprattutto nella prima parte (corrispondente al § i, Stato di servizio), un criterio di secca registrazione documentaria dei fatti disposti in successione cronologica: - gli muore, quand’è ancora a balia, la madre - per fervore religioso si spoglia del bell’abituccio nuovo che il babbo gli ha portato da Napoli - perde a 16 anni la salute per una minaccia di tisi - perde la fede - e, per la meningite, i capelli, la parola, quasi la vista, la memoria - perde l’autonomia sottrattagli da Dolfo DolW - perde lo stesso protettore - e la moglie, che scappa di casa con l’amante - è lì lì per morire all’ospedale - assiste alla malattia e alla lenta consunzione del Wglio - per l’uccisione della moglie gli è tolta la libertà - sinché, in un’estrema volontaria rinuncia al vedere, lui, già quasi cieco, si fa strappare gli occhiali dal naso. Il processo di riduzione del professore-correttore si accompagna al gesto costantemente ripetuto di stringersi nelle spalle. Ebbene, il personaggio insigniWcante e nulliWcato ostenta già nell’incipit la nominazione importante per doppio nome e cognome, oltre che per suggestione metaforica e aura aristocratica del solo Cosmo, di Cosmo Antonio Corvara Amidei, 10 nato, secondo la dizione anagraWca 10. Sul valore di questa ingombrante nominazione cfr. M. L. Altieri Biagi, La lingua in scena: dalle novelle agli atti unici, in Tutto Pirandello, Agrigento, Edizioni del Centro
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elata dello Stato di servizio, «a Sorrento, da Corvara Francesco Aurelio e Florida Amidei, nella notte dal 12 al 13 febbrajo dell’anno 1861». Per l’aura aristocratica di Cosmo si tenga presente che così è chiamato un personaggio della principesca famiglia Laurentano in I vecchi e i giovani. Per ciò che concerne, invece, la suggestione metaforica del nome, si può ricordare che in Un matrimonio ideale si chiama antifrasticamente Cosimo (Cosmo) il minuscolo ingegnere che sposa l’enorme Margherita Carega, paragonata dal padre ad un mappamondo. Un matrimonio ideale può essere considerata la novella in cui il motivo della misura si trasferisce più articolatamente sul terreno della metafora geograWca. Margherita, infatti, soprannominata la Sardegna perché nata in Sardegna, sviluppandosi oltre misura col crescere, attraversa stadi diversi di dimensione e di nominazione: «la Sardegna divenuta ... che Russia e Russia, cari miei! Diciamo l’Europa! Ma è poco! Diciamo addirittura il mappamondo». Consideriamo per ultima la novella Due letti a due in cui convivono temi o elementi sopra separatamente individuati. Motivo conduttore è il bilanciamento, l’equiparazione, l’uguaglianza di Pari, che qui però si conWgura come ‘simmetria’. Un’abitudine di vita in comune dà luogo ad un’esigenza solo apparentemente (come vedremo) estetico-intellettuale, secondo la quale il suo precipuo sostenitore, il Gàttica-Mei, intende realizzare la perfetta simmetria nella creazione di due letti funebri a due, destinati ad ospitare post mortem due coppie solidali. Una simmetria, 11 dunque, basata sul numero quattro come insieme di due + due: ciascuna delle due tombe di famiglia risulta dall’accostamento di due nicchie mortuarie, due lapidi, due colonnine, due lampade, e dovrà accogliere due sposi, che continuerebbero in tal modo da morti il rapporto di vita comune. Il tema della simmetria è fondante a tal punto da condizionare il personaggio che lo rappresenta: nell’aspetto esteriore grave e rigido (valgono, oltre al ritratto iniziale, i particolari delle «due ali di capelli» che l’avvocato si rialzava dietro gli orecchi portandosi le mani alla nuca, e dell’asciugarsi prima un occhio e poi l’altro; nei quali particolari la
nazionale di Studi pirandelliani, 1986: «‘SigniWca’ per opposizione anche il nome di Cosmo Antonio Corvara Amidei: ben quattro nomi (e quali nomi!) per un personaggio così evanescente, quasi che la sua personalità si esaurisse nella sWlata onomastica!» (p. 225). È inoltre da sottolineare, anche in questo caso, il gioco allitterativo delle lettere iniziali: C/ A/ C/ A. 11. «Simmetria» è termine pirandelliano che compare nella novella quattro volte.
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simmetria è Wsiognomica e comportamentale) e nella quadruplice nominazione composta di nome e cognome bipartiti (una sorta di trasposizione graWca e fonica dei «due letti a due»), Anton Maria Gàttica-Mei. Si aggiunga che le due componenti di ciascun binomio onomastico, quello prenominale e quello cognominale, non possono separarsi, come non devono separarsi, per il Gàttica-Mei, gli sposi di ciascuna coppia: Anton tronco e Maria femminile non denoterebbero da soli un uomo, e Gàttica-Mei si presenta saldamente unito nelle due parti dal trattino. 12 Straordinario è il fatto che il tema della simmetria condizioni anche l’autore, il quale, presentando all’inizio il Gàttica-Mei e la Zorzi che portano al cimitero Wori ai rispettivi consorti defunti, così imposta la descrizione: «Recavano entrambi, l’una per il marito, l’altro per la moglie, due grossi mazzi di Wori». In realtà, ognuno dei vedovi ha un mazzo, non due, come risulta dal proseguo del racconto: «Ma la Zorzi, oltre il mazzo, nello smontare, doveva reggere la veste [...]». Il nome quadripartito connota qui dunque l’esigenza di simmetria del personaggio. Avevamo però anticipato che questa soltanto per una parte è di natura estetico-intellettuale. Per l’altra nasce da un carattere «metodico e schiavo delle abitudini» (come lo deWnisce con perspicua esattezza la Zorzi), 13 ostile a tutto ciò che è «nuovo ordinamento» della vita, «nuovo rivolgimento», fedele alla conservazione del vecchio vincolo matrimoniale non per amore della moglie defunta ma per attaccamento allo status quo (lo intuisce anche qui chiaramente la Zorzi), 14 e perciò desideroso di perpetuare con i due letti a due la simmetria delle coppie in vita nella simmetria delle coppie in morte. Il momento più sottilmente caustico della presentazione di questa abitudinarietà è là dove si descrive l’attaccamento alla vecchia casa del Gàttica-Mei, che non vuole assolutamente spostarsi in una nuova dimora. Si potrebbe parlare di comportamento da felino domestico, come forse indica, ad estremo scherno, la parte cognominale della nominazione, Gàttica-Mei appunto. 12. Per confermare il valore espressivo della presenza del trattino, o della sua assenza, nel doppio cognome, è suYciente porre di fronte a Gàttica-Mei la nominazione Castiglione Montroni esaminata all’inizio. 13. «Ella non avrebbe voluto contrariar l’infermo, che conosceva metodico e schiavo delle abitudini». 14. Ecco alcuni punti della Wlippica della Zorzi: «Ma pensa, lì, quella tua moglie esemplare che ti aspetta in pace ... Non mi far dire ciò che non vorrei! So bene io, e tu meglio di me, quel che passasti con lei...»; «Ma tu volesti rimaner fedele Wno all’ultimo a Margherita, e dettasti quella bell’epigrafe. T’ammirai allora; sì; ti ammirai tanto più, quanto più stimavo tua moglie indegna della tua fedeltà».
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Ma la nominazione quadripartita connota anche il maggior prestigio e la maggiore autorevolezza del personaggio nei confronti dell’uomo dell’altra coppia: Anton Maria Gàttica-Mei (anzi l’avvocato Anton Maria Gàttica-Mei, come lui stesso si è nominato nell’epigrafe preparata per la propria morte) vs Gerolamo Zorzi (semplicemente) o, con riduzione ipocoristica, Momolo e Momo. Entra qui in gioco quella che, a partire dal Lévi-Strauss di La Pensée sauvage, è chiamata ‘funzione classiWcatoria’ del nome e degli appellativi, perché serve a «insérer le porteur dans ces hiérarchies et l’inscrire à la place que lui revient». 15 Quando tutti e quattro i coniugi sono in vita, Gàttica-Mei prevarica su Zorzi: dà inizio al sistema delle sepolture simmetriche mentre l’altro si limita a seguirlo, e diventa l’amante della Zorzi. Il racconto registra la sempre più disastrosa sconWtta (una climax discendente simile a quella di Va bene) di Gàttica-Mei sui terreni dell’autorevolezza e dell’amore per la simmetria. Responsabile principale del duplice tracollo è la vedova Zorzi, da lui sposata, Chiara (nome certamente disarmonico per una creatura dai colori neri delle «Wttissime gramaglie» e del «grosso porro peloso» che spicca sul suo mento!), una sorta di parodia della dark lady distruttrice. Si aggiunga che quel porro è anche elemento di dissimmetria Wsiognomica, giocando un ruolo opposto rispetto alle «due ali di capelli» del Gàttica-Mei. 16 In compagnia di lei l’avvocato, «un tempo così solidamente e rigidamente impostato», si riduce ad esser «curvo, tremicchiante, pareva proprio l’ombra di se stesso», perde autonomia e capacità di opporsi, cedendo sulle sue convinzioni. Acquista già da vivo la qualiWca di ‘povero’ («pover’uomo»), che era propria dello Zorzi morto. Si adegua in tutto al rango dell’amico sì da sostituirlo nel ruolo coniugale e da essere poi collocato, dalla Chiara per la seconda volta vedova, a giacere accanto a lui in uno dei letti a due, al posto della donna prevista come occupante. Chiara Zorzi ha così anche vaniWcato il sogno di simmetria di Gàttica-Mei. Alla Wne del racconto i due letti funebri si presentano l’uno occupato dai due mariti, l’altro da una sola donna; accanto all’uno «le lampade delle colonnine sono accese tutt’e due»; accanto all’altro «tutt’e due spente». Quest’ultima situazione è così commentata: «In que-
15. Ch. Grivel, Production de l’intérêt romanesque: un état du texte (1870-1880): Un essai de constitution de la théorie, Paris, La Haye, Mouton, 1973, p. 130. 16. Inserito in altro contesto, il porro peloso è segno di altra realtà: così la scrittrice Silvia Roncella di Suo marito è immaginata con un porro peloso sul labbro in quanto non buona di carattere (L. P., Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia con la collaborazione di M. Costanzo, i, Milano, Mondadori, 1973, p. 599).
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sto, almeno, la simmetria era salva e il Gàttica-Mei poteva esserne contento». In realtà si tratta di una simmetria antinomica, identica a quella che si realizzerà quando, alla morte di Chiara, si avrà un letto mortuario occupato da due uomini vs un letto mortuario occupato da due donne. Postilla su Due letti a due L’ultimo racconto è in realtà più complesso e denso di signiWcati di quanto indichino le poche pagine che gli sono state dedicate, miranti soprattutto a sottolineare i valori della quadruplice nominazione con titolo annesso avvocato Anton Maria Gàttica-Mei. Potremmo porre al centro di un’ulteriore indagine accanto al protagonista anche la protagonista, Chiara Zorzi, per scoprire nell’uno e nell’altra la parodia di due tipi sociologici e letterari: l’uomo di gravità e la dark lady. La parodia si attua col rovesciamento dei piani rappresentativi dall’alto al basso o dal basso all’alto, come ci insegna Tynjanov, ma anche con la vaniWcazione delle aspettative. Quest’ultima è la lezione che Pirandello poteva trovare enunciata nel Manzoni descrittore, nel capitolo viii dei Promessi sposi, del tentativo di matrimonio a sorpresa: In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riXessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla Wn de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso.
Gàttica-Mei è l’uomo di gravità che appare «austero e solenne» (Pirandello usa termini come contegno, apparire), prevarica in tutti i modi sull’amico Momolo; ma in realtà è un povero schiavo dell’ordine e dell’abitudine. Chiara dal porro nero appare una dark lady, sia pur degradata a vedova nera (porta alla tomba due mariti), che piega al proprio volere il Gàttica-Mei, ma in realtà, col suo desiderio di farsi sposare legalizzando l’unione con l’amante, è più di lui schiava di una visione borghese e perbenistica della vita: «o ciascuno per sé, onestamente; o uniti, onestamente, innanzi alla legge e innanzi all’altare». Che poi la borghese perbenista metta il secondo marito a giacere assieme al primo in un unico letto mortuario è un ulteriore rovesciamento di piani dell’umorista Pirandello.
viii COPPIE DI PERSONAGGI NELLE NOVELLE PIRANDELLIANE
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ono molte le novelle integralmente o parzialmente costruite da Pirandello intorno ad una o più coppie di personaggi omologhi, responsabili cioè di funzioni analoghe o parallele. Gli abbinamenti poggiano su criteri opposti di identità (i) e contrapposizione (c) ma anche su relazioni intermedie che si possono disporre in vari punti dell’asse i-c. La disposizione in coppia (non consideriamo gli esempi di triplicazione, vedi Ignare, o quadruplicazione, vedi Senza malizia e “Leonora, addio!”) favorisce, nonostante il bipolarismo sia tendenzialmente statico, le articolazioni narrative, quand’essa è reiterata nella stessa novella, così come incrementa le risorse descrittive e persino le combinazioni onomastiche nei casi in cui la nominazione collabora al progetto di deWnizione dei personaggi. Purché si tenga presente, per quest’ultima possibilità, che i nomi hanno valore non nella loro singolarità ma nell’interazione del rapporto di coppia: ciò vale anche quando i personaggi non sono concretamente reali, come i due interlocutori dei Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me. Delimitiamo in un primo momento il campo d’indagine facendo riferimento ad una serie di casi. C’è l’abbinamento formato da moglie aristocratica e amante plebea del protagonista, il quale fa allevare la creatura, tanto debole o malata da essere in pericolo di vita, nata dalla legittima consorte, nello stesso ambiente in cui prospera la creatura che egli ha avuto dall’amante. È il tema di Come gemelle e di Tanino e Tanotto. Nell’una e nell’altra novella la moglie e la donna amante sono disposte in coppia secondo la contrapposizione moglie aristocratica senza calore d’aVetto coniugale (Come gemelle) o addirittura piena di disprezzo nei confronti del marito (Tanino e Tanotto) vs amante di condizione sociale inferiore ma capace di vero aVetto. La contrapposizione si determina ulteriormente, in Come gemelle, secondo il criterio moglie «gelida, arcigna, scontrosa», «magra, sgarbata, insoVribile» vs amante formosa «spregiudicata e franca, con l’esuberanza d’una vitalità indiavolata [...] sincera, veemente, aVettuosa» (prevale la considerazione degli aspetti Wsici e caratteriali); in Tanino e Tanotto secondo il diverso criterio moglie «pallida, bionda e delicata come
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un Wore di serra» vs amante di modi rustici «sana e gaja contadina» (qui fa aggio invece la diVerenza di classe sociale). Ma Come gemelle e Tanino e Tanotto presentano una seconda sostanziale contrapposizione, quella fra i personaggi del marito e della moglie, condotta sul piano del rapporto maggiore-minore disponibilità verso gli altri in Come gemelle; sul piano invece del rapporto minore-maggiore aristocraticità di nascita e di Wsico in Tanino e Tanotto. La contrapposizione marito-moglie, come altre vigenti all’interno di coppie formate da uomo e donna (vedi i casi di Pompea Montroni-Mino Colli in Tirocinio e Margherita Carega-Cosimo Todi in Un matrimonio ideale), non sarà oggetto della nostra indagine in quanto riguarda personaggi non omologhi. Vi accenniamo solo perché ne deriva nel plot di Come gemelle e Tanino e Tanotto un’ulteriore diversiWcazione per quel che concerne i Wgli: in Come gemelle la bambina della moglie nasce deperita come uno scheletrino, quella dell’amante è Xorida e bella; in Tanino e Tanotto Tanino è biondo e aristocratico come la madre, Tanotto bruno e rozzo come il padre. La diversiWcazione trova riscontro nell’onomastica, perché, dei due ipocoristici infantili, Tanino è di suono più gentile, Tanotto più rozzo. Consideriamo ora il motivo, centrale in Nené e Ninì e in L’ombrello, dei fratellini apparentemente innocenti, in realtà sopraVattori, per insensibilità od egoismo, dei genitori, anzi del genitore superstite e perciò più indifeso. Nelle due novelle il fratello (o sorella) più piccolo non riesce ancora a pronunziar bene le parole: «L’ammassi davero?, ‘Non mi vollo lavare!’, «So’ cattigato», ecc. dice Ninì (Nené e Ninì); «Pue le bacchette, pue le bacchette», «E pue l’ombello», ecc. è il ritornello di Mimì (L’ombrello). Ma ecco la diVerenza, e di non poco momento, fra i due testi: in Nené e Ninì conduce il gioco al massacro Nené, la più grandicella, e il fratellino ha la funzione di coadiutore che si limita alla goVa ripetizione e all’eco deformata dei gesti e delle battute di Nené: Quando Nené, la sorellina, levava il pugno e gridava: - E io l’ammazzo! – si voltava piano piano a guardarla e domandava con voce cupa e con placida serità: - L’ammassi davero? E Nené, pestando un piede: - Non mi voglio pettinare! - Ninì, via, vieni tu almeno, caro caro: fa’ vedere alla sorellina come ti fai lavare. E Ninì, placido e cupo, imitando goVamente il gesto della sorella: - Non mi vollo lavare! Nené, certe mattine, scappava di casa in camicia, a piedi nudi; si metteva a sedere su lo scalino innanzi all’uscio di strada [...] : - Sono castigata! Poco dopo, piano piano, scendeva con le gambette a roncolo Ninì, in camicina e scalzo anche lui, reggendo per il manico l’orinaletto di latta [...]: – So’ cattigato!
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In L’ombrello, invece, conduce il gioco la piccola, più furba e prepotente, al punto da sopraVare, oltre alla madre, anche la sorella maggiore Dinuccia, la quale riveste la funzione di vittima più che di collaboratrice. Passando al piano dell’onomastica, notiamo facilmente che, mentre Nené e Ninì sono nomi sovrapponibili, di cui l’uno può essere inteso come eco dell’altro; Dinuccia e Mimì, pur essendo ambedue ipocoristici, si presentano nettamente diVerenziati. Siamo ora pervenuti al tema centrale del discorso, l’individuazione cioè delle diverse modalità di abbinamento dei personaggi in coppia. Secondo un’indagine cursoria e necessariamente provvisoria esse potrebbero essere sei: le disponiamo partendo dalle tre impostate su rapporti di identità unione collaborazione, facendo seguire le altre basate su prevalente diVerenza divisione rottura. 1. Un rapporto di identità intercorre senza dubbio fra gli amici, ambedue orfani, di Scialle nero, che già racchiudono nelle nominazioni ad arte aYancate ad apertura di racconto il preannuncio di quel rapporto: ne fa fede il nesso comune -and-: «Aspetta qua, – disse il Bandi al D’Andrea». Le loro caratteristiche Wsiche, biograWche, psicologiche, comportamentali sono presentate in contemporanea in due successivi ritratti sinottici collocati all’inizio delle parti i e ii della novella. Del primo è responsabile l’autore: Miopi tutti e due, parlavano vicinissimi in piedi, l’uno di fronte all’altro. Parevano fratelli, della stessa età, della stessa corporatura: alti, magri, rigidi, di quella rigidezza angustiosa di chi fa tutto a puntino, con meticolosità. Ed era raro il caso che, parlando così tra loro, l’uno non aggiustasse all’altro col dito il sellino delle lenti sul naso, o il nodo della cravatta sotto il mento [...] Cresciuti insieme, avevano studiato ajutandosi a vicenda Wno all’Università, dove poi l’uno s’era laureato in legge, l’altro in medicina. Divisi ora, durante il giorno, dalle diverse professioni, sul tramonto facevano ancora insieme quotidianamente le loro passeggiate lungo il viale all’uscita del paese. Si conoscevano così a fondo, che bastava un lieve cenno, uno sguardo, una parola, perché l’uno comprendesse subito il pensiero dell’altro [...] E andavano a testa bassa, come due cavalli stanchi; entrambi con le mani dietro la schiena. A nessuno dei due veniva mai la tentazione di volgere un po’ il capo verso la ringhiera del viale per godere la vista dell’aperta campagna sottostante.
Il secondo ritratto fa parte delle considerazioni di Eleonora, la sorella del Bandi che aveva fatto da madre ai due amici: Pareva che avessero entrambi l’anima avvelenata di silenzio e di noja, oppressa come da una scimunita angustia. Ottenuta la laurea, s’eran subito buttati al lavoro, come due bestie; con tanto impegno, con tanto accanimento che in
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poco tempo erano riusciti a bastare a sé stessi. Ora, questa fretta di sdebitarsi in qualche modo, come se a entrambi non ne paresse l’ora, l’aveva proprio ferita nel cuore.
Su queste premesse poggia l’identità del comportamento scandalizzato e ingeneroso dei due di fronte alla gravidanza incolpevole di Eleonora. Identità, in questo caso anche onomastica, è fra le due Ebe, madre e Wglia, di Superior stabat lupus, collegate non in sincronia ma in diaconia, dato che la madre muore nel dare alla luce la Wglia: A mano a mano, crescendo, Bebè [Ebe Wglia] somigliò sempre più alla mamma: ne ripeté tutte le grazie infantili, le mosse, i sorrisi, i primi giuochi, tra lo stupore accorato de’ due vecchi che credevano di assistere a una prodigiosa resurrezione.
Le due Ebe identiche si trovano, a distanza di tempo, nelle stesse situazioni rispetto ai due uomini che le frequentano, facendo nascere nell’uno e nell’altro le stesse sensazioni cronologicamente diVerite. Marco Perla, già innamorato di Ebe i, che Corrado Tranzi gli ha portato via sposandola, sente nascere per la piccola Ebe ii un sentimento d’aVetto simile a quello provato anni prima per la madre. Tale sentimento spingerà l’uomo maturo ad imporre un matrimonio innaturale e non gradito alla giovinetta, la quale sente quell’unione come un incesto. D’altra parte, Corrado Tranzi, che ha sposato Ebe i ed è fuggito come un pazzo in America subito dopo la morte di lei, conosce al suo ritorno Ebe ii, sua Wglia, in circostanze (la visita ad un infermo) e abbigliamento analoghi a quelli che avevano caratterizzato il suo primo incontro con Ebe i: Ebe [Wglia], su la soglia della camera in cui s’era chiusa, lo accolse spettinata, mezzo discinta, tutta aVannata tra le lagrime, come già sua madre la prima volta lo aveva accolto in quel lontano mattino di primavera, quando lui, giovane medico, era stato chiamato [...] Era lei! Era lei! La sua Ebe che lo riaccoglieva così come si può accogliere un estraneo in un momento d’improvviso, supremo bisogno! [...] – Ebe mia! Ebe mia!
Ad evitare in questo caso la tentazione dell’incesto vale la liberazione di Ebe II dall’odioso vincolo matrimoniale, che Corrado Tranzi ottiene facendo coscientemente morire Marco Perla ammalato. Col dare una seconda volta alla Wglia la vita, Corrado riacquista inequivocabilmente la veste di padre: Sì, senza esitare, poiché così provvidenzialmente il caso lo favoriva, egli doveva sopprimere chi aveva fatto per la Wglia tutto quello che avrebbe dovuto far
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lui; sopprimere chi aveva voluto in tutto sostituirlo, ripigliandosi anche la madre nella Wglia. A questo solo patto poteva dirsi padre. Liberandola da tutti i legami contratti dal tempo in cui per lei non era esistito, le avrebbe ridato, con questa libertà e con la ricchezza, la vita.
Nella novella non formano coppia di personaggi omologhi, nonostante il parallelismo della situazione di partenza (ognuno sottrae all’altro una Ebe), Corrado Tranzi e Marco Perla, che hanno i diversi ruoli del lupus e dall’agnus della favola antica Superior stabat lupus. Identità non voluta è fra Bartolino, secondo marito, e Cosimo Taddei, primo marito defunto di Carolina Sarulli (La buon’anima). Sposando la vedova volitiva Carolina, Bartolino, bamboccione e pacioso, è costretto ad adeguarsi al comportamento del defunto sin dalla nominazione riservata alla donna (cara Lina, come l’aveva modiWcata Cosimo Taddei) e dal percorso del viaggio di nozze. L’identità non cessa nemmeno quando Bartolino, esasperato, «cominciò a fare stranezze», perché le stranezze le faceva anche il primo marito, o quando tradisce la moglie con un’amica di famiglia. Con quella stessa amica di famiglia, infatti, la cara Lina era già stata tradita dal primo marito. L’imitazione di Cosimo Taddei da parte di Bartolino si realizza attraverso l’intermediazione della cara Lina. Un legame onomastico collega i tre personaggi: il nome della donna è testimonianza dell’intervento onomaturgico di Cosimo, ma richiama anche, nelle due forme Carolina e cara Lina, la parte Wnale di Barto-lino. Assimilabile a quest’ultimo caso è quello di Almira e Anna, la moglie defunta e la moglie viva di Vittore Brivio, collegate per allitterazione (Con altri occhi). Trascurata dal marito che si allontana frequentemente da lei, Anna non si rende conto della tristezza della vita coniugale se non dopo aver trovato nella tasca di una vecchia giacca di lui un ritratto della prima moglie. Osservandolo a più riprese ella giunge ad un radicale mutamento della propria condizione spirituale: da «odio di postuma gelosia», e addirittura «odio misto di sprezzo» per quella donna che aveva tradito il Brivio, a «comprensione» per lei angustiata da un marito arido ed egoista. Contemporaneamente Anna non si sente più totalmente diVerente da Almira: Esaminandone il volto, Anna notò subito quanto dissomigliasse dal suo;
ma assai simile almeno nell’espressione: sembrandole a un tratto di scorgere nello sguardo di quegli occhi la medesima espressione degli occhi suoi;
perché in fondo le due esistenze sono identiche nel dolore:
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- Sempre così! – parve ad Anna di sentirsi sospirare dalle labbra dolenti della morta. Riaccese il lume e di nuovo, contemplando l’immagine, fu attratta dall’espressione di quegli occhi. Anche lei dunque, davvero, aveva soVerto per lui? Anche lei, anche lei, accorgendosi di non essere amata, aveva sentito quel vuoto angoscioso?
2. Tengono il secondo posto le coppie al cui interno funziona un’accentuazione di caratteristiche. Dei due componenti cioè uno ha gli stessi tratti Wsici e psicologici dell’altro ma più marcati. Si tratta normalmente di fratelli o sorelle per i quali è naturale che il grado diverso di caratterizzazione concerna doti comuni. Si può pensare, p. es., ai casi già citati delle sorelline di L’ombrello (con la tendenza alla sopraVazione assai accentuata nella piccola) e dei fratellini di Nené e Ninì, dei quali la vera sopraVattrice è la più grande. O anche alle due coppie di fratelli di Pari, all’interno delle quali il minore potenzia caratteristiche essenziali del maggiore. Il narratore imposta con chiarezza i rapporti. Del fatto che il dislivello si faccia palese anche nell’onomastica abbiamo trattato nel capitolo vii: I due giovani, in fatti, somigliavano moltissimo ai loro fratelli. Attilio Pagliocco era forse un po’ più ottuso di mente del fratello maggiore e fors’anche men bello, ma più tacchinotto e violento. Federico Barbi era più proporzionato e men dinoccolato di Bartolo, con gli occhi meno languidi e le labbra meno aride; era assai più intelligente del fratello, faceva Wnanche poesie.
Sì che le mogli dei fratelli maggiori trovano ovvio tradire il rispettivo consorte non con l’amico ma col suo giovane fratello che ne è la copia potenziata. Ricordiamo ancora il caso dei fratelli di L’uccello impagliato, Marco e Annibale, impegnati a vivere nei modi più sorvegliati e prudenti per poter superare il limite d’età raggiunto dai parenti «morti di tisi, giovanissimi, uno dopo l’altro». Per ottenere la vittoria sul male occorre opporgli resistenza. Ecco perché il loro ritratto dà ampio spazio alla robustezza, nella quale però uno, Annibale, prevale: Erano, sì, entrambi della stessa corporatura, bassotti e piuttosto ben piantarti [...] ma lui, Annibale, quantunque minore d’età, era più robusto di Marco; aveva quasi una discreta pancettina, lui, della quale si gloriava; e più ampio il torace, più larghe le spalle.
Che poi ad oVrire minore resistenza e perciò a morire prima sia il fratello più robusto Annibale, provvisto oltretutto di nome dalle chiare risonanze guerresche, è motivo di sorpresa non inusuale nell’arte di Pirandello.
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3. Non identità ma complementarità nei due amici di Pari, che integrano le rispettive diverse e parziali qualità in modo da tendere assieme alla formazione di un essere completo: Si erano però medesimati nell’anima, vagheggiando uno stesso tipo ideale, che s’ingegnavano di raggiungere e d’incarnare in due, ponendovi ciascuno dal canto suo quel tanto che mancava all’altro [...] Del resto, poi eran così uniti idealmente quei due uomini, che quasi formavano un uomo solo, da amare insieme.
Non giova insistere sui rapporti vigenti all’interno della coppia di Pari, perché anch’essi sono già stati esaminati nel capitolo che precede. Aggiungiamo una sola considerazione riguardante la novella nel suo complesso: Pari presenta anche altri tipi di coppia, tutti studiati in funzione di uno scopo: la trasformazione della complementarità dei due amici in perfetta parità. Si giustiWca pertanto la presenza di due mogli, Gemma e Giulia, l’una bionda, l’altra bruna, che sono in tal modo di complemento ai rispettivi mariti, integrando qualità che a loro mancano; e dei fratelli minori, fra di loro opposti, che però accentuano, come abbiamo già visto, le qualità fondamentali dei rispettivi fratelli maggiori, consentendo in tal modo a Gemma e Giulia di raggiungere con due adulteri incrociati quel complesso di doti che rende l’unione col maschio un fatto veramente compiuto: Giulia Barbi-Montà stimò come un pregio quel che di più animalesco aveva il giovane Pagliocco a paragone del fratello, perché le parve come un compenso alla cresciuta intellettualità intorno a sé, nel suo quartierino, con l’arrivo del cognato poeta; e Gemma Pagliocco-Gandini pregiò maggiormente quel che di più aereo, di più poetico aveva il giovane Barbi a paragone del fratello, perché le parve come un compenso alla cresciuta bestialità intorno a sé, nel suo quartierino, con l’arrivo del giovane Attilio che le pareva un mulotto incappucciato.
4. All’interno del quarto tipo di coppia regna un rapporto caratterizzato da un equilibrio precario, che oscilla facilmente fra gli estremi di unione-amicizia e di disunione-inimicizia. È come trovarsi in cospetto dei piatti di una bilancia (la metafora del bilanciamento è pirandelliana) provvisoriamente allineati, che basta però un attimo a disallineare o per aggiunta o per sottrazione di peso. Presentiamo due novelle, nella prima delle quali lo sbilanciamento è per aggiunta, nella seconda per sottrazione di peso. In O di uno o di nessuno due amici, Tito Morena e Carlino Sanni, che hanno vissuto «insieme» le stesse esperienze e fatto la stessa carriera («collegata la loro vita in tutto»), rompono l’accordo perfetto quando
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sanno che all’amante comune, Melina, che si è divisa imparzialmente fra di loro «senz’ombra di preferenza né per l’uno né per l’altro», sta per nascere un Wglio inaspettato. La nuova situazione non è più gestibile di comune accordo, perché il Wglio è sentito come un peso di cui nessuno dei due vuol assumersi la responsabilità non essendo sicuro di esserne il padre. Il termine «peso» è parola chiave della parte centrale del racconto. Se ne registrano qui alcune occorrenze: se ciascuno dei due avesse potuto esser sicuro che il Wglio era suo, non avrebbe esitato ad assumersene il peso e la responsabilità Guarda, ti giuro, che non n’avrete mai nessun fastidio, nessun peso, mai! E poi, sì, era presto detto nessun peso, nessun fastidio. Il peso, il fastidio sarebbero stati il meno Perché da solo, sai bene che non posso accollarmi tutto il peso del mantenimento; non posso e non debbo, del resto, perché non so di certo se il Wglio sia mio, e tu non puoi lasciarmi su le spalle il peso d’un Wglio che può essere tuo.
L’equilibrio fra Tito e Carlino dunque si rompe, l’«insieme» che aveva caratterizzato le loro vite non ha più possibilità di sussistere («insieme» è altra parola tematica del testo), l’amicizia si trasforma in ostilità: i due, Wnora l’uno accanto all’altro amici cordialissimi, si scoprirono negli occhi, l’uno di fronte all’altro, cordialissimi nemici.
La frattura perdura anche quando, nato il bambino, ognuno dei due vorrebbe riconoscerlo come Wglio e tenerlo «interamente a suo carico (nessuno dei due diceva al suo aVetto)», mutando pertanto atteggiamento nei confronti d’una realtà avvertita pur sempre come peso, carico. La frattura non può esser sanata nemmeno dall’intervento di un avvocato, che i protagonisti interpellano – è ovvio – separatamente «senza che l’uno sapesse dell’altro»; si ricompone soltanto quando, dato in adozione il bambino ad una coppia di sposi, il peso è eliminato e l’allineamento di nuovo raggiunto. L’equilibrio, di tipo economico e familiare, che regna, in modi ancor più provvisori, fra i protagonisti della novella I due compari è il risultato di un vero accordo in base al quale essi si dividono le parti («a lui toccava il sentire e [...] il parlare era aVare del compagno») badando a non superare i limiti assegnati («il segreto di quel loro accordo era nell’impegno che ciascuno dei due aveva sempre messo di non farsi mai sorpassare dall’altro in nulla»). I due, accaniti rivali in gioventù, sono diventati soci senza «il minimo contrasto» nell’aYtto di una vecchia masseria e compari nell’accrescimento paritetico delle rispettive famiglie che vivono l’una accanto all’altra. Così hanno ovviato alle diversità di
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carattere e di comportamento (l’uno duro, l’altro dotato di «maniere graziose») testimoniate anche dai nomi: 1 Giglione era l’albero ben radicato; Butticè, l’uccello che gli svolazzava fra i rami cantando.
La campagna e la moglie sono considerate fonti di reddito: dalla prima traggono di che vivere, dalla seconda future braccia da lavoro. Hanno avuto cinque Wgli per uno, e tutti maschi secondo i desideri: «desiderio degli uomini era aver Wgliuoli, e averli maschi, per i lavori della campagna». È ovvio che l’accordo cominci a periclitare anche soltanto per paura di uno sbilanciamento, di una modiWca dell’equilibrio. Giglione, che ha avuto dalla moglie, incinta per la sesta volta, una femmina, «lanciava di sfuggita qualche obliquo sguardo di diYdenza ai Wanchi poderosi della moglie del socio [anche lei incinta per la sesta volta], che avrebbe potuto sbilanciar le sorti Wnora uguali» partorendo un maschio. Si rompe però per una diversa ragione quando la consorte di Butticè, che ha partorito, sì, un maschio, muore ponendo il marito in situazione di perdita rispetto al socio, «quasi che anche lei, quella mattina, a tradimento, avesse voluto diminuirlo, avvilirlo, annichilirlo». 5. Collochiamo a questo punto un rapporto che potremmo deWnire di sostituzione o alternanza. Due personaggi insieme presenti sulla scena, non importa se simili o diversi, non possono svolgere contemporaneamente la stessa funzione. Ci pare questo il caso delle due sorelle di La morta e la viva, mogli sfalsate nei tempi di padron Mino Mo. Scomparsa la prima, Filippa, che tutti ritenevano perita in un naufragio ma che invece, raccolta pazza di terrore da un piroscafo russo, era stata ricoverata in America (che nell’immaginario popolare equivale ad un altro mondo), padron Mo ha sposato la sorella più giovane Rosa. Quando però Filippa, guarita, ritorna dall’«altro mondo», padron Mo si trova ad essere marito contemporaneamente di due donne. Risolve salomonicamente a modo suo il problema facendo vivere alternativamente in casa sua una delle due donne e collocando l’altra in una cameretta d’aYtto trovata «quasi in capo al paese, nella via che conduce al cimitero, aereo su l’altipiano», cioè collocandola momentaneamente in un metaforico «altro mondo».
1. La diVerenza tra i due personaggi è testimoniata onomasticamente al livello più basso di espressività dalla forma accrescitiva e diminutiva dei nomi, indipendentemente pertanto dal loro signiWcato.
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6. Per ultimo, inWne, il semplice rapporto oppositivo. Vige all’interno di coppie delle quali si è già fatto cenno: la moglie e l’amante di Come gemelle e di Tanino e Tanotto, i bambini amici di quest’ultima novella. Con lo stesso criterio sono aVrontati i due bambini amici del Wnale di O di uno o di nessuno: il piccolo amico [...], pur essendo della sua età, appariva minore, per la bionda gracilità feminea e la timidezza. Nillì, cresciuto in campagna, era bruno, robusto, sanguigno e vivacissimo;
le due donne di Piuma, la piccola, leggera, quasi incorporea Amina e la grossa, grave, carnale cugina; le due bambine di Servitù, la ricca padroncina dai riccioli d’oro e con la cuYetta di raso celeste, e la povera Wglia della nurse, dagli ispidi capelli neri, le manine tozze e col vecchio vestito «color cece». La prima, che, oltretutto, conosce l’inglese, si chiama Dolly, la seconda, assai meno aristocraticamente, Nenè. Qualche cenno bibliografico I temi del capitolo, quello dei signiWcati del numero ‘due’ e quello dei nomi dei personaggi in coppia, sono, nelle linee generali, di antichissima tradizione. Per il primo, che prevede gli estremi della separazione e dell’unione, è possibile risalire alle interpretazioni simboliche che del ‘due’ dava la numerologia medievale. In Pirandello esso può essere ridotto a puro fregio decorativo nella raYgurazione, sostanzialmente estranea alla tematica del testo, del pino come O e del cipresso come I, che assieme «possono [...] scrivere un IO in due» (novella I due giganti). Del secondo, anch’esso presente già nella cultura medievale, ebbi occasione di occuparmi in Nomi in coppia nel “Decameron”, «Studi sul Boccaccio», 1996. Il primo dei due temi è stato preso in considerazione, per Pirandello, nell’importante studio di J.-M. Gardair, Pirandello, fantasmes et logique du double, Paris, Larousse, 1972 (trad. it. Pirandello e il suo doppio, pres. di G. Macchia, a cura di G. Ferroni, Roma, Edizioni Abete, 1977), sia come dramma del soggetto dilacerato sia come insieme di Wgure della simmetria e dell’asimmetria; e da G. P. Caprettini, Pirandello: una poetica dell’identità, in La semiotica e il doppio teatrale, a cura di G. Ferroni, Napoli, Liguori, 1981, pp. 365-373, che esamina in particolare i Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me. Sistemazioni teoriche del doppio sono in G. Ferroni, Il sistema comico della gemellarità, alle pp. 355-364 del vol. collettaneo La semiotica e il doppio teatrale, cit., che parte dalla scoperta, fatta da Bergson e Freud, della percezione della somiglianza eccessiva fra due volti come fonte di riso; e in L. Dolezel, Le triangle du double, in Du thème in littérature, «Poétique», 64, 1985, pp. 463-472, che distingue tre tipologie del doppio. Per un’esauriente storia del problema cfr. M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Firenze, La Nuova Italia, 1998, con esame anche di novelle pirandelliane.
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Non utile per la presente indagine è risultato il capitolo La sproporzione anarchica del corpo: giganti e nani, grassi e magri del volume di P. D. Giovanelli, Dicendo che hanno un corpo. Saggi pirandelliani, Bologna, Mucchi, 1994, pp. 4459, per lo più dedicato alla sproporzione di personaggi irrelati perché appartenenti a testi pirandelliani diversi. La sproporzione è allora in un solo eccesso, come nel caso esemplare della straripante grassezza nella novella Il Signore della Nave.
ix SINO A CHE PUNTO NOMI PARLANTI ? esame di quattro novelle di pirandello
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ratterò ora di presenze che potremmo deWnire borderline del nome, tali cioè da collocarsi fra connotazione del personaggio (prendo in considerazione, infatti, soprattutto antroponimi) e funzioni di diverso tipo che cercherò via via di individuare. Tali presenze sono distanti da quel chiarimento insistito da parte dell’autore delle sue intenzioni che renderebbe noiosa, come dice Iser, l’operazione della lettura. 1 Anche la consapevolezza dell’esistenza di zone di conWne dallo statuto non ben deWnito può aiutare a percepire il senso dei molteplici signiWcati del segno-nome. Esaminerò pertanto quattro novelle di Pirandello, uno degli scrittori moderni maggiormente consapevoli della complessità delle valenze onomastiche. Pur rendendomi conto del fatto che la consapevolezza autoriale è elemento non necessario e al limite non certiWcabile, dato l’«incremento di signiWcazione» (Segre) o la «polisemia» (Corti) o la «moltiplicabilità» (Lavagetto) del testo, «trottola che esiste quando è in movimento» (Sartre); e la presenza di un lettore sempre più chiaramente visto, per l’impulso della semiologia e della teoria della ricezione, come cooperatore di chi scrive che utilizza ai suoi Wni anche il «nondetto». 2
1. W. Iser, L’atto della lettura. Una teoria della risposta estetica, Bologna, il Mulino, 1987 (ed. orig. 1978), di cui è da tener presente soprattutto la Parte terza, Fenomenologia della lettura. Il trattamento del testo letterario, ove si tratta il tema del «processo di lettura come interazione dinamica fra testo e lettore». A p. 170 si dice: «Il piacere del lettore comincia quando egli stesso diventa produttivo, cioè quando il testo gli consente di mettere in gioco le sue facoltà. Vi sono ovviamente dei limiti alla volontà del lettore di partecipare, e questi saranno superati se il testo rende le cose troppo chiare o, all’opposto, troppo oscure: la noia e la tensione eccessiva sono i due poli della tolleranza, e in entrambi i casi è probabile che il lettore riWuti il gioco». 2. Per il lettore cooperatore o co-creatore cfr. alcune voci essenziali: J. P. Sartre, Qu’est-ce-que la littérature?, Paris, Gallimard, 1948 (trad. it. Che cos’è la letteratura?, Milano, il Saggiatore, 1996, p. 33); H. R. Jauss, Perché la storia della letteratura?, Napoli, Guida, 1969 (ed. orig. 1967), pp. 49-50; C. Segre, I segni e la critica. Fra strutturalismo e semiologia, Torino, Einaudi, 1969 (cap. iv della Parte prima); R. Barthes, Il piacere del testo, Torino, Einaudi, 1975 (ed. orig. 1973); M. Corti, Principi della comunicazione letteraria.
sino a che punto nomi parlanti ?
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I quattro nomi di Anny Nella novella “Vexilla Regis...” una donna emerge all’improvviso dal passato, dopo aver fatto perdere per anni le sue tracce, scrivendo all’antico compagno Mario Furri per chiedergli di poter rivedere la comune Wglia Lauretta, che lei ha volontariamente abbandonato, subito dopo averla messa al mondo: ha dovuto infatti obbedire alla volontà della genitrice risolutamente ostile al matrimonio, anche se riparatore, col Furri. Il quale, d’altra parte, ha sempre fatto credere a Lauretta, da lui amorosamente allevata con l’aiuto di una governante tedesca, che la madre fosse morta; e ora che la donna è ricomparsa per conoscere Lauretta, si oppone risolutamente alla sua pretesa consentendole soltanto di osservare la Wglia da lontano in chiesa durante le funzioni del Venerdì Santo. Vexilla Regis..., che dà il titolo alla novella, è il canto liturgico che la processione intona al momento del ritorno dal Sepolcro. Il giorno successivo, cioè il sabato, Mario Furri viene a sapere che la sua ex compagna ha abbandonato il Venerdì Santo l’albergo in cui soggiornava, senza salutarlo e soprattutto senza comunicargli se avesse visto la Wglia. La vicenda dunque, collocata sullo sfondo temporale della ricorrenza di morte e rinascita del Cristo (non per nulla si conclude con lo scioglimento delle campane il giorno del Sabato Santo), consta di una supposta morte (quella della donna), che causa non minore oblio di una morte reale, a cui segue un tentativo di ritorno o risurrezione ostacolato dal Furri e seguito da una seconda deWnitiva morte-scomparsa. Ciò che è morto o è stato creduto morto per tanti anni non deve rivivere. Una porta chiusa blocca il passato, che solo il ricordo può allucinatamente e dolorosamente evocare: Dietro una porta chiusa un mondo di cose morte: là dentro il sole non poteva né doveva più penetrare; vi entrava lui per cercare, ma con tal sentimento, come se dovesse trovarvi fra l’altro bambole e giocattoli appartenuti a bambiIntroduzione alla semiotica della letteratura, Milano, Bompiani, 1976; M. Charles, Rhétorique de la lecture, Paris, Seuil, 1977; Iser, L’atto della lettura, cit.; U. Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano, Bompiani, 1979 (in part. il cap. iii Il lettore modello); Il testo moltiplicato, a cura di M. Lavagetto, Parma, Pratiche, 1982, ma anche, dello stesso Lavagetto, l’Introduzione, Il testo e le sue moltiplicazioni, al volume collettaneo da lui curato Il testo letterario. Istruzioni per l’uso, Bari, Laterza, 1996; F. Bertoni, Il testo a quattro mani. Per una teoria della lettura, Firenze, La Nuova Italia, 1996. Fa il punto sulla questione T. Fiorino, Il testo fra autore e lettore, Napoli, Liguori, 2003. Incentrato sul polo della lettura, di cui indaga i cambiamenti diacronici, è il volume collettaneo Storia della lettura nel mondo occidentale, a cura di G. Cavallo e R. Chartier, Bari, Laterza, 1995.
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ni morti, cose che le mani d’un vecchio dovevano scostare e fuggire; dopo, avrebbe richiuso la porta e si sarebbe messo a guardia contro chiunque avesse voluto forzarla. In quel nascondiglio bujo dei ricordi era pure una culla abbandonata: la culla di Lauretta ignara. - Sì, la mamma è morta, Wgliuola mia; morta nel darti alla luce.
Un viaggio intrapreso in Germania alla ricerca dell’antica Wamma si era già risolto per il Furri in un’inutile peregrinatio: aveva avuto la stessa inconsistenza di un ricordo. Possiamo dunque parlare per questo racconto di una rinascita mancata nel momento della risurrezione non ancora compiuta di Cristo, per quanto nient’altro consenta di avvicinare le due storie. La donna è una Wgura rimossa di cui non si attende e non si desidera il ritorno: la tedesca Anny, vissuta fra Germania ed Italia. Ad Anny sono attribuiti altri tre nomi: Aennchen, Hans (che hanno una certa aYnità fonica e genetica) e Riesin, la gigantessa («meine liebe Riesin»). Le quattro diverse nominazioni non hanno, almeno in questa novella, valore connotativo, salvo Hans, come vedremo, in ragione del suo statuto di nomignolo o soprannome. La donna pertanto rimane nel tempo e nello spazio fedele ad un suo carattere di personaggio sfuggente e oggettivamente indeWnito. Tento di individuare le ragioni, spesso multiple, dell’uso dei quattro nomi cominciando da Anny, che è di gran lunga il più usato sia nei colloqui della donna con gli altri personaggi sia nel ricordo che essi hanno di lei, tanto da poter essere considerato una sorta di base onomastica. Richiama il nome di quella Jenny renana che il giovanissimo Pirandello aveva conosciuto nel suo soggiorno a Bonn e che fornisce qualche tratto più o meno trasWgurato anche ai personaggi femminili di due altre novelle, Natale sul Reno e La levata del sole. Raccogliendo intorno ad Anny altri elementi onomastici e circostanziali sparsi qua e là in “Vexilla Regis...” per una sorta di gioco alla dispersione e diVrazione identitaria, possiamo comporre un quadro abbastanza deWnito delle nostalgie renane al tempo della composizione della novella. Anny aveva casa nella Wenzelgasse a Bonn, e lì, per la Poppelsdorf-allée, ella era certo andata a passeggio con le amiche; e lì, su l’ampio e lungo argine del Reno, aveva certo atteso il piccolo battello a vapore che tutto il giorno, come una spola, riallaccia la vita di Bonn a quella di Benel dirimpetto; o era andata Wn dove l’argine termina in un sentieruolo su la riva che conduce a Godesberg, a diporto, i dì festivi, 3
3. Di Poppelsdorf e della Poppelsdorf-allée Pirandello parla nelle lettere da Bonn del
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come aveva fatto la fanciulla di Bonn cara allo studente Pirandello. Come questa, inoltre, Anny era Wglia di un uYciale morto gloriosamente nella guerra del settanta. 4 Se aggiungiamo poi il cognome Lander, attribuito nel racconto alla governante tedesca, abbiamo con buona approssimazione il nominativo completo della Wlia hospitalis 5 del soggiorno renano, Jenny Lander, dedicataria della Pasqua di Gea. A dare maggiore deWnitezza al quadro delle nostalgie pirandelliane si aggiunga che Anny arriva a Roma con un cagnolino di nome Mopy o Mopchen, lo stesso assegnato al dalmata che il giovane Pirandello aveva avuto in un periodo della permanenza a Bonn. 6 Mi pare risulti chiaro sin d’ora che l’onomastica rientra prevalentemente, in questo caso, in un gioco abbastanza complesso di suggestioni memoriali: assai forti in Pirandello, che riconosce, scrivendo nel 1921 ad Ugo Ojetti, «La vita, o si vive o si scrive. Io non l’ho mai vissuta, se non scrivendola». 7 Procedendo nella nostra ricognizione, scopriamo che le motivazioni onomastiche sono più complesse e intricate di quanto sia già apparso. Ritornando al nome Anny, possiamo dire che esso, oltre ad essere base onomastica, rappresenta il punto di vista esterno del narratore, di gran lunga maggioritario rispetto a quelli interni dei personaggi. La governante, che ha conosciuto Anny fanciulla in Germania, la ricorda con 20 gennaio, 14 febbraio, 22 marzo 1890: cfr. L. Pirandello, Lettere da Bonn 1889-1891, Introduzione e note di E. Providenti, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 82, 91, 103. 4. La notizia sul padre di Jenny si ricava dalla lettera di Pirandello del 25 marzo 1890 in Lettere da Bonn, cit., pp. 106 e 107, ove così sono presentate la signora e la signorina Lander: «Ella [la signora] è di buona famiglia, vedova di un bravo uYciale morto il 1870 nella campagna franco-prussiana...»; «La Jenny (è questo il nome della signorina Lander) la mia simpatica amica, odiatrice a morte dei francesi, che le han morto il padre». Forti dubbi sul 1870 come anno di morte del padre di Jenny (che si chiamava August Schul(t)z ed era stato il primo marito di Alvina) ha qualche biografo pirandelliano: cfr., p. es., G. R. Bussino, Jenny, l’amica renana di Pirandello, «Ariel», 3, 1995, pp. 139-184, che sposta quella morte a «un paio d’anni dopo, in seguito a ferite riportate in battaglia» (p. 145, n.). 5. La «Wlia hospitalis» è Jenny Lander, Wglia di Alvina (padrona di casa di Pirandello a Bonn): la dizione è in F. V. Nardelli, L’uomo segreto Vita e croci di Luigi Pirandello, Milano, Mondatori, 19442, p. 113. Nella novella L’onda, però, è chiamata Wlia hospitalis la Wglia dell’inquilina del protagonista. 6. Di questo cane dalmata Pirandello parla nelle lettere del 17 dicembre 1889 e del 25 gennaio 1890: cfr. la citata edizione delle Lettere da Bonn, pp. 71-72 e 84-85. 7. La lettera del 10 ottobre 1921 è in L. P., Carteggi inediti (con Ojetti-Albertini-OrvietoNovaro-De Gubernatis- De Filippo), a cura di S. Zappulla Muscarà, Roma, Bulzoni, 1980, p. 82.
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l’ipocoristico dichiaratamente germanico Aennchen, «la mia Aennchen», ovvio per un’anziana nostalgica, ancora pervicacemente attaccata ad un passato di aVetti ormai inesistenti, diYdente nei confronti di quanto è straniero e soprattutto italiano, come testimonia la scarsa simpatia per il padre di Lauretta. Ma Aennchen è anche il nome della giovane protagonista della novella su ricordata La levata del sole, trasWgurazione in negativo della reale fanciulla di Bonn. 8 Hans poi è il nomignolo con cui tutti chiamavano in Germania la protagonista di “Vexilla regis...” in ragione della sua vivacità mascolina, «come maschio, perché era così ... come si dice? tutto spirito ... un cafallino...»; e come nomignolo è l’unico nome dichiaratamente parlante della serie. Riesin, inWne, o meine liebe Riesin, è l’appellativo aVettuoso con cui Mario Furri la chiamava nell’intimità, ma pare non abbia niente a che vedere con le dimensioni della donna, esprimendo soltanto l’appartenenza a lui, che era eVettivamente un gigante, un Riese, «come lei lo chiamava». La ragione di gran lunga prevalente dell’uso di Riesin e Riese è però da ritrovare nel fatto che le due nominazioni non sono altro che il ricupero dei nomignoli aVettuosi che Pirandello attribuiva a Jenny Lander e a se stesso nelle lettere legate all’amore per la fanciulla di Bonn. 9 Non più che un cenno dedico, almeno per una parvenza di equità, al protagonista maschile della storia, l’avvocato Furri. Egli ha sempre nascosto alla Wglia Lauretta che la madre era viva; ora impedisce alla madre di conoscere la Wglia, cioè gliela sottrae (sottrarre nel testo), 10 per vendicarsi del fatto che Anny, abbandonandolo, gli ha rubato (rubare nel testo) 11 la felicità e la vita. Ma il Furri era anche reo, agli occhi della madre di Anny, di essersi portato via (ancora sottrarre nel testo) 12 Anny. Dunque, se Anny ha rubato a Furri la felicità, Furri ha rubato Anny alla madre e la Wglia ad Anny. 8. La levata del sole è analizzata nel capitolo che segue. 9. Sono lettere a Jenny del 1890-1891 ritrovate recentemente negli Stati Uniti: il più alto numero è pubblicato in R. Sanseverino, Lettere a Bonn: ‘Liebe Jenny...’ (1890-1891). Ritrovate in America le lettere di Pirandello a Jenny Schulz-Lander, «Lunarionuovo», xi, 52, 1990, pp. 3-29, e in Bussino, Jenny, l’amica renana di Pirandello, cit. (a cui si rimanda anche per la bibliograWa relativa al periodo giovanile pirandelliano). 10. «Soltanto – ah questo sì! – condurre lontano la Wglia, sottrarla a ogni probabile pericolo». 11. «Ma mi vedo davanti ciò che ho perduto, ciò che tu mi hai rubato». 12. «Quante volte le chiedemmo perdono, ricordi? A te faceva le viste di perdonare, perché dentro meditava la fuga e temeva che tu, scorgendo ancora in lei avversità per il nostro matrimonio, non mi sottraessi a lei un’altra volta».
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Il secondo Wlo rosso che lega le vicende di “Vexilla regis...”, insieme a quello rappresentato dalla (mancata) rinascita dopo la morte, è il furto dei sentimenti; tanto che la novella si potrebbe intitolare anche Amori rubati. Il tema, che comincia a delinearsi già ad apertura di racconto nell’angoscia manifestata dalla governante, convinta che il Furri le abbia sottratto una lettera arrecante notizie del suo antico amante (ma la lettera arrivata è quella di Anny al Furri), il tema, dunque, è nascosto nel cognome del protagonista, Furri (addirittura scritto da Anny, con scempiamento della doppia, Furi: e si tenga presente quale vis informativa abbiano in Pirandello gli ‘errori’ onomastici). 13 Ma non risulta nella quadruplice nominazione della protagonista, che pure è colpevole dello stesso reato. Venendo al punto che soprattutto ci interessa, possiamo dire che Furri-Furi è nome connotativo. Ma connotativo di che cosa? Delle mancanze reali e supposte di chi lo porta o anche di quelle della sua compagna? E pertanto del tema generale della novella? Nome, cognome, soprannome di Canta l’Epistola Il protagonista della novella omonima, dedicatosi al sacerdozio e arrivato al suddiaconato, l’ordine che consente di accompagnare il diacono servendolo nella celebrazione della Messa e cantando l’Epistola, ha perso la fede; e con questa tutto ciò che costituiva il suo mondo e la sua stessa ragione d’esistere: dall’abito sacerdotale e dalla possibilità di vivere col lascito condizionato dello zio sacerdote alla stima del padre e dei paesani, agli stessi sensi intimi («senza più aVetti, né desiderii, né memorie, né pensieri»). È rimasto, insomma, «senza più nulla che desse senso e valore alla propria vita», senza «più coscienza d’essere, come una pietra, come una pianta», in una rimessa continua non risarcita da alcun guadagno. Essendo pervenuto ad una condizione di «smemorata mestizia», ha perso memoria anche del proprio nome. Ma il nome, anzi i nomi nella realtà non sono completamente scomparsi, pur rivelandosi prima o poi inadeguati in varia misura e per varie ragioni alle caratteristiche del personaggio. Nomi non caratterizzanti o caratterizzanti per antifrasi, che non hanno più o non hanno mai avuto corrispondenza diretta di signiWcato con il nominato. Nomi dunque semanticamente inerti. Il prenome Tommasino si rivela inadatto ad un corpo che, abbandonato a se stesso dallo spirito angosciato, è divenuto Xorido oltre misura: «Altro che Tommasino, adesso! Tommasone» annota l’autore, interprete 13. Rinvio a quanto dico su Nonnis-Nonis nel capitolo vii.
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del sentire del paese. Il cognome Unzio, che probabilmente – come è parso a molti lettori – fa riferimento all’unzione sacerdotale, si rivela anch’esso inadeguato o addirittura antifrastico per chi a quell’unzione rinuncia per la perdita della fede. 14 Resta, inWne, il nomignolo Canta l’Epistola, appiccicatogli dai compaesani quand’egli ha già perso la fede e, «uscito [...] dal seminario senza più tonaca», non può ormai cantare l’Epistola. 15 Il nomignolo connota in questo caso, sin dal momento dell’imposizione, un’assenza: ciò che è perspicuo nelle prime battute del racconto registranti il dialogo tra il protagonista e un irridente dottor Fanti in cospetto degli sfaccendati sghignazzanti (nasce irresistibile la tentazione di citare il detto «scherza coi fanti e lascia stare i santi»!): - Ah, dunque voi cantavate il Vangelo? - Nossignore. Il Vangelo lo canta il diacono; il suddiacono canta l’Epistola. - E voi allora cantavate l’Epistola? - Io? proprio io? Il suddiacono. - Canta l’Epistola? - Canta l’Epistola. [...] E così a Tommasino Unzio, uscito suddiacono dal seminario senza più tonaca, per aver perduto la fede, era stato appiccicato il nomignolo di Canta l’Epistola.
Nel vuoto che si è determinato, cioè nella dissoluzione dell’essere come persona e come nominazione, l’ex Tommasino Unzio Canta l’Epistola trova un esilissimo Wlo a cui attaccarsi (si ricordi «l’esile Wlo di vita» di Piuma): un reale Wlo d’erba di cui segue la crescita con tutto l’interesse che l’istinto vitale riconvertito gli consente. Egli cioè vive ora non la vita propria, bensì quella dell’essere vegetale («E ogni giorno, per una o due ore, contemplandolo e vivendone la vita, aveva con esso tentennato ad ogni più lieve alito d’aria...»), con cui si è perfettamente identiWcato, come risulta da due notazioni. Secondo la prima, al Wlo d’erba 14. Mi fa notare Filippo Cocchella, studente della Facoltà di Lettere di Pisa a cui è stata assegnata una tesi di Onomastica letteraria, che Tommaso Unzio era il nome di un beato francescano del secolo xiv di Foligno, autore di scritti religiosi in prosa e in versi. Se si dimostrasse che il personaggio antico fu in qualche modo noto a Pirandello, ciò sarebbe un’altra testimonianza della funzione non puramente connotativa dei nomi. 15. Il nomignolo Canta l’Epistola, che si riferisce al passato del protagonista, piuttosto che a quanto avviene nella novella, fornirebbe uno dei titoli pirandelliani «meno legati al racconto» per F. Fido, Un autore in cerca di titoli: tattiche e suggestioni titolistiche nelle “Novelle per un anno”, in Giornata di Studi nel i cinquantenario della morte di Luigi Pîrandello, a cura della ii Università degli Studi di Roma, Dipartimento di Lingue e Letterature Moderne e Comparate, Roma, La Nuova Copisteria, 1988, p. 20.
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che cresce è attribuita da Tommasino «la curiosità d’ammirar lo spettacolo che si spalancava sotto, della verde, sconWnata pianura», cioè lo stesso sentimento che caratterizza lui, Tommasino, «davanti all’ampio spettacolo della natura, a quell’immenso piano verde...». La seconda notazione identiWca Wlo d’erba e personaggio nel momento in cui il vegetale è strappato senza ragione dalla signorina Fanelli: distrattamente, allungando la mano, aveva strappato giusto quel Wlo d’erba e se l’era messo fra i denti col pennacchietto ciondolante. Tommasino Unzio s’era sentito strappar l’anima.
A questo punto il personaggio, avendo perso anche la possibilità di una vita sostitutiva, non può far altro che andare incontro alla morte. 16 Delle tre nominazioni inadeguate una, il nomignolo, addirittura scompare. Canta l’Epistola, abbondantemente presente nella prima parte del racconto (vi Wgura, direttamente come nome o indirettamente nell’accostamento dei lessemi, nove volte) è assente, sostituito dalle nominazioni anagraWche, nella seconda parte, ove la vicenda, con la sWda a duello del tenente De Venera e la morte del protagonista, volge al tragico. L’ultima apparizione, la decima, si ha nell’incipit della seconda parte, là dove si riproducono con perfetta simmetria rispetto all’incipit della prima parte le chiacchiere del paese sfaccendato: D’un tratto, come una raYca, corse per tutto il paese una notizia che sbalordì tutti: Tommasino Unzio, Canta l’Epistola, era stato prima schiaVeggiato e poi sWdato a duello dal tenente De Venera, comandante il distaccamento, perché, senza voler dare alcuna spiegazione, aveva confermato d’aver detto: – Stupida! – in faccia alla signorina Olga Fanelli, Wdanzata del tenente, la sera avanti, lungo la via di campagna che conduce alla chiesetta di Santa Maria di Loreto.
Il nomignolo, assente nella sua forma intera, compare, sotto forma di anagramma, anche se non perfetto, del termine Wnale Epistola, durante le fasi più signiWcative, diremmo cruciali, della conclusione tragica: nell’oVesa «stupida» rivolta alla signorina Fanelli e nella «pistola» del duello da cui parte il colpo che lo ucciderà. In queste fasi la sostituzione
16. Un’interpretazione di Canta l’Epistola diversa anche rispetto alle precedenti dà A. R. Pupino, Nomi e anonimi di Pirandello. Qualche esempio, «il Nome nel testo», ii-iii, 20002001, pp. 163-181 (poi in Idem, La maschera e il nome, Napoli, Liguori, 2001). Secondo Pupino, per Tommasino Unzio, come per Vitangelo Moscarda, non si tratta di «morte propriamente detta», ma di fuga «verso il divenire incessante di una vita all’unisono con l’universo e i suoi cicli», in una sorta di «panismo» alla Pirandello (dalle pp. 171-172 dell’articolo).
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è sottolineata da un reiterato impiego del termine anagrammante, così come nella prima parte della novella si era registrato un reiterato impiego del nomignolo irridente. Le voci sostitutive di Epistola, cioè stupida e pistola si susseguono la prima cinque volte, la seconda quattro volte. Gli anagrammi dello scambio nell’Illustre estinto L’anagramma, in cui è da intravedere un proposito di occultamento piuttosto che di appalesamento, un esito di intorbidamento più che di trasparenza, è presente anche nell’Illustre estinto. Ho già esaminato questo testo 17 sotto il proWlo delle vicende parallele, anche se di diverso signiWcato, dei due personaggi principali, il ministro Costanzo Ramberti e il segretario particolare, cav. Spigula-Nonnis; dei quali il primo patisce una deminutio materiale, il secondo onomastica. Aggiungo ora un dato che nel primo approccio al testo non ho preso in considerazione, e cioè il fatto che esiste un preciso e insistito abbinamento anche fra le vicende post mortem del ministro e del povero seminarista di Avezzano. Destinato alle trionfali accoglienze del paese d’origine, Valdana, il feretro dell’illustre estinto, per un errore del personale ferroviario, viaggia spoglio in un treno vecchio e sporco verso Avezzano, dove nessuno lo attende; mentre il feretro dell’estinto oscuro compie il percorso verso Valdana, adorno di corone e paramenti. C’è stato uno «scambio dei vagoni mortuari», uno «scambio indegno» (come sarebbe apparso al Ramberti se ne avesse avuto coscienza); e oggetti dello scambio sono i feretri di persone che si richiamano nelle qualiWche quasi compiutamente anagrammabili: il ministro-il seminarista. Il quale ultimo reca irriconoscibile, perché nascosto al centro della nominazione Feliciangiolo Scanalino e sicilianizzato, il termine chiave dell’episodio: scangio, «scambio». Si può parlare allora di nome parlante o trasparente almeno nel senso in cui lo sono, p. es., Chiara 18 o Nigrenti? 19 O non sarebbe piuttosto da chiamare in causa una categoria di nomi deWniti opachi e reticenti? Sciaramè nome reticente I personaggi della novella Le medaglie sono disposti secondo rapporti binari oppositivi intercorrenti non solo fra il protagonista, Sciaramè
17. Cfr. ancora il capitolo vii. 18. Novella Due letti a due. 19. Novella La veste lunga.
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appunto, e gli altri comprimari, ma anche fra l’uno e l’altro dei comprimari. Mi collego, con questa aVermazione iniziale, alla teoria di Lotman sull’opposizione di personaggi e caratteri nell’opera letteraria, dando per acquisiti i principi da lui enunciati, del tipo: «per essere messi in contrapposizione i caratteri devono essere» confrontabili; uno stesso personaggio è contrapposto agli altri in maniere diverse; «il carattere si costruisce non tanto come possibilità di comportamento nota a priori, quanto come paradigma, come collezione di possibilità». 20 Ma cerco di procedere in direzione più aderente al testo pirandelliano notando che le due serie di rapporti agiscono nell’intreccio sia sulla successione delle sequenze sia sul sistema dei segni e della nominazione. Alla prima serie appartengono le opposizioni tra Sciaramè e la Wgliastra Rorò dalla camicetta rossa Wammante, soprannominata la Garibaldina, la quale giudica il vecchio un inetto o addirittura un imbecille, oltre che un ostacolo al suo Xirt col giovane Rosolino La Rosa; tra Sciaramè e il La Rosa, che, pur essendo un reduce recente da Domokòs, 21 mira a far parte della Società dei vecchi Reduci Garibaldini ospitata in casa Sciaramè; inWne tra Sciaramè e il Presidente della Società, Amilcare Bellone, che ostacola le pretese del La Rosa e considera il suo Xirt con la Wgliastra di Sciaramè come possibile cavallo di Troia del giovane. Nella serie di rapporti oppositivi fra comprimari rientrano quello, cui si è or ora accennato, fra il Presidente della Società dei vecchi Reduci e il gruppo di Rosolino e dei giovani compagni reduci da Domokòs; e l’altro fra il Presidente e Rorò. I comprimari, dunque, risultano divisi in tre gruppi che ricapitolo per chiarezza: gli antichi reduci garibaldini del Sessanta capeggiati da Amilcare Bellone; le nuove camicie rosse che non avevano potuto far altro che seguire il Wglio di Garibaldi nell’impresa di Grecia, capeggiate da Rosolino La Rosa; la Garibaldina ad honorem Rorò dalla Wammante camicetta rossa. È apparso chiaro a qualche lettore che «il rosso domina la novella» e caratterizza, almeno per Rorò e Rosolino La Rosa, la Wsiognomica e l’onomastica, la quale ultima è trasparentemente allusiva. 22 Occorre però aggiungere qualche correzione e qualche completa-
20. J. M. Lotman, La struttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1985, pp. 295 ss. (ed. orig. Mosca, 1970). 21. Cioè dall’impresa contro i Turchi capeggiata nel 1897 in Grecia da Ricciotti Garibaldi. 22. Cfr. L. Salibra, ‘Il nome etichetta’ nelle novelle di Pirandello, «Le forme e la storia», iv, 3, 1983, p. 481.
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mento. Se il rosso caratterizza non solo le camicie ma anche il Wsico dei personaggi, lo fa con diversa accentuazione: si pensi da una parte al volto dell’entusiasta Rorò che si accende di un rosso deciso come quello della camicetta («più rossa in volto della sua camicetta») e dall’altra alla barba biondo-rossastra di Rosolino, che, essendo garibaldino fuori tempo, perciò abusivo, non può avere che toni sfumati. L’antroponomastica si adatta alla scala cromatica: Rorò è un ipocoristico a raddoppiamento sillabico di un rosso Wammante, Rosolino La Rosa è nominazione di un rosso spento. I luoghi si conformano: fra le località dell’impresa garibaldina vissuta con eroismo dal fratello giovinetto di Sciaramè è ricordata Gibilrossa; sulla porta dell’Associazione dei veri Reduci l’indicazione è scritta «a grosse lettere rosse». Si consideri inWne che l’antroponomastica rientra, anche se non colorata di rosso, nella generale atmosfera eroica registrando, comicamente degradati, chiari nomi di guerrieri classici e della stessa divinità della guerra, e là dove la sorte del personaggio è funesta, utilizzando piuttosto copertamente l’allusione solenne. È così che il Presidente della Società garibaldina si chiama, con eccesso di signiWcazione, Amilcare Bellone; il Wrmatario della lettera che smaschera l’inappartenenza di Sciaramè alla schiera dei garibaldini ha il nome allusivo di Alessandro; mentre il pluridecorato (con merito) fratello di Sciaramè, Stefano, ricorda nel nome, anche se non ostentatamente, e la corona dell’eroe e il padre dell’autore che fu proprio un garibaldino. Ma abbandono volentieri questo tipo di onomastica prevalentemente allusiva anche per non uscire dal seminato o contravvenire, quel che è peggio, al mio assunto, e tento di deWnire caratteristiche e onomastica del protagonista, che è pirandellianamente ‘umoristico’ perché «personaggio serio in un mondo comico (caotico)». 23 Egli non rientra nel sistema delle marche guerresche perché è l’unico personaggio a non averne in alcun modo diritto: porta, infatti, abusivamente nelle feste patriottiche la camicia rossa «scolorita» e le medaglie dell’eroico fratello Stefano. Il suo colore è piuttosto il giallo: i documenti che provano l’uso ingannevole dei cimeli del fratello sono «logori, ingialliti»; nelle vecchie redazioni del 1904 e 1906 la sua cameruccia «pareva ingiallita dalla bile e dalla miseria», o «ingiallita dalla miseria come il volto del suo padrone». Con questa perspicua degradazione coloristica pare contrastare l’insigniWcanza della nominazione. Sia Carlandrea che Sciaramè non 23. Citazione da G. Guglielmi, La prosa italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1986, p. 83.
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hanno detto nulla – ch’io sappia – ai numerosi interpreti, specialisti e non, di onomastica pirandelliana: il che esclude che essi siano per il lettore nomi trasparenti o chiaramente allusivi. Non sono nemmeno connotati in senso regionalistico, non essendo il prenome di tipo siciliano, come lo è invece Rosolino, e non appartenendo il cognome a nessuna zona dell’isola né, a quanto pare, d’Italia. Ma è possibile che proprio il protagonista abbia, in questa novella a così forte tasso di funzionalità onomastica, nomi funzionalmente inconsistenti? Un modo di rispondere al dubbio potrebbe essere quello di vedere in questa mancanza una ragione dell’inappartenenza di Sciaramè ai vari gruppi di eroi vecchi e nuovi, reali e ad honorem, una caratterizzazione pertanto non in praesentia bensì in absentia signiWcationis. Egli infatti è la Wgura dell’escluso a cui si attagliano termini ed espressioni come espellere, cacciare, uscire dal sodalizio, Fuori! Fuori! Una qualche giustiWcazione di tale procedimento onomastico potremmo trovarla nell’aVermazione di Philippe Hamon relativa all’importanza di introdurre un nome di un certo tipo in mezzo a nomi di diversa tipologia al Wne di stabilire l’opposizione di un personaggio agli altri dello stesso racconto. 24 Ma si possono forse dare risposte più soddisfacenti al dubbio, se si scava più a fondo nella conformazione e costruzione del personaggio. Carlandrea Sciaramè, unisce ai tratti dell’escluso quelli di due altre tipologie attanziali: lo sciocco e il debole fra i prepotenti (cioè il vaso di coccio costretto a scontrarsi con vasi di ferro). Per quel che riguarda la prima, registriamo, oltre all’imbecillità che gli attribuisce Rorò, il mammalucco e lo stupido datigli da Amilcare Bellone: per cui sarebbe giustiWcabile una deformazione, ad uso più dell’autore che del lettore, di calandra, calandrino, cioè di un termine dell’avifauna così frequentemente chiamata in causa da Pirandello, come testimoniano almeno gli esempi di Ciàula, Cirlinciò, Cirinciò (forse), 25 Pinzone, Rondone e Rondinella. Ma le motivazioni e le funzioni di un nome sono spesso molteplici, al punto che si potrebbe parlare a buon diritto di poligenesi e polifunzionalità... Sospendo qui il discorso, pronto a riprenderlo col sostegno di qualche dato subito dopo aver esempliWcato la psicologia dell’uomo senza coraggio e del vaso di coccio fra i vasi di ferro, che già era stata di don Abbondio. 24. Ph. Hamon, Pour un statut sémiologique du personnage, in Poétique du récit, Paris, Seuil, 1977, pp. 127 ss. 25. Per Luciana Salibra, op. cit., p. 486, Cirinciò in La maschera dimenticata è una variante di Cirlinciò (in La berretta di Padova), che «signiWca per Pirandello ‘uccello sciocco’».
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Cito per questo alcuni lacerti delle Medaglie che rinviano al romanzo manzoniano: quella mattina, cercava il coraggio di dire una certa cosa; e non lo trovava Nessuno supponeva che il povero Sciaramè, tra la Wgliastra e il Bellone, fosse come tra l’incudine e il martello E se lo misero in mezzo e presero a parlare concitatamente tutti insieme e chi lo tirava di qua e chi di là Erano venuti i nuovi garibaldini, avevano litigato coi vecchi, e lui c’era andato di mezzo.
L’intero episodio del colloquio di Sciaramè, in un primo momento con Rosolino La Rosa e Rorò che lo stanno aspettando, e poi col solo Rosolino, è intessuto con Wli tratti dal colloquio di don Abbondio con i bravi: una certa analogia è nei prodromi («Quando Rorò, che se ne stava seduta presso la porta, scorse il patrigno da lontano, fece segno a Rosolino La Rosa di scostarsi e di sedere al tavolino dei giornali. Il La Rosa con una gambata fu a posto...»), nell’atteggiamento ossequioso di Sciaramè («si volse con un fare umile e sorridente»), nel suo discorso a mezzo fra lusinghe e declino di responsabilità («E io, per conto mio, mi sento onorato...»; «Onoratissimo, caro don Rosolino...»; «Però, ecco, io qua sono padrone e non sono padrone...»). La precisione descrittiva dei movimenti e la mimesi dialogica conferiscono alla scena pirandelliana lo stesso andamento teatrale dell’episodio manzoniano. Da aggiungere che anche il colloquio di Sciaramè ha sullo sfondo un matrimonio che non s’ha da fare, quello fra Rosolino e Rorò, per imposizione di Amilcare Bellone. Certo, i due con cui si scontra Sciaramè sono proprio i giovani che non si dovrebbero frequentare, e Amilcare Bellone non è spinto da infatuazione nei confronti della ragazza ma dal proposito di impedire a Rosolino l’ingresso nella Società Garibaldina, per cui i due giovani Wniscono per partecipare ad uno scontro fra generazioni diverse che non apparteneva certo all’ideologia del Manzoni, ecc. ecc. I Wli manzoniani sono ritessuti da Pirandello in altro modo e secondo un altro verso sì da diventare quasi irriconoscibili, in un vero e proprio gioco a due con l’ipotesto che tende ad escludere la partecipazione del lettore. 26 26. L’«agnizione di lettura» qui proposta (per l’espressione cfr. G. Nencioni, Agnizioni di lettura, «Strumenti critici», 2, feb. 1967, pp. 187-198) non risulta in I. Scaramucci, Pirandello lettore del Manzoni, in Omaggio ad Alessandro Manzoni nel bicentenario della nascita, Assisi, Accademia Properziana del Subasio, 1986, pp. 87-103, e nemmeno nell’attento lavoro di F. Zangrilli, Pirandello e i classici Da Euripide a Verga, Firenze, Cadmo, 1995, il cui capitolo iv è dedicato proprio a Pirandello e Manzoni.
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Il cognome Sciaramè può esser collocato in questo quadro di rapporti criptati col Manzoni: in siciliano ciaramita è il coccio, il pezzo di vaso rotto di terracotta. Sciaramè può richiamare ciaramita in virtù di generica aYnità paronomastica o anche di formazione pseudoetimologica con preWsso -s raVorzativo. 27 Il signiWcato del lessema regionale non esaurisce le valenze del personaggio, perché si combina con le suggestioni provenienti da un testo esemplare, volte però in direzione di nuovi signiWcati, secondo quel fervido incontro di permanenza nel sistema e innovazione che caratterizza la buona letteratura. 28 Nella trasmissione intertestuale del megasegno costituito da ogni personaggio,29 invarianza e innovazione si distribuiscono in misura diversa nei riguardi della persona e del nome, nel senso che il contatto è più stretto ora fra le persone (i signiWcati del segno) ora fra le nominazioni (i signiWcanti del segno): e il discorso potrebbe valere anche nel passaggio dalla realtà alla letteratura. Se Sciaramè ha certi tratti, ma non il nome, del curato manzoniano, la governante Alvina Lander di “Vexilla Regis...” ha nome e cognome, non certo le caratteristiche, della signora di Bonn, madre di Jenny, che ospitò in casa lo studente Pirandello. Uno studio teorico e storico di come il passaggio di volta in volta avvenga non sarebbe superXuo nel campo della ricerca intertestuale e onomastica. Prima di concludere, riprendo il discorso sospeso sulla poligenesi e polifunzionalità della nominazione. Di Carlandrea, nome di battesimo di Sciaramè, ho suggerito una possibile interpretazione metaforica. Aggiungo ora che Carlandrea è nome che compare in un altro fondamentale momento di don Abbondio, la notte del matrimonio per sorpresa, e compare in coppia con Stefano: «L’avrà sognato Stefano, il pellegrino. - No, no: l’ha visto anche Carlandrea». Non credo si possa escludere risolutamente che la coppia manzoniana Carlandrea-Stefano abbia esercitato una qualche remota suggestione nella formazione della coppia onomastica di Sciaramè e di suo fratello nella novella di Pirandello. Anche un solo nome può essere spia di un rapporto intertestuale, come ultimamente è stato dimostrato a proposito della ripresa in Renzo e Lucia 27. G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Sintassi e formazione di parole, Torino, Einaudi, 1969, § 1012. 28. Per il problema puoi vedere Corti, Principi della comunicazione letteraria. Introduzione alla semiotica della letteratura, cit., soprattutto il cap. i Letteratura e comunicazione. 29. Sull’‘omologazione’ del personaggio al segno cfr. D’A. S. Avalle, Modelli semiologici nella “Commedia” di Dante, Milano, Bompiani, 1975, con rinvii a Saussure, p. 19.
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e nei Promessi Sposi del nome Bettina, proprio della goldoniana «putta onorata». 30 Se questo è vero, bisogna trarne la conclusione che la nominazione Carlandrea Sciaramè (considerata per intero), signiWcante l’esclusione dai sistemi onomastici del rosso e dell’eroico, ha valore anche in quanto si inserisce nel complesso delle suggestioni provenienti da un modello narrativo apprezzato ed amato da Pirandello.
30. A. Del Gatto, Dalla commedia di Goldoni ai “Promessi Sposi”. Preliminari, «Linguistica e Letteratura», xxviii, 1-2, 2003, pp. 148-169 (cfr. pp. 162-164).
x PER UNA LETTURA SIMBOLICA DELLA NOVELLA la levata del sole
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redo opportuno premettere all’analisi uno schema riassuntivo del testo nella redazione in due parti (i e ii) pubblicata nel 1926 1 e ristampata nelle raccolte mondadoriane delle «Novelle per un anno»: i. È notte inoltrata. In un interno domestico non localizzato un uomo, di cui non si conosce la provenienza (sociale, cittadina, regionale), nauseato dalla vita vissuta troppo edonisticamente e privo di prospettive per l’insopportabile presenza di una moglie soVocante e per una grossa perdita di gioco appena subita, decide di uccidersi con un colpo di rivoltella. Mentre pensa alla lettera di commiato da scrivere, sente crescere improvviso il desiderio, lui che ha sempre cercato di godere dei piaceri della vita, di veder nascere il sole sulla campagna, rimandando così il suicidio alla Wne dello spettacolo. Assieme al presente degli accadimenti narrati, reso coi tempi grammaticali dell’imperfetto e del perfetto, sono presentati con Xashback, nel tempo grammaticale del piuccheperfetto, momenti anteriori: 2 il più importante dei quali è l’occasione che aveva fatto incontrare il protagonista con la donna da lui poi sposata. 3 In un viaggio in Germania «nelle amene contrade del Reno», infatti, e precisamente nella vecchia Colonia cattolica, egli era stato scherzosamente tentato con una piuma, durante i tripudi dell’ultima notte di Carnevale, da un gruppo di tre giovani sconosciute ingioiellate e provocanti. Accettando il loro 1. L. Pirandello, Il vecchio Dio, Firenze, Bemporad, 1926. 2. Per lo studio dei tempi verbali nel racconto sono indispensabili E. Benveniste, Le relazioni di tempo nel verbo francese, in Problemi di linguistica generale, Milano, il Saggiatore, 1971 (ed. orig. 1966), pp. 283-297; H. Weinrich, Tempus. Le funzioni dei tempi nel testo, Bologna, il Mulino, 1978 (ed. orig. 1964), soprattutto le pp. 1-36, 147-190, che contengono analisi di novelle pirandelliane; P. Ricœur, Tempo e racconto, ii, La conWgurazione nel racconto di Wnzione, Milano, Jaca Book, 1994 (ed. orig. 1984), pp. 104-165. Ultimamente la questione è stata ridiscussa in modo chiaro da L. Lugnani, Del tempo. Racconto discorso esperienza, Pisa, ets, 2003, pp. 193-206 (cap. Tempi verbali e tempo). 3. Potremmo chiamarla anche «analessi completiva» per usare la terminologia di G. Genette, Figure iii Discorso del racconto, Torino, Einaudi, 1976 (ed. orig. 1972), pp. 99 ss.
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scherzo e restituendo ad una delle tre la piuma, da accompagnarsi, «al patto convenuto nella tradizione carnevalesca», con un bacio o un buVetto sul naso, era rimasto fatalmente intrappolato. ii. Il protagonista è uscito di casa per osservare la levata del sole: mancano tre ore o forse più al momento aspettato. Il presente degli accadimenti narrati è ora prevalentemente reso col perfetto. Nell’attraversare le ultime vie cittadine egli incontra un repellente, quasi bestiale, raccoglitore di cicche dall’andatura traballante, che gli propone un incontro con qualche femmina di malaVare. Oltrepassate le ultime case della città cloaca e giunto al punto in cui la strada sbocca nei campi, si arresta smarrito. Guarda in alto al cielo palpitante di stelle e percepisce la diVerenza fra il silenzio, la pace, l’«attonita, smemorata quiete» della natura e la guerra, l’«intrigo di tristi passioni», la «noja acre e smaniosa» della città. Si addentra nella campagna procedendo verso destra lungo un fosso, e verso l’alto quando monta sul ciglio della via che costeggia il fosso. Dopo aver camminato a lungo (è quasi l’ora del sorgere del sole), si siede per terra in attesa dell’evento. Esauritasi la novità e poi la tensione del procedere, comincia a considerare pazzia quella faticosa camminata nel freddo e nell’umido della notte, che ora avverte popolata di presenze e rumori sempre più paurosi e inquietanti (gli alberi, i grilli, le foglie, un cane, un gallo): Gli alberi, sfrondati dalle prime ventate d’autunno, gli sorgevano innanzi come fantasmi dai gesti pieni di mistero. Per la prima volta li vedeva così e ne sentiva una pena indeWnibile. Di nuovo si fermò perplesso, quasi oppresso di pauroso stupore. Tese l’orecchio a quel canto [dei grilli], con tutta l’anima sospesa: percepì allora anche il fruscio vago delle ultime foglie, il brulichio confuso della vasta campagna nella notte, e provò un’ansia strana, una costernazione angosciosa di tutto quell’ignoto indistinto, che formicolava nel silenzio. Un cane abbajò, poco lontano. - Eh, no ... se non è permesso ... Morire, sì, ma con le gambe sane. - Che è stato? Sbarrò gli occhi, e la notte nera gli si spalancò tutt’intorno nella paurosa solitudine. Il sangue gli sfrizzava per tutte le vene. Si trovò in preda a una vivissima agitazione. Un gallo, un gallo aveva cantato lontano, in qualche parte ... ah ecco, e ora un altro da più lontano gli rispondeva ... laggiù, nella Wtta oscurità. - Perbacco, un gallo ... che paura!
Alla percezione euforica delle luci segue pertanto la percezione disforica dei rumori. Tutto ciò ridà spazio prima al buon senso, che gli fa considerare «Pazzia, sì, quella scampagnata notturna poco allegra» e più comoda la soluzione del suicidio in casa («Avrebbe fatto meglio a uccidersi in casa, comodamente...»); e poi ad un vero e proprio attacca-
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mento alla vita, per cui prova una sorta di piacere sensuale nell’accarezzare la terra «come si accarezza una femmina passandole una mano su i capelli». Sinché il sole sorge senza che lui se ne accorga perché dorme profondissimamente col capo appoggiato ad un masso. Si tratta in apparenza di una mera storia di disperazione e nausea della vita, favorite dall’insoVerenza nei confronti della moglie e dal peso dei debiti di gioco. Nella vicenda, che essenzialmente è di un tipo non inusuale nella narrativa borghese fra Otto e Novecento, il suicidio non si attua per una serie di resistenze e dilazioni più o meno consapevoli, come il desiderio di assistere alla levata del sole, la percezione dell’armonia luminosa, la paura di presenze inquietanti, la fatica Wsica, il fastidio del freddo e dell’umido... Molti elementi presentati non esauriscono però il loro signiWcato in una interpretazione esclusivamente realistica. Tanto insistiti e talvolta immotivati essi appaiono da indurre a veriWcare la possibilità di inquadrarli in un secondo tipo di lettura. Essi si addensano soprattutto nella prima parte, che presenta la disperazione, la distruzione morale dell’uomo, col connesso Xashback dell’incontro a Colonia con la donna che lui ha poi sposato, quasi che l’autore intenda esibire sin dall’inizio i dati più adattabili ad un’interpretazione non realistica. E sono, innanzi tutto, l’interno notturno in cui un lumetto velato e singhiozzante fa risaltare ombre in movimento ma non oggetti; secondariamente, la presenza dell’altro abitatore del luogo, la moglie, il cui richiamo rauco e raschioso – Gosto! Gosto! – giunge «dalle stanze inferiori della casa» come se lei comunichi «da sottoterra»; in terzo luogo, la Wgura stessa del protagonista, che «così bianco di cera, così tutto parato di gala» ha le sembianze di un morto: E intanto, così bianco di cera, così tutto parato di gala, in marsina, con quello sparato lucido, e così tutto guizzi di riso nella faccia da morto...
Ci troviamo pertanto in cospetto di quella riconoscibilità del «modo simbolico» che Eco ha basato sul «fuori posto», sull’«eccedente», sull’«inesplicabilmente insistito»: «L’attenzione al modo simbolico nasce dall’aver rivelato che qualcosa nel testo c’è, fa senso, oppure avrebbe potuto non esserci, e ci si chiede perché ci sia». 4
4. Cfr. U. Eco, Sulla letteratura, Milano, Bompiani, 2002, p. 164 (è il cap. Sul simbolo, coincidente con la relazione tenuta al Convegno su Il simbolo oggi. Teorie e pratiche, Siena, 24-26 novembre 1994). Meno utile risulta la deWnizione del simbolo come signiWcazione «indiretta» o «secondaria» data da Tz. Todorov, Teorie del simbolo, a cura
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L’interno descritto, privo di localizzazione che non sia quella ipogea, ma anche di ambientazione cronologica oltre quella notturna, si proWla come un simbolico luogo di dannazione in cui un cadaverico personaggio è nelle grinWe di una berciante Wgura diabolica. Questo modo espressivo non risulterebbe isolato nel corpus delle novelle pirandelliane. EsempliWcando in maniera assai compendiosa, cito due novelle che possono collocarsi ai poli delle possibilità del simbolico: da una parte La morta e la viva, di impianto eminentemente realistico, che ammette però una lettura simbolica per excerpta; dall’altra La casa dell’agonia, priva di ogni denotazione temporale, locale, onomastica, che autorizza una interpretazione esclusivamente simbolica. Anche altri punti della Levata del sole fanno ricorso nell’incipit ad espressioni e atmosfere ‘infernali’: il lumetto [...] a ogni singhiozzo faceva sobbalzar l’ombra di tutti gli oggetti della camera, come per mandarli al diavolo [i giocatori che gli hanno vinto le ultime migliaia di lire] bisognava vedere con che grazia in quelle facce da rapina gliel’avevano sgranWgnate.
E mandare al diavolo e sgranWgnare sono espressioni Wgurate che per Todorov potrebbero realizzare il senso proprio. 5 Pirandello stesso autorizza una sorta di doppia interpretazione. «Chi sa che altro poteva parere» si dice del personaggio dalla «faccia da morto»: – se non un morto! – è indotto a rispondere il lettore, facendo così cadere la possibilità di un’interpretazione realistica della storia. Ma subito dopo l’aspetto cadaverico è ricondotto alla più rassicurante ragione della meditazione del suicidio. Il protagonista è un uomo Wnito che attende di ammazzarsi, come testimonia «una piccola rivoltella dal manico di madreperla» collocata a portata di mano. C’è da dire a scanso di equivoci che la possibilità di due interpretazioni parallele è canonica del racconto fantastico, ma che La levata del sole non è un racconto fantastico. Non vi è rispettata la regola di Toma-
di C. De Vecchi, Milano, Garzanti, 1984 (ed. orig. Théories du symbole, Paris, Seuil, 1977): giustamente è stato detto che, essendo «il linguaggio per sua natura produttore di sensi secondi», non c’è «bisogno di chiamare simbolica questa proprietà. Al contrario Todorov Wnisce, suo malgrado, per avvalorare un’ipotesi per cui il simbolico si identiWca col semiotico» (G. Manetti, La semiotica e il simbolo, in Simbolo, «L’immagine riXessa», n.s., iv, 1, gen.-giu. 1995, p. 12, Atti del Convegno Il simbolo oggi. Teorie e pratiche, di cui è già stata fatta menzione in questa nota). 5. Tz. Todorov, Introduction à la littérature fantastique, Paris, Seuil, 1970, pp. 83-84.
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sevskji e Todorov che prevede la diYcoltà di un’uscita realistica, perché il testo pirandelliano riconduce alla Wne, in maniera inequivocabile, alla prosaica quotidianità della vita: l’uomo «dormiva profondissimamente, facendo, con tutto il petto, strepitoso mantice al sonno». Vi mancano inoltre i motivi consueti o addirittura essenziali del fantastico, come gli interni in abbandono, il sogno, il quadro vivente, il morto revenant, l’oggetto mediatore, la testimonianza del personaggio narratore, la dichiarazione dell’incapacità a spiegare i fatti: 7 tutti presenti in un’altra novella pirandelliana, EVetti d’un sogno interrotto. 8 Procedendo pertanto sul piano della lettura simbolica, prendo in esame altri elementi della prima parte del testo. Chi è la femmina infernale, «quella strega ritinta», che ha sposato un uomo per imprigionarlo ed opprimerlo rovesciando il senso dell’operazione di Belfagor, venuto sulla terra a sposare una donna da cui sarà sopraVatto? 9 È la tedesca Aennchen (Annetta, Annina) dal nome gentile, incontrata, come sappiamo, a Colonia l’ultima notte di carnevale. Ella scalpita come puledra selvaggia nel sabba generale della vecchia città cattolica in compagnia di due giovani amiche con cui forma una vera mesnie Hellequin (e di 6
6. Ho ovviamente presente la deWnizione del «fantastico» come genere che richiede una doppia spiegazione, naturale e soprannaturale, degli eventi raccontati. Cfr. B. Tomasevskij, La costruzione dell’intreccio, in I formalisti russi, a cura di Tz. Todorov, pref. di R. Jakobson, Torino, Einaudi, 1968 (il saggio di Tomasevskij è del 1925), p. 332; Todorov, Introduction à la littérature fantastique, cit., p. 37. Il problema era stato già posto da H. Matthey, Essai sur le merveilleux dans la littérature française depuis 1800, Paris, Payot et C.ie, 1915. 7. Si fornisce una bibliograWa molto sommaria sul ‘fantastico’: N. Bonifazi, Teoria del “fantastico” e il racconto fantastico in Italia: Tarchetti-Pirandello-Buzzati, Ravenna, Longo, 1982; Ceserani, Lugnani, Goggi, Benedetti, Scarano, La narrazione fantastica, Pisa, Nistri-Lischi, 1983; I messaggi dell’angoscia. Quattro saggi sulla letteratura del fantastico e del soprannaturale, «Quaderni dell’Ist. di Ling. e Lett. Germ. dell’Univ. di Parma», Roma, Bulzoni, 1983; M. Farnetti, Il giuoco del maligno Il racconto fantastico nella letteratura italiana tra Otto e Novecento, Firenze, Vallecchi, 1988 (con bibliograWa); R. Ceserani, Il fantastico, Bologna, il Mulino, 1996 (con bibliograWa). Poca chiarezza sull’essenza del ‘fantastico’ dimostra la raccolta L. Pirandello, La realtà del sogno. Novelle fantastiche, a cura di N. Bonifazi e M. Verdenelli, Firenze, La Ginestra, 1982, già a partire dal titolo mutuato da una novella pirandelliana che non è ‘fantastica’. 8. Per EVetti d’un sogno interrotto cfr. Bonifazi, op. cit., pp. 124-128; L. Lugnani, Verità e disordine: il dispositivo dell’oggetto mediatore, in La narrazione fantastica, cit., pp. 208 ss. 9. Il personaggio di Belfagor interessò molto il giovane Pirandello. Su questo interesse cfr. E. Providenti, Il giovane Pirandello e il poemetto Belfagor, «L’osservatore politico-letterario» di Milano, xxiv, 1-2, 1978. Il primo canto di un Belfagor in versi risalente al 1886 e pubblicato sulla rivista «La Tavola rotonda» del 10 luglio 1892, vedilo ora in L. P., Saggi, poesie, scritti vari, a cura di M. Lo Vecchio-Musti, Milano, Mondadori, 1960, pp. 691-701.
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Alichino-Anichino ella ricalca il nome), sfrenata e tentatrice. Vale forse la pena di ricordare che fra Otto e Novecento gli studi storico-Wlologici sulla Wgura di Alichino conobbero in Europa un grande fervore, e non solo per stimolo dell’episodio dantesco dei barattieri: 10 A un tratto, s’era sentito vellicare dietro l’orecchio da una piuma di pavone. Maledetta atavica scimmiesca destrezza! Di primo lancio, aveva ghermito quella piuma tentatrice e, nel voltarsi di scatto, trionfante (stupido!), s’era visto davanti tre donne, tre giovani che ridevano, gridavano, scalpitando come puledre selvagge e agitandogli davanti agli occhi le mani dalle innumerevoli dita inanellate, sfavillanti. A quale delle tre apparteneva la piuma? Nessuna aveva voluto dirlo.
Nella domanda conclusiva del brano citato appare abbastanza chiaro che la giovinetta unisce alle caratteristiche di un Alichino sfrenato e tentatore quelle dell’essere diabolico che pone indovinelli. Passo alla parte ii della novella. Caratteristiche infernali ha pure il repellente ciccaiolo incontrato durante la sortita notturna, che cerca di trattenere il protagonista, nonostante questi gli abbia pagato con l’oVerta del sigaro una sorta di riscatto, promettendogli un incontro d’amore facile nella città cloaca. La nuova Wgura ha «gli occhi scerpellati, invetrati di lagrime dal freddo» (c’è un’eco delle «‘nvetriate lacrime» della Tolomea dantesca?), e procede con un lume che lascia «dietro un’ombra traballante, quasi di bestia che non si reggesse bene su le gambe». Il traballare sembra eVetto non dell’oscillare del lume, ma della deambulazione difettosa del personaggio. Che sarebbe pertanto corruttore, raccoglitore di riWuti (il sigaro deve essere ridotto in cicca prima di far parte della raccolta), zoppo. Ognun sa che queste sono altre caratteristiche essenziali del diavolo e che l’ultima in particolare è propria della cultura demotica sia germanica (hinkende Teufel) sia siciliana (lo zuppiddu). 11 Pirandello, del resto, attribuisce al diavolo la zoppaggine anche in un’altra novella. Cito da I due giganti: M’invitavano a respirare da presso la fragrante freschezza dei capelli e delle carni, e dicevano ch’io farneticavo a immaginare che uno dei piedini di lei 10. Ecco qualche testimonianza: A. Wesselovsky, Alichino e Aredodesa, «gsli», xi, 1888, pp. 325-343; G. Raynaud, La Mesnie Hellequin, in Études romanes dédiées à G. Paris [...] per ses élèves français et ses élèves étrangers des pays de langue française, Paris, Bouillon, 1891; O. Driesen, Des Ursprung des Harlekin, Berlin, Duncker, 1904; E. Caffi, La questione d’Arlecchino, «Rassegna nazionale», xxx, 163, sett.-ott. 1908, pp. 210-214. 11. Per le Wgure dell’inkende Teufel e dello zuppiddu, cfr. G. L. Beccaria, I nomi del mondo. Santi, demoni, folletti e le parole perdute, Torino, Einaudi, 1995, pp. 121-130, con rimandi a J. e W. Grimm, G. Pitré, S. A. Guastella.
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zoppicasse. Dove? Quando? O che era forse il diavolo? Perché non andavo a invitarla a danzare? Avrei subito veduto che i suoi piedini, altro che zoppicare! volavano...
Nell’ambiente infernale e nell’interpretazione simbolica rientra anche la nominazione del protagonista della Levata del sole: Gosto Bombichi. Al momento della presentazione nome e cognome non trovano motivazioni culturali, regionali, caratteriali..., e appaiono, per usare una dizione di Philippe Hamon, «blanc sémantique», 12 anzi addirittura possibile fonte di decezione, 13 se è vero che il non certo raYnato ipocoristico Gosto contrasta alquanto con l’abito da sera indossato dal personaggio. Solo a lettura avanzata emergono le ragioni simboliche di quella scelta. «Gosto! Gosto!» chiama da sottoterra Aennchen, e Gest è in tedesco l’abbreviazione normalmente usata nelle epigraW funerarie per gestorben, ‘morto’. Si può ipotizzare anche una suggestione di ghost, ‘fantasma’ in inglese, lingua di cui Pirandello dimostra in parecchi suoi testi una buona conoscenza. 14 Aennchen è a guardia dunque di un morto o di un fantasma. Che poi Gosto risponda al duplice richiamo, senza però farsi sentire, con un duplice «Crepa! Crepa!» è dovuto al gusto ironico e dissacratore di Pirandello che non gli consente un’adesione totale al piano simbolico del racconto. Un altro forte distacco ironico lo si nota a proposito del procedere impedito. Nel fuggire dalla città cloaca Gosto Bombichi scivola con una gamba (una sola!) nell’acqua lurida del fosso. L’inzuppatura lo costringe a procedere, almeno all’inizio, con grande diYcoltà, quasi fosse diYcile liberarsi dalla condizione infernale. Il suo piede non è zoppo, ma zuppo. Il richiamo alla Wgura del ciccaiolo è però chiaro; tanto più che un analogo richiamo si pone anche a proposito del lessema gamba: quasi di bestia che non si reggesse bene su le gambe (è la descrizione del ciccaiolo) Morire, sì; ma con le gambe sane (è la preoccupazione di Gosto che teme il morso dei cani).
12. Ph. Hamon, Pour un statut sémiologique du personnage, in Poétique du récit, recueil réalisé sous la direction de G. Genette et Tz. Todorov, Paris, Seuil, 1977, p. 128. 13. «Strategia decettiva» è espressione di Hamon, op. cit., p. 150, usata però a proposito dei nomi trasparenti attribuiti a personaggi che non vi si rispecchiano. 14. La possibilità di connettere Gosto con l’inglese ghost era già apparsa chiara a N. De Vecchi Pellati, Pirandello: uno stile ‘fuori chiave’. Strategie dell’umorismo nelle “Novelle per un anno”, Brescia, Grafo, 1998, p. 63; senonché la connessione perdeva molto del suo valore euristico dato che la particolare interpretatio nominis era fatta rientrare in una generica tendenza pirandelliana all’«illusionismo teatrale», alla «messa in scena», al «teatro delle ombre».
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Rivolgo ora l’attenzione al cognome del protagonista, Bombichi. Anch’esso può appartenere all’onomastica allusiva se interpretato sulla base della conoscenza del tedesco, essendo coniato con ogni probabilità sull’aggettivo bombig (‘fantastico’, ‘eccezionale’) presente nell’uso quotidiano ai primi del Novecento come derivato da Bombe. Alluderebbe pertanto al carattere non realistico di Gosto e della sua storia. Nella prima redazione del 1901 15 la novella presentava in minor misura le caratteristiche del racconto simbolico: minore spazio si dava all’origine sotterranea di Aennchen e all’aspetto mortuario di Gosto; non si accennava alla possibilità di una duplice interpretazione; le connotazioni negative erano attribuite alla città più che alla casa, col risultato di costruire un’opposizione città-campagna, canonica, diremmo, in molta narrativa coeva, più che un’opposizione chiuso-aperto, prigionia-liberazione come nel testo deWnitivo. La redazione del 1901 aveva, infatti, in una certa misura, i requisiti realistici della storia borghese: lei era stata cantante di caVè-concerto, Wgura usuale nel secondo Ottocento; lui era un bresciano agente di cambio (la professione rendeva più drammatica la perdita al gioco), di nome Augusto (si giustiWcava così l’ipocoristico Gosto), trasferitosi da due anni in Sicilia (questo particolare rovesciava il cliché dell’isolano in continente caro alla narrativa siciliana). La Sicilia, pertanto, con Le Madoníe oVriva uno scenario non ancora indeterminato all’azione: Andò a lungo, a lungo, sempre internandosi di traverso. La campagna declinava leggermente. Lontano lontano, in fondo al cielo, si disegnava nera nell’albor siderale una lunga giogaia di monti, le Madoníe.
Gli elementi realistici sono ancor più importanti nel pre-testo della novella, che possiamo individuare in una serie di lettere appartenenti al periodo renano, 16 nelle quali lo studente Pirandello raccontava alla famiglia come vissute in prima persona alcune delle vicende che entreranno in seguito a far parte della Levata del sole. Così Aennchen è la versione in negativo della dolce creatura di Bonn, Jenny, alla quale il giovane siciliano dedica la Pasqua di Gea; l’incontro nel sabba carneva-
15. Edita da «Il Marzocco» del 6 gennaio 1901. 16. Sul soggiorno del giovane Pirandello a Bonn si possono ancora leggere F. V. Nardelli, L’uomo segreto. Vita e croci di Luigi Pirandello, Milano, Mondadori, 19442, pp. 105-119; L. Biagioni, Bonn im Leben und Werk des italienischen Dichters Luigi Pirandello, «Bonner Geschhichtsblätter», xii, 12, 1958; F. Rauhut, Der junge Pirandello oder das Werden eines existentiellen Geistes, München, Beck, 1964. Non ho trovato invece W. Hirdt, Bonn im Werk von Luigi Pirandello, Tübingen, Narr, 1990.
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lesco di Colonia è simile a quello con Jenny descritto nella lettera del 20 gennaio 1890; 17 la libertà delle donne tedesche presentata nella prima parte della novella è quella stessa che aveva fortemente colpito lo studente Pirandello e di cui sono testimonianza le lettere del 17 novembre 1889, del 20 gennaio e 25 marzo 1890. 18 Si aggiunga che il proposito di veder sorgere il sole prima di togliersi la vita è attribuito al patrigno di Jenny in una novella del 1896, Natale sul Reno; nella quale è protagonista una dolce Jenny, e il patrigno eVettivamente si uccide dopo aver assistito alla levata del sole.19 In “Vexilla regis...” del 1897 agisce come moglie una fastidiosa, anche se non diabolica, Aennchen (chiamata anche Anny, Hans e Riesin, ad indicare la mutevolezza del personaggio), padrona di un cane che ha il nome Mopchen o Mopy di un dalmata posseduto da Pirandello durante il soggiorno a Bonn. 20 Si può pertanto aVermare che nel passaggio dalle lettere del 1890 e dalla novella del 1896 alla novella del 1897 e alle successive redazioni (dal 1901 al 1926) della Levata del sole si notano costanti la rinuncia ai valori realistico-biograWci del personaggio e l’incremento della coloritura simbolica. Ne deriva la necessità di retrodatare il «passaggio [pi-
17. «Ieri sera intanto, per divagarmi, mi son recato al Beethoven Halle, dove s’inaugurava il carnevale con un gran ballo in maschera. Ho indossato anch’io un domino e – inorridite – ho anch’io ballato, o per dir meglio saltato, e meglio ancora, pestato i piedi al prossimo mascherato. Fui a dirittura forzato a farlo da una mascherina azzurra da un cappellaccio di paglia spropositato – che mi si attaccò al braccio e non mi lasciò più per tutta le sera. A mezzanotte, ora in cui è costume di tôr via le maschere, fui meravigliatissimo di riconoscere nella mia diabolica incognita, una delle bellezze più luminose, che io mi abbia mai visto [...] Ella ha nome Jenny Lander...». Nella lettera però del 25 marzo 1890 l’incontro con Jenny è presentato diversamente: «Senza dubbio, presso la signora Lander starò molto meglio. Ella è di buona famiglia, vedova di un bravo uYciale morto il 1870 nella campagna franco-prussiana, e piena di modi cortesi e gentili. Le fui presentato due mesi or sono, una sera nevosa, dalla stessa sua Wglia, la quale uscendo dalla casa di alcune sue amiche un po’ tardi, e temendo di incontrare qualche ubriaco per via, mi pregò (come s’usa in Germania) che la volessi accompagnare sino a casa». Le due lettere sono alle pp. 82-83 e 105-107 di L. P., Lettere da Bonn (1889-1891), introd. e note di E. Providenti, Roma, Bulzoni, 1984. 18. Vedile alle pp. 62-63, 82-83, 106-107 della citata edizione di E. Providenti. 19. Il Nardelli, L’uomo segreto. Vita e croci di Luigi Pirandello, cit., p. 119 aVerma che la madre di Jenny, Alvina, ebbe un secondo marito, «di cui è un proWlo nella pirandelliana novella La levata del sole»: «s’era ucciso lasciando scritto che andava a veder l’alba in punto di morte: dappoiché s’era levato sempre troppo tardi in vita e non l’aveva vista mai». La notizia è riportata anche da Biagioni, op. cit., p. 215. 20. Di questo cane dalmata Pirandello parla nelle lettere del 17 dicembre 1889 e del 25 gennaio 1890: cfr. la citata edizione di E. Providenti, pp. 84-85.
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randelliano] da una produzione che punta sullo svelamento umoristico delle contraddizioni a una che tende a rivelare e a celebrare liricamente l’Essere, nella sua immobilità astorica», cioè sostanzialmente simbolica: passaggio che Luperini colloca, per i racconti, nel periodo che va dal 1931 al 1936, in cui il critico colloca temi, come la contrapposizione fra città e campagna o fra civiltà e natura, da me individuati anche in questo testo. 21 Riepilogo ora i dati del simbolismo della Levata del sole considerata nella redazione 1926. Le due parti del testo accolgono tre diversi momenti cronologici che disponiamo secondo l’ordine della fabula: 1. In una città in cui si trova per un viaggio (il mondo e il viaggio della vita) il protagonista incline ai piaceri incontra Aennchen, la quale guida una caccia infernale, lo tenta e lo fa suo schiavo. La città mondo è caratterizzata dalla posizione della Höhe Strasse in cui avviene l’incontro. Il fatto che a Colonia esistesse realmente una Höhe Strasse 22 nulla toglie al valore simbolico di quella collocazione (höhe), che si deWnisce in netto contrasto con la posizione ipogea del luogo del secondo momento. 2. Gosto Bombichi è con Aennchen in un luogo chiuso di prevalente dimensione sotterranea. Il suo proposito di fuga è un tentativo di suicidio secondo lettura realistica; una rinascita secondo lettura simbolica. Egli è presentato come primo e ultimo uomo sulla faccia della terra, inizio e Wne, nascita e morte. Le antitesi sono facili ingredienti del simbolico, ed altre è facile scorgerne nel testo, fra notte e sorgere del sole, sozza città e rasserenante campagna, ombre domestiche e cittadine e luci delle stelle in campagna. 3. Il viaggio per i campi è altrettanto simbolico. Gosto acquista dal lato destro e verso l’alto, in direzione del quale getta lo sguardo. L’iter faticoso potrebbe concludersi con un’illuminazione, una presa di coscienza, un riscatto del peccatore edonista. Ma questi non si redime: nella natura percepisce elementi di disturbo (l’abbiamo visto) oppure di piacere edonistico, perché lui non la percepisce come un eden tran21. R. Luperini, Appunti su allegoria e simbolo nell’ultimo Pirandello, «Allegoria», iv, 11, 1992, pp. 40-52 (da p. 427). Altrove Luperini è più risoluto nell’attribuire a Pirandello il modo allegorico: cfr., p. es., Allegorismo versus simbolismo. Pirandello e D’Annunzio novellieri, in Pirandello e D’Annunzio, Atti del xxi Convegno internazionale di Studi pirandelliani, Palermo, Palumbo 1989, pp. 109-129. 22. Cito dalla lettera pirandelliana del 13 gennaio 1890 in cui si parla di una gita di due giorni a Colonia – vedi Lettere da Bonn (1889-1891), cit., p. 78 –: «Per l’Hohe Strasse (alto corso) ad esempio, ieri, sul pomeriggio, andava tanta gente, che a fatica si poteva camminare...».
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quillante e consolatorio, ma soltanto come una femmina da accarezzare, possedere, magari ingravidare. Il sole Gosto non lo vede nemmeno: davanti all’astro Xammeo e trionfale una sporca creatura dorme fragorosamente.
xi NELL’ALBERGO È MORTO UN TALE
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ropongo la lettura simbolica di un’altra novella pirandelliana, Nell’albergo è morto un tale, pubblicata nel 1917, 1 premettendo, come nel caso precedente, uno schema riassuntivo secondo la lettera. Ad un albergo senza nome collocato «nel punto più popoloso» di una città senza nome, posta al discrimine fra interno ed esterno, terra e mare, alla quale si arriva dunque per treno e per piroscafo (di essa il lettore viene a sapere incidentalmente e solo a lettura avanzata che è collocata in Sicilia) fa capo per brevi soggiorni una folla, in continuo mutamento, di viaggiatori senza nome. L’albergo è sempre pieno, tanto che parecchi nuovi arrivati non vi trovano posto e sono costretti ad andarsene altrove. «Sono per la maggior parte commessi viaggiatori, uomini d’aVari, gente della provincia che viene a sbrigare in città qualche faccenda...»: esauriti gli impegni, ognuno prosegue il viaggio o ritorna a casa propria, per ripresentarsi magari in momenti successivi dato che molti sono clienti abituali che viaggiano tutto l’anno. A questo prevalente movimento pendolare di andata e ritorno se ne accompagna un altro compiuto da clienti di diverso tipo, dal quale risultano assenti il motivo delle faccende da sbrigare in città, la reiterazione del percorso e perciò la pendolarità. Il secondo movimento, che possiamo deWnire unidirezionale e di lungo percorso, è di chi, partito per procedere in avanti, considera l’albergo non come luogo d’arrivo ma come stazione di passaggio fra due punti opposti rappresentati dall’interno dell’isola e dall’America. Trova pertanto giustiWcazione il lungo viaggio in piroscafo, estraneo ai faccendieri abituali. Fra i clienti del secondo tipo il bureau dell’albergo registra l’arrivo del Signor Persico Giovanni con madre e sorella provenienti da Vittoria: Persico e la sorella, residenti in America, erano ritornati per prendere con sé e portar via in America la vecchia madre in gramaglie, ormai rimasta sola nell’isola. E registra contemporaneamente l’arrivo del Signor Funardi Rosario, intraprenditore, proveniente da New York, che viaggia 1. Forse già composta nel 1905: cfr. Note ai testi, p. 1406, in appendice a Novelle per un anno, iii, 2, a cura di M. Costanzo, Milano, Mondadori («I Meridiani»), 1990.
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dunque in direzione contraria rispetto ai precedenti. I quattro, che pure provengono da punti opposti, sono accomunati da destini paralleli: si presentano assieme il Lunedì sera alle sei, in palese contraddizione con quanto è detto nella parte iniziale del racconto sull’arrivo del piroscafo che si ripete «ogni mattina», e sono alloggiati allo stesso secondo piano in due camere contigue. La loro collocazione appare immodiWcabile: non è infatti possibile, nonostante le richieste del giovane Persico, che il Funardi ceda la propria camera ad una famigliola la cui vicinanza potrebbe rassicurare la vecchia signora in gramaglie, terrorizzata all’idea del lungo percorso da compiere e della soVerenza a cui andrà incontro in mare. Per i quattro inoltre il viaggio ha un valore assoluto essendo non un mezzo ma il Wne ultimo. Di questa condizione sono spia, da una parte, il quesito che la vecchia signora vorrebbe ossessivamente porre ogni cinque minuti «se per mare si soVre o non si soVre», dall’altra le scarpe consumate del signor Funardi che «devono aver fatto davvero tanto e tanto cammino», «per quante vie», messe fuori la porta in linea con quelle degli altri clienti. La mattina successiva, e anche assai più avanti nella giornata, quando tutti i viaggiatori hanno ormai ritirato le loro, le scarpe del signor Funardi sono rimaste isolate allo stesso posto. - Possibile che dorma ancora? – Si domandano tutti: «in mezzo a tanto frastuono ... È già il tocco...». Si bussa e nessuno risponde; alla presenza di un delegato accompagnato da due guardie si forza l’uscio e si scopre che «l’uomo che ha passato l’Oceano è morto [...] è morto dormendo, con una mano sotto la guancia, come un bambino». - Chi è? Come si chiama? – si domandano curiosi i presenti. Ma lasciamo parlare integralmente il testo: Non si sa nulla. Si sa soltanto che torna dall’America, da New York. Dov’era diretto? Da chi era aspettato? Non si sa nulla. Nessuna indicazione è venuta fuori dalle carte, che gli si sono trovate nelle tasche e nella valigia. Intraprenditore – ma di che? Nel portafogli, solo sessantacinque lire, e poche monete spicciole in una borsetta nel taschino del panciotto.
Dopo la curiosità l’indiVerenza. Solo la vecchia signora piange, «atterrita per quell’uomo che è morto dopo aver passato l’Oceano, che anch’ella or ora dovrà passare». Alla gente che passa per la strada e chiede perché il portone dell’albergo è chiuso, è risposto: – mah! Niente. Nell’albergo è morto un tale... –. La lettera del testo ambienta in un aVollato e caotico albergo - «alveare» frequentato da gente anonima, per lo più individuata con i numeri delle camere occupate, la quale si agita «senza requie» e senza grandi
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scopi, la morte di uno sconosciuto, che altera solo per un istante il frenetico movimento del luogo. Ben presto, infatti, lo strappo che ha lasciato intravedere una vicenda dolorosa si ricuce, il vuoto lasciato nella celletta dell’alveare è occupato da altre presenze, il turbinio riprende immutato. La lettera ha già un valore simbolico. Nell’albergo che rappresenta la vita della città moderna si realizza a pieno il senso della irrilevanza e piccolezza dell’uomo. Non per nulla il racconto inizia con l’ambientazione «nel punto più popoloso della città» e giunge alla dolorosa constatazione che una scomparsa equivale a «niente». Si combinano due temi: quello, assai diVuso nella letteratura ottocentesca, del caos e della costrizione propri della vita urbana, 2 e l’altro, più tipicamente pirandelliano, della perdita di valore dell’uomo copernicano. I temi individuati possono forse spiegare due forti isotopie del testo, delle quali l’una concerne la geometrica innaturalità dell’ambiente presentato, l’altra l’immodiWcabilità ed eternità degli eventi; per cui spazio e tempo hanno dimensioni che travalicano quelle di una semplice e realistica vicenda umana. Ecco alcune descrizioni del luogo: Cento cinquanta camere, in tre piani Tre ordini di Wnestre tutte uguali, le ringhiere ai davanzali Queste cento cinquanta scatole, cinquanta per cinquanta le une sulle altre Cinquanta le camere, per ogni piano; ma ogni piano ha il numero 51, perché in tutti e tre manca il 17: dal 16 si salta al 18.
E alcune indicazioni cronologiche: L’albergo è sempre pieno d’avventori Vedendosi sul punto di staccarsi per sempre anche dalla Sicilia Quelle scarpe, ancora lì, sempre lì Il pajo di scarpe resta in attesa, nella solitudine, nel silenzio, dietro quell’uscio sempre chiuso.
Al lettore però risultano non facilmente inquadrabili nel senso su indicato della storia altri elementi importanti, come l’informazione sull’ora dell’arrivo da New York del signor Funardi, che contrasta con quanto era già stato detto sull’orario giornaliero del piroscafo; l’insistita atmosfera di mistero che circonda l’attività e la destinazione del nuovo arri-
2. Per la presenza della città nel romanzo ottocentesco cfr. A. Restucci, L’immagine della città, in Letteratura Italiana. Storia e geograWa, diretta da A. Asor Rosa, iii, L’età contemporanea, Torino, Einaudi, 1989, pp. 169-220. Utili indicazioni oVre anche «L’Asino d’oro», i, 2, nov. 1990, fasc. monograWco dedicato a Luoghi dell’immaginario. Dalla piccola città alla cosmopoli.
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vato; il dato, che appare squisitamente folclorico, delle scarpe consumate che testimoniano tanta strada percorsa. Il tutto si giustiWcherebbe in una lettura decisamente simbolica che ponga al centro del racconto la rappresentazione del mondo dei non più vivi. Al bureau sito in una zona di passaggio si ferma la folla dei viaggiatori in «continuo andirivieni» per conoscere la propria destinazione (il numero della camera). La situazione è infernale: possiamo dire, senza forzare troppo Pirandello, «sempre dinanzi a lui ne stanno molte: / vanno a vicenda ciascuna al giudizio»; 3 e citandolo fedelmente: «tutti questi che la vita senza requie qui aduna per un giorno», mettere in evidenza una probabile eco dantesca. 4 L’atmosfera da aldilà si deWnisce meglio nella seconda parte del racconto, dove sono presentati i percorsi in direzioni opposte della vecchia signora Persico e del Funardi: l’una in gramaglie, accompagnata da due Wgli anch’essi in gramaglie, deve raggiungere l’America, che è una metafora non troppo coperta, presente in qualche altra novella pirandelliana, dell’altro mondo; 5 il secondo, sorta di inquieto revenant (come Jacopo Sturzi di Chi fu?), compie il tragitto dall’altro mondo all’isola. 6 I protagonisti di questo duplice viaggio si distinguono dalla folla degli altri clienti dell’albergo perché hanno un nome. E il nome allude inequivocabilmente alla loro condizione di essere distaccati o che stanno per distaccarsi dal mondo dei vivi. Persico e Funardi sono annominazioni o derivati di persi e funus. Credo non si pecchi di sovrainterpretazione se si considera il toponimo Vittoria (da Vittoria proviene la vecchia signora) come allusione alla vita lasciata. Pirandello si dimostra particolarmente attento nell’individuare le nominazioni da attribuire ai simboli dell’aldilà, di quel mondo cioè che, come dice Macchia, è presente in «buona parte della [sua] produzione». 7 Un esempio l’ha già fornito la novella precedentemente esaminata, La levata del sole, con i nomi di Gosto e Aennchen. Un altro lo può dare Visita, col personaggio
3. Si cita ovviamente da Inf. v 13-14. 4. Da Inf. iii 120: «anche di qua nuova schiera s’auna». 5. Per esempio, in La morta e la viva. 6. Colpisce il fatto che nessuno degli interventi raccolti in Pirandello e l’oltre, a cura di E. Lauretta, Atti del xxv Convegno internazionale (Agrigento, 5-9 dicembre 1990), Milano, Mursia, 1991, individui, nelle novelle pirandelliane ricordate in questo capitolo, «l’oltre» come «l’altro mondo». 7. Cfr. Introduzione a Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia e M. Costanzo, 2 voll., Milano, Mondadori, 1973, p. xxxvi.
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della signora Wheil, che l’io narrante ha conosciuto vestita di un abito bianco d’organdis in una villa di comuni amici e che rivede (in sogno?) dopo che lei è morta, mentre, vestita allo stesso modo, oVre allo sguardo il seno che gli ha negato da viva; così come senza ritegno mostra il seno un’altra creatura femminile defunta, la donna uccisa dell’atto unico All’uscita del 1916. Ebbene, il cognome della signora in organdis bianco trova il corrispettivo nei termini tedeschi weile (weil), weiland, equivalenti a ‘di un tempo’, ‘trascorso’, ‘defunto’. I dizionari della lingua tedesca informano che «la parola weiland nel signiWcato di “defunto” si usava una volta nel linguaggio della cancelleria, preposta al nome proprio, come nell’esempio Der weilant Koenig, “il defunto re”». 8
8. Si rimanda a duden, Redewendungen und sprichwörtliche Redensarten, Band 11, Dudenverlag, 1992 o a H. Paul, Deutsches Wörterbuch, 9, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 1992.
xii NOMI NELLA LIRICA DI GOZZANO
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e alla nominazione antifrastica possono fare ricorso le prose gozzaniane, e valga l’esempio della novella L’ombra della felicità, la cui protagonista, «un’anima volubile, tormentata dalla noia, e per questo occupata di continuo ad intessere di nuove distrazioni la sua vedovanza», si chiama Costanza (ma «poteva chiamarsi Gaiezza»); 1 credo si debba aVermare che antroponimi e toponimi della lirica sono molto spesso in rapporto connotativo diretto con gli oggetti che denotano. Virginia esplicita nell’aggettivo «pudibonda» e nel sintagma le «rose del pudore» 2 le ragioni (che nel testo di Bernardin de Saint-Pierre sono aYdate in maniera assai più generica a un «avec dignité») del suo riWuto di farsi svestire per essere salvata dalla tempesta. 3 Cocotte, che non è nome proprio ma ne ha la funzione denotativa, è la strana voce parigina che evoca nella fantasia del fanciullo non soltanto «un senso buVo d’ovo e di gallina» (in linea, del resto, con la sua etimologia), 4 ma anche, attraverso la scansione per gruppi non sempre sillabici di lettere, la quale impone fra l’altro la pronuncia della e Wnale con perdita della misura endecasillabica del verso (co-co-tte), 5 l’idea di fate – si può pensare a Circe – intese a maleWci contro i naviganti con la cottura di cibi e bevande aVatturate. Consideriamo, da una parte, la frequenza in Gozzano delle voci basse cuoco, cuoca, cucina, dall’altra l’associazione nell’Ipotesi del navigante per eccellenza, Ulisse, alle «spiagge più frequentate/ dalle famose cocottes». Villa Amarena ha il nome derivato non da un antico casato, come le ville dannunziane Foscara, Barbariga, dei Pisani nel Fuoco, ma dalle pian1. Cito da G. G., Poesie e prose, a cura di A. De Marchi, Milano, Garzanti, 1966. 2. Per la lirica seguo G. G., Tutte le poesie, a cura di A. Rocca, intr. di M. Guglielminetti, Milano, Mondadori, 1980. 3. Ecco un giudizio di Chateaubriand (Génie du Christianisme, ii, 3, 7) riportato da Sanguineti nella sua edizione delle Poesie di Gozzano, Torino, Einaudi, 1973, p. 126, n.: «Virginie meurt pour conserver une des premières vertus recommandées par l’Evangile. Il eût été absurde de faire mourir une Grecque pour ne vouloir pas dépouiller ses vêtements. Mais l’amante de Paul est une vierge chrétienne». 4. «Cocotte: ‘Poule’, dans le langage enfantin. Fig. Fam. (1789) ‘Fille, femme de moeurs légères’»: da Dictionnaire alphabétique et analogique de la Langue Française par Paul Robert. 5. La prima stampa («La Lettura» del giugno 1909) recava addirittura: «Co-co-t-te».
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te fruttifere che per prime s’impongono all’attenzione dell’osservatore («Vill’Amarena a sommo dell’ascesa / coi suoi ciliegi») e dominano nel sistema logico-fantastico della signorina ignorante («Avvocato, perché su quelle teste/ buVe si vede un ramo di ciliegie?»), e fors’anche dallo stato d’animo che alla Wne caratterizza il senso dell’avventura sentimentale in essa vissuta: «Giunse il distacco, amaro senza Wne». 6 La cavolaia (non per nulla la nominazione popolaresca è premessa nel titolo a quella scientiWca Pieris brassicae) «è volgare dal nome alla divisa/ scialba, dal volo vagabondo al bruco/ nero verde, Xagello delle ortaglie». Ma per le farfalle in genere il rapporto nomen-res è assicurato anche dalle denominazioni scientiWche greco-latine che traducono le varie caratteristiche delle specie. Nella Via del rifugio il soggetto poetico reiWcato, ridotto a cosa vivente «tra il Tutto e il Niente», non può avere altra denominazione che quella con l’iniziale minuscola risultante dalla fusione-obliterazione di nome e cognome, «guidogozzano» (anche in Nemesi e in Alle soglie, che apre l’omonima sezione dei Colloqui). È quasi un percorso dal nome proprio al nome comune, inverso a quello che il poeta compie quando giunge all’autobiograWco Totò Merumeni nella lirica omonima, non senza ingenerare il sospetto d’aver voluto celare in quel nome e cognome una seconda interpretatio, se è vero che le tre lettere iniziali e le tre Wnali, lette a partire dalla Wne, formano il ritratto del personaggio fatto nella sezione ii: «in verità derido l’inetto...» (TOTò MerumENI). Nell’uno e nell’altro caso, sia cioè una «cosa vivente» o un «inetto», il poeta crepuscolare non ha certezze: i suoi versi «esili» non hanno la forza di annunziare ore rotundo, a diVerenza di quelli del vate pescarese, che nella lirica introduttiva alle Laudi, L’annunzio («con la mia bocca forte», «con la mia bocca sonora»), gioca sull’interpretatio del proprio cognome. 7 In quest’ottica ha una precisa funzione anche l’ipocoristico popolaresco Totò. Il quale però non dà alla lirica sentore alcuno di realismo: Totò Merumeni, in quanto adattamento dell’héautontimoroumenos di Terenzio e Beaudelaire, è nome letterario, così come letterari sono la villa in cui il personaggio punisce se stesso («la villa sembra
6. Amaro è nella Signorina Felicita in annominazione a distanza con amore e con morte, come in Paolo e Virginia. 7. «L’Annunzio, rispecchiando quasi perfettamente il nome del Vate, fa di quest’ultimo non solo il messaggero del verbo superomistico ma anche la sostanza stessa del messaggio, il paradigma vivente cui la dinamica e sensuale concezione della vita annunciata si lascia ricondurre»: I. Pupo, Silenzi gozzaniani, «La Rassegna della letteratura italiana», mag.-dic. 1997, p. 114.
nomi nella lirica di gozzano
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tolta da certi versi miei,/ sembra la villa-tipo, del libro di lettura»); il Wne riservato al poetare (i «versi consolatori» richiamano alla mente «cantando il duol si disacerba» di quello che è indicato come «il suo Petrarca»); gli amori alla Jammes con la cuoca diciottenne «fresca come una prugna al gelo mattutino». 8 D’altra parte, Gozzano nella citata La via del rifugio, col non voler cogliere l’aruspice quatrifoglio, stabilisce le distanze fra sé e «l’ultimo Wglio di Virgilio, / prole divina», giusta la Wgurazione del Commiato alcyonio, ove il Pascoli coglie «il trifoglio aruspice virente di quattro foglie» per farne segno nel volume di Virgilio; ancora fra sé e D’Annunzio, quando aVerma di voler stare «resupino sull’erba», «estranio / ai casi della vita» (si augurava di giacere «resupino» sull’erbame, ma non certo estraneo ai casi della vita, il poeta pescarese nello stesso Commiato); e inWne fra sé e l’uno e l’altro vate, perché, negando il valore dell’«ansimar forte/ per l’erta faticosa», vaniWca il salire dei due, innalzati da «una immortale ansia», per le opposte balze del monte della Gloria. La nominazione Ketty, anzi miss Ketty, di breve sostanza (monosillabo + bisillabo), semanticamente improduttiva, di suono poco armonioso e sibilante, è la compiuta trasposizione fonica delle caratteristiche essenziali attribuite alla «Wglia della cifra e del clamore», incapace di intendere, di comprendere (potrebbe aver inXuito il leopardiano «non cape in quelle/ anguste fronti ugual concetto») il senso sia di una spiritualità millenaria come quella buddistica sia del «grido immenso» del Consalvo, che ella ripete con voce stridula solo in parte («Due cose belle ha il mon...»); sputante e zufolante 9 propositrice, nella sua ottusa modernità, di argomenti di conversazione insulsi. Sommamente indicativa al riguardo la disseminazione nella lirica, sin dal primo verso, di suoni sibilanti di ‘s’ e ‘z’ scempie e doppie. 10 Nel caso del sonetto Anche te, cara, che non salutai, che si apre con una salutatio, la donna che il poeta abbandona per un programmato viaggio nell’Atlantico selvaggio ha un nome che evoca assai sottili e ambigue suggestioni misticheggianti: «o Benedetta, / io ti chiedo perdono nel tuo nome». 8. Sulla distanza di Gozzano sia da D’Annunzio sia dal realismo cfr., di chi scrive, Gozzano. Originalità e plagi, Bologna, Patron, 1974, soprattutto il capitolo Antinaturalismo e antidannunzianesimo. 9. È probabilmente una curiosa coincidenza il fatto che Ketty sputi, zufoli, fumi come i ladri-serpenti della bolgia settima. 10. «Supini al rezzo ritmico del panka», ecc. Gli stessi suoni prevalgono nell’inglese di miss Ketty: «O yes! [...] Illustrious lòchs collection».
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Se poi i nomi non parlano perché forniti del solo valore anagraWcodenotativo, il rapporto con la res può essere ricercato in un’asserita e non bene identiWcata bellezza: è il caso di Sandra, Simona, Pina della Via del rifugio, «belle come la bella / vostra mammina, come il vostro caro nome, / bimbe di mia sorella»; o delle gemelle Simona e Gasparina del Frutteto, «belle come i belli nomi»: nell’uno e nell’altro caso soltanto l’iterazione dell’aggettivo riesce a stabilire un rapporto fra le persone e la nominazione. Se vogliamo conoscere le ragioni culturali di questa interpretatio diretta, non possiamo non collegarla alla ricerca, in Gozzano proclamata anche se non eVettivamente perseguita, del vero, in contrasto con le Wnzioni delle creature dannunziane soprattutto femminili. Vero e derivati sono termini essenziali nella lirica del poeta torinese Wn dal sonetto indirizzato A Massimo Bontempelli, ad uno scrittore cioè appartenente alla schiera dei ribelli che conducono «verso il vero» il giovane Guido illuso «dal ridevole artiWcio dei suoni» e dagli «inganni / di donne belle solo di cinabro», e da Nemesi, ove Morte è «la cosa / , sino ad arrivare all’«ora vera» di Torino o al Vero rappresentato dal Numero, cioè dalla tecnologia moderna, nei Fratelli. Il nome, sia per caratteristiche di banalità realistico-anagraWca sia per funzionalità di connotazione signiWcante, doveva essere uno dei banchi di prova della proclamata opposizione all’artiWcio, tanto da rendere improponibile ogni esito di suggestiva vaporosità alla Jammes 11 o di grottesco nonsense alla Palazzeschi. 12 Diversa risulta anche la nominazione nelle liriche di Marino Moretti, spesso impostata su cognomi di tipo banalmente anagraWco, non signiWcanti, ma impreziositi dall’aura del ricordo. 13 È sommamente indicativa dell’opposizione gozzaniana al falso quella che potrebbe apparire nulla più di una ripresa letteraria, la citatissima interpretatio «Felìcita! Oh! Veramente Felìcita ... Felicità...» dell’Ipotesi, che nella redazione del poemetto intitolato alla Signorina Domestica dava luogo, con minor coinvolgimento dantesco, a «Domestica. – 11. Cito da Elle va à la pension... di De l’Angelus de l’aube à l’Angelus du soir (Paris, Gallimard, 1971): «Elle me rappelle les écolières d’alors / qui avaient des noms rococos, des noms de livres/ de distribution de prix, verts, rouges, olives,/ avec un ornement ovale, un titre en or: // Clara d’Ellébeuse, Eléonore Derval, / Victoire d’Etremont, Laure de la Vallée, / Lia Fachereuse, Blanche de Percival,/ Rose de Liméreuil et Sylvie Laboulaye». 12. Si pensi, p. es., a I ritratti delle nutrici da Poesie, con la teoria di esotici e provinciali nomi, cognomi, luoghi d’origine delle «nutrici / della famiglia mia». 13. Cfr., p. es., liriche come Le prime tristezze e Poggiolini (Poesie scritte col lapis).
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La Signorina Domestica! Oh! Veramente / domestica». Sintomaticamente il rapporto col vero è dichiarato con formula inequivocabile proprio nel caso dei due nomi (e personaggi) femminili più apertamente antidannunziani, alla cui inventio può aver suggerito qualcosa, oltre al Dante di Par. xii, anche il Flaubert di Un coeur simple con la Wgura della domestica Félicité (semplice è termine tematico anche nel poemetto gozzaniano). Certo è che nel personaggio di Felicita, colei che è felice nella sua semplice vita e che anche potrebbe dare la felicità, s’incontrano due tradizioni ideologico-rappresentative della ‘felicità’ (come persona e stato d’animo): quella che ne individua i valori tutti soggettivi consistenti in un autoappagamento raggiunto anche al minimo del rendimento (la Félicité di Flaubert), l’altra che la considera come oggetto del desiderio, agognata compagna dell’uomo (dalla Felicitas del Canon Missae, Nobis quoque 15 alla Felicità di Maia alla Felicità raggiunta degli Ossi). Avevo accennato alle Wnzioni delle creature dannunziane. Considero allora non tanto la nominazione altisonante di eroi ed eroine dei romanzi, quanto il nome della deuteragonista dell’Alcyone, opera di cui è avvertibile, nonostante la presa di distanza di cui si parlava, la presenza nella lirica gozzaniana. Al senso originario di Ermione il poeta pescarese dedica una lirica, Il nome, immediatamente successiva, con Le stirpi canore, alla Pioggia nel pineto. Se nelle Stirpi canore egli tenta una deWnizione immaginiWca dei propri carmi, nel Nome dà ragione d’una scelta onomastica vaniWcando qualsiasi possibilità non solo di giustiWcazione realistica ma anche di interpretatio. Ermione si chiamò una donna, «la Wglia della grande Elena», che fu «face e specchio di Venere», ma anche «una città murata / della pulverulenta / Argolide. E quivi era, / dicesi, un sentier breve / per discendere all’Ade / avaro, alle tenarie / fauci». Il nome, che piace «come un grappolo,/ come quel Xauto roco/ che a sera è nel cespuglio, / [...] come un grappolo/ d’uva 14
14. La Signorina Domestica fu pubblicata in G. Gozzano, A. Guglielminetti, Lettere d’amore, pref. e note di S. Asciamprener, Milano, Garzanti, 1951, pp. 164-167. 15. Ecco il passo del Canon Missae, in cui Gianfranco Contini ha ritrovato l’origine dei nomi di alcuni personaggi manzoniani: «famulis tuis, de multitudine miserationum tuarum sperantibus, partem aliquam et societatem donare digneris, cum tuis sanctis Apostolis et Martyribus: cum [...] Felicitate, Perpetua, Agatha, Lucia, Agnete, Caecilia, Anastasia, et omnibus Sanctis tuis». Felicita si chiamava in Fermo e Lucia la fantesca del dottor Pettola (Azzeccagarbugli): quel nome le fu poi tolto forse perché fornito di vis connotativa troppo forte per un personaggio quasi insigniWcante. Felicita è anche una delle suore di Marino Moretti: in Convitto del Sacro Cuore di Poesie scritte col lapis.
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nera [...], / come il Wore del croco/ e la pioggia di luglio», non signiWca, cioè non ha rapporto semantico o fonico con le res. I suoi tre referenti non hanno niente in comune rappresentando i diversi livelli dell’universo mitico: Ermione, Wglia di Elena, il livello degli dei, Ermione città quello degli esseri ctonii, Ermione alcyonia quello delle creature terrestri. Così Erigone, Aretusa, Berenice sono le giovani compagne di Gabriele, ma anche donne del mito trasformate in costellazione o fonte. La ragione della scelta risiede allora, come per l’onomastica in genere dell’Alcyone, nell’aura di grecità mitica adatta al personaggio, che, assumendo vita arborea, diventa ninfa boschereccia. Il poeta stesso, perso il proprio nome umano, acquista prima quello panico di Meriggio, poi, a partire dal Ditirambo ii, quello di Glauco, conseguenza della volontà d’identiWcazione col mitico pescatore trasformatosi in divinità marina, non certo del dato anatomico («uomo dagli occhi / glauchi» è apostrofato Gabriele in Versilia). Ritorno a Gozzano allungando la casistica non sempre rigorosamente ordinata delle interpretationes. Indico allora Grazia delle Due strade, cioè colei che esprime un tipo di bellezza adolescenziale ardita e vivace, grazia appunto, non solo nel Wsico e nel comportamento, ma anche nell’abbigliamento (la «grazia dell’abito scozzese» veicola molto più che una rima equivoca interna), contrapposta alla bellezza sWorita dell’accompagnatrice del poeta. Qui, come nei casi che seguiranno, il signiWcato del nome si potenzia in un contrasto, in uno schema dispositivo cioè frequente in Gozzano non solo lirico. Il contrasto si attua su vari piani, innanzi tutto su quello anagraWco: Signora vs Signorina, che può precisarsi come qualitativo: scaltra vs ardita e inganno vs schiettezza, o quantitativo: da troppo tempo bella, vermiglia troppo, troppo bianco, biondissimi capelli vs bambina, bimba, Graziella (termini con funzione diminutiva). A ciò si accompagnano i piani del cronotopo: strada in ascesa vs strada in discesa; e, in particolare per il poeta, passato sperimentato («nostra catena antica» nella lezione della Via del rifugio) vs futuro agognato ma impossibile. Non si tratta però di un sistema binario rigido, nel senso che i due elementi che lo compongono non hanno sempre la medesima connotazione. Tale è il caso dei contrapposti ascesa-discesa. Se si considera l’iter materiale, la Signora e l’Avvocato percorrono la strada all’insù, Graziella la percorre all’ingiù: ciò conferisce alla sua corsa in bicicletta l’aerea leggerezza del volo. Se si tien conto, invece, dell’iter simbolico, Graziella è la luce mattutina, in ascesa cioè, che irraggia «sulla chiusa tutte le strade false». Si impone a questo punto una legittima domanda: perché delle due Wgure femminili una, la Signora, non ha nome? In genere le compo-
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nenti delle coppie gozzaniane sono ambedue provviste (Speranza e Carlotta, Paolo e Virginia) o sprovviste di nome (il bimbo e la cattiva signorina, le padrone e le cameriste dell’Elogio degli amori ancillari, le signore e signorine delle Golose). Potremmo, nel caso delle Due strade, addurre a giustiWcazione di un comportamento abbastanza anomalo l’esigenza, realistica o letteraria (questo poco importa), di lasciare nell’anonimia l’amica sposata del poeta. Ma convince di più l’idea di ricorrere ad una ragione tutta interna alla struttura e ai signiWcati del testo e così formulabile: se la nominazione dell’adolescente è consequentia di una res psicologico-comportamentale ferma, Wssa, deWnita e perciò forte («forte bella vivace bruna / e balda» dice il poeta), la donna matura, non solo Wsicamente ma anche psicologicamente più debole, resta senza nome. Ancora una volta, allora, l’assenza di nominazione si rivelerebbe altrettanto signiWcativa della nominazione più consequenziale. Del sistema contrappositivo interno alla coppia femminile delle Due strade fa parte l’aggettivo altro, altro ovviamente fra due, presente ivi («l’altro beveraggio»), in Pioggia d’agosto («per altra meta»), nell’Altro («un altro Gozzano»), nell’Ipotesi («quella tutt’altra Signora»). Non è presente nelle Due strade il sintagma meglio + inWnito, di cui è stata notata la frequenza in Gozzano, 16 anch’esso espressivo di una visione dicotomica del reale. Ma Le due strade è l’unico dei poemetti narrativi gozzaniani ad avere tre e non due protagonisti. Il terzo è ovviamente il personaggio che dice «io», incapace di liberarsi dalla «triste che già pesa [...] catena antica» e di seguire la «dolce sorridente». In quale rapporto si pongono le due donne nei confronti di questo personaggio? Esse, che pure sono antitetiche, giungono, in nome della femminilità cicalecciante, a formare un’unità solidale: Graziella inverte direzione di marcia e procede allacciata alla Signora («la vita una allacciò dell’altra»). L’uomo resta in disparte e in posizione subordinata con l’incarico di condurre «la bicicletta accesa d’un gran mazzo di rose». Non è più, almeno momentaneamente, compagno dell’una né potrà mai diventarlo dell’altra. La Signora, che, presentandolo alla Signorina, l’ha chiamato «l’Avvocato», ha messo in rilievo con l’atto di nominazione la posizione incerta e debole dell’amico. Con quel titolo che non gli compete il poeta, che è tutt’al più studente di giurisprudenza, ironizza su di sé, come su se stesso «avvocato» ironizza anche quando si mette di fronte alla concreta e deWnita personalità di Felicita.
16. Cfr. la citata edizione delle Poesie di Gozzano curata dal Sanguineti, p. 142, n.
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Gli antroponimi rientrano nello schema binario di cui si è parlato, anche in liriche in cui il contrasto è meno marcato. Proprio nella Signorina Felicita, già presa in considerazione, la signorina concreta, ma semplice e quasi brutta, che potrebbe far felice il poeta, è contrapposta sia a questo, «l’avvocato» incapace di trovare un ubi consistam, sia all’intellettuale gemebonda e alla bella dama aristocratica che porta pena; nell’Amica di nonna Speranza Speranza è contrapposta a Carlotta. In quest’ultimo caso il discorso da fare è un po’ più complesso. Le due amiche sono apparentemente presentate su un piano di perfetta parità; formano cioè una coppia di creature identiche per età, aspetto esteriore, comportamento, inclinazioni sentimentali: il che emerge da una descrizione sinottica: Ha diciassett’anni la Nonna! Carlotta quasi lo stesso: da poco hanno avuto il permesso [...] Entrambe hanno uno scialle ad arance a Wori a uccelli a ghirlande; divisi i capelli in due bande scendenti a mezzo le guancie. Han fatto l’esame [...] [...] Hanno lasciato per sempre il collegio le amiche provano al piano [...] Allora le amiche serene lasciavano [...] Oimè! Che giocando un volano, troppo respinto all’assalto, non più ridiscese dai rami di un ippocastano! S’inchinano sui balaustri le amiche e guardano il lago, sognando [...].
In ultima istanza però Gozzano apre fra di esse una crepa sottile ma profonda. Speranza ha nome parlante (le speranze dei sogni trilustri) ma usuale, comune; Carlotta ha nome squisitamente letterario poco comune, evocante i dolori non soltanto del giovane Werther ma anche dello Jacopo foscoliano. Proprio nei confronti di Carlotta si esercita in vari modi l’ironia corrosiva del poeta: quel nome, per quanto illustre, è considerato «non Wne» probabilmente per il suono simile a quello di Cocotte; per di più è avvicinato in allitterazione degradante al cognome borghese Capenna, che provoca gli scavi memoriali dello zio gesuitico e tardo. Il poeta con diVerenti allitterazioni in s e c distingue le due amiche: «la grande sorella Speranza con la compagna Carlotta», «Carlotta canta. Speranza suona»; con l’insistente successione dei fonemi ca o c mina il piedistallo di Carlotta: «E questa è l’amica in vacanza: madamigella Carlotta/ Capenna: l’alunna più dotta, l’amica più cara a Speranza», «Capenna? Conobbi un Arturo Capenna ... Capenna ... Capenna .../ Sicuro! Alla Corte di Vienna! Sicuro ... Sicuro ... Sicuro...».
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Una vera e propria sconsacrazione della Wgura ottocentesca sarà subito attuata nell’abozzo non pervenutoci in cui il poeta immaginava di «chiavare» Carlotta Capenna «sul divano chermisi» (ancora l’allitterazione degradante!) 17 e poi nella meno audace fantasia dell’Esperimento, ove il nome allittera con commediante, come è chiamata colei che cerca di riportare in vita la collegiale nel salone non più ottocentesco, e rima non più con dotta ma con corrotta. È degradato nell’Esperimento anche il tema del viaggio nell’Atlantico selvaggio: viaggio rima ora con pellegrinaggio, e il pellegrinaggio è attuato con le labbra sino alla meta, che è ovviamente la Roma papale, raYgurata nella medaglia nascosta fra i seni. Il trattamento riservato, sia pure con le diVerenze su indicate, alle due antiche collegiali che ritornano a casa nelle vacanze, e ai loro nomi è assai diverso dai modi totalmente nostalgici e partecipi con cui Jammes aveva trattato, in più di una lirica di De l’Angelus de l’aube à l’Angelus du soir, lo stesso tema. Cito il passo di Silence... in cui le fanciulle giocano al volano anticipando una situazione dell’Amica di nonna Speranza: Je pense aussi aux soirées où les petites Wlles Jouaient aux volants près de la haute grille. Elles avaient des pantalons qui dépassaient Leurs robes convenables et atteignaient leurs pieds: Herminie, Coralie, Clémence, Célanire, Aménaïde, Athénaïs, Julie, Zulmire; leurs grands chapeaux de paille avaient de logs rubans. Tout à coup un paon bleu se perchait sur un banc. Une raquette lançait un dernier volant Qui mourait dans la nuit qui dormait aux feuillages, pendant qu’on entendait un roulement d’orage. 18
Poco ha in comune con lo schema contrastivo sinora esaminato il tema, tipico della psicologia gozzaniana, dell’irresolutezza, dell’incapacità cioè ad aderire una volta per tutte ad un sistema, ad una concezione, senza mettere continuamente in gioco le proprie scelte. Potrei chiamarlo della ‘perplessità crepuscolare’, purché si abbia la consapevolezza dello spostamento di signiWcato a cui va incontro la formula di Gozzano. Il mediocre mondo provinciale di Villa Amarena, considerato valida alter-
17. È il consueto gioco di rime e allitterazioni che di volta in volta sottolineano accostamenti e divaricazioni. 18. Dall’edizione citata di De l’Angelus de l’aube à l’Angelus du soir.
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nativa e alle falsità dannunziane e all’aridità gozzaniana, perde parte del suo fascino nei confronti sia del panorama canavesano intravisto dall’abbaino secentista sia dei paesaggi esotici (le «isolette strane, / ricche in essenze, in datteri, in banane») verso cui sta per migrare lo spirito del poeta in fuga. D’altra parte, in Torino il soggiorno in esotiche terre gaie riporta in sogno al più familiare e chiuso e sonnolento mondo torinese contemporaneo; da questo si passa con stacco cronologico all’antico tempo sacro del risveglio. Ebbene, anche questa fuga continua dagli approcci deWnitivi, questa macroscopica inquietudine lascia il segno nell’onomastica gozzaniana, se è vero che, nel dar nome all’interlocutrice delle Farfalle, la quale dovrebbe rappresentare il «nostro inquieto spirito moderno», 19 il poeta didascalico novecentesco ricorre all’ossimorico Alba Nigra.
19. Dalla lettera a Marino Moretti del 13 gennaio 1914: Il poema Le farfalle «arieggia i didascalici settecenteschi: il Mascheroni e il Rucellai, ma ho tentato di togliere l’amido accademico e la polvere arcaica per trasfondervi il nostro inquieto spirito moderno, rispettando tuttavia i modelli e il rituale. Così il poema è dedicato ad un’Alba Nigra – una favoleggiata Lesbia Cidonia dei nostri giorni».
xiii MASCHERE E NOMI DELL’‘IO’ NELLA LIRICA DI GOZZANO
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ozzano, dopo il ripudio del dannunzianesimo, caratterizza la propria umana personalità ricorrendo al topos dell’inautenticità, ovvero della scissione fra interno ed esterno, sostanza e accidente. Donde la serie di coppie antitetiche del tipo: - essere vs apparire: «Non sono lui! Non quello che t’appaio» (L’onesto riWuto, 1909); - essere vs Wngere: «Quello che Wngo d’essere e non sono» (La signorina Felicita, 1909); - essere vs credere (degli altri): «non son colui, non son colui che credi» (L’onesto riWuto); - sotto vs sopra: «sotto il verso che sai tenero e gaio, / arido è il cuore, stridulo di scherno» (L’onesto riWuto). Altrove la scissione si traduce nell’accostamento contrastivo di due Wgure dell’‘io’, o due fratelli, uno dei quali è «lo spetro / ideale» dell’altro, caratterizzati l’uno dall’osservazione del vivere, l’altro dal vivere (I colloqui, 1911); oppure, con impiego di Wgure retoriche, nel contrasto positivo-negativo («Avevo un cattivo sorriso: / eppure non sono cattivo», Un rimorso, 1907), identità fonica-diversità semantica («Ah! Se potessi amare! – Vi giuro non ho amato / ancora: il mio passato è di menzogne amare», Il responso, 1907). Non mancano casi in cui la Wnzione acquista i connotati speciWci della recita: «[...] alla mia Musa maldestra / quasi a mima che canta il suo mattino [...] Ma la mia Musa non sarà l’attrice / annosa che si trucca e pargoleggia» (I colloqui, 1910), o della mascherata: trascurando due occorrenze non signiWcative del lessema maschera (in Ora di grazia e in Storia di cinquecento vanesse), citiamo «O maschera / Wttizia che mi esaspera nell’anima che sogna» (Il responso) e la «giocosa / aridità larvata di chimere» (Paolo e Virginia, 1910). Corrispondono a maschere le diverse autonominazioni del poeta, che dà nomi diversi ai molteplici parziali ritratti di sé. La fusione, con iniziale minuscola, di nome e cognome, guidogozzano, presente in Nemesi (1907) e già nella prima stampa (col titolo I colloqui, sulla «Rassegna latina» del 15 giugno 1907) di Alle soglie, equivale alla reiWcazione del soggetto nominato. In Nemesi il poeta si sente «fra tante cose strambe /
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un coso con due gambe / detto guidogozzano». In Alle soglie la nominazione è attribuita al cuore («Mio cuore [...] Sei tanto contento di essere guidogozzano»), e la riduzione di sé a cosa è aYdata al solo cognome minuscolo: «gozzano è soltanto un aVare di cellule male accozzate». In Nemesi la reiWcazione è un portato dell’evoluzionismo materialistico cui il poeta aderisce. Egli è «un coso» destinato ad essere assorbito nella perenne trasformazione del tutto: il tempo, infatti, è avvezzo a «giocare con le cellule / al gioco dei cadaveri: / i rospi e le libellule / le rose ed i papaveri / / rifare a suo capriccio: / poi cucinare a strati i suoi pasticci andati / e il nuovo suo pasticcio», e ad «evolvere / in Acqua, Fuoco, Polvere / questa misera Terra». In Alle soglie, con commistione di vago teleologismo religioso, l’individualità dell’io è assorbita e dissolta nell’indistinto della Specie, che, avendo preso il posto di Dio, può durare, essa sola, nell’annullamento degli individui: «Rinnega l’istinto dell’io, umana favola, e invece / ascendi con tutta la Specie l’ascesa dell’Uomo-Dio». Il solo cognome con l’iniziale minuscola, gozzano, può corrispondere ad un’altra maschera, anch’essa degradata, del poeta «un po’ scimunito, ma greggio», in netta antitesi con le raYnatezze dannunziane. E per la tendenza a trasferire metonimicamente, come abbiamo già visto, la nominazione da sé alle realtà che lo riguardano, gozzano è anche lo stile poetico, che da tre anni (siamo nel 1907), da quando cioè Guido si è allontanato da D’Annunzio, «pare / lo stile d’uno scolare / corretto un po’ da una serva». Il nuovo stile «m’è come un minore fratello, un altro gozzano: a tre anni [...] Non cedo per tutte Le Laudi / quest’altro gozzano bambino» (L’altro). L’accostamento gozzano-scimunito dell’Altro fa nascere il sospetto che concorra ad abbassare il tono della nominazione la ripresa della pseudointerpretazione etimologica gozzano da «gozzo», che tanto dovette suonare oVensiva al giovane Guido dandy, secondo la testimonianza del Calcaterra. 1 Alla Wne del 1905, un caustico frequentatore della Società di Cultura, per pungere il non ancora celebrato poeta, che allora Wrmava i suoi scritti con la sigla gggozzano, se n’era uscito nella domanda: «Ma chi è questo che Wrma con tre gozzi e un ano?». 2
1. C. Calcaterra, Con Guido Gozzano e altri poeti, Bologna, Zanichelli, 1944, pp. 2627: il capitolo contenente l’aneddoto, Guido Gustavo Gozzano, era già apparso nella rivista «La Cultura», n.s., i, 2, feb. 1929, pp. 85-97. Cfr. anche A. De Marchi, Da Guido Gustavo a guidogozzano, «L’Illustrazione Italiana», 30 mag. 1943, pp. 473-474. 2. Con la Wrma «Guido Gustavo Gozzano» nella forma estesa ma anche parzialmente o completamente siglata il poeta aveva composto poesie, alcune delle quali poi rac-
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Il nome di battesimo Guido corrisponde alla maschera del giovane amato. La carica aVettiva della nominazione familiare è potenziata dalla forma vocativa in cui essa è sempre usata da creature femminili, si tratti della «povera cosa» di Un rimorso, con cui è lecito darsi del tu: «O Guido! Che cosa t’ho fatto / di male per farmi così?», o della femmina forte e sagace di stampo ancora dannunziano di Una risorta, con cui è opportuno impostare il colloquio sul voi: «Oh! Guido! Tra di noi! Pel mio dolce passato, / in giubba o in isparato / Voi siete sempre Voi [...]». Altro nome-maschera del poeta è l’avvocato. Il titolo di avvocato, che legalmente non competeva a Gozzano, rimasto studente di giurisprudenza, egli lo usa in due liriche che descrivono un incontro con donne in apparenza a lui psicologicamente inferiori per motivi di carattere anagraWco o culturale: la bimba Graziella delle Due strade e la provinciale e rozza signorina Felicita. Nel primo caso la matura Signora presenta così il poeta alla giovane amica di famiglia: «Ah! Ti presento, aspetta, l’avvocato: un amico / caro di mio marito». Con quel titolo che rinvia alla professione di estrema concretezza e praticità abilitata a «vender parolette», come gli suggeriva il suo Petrarca (Totò Merumeni), Gozzano ironizza su se stesso, alieno dalla concretezza per l’incapacità di realizzare i desideri troncando il vecchio legame con la Signora, segnata irrimediabilmente dall’età, per seguire l’adolescente. Analogo è il valore della nominazione nella Signorina Felicita. Il titolo è usato innanzi tutto in forma autoreferenziale nell’allocuzione che il poeta rivolge a Felicita ricordando le visite a Villa Amarena dell’«autunno addietro»:
colte nella Via del rifugio, a partire dal 1903: cfr. G. Gozzano, Tutte le poesie, a cura di A. Rocca, con introd. di M. Guglielminetti, Milano, Mondadori, 1980, pp. 639-653 e 728730. All’abbandono dell’insieme doppio nome + cognome, sentito come eccessivamente raYnato e demodé, contribuì certo l’episodio ricordato. Non è un caso che proprio con l’appellativo «Guido Gustavo Gozzano» Nino Oxilia, il quale cadrà in guerra nel 1917, si rivolga a Gozzano, «poeta del passato», chiamando in causa L’amica di nonna Speranza, per quanto composta quando Guido aveva già abbandonato il triplice nome. Cito dal Saluto ai poeti crepuscolari di Oxilia: «E tu cantavi il passato, Guido Gustavo Gozzano! / Il gioco del volano cantavi e il divano tarlato; / cantavi soave, in sordina, i dagherrotipi, le essenze / di rosa, le diligenze; cantavi la crinolina... / Io sognavo di cantare il presente / vertiginoso, le macchine / rotanti, i salvatacchi, / il marciapiede lucente. / Volgevo la testa e udivo / il milleottocentosessanta / suonare la gavotta sul pianoforte a coda / con l’aria di chi goda se qualche corda è rotta... / Avrei dato tutto Grimm, / il tuo Grimm falso e tarlato, / per un tango chez Maxim ... / Poi sei morto. Ed io ti canto, / Poeta del passato...» (da N. Oxilia, Poesie, Napoli, Guida, 1973).
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bruno porcelli A quest’ora che fai? Tosti il caVè, e il buon aroma si diVonde intorno? O cuci i lini e pensi a me, all’avvocato che non fa ritorno? E l’avvocato è qui che pensa a te. Pensa i bei giorni d’un autunno addietro...
Egli però non è direttamente responsabile della nominazione, a cui ricorre per ristabilire un più immediato contatto con la Signorina lontana, riproponendo quasi con ammiccante complicità il senso del rapporto intercorso con l’ambiente provinciale a cui lei appartiene. Avvocato lo chiamava il padre di Felicita, esperto nel trattare aVari agricoli. Per avere un consiglio legale nella vecchia questione notarile che ancora lo assillava, il quasi bifolco in fama d’usuraio così si rivolgeva al supposto competente: «Senta, avvocato»; ma questi, ascoltatore assai distratto, dimostrava di non capire niente: «Capiva poi che non capivo niente / e sbigottiva». La mancanza di senso pratico o astrattezza è individuata e irrisa sul piano di una supposta competenza professionale. Più avanti è irrisa come inadeguatezza alla vita in genere. A Felicita, che lo interpella chiedendogli il signiWcato di un particolare iconograWco proprio delle stampe giacenti in soYtta («Avvocato, perché su quelle teste / buVe si vede un ramo di ciliegie?»), Gozzano non risponde perché assorto in considerazioni esistenziali sul signiWcato della gloria; sì da provocare il successivo intervento della donna che cerca di riportarlo alla realtà: «Avvocato, non parla che cos’ha?». L’intellettuale distratto e sognatore si rivela anche in questa lirica incapace di seguire gli impulsi, di realizzare le scelte, di aderire insomma deWnitivamente ad uno stile di vita. Consideriamo ora un’autonominazione Wttizia, non rispondente ai dati anagraWci e, nemmeno alla lontana, ad una qualiWca sociale dell’autore: Totò Merumeni. Essa si adatta alla maschera di chi, rinunciando alle nominazioni mondane, ne assume una nuova ammonitoria ed autopunitiva, così come, abbandonando il mondo, ha scelto un tipo di vita cenobitica, «l’esilio», indicato dal «silenzio di chiostro» (meno felice l’aggiunta «e di caserma») che regna nella vecchia villa rifugio. Il poeta è l’inetto, l’esule dall’umano consorzio, l’aderente ad una confraternita di esseri inferiori, vecchi, dementi, animali. Estranei al cenobio risultano i visitatori, visti con senso di fastidio e quasi di paura come elementi perturbatori: S’arresta un’automobile fremendo e sobbalzando, villosi forestieri picchiano la gorgòne;
ma non la fresca amante diciottenne, che, in quanto cuoca, incarna un tipo di amore diverso da quelli precedentemente sognati.
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Gozzano inWne ricorre, nel deWnire se stesso, anche al nome del romantico amante di Virginia, per constatare però la propria irrimediabile distanza da quell’ormai lontano se stesso. Se in una vita anteriore egli è stato Paolo, ora non può più esserlo: è incapace di passioni sognanti, perché la propria aridità sentimentale ha soltanto la maschera del sogno. Nota bibliografica Per i testi si è tenuta presente l’edizione di Tutte le poesie, a cura di A. Rocca, cit. Lo studio dell’onomastica gozzaniana, iniziato – possiamo dire – dal Calcaterra con l’articolo citato del 1929, è stato ripreso in due interventi del vi Convegno di “Onomastica e Letteratura” tenuto a Pisa il 17 e 18 febbraio 2000: B. Porcelli, Nomi nella lirica di Gozzano e dintorni (qui riedito) e S. Ghiazza, Gozzano: l’autonominazione (gli Atti del Convegno sono stati pubblicati su «il Nome nel testo», ii, 2000). Segue, della stessa Ghiazza, Varietà onomastiche nella poesia gozzaniana, «La Nuova Ricerca», ix-x, 2000-2001. Segnalo inWne che il presente mio lavoro è nato contemporaneamente a quello presentato al Convegno di «Onomastica & Letteratura» del 2000.
xiv ARSENIO, ARLETTA, CRISALIDE, ESTERINA E LE METAMORFOSI DELL’ALCYONE
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rsenio (1927) nasce, se non esclusivamente almeno in parte, come negazione della mitologia dell’Alcyone e soprattutto della sua lirica forse più famosa, La pioggia nel pineto. Nel testo di Montale, come in quello dannunziano, lo scenario è un temporale estivo in riva al mare. Elementi e in genere sostantivi del paesaggio alcyonio (mare, cielo, terra, orizzonte, Canicola, tuono, polvere, gorghi, tempesta, nembo, rombo, sera, notte, ghiaia, alghe, radici, viluppo, cavalli), aggettivi (molle, tremulo, dolce, silenzioso, bianco, azzurro), verbi (annusare, fremere, palpitare, stridere, fumare; ma c’è anche un più compromettente sgorgare) 1 sono anche in Arsenio, ma isolati, non iscritti in sintagmi riconoscibili, e spesso risemantizzati. Faccio alcuni esempi. Per D’Annunzio «il vento turbina, suscita polvere in vortici» in un paesaggio campestre ridotto ad una stoppia che arde (Ditirambo i), per Montale «i turbini sollevano la polvere / sui tetti»; per D’Annunzio i cavalli balzano, s’impennano (Ditirambo i), galoppano (Le stirpi canore), diguazzano in mezzo alla corrente (Bocca di Serchio), per Montale «incappucciati / annusano la terra, fermi innanzi / ai vetri luccicanti degli alberghi»; Ermione è esortata ad ascoltare i suoni che provengono dai diversi strumenti arborei percossi dalla pioggia, Arsenio il getto tremulo dei violini che si alterna al fremere, certo non armonico, di lamiera percossa del tuono; il volto di Ermione è «molle di pioggia / come una foglia», in Arsenio sono molli le tende, grondanti i vimini e le stuoie dei locali all’aperto. 2 Gli eVetti luministici del temporale montaliano, ovvero il trascolorare delle luci, sono resi in modo da evitare rigorosamente il ricorso a riconoscibili verbi alcyonii, come inargentarsi, arrossarsi, indorarsi, inazzurrarsi, aVocarsi, incenerarsi, annerarsi, inostrarsi..., ma non ad arrosarsi 1. In Feria d’Agosto, 1. Per la presenza del verbo sgorgare anche in altre opere dannunziane cfr. il fondamentale Da D’Annunzio a Montale, in P. V. Mengaldo, La tradizione del Novecento, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 38. 2. Tengo presente per D’Annunzio l’edizione delle opere Milano, Mondadori («I Meridiani»), 1984, e per l’Alcyone in particolare l’edizione a cura di P. Gibellini, Torino, Einaudi, 1995; per Montale L’opera in versi, a cura di R. Bettarini e G. Contini, Torino, Einaudi, 1980.
arsenio, arletta, crisalide, esterina
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inesistente in D’Annunzio. Non è un caso che nel meno antidannunziano Corno inglese compaia un «nell’ora che lenta s’annera», per di più in rima con «stasera». 3 A testimonianza dell’archetipo alcyonio un’«aria che s’annera» fa rima con «sera» anche nella Domenica di Bruggia di Marino Moretti. L’ambiente mitico e ferino del libro dannunziano dunque cede il campo in Arsenio al paesaggio urbano piuttosto innaturale e artefatto di una località turistica ligure del primo Novecento, 4 i cui elementi sono in parte condensati senza compiacimento estetico nel rapido costrutto asindetico «strada, portico, mura, specchi». 5 Già Moretti aveva declassato il «piove» spostandolo in uno squallido mercoledì cesenate (A Cesena) o riducendolo a pioggerella di un giorno «un po’ lacrimoso / che dà i pensieri più tetri», con l’accompagnamento della «voce» di un pappagallo, di un oriuolo e di una «remota» campana (Pioggerella). 6 Nei due casi interlocutrici del poeta erano una sfortunata sorella incinta o una melodrammatica Carmen incorniciata. Qualche anno dopo anche Luciano Folgore collocava, con più marcati esiti parodici, il «piove» in ambiente cittadino, facendo andare i due protagonisti «d’androne / in androne / con facce di mascherone» (La pioggia sul cappello). Nella cittadina ligure, dunque, Arsenio procede in una discesa ad inferos. Discendere, come è apparso a Gilberto Lonardi, 7 è verbo tematico degli Ossi: «un discendere / Wno al vallo estremo» (Mediterraneo vi), 3. Un’attenta analisi degli elementi di origine dannunziana presenti in Corno inglese è in Mengaldo, La tradizione del Novecento, cit., pp. 303-310. 4. Per la coscienza montaliana del contrasto fra paesaggio alcyonio e paesaggio ligure, cfr. questo passo di uno scritto d’arte, La riviera di Ciceri (e la mia), pubblicato come presentazione del volume Paesaggi della Riviera di Levante di Eugène Ciceri, Verona, Banco di Chiavari e della Riviera Ligure, 1970 (ora in E. M., Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996, pp. 1454-1456): «Non fu mai alcionia la Riviera Ligure né panica nel senso torrenziale della parola. Fu piuttosto, nelle sue forme naturali, antropomorWca e squisitamente umana, sia pure in piccolo formato». 5. G. Bárberi Squarotti, L’apocalisse durante la villeggiatura, «Rapporti», iv, dic. 1974, pp. 305-312, poi, col titolo Lo scacco in villeggiatura, in Poesia e ideologia borghese, Napoli, Liguori, 1976, insiste sullo scenario inautentico di banalità borghese di Arsenio. 6. Si ricordino il «pianto», i «freschi pensieri», la «voce», l’«ombra remota» della Pioggia nel pineto. Sarà anche da registrare la contrapposizione parodica alle «aeree cicale» del «pappagallo» sull’«alto della sua gruccia». Si insiste qui su Pioggerella perché non menzionata fra le rivisitazioni parodiche della Pioggia nel pineto prese in esame da G. Lavezzi, Piove ancora nel pineto dannunziano, in Studi oVerti ad Anna Maria Quartiroli e Domenico Magnino, Pavia, s. ed., 1987, pp. 245-256. 7. Cfr. G. Lonardi, Il Vecchio e il Giovane e altri studi su Montale, Bologna, Zanichelli, 1980, p. 105.
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«turbati / discendevamo tra i vepri» (Egloga), «discende verso il mare» [il greppo] (Clivo), «sul viale che discende» (I morti), «allora ch’io discenda altro cammino» (Incontro)... 8 Nella Pioggia nel pineto, invece, il moto non implica direzione né meta. Nel suo procedere il personaggio di Montale è simbolo di un’umanità incapace di approWttare della catastrofe naturale, della ribellione degli elementi, per trovare la salvezza in un varco, uno dei tanti montaliani, nella continuità della catena, nell’immoto andare, nel troppo noto delirio d’immobilità, «un’altra orbita» insomma o «vita», anche se non quella arborea raggiunta da Ermione. Se pertanto «il verde vigor rude / [...] allaccia i mallèoli / [...] intrica i ginocchi» della creatura arborea sottraendola alla condizione umana, il «t’inciampi il viluppo dell’alghe» è solo un auspicio per Arsenio legato alle sue viscide radici, 9 ringhiottito dalla «tesa [...] / dell’onda antica» e Wtto «in una sola / ghiacciata moltitudine di morti». Il prodigio, nonostante il suo avvio nel mondo naturale, fallisce (come in Crisalide) a diVerenza dei prodigii alcyonii, disvelatori metamorWci del divino. Il senso di dolcezza della strofa iii, alla cui resa concorrono echi dalla Sera Wesolana («Dolci le mie parole ne la sera», «mentre la luna è prossima a le soglie / cerule», «su i pini dai novelli rosei diti»), 10 si converte nel dramma Wnale. I suoni, che denotano all’inizio una promettente interazione di natura e umanità, con percorso dalla prima alla seconda nella successione dei tuoni premonitori vista come «ritornello di castagnette», nel cadere della pioggia sui palmizi reso con «getto tremulo dei violini», nel rotolare del singolo tuono paragonato al «fremer di lamiera percossa»; ma anche, con percorso opposto, nell’iden-
8. Se si dovesse comporre una parodia di Arsenio, si potrebbe cominciare proprio con Discendi, poi aggiungere vento, Canicola e cielo azzurro quanto basta, far sollevare nei turbini un cappello (Folgore, che di parodie se n’intendeva, aveva fatto piovere sul cappello! E in Sensazione di turbine del 1913 aveva fatto sollevare dal vento «cappelli, gonne in aria, / accecanti orde di polvere»), ecc. ecc. Cfr., per una dissacrante lettura di una lirica del Diario postumo, G. Orelli, Perle e sabbia dell’ultimo Montale, «Moderna», i, 1, 1999, pp. 215-223. 9. Sul ritorno del tema delle «radici» in Montale cfr. D’A. S. Avalle, Tre saggi su Montale, Torino, Einaudi, 1970, p. 104. È necessario sottolineare il fatto che l’auspicato inciampare nel «viluppo dell’alghe» e il trascinare le radici viscide sono simboli di arresto e stasi, positivo però il primo, negativo il secondo. Sull’ambivalenza delle immagini-simbolo in Montale cfr. nota 39. 10. Gli elementi descrittivi di questa parte di Arsenio «suggeriscono l’atmosfera della Sera Wesolana» anche per C. F. Goffis, Lettura di “Arsenio”, in Letture montaliane in occasione dell’80° compleanno del Poeta, Genova, Bozzi, 1977, p. 77.
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tiWcazione del timpano dell’orchestrina tzigana col rombo del fulmine, 11 quei suoni – dicevamo – cedono il posto nel Wnale ad un indistinto «frùscio immenso», parallelo, sul piano fonico, alla «sola / ghiacciata moltitudine di morti». Certo, anche per questo lo scenario di Arsenio presenta un netto scarto rispetto a quello di Ermione, ove gli unici ad essere percepiti sono i suoni della natura. La luce, altra manifestazione naturale, si spegne nel cielo («la cenere degli astri» è la conclusione estrema di un processo di combustione-abbuiamento, l’esatto contrario del giorno «acceso» della i strofa) e persino nelle lanterne di carta che «s’aZosciano stridendo / [...] sulle strade»: ne permangono miseri surrogati nei globi dondolanti a riva e nell’acetilene palpitante dei gozzi, che oltretutto appartengono al mare, dimensione diversa da quella terrestre. Negli Ossi pare che il prodigio si attui soltanto in Quasi una fantasia e, al solo livello del mondo naturale, in Spesso il male di vivere. 12 È possibile allora che anche il nome del personaggio di Montale incapace di spezzare l’anello della catena sia in qualche modo suggerito da un proposito di contrapposizione al nome della metamorWca creatura dannunziana? 13 Si è già messa in rilievo da più parti la smitizzazione del panismo in parte degli Ossi («gli ossi delle seppie» e «l’osso di seppia» sono già in Novilunio e in Ditirambo iii). Ma uguale sorte toccava al metamorWsmo alcyonio. Mi pare non risulti chiaro ai più che an-
11. Secondo l’interpretazione comunemente accettata «il getto tremulo dei violini» (per taluno persino il «ritornello di castagnette», intese come improbabili strumenti musicali) proviene dall’orchestrina tzigana. Per me, invece, si tratta, secondo il modello dannunziano, del suono prodotto dal fenomeno atmosferico, la pioggia o fors’anche il vento, sulle fronde dei palmizi; e questo suono dialoga spegnendosi («spento quando...») col fremere del tuono: così come nella Pioggia nel pineto dialogano fra di loro, tremando e spegnendosi («Solo una nota / ancor trema, si spegne...»), le armoniche della natura. Non è casuale, infatti, la presenza in Montale dell’accoppiata tremulo (che pure ha anche decise ascendenze pascoliane)-spento. Ma dissento ugualmente dall’opinione di chi, come Giachery (Metamorfosi dell’orto e altri scritti montaliani, Roma, Bonacci, 1985), sostiene che tutti i suoni «siano leggibili, dannunzianamente, come ”stromenti diversi sotto innumerevoli dita”» (p. 82): «il timpano degli tzigani», non ci sono dubbi, è proprio il timpano dell’orchestrina estiva. 12. «Bene non seppi, fuori del prodigio / che schiude la divina IndiVerenza: / era la statua nella sonnolenza / del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato». Si potrebbe anche allegare l’apparizione temporanea di «qualche disturbata Divinità» intravista «in ogni ombra umana» (I limoni). 13. Questo potrebbe in parte spiegare ciò che Mengaldo ascrive allo «statuto potenzialmente ambiguo del tu» montaliano, il fatto cioè che l’autore si rivolga ad Arsenio come in altre liriche degli Ossi si rivolge alla creatura femminile: P. V. Mengaldo, La “Lettera a Malvolio”, in E. M., a cura di A. Cima e C. Segre, Milano, Rizzoli, 1977, poi in La tradizione del Novecento Nuova serie, Firenze, Vallecchi, 1987 (cfr. p. 289).
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che Arletta rovescia e parodizza una metamorfosi, quella dafnea dell’Oleandro, 14 già svilita nelle sovrapporte della gozzaniana Villa Amarena. 15 Mengaldo ha avvicinato la rima anelli : capelli di una lirica arlettiana, Incontro (1926), all’analoga rima dell’Oleandro ii, 27-28 collocando la derivazione al «grado inferiore delle eredità di lettura meno riXesse». 16 Ma se noi mettiamo assieme i dati delle successive apparizioni della fanciulla in tre poesie di Montale, 17 ricomponiamo in buona parte, smitizzato, il racconto di D’Annunzio. In Incontro (1926) il poeta tende la mano «a una misera fronda che in vaso / s’alleva s’una porta di osteria», «farsi sua un’altra vita sente», «e quasi anelli / alle dita non foglie gli si attorcono / ma capelli»; in L’Estate (1935) suppone che lei torni come «fanciulla morta / Aretusa»; in Annetta (1972: Diario del ’71 e del ’72) ricorda «la foce del Bisagno dove ti trasformasti in Dafne». 14. Il rapporto di Incontro con D’Annunzio è indicato in P. Cataldi,“Incontro” di Eugenio Montale, «Allegoria», xxvi, mag.-ago. 1997, pp. 78-88, che individua nella lirica montaliana un duplice rovesciamento: «da una parte Dafne, anziché trasformarsi per sfuggire all’abbraccio dell’innamorato, qui si trasforma per consentire un sia pur breve contatto; dall’altra la metamorfosi si svolge all’inverso, e cioè non dall’umano al vegetale ma dal vegetale all’umano» (p. 85). 15. Cfr. l’Introduzione di Gibellini, p. ix, alla citata edizione dell’Alcyone. 16. Cfr. La tradizione del Novecento, cit., p. 46. 17. Per una bibliograWa essenziale su storia e imagerie di Arletta si indicano almeno: R. Bettarini, Appunti sul “Taccuino” del 1926 di Eugenio Montale, «sfi», xxxvi, 1978, pp. 457-512; E. Bonora, Anelli del ciclo di Arletta nelle “Occasioni”, «gsli», clviii, 501, 1981, pp. 44-70; M. A. Grignani, Prologhi ed epiloghi. Sulla poesia di Eugenio Montale, Ravenna, Longo, 1987, soprattutto pp. 49-70; M. Forti, Il nome di Clizia. Eugenio Montale: vita opere ispiratrici, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1985; V. Pacca, “La foce del Bisagno”: un’immagine montaliana, «Rivista di letteratura Italiana», xii, 2-3, 1994, pp. 429440; F. Nosenzo, Storia di Arletta: la Wgura della “fanciulla morta” nella “Bufera”, «Lingua e Letteratura», xxiv-xxv, 1995, pp. 89-113. Costanti e diVerenze nel ‘ciclo di Arletta’ individua A. Casadei, Prospettive montaliane Dagli “Ossi” alle ultime raccolte, Pisa, Giardini, 1992, pp. 45-49. Vorrei aggiungere che, se Arletta è sicuramente presente in varie poesie di Montale a partire dal 1926, secondo quanto confessò l’autore a Luciano Rebay (L. Rebay, Sull’autobiograWsmo di Montale, in Innovazioni tematiche, espressive e linguistiche della letteratura italiana del Novecento, Atti dell’viii Congresso dell’aislli (New York, 1973), Firenze, Olschki, 1976, pp. 73-83), è forse possibile che ella sia evocata per annominazione in parlotta e maretta di Maestrale (1922) e per anagramma imperfetto nel titolo stesso (Maestrale). Si sa che la frequentazione di Arletta /Annetta risale al 1919 o 1920; si aggiunga che nel ms. di Il sole d’agosto trapela appena (1926), pubblicato nel 1947 e nel 1978 e riprodotto in facsimile in L’opera in versi, cit., p. 782, Arletta (cassato) rimava con astretta, cioè con un suo quasi anagramma. Per di più, Rosanna Bettarini (Un altro lapillo, in La poesia di Eugenio Montale, Atti del Convegno internazionale, Milano-Genova, 1982, Milano, Librex, 1983, pp. 149-159) ha supposto che nel lemma maretta, appartenente ad un frammento di lirica che sta sul verso di un foglio recante i Nascondigli ii (Altri versi), si celi «un’associazione con un termine , una rima mentale con Arletta».
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Prescindiamo pure dall’indicazione foce, che riattualizza un luogo che l’Alcyone in genere aveva privilegiato, cantandolo come il punto in cui la placata correntìa si scontra con la baldanza dei Xutti marini (Bocca d’Arno) o in cui il Wume mostra più intensa la sua divina bellezza (Bocca di Serchio). 18 Consideriamo piuttosto che nell’Oleandro si chiama Aretusa, dalla «capellatura umida eVusa», la giovinetta che racconta la trasformazione di Dafne; 19 i capelli di Dafne sono al centro dell’attenzione della narratrice, che nel momento Wnale li vede trasformati in fronda di «lauro trionfale» («il dolce crine è già novella fronda»), 20 tanto che Apollo «or più non sente che foglie vivaci, / amare bacche»; la trasformazione avviene «lungh’esso il Wume» Peneo, e Dafne è «la ninfa Xuviale». 21 Credo che anche il gesto «a lei tendo la mano» di Incontro rinvii all’Oleandro, e precisamente al «tendegli le mani», riferito alla ninfa che ha già mutato il proposito di fuga in desiderio di abbandono di sé all’abbraccio dal nume inseguitore. Non è allora opportuno supporre nel gesto del poeta che tende la mano «a una misera fronda», e «quasi anelli / alle dita non foglie gli si
18. Si potrà forse osservare che il metaforico e più rilevato bocca è presente nei titoli dell’Alcyone, mentre il verbum proprium foce (presente anche altrove) gioca con bocca della creatura femminile nella Tenzone. Per una interpretazione insieme realistica e simbolica della ‘foce’ montaliana («Montale ha utilizzato un preciso elemento geograWco, la foce di un Wume, legato agli incontri con la sua giovane amica dei primi anni ’20; ne ha potenziato la valenza simbolica, cioè lo scorrere dell’esistenza umana verso la morte») cfr. Pacca, op. cit., p. 439. Eppure, anche nella lirica in cui questa valenza è più evidente, Incontro, si nota l’eco dannunziana: i vv. 14-15 «oltre il conWne / che a cerchio ci rinchiude» rimandano alla descrizione della foce in Meriggio: «La fuga / delle due rive / si chiude come in un cerchio / di canne»; e i vv. 17-18 «vite no: vegetazioni / dell’altro mare che sovrasta il Xutto» paiono rispondere alla dannunziana assenza di vita umana: «Perduta è ogni traccia / dell’uomo». Il simbolo «del tempo che fugge e della morte» è nel «tema dell’acqua che scorre giù» per M. Jeuland Meynaud, Oggetti e archetipi nella poesia di Eugenio Montale dagli “Ossi” a “La Bufera” (ma l’impostazione del saggio è scolasticamente junghiana), in La poesia di E. M., Atti del Convegno Internazionale di Genova, 25-28 nov. 1982, pubblicati a cura di S. Campailla e C. F. GoYs, Firenze, Le Monnier, 1984, pp. 35-36. 19. L’attribuzione ad Arletta del nome Aretusa è certo favorita, oltre che dall’allitterazione ar-, anche dal fatto che nell’Oleandro se ne mettono in risalto, come per Dafne, i capelli. 20. Si tenga presente che nella redaz. ms. di Incontro i «capelli» erano «pallidi capelli», e pallido è termine che si riferisce ad un momento della trasformazione di Dafne in verde pianta: «in pallide Wbre il cor si sface»; si veda anche «le copre il volto e il seno un pallor verde». 21. Non può essere più eclatante il contrasto fra «lauro trionfale» e «misera fronda», così come fra il mitico Peneo e l’umile Bisagno. Altro rilievo ha la «ninfale / Entella» in Accelerato, Le occasioni.
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attorcono / ma capelli», una citazione della metamorfosi dantesca del canto dei suicidi. 22 Certo, in Incontri sono essenziali le citazioni dall’Inferno, ma non diversamente che in Arsenio, lirica che dà anch’essa spazio al mondo dei morti. Nel Diario del ’71 e del ’72, dunque, ritorna la fanciulla morta in compagnia di Dafne; in Satura, che è un altro collettore di vecchi temi e situazioni, 23 ritorna Arsenio (Botta e risposta I) in compagnia di Ermione (Piove). Sondiamo allora la possibilità del rapporto onomastico Arsenio-Ermione. Al senso originario di Ermione il poeta pescarese, come abbiamo già visto nel capitolo xii, dedica una lirica, Il nome, immediatamente successiva, con Le stirpi canore, alla Pioggia nel pineto. Se nelle Stirpi canore egli tenta una deWnizione immaginiWca dei propri carmi, nel Nome dà ragione d’una scelta onomastica vaniWcando qualsiasi possibilità di giustiWcazione realistica e di interpretatio. Ermione fu il nome di una donna, «la Wglia della grande Elena», ma anche di «una città murata / della pulverulenta / Argolide»; 24 non signiWca, cioè non ha rapporto semantico o fonico con la res, ma piace «come un grappolo, / come quel Xauto roco / che a sera è nel cespuglio, / [...] come un grappolo / d’uva nera [...], / come il Wore del croco / e la pioggia di luglio». La ragione della scelta risiede allora, come per la nominazione in genere dell’Alcyone, nell’aura di grecità mitica adatta al personaggio, che assumendo vita arborea diventa ninfa boschereccia. 25 Il nome Arsenio era appartenuto invece ad uno dei padri del deserto fondatori della spiritualità cristiana; e la contrapposizione grecità-cri22. Cfr. A. Jacomuzzi,“Incontro” Per una costante della poesia montaliana, in La poesia di E. M., Atti del Convegno internazionale, cit., p. 154. 23. Sul ritorno nella poesia di Montale di temi e situazioni e sull’‘autocitazione’ cfr. Avalle, Tre saggi su Montale, cit., pp. 71-73; M. Martelli, Eugenio Montale, Firenze, Le Monnier, 1983; R. Luperini, Storia di Montale, Bari, Laterza, 1986; F. De Rosa, Riapparizioni di Clizia, in La virtù del nome, Verona, Ist. di Italianistica Fac. di Lett. e Filos., 1996. 24. È noto che i dati eruditi sul nome Ermione D’Annunzio li ricavava dall’Onomasticon del Forcellini: cfr. D. Martinelli e C. Montagnini, Vocabolari e lessici speciali nell’elaborazione di “Alcyone”, «Quaderni del Vittoriale», xiii, 1979. 25. Alla nominazione dell’Alcyone il poeta attribuì una particolare importanza, come testimonia il ricorso a formule evidenzianti del tipo: «che hai nome Ermione», «dal pirata fenicio / nominato Fasèla», «che ha il greco nome / del doppio ludo», «nomata Siracusa», «che ha nome Catenaia», ecc. I nomi poi, pur se desunti dai lessici, non solo producevano aura di mitica grecità, ma erano anche sede privilegiata di richiami letterari o punto d’irradiazione di suggestioni musicali e persino, ma raramente, oggetto di possibile interpretatio. Si consideri per l’ultimo aspetto l’inizio dell’Alpe sublime, ove quattro dei cinque monti che fanno corona all’apparizione degli dei (l’Alpe di Luni, il Sagro, il Giovo, la Pania) hanno nomi che evocano il sacro o particolari divinità.
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stianesimo era topica nella linea D’Annunzio-Gozzano, anzi CarducciD’Annunzio-Gozzano. L’accostamento potrebbe risultare non improponibile ove si considerassero due serie di circostanze. Da una parte, la riproposizione all’interesse del pubblico italiano della traduzione cavalchiana delle Vitae Patrum in edizioni antologiche curate nel 1915 da Massimo Bontempelli 26 e nel 1926 da Carmelina Naselli 27 (ma Montale dichiara d’aver letto Cavalca addirittura a vent’anni),28 e insieme l’esistenza, negli ambienti antimodernisti della Genova montaliana, di un personaggio soprannominato Arsenio. 29 Varrà anche la pena di ricordare che il mondo dei padri del deserto si ripropone, sia pure attraverso la mediazione di Anatole France, nel Pafnuzio di Nubi color magenta. Dall’altra, la propensione montaliana a individuare con nettezza le implicazioni dei convincimenti ideologico-religiosi: così è per il Nestoriano, per l’ombra del sicomoro (la protezione del mondo ebraico?), per la maschera sul drappo bianco (il cristianesimo?) di Iride. 30 L’importanza che Montale attribuiva alla sua lirica è testimoniata dalla collocazione privilegiata che essa ebbe, dopo le indecisioni testimoniate dalle lettere del 1927 a Sergio Solmi, 31 negli Ossi 1928, concepiti, nonostante la programmatica frammentarietà, come opera suYcientemente chiusa fra una dichiarazione di poetica iniziale (I limoni) ed una Wnale aspirazione al cambiamento (Riviere). 32 La collocazione è privilegiata perché al centro esatto della seconda parte del libro, quella più dichiaratemente ‘marina’; al centro e in solitudine fra Mediterraneo 26. Nella «Novissima biblioteca dei Classici italiani» diretta da Ferdinando Martini, Milano, Ist. Edit. Ital., 1915. 27. Nella collez. dei «Classici italiani» diretta da Gustavo Balsamo-Crivelli, Torino, Un. tip.-ed. torinese, 1926. 28. «A 20 anni leggevo Rousseau (Nouvelle Heloïse), un po’ di Boutroux quasi niente di Bergson, ma alcuni WlosoW nella collezione diretta da Papini. Qualche russo (Leone Chestov), alcuni trecentisti (Cavalca)», dal Quaderno del ’71: cfr. AutograW di Montale. Fondo dell’Università di Pavia, a cura di M. Corti e M. A. Grignani, Torino, Einaudi, 1976, p. 5. 29. Cfr. F. Contorbia, Montale, Genova, il modernismo, in Il secolo di Montale: Genova 1986-1996, Bologna, il Mulino, 1998, p. 119. 30. Una diversa interpretazione dei simboli di Iride e una convincente deWnizione della ‘metaWsica’ montaliana sono nel ricchissimo saggio di W. Siti, Iride, «Rivista di letteratura italiana», i, 1, 1983, pp. 97-138. 31. Per la quaestio relativa alla pubblicazione di Arsenio negli Ossi 1928, passata attraverso le varie fasi della collocazione in fondo al volume, poi all’inizio, poi dell’esclusione e inWne dell’inserimento «come entremets tra i meriggi e le ombre, che risultano perciò divisi in tre parti anziché in due», cfr. l’Introduzione a E. M., Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1985, pp. xxxi-xxxii. 32. In Riviere, cha assume pertanto la funzione di una sorta di «commiato», l’aspirazione è «cangiare in inno l’elegia».
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più la prima sezione di Meriggi e ombre, che precedono, e la terza sezione di Meriggi e ombre più Riviere, che seguono. 33 La disposizione centrica, privilegiata anche nella cronologia dei componimenti (Arsenio è preceduto e seguito dai testi più antichi come da quelli più recenti), vaniWca ogni possibilità di intendere gli Ossi come descrizione di un percorso con un punto di partenza ed uno d’arrivo; li colloca in opposizione all’Alcyone, che è costruito nella sua parte ‘marina’ (ove si escludano cioè le liriche che precedono il Ditirambo i) come iter topograWco (da Bocca d’Arno alla Lunigiana), cronologico (da Wne giugno a settembre) e, almeno entro stretti limiti, 34 psicologico (dall’iniziale Beatitudine alla quasi Wnale Tristezza). 35 La struttura itinerale dell’Alcyone è messa in evidenza dalla suddivisione in quattro sezioni introdotte da Ditirambi individuati con numeri progressivi e dedicate ciascuna ad una tappa del percorso topograWco e cronologico. Il Ditirambo i introduce a Bocca d’Arno e alla Wne di giugno, il Ditirambo ii a Bocca di Serchio e al pieno dell’estate, il Ditirambo iii alla Versilia e ai presentimenti del settembre (in Feria d’Agosto siamo ancora in estate), il Ditirambo iv alla Lunigiana e al già sopraggiunto settembre. Meno evidente rispetto alla struttura progressiva è un momento di centralità che pur esiste nell’Alcyone, coincidente con la larga parte riservata, fra Wne della seconda sezione e inizio della terza, all’Estate, deità quasi eponima. Alla Wne della seconda sezione, in Stabat nuda Aestas, D’Annunzio la rappresenta distesa nella sua nudità «tra le sabbie e l’acque»; all’inizio della sezione successiva, nel Ditirambo iii, dopo averne tessuto le laudi, si augura di poterla godere là dove ella giace nuda, «sul letto dell’immensa piaggia / tra l’alpe e il mare». In realtà l’Estate per-
33. Sul signiWcato della posizione centrale di Arsenio nella sezione di Meriggi e ombre cfr. Luperini, Storia di Montale, cit., p. 48; L. Blasucci, Livelli Wgurali di “Casa sul mare” (Montale, “Ossi di seppia”), in Studi in memoria di Giorgio Varanini, ii, «Italianistica», xxii, 1-3, 1993, pp. 143-144. 34. Entro stretti limiti perché il registro tematico-psicologico dell’Alcyone è piuttosto monocorde, a diVerenza di quello degli Ossi variato anche all’interno dei singoli componimenti. Ma questo è un luogo critico comune su cui non vale soVermarsi. 35. Un’altra prova del rovesciamento tematico-strutturale operato da Montale nei confronti dell’Alcyone è nella posizione quasi Wnale, la stessa della dannunziana Tristezza, assegnata ad Incontro, che si apre proprio sul tema della «tristezza» ed accoglie due occorrenze del verbo discendere, lo stesso con cui D’Annunzio apriva la sua lirica («tu discendi oggi dal Sole»). Ma quale diVerenza fra la «tristezza» occasionata dalla Wne dell’Estate e quella connessa con lo sparire e vanire di tutto: il giorno, le vite umane, l’attesa della Wne, l’illusione di rinascere attraverso il ritorno della donna!
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vade quasi tutto il libro, dalla lirica iniziale La tregua, ove già assume la sua caratteristica primaria («l’Estate ignuda ardendo a mezzo il cielo»), ai Madrigali dell’Estate della sezione terza. 36 Una posizione nell’Alcyone di maggior rilievo, paragonabile a quello che Arsenio ha negli Ossi 1928, può pertanto essere riconosciuta alla Pioggia nel pineto, uno dei componimenti iniziali in cui compaiono per la prima volta due topoi fondanti del libro, il personaggio, provvisto di nome, della deuteragonista e il tema metamorWco. Non si esaurisce il quadro della complessità, cioè della sovrapposizione dei signiWcati di Arsenio, se non si aggiunge che nella sua ideazione può aver giocato anche un’altra suggestione. Nel 1925 Montale legge i romanzi di Svevo, in cui trova la Wgura di Emilio Brentani «che si avvia verso una precoce vecchiaia», del giovane senile. 37 Questo poteva confermare la validità della deWnizione di sé data in Mediterraneo (1924), mov. viii, come «fanciullo invecchiato». 38 Nell’intrico tuttora non completamente illuminato degli inXussi che operano sul poeta ligure occorre individuare un rapporto preciso che lega questo movimento di Mediterraneo al Fanciullo dell’Alcyone. Leggiamo con attenzione il componimento degli Ossi: «dato mi fosse accordare / alle tue voci il mio balbo parlare: – / io che sognava rapirti / le salmastre parole / in cui natura ed arte si confondono, / per gridar meglio la mia malinconia / di fanciullo invecchiato che non doveva pensare». Qui si lavora sul testo dannunziano in un gioco di scarse accettazioni e di sostanziali ripulse. Nell’Alcyone, infatti, «Natura ed Arte sono un dio bifronte / [...] Tu non
36. G. Luti, La Wsionomia del’“Alcyone”, in Letteratura e critica. Studi in onore di Natalino Sapegno, iii, Roma, Bulzoni, 1976, pp. 669-689, ha individuato, accanto al percorso spaziale e tematico del libro dannunziano come «diario di un’estate», una struttura simmetrica basata sulla disposizione esattamente calcolata dei microtesti. Per altre indagini sulla composizione nel tempo dell’Alcyone cfr. F. Gavazzeni, Le sinopie di “Alcione”, Milano-Napoli, Ricciardi, 1980; P. Gibellini, Logos e mythos, Firenze, Olschki, 1985, soprattutto il capitolo La storia di “Alcyone”; I. Caliari, Prefazione alla cit. ed. dell’Alcyone curata da Gibellini. Scarseggiano purtroppo, nello sterminato panorama degli studi su Montale, analoghe analisi strutturali o genetiche del macrotesto degli Ossi. Aggiungo però che, dopo la prima pubblicazione di questo capitolo, è uscito su «Italianistica», xxx, 1, 2001, pp. 33-66, il saggio di N. Scaffai, Gli «Ossi di seppia» come ‘libro-vita’. Lettura macrotestuale della prima raccolta montaliana. 37. E. M., Presentazione di Italo Svevo (1925), in E. Montale, I. Svevo, Lettere con gli scritti di Montale su Svevo, Bari, De Donato, 1966, p. 98; e in E. M., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, i, p. 77. 38. Sul motivo del “fanciullo invecchiato” ha richiamato l’attenzione, ai Wni della comprensione del rapporto montaliano con Svevo, R. Luperini, Montale e l’identità negata, Napoli, Liguori, 1984, p. 42.
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distingui l’un dall’altro volto / ma pulsare odi il cuor che si nasconde / unico nella duplice Wgura», e il fanciullo è chiamato «bel Wglio della mia melancolìa»; però il personaggio di D’Annunzio, che rappresenta la raggiunta armonia fra natura ed arte, fa al meglio ciò che Montale dice di non poter fare: «ogni voce in tuo suono si ritrova / e in ogni voce sei / sparso», cioè riesce ad accordare il suo canto alle voci tutte della natura, e ancora: appartiene all’Ellade, ove «sostanza dell’aere è il pensiere». 39 Ebbene, riconosco d’aver sempre percepito nel nome Arsenio il rinvio a un’idea di senilità, 40 propria forse più dell’uomo in generale («ti ringhiotte», «ti ri-prende», «l’onda antica che ti volve») che di un singolo, facilmente contrapponibile innanzi tutto al trionfante giovanilismo e fanciullismo alcyonio. 41 Dico «innanzi tutto» perché non posso escludere, data la frequente stratiWcazione di signiWcanti e signiWcati onomastici in Montale, la possibilità di un’ulteriore valenza oppositiva, veicolata dalla sezione Wnale di Ar-senio messa a confronto con l’analoga porzione fonologica di Arletta, che suggerisce invece idea di gioventù o fanciullezza. Bene ha fatto la Grignani a parlare riguardo al secondo nome di «simbolismo suYssale del diminutivo». 42 Pertanto i due personaggi del romanzo montaliano, il poeta e la morta fanciulla, dai nomi identici nella prima sezione e antitetici nella seconda in quanto allusione a destini comuni e divisi, non solo si inserirebbero a pieno diritto nella tradizione antica delle coppie onomastiche richiamate in causa da Rosanna Bettarini, 43 ma troverebbero un più diretto precedente, almeno sul piano della vicenda, nella coppia leopardiana poeta-tenerella Silvia (o Nerina). 44
39. SigniWcato diverso, rispetto al «fanciullo invecchiato» di Mediterraneo, ha il «fanciullo antico / che accanto ad una rosa balaustrata / lentamente moriva sorridendo» di Riviere (1920), perché questo ha fanciullezza anagraWca ed è evocato nel ricordo. La sua antica tristezza dovrebbe unirsi alla volontà nuova del poeta per formare un’anima non più divisa e cambiare in inno l’elegia. 40. Da qualcuno Arsenio è stato avvicinato a Zeno Cosini: il suggerimento di S. Ramat, Montale, Firenze, Vallecchi, 1965, p. 67 e di T. De Lauretis, La sintassi del desiderio, Ravenna, Longo, 1976, p. 150, è stato sviluppato da G. P. Biasin, Il vento di Debussy. La poesia di Montale nella cultura del Novecento, Bologna, il Mulino, 1985, pp. 87 ss. 41. Trascuro qualche altra meno convincente interpretazione del nome Arsenio. 42. Prologhi ed epiloghi. Sulla poesia di Eugenio Montale, cit., p. 24. 43. Cfr. op. cit., p. 511. 44. Sul rapporto Leopardi-Montale è ovvio il rimando a Lonardi, Il Vecchio e il Giovane e altri studi su Montale, cit., che individua nello spenta collegato a tenera di Per un
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Anche in Crisalide è possibile riscontrare l’eco di un famoso mito metamorWco dell’Alcyone. Consideriamone per sommi capi il contenuto sottolineando di volta in volta termini ed espressioni che più direttamente indicano, come vedremo subito dopo, la derivazione. Una creatura femminile (Paola Nicoli), a cui Montale si rivolge col «voi», riverdica e si rinnova all’alito d’Aprile assieme all’albero che ha avide radici e tumide cortecce e alle piante in genere di cui, essendo ella stessa un cespo, è considerata quasi nume tutelare («Son vostre queste piante / scarse»). Nella prima redazione manoscritta, con maggiore aderenza alla natura vegetale che la circonda ma anche la caratterizza, la creatura è chiamata anche pianta («Mia pianta voi, che invano / strinò scirocco e declinò garbino») e albero («bell’albero proteso [variante marginale: «alberella protesa»] / al crescer della luce»); 45 e l’universo di cui ella fa parte è denotato, con espressione da lauda alcyonia, come sorelle piante («E voi curate le sorelle piante»). Assieme alle onde della vita giunge però una risacca di memorie che quasi le sommerge il cuore, per poi dileguarsi subito. Ella si prepara a vivere, calata tutta nel presente, di una vitalità concentrata negli occhi, con lo sguardo che in un primo momento cadeva sulle zolle e poi si rivolge in alto «in questo lento / giro d’occhi che ormai sanno vedere». Se la parte riservata alla creatura che sta sortendo dal bruco è cercare di venire alla luce con tutta la propria umanità, la parte del poeta, visto come predatore («Siete voi la mia preda»), è godere della breve ora di tremore umano che la compagna va acquistando. Questo costituisce la sua ricchezza: «la mia ricchezza è questo sbattimento / che vi trapassa...». Si tratta eVettivaWore reciso (1975), nel Quaderno di quattro anni, una iunctura Nerina-Silvia. Attualmente si è fatta avanti la tendenza a collegare Arletta a liriche come Aspasia e Alla sua donna: cfr. L. Barile, Montale, Londra e la luna, Firenze, Le Lettere, 1998, in particolare il capitolo Una luna un po’ ingobbita. Qualche ipotesi per Leopardi e Montale. Eppure, anche nella lirica Turbamenti (1924?), ritrovata fra le lettere a Bianca (che sarà poi moglie di Francesco Messina), pubblicata in Montale. Lettere e poesie a Bianca e Francesco Messina 19231925, a cura di L. Barile, Milano, Scheiwiller, 1995, e in seguito ristampata in appendice al cit. Montale, Londra e la luna, sono di gran lunga prevalenti echi da A Silvia e dalle Ricordanze: splendevano e iridi («splendea / negli occhi tuoi ridenti») in posizione incipitaria e nella descrizione degli occhi; «tranquille spere»; «leggiadro asilo»; «la vostra voce dava un suono più sordo» («al suon della tua voce»). 45. Sui procedimenti correttori di Crisalide cfr. L. Barile, Le varianti di “Crisalide”, in Letture montaliane in occasione dell’80° compleanno del Poeta, cit.; G. Lavezzi, Sui manoscritti degli “Ossi di seppia”, in In ricordo di Cesare Angelini. Studi di letteratura e Wlologia, a cura di F. Alessio e A. Stella, Milano, il Saggiatore, 1979. È giusta nel lavoro della Barile, in cui però Crisalide è vista soltanto come «un tentativo di coinvolgere l’‘altro’ nel dialogo metaWsico sulla conoscenza della realtà», la conclusione sul «netto riWuto, nella seconda stesura, di qualsiasi alone sentimentale» (citazz. da pp. 96 e 83).
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mente di una breve ora, anzi di un istante, che non dissolve compiutamente l’ombra opaca che reclama di nuovo a sé la donna. Nella redazione ms. il poeta le dice: Forse non vincerete l’ombra oscura che da ogni parte tenta di rinchiudervi; forse non sorgerà dalla crisalide la creatura del volo.
La trasformazione abortisce: dall’albero non riesce ad erompere «la creatura del volo», la farfalla, psiche. Il prodigio è fallito (ritorniamo alla redazione deWnitiva) «come tutti / quelli che ci Woriscono d’accanto». Dopo una quinta strofa in cui riappare il tema positivo della salvezza, attesa però non più dalla terra ma dal mare («E il Xutto che si scopre oltre le sbarre / come ci parla a volte di salvezza!...»), le ultime due strofe ripropongono il motivo del fallimento visto sia sulla terra sia sul mare: nella creatura rimasta crisalide, che non lascerà pertanto tracce sulla polvere, e nell’onda da cui è scomparsa la scia della barca di salvezza. Ora al poeta altro non resta che formulare un tacito patto col destino: quello di «scontare / la vostra gioia con la mia condanna», in un’oVerta, pertanto, senza contraccambio sostanziale, in un donarsi silenzioso. Le ragioni del cuore devono abdicare «perché rida un fanciullo inconsapevole», così come un arido paletto trova la sua ragion d’essere nel bruciare avvivando un fuoco che sta per spegnersi. Ai motivi dunque della crisalide non sbozzata, dell’abortita trasformazione da vita inferiore a vita superiore (non da donna in pianta, come comunemente s’intende), e della connessa impossibilità per il poeta di godere a lungo dell’umanità di lei si ricollega il patto che egli vorrebbe stringere col destino: «scontare la vostra gioia con la mia condanna». Il prodigio fallito, il sacriWcio in favore dell’altro, così come le opposte polarità luce-ombra, liberazione-chiusura (ms.), 46 sono temi montalia-
46. Altre polarità di Crisalide sono libertà-necessità, attimo salviWco-Wssità, gridosilenzio, alto-basso. Sulle immagini-simbolo montaliane, con particolare riferimento agli Ossi, cfr. M. E. Romano, Temi e organizzazione tematica nel “Carnevale di Gerti”, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Cl. di Lett. e Filos.», v, 3, 1975. L’indagine ha il pregio di considerare i simboli non monosigniWcanti, ma forniti di senso assegnato dal contesto: «In realtà ci si trova di fronte ad opposte connotazioni del medesimo evento: l’ambivalenza è istituzionale del simbolo montaliano e non va confusa con la contraddizione» (p. 1207, n.). Il principio vale a maggior ragione per i singoli termini: «ti protendi» (a un vuoto risonante di lamenti soVocati) di Arsenio è di segno negativo; «mi protendo» (a codesto solare avvenimento) di Crisalide, così come «proteso» (a un’avventura più lontana) di Falsetto sono di segno positivo.
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ni, ma organizzati, in questo caso, col reimpiego di materiali e lemmi della dannunziana Versilia, ovviamente mutati d’ordine e di signiWcato. In D’Annunzio la ninfa boschereccia Versilia erompe «dalla corteccia fragile» di un pino (si ricordino «le tumide cortecce» di Montale); la scaglia dell’albero è come una palpebra rude «che subitamente si schiude, / nell’ombra, a uno sguardo divino» per consentire all’essere rinchiuso di vedere all’esterno. Sono qui fusi i motivi, che abbiamo visti separati in Crisalide, dello sguardo rivolto all’esterno, dell’ombra che caratterizza la prigionia e del chiuso («tenta di rinchiudervi» nel ms.). La ninfa dannunziana acquista Wgura umana («Io sono di carne») e propone al poeta, che, seduto all’ombra del pino, mangia dolci pesche, inconsapevole che il profumo possa essere giunto all’interno dell’albero, un patto molto interessato (non certo quello sacriWcale di Montale) per il quale, se lui le oVrirà («oVrimi») un canestro ricolmo di persiche bionde, ella gli si concederà su un letto di mirti: da tempo, infatti, «in cuor mio non è gaudio / di tal copia», cioè di tale abbondanza di frutti. A meno che – conclude maliziosamente la ninfa – egli non sia, in quanto cacciatore, devoto alla dea della castità. In tal caso lei, esperta della caccia, lo aiuterà a fare gran preda: «ne avrai della preda s’io t’amo». Se lo scambio e le ragioni del cuore sono state sostituite in Crisalide dal sacriWcio, anche la speranza di preda che Montale si aspettava in oVerta (godere per un attimo dell’acquistata umanità della donna) risulta alla Wne vaniWcata e improponibile. Giunti a questo punto, siamo sicuri di aver attualizzato, non diciamo tutte, ma almeno la parte più consistente delle potenzialità signiWcative di Crisalide, ed esaurito, nell’esame del rapporto con l’Alcyone, il quadro della sua intertestualità? Riconsideriamo alcune situazioni fondamentali della lirica montaliana. La creatura che il poeta vede come sua (possibile) preda non fuoriesce dalla corteccia, non diventa donna, non gli si oVre – potremmo aggiungere tenendo conto del modello dannunziano. Allo shock del disinganno, che ha confermato incolmabile la distanza, segue, a parziale risarcimento, l’oVerta caritatevole di se stesso. Parrebbe adombrata sotto il velo dello scacco esistenziale una più concreta situazione di delusione amorosa, vissuta con la signora splendida (diversa dalle giovinette Annetta o Esterina) a cui il poeta si rivolge col ‘voi’ (come in Tentava la vostra mano la tastiera), sterminatrice di cuori, secondo il quadro che della Nicoli traccia lo stesso Montale.47 L’impres47. «Il ‘tu’ di Casa sul mare e di Crisalide è indirizzato a una donna splendida: era stata attrice e tutti quelli che l’avvicinavano se ne innamoravano»: G. Nascimbeni, Eugenio Montale, Milano, Longanesi, 1969, p. 74.
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sione dello scacco erotico è confermata dalla strofa v, in cui è detto che la salvezza dovrebbe arrivare dal burchiello che approda e attende l’imbarco dei due: un imbarco sul burchiello auspicato, almeno nella redazione ms., da un «vorrei» («Vorrei seguirli, dirvi: – volerà senza rombo...»). C’è l’indispensabile per supporre la presenza di un secondo ipotesto: più che l’inizio di Purg. ii (come qualcuno ha detto), il sonetto in cui «un vasel» dovrebbe accogliere, secondo le attese di Dante analogamente espresse da un iniziale «vorrei», gli amanti stilnovisti concordi. Le rime in -ento e le parole rima io : mio delle quartine dantesche si ripropongono nelle strofe ii, iii e inizio iv di Crisalide. Ma della barca della salvezza non rimane traccia: essa non rispicca il volo; così come non sorge dalla crisalide «la creatura del volo» (red. ms.). Permane la «tortura senza nome che [...] volve / e [...] porta lontani» la donna e «il tacito compagno»: cioè le «deboli vite» della redazione ms., «l’una che ricerca, / l’altra...». Non possiamo non pensare ad un altro famosissimo scenario amoroso dantesco (terzo ipotesto di Crisalide!), quello di Paolo e Francesca col volo nella bufera, che volta, mena gli amanti, col tacito Paolo, con la diVerenziazione dei caratteri e dei compiti: «Mentre che l’uno spirto [...] / l’altro...». Forse il «tremore umano» di Crisalide echeggia il «tutto tremante» di Dante. Registriamo inWne la presenza di un quarto ipotesto, anch’esso famosissimo e d’argomento amoroso, nella genesi della lirica montaliana, la cui conclusione prevede, dopo il fallimento del prodigio e «il voto che [...] nasce ancora in petto», la cessazione di ogni moto: «poi Wnirà ogni moto» (scil. del petto). La redazione ms. deWnisce il voto come «l’estremo patto...»; accoglie lemmi come fati (v. 83) e mondo (v. 84). Ma già la vicenda dell’amore leopardiano per Aspasia si concludeva in A se stesso, dopo la Wne dell’inganno amoroso, estremo e senza risarcimento, con la cessazione di ogni moto del cuore: «Or poserai per sempre, / stanco mio cor [...] Non val cosa nessuna / i moti tuoi»; e presentava i lemmi mondo e fato: «fango è il mondo», «al gener nostro il fato...». 48 Possiamo concludere confermando un’impressione precedentemente espressa: in Crisalide e, come vedremo fra poco, in Tentava la vostra mano la tastiera è attivo un processo di criptosemantizzazione con l’occultamento di sensi amorosi sotto più generici signiWcati esistenziali. 49
48. La iunctura leopardiana cuore-moto è anche nell’«osso» Mia vita, a te non chiedo lineamenti, composto nel tempo di Crisalide: «Il cuore che ogni moto tiene a vile / raro è squassato da trasalimenti». 49. Altra conclusione: un discorso sul passaggio dalla redazione ms. al testo deWnitivo di Crisalide dovrebbe innanzi tutto posare l’accento sull’eliminazione degli echi più
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Tentava la vostra mano la tastiera appare anch’essa in parte costruita, pur dovendosi tener conto dell’ovvia improponibilità di un accostamento fra situazioni diverse, con materiali lessicali appartenenti al canto di Paolo e Francesca. Al «noi leggiavamo», a «li occhi ci sospinse», a «i dolci pensier» e «dolci sospiri», al «nostro amor» (che assomma le singole individualità degli amanti) corrispondono «i vostri occhi leggevano», la «dolce ignoranza», il nostra (evidenziato in corsivo) che media fra mia e vostra nel verso Wnale «ed era mia, era nostra, la vostra dolce ignoranza». Manca nell’«osso» montaliano il passaggio dall’imperfetto della sospensione che precede la conoscenza dei «dubbiosi disiri» al perfetto del compimento, dal «leggiavamo» insomma al «punto [...] che ci vinse». Pertanto la «dolce ignoranza» montaliana potrebbe essere incapacità di comprendere i segni musicali, ma anche di far chiarezza in se stessi. InWne, non più che un cenno ad una quarta presenza degli Ossi, Esterina. A diVerenza della «crisalide» ella esce dall’involucro – nube, fumea o Wotto di cenere – che tende a chiuderla in sé, superando la linea divisoria fra grigio e roseo (i vent’anni), terra e acqua (lo scoglio), e spicca il volo verso l’elemento salviWco che la rinnova. «Equorea creatura», che aggiorna il mito di Glauco (Ditirambo ii) abbattendosi «fra le braccia / del suo divino amico», mentre «ti guardiamo noi, della razza / di chi rimane a terra», è cantata con spostamento in falsetto del tono ditirambico dannunziano. 50
compromettenti dei testi utilizzati: ai Wni dell’alleggerimento e dell’ingombrante letterarietà e della motivazione erotica. 50. Cito quei punti del Ditirambo ii in cui il mito di Glauco ha movenze riecheggiate in Falsetto: «sentii la deità, sentii nell’intime / midolle il freddo fremito / della potenza equorea trascorrere / di repente, io terrigena, / io mortal nato di sostanza eWmera, / io prole della polvere!»; «Precipite / caddi nel gorgo, mi sommersi, l’inWma / toccai valle oceanica, / uom non già, non anco dio, ma immemore / della terra e degli uomini»; «La terra m’è supplizio». Ma mentre D’Annunzio rivive la metamorfosi in essere equoreo, Montale si riconosce della razza di chi rimane a terra. Per una diversa interpretazione del titolo Falsetto, che celerebbe «un duro giudizio a posteriori dello stesso Montale sul carattere leggermente pompieristico del risultato poetico dei propri furori giovanili», cfr. M. E. Romano, Baudelaire occultato o rilevato in Montale e le armoniche di “Costa San Giorgio”, «Rivista di letteratura italiana», xiii, 3, 1995, p. 490.
xv L’ULTIMO E IL PRIMO perdita e riacquisto del nome in se questo è un uomo di levi
I
n Se questo è un uomo si registra il procedimento di «distruzione» (155), 1 «demolizione» (20), «annientamento» (21) dell’uomo, attuato con scrupolosa eYcienza dai nazisti nel Lager. L’eliminazione Wsica diretta è solo un aspetto, non sempre preventivato, non dei più perWdi, dell’atroce contabilità di entrate e uscite. Incombenza principale degli aguzzini è la metodica sottrazione di quanto costituisce la speciWcità dell’essere uomo come genere, gruppo sociale, individuo singolo provvisto di esigenze Wsiche e spirituali. Esso, infatti, è spogliato di ogni traccia di civilizzazione; dell’appartenenza ad una famiglia e ad una nazionalità; del senso del futuro e del passato; della capacità di pensare, trovare il perché delle cose, comunicare attraverso il racconto le esperienze vissute; della possibilità di soddisfare gli istinti più elementari come quello di cibarsi; del diritto di proprietà, attraverso la sistematica privazione di ogni oggetto personale; della forza di reagire in modi autonomi e non prevedibilmente collettivi e remissivi, così come di esprimersi con linguaggi diVerenziati e non col gergo del Campo. È perciò ridotto, per non scomparire, allo sforzo della mera sopravvivenza sul crinale di un presente estremamente diYcile, in un ambiente ove regna oltretutto la confusione babelica delle lingue e perciò l’incomprensione, che l’impiego di una lingua non propria e la traduzione maldestra riescono solo in parte ad eliminare; costretto all’uso dell’inevitabile jawohl; umiliato, imbestiato, reiWcato. Sul piano della resa simbolica ciò equivale ad un precipitare dantescamente sul fondo, verso la sommersione, la putredine della decomposizione Wsica e degli escrementi, la ghiaccia di un nuovo Cocito. Nella parte Wnale del racconto il Lager è ridotto, oltre che a mattatoio (Ultimo impiccato; i ventimila mandati a morire; i diciotto giustiziati con un colpo alla nuca), a latrina, a groviglio di corpi infetti e fetidi, a ghiaccia invernale-infernale. 1. I numeri che accompagnano le citazioni indicano le pagine dell’edizione P. Levi, Opere, i, Torino, Einaudi, 1987, da cui le citazioni sono tratte.
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Ma echi consistenti della descrizione del basso inferno dantesco sono presenti, oltre che nella zona terminale di Se questo è un uomo, anche al suo inizio, come testimoniano il titolo stesso del capitolo ii, Sul fondo («al fondo [...] ci sposò», Inf. xxxi 142-143), e la presentazione, nello stesso capitolo, di ciò a cui è subito ridotto l’internato: «non c’è ove specchiarsi, ma il nostro aspetto ci sta dinanzi, riXesso in cento visi lividi, in cento pupazzi miserabili e sordidi» (20). 2 Funziona altresì da preciso richiamo intertestuale la dichiarazione di incapacità espressiva: «allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa oVesa», variata più avanti, anche qui col ricorso al Dante del basso inferno, in «se i Lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato; e di questo si sente il bisogno per spiegare...» (127). 3 Parte essenziale del processo di annientamento dell’uomo è la sottrazione della nominazione di specie, di nazionalità, di famiglia, di persona. Non più uomini, non più cittadini di qualche patria, non più appartenenti a nuclei familiari metodicamente infranti nel momento dell’ingresso nel Lager, gli internati non hanno più nemmeno praenomen. La nominazione più individuante scompare per cedere il posto a quella meno individuante: «un polacco di cui tutti ignoravano il nome» (63); «i due italiani», di cui «per lo più i compagni stranieri confondevano i [...] nomi» (161). All’annientamento si accompagna una perversa ricostruzione dell’identità attraverso l’inserimento dell’internato in una nuova società o città o famiglia, che è il contrario o, se si vuole, la parodia di quella originaria. Egli è ribattezzato 4 in vari modi. Si possono trovare innanzi
2. L’immagine dello specchio, il termine lividi, la terminazione -azzi sono tutti presenti in Inf. xxxii (vv. 54, 34, 68-72). 3. Si sente l’eco di «S’io avessi le rime aspre e chiocce / come si converrebbe al tristo buco» di Inf. xxxii 1-2. Sulla presenza di Dante nelle opere di Levi si rimanda al giudizio di P. V. Mengaldo, Introduzione al volume iii delle Opere, ed. cit., p. xxix: «In generale, Dante, come è noto, è l’autore che Levi più spesso cita e di cui senz’altro incorpora espressioni e vocaboli nel suo discorso»; e alla seguente bibliograWa essenziale: G. Oli, Echi danteschi nell’esperienza di un contemporaneo, in Atti del Congresso internazionale di Linguistica, Bucarest, 1971; L. M. Gunzberg, Down among the Dead Man: Levi and Dante in Hell, «Modern Language Studies», xvi, 1, 1986, pp. 10-28; R. Sodi, A Dante of our Time Primo Levi and Auschwitz, New York, Peter Lang, 1990; J. Ph. Bareil, Exil et voyage littéraire dans l’oeuvre de Primo Levi, Paris, Editions Messene, 1998. Non si citano invece gli studi dedicati all’utilizzazione del canto infernale di Ulisse nel capitolo xi di Se questo è un uomo, perché di essi è fatta menzione in un mio lavoro sullo speciWco argomento (cfr. Il canto di Ulisse in “Se questo è un uomo” di Levi: una buona ora nel Lager, «reli», xxi, 2003. 4. «Battezzare» è termine leviano: cfr. p. 21.
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tutto nominazioni generiche e massiWcanti, in cui la presenza dell’individuo è totalmente obliterata, come il disprezzante Stinkjude (148) e il merciWcante Stück (9) per gli ebrei; Häftling (21, 41, 90, 93, 109, ecc.) per l’universo dei reclusi, o, ancor peggio, il «neutro singolare» Kazett (125), che non solo disindividua e disumanizza ma riduce a sigla. 5 All’interno dei grossi raggruppamenti si individuano specie e sottospecie, a cui corrispondono denominazioni categoriali e sottocategoriali del tutto in linea con quello che Levi chiama l’«amore nazionale [dei Tedeschi] per le classiWcazioni» (163). Tali sono quelle, connesse alla colpa che ha portato alla reclusione, di «triangoli verdi», «triangoli rossi», «stelle rosse e gialle» (27); 6 o le altre proprie del sistema gerarchico del Campo basato sul controllo spesso esercitato attraverso Wgure intermedie come il Kapo, l’Organisator, il Kombinator, il Prominent («truce eloquenza dei termini!», 91). Appartiene invece al gusto tassonomico dell’autore la distinzione, su cui è impostato il capitolo centrale, di sommersi e salvati, mentre la nominazione di mussulmani (90, 91, 132), attribuita a coloro che non hanno la forza di reagire per sopravvivere e coincidente perciò con quella colta di sommersi, appartiene al gergo del Campo. Nel Lager al sistema nominale classiWcatorio se ne aYanca un altro di maggiore funzionalità che tiene conto della necessità dell’individuazione. I Tedeschi sono, oltre che classiWcatori, contabili: per esigenze di pratica e molto spesso macabra registrazione ricorrono al nome-numero. Il numero può dire tutto: 7 «l’epoca di ingresso al campo, il convoglio di cui si faceva parte, e di conseguenza la nazionalità» (21), 8 ma anche essenziali caratteristiche comportamentali legate alla lotta per la sopravvivenza; 9 mentre la funzione individuante è aYdata alle ultime cifre del numero che registrano l’ordine del singolo in seno al gruppo di appartenenza. Levi, p. es., è il 174517, cioè il 517 del gruppo 174000 (142). 5. Kazett, cioè kz, è l’equivalente di Konzentrationslager. 6. Ecco come «triangolo verde» acquista valore di nominazione: «era ancora un ‘triangolo verde’, un delinquente professionale» (104). 7. Nonostante qualche parere contrario, del resto non motivato, ha ragione S. Bartezzaghi, Cosmichimiche, «Riga», xiii, 1997 (dedicato a P. Levi) a dire: «anche i nominumero hanno: un signiWcato [...]; una connotazione [...]; un’etimologia [...]» (p. 297). 8. Dal 30000 all’80000 sono numerati gli ebrei polacchi, 116000 e 117000 i greci di Salonicco (22), 174000 gli ebrei italiani (44). 9. I «piccoli numeri, inferiori al 150000» (90, 82), corrispondenti ai vecchi ospiti, sono i furbi adattatisi alla lotta per la sopravvivenza; i numeri grossi, corrispondenti ai nuovi arrivati, sono i docili e gli scemi (22, 74, 82, 124). Nella logica della lotta per la sopravvivenza, gli ebrei italiani, in quanto tutti professionisti inadatti al lavoro, sono chiamati zwei linke Hände, «due mani sinistre» (44).
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Ma anche il nome-numero può perdere quel tanto di potere denotativo che è essenziale all’inserimento nel Campo. Siamo allora in cospetto dell’annientamento non solo della persona ma anche della sua individualità, cioè in cospetto dell’anonimato. Che si realizza se il numero, perdendo la sua interezza, si riduce alle ultime cifre. È il caso di Zero Diciotto, Null Achtzehn (37), che, non indicando più il gruppo di appartenza, simboleggia col suono sinistro della prima cifra isolata la nulliWcazione del personaggio. In realtà Levi è consapevole, nonostante l’aVermazione «I personaggi di queste pagine non sono uomini» (125), del fatto che il processo di distruzione dell’umanità non in tutti i casi è portato a termine, che non sempre cioè l’uomo è totalmente annientato nel Wsico, nel carattere, nel nome. Talvolta esso riesce a preservare la propria dignità; allora il narratore gli conserva anche il nome. Così la dizione «uomo» (o un suo derivato) e il nome procedono abbinati. Ecco casi di nomi che fungono da garanzia di umanità conservata, preservata, difesa, appartenenti a personaggi cui sono dedicati veri ritratti o addirittura interi capitoli: Alberto è il mio miglior amico [...] Alberto è entrato in Lager a testa alta, e vive in Lager illeso e incorrotto [...] Ho sempre visto, e ancora vedo in lui, la rara Wgura dell’uomo forte e mite (54) Ma Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo (125) e ho visto i suoi occhi, dietro le gocciole di pioggia degli occhiali, e sono stati gli occhi dell’uomo Kraus [...] Che buon ragazzo doveva essere Kraus da borghese (138-139) Ma già Charles aveva acceso la stufa, l’uomo Charles alacre, Wducioso e amico. (170)
Più complesso il caso di Henri, astuto sfruttatore del senso di pietà che riesce a destare negli altri. Egli «ha reciso ogni vincolo di aVetti; si è chiuso in sé come in una corazza» (101) e recita alla perfezione la parte del giovane gentile e sventurato. L’umanità si intravede al di sotto di un comportamento inumano; perciò prevalgono nella sua presentazione Wgure ossimoriche, 10 immagini di doppiezza: 10. Sul signiWcato dell’ossimoro in generale, «Wgura stilistica regia, per frequenza e qualità, dell’opera di Levi» cfr. P. V. Mengaldo, Introduzione, cit. al vol. iii delle Opere di Levi, pp. lxxiv ss.
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accade anche, qualche volta, di sentirlo caldo e vicino, pare possibile una comunicazione, forse persino un aVetto; sembra di percepire il fondo umano vs duro e lontano, chiuso nella sua corazza, nemico di tutti, inumanamente scaltro e incomprensibile come il Serpente della Genesi. (102-103) 11
All’inizio e alla Wne del libro la presenza dei nomi garantisce l’umanità di due diverse categorie di personaggi. All’inizio stanno coloro che sono rimasti integri, perché morti o scomparsi dalla scena prima che la perversa vita del Campo li abbia corrotti. Le qualità umane si sono perciò conservate. In questi casi Levi mette in evidenza non una generica umanità ma particolareggiatamente gli aspetti con cui quell’umanità si presenta: Così morì Emilia, che aveva tre anni [...] Emilia, Wglia dell’ingegner Aldo Levi di Milano, che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente (13) Nella baracca 6A abitava il vecchio Gattegno, con la moglie e i molti Wgli e i nipoti e i generi e le nuore operose. Tutti gli uomini erano falegnami; venivano da Tripoli, attraverso molti e lunghi viaggi, e sempre avevano portato con sé gli strumenti del mestiere, e le batterie di cucina, e le Wsarmoniche e il violino per suonare e ballare dopo la giornata di lavoro, perché erano gente lieta e pia. (8)
Alla Wne stanno gli internati che si mostrano capaci di riconquistare la dignità di uomini riemergendo dal fondo in cui sono precipitati. Nel capitolo Wnale convivono il toccare il fondo dell’abisso e l’apparire di elementi di riscatto. La struttura ossimorica è qui propria della narrazione e pare autorizzata dalla formazione culturale dell’autore che non può non tener presente «il ricordo dei salvamenti biblici nelle avversità estreme» (164). Dal caos emerge la Creazione; dalla morte del Lager la rinascita di ciò che rimane; dalla decomposizione il ritorno ai sentimenti delicati e gentili. 12 I luoghi, il Campo e l’infermeria, sono presen-
11. L’indeWnibilità di Henri è consustanziata oltre che di doppiezza anche di equivoco mistero: «I più consumati, i seduttori di professione come Henri, non ne parlano aVatto; essi circondano i loro successi di un’aura di equivoco mistero, e si limitano agli accenni e alle allusioni, calcolate in modo da suscitare negli ascoltatori la leggenda confusa e inquietante che essi godano delle buone grazie di civili illimitatamente potenti e generosi» (123). 12. Cfr. pp. 165 ss.
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tati come sede di eventi antitetici: così il tempo, che è il Gennaio a due facce, una rivolta al passato e al dolore, l’altra al futuro e alla speranza. Il racconto è costruito come immediato accostamento di eventi di opposto tenore o signiWcato: i Tedeschi compiono le ultime eVeratezze ma si fanno sentire i bombardamenti alleati, presagio di liberazione; i superstiti nelle loro sortite trovano «un cadavere nudo e contorto» ma anche «una batteria da autocarro», che sarà fonte di energia e di luce (169); il «vecchio ungherese [...] sorpreso colà dalla morte [...] irrigidito nell’atto dell’aVamato» è accanto al mucchio di patate con cui i sopravvissuti si sfamano (176). Il tempo si sdoppia nelle due opposte specie del tempo metereologico che immobilizza e irrigidisce nella ghiaccia e del tempo psicologico che ricomincia a funzionare al passato come ricordo13 e al futuro come speranza e aspettativa. 14 Il ritorno dell’articolata sequenza cronologica è messo in evidenza dalla forma diaristica dell’ultimo capitolo, Storia di dieci giorni. Ora può rinascere l’uomo: «ridiventare uomini» è espressione topica del Wnale (167, 179). Ora perciò ritornano i nomi singolarmente inseriti in storie compiute o raggruppati in presentazioni collettive. Ecco qualche caso: Mentre io andavo a cercare legna, e Charles a raccogliere neve da sciogliere, Arthur mobilitò i malati che potevano star seduti, perché collaborassero nella mondatura. Towarowski, Sertelet, Alcalai e Schenck risposero all’appello. Anche Sertelet era un contadino dei Vosgi, di vent’anni [...] Alcalai era un vetraio ebreo di Tolosa; era molto tranquillo [...] Schenck era un commerciante slovacco, ebreo: convalescente di tifo [...] Così pure Towarowski, ebreo franco-polacco, sciocco e ciarliero, ma utile alla nostra comunità per il suo comunicativo ottimismo. (170-171) Degli undici della Infektionsabteilung, fu Sòmogyi il solo che morì nei dieci giorni. Sertelet, Cagnolati, Towarowski, Lakmaker e Dorget (di quest’ultimo non ho Wnora parlato; era un industriale francese...). (181)
Sotto il proWlo dell’annientamento dell’uomo e della perdita del nome che cosa avviene del personaggio che dice «io»? Anche lui ovviamente è sottoposto al procedimento di distruzione, come è confermato nell’explicit del penultimo capitolo, ove a conclusione della storia tragica 13. Cfr. p. 179. 14. Pp. 161, 179.
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di der Letze si dice: «anche noi siamo rotti, vinti: anche se abbiamo saputo adattarci...». Ma pure Levi partecipa alla rinascita spirituale propria di alcuni personaggi dell’ultimo capitolo: la quale ha come inizio un gesto di generosità, l’oVerta di una fetta di pane: Fu quello il primo gesto umano che avvenne fra noi. Credo che si potrebbe Wssare a quel momento l’inizio del processo per cui, noi che non siam morti, da Häftlinge siamo lentamente ridiventati uomini. (167)
La porzione del libro abbracciante la Wne del penultimo e l’inizio dell’ultimo capitolo presenta un altro simbolico passaggio da distruzione a rinascita: si infrange la coppia amicale la cui unione ha resistito alle atrocità del Lager dall’inverno dell’anno precedente, 15 perché Alberto parte con i ventimila destinati nella quasi totalità alla morte. L’evento è concepito come la rottura di un’unità: E venne Wnalmente Alberto, sWdando il divieto, a salutarmi dalla Wnestra. Era il mio indivisibile: noi eravamo “i due italiani” e per lo più i compagni stranieri confondevano i nostri nomi. Da sei mesi dividevamo la cuccetta, e ogni grammo di cibo organizzato extra-razione [...] Perciò lui partì e io rimasi. (161)
Ma immediatamente dopo si registra l’inizio di un’altra unione, con la formazione di una nuova coppia, secondo la logica di queste pagine che dalla morte fanno rinascere la vita. Separato da Alberto, il personaggio che dice «io» forma gruppo, nella vita dell’infermeria e nelle sortite esterne, con Charles e Arthur, i due francesi dei Vosgi «entrati in campo da pochi giorni» (158): I francesi furono d’accordo. Ci alzammo all’alba, noi tre. Mi sentivo malato e inerme, avevo freddo e paura. Gli altri malati ci guardarono con curiosità rispettosa...; (165)
e poi si Wssa in coppia sino alla Wne col solo Charles. Il dittico «Charles ed io» è largamente presente nell’ultimo capitolo (almeno una decina di volte). Alla fase precedente della perdita del nome o della sua sostituzione col numero succede quella della riacquisizione, che per Levi si realizza gradualmente. È da sottolineare il fatto che, come in seno alla vecchia coppia io protagonista-Alberto era venuta meno l’importanza dell’in15. P. 54.
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dividuazione onomastica (si ricordi il già citato: «confondevano i nostri nomi»: e la confusione dei nomi faceva parte della generale confusione babelica del Lager), così nella nuova coppia io protagonista-Charles rinasce il nome. Segno questo, insieme ad altri, di una sapiente costruzione narrativa a cui la critica, che pure ha messo in evidenza le caratteristiche letterarie del racconto sotto il proWlo dell’intertestualità, ha sinora prestato scarsa attenzione. Proprio Charles ridà a Primo il nome, che precedentemente era stato usato solo da Pikolo nell’episodio caratterizzato non a caso dalla presenza di un’altra coppia e di forti valenze aVettive. 16 La riacquisizione avviene, come si diceva, per gradi (se ne individuano tre) con espansione della sua risonanza dal singolo al gruppo, così come per gradi dalla morte rinasce la vita: 1. - Vas-y, Primo, descends-toi de la haut ... [anche se Levi non lo dice, è qui da supporre, in base a quanto è riportato al n. 2, che il nome sia pronunciato alla francese] (170) 2. [i due italiani del reparto dissenterici] udirono quel giorno per caso il mio nome, pronunciato all’italiana da Charles... (173-174) 3. l’intera sezione diarrea chiamò giorno e notte il mio nome, con le inXessioni di tutte le lingue d’Europa... (174)
Del nome riacquistato si fornisce in questo stesso capitolo, anche se in modo indiretto, l’interpretazione, accostandolo al numerale ordinale: - Dis donc, Primo, on est dehors! [dice ancora Charles] Era così: per la prima volta dal giorno del mio arresto, mi trovavo libero, senza custodi armati, senza reticolati fra me e la mia casa. (175)
Primo rià il nome, cioè rinasce nel nome, in concomitanza col suo sentirsi libero. Se l’ultimo capitolo è quello del primo, il capitolo che precede è quello dell’ultimo, da cui prende il titolo. Un’altra cerniera ossimo16. Nel capitolo Die drei Leute vom Labor era apparso il cognome, Levi, ma in un contesto che metteva in risalto la perdita della sua capacità denotativa: il protagonista, infatti, era individuabile solo attraverso il numero: «Il Kapo dice: – Il Doktor Pannwitz ha comunicato all’Arbeitsdienst che tre Häftlinge sono stati scelti per il Laboratorio. 169509, Brackier; 175633, Kandel; 174517, Levi –. Per un istante le orecchie mi ronzano e la Buna mi gira intorno. Siamo tre Levi nel Kommando 98, ma Hundert Vierundsiebzig Fünf Hundert Siebzehn sono io, non c’è dubbio possibile. Io sono uno dei tre eletti».
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rica di fondamentale importanza, questa volta onomastica, è presente in questa zona del libro. La rinascita di Primo si oppone alla morte dell’ultimo vero uomo del Campo: «Kamaraden, ich bin der Letzte!» grida prima di morire l’anonimo condannato all’impiccagione. E il narratore commenta: «I russi possono ormai venire: non vi sono più uomini forti fra noi, l’ultimo pende ora sopra i nostri capi» (155). L’ordinale acquista in questo caso valore di nome proprio; e con la nominazione il condannato eroico («L’uomo che morrà oggi davanti a noi ha preso parte in qualche modo alla rivolta», 154) ha la consacrazione coram populo della propria mai persa dignità. Davanti a lui stanno due collettività di anonimi: il gruppo indiVerente dei Tedeschi: Ai piedi della forca, le ss ci guardano passare con occhi indiVerenti,
e il gregge incapace di reazione dei reclusi: Vorrei poter raccontare che fra di noi, gregge abietto, una voce si fosse levata, un mormorio, un segno di assenso. Ma nulla è avvenuto. Siamo rimasti in piedi, curvi e grigi, a capo chino, e non ci siamo scoperta la testa che quando il tedesco ce l’ha ordinato [...] E noi, nuovamente ordinati in colonna, abbiamo sWlato davanti agli ultimi fremiti del morente. (155)
xvi MODELLI NARRATIVI E ONOMASTICA NELLA TREGUA DI LEVI
L
a materia della Tregua è disposta in rapporto di simmetria speculare rispetto a quella di Se questo è un uomo. Nella Tregua l’asse narrativo di 17 capitoli è suddiviso in due segmenti, dei quali il primo registra l’ultimo periodo di permanenza nel Lager, il secondo il viaggio di ritorno a casa: riXettendo in tal modo la struttura di Se questo è un uomo, articolata, su un asse narrativo di identica misura (17 capitoli), nella successione viaggio di andata-permanenza nel Lager. 1 I due racconti però si diversiWcano per le misure temporali dei segmenti contrapposti: a viaggio breve più soggiorno lungo in Lager di Se questo è un uomo succedono soggiorno breve in Lager più viaggio lungo della Tregua. La Wgura di chiasmo narrativo – ma potremmo parlare anche di successione «reversibile», usando un termine che piaceva al Levi autore di Calore vorticoso –, imperfetta sul piano della durata, ove il rapporto è iterativo, si correda di una serie cospicua di altri elementi tutti disposti in rapporto di specularità. Concedendo non più di un cenno al fatto che il movimento all’ingiù in Se questo è un uomo si rovescia nel movimento all’in su quando il viaggio di ritorno comincia a prendere la direzione di casa nella Tregua (cap. Da Staryje Doroghi a Iasi), indichiamo che alla concentrazione sul presente, con l’obliterazione del passato e del futuro, determinata dalla necessità della lotta per la sopravvivenza (Se questo è un uomo) succede il ritorno al ricordo e alla speranza (La tregua); al sogno ripetuto della narrazione fatta e non ascoltata (Se questo è un uomo), il doppio sogno, cioè «un sogno entro un altro sogno», 2 1. Sull’elaborazione, intesa come «costruire lucido», di Se questo è un uomo, ha scritto pagine chiarissime lo stesso Levi (Il sistema periodico, Cromo). Un altro esempio di organizzazione narrativa e di simmetria fra Se questo è un uomo e La tregua può essere fornito dai capitoli centrali dei due racconti. Nel capitolo I sommersi e i salvati, centrale in Se questo..., si interrompe la successione degli eventi o la linea temporale del narrare, che cede il posto ad una descrizione sincronica analitica e classiWcatoria; nel capitolo Verso nord, centrale nella Tregua, si interrompe la linea spaziale, cioè il viaggio di avvicinamento alla meta che è al sud, per il prevalere, almeno nella prima parte, di uno sguardo analitico e classiWcatorio. 2. Per le citazioni da Se questo... e dalla Tregua abbiamo tenuto presente l’edizione P. L., Opere, i, Torino, Einaudi, 1996.
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ugualmente ripetuto, che conclude La tregua: nel primo caso il movimento onirico conduce dal Lager a casa, nel secondo da casa al Lager. 3 Il rapporto oppositivo si stabilisce anche fra realtà identiche ma di segno inverso: negativo/positivo, tragico/comico. La doccia è in Se questo è un uomo «un bagno di umiliazione», una grottescamente sacrale cerimonia di iniziazione all’inferno; nella Tregua acquista invece «misura umana»; l’incomprensione cagionata dalla babelica diversità dei linguaggi è tragica in Se questo è un uomo, ma assume contorni comici e ridicoli nella Tregua. 4 L’opposizione speculare si può riproporre anche per realtà a prima vista irrelate, che però stabiliscono precisi contatti sul piano della signiWcazione simbolica: agli orribili pidocchi, segno temuto del degrado del Lager, si contrappongono, ad apertura della Tregua, gli enormi aerei cavalli dei Russi che costituiscono il mirabile presagio di un prossimo ritorno alla vita; e per realtà omologhe, come, più avanti (nel capitolo Katowice), i pidocchi del campo di sosta, sui nomi e sull’aspetto dei quali si può ora tranquillamente scherzare. L’imbestiamento del Lager è opera di aguzzini ovviamente maschi; il riacquisto dell’umanità si attua in cospetto e per opera di parecchie donne. Finemente è stato detto che Levi, per reimparare a vivere, ha bisogno di sguardi e cure tipicamente materne o, più generalmente, femminili. 5 Alla Wne di Se questo è un uomo e all’inizio della Tregua, cioè nella zona in cui il secondo percorso narrativo si collega come giunta al primo, pur senza intaccarne l’autonoma compiutezza, si inWttiscono le contrapposizioni, che possiamo sintetizzare in questo schema:
3. I sogni dei due racconti sono stati analizzati e messi in rapporto sul piano degli stati d’animo da C. Segre, Introduzione al volume ii della citata edizione delle Opere, pp. viii-x: l’Introduzione è stata in seguito parzialmente utilizzata in Idem, Gli scritti d’invenzione di Primo Levi, in P. L. Il presente del passato, Giornate internazionali di studio, a cura di A. Cavaglion, Milano, FrancoAngeli, 1993. 4. Cfr. C. Segre, Primo Levi nelle torre di Babele, in P. L. as Witness, Proceedings of a Symposium held at Princeton University, April 30-May 2 1989, ed. by P. Frassica, Fiesole, Casalini, 1990, che vede il «plurilinguismo» trasformarsi da elemento caratterizzante dell’inferno a elemento pittoresco e talora comico nel passaggio da Se questo è un uomo alla Tregua (p. 95). 5. G. Santagostino, Primo Levi et le corps comme lieu de la memoire, in Shoah, mémoire et écriture: P. L. et le dialogue des savoirs, sous la direction de G. Santagostino, Paris, L’Harmattan, 1997, p. 40. Una riprova dell’assenza della femminilità consolatrice in Se questo è un uomo si ha nel capitolo Die drei Leute vom Labor, in cui le donne del Campo sono o le operaie della Buna abbrutite e mascolinizzate dalla fatica («non si sentivano accanto come donne») o le ragazze del laboratorio guardate come «creature ultraterrene» che sanno solo disprezzare e oVendere.
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1. Arrivo dei Russi vs fuga dei Tedeschi 2. Disgelo (che dà il titolo al capitolo i della Tregua) vs ghiaccia invernale-infernale 3. Ritorno all’umanità e alla vita 6 vs distruzione dell’uomo 4. Inizio di scioglimento dei corpi irrigiditi e contratti vs rigidità dei corpi 5. Ammorbidimento morale vs pietriWcazione morale. Il modello narrativo è ora biblico, anche se non cessa di funzionare quello dantesco (primario in Se questo è un uomo), che risulta ancora visibile, sia pur con riferimenti non al basso inferno, ma a zone intermedie come il limbo e il purgatorio: Ebbe un letto e una scodella, e si inserì nel nostro limbo; In quella atmosfera di purgatorio, piena di soVerenze passate e presenti, di speranze e pietà.
Nell’archetipo biblico Levi vedeva meglio realizzata la netta contrapposizione fra opposti momenti, il principio cioè dei «salvamenti [...] nelle avversità estreme». 7 Fioriscono pertanto le immagini mito della puriWcazione dopo il contagio, del ritorno alla terra promessa, della facile comunicabilità dopo la confusione babelica delle lingue, dell’arcobaleno dopo il diluvio. L’arcobaleno lo vede splendere in particolare Noah (Noè), personaggio dal nome parlante presente esclusivamente in questo inizio di racconto. A lui è delegato il compito di ripopolare il mondo devastato dal diluvio; e lui lo ripopola personalmente con la sua instancabile attività amatoria, servendosi non di un’arca ma di un carro ripugnante con cui si sposta da un luogo all’altro: Noah voleva tutte le donne [...] Il diluvio era Wnito: nel cielo nero di Auschwitz Noah vedeva splendere l’arcobaleno, e il mondo era suo, da ripopolare.
A Noah datore di vita materiale si aYanca, sempre in questa parte iniziale della Tregua, Frau Vitta, «anzi Frau Vita, come tutti la chiamavano» (altro nome parlante!) datrice di vita spirituale e di consolazione: amava invece tutti gli esseri umani di un amore semplice e fraterno.
Siccome Levi è un ebreo laico di compiuta formazione letteraria e scientiWca, il nascere della vita gli si conWgura, oltre che biblicamente come uscita dal diluvio, anche secondo i canoni moderni dell’evolu6. Preannunciato, del resto, nell’ultimo capitolo di Se questo è un uomo. 7. L’espressione è tratta dal capitolo Storia di dieci giorni di Se questo è un uomo.
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zionismo e quelli antichi delle insorgenze cosmogoniche. I tre referenti culturali sono presenti in questo piccolo segmento narrativo: un vento alto spirava sulla faccia della terra [Genesi viii, 1]: il mondo intorno a noi sembrava ritornato al Caos primigenio, e brulicava di esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi [traccia di concezione evoluzionistica]; e ciascuno si agitava, in moti ciechi o deliberati, in ricerca aVannosa della propria sede, della propria sfera, come poeticamente si narra delle particelle dei quattro elementi nelle cosmogonie degli antichi [mitologie cosmogoniche].
Esseri umani scaleni, difettivi, abnormi, prodotti di questo ritorno non ancora compiuto all’esistenza, Levi li aveva già presentati nel cap. Il Campo Grande, dedicato ad uno dei momenti dello svincolarsi della vita dalla morte. Qui, in una sequenza non casuale ma fortemente simbolica, dopo Hurbinek, un bambino privo di movimento e di parola, praticamente «un nulla», Wglio non della vita ma della morte e di Auschwitz, destinato perciò non a svilupparsi ma a morire, sono presentati esseri non ancora giunti a completa deWnizione, sorpresi a mezzo del loro sviluppo e rimasti bambini (o ragazzi)-adulti. È il caso di Peter Pavel, la creatura di cinque anni che è già capace di badare a se stessa, del Kleine Kiepura, di dodici anni, «cresciuto troppo e male», di Henek-König, quindicenne al contempo materno e bestiale, tenero e feroce. Per quanto si tratti di esseri difettivi perché non ancora deWniti, che hanno qualcosa in comune con gli ibridi, anch’essi collocati da Levi nel tempo della seconda creazione dopo il diluvio (Quaestio de centauris), essi sono un insieme inestricabile di estremi, allo stesso modo della partigiana Olga, a mezzo fra vita e morte, «donna [...] forte, bella e consapevole» ridotta a «maschera [...] macabra come un teschio». Taluno è dotato di vitalismo sessuale da animale primordiale: come il «carnivoro» HenekKönig, in tutto simile da questo punto di vista alla vorace Jadzia, la quale avvolge, incorpora, prende possesso dei maschi «con i movimenti ciechi, muti, tremuli, lenti, ma sicuri che le amebe manifestano sotto il microscopio» o «tende intorno a sé le sue reti inconsistenti, come un mollusco di scoglio»; o al ripopolatore Noah, che «incrociava dall’alba a notte per tutte le strade del campo» simile a «uccello d’alto volo». L’onomastica leviana si adegua al radicale mutamento, rispetto a Se questo è un uomo, dell’impostazione dei personaggi. In senso generale e mitico, dopo il caos si originano i primi nomi; 8 in senso particolare e storico, morto il Lager con le sue regole, vien meno la funzione del 8. Sull’origine dei primi nomi dal caos cfr. H. Blumenberg, Work on Myth, trans. by R. M. Wallace, Cambridge (ma) and London (uk), the mit Press, 1985, pp. 34 ss.
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nome-numero e si ritorna al nome tradizionale. Anche in questo caso incontriamo nel capitolo ii un episodio altamente simbolico, riguardante un nome-numero che sta per esaurire la sua funzione ma non è ancora scomparso. L’episodio presenta l’ometto calvo, accartocciato e rigido, che soltanto in parte e per un istante le infermiere russe riescono a distendere per fargli la doccia. In quel solo momento si intravede il numero tatuato sul braccio: Charles ed io, nudi e fumanti, assistevamo alla scena con pietà e orrore. Mentre una delle braccia era distesa, si vide per un istante il numero tatuato: era un 200000, uno dei Vosgi. - Bon Dieu, c’est un français! – fece Charles, e si volse in silenzio contro il muro.
Aumenta perciò la frequenza, come del resto era già avvenuto nell’ultimo capitolo di Se questo è un uomo, dei nomi tradizionali. Alcuni di essi si caricano anche di valenze connotative a vasto raggio quasi che Levi intenda utilizzare vari tipi di interpretatio nominis. Tralasciamo Noah e Frau Vita, di cui si è già parlato. Hurbinek non è un vero nome perché corrisponde ad «una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva»; può essere dunque inteso come un nome-nulla adatto ad un essere-nulla o come un’indicazione di indecifrabilità – quella voce «forse (secondo una delle nostre ipotesi) voleva dire ‘mangiare’, o ‘fame’; o forse ‘carne’ in boemo» – valida per un essere paragonato ad una «piccola sWnge». 9 Peter Pavel è il nome doppio dell’essere doppio bambino-adulto. Henek-König è l’insieme di due nomi fonicamente opposti, uniti e separati dal trattino in un nesso quasi palindromico, connotante l’essere ossimorico che lo porta. André e Antoine sono nominazioni allitteranti della coppia di personaggi dal destino parallelo10 in vita e in morte. Più avanti, in una zona diversa del racconto, il parallelismo caratteriale di due personaggi, di origini peraltro diverse, è sottolineato dal ritorno, all’inizio e alla Wne dei nomi, dello stesso gruppo di lettere: ROVi/EgoROV (cap. Katowice). Dopo la Wne del diluvio il genere umano si diVonde sulla terra e la ripopola (Genesi ix, 19); si formano «le diverse nazioni della terra» (Genesi x, 32). Nella Tregua, dopo il diluvio si registra un pullulare di vari gruppi nazionali in movimento: italiani italiani, italiani rumeni, russi,
9. Hurbinek è sWnge perché essere impenetrabile e segreto. Diverso il signiWcato della Wgura mitica nell’episodio dell’esame di chimica in Se questo è un uomo, ove la sWnge contrapposta ad Edipo Wgura il terribile esaminatore Doktor Pannwitz, da cui dipende la sorte dell’intimorito esaminando Levi. 10. «Strano parallelismo» è l’espressione usata dallo scrittore (cap. Il campo grande).
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polacchi, greci, tedeschi, francesi, olandesi, cèchi, ungheresi, ex prigionieri alleati, tribù nomadi; e, accanto ai raggruppamenti, di individui rappresentanti etnie o gruppi regionali: la sentinella mongola, Marja la siberiana, Galina l’ucraina, le collaboratrici ucraine, le meretrici bessarabe del Greco. Il blocco italiano cede il campo ai singoli: il milanese, il bergamasco, il torinese, il carabiniere abruzzese, il triestino, il romano, il calabrese, il veronese, il veneziano. Spesso i personaggi portano marcate le caratteristiche culturali e comportamentali, reali o mitizzate, del gruppo a cui appartengono: il Greco, salonichiota, è un abilissimo mercante; gli Italiani sono accompagnati dal mito amatorio; i Russi caratterizzati, al contrario dei Tedeschi, da difetto di spirito organizzativo e classiWcatorio, ecc. Altrettanto spesso le loro nominazioni sono connotate in senso etnico e comportamentale: il milanese è «il Ferrari», «al cui cognome si addice l’articolo, perché era milanese»; il torinese ha cognome Cravero; il gigantesco veronese del sobborgo di Avesa è ovviamente Avesani; il triestino, signore sognatore e gentile, ha il «nome strano e bello» di Unverdorben (‘incontaminato’); il calabrese fabbricante di pentole è individuato come Cantarella (cfr. ‘càntaro’); il milanese che racconta d’essere stato depredato e fatto «tramontare» come padrone di bottega è un Ambrogio Trovati, ribattezzato Tramonto. Nel racconto del ritorno Levi ha come modelli Dante e l’Ulisse omerico. Come loro compie nelle varie tappe del viaggio un vero e proprio apprendistato, che è un reimparare a vivere la vita sia pure nei suoi aspetti prevalentemente materiali (di esperienze picaresche parla buona parte della critica): che è un movimento simmetrico rispetto alla conoscenza graduale degli orrori disumani del Campo che si realizzava in Se questo è un uomo, secondo quanto risulta da questi passi: Avevamo appreso con sollievo la nostra destinazione. Auschwitz: un nome privo di signiWcato, allora e per noi; ma doveva pur corrispondere a un luogo di questa terra di qui non si esce che per il Camino (che cosa vorrà dire? Lo imparemo bene più tardi) La spiegazione è ripugnante ma semplice: in questo luogo è proibito tutto, non già per riposte ragioni, ma perché a tale scopo il campo è stato creato. Se vorremo viverci, bisognerà capirlo presto e bene Moltissime cose ci restano da imparare, ma molte le abbiamo già imparate Abbiamo ben presto imparato che gli ospiti del Lager sono distinti in tre categorie [...], ecc.
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sea, assai più attivo nei singoli episodi e scene è il ricordo di Dante. Il protagonista intraprende il viaggio con una sorta di guida, il Greco, che adempie alle funzioni del Virgilio dantesco, anche se di un Virgilio rovesciato, come vedremo. Levi lo segue («così seguii il greco»; «Così ci incamminammo, lui primo ed io secondo»); e lui si propone come maestro esperto in tutti gli aspetti della vita, dalla consapevolezza politica che la guerra nel mondo non Wnirà mai all’esperienza dell’uso di scarpe funzionali, del ricorso a vere e proprie tecniche mercantili, dello sfogo con femmine prezzolate degli istinti sessuali. Nel momento in cui vien meno la funzione della guida, e questa scompare dalla scena, si attua in pieno la parodizzazione del modello virgiliano: il Greco conduce o vorrebbe condurre Levi-Dante non a Beatrice ma ad una delle «vaste fanciulle sonnacchiose» di cui si è fatto protettore. Se il Greco, «il mio maestro greco», impartisce i suoi insegnamenti in modo spesso teorico attraverso vere e proprie lezioni (l’appellativo ha anche la funzione di parodizzare questa degradata capacità di comunicare sapienza); gli succede Cesare nella funzione di maestro e guida (riproponendo ancora a livello degradato il duo Dante-Virgilio)11 sul terreno diverso della pratica e delle strategie militari. Le sue performances, si tratti di vendite di una camicia bucata o di un anello falso, di acquisto con merce di scambio di una gallina, sono concepite come «imprese», «piani ben precisi», «strategie» di un condottiero che «godeva di un prestigio indiscusso». Egli, capace di rapidi colpi di mano, degrada e parodizza la personalità del suo omonimo antico, essendo anche lui «cittadino romano», ma di Trastevere, ed esprimendosi in romanesco, anzi nel «gergo del ghetto di Roma, costellato di vocaboli ebraici storpiati». Al mercato di Bogucice ha intorno a sé un esercito aVezionato di clienti: «la BaVona, la Pelleossi, Repiscitto, ben tre Chiappone, Fojjo de via, Franchestein, una ragazza giunonica che chiamava Er Tribbunale, e vari altri». 12 Divertentissima parodia del topos eroico della spedizione in terra ostile è l’episodio della sortita notturna guidata da Cesare nello sperduto villaggio russo, alla ricerca di una gallina da mettere in pentola. Si ripropongono anche echi di paure e acquattamenti danteschi:
11. Si ripresenta anche per Cesare lo stesso verbo seguire usato per il Greco: «insisteva perché lo seguissi nelle sue spedizioni»; «Disse che, se eravamo disposti, potevamo anche seguirlo». Ed anche Cesare esaurisce ad un certo punto la sua funzione di guida uscendo di scena (cap. Da Iasi alla linea). 12. Nella diversa struttura di Se questo è un uomo Cesare ha il nome vero e tutt’altro che comicamente interpretabile di Piero Sonnino.
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Camminavamo nel buio, attenti a non perdere il sentiero, e gridavamo a intervalli. Dal villaggio non rispondeva nessuno. Quando fummo a un centinaio di metri, Cesare si fermò, prese Wato, e gridò: - Ahò; a russacchiotti. Siamo amici. Italianski. Ce l’avreste una gallinella da vendere? – Questa volta la risposta venne: un lampo nel buio, un colpo secco, e il miagolio di una pallottola, qualche metro sopra le nostre teste. Io mi coricai a terra, pianino per non rompere i piatti; ma Cesare era inferocito, e restò in piedi: - A li morté: ve l’ho detto che siamo amici. Figli di una buona donna, e fateci parlare. Una gallinella, vogliamo. Mica siamo banditi, mica siamo dòicce: italianski siamo! Non ci furono altre fucilate, e già si intravvedevano proWli umani sul ciglio dell’altura. Ci avvicinammo cautamente, Cesare avanti, che continuava il suo discorso persuasivo, e io dietro, pronto a buttarmi per terra un’altra volta [...].
La Comedia dunque, in particolare l’Inferno, che in Se questo è un uomo fungeva da repertorio di situazioni e topoi tragici, qui fornisce situazioni comiche e parodizzabili. Tutto il racconto del ritorno è intessuto di riferimenti a modelli illustri, storici o letterari, già viventi all’origine in aura comica o comicizzati da Levi. Anche il rapporto col libro precedente dell’autore si pone per qualche aspetto sul piano della degradazione: le selezioni russe sono ora «una sorta di versione caricaturale delle selezioni tedesche». La fuga dal lavoro del protagonista, che ha abbandonato di nascosto la pala, è una trascrizione del «relicta non bene parmula» oraziano; ricorda ancora Orazio («Forum Appii diVertum...») il «paese pieno di fango, dal nome glorioso di Alba Iulia»; l’«his fretus», che segna il fallimento logico di Primo nell’episodio dello scambio della gallina, è la formula che segnava il fallimento logico di Don Ferrante; i danni causati dal passaggio della masnada cenciosa e aVamata per il paese rumeno di Curtici richiamano i Xagelli delle orde di Attila e Tamerlano. È raggiunta pertanto «la salvazione del riso» (La ricerca delle radici) in virtù di un armamentario di citazioni e riferimenti che va ben oltre il ricorso a Rabelais . Persino il sacro testo dei cristiani non sfugge a parodici abbassamenti. Il dottore, «involto in una Wtta nube di mistero», che «porta la salute come un taumaturgo» e si congeda con un «Alzati e cammina», ha il nome assai impegnativo di Gottlieb. 13 13. «Volevo divertirmi scrivendo, e divertire i miei futuri lettori; perciò ho dato enfasi agli episodi più strani, più esotici, più allegri», aVerma Levi in un’intervista del 1986 a Philip Roth, contrapponendo la genesi della Tregua a quella di Se questo è un uomo (cfr. Primo Levi. Conversazioni e interviste, a cura di M. Belpoliti, Torino, Einaudi, 1997). Sulla minore tragicità e più decisa letterarietà della seconda narrazione leviana si basa la lettura di G. Zaccaro, “La tregua” di Primo Levi, «La Nuova Ricerca», xii, 12, 2003, pp. 335-352.
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Il racconto è ovunque alleggerito nei modi della spettacolarizzazione o teatralizzazione comica. Il teatro mi mette allegria è il titolo di un’intervista fatta a Levi. «Teatro» e «spettacolo» sono termini frequentemente ricorrenti, vere e proprie parole chiave della sezione del ritorno. Ci limitiamo a indicare le occorrenze del secondo termine: «è uno spettacolo di estremo interesse», «la cerimonia della ispezione divenne un pubblico spettacolo», «lo spettacolo ci aveva soddisfatti nell’intimo», «allo spettacolo improprio», «lo spettacolo della smobilitazione russa», «mi imbatto in uno spettacolo inconsueto», «diede spettacolo ogni sera», «lo spettacolo della scalata tolse ogni interesse all’altro», «lo spettacolo di queste lezioni», «l’allegoria dello spettacolo che fu organizzato in seguito». 14 Si può anche dire che realtà e Wnzione teatrale, vita e gioco scenico non presentano conWni netti, e una cosa penetra nell’altra o si confonde con essa rinunciando alla propria peculiarità. La commistione si attua in vari modi. Al livello di minore diYcoltà il teatro si introduce nella vita, per cui vari spettacoli, professionali o dilettanteschi non importa, entrano a far parte della quotidianità. Il pubblico è per lo più costituito dai personaggi del ritorno davanti ai quali si svolgono rappresentazioni teatrali e cinematograWche. Abbiamo lo spettacolo organizzato dai Russi per la Wne della guerra nella palestra della scuola di Bogucice; le recite di Ambrogio Trovati che «raccontava della prigione e del tribunale [cioè dei suoi guai giudiziari] come di un teatro, in cui nessuno è veramente se stesso, ma gioca, dimostra la sua abilità, entra nella pelle di un altro, recita una parte», e che per questo recita e costringe gli altri a recitare, «in una sorta di sacra rappresentazione» degradata, la storia del processo al suo «omicidio polposo»; 15 le inclinazioni del signor Unverdorben che sogna di vedere mirabilia naturali e di comporre un’opera lirica; le proiezioni cinematograWche nella sala del teatro di Staryje Doroghi; la recita dei vari numeri della rivista organizzata dai «rumeni» a Staryje Doroghi; lo spettacolo allegorico Il teatro degli abulici, che mette in scena personaggi e situazioni del campo russo. Gli ultimi spettacoli possono fornire esempi anche del secondo livello d’accostamento e compenetrazione di realtà e Wnzione scenica. Nel teatro ove si recita su copione si inserisce d’un tratto, senza soluzione 14. Sulla spettacolarizzazione come caratteristica della Tregua vedi A. M. Carpi, Primo Levi e il comando dell’alba, «Linea d’ombra», cxxxi, marzo 1998. 15. Sulle deformazioni linguistiche leviane cfr. G. L. Beccaria, L’“altrui mestiere” di Primo Levi, in P. L. Il presente del passato, cit., p. 131.
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di continuità e quasi possibilità di distinzione, il teatro della vita. È uno spettacolo dentro o accanto ad un altro spettacolo, ambedue rappresentati davanti ad un pubblico tumultuante e festoso. Durante la proiezione del Wlm americano Hurricane l’uragano Wlmico è sopraVatto dall’uragano del pubblico maschile supereccitato che dà la scalata al loggione-gineceo: Il pubblico insorse urlando, in generosa difesa dell’innocente: una ondata di vendicatori mosse minacciosa verso lo schermo, a sua volta insultata e trattenuta da elementi meno accesi o più desiderosi di vedere come andava a Wnire [...] Quando si giunse alla lunga e vigorosa sequenza dell’uragano, il tumulto volse al sabba. Si udirono strida acute delle poche donne rimaste intrappolate fra la ressa; fece la sua comparsa un palo, poi un altro, passati di mano in mano al di sopra delle teste, fra clamori assordanti. In principio non si comprese a cosa dovessero servire, poi il piano fu chiaro: un piano probabilmente premeditato fra gli esclusi che tumultuavano all’esterno. Si tentava la scalata al loggione-gineceo. I pali furono drizzati e appoggiati alla balconata, e vari energumeni, toltisi gli stivali, cominciarono ad arrampicarsi come si fa alle Were del villaggio sugli alberi di cuccagna. A partire da questo momento, lo spettacolo della scalata tolse ogni interesse all’altro che proseguiva sullo schermo [...].
Con perfetta tecnica teatrale, inoltre, è dato l’annuncio, durante la rappresentazione del Naufragio degli Abulici, dell’imminente ripresa del viaggio: sì che l’attesa del ritorno dei naufraghi nella Wnzione scenica si tramuta immediatamente nell’attesa della partenza dei reduci nella realtà: Ora, proprio mentre il decano fra loro, canuto e curvo ormai per l’interminabile attesa, tendeva il dito verso il mare e gridava: - Una nave! – e mentre tutti noi, con un nodo alla gola, ci preparavamo al lieto Wne di maniera dell’ultima scena, e a ritirarci ancora una volta nei nostri covili, si sentì uno schianto subitaneo, e si vide il capocannibale, vero Deus ex machina, piombare verticalmente sul palcoscenico, come se cadesse dal cielo. Si strappò la sveglia dal collo, l’anello dal naso e il casco di penne dal capo, e gridò con voce di tuono: - Domani si parte! –.
Ad un terzo livello la vita stessa si presenta come spettacolo: i personaggi allora non sono altro che attori di recite quotidiane comiche o tragicomiche. Anche questo tipo di teatro senza copione presuppone un pubblico attento e partecipe. Abbiamo la cerimonia dell’ispezione: «divenne un pubblico spettacolo, a cui assistevano sempre più numerosi i borghesi di Katowice»; la vera e propria commedia della partita di calcio, con l’arbitro che ha un comportamento «esilarante, e degno di un comico di gran scuola»; la scena di grande comicità dell’acquisto
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al villaggio russo di una gallina (di cui si è già parlato), con Cesare e Primo che si esibiscono nei modi più a loro congeniali, entrando in scena al momento giusto, per cui a Cesare tocca «la parte [...] strategica» e preparatoria, a Primo la parte linguistico-comunicativa («Tocca a te, adesso. Cosa aspetti? Dai, spiegagli...»), di nuovo a Cesare la parte mimica («si esibì in una pessima imitazione delle abitudini dei polli, accovacciandosi per terra, raspando con un piede e poi con l’altro, e beccando qua e là con la mano a cuneo. Tra una imprecazione e l’altra, faceva anche ‘coccodé [...] si sforzò perWno di fare l’uovo’»), inWne a Primo la parte graWco-comunicativa («disegnai per terra una gallina [...]»). E tutto a beneWcio del pubblico del villaggio, che, a sua volta, in uno scambio delle parti, assume il ruolo di attore, mentre gli attori deputati Cesare e Primo diventano pubblico: Seguì una breve consultazione; poi scaturì dal capannello una vecchia dagli occhi scintillanti di gioia e di arguzia: fece due passi avanti, e con voce squillante pronunziò: - Kura! Kùritsa! – Era molto Wera e contenta di essere stata lei a risolvere l’enigma. Da tutte le parti esplosero risate e applausi, e voci “kùritsa, kùritsa!”: e anche noi battemmo le mani, presi dal gioco e dall’entusiasmo generale. La vecchia si inchinò, come una attrice al termine della sua parte.
Vere esibizioni teatrali sono anche la contorsionistica uscita dell’enorme Timosenko in alta uniforme dalla minuscola Topolino, o la vendita al mercato della camicia da parte di Cesare, che si esibisce con tecniche illusionistiche. Accostando per lacerti i due episodi della proiezione di Hurricane e della vendita della camicia possiamo notare non solo che Wnzione e realtà si presentano negli stessi modi, ma anche che identiche sono nei due casi le reazioni del pubblico. Per di più, il termine che denota la confusione del mercato è lo stesso che indica sin dal titolo Hurricane il soggetto del Wlm proiettato: Il marinaio era acclamato ad ogni sua impresa [...] si scatenò un pandemonio. Il pubblico insorse urlando in generosa difesa dell’innocente [...] Quando si giunse alla lunga e rigorosa sequenza dell’uragano, il tumulto volse al sabba Il pubblico rumoreggiava e rideva parteggiando visibilmente per lo straniero fantastico [...] Esplose un uragano di risa selvagge.
C’è di più. Alcuni protagonisti del ritorno assumono le caratteristiche Wsiche e comportamentali di ben individuate Wgure teatrali o genericamente letterarie, sono cioè tipi Wssi, macchiette, caratteristi, a cui è aYdata sempre la medesima parte. Il paludato falso colonnello Rovi, in realtà ragionier Rovi, con la venerazione del potere, la fantasiosa uni-
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forme, «la corte di sguatteri, scritturali, sagrestani, spie, messaggeri e bravacci» di cui si è circondato, è il farsesco tipo del miles da parata; il russo Dancenko, che «non si occupava di nulla se non di corteggiare le ragazze con divertenti maniere da granduca da operetta» è una sorta di Danilo della Vedova allegra; Flora, la prostituta Worentina che occupa i sogni di Primo e Alberto, è la Wgura tradizionale del Wore nel fango. E ci sono ancora i tipi del barbaro bestemmiatore (il Moro di Verona), dell’eremita (Cantarella), dell’uomo selvatico o buon selvaggio (il Velletrano). Non è un caso che quest’ultimo tipo si trovi sia nella vita sia nella trama del Wlm Hurricane, ove veste i panni del maltrattato «marinaio polinesiano, moderna versione del ‘buon selvaggio’», per la cui sorte insorge l’ingenuo pubblico che si immedesima nella vicenda a tal punto da considerare «i personaggi del Wlm, anziché ombre, [...] amici o nemici in carne ed ossa, a portata di mano».
xvii CERNIERE ONOMASTICHE NEI RACCONTI DEL LAGER DI LEVI
C
hi volesse fare una casistica esauriente dei vari modi in cui le scelte onomastiche interagiscono con gli altri segni nei testi avrebbe a che fare con una serie di situazioni certo meno variegata e complessa di quella costituita dalle opere prese in considerazione, ma più nutrita rispetto allo scarno elenco proposto da quanti hanno cercato, forse prematuramente, di trarre conclusioni sugli ambiti interpretativi degli studi di onomastica letteraria. Questi studi, infatti, portano alla luce sempre nuove modalità d’impiego del nome. Chi scrive crede, p. es., che le nominazioni possano valere, in alcune novelle pirandelliane, da indicatori, mediante il numero e la misura, del prestigio e della funzione dei personaggi; 1 o anche, come cercherà di mostrare in queste pagine, che Primo Levi individui le fondamentali bipartizioni strutturali dei due grandi racconti del Lager 2 con coppie di nomi che possiamo considerare vere e proprie cerniere onomastiche. Comincio col primo dei due racconti, Se questo è un uomo, il cui tema è la caduta al fondo dei reclusi voluta dai nazisti, che con ostinata e scientiWca determinazione «distruggono», «demoliscono», «annientano» l’uomo, sottraendogli tutto ciò che costituisce la speciWcità del suo essere in quanto genere, gruppo, individuo singolo provvisto di esigenze Wsiche e spirituali. Per quel che concerne la nominazione, la perdita si traduce nella sostituzione del nome personale, per ognuno carico di valori individuanti, di storia e aVettività, con indicazioni che alludono genericamente all’origine («un polacco di cui tutti ignoravano il nome», 63; «i due italiani», di cui i compagni stranieri confondono i nomi, 161) o che segnano, ancor più genericamente, l’appartenenza alla nuova comunità (p. es. Häftling e Kazett) o a sue partizioni (triangoli verdi, triangoli rossi, stelle rosse e gialle, Prominent...). 1. Cfr. qui capitolo vii. 2. Mi riferisco ovviamente a Se questo è un uomo e a La tregua. Per le citazioni dalle due opere ho tenuto presente l’edizione P. Levi, Opere, Torino, Einaudi, 1993: i numeri che accompagnano le citazioni si riferiscono alle pagine di questa edizione.
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I nazisti, per esigenza di precisione classiWcatoria e contabile, hanno escogitato il nome-numero, che, ben lungi dall’essere arbitrario, come a taluno è apparso, indica tutto ciò che è ritenuto essenziale all’ordine concentrazionario: cioè caratteristiche di gruppo come l’epoca di ingresso nel Campo, il convoglio di cui si faceva parte, e di conseguenza la nazionalità; mentre la funzione individuante è aYdata alle ultime cifre che denotano l’ordine del singolo in seno al gruppo di appartenenza. 3 In un’ulteriore perdita di vis denotativa il nome-numero si riduce alle ultime cifre avvicinando il portatore all’annientamento non solo della persona ma anche dell’identità. È il caso di Zero Diciotto, Null Achtzehn, 4 che non indica più né il gruppo di appartenenza né l’ordine in seno a quel gruppo, ma simboleggia soltanto, col signiWcato della prima cifra isolata, la nulliWcazione del personaggio. Possiamo dire che il fondo è integralmente raggiunto alla conclusione del penultimo capitolo con l’impiccagione di der Letzte. Nel capitolo Wnale, Storia di dieci giorni, la vita al fondo coesiste con la lenta apparizione di elementi di riscatto. La struttura narrativa e descrittiva, autorizzata dalla formazione culturale dell’autore, che non può non tener presente «il ricordo dei salvamenti biblici nelle avversità estreme» (164), è fortemente ossimorica 5 nell’immediato accostamento di eventi di opposto tenore e signiWcato, con segno negativo e positivo. Dal caos emerge la creazione, dalla morte la rinascita, dalla distruzione del tempo la ricomposizione della trama cronologica come «storia di dieci giorni», dal Campo si passa all’ambiente in un certo qual modo più protettivo del Ka-Be, l’infermeria ove i corpi si annientano e muoiono ma le anime ricominciano a sentire il calore dell’umanità e i superstiti possono perciò ridiventare uomini. Il giro di boa, il momento dell’inversione di rotta, coincide col passaggio dal penultimo all’ultimo capitolo ed è nettamente segnato dalle mutate circostanze di luogo e di tempo. Nel xvi 6 siamo ancora nel Kazett, 7 in vicinanza del Natale, cioè a Wne anno 1944; nel xvii la scena è
3. Rinvio, per la perdita del nome in Se questo è un uomo, al capitolo xv. 4. L’episodio è alle pp. 37-38 dell’edizione citata. 5. Dell’ossimoro come «Wgura stilistica regia, per frequenza e qualità, dell’opera di Levi», il quale «in termini ossimorici [...] tende a descrivere le esperienze fondamentali della sua esistenza e le questioni primarie della vita» parla P. V. Mengaldo nell’Introduzione al volume iii della citata edizione delle Opere di Levi, pp. lxxiv-lxxviii. 6. I capitoli di Se questo è un uomo sono 17, ma la numerazione che appare qui è mia. 7. Kazett, cioè K Z, è l’equivalente di Konzentrationslager.
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collocata nel Ka-Be, e l’indicazione cronologica è «11 gennaio 1945». È come un passaggio da Wne a inizio, da morte a rinascita. Qui sta dunque la cerniera del racconto, che non è l’unico elemento della sua struttura, ma certamente il più signiWcativo. Anche le strategie onomastiche si adeguano a questa bipartizione narrativa. Dopo l’annientamento onomastico ritornano i nomi, che si corredano di singole storie o si raggruppano numerosi in piccole porzioni di racconto. Su questo aspetto vorrei sorvolare, soVermandomi invece sulla funzione di cerniera attribuita a due nomi, posti l’uno a conclusione del capitolo xvi, l’altro nel capitolo xvii, che si richiamano nel segnare la chiusura e l’apertura delle due sezioni in cui ho detto articolarsi la struttura narrativa di Se questo è un uomo. Essi sono der Letzte (l’Ultimo) e Primo, omologhi in quanto indicanti un ordine di serie, ma opposti di signiWcato. Der Letzte è l’attributo che l’anonimo internato il quale ha osato appoggiare la rivolta di Birkenau e meditare un ammutinamento anche nel campo di Monowitz, si attribuisce nel momento in cui sta per morire impiccato. Egli grida, in cospetto delle ss feroci e indiVerenti e del gregge abietto dei reclusi immobili nella prona acquiescenza al volere dei giustizieri, di essere l’ultimo uomo, cioè l’ultimo «uomo forte» (chiosa l’autore) rimasto nel Campo dopo il metodico annientamento operato dai Tedeschi. Quel grido di autoaVermazione lanciato in limine mortis, rimbombando ed espandendosi, riesce non solo a «penetrare le grosse antiche barriere di inerzia e di remissione», a «percuotere il centro vivo dell’uomo in ciascuno di noi» (senza però provocare visibili reazioni), ma anche ad occupare il vuoto di nominazione dell’anonimo, a farsi nome denotante e connotante, e ad andare oltre, al di là cioè della coscienza dei presenti, dando titolo al capitolo del libro che registra l’evento. Un processo di risemantizzazione o rifunzionalizzazione inversa si veriWca nel capitolo successivo, l’ultimo. Il Lager come sistema oppressivo è in sfacelo o addirittura morto. Ma dalla morte rinasce la vita come «dopo il primo giorno della creazione»; e rinasce nel ritorno di sentimenti, gesti, comportamenti umani. Si rivede cioè l’uomo evidentemente non annientato per sempre dalla metodica distruzione del Lager. Levi registra con estrema precisione la prima insorgenza del fenomeno. Un gesto di generosità è così commentato: Soltanto un giorno prima un simile avvenimento non sarebbe stato possibile. La legge del Lager [...] non lasciava posto per la gratitudine. Voleva ben dire che il Lager era morto. Fu quello il primo gesto umano che avvenne fra noi. Credo che si potrebbe Wssare a quel momento l’inizio del processo per cui, noi che non siamo morti, da Häftlinge siamo lentamente ridiventati uomini. (167)
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In questo rinascere dopo la morte e riapparire dei primi uomini dopo la scomparsa dell’ultimo, si colloca anche il ritorno alla vita dell’io narrante. L’uso dell’ordinale primo è denso di signiWcato: «Per la prima volta dal giorno del mio arresto, mi trovavo libero» (175). Fatto ancor più signiWcativo, esso Wgura in stretta connessione col nome dell’io narrante. Ritorno sul passo in questione citandolo più estesamente: - Dis donc, Primo, on est dehors! Era così: per la prima volta dal giorno del mio arresto [...].
In tal modo l’io narrante riacquista il nome perduto (usato precedentemente soltanto nell’assai breve rinascita dell’incontro con Pikolo), e la nominazione riceve l’esatta interpretatio, con un percorso dal nome al signiWcato, inverso, come si diceva prima, a quello registrato per «l’ultimo». Anche per un altro aspetto la vicenda di Primo rovescia quella dell’«ultimo»: segno del fatto – risulterà fra poco – che l’io narrante non si considera uomo nel senso di der Letzte e non si presenta perciò come eroe. Se l’autonominazione dell’impiccato si era propagata con rimbombo nella coscienza dei compagni annichiliti, il nome di Primo pronunciato da Charles ancor prima di apparire a chiare lettere nel testo, 8 ha una cassa di risonanza di estrema humilitas, quella costituita dal reparto dell’infermeria occupato dai dissenterici, chiamato in quest’occasione, con espressione altamente signiWcativa, «sezione diarrea»: Il risultato fu che da allora, attraverso la sottile parete, l’intera sezione diarrea chiamò giorno e notte il mio nome, con le inXessioni di tutte le lingue d’Europa, accompagnato da preghiere incomprensibili, senza che io potessi comunque porvi riparo. Mi sentivo prossimo a piangere, li avrei maledetti. (174)
Per il narratore dunque la riacquisizione del nome di uomo non è disgiunta da una forte dose di autoironia. Un’altra cerniera fra due macrosegmenti narrativi si ha all’inizio della Tregua, la quale si presenta con una struttura speculare rispetto a quella di Se questo è un uomo. Nella parte iniziale si registra assai succintamente ciò che nell’explicit del racconto precedente aveva fornito mate-
8. «Udirono quel giorno per caso il mio nome, pronunziato all’italiana da Charles...» (pp. 173-174).
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ria di narrazione più distesa: i Tedeschi sono fuggiti sotto l’incalzare dei Russi, di cui appaiono ora le avanguardie; «il nulla pieno di morte» (216) è sostituito dal ritorno della vita; l’anno di prigionia è concluso dal suonare dell’«ora della libertà» (216) ... Lo scrittore sottolinea, anche nel secondo racconto, la separazione fra le due sezioni. Ritorna la dialettica fra vecchio e nuovo, ultimo e primo: Durante i dieci giorni che separarono la partenza delle ss dall’arrivo dei Russi, mentre ognuno combatteva la sua ultima battaglia contro la fame, il gelo e la malattia, Thylle aveva fatto diligenti ispezioni del suo nuovissimo feudo [...] fu questo Thylle, vecchio militante indurito da cento lotte per il suo partito ed entro il suo partito, e pietriWcato da dieci anni di vita feroce ed ambigua in Lager, il compagno e il conWdente della mia prima notte di libertà. (218)
Ancora: ero sopraVatto da un dolore nuovo e più vasto. (219)
E inWne, in un estremo sussulto del male: Era stato l’ultimo grande colpo di falce, la chiusura dei conti: i moribondi erano morti, in tutti gli altri la vita cominciava a scorrere tumultuosamente. (226)
Nella Tregua questa dialettica si speciWca come passaggio non solo dalla morte alla vita, ma anche, sul piano più deWnito delle coordinate di spazio e di tempo, dalla prigionia nel piccolo lager di Monowitz alla breve permanenza nel campo grande di Auschwitz ormai in mano ai Russi liberatori, al viaggio di ritorno inWne attraverso gli spazi sconWnati dell’Europa orientale; dal gelido inverno dell’inizio 1945, con Levi ancora nell’infermeria di Monowitz (il capitolo i si apre con l’indicazione «nei primi giorni del gennaio 1945»), ai primi giorni del marzo, che è il periodo in cui con ogni verisimiglianza inizia il viaggio. 9 Dunque riepilogando: da morte a vita, da prigionia a liberazione, da chiusura ad apertura, da caduta al fondo a riemersione, da inverno a primavera. Ho già mostrato a quale quantità e articolata diVerenziazione onomastica porti questo passaggio. Qui intendo esclusivamente soVermarmi sugli antroponimi della zona di cerniera, in particolare sui due nomi
9. Cfr. l’inizio del capitolo Il greco.
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che si richiamano nell’espletare il compito di chiudere e aprire i segmenti contigui. Prima però occorre mettere in evidenza la peculiarità del mutamento nel secondo racconto. In Se questo è un uomo la dialettica si stabiliva fra distruzione e rinascita dell’uomo nelle sue individuali qualità, cioè soprattutto fra annullamento o espropriazione di proprietà umane e loro lento riformarsi. È soppresso der Letzte, che è moralmente l’ultimo uomo, rinasce Primo, che è spiritualmente il primo uomo. Nella Tregua il narratore cambia considerevolmente il senso del rapporto dialettico: l’annullamento e la rinascita sono ora prevalentemente Wsici e quantitativi. Al vuoto prodotto dallo sterminio Wsico, al «nulla pieno di morte» (216), deve succedere il ritorno al brulichio e alla confusione della vita: Fuori dai vetri, benché nevicasse Wtto, le funeste strade del campo non erano più deserte, anzi brulicavano di un viavai alacre, confuso e rumoroso che sembrava Wne a se stesso. (226)
Per deWnire il nuovo corso Levi ricorre in questo secondo contesto alla simbologia di due eventi primari propri dei racconti delle origini, uno mitico-storico: il formarsi della vita dopo il caos primigenio come nelle cosmogonie degli antichi (238); l’altro biblico: il ripopolamento del mondo dopo il diluvio (234). In questa atmosfera il secondo personaggio della coppia di cerniera ha il nome e la funzione del biblico ripopolatore: è Noah (Noè), «l’amante di tutte le donne», che «si aggirava per le camerate femminili come un principe d’Oriente», i cui «convegni d’amore sembravano uragani»: Il diluvio era Wnito: nel cielo nero di Auschwitz Noah vedeva splendere l’arcobaleno, e il mondo era suo, da ripopolare. (234)
È un Noè degradato e corrotto rispetto al suo archetipo: ha per casa e mezzo di locomozione non l’arca ma il carro ripugnante del vuotalatrine; il suo dominio non si esercita sulle acque del diluvio ma su quelle degli scarichi. Anche qui, come nel caso su esaminato di Primo, la funzione e il nome del personaggio della rinascita sono degradati nell’avvicinamento alla materia fecale: a testimonianza della scaltrezza letteraria dello scrittore che aveva certamente imparato da Dante i modi dell’abbassamento comico e degli accostamenti di tragico e comico. L’altra parte della cerniera da chi è rappresentata? Da un personaggio tragico, anzi angosciosamente tragico, da un essere senza possibilità di riscatto e redenzione, soltanto nodo e groviglio inerte di soVeren-
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ze inespresse e di potenzialità abortite. Non è un adulto, non è un bambino (anche se «dimostrava tre anni circa»), non ha parola, non ha capacità di movimento, non ha nome. «Era un nulla, un Wglio della morte, un Wglio di Auschwitz». Chi gli è intorno lo chiama Hurbinek, perché «con quelle sillabe ha interpretato una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva» (226). Hurbinek, dunque, non è un nome vero ma un suono, un puro signiWcante adattato all’essere nulla. Prima ancora di morire Hurbinek è il segno dello sterminio del Lager.
INDICE DEGLI AUTORI Si registrano gli autori anche quando essi sono indicati nel testo con un aggettivo, una perifrasi, un qualsiasi sostituto del nome.
Acta Pilati, 52 Alighieri D., 12, 34, 40, 49, 97, 149, 155, 172, 180, 182, 183, 196, 197, 208 Alonge R., 40 n., 68 Altieri Biagi M. L., 104 n. Andersson G., 44 n., 45 n. Angelini F., 78 n. Aretino P., 35 Asor Rosa A., 39 Avalle D’A. S., 133 n., 168 n., 172 n. Bachelard G., 20
Baldi G., 30 n., 34 n., 40 n., 44 n. Balduino A., 77 n. Bárberi Squarotti G., 40 n., 167 n. Bareil J. Ph., 183 n. Barile L., 177 n. Bartezzaghi S., 184 n. Barthes R., 74, 120 n. Beaudelaire Ch., 152 Beccaria G. L., 140 n., 199 n. Belli G. G., 36 n. Benedetti C., 139 n. Benveniste E., 135 n. Bertoni F., 121 n. Bettarini R., 170 n., 176 Biasin G. P., 176 n. Biagioni L., 142 n. Bigazzi R., 30 n. Blasucci L., 174 n. Blumenberg H., 194 n. Boccaccio G., 12, 35 n., 43 n., 56 Bocian M., 52 n. Bonifazi N., 130 n. Bonora E., 170 n. Bontempelli M., 72 Boutroux E.-E.-M., 173 n.
Brooks P., 33 n. Bruni F., 44 n. Budor D., 59 n. Bussino G. R., 123 n., 124 n.
Caccia G. A., 43 n. Caffarelli E., 102 n. CaVi E., 140 n. Calandra E., 29 n. Calcaterra C., 162, 165 Caliari I., 175 n. Calvino I., 11 Caprettini G. P., 118 Capuana L., 11, 25 n., 32 Caracausi G., 37 n., 54 Carducci G., 34, 173 Carotti L., 46 n. Carpi A. M., 199 n. Casadei A., 170 n. Casella P., 59 n. Cataldi P., 170 n. Cavalca D., 173 Cavallo G., 121 n. Ceserani R., 139 n. Charles M., 121 n. Chartier R., 121 n. Chateaubriand (de) R., 15, 151 n. Chestov L., 173 n. Ciotti F., 61 n. Cirese A. M., 42 n. Cohen Y., 96 Coletti V., 33 n. Contini G., 155 n. Contorbia F., 173 n. Copernico N., 69 Corti M., 120, 133 n. Crotti I., 54 n., 77 n.
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indice dei nomi
Dalla Palma G., 44 n. D’Annunzio G., 32 n., 43, 46, 53 n., 102 n., 151, 152, 153, 154, 155, 156, 160, 162, 163, 166-181 Daverio R., 43 n. De Benedetti G., 21 n. De Felice E., 53 De Lauretis T., 176 n. Del Gatto A., 134 n. Della Porta G., 12 De Marchi A., 162 n. De Rosa F., 172 n. De Vecchi Pellati N., 141 n. Di Nepi P., 46 n. Di Sacco P., 78 n. Dolezel L., 118 Dombroski R. S., 59 n. Driesen O., 140 n. duden, 150 Eco U., 11, 121 n., 137 Eliade M., 42
Faldella G., 19
Farnetti M., 139 n. Fava Guzzetta L., 76 n. Ferri C., 43 n. Ferroni G., 118 Ferrucci F., 77 n. Fido F., 126 n. Fiorino T., 121 n. Flaubert G., 17, 155 Folgore L., 167, 168 n. Forti M., 170 n. Foscolo U., 158 France A., 173 Franco M., 43 n. Freud S., 70 Fruttero C., 99 n. Fusillo M., 118
Gardair J.-M., 69, 118 Gavazzeni F., 175 n. Geerts W., 68 n. Genette G., 11, 135 n. Ghiazza S., 165 Ghidetti E., 54 n.
Giachery E., 169 n. Gibellini P., 32 n., 43 n., 75 n., 170 n., 175 n. Gioanola E., 40 n., 69 n. Giovanelli P. D., 36 n., 119 Giudice G., 36 n. Goffis C. F., 168 n. Goggi G., 46 n., 139 n. Goldoni C., 97, 134 Goethe J. W., 43 n. Gozzano G., 12, 47, 81, 151-165, 170, 173 Grignani M. A., 170 n., 176 Grimm J., 140 n. Grimm W., 140 n. Grivel Ch., 107 n. Guastella S. A., 140 n. Guglielmi G., 130 n. Guglielminetti A., 155 n. Guglielminetti M., 60 n., 163 n. Guillemin H., 102 n. Gunzberg L. M., 183 n.
Hamon Ph., 131, 141 Hirdt W., 142 n.
Iser W., 120, 121 n. Jacomuzzi A., 172 n.
Jammes F., 153, 154, 159 Jauss H. R., 120 n. Jeuland Meynaud M., 171 n.
Lacroix J., 76 n. Lavagetto M., 120, 121 n. Lavezzi G., 167 n., 177 n. Leone de Castris A., 68 Leopardi G., 12, 81, 153, 180 Levi P., 12, 78, 182-209 Lévi-Strauss C., 107 Lonardi G., 42 n., 167, 176 n. Longo N., 54 n. Lotman J. M., 129 Lucentini F., 99 n. Lugnani L., 46 n., 83, 135 n., 139 n. Luperini R., 28 n., 32 n., 33 n., 78 n., 144, 172 n., 174 n., 175 n. Luti G., 175 n.
indice dei nomi
Macchia G., 73 n., 149 Machiavelli N., 12 Manetti G., 138 n. Manzoni A., 12, 66, 108, 132, 133 Marchi G., 53 n. Marchi G. P., 21 n. Marino G. B., 12, 43 n. Martelli M., 172 n. Martinelli D., 172 n. Martinelli L., 59 n. Masuccio Salernitano, 12 Matthey H., 139 n. Mazzacurati G., 52 n., 53 n., 57 n., 59 n., 65 n., 68 Mengaldo P. V., 166 n., 167 n., 169 n., 170, 183 n., 185 n., 204 n. Migliorini B., 36 n., 88 Montagnini C., 172 n. Montale E., 12, 166-181 Moretti M., 154, 155 n., 160 n., 167 Nardelli F. V., 123 n., 142 n., 143 Nascimbeni G., 179 n. Nencioni G., 132 n. Nosenzo F., 170 n.
Oli G., 183 n.
Omero, 196 Orazio Flacco, Quinto, 57, 198 Orelli G., 168 n. Oxilia N., 163 n.
Pacca V., 170 n., 171 n.
Palazzeschi A., 154 Palmonari A., 96 Pascal B., 42, 73 Pascal Th., 73 Paul H., 150 n. Pellini P., 17 n. Petrarca F., 12, 163 Petronio G., 40 n. Piccitto, Tropea, 31 n. Pieri Marzio, 15 n., 22 n. Pirandello L., 12, 25-150 Pitré G., 26 n., 30 n., 140 n. Poe E. A., 29 n. Polacco M., 46 n., 51 n.
213
Porcelli B., 34 n., 153 n., 165, 183 n. Porta C., 97 Praga E., 29 n. Protovangelo di Giacomo, 52 Providenti E., 139 n. Pupino A. R., 36 n., 53 n., 54 n., 127 n. Pupo I., 152 n.
Rabelais F., 198 Ramat S., 176 n. Rauhut F., 142 n. Raya G., 25 n., 32 n. Raynaud G., 140 n. Rebay L., 170 n. Restucci A., 148 n. Riccardi C., 26 n. Ricciardi A., 46 n. Riccobono M. G., 32 n. Ricoeur P., 135 n. Robert P., 151 n. Roda V., 22 n. Rohlfs G., 133 n. Romano M. E., 178 n., 181 n. Rota Vergili, 67 Rousseau J. J., 173 n. Saint-Pierre (de) B., 151 Salibra L., 35 n., 129 n., 131 n. Sanguineti E., 151 n. Sanseverino R., 124 n. Santagostino G., 192 n. Sartre J. P., 120 Saussure (de) F., 41, 133 n. Scaffai N., 175 n. Scaramucci I., 132 n. Scarano L., 139 n. Sedita L., 35 n., 52 n., 76 n. Segre C., 120, 192 n. Seppilli A., 42 n. Sercambi G., 12 Sgroi S. C., 35 n. Shakespeare W., 18, 70 Siegel D. J., 77 n. Siti W., 173 n. Sodi R., 183 n. Solmi S., 173
214
indice dei nomi
Spampinato Beretta M., 23 n. Squarzina F., 36 n. Starobinski J., 41 Stendhal (Henri Beyle), 33 n. Straparola G. F., 43 n. Svevo I., 175
Tomasevskji B., 138, 139 n. Tozzi F., 59 Turgeniev I., 70 n. Turrini A. L., 46 n. Tynjanov J. N., 108
Tarchetti U. I., 19
Verga G., 11, 14-44
Tasso T., 12, 49 Tate A., 29 n. Tecchi B., 36 n. Tedesco N., 65 n. Terenzio Afro, Publio, 152 Terrusi L., 11, 12 Todorov Tz., 74 n., 137 n., 138, 139
Vangelo di Luca, 52 Weinrich H., 135 n.
Wesselovsky A., 140 n.
Zangrilli F., 40 n., 132 n.
Zappulla Muscarà S., 102 n. Zola E., 102 n.
INDICE ONOMASTICO
Adele, 18, 19, 20, 23
Adriana, 75 Aennchen, 112, 124, 139, 140, 142, 143 Ajala, 54 Alba Nigra, 160 Alberto Alberti, 15, 16, 17 Alessandro, 130 Almira, 113 Alvina Lander, 133 Ambrogio Trovati, detto Tramonto, 196 Amilcare Bellone, 129, 130 Amina Berardi del fu Francesco, vedova Vismara, 101 André, 195 Anna, 113 Anna Cesarò, 51 Anna Venzi, 51 Anna Veronica, 51, 52 Annibale, 114 Anny Lander, 122, 123, 143 Antoine, 195 Antonio, 53 Anton Maria Gàttica-Mei, 105, 106, 107, 108 Anton Muzio Porro, 76 Aporeo, 17 Arletta, 176 Arsenio, 169-176 Attilio Pagliocco, 100, 114 Avesani, 196 avvocato (l’), 163
Bandi, 111
Bartolino, 113 Bartolo Barbi, 99, 100, 114 Bebé, 87 Belmonte, 18 Benedetta, 153 Bernardo Morasco, 42 Bettina, 134
Brilla, 86 Butticè, 117
Cacciagallina, 35, 36 Cantarella, 196 Capo-divisione Commendator Cargiuri-Crestari, 101 Carlandrea Sciaramè, v. Sciaramè Carlotta Capenna, 158, 159 Carolina, 113 Castiglione Montroni, 98 Cecè, 87 Cecilia, 21, 22 Cesare, 197 Chiara Zorzi, 106, 107, 108 Ciàula, 34-42, 131 Cirinciò, 131 Cirlinciò, 131 Clara, 19 Cocò, 86, 87, 88 Cocotte, 151 Comitini, 35 Cosimo, 105 Cosmo, 105 Cosmo Antonio Corvara Amidei, 104, 105 Costanza, 151 Costanzo Ramberti, 101, 103, 128 Crisalide, 177-180 DalWno, 43
Dancenko, 202 D’Andrea, 111 De Marchi, 17, 18 Didì, 79-88, 89-96 di Marchi, 23 Dinuccia, 111 Dolly, 118 Dreetta, 89-96 Dreina, 95, 96
Ebe, 112
216
indice onomastico
Egorov, 195 Emilia, 18, 20, 21, 22, 23 Erminia, 19, 24 Ermione, 155 Eva, 23
Fabia Fabron De-Fabrian (Donna), 97 Fabrizio Fabroni da Fabriano, 97 Falcone, 56 Fana Lopez, 95 Faustino Materucci di Polirone, 76 Federico Barbi, 100, 114 Feliciangiolo Scanalino, 128 Felìcita, 154, 155 Fileno, 43 Flora, 202 Fosca, 19 Francesco Meis, 75 Funardi Rosario, 146-149 Furri, 124, 125
Höhe Strasse, 144 Hurbinek, 194, 195, 209
Ippolito Onorio Breganze, 55 Jeli, 44 Letzte (der), v. Ultimo
Lida, 23, 24 Lilì, 87 Lodoletta, 72 Lulù, 88
Madonna di Fuoco, 19
Gemmati, 15, 17 Gerolamo Zorzi, 107 Gibilrossa, 130 Giglio d’Auletta, 74 Giglione, 117 Girolamo Pomino, 75, 76 Giulia Antelmi, 51 Giulia Montà, 100, 114 Giulia Montana, 51 Giulio Accurzi, 51 Giugiù, 88 Glauco, 156 Gosto Bombichi, 141, 142 Gottlieb, 198 gozzano, 162 Grazia, Graziella, 156 Guido, 163 guidogozzano, 152, 161, 162 Guido Pagliocco, 99, 100 Guiglielmo Aldobrandesco, 97
Madonna di Neve, 19 Malagna, 73, 76 Màlia, 44 Manuel, 76 Mara, 43 marchese Anselmi, 23 Margherita, 76 Maria Ajala, 51, 52 Marianna Pescatore, v. Pescatore Maricchia, 43 Mario Furri, v. Furri MarkoV, 23 Marta Ajala, 51, 52 Marteni, 15 Martoni, 76 mastro Misciu Bestia, 26, 27, 28, 31, 32, 33 Mattia Pascal, 68-78 Max, 76 Meis, 76 Michelangelo Castiglione, 98 Milano, 18 Mimì, 111 Minerva, 76 Mino, 76 Mino Colli, 98 Miragno, 77, 78 miss Ketty, 153 Mommu lo Sciancato, 76 Mondino Morgani, 48 Mopy, Mopchen, 123, 143
Hans, 118, 124, 143
Narcisa, 23
Gemma Gandini, 100, 114
Henek-König, 195
Nata, 19, 24
indice onomastico Nenè, 86 Nené, 87, 110, 111 Nicola Pentagora, 53 Nigrenti, 84, 86, 93 Ninì, 87, 110, 111 Noah, 193, 208 Null Achtzehn, 185
Oliva, 75 Paleari, 76
Palmira, 23 Pantogada, 76 Paolo, 165 Papiano, 76 Parbetta, 76 Pellegrinotto, 73, 75 Pentagora, 54 Pepè Alletto, 62, 63 Pepita, 76 Persico, 146-149 Pescatore, 75, 76 Peter Pavel, 195 Pia (la), 97 Pinzone, 72, 75, 131 Pompea Montroni, 98 Primo, 189, 190, 205, 206, 207, 208
Ranocchio, 27, 28, 31, 32, 33 Riesin, 118, 124, 143 Rocco Pentagora, 53 Roma, 78 Romitelli, 73 Rondinella, 131 Rondone, 131 Rorò, 86, 87 Rorò la Garibaldina, 129, 130 Rosolino La Rosa, 129, 130, 131 Rossaccio, 32
217
Rosso (il), 29 Rosso Malpelo, 25-44 Rovi, 195
Sabetta (donna), o donna Bebé, 86 Sardegna la, 105 Sciaramè, 128, 130, 131, 132, 133, 134 Selene, 14, 23 Sidora Pentagora, 53 Silvia Caporale, 75 Speranza, 158 Spigula-Nonnis, 101, 102, 103, 128 Stefano, 130, 133 Stellina, 61 Tanino, 110 Tanotto, 110 Tommasino Unzio Canta l’Epistola, 125, 126, 127, 128 Totò Merumeni, 152, 164 Ultimo (der Letzte), 189, 205, 206, 207, 208 Unverdorben, 196
Vabene, 103 Velleda, 14, 15, 18, 19, 20, 23 Vignetta, 48 Villa Amarena, 151 Virginia, 151 Vitta (Frau), 193 Vittoria, 149 Walston (Mr.), 93 Wheil (Signora), 150 Zarra, 43 Zio Mommu lo Sciancato, v. Mommu lo Sciancato Zùnica, 79-88, 95