Immagini narrate : semiotica figurativa e testo letterario
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Teoria della cultura collana diretta da OMAR CALABRESE e MARINO LIVOLSI

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Tarcisio Lancioni

Immagini narrate Semiotica figurativa e testo letterario

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© 2009 Mondadori Education S.p.A., Milano Tutti i diritti riservati

Prima edizione Mondadori Università agosto 2009 www.mondadoriuniversita.it Edizioni 1002 2009

3004 2010

5006 2011

7008 2012

9010 2013

Stampato in Italia - Printed in Italy Stampa ATI S.p.A., Pomezia (Roma) Immagine di copertina: ugo pierri, la fata turchina, 1999 (© ugo pierri). Riguardo ai diritti di riproduzione, l’editore si dichiara disponibile a regolare eventuali spettanze derivanti dall’utilizzo di testi e immagini per le quali non è stato possibile reperire la fonte Progetto di copertina di Luisa Conte

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Indice

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Introduzione Giochi di figure: la semiotica e l’immaginario letterario RAGIONAMENTI FIGURATI E ARCHITETTURE TESTUALI

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1. Figure della mediazione in The Selfish Giant di Oscar Wilde 1. La semiotica figurativa 2. The Selfish Giant 3. Conclusioni

55 55 67 73

2. Figura e narrazione in Pinocchio di Carlo Collodi 1. Semisimbolismi 2. Tagliole e collari 3. Conclusioni

FIGURE DELL’ALTERITÀ 83 83 84 94 105 115 117 119 121 122 125 126

3. Figure della differenza in The Voyage of the Beagle di Charles Darwin Ancora sul semisimbolico 1. La ratio difficilis, i modi di produzione segnica e il semisimbolico 2. The Voyage of the Beagle 4. Rappresentare l’Altro: piccola riflessione sull’immaginario epidemico La città Il viaggio Al di là Il ritorno La città 2 Come il richiamo notturno della civetta Ricapitolando

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VI INDICE

FIGURE DELLA MEMORIA E DELLE PASSIONI 133 133 136 140 147 149 152 163

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5. Dimenticare Caddy: figure della memoria e dell’oblio in The Sound and the Fury di William Faulkner 1. Memoria e memorie 2. Memoria e narrazione in Faulkner 3. Benjy 4. Conclusioni 6. Dar corpo alla passione: figure dell’entusiasmo in Henry V di William Shakespeare Il testo e le sue passioni Dar figura alla passione

Riferimenti bibliografici Indice dei nomi

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A Paola e ad Armando

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Introduzione Giochi di figure: la semiotica e l’immaginario letterario

Che uno degli aspetti caratteristici del discorso letterario risieda nella sua capacità di elaborare ‘immagini’ non costituisce certo un’affermazione innovatrice, come possono ben mostrare le riflessioni che a questa dimensione sono state dedicate tanto dalla filosofia quanto dalla critica letteraria: la prima interrogando lo statuto particolare di questo genere di ‘immagini’ rispetto a quelle prodotte dalle arti visive o rispetto a quelle «mentali» generate dal nostro apparato percettivo 1; la seconda interrogando soprattutto il modo in cui la scelta di determinati tipi di immagine, di legami fra le immagini o di grado di dettaglio appare capace di caratterizzare e di inquadrare esteticamente, storicamente o sociologicamente l’attività letteraria di uno scrittore, di una scuola, di un’epoca, di un genere. Scopo del presente lavoro non è quello di fornire un’antologia o una rivisitazione di ciò che sull’immagine letteraria è stato scritto, ma solo quello, assai più umile, di riprendere e focalizzare, secondo una prospettiva semiotica, alcuni aspetti particolari tra quelli emersi nelle riflessioni summenzionate: innanzitutto quello relativo alla capacità che le immagini letterarie avrebbero di generare effetti di «profondità» dischiudendo un «senso ulteriore» al di là delle immagini stesse e accessibile solo a determinate condizioni, ovvero quell’aspetto che la teoria

1 Per una eccellente introduzione critica a questo tema si veda W.J.Thomas Mitchell, Iconology, Chicago, The Un. Of Chicago Press 1986. Per una introduzione al tema del paragone fra l’immagine pittorica e letteraria si veda il classico Rensselaer W. Lee, Ut pictura poesis. A Humanistic Theory of Painting, New York, Merton & C. 1967 (tr. it. Ut pictura poesis. La teoria umanistica della pittura, Firenze, Sansoni, 1974).

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letteraria ha tradizionalmente designato col termine assai controverso di «simbolismo» 2, sul quale ci attarderemo un po’ nel corso di questa introduzione; in secondo luogo quello relativo alla messa in scena letteraria non solo delle «figure del mondo» di cui le immagini sono intessute, ma anche dei modi della loro costituzione a partire dall’attività percettiva dei personaggi, e dunque dell’emergere del senso come interrelazione fra un soggetto che articola il mondo e lo valorizza e il mondo stesso che offre le proprie qualità quali materiali per la costituzione di una visione più o meno coerente e sensata; infine, quello relativo alla capacità che il testo letterario, come ogni altro testo, ha di convocare, attraverso l’articolazione di immagini, tutta una serie di semiotiche chiamate a dialogare all’interno del testo stesso: semiotiche plastiche capaci di rendere conto dell’architettura delle immagini, semiotiche dello spazio determinate dalla costruzione delle ambientazioni e dal modo in cui queste sono vissute dai personaggi che vi agiscono, semiotiche prossemiche, gestuali e via dicendo. Aspetto, quest’ultimo, che a nostro avviso è fondamentale per comprendere come la produzione culturale riesca a trasformare le semiotiche stesse che i singoli testi, e in particolare quelli creativi, non sono chiamati semplicemente ad applicare o a rispecchiare ma su cui esercitano un lavoro costante di rimodellamento rendendole, appunto, dialoganti 3. Precisiamo preliminarmente che l’accezione di «letterario» qui adottata è assai ampia e i testi di cui ci occuperemo presenteranno una grande varietà stilistica, spaziando dalla letteratura «popolare» a quella «di genere», a quella a cui di solito viene riconosciuto un più alto valore artistico, a cui si aggiungeranno, in alcuni casi, anche immagini tratte dal cinema, da film presentati come trasposizioni di testi letterari. Le analisi testuali qui presentate sono state realizzate in tempi diversi, quasi tutte come materiali di lavoro per i corsi di Semiotica del testo da me tenuti presso l’Università di Siena nel corso degli ultimi anni. Tale dispersione temporale fa sì che essi riflettano preoccupazio2 Per una introduzione storico-critica alle diverse concezioni di «simbolo» e «simbolismo» si vedano Tzvetan Todorov, Théories du symbole, Paris, Seuil 1977 (tr. it. Teorie del simbolo, Milano, Garzanti 1984) e Umberto Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino, Einaudi 1981. Per la rilevanza di tali concetti all’interno della teoria dell’arte e dell’interpretazione dell’immagine visiva, con particolare riferimento all’Estetica hegeliana e alle sue derivazioni, si veda anche Tarcisio Lancioni, Il senso e la forma. Il linguaggio delle immagini fra teoria dell’arte e semiotica, Bologna, Esculapio 2001. 3 Sul tema del dialogo fra strutture quale motore del cambiamento e dell’innovazione, si veda in particolare il lavoro di Jurij Lotman: La struttura del testo poetico, Mosca, iskusstvo 1970 (tr. it. Milano, Mursia 1972); Kul’tura i vzryv, Mosca, Gnosis 1993 (tr. it. La cultura e l’esplosione, Milano, Feltrinelli 1993); Cercare la strada. Modelli della cultura, Venezia, Marsilio 1994.

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ni teoriche e umori diversi, che spero di essere, almeno in parte, riuscito a omogeneizzare. Prima di procedere vorrei ringraziare quanti, direttamente o indirettamente, hanno influito sulla formazione delle idee espresse in questo libro: gli studenti innanzitutto, cavie involontarie torturate da ripensamenti, ritrattazioni, approssimazioni, che hanno spesso contribuito a correggere e a risolvere; poi gli amici del Centro Senese di Semiotica del Testo, tra cui ricordo in particolare Omar Calabrese, Giulia Ceriani, Stefano Jacoviello, Angela Mengoni, Francesca Polacci, a cui va anche un grazie particolare per il lavoro di rilettura. Quindi, i tanti dottorandi e addottorati, che in questi anni si sono specializzati nella ricerca semiotica, e che con le loro richieste e le loro osservazioni critiche hanno costituito un pungolo costante allo studio e alla ricerca, ravvivando la ‘scena semiotica’ senese, e tra questi, in particolare, quelli con cui il dialogo è stato più assiduo: Pierluigi Cervelli, Luca Acquarelli, Barbara Mottola, Vitaliana Rocca, Lorenzo Bianciardi (a cui va anche un grazie particolare per le distrazioni cestistiche), Maria Cristina Addis, Massimiliano Coviello, Diletta Sereni, Francesco Zucconi, Giulia Cantelli. Un grazie sincero va agli amici meno vicini geograficamente ma sempre vicinissimi culturalmente, la cui presenza va ben al di là delle citazioni esplicite: Francesco Marsciani su tutti, per i consigli, per il pensiero sempre stimolante, per le riletture pazienti, quindi Paolo Fabbri, Denis Bertrand, Giovanni Careri, Gianfranco Marrone. Infine un pensiero commosso, nel rimpianto di dialoghi per sempre spezzati, a Sandra Cavicchioli, a Jean Marie Floch, a Marco Dinoi. Per avviare il nostro cammino, e per cominciare a esemplificare la varietà di modi in cui immagine letteraria e simbolo sono stati accostati, da cui consegue la gran varietà di accezioni in cui il simbolismo letterario è stato declinato, vorremmo richiamare alcune pagine ‘classiche’ della teoria delle letteratura, a partire da quelle assai pregevoli in cui Erich Auerbach, ricostruendo la progressiva costituzione di un campo di «realtà» all’interno della letteratura europea, dalla Bibbia e da Omero fino alle sperimentazioni letterarie di inizio Novecento, si sofferma sul ruolo che possono assumere, nel discorso letterario, le descrizioni di personaggi e di ambienti. Ricordando che per Auerbach la conquista del reale da parte della letteratura non è tanto questione di affollamento o di articolazione di dettagli, quanto di elevazione alla dignità letteraria di determinate tematiche legate alla vita quotidiana, individuale e collettiva – dalla concezione creaturale del corpo alla convocazione delle sfere dell’attività economica e politica –, vediamo che la marcata attenzione verso la dimensione figurativa, che si concretizza in descrizioni minuziose di oggetti, di ambienti o di fenomeni, e che

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in certi periodi letterari assume anche un carattere esplicitamente teorico, non si traduce in una semplice presentazione oggettiva del «reale» ma tende ad assumere funzioni ulteriori di carattere, per l’appunto, «simbolico», suggerendo in tal modo che Realismo e Simbolismo non sono termini fra loro contrari e inconciliabili ma indicano due dimensioni del senso che possono procedere appaiate, e dunque che la dimensione simbolica può annidarsi ovunque. Nelle pagine dedicate a Balzac, ad esempio, analizzando l’universo figurativo allestito per descrivere la pensione di Mme Vaqueur nel Pere Goriot, Auerbach si sofferma sulla sottoveste della proprietaria e scrive: Infine, la sua sottoveste assume il valore di una specie di sintesi dei diversi locali della pensione, come assaggio della cucina e anticipata presentazione degli ospiti; questa sottoveste diventa per un istante il simbolo del milieu 4.

In questo caso il simbolismo sembra presentarsi come una particolare funzione di condensazione di un vasto campo di significazione in una singola immagine che, come dice lo stesso Auerbach, «non si fonda su dati di ragione, ma è invece presentata come un dato di fatto immediato, sensibile e penetrante, puramente soggettivo, senza dimostrazione» 5. Il ruolo qui attribuito al simbolismo non ci sembra troppo lontano da quello che Roland Barthes, nella sua Introduzione all’analisi strutturale dei racconti, del 1966, assegnerà a quella particolare tipologia di funzioni narrative, da lui denominate «indizi» 6, che avrebbe la funzione di farci inferire un determinato climax ambientale o un particolare carattere a partire da dettagli descrittivi, e dunque, per l’appunto, da elementi figurativi, spesso apparentemente casuali o ridondanti: La seconda grande classe di unità, di natura integrativa, comprende tutti gli «indizi» (nel senso molto generale del termine) [e in opposizione alle «funzioni» propriamente dette che costituiscono la prima classe di unità], l’unità rinvia allora non a un atto complementare e conseguente, ma a un concetto più o meno diffuso, tuttavia necessario al senso della storia: indizi caratteriali riguardanti i personaggi, informazioni relative alla loro identità, notazioni di «atmosfera», ecc.; la relazione tra l’unità e il suo correlato non è più distribuzionale (spesso diversi indizi rinviano allo stesso significato e il loro ordine di apparizione nel di-

4 Erich Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendlandischen Literatur, Bern, Francke 1946 (tr. it. Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Einaudi 1964). Vol. 2, p. 241 della tr. it. 5 Ibidem. 6 Ora in Roland Barthes, L’aventure sémiologique, Paris, Seuil 1985 (tr. it. L’avventura semiologica, Torino, Einaudi 1991).

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scorso non è necessariamente pertinente) ma integrativa; per capire ‘a cosa serve’ una notazione indiziale, bisogna passare a un livello superiore (azioni del personaggio o narrazione) perché è solo là che l’indizio si chiarisce […]. Gli indizi, per la natura in qualche modo verticale delle loro relazioni, sono delle unità realmente semantiche, poiché, contrariamente alle funzioni propriamente dette, esse rimandano a un significato e non a un’operazione 7.

La differenza principale fra la posizione di Auerbach e quella di Barthes nel riflettere su questi «effetti ambientali» generati dalle figure sembra risiedere soprattutto nel fatto che mentre per Barthes si tratta di elementi «puramente semantici» di cui l’analisi può rendere conto agevolmente 8, per Auerbach, come abbiamo visto, si tratta di effetti che sembrano andare «al di là del dato di ragione», generati da una pura presenza, non analizzata e non analizzabile. Senza voler forzare la posizione di Auerbach, che non si sofferma in modo esplicito sugli aspetti teorici di queste «presenze», ci sembra che l’idea di una immediatezza e di una ricchezza di senso che va al di là del «dato di ragione» indichi la strada verso una delle accezioni più caratteristiche del concetto di simbolo in campo letterario, che è quella connessa al concetto di «intransitività» e alla quale si associa frequentemente una diffidenza, che oserei definire radicale, nei confronti degli approcci semiotici alla letteratura e all’arte in genere. Secondo tale accezione, il simbolo si differenzierebbe dal segno per il fatto che quest’ultimo avrebbe quale sua unica funzione quella di essere oltrepassato per cogliere il significato a esso convenzionalmente correlato, riconosciuto in genere come un dato oggetto o stato del mondo, e dunque identificato con ciò che noi chiameremmo «referente», costituendo pertanto una via di uscita dal tessuto artistico dell’opera verso la dimensione puramente mondana; il simbolo si caratterizzerebbe invece proprio per il suo opporsi a questa «transitività» che conduce verso il mondo, attraendo verso di sé ogni tensione interpretativa per tornare a indirizzarla verso il tessuto dell’opera stessa anziché verso il mondo esterno. In questa prospettiva, la semiotica, che si occuperebbe per definizione di segni, non sarebbe in grado di fare altro che ridurre l’opera ai suoi significati letterali, sancendone la «finitezza», e in tal modo annullando la vera forza delle opere che risiederebbe nell’infinitezza della circolazione simbolica. Con la semiotica, dunque, il lavoro interpreRoland Barthes, L’aventure, cit., p. 93. Nei lavori successivi di Barthes (si veda in particolare S/Z), queste «unità» diffuse come «polvere d’oro» sulla superficie del testo prenderanno il nome «connotatori» e saranno assunte come espressioni del contenuto ideologico del testo. 7 8

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tativo avrebbe la pecca fondamentale di condurre rapidamente a un «termine» derivante dalla penetrazione e dall’attraversamento dell’opera stessa, mentre l’interpretazione simbolica, limitandosi ad additare il simbolo in quanto tale e mostrando il suo movimento incessante di rinvio, darebbe vita a una amplificazione infinita del senso e sostituirebbe, per conservare una distinzione goethiana 9, l’«attraversamento» con un puro e semplice «restare accosto» denso di un significato che non chiede di essere ulteriormente analizzato. Il problema del carattere più o meno transitivo delle immagini letterarie trova ampio spazio anche nelle numerose pagine dedicate al concetto di simbolo 10 in un altro dei grandi testi di riferimento della critica letteraria: Anatomia della critica di Northrop Frye 11. In queste pagine viene chiaramente esplicitata e teorizzata la differenza summenzionata fra il simbolo vero e proprio e il valore «segnico» dei simboli letterari. Quest’ultimo consisterebbe nel loro essere un semplice veicolo di significato capace di metterci in contatto direttamente con il mondo esterno: Il simbolo verbale «gatto» è un gruppo di segni neri sulla carta i quali rappresentano una sequenza di rumori che rappresentano un’immagine o memoria che rappresenta un’esperienza sensoriale che rappresenta un animale che dice «miao». I simboli così intesi possono essere definiti segni, unità verbali che convenzionalmente e arbitrariamente significano e indicano cose che sono al di fuori del posto in cui i segni stessi si trovano 12.

9 Karl Löwit. Von Hegel zu Nietzsche, Zürich, Europa Verlag 1953 (tr. it. Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, Torino, Einaudi 1949). 10 Northrop Frye, Anathomy of Criticism. Four Essays, Princeton Un. Press 1957 (tr. it. Anatomia della critica, Torino, Einaudi 1969). Nel testo di Frye, l’immagine o figura del mondo non coincide con il simbolo ma ne costituisce un caso specifico, anche se di particolare rilievo in quanto tutte le esemplificazioni di simboli letterari vertono sulla ricorrenza di determinate figure del mondo (il giardino, la foresta, il mare, ecc.): «in questo saggio [simbolo] indica qualsiasi unità di qualsiasi struttura letteraria suscettibile di analisi critica. Un vocabolo, una frase, o un’immagine usati con un certo speciale riferimento a qualcosa (è in ciò che il simbolo consiste) sono tutti simboli quando sono elementi distinguibili nell’analisi critica», p. 94 della tr. it. D’altra parte, esistono problematiche relative all’immagine che vanno al di là della questione puramente simbolica, quale, ad esempio, la loro capacità di caratterizzare un determinato ‘modo narrativo’, come, a solo titolo di esempio, il Romance, che sarebbe caratterizzato dalla presenza insistita di foreste o dalla descrizione di particolari animali, quali cavalli e cani. 11 In particolare il secondo saggio Critica etica. Teoria dei simboli e il terzo Critica archetipica. Teoria dei miti. 12 Op. cit., p. 97 della tr. it.

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La dimensione puramente simbolica invece, bloccando l’uscita interpretativa verso il mondo, ci consentirebbe di accedere agli aspetti veramente significativi dell’opera intesa come organismo fine a se stesso: In letteratura i problemi di realtà o verità sono subordinati allo scopo primario di creare una struttura di parole fine a se stessa, e il valore segnico dei simboli è subordinato alla loro importanza come struttura di motivi connessi fra loro 13.

L’opposizione segno vs simbolo sembra poggiare sul fatto che mentre il segno designerebbe in qualche modo un’assenza che viene colmata attraverso il riferimento alla cosa designata, dunque il classico «qualcosa che sta per qualcos’altro»; il simbolo designerebbe una sorta di «eccesso di presenza» in cui si andrebbe ad accumulare una stratificazione di senso capace di farne un oggetto ‘denso’, che acquista tutto il proprio valore proprio grazie a questa pienezza. Rileviamo, di passaggio, che tanto la concezione del segno quanto quella del simbolo presentate da Frye sottendano una loro accezione quali oggetti singolari e autonomamente sussistenti, dotati di una capacità di significazione, in un caso puramente arbitraria e nell’altro causata dal sedimento culturale, che non dipende in alcun modo dal loro far parte di sistemi strutturati che ne determinano la posizione reciproca. L’orientamento centripeto del simbolo, secondo Frye, può articolarsi a livelli diversi, avremo così, innanzitutto, un orientamento interpretativo indirizzato verso il tessuto dell’opera stessa, intesa come «struttura di motivi connessi fra di loro» 14, nel senso che i simboli presenti all’interno di una data opera avrebbero la capacità di richiamarsi l’un l’altro in una sorta di sviluppo anaforico, o di gioco di specchi, e non nel senso ‘strutturale’ per cui il significato di un simbolo dipenderebbe dalla relazione che esso intrattiene con gli altri simboli presenti; in secondo luogo un orientamento centripeto che può volgersi verso l’universo letterario nel suo complesso, con le sue tradizioni fatte di citazioni, riprese, commenti e ‘furti’, entro cui le immagini si richiamano in un gioco vorticoso e incessante di rinvii; infine, verso un universo archetipo di immagini immutabili, di carattere ‘antropologico’, a cui la letteratura attingerebbe in continuazione. Questi diversi orientamenti simbolici (l’opera, la letteratura, l’immaginario), per Frye, non sono mutuamente esclusivi, ma costituisco-

Op. cit., p. 98 della tr. it. Op. cit., p. 98 della tr. it., o anche, a p. 118: «diamo qui alla parola simbolismo il significato di immagine tematicamente significante». 13 14

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no il territorio di modi critici differenti, ognuno dotato di una propria dignità, e proprio per questo incompleti e complementari. Il carattere simbolico delle immagini assume così una serie di significati diversi a seconda che sia oggetto della critica formale, che si occupa dell’immaginario di una poesia riferendolo al suo nucleo tematico attraverso un lavoro di glossa e commento «per cui si traduce in linguaggio discorsivo o esplicito ciò che è implicito nella poesia» 15; della critica archetipica, o comunicativa, che «studia la singola poesia come parte della poesia in generale» 16, e dunque tratta le sue immagini come riflessi o riprese di altre immagini letterarie, lavorando così alla ricostruzione dell’immaginario poetico che viene inteso come tessuto omogeneo la cui unitarietà è garantita, da un lato, dal carattere convenzionale del fare poetico, che risponde a riti e tradizioni specifiche, rendendo i suoi simboli comunicabili, e, dall’altro, dal riferimento costante di questi simboli a un vissuto antropologico condiviso della natura che la poesia imita e traduce in immagini: […] la ripetizione di certe immagini proprie del mondo fisico, come il mare o la foresta, in un così grande numero di poesie non può essere considerata una «coincidenza», termine con cui indichiamo il particolare di una trama a cui non siamo in grado di attribuire un fine. Ma indica anche una certa unità, sia nella natura che è imitata dalla poesia, sia nell’attività comunicativa di cui la poesia fa parte 17;

o infine della critica anagogica in cui le immagini poetiche non vengono più riferite allo specifico contesto culturale cui appartengono, e cioè quello della pratica poetica con le sue regole e le sue convenzioni, né a qualcosa di profondamente radicato nella natura umana ma, con un passo deciso verso la completa «intransitività», al significato ‘universale’ delle stesse: anagogicamente dunque il simbolo è una monade, essendo tutti i simboli uniti in un unico infinito ed eterno simbolo verbale che, come dianoia, è il Logos e, come mythos, è l’atto totalmente creativo 18.

15 Op. cit., p. 114 della tr. it. In questa fase della critica, sostiene Frye, il testo poetico va considerato innanzitutto come «un unicum, una techne o artificio, dotato di una sua peculiare struttura di immagini, che deve essere esaminata per se stessa senza immediati riferimenti ad altre cose analoghe» (p. 125). 16 Op. cit., p. 139 della tr. it. «Indichiamo con archetipo un simbolo che collega una poesia ad altre poesie e serve a unificare e integrare la nostra esperienza letteraria» (p. 130). 17 Op. cit., p. 131 della tr. it. 18 Op. cit., p. 158 della tr. it.

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Indipendentemente dal livello chiamato in causa, e dunque dal tipo di critica coinvolta, la rilevanza letteraria del simbolo appare riconducibile o alla sua capacità di legarsi ad altri simboli, interni all’opera o disseminati nella tradizione letteraria e culturale, o a quella di costituirsi come una sorta di cristallo che si isola da tutto il resto illuminando ciò che lo circonda (nella fase ‘universale’ diventa monade che si autoriflette). In ogni caso la significatività del simbolo, che è proprio ciò che rende rilevante la sua presenza nel contesto in cui si manifesta, viene al più spiegata con la derivazione da qualche schema archetipo (come quelli apocalittici e infernali dell’immaginario biblico) e mai come effetto di specifiche articolazioni linguistiche e semantiche. Questa concezione del simbolo è la stessa che Greimas, in Semantica strutturale, vede espressa nell’opera di Gilbert Durand il quale, nel suo Les structures anthropologiques de l’immaginaire, faceva derivare l’intero universo simbolico da uno schematismo ‘universale’ costruito a partire dalle cosiddette «dominanti riflesse» individuate da Bechterev (posturale, digestiva e copulativa). Tale derivazione del simbolico da schemi o archetipi, anziché dalle strutture proprie del linguaggio, è ritenuta da Greimas tipica di tutto un atteggiamento che caratterizza le ricerche dedicate alla natura simbolica della poesia, del sogno e dell’inconscio: […] quella specie di stupore di fronte all’ambiguità dei simboli, l’ambiguità stessa ipostatizzata in concetto esplicativo, e l’affermazione del carattere ‘ineffabile’ del linguaggio poetico, della ricchezza inesauribile del simbolismo mitico, atteggiamento che induce anche persone acute come Lacan o Durand a introdurre nella descrizione della significazione giudizi di valore, e a stabilire distinzioni tra parola vera e parola sociale, tra una semanticità autentica e una semiologia volgare. Ma la semantica, che intende essere una scienza dell’uomo, cerca di descrivere dei valori e non di postularli 19.

Questa concezione del simbolico, e le impasse a cui conduce, va superata, secondo Greimas, adottando una prospettiva di analisi che invece di stupirsi di fronte all’ineffabilità del simbolo sia in grado di affrontarlo con gli strumenti propri alla sua natura, che è quella linguistica e semiotica. Via che Greimas vede già intrapresa da Bachelard nei suoi lavori sull’immaginario poetico, prima in modo intuitivo, con il riconoscimento che la semplice riconduzione dei simboli a quelle famiglie di archetipi costituite dagli elementi naturali della «fisica qualita-

19 Algirdas Julien Greimas, Sémantique structurale. Recherche de Méthode, Paris, Larousse 1966 (tr. it. Semantica strutturale, Roma, Meltemi 2000), p. 89 della tr. it.

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tiva» – terra, aria, fuoco, acqua –, tipico della fase ‘psicanalitica’ di Bachelard, anziché avere una funzione esplicativa finiva con il generare paradossi, obbligandolo a riconoscere il carattere né semplice né univoco dei simboli e a distinguere, ad esempio, la cedevolezza della zolla e la durezza della roccia come figure diverse, e opposte, di un medesimo simbolismo della terra, o a riconoscere i tratti oppositivi che caratterizzano, nel simbolismo acquatico, la dinamicità della tempesta e la staticità palustre, portandolo verso una vera e propria analisi semica capace di articolare i simboli nei loro elementi di significazione costitutivi. Processo che giunge a compimento, con piena consapevolezza, in Poetica dello spazio 20. Benché Frye non intraprenda il percorso di articolazione del simbolico seguito da Bachelard, vediamo che nelle sue riflessioni emerge il riconoscimento delle medesime difficoltà: Il mondo del fuoco [nell’immaginario demonico] è un mondo di demoni maligni come i fuochi fatui, o spiriti fuggiti dall’Inferno, e compare in questo mondo nella forma di autodafè, come abbiamo detto, o di città in fiamme come Sodoma. Esso è opposto al fuoco del Purgatorio o fuoco purificatore, quale è quello della fornace ardente di Daniele. Il mondo dell’acqua è rappresentato dall’acqua della morte, spesso identificato con il sangue versato, come nella Passione e nella rappresentazione simbolica della storia in Dante, e soprattutto dal «mare salato, insondabile, alienante» che assorbe tutti i fiumi di questo mondo, ma scompare nell’Apocalisse per lasciar posto a una circolazione d’acqua dolce 21.

Difficoltà che Frye cerca di aggirare considerando non la possibilità di procedere a una risoluzione delle ambiguità per mezzo di un’analisi linguistico-semiotica delle immagini simboliche, bensì notando che determinate associazioni fra configurazioni espressive e significati a esse associati tendono a catacresizzarsi all’interno di un contesto culturale dato: In genere ogni simbolo trae il suo significato dal contesto in cui appare: un drago può essere funesto in un romanzo d’avventure medievale o benigno in uno cinese; un’isola può essere l’isola di Prospero o quella di Circe. Ma data la grande quantità di simboli tradizionali e carichi di significato in letteratura, certe associazioni secondarie sono diventate abituali. Il serpente, per il ruolo che svolge nella storia dell’Eden, appartiene di solito al gruppo di simboli funesti nella letteratura occiden-

20 Gaston Bachelard, La Poétique de l’Espace, Paris, PUF 1957 (tr. it. La poetica dello spazio, Bari, Dedalo 1975). 21 Frye, op. cit., pp. 197-198 della tr. it.

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tale; solo le simpatie rivoluzionarie di Shelley lo spingono ad usare il serpente come animale innocente in The Revolt of Islam. Oppure una società di uomini liberi e uguali può essere simboleggiata da una banda di ladroni, pirati o zingari 22.

Con Frye abbiamo così almeno la consapevolezza, comunque sempre sottolineata, che i simboli hanno carattere culturale, e subiscono il lavoro della cultura, più che un carattere d’innatezza universale. Resta la difficoltà di spiegare, da un lato, come faccia la cultura a ‘lavorare’ i suoi simboli se non attraverso un processo costante, tanto che sia volto a radicare, quanto che sia volto a trasformare, di messa in correlazione degli elementi di significazione, immanenti, che delle immagini sono costitutivi e che dal simbolismo sono presupposti; e dall’altro come sia possibile che, di fronte alle ambiguità generate dalla capacità che un simbolo avrebbe di evocare significati opposti o incongrui, lo stupore del mistero simbolico non si trasformi in totale insignificanza, se non cercando di capire cosa fa sì che in un contesto un simbolo entri a far parte di una certa configurazione e in un altro di una configurazione completamente diversa. Dunque, restando per un momento nella prospettiva di Frye, cosa di un simbolo fa sì che esso entri in risonanza con altri simboli se la semplice tradizione e se una qualche universalità, ormai negata, non possono più far da garanti alla tenuta di tali correlazioni? La risposta a nostro avviso è la stessa, già ricordata, proposta da Greimas: considerare i simboli come entità semiotiche, capaci di generare mistero ma non in sé misteriose, e in quanto tali descrivibili con gli strumenti della semiotica che, per inciso, non si è mai occupata di indicare le scorciatoie per la più rapida uscita dall’opera verso il mondo esterno, ma anzi, lavorando a tracciare le reti di significazione immanenti al testo, costituisce, a nostro modesto avviso, una delle poche pratiche che ci permettono di restare in prossimità del testo stesso. La ricerca di Greimas sulla dimensione figurativa dei testi, per quanto debitrice del lavoro critico di Bachelard, ha sicuramente come motore primo le riflessioni condotte da Lévi-Strauss sulle figure animali, vegetali e relative ai tanti esseri che popolano il racconto mitico. Riflessioni che procedono in senso praticamente inverso rispetto alle problematiche simboliche sopra discusse, in quanto qui non si ha più a che fare con l’eccesso di senso che si addenserebbe nelle «figure del mondo» ergendole a simboli di inestricabile pienezza, ma, al contrario, 22

Op. cit., pp. 206-207 della tr. it.

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con un’assenza di senso delle medesime figure, intese questa volta come mere ‘decorazioni’, quali esse appaiono nel lavoro pionieristico condotto da Propp sulle forme narrative della fiaba di magia. Questo riscatto delle figure del mondo dall’oblio dell’insensatezza verso la pienezza semantica attraversa numerosi scritti dell’antropologo, tra cui possono essere evidenziati l’importante saggio dedicato all’analisi di un mito del nord-ovest americano, intitolato La geste de Asdiwall 23, e poi, in genere, l’intera serie delle Mythologiques, densa di analisi figurative e di riflessioni teoriche sul tema. Vorremmo però soffermarci brevemente sul saggio, intitolato La struttura e la forma 24, scritto da Lévi-Strauss per presentare al pubblico francese la traduzione della Morfologia della fiaba di Propp, in cui l’antropologo coglie l’occasione per delineare, con estrema chiarezza, le differenze fra pensiero formalista e pensiero strutturalista, e che ci permette di cogliere il punto di convergenza fra il lavoro di semantizzazione delle figure di Lévi-Strauss e quello, opposto, di riduzione dell’ineffabile simbolico di Bachelard. Lévi-Strauss contesta la generalizzazione proppiana che porta a considerare la concatenazione di azioni di una narrazione (la fiaba di magia nel caso specifico di Propp) come uno schema costante del tutto indifferente ai personaggi, agli oggetti coinvolti, ai loro attributi, tutti liberamente variabili secondo lo spirito inventivo del momento, che risulterebbero così essere solo un rivestimento esteriore, utile a dare brio e colore al racconto, ma senza alcuna vera funzione intelligibile e senza significato rilevante per la comprensione della fiaba. Per argomentare il proprio punto di vista, Lévi-Strauss mostra come nei miti e nelle favole degli Indiani d’America si attribuiscano le stesse azioni, nelle differenti narrazioni, ad animali diversi, quali, restringendo l’esempio agli uccelli: l’aquila, il gufo e il corvo. L’assegnazione di una medesima funzione a personaggi diversi non dovrebbe però portarci a concludere, come fa invece Propp, che la funzione narrativa è la costante mentre i personaggi sono variabili libere. Tale conclusione, sostiene ancora Lévi-Strauss, è condizionata dal fatto che il racconto viene considerato un sistema chiuso, e in tali con23 Pubblicato la prima volta nell’«Annuaire», 1958-59 dell’École Pratique des Hautes Études, poi in «Les Temps Modernes», 179 del 1961 e quindi in volume in Anthropologie Structurale Deux, Paris, Plon 1973. Anche in italiano è disponibile in diverse traduzioni, da Razza e storia, Torino, Einaudi 1967; a Antropologia Strutturale Due, Milano, Il Saggiatore 1978; a Paolo Fabbri e Gianfranco Marrone (a cura di) Semiotica in Nuce, Roma, Meltemi 2000. 24 L’articolo, che è incluso in Antropologia Strutturale Due, cit., viene qui citato nell’edizione pubblicata quale postfazione all’edizione italiana di Propp, Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi 1966.

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dizioni, se il racconto stesso non offre specificazioni sulle sue caratteristiche, il personaggio non può che venir trattato come se fosse un «nome proprio» oppure una parola che non esiste nel vocabolario, dunque termini «opachi» di fronte a cui l’analisi non può che arrestarsi. Se invece considerassimo il racconto stesso come parte di un sistema più ampio e permutassimo i personaggi che supportano una data funzione in tutti i racconti in cui compaiono, vedremmo che «aquila» o «gufo» sono tutt’altro che nomi propri e potremmo individuare lo specifico valore semantico che ogni personaggio, facendo sistema con gli altri, porta con sé all’interno delle narrazioni in cui compare: «Il fatto che, nella stessa funzione, l’aquila compaia di giorno e il gufo di notte, permetterà già di definire la prima un gufo diurno e il secondo un’aquila notturna, il che significa che l’opposizione pertinente è quella fra il giorno e la notte» 25. La debolezza dell’approccio proppiano, come di ogni formalismo, consisterebbe nell’illusione di spiegare il significato a partire dalla sola forma, facendo a meno del lessico, mentre l’approccio strutturalista anziché separare come corpi autonomi la «forma» e il «contenuto» cerca di individuare una organizzazione formale del contenuto stesso. Si tratta dunque di ricostruire il «vocabolario» del contesto culturale di riferimento, all’interno del quale i personaggi, e in genere le figure del mondo convocate, non sono termini singolari e autonomi ma, occupando una posizione differenziale rispetto alle altre figure, assumono un significato specifico. La ricostruzione di tale vocabolario, nello studio delle culture orali, richiede che vengano considerati non solo l’insieme delle varianti di un mito, in cui personaggi diversi assumono funzioni affini, ma anche i contesti forniti dal rituale, dalle credenze religiose, dalle superstizioni, dalle conoscenze positive: Ci si accorgerà allora che l’aquila e il gufo si oppongono entrambi al corvo come uccelli rapaci a un divoratore di carogne, mentre si oppongono l’uno all’altro in rapporto al giorno e alla notte, e l’anitra agli altri tre in rapporto a una nuova posizione tra la coppia cielo-terra e la coppia cielo-acqua. Si definirà così progressivamente un ‘universo della favola’ analizzabile in coppie di opposizioni combinate diversamente in ogni personaggio, il quale, lungi dal costituire un’unità è, quale il fonema quale lo concepisce Roman Jakobson, un «fascio di elementi differenziali» 26.

25 26

Op. cit., p. 189 della tr. it. Op. cit., p. 188 della tr. it.

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O ancora: Allo stesso modo i racconti americani fanno talvolta menzione di alberi, indicati ad esempio, come «susino» o «melo». Ma sarebbe altrettanto errato ritenere che il solo concetto di «albero» sia importante e le sue realizzazioni concrete arbitrarie, o anche che esista una funzione di cui l’albero sia regolarmente il ‘sostegno’. L’inventario dei contesti rivela infatti che quanto nel susino interessa l’indigeno sul piano filosofico è la sua fecondità, mentre il melo ne attira l’attenzione per la potenza e la profondità delle radici. L’uno introduce quindi una funzione «fecondità» positiva, l’altro una funzione «transizione terra-cielo» negativa, ed entrambi in relazione alla vegetazione. Il melo si oppone a sua volta alla rapa selvatica (tappo amovibile fra i due mondi), realizzazione questa della funzione «transizione cielo-terra» positiva 27.

Ecco così che la possibilità di una analisi semica si offre come prospettiva per ridurre l’ineffabile, si tratti di un ineffabile per eccesso, quale quello dell’inestricabile densità simbolica, o di un ineffabile per difetto, quale quello dell’opacità derivante dal considerare un personaggio, o in genere una figura del mondo, come un carattere idiosincratico fuori sistema e senza contesto. In entrambe le prospettive si pone il problema di un ‘al di là’ della significazione rispetto al puro piano denotativo, e in entrambi i casi ci si può fermare di fronte alla fascinazione dell’abisso, come nel caso delle interpretazioni simboliste, se ne può negare la rilevanza, come nell’approccio proppiano, o si può provare a spingere a fondo l’analisi considerando questo ‘al di là’ come una funzione di significazione che non si confonde con il problema della «denotazione» o della «referenza»: Indubbiamente anch’essi [miti e fiabe], in quanto discorso, impiegano regole grammaticali e parole. Ma alla dimensione abituale se ne aggiunge un’altra, poiché regole e parole servono qui a costruire immagini e azioni che rappresentano, a un tempo, significati ‘normali’ in relazione ai significati del discorso, ed elementi di significazione, in relazione ad un sistema significativo supplementare, che si situa su un altro piano: diremo, per chiarire questa tesi, che in una fiaba un «re» non è soltanto re e una «pastora» non è soltanto pastora, ma che queste parole e i significati che esse rivestono, diventano mezzi sensibili per costruire un sistema intelligibile formato dalle opposizioni: maschio/femmina (nel rapporto della natura) e alto/basso (nel rapporto della cultura), e di tutte le permutazioni possibili tra i sei termini 28.

27 28

Op. cit., pp. 188-190 della tr. it. Op. cit., p. 197 della tr. it.

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Le parole che designano figure del mondo all’interno del mito, e che Lévi-Strauss chiama «mitemi», si caratterizzano per il fatto di costituire sistemi relazionali particolari e vanno a costituire un piano di linguaggio supplementare, entro cui risiede il senso proprio del mito: Questi [mitemi] sono il risultato di un gioco di opposizioni binarie o ternarie (il che li rende paragonabili ai fonemi), ma tra elementi già dotati di significazione sul piano del linguaggio ed esprimibili mediante parole del vocabolario […] Certo si tratta ancora di parole ma a senso duplice: parole di parole, che operano simultaneamente su due piani, quello del linguaggio, in cui continuano ognuna ad avere la sua significazione, e quello del meta-linguaggio in cui intervengono come elementi di una super significazione che può nascere solo dalla loro unione 29.

È vero, concede Lévi-Strauss, che il passaggio dal testo mitologico a quello popolare, restando nel quadro della letteratura orale, rende il lavoro di ricostruzione del «vocabolario» più complesso, in quanto le fiabe sono costruite su opposizioni più deboli rispetto a quelle che si incontrano nei miti e si caratterizzano inoltre per un carattere maggiormente orientato a dimensioni locali della socialità e della moralità, al contrario di quanto avviene con il mito in cui le opposizioni rendono conto di dimensioni più generali di carattere cosmologico, metafisico e naturale. In tal modo la fiaba si presenta come una forma attenuata del mito, e assai più libera rispetto a quello, perché meno soggetta alle costrizioni e alle pressioni derivanti da necessità di ortodossia. La favola offre così maggiori possibilità di gioco che portano le permutazioni a diventare via via più libere e meno rigorose, fino ai limiti dell’arbitrarietà soggettiva di alcune varianti che preludono all’arbitrarietà completa della creazione letteraria: Dunque, se la fiaba opera con opposizioni minimizzate, queste saranno tanto più difficili da individuare, e la difficoltà è accresciuta dal fatto che esse, già così ridotte, manifestano una fluttuazione che permette il passaggio alla creazione letteraria 30.

In questa prospettiva, l’approccio ai testi indicato da Lévi-Strauss sembra riservato ad alcune forme testuali particolari caratterizzate da un fortissimo ancoraggio a un «vocabolario» sociale condiviso, senza il quale il testo sembrerebbe perdere ogni intelligibilità, precludendo in

29 30

Op. cit., p. 198 della tr. it. Op. cit., p. 181 della tr. it.

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tal modo la possibilità di leggere nello stesso modo anche i testi più idiosincratici, più legati alla creatività soggettiva, come quelli letterari o in genere artistici. A nostro avviso questo non è propriamente vero e ci sembra contraddetto dal fatto che anche il testo letterario presenta una necessaria ‘leggibilità’ della sua dimensione figurativa. Anzi, potremmo forse ipotizzare, come abbiamo già provato a fare in Il senso e la forma a proposito dei testi visivi, che la presenza di una «funzione poetica», quale è stata definita da Jakobson, che comporta una strutturazione del testo poetico e letterario basato sulla produzione di parallelismi e contrasti, strettamente affine al modo di strutturazione che Lévi-Strauss individua nel mito, possa avere proprio la funzione di fornire le indicazioni necessarie a rendere pienamente significanti le figure testuali nel testo «poetico» inteso nel senso più ampio del termine. È proprio su questo principio, ci sembra, che viene a definirsi il concetto di «semisimbolico», su cui ci soffermeremo a lungo. Concetto che ci permette di precisare in modo chiaro la differenza fra l’approccio al testo della linguistica, quale ad esempio quello che caratterizza il lavoro hjelmsleviano e a cui restiamo comunque legati, e quello che caratterizza uno ‘sguardo semiotico’: nel primo caso il testo viene assunto esclusivamente come il luogo di manifestazione di una particolare forma semiotica, che è la lingua, e in tal modo tutte le caratteristiche di singolarità del testo particolare vengono annullate rispetto a un’esigenza di generalità e di standardizzazione; nel secondo caso, che è il nostro, il testo è il prodotto, sempre singolare, di una serie, o di un agglomerato, di forme semiotiche che entrano in relazione reciproca, ciascuna dotata delle proprie regole di organizzazione, spesso assai più semplici o «spartane» di quelle raffinatissime che governano la langue verbale, e funzionanti, per l’appunto, sul principio della convocazione di contrasti e di opposizioni e della loro messa in relazione, che è proprio quello che governa l’idea di semisimbolico. In questa prospettiva, dunque, un testo non è la manifestazione più o meno automatica di una forma semiotica singola ma è il prodotto, sempre unico, della co-occorrenza di forme semiotiche diverse, linguistiche, stilistiche e gergali, certo – come già suggeriva lo stesso Hjelmslev quando, individuando le semiotiche connotative, riconosceva che nessun testo, non artificialmente semplificato, può essere la manifestazione di una sola forma –, ma anche spaziali, figurative, plastiche, prossemiche, gestuali, che il discorso convoca per allestire il suo spettacolo 31. 31 Questa prospettiva di ricerca che tende a considerare ogni manifestazione testuale e discorsiva come manifestazione di una molteplicità di strutture semiotiche imbricate è presente anche all’interno di alcuni indirizzi della ricerca antropologica. Segnaliamo:

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Il semisimbolico ci permette dunque di pensare a una semiotica pienamente «testuale» nel senso di una semiotica della «singolarità» capace di reperire una parte delle risorse semantiche all’interno del testo stesso e non dalla definizione preliminare dei «codici culturali», che certo sono importanti ma non possono essere gli unici responsabili della manifestazione del senso di un testo. Se così non fosse, i testi letterari finirebbero con l’essere completamente inutili, in quanto condannati alla ripetizione infinita di un senso già dato, come implicitamente sostiene chi non vede altro che il ritorno continuo di archetipi; mentre i testi, anche laddove sembra che tutto sia già stato detto, continuano a produrre nuovo senso e, mettendo le forme semiotiche in relazione fra loro, in modo da fornire continui piani di interrelazione e di traduzione, permettono la trasformazione e l’innovazione dei codici stessi che danno alla nostra «realtà» la possibilità, a un tempo, di stratificarsi e di mutare. In secondo luogo, il concetto di semisimbolico ci permetterà di ricondurre il problema del simbolismo da un’aura di fumosa densità, sorta di buco nero in cui il senso si compatta tanto da divenire ineffabile, a una dimensione articolatoria in cui il simbolico si dà piuttosto come un effetto di costruzione di livelli del senso che vanno ad assumere la funzione di espressioni che articolano significati «ulteriori». Idea che ci sembra già ben elaborata da Greimas nel citato Semantica strutturale, dove la problematica della significatività delle figure del mondo e della loro possibile articolazione veniva trattata sotto la rubrica del «livello semiologico» del senso: Si potrebbe dire che il livello semiologico costituisce una sorta di significante che, assunto entro un quadro anagogico qualsiasi, articola il significato simbolico e lo organizza in rete di significazioni differenziate. Così come il piano dell’espressione articolata è necessario affinché il piano del contenuto sia qualcosa di diverso da una «grande nebulosa», secondo l’immagine saussuriana, l’articolazione della forma del contenuto attua, differenziandola, la sostanza di quest’ultimo 32.

Dunque non si tratta di negare l’esistenza o la portata di significati che si presentano come «presenze oscure», nel senso di «non articolate», come quelle evocate da Gustav Mahler in una celebre lettera: «la mia esigenza di esprimermi musicalmente, sinfonicamente, inizia solo là dove dominano le oscure sensazioni, sulla soglia che conduce Alessandro Duranti, Etnografia del parlare quotidiano, Roma, Carocci 1998; Charles Goodwin, Il senso del vedere, Roma, Meltemi 2003; Bruno Latour e Steve Woolgar, Laboratory Life, the Construction of Scientific Facts, London, Sage 1979. 32 Algirdas Julien Greimas, op. cit., p. 92 della tr. it.

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all’‘altro mondo’, il mondo in cui le cose non si scompongono più nel tempo e nello spazio» 33; ma di ipotizzare che il confronto con questi «effetti di oscurità», che incontreremo ancora, ad esempio nel capitolo dedicato al diario di viaggio di Darwin, non poggia sulla produzione di una oscurità insignificante, che appunto non significherebbe nulla, bensì sull’elaborazione di forme semiotiche specifiche, anche assai complesse, quali sono indubbiamente le sinfonie di Mahler. L’idea che gli «effetti di oscurità», ad esempio, non possano che manifestarsi in «forme oscure» riflette una ulteriore problematica connessa ai modi di presenza delle figure del mondo: se in primo luogo avevamo l’idea di una significazione eccessiva, infinita, impenetrabile e inarticolabile, dunque ineffabile, e poi l’idea di un carattere puramente decorativo e dunque inessenziale delle figure del mondo, ora emerge l’opzione che tra la rappresentazione e il rappresentato ci sia totale compenetrazione e solidarietà. Questa prospettiva, in cui la forma dell’espressione coinciderebbe con la forma del contenuto, è quella che caratterizza anche l’idea di simbolo presente nel lavoro di Hjelmslev, dalla cui messa in discussione nasce l’idea di forme semisimboliche, come vedremo oltre. Ma vorremmo esemplificare questa prospettiva e le sue implicazioni discutendo brevemente un saggio di Jean-François Lyotard 34 che muove proprio da una critica del simbolico assunto a partire dalla definizione che ne dà Hegel nell’Estetica. Nel pensiero di Hegel il rapporto fra il simbolo stesso, l’elemento sensibile o, come diremmo noi, il «significante», e il suo significato, il concetto pervenuto a forma, o «ideale», nella terminologia hegeliana, sarebbe caratterizzato da una sproporzione del primo rispetto al secondo (quella simbolica è l’arte nella sua prima fase evolutiva). Per esprimere il concetto, il simbolo tende all’eccesso e alla monumentalità, senza però riuscire a ‘comprenderlo’ ma limitandosi ad additarlo, ad alludere a esso. L’espressione simbolica non appare dunque in grado di mostrare l’ideale nella sua pura datità, come accadrà invece con l’arte classica dove il sensibile tende in qualche modo ad ‘annullarsi’ per presentarci l’ideale nella sua purezza, in una sorta di trasparenza che permetterebbe un accesso immediato al concetto. Lyotard, che cerca di differenziare ontologicamente, in modo per noi difficilmente accettabile, un accesso al mondo mediato, e perciò falsato, dalla significazione e dal linguaggio, da un accesso «puro» e

33 Gustav Mahler. Lettera del 26-03-1896, cit. in Paolo Petazzi, Le sinfonie di Mahler, Venezia, Marsilio 1998. 34 Jean-François Lyotard, Discours, Figure, Paris, Klincksieck 1971 – Nuova edizione, 2002 (tr. it. Discorso, Figura, Milano, Mimesis 2008).

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immediato che ci sarebbe offerto dall’immagine, dalla figura, che si dà nella percezione e nella pittura, propone appunto una dimensione della significazione «ulteriore» rispetto al simbolico, che chiama «figurale». In questa dimensione il senso, al riparo delle manipolazioni, delle ideologie, dei giochi di potere, dei tabù che travagliano la vita del discorso verbale, abiterebbe completamente la sua manifestazione visiva, in totale immanenza, dice Lyotard, coincidendo completamente con essa, in maniera non troppo dissimile da quanto avverrebbe, ci sembra, con il «classico» hegeliano. Modo di accesso al mondo governato dal «desiderio» anziché dalla «significazione» che troverebbe spazio anche nel discorso verbale ma solo in circostanze particolari, e ai suoi margini, quando l’espressione non si pone in relazione arbitraria con il mondo che designa ma fa sì che esso sia ‘incorporato’ nel discorso stesso, che si fa appunto ‘corpo’ del mondo, dandogli una figura ad esso consona, come accadrebbe in parte nella poesia e più ancora nella poesia «figurata», in cui le spaziature, i caratteri tipografici ecc., assumono un valore di presentazione immediata del mondo a cui si riferiscono. Il saggio di Lyotard, che riflette ampiamente il dibattito culturale in cui si iscrive, sottintende una visione semiotica marcatamente verbocentrica, quale ad esempio quella rappresentata dal lavoro di Roland Barthes, che considera il visibile accessibile solo a partire da una sua traduzione verbale, e non è in grado di apprezzare un’idea di «discorsività» genericamente semiotica e non vincolata strettamente al linguaggio verbale, che, negli stessi anni trova terreno di elaborazione anche al di fuori del campo strettamente semiotico, come ad esempio nel lavoro di Michel Foucault. Possiamo perciò apprezzarne il tentativo di rompere con uno schema culturale che impone una mediazione linguistica quale via unica di accesso al senso, e mi sembra che sia totalmente condivisibile l’idea che i modi di «accesso al mondo» forniti da un testo possano essere molteplici e simultanei, a partire dall’idea che ai margini del discorso possono annidarsi elementi che, pur estranei al regime di funzionamento ‘normale’ del discorso, possono contribuire a un arricchimento di senso. La prospettiva presentata da Lyotard sembra però peccare di quella illusione «iconica» di totale trasparenza che viene ampiamente e da tempo discussa sia in campo semiotico 35 sia all’interno della teoria del35 Ci limitiamo a questo proposito a citare i soli lavori di Umberto Eco, le cui riflessioni sull’argomento possono essere racchiuse fra una fase che potremmo dire di critica radicale rappresentata dal Trattato di Semiotica Generale (Milano, Bompiani 1975), e quella che potremmo dire di ‘ripensamento’ rappresentata in Kant e l’ornitorinco (Milano, Bompiani 1997).

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l’arte più avvertita 36, secondo la quale le immagini avrebbero la capacità di riferirsi al mondo in modo immediato e naturale, mentre ci sembra che la ricerca semiotica abbia ormai ampiamente documentato come la produzione e la lettura di immagini, come la stessa percezione, rispondano a regole di messa in forma e di strutturazione indispensabili per mediare il rapporto fra l’immagine stessa e il suo significato, l’espressione e il contenuto, e che dunque anche quella visiva sia una forma di testualità a tutti gli effetti, con le sue peculiarità ma senza differenze di carattere ontologico rispetto alle altre forme di testualità. Troviamo inoltre problematica la decisione lyotardiana di attribuire al senso «ulteriore», a cui la dimensione «figurale» aprirebbe, quel carattere di unicità e di verità che ne farebbero una forma privilegiata di accesso a qualcosa di «originario»; mentre, torniamo a ribadirlo e cercheremo di mostrarlo, è nostra convinzione che un testo produca i suoi effetti di senso, siano essi effetti poetici o effetti di realtà, a partire dalla messa in relazione di forme semiotiche diverse che lo abitano con pari dignità. Ci sembra, per altro, che tale condizione sia ben esemplificata proprio dall’esempio che Lyotard trae da un passo dell’Arte poetica di Claudel per illustrare il suo punto di vista. Si tratta della messa in scena di una figura «forestiera», l’immagine prodotta da uno sguardo che coglie due alberi che a distanza si richiamano e producono un accordo: Una volta, in Giappone, salito da Nikkô a Chuzenji, vidi, sebbene assai distanti, giustapposti dall’allineamento del mio occhio, il verde di un acero completare l’accordo proposto da un pino. Le pagine che seguono commentano quel testo forestiero 37.

Concordiamo con Lyotard, quando afferma che in questo testo non c’è solo da leggere ma anche da «vedere»; ma questo testo, che Claudel propone per suggerire un parallelismo fra il fare poetico e il mondo naturale, non mette in scena la percezione quale accesso immediato al mondo, puro e non mediato, al contrario, allestisce una figuratività che è costruita all’interno del linguaggio verbale, con i suoi mezzi e in esso codificata, ma che appare allo stesso tempo capace anche di installare nel testo una forma semiotica ulteriore, pertinente al regime espressivo dei testi visivi, fatto di contrasti e di rime plastiche, che 36 Ci limitiamo a citare l’esemplare Ernst H. Gombrich, Art and Illusion, Phaidon, New York and London 1960 (tr. it. Arte e illusione, Torino, Einaudi 1965), oltre al già citato Iconology di W.J.Thomas Mitchell. Per una introduzione ai rapporti fra semiotica e teoria dell’arte ci permettiamo di rinviare al nostro Il senso e la forma (cit.). 37 Jean François Lyotard, op. cit., p. 35 della tr. it.

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permettono di articolare il senso su un piano «ulteriore», come suggerisce Lyotard, «forestiero» sì, ma di una «forestalità» che non ha nulla di naturale e «originario», essendo il prodotto di uno sguardo che si iscrive completamente in essa e che, a partire da una direttrice che allinea i due alberi, pone i termini dell’emergenza dal «magma boschivo» dei soli elementi ritenuti pertinenti per allestire la scena e che trasformano l’informe naturale nella culturalità di un «accordo» fatto di forma (l’acero e il pino) e di colore. La scelta di questo brano da parte di Lyotard ci sembra interessante anche per un altro aspetto: più oltre, come abbiamo già detto, il filosofo sostiene che questo «spessore» di senso, che fa sì che ci sia anche da «vedere» e non solo da leggere, può occupare i margini del verbale e solo nella misura in cui la scrittura si fa corpo o immagine del mondo. Diremmo, nei nostri termini, nella misura in cui entra in gioco una questione di stratificazione della sostanza espressiva e la dimensione sensibile del testo manifesta sincreticamente funtivi espressivi diversi, attualizzando non una ma più relazioni semiotiche distinte. In questo caso invece, assai più prossimo ai problemi di cui ci occuperemo noi, che in questa sede toccheremo solo marginalmente questioni di articolazione della sostanza espressiva, è a partire dal contenuto verbale che emerge un’immagine che si dà come espressione di un contenuto «ulteriore», la cui relazione è retta da una specifica strutturazione semiotica, mostrando come il sincretismo non sia solo un problema relativo a testi costituiti da combinazioni di sostanze sensibili e percettive diverse ma, potenzialmente, di ogni testo che appare capace di convocare per il proprio funzionamento semiotiche diverse all’interno del piano di articolazione del discorso. Le varie tematiche qui presentate saranno riprese e rimodulate nelle pagine che seguono, in cui cercheremo di far emergere una serie di questioni distinte relative alla significatività del «figurativo» nei testi letterari (come già detto, nella più ampia accezione del termine), concetto che sarà anch’esso meglio precisato in seguito, e che a nostro avviso costituisce uno dei più interessanti nodi teorici della ricerca semiotica in atto, innanzitutto in quanto strettamente connesso ai vari problemi derivanti dalla stratificazione delle dimensioni semiotiche all’interno del testo, a cui saranno dedicate l’analisi di un breve racconto di Oscar Wilde, The Selfish Giant, e quella di un brano tratto da Pinocchio. Proveremo quindi a tematizzare il problema della costruzione dell’identità dell’Altro, e della sua ‘immagine’, che mette in discussione l’intero «patrimonio semiotico» sia di colui che elabora la rappresentazione dell’alterità sia di colui che, a partire da essa, è chiamato a elaborarne un’immagine propria, leggendo un brano dal Voya-

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ge of the Beagle di Charles Darwin e poi confrontando i meccanismi figurativi e narrativi elaborati da Friedrich Murnau per il suo film Nosferatu con quelli letterari del Dracula di Bram Stoker, che fanno a essi da riferimento. Vedremo poi come nella strutturazione dell’universo figurativo, in cui si intrecciano prospettive percettive e memoriali, si radichi il problema dell’identità attoriale dei personaggi analizzando uno dei capitoli di The Sound and the Fury di William Faulkner. Infine, toccheremo le problematiche connesse alla manifestazione ‘per immagini’ della dimensione passionale, che affronteremo a partire da un confronto fra immagine letteraria e immagine filmica analizzando l’Henry V di Shakespeare e la relativa versione cinematografica, realizzata da Kenneth Branagh.

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PRIMA SEZIONE Ragionamenti figurati e architetture testuali

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1. Figure della mediazione in The Selfish Giant di Oscar Wilde

1. LA SEMIOTICA FIGURATIVA Nel quadro della semiotica strutturale, e in particolare nella tradizione di ricerca legata al lavoro di Algirdas Julien Greimas, al problema della «figuratività» viene assegnato uno statuto teorico abbastanza ben precisato: essa occupa lo strato più esterno, più superficiale, del cosiddetto «Percorso Generativo» 1 del senso, quello della seman1 «Designamo con l’espressione ‘percorso generativo’ l’economia generale di una teoria semiotica (o soltanto linguistica), cioè la disposizione delle sue componenti le une rispetto alle altre; e questo nella prospettiva della generazione, cioè postulando che, dato che ogni oggetto semiotico può essere definito secondo i modi della sua profondità, le componenti che intervengono in questo processo si articolino le une con le altre secondo un ‘percorso’ che va dal più semplice al più complesso, dal più astratto al più concreto». Voce «Generativo Percorso» in Algirdas J. Greimas e Joseph Courtés, Sémiotique. Dictionnaire Raisonné de la Théorie du Langage, Paris, Hachette 1979 (tr. it. Semiotica, Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Firenze, La Casa Usher 1986).

Percorso generativo Componente sintattica Strutture discorsive

Strutture semionarrative

Sintassi discorsiva Discorsivizzazione:

Componente semantica Semantica discorsiva: Figurativizzazione

temporalizzazione – attorializzazione – spazializzazione Livello di superficie

Sintassi narrativa di superficie

Livello profondo

Sintassi fondamentale

Tematizzazione Semantica narrativa Semantica fondamentale

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tica discorsiva, e si definisce come il luogo teorico di costituzione degli effetti di realtà. È a questo livello che le istanze teoriche più astratte dei livelli più profondi assumono una concretezza percettiva, con vari possibili gradi di intensità, configurandosi in immagini, in figure appunto, e con ciò rendendo conto della dimensione sensibile e percettiva del senso 2. Nel corso degli ultimi venti anni, questa dimensione del senso è stata oggetto di riflessione costante e di continue rielaborazioni, soprattutto a opera di alcuni ricercatori francesi, tra cui ricordiamo in particolare, per la ricchezza del contributo, Denis Bertrand, Jean Marie Floch, Jacques Geninasca, Joseph Courtés, Claude Zilberberg, Teresa Keane, oltre allo stesso Greimas. In queste pagine non cercheremo di riassumere le tappe di questa ricerca 3 né ci occuperemo di valutarne le diverse sfaccettature, ma proveremo invece a entrare nel merito di una delle questioni aperte da quelle ricerche e che verte sulla capacità del figurativo di «rendersi autonomo» aprendo la lettura a un «ragionamento figurativo» che sembra seguire regole proprie. Problematica che, riprendendo una formulazione di Denis Bertrand 4, potremmo definire come questione della «profondità del figurativo». Questa impressione di deriva del figurativo, se accostata alle precedenti definizioni, di cui si è detto sopra, sembra nascondere un paradosso: da un lato, se si immagina il Percorso Generativo come una stratificazione orientata della costituzione del senso che ‘va’ dalla dimensione più astratta a quelle più superficiali in vista della manifestazione, la figuratività dovrebbe darsi semplicemente come luogo di compimento del senso in vista della

2 «Un discours abstrait est ‘thématisé’, c’est-è-dire qu’il traite de notions, d’origine cognitive (la liberté, la joie, etc.). Il se figurativise si, pour illustrer ces notions, il a recours à des ‘figures du monde naturel’, c’est-à-dire à des lexemes qui évoquent des choses, des personnes, des décors du monde sensible. Nous rejoignons ici la notion d’‘image’, élaborée par la rhétorique du verbal. La sémiotique s’efforce de systématiser la réflexion, sur ce point, en montrant que chaque univers culturel inscrit les diverses figures dans des ensembles plus vastes, les configurations discursives, qui trament le discours, comme peut le faire un motif sur une tapisserie. […] La figurativisation peut se convertir en ‘iconisation’, étape ultime du parcours génératif visant a produire l’effet de sens ‘ressemblance avec la vie’. On dira alors que le discours est ‘concret’ (‘effet de réel’). Le texte littéraire est souvent iconique, construit pour qu’on croire y lire la vérité même de la vie». Anne Hénault, Narratologie, Sémiotique Générale, Paris, PUF 1983. 3 Lavoro di ricostruzione già eccellentemente svolto da Paolo Bertetti: Lo schermo dell’apparire. Figuratività, mondo naturale, referente nella semiotica generativa, Tesi di dottorato di ricerca in Semiotica e Psicologia della Comunicazione Simbolica, XVI ciclo, Università degli Studi di Siena, 2004. 4 Denis Bertrand, Précis de sémiotique littéraire, Paris, Nathan 2000 (tr. it. Basi di semiotica letteraria, Roma, Meltemi 2002).

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manifestazione; mentre, dall’altro, se si immagina un ‘orientamento’ interpretativo che muova dalla manifestazione verso le strutture immanenti, essa sembra configurarsi come luogo di origine di percorsi di articolazione del senso «alla deriva», cioè «indipendenti» dalla via maestra del Percorso Generativo, e per nulla lineari. Mi sembra che in tal maniera si trovino a venir messi in discussione alcuni assunti della teoria semiotica, che forse non sono davvero né solidi né condivisi all’interno della tradizione greimasiana. Vorrei qui affrontare, anche se in modo sintetico e sommario, alcuni di questi aspetti problematici. Me ne scuso con quanti sono meno interessati a questioni di epistemologia semiotica, ma ritengo che sia utile chiarire tali questioni subito, in quanto ciò servirà anche per definire meglio la prospettiva teorica che informa le analisi che seguono. Innanzitutto, la questione che in varie occasioni continua a emergere della ‘percorribilità’ del Percorso Generativo del senso, con il corollario del verso di questa percorribilità: il Percorso Generativo ‘va’ dalle strutture profonde a quelle di superficie o viceversa? Questione che, ad esempio, viene posta per due volte e con motivazioni diverse in lavori recenti di Jacques Fontanille, la prima, in Sémiotique du Discours 5, dove si sostiene che il processo «ascendente» dall’astratto al figurativo caratterizzerebbe il vecchio modo di procedere della semiotica testuale, mentre il processo inverso caratterizzerebbe la nuova semiotica discorsiva; la seconda in Il corpo 6, dove si sostiene la necessità epistemologica di prevedere l’esistenza di una istanza presupposta dal Percorso Generativo con funzione di Soggetto in grado di percorrere il Percorso stesso, questa volta in modo ascendente, dunque secondo il ‘vecchio’ modo testuale, che nel caso particolare sarebbe appunto «il corpo». Premesso che la distinzione fra semiotica del testo e semiotica del discorso mi sembra del tutto surrettizia essendo legata alle diverse accezioni dei due termini che di volta in volta vengono accolte, vorrei argomentare il perché tale approccio al Percorso Generativo mi sembri oltre che poco produttivo anche, e più pericolosamente, fuorviante, in quanto frutto di un abbaglio metaforico. Evidentemente non è sufficiente l’affermazione continuamente ribadita che «generativo» non significa «genetico», se si continua a sollevare il problema della percorribilità del percorso, poiché tale questione sposta necessariamente il Percorso Generativo stesso dall’ordine del sistema, a cui l’intera trattazione greimasiana lo ancora, a quelJacques Fontanille, Sémiotique du discours, Limoges, Pulim 1998. Jacques Fontanille, Figure del corpo. Per una semiotica dell’impronta, Roma, Meltemi 2004. 5 6

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lo del processo: solo immaginando un «processo generativo» possono essere poste le questioni del verso di percorrenza e del soggetto competente per percorrerlo, ma ciò che ne consegue è nuovamente l’identificazione del «generativo» con il «genetico». In secondo luogo, ma non secondariamente, immaginare un’istanza capace di percorrere il Percorso Generativo significa necessariamente portare questa istanza al di fuori del Percorso e dunque, sempre necessariamente, sottrarla al processo di stratificazione del senso. Ma sostenere la necessità di una istanza esterna al Percorso Generativo a garanzia della possibilità di costituzione del senso non farà di questa stessa istanza, proprio in quanto «esterna», un’entità non stratificabile, dunque estranea al modello di articolazione del senso di cui si farebbe garante? E fondare un modello teorico generale dell’articolazione del senso, che in quanto tale dovrebbe poter articolare ogni manifestazione semiotica, su di una istanza, che per altro è un «fenomeno complesso» come il Corpo, che dovrebbe essere esterna ed estranea a quel modello, non porterà semplicemente a negare ogni valore epistemologico, e di conseguenza, necessariamente, ogni validità euristica allo stesso Percorso Generativo? Nel qual caso diventerà del tutto inutile chiedersi chi percorra il Percorso Generativo e in che senso lo faccia. Questa incongruenza mi pare che per altro traspaia in modo evidente anche dalle stesse pagine del testo di Fontanille, in cui proprio mentre si sostiene che il corpo sussisterebbe come istanza esterna al Percorso Generativo, e che dunque non dovrebbe essere articolato secondo i modelli del Percorso stesso, esso, nei diversi saggi che costituiscono l’opera, viene a volte assoggettato a una strutturazione attanziale (poiché il gioco di articolazioni dei «se-ipse» e «se-idem», dei «me-carne» e «me-pelle», altro non è che un esercizio di analisi attanziale, anche se gli attanti sono denominati in modo non convenzionale, appunto con i termini sopra citati, derivati dai lavori psicanalitici di Anzieu); altre volte viene invece visto come figura che entra a far parte di configurazioni discorsive diverse, e con ciò trattato semplicemente come un qualsiasi altro «testo» stratificabile in piani di intelligibilità diversi, oppure come una qualsiasi «figura» all’interno di «testi». Viene cioè, correttamente, trattato con la complessa mutevolezza che è propria di qualsiasi oggetto di senso, il cui statuto non è mai assoluto ma dipende dalla prospettiva e dal livello di articolazione dell’analisi; solo che, con il conferire una certa attanzialità alle figure o una certa figuratività agli attanti, si finisce con il togliere valore alle articolazioni interne del Percorso Generativo stesso, al quale si doveva invece offrire una ‘garanzia’. L’impressione, en passant, è che le riflessioni epistemologiche summenzionate, e con esse le proposte di

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moltiplicazione, riarticolazione, ibridazione dei livelli e delle istanze teoriche, siano condizionate da una concezione ‘naturalistica’ della teoria semiotica. Concezione che porta a identificare i diversi livelli teorici che costituiscono il Percorso Generativo con livelli di esistenza del senso, per cui il senso non sarebbe descrivibile attraverso una articolazione in livelli teorici ma sarebbe in sé articolato in livelli che la teoria si limita a scoprire. Atteggiamento che spinge a cercare le articolazione del senso dentro la teoria stessa e con ciò a complessificarne continuamente la forma. Si tratterebbe cioè di una implicita sussistenza di quello «strutturalismo ontologico» i cui limiti epistemologici sono stati, a nostro avviso definitivamente, denunciati da Umberto Eco, il quale proponeva, in antitesi a esso, uno «strutturalismo metodologico» volto a separare l’esistenza delle cose dai loro nomi, e cioè il piano dell’esistenza dei fenomeni da quello di esistenza della teoria che li analizza. L’assunzione di questa seconda prospettiva ci sembra che possa spingere la ricerca verso forme di ‘semplificazione’ derivanti da un maggior controllo del metalinguaggio teorico e alla riduzione di quelle complessità dovute al ‘gioco’ teorico sopra menzionato, che consiste nell’uso degli «strumenti» di uno dei livelli metalinguistici per analizzare non i «testi» ma gli altri livelli del medesimo Percorso Generativo, cercando al loro interno la «forma» che sarebbe del senso. Tale pratica comporta una immediata traduzione del livello analizzato nel livello analizzante: se, ad esempio, si applicano le categorie della Grammatica Narrativa per descrivere e concettualizzare il livello Discorsivo o quello delle Strutture Profonde, ci si ritroverà inevitabilmente con Attanti ovunque: attanti del discorso, attanti delle strutture profonde, attanti delle strutture tensive, e così via; ma a questo punto sarà inutile che li si vada a denominare proto-attanti, quasi-attanti, attanti-del-discorso, ecc. poiché non si avrà più una serie di metalinguaggi distinti, ma un solo metalinguaggio in cui tutti gli attanti sono grigi per quanti sforzi di differenziazione si possano fare, in quanto sarà il modello logico di articolazione a essere condizionato e uniformato a una sola prospettiva, quella del livello analizzante, rendendo di fatto inutile l’articolazione per livelli. In questi casi, alla confusione fra teoria e fenomeno, o, potremmo dire in termini semiotici, a una loro assunzione quali piani (E/C) di un sistema simbolico – nell’accezione hjelmsleviana – caratterizzato da una totale conformità, sembra aggiungersi (medesimo problema spostato di livello) quella fra l’architettura logica di ciascun livello metalinguistico e il discorso che lo manifesta. Ciò che in questi ‘giochi’ teorici si perde di vista, mi sembra, è che il discorso semiotico è un discorso fra gli altri e proprio per questo, co-

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me tutti gli altri, quando presenta un livello della sua teoria lo fa producendo un testo che è articolabile su tutti i livelli che la teoria individua e non solo sul livello specifico che ne costituisce il contenuto. Semplificando: per descrivere le relazioni logiche fra categorie semantiche, la cui articolazione pertiene al livello profondo, posso manifestarle usando una figura geometrica, come il famigerato «quadrato semiotico». Ciò però non significa che io debba considerare una figuratività o una spazialità profonda, situata allo stesso livello dell’articolazione semantica delle categorie, poiché quel «quadrato» non «appartiene» al livello profondo, ma è generato dalla messa in discorso che è indispensabile per ‘dire’ il livello profondo, e pertanto possiamo ricondurre anch’esso al livello discorsivo del testo che ci serve a descrivere le strutture profonde. Pertanto, non avremo, una «figuratività» diffusa su tutti i livelli del Percorso Generativo ma ancora, e semplicemente, una figuratività riconducibile al livello discorsivo dei testi. Mi scuso ancora con quanti sono meno interessati alla vita epistemologica della semiotica, ma ritengo che tali ‘sviste’ siano teoricamente preoccupanti (oltreché, verrebbe da dire, gravi per un semiologo): scambiare l’analisi di una struttura logica, che richiederebbe un metalinguaggio dedicato, con l’analisi del discorso che la manifesta comporta, oltre a effetti di ‘elefantiasi’ teorica, inevitabili loop ricorsivi e paradossi apparentemente irrisolvibili, come già tempo fa insegnavano Russell e Whitehead. Le ricerche qui presentate assumono la prospettiva epistemologica che abbiamo definito, a partire da Eco, «metodologica», e da essa si continuerà a considerare il Percorso Generativo del senso uno strumento irrinunciabile della semiotica strutturale, a dispetto delle sue lacune, delle sue zone d’ombra, delle sue ingenuità, che andranno ovviamente affrontate con atteggiamento critico. Per alcuni semiologi, che ne hanno già votato la fine per via della sua arcaica macchinosità, il confrontarsi ancora con questo strumento teorico, anche in prospettiva critica, e i tentativi di risolverne gli aspetti problematici, potranno apparire simili all’inutile lavoro svolto dagli astronomi aristotelici per mantenere in vita un modello di universo condannato dalle scoperte galileiane e copernicane. A nostro avviso invece il Percorso Generativo, considerata anche l’assenza di un modello concorrente che non si limiti a cancellare il «culturale» riducendo il senso a una reazione neuronale, offre ancora, quantomeno, una eccellente architettura metalinguistica (una teoria, per l’appunto), che permette da un lato di coordinare una serie di problematiche semiotiche mettendole in relazione fra loro e dall’altro di condividere un «linguaggio» che permette il confronto teorico fra ricercatori, condizione indispensabile di qualsiasi impresa, come si suol dire, «a vocazione scientifica».

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Quella che qui adottiamo è una concezione che potremmo dire ‘tattica’, oltre che ‘nominalistica’, del Percorso Generativo, che ce lo fa considerare, al di là dei problemi della «generatività», semplicemente come una articolazione stratificata di metalinguaggi, corredata da regole di trasformazione e di traduzione, ognuno dei cui livelli costituisce una struttura interpretativa per l’altro 7. Continuare a considerare il Percorso Generativo come articolazione stratificata di metalinguaggi significa pensare che ciascuno di essi sia in grado di restituire un piano di senso del testo studiato, e che questo stesso piano di senso dell’oggetto sia a sua volta ‘interfacciabile’ con i piani di senso restituiti dagli altri livelli metalinguistici. In sostanza, se il modo unico che di fatto conosciamo per descrivere il senso è quello di tradurlo (in una lingua o in un sistema semiotico diverso, in parole diverse della medesima lingua, in una lingua artificiale, e così via), il Percorso Generativo ci offre una architettura di lingue, invece che una sola, che hanno il vantaggio di essere strettamente interrelate fra esse costituendo una sorta di ‘gabbia’ che, per un istante, ci permette di catturare quella creatura sfuggente che chiamiamo «senso». Tutto ciò semplicemente per tornare a rinquadrare il nostro problema iniziale: qual è la posizione del figurativo nella semiotica generativa, e perché se affrontiamo il problema muovendo dall’analisi dei testi (o dei discorsi), come ben ci mostrano i lavori di Bertrand citati, esso apre a derive di senso che facciamo fatica a prevedere quando ci limitiamo a una definizione puramente teorico-deduttiva del figurativo quale luogo di convocazione lineare degli investimenti semantici più astratti? Vorremmo ora provare a porre la questione a partire da una piccola analisi testuale dedicata a uno dei racconti brevi di Oscar Wilde: The Selfish Giant 8.

7 Ci rendiamo conto che tale definizione può avere per alcuni un acre odore strutturale (o peggio strutturalista), invece che più moderne fragranze kantiane, fatte di categorie articolate «a priori», e indipendentemente da ogni occorrenza testuale, in cerca di manifestazioni, curiosamente smerciate con il nome di «fenomenologia». Si veda a questo proposito l’avvincente fantasy che oppone i buoni fenomenologi, cultori del fluido e del mutevole, come Lévi-Strauss, all’infida schiatta degli strutturalisti che, da Hjelmslev a Greimas, coltivano innominabili passioni per il discreto e per il categoriale, leggibile in La quête du sens di Jean-Claude Coquet (Paris, PUF 1997). Avvincente quasi quanto la dimostrazione di come ci si possa liberare dello studio dei testi, in quanto luoghi in cui il senso è già dato e conchiuso, a favore di un più opportuno studio del «discorso in atto», luogo in cui il senso può essere colto nel suo farsi. Dimostrazione condotta attraverso l’analisi di una fiaba di La Fontaine. 8 Seguiamo la traduzione italiana pubblicata in Racconti, Milano, Rizzoli BUR 1982. Il testo originale, riportato in appendice a questo capitolo, è reperibile anche sul sito web del Gutenberg Project. (www.gutenberg.org).

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2. THE SELFISH GIANT a. La figurativizzazione dei Valori e degli Umori Da un punto di vista narrativo, in modo che sembra abbastanza evidente, il racconto gioca sulla trasformazione della relazione fra i due Attanti Soggetto principali, rappresentati dall’Attore «Gigante» e dall’Attore collettivo «Bambini» 9, mediata dalla trasformazione della relazione che entrambi i Soggetti tendono a stabilire con l’Oggetto di Valore principale, il «Giardino», prima conteso poi condiviso. Mi sembra dunque opportuno iniziare con una descrizione, e con una sommaria analisi semica, delle trasformazioni a cui è sottoposta la figura del Giardino, proprio per la centralità conferita dalla narrazione a questo Oggetto di Valore. Nel corso del racconto, il Giardino viene messo in scena più volte, attraverso una serie mutevole di immagini, che possiamo così sintetizzare: il Giardino aperto, a inizio racconto, che è quello rigoglioso in cui i Bambini trascorrono felici i propri pomeriggi; il Giardino chiuso, recintato dal Gigante per mezzo di un alto muro, che in tal modo si trova a essere non solo inaccessibile ai Bambini ma anche totalmente separato dal mondo circostante, dalla «contrada»; il Giardino parzialmente riaperto dai Bambini, che vi accedono da una piccola breccia praticata nel muro; il Giardino completamente riaperto dal Gigante, che decide di condividerlo con i Bambini. A questi diversi Giardini vanno aggiunti, mi sembra, due Giardini intermedi: il Giardino non ancora completamente ripopolato dai Bambini, che presenta un angolo «freddo» là dove il Bambino più piccolo non riesce a raggiungere i rami di un albero senza l’aiuto dello stesso Gigante; e, simmetrico, il Giardino invernale, che presenta un albero meno «freddo» là nell’angolo più remoto, dove si trova il solo Bambino più piccolo. Infine, un ultimo Giardino, solo prefigurato: il Paradiso, in cui il Bambino piccolo che ha ormai svelato la propria identità promette che porterà il Gigante.

9 Usiamo il termine «Attore collettivo» in luogo del più diffuso «Attante collettivo» perché quest’ultimo termine ci sembra poco corretto, in quanto con il termine «Attante» ci si riferisce semplicemente a una posizione e a una funzione sintattica che in quanto tale può essere manifestato da checchessia e che resta indipendente da tale manifestazione. Così mentre ci sembra ragionevole immaginare un «Attore collettivo» quale manifestazione di un raggruppamento figurativo di più individui (la gente, la folla, la mandria, i due amici, ecc.), ci sembra che non sia in alcun modo possibile né teoricamente sensato definire una posizione sintattica come «collettiva».

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Prima immagine: il Giardino aperto. In questa prima presentazione, il Giardino viene così descritto: «Era un giardino grande e bellissimo, tappezzato di soffice erba verde. Qua e là sull’erba occhieggiavano fiori simili a stelle, e vi erano dodici peschi che a primavera si coprivano di delicati boccioli di rosa e di perla, e in autunno producevano frutti opulenti. Gli uccelli sedevano sugli alberi e cantavano con tanta dolcezza che i bambini interrompevano spesso i loro giochi per starli ad ascoltare» 10. Questo luogo di delizie viene ‘dipinto’ con una serie di attributi e di particolari che chiamano in causa tutti i diversi aspetti sensoriali: il visivo innanzitutto per mezzo delle notazioni cromatiche (il verde dell’erba, il rosa e il perla dei boccioli primaverili), che caratterizzano subito l’ambiente come policromo e sgargiante; il tattile attraverso la «sofficità» del tappeto erboso, l’acustico attraverso la dolcezza del canto degli uccelli, il gustativo e l’olfattivo, per sinestesia, attraverso la notazione dell’opulenza dei frutti e della varietà floreale. Questa pienezza sensoriale, connotata in modo marcatamente euforico («‘Come siamo felici, qui!’ dicevano gli uni agli altri»), si oppone in modo netto all’ambiente esterno, evocato e descritto nel momento in cui i Bambini, cacciati, cercano di giocare in strada, fuori dal Giardino: «Tentarono di giocare sulla strada, ma la strada era piena di polvere e irta di pietre taglienti, e a loro non piaceva». Questo nuovo ambiente, connotato in modo marcatamente disforico, non solo dal «a loro non piaceva», ma anche da una evocazione diretta della felicità perduta associata al Giardino («‘Come eravamo felici, lì!’ dicevano gli uni agli altri»), allestisce con pochissime notazioni un universo figurativo opposto a quello del Giardino, negando espressamente alcune delle sue qualificazioni positive, come quella tattile, che da «soffice» si trasforma in «duro e tagliente», come quella cromatica, che dalla policromia esplicita del Giardino si trasforma nella monocromia grigia (non-cromatica) implicita delle pietre e della polvere, o sopprimendo totalmente qualsiasi riferimento a tutti gli altri aspetti sensoriali: non c’è più udito, né olfatto, né gusto. Questa opposizione percettiva mi sembra che manifesti una prima opposizione più astratta, di tipo categoriale, fra un mondo che potremmo definire «organico», in quanto riferito ai regni vegetale e animale, 10 Tr. it., p. 56: «It was a large lovely garden, with soft green grass. Here and there over the grass stood beautiful flowers like stars, and there were twelve peach-trees that in the spring-time broke out into delicate blossoms of pink and pearl, and in the autumn bore rich fruit. The birds sat on the trees and sang so sweetly that the children used to stop their games in order to listen to them».

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fatto di fiori, frutta, uccelli, erba, e un mondo sterile e «inorganico», riferito al regno minerale, fatto solo di polvere e di pietra. L’opposizione sembra completa ed esclusiva in quanto fuori dal Giardino non sono presenti marche semiche riferibili all’organico e viceversa, o quasi, per il Giardino. O quasi, perché in realtà abbiamo due marche riferibili al regno minerale all’interno del Giardino: vi troviamo infatti «fiori simili a stelle» e «boccioli di perla». Queste notazioni metaforiche, che intendo comunque assumere pienamente, sembrano riferirsi a un carattere di luminosità e brillantezza proprio di un minerale, prezioso o astrale, opposto al minerale opaco che caratterizza l’esterno del Giardino. Per ora ci limiamo a registrare questo elemento che, credo, ci tornerà utile in seguito. L’organizzazione figurativa del racconto ci presenta dunque un primo sistema oppositivo che possiamo schematizzare come segue:

Giardino aperto

Esterno: Strada

Policromatico (sgargiante) Sonoro (canoro) Soffice Gustoso Odoroso

Non cromatico (grigio) Non sonoro Duro e Tagliente Non gustoso Non odoroso

Vegetale e animale Organico: vitale Euforico

Minerale Inorganico: sterile Disforico

Seconda immagine: il Giardino chiuso. Il Giardino ci viene ripresentato dopo la sua chiusura da parte del Gigante, che toglie ai Bambini la possibilità di frequentarlo, con una descrizione che lo oppone nuovamente allo spazio esterno, questa volta individuato più genericamente con «la contrada». Il Giardino viene mostrato, con una lunga descrizione, come decisamente più povero, figurativamente, rispetto al Giardino aperto iniziale 11. In dettaglio, il Giardino 11 «Only in the garden of the Selfish Giant it was still winter. The birds did not care to sing in it as there were no children, and the trees forgot to blossom. Once a beautiful flower put its head out from the grass, but when it saw the notice-board it was so sorry for the children that it slipped back into the ground again, and went off to sleep. The only people who were pleased were the Snow and the Frost. ‘Spring has forgotten this garden – they cried – so we will live here all the year round’. The Snow covered up the grass with her great white cloak, and the Frost painted all the trees silver. Then they invited the North Wind to stay with them, and he came. He was wrapped in furs, and he roared all

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è ora privo di uccelli e dunque del loro canto; privo di fiori e di germogli e dunque del loro profumo e dei loro colori; privo di erba, in quanto coperta dal manto nevoso, e dunque del suo colore e della sua ‘sofficità’; privo di frutti, e dunque del loro colore e del loro gusto. Abbiamo dunque innanzitutto una serie di caratterizzazioni negative, che hanno la funzione di marcare esplicitamente le differenze rispetto alla prima immagine del Giardino, a cui seguono una serie di attributi, definiti positivamente e associati ai nuovi Attori che si installano permanentemente nel Giardino. La Neve, il Gelo, il Vento del Nord e la Grandine portano con sé, esplicitamente: sotto l’aspetto visivo, una combinazione di varianti del bianco e del grigio (il bianco candido della Neve, l’argento che il Gelo stende sugli alberi, il grigio della Grandine turbinante); sotto l’aspetto acustico, rumori sibilanti e tambureggianti; sotto l’aspetto tattile, la durezza della Grandine che rompe le tegole; mentre tutti gli altri aspetti sensoriali restano semplicemente assenti o negati. All’opposto, la Contrada ci si presenta decisamente ‘vivificata’ rispetto alla Strada precedentemente opposta al Giardino («Poi venne la Primavera, e tutta la contrada era profumata di giovani fiori e cinguettante di uccellini»; e ancora «L’Autunno portò in ogni giardino frutti dorati, ma al giardino del Gigante non ne portò neppure uno»). Ci troviamo dunque di fronte, mi sembra, a una inversione completa rispetto al primo sistema individuato: Giardino chiuso Monocromo Sonoro (rumoroso) Duro Non gustoso Non odoroso Minerale Non organico Disforico

Esterno: Contrada Policromatico (sgargiante) Sonoro (canoro) Gustoso (frutti) Odoroso (fiori, frutti) Vegetale e animale Organico: vitale Euforico

La situazione, dopo la chiusura del Giardino da parte del Gigante, appare dunque rovesciata, ma il sistema di valori di fondo si trova a essere riconfermato e anzi, attraverso la reiterazione, consolidato: il mondo può essere suddiviso fra ciò che è «organico» e vitale, associaday about the garden, and blew the chimney-pots down. ‘This is a delightful spot – he said – we must ask the Hail on a visit’. So the Hail came. Every day for three hours he rattled on the roof of the castle till he broke most of the slates, and then he ran round and round the garden as fast as he could go. He was dressed in grey, and his breath was like ice».

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to ai regni vegetali e animali e che viene manifestato da una pienezza percettiva che coinvolge tutti gli aspetti sensoriali e ciò che è «inorganico» e privo di vita, associato al regno minerale, e che viene manifestato o da povertà sensoriale o da una sensorialità «negativa» (rumore, durezza, grigiore). Il primo appare caratterizzato euforicamente, il secondo disforicamente. Terza immagine: il Giardino violato. Del Giardino ci viene data una terza immagine quando i Bambini riescono a reintrodurvisi attraverso una breccia praticata nel muro. In questa terza descrizione, l’opposizione fra interno ed esterno scompare, sostituita da una articolazione interna in cui si confrontano, da un lato, gran parte del Giardino stesso, caratterizzato allo stesso modo del Giardino aperto (dunque organico, vitale, con presenze animali e vegetali) e, dall’altro, un solo angolo remoto del Giardino, dove il bambino piccolo non riesce a salire sull’albero, in cui permangono le caratterizzazioni disforiche del Giardino chiuso: Su ogni albero c’era un bambino. E gli alberi erano così contenti di rivedere i bambini che subito si erano ricoperti di boccioli e ora agitavano dolcemente le loro braccia sulle teste dei bambini. Gli uccelli volavano tutt’attorno e cinguettavano felici, e i fiori facevano capolino sul prato e ridevano. Era una scena deliziosa, solo in un angolo del giardino era ancora inverno. Era l’angolo estremo, e in esso stava un ragazzino. Era tanto piccolo che non arrivava a toccare i rami dell’albero, e vi girava tutt’attorno, piangendo disperatamente. Il povero albero era ancora coperto di gelo e di neve, e il Vento del Nord gli soffiava e sbuffava sopra 12.

Il sistema oppositivo non varia, così come non variano le caratterizzazioni foriche a esso associate, qui ben sottolineate dal contrasto fra i Bambini ridenti e il Bambino che piange; è solo la sua distribuzione topologica a essere modificata, cosicché organico e inorganico si trovano ora a convivere dentro lo stesso spazio del Giardino, spazio che è ora solo parzialmente aperto, dalla breccia che i Bambini hanno aperto nel muro. L’angolo remoto che appare inglobato all’interno del Giardino trasforma quella che appariva come una opposizione esclusiva fra «inorganico» da un lato e «organico» e vitale dall’altro, in una struttura di integrazione in cui ciò che è «organico» e vitale ingloba al suo interno ciò che è «inorganico». 12

Tr. it., p. 58.

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Quarta immagine: il Giardino riaperto Il Gigante comprende il suo errore e riapre definitivamente il Giardino, che torna a essere caratterizzato come il Giardino aperto iniziale («Il più bel giardino che mai fosse esistito»), con tutte le sue marche euforicamente «organiche» e vitali, tanto che anche le stagioni fredde, in precedenza associate all’«inorganico» e all’assenza di vita, si trovano a essere ora ricomprese come parti di uno stesso organismo vitale («Ormai non odiava più l’Inverno, poiché sapeva ch’esso era solo la Primavera addormentata, e che in quel periodo i fiori si riposavano»). L’opposizione forte fra il carattere vitale dell’«organico» e il carattere non-vitale dell’«inorganico» viene ora mutata in una articolazione ciclica fra veglia e sonno, e in tal modo ciò che si presentava come disforicamente legato all’assenza di vita viene espulso dal mondo costruito dal racconto. Dunque, la trasformazione narrativa dell’egoismo del Gigante nella opposta generosità modifica l’universo valoriale di riferimento per mezzo di una operazione di ‘attenuazione’, con il passaggio da una opposizione valoriale forte come quella vita vs morte in una sua variante debole, come quella veglia vs sonno, in cui entrambi i termini sono ricompresi all’interno di un ciclo di vita. La morte, associata all’«inorganico» e manifestata da un marcato impoverimento sensoriale, che l’egoismo del Gigante aveva convocato nell’universo narrativo, viene così allontanata. Quinta immagine: l’ultimo Giardino L’ultima immagine che ci viene proposta del Giardino ce lo mostra con una configurazione opposta rispetto a quella del Giardino parzialmente aperto: come quello ripropone una struttura contrastiva all’interno del Giardino stesso, con un angolo remoto che si oppone figurativamente al resto dell’ambiente, immerso nel sonno invernale e dunque ammantato momentaneamente di neve: A un tratto si fregò gli occhi per la meraviglia e tornò a guardare e a riguardare più volte. Era veramente uno spettacolo straordinario. Nell’angolo più remoto del giardino c’era un albero tutto ricoperto di squisiti boccioli bianchi. Aveva rami d’oro da cui pendevano frutti d’argento, e sotto di esso stava il ragazzino ch’egli aveva amato 13.

Dunque mentre nel Giardino parzialmente riaperto avevamo un angolo ancora ‘morto’ in opposizione a un Giardino vivificato, qui ab13

Tr. it., p. 60.

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biamo un angolo che potremmo dire ‘risvegliato’ rispetto al resto addormentato. Inoltre, mentre prima avevamo un contrasto figurativo forte, in quanto si opponeva un universo figurativo ricco e rigoglioso, policromo e sonoro con evocazioni di profumi e sapori a un universo sterile caratterizzato dal solo gelo; ora, mi sembra, abbiamo una opposizione attenuata, in quanto a opporsi al candore del Giardino troviamo sì fiori (boccioli) e frutti ma di un colore, unico tratto sensibile esplicitato, particolare, in quanto sembra rinviare anch’esso più a un universo minerale, dunque «inorganico», che a un universo vegetale, dunque «organico». Infatti abbiamo «boccioli bianchi» (come lo è la neve), rami «d’oro» e frutti «d’argento». Da un lato questa opposizione attenuata ci sembra funzionale alla manifestazione del nuovo contrasto valoriale fra veglia e sonno, attenuazione di quello iniziale fra vita e morte; dall’altro, ci sembra interessante perché porta con sé una variazione importante: se infatti fino a ora le marche di «inorganicità» apparivano costantemente associate all’assenza di vita e caratterizzate disforicamente, qui le troviamo associate ad un ‘risveglio’ dunque ad una marca vitale, e caratterizzate euforicamente. All’articolazione iniziale che, benché variata nella dislocazione spaziale, restava stabile nelle associazioni: Giardino aperto Policromatico (sgargiante) Sonoro (canoro) Soffice Gustoso Odoroso Vegetale e animale Organico: vitale Euforico

Esterno: Strada Non cromatico (grigio) Non sonoro Duro e Tagliente Non gustoso Non odoroso Minerale Inorganico: sterile Disforico

Viene ora sostituita un’articolazione di questo genere: Giardino addormentato Monocromia (bianco) Vegetale e animale assopiti Organico ‘sospeso’ Non forico («non odiava più l’Inverno»)

Angolo risvegliato Cromie metalliche (minerali) Vegetale + Minerale Organico + Inorganico Euforico

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Ancora una volta, come nel Giardino parzialmente riaperto, un mondo «inorganico» viene incorporato in un mondo «organico», ma contrariamente a quanto accadeva là ora è l’«inorganico» a caratterizzarsi come vitale, associato al vegetale, e a caratterizzarsi positivamente da un punto di vista forico rispetto a un «organico» ‘sospeso’, figurativamente spoglio e foricamente neutro. Le trasformazioni figurative a cui è sottoposta la rappresentazione del Giardino mettono dunque in gioco una trasformazione valoriale che ci porta da una caratterizzazione negativa dell’«inorganico», associato disforicamente alla morte, a una sua caratterizzazione positiva, associata euforicamente a un ‘risveglio’, o meglio, a una veglia dentro il sonno. Ci sembra abbastanza evidente la correlazione di questa articolazione con l’organizzazione narrativa del racconto, che in conclusione tematizza la morte del Gigante, la quale non viene presentata semplicemente come fine della sua vita, e dunque come opposta alla vita, ma come prosecuzione della vita dentro un «altro Giardino», di cui l’ultimo Giardino, con il suo strano «inorganico» vegetale, sembra costituire una prefigurazione, forse già annunciata dai «fiori come stelle» e dai «boccioli di perla» del primo Giardino, e dunque come un ‘risveglio’ rispetto a una morte che non è che sonno. La figurazione dunque non ha qui la semplice funzione di ‘vestire’ le strutture narrative ai fini della loro manifestazione, ma assume una vera e propria funzione argomentativa, in quanto il racconto manipolando le immagini manipola allo stesso tempo i valori che quelle sono chiamate a manifestare, e proprio in ciò ci pare che risieda il funzionamento di quello che viene chiamato «ragionamento figurativo». Le immagini allestite dall’organizzazione figurativa del racconto assumono anche la natura di ‘grafici’ logici, le cui trasformazioni comportano trasformazioni relazionali a livello profondo. b. Una mitografia del tempo Oltre a manifestare i valori astratti e i loro mutamenti, le trasformazioni figurative di questo racconto hanno una correlazione che ci sembra evidente anche con altre dimensioni semiotiche, come quella spaziale legata alle operazioni di «apertura» e di «chiusura», completa o parziale, dello spazio, che abbiamo evocato, senza soffermarci esplicitamente su di essa, nella denominazione dei diversi Giardini; o come quella narrativa: è coerente e chiaro il rapporto fra le caratterizzazioni figurative del Giardino e gli stati di giunzione dei Bambini con esso.

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Ci interessa però soffermarci più in particolare su una dimensione che in questo racconto ci sembra particolarmente significativa, quella dell’organizzazione della temporalità. Anche il tempo infatti, come forse si sarà già notato, presenta una molteplicità di forme che si associano alle diverse immagini del Giardino. Inizialmente, al di là di qualche notazione temporale caratteristica delle narrazioni fiabesche (o mitologiche), come i sette anni trascorsi dal Gigante presso il suo remoto collega, abbiamo un regime di temporalità di tipo lineare: i giorni si susseguono e così gli anni. Il tempo del Giardino è lo stesso di ciò che lo circonda. Con la chiusura del Giardino assistiamo poi a una riarticolazione della temporalità, infatti fuori dal Giardino il regime temporale presentato è di tipo ciclico, con una evocazione del susseguirsi delle belle stagioni, mentre dentro il Giardino abbiamo una temporalità bloccata, con la permanenza di una sola stagione, l’Inverno. Il Giardino parzialmente riaperto mostra contrastivamente due forme di temporalità ‘bloccata’, in quanto l’Inverno permane nell’Angolo remoto, mentre al contrario una sorta di Primavera permanente sembra diffondersi nel resto del Giardino. Il Giardino riaperto torna a combinare un regime lineare con uno circolare: il tempo scorre mentre il Gigante invecchia e le stagioni si succedono ciclicamente. Anche l’ultimo Giardino, allo stesso modo di quello parzialmente riaperto, e come quello ‘Giardino di passaggio’, chiama in causa due forme diverse di temporalità: quella del tempo «bloccato» e «chiuso» della morte del Gigante e, all’opposto, quello infinitamente aperto dell’Eternità evocata. Abbiamo dunque una serie di forme temporali che possiamo provare a correlare con l’organizzazione valoriale che abbiamo sopra descritto, implicata dalle figure che manifestano il Giardino. Per tutto il racconto sembra stabilirsi una correlazione stabile fra le forme dell’«inorganico» e una temporalità ‘bloccata’ in cui il tempo, soprattutto quello circolare che è quello dei cicli vitali, si ferma e si rifiuta di scorrere: l’«inorganico» è disforicamente a-temporale e in ciò si correla facilmente al carattere di morte, di assenza di vita che abbiamo già riconosciuto; al contrario, alle forme «organiche» e vitali si associa non solo lo scorrere del tempo ma una sorta di pienezza temporale che dello scorrere riesce a selezionare solo i momenti vitalmente più densi, quelli del rigoglio naturale primaverile e autunnale. Ma che cosa succede quando, alla fine del racconto, le opposizioni si attenuano e al contrasto fra vita e morte si sostituisce quello fra sonno e veglia, e quando l’«inorganico», prima associato all’assenza di vita, si combina con l’«organico» vegetale per produrre una forma

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nuova di vita, una sorta di ‘vita minerale’? Succede che anche il tempo si trasforma: se il Giardino parzialmente aperto ci porta una negazione «inorganica» della temporalità all’interno della pienezza «organica» e vitale dello scorre del tempo, l’ultimo Giardino ci porta una ‘vita inorganica’ minerale, e dunque permanente come lo era la morte, ma di segno opposto, all’interno di una assenza di vita che è solo momentanea, quale quella della natura assopita. L’ultimo Giardino ci porta una forma di vita senza tempo all’interno di una negazione temporanea della vita: altro non può essere ci sembra, del tutto coerentemente con lo spirito di questa favola, che il tempo «eterno» promesso al Gigante dal Bambino e che caratterizzerà il Giardino «a venire». La morte fisica del Gigante, che i Bambini scopriranno disteso sotto l’albero, non è che un sonno momentaneo a cui succederà una vita senza scorrere del tempo, quella dei «frutti d’argento», dei «rami d’oro», delle «stelle» per fiori e delle «perle» per boccioli. c. La figurativizzazione delle relazioni: il gigantesco e il minuscolo Se il termine «egoista» del titolo portava la nostra attenzione verso la relazione con il valore e, per quanto concerne la figuratività, verso i modi di messa in scena dell’Oggetto di valore, l’altro termine del titolo «Gigante» attira direttamente la nostra attenzione su una caratteristica figurativa del Soggetto a cui si attribuisce una particolare relazione con il valore. Qualificazione figurativa che ci sembra tanto più interessante in quanto non sembra sussistere isolatamente, solo per evocare, fiabescamente, una certa paurosa singolarità, ma anzi sembra entrare anch’essa in un gioco di relazioni e di contrasti: se da un lato abbiamo un Gigante, infatti, e cioè un individuo di enormi dimensioni, l’antagonista ci viene presentato, all’opposto, come minuscolo: i Bambini, e anzi troviamo a esemplificare questa minutezza un «bambino piccolissimo», più piccolo di tutti gli altri, che sarà responsabile della trasformazione del Gigante da egoista a generoso. Mi sembra che questo contrasto estremo fra il «grandissimo» e il «piccolissimo», che si risolverà in una progressiva prossimità, abbia nel racconto una funzione precisa che è quella di manifestare la trasformazione delle relazioni, accompagnando in controcanto tutto quel processo di attenuazione e di mediazione dei contrasti di cui abbiamo già detto, anzi, potremmo forse dire che da questo punto di vista il racconto è proprio la storia della riduzione di questa estrema differenza figurativa. Ma proviamo a seguire anche questo percorso all’interno del testo. Per tutta la prima parte del racconto questa caratterizzazione opposi-

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tiva estrema fra il «gigantesco» e il «minuto» viene istituita e ribadita non solo attraverso la qualificazione dei personaggi ma anche attraverso la descrizione dei rispettivi strumenti usati per regolare l’accessibilità al Giardino, che assumono dunque narrativamente lo statuto di valori modali: il muro «altissimo» eretto dal Gigante («Perciò vi costruì tutt’attorno un muro altissimo, e fece affiggere un cartello: ‘i trasgressori saranno puniti’» 15), che pone i Bambini in condizione di non-poter-fare (non potersi congiungere con il Giardino), si oppone infatti alla «piccola breccia» che i Bambini praticano nel muro («Da una piccola breccia nel muro i Bambini erano strisciati in giardino, e ora sedevano sui rami degli alberi» 16) e che li dota della possibilità di poter-fare (potersi congiungere con il Giardino). Oltre a ciò, il carattere estremo dell’opposizione, che ci sembra manifestare abbastanza palesemente l’inconciliabilità delle posizioni, emerge anche dal modo in cui i personaggi vengono localizzati all’interno dello spazio: il Gigante, rinchiuso nel castello «guarda dall’alto» il suo Giardino, all’opposto i Bambini vi «strisciano dentro». Subito dopo però, già nella sequenza della breccia, possiamo osservare un duplice movimento simmetrico di riduzione della distanza, proprio nel momento in cui il Gigante capisce: i Bambini «salgono» sugli alberi, mentre il Gigante «scende» in Giardino. Il Gigante resta un Gigante e i Bambini restano Bambini, ma il Gigante «scende» mentre i Bambini «salgono». Solo un Bambino non riesce a salire, il più piccolo, ma ad aiutarlo provvederà il Gigante stesso («Il Gigante gli si avvicinò di soppiatto, lo prese dolcemente nella sua grossa mano e lo posò sull’albero» 17); dunque il Gigante stesso opera una riduzione della differenza dimensionale, prima scendendo e poi sollevando il Bambino piccolo, tanto da portarlo alla propria altezza («e il ragazzino tese le braccia e cinse il collo del Gigante e lo baciò» 18). E di fatto in questo momento la distanza fra il Gigante e i Bambini appare azzerata, come sancisce il ritorno festoso dei Bambini e della Primavera. Da questo momento il Gigante non guarda più i Bambini dall’alto, ma scende in Giardino e gioca con loro, e anzi con il passare del tempo si ritroverà a condividere l’altezza dei Bambini osservandoli dalla poltrona su cui trascorre, sdraiato, i pomeriggi. Come già per l’articolazione valoriale, a questo punto il processo di trasformazione sembra concluso: le differenze sono state annullate

Tr. it., p. 56. Tr. it., p. 58. 17 Tr. it., p. 59. 18 Ibidem. 15 16

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e la disparità iniziale azzerata, ma il racconto introduce un passaggio ulteriore con quello che abbiamo chiamato «ultimo Giardino» che anche in questa occasione, riguardo all’organizzazione dimensionale e potremmo dire prossemica, in quanto concerne la trasformazione dei rapporti di distanza fra i personaggi, ci propone una inversione rispetto al Giardino parzialmente aperto. Da un lato là, per l’ultima volta, il Gigante aveva guardato i Bambini dall’alto in un Giardino che era ancora solo suo, mentre qua saranno i Bambini a guardare dall’alto il Gigante per l’ultima volta, in un Giardino che è ormai solo loro; dall’altro lato, così come allora il Gigante aveva sollevato il Bambino più piccolo alla propria altezza, ora è il Bambino che solleva il Gigante alla propria altezza («Oggi verrai con me nel mio giardino che è il Paradiso» 19), azzerando per sempre l’intero sistema di differenze su cui il racconto si era andato costruendo. 3. CONCLUSIONI L’interesse per la dimensione figurativa dei testi, sorretta dalle descrizioni e dalle qualificazioni, non è certo esclusivo della semiotica, come abbiamo mostrato nell’introduzione, ma quello semiotico resta un approccio peculiare, in quanto non mira a cogliere evoluzioni e trasformazioni estetiche, o di poetica, ma a studiare in che modo questa dimensione contribuisce alla produzione di «significazione». Ora, come premesso all’inizio di questo capitolo, ci sembra che il tentativo di ridurre teoricamente il problema della figuratività a quello di una semplice articolazione di marche semantiche riconducibili alla sfera percettivo-sensoriale, in vista della produzione di «effetti di realtà» più o meno marcati, entri in conflitto con la ricchezza delle aperture simboliche che l’analisi di quelle stesse figure può rivelare, come già emergeva efficacemente nel Maupassant di Greimas 20 e come speriamo di aver contribuito a mostrare con questa analisi del Gigante egoista. Queste difficoltà teoriche potrebbero derivare da un aspetto del livello discorsivo dei testi che forse non è stato sufficientemente studiato, e che potrebbe essere considerato come una estensione dell’affermazione hjelmsleviana secondo cui non si danno testi, per quanto semplici, che possano essere ricondotti a una sola forma. Per

Tr. it., p. 61. Algirdas Julien Greimas, Maupassant. La semiotique du Texte, Paris, Seuil 1976 (tr. it. Maupassant. Esercizi di semiotica del testo, Torino, Centro scientifico 1995). 19 20

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Hjelmslev ciò significava che a formare un testo (verbale) concorrevano, oltre alla semiotica linguistica denotativa primaria, anche una serie di semiotiche connotative specifiche (forme stilistiche, gergali, ecc.). Quello che qui vorremmo invece suggerire è che il livello discorsivo delle semiotiche è il luogo proprio di incorporazione di semiotiche diverse, linguistiche e non linguistiche, chiamate ad articolare le strutture più profonde della significazione secondo forme che sono loro peculiari. Ciò significherebbe che il linguaggio verbale non solo funziona come sistema modellizzante primario rispetto alle altre semiotiche, nell’accezione dei semiotici sovietici, ovvero come sistema in cui possono essere tradotti e detti i contenuti degli altri sistemi, ma che funzionerebbe anche come luogo di articolazione secondario di altri sistemi semiotici. Sarebbe allora a causa di ciò che dentro un testo verbale possiamo trovare all’opera semiotiche visive e plastiche, poiché le figure ivi allestite possono essere trattate come in un testo visivo 21 e rese parimenti capaci di manifestare contenuti propri; ma anche semiotiche spaziali, poiché l’articolazione e l’allestimento dei luoghi descritti, i loro regimi di accessibilità, ecc. possono assumere valore significante al pari dei luoghi vissuti; e ancora semiotiche prossemiche, semiotiche gestuali, e così, via. In Tempo e racconto, Ricœur 22 parla di una «quasi-temporalità» per rendere conto degli effetti di senso temporali costruiti all’interno dell’universo di finzione; in modo analogo potremmo qui parlare del dipanarsi di tutta una serie di «quasi-semiotiche» ognuna portatrice di un proprio contributo semantico alla significatività complessiva del testo. Anche se a nostro avviso non vi è nessuna necessità di apporre il «quasi» alle diverse forme semiotiche allestite dal testo, si tratta infatti di forme pienamente significanti e analizzabili nella loro autonomia, e che, almeno dal punto di vista della generazione e della strutturazione del senso, che è quello che ci interessa in quanto è l’unico pertinente dal nostro punto di vista, non sono diverse dalle semiotiche ‘praticate’ fuori dai testi narrativi: le articolazioni spaziali sono significanti in ambito architettonico o urbanistico così come lo sono nella 21 Si veda a questo proposito Lucia Corrain e Tarcisio Lancioni, Problemi di traduzione intersemiotica, in Lucia Corrain (a cura di), Leggere l’opera d’arte 2. Dal figurativo all’astratto, Bologna, Esculapio 2000. 22 Paul Ricœur, Temps et Récit 1. L’intrigue et le récit historique, Paris, Seuil 1983 (tr. it. Tempo e racconto Vol. 1. Milano, Jaka Book 1986); Temps et Récit 2. La configuration du temps dans le récit de fiction, Paris, Seuil 1985 (tr. it. Tempo e racconto Vol. 2: La configurazione nel racconto di finzione, Milano, Jaka Book 1987); Temps et Récit 3. Le temps raconté, Paris, Seuil 1985 (tr. it. Tempo e racconto Vol. 3: Il tempo raccontato, Milano, Jaka Book 1988).

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definizione delle gerarchie sociali, nella valorizzazione delle dinamiche di comportamento, nell’articolazione delle rappresentazioni teatrali o pittoriche, nell’organizzazione delle dislocazioni, dei movimenti o dei regimi di accessibilità all’interno di una narrazione, si tratti di un racconto di finzione, di una narrazione storica o del resoconto/descrizione di una qualsiasi attività o impresa. Più in generale, ciò che ci sembra poco pertinente o peggio ancora fuorviante è l’impostazione tradizionale del rapporto fra l’universo delle rappresentazioni: verbali, pittoriche, cinematografiche, ecc. e l’universo delle pratiche, ovverosia, ancora più in generale, il cosiddetto problema del «riferimento». È nostra convinzione che la condizione umana sia definita da un’immersione costante entro un orizzonte di senso unico, variamente articolato ma senza differenze qualitative: non abbiamo «segni» di cui bisogna spiegare come possano riferirsi a oggetti del mondo (o a classi degli stessi), abbiamo esperienze sensate del mondo sia quando leggiamo un racconto di viaggio sia quando viaggiamo. È il mondo «in sé» a cui i segni dovrebbero riferirsi a essere equivoco, o meglio, continuamente equivocato: questo infatti non si dà, o almeno non si dà soltanto, come un universo di ‘cose’ brute indipendenti da noi ma ci si dà come orizzonte di senso ed è in quanto tale che noi viviamo in esso e ad esso ci rapportiamo; il «senso» si dà come effetto a partire da un lavoro interpretativo continuo che tende a conciliare e a rendere compatibili fra loro le diverse esperienze che ne abbiamo e che si configurano tutte come pratiche di comprensione e di costruzione del senso, dunque come pratiche di tipo semiotico. Tornando a Ricœur, o a Geertz 23, a cui Ricœur rinvia ulteriormente, la nostra vita nel mondo è sensata nella misura in cui esiste una «naturale» articolazione semiotica delle pratiche quotidiane, che precede qualsiasi costruzione esplicitamente rappresentativa di quella stessa realtà e che costituisce un presupposto per quelle stesse rappresentazioni e su cui quelle rappresentazioni si basano. In tal modo il «riferimento» appare una questione secondaria, o fuorviante, perché la sua stessa posizione può darsi solo come riflessione a posteriori, dopo che una singola forma semiotica, ad esempio quella linguistica, è stata isolata e resa autonoma, mentre la condizione di esercizio abituale di quella forma semiotica non è mai, salvo regimi particolari di sperimentazione, autonoma ma è sempre di carattere «sincretico» 24. 23 Clifford Geertz, The Interpretation of Cultures, New York, Basic Books 1973 (tr. it. Interpretazioni di culture, Bologna, Il Mulino 1987). 24 Per una più ampia discussione si veda Tarcisio Lancioni e Francesco Marsciani, La poetica come testo. Per una etnosemiotica del mondo quotidiano, in Gianfranco Marrone; Nicola Dusi; Giorgio Lo Feudo (a cura di) Narrazione ed esperienza, Roma, Meltemi 2007.

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Ora, e questo è il punto da cui siamo partiti e a cui vogliamo tornare: questa circolazione del senso fra semiotiche diverse, quale condizione della costruzione di un orizzonte di senso «grosso modo» omogeneo non si attua solo nel confronto fra rappresentazioni e pratiche ma caratterizza al loro interno sia le rappresentazioni, entro cui si articolano semiotiche diverse, sia le pratiche che articolano fra loro, in continuazione, forme semiotiche diverse, e che solo a posteriori, analiticamente, è possibile separare e analizzare autonomamente. Sospettiamo in realtà che questa caratteristica non sia esclusiva del verbale ma sia una caratteristica di quella dimensione del senso che riusciamo a cogliere al livello discorsivo del Percorso Generativo di qualsiasi testo, e che quindi ogni testo possa articolare anche, secondariamente, modelli precipui di altre semiotiche, basti vedere come la pittura è in grado di articolare, in modo più che efficace, semiotiche prossemiche, gestuali, spaziali, ecc. Dunque, al livello discorsivo, ovviamente in maniera diversa a seconda del singolo testo e della tipologia della semiotica primaria che quel testo manifesta, ci è possibile cogliere la capacità che i testi hanno di articolare una molteplicità di semiotiche diverse e di farle lavorare sia in modo omogeneo sia in modo discorde e conflittuale, fino a generare vere polifonie di semiotiche e non solo di voci 25, variandone le rilevanze e gli statuti reciproci, con funzioni di commento, antitesi ironica, contrappunto, e così via. Nell’esempio che abbiamo proposto è emerso l’incrocio di alcune di queste semiotiche all’interno di un testo verbale, di un racconto, dove ci sembra che sia opportuno articolare invece che una sola categoria di «figuratività» una serie di questioni semiotiche diverse: una strettamente figurativa con il suo sostrato plastico, con una vera e propria semiotica visiva in opera; una di tipo spaziale, con problemi di allestimento figurativo di ambienti e di variazione dei loro regimi di accessibilità per i diversi attori in gioco; una di tipo prossemico e cinesico, in cui assumono valore significante i movimenti e le relazioni di distanza fra personaggi, tutte in relazione con la più profonda e comune strutturazione narrativa del racconto La tesi che vorremmo sostenere è che queste semiotiche ‘imbricate’ siano capaci di sostenere una sorta di controcanto di commento alla narrazione degli eventi, in forma di ragionamento figurato, che cer25 Importante, in questa prospettiva, il lavoro precursore di Michail Bachtin. Si veda in particolare il suo Voprosy literatury i estetiki, Izdatel’stvo, Chudoˇzestvennaia literatura 1975 (tr. it. Estetica e romanzo, Torino, Einaudi 1979). Per la rilevanza del confronto dialogico-traduttivo fra strutture semiotiche diverse nei processi creativi si vedano invece, in particolare, i lavori di Jurij M. Lotman.

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ca di costruire una mediazione accettabile fra forme diverse e incompatibili di temporalità rappresentata, ad esempio: tempo della vita quotidiana, tempo ciclico dei fenomeni atmosferici, tempo mitico e ‘tempo’ eterno, costruendo al proprio interno, per trasformazioni successive, gli strumenti per ‘dare figura sensibile’ a concetti astratti come quello della vita eterna; oppure di manifestare sensibilmente un processo continuo di trasformazione delle relazioni fra i personaggi mostrando figurativamente come questi possono progressivamente avvicinarsi fino ad annullare ogni distanza. Nulla di nuovo, da questo punto di vista, ma solo una ennesima variazione sul tema levi-straussiano del mito come conciliazione di opposti, dunque. In realtà, vorremmo suggerire che la conciliazione di opposti è una delle possibili funzioni articolate dall’intreccio di semiotiche ‘imbricate’. La conciliazione di opposti si configura infatti come lavoro di mediazione fra concetti già dati nella cultura. È nostra impressione invece (al di là del fatto che non ci occupiamo qui di un mito ma solo di un racconto favolistico che fa uso di materiale mitico) che il testo in oggetto, ma vorremmo meglio dire ‘i testi’, non si limitino a giustapporre e articolare categorie «già date» ma che possano lavorare alla costruzione di categorie e di concetti in modo originale, proponendosi come vere e proprie riflessioni, anche se in controcanto e non esplicite e dirette, sui modi di concepire le dinamiche del senso all’interno di una cultura; e crediamo, ci si perdoni l’atto di fede, che la «figuratività» sia una delle dimensioni centrali di questo lavoro testuale, dimensione all’interno della quale le diverse semiotiche hanno la possibilità non solo di ‘dire’ semiotiche diverse ma di incorporarle e di farle lavorare congiuntamente.

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Appendice al Capitolo 1 THE SELFISH GIANT

Every afternoon, as they were coming from school, the children used to go and play in the Giant’s garden. It was a large lovely garden, with soft green grass. Here and there over the grass stood beautiful flowers like stars, and there were twelve peach-trees that in the spring-time broke out into delicate blossoms of pink and pearl, and in the autumn bore rich fruit. The birds sat on the trees and sang so sweetly that the children used to stop their games in order to listen to them. «How happy we are here!» they cried to each other. One day the Giant came back. He had been to visit his friend the Cornish ogre, and had stayed with him for seven years. After the seven years were over he had said all that he had to say, for his conversation was limited, and he determined to return to his own castle. When he arrived he saw the children playing in the garden. «What are you doing here?» he cried in a very gruff voice, and the children ran away. «My own garden is my own garden,» said the Giant; «any one can understand that, and I will allow nobody to play in it but myself.» So he built a high wall all round it, and put up a notice-board. TRESPASSERS WILL BE PROSECUTED He was a very selfish Giant. The poor children had now nowhere to play. They tried to play on the road, but the road was very dusty and full of hard stones, and they did not like it. They used to wander round the high wall when their lessons were over, and talk about the beautiful garden inside. «How happy we were there,» they said to each other. Then the Spring came, and all over the country there were little blossoms and little birds. Only in the garden of the Selfish Giant it was still winter. The

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birds did not care to sing in it as there were no children, and the trees forgot to blossom. Once a beautiful flower put its head out from the grass, but when it saw the notice-board it was so sorry for the children that it slipped back into the ground again, and went off to sleep. The only people who were pleased were the Snow and the Frost. «Spring has forgotten this garden,» they cried, «so we will live here all the year round.» The Snow covered up the grass with her great white cloak, and the Frost painted all the trees silver. Then they invited the North Wind to stay with them, and he came. He was wrapped in furs, and he roared all day about the garden, and blew the chimney-pots down. «This is a delightful spot,» he said, «we must ask the Hail on a visit.» So the Hail came. Every day for three hours he rattled on the roof of the castle till he broke most of the slates, and then he ran round and round the garden as fast as he could go. He was dressed in grey, and his breath was like ice. «I cannot understand why the Spring is so late in coming,» said the Selfish Giant, as he sat at the window and looked out at his cold white garden; «I hope there will be a change in the weather.» But the Spring never came, nor the Summer. The Autumn gave golden fruit to every garden, but to the Giant’s garden she gave none. «He is too selfish,» she said. So it was always Winter there, and the North Wind, and the Hail, and the Frost, and the Snow danced about through the trees. One morning the Giant was lying awake in bed when he heard some lovely music. It sounded so sweet to his ears that he thought it must be the King’s musicians passing by. It was really only a little linnet singing outside his window, but it was so long since he had heard a bird sing in his garden that it seemed to him to be the most beautiful music in the world. Then the Hail stopped dancing over his head, and the North Wind ceased roaring, and a delicious perfume came to him through the open casement. «I believe the Spring has come at last,» said the Giant; and he jumped out of bed and looked out. What did he see? He saw a most wonderful sight. Through a little hole in the wall the children had crept in, and they were sitting in the branches of the trees. In every tree that he could see there was a little child. And the trees were so glad to have the children back again that they had covered themselves with blossoms, and were waving their arms gently above the children’s heads. The birds were flying about and twittering with delight, and the flowers were looking up through the green grass and laughing. It was a lovely scene, only in one corner it was still winter. It was the farthest corner of the garden, and in it was standing a little boy. He was so small that he could not reach up to the branches of the tree, and he was wandering all round it, crying bitterly. The poor tree was still quite covered with frost and snow, and the North Wind was blowing and roaring above it. «Climb up! little boy,» said the Tree, and it bent its branches down as low as it could; but the boy was too tiny. And the Giant’s heart melted as he looked out. «How selfish I have been!» he said; «now I know why the Spring would not come here. I will put that

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poor little boy on the top of the tree, and then I will knock down the wall, and my garden shall be the children’s playground for ever and ever.» He was really very sorry for what he had done. So he crept downstairs and opened the front door quite softly, and went out into the garden. But when the children saw him they were so frightened that they all ran away, and the garden became winter again. Only the little boy did not run, for his eyes were so full of tears that he did not see the Giant coming. And the Giant stole up behind him and took him gently in his hand, and put him up into the tree. And the tree broke at once into blossom, and the birds came and sang on it, and the little boy stretched out his two arms and flung them round the Giant’s neck, and kissed him. And the other children, when they saw that the Giant was not wicked any longer, came running back, and with them came the Spring. «It is your garden now, little children,» said the Giant, and he took a great axe and knocked down the wall. And when the people were going to market at twelve o’clock they found the Giant playing with the children in the most beautiful garden they had ever seen. All day long they played, and in the evening they came to the Giant to bid him good-bye. «But where is your little companion?» he said: «the boy I put into the tree.» The Giant loved him the best because he had kissed him. «We don’t know,» answered the children; «he has gone away.» «You must tell him to be sure and come here to-morrow,» said the Giant. But the children said that they did not know where he lived, and had never seen him before; and the Giant felt very sad. Every afternoon, when school was over, the children came and played with the Giant. But the little boy whom the Giant loved was never seen again. The Giant was very kind to all the children, yet he longed for his first little friend, and often spoke of him. «How I would like to see him!» he used to say. Years went over, and the Giant grew very old and feeble. He could not play about any more, so he sat in a huge armchair, and watched the children at their games, and admired his garden. «I have many beautiful flowers,» he said; «but the children are the most beautiful flowers of all.» One winter morning he looked out of his window as he was dressing. He did not hate the Winter now, for he knew that it was merely the Spring asleep, and that the flowers were resting. Suddenly he rubbed his eyes in wonder, and looked and looked. It certainly was a marvellous sight. In the farthest corner of the garden was a tree quite covered with lovely white blossoms. Its branches were all golden, and silver fruit hung down from them, and underneath it stood the little boy he had loved. Downstairs ran the Giant in great joy, and out into the garden. He hastened across the grass, and came near to the child. And when he came quite close his face grew red with anger, and he said, «Who hath dared to wound thee?» For on the palms of the child’s hands were the prints of two nails, and the prints of two nails were on the little feet.

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«Who hath dared to wound thee?» cried the Giant; «tell me, that I may take my big sword and slay him.» «Nay!» answered the child; «but these are the wounds of Love.» «Who art thou?» said the Giant, and a strange awe fell on him, and he knelt before the little child. And the child smiled on the Giant, and said to him, «You let me play once in your garden, to-day you shall come with me to my garden, which is Paradise.» And when the children ran in that afternoon, they found the Giant lying dead under the tree, all covered with white blossoms.

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2. Figura e narrazione in Pinocchio di Carlo Collodi

1. SEMISIMBOLISMI La semiotica plastica, nel cui ambito si è sviluppato il concetto di semisimbolico, poggia su un’ipotesi forte circa il modo di presenza delle unità pertinenti del piano dell’espressione, che è quello del contrasto: In linguistica, il termine contrasto serve ad indicare soprattutto la relazione «e … e …», costitutiva dell’asse sintagmatico. Pur essendo della stessa natura, il contrasto plastico si definisce come la co-presenza, sulla stessa superficie, di termini opposti (contrari o contraddittori) della stessa categoria plastica (o di unità più vaste, organizzate nella stessa maniera). Se la categoria è presente nel testo un po’ nel modo dell’antifrasi, ad esempio attraverso uno dei suoi termini (in assenza degli altri), il contrasto si caratterizza, alla maniera dell’antitesi, per la presenza sulla stessa superficie di almeno due termini della stessa categoria, contigui o meno 1.

Questo particolare modo di presenza del significante plastico non poteva che aprire un’interrogazione sui modi della semiosi, ovvero di rinvio al significato, da esso implicati, poiché sembrava delinearsi una forma di relazione espressione/contenuto diversa dalle due previste da Hjelmslev, quella segnica e quella simbolica, usualmente assunte come riferimento generale. 1 Algirdas Julién Greimas, Sémiotique figurative et sémiotique plastique. «Actes Sémiotiques-Documents», VI, 60 (tr. it. Semiotica figurativa e semiotica plastica in Lucia Corrain e Mario Valenti (a cura di) Leggere l’opera d’arte, Bologna, Esculapio 1991). Tr. it., p. 45.

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Il segnico e il simbolico, secondo Hjelmslev, possono essere differenziati e definiti tipologicamente a partire dal riconoscimento della presenza o dell’assenza di alcune proprietà o caratteristiche fondamentali, e in particolare quella della «commutabilità» e quella della «non-conformità». I sistemi di segni propriamente detti, per Hjelmslev, sono quelli che presentano commutabilità tra i due piani (espressione e contenuto), il che equivale a dire che mutando un’unità su uno dei due piani si produce una mutazione sull’altro piano 2, e non-conformità fra gli stessi piani, il che significa che l’articolazione per ranghi all’interno di ciascuno dei due piani è autonoma e differente, e dunque che la variazione su uno dei due piani di un elemento di un dato rango (es. fonema o lessema, che sono unità di diverso rango del piano dell’espressione, essendo il lessema composto di fonemi) non comporta sull’altro piano una variazione del medesimo rango, almeno non necessariamente 3. I simboli, al contrario, sarebbero non-commutabili, poiché non poggerebbero su un soggiacente sistema articolato in categorie di termini correlati, e sarebbero invece conformi, in quanto non presentereb2 Ad esempio, se mutiamo il fonema /p/ in /c/ all’interno della catena espressiva /pane/ otteniamo una trasformazione in /cane/ che comporta una variazione sul piano del contenuto da «pane» a «cane». La prova di commutazione è la procedura che consente di riconoscere i tratti invarianti (commutabili) di una lingua da quelli varianti (sostituibili), che sono quelli che al variare non provocano mutazioni sull’altro piano. L’esempio classico per l’italiano è quello della sostituzione della /c/ aspirata toscana alla /c/ non aspirata, ad esempio nella catena /cane/ che non comporta variazioni sul piano del contenuto (almeno non da un punto di vista strettamente linguistico). Si vedano: Louis Hjelmslev, Omkring Sprogteoriens Grundlaeggelse, København 1943 (tr. it., dall’inglese Prolegomena to a Theory of Language, Madison, Un. of Wisconsin press 1961, I fondamenti della teoria del linguaggio, Torino, Einaudi 1968); Louis Hjelmslev, Résumé of a Theory of Language, Madison, Un. of Wisconsin Press 1975; Francesco Marsciani e Alessandro Zinna, Elementi di Semiotica generativa, Bologna, Esculapio 1991. 3 Ad esempio, la mutazione dell’esempio precedente fra /pane/ e /cane/, pur comportando la mutazione di un solo fonema sul piano dell’espressione, produce sul piano del contenuto una mutazione a un rango più elevato in quanto «cane» e «pane» appartengono a due categorie semantiche, o paradigmi, completamente diverse. Al contrario la mutazione di /e/ in /i/ all’interno della stessa catena /cane/, del medesimo rango della precedente, produce sul piano del contenuto una mutazione di un rango comparabile, trasformando il tratto semantico «singolare» in quello «plurale». Questa proprietà presenta molte affinità con quella che nella linguistica di Benveniste e di Martinet si definisce come proprietà della doppia articolazione, che distingue fra unità costituenti non dotate di significato autonomo (quali ad esempio i fonemi) e unità costituite dotate di significato autonomo (quali ad esempio i lessemi). Non essendo le unità di rango inferiore (i fonemi) dotate di significato proprio non possono generare, al loro variare, una variazione di rango comparabile sull’altro piano. Si vedano in merito Emile Benveniste, Problèmes de linguistique générale, Paris, Gallimard 1966 (tr. it. Problemi di linguistica generale, Milano, Il Saggiatore 1971), e Problèmes de linguistique générale II, Paris, Gallimard 1974 (tr. it. Problemi di linguistica generale II, Milano, Il Saggiatore 1985). André Martinet, Éléments de linguistique générale, Paris, Armand Colin 1970.

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bero un’articolazione all’interno di uno stesso piano tra unità di rango diverso, quindi una variazione su un piano comporterebbe sull’altro solo invarianza o annullamento (cancellazione della riconoscibilità). In questo quadro tipologico, la forma di semiosi che si viene a delineare a partire dalle analisi del livello plastico e dall’idea di contrasto, consistente in una correlazione fra una singola categoria del piano dell’espressione (composta dai due termini del contrasto plastico) e una singola categoria del piano del contenuto, sembrerebbe manifestare una diversa e peculiare forma di semiosi, capace di far riconoscere dei sistemi semiotici particolari, denominati, appunto, «semisimbolici», che occuperebbero una posizione intermedia, presentandosi come commutabili e conformi a un tempo, anche se la conformità, in questo caso, non riguarderebbe gli elementi singoli (o anche unici) del sistema, come per i simboli (nel cui caso a un elemento, non scomponibile, di un piano si associa un elemento di pari rango dell’altro piano, ugualmente non scomponibile), bensì fra le categorie dei due piani, il che consentirebbe di riconoscere e ricostruire microsistemi locali, composti di almeno una categoria sul piano dell’espressione e di una sul piano del contenuto, che permetterebbero operazioni locali di commutazione fra i termini opposti delle categorie in oggetto. L’esempio classico, derivato da una riflessione di Roman Jakobson sul carattere più o meno motivato della gestualità adottata nelle diverse culture per esprimere l’affermazione e la negazione 4, è quello che correla la categoria espressiva gestuale della /direzionalità/ (/verticale/ vs /orizzontale/) a quella semantica della «affermatività» («affermazione» vs «negazione»). In questo caso, infatti, l’intero sistema sarebbe riconducibile a un’opposizione semantica, dunque a un’unica categoria composta di due termini («si» e «no») associata a un’opposizione fra due termini di una medesima categoria espressiva, quella della direzionalità, appunto. Per cui avremmo: /verticalità/ : /orizzontalità/ :: «affermazione» : «negazione». Questa tipologia di sistemi, che per semplice gioco combinatorio delle diverse proprietà dei linguaggi era già deducibile a priori dalla strutturazione tipologica hjelmsleviana, viene ad assumere, all’interno della cosiddetta «Scuola di Parigi», un rilievo crescente man mano che se ne constata l’efficacia procedurale nell’analisi di una serie di testi, soprattutto visivi, fino ad apparire un modo di organizzazione 4 «Le ‘oui’ et le ‘non’ mimiques» in Roman Jakobson, Essais de linguistique générale 2. Rapports internes et externes du langage, Paris, Minuit 1973 (tr. it. «Gesti motori per il ‘si’ e il ‘no’», vs. Quaderni di Studi Semiotici, 1, 1971).

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semiotico tipico, benché non esclusivo, di quei testi che appaiono intuitivamente investiti di «poeticità», se non addirittura una delle caratteristiche fondamentali dei cosiddetti «linguaggi poetici», di cui i testi visivi costituirebbero una sottoclasse. Di fatto, Floch e Thürlemann cominciano con il rilevare all’interno di una serie di testi visivi di vario genere o epoca, più o meno figurativi, la presenza di opposizioni fra elementi di medesime categorie plastiche: opposizioni fra colori o tipi di colore, fra tipi di linea, fra tipi di testura, ecc. Si trovano cioè a riscoprire letteralmente l’ampio grado di diffusione di quel principio di organizzazione plastica delle opere visive già individuato da Adolf Hildebrand e riconducibile a un principio generale di «organizzazione contrastiva o ‘architettonica’ del testo visivo» 5. Ma mentre per Hildebrand questo era un principio puramente formale di accettabilità estetica, per Floch e Thürlemann, e qui ritroviamo tutta la portata del passaggio dal paradigma formalista a quello semiotico, questo medesimo principio di organizzazione non va assunto come principio di valutazione estetica, ma come principio generale di organizzazione del senso: le opposizioni rilevate all’interno di ciascuna opera fra elementi di una stessa categoria non hanno più a che fare, o almeno non solo, con la qualità estetico-formale dell’opera, ma con la sua significatività. E i loro lavori dimostrano che le opposizioni plastiche rilevate sul piano dell’espressione dell’opera visiva altro non sono che manifestazioni di opposizioni semantiche soggiacenti che vanno ricostruite. Come già notato nel mio testo sopra citato, la presenza e la pertinenza significativa di questo tipo di opposizioni, era stata già notata anche in ambiti diversi, come quello letterario, ad esempio da Proust e da Baudelaire, o come quello più strettamente linguistico, ad esempio da Westermann. Lavoro, quest’ultimo, di cui anche Cassirer si è ampiamente servito per definire la tipologia analogica del linguaggio, una tipologia intermedia tra quella mimetica, in cui ciascun suono imiterebbe il significato da esprimere, e quella pienamente simbolica, in cui il legame mimetico fra parole e cose verrebbe definitivamente a rompersi a favore di associazioni puramente arbitrarie. Nei linguaggi analogici, invece, esisterebbe ancora un legame mimetico, ma non più fra suono e cosa quanto piuttosto tra il rapporto intercorrente fra una coppia di suoni e quello intercorrente fra una coppia di significati: […] con sorprendente regolarità i suoni labiali di risonanza indicano la direzione verso colui che parla, mentre i suoni linguali esplosivi in5

Si veda a questo proposito il nostro Il senso e la forma, cit.

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dicano la direzione contraria; di conseguenza i primi si presentano come naturale espressione dell’«io», i secondi come espressione naturale del «tu». Ma in questi ultimi fenomeni, per quanto essi rechino ancora per così dire il colore dell’immediata espressione sensibile, è già stato fondamentalmente superato il campo del mezzo linguistico semplicemente mimico e imitativo. Ora infatti non si tratta più di conservare in un suono imitativo un singolo oggetto sensibile o una singola impressione sensibile; è invece la gradazione qualitativa di tutta una serie di suoni che serve a esprimere un puro rapporto. Fra la forma e la natura di questo rapporto e i suoni in cui esso si esprime non vi è più alcuna relazione di somiglianza diretta, giacché in generale la semplice materia del suono come tale non è capace di rendere pure determinazioni di rapporti. Il nesso invece vi è in quanto nel rapporto dei suoni, da una parte, e in quello dei contenuti espressi, dall’altra, viene colta un’analogia di forma, in virtù della quale si compie una determinata coordinazione di serie completamente diverse quanto al contenuto. In tal modo è stato raggiunto quel secondo stadio che, rispetto all’espressione puramente mimetica, possiamo indicare come lo stadio dell’espressione analogica 6.

La riflessione di Ernst Cassirer ci sembra estremamente interessante, al di là delle sue finalità tipologiche e genealogiche (Cassirer sta cercando di delineare una linea evolutiva dei linguaggi, dal mimetico primitivo all’arbitrario evoluto), perché richiama l’attenzione sul carattere «mimetico» del rapporto fra la categoria espressiva e quella di contenuto, prescindendo completamente dalla natura materiale degli elementi. Il che significa che una qualsiasi relazione fra due unità di contenuto può essere istituita ed espressa attraverso una relazione espressiva, che nel nostro caso, visivo, potrà essere indifferentemente cromatica, formale, testurale, topologica, ma potrebbe anche essere fonetica, musicale, di densità tattile, e così via. Il che ci aiuta a comprendere il perché della particolare familiarità che sembra intercorrere fra il semisimbolico e il poetico: la strutturazione semisimbolica istituisce rapporti di motivazione fra unità di contenuto e può farlo ‘istituzionalmente’ all’interno dell’economia di una lingua data, come negli esempi raccolti da Westermann, o istituirli ex novo magari per un solo testo in presenza o in assenza di un sistema di codificazione determinato a priori. La questione del carattere formale «analogico» e non sostanziale «mimetico» nella generazione di effetti di motivazione fonetica viene 6 Ernst Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, 3 voll., Berlin & Oxford, Bruno Cassirer 1923-1929 (tr. it. Filosofia delle forme simboliche, 3 voll., Firenze, La Nuova Italia 1961-1966). Tr. it., vol. I, pp. 167-168.

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discussa anche, più recentemente, da autori come Delbouille, Todorov, Genette. Tutti e tre rilevano infatti che gli effetti di motivazione descritti e analizzati in più occasioni non derivano mai da qualità assolute di un suono, ma dalle relazioni oppositive di coppie o serie di tratti fonici che entrano in correlazione con categorie semantiche: Quasi tutte queste ricerche non vertono su relazioni bilaterali in cui un suono svilupperebbe da sé un valore simbolico, ma su relazioni apparentemente più complesse, nella maggior parte dei casi tra coppie (i : u :: chiaro : scuro; r : l :: maschile : femminile), con proporzioni a quattro termini; a volte tra gamme a più termini ciascuna (i : a : u :: chiaro : splendente : scuro) 7.

Osservazione comune da cui però, come rileva lo stesso Genette, vengono tratte conclusioni diverse, in quanto Delbouille e Todorov ne disimplicano un carattere debole degli effetti mimetici, una sorta di ‘menomazione’ delle potenzialità espressive del linguaggio e un carattere ‘illusorio’ di questo simbolismo, perché un simbolismo relativo sarebbe meno efficace di un simbolismo diretto, fondandosi non su proprietà strettamente semantiche ma su articolazioni «diagrammatiche». Genette sottolinea invece che l’idea di una correlazione analogica fra categorie non ha nulla di riduttivo essendo l’unica via percorribile dalla lingua: Ma può darsi alcun simbolismo – e semantismo – al di fuori dal «diagrammatico», ovverosia dal relazionale e dal relativo? La grandezza «in sé» non è evidentemente che un fantasma, così come la chiarezza, l’acutezza, la femminilità in sé – e dal lato delle caratteristiche foniche, l’anteriorità, l’occlusività, la sonorità, ecc., non sono certo valori assoluti: non si tratta che di qualità relative, e, al di là di ogni simbolismo, la più semplice percezione suppone, come sappiamo, un asse categoriale, e dunque un diagramma. Se presentiamo a un soggetto una figura rotonda e verde e gli chiediamo qual è la sua caratteristica, egli esiterà legittimamente fra circolarità e verde; ma non esiterà più se la figura è invece accoppiata con un’altra verde e quadrata o rotonda e rossa. Il diagrammatismo non elimina dunque il semantismo ma lo situa sul piano della relatività categoriale, che è quella di ogni percezione e di ogni qualificazione 8. 7 «Presque toutes ces enquêtes portent non sur des relations bilatérales où un son dégagerait à lui seul une valeur symbolique, mais sur des relations apparemment plus complexes, le plus souvent entre couples (i : u :: clair : sombre; r : l :: mâle : femelle), avec proportion à quatre termes, parfois entre gammes à plusieurs termes chacune (i : a : u :: clair : éclatant : sombre)». Gérard Genette, Mimologiques, Paris, Seuil 1976, p. 468. Tr. nostra. 8 «Mais peut-il y avoir aucun symbolisme – et sémantisme – hors du «diagrammatique», c’est-à-dire du relationnel et du relatif? La grandeur «en soi» n’est évidemment

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Dunque, per Genette la considerazione categoriale contrastiva, anziché individuale, dei suoni non solo è l’unica possibile per rendere conto di eventuali effetti di semantismo simbolico o mimetico, ma essa appare fondamentale anche in quanto determina quali sono le qualità o caratteristiche che possono essere assunte come pertinenti, e dunque l’emergere di isotopie semantiche in generale 9. Su una linea di pensiero affine, e dunque sulla base di una considerazione categoriale contrastiva degli elementi, benché in ambito diverso, si muove anche Claude Lévi-Strauss, ultimo autore su cui ci soffermiamo, e che a sua volta costituisce un riferimento esplicito fondamentale per il lavoro sul semisimbolico di Jean Marie Floch. Lévi-Strauss, riflettendo sul ruolo dell’immaginazione estetica nell’elaborazione dei sistemi di classificazione, arriva infatti a definire, in numerosi suoi scritti 10, una sorta di modello generale delle consonanze analogiche fra serie diverse di elementi affini. Lévi-Strauss sostiene infatti che nello studio dei miti, ma più in generale nello stuqu’un fantôme, et aussi bien la clarté, l’acuité, la féminité en soi – et du côté des caractéristiques phoniques, l’antériorité, l’occlusivité, le voisement, etc., ne sont pas davantage des valeurs absolues: il n’est de qualités que relatives, et, tout symbolisme mis à part, la plus humble perception suppose, on le sait de reste, un axe catégoriel, et donc un diagramme: si l’on présente à un sujet une figure ronde et verte en lui demandant quelle est sa caractéristique, il hésitera légitimement entre rondeur et verdure; si elle est couplée avec une autre figure, verte et carrée, ou ronde et rouge, il n’hésitera plus. Le diagrammatisme n’élimine donc pas le sémantisme: il le situe sur le plan de relativité catégorielle qui est celui de toute perception et de toute qualification». Ibidem, p. 469. 9 Il problema del simbolismo fonetico, che a nostro avviso va affrontato a livello testuale e non linguistico, poiché crediamo che al di là delle norme linguistiche sia l’uso testuale a determinare l’emergere di opposizione contrastive pertinenti, ci sembra interessante perché mette in scena tutta la differenza che può correre fra un approccio linguistico e uno semiotico a un medesimo oggetto testuale (empiricamente inteso): mentre il primo stabilisce attraverso commutazione quali sono gli elementi varianti e invarianti per la lingua, dunque le pertinenze linguistiche; il secondo stabilisce, sempre attraverso commutazione, quali sono gli elementi pertinenti per il singolo testo, mettendo tra parentesi (nel senso fenomenologico) le pertinenze inventariate dal linguista, in quanto il testo ha la capacità, che normalmente esercita, di rendere significanti anche elementi che per il linguista non dovrebbero esserlo. Con un esempio classico, mentre il linguista considererà non pertinente la differenza, in italiano, fra la /c/ dura e la /c/ aspirata del toscano, all’interno di un testo questa differenza potrebbe diventare pertinente in quanto manifestazione dell’opposizione semantica «toscano» vs «non toscano». Inoltre, questa chiamata in causa della potenziale significatività di singoli fonemi rimette completamente in discussione la pertinenza, per un approccio semiotico, della distinzione fra prima e seconda articolazione linguistica, in quanto anche le figure di seconda articolazione, che dovrebbero intrattenere solo funzioni omoplane, all’interno di un dato testo possono diventare significanti, ovvero contrarre correlazioni eteroplane, anche se non individualmente ma a partire da correlazioni che il testo stesso istituisce. 10 A solo titolo di esempio rinviamo a Claude Lévi-Strauss, La pensée sauvage, Paris, Plon 1962 (tr. it. Il pensiero selvaggio, Milano, Il Saggiatore 1964); Le cru et le cuit. Paris, Plon 1964 (tr. it. Il crudo e il cotto, Milano, Il Saggiatore 1966); Anthropologie structurale deux, cit.; La voie des masques, Paris, Plon 1979 (tr. it. La via delle maschere, Torino, Einaudi 1985).

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dio delle organizzazioni culturali, i vari tipi di figure del mondo non vadano assunti né come elementi puramente arbitrari né come simboli carichi in sé, junghianamente, di un qualche significato immutabile e più o meno archetipo, ma che al contrario la loro significatività sia una significatività «posizionale» o, per meglio dire, «oppositiva», dipendente dunque dalla forma articolatoria e non dalle qualità della sostanza espressiva e dalle sua presunte affinità con il contenuto: Il metodo che seguiamo esclude, per il momento, che noi attribuiamo alle funzioni mitiche delle significazioni assolute, che, a questo stadio, dovremmo ricercare fuori dal mito. Questo procedimento troppo frequente in mitografia, conduce quasi inevitabilmente al junghismo. Per noi non si tratta di trovare anzitutto, e su un piano che trascende quello del mito, la significazione del soprannome Baitogogo, né di scoprire le istituzioni estrinseche alle quali si potrebbe collegarlo, ma di mettere in luce attraverso il contesto, la sua significazione relativa in un sistema di opposizioni dotato di un valore operativo. I simboli non hanno una significazione intrinseca e invariabile, non sono autonomi nei confronti del contesto. La loro significazione è anzitutto di posizione 11.

Una coppia oppositiva animale, ad esempio, potrà così esprimere opposizioni di elementi naturali, astrali, sociali, e così via in una catena virtualmente infinita. Ad esempio: pesce : rana :: acqua : fuoco :: costellazione 1 : costellazione 2 :: gruppo sociale x : gruppo sociale y … Ogni coppia oppositiva rinvia così, per omologia e non per analogia, a ciascuna delle altre o a tutte esse insieme (starà al mito o al testo in oggetto stabilirlo), senza che sia necessario istituire alcun legame naturale fra i singoli termini di categoria: fuori dal testo in oggetto, o di un insieme di testi dato, non è più necessariamente vero che il «pesce» simbolizzi «l’acqua» e che questa simbolizzi a sua volta la tale costellazione o il tale gruppo sociale. La «divorante ambizione simbolica» 12 che caratterizzerebbe il pensiero selvaggio, sia quello dei primitivi che quello dei moderni 13, Le cru et le cuit, cit., pp. 84-85 della tr. it. Si veda Lévi-Strauss, La pensée sauvage, cit., sp. il cap. VIII «Il tempo ritrovato». 13 Scrive Lévi-Strauss: Ma, che lo si deplori o che ci si rallegri, esistono ancora alcune zone in cui il pensiero selvaggio si trova, come le specie selvatiche, relativamente protetto: è il caso dell’arte, cui la nostra civiltà accorda lo statuto di parco nazionale con tutti i vantaggi e gli inconvenienti che comporta una formula tanto artificiale (Lévi-Strauss, La pensée sauvage, cit., p. 240 della tr. it.). 11 12

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non consisterebbe dunque in una semplice catena di rinvii simbolici tra elementi legati da una qualche relazione motivata, di presunta similitudine o affinità, ma sarebbe un modello strutturale che organizza «arbitrariamente» sistemi di opposizioni per esprimere altri sistemi di opposizioni, di qualsiasi livello, rango o genere queste siano. Al più, come già per Cassirer e poi per Genette, anche per LéviStrauss è possibile individuare un principio di motivazione non nel legame fra singoli elementi delle diverse serie o coppie oppositive, quanto tra la relazione che caratterizza i termini di una serie e la relazione che caratterizza i termini di una serie diversa. Si tratterebbe allora di una motivazione fra relazioni e quindi fra categorie astratte, anziché fra singoli termini o figure del mondo, e di nuovo, le coppie di termini concreti adottati potrebbero a ogni momento essere sostituite da coppie che fossero in grado di manifestare la medesima relazione astratta. Questo generale modello analogico di organizzazione degli universi simbolici, benché presenti notevoli affinità con quelli che abbiamo definito sistemi semisimbolici, presenta anche alcuni punti rilevanti di differenza. Innanzitutto, mentre il modello hjelmsleviano (costruito a partire da Hjelmslev) è in senso stretto un modello di semiosi, ovvero di articolazione fra i due piani costitutivi di una semiotica, e nel caso specifico fra una e una sola categoria del piano dell’espressione e una e una sola categoria del piano del contenuto; il modello di Lévi-Strauss è un modello aperto, che struttura potenziali serie infinite di opposizioni, per altro, da un punto di vista semiotico, tutte relative a un unico piano, quello del contenuto. Infatti, usualmente, LéviStrauss, nelle sue analisi dei miti, non prende in considerazione le caratteristiche del piano dell’espressione, ma si limita alla sola analisi dei contenuti, e tutte le opposizioni che mette in serie appaiono riconducibili al livello discorsivo del contenuto dei miti (a cui pertengono tutte le «figure del mondo», quali «acqua – terra», «animale – vegetale», «cotto – crudo», ecc.), o a un più astratto livello valoriale, sempre del contenuto (a cui pertengono categorie più astratte quali «vita – morte», «natura – cultura», ecc.). E sempre al piano del contenuto dei miti, a un livello che definiremmo di figuratività astratta, appaiono riconducibili le marche distintive che servono a caratterizzare l’opposizione fra i termini di categoria («chiuso – aperto», «concavo – convesso», «alto – basso», ecc.). Così, mentre il modello hjelmsleviano sembra proporsi, tipologicamente, come un modello di semiosi in senso stretto, ovvero come modello di relazione fra categorie dei due piani di una semiotica, il modello di Lévi-Strauss sembra proporsi più che altro come uno strumento per ricucire le tante opposizioni disseminate nel contenu-

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to di un testo a forte contenuto simbolico, come quello mitico o come quello artistico. Questa differenza di concezione e di potenzialità di quella che potremmo chiamare in generale, seguendo Cassirer, «strutturazione analogica del senso» riemerge di fatto al di sotto delle diverse idee di semisimbolico discusse all’interno della semiotica greimasiana. Da un lato, infatti, e ci sembra ad esempio il caso dei lavori di Thürlemann già citati, ci si attiene a una più rigorosa accezione hjelmsleviana del semisimbolico, mentre da un altro lato, e citiamo in particolare i lavori di Floch o quelli di Marsciani, ci sembra che ci sia una maggior attenzione alla possibilità di utilizzare modelli di strutturazione analogici anche per rendere conto della messa in correlazione di livelli diversi di un medesimo piano. Del resto Jean-Marie Floch appariva già completamente consapevole di questa problematica fin dai primi lavori sull’argomento, come può ben mostrare il passaggio che riportiamo, in cui si suggerire un’estensione del modello, grazie a una relativizzazione dei concetti di «espressione» e «contenuto», del resto per nulla estranea al pensiero hjelmsleviano, senza rinunciare alle sue caratteristiche di rigore: […] nous y faisons l’hypothèse que les micro-codes que sont les systèmes semisymboliques peuvent se retrouver dans la dimension figurative du seul plan du contenu, dès lors qu’on estime légitime de comparer la relation du niveau figuratif et du niveau abstrait d’un discours à celle du signifiant et du signifié. La validation de cette hypothèse assurerait – du moins nous le pensons – la démonstration de la nature vraiment formelle de ces systèmes 14.

D’altra parte, ci sembra anche che l’ipotesi avanzata da Floch sia indispensabile per garantire la generalità della teoria semiotica entro cui l’idea di semisimbolico si situa – e ci sembra che sia questo il senso della «formalità» di questi sistemi invocata da Floch –, senza relegare l’efficacia strutturante e descrittiva del semisimbolico a singoli settori locali definiti sostanzialmente. Anche perché, come comunemente accettato, si danno semiotiche, come quelle linguistiche, il cui piano del contenuto assume gran parte del piano dell’espressione di altre semiotiche – ad esempio quelle «naturali» –, e semiotiche, come quelle visive, che invece strutturano parte del proprio piano dell’espressione in maniera conforme al piano dell’espressione di altre semiotiche, come, ancora, quelle «naturali», con i conseguenti effetti incrociati di motivazione. In tal modo, un’oppo14 Jean-Marie Floch, Petites mythologies de l’oeil et de l’esprit, Paris-Amsterdam, Hadès Benjamins 1985, p. 17.

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sizione come quella «alto vs basso» o come quella «acuto vs arrotondato», apparirà pertinente al piano dell’espressione per le semiotiche naturali e per quelle visive; mentre apparirà pertinente a quello del contenuto per una semiotica linguistica, che potrà comunque usarla per esprimere un contenuto ulteriore, benché in una relazione di omologazione per livelli di immanenza anziché di relazione fra piani, come – a solo e puro titolo d’esempio – «bene vs male» o come «inquietudine vs quiete». In realtà, le osservazioni sulla struttura e sul funzionamento del semisimbolico avanzate da Marsciani 15 sono decisamente più radicali di quelle di Floch, in quanto non riguardano semplicemente la possibile estensione del concetto ma vanno a toccare lo statuto epistemologico del semisimbolico e della stessa tipologizzazione hjelmsleviana dei sistemi. Egli muove infatti da una critica alla tripartizione dei sistemi che abbiamo sopra illustrato (sistemi di segni, simbolici e semisimbolici), ritenuta epistemologicamente mal fondata e soprattutto inutile per una semiotica che, già con lo stesso Hjelmslev e poi in modo definitivo con Greimas, ha abbandonato il «segno» come concetto guida della teoria, dissolvendolo in sistemi strutturati di «figure» (nell’accezione propriamente hjelmsleviana del termine), con il conseguente spostamento della riflessione semiotica dalle modalità di articolazione dei due piani verso la struttura immanente del senso. In tale quadro teorico, egli osserva, se il livello del «segnico» non è più pertinente diviene paradossale, se non assurdo, continuare a costruire tipologie di sistemi ancora basate su tale concetto e su concetti affini, quali «simbolo» o «codice». Dunque, i fondamentali contributi sul semisimbolico di Greimas, di Floch, di Thürlemann vanno ricompresi non nei termini, accantonati dalla teoria, di un particolare codice di articolazione fra i due piani, da cui procederebbe la definizione di una specifica tipologia segnica, ma nei termini del nuovo quadro teorico, che ne impone una ridefinizione coerente con i concetti che gli sono propri. In tale ottica, viene effettuata una rilettura del saggio Semiotica figurativa e semiotica plastica di Greimas: Il saggio di Greimas postula il passaggio da una semiotica dei significanti a una semiotica che si faccia carico della manifestazione a partire dal contenuto come forma. I fenomeni di corrispondenza, o anche di somiglianza, non sono più da trattare come dei dati concernenti la sostanza dell’espressione, bensì come delle corrispondenze formali riguardanti l’articolazione del senso. Tutta l’ambiguità del concetto di

15 Francesco Marsciani, Ricerche intorno alla razionalità semiotica, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Bologna 1988.

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rappresentazione proveniva in effetti da quella che avevo indicato come «passione della superficie»: le corrispondenze di superficie non possono essere comprese, diciamo descritte scientificamente, altrimenti che considerandole come delle manifestazioni di relazioni immanenti 16.

Innanzitutto si tratta dunque di sgombrare il campo da possibili ritorni di una «semiotica del significante», che si porrebbe come problema quello di sapere in che modo due unità correlabili della sostanza dell’espressione vengono ritagliate dal continuum espressivo materiale e poi, con una seconda e successiva mossa, riempite di significato, e dunque messe in relazione con i termini di una categoria del contenuto. Problema che, aggiungiamo, se posto in questi termini, comporterebbe una serie di difficoltà, sia di ordine metodologico (di quale livello del contenuto dovrebbero essere queste unità da associare, essendo il contenuto stesso definito come una gerarchia strutturata di livelli: figurativo, tematico, valoriale, ecc.), sia di ordine epistemologico, in quanto comporterebbe una concezione logicistica della semiotica in oggetto, che si definirebbe come articolazione espressiva autonoma e priva di significato, quindi semanticamente neutra e disponibile per qualsiasi tipo di investimento di contenuto. Posizione decisamente inaccettabile, e ‘fuori paradigma’ per una semiotica che, sulla scorta di Saussure e di Hjelmslev, definisce in modo correlativo i due piani del linguaggio, e per la quale la pertinenza di un tratto espressivo si definisce, tramite prova di commutazione, per la sua associabilità a una funzione semiotica che la correla con un funtivo del piano opposto. In secondo luogo si tratta di ripensare il semisimbolico da un punto di vista, che è quello della semiotica generativa strutturale, che vede le relazioni di superficie come manifestazioni di relazioni immanenti 17. Per cui un’opposizione plastica, ma in genere qualsiasi opposizione manifestata, sarebbe pertinente in quanto omologabile a un’opposizione situata a un livello più astratto e generale. In questi termini il semisimbolico viene a identificarsi, sostiene Marsciani, con quel meccanismo di articolazione generale del senso che consente l’omologazione fra i diversi livelli del Percorso Generativo 18: Quello che si chiama oggi «semisimbolico», in cosa si distingue dall’insieme di procedure utilizzate, per esempio, da Greimas più di una decina di anni or sono nella sua analisi di Deux Amis di Maupassant? 19 Francesco Marsciani, Ricerche intorno alla razionalità semiotica, cit., p. 166. A questo proposito si veda anche Francesco Marsciani, «La sirena e il destino delle immagini», in Cavicchioli, Sandra (a cura di), La sirena, Bologna, Clueb 1997. 18 E in particolare di quel complesso passaggio fra strutture profonde e strutture semio-narrative che va sotto il nome di conversione. 19 Francesco Marsciani, Ricerche intorno alla razionalità semiotica, cit., p. 174. 16 17

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2. TAGLIOLE E COLLARI Vorrei ora far mia questa ipotesi di un possibile modo organizzativo di tipo semisimbolico quale meccanismo che governa l’articolazione per livelli del Percorso Generativo, e illustrarla con una schematica analisi di un brano del Pinocchio di Carlo Collodi, che riassumiamo citando i passi su cui si incentrerà l’analisi 20. Fra la fine del cap. XX e l’inizio del XXIII, Pinocchio si trova coinvolto in una delle sue tante disavventure: sta correndo verso la casa della Fata Turchina, quando, sentendo fame, salta in un campo per appropriarsi di «poche ciocche d’uva moscatella» e finisce intrappolato in una tagliola («Appena giunto sotto la vite, crac […] sentì stringersi le gambe da due ferri taglienti che gli fecero vedere quante stelle c’erano in cielo. Il povero burattino era rimasto preso da una tagliola apposta là da alcuni contadini per beccarvi alcune grosse faine che erano il flagello di tutti i pollai del vicinato»). Letteralmente scambiato per una faina viene prelevato dal contadino proprietario del campo («Chi ruba l’uva è capacissimo di rubare anche i polli. Lascia fare a me, che ti darò una lezione da ricordartene per un pezzo»), che lo porta nei pressi della propria casa («lo portò di peso fino a casa, come si porterebbe un agnellino di latte»), imponendogli, quale punizione, il compito di fare la guardia al pollaio, in sostituzione del recentemente defunto cane Melampo. («‘I nostri conti li aggiusteremo domani. Intanto, siccome oggi mi è morto il cane che mi faceva la guardia di notte, tu prenderai subito il suo posto. Tu mi farai da cane di guardia’. Detto fatto, gl’infilò al collo un grosso collare tutto coperto di spunzoni di ottone, e glielo strinse in modo da non poterselo levare passandoci la testa dentro. Al collare c’era attaccata una lunga catenella di ferro, e la catenella era fissata nel muro».). Pinocchio, impaurito, affamato e infreddolito, si pente della propria condotta e della propria incapacità di cedere alle tentazioni, poi entra nel «casotto di legno» adibito a cuccia del cane e vi si addormenta. A un certo punto della notte, sente alcune vocine e vede alcuni animaletti che gli sembrano gatti («vide riunite a consiglio quattro bestiole dal pelame scuro, che parevano gatti»). Sono le faine, che gli si accostano, scambiandolo per Melampo, e gli propongono il medesimo patto che ha per lunghi anni legato i predatori al guardiano: una gallina già pelata in cambio del complice silenzio. Pinocchio finge di accettare ma all’improvviso chiude il pollaio imprigionandovi le faine e chiama, abbaiando, il contadino che, dopo aver catturato le faine e promesso a esse una fine in padella («‘Potrei punir20 Tutte le note sono tratte dall’edizione Salani del 1995. Per il testo integrale si veda l’appendice a questo capitolo.

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vi, ma sì vil non sono! Mi contenterò invece di portarvi domani all’oste del vicino paese, il quale vi spellerà e vi cucinerà a uso lepre dolce e forte’»), libera il burattino e gli consente di riprendere la corsa interrotta al momento del salto nel campo («‘Bravo ragazzo!’ gridò il contadino, battendogli su una spalla. ‘Cotesti sentimenti ti fanno onore; e per provarti la mia grande soddisfazione, ti lascio libero fin d’ora di tornare a casa’. E gli levò il collare di cane»). La chiusura e la relativa autonomia di questa sequenza è garantita innanzitutto a livello semio-narrativo, in quanto l’intero brano appare costituito da una perdita di competenza dell’eroe Pinocchio (non poter correre) rispetto al Programma Narrativo (PN) 21 di riferimento, che è quello di raggiungere in fretta la casa della Fata («Allora Pinocchio ricominciò a correre per arrivare a casa della Fata avanti che si facesse buio»), e dalla ricostituzione finale di questa stessa competenza («Appena Pinocchio non sentì più il peso durissimo e umiliante del collare intorno al collo, si pose a scappare attraverso ai campi e non si fermò un solo minuto, finché non ebbe raggiunta la strada maestra che doveva ricondurlo alla casina della Fata»). Oltre a ciò essa appare chiaramente delimitata: – dal punto di vista dell’organizzazione spaziale, in quanto alla linearità della strada viene opposto uno spazio non lineare, immaginabile come spazio di tipo circolare centrato intorno alla casa del contadino ed entro il quale Pinocchio non è più in grado di muoversi liberamente; – dal punto di vista temporale: tutta la sequenza si svolge di notte, dal tramonto all’alba; – dal punto di vista dell’organizzazione figurativa, caratterizzata da una riduzione della visibilità, che fa sì che il mondo si dia prevalen21 Con la sola funzione di promemoria, ricordiamo che il Programma Narrativo (PN), unità basilare, di natura puramente sintattica, dalla Grammatica Narrativa, designa intuitivamente «ciò che un soggetto indende fare» (Maria Pia Pozzato, Semiotica del testo, Roma, Carocci, 2001), e ci permette di descrivere l’agire dei personaggi in forma di programmi di azione finalizzati al raggiungimento (congiunzione) di un oggetto di valore. Più tecnicamente esso si presenta come un enunciato di trasformazione che regge un enunciato di stato (le due forme elementari di enunciato della Grammatica Narrativa). I PN possono presentarsi come semplici (un solo Enunciato di trasformazione che regge un enunciato di stato) o complessi. Questi ultimi sono caratterizzati dalla presenza di sottoprogrammi (PN d’uso) la cui realizzazione è necessaria per lo sviluppo del programma principale (PN di base). Il PN di base è orientato verso un Valore descrittivo (intuitivamente, ciò con cui il personaggio vuole congiungersi), mentre i PN d’uso sono orientati verso Valori modali (intuitivamente, ciò che permette al personaggio di perseguire la sua ricerca del valore di base). Per una trattazione completa della Grammatica Narrativa si veda Francesco Marsciani e Alessandro Zinna, Elementi di semiotica generativa, cit.).

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temente sotto la modalità dell’illusione (sembrare ma non essere) e in cui quasi tutti gli attori vengono scambiati per altro. In questa sede tralasceremo gran parte di questo ricco e allettante materiale per soffermarci solo su poche immagini testuali, che ci serviranno per esemplificare quanto sopra esposto circa una possibile organizzazione semisimbolica dell’universo figurativo. In particolare c’è una coppia di figure che ci sembra particolarmente interessante, quella costituita dalla «tagliola» e dal «collare». Queste figure sono accomunate da una medesima funzione narrativa, in quanto sono i due strumenti usati per limitare i movimenti dell’eroe, e che dunque manifestano figurativamente la sua perdita di competenza, oltre a ciò si impongono all’attenzione per il loro porsi una (il collare) al centro dello spazio dell’intera sequenza, dove serve a incatenare Pinocchio al suo rifugio, il «casotto del cane» 22, e l’altra (la tagliola) al margine di questo stesso spazio, al confine iniziale fra il mondo ‘lineare’ della strada e quello ‘non lineare’ dei campi. Ma se dal punto di vista della funzione narrativa le due figure sono equivalenti, esse appaiono invece marcatamente opposte sul piano figurativo, o meglio della loro strutturazione plastica, su quello del modo di presa su Pinocchio e sul piano del modo di ancoraggio, come ben ci mostrano le rispettive descrizioni: Tagliola «[…] sentì stringersi le gambe da due ferri taglienti che gli fecero vedere quante stelle c’erano in cielo» «Il povero burattino era rimasto preso da una tagliola» «Un po’ per lo spasimo della tagliola, che gli segava gli stinchi, e un po’ per la paura di trovarsi solo e al buio in mezzo a quei campi, il burattino principiava quasi a svenirsi»

Collare «[Lucciola:] ‘Come mai sei rimasto con le gambe attanagliate fra codesti ferri arrotati?’» «[…] gl’infilò al collo un grosso collare tutto coperto di spunzoni di ottone, e glielo strinse in modo da non poterselo levare passandoci la testa dentro. Al collare c’era attaccata una lunga catenella di ferro, e la catenella era fissata nel muro»

Sia la tagliola che il collare si presentano come strumenti di costrizione irti di elementi acuminati («ferri arrotati» vs «spunzoni di otto22 Evidente sostituto infimo della «casina della Fata» entro cui avrebbe dovuto trascorrere la notte. Opposizione di gradazione che manifesta il carattere degradante di questa avventura di Pinocchio, che sembra configurarsi, allegoricamente, come un vero e proprio ‘viaggio agli inferi’.

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ne», nel primo caso rivolti verso chi lo porta e nel secondo, all’opposto, verso l’esterno); entrambi ancorano Pinocchio (ma uno al terreno – funzionamento tipico della tagliola, in assenza di specificazioni –, e l’altro a un muro); entrambi lo trattengono (ma uno per le gambe e l’altro per il collo). Dunque: Tagliola Introverso Terra Gambe

vs vs vs vs

Collare Estroverso Muro Collo

Abbiamo l’impressione, e cercheremo di dimostrarlo, che i tre assi su cui le due figure si oppongono abbiano la funzione di manifestare, separatamente, e nell’ordine: – un’opposizione tematica a livello discorsivo; – un’opposizione semantica valoriale più astratta e generale a livello della semantica fondamentale; – un’opposizione modale a livello semio-narrativo. A livello tematico l’opposizione «acuminato + introverso» vs «acuminato + estroverso» sembra infatti esplicitare il diverso ruolo che Pinocchio occupa narrativamente. Nel primo caso infatti egli è funzionalmente un sostituto della faina (si trova al suo posto) è dunque un animale «ladro, predatore» che è stato catturato, predato; e dunque i ferri acuminati rivolti verso di lui manifestano la sua posizione di «offeso». Mentre nel secondo, egli è funzionalmente un sostituto del cane (si trova al suo posto), e si qualifica come animale «custode»; dunque gli spuntoni rivolti verso l’esterno manifestano la sua posizione di «difensore/offensore». L’opposizione posta in successione temporale sembra manifestare una trasformazione del ruolo di Pinocchio, da «ladro», predatore, selvatico, nemico dell’uomo a «custode», culturalizzato, amico dell’uomo. A livello valoriale più astratto, la tagliola, ancorando Pinocchio a terra, sembra rafforzare un suo legame con un universo qualificabile come «naturale», che è quello a cui appartengono i nemici dei valori della cultura (le faine), che minacciano le regole, e le recinzioni, imposte dall’uomo. Al contrario, l’incatenamento al muro sembra manifestare un ancoraggio di Pinocchio al mondo edificato dall’uomo, e dunque a un universo pienamente «culturale», che è anche chiamato a difendere.

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Ricordiamo anche che a inguaiare Pinocchio è la sua incapacità di resistere agli istinti naturali (la fame), che lo porta a trascurare le norme di comportamento culturali; mentre a salvarlo è una libera presa di coscienza, morale, che lo porta a ignorare il medesimo istinto naturale (pur affamato, Pinocchio rifiuta l’offerta alimentare delle faine). Dunque l’accettazione di una manipolazione da parte della natura (fame) lo porta a essere imprigionato dalla tagliola; mentre l’accettazione di una manipolazione «culturale» (la richiesta del contadino), e il rifiuto simmetrico di una manipolazione «naturale» (l’offerta alimentare delle faine, che fa ancora leva sugli istinti di Pinocchio) lo porta a liberarsi del collare. A questo punto, ci pare opportuno rimarcare che questa emergenza dell’opposizione semantica fra un «universo culturale» dominato da leggi sociali, da una morale ben definita e soprattutto da una necessità di autocontrollo a cui Pinocchio è continuamente chiamato a conformarsi, con scarso successo, e un «universo naturale», dominato dagli istinti, che minaccia in continuazione il sistema sociale delle leggi, non è peculiare di questo solo brano ma costituisce una delle isotopie 23 costanti, e probabilmente la fondamentale, dell’intera opera. Essa è infatti già insita nella natura di Pinocchio, generato non naturalmente ma culturalmente (è figlio di un saper-fare determinato), ma già dotato naturalmente, ancora prima che le operazioni del falegname gli diano forma, di una propria identità e di una propria competenza modale: in un certo senso l’intera traiettoria del personaggio Pinocchio è la storia di una trasformazione progressiva dal «naturale» al «culturale» (prima in forma di operazione su un materiale fisico e poi in forma di una serie di operazioni su un materiale cognitivo e patemico, che dovrà portarlo a trasformarsi definitivamente in bambino). In questo brano, l’opposizione è rimessa in gioco dal conflitto fra l’«universo culturale» contadino, testimoniato dai recinti, dalle delimitazioni, dagli artefatti messi in gioco e dalle regole della buona circolazione del valore, che non ammette il furto o comunque l’appropriazione gratuita di ciò che non si è prodotto, e l’«universo naturale» selvatico a cui appartengono le faine. Come detto, e come ben noto, Pinocchio fatica molto a conformarsi alle regole sociali e «culturali» che tanti attori nel corso del raccon23 Sempre con funzione di promemoria, l’Isotopia è un concetto della semantica discorsiva che, tecnicamente, designa la reiterazione sintagmatica di semi astratti (classemi) o figurativi, le unità elementari del piano di immanenza della significazione (reiterazione che non si traduce necessariamente nella reiterazione delle unità del piano di manifestazione – ad es. le parole), e che intuitivamente possiamo figurarci come una sorta di ‘filo rosso’ semantico che garantisce la coerenza dell’enunciato.

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to cercano di imporgli, cadendo continuamente in tentazioni determinate da istinti naturali, e anzi, la sua adesione alle regole sociali che gli vengono proposte dagli umani (Geppetto, Fata, Mangiafuoco, ecc.) o da altri animali ‘sociali’ come gli insetti (il grillo e poi, nel nostro brano, la lucciola) appare sempre opportunistica e determinata dalla possibilità di ottenere un utile immediato; mentre al contrario la sua adesione alle proposte «naturali», avanzate da una serie di attori, specie animali, di vario genere appare sempre spontanea e piena 24. In questo caso, per la prima volta nel racconto 25, Pinocchio aderisce alla manipolazione «culturale» non secondo l’usuale, e mal digerito, dover-fare, ma secondo un pieno voler-fare. Questa volta, Pinocchio appare convinto veramente (sembra convinto e lo è), e non solo illusoriamente (sembra convinto ma non lo è), della necessità di porsi dalla parte dei valori culturali. Al contrario, egli aderisce solo ingannevolmente alla proposta delle faine di porsi dalla parte dei valori naturali. Proprio questa opposizione fra un’accettazione delle regole secondo il dover-fare e una secondo il voler-fare, ci sembra manifestata dal terzo aspetto dell’opposizione fra tagliola e collare. L’imprigionamento per le gambe sembra infatti opporsi all’imprigionamento per il collo, dunque a un ‘contenere la testa’, come la semplice costrizione fisica (dover-fare) si oppone alla libera adesione (voler-fare). Infatti, interpellato dalla lucciola di passaggio a cui ha chiesto aiuto mentre è preso dalla tagliola, Pinocchio sembra rispondere, per l’ennesima 24 Il sistema degli animali in Pinocchio meriterebbe sicuramente uno studio semiotico più approfondito, che intendiamo sviluppare in una diversa sede. Vorremmo però anticipare a questo proposito due aspetti. Innanzitutto, che il «patto scellerato» che legava il defunto cane Melampo con le faine, sembra raddoppiare esattamente quello, più celebre, fra il gatto e la volpe, in quanto in entrambi i casi abbiamo un accoppiamento fra un animale appartenente al dominio naturale, decisamente nemico dell’ordine culturale (la volpe e le faine, pressoché identiche nell’enciclopedia della cultura contadina) e un animale decisamente appartenente all’universo culturale (il gatto e il cane, che costituiscono, anche se con diverso grado di affidabilità, i due animali domestici per eccellenza, entrambi con funzioni di difesa dell’ordine culturale, uno dai topi, predatori delle scorte vegetali, e l’altro soprattutto dai predatori carnivori). Accoppiamenti che sembrano manifestare la labilità del confine fra i due mondi, che nei punti di più stretto contatto rischiano continuamente di confondersi. Un secondo aspetto, ancor più strettamente pertinente al nostro brano è quello che concerne la sequenza degli animali al cui posto Pinocchio viene collocato fra la tagliola e il collare. Pinocchio viene infatti trattato, in sequenza, come faina, poi come agnello e infine come cane, per essere al termine qualificato come «bravo ragazzo». Il burattino Pinocchio evidentemente non è nulla di tutto ciò, ma il passaggio dalla faina (natura selvaggia) al ragazzo (cultura) attraverso l’agnello (natura addomesticata – passiva) e il cane (natura culturalizzata – attiva) sembra manifestare l’intera traiettoria del personaggio Pinocchio, che da burattino non-umano deve conquistare la propria promozione a umano. 25 E per questo pensiamo che la sequenza qui analizzata costituisca un pivot narrativo centrale nell’economia complessiva dell’opera.

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volta, con una semplice adesione di comodo (illusoriamente) per trarsi velocemente d’impaccio («[Pinocchio]: ‘O Lucciolina, mi faresti la carità di liberarmi da questo supplizio?’. [Lucciola]: ‘chi t’ha insegnato a portar via la roba degli altri? […] La fame, ragazzo mio, non è una buona ragione per poter appropriarsi la roba che non è nostra’. [Pinocchio]: ‘È vero, è vero! […] ma un’altra volta non lo farò più’»). Al contrario, la presa di posizione verso le faine, e dunque l’effettiva accettazione del ruolo di guardiano, segue un monologo interiore, in cui Pinocchio tematizza proprio la sua stessa posizione fra il mondo delle leggi e quello degli istinti («‘Mi sta bene! Purtroppo mi sta bene! Ho voluto fare lo svogliato, il vagabondo; ho voluto dar retta ai cattivi compagni, e per questo la fortuna mi perseguita sempre. Se fossi stato un ragazzino per bene, come ce n’è tanti, se avessi avuto voglia di studiare e di lavorare, se fossi rimasto in casa col mio povero babbo, a quest’ora non mi troverei qui’»). Sintetizzando, ci sembra dunque di poter affermare che l’opposizione figurativa fra la tagliola e il collare istituisca una correlazione, secondo il modo semisimbolico, con categorie semantiche più astratte sulla base della seguente omologazione: Tagliola Predatore Natura Dover-fare

Tematico Valoriale Modale Dunque:

vs vs vs vs

Collare Guardiano Cultura Voler-fare

tagliola : collare :: predatore : guardiano; tagliola : collare :: natura : cultura; tagliola : collare :: dover-fare : voler-fare.

Correlazioni che ovviamente valgono solo in questo contesto e non dipendentemente da proprietà intrinseche delle figure individuate, né dipendentemente da qualche codice predeterminato in cui possano essere definiti i significati stabili della tagliola o del collare. A istituire la correlazione significante è soltanto la messa in relazione oppositiva e contestuale delle due figure. 3. CONCLUSIONI Nel caso studiato non entra in alcun modo in gioco l’analisi del piano dell’espressione: non è la struttura grafica o fonetica dei termini /tagliola/ e /collare/ a interessarci ma solo l’organizzazione semica

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di queste figure. Abbiamo dunque l’assunzione di una opposizione semantica quale piano di riferimento, che funge poi da piano dell’espressione per l’apertura verso dimensioni del senso più astratte. Ovviamente non affermiamo nulla di nuovo sostenendo che i concetti di espressione e contenuto sono, essendo di natura formale e non sostanziale, relativi. Quello che ci sembra però interessante è che la relazione semiotica, indifferentemente fra piani o fra livelli, possa darsi secondo un modo di articolazione che non riguarda i singoli elementi ma le categorie, ovvero secondo un modo che alcuni autori avrebbero detto analogico e che nei nostri termini si definisce specificamente come semisimbolico. A livello generale, l’ipotesi che vorremmo avanzare è che non solo nel brano da noi analizzato, ma in generale, la relazione di convocazione fra il livello discorsivo del Percorso Generativo e i suoi livelli più astratti si caratterizzi come relazione semisimbolica, organizzando «poeticamente» l’emersione del senso verso la superficie. Sarebbe dunque uno dei modi di articolazione che governano l’emersione a livello discorsivo sia dei valori astratti sia delle caratterizzazioni modali e narrative, generando effetti di profondità o di arricchimento simbolico della dimensione figurativa. Se ciò è plausibile, il semisimbolico, sarebbe tutt’altro che un concetto pertinente per lo studio dei soli testi visivi o per quello di particolari linguaggi poetici, ma sarebbe un modo di strutturazione generalizzato, capace di rendere conto dell’organizzazione del «poetico» che può emergere da qualsiasi testo o discorso, indipendentemente dalle sostanze o dai limiti disciplinari, ogniqualvolta si abbia, parafrasando Greimas, la co-presenza, allo stesso livello, di elementi opposti (contrari o contraddittori) della stessa categoria.

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Appendice al Capitolo 2 PINOCCHIO

Cap. XX […] Allora Pinocchio ricominciò a correre per arrivare a casa della Fata avanti che si facesse buio. Ma lungo la strada, non potendo più reggere ai morsi terribili della fame, saltò in un campo con l’intenzione di cogliere poche ciocche d’uva moscatella. Non l’avesse mai fatto! Appena giunto sotto la vite, crac… sentì stringersi le gambe da due ferri taglienti che gli fecero vedere quante stelle c’erano in cielo. Il povero burattino era rimasto preso da una tagliola apposta là da alcuni contadini per beccarvi alcune grosse faine che erano il flagello di tutti i pollai del vicinato. Cap. XXI Pinocchio, come potete figurarvelo, si dette a piangere, a strillare, a raccomandarsi: ma erano pianti e grida inutili, perché lì all’intorno non si vedevano case, e dalla strada non passava anima viva. Intanto si fece notte. Un po’ per lo spasimo della tagliola, che gli segava gli stinchi, e un po’ per la paura di trovarsi solo e al buio in mezzo a quei campi, il burattino principiava quasi a svenirsi; quando a un tratto, vedendosi passare una lucciola di sul capo, la chiamò e le disse: «O Lucciolina, mi faresti la carità di liberarmi da questo supplizio?» «Povero figliolo!» replicò la Lucciola, fermandosi impietosita a guardarlo. «Come mai sei rimasto con le gambe attanagliate fra codesti ferri arrotati?» «Sono entrato nel campo per cogliere due grappoli di quest’uva moscatella, e…» «Ma l’uva era tua?» «No…»

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«E allora chi t’ha insegnato a portar via la roba degli altri?» «Avevo fame…» «La fame, ragazzo mio, non è una buona ragione per poter appropriarsi la roba che non è nostra». «È vero, è vero!» gridò Pinocchio piangendo, «ma un’altra volta non lo farò più». A questo punto il dialogo fu interrotto da un piccolissimo rumore di passi che si avvicinavano. Era il padrone del campo che veniva in punta di piedi a vedere se qualcuna di quelle faine che gli mangiavano di nottetempo i polli, fosse rimasta presa al trabocchetto della tagliola. E la sua meraviglia fu grandissima quando, tirata fuori la lanterna di sotto al pastrano, s’accorse che, invece di una faina, c’era rimasto preso un ragazzo. «Ah, ladracchiolo!» disse il contadino incollerito, «dunque sei tu che mi porti via le galline?» «Io no, io no!» gridò Pinocchio, singhiozzando. «Io sono entrato nel campo per prendere soltanto due grappoli d’uva». «Chi ruba l’uva è capacissimo di rubare anche i polli. Lascia fare a me, che ti darò una lezione da ricordartene per un pezzo». E aperta la tagliola, afferrò il burattino per la collottola e lo portò di peso fino a casa, come si porterebbe un agnellino di latte. Arrivato che fu sull’aia dinanzi alla casa, lo scaraventò in terra e, tenendogli un piede sul collo, gli disse: «Oramai è tardi e voglio andare a letto. I nostri conti li aggiusteremo domani. Intanto, siccome oggi mi è morto il cane che mi faceva la guardia di notte, tu prenderai subito il suo posto. Tu mi farai da cane di guardia». Detto fatto, gl’infilò al collo un grosso collare tutto coperto di spunzoni di ottone, e glielo strinse in modo da non poterselo levare passandoci la testa dentro. Al collare c’era attaccata una lunga catenella di ferro, e la catenella era fissata nel muro. «Se questa notte» disse il contadino, «cominciasse a piovere, tu puoi andare a cuccia in quel casotto di legno, dove c’è sempre la paglia che ha servito di letto per quattr’anni al mio povero cane. E se per disgrazia venissero i ladri, ricordati di stare a orecchi dritti e di abbaiare». Dopo quest’ultimo avvertimento, il contadino entrò in casa chiudendo la porta con tanto di catenaccio, e il povero Pinocchio rimase accovacciato su l’aia più morto che vivo, a motivo del freddo, della fame e della paura. E di tanto in tanto, cacciandosi rabbiosamente le mani dentro il collare che gli serrava la gola, diceva piangendo: «Mi sta bene! Purtroppo mi sta bene! Ho voluto fare lo svogliato, il vagabondo; ho voluto dar retta ai cattivi compagni, e per questo la fortuna mi perseguita sempre. Se fossi stato un ragazzino per bene, come ce n’è tanti, se avessi avuto voglia di studiare e di lavorare, se fossi rimasto in casa col mio povero babbo, a quest’ora non mi troverei qui, in mezzo ai campi, a fare il ca-

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ne di guardia alla casa di un contadino. Oh, se potessi rinascere un’altra volta!… Ma ormai è tardi, e ci vuol pazienza». Fatto questo piccolo sfogo che gli venne proprio dal cuore, entrò dentro il casotto e si addormentò. Cap. XXII Ed era già più di due ore che dormiva saporitamente, quando verso la mezzanotte fu svegliato da un bisbiglìo e da un pissi-pissi di vocine strane che gli parve di sentire nell’aia. Messa fuori la punta del naso dalla buca del casotto, vide riunite a consiglio quattro bestiole dal pelame scuro, che parevano gatti. Ma non erano gatti: erano faine, animaletti carnivori, ghiottissimi specialmente d’uova e di pollastrine giovani. Una di queste faine, staccandosi dalle sue compagne, andò alla buca del casotto e disse sottovoce: «Buona sera, Melampo». «Io non mi chiamo Melampo» rispose il burattino. «O dunque chi sei?» «Io sono Pinocchio». «E che cosa fai costì?» «Faccio il cane di guardia». «O Melampo dov’è? Dov’è il vecchio cane che stava in questo casotto?» «È morto questa mattina». «Morto? Povera bestia! Era tanto buono!… Ma giudicandoti alla fisionomia, anche tu mi sembri un cane di garbo». «Domando scusa, io non sono un cane». «O chi sei?» «Io sono un burattino». «E fai da cane di guardia?» «Pur troppo: per mia punizione». «Ebbene, io ti propongo gli stessi patti che avevo col defunto Melampo; e sarai contento». «E questi patti sarebbero?» «Noi verremo una volta la settimana, come per il passato, a visitare di notte questo pollaio, e porteremo via otto galline. Di queste galline, sette le mangeremo noi, e una la daremo a te, a condizione, s’intende bene, che tu faccia finta di dormire e non ti venga mai l’estro di abbaiare e di svegliare il contadino». «E Melampo faceva proprio così?» domandò Pinocchio. «Faceva così, e fra noi e lui siamo andati sempre d’accordo. Dormi dunque tranquillamente, e stai sicuro che prima di partire di qui, ti lasceremo sul casotto una gallina bell’e pelata per la colazione di domani. Ci siamo intesi bene?» «Anche troppo bene!» rispose Pinocchio, e tentennò il capo in un certo modo minaccioso, come se avesse voluto dire: ‘Fra poco ci riparleremo!’ Quando le quattro faine si credettero sicure del fatto loro, andando difilato al pollaio che rimaneva appunto vicinissimo al casotto del cane e, aperta a

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furia di denti e di unghioli la porticina di legno che ne chiudeva l’entratina, vi sgusciarono dentro, una dopo l’altra. Ma non erano ancora finite d’entrare, che sentirono la porticina richiudersi con grandissima violenza. Quello che l’aveva richiusa era Pinocchio; il quale, non contento di averla richiusa vi posò davanti per maggior sicurezza una grossa pietra, a guisa di puntello. E poi cominciò ad abbaiare e, abbaiando proprio come se fosse un cane di guardia, faceva con la voce bu-bu-bu-bu. A quell’abbaiata il contadino saltò il letto e, preso il fucile e affacciatosi alla finestra, domandò: «Che c’è di nuovo?» «Ci sono i ladri!» rispose Pinocchio. «Dove sono?» «Nel pollaio». «Ora scendo subito». E difatti, in men che si dice amen, il contadino scese, entrò di corsa nel pollaio e, dopo aver acchiappate e rinchiuse in un sacco le quattro faine, disse loro con accento di vera contentezza: «Alla fine siete cascate nelle mie mani! Potrei punirvi, ma sì vil non sono! Mi contenterò invece di portarvi domani all’oste del vicino paese, il quale vi spellerà e vi cucinerà a uso lepre dolce e forte. È un onore che non vi meritate, ma gli uomini generosi come me non badano a queste piccolezze». Quindi, avvicinatosi a Pinocchio, cominciò a fargli molte carezze e, fra le altre cose, gli domandò: «Com’hai fatto a scoprire il complotto di queste quattro ladroncelle? E dire che Melampo, il mio fido Melampo, non s’era mai accorto di nulla!» Il burattino allora avrebbe potuto raccontare quel che sapeva: avrebbe potuto, cioè, raccontare i patti vergognosi che passavano fra il cane e le faine; ma ricordatosi che il cane era morto, pensò subito dentro di sé: ‘A che serve accusare i morti? I morti son morti, e la miglior cosa che si possa fare è quella di lasciarli in pace’. «All’arrivo della faina sull’aia, eri sveglio o dormivi?» continuò a chiedergli il contadino. «Dormivo» rispose Pinocchio, «ma le faine mi hanno svegliato coi loro chiacchiericci, e una è venuta fin qui al casotto per dirmi: ‘Se prometti di non abbaiare, e di non svegliare il padrone, noi ti regaleremo una pollastra bell’e pelata’. Capite, eh? Avere la sfacciataggine di fare a me una simile proposta! Perché bisogna sapere che io sarò un burattino che avrò tutti i difetti di questo mondo, ma non avrò mai quello di star di balla e di reggere il sacco alla gente disonesta!» «Bravo ragazzo!» gridò il contadino, battendogli su una spalla. «Cotesti sentimenti ti fanno onore; e per provarti la mia grande soddisfazione, ti lascio libero fin d’ora di tornare a casa». E gli levò il collare di cane.

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Cap. XXIII Appena Pinocchio non sentì più il peso durissimo e umiliante del collare intorno al collo, si pose a scappare attraverso ai campi e non si fermò un solo minuto, finché non ebbe raggiunta la strada maestra che doveva ricondurlo alla casina della Fata […] […]

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3. Figure della differenza in The Voyage of the Beagle di Charles Darwin

ANCORA SUL SEMISIMBOLICO Nel corso di un convegno, Umberto Eco ha affermato che il «semisimbolico» è un concetto «poco faticoso», inventato da quegli scansafatiche dei greimasiani, per affrontare la questione del linguaggio poetico. Questione per la quale egli aveva già da tempo elaborato il più ricco concetto di ratio difficilis. L’affermazione di Eco, al di là del carattere giocosamente provocatorio, credo che meriti la nostra attenzione perché accostando il concetto di ratio difficilis a quello di semisimbolico mi sembra che possa proiettare su di esso una prospettiva di lettura inedita. Proverò dunque a riconsiderare rapidamente il concetto di ratio difficilis, per poi sottolineare quelle che mi sembrano essere le effettive affinità e i punti di contrasto fra i due concetti (affinità e divergenze che la stessa battuta di Eco annuncia affermando che i due concetti insistono sullo stesso territorio ma che uno di essi è da preferirsi all’altro), al fine di arrivare a sottolineare alcuni aspetti problematici del concetto di semisimbolico, in parte derivanti da una integrazione fra i modelli linguistici hjelmsleviani e le pratiche testuali di derivazione greimasiana, spesso data per ovvia ma a mio avviso tutt’altro che priva di criticità. Ciò ci porterà a proporre una ‘modulazione’ ulteriore del concetto di semisimbolico, di cui cercheremo poi di mostrare la portata attraverso un piccolo esercizio di analisi testuale dedicato ad alcune «immagini» presentate dal diario del viaggio sudamericano di Charles Darwin, il Voyage of the Beagle, e in particolare a quelle costruite per mettere in scena l’incontro con i Fuegini e con la loro terra.

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1. LA RATIO DIFFICILIS, I MODI DI PRODUZIONE SEGNICA E IL SEMISIMBOLICO

Il concetto di ratio difficilis viene definito da Eco nel Trattato di semiotica generale come parte integrante della sua teoria dei modi di produzione segnica, elaborata a partire da una messa in discussione di alcuni approcci tipologici allo studio dei segni, come quello che porta alla definizione della celebre tricotomia di Peirce. In primo luogo, Eco osserva che tali tipologie non sono di fatto tipologie di segni prodotte, secondo i procedimenti della ricerca naturalistica, come collezione dei segni «reali» osservati, ma piuttosto tipologie di modi di funzionamento segnico 1, di possibili funzioni segniche, nell’accezione hjelmsleviana, cioè modi di relazione possibili fra significanti e significati; mentre gli effettivi «segni occorrenza» sarebbero in realtà «ibridi» la cui costruzione dipende da strategie variabili di produzione e di articolazione di questi stessi modi. In secondo luogo, Eco sostiene che un vero inventario di tutti i segni possibili a partire da una combinazione delle possibili funzioni segniche sia di fatto un’utopia irrealizzabile (si vedano gli oltre cinquantamila tipi di segno promessi da Peirce a Lady Welby): La tipologia definitiva di Peirce era un sogno impossibile. Una volta definiti pochi modi per la produzione di correlazioni semiotiche, si può comporre una grande varietà di segni. Una tipologia completa è per principio impossibile eccetto che per classfificazioni ad hoc nel contesto di uno specifico progetto descrittivo 2.

È proprio in alternativa a tali utopici progetti classificatori che Eco propone la sua teoria dei modi di produzione segnica, basata non sulle forme di relazione fra il significante e il significato ma sulle procedure di costruzione dei segni stessi. Teoria che ha fra i suoi scopi quello di liberare la semiotica da una «maledizione linguistica» che impedirebbe di descrivere accuratamente i fenomeni semiotici non-linguistici: 1 «The most skilled of Peirce’s interpreters know very well that never, in Peirce, does one meet a ‘real’ icon, a ‘real’ index or a ‘real’ symbol, but rather the result of a complex intertwining of processes of iconism, symbolization and indexicalization. The items of Peirce’s celebrated trichotomy are not types of signs but rather semiotic categories by means of which one can describe more complex strategies of signification [...]. Icons, symbols and indices are therefore not types of signs but types of semiotic functioning: signs, if any are the results of just such global interaction of these modalities» Umberto Eco, Producing signs, in Marshal Blonsky (eds.) On Sign, Baltimore, John Hopkins Un. Press 1985, pp. 177-178. 2 Op. cit., p. 178. «Peirce’s final typology was an impossible dream. Once provided with a few modes of producing semiotic correlations, one can compose a great variety of signs. A complete typology is in principle impossible except for the purposes of ad hoc classification within the context of a precise descriptive project». Tr. nostra.

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FIGURE DELLA DIFFERENZA IN THE VOYAGE OF THE BEAGLE DI CHARLES DARWIN

La semiotica può liberarsi dal giogo dei modelli linguistici solo grazie a una tipologia di questo tipo. I modelli elencati nella tipologia che segue non sono né linguistici né puramente extra-linguistici; sono prelinguistici, pre-gestuali, pre-visivi. Sono categorie semiotiche autonome che possono spiegare con la medesima efficacia sia i processi comunicativi linguistici, sia quelli non-linguistici 3.

La tipologia proposta è costruita sulla base dell’articolazione di quattro parametri, che riassumiamo dalla succinta descrizione che Eco ne propone nel già citato saggio, Producing Signs: 1. il lavoro fisico necessario per la produzione delle espressioni, che va dalla semplice ricognizione dei fenomeni esistenti, al loro uso a fini ostensivi, alla produzione di repliche, fino allo sforzo inventivo di nuove espressioni; 2. la relazione che intercorre fra il tipo astratto di espressione e la sua occorrenza (type/token ratio); 3. il tipo di continuum materiale che viene articolato per la produzione fisica dell’espressione; 4. il modo e la complessità dell’articolazione, che può spaziare dai sistemi semiotici che prevedono precise unità di combinazione fino a quelli in cui sono dati soltanto testi imprecisi, le cui unità composizionali non sono state ancora pienamente definite (opposizione che, nel Trattato, Eco improntava direttamente all’opposizione lotmaniana fra culture «grammaticalizzate» e «testualizzate»). Il concetto di ratio difficilis, che qui ci interessa, è relativo al secondo di questi aspetti e indica uno dei due modi possibili di relazione type/token, opponendosi al concetto di ratio facilis. Quest’ultimo designa i casi in cui la produzione di unità espressive si presenta come riproduzione di tipi esistenti e chiaramente codificati; mentre la ratio difficilis designerebbe i casi in cui il lavoro di produzione non può poggiare su tipi precodificati ma deve procedere attraverso un atto di invenzione, che può restare occasionale o venire istituzionalizzato in un nuovo tipo. Possiamo avere ratio difficilis, ci dice Eco, sia quando il contenuto da significare non è stato ancora articolato e l’espressione che viene prodotta introduce una prima articolazione del contenuto stesso, a partire da una «mappatura» del contenuto, ottenuta selezionando alcune proprietà del referente, sia quando possiamo sì riferirci a 3 «Only through a typology of this sort can semiotics free itself from the blackmail of the linguistic model. The models listed in the above typology are neither linguistic nor purely extra-linguistic; they are pre-linguistic, pre-gestural, pre-visual. They are autonomous semiotic categories which can explain with equal force both linguistic and non-linguistic communicative procedures». Op. cit., p. 183. Tr. nostra.

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un tipo precodificato ma adattandolo alle peculiari condizioni d’uso a cui è destinato. È il caso, ad esempio, delle frecce della segnaletica stradale: è ovvio che queste sono precodificate e prodotte in serie, ma la loro posa in opera deve rendere conto delle effettive direzioni da indicare. Un segnale stradale, come una freccia orientata a destra, pone un diverso problema. Esso è correlato arbitrariamente all’ingiunzione «svolta», ma è correlato in modo motivato all’indicazione «a destra». Questo contenuto può essere applicato a situazioni referenziali o indicali diverse. La freccia non rimanda a una specifica posizione spaziale, ma piuttosto a una posizione astratta dello spazio semantico. Questa porzione di contenuto, determinata dall’opposizione sinistra-destra e però, nondimeno, topo-sensiva. Dunque la relazione tra la freccia e il comando corrispondente è governata da ratio difficilis: il tipo dell’espressione è identico al tipo del contenuto 4.

Se in regime di ratio facilis la produzione segnica sembra configurarsi come pura e semplice operazione monoplanare di derivazione di un’occorrenza da un tipo astratto; con la ratio difficilis il lavoro di produzione segnica assume decisamente uno spessore biplanare, mostrando la stretta connessione fra le problematiche della produzione segnica e quelle della forma dei codici. La ratio difficilis si rende necessaria quando ci sono problemi di codificazione, o lacune all’interno dei codici, che impongono un lavoro di strutturazione, il quale sarà tanto più efficace quanto più l’espressione sarà in grado di far risaltare qualità semantiche rilevanti. Se la ratio difficilis entra in gioco laddove ci sono carenze o lacune di codificazione, ci sembra che possa essere tracciata la sua correlazione anche con le questioni trattate da Eco sotto le etichette di ipocodifica e di ipercodifica, e dunque sempre con problematiche relative all’istituzione di codice, colte però dal punto di vista dell’«interprete» anziché da quello del «produttore di segni»: L’interprete di un testo è obbligato a un tempo a sfidare i codici esistenti e ad avanzare ipotesi interpretative che funzionano come forme ten4 A traffic signal, like an arrow pointing to the right, poses a different problem. It is arbitrarily correlated to the injunction «turn», but it is correlated by a motivation to the indication «to the right». This content may be applied to different referential or indexical situations. The arrow does not refer back to a given actual spatial position, but rather to an abstract portion of the semantic content. But this portion of the content, realized by the opposition between left and right, is nevertheless space-sensitive. Therefore the relationship between the arrow and its corresponding command is governed by ratio difficilis: the type of the expression is identical to the type of the content. Op. cit., pp. 180-181. Tr. nostra.

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tative di nuova codifica. Di fronte a circostanze non contemplate dal codice, di fronte a testi e a contesti complessi, l’interprete è obbligato a riconoscere che gran parte del messaggio non si riferisce a codici preesistenti e che tuttavia esso deve essere interpretato. Se lo è devono dunque esistere convenzioni non ancora esplicitate; e se queste convenzioni non esistono, debbono essere postulate, se non altro ad hoc 5.

Questi casi, in cui il lavoro di interpretazione non si traduce in una semplice applicazione di codici ma impone quell’attività abduttiva caratteristica dell’interpretazione ermeneutica, in cui si procede ipotizzando decodifiche parziali per giungere infine a conferire senso a vaste porzioni di contenuto, possono essere articolati in due sottotipologie: da un lato, i casi in cui si rende necessario estendere convenzioni codificate esistenti a situazioni impreviste, e dunque non contemplate dal codice, attraverso la formulazione di regole ad hoc che rendano la convenzione data applicabile anche a tale situazione particolare, e si parlerà di «ipercodifica»; dall’altro, quei casi in cui non si ha a disposizione, per effettiva assenza di articolazione o per personale ignoranza dell’interprete, una articolazione precisa dei rapporti fra significante e significato e ci si serve di una codificazione alla ‘più o meno’, che permette di riconoscere almeno macro opposizioni semantiche, e si parlerà di «ipocodifica»: Dunque l’ipocodifica può essere definita come l’operazione per cui, in assenza di regole più precise, porzioni macroscopiche di certi testi sono provvisoriamente assunte come unità pertinenti di un codice in formazione, capaci di veicolare porzioni vaghe ma effettive di contenuto, anche se le regole combinatorie che permettono l’articolazione analitica di tali porzioni espressive rimangono ignote 6.

Eco sottolinea poi che a fronte di situazioni facilmente ascrivibili all’una o all’altra tipologia si danno facilmente casi in cui i due movimenti tendono a confondersi e per i quali si potrà parlare genericamente di extracodifica. Benché parlando di ratio difficilis non ci si soffermi mai sulla qualità dei codici che vengono a essere istituiti, è assai probabile che quando si ha a che fare con la messa in forma di nebulose di contenuto il tipo di codificazione prodotto tenda alle forme dell’extracodifica, da cui, da un lato, gli accostamenti della ratio difficilis e dell’extracodifica alle problematiche estetiche e, dall’altro, il confronto possibile con le problematiche connesse al semisimbolico.

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Umberto Eco, Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani 1975, p. 183. Op. cit., p. 191.

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Potremmo ipotizzare che un primo motivo di diffidenza di Eco verso il semisimbolico possa derivare dal fatto che il concetto di ratio difficilis emerge nel quadro di una critica delle tipologie segniche basate sui «modi di rinvio», e dunque sul tipo di funzione che reggerebbe la relazione semiotica fra espressione e contenuto. Specie tipologica a cui il semisimbolico è facilmente riconducibile facendo a sua volta parte di una triconomia che articola l’universo semiotico in «segnico», caratterizzato da proprietà di commutabilità e di non conformità, «simbolico», caratterizzato da conformità e non commutabilità e, appunto, «semisimbolico», caratterizzato da conformità e commutabilità. Di fatto, nelle definizioni di più stretta osservanza hjelmsleviana, il semisimbolico designerebbe una data tipologia di sistemi, osservabili in natura, che il ricercatore fortunato può a volte incontrare, a cui abbiamo già accennato nel capitolo precedente: il sistema gestuale dell’affermazione e della negazione descritto da Jakobson; il sistema tonale Yoruba descritto da Westermann e assunto a felice esempio di strutturazione analogica fin dalla Filosofia delle forme simboliche di Cassirer 7; e così via fino al sistema che oppone fronte e profilo studiato da Meyer Shapiro e applicato allo studio delle pitture vascolari della Grecia arcaica da Frontisi-Ducrot, su cui ha richiamato l’attenzione, in più occasioni, Paolo Fabbri. In tutti questi esempi, il semisimbolico sembra designare di fatto un preciso tipo di struttura di codificazione, con la particolarità di poter articolare microsistemi costituiti da singole categorie e non elementi punto a punto, come nei simboli, o elementi di rango diverso, come nei veri e propri sistemi di segni. In altre ricerche, dedicate in particolare alla semiotica dei testi visivi e di quelli musicali 8, il semisimbolico si configura invece non tanto come codice che presiederebbe a determinati tipi di fenomeni semiotici, quanto come modello strutturante capace di reggere la peculiare articolazione semiotica di un singolo testo, in particolare i testi «poetici» in senso ampio, caratterizzati, come voleva già Jakobson, dalla proiezione del «paradigmatico» sul «sintagmatico», e dunque dalla manifestazione contrastiva di entrambi i termini costitutivi di Tarcisio Lancioni, Il senso e la forma, cit. Pensiamo in particolare a tutti i lavori recenti sul visivo di Omar Calabrese, Felix Thürleman, Jean-Marie Floch, Francesca Polacci e Angela Mengoni o a quelli sui testi musicali di Stefano Jacoviello. Il concetto di semisimbolico è stato anche oggetto di due convegni recenti, entrambi frutto di una collaboraborazione fra l’Università di Siena e l’Université Paris 8: Semi-symbolisme et signification sensible. Paris 8, 28-29 settembre 2007, coordinatori Denis Bertrand e Michel Costantini; Margini del figurativo, Università di Siena – Collegio S.Chiara, 11-12 novembre 2008; coordinatori Omar Calabrese e Tarcisio Lancioni. 7 8

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una categoria, fornendo con ciò uno strumento interpretativo per affrontare l’analisi di singoli testi, o di aspetti di singoli testi, prodotti in assenza di un codice o di una convenzione predefinita. Il semisimbolico sembrerebbe così governare, da un lato, alcuni specifici fenomeni semiotici culturalmente ben specificati (il sì e il no gestuali, l’opposizione fronte-profilo della pittura vascolare, ecc.) e replicabili, direbbe Eco, per ratio facilis; dall’altro, fenomeni semiotici singolari, governati da ratio difficilis, direbbe Eco, spesso costruiti sulla base di una macroarticolazione del campo semantico, da una sua strutturazione ‘alla più o meno’ manifestata ‘grossolanamente’ da una semplice strutturazione oppositiva sul piano dell’espressione: fenomeni di ipo-codifica, nei termini di Eco o, diremmo, dotati di una sola articolazione «molare» 9. In entrambi i casi, se pensiamo il semisimbolico, hjelmslevianamente, come «forma di un determinato tipo di codice» che mette in correlazione una categoria del piano dell’espressione con una categoria del piano del contenuto, generando così un microsistema caratterizzato da conformità al livello delle categorie e di commutabilità al livello dei suoi termini, ci sembra che la sua ‘incorporazione’ all’interno del modello generativo greimasiano, peraltro unico luogo in cui il concetto trova applicazione corrente, sia tutt’altro che pacifico. Difficoltà che possiamo provare a sintetizzare con alcune domande: se è facile comprendere che cosa si intende per categoria dell’espressione manifestata all’interno di un testo, si tratti di un contrasto cromatico, eidetico o tonale e così via, cosa si intende per categoria del contenuto correlata, dato che sul piano del contenuto troviamo una complessa stratificazione per livelli? Si tratterà di categorie discorsive, narrative, della semantica profonda? Ogni diversa situazione testuale può ricevere una risposta diversa? Oppure dovremmo ipotizzare che un qualche livello del contenuto intrattiene un legame privilegiato con le strutturazioni del piano dell’espressione? E dunque, in sintesi, come si concilia il modello di stratificazione hjelmsleviano con il modello di stratificazione greimasiano? Una prima risposta a tale questione, ci sembra, è quella, già ricordata, formulata da Francesco Marsciani 10, che propone di considerare il semisimbolico non tanto come una delle possibili forme di correlazione fra espressione e contenuto quanto come la forma semiotica che governerebbe la correlazione fra i diversi livelli del percorso 9 Omar Calabrese, Lezioni di semisimbolico, Siena, Protagon 1999. Jacques Geninasca, La Parole Litteraire, Paris, PUF 1997 (tr. it. La parola letteraria, Milano, Bompiani 2000). 10 Francesco Marsciani, Ricerche intorno alla razionalità semiotica, cit.

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generativo, intesi ciascuno come metalinguaggio descrittivo autonomo capace di cogliere il senso a livelli diversi di astrazione. Altre ricerche recenti 11 convergono invece nell’individuare un particolare livello della strutturazione semantica, denominato convenzionalmente «figurale» o «figurativo astratto», quale livello particolarmente ‘sollecitato’ dalle correlazioni semisimboliche. Al momento, più che optare decisamente per l’una o l’altra soluzione, che in realtà non sembrano escludersi a vicenda se, come abbiamo provato a mostrare nella nostra analisi di Pinocchio, è possibile individuare forme di schematizzazione di tipo semisimbolico, che mettono in relazione contemporaneamente più piani di astrazione, è interessante notare che il concetto di semisimbolico sembra legarsi ad almeno quattro diverse problematiche: – descrizione di microlinguaggi, gestuali, visivi, ecc., che si esauriscono completamente nella correlazione di una categoria del piano dell’espressione con una categoria del piano del contenuto. Restiamo nel campo problematico di una teoria linguistica dei codici, pienamente coerente con il modello hjelmsleviano; – descrizione di linguaggi che, proprio grazie a questa forma caratteristica di strutturazione (correlazione di una categoria sul piano dell’espressione con una categoria sul piano del contenuto) sarebbero capaci di produrre particolari effetti poetici o particolari effetti di motivazione, indipendentemente dalla sostanza di manifestazione. Si tratterebbe, in sintesi, del sistema caratteristico del «poetico» ampiamente inteso; – descrizione di sistemi locali, sempre caratterizzati dalla correlazione di una categoria del piano dell’espressione, che tende a precisarsi come categoria di tipo plastico (topologica, eidetica, cromatica), con una categoria del piano del contenuto, che tende a precisarsi a) come categoria della semantica fondamentale 12; b) come categoria della semantica discorsiva, e in particolare come

11 Omar Calabrese, La forma dell’acqua. Ovvero: come si ‘liquida’ la rappresentazione nell’arte contemporanea, in «Carte Semiotiche», 9-10, 2006. Angela Mengoni, La ferita come metafora somatica nelle rappresentazioni della natura umana, nell’are e nei media contemporanei, Tesi di Dottorato, Università di Siena 2003. Francesca Polacci, Analisi testuali e dispositivi sincretici nelle tavole parolibere futuriste: per una semiotica verbo-visiva, Tesi di Dottorato, Università di Siena 2004. Stefano Jacoviello, Suoni oltre il confine. Verso una semiotica strutturale del discorso musicale, Tesi di Dottorato, Università di Siena 2007. 12 In particolare i primi lavori di Jean-Marie Floch e di Felix Thürlemann. Si veda Lucia Corrain e Mario Valenti (a cura di), Leggere l’opera d’arte, Bologna, Esculapio 1991.

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categoria «figurale». In questi casi si tende a conciliare il modello strutturale di Hjelmslev con quello di Greimas, rendendo conto dello specifico livello di astrazione delle categorie semantiche. Assumendo che i sistemi semisimbolici sono, in questo caso, non linguaggi autonomamente sussistenti ma forme semiotiche annidate all’interno di altri sistemi, o co-strutturanti singoli fenomeni semiotici, puramente locali e non generalizzabili, questa ipotesi allontana il semisimbolico da una «teoria dei codici» e lo orienta decisamente verso una semiotica testuale: non si descrive più, esaustivamente, il codice che regge un dato linguaggio ma l’insieme delle forme semiotiche che possono concorrere a strutturare un singolo testo; – descrizione delle correlazioni, sempre strutturate per opposizione categoriale, che governerebbero le trasformazioni di livello all’interno del Percorso Generativo. Si passa interamente all’interno del modello greimasiano e il legame con Hjelmslev viene conservato attraverso il riconoscimento, del tutto legittimo, del carattere puramente formale e non sostanziale dei concetti di espressione e contenuto, per cui, nel caso di correlazione fra livelli, i livelli di superficie del Percorso Generativo si configurerebbero come piani dell’espressione rispetto ai livelli più astratti dello stesso, che ne costituirebbero il piano del contenuto. Al di là di tutte queste differenze, le varie aree concordano nel dare particolare rilievo alle caratteristiche dell’organizzazione espressiva. In tutti i casi si assume infatti che i sistemi semisimbolici possano farsi carico dei modi di significazione connessi alle caratteristiche «plastiche» dei fenomeni semiotici, sia che tali caratteristiche siano rinvenibili come tratti effettivamente manifestati sul piano dell’espressione, come nel caso delle semiotiche visive, gestuali, spaziali, musicali, ma anche verbali laddove vengono assunte come significanti le caratteristiche «plastiche» grafiche o sonore, sia che siano invece rinvenibili quali tratti strutturanti le «figure» del contenuto (assunte come espressione rispetto ai livelli di maggiore astrazione). Se muoviamo da questa considerazione generale, possiamo osservare una notevole sovrapposizione con gli esempi addotti da Eco per illustrare i sistemi retti da ratio difficilis, in quanto anche là eravamo posti di fronte a correlazioni espressive «plastiche», del tipo «alto vs basso» («toposensive» per Eco), chiamate a manifestare articolazioni semantiche di vario genere (il nord e il sud geografici, posizioni gerarchiche aziendali, caratteristiche espressive di sistemi semiotici diversi, es. altezza tonale, ecc.), e anche là potevamo trovare forme semiotiche stabilmente codificate (alla pari del «sì» e del «no» gestuali

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o dell’opposizione pittorica «volto vs profilo») o forme semiotiche istituite solo localmente caratteristiche di una singola manifestazione testuale (codici mono-occorrenza). Accanto a questi fenomeni, Eco ne colloca però anche alcuni di genere diverso, come quelli più strettamente legati all’invenzione artistica o come quelli caratterizzati da una correlazione punto a punto fra l’organizzazione espressiva e l’organizzazione semantica, quali ad esempio le carte geografiche, e cioè quei fenomeni che si direbbero, peirceanamente, più strettamente connessi al problema dell’iconismo 13. Entrambi questi tipi di testo, se riconsiderati dalla prospettiva hjelmsleviana, ricadrebbero non sotto l’etichetta del semisimbolico ma sotto quella del simbolico pienamente inteso, caratterizzandosi, sempre in ottica hjelmsleviana, come conformi e non-commutabili: il Ciclo della Croce, citato da Eco, alla pari del Cristo di Thorvaldsen caro al linguista danese, le mappe al pari dei termometri. I primi caratterizzati da un contenuto di fatto inanalizzato e non scomponibile correlato a un’espressione parimenti densa; i secondi da una fine articolazione del contenuto correlata punto a punto con un’espressione articolata al medesimo livello di finezza. Tralasciando per ora la questione, assai poco toccata mi sembra, di come possano essere classificati sotto la medesima etichetta fenomeni che presentano un funzionamento semiotico tanto diverso, accomunati solo dall’assenza di qualsiasi possibilità di ‘gioco’ fra espressione e contenuto (a conferma ulteriore della ridotta utilità delle classificazioni tipologiche dei fenomeni semiotici); ci sembra di poter rilevare una differenza fondamentale fra il campo della ratio difficilis e quello del semisimbolico, in quanto la proposta di Eco sembra legata in maniera primaria a una riflessione sul modo in cui una data configurazione espressiva possa manifestare una data organizzazione semantica in assenza di una forma codificata preesistente, senza particolari preoccupazioni circa il modo in cui il piano dell’espressione e il piano del contenuto andranno a strutturarsi. Pur con tutti i distinguo rispetto alle posizioni peirceane, la forma dell’espressione è semplicemente motivata dalla forma del contenuto. Nella prospettiva del semisimbolico invece, e forse più sotto la pressione di Lévi-Strauss che sotto quella di Hjelmslev, il problema della motivazione è del tutto secondario. La scelta della categoria espressiva resta «arbitraria» rispetto al contenuto da manifestare, e ad assumere funzione significante non è mai il singolo termine ma sem13 Torniamo a sottolineare che l’iconismo per Eco, almeno fino a Kant e l’ornitorinco, non è dato da una similitudine dell’espressione con il referente ma dalla manifestazione espressiva di tratti propriamente semantici dunque dipendenti da una data assunzione culturale dell’oggetto.

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pre e solo la correlazione categoriale, differenza che continua a marcare, mi sembra, il discrimine fra una semiotica orientata al testo e una semiotica orientata al segno; inoltre la motivazione, che pure entra in gioco, come abbiamo visto, è sempre un fenomeno secondario: ci sarà un possibile effetto di motivazione ma non una motivazione fondatrice capace di guidare la scelta dei termini dell’espressione. I casi di motivazione, che sono quelli in cui si dà una conformità stretta, punto a punto, fra espressione e contenuto, escono per l’appunto dalla sfera dei fenomeni analizzabili per entrare in quella dei fenomeni o inanalizzabili o già analizzati (strettamente codificati). Il semisimbolico, a nostro avviso, ha proprio il pregio di estendere il campo dei fenomeni analizzabili andando a riconoscere forme strutturate di articolazione (commutabili) all’interno di testi, più o meno complessi, prodotti in assenza di forme codificate preesistenti, per ratio difficilis. Se la prospettiva di Eco ci aiuta a discriminare i diversi tipi di lavoro semiotico necessari a strutturare un testo, il semisimbolico ci aiuta a discriminare all’interno delle codificazioni prodotte per ratio difficilis una sottoclasse di sistemi che possono essere analizzati e ci fornisce a tale scopo uno strumento analitico puntuale. Al di là di una descrizione delle compatibilità possibili fra ratio difficilis e semisimbolico, ci interessa qui considerare in che misura il confronto fra le due prospettive può aiutarci proprio a dipanare le problematiche analitiche concrete, e a questo proposito vorrei sottolineare un aspetto che mi sembra molto interessante della prospettiva echiana: quello in cui si precisa che la teoria dei modi di produzione segnica non ha quale obiettivo quello di fornire un nuovo strumento per classificare tipologicamente le effettive occorrenze segniche ma può mostrarci come un singolo fenomeno semiotico possa essere il prodotto di tutta una serie di modalità convergenti. Vorremmo inoltre accostare questa affermazione a quella già ricordata in cui Hjelmslev sostiene che non si dà testo minimamente complesso che sia retto da una sola forma semiotica 14. In quel contesto Hjelmslev si riferiva a forme «parassitarie» di sovracodificazione (l’«ipercodifica» di Eco), sempre di carattere linguistico, quali quelle dialettali, di gergo, di stile ecc. che concorrono a formare le occorrenze testuali concrete. Spingendoci oltre queste due considerazioni, torniamo a ribadire che, nella nostra prospettiva, ogni singola occorrenza testuale, indipendente14 «Qualunque testo non sia di estensione così limitata da non costituire una base sufficiente per la deduzione di un sistema generalizzabile ad altri testi, contiene di solito derivati che si basano su sistemi diversi». Louis Hjelmslev, Prolegomena, cit., p. 123 della tr. it.

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mente dalla sostanza o dalle sostanze espressive che la manifestano (si tratti dunque di un film, di un rituale, di un racconto o di un dipinto), è il prodotto di un sincretismo semiotico, e cioè che è il prodotto unico e singolare del montaggio architettonico di più forme semiotiche: plastiche, figurative, spaziali, temporali, comportamentali, alimentari, vestimentarie, e così via, che possono essere convocate e organizzate in modo coordinato o contrastivo, ognuna delle quali può caratterizzarsi tanto sulla base di una convenzione codificata (ratio facilis) quanto in completa assenza di convenzioni preesistenti o in loro contrasto (ratio difficilis). Il semisimbolico costituisce a nostro avviso non tanto un tipo di codice caratteristico di certi testi o fenomeni semiotici, ma un modo di articolazione dei rapporti espressione/contenuto che governa la messa in opera di gran parte di questi micro sistemi semiotici che concorrono a strutturare un testo nella sua complessità, e la correlazione di questi sistemi, che nei testi di carattere verbale si manifestano a livello discorsivo, con le strutture più astratte, come ad esempio quelle modali del livello semio-narrativo. In tal senso esso può rivelare tutta la propria portata e utilità euristica, non tanto nel permetterci di riconoscere sistemi già codificati ma consentendo di descrivere e di articolare forme semiotiche che ‘si codificano’ all’interno del testo stesso, proprio dandosi in forma semisimbolica, ovvero manifestando, ‘jakobsonianamente’, il sistema su cui sono costituiti all’interno del processo in cui si sviluppano, e dunque come strumento, almeno al momento, imprescindibile per una semiotica orientata al testo. Questa prospettiva può aiutarci a leggere il modo in cui un testo lavora per costruire un’immagine complessa, da definire in assenza di codici dati, come accade quando un racconto cerca di mostrare qualcosa che si caratterizza come totalmente estraneo, e dunque in assenza di codificazioni precedenti che possano essere agevolmente convocate per ritrarlo. 2. THE VOYAGE OF THE BEAGLE The Voyage of The Beagle, pubblicato per la prima volta nel 1839, è il titolo del diario in cui il giovane Darwin racconta le esperienze fatte durante un lungo viaggio, in gran parte per mare, che lo porta a toccare terre remote in cui il naturalista, per la prima volta, può osservare direttamente una varietà di forme di vita, di paesaggi e di costumi che gli rivelano la totale particolarità del mondo «civilizzato». Questo viaggio trova uno dei suoi punti culminanti, nei mesi a cavallo fra il 1832 e il 1833, nell’attraversamento dello Stretto di Ma-

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gellano e nell’incontro con la Terra del Fuoco e con i suoi abitanti, i Fuegini, che agli occhi del naturalista si presentano come ciò che di più diverso si possa immaginare rispetto all’uomo «civile». Darwin deve allora trovare il modo di raccontarci questa esperienza radicale che è il confronto con l’Altro, e per fare ciò deve trovare le parole giuste, fra quelle che la sua lingua gli mette a disposizione, o meglio, non più per ratio facilis ma per ratio difficilis, deve trovare il modo di costruire, pur se con le parole, un’immagine efficace che sappia rendere conto di questa alterità totale e che possa qualificarla proprio in quanto tale. Darwin ha già incontrato terre e genti diverse, ma si tratta di diversità tutto sommato relative, che il linguaggio descrittivo può facilmente addomesticare attingendo a immagini accessibili all’autore come al suo pubblico. L’alterità fuegiana appare invece, fin dal primo sguardo, del tutto irriducibile a ogni conoscenza o convenzione: Un semplice sguardo al paesaggio fu sufficiente a mostrarmi quanto profondamente diverso fosse da ogni altro che avessi mai veduto […] 15. Lo spettacolo più curioso e interessante che avessi mai visto: non avrei mai pensato quanto fosse grande la differenza fra l’uomo civile e quello selvaggio […] 16. Vedendo questi uomini difficilmente si può credere che siano nostri simili e abitanti dello stesso mondo 17.

Tanto strani da farlo pensare a un «altro mondo» e a un’altra specie, quasi che il viaggio si sia trasformato in una dantesca discesa agli inferi, in cui un senso di morte sembra pervadere ogni aspetto dell’ambiente: La buia profondità del burrone si accordava bene con i segni generali di violenza. Da ogni lato giacevano massi irregolari di roccia e alberi divelti; altri alberi, benché ancora eretti, erano decomposti fino al cen-

15 «A single glance at the landscape was sufficient to show me how widely different it was from anything I had ever beheld». 17 December 1832. Le citazioni inglesi sono tratte dall’edizione pubblica resa disponibile dal Gutenberg Project (www.gutenberg.org). Le citazioni in italiano sono invece tratte da Charles Robert Darwin, Viaggio di un naturalista intorno al mondo, Firenze, Giunti 2002. Per agevolare il reperimento attraverso edizioni diverse non citerò il numero della pagina ma, trattandosi di un diario, la data dell’annotazione. 16 «The most curious and interesting spectacle I ever beheld: I could not have believed how wide was the difference between savage and civilized man». 17 December 1832. 17 «Viewing such men, one can hardly make one’s self believe that they are fellowcreatures, and inhabitants of the same world». 25 December 1832.

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tro e prossimi a cadere. La massa aggrovigliata delle piante vive e di quelle cadute mi ricordava le foreste dei tropici, ma vi era una differenza, perché in queste silenziose solitudini la morte invece della vita costituisce il carattere dominante 18.

Man mano che il tentativo di descrizione procede, l’isotopia mortifera e infernale si estende e si specifica ulteriormente, iniziando a legare insieme i diversi elementi costitutivi del paesaggio, colorando la narrazione di una tonalità ‘letteraria’ fino a ora sconosciuta e sensibilmente diversa dal tono medio del discorso tenuto da Darwin, le cui descrizioni, erano sempre state improntate ad un ideale ‘accademico’, volto a registrare le peculiarità del nuovo mondo in modo da renderle ‘scientificamente’ comparabili con le conoscenze geologiche e zoologiche già acquisite. Ecco allora che la fuga di canali che corre verso sud fino all’orizzonte si configura come passaggio verso un mondo altro: Vi era un certo senso di grandiosità misteriosa in questo susseguirsi di montagne, separate da profonde valli, tutte coperte da una fitta e tenebrosa foresta. Anche l’atmosfera in questo clima, dove le tempeste si susseguono continuamente, con pioggia, grandine e nevischio, sembra più triste che non in qualsiasi altro posto. Nello Stretto di Magellano, guardando dal Porto della Fame verso sud, i lontani canali fra i monti sembravano per la loro tenebrosità condurre al di là dei confini del mondo 19.

E in questo ambiente lo stesso Capo Horn perde la sua natura ‘oggettuale’ e assume aspetto e funzioni di un vero e proprio dio degli inferi: Il Capo Horn volle però il suo tributo e prima di notte ci mandò direttamente in faccia una tempesta di vento. […] Questo famoso promontorio ci apparve nel suo aspetto più appropriato, velato dalla nebbia e con il suo oscuro profilo circondato da una bufera di vento e di acqua 20.

18 «The gloomy depth of the ravine well accorded with the universal signs of violence. On every side were lying irregular masses of rock and torn-up trees; other trees, though still erect, were decayed to the heart and ready to fall. The entangled mass of the thriving and the fallen reminded me of the forests within the tropics – yet there was a difference: for in these still solitudes, Death, instead of Life, seemed the predominant spirit». 17 December 1832. 19 «There was a degree of mysterious grandeur in mountain behind mountain, with the deep intervening valleys, all covered by one thick, dusky mass of forest. The atmosphere, likewise, in this climate, where gale succeeds gale, with rain, hail, and sleet, seems blacker than anywhere else. In the Strait of Magellan looking due southward from Port Famine, the distant channels between the mountains appeared from their gloominess to lead beyond the confines of this world». 20 December 1832. 20 «Cape Horn, however, demanded his tribute, and before night sent us a gale of wind directly in our teeth. We stood out to sea, and on the second day again made the

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Vediamo così prendere forma un vasto affresco, le cui immagini costitutive condividono il riferimento a una medesima isotopia figurativa. Una volta costituito questo scenario di fondo (che, come le date diverse delle citazioni mostrano, sottende l’intera narrazione in questa fase), i personaggi che vi prendono posto non possono che condividere i medesimi caratteri, e all’inferno non possiamo che trovare esseri diabolici, anche se di un diabolico quasi carnevalesco: Il vecchio aveva un nastro con delle penne bianche legate intorno al capo, che tratteneva in parte la sua capigliatura nera, abbondante e arruffata. La sua faccia era attraversata da due larghe strisce trasversali; una, dipinta di rosso vivo, andava da un orecchio all’altro e comprendeva il labbro superiore; l’altra, bianca come calce, si estendeva sopra e parallelamente alla prima, in modo che anche le palpebre erano colorate in questo modo. Gli altri due uomini erano ornati di righe nere fatte con polvere di carbone. Il gruppo assomigliava perciò molto ai diavoli che vengono in scena in opere come il Freischütz 21.

In realtà, questo processo di omologazione dell’uomo al paesaggio inizia fin dalla prima comparsa di entrambi, nelle prime righe del capitolo. Confrontiamo questi due paragrafi, che si presentano in rapida successione, l’uno dedicato alla prima apparizione della terra, e l’altro dedicato alla prima apparizione dei suoi abitanti: Un po’ dopo mezzogiorno doppiammo il Capo S. Diego ed entrammo nel famoso stretto di Le Maire. Costeggiavamo da vicino il litorale fuegino, ma il profilo della scoscesa e inospitale Statenland era visibile fra le nuvole 22. Un gruppo di Fuegini, in parte nascosti dall’intricata foresta, era appollaiato sopra una punta scoscesa sovrastante il mare 23.

land, when we saw on our weather-bow this notorious promontory in its proper form — veiled in a mist, and its dim outline surrounded by a storm of wind and water». 21 December 1832. 21 «The old man had a fillet of white feathers tied round his head, which partly confined his black, coarse, and entangled hair. His face was crossed by two broad transverse bars; one, painted bright red, reached from ear to ear and included the upper lip; the other, white like chalk, extended above and parallel to the first, so that even his eyelids were thus coloured. The other two men were ornamented by streaks of black powder, made of charcoal. The party altogether closely resembled the devils which come on the stage in plays like Der Freischütz». 17 December 1832. 22 «A little after noon we doubled Cape St. Diego, and entered the famous strait of Le Maire. We kept close to the Fuegian shore, but the outline of the rugged, inhospitable Statenland was visible amidst the clouds». 17 December 1832. 23 «A group of Fuegians partly concealed by the entangled forest, were perched on a wild point overhanging the sea». 17 December 1832.

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Entrambi, la terra e l’uomo, più che mostrarsi sembrano lasciarsi solo intravedere, semi nascosti, ‘offuscati’, la prima dalle nuvole e dalle nebbie, il secondo dalla foresta che lo avvolge. Entrambe le descrizioni presentano così un tratto di indefinitezza che, come vedremo, continuerà a sottendere il discorso fino alla fine della sequenza che stiamo analizzando. È come se Darwin riuscisse sempre solo a ‘intravedere’ il Fuegino, anche quando questi gli si para davanti e lo abbraccia o percuote sonoramente per mostrargli la propria amicizia. Di fronte a tale difficoltà a definire i caratteri dell’Altro, ad articolare la sua immagine, Darwin sembra porre in opera una prima strategia di configurazione, quella che abbiamo appena visto, per ratio facilis ci verrebbe da dire, consistente nella ricerca di un repertorio di immagini generiche dell’alterità da ritagliare e riadattare per rendere conto di questa alterità particolare. Fra queste, Darwin seleziona una serie di figure, letterarie e teatrali, di une delle forme di alterità per eccellenza costruite dalla nostra cultura: quelle del mondo infernale, per l’appunto 24. Tale strategia non sembra però sufficiente a ‘bloccare’ l’immagine del Fuegino e della sua terra, ad articolarla adeguatamente, e così si rende necessaria una seconda strategia semiotica che faccia economia delle immagini già disponibili, già costruite, e si orienti invece verso l’invenzione di una forma nuova, procedendo dunque per ratio difficilis. In questa seconda strategia Darwin non cerca più di risolvere l’indefinitezza ‘ingabbiandola’ in immagini definite provenienti da situazioni diverse, ma tenta di tematizzare l’indefinitezza stessa, facendone un carattere costitutivo del mondo fuegino, non ricorrendo a imma-

24 La rappresentazione dell’alterità geografica in forma di «inferno» costituisce in realtà un particolare topos letterario di cui sarebbe interessante tracciare le trasformazioni iconografiche. A titolo di esempio, citiamo una descrizione del paesaggio dell’Arcadia tratta dal Viaggio del giovane Anacarsi dell’Abate Barthélemy: «Questo paese non è che un susseguirsi di quadri in cui la natura ha dispiegato la grandezza e la fecondità delle sue idee, messe insieme alla rinfusa, senza riguardo alla differenza dei generi […]. Quante volte, arrivati sulla cima di un monte minaccioso, abbiamo visto la folgore serpeggiare sopra di noi! quante volte ancora, dopo esserci fermati nella regione delle nuvole, abbiamo visto all’improvviso la luce del giorno trasformarsi in un chiarore tenebroso, l’aria ispessirsi, agitarsi con violenza e offrirci uno spettacolo tanto bello quanto spaventoso! Quei torrenti di vapori che pssavano rapidi sotto i nostri occhi e si precipitavano in vallate profonde, quei torrenti d’acqua che rotolavano mugghiando nel fondo degli abissi, quelle grandi masse di montagne che, attraverso il fluido spesso dal quale eravamo avvolti, sembravano velate di nero, le grida funeree degli uccelli, il mormorio lamentoso dei venti e degli alberi, ecco l’inferno di Empedocle». Cit. in François Hartog, Mémoire d’Ulysse. Rècits sur la frontière en Grèce ancienne, Paris, Gallimard 1996 (tr. it. Memorie di Ulisse. Racconi sulla frontiera nell’antica Grecia, Torino, Einaudi 2002).

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gini analoghe, che presentino la stessa caratteristica, ma opponendo le apparenze, i costumi e lo stesso linguaggio fuegini alle forme definite del mondo «civile», non più dunque un procedimento per assimilazione ma un procedimento per contrasto. Questa non ‘articolabilità’ dell’immagine del Fuegino caratterizza innanzitutto la loro apparenza fisica di uomini-diavoli, difficili da ricondurre alla specie umana, o di uomini-animali, che si presentano solo parzialmente coperti da pellicce, che per di più sono indossate con il pelo verso l’esterno, dunque animali all’apparenza, o appena decorati da indumenti che sembrano aver perso ogni umana ragion d’essere, in quanto incapaci di coprire, tanto dal freddo quanto dagli sguardi: Il loro unico indumento consiste in un mantello fatto di pelle di guanaco, col pelo verso l’esterno e che portano gettato semplicemente sulle spalle, lasciando spesso scoperta la persona 25;

per poi estendersi a tutti gli aspetti della convivenza sociale, caratterizzando il loro modo di abitare, in cui non si riscontrano regole di alcun genere: Il wigwam fuegino assomiglia per forma e dimensioni a un mucchio di fieno. Consiste semplicemente di pochi rami spezzati conficcati nel terreno e ricoperti molto imperfettamente da un lato con pochi ciuffi di erba e di giunchi. Il tutto non è neppure il lavoro di un’ora ed è usato soltanto per pochi giorni 26, Di notte, cinque o sei umani, nudi e scarsamente protetti dal vento e dalla pioggia di questo clima tempestoso, dormono sulla terra umida avvoltolati come animali 27, Non possono conoscere la sensazione di possedere una casa e ancor meno quella di un affetto domestico 28;

toccando quindi il loro assetto sociale, che, ben più che semplicemente anarchico, sembra totalmente assoggettato al caso del momento: 25 «Their only garment consists of a mantle made of guanaco skin, with the wool outside: this they wear just thrown over their shoulders, leaving their persons as often exposed as covered». 17 December 1832. 26 «The Fuegian wigwam resembles, in size and dimensions, a haycock. It merely consists of a few broken branches stuck in the ground, and very imperfectly thatched on one side with a few tufts of grass and rushes. The whole cannot be the work of an hour, and it is only used for a few days». 25 December 1832. 27 «At night, five or six human beings, naked and scarcely protected from the wind and rain of this tempestuous climate, sleep on the wet ground coiled up like animals». Ibidem. 28 «They cannot know the feeling of having a home, and still less that of domestic affection». Ibidem.

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Le diverse tribù non hanno né un governo né un capo 29, La perfetta eguaglianza fra gli individui nelle tribù fuegine ritarderà per lungo tempo la loro civilizzazione. Come avviene che quegli animali il cui istinto li spinge a vivere in società e a obbedire ad un capo, siano molto più capaci di miglioramento, possiamo osservare che lo stesso accade con la specie umana 30;

per non parlare delle abitudini alimentari, aspetto in cui si addensano i più chiari tratti, allo sguardo di Darwin, dell’abiezione umana: dal consumo di carne putrefatta alla maniera degli avvoltoi, al cannibalismo domestico, che li porta a mangiare le donne anziane della famiglia durante le carestie invernali: È certamente vero che quando in inverno sono assillati dalla fame, essi uccidono e divorano le loro donne vecchie prima di uccidere i loro cani 31;

fino a tutti gli aspetti della dimensione semiotica e simbolica, con i loro suoni inarticolati e la loro incomprensibile gestualità: Il linguaggio di questa gente, secondo le nostre nozioni, si può appena chiamare articolato. Il Capitano Cook lo ha paragonato ai suoni aspri, gutturali e metallici emessi da un uomo che si schiarisce la gola 32, […] dopo diventarono buoni amici e il vecchio ce lo mostrò battendoci leggermente il petto ed emettendo una specie di suono chiocciante, come quello che si fa quando si dà da mangiare ai polli. Camminavo insieme al vecchio e questa dimostrazione di amicizia venne ripetuta parecchie volte; fu conclusa con tre forti colpi che mi vennero dati contemporaneamente sul petto e sulla schiena. Egli scoperse poi il petto perché potessi restituirgli il complimento e dopo che l’ebbi fatto ne sembrò molto soddisfatto 33. «The different tribes have no government or chief». Ibidem. «The perfect equality among the individuals composing the Fuegian tribes must for a long time retard their civilization. As we see those animals, whose instinct compels them to live in society and obey a chief, are most capable of improvement, so is it with the races of mankind». 6 February 1833. 31 «It is certainly true, that when pressed in winter by hunger, they kill and devour their old women before they kill their dogs». 25 December 1832. 32 «The language of these people, according to our notions, scarcely deserves to be called articulate. Captain Cook has compared it to a man clearing his throat, but certainly no European ever cleared his throat with so many hoarse, guttural, and clicking sounds». 17 December 1832. 33 «[…] then they became good friends. This was shown by the old man patting our breasts, and making a chuckling kind of noise, as people do when feeding chickens. I walked with the old man, and this demonstration of friendship was repeated several 29 30

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Questa completa assenza di articolazione sociale e semiotica rima, nuovamente, con l’immagine del paesaggio, che continua a presentare una configurazione ‘stilisticamente’ omogenea rispetto agli abitanti: Il loro paese è un ammasso confuso di rocce selvagge, di alte colline e di inutili foreste, il tutto avvolto da nebbia a tempesta senza fine 34.

A questo carattere negativo di disarticolazione, che porta a definire il mondo fuegino attraverso le sue ‘mancanze’ e che sembra marcare ogni aspetto di questa alterità, si oppone un solo tratto positivo, anch’esso fortemente differenziante rispetto all’uomo «civile»: si tratta della incredibile capacità mimetica che viene riconosciuta ai Fuegini 35. Non mi soffermerò sui singoli passi che valorizzano questo aspetto, le cui manifestazioni costellano l’intero testo, testimoniando la sorpresa, peraltro mai nascosta, di Darwin di fronte a questa ‘meraviglia’, ma mi limiterò a citare questo unico passo: Essi sono mimi eccellenti; appena tossivamo, sbadigliavamo o facevamo qualche movimento strano, subito ci imitavano. Qualcuno di noi cominciò a stralunare gli occhi, ma uno dei giovani Fuegini […] riuscì a fare smorfie molto più brutte. Potevano ripetere in modo perfettamente corretto ogni parola di ogni frase che rivolgevamo loro […]. Eppure tutti noi Europei sappiamo come sia difficile distinguere separatamente i suoni di una lingua straniera. Chi di noi, ad esempio, potrebbe seguire un Indiano d’America in una frase lunga più di tre parole? Tutti i selvaggi sembrano possedere in modo non comune la facoltà di imitazione 36.

Capacità imitativa assolutamente strabiliante, sorretta da una altrettanto strabiliante acutezza dei sensi che caratterizza la loro perce-

times; it was concluded by three hard slaps, which were given me on the breast and back at the same time. He then bared his bosom for me to return the compliment, which being done, he seemed highly pleased». Ibidem. 34 «Their country is a broken mass of wild rocks, lofty hills, and useless forests: and these are viewed through mists and endless storms». 25 December 1832. 35 Su questo aspetto si veda anche Michael Taussig, Mimesis and Alterity. A Particular History of the Senses, New York, Routledge 1992. 36 «They are excellent mimics: as often as we coughed or yawned, or made any odd motion, they immediately imitated us. Some of our party began to squint and look awry; but one of the young Fuegians […] succeeded in making far more hideous grimaces. They could repeat with perfect correctness each word in any sentence we addressed them [...]. Yet we Europeans all know how difficult it is to distinguish apart the sounds in a foreign language. Which of us, for instance, could follow an American Indian through a sentence of more than three words? All savages appear to possess, to an uncommon degree, this power of mimicry». 17 December 1832.

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zione sia in termini di forza: sono capaci di cogliere fenomeni che accadono a distanze incomparabilmente maggiori rispetto a quanto riescano a fare i bianchi; sia in termini di finezza: riescono a discriminare i dati visivi e auditivi con una precisione e un dettaglio assolutamente notevoli. Questa capacità non sembra però in grado di migliorare la loro condizione perché, dice sempre Darwin, essi sono come bambini: «incapaci di capire la più semplice alternativa», incapaci di dire se una cosa sia bianca o nera perché il bianco o il nero sembrano occupare, alternativamente, la loro mente per intero: [...] ciò era dovuto in parte alla loro evidente difficoltà di capire la più semplice alternativa. Chiunque abbia pratica di bambini, sa come raramente si possa ottenere una risposta, anche a una domanda così semplice come se una cosa sia bianca o sia nera; l’idea di nero o bianco sembra occupare la loro mente alternativamente. Così avveniva con questi Fuegini e perciò era generalmente impossibile capire, con domande contrastanti, se si era compreso esattamente ciò che avevano asserito 37.

A differenza dell’uomo «civile», suo diametrale opposto, il Fuegino sembra cioè essere incapace di pensare la differenza, e ciò oltre a essere del tutto coerente, nella costruzione darwiniana, con l’idea generale di indifferenziazione e disarticolazione che caratterizzerebbe questo mondo, sembra anche poter giustificare la capacità mimetica di questa popolazione, che non si esercita mai lontano dal fenomeno immediato ma solo in sua presenza, rispecchiandolo, o a breve distanza temporale dalla sua esecuzione. Le loro capacità semiotiche fondamentali sembrano così essere puramente «iconiche»: essendo puramente concentrati sullo stimolo presente essi non possono che rispecchiarlo, senza alcuna capacità di rielaborazione o costruzione, a differenza dell’uomo «civile», rappresentato nel testo, eminentemente, dagli ufficiali della nave (solo perché Darwin ha poche occasioni per parlare dei marinai comuni, che si presentano come semplici figuranti), che esibiscono continuamente, all’esatto opposto, le proprie capacità «simboliche» (nell’accezione peirceana del termine)

37 «[...] this was partly owing to their apparent difficulty in understanding the simplest alternative. Every one accustomed to very young children, knows how seldom one can get an answer even to so simple a question as whether a thing is black or white; the idea of black or white seems alternately to fill their minds. So it was with these Fuegians, and hence it was generally impossible to find out, by cross questioning, whether one had rightly understood anything which they had asserted». Ibidem.

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in un continuo lavoro di comparazione e rielaborazione fra cose prossime e lontane, presenti e passate. Essi appartengono a un mondo ‘profondo’, mentre il mondo dei Fuegini appare totalmente ‘piatto’ schiacciato sulla presenza. Così le tante «figure dell’altro», rispondenti a sistemi semiotici diversi: immagine visiva, abitudini alimentari e vestimentarie, vita sociale, forme di comunicazione gestuale, linguaggio verbale, e così via, ci vengono mostrate come caratterizzate dalla stessa informità indifferenziata manifestata anche dall’immagine che ci viene proposta del loro ambiente naturale. Identità di (non) configurazione fra uomo e ambiente che viene a spiegarsi con il fatto che i Fuegini non possono fare altro che riflettere il loro ambiente, senza alcuna abilità di trasformazione, a differenza dell’uomo «civile», che si trova messo in relazione, a volte esplicitamente ma più spesso come termine di comparazione implicito, a un ambiente ordinato e ben formato, che continua a dare forma all’uomo, il quale, a sua volta, con le sue capacità, lo trasforma, in un circolo virtuoso. Riassumendo brevemente, abbiamo visto come Darwin per costruire un’immagine efficace di questa Alterità, che gli appare totale e incommensurabile rispetto al suo mondo di origine, tenti dapprima di raccogliere e combinare una serie di immagini culturali, prodotte dal suo mondo, già pronte e codificate, letterarie e teatrali, connotate (ipercodificate) da marche semantiche che le legano a un particolare mondo altro, quello infernale, con tutte le sue colorazioni negative. Si tratta di un procedimento che, con Eco, diremmo di ratio facilis, in quanto le scelte poggiano su un modello di significazione già codificato, che si tratta al più di riadattare alla situazione corrente. Se tale procedimento configurativo produceva un Fuegino che andava a occupare la faccia poetica o carnevalesca del nostro mondo, con un secondo movimento, Darwin produce un Fuegino totalmente ‘incommensurabile’: il nostro modo di articolare il mondo non è pertinente per raccontare chi è il Fuegino, poiché il suo sembiante non è umano né diabolico, né animale, il suo mangiare non è un vero mangiare, il suo tempo non corrisponde alle scansioni del nostro, il suo linguaggio non è articolato come il nostro e così via. Questa seconda strategia, che ha come effetto l’incommensurabilità, ha a suo fondamento un modello comparativo che si basa sulla focalizzazione di un singolo tratto semantico, che possiamo lessicalizzare come «indifferenziazione» o «mancanza di articolazione», prodotto per differenza rispetto a una considerazione, più o meno esplicita, del mondo di partenza e sulla correlazione di questa categoria semiotica con la categoria espressiva assunta per ciascuno dei sistemi semiotici convocati:

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Fuegino Immagini dell’uomo Sfuocato e dell’ambiente

A fuoco

Sistemi vestimentari Non separazione

Separazione

Sistemi alimentari E

«uomo civile»

Sistemi sociali Sistemi politici Sistemi temporali Sistemi semiotici

Assenza di selezione (putrido e Cibo selezionato cannibalismo) Relazioni Relazioni stabili occasionali Sistema gerarchico e Assenza di sistema strutturato Profondità e Puro presente articolazione temporale Iconico

Simbolico

C1

Non articolato

Articolato

C2

Costrizione (non poter fare + non poter non fare)

Libertà (poter fare + poter non fare)

Questa macrostrutturazione oppositiva si fa così carico di tutti i sistemi semiotici convocati nel testo quale ‘codice’ locale che può ‘mettere in forma’ la differenza costitutiva dei due mondi, che è proprio ciò di cui Darwin necessita per mettere in scena la totale alterità distinguendo grosso modo, alla «più o meno», come dice Eco, dunque attraverso l’istituzione di un sistema ipocodificato, ciò che ‘sta di qua’ da ‘ciò che sta di là’. Il semisimbolico ci ha così permesso di proporre una lettura strutturata del testo in oggetto, prima permettendoci di articolare i vari sistemi semiotici convocati che siamo stati capaci di riconoscere, poi, considerata la loro convergenza nell’adottare una medesima categoria semantica, di metterli in relazione con una articolazione semantica più astratta, pertinente all’organizzazione modale del testo. Tutto ciò, ci sembra, non ha nulla a che fare con «linguaggi semisimbolici» quanto invece con un «modo semisimbolico» di articolazione dei rapporti fra categorie semantiche e categorie espressive delle semiotiche convocate per definire l’architettura di un testo nella sua stretta peculiarità: le correlazioni individuate valgono per il solo Voyage of the Beagle, altri testi richiederanno altre indagini.

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4. Rappresentare l’Altro: piccola riflessione sull’immaginario epidemico

L’analisi che andiamo ora a proporre muove da un tentativo di riflettere sul diffondersi e sull’affermarsi, in un modo che potremmo dire ‘epidemico’, dei concetti di contagio e di contaminazione e di miriadi di figure e di immagini a essi connesse, tanto da far diventare i corrispondenti lessemi, ed altri strettamente imparentati, quali «epidemia», «virus», «virale» e altri, delle vere e proprie parole d’ordine per descrivere fenomeni del più svariato genere o per sintetizzare presunti nuovi paradigmi epistemologici. Personalmente, ho cominciato a prestare una qualche attenzione a questo fenomeno qualche anno fa, in un luogo che non dovrebbe certo apparire incongruo per iniziare una riflessione sui costumi della nostra società, e cioè all’interno di uno di quei moderni supermercati della cultura di massa che sono le edicole: sulle prime pagine di tutti i principali quotidiani campeggiavano le notizie, dai toni estremamente drammatici, di una cruenta epidemia appena esplosa nel cuore dell’Africa equatoriale (hic sunt leones: la geografia dell’immaginario è restia ai mutamenti), causata da un nuovo virus, mostruoso quanto misterioso: Ebola, che pareva pronto a balzare sul primo volo da Kinshasa o da Nairobi per insediarsi, vincitore e dominatore assoluto, sul trono del mondo, aggredendo e colpendo l’uomo in ogni angolo del globo con tutta la sua furia distruttrice. Da allora, almeno altre quattro volte Ebola ha tentato di condizionare il nostro immaginario dalle pagine dei giornali e dagli schermi televisivi, riproponendo ogni volta, quasi nei dettagli, il medesimo tessuto di immagini, opportunamente aggiornato con citazioni di figure dai film più recenti. Le pagine interne dei medesimi quotidiani, oltre a descrivere con dovizia di particolari gli effetti devastanti causati dal morbo sui corpi

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delle sfortunate vittime e l’avanzata inesorabile dal cuore della foresta verso le megalopoli equatoriali, si dilungavano anche sulla natura misteriosa del virus, avanzando ipotesi sulle possibili cause del suo scatenarsi, o sulle sue nobili origini classiche: qualcuno ventilava che fosse proprio Ebola, e non una banalissima peste, l’agente distruttore responsabile della terribile epidemia ateniese cantata da Tucidide; o che fosse addirittura da identificare con Ebola lo strumento di distruzione scatenato da Apollo fra le schiere degli Achei che assediavano Troia. Altri, per vantarne i quarti di nobiltà, ne facevano il primo organismo vivente del pianeta, e da sempre signore sovrano del Rift africano, territorio di origine della vita terrestre e dell’uomo, in procinto di riappropriarsi di un pianeta suo di diritto. Ma, come sanno bene tutti coloro che si occupano di comunicazione di massa, notizia chiama notizia, immagine chiama immagine, e l’ancoraggio a un argomento dominante, con la conseguente creazione di configurazioni omogenee, costituisce una delle principali forme di espansione discorsiva utilizzate per riempire le pagine dei quotidiani. Così, a contorno della notizia principale, era possibile trovare il resoconto della preparazione di una spedizione scientifica nel nord polare della Norvegia, organizzata per recuperare dalle profondità ostruite dai ghiacci i corpi di alcuni minatori, le cui salme assiderate avrebbe potuto ancora conservare in vita, ibernato, il probabile responsabile del loro decesso avvenuto poco dopo la fine della Prima guerra mondiale, individuato in uno degli agenti infettivi più ‘feroci’ e più celebrati della storia del pianeta, il virus influenzale denominato Spagnola, resosi responsabile, nel 1919, della pandemia che, secondo le stime del tempo, avrebbe portato alla morte oltre 20 milioni di persone, favorendo la diffusione di voci relative a gesta ‘untuose’ compiute dai, o per conto dei, governi appena usciti dalla guerra per non dover sfamare tante povere bocche, e facendo la fortuna (almeno stando alla quantità di réclame presenti sui quotidiani dell’epoca) di decine di ciarlatani che spacciavano rimedi miracolosi, con toni e promesse non dissimili da quelle narrate da Defoe nel suo celebre diario La peste di Londra (anche la pubblicità, a dispetto di tanti sforzi e investimenti, appare assai restia ai cambiamenti). All’interno delle medesime pagine, anche con riferimento diretto all’opportunità o meno di riportare in vita, per studiarlo, tale terribile virus, altri articoli riassumevano e commentavano il dibattito in corso relativo alla proposta di ‘giustiziare’ l’ultimo esemplare del Vaiolo, altro agente infettivo un tempo temutissimo, tanto da assurgere alla dignità divina per diverse culture, e oggi, pare, definitivamente debellato grazie alla più grande azione planetaria di vaccinazione preventiva,

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che, negli anni Settanta, aveva portato qualcuno a parlare di un mondo a venire libero da epidemie e dalle paure a esse connesse. L’eliminazione dell’ultimo esemplare di Vaiolo era auspicata, dai suoi sostenitori, soprattutto a motivo di un’altra notizia corrente, relativa alla spedizione, via posta e senza controllo alcuno, di tre provette contenenti bacilli di peste bubbonica da un laboratorio, ove erano conservati a scopo di studio, a un comune cittadino che ne aveva semplicemente fatto richiesta. Le notizie, come del resto solitamente accade, erano accompagnate da illustrazioni. Alcune erano prevedibili immagini di contestualizzazione, come ad esempio, un villaggio nella foresta pluviale africana, indistinguibile da ogni altro villaggio se non grazie al commento che l’accompagnava. A conferma, qualora fosse necessario, che la nostra società più che «società dell’immagine» potrebbe essere definita «società della didascalia», vista la bassa informatività della miriade di immagini «di repertorio» che ci sommergono e che, quasi sempre, paiono non essere in grado di dire quasi nulla se abbandonate a se stesse, in assenza di una qualche glossa che le identifichi, le contestualizzi e dia loro il senso che ci si aspetta che il fruitore attribuisca loro. Come se non valesse la pena di cercare e proporre immagini informative, forse anche perché ci si comincia a rendere conto che ‘leggere’ le immagini non è sempre operazione tanto semplice e che estrarne informazione può richiedere quantomeno pazienza, che non si ritiene che lo spettatore abbia. Oppure, come abbiamo visto anche nel precedente capitolo, perché l’adozione di strategie comunicative basate su ratio facilis offre un mezzo estremamente economico, facendo riferimento a un «già noto», per addomesticare qualsiasi forma di alterità, e poco importa che in tal modo l’alterità stessa venga cancellata o resa una pura e semplice creatura da zoo, da osservare attraverso un vetro protettivo e magari ridacchiando della sua stramberia. In altri casi, ancor più spudoratamente e a conferma di questo procedimento, venivano presentate «immagini-citazione» estrapolate da altri testi mass mediatici. In questo caso si trattava spesso di immagini facilmente «riconoscibili», ovvero di immagini già consumate e ben digerite in quanto tratte da prodotti mediatici di successo. Immagini destinate, anche in questo caso ci sembra, non ad arricchire l’informazione ma solo a convocare in blocco quelle emozioni, in questo caso fobiche, che le dette immagini avevano già contribuito a produrre al momento della fruizione del testo da cui erano state tratte. Immagini che avevano già provato la propria efficacia nel generare gli effetti patemici desiderati, e che pertanto potevano essere usate come forme codificate di determinate passioni immediatamente riconoscibili e riattivabili a piacere. Dunque repliche ulteriori o variazioni moderne di quelle Pathosformeln già stu-

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diate da Aby Warburg 1 e già riconosciute come modelli costitutivi della tradizione figurativa della nostra cultura. Ad esempio, uno dei principali quotidiani nazionali aveva scelto di illustrare gli eventi africani presentandoci un Dustin Hoffman in scafandro giallo anticontaminazione tratto dal blockbuster hollywoodiano Virus Letale. Film a sua volta improntato a una cronaca fortemente romanzata della precedente epidemia di Ebola: il libro omonimo di Richard Preston, giornalista specializzato nel giocare con le paure, forse ancestrali 2, legate all’immaginario epidemico, come dimostra la sua opera successiva, il romanzo intitolato Cobra, dal nome di un terribile virus artificiale che ex Sovietici, Iraqueni e Svizzeri – evidentemente la feccia del mondo nella prospettiva dell’autore – si sarebbero dilettati a produrre solo per gettare nel panico le ignare popolazioni delle metropoli americane 3. Per accompagnare la spedizione alla ricerca del virus della Spagnola fra i ghiacci, lo stesso quotidiano proponeva una Julia Ormond, dal film Il Senso di Smilla per la neve, in cui si va alla ricerca di rari vermoni, lì curiosamente classificati come virus, fra i ghiacci della Groenlandia. Mentre un altro quotidiano di pari importanza proponeva a illustrazione della medesima notizia nientemeno che Harrison Ford-Indiana Jones, che nella sua carriera cinematografica non pare che si sia mai impegnato nella ricerca di virus, ma che resta comunque una buona icona per qualsiasi racconto d’avventura. Infine, per rendere passionalmente avvincente la notizia concernente la possibile distruzione del Vaiolo, un terzo quotidiano ci proponeva un frame dal film Cassandra Crossing. Film in cui si narra della fuoriuscita di materiale biologico infettivo da un laboratorio, con poco implicita allusione ai pericoli che potrebbero derivare dalla mancata attuazione della suddetta eliminazione. Le notizie quotidiane pare dunque che abbiano poco da aggiungere al nostro immaginario, al nostro modo di cogliere e leggere il mondo: Hollywood aveva già provveduto a dire tutto ciò che era necessario dire e, soprattutto, a suscitare le emozioni che era necessario suscitare 4. 1 Abi Warbug, Gesammelte Schriften, Leipzig-Berlin 1932 (tr. it. parziale La rinascita del paganesimo antico, Firenze, La Nuova Italia 1980). 2 Jean Delumeau, La peur en occident, Paris, Arthème Fayard 1978 (tr. it. La paura in occidente, Torino, SEI 1979). 3 Dopodiché potrebbe anche diventare imbarazzante chiedersi come possa venire in mente a qualche pericoloso burlone di diffondere via posta bacilli di Anthrax veri e falsi. 4 Sul rapporto sempre più complesso fra spettacolarizzazione mediatica, cinema e informazione nella strutturazione della nostra immagine del «reale», si veda il ben più approfondito Marco Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Firenze, Le Lettere 2008.

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Allo stesso tempo alcuni di quei film da cui le immagini erano tratte e alcuni dei libri che avevano ispirato quei film occhieggiavano dai medesimi scaffali, confondendosi fra altri libri e film a tema epidemico. Solo qualche titolo, senza commenti ulteriori: Contagio, Contagio letale, Virus, Virus zona zero, L’anno del contagio, Epidemia, Virus Cobra. Uscito dall’edicola, e ormai avvertito, non poteva più sfuggirmi la pervasività epidemica del tema del contagio: film, racconti, romanzi, più o meno di genere, nonché sceneggiati televisivi, apparivano ossessivamente affollati da virus e batteri, e là dove non ce n’erano ecco arrivare soccorritrice la metafora epidemica, pronta a supportare anche una serie di neonascenti teorie culturologiche, con la loro idea di una cultura atomizzata in particelle delle più svariate taglie (dal sema, al concetto, alla rappresentazione, allo stile), ciascuna dotata di vita propria e indipendente da quella di qualsiasi altra, pronte a diffondersi, in modo epidemico appunto, replicandosi in testi, ideologie, culture, al solo scopo di garantire la propria stessa sopravvivenza, e anche a discapito del ‘corpo’ testuale destinato a ospitarle. Filone entro cui ritroviamo tentativi seri di riflessione, anche se magari discutibili, come quelli di Dawkins e di Sperber, ma anche sproloqui decisamente più naïf, come quelli di Richard Brodie e di Aaron Lynch, autori di due opere fortunate: Virus of the Mind e Thought Contagion 5, in cui non ci si limita a dimostrare che l’intera storia della nostra civiltà altro non sarebbe che il risultato della diffusione incontrollata di particelle mentali altamente virali (memi), ma ci si spinge a indicare anche le necessarie armi di difesa affinché ci si possa porre al riparo da ogni rischio di contagio. Sicuramente ciò che stava accadendo nell’Africa equatoriale era terribile, ma i virus sembravano diffondersi soprattutto dentro o tra i nostri mezzi di comunicazione di massa, saltando dall’uno all’altro, infettandone il genere e producendo quel tipico effetto di indifferenziazione caratteristico delle crisi epidemiche 6, su cui torneremo, e rendendo le rappresentazioni tutte affini se non identiche a se stesse, portandoci a giudicare dell’epidemia di Ebola con il senno di Virus letale, o della conservazione sperimentale del Vaiolo con le paure indot5 Richard Brodie, Virus of the Mind. Seattle, Integral Press 1996; Richard Dawkins, The Selfish Gene, Oxford, Oxford Un. Press 1976 (tr. it. Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente, Milano, Mondadori 1992); Aaron Lynch, Thought Contagion. How Belief Spreads Through Society, New York, Basic Books 1996; Dan Sperber, La contagion des idées, Paris, Odile Jacob 1996 (tr. it. Il contagio delle idee, Milano, Feltrinelli 1999). 6 Sul tema si veda in particolar modo René Girard, Le bouc émissaire, Paris, Grasset 1982 (tr. it. Il capro espiatorio, Milano, Adelphi 1987).

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te da Cassandra Crossing (già una volta ci è andata bene ma non sembra il caso di rischiare oltre). Con un’espressione tratta da uno di quei film infettati, Johnny Mnemonic, uno dei tanti replicanti della nuova specie virale introdotta dal cyberpunk, che ci presenta il virus pronto al più grande salto di genere immaginabile, quello dal non vivente al vivente, dall’elettronico al biologico, potremmo dire che come il virus del «tremore nero», di cui lì si narra, anziché ‘nell’aria’, il virus è ‘nell’etere’. Che cosa dunque fa sì che l’idea epidemica e le rappresentazioni a essa connesse abbiano una tale capacità di fascinazione nei confronti della nostra cultura e del nostro tempo? Sarà il semplice terrore per un’epidemia reale e pervasiva come l’AIDS differito di appena un poco, o quasi nulla, essendo anch’esso a sua volta articolato e reso intelligibile attraverso una serie di narrazioni e di rappresentazioni che si intrecciano con tutte le altre? Sarà che solo trenta anni fa il mondo sembrava correre felice verso un radioso destino privo di malattie infettive ed epidemiche, e che in seguito al completamento del piano mondiale di vaccinazione contro il Vaiolo non sembrava che restasse da eliminare altro che la fastidiosa ma tutto sommato bonaria influenza; mentre oggi non si fa che parlare di «virus emergenti» che, giovani, feroci e rampanti sembrano a tutti i costi voler rimettere in discussione le chimere di una vita sana e centenaria, quali quelle che farmacologia e chirurgia plastica ci promettono in continuazione, e dunque intollerabili di fronte a un’aspettativa di vita che sogna l’eternità? O sarà, ancor più semplicemente, il solito gioco dell’evocazione esorcistica dell’orrore? O ci sarà qualcosa di più profondo, e forse di profondamente malato, come sembrerebbe se fosse vero che, come ci ricorda Bruno Latour nel suo bel libro dedicato a Pasteur 7, nell’idea di epidemia e nel modello epidemiologico di circolazione non c’è mai stato nulla di positivo né di ‘illuministico’, ma solo l’irrazionale concezione di uno scambio a senso unico che mette il ricevente in una posizione di passività non solo impotente ma anche irreversibile, e in cui il corpo, individuale o sociale, non ha difese se non quelle della chiusura e della fuga di fronte alla potenza inarrestabile del singolare, per quanto infimo esso possa essere. E c’è qualcosa che caratterizza tutte queste rappresentazioni di epidemie che da sempre accompagnano e alimentano il nostro immaginario: da Omero, Sofocle e Tucidide, fino a Manzoni e a Verga, o a Defoe e a Poe, anche se mai tanto concentrate e pervasive come oggi? 7 Bruno Latour, Les microbes. Guerre et paix, Paris, Métailié 1984 (tr. it. I microbi, Roma, Editori Riuniti 1991).

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Una spiegazione, o almeno una chiave di lettura del fenomeno, un semiologo non può che provare a cercarla all’interno di questi stessi testi infetti. E fra quelli attraversati in questa ricerca vorrei soffermarmi ora, rapidamente, su uno di quelli che mi sono parsi più significativi. Si tratta di un film, di un vecchio film, liberamente tratto da un grande classico della letteratura di genere: è il Nosferatu sceneggiato da Heinrich Galeen per Murnau nel 1922. Dunque non un prodotto dell’ultima ondata epidemica, ma un testo che ci è parso particolarmente interessante per una serie di motivi: da un lato perché affronta il tema della contaminazione e del contagio associandolo a quello del vampirismo, conducendolo così esplicitamente in ambito horror, e come abbiamo suggerito le rappresentazioni epidemiche odierne sembrano voler giocare in modo piuttosto spinto, e ben più che in passato, con la propria capacità di suscitare emozioni forti; dall’altro, perché sembra affrontare la questione del legame fra epidemia e immaginazione in modo diretto e quasi ‘teoretico’. Un approccio che porta a una serie di curiosi tradimenti del testo da cui prende le mosse il Dracula di Stoker, facendo scivolare quasi in secondo piano il tema centrale del libro e il suo sviluppo narrativo (l’avventurosa caccia al vampiro incautamente liberato e le battaglie contro esso) per sottolineare e articolare una serie di elementi del tutto assenti nel testo di partenza. Ma procediamo con ordine. Entrambi i testi (Dracula di Stoker e Nosferatu di Murnau) narrano di un giovane, impiegato presso un sensale, che su commissione di quest’ultimo lascia la propria città per un lungo viaggio che lo porta, ben lontano da casa, fra i Carpazi, dove un conte ha chiesto di essere assistito per l’acquisto di una dimora antica e signorile nel paese in cui il giovane vive. Giunto a destinazione, irridente delle voci superstiziose che lo accompagnano, scopre la vera natura del suo ospite, che è un vampiro, ovvero un non-vivo che si nutre di sangue umano; ma il vampiro lo imprigiona e si trasferisce nella nuova dimora, quella offertagli dal giovane, dove nutrendosi di sangue umano contagia le persone del luogo. Il giovane riesce però a scappare e a ritornare a casa smascherando infine il vampiro con il finale trionfo del bene. Questa è, in sintesi, l’intelaiatura comune dei due racconti e, in pratica, anche tutto ciò che hanno in comune. Osserviamo invece le differenze. a) Una che risalta su tutte, per i nostri interessi: Murnau mette in scena un’epidemia di peste che accompagna l’intero viaggio del vampiro e che si diffonde in città con il suo arrivo, per svanire infine con la sua morte. Epidemia di cui non c’è traccia alcuna nel testo

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di Stoker, mentre nel film assume la funzione di motivo dominante, tanto che l’intera storia viene presentata, fin dal primo quadro, come «Annotazioni sulla grande epidemia di Wisborg. AD 1838». b) La peste, nel film, produce una vera e propria crisi epidemica, trattata in termini molto interessanti, come vedremo, tanto da non far rimpiangere le riflessioni di René Girard sul rapporto fra crisi di indifferenziazione e violenza collettiva, e che rivela un livello di approfondimento del tema del contagio completamente estraneo al testo di Stoker, dove non c’è nessuna crisi e dove il contagio resta un pericolo virtuale noto solo ad alcuni e non alla popolazione che nulla sa e nulla sospetta. Dunque, nel testo di Murnau si sviluppa effettivamente e approfonditamente una tematica di epidemia e di contagio mentre il testo di Stoker sembra porre più attenzione a una tematica della contaminazione provocata dal contatto fra «purezza» e «impurità». c) Una riarticolazione degli spazi, sia in termini di definizione che di focalizzazione. Il paese di origine nel romanzo è l’Inghilterra e l’azione, benché centrata primariamente a Londra, si svolge in diverse città. Il giovane, ad esempio, parte da Exeter per vendere una casa londinese e il vampiro sbarca a Whitby: tre città diverse. Nel film, l’intera parte ‘occidentale’ della storia si svolge all’interno dei confini della cittadina di Wisborg (fatta eccezione per una sequenza fra i campi che la circondano). Senza voler speculare sui motivi della trasformazione possiamo osservare che ciò comporta una riarticolazione topologica che rende i due spazi opposti (quello occidentale e quello orientale) congiungibili via terra, il che permetterà di differenziare radicalmente i viaggi di ritorno dalla Transilvania del giovane e del vampiro. Lo spazio intermedio che separa i due luoghi topici è affine nei due testi ma viene trattato sommariamente nel libro e accuratamente caratterizzato, almeno in alcune sue parti, nel film. d) Mentre in Nosferatu l’epilogo è a Wisborg, dentro lo spazio occidentale, in Dracula l’epilogo lo si ha nei Carpazi, dopo un ulteriore viaggio di inseguimento (da occidente verso oriente), assente nel film. Dunque nel film abbiamo un viaggio di andata e uno di ritorno del bene e un solo viaggio di andata senza ritorno del male. Nel libro abbiamo invece una andata e un ritorno del male a fronte di una andata, un ritorno e una nuova andata del bene che giunge a estirpare il male dentro la sua stessa tana8. 8 Si veda l’interessante variazione di Herzog che nel suo remake del film mette in scena solo un’andata del bene e solo un’andata (da oriente a occidente) del male, che prelude al trionfo finale di quest’ultimo.

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e) Il film presenta una serie di riduzioni attoriali, prodotte per mezzo di sincretismi attanziali 9: mentre in Dracula ciascun ruolo narrativo è assegnato a un diverso personaggio, in Nosferatu più funzioni sono assegnate a un medesimo personaggio. A questo proposito, il film sintetizza: – le due fanciulle vampirizzate presenti nel libro, nella sola moglie del protagonista (Hellen), a cui vengono attribuite caratteristiche di entrambe le donne del romanzo, oltre alla fondamentale funzione «purificatrice», che nel romanzo è invece assunta da un dottore straniero aiutato da altri quattro uomini; – il sensale e il servitore del vampiro che nel romanzo sono due figure ben distinte, la prima assolutamente marginale, con funzione di aiutante e benefattore dell’eroe, e la seconda identificata con un pazzo zoofago, paziente di uno dei medici, sono sussunte dal sensale Knoch, ambiguo fin dall’inizio, unico a saper leggere l’arcana scrittura usata da Nosferatu e infine pazzo e zoofago, senza però mai assumere il ruolo esplicito di «servitore»: neanche lui incontrerà mai il vampiro; – i due medici restano tali ma nel film sono marginalizzati, specie quello definito «seguace di Paracelso», e non entrano nel vivo dell’azione limitandosi a una funzione di commento; – nel film sono inoltre eliminate le figure dei vampirizzati, e di conseguenza le varie scene di purificazione. Anche il giovane Hutter nel film, a dispetto dei morsi del vampiro, non viene infettato ‘materialmente’. Si dice solo che, lungo quello che è stato il tragitto marittimo seguito dal vampiro, sono stati trovati dei morti con dei fori sul collo, «probabilmente colpiti da peste»; – nel film scompaiono tutte le figure metamorfiche del conte: lupi e pipistrelli; – infine, a queste trasformazioni di ordine figurativo (diverse attorializzazioni degli attanti narrativi) se ne aggiungono due abbastanza 9 Ancora un promemoria: nella semiotica strutturale, il Ruolo attanziale (o Attante) è un concetto della Grammatica Narrativa e individua una posizione sintattica, indipendentemente da ogni investimento figurativo. I Ruoli attanziali riconosciuti sono Soggetto, Oggetto, Destinante, Destinatario. Ciascuno di questi ruoli può essere assunto da uno o più personaggi nel corso della narrazione. Ciascun ruolo può anche essere assunto da più personaggi simultaneamente (ad esempio, quando agiscono con intento comune), così come un singolo personaggio può trovarsi, in una fase della narrazione, a occupare più ruoli contemporaneamente (ad esempio nei casi di conflitto o tensione interiore). Il concetto di Attore, è invece pertinente alle Strutture Discorsive e indica il personaggio stesso, riconosciuto però non per il ruolo narrativo che andrà di volta a ricoprire ma per le sue caratterizzazioni figurative e somatiche peculiari.

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particolari: vengono introdotte «creature naturali» (vs soprannaturali), come le amebe o le piante carnivore, associate in modo indiretto al vampiro dal medico «seguace di Paracelso», che sottolinea come in natura esistano cose che «potrebbero anche sembrare innaturali», ma che la scienza dimostra essere del tutto «naturali», liberandole da pregiudizi. Oltre a ciò, il conte non è mai mostrato nell’atto di toccare qualcuna delle sue vittime (Hutter e Hellen): è sempre solo la sua ombra che si sovrappone a quella delle vittime, l’ombra del suo volto o quella della sua mano che si stringe a pugno attanagliando il cuore della vittima. Questo carattere umbratile più che ‘materiale’ del vampiro è sottolineato dal fatto che nessun altro lo vede per tutta la durata del film, fatta eccezione per i due marinai nel delirio della febbre e per i due giovani, e solo dopo che i due, con maggiore o minore credulità, ne hanno avuto notizia. Riassumendo, Nosferatu conserva lo schema generale della storia di vampirismo, ma schematizzato e semplificato: ruoli attanziali principali, articolazione spaziale di base, con due spazi estremi opposti e uno spazio intermedio. Al tema del vampirismo affianca quello dell’epidemia di peste, assente nel romanzo, a cui dà un ruolo assolutamente centrale. Riduce il numero dei personaggi sottolineandone la funzione narrativa. Introduce alcune rilevanti trasformazioni figurative. L’effetto prodotto complessivamente è quello di una forte schematizzazione che serve, nell’economia del testo, a sottolineare le categorizzazioni proposte in modo fortemente oppositivo, e a rimarcare le linee di trasformazione fra queste categorie. Schematizzazione tutt’altro che involontaria, ci sembra, e tale da spiegare anche la presenza di alcune figure e di alcuni eventi apparentemente incongrui con la logica del racconto. Ad esempio, l’intero testo sottolinea la netta separazione fra il mondo occidentale e il mondo di Nosferatu, tanto che nessuno accetta di accompagnare Hutter fino al castello, cosicché questi dovrà attraversare da solo e a piedi il passo che separa i due mondi. Pure, a un certo punto, compare sotto le mura del castello di Nosferatu un tranquillo signore a cavallo che accetta di portare a destinazione la lettera affidatagli da Hutter. Il cavaliere non appartiene, con ogni evidenza, al regno di Nosferatu e dunque, per coerenza, non dovrebbe trovarsi in quel luogo (Hutter costituisce una ben sottolineata eccezione). Tale presenza anomala fa però il paio con la presenza parimente anomala del sensale Knock all’interno del mondo di Hutter. Entrambi assumono infatti l’essenziale funzione di mezzo di comunicazione e di mediazione fra i due mondi: il cavaliere fra Hutter e il suo mondo, in quanto fa sì che una lettera scritta nella lingua di Hutter possa uscire da regno di Nosferatu per

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raggiungere quello dei vivi; Knock fra Nosferatu e il mondo dei vivi (ipoteticamente il suo regno futuro) in quanto fa sì che la lettera di Nosferatu, scritta in una lingua ignota, che origina l’intreccio, possa essere compresa all’interno del mondo dei vivi costruendo un primo ponte per la presenza di Nosferatu nei due spazi distinti. La presenza di qualcuno capace di leggere quella lettera all’interno della città di Wisborg appare anomala quanto la presenza del cavaliere ‘occidentale’ dentro il regno di Nosferatu. Tale problematica non sussiste nel testo di Stoker in quanto ci sono tribù di zingari che si muovono fra i due territori. Questo gioco a mantenere strutture schematiche e oppositive, anche a discapito del realismo della narrazione, sembra suggerire uno slittamento di genere: il soggetto dell’enunciazione sembra rivelarsi più come soggetto di speculazione e riflessione che come soggetto di narrazione, per altro conformemente con le enunciazioni dei quadri di apertura del film: «Annotazioni sulla grande epidemia di Wisborg. AD 1838» «Nosferatu. Non risuona a te questo nome come il richiamo notturno della civetta? Guardati dal pronunciarlo, se non vuoi che le immagini della vita impallidiscano come larve, che sogni spettrali si levino dal cuore e si nutrano del tuo sangue»; «Ho meditato a lungo sull’inizio e sulla fine della grande epidemia che colpì la mia città natale di Wisborg»:

Della grande ricchezza di spunti e di riflessioni vogliamo qui provare a sviluppare una serie di riflessioni a partire da due aspetti del film: quello dell’organizzazione spaziale e quello relativo alla caratterizzazione figurativa dello «straniero» conte Orlok-Nosferatu, che ci sembrano particolarmente importanti per comprendere la concezione di «male epidemico» che il film propone. LA CITTÀ Il film si apre con la messa in scena della vita entro i confini di una cittadina, in un tempo zero, con i sui ritmi normali e le routine lavorative dei personaggi: il giovane Hutter felice con la sua giovane moglie, impiegato presso il sensale Knock, del quale, di certo, si sa solo che «paga bene i propri dipendenti». All’interno di questo primo spazio inglobato, la bottega di Knock, compare a un certo punto, nelle mani del sensale, una lettera, ovvero un oggetto proveniente dall’esterno del mondo di riferimento. La lettera accentua inoltre l’alterità e l’estraneità totale di questo altro spazio prefigurato, il luogo di provenienza della lettera stessa, in quanto appare redatta in una lingua strana e arcana, fatta di simbo-

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li grafici accostati a parole ‘illeggibili’ (almeno per lo spettatore, che non può riconoscere in quei segni la traccia di alcuna lingua nota). Nonostante la sua ‘stranezza’ la lettera viene decifrata senza problemi dal sensale: vi si richiede che qualcuno si metta in viaggio e raggiunga una terra lontana, la Transilvania, immediatamente definita dal sensale stesso, fra risate comuni, «terra di ladri e di fantasmi», perché un conte transilvano intende stipulare un contratto per acquistare una casa in città. Viene così prefigurato il tema di un doppio viaggio: quello di un venditore, di un mediatore, verso la Transilvania, e quello del conte nella direzione opposta, a prender possesso della nuova casa che gli verrà venduta. Il giovane Hutter viene ‘tentato’ e persuaso ad affrontare il viaggio per offrire allo straniero l’acquisto della casa vicina alla propria, in cambio, come gli promette il sensale, di ricchi guadagni, e con la sola spesa di un po’ di fatica e, forse, «di un po’ di sangue». Abbiamo dunque la messa in scena di un primo spazio presente, che ingloba gli eventi rappresentati, e di uno spazio assente, di un altrove solo prefigurato (anche nel senso che si costruisce il supporto topologico, attraverso l’uso di un toponimo, per una figurativizzazione ulteriore, che al momento non viene però neanche abbozzata), che un personaggio, Hutter, dovrà raggiungere. Inoltre, viene allestita una prima suddivisione dello spazio interno, dello spazio cittadino, che era fino a ora apparso omogeneo: viene distinta la casa di Hutter dalla casa vicina che dovrà venir offerta allo straniero e che dovrà accoglierlo al suo arrivo. Oltre a ciò, prima di partire Hutter conduce la giovane sposa in casa del suo miglior amico, creando un’ulteriore differenziazione spaziale all’interno dello spazio cittadino. Si ha cioè una prima frammentazione di uno spazio omogeneo collettivo in spazi privati distinguibili l’uno dall’altro. Spazio messo in scena: Wisborg

Casa amici di Hutter

Spazio ‘estraneo’ prefigurato: Transilvania

Ufficio di Knock Casa di Hutter

Casa in vendita Linea continua: spazi figurativizzati Linea tratteggiata: spazi prefigurati

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IL VIAGGIO La seconda macrosequenza è interamente dedicata al viaggio e mette in scena lo spazio intermedio, lo spazio disgiuntivo che separa la cittadella di partenza dall’altrove abitato dallo straniero. Questo spazio non appare come uno spazio omogeneo, continuo, quale poteva essere supposto dal viandante al momento della partenza, ma si presenta come uno spazio discontinuo, attraversato da soglie, che impongono al viandante delle pause, degli ‘attraversamenti’ e una continua ridefinizione dell’aspetto spaziale stesso. Ci sembra, infatti, di poter distinguere tre tappe distinte nel viaggio di Hutter verso l’altrove. La prima tappa porta Hutter dalla città di partenza fino a una locanda, dalla quale egli vorrebbe subito ripartire ma dove è costretto a fermarsi, prolungando la propria sosta, per il sopraggiungere delle tenebre, e perché lo spazio ancora da percorrere viene presentato dagli avventori della locanda stessa come uno spazio difficilmente attraversabile di notte, in quanto vi dimorerebbe un temibile antagonista di ogni potenziale viandante: il terribile lupo mannaro. Hutter si ferma così alla locanda e vi trascorre la notte, una notte che passa serenamente anche se preceduta da lievi apprensioni causate dai cavalli in fuga nel crepuscolo, inseguiti da qualche ‘bestia’ che potrebbe essere il lupo mannaro, e dalle parole contenute in un libricino che Hutter si è portato da casa, che parla di terribili creature notturne, i vampiri. Il sopraggiungere dell’alba scioglie però ogni preoccupazione: lupi mannari e vampiri non sono che ombre immaginarie, esistenti solo nella fantasia degli sciocchi. Hutter scaglia il libro a terra irridendolo, noi spettatori sappiamo che il terribile lupo mannaro, che tanto fa fremere le donne rinchiuse nella locanda, è solo un animale predatore solitario. Al sorgere del sole ci sentiamo d’accordo con Hutter nell’irridere i fantasmi notturni e possiamo accompagnarlo nel seguito del viaggio, che egli riprende in carrozza, per colmare velocemente la distanza che lo separa dalla meta finale. A un certo punto, però, anche questo spazio si rivela essere non lineare e continuo. Il viandante si trova di fronte a una nuova frattura: i suoi accompagnatori si rifiutano di proseguire il viaggio oltre un certo passo, al di là del quale, si dice, si estenderebbe uno spazio interdetto agli uomini (ah, le fantasie popolari!). Hutter scende e, sempre di buon umore, riprende a piedi il suo viaggio, soffermandosi per un breve istante proprio a metà del ponte che separa i due spazi, quello accessibile agli umani e quello a essi interdetto. Solo una piccola pausa, solo uno sguardo indietro, a celebra-

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re la ricongiunzione di questi due spazi: gli umani si riappropriano di un luogo a loro interdetto. Hutter attraversa il passo a piedi, da solo. Per la prima volta nel racconto Hutter è solitario, in una terra letteralmente di nessuno, e infatti, solo dopo l’attraversamento del passo egli sarà raggiunto da una nuova carrozza che lo condurrà, ultima tappa, fino al castello, fino alla meta. La locanda e il passo montano marcano due fratture nello spazio del viaggio, due soglie fra spazi discontinui che l’eroe rimette in congiunzione. Potremmo osservare che si tratta di due soglie di diverso spessore, dilatate entrambe dall’indugiare su di esse del regista, ma la prima ci si presenta come un luogo affollato che separa un territorio sempre aperto, quello più prossimo alla città da cui proviene Hutter, da un territorio accessibile solo di giorno, mentre la seconda ci si presenta come vuota di ogni presenza umana e separa uno spazio accessibile agli umani, anche se solo di giorno, da uno spazio a essi interdetto. Il viaggio di Hutter si presenta così come una serie di attraversamenti di soglie, ovvero come ricongiungimento di spazi fra loro inaccessibili e come reintegrazione al territorio «umano» di partenza di territori sempre meno umanizzati: dopo la prima soglia vivrebbero, di notte, creature metà umane e metà animali, con le quali gli umani condividerebbero il dominio in una sorta di muto accordo, che impedisce l’invasione degli spazi-tempi reciproci; oltre la seconda vivrebbero solo non-umani. Hutter rispetta il primo interdetto fermandosi, pur controvoglia, alla locanda, dove mantiene il contatto con gli «umani», dei quali segue i consigli, non il secondo: oltrepassa la seconda soglia, perdendo ogni contatto con gli uomini, seguendo le richieste di un antiumano (Nosferatu) e i suggerimenti di un personaggio dubbio come Knock, che, come già sappiamo, vive fra gli umani ma comunica con gli antiumani, e rappresenta, come si svelerà meglio in seguito, l’antiumanità all’interno dell’umanità, incarnando il ruolo classico del «traditore» 10, ovvero di colui che vive in un territorio pur appartenendo a un altro 11. 10 Mary Douglas, Purity and Danger. An Analysis of Concepts of Pollution and Taboo, Harmondsworth, Penguin 1970 (tr. it. Purezza e pericolo, Bologna, Il Mulino 1993). 11 Nel suo remake di Nosferatu, Werner Herzog raddoppia all’interno del film questo racconto di apertura, che vede un umano come agente indispensabile per aprire lo spazio proprio del male, quando fa prima imprigionare il contaminato Hutter (che nel film di Murnau resta invece puro) all’interno di un cerchio costituito da briciole di ostia e lo fa poi liberare dall’ignara serva (incompetente quanto lo è Hutter nel suo viaggio), invitata a spazzare via le briciole, e senza il cui aiuto il vampiro resterebbe recluso nel suo spazio.

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Modalità di occupazione dello spazio da parte di

Collettivo umano

Hutter solo

Locanda

Passo

Collettivo umano + non-umano

  Wisborg

Castello

Solo umani

Umani di giorno Non-umani di notte

Solo non-umani

Valorizzazione sociale dello spazio

AL DI LÀ Superata la seconda soglia, Hutter entra nello spazio interdetto agli umani e presto ritrova compagnia. Dopo l’attraversamento solitario del passo, infatti, è raggiunto da una carrozza condotta da uno di quei «personaggi dallo strano volto», la cui categoria di appartenenza resta ambigua. Il collettivo che viene ora a costituirsi è un collettivo ibrido 12, non più totalmente umano, come quello di cui Hutter era stato parte fino all’attraversamento del passo. Fino ad allora le differenze erano nette e andavano preservate: il giorno e la notte, gli umani e i non-umani, l’al di qua e il risibile al di là; ora, appena attraversato il passo, le differenze cominciano già a sfumare: umani e non-umani non sono più chiaramente separati, si formano collettivi misti, né del tutto umani né del tutto non-umani. Il viaggio di Hutter comincia a prendere la forma di un viaggio agli inferi. La carrozza conduce Hutter al castello, dove egli entra, superando l’ultima soglia, per trovarsi al cospetto di Nosferatu, che lo accoglie rimproverandolo per il ritardo: è già notte e la servitù dorme. Si tratta dunque di una nuova notte da passare al chiuso, che duplica quella della locanda; ma là Hutter dimorava fra umani mentre il non-umano era relegato all’esterno, qua Hutter non dimora più fra umani bensì, accolto fra i non-umani, forma un collettivo assolutamente ibrido: le diffe-

12 Prendiamo a prestito il termine «collettivo» da alcuni lavori di Bruno Latour (in particolare Latour, Les microbes…, cit.), e lo usiamo per riferirci a insiemi di attori che in determinate sequenze narrative assumono funzione di attante unico.

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renze si annullano, il giorno e la notte si incrociano, la vita e la morte si fondono. Hutter entra a far parte di un sistema indifferenziato, e sempre più vi si integrerà nel corso della notte, quando Nosferatu si nutrirà del suo sangue, ma non sarà ancora capace di accorgersene: non riconoscerà la causa dei due buchi sul collo, che altro non gli sembreranno se non punture di zanzara, come continuerà a non riconoscere il valore del libro che ha portato con sé da casa, irridendone nuovamente il contenuto. Ne scrive alla moglie, affidando la lettera al cavaliere di passaggio di cui abbiamo già detto: ‘fuori luogo’ nel territorio di Nosferatu come Knock è ‘fuori luogo’ nel territorio degli umani. Questo momento di invio della missiva segna, inoltre, una prima trasformazione del protagonista, che da soggetto passivo diventa soggetto attivo: da ora non si limiterà più a subire e accettare ordini, indicazioni, consigli. Doveri che Hutter aveva, fino a ora, trasformato in voleri solo perché s’integravano in una generale promessa di acquisizione di denaro, e che perciò erano stati precipitosamente tradotti in azione, pur senza, temiamo, la necessaria competenza per affrontare l’ardua impresa che egli ha accettato di portare a termine: quella di dissolvere i confini, oltrepassandoli, che separano il mondo umano da quello non-umano. Dopo una giornata senza altri avvenimenti giunge la seconda notte, e con essa il nuovo assalto del vampiro, che, finalmente, Hutter riconosce in quanto tale. Smascheramento che gli permette di individuare nel libro che aveva portato con sé da casa un oggetto portatore di sapere «vero». Pessimo investigatore, Hutter non riconosce la verità a partire dagli indizi ma gli indizi a partire dalla verità. Finalmente acquisisce la competenza necessaria: ora sa qual è la sua impresa ma forse è troppo tardi, si scopre infatti rinchiuso mentre Nosferatu, con la sua bara, lascia il castello e si avvia lungo il fiume su una zattera condotta da altri uomini. Nuova incongruenza dal punto di vista del ‘realismo’ della narrazione, ma nuovo raddoppiamento dal punto di vista dell’organizzazione strutturale. Nel momento in cui Nosferatu abbandona il castello abbiamo una ripresa rovesciata del motivo dell’arrivo di Hutter: là avevamo un collettivo ibrido formato da un umano accompagnato da un «personaggio dallo strano volto», qui abbiamo un collettivo ibrido formato da un non-umano e da umani. Dalla zattera Nosferatu passerà su una nave, sempre in compagnia delle sue bare cariche di terra e di topi e, attraversati i Dardanelli, proseguirà, sempre via mare, e sempre senza mai staccarsi dalle sue bare, fino al porto di Wisborg.

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IL RITORNO Nosferatu e Hutter si ritrovano dunque separati e separatamente intraprendono il viaggio verso Wisborg. Nosferatu procederà sull’acqua, mentre Hutter, dopo essere evaso dal castello calandosi da una finestra, procederà per via di terra. Il loro viaggio si è trasformato in una sfida. Nosferatu intende raggiungere la città, la sua nuova dimora, e la bella moglie della sua prima vittima, il cui bianco collo egli ha potuto ammirare in effige su un medaglione di Hutter. Quest’ultimo, che ora sa di aver aperto la porta che rende reciprocamente accessibili il mondo degli umani e quello dei non-umani («mostri» che ora sa corrispondere agli epiteti di Knock: fantasmi in quanto creature della soglia fra vita e morte, ladri in quanto si appropriano, senza consenso, del sangue degli umani e della loro vitalità), vuol precedere Nosferatu per fermarlo. Il suo soggiorno al castello, che avrebbe dovuto costituire la prova decisiva, si rivela essere una prova qualificante, una prova di iniziazione. Qui, infatti, Hutter ha acquisito il sapere per riconoscere la realtà del male, e il viaggio a cui ora si sta accingendo non potrà essere un ritorno, per raccogliere la meritata sanzione, ma solo una corsa per portare informazioni vitali all’interno di quello che sarà lo spazio del confronto decisivo. Hutter procederà da solo, a piedi e a cavallo, dopo una sosta di guarigione/purificazione. Si è infatti ferito nella fuga dal castello e viene prima soccorso da pastori poi curato da alcune suore, dunque da un lato trova una piena reintegrazione in un collettivo umano dall’altro si apre un legame ‘spirituale’ verso l’alto, laddove Nosferatu costituiva un legame con la terra, con il basso (Nosferatu dorme di giorno in bare che contengono terra). Al contrario, Nosferatu procederà per vie acquatiche e sempre in compagnia, prima sulla zattera poi su una nave. In realtà anch’egli manterrà un contatto con la terra che sarà però sempre la stessa terra, quella della sua bara e non quella dei territori che separano la sua Transilvania dalla città di destinazione. Dunque Hutter attraversa, come abbiamo visto, diversi territori oltrepassando le soglie che li delimitano, si deterritorializza in continuazione. Nosferatu procede su uno spazio continuo senza soglie, quale quello costituito dalla rete delle acque, senza toccare nessun territorio intermedio ma anzi isolandosi continuamente all’interno del territorio proprio, della sua terra. Questo viaggio sull’acqua, l’isolamento territoriale in piccoli collettivi, ci permette di vedere in dettaglio il meccanismo di azione di Nosferatu e di rilevare le caratteristiche del suo carattere contagioso. Hutter, pur avanzando sulla terra, non lascia traccia del suo passaggio; al contrario Nosferatu, benché attraversi il mare, lascia alle

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sue spalle una serie di morti misteriose, documentate dalle notizie sui giornali e dal diario di bordo della nave. Notizie dall’apparenza paradossale, in quanto vi si dice che le vittime, probabilmente colpite da peste, presentano, tutte, non i classici sintomi ma due piccoli fori sul collo: la peste e il vampirismo tendono a fondersi, a identificarsi, lo straniero dallo strano volto e il morbo si sovrappongono. L’ombra di Nosferatu si stende sulle vittime del contagio, le vittime sono vittime di entrambi, come vediamo sul battello dove i morti, dice il diario, sono probabilmente uccisi dalla peste, anche se sono stati visti buttarsi in mare, colti dall’orrore per ciò che si cela nella stiva della nave, e che li perseguita, senza forse mai toccarli: noi non vediamo mai Nosferatu toccare le vittime, vediamo solo la sua ombra che si proietta e sentiamo voci che parlano di lui, in un vortice di paura crescente. L’epidemia si diffonde, dunque, anche se Nosferatu non abbandona mai la propria terra. LA CITTÀ 2 I due antagonisti giungono in città, a Wisborg, pressoché contemporaneamente, annunciati dai presentimenti e dai sentimenti di Knock («Il maestro è vicino») e di Hellen («Devo andare da lui, sta arrivando!»), mentre la telecamera indugia sulla nave di Nosferatu e poi sul cavaliere Hutter (ma chi è che Hellen sente davvero vicino a sé? Se è certo che il cuore della ragazza palpita per le sorti del marito, appare parimenti indubitabile che l’ombra di Nosferatu l’ha già raggiunta e l’ha già attratta all’interno della propria sfera di influenza). Arrivato in porto, nottetempo, Nosferatu lascia la nave e, con la bara sottobraccio, raggiunge la sua nuova dimora, per mezzo di una piccola barca, in quanto l’abitazione, a rimarcare il carattere di separatezza e di alterità che mai abbandona il mostro, è isolata dal resto della città da un piccolo canale, e da là noi non vedremo mai uscire Orlok-Nosferatu, se non nella sequenza finale, anche se la morte avanza inesorabile e si diffonde nella città e per quanto gli abitanti tentino di isolarsi chiudendosi in casa. Nosferatu sembra potersi muovere solo in spazi propri, e l’appropriazione sembra avvenire per mezzo dello spostamento della bara e della terra in essa contenuta, che funge da agente contaminante: Nosferatu, «l’altro», non si muove che nello spazio ‘proprio’, così come sembra poter agire solo sui corpi di coloro di cui si è già ‘appropriato’ spiritualmente. Le vie della città, lo spazio pubblico, si trasformano nello spazio di una lunga processione di monatti che portano bare, tanti piccoli Nosferatu, dunque, ma solo in apparenza: sono vivi che trasportano

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morti, mentre Nosferatu è un non-morto che trasporta il nulla o la stessa non-morte che gli è propria. In tal modo si disegnano all’interno della città tre spazi: lo spazio complesso della vita e della morte costituito dalle vie della città, lo spazio della non-morte costituito dalla casa isolata di Nosferatu e lo spazio della vita costituito dalla casa di Hutter e Hellen. Anche se quest’ultimo appare quantomeno ambiguo, poiché Hutter è certo vivo ma è tornato dalla terra dei non-morti, mentre Hellen, con le sue crisi di sonnambulismo, che avevano cominciato a coglierla in casa degli amici di Hutter dove risiedeva in attesa del ritorno del marito, sembra caratterizzarsi come una non-viva. Avremmo così uno spazio sociale in cui si combinano la vita e la morte, dunque un mondo pienamente umano, e due spazi privati, entro i quali si annida il segreto, che si qualificano come contrari in quanto spazio della non-morte, quello di Nosferatu, e spazio della non-vita, quello di Hellen (ad accentuare questa ‘appropriazione’, nel momento decisivo, Hutter ne verrà allontanato). Nello spazio sociale, attraversato dalla peste, si combatte la battaglia fra la vita e la morte; nello spazio privato, pervaso dalla presenza di Nosferatu, si combatte la battaglia fra la non-vita di chi è contaminato dalla presenza ossessiva del vampiro, che succhia la vita e lentamente la sottrae senza dare la morte, e la non-morte che succhia la vita senza mai riuscire ad assorbirla e trasformarsi in essa.

 Vita + Morte: Spazio sociale e umano

Vita

Morte

Non-Vita

Non-Morte

Camera di Hellen

Casa di Nosferatu

 Non-Vita + Non-morte: Spazio non sociale (del segreto) e non-umano

Invitato da Hellen, che pur di sconfiggere il mostro ha deciso di accettare il ruolo di vittima sacrificale nel rito di purificazione appreso

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da quel piccolo libro precedentemente irriso da Hutter 13, Nosferatu lascia la propria dimora e raggiunge la camera della donna, da cui Hutter è stato allontanato. Ancora una volta tocca a una creatura umana, «pura», per quanto ciò sia possibile, visto che volontariamente deve concedersi al mostro attirandolo fra le sue braccia, aprire lo spazio del vampiro, questa volta per farlo uscire definitivamente, così come era toccato a un umano «ingenuo» aprire per la prima volta il suo spazio facendolo dilagare. Ma nel primo caso il vampiro era uscito portandosi il suo territorio, questa volta il vampiro uscirà solo, ‘nudo’, ovvero senza bara, senza la sua terra, e in ciò sarà ridotto alla condizione di tutte le altre creature condannate ad abbandonare la propria terra per potersi muovere. Per la prima, fatale, volta, anche Nosferatu è costretto a deterritorializzarsi. Nel momento in cui Nosferatu raggiunge Hellen si forma un nuovo collettivo, diverso da tutti i precedenti, sia in termini di caratterizzazione dello spazio, sia in termini di caratterizzazione semantica degli attori: l’unione, come abbiamo detto, avviene per la prima volta lontano dal territorio del vampiro, dunque in uno spazio puramente «umano», e il collettivo è composto da un non-morto e da una non-viva, che è cosciente della natura umbratile di Nosferatu, a differenza di quanti lo avevano incontrato in precedenza, e più ‘turbata’ che non terrorizzata dallo straniero. Ancora una volta l’ombra di Nosferatu si proietta sulla sua vittima (l’ombra di una mano artigliata del mostro si proietta sulla vestaglia bianca della vittima, all’altezza del cuore, afferrandolo simbolicamente), ma, immediatamente dopo, il primo raggio del sole nascente si posa sul volto di Nosferatu, che vacilla e muore dissolvendosi, mentre anche Hellen muore, con il nome di Hutter sulle labbra: figurativamente, la luce ha sconfitto le tenebre e con esse le categorie semantiche anomale, non pertinenti per caratterizzare la comune umanità. Nel momento in cui si decide di affrontare coscientemente il male, stanandolo e fronteggiandolo apertamente, lo si sconfigge: la ragione trionfa sul terrore irrazionale, la non-vita e la non-morte si annullano vicendevolmente, restano solo la vita e la morte, ognuna al suo posto in un mondo pienamente umano… e nello stesso momento, come recita l’ultimo quadro, cessa la terribile epidemia di peste che aveva colpito la città di Wisborg: «E io testimonio, secondo verità, tal prodigio: alla medesima ora la grande epidemia

13 «Quindi non esiste via di salvezza, a meno che una donna di cuore puro, non faccia dimenticare al vampiro di ritirarsi al primo canto del gallo. Ella, senza esserne costretta, gli offrirà il proprio sangue».

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cessò, allorquando la tenebra della civetta svanì, come dispersa dai raggi vittoriosi del vivente sole». COME IL RICHIAMO NOTTURNO DELLA CIVETTA In più punti del film, e in particolare all’inizio e alla fine, viene citata la figura acustica del canto notturno della civetta a cui viene associata la capacità di terrorizzare gli uomini, al pari del nome di Nosferatu. In entrambi i casi a generare il male non è una causa fisica ma un agente appartenente all’ordine del simbolico, il verso di un animale e un nome: l’uno come l’altro, si dice, fanno sì che le immagini vitali impallidiscano, come fossero ridotte a larve, e fanno sì che dal cuore si levino sogni spettrali che si nutrono di sangue. Questa premessa apre a due ordini di considerazioni. Da un lato ci suggerisce che le forme vampiriche non sono necessariamente ‘materiali’ ma possono benissimo appartenere all’ordine del simbolico, e non per questo essere meno capaci di «nutrirsi di sangue» debilitando i soggetti umani che cadono in loro balia. Dall’altro, ci porta a riconsiderare la già citata forma umbratile di Nosferatu: per l’intera durata del film il vampiro non tocca mai ‘materialmente’ le sue vittime ma si limita a proiettare su di esse la sua ombra, ed egli stesso appare di consistenza materiale instabile, pura ombra egli stesso, dunque non agente materiale ma immagine, entità appartenente allo stesso ordine simbolico del suo nome. Tanto Nosferatu il vampiro che il suo nome sembrano appartenere allo stesso regno, quello dei simboli, delle ‘costruzioni’ culturali e non degli organismi naturali, ma in quanto tali, e a differenza della peste, affinché possano agire e siano efficaci è necessario che siano interpretati. Paradossalmente è solo chi ne conosce il significato che può esserne colpito: il dramma di Hutter comincia dopo la scoperta della vera identità di Orlok e non dopo le «punture di zanzara», e lo stesso vale per Hellen che riconoscerà il vampiro solo dopo aver letto il libro di Hutter (quello precedentemente irriso dallo stesso, ma ora finalmente assunto come codice pertinente per l’interpretazione degli eventi); allo stesso modo il lupo mannaro non è nulla se viene ricondotto a una creatura naturale (una iena nel film). Questo tema dell’interpretazione dei fenomeni si ripresenta in più luoghi del film, e soprattutto nelle sequenze in cui il Dottor Bulwer («un seguace di Paracelso»), che non assume mai un ruolo decisivo nello sviluppo della narrazione, introduce i suoi studenti all’osservazione di alcune «figure naturali» dai comportamenti particolari: piante carnivore in azione, di cui si dice che «sembrano vam-

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piri» e meduse di cui si dice che «sembrano fantasmi», sottolineando come le figure del mondo, per essere comprese, debbano essere studiate attentamente e interpretate. Solo ciò consente di ricondurle al loro corretto ambito, laddove non hanno più alcuna possibilità di incutere terrore. Il gioco sembra così correre fra corretta interpretazione e assunzione senza interpretazione alcuna, e i due poli della questione sembrano sussunti sistematicamente dall’opposizione fra luce, capace di svelare e dunque di consentire una corretta interpretazione, il che significa riconduzione dell’ingannevole «apparenza» al vero «essere» delle cose, e tenebra, che invece consente l’emergere di categorie ibride e anomale che rendono incerta o impossibile ogni interpretazione: così come le piante carnivore, le meduse e le iene non sono che fenomeni naturali a dispetto delle loro apparenze, Nosferatu non è che un’immagine, un simbolo, un’ombra proiettata sui fenomeni, ma destinata a svanire alla luce del sole. RICAPITOLANDO Il male pare giungere insieme allo straniero, anzi è, o sembra essere, lo straniero stesso. Lo straniero, come il male stesso, può arrivare all’interno dello spazio «sano», «puro» solo se qualcuno, ingenuamente, lo libera, permettendogli di estendere il proprio territorio. Il suo è uno spazio chiuso e ben delimitato, e può essere aperto solo dall’esterno. Non proviene dunque propriamente da un «aldilà» ma deve essere convocato dagli uomini e deve perciò essere a essi accessibile, anche se non immediatamente, come mostra il lungo viaggio di Hutter e la serie di trasformazioni che deve imporre allo spazio per rendere i due universi ‘comunicanti’. La ‘via del male’ è aperta dall’avidità umana, che, in cerca di ricchezza personale, è cieca di fronte alla natura del male, tanto da non saperlo riconoscere fino a che esso non dilaga. Il processo di contaminazione, che mina la purezza, e quello di contagio, che mina la sanità, tendono a confondersi e si danno come processi di rotture di soglia (creazione di continuità laddove esistevano separazioni, discontinuità), e come processi di trasformazione dei collettivi che vengono a formarsi, implicitando forme diverse di ibridazione. In tal modo si avrebbe una condanna della promiscuità e una apologia della separazione, eppure nel film sarà proprio un eccesso di promiscuità, cosciente e voluto, ancora una volta promosso dagli uomini, a permettere la fine della crisi (solo la pro-

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miscuità permette la conoscenza e solo la conoscenza permette di fugare le tenebre? 14). Attraverso l’identificazione con lo straniero, il male viene antropomorfizzato e dotato di una propria struttura modale (vuole, deve, può, sa) e di propri programmi d’azione che assume in qualità di soggetto manipolatore (fa-fare) e in qualità di soggetto performante (fa). Ma il male e lo straniero, assunti come facce di un medesimo fenomeno, si rivelano essere entità distinte (uno aggredisce i corpi mentre l’altro, come il grido della civetta, attanaglia il cuore; uno contagia chiunque, indifferentemente, l’altro contamina solo pochi ‘eletti’), benché accomunate da caratterizzazioni affini: entrambe tendono a saturare lo spazio, ovvero a cancellare le differenze semantiche imponendo una forma di omogeneizzazione categoriale all’intero territorio (la peste cancella la vita riempiendo le strade di morti; Nosferatu cancella l’opposizione fra vita e morte, instaurando categorie ibride e non-umane, disumanizzando in tal modo lo spazio di cui si appropria); entrambe necessitano di una ridefinizione degli spazi. Il male non si limita a spostarsi, a circolare, ma nello spostarsi trasforma i territori che attraversa, appropriandosene e saturandoli. Non è dunque una figura della ‘circolazione’ ma è una figura dell’‘appropriazione’, eventualmente mascherata da figura della circolazione, ovvero della comunicazione. Il suo modo di diffusione presuppone dunque un soggetto attivo e uno passivo, paziente e appassionato quest’ultimo (con il cuore attanagliato dalla paura) e in quanto tale capace solo di fuggire, mentre l’unica possibilità di successo sembra consistere nella capacità di alternare i ruoli, articolando un modello dialogico, dunque comunicativo, come farà Hellen trasformandosi da ‘sedotta’ in ‘seduttrice’. Infine, ci dice il film, le epidemie non viaggiano sole e non sono entità unitarie, ma si compongono di due aspetti: uno, noto e nominabile (la peste), per quanto invisibile, che attanaglia i corpi, e l’altro, ignoto e senza nome, per quanto dotato della maschera dello straniero, che attanaglia i cuori e se ne appropria. Ma solo separando le due facce, distinguendo il male del corpo e il male del cuore, il contagio dei corpi dalla contaminazione dello spirito, e sconfiggendo innanzitutto il secondo, attraverso l’instaurazione di un modello ‘comunicativo’ al posto del modello ‘appropriativo’ che quello cerca di imporre, 14 Si veda a tale proposito la radicale differenza assiologica che soggiace al remake di Herzog, tanto oscurantista quanto il film di Murnau appare «illuminista»: là il male non verrà sconfitto e il sacrificio resterà del tutto inutile, in quanto lo stesso Hutter, vampirizzato, dopo la morte di Nosferatu si incaricherà di riattivare il movimento diffusivo del male, simbolizzato dalle orde di topi (il cui ruolo resta del tutto ambiguo nel film di Murnau).

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è possibile trarre il male fuori dal proprio territorio, entro cui sarebbe invincibile, e ricondurre la lotta all’interno di un universo «umano», dove il male può essere sconfitto. Fantasie da film, da film positivista e illuminista potremmo dire, più che riflessioni sull’effettivo funzionamento delle epidemie, come i titoli del film stesso vorrebbero suggerire. Eppure, se a partire da queste considerazioni torniamo a sfogliare i tanti articoli, romanzi e cronache di cui abbiamo parlato in apertura di questo scritto, ci accorgiamo che tutti, presunte finzioni e presunte cronache, sembrano omogeneamente riconducibili, almeno in forma generale, alle caratteristiche che abbiamo messo in luce a partire dall’analisi del film. Ciò, probabilmente, non è dovuto al fatto che le epidemie si assomigliano, quanto forse al fatto che a essere omogeneo è l’immaginario umano che sottende la loro rappresentazione e governa il nostro atteggiamento, le nostre passioni. A rimanere stabili non sono le epidemie ma il nostro modo di metterle in forma e di raccontarle. Nell’immaginario che accomuna tutte le nostre narrazioni epidemiche, il male giunge da fuori, da un altrove, dove avrebbe continuato a vegetare, innocuo, se l’uomo, con la sua avidità e con la sua stupidità, non fosse andato a risvegliarlo: si tratti della foresta equatoriale di Ebola e dell’AIDS o di un qualche laboratorio militare ultraprotetto, e comunque ‘fuori società’, o da un qualche pianeta o asteroide da conquistare, tanto ricco quanto infetto. Il male giunge da fuori, da lontano, e non può non avere la faccia dello straniero, del viandante attraversatore di confini, dallo strano volto e abbigliato secondo strane fogge. Nell’antichità il termine epidemia non aveva il senso che ha oggi e il suo nucleo semantico aveva poco a che fare con il male, ma è anche vero che, d’altra parte, aveva molto a che fare con il movimento e con l’oltrepassamento di confini. Così, forse non è un caso che i due dei epidemici (dei a cui erano riservate feste di accoglienza in occasione del loro arrivo), come ci racconta Marcel Detienne 15, siano i due dei girovaghi per eccellenza: Apollo, che trascorre lunghi mesi a nord, nelle terre degli iperborei, e Dioniso, che al contrario preferisce errare attraverso i caldi deserti della Nubia prima di irrompere inatteso e non riconosciuto all’interno delle mura della città, dove alimenta disordine e scompiglio. Entrambi sono portatori di doni, ma anche di male e di orrore: basti ricordare come Apollo sia l’artefice dell’epidemia di peste che co-

15 Marcel Detienne, Dionysos à ciel ouvert, Paris, Hachette 1986 (tr. it. Dioniso a cielo aperto, Roma-Bari, Laterza 1987).

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glie l’esercito acheo fuori delle mura di Troia, e quali siano le crisi di follia che Dioniso porta con sé. Entrambi viandanti, entrambi epidemici, nel senso antico e in quello moderno del termine, ma mentre uno, Apollo, irraggiava il male a partire da un centro, diffondendolo intorno a sé, colpendo chi a esso si esponeva, come se si esponesse ai raggi del sole, l’altro, Dioniso, non sembrava avere un suo luogo proprio, né un suo preciso calendario, né un volto riconoscibile, e diffondeva il male facendolo serpeggiare, invisibile e inconoscibile. Simile alla peste il primo e a Nosferatu il secondo, forse non costituiscono, nel nostro immaginario, che due facce di un unico processo e di un unico terrore. Entrambi sembrano dare il volto, o la maschera, a due diversi modelli di comunicazione: uno per irraggiamento e l’altro reticolare. Entrambi sono efficaci, ma mentre dall’uno ci si può forse difendere, in quanto la sua azione appare palese, per quanto potente: il modello epidemico apollineo è quello dei mass media, che procedono per irraggiamento da un punto centrale; dall’altro appare assai più difficile trovare riparo: quello dionisiaco è un modello comunicativo a rete, senza centro, e i cui effetti sono riconoscibili solo a contagio avvenuto. Sembra essere soprattutto questo secondo modello a toccare oggi la fantasia di alcuni teorici della comunicazione, a cui abbiamo già precedentemente accennato, che cercano appunto di concettualizzare la comunicazione a partire da un modello metaforico di tipo epidemico. Modello che, si dice, consentirebbe di descrivere ‘naturalisticamente’ le dinamiche comunicative umane e i processi di affermazione e di trasformazione delle culture. Come insegna però il Nosferatu di Murnau, ci sembra che questo, come ogni altro modello epidemiologico, costituisca una pessima metafora per la comunicazione, perché esso implica sempre una radicale diversità fra gli attanti chiamati in causa. In primo luogo perché la rappresentazione epidemica porta con sé, in modo quasi indissociabile, un’idea negativa dell’altro, il che ci sembra che possa minare dalle fondamenta qualsiasi idea di comunicazione; in secondo luogo perché le dinamiche epidemiche non poggiano, come abbiamo detto, su forme di ‘circolazione’, caratterizzate da deterritorializzazione continua di ciò che ‘passa’ fra i diversi soggetti implicati, ma su forme di ‘appropriazione’, caratterizzate da dinamiche di occupazione e saturazione, che tendono fondamentalmente ad ‘annullare’ l’altro rendendolo del tutto omogeneo a sé. Infine, in un modello epidemico, solo all’agente «infettivo» è attribuibile un ruolo attivo, mentre tutti gli altri non possono che avere un ruolo passivo di «recipienti». Dunque, in conclusione, e riprendendo il Nosferatu di Murnau, la metafora epidemica non sembra costituire un buon

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modello di comunicazione, è anzi solo con la rottura del modello epidemico, con la trasformazione del «recipiente» in «interprete», e del «sedotto» in «seduttore», che la comunicazione può instaurarsi. Questo non significa che le dinamiche comunicative, nella loro natura persuasiva, non possano aspirare a funzionare secondo un modello epidemico, come ‘appropriazione’ anziché come ‘circolazione’ e conseguente annullamento della posizione dell’altro. Ma da ciò ad accettare che la comunicazione funzioni di norma su un modello epidemico corre una bella differenza, e forse, se di ciò dovessimo accorgerci, credo che dovremmo davvero cominciare a guardarci dal canto notturno della civetta.

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TERZA SEZIONE Figure della memoria e delle passioni

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5. Dimenticare Caddy: figure della memoria e dell’oblio in The Sound and the Fury di William Faulkner Ma dopo tutto la memoria può continuare a vivere nei vecchi visceri ansimanti: e ora, ecco, la poteva toccare, incontrovertibile e chiara, serena, mentre la palma sbatteva e mormoreggiava secca e selvaggia e indistinta nella notte, ma egli poté affrontarla, pensando: Non è che posso. Voglio. Così è la vecchia carne dopo tutto, non importa quanto vecchia. Perché se la memoria esiste al di fuori della carne non sarà memoria perché non saprà cosa ricorda, perciò quando lei non è stata più metà della memoria non è stata più, e se io non sono più allora tutto il ricordare cesserà di essere… Sì, pensò, tra il dolore e il nulla sceglierò il dolore. William Faulkner, The Wild Palms

1. MEMORIA E MEMORIE In Mille piani (Sezione II: «Come farsi un corpo senza organi»), Gilles Deleuze e Felix Guattari articolano la differenza fra i generi novella e racconto a partire dall’orientamento temporale delle trame narrative: «come genere letterario, c’è novella quando tutto è organizzato intorno alla domanda: ‘che cosa è accaduto? Che è potuto accadere?’. Il racconto, al contrario della novella, farebbe invece tendere il lettore verso un diverso tipo di interrogativo: ‘che cosa sta per accadere?’» 1. In questa prospettiva, sostengono sempre Deleuze e Guattari, il romanzo altro non sarebbe che una forma di tensione fra le due dimensioni temporali con la prevalenza occasionale dell’uno o dell’altro orientamento. Il romanzo poliziesco sarebbe in ciò esemplare con il suo continuo lavoro di cucitura fra qualcosa che è accaduto (il delitto) e la scoperta futura del responsabile, attraverso la mediazione presente delle peripezie del poliziotto modello. La novella, o la dimensione ‘novellesca’ del romanzo, sarebbe pertanto una forma narrativa che intrattiene una relazione fondamentale con il segreto, inteso non come materia o oggetto da scoprire quanto come «forma del segreto»; mentre il racconto intratterrebbe un rapporto privilegiato con la pura forma della scoperta. Ancora, sempre secondo Deleuze e Guattari, questo diverso orientamento delle narra1 Gilles Deleuze e Felix Guattari, Mille Plateaux. Capitalisme et Schizofrénie, Paris, Minuit 1980 (tr. it. Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Roma, Castelvecchi 1996), p. 72 della tr. it.

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zioni, verso il segreto o verso la scoperta, segnerebbe i corpi che vi sono coinvolti, valorizzandone, nel primo caso, le posture, «che sono come pieghe e avvolgimenti» 2 oppure, nel secondo, gli atteggiamenti e le posizioni, «che sono degli spiegamenti e degli sviluppi, anche i più inattesi» 3. Ci appare inoltre facilmente ipotizzabile che, in questo gioco di orientamenti di un presente novellistico che si dà come esito di un segreto passato, in cui i personaggi sono avvolti, e di un presente del racconto, che si dà come attesa di un futuro in via di sviluppo, la memoria debba assumere funzioni significativamente diverse divenendo, nel caso della novella, la materia narrativa primaria verso cui si orientano tutte le tensioni, e nel caso del racconto una semplice forma di competenza che permette allo sviluppo narrativo di mantenere il proprio orientamento. Mantenendo questa prospettiva, potremmo dire che la narrazione di Faulkner ha in genere, e in particolare per i nostri interessi attuali in The Sound and The Fury, quale proprio ‘fuoco’ non tanto il futuro inteso come sistema di aspettative, di «immagini scopo», diremmo con la terminologia introdotta da Greimas e Fontanille 4, modalizzate come più o meno possibili, desiderabili, ineludibili, che attraggono in avanti i programmi e le traiettorie dei soggetti coinvolti, quanto invece un «accaduto», con le sue conseguenze che si diramano in una molteplicità di fili sfuggendo a ogni possibile controllo. Un accaduto che dalla profondità della memoria incombe sui destini dei soggetti, si inscrive nel loro presente e perturba ogni tensione verso il futuro, ne affetta il corpo e le relative posture che risultano come deformate da questa memoria, o forse meglio ‘conformate’ a essa. Parlare genericamente di «memoria», di ricordo, come semplice rinvio a un accaduto passato, dunque disgiunto dal presente, non aiuta però, mi sembra, a cogliere la portata che assume nella narrazione faulkneriana lo ‘spessore delle cose’, derivante dal loro legame, non rescindibile, con gli eventi a esse associati e che può giungere a una profondità tale da oltrepassare ogni possibilità di effettiva ‘memoria’. Uno spessore memoriale delle cose che appare costantemente in grado di condizionare e di strutturare il presente dei personaggi, fino a bloccare ogni possibilità di evoluzione futura.

Op. cit., p. 74. Ibidem. 4 Algirdas Julién Greimas e Jacques Fontanille, Sémiotique des Passions, Paris, Seuil 1991 (tr. it. Semiotica delle passioni, Milano, Bompiani 1996). 2 3

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DIMENTICARE CADDY: FIGURE DELLA MEMORIA E DELL’OBLIO

La «memoria» faulkneriana sembra aprirsi costantemente a una dimensione che oltrepassa il puro e semplice piano temporale del rapporto fra presente e passato individuali: su memorie di un tempo trascorso, di vissuti passati che si protendono fino al presente, si articolano e si ancorano memorie che trascendono gli eventi e si inscrivono nei corpi dei personaggi, con un gioco e un andamento tipicamente faulkneriani. Pensiamo in particolare alle forme che viene ad assumere il segreto in Absalom, Absalom! o alle ‘eredità’ che determinano la «snopseità» – nella trilogia costituita da The Hamlet, The Town e The Mansion – o ai caratteri che derivano dall’appartenenza a una famiglia, a una terra, a una razza. Questa memoria che trascende il tempo si potrebbe forse assimilare a quell’idea di memoria che Ricœur 5 riscopre nel Teeteto e nel Sofista, stupendosi di come Platone non si fosse accorto del legame fra il concetto di memoria e quello temporale di passato: una memoria di ‘essenze’, se ci è concesso il termine, che in Platone, attraverso l’anamnesi, ricollega il presente alla dimensione extratemporale in cui le idee sussistono immutabili. Forma di memoria studiata da Jean-Pierre Vernant 6 in un bel saggio dedicato a Mnemosine, e una cui ulteriore presenza possiamo riconoscere nell’Heidegger studioso di Hölderlin 7, preoccupato della rimemorazione dell’essenza del fare poetante, costitutiva dell’identità del poeta in quanto tale. D’altra parte il carattere non strettamente temporale/mentale di certe forme di «memoria» è anche quello che possiamo intuitivamente e più prosaicamente riconoscere nelle capacità acquisite e inscritte nel corpo, pensiamo alla differenza che corre fra il ricordare il tempo in cui si studiava una pratica tecnica e la capacità attuale di far uso di quella stessa abilità tecnica. Mentre la prima si ricollega direttamente a un passato vissuto, la seconda sembra presentarsi come slegata da esso e in sé sussistente ‘ormai fuori dal tempo’, anche se si tratta, sicuramente, di una forma di «memoria», dalla cui possibilità di recupero, normalmente inconscia, dipende la possibilità di riuscita del compito e della funzione a essa associati.

5 Paul Ricœur, La Mémoire, l’Histoire, l’Oubli, Paris, Seuil 2000 (tr. it. La memoria, la storia, l’oblio, Milano, Cortina 2003). 6 Jean-Pierre Vernant, Mythe et Pensée chez le Grecs, Paris, Maspero 1965 (tr. it. Aspetti mitici della memoria, in Mito e pensiero presso i greci, Torino, Einaudi 1978). 7 Martin Heidegger, Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung, Frankfurt Am Main, Vittorio Klostermann 1981 (tr. it. La poesia di Hölderlin, Milano, Adelphi 1988).

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2. MEMORIA E NARRAZIONE IN FAULKNER Memoria di ‘essenze’ che si presenta in modo pervasivo su quattro assi tematici, che costituiscono altrettanti luoghi notevoli della scrittura faulkneriana: la memoria razziale (i bianchi e i neri), la memoria di genere (le donne e gli uomini), la memoria familiare (qui i Compson e i Bascomb), la memoria identitaria, legata ai nomi che si ripetono attraverso le generazioni e che causano una sorta di predestinazione e di ineluttabilità che tocca tutti gli individui e tutte le vicende di Yoknapatawpha, sottraendoli alle trasformazioni indotte da un tempo che sembra scalfire questo mondo solo in modo esteriore. Per esemplificare questa forma di memoria, che trascende il piano puramente temporale, ricordiamo un’immagine emblematica che attraversa la seconda sezione di The Sound and the Fury: Quentin possiede un orologio regalatogli dal padre, al quale era stato donato a sua volta dal padre, marcando, in tal modo, l’immutabilità e la continuità generazionale nel tempo che l’orologio è chiamato a segnare. A questo orologio Quentin rompe le lancette, lasciandolo ticchettare a vuoto e facendogli così ‘segnare’ un tempo che non può più scorrere e che non può più essere messo in relazione alle vicende quotidiane, ma che serve da mezzo esterno, da appoggio extramentale per rimemorare, da un lato, la propria identità familiare, fuori dal tempo, e dall’altro le vicende passate, legate al dono stesso e al padre autore del dono, costituendo un duplice shifter tematico. La complessità della problematica memoriale in Faulkner sembra derivare da un lato proprio dalla molteplicità delle forme e delle fonti memoriali: ricordi di eventi passati, che possono anche accavallarsi, come nella messa in contiguità di eventi temporalmente separati e lontani fra di loro; abitudini acquisite ormai inscritte nei corpi, che determinano posture e comportamenti meccanizzati, irriflessi, che si ripetono immutabili nel tempo, divenendo posture individuali caratteristiche, come nel caso di Jason figlio; memorie genetiche che attraversano le stirpi di generazione in generazione marcandone i tratti fondamentali, come nell’essenzialità, già ricordata, dell’essere Compson o dell’essere Bascomb, o come le posture, ripetute a distanza di tempo, di Caddy e di sua figlia Quentin; memoria come patrimonio di valorizzazioni che strutturano il paesaggio di riferimento dei diversi personaggi caratterizzandone oggetti e ambienti. Una memoria di cui, con effetto di forte drammaticità, proprio in The Sound and The Fury si tematizza la fine con la dissoluzione delle proprietà terriere, e la conseguente perdita dei «luoghi della memoria» (il campo di golf intorno a cui girano Benjy e Luster nella sequenza iniziale è la terra che era destinata a Benjy, venduta per finanziare gli studi del suicida Quentin), ma soprattutto con la fine della

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stirpe: Benjy, mentalmente inabile, viene castrato; Quentin muore suicida; Jason, ultima possibilità maschile di conservazione e prosecuzione della stirpe, sembra del tutto inadeguato, e disinteressato, alla questione. Restano Caddy, la ripudiata, e sua figlia Quentin, frutto forse incestuoso, dunque mostruoso, e pertanto entrambe responsabili di una frattura nella linearità della generazione. Cogliendo un’idea di Bruno Latour 8, potremmo vedere in questa impossibilità di una perpetuazione delle generazioni attraverso la riproduzione il problema stesso di una «fine del senso». Latour suggerisce infatti che la riproduzione sia quella forma di trasferimento, sempre arrischiata, che i viventi pagano per «continuare ad essere». In quanto tale, la riproduzione sarebbe la figura più elementare di un’idea di enunciazione che, estendendosi ben al di là dei tradizionali limiti linguistici e semiotici, andrebbe a designare non solo l’installazione di un effetto di Soggettività all’interno del discorso enunciato, dunque il ‘passaggio’ di un Soggetto dal «mondo vissuto» all’interno del mondo costruito del discorso, ma ogni forma di ‘passaggio’ capace di garantire una «presenza», sia questa diretta o delegata. Potremmo aggiungere che ciò che viene messo in gioco nella possibilità del passaggio è proprio quella forma di memoria che stiamo cercando di descrivere, la quale costituisce il sostrato dell’identità, o quasi-identità (come dice Latour), di «ciò che permane». In fondo a The Sound and the Fury non sembra più esserci quella possibilità di scegliere fra «il dolore e il nulla» che il protagonista di The Wild Palms, citato nell’incipit, poteva ancora darsi. Un secondo piano di complessità appare legato alle diverse condizioni di accessibilità dei personaggi al proprio sostrato memoriale: nomi, immagini, oggetti, discorsi. Ogni cosa in Faulkner sembra assumere un peso quasi insostenibile in quanto non si presenta mai come semplice percetto a sé stante, figura del mondo nella sua pura datità, ma come l’emergenza di una stratificazione di senso e come punto di accesso a dimensioni legate alla memoria, alla fantasticheria, alla memoria di fantasticherie passate o alla fantasticheria di memorie future, in un intrico continuo di forme varie di analessi e prolessi, che trascendono completamente il paesaggio percettivo in cui quegli oggetti si mostrano. Un’ulteriore forma di complessificazione appare riconducibile ai diversi modi attraverso cui la memoria va a intrecciarsi con le altre dimensioni costitutive del vissuto cognitivo attuale dei personaggi, dal

8 Bruno Latour, Piccola filosofia dell’enunciazione, in Paolo Fabbri e Gianfranco Marrone (a cura di), Semiotica in nuce Vol. II. Teoria del discorso, Roma, Meltemi 2001.

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semplice accostamento comparativo tra la percezione attuale e il rimemorato, alla riconfigurazione del presente percettivo sulla base del rimemorato, alla confusione che fonde in un unico magma le diverse sfere noetiche, impedendo di discernere il percepito dal rimemorato e dal fantasticato, alla sostituzione completa, allucinatoria, del presente percepito con il rimemorato. Questa modulazione/confusione degli strati noetici, in particolare nei racconti di Benjy e di Quentin, produce inoltre degli effetti particolari di ‘localizzazione’ dei personaggi stessi, a seconda che si abbia un effetto di emersione del passato che va a modulare il paesaggio percettivo, il quale resta presente e dominante, o di annegamento del personaggio nel passato. Annegamento che porta a una dissoluzione del paesaggio percettivo presente sottoposto a una cancellazione da parte del paesaggio rimemorato, che va così ad assumere un ruolo dominante e capace di annullare l’orizzonte presente. Infine, quarto piano di complessità, la narrazione faulkneriana mette in scena un conflitto permanente fra un tendenza a ‘controllare’ il passato, facendone oggetto esplicito di ricordo e valutazione, sia che si tratti di farlo emergere e conservarlo in quanto tale sia che si tratti di cancellarlo o di ‘modificarlo’, come avviene con l’imposizione di tabù nominali o con altri esercizi di ridenominazione, e una tendenza opposta a fare del ricordo il vero agente dominante rispetto al quale i personaggi assumono un ruolo completamente passivo, subendolo come una affezione che determina dal loro interno la ridefinizione o la rimodulazione delle rispettive competenze narrative. Questi giochi di memoria sono modulati diversamente in ciascuna delle quattro parti costitutive dell’opera: le prime tre caratterizzate da una narrazione in prima persona affidata a ciascuno dei tre fratelli di Candace (Caddy) Compson, il disabile Benjamin-Benjy-Maury, il suicida Quentin e l’affarista Jason, ciascuno dei quali porta una prospettiva diversa e fortemente soggettiva sul «mistero passato» oggetto della narrazione e sulla sua capacità di determinare le posture comportamentali e i paesaggi percettivi e affettivi di ciascuno dei personaggi; e l’ultima caratterizzata invece da una narrazione in terza persona, che marca una neutralità del punto di vista (a «focalizzazione esterna», nella terminologia genettiana), e pone al centro della scena l’anziana (al momento della narrazione) donna di servizio, Dilsey, che ha accompagnato la crescita e la dissoluzione della famiglia. Ognuna delle quattro narrazioni è localizzata temporalmente, tre di queste (Benjy, Jason, Dilsey) sono strettamente contigue: 7, 6 e 8 aprile 1928 nell’ordine di successione in cui sono presentate, mentre la quarta (seconda nell’ordine di presentazione), quella di Quentin, è datata 2 giugno 1910, data del suicidio del protagonista-narratore.

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Tutte le quattro narrazioni muovono da scene di vita quotidiana da cui si aprono verso un passato che viene messo in scena da prospettive diverse (con ovvia restrizione temporale per la narrazione di Quentin), attraverso la focalizzazione di quadri tipici e di eventi singolari che spaziano fra infanzia e adolescenza dei fratelli, i quali si proiettano sul vissuto presente di ciascuno di essi. Benché siano presenti ricostruzioni di scene attraverso l’uso di forme reiterative, c’è una forte predominanza di focalizzazioni su una serie di eventi singolari, che segnano i nodi salienti del percorso di ‘formazione’ di ciascun personaggio, all’interno del quale gli eventi singolari assumono valori diversi: giorno della morte della nonna; matrimonio di Caddy e ubriacatura di Benjy; arrivo in casa di Quentin Junior (figlia di Caddy); funerali del padre (Jason Compson Sr.). Ciò che però marca tutte le prospettive e tutte le scene ricostruite è la presenza costante e ‘ossessiva’ di Caddy-Candace, la sorella ‘maledetta’, amata/odiata dai fratelli (madre per Benjy, amante per Quentin, antagonista/traditrice per Jason), di cui si valorizza continuamente il ruolo nelle scene e negli eventi in cui è presente o il vuoto prodotto dalla sua assenza nelle scene in cui è assente. Meglio ancora, è come se il vuoto prodotto dalla sua assenza venisse continuamente riempito ricordando scene ed eventi caratterizzati dalla sua presenza o esorcizzandone il ‘fantasma’ attraverso tabù e divieti. Il nostro esercizio di analisi, che non pretende certo di essere esaustivo né sistematico ma vuole solo provare a formulare una prima ipotesi sulla rilevanza delle prospettive memoriali nella narrazione faulkneriana, si incentrerà essenzialmente sulla prima delle narrazioni, quella di Benjy, la più problematica ma anche la più ricca di spunti per i nostri interessi, insieme a quella di Quentin. Tali narrazioni si caratterizzano già a partire dalla loro strutturazione enunciazionale, che si presenta immediatamente come paradossale: la narrazione di Quentin è l’autobiografia di un suicida, che arriva fino al momento della morte, e dunque non lascia spazio ‘realistico’ per collocare il momento temporale della narrazione stessa, esercizio, in verità, presente anche in altri luoghi della narrativa faulkneriana, basti pensare al punto di vista almeno altrettanto improbabile di As I Lay Dying. La narrazione di Benjy è invece il resoconto dettagliato e ricchissimo di spessore percettivo e memoriale effettuato da un disabile che dovrebbe essere incapace di articolare un linguaggio vero e proprio, resoconto che traccia lucidamente anche le memorie dei momenti in cui il protagonista avrebbe dovuto essere assente a se stesso (Benjy ubriaco). Se nel caso di Quentin era difficile trovare uno spazio narrativo temporalmente accettabile (in una

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prospettiva ‘realistica’), con Benjy sembra impossibile trovare uno spazio accettabile sotto il profilo logico-linguistico. Queste due narrazioni si caratterizzano inoltre come le due narrazioni della ‘presenza’ di Caddy, in quanto la sua figura domina interamente il paesaggio percettivo-memoriale che esse costruiscono, mentre le altre due prospettive sembrano caratterizzarsi come narrazioni dell’‘assenza’, o forse meglio della presenza negativa, in quanto a dominare sembra essere soprattutto il lavoro di rimozione e di cancellazione: dal divieto di pronunciare il nome di Caddy in casa, alla ‘persecuzione’ del suo fantasma vivente (la figlia Quentin), alla valutazione negativa degli effetti delle sue scelte di vita. 3. BENJY Ma veniamo in modo più diretto alla narrazione di cui intendiamo occuparci in questa sede, quella di Benjy, che apre l’opera introducendone i temi centrali e che si presenta come quella in cui il lavoro della memoria viene articolato in modo più complesso. Tale complessità deriva dal fatto che, come è noto, il personaggio Benjy è un disabile i cui problemi cognitivi sono tematizzati e denominati solo parzialmente e solo dall’esterno, secondo prospettive oggettivanti, in cui si confondono i dati effettivi del comportamento, i pregiudizi e le paure. Parzialmente, perché solo pochi personaggi e in particolari circostanze sfidano il tabù di nominare la sua malattia, vissuta come una maledizione familiare; così come pochi sfidano il tabù di usare il suo nome vero, Maury, che, su imposizione della madre, è stato sostituito con Benjamin a un certo punto dello sviluppo del bambino, con evidente riferimento biblico su cui non ci soffermeremo 9, per scongiurare che la maledizione andasse a toccare l’altro Maury, zio del bambino e fratello della madre, unico altro rappresentante della famiglia Bascomb, accolto all’interno della famiglia Compson entro cui conduce un’esistenza parassitaria. La malattia dunque, così come il destino tragico di Quentin e i drammi erotico-affettivi di Caddy e della figlia (anch’essa di nome Quentin), vissuti come manifestazioni di una maledizione, specie dalla madre, si configurano come tracce mnemoniche di eventi passati 9 «Si chiama Benjy, adesso, disse Caddy. Come, come? Disse Dilsey. Non avrà mica già consumato il nome con cui è venuto al mondo, eh? Benjamin viene dalla Bibbia, disse Caddy. È meglio di Maury, per lui» (50-51). «Versh disse: Ti chiami Benjamin adesso. Sai perché adesso ti chiami Benjamin? Perché vogliono trasformarti in un negro» (60). Le citazioni italiane sono tratte dall’edizione Einaudi.

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non nominabili (e che in parte riemergeranno, all’interno dell’economia complessiva della saga di Yoknapatawpha, per bocca di un altromedesimo Quentin Compson in Absalom, Absalom!), che si inscrivono direttamente nella carne, seguendo le ‘vie del sangue’, senza che i personaggi ne abbiano coscienza o «memoria» effettiva, e le cui tracce potranno essere inseguite nel passato ma senza alcuna possibilità di redenzione. E in questo senso, in Faulkner, il passato è sempre ‘passato’, per sempre, anche se non cessa mai di scrivere il presente e di conformarlo a se stesso, segnando i destini di ognuno. La vera complessità nella ‘costruzione’ attoriale di Benjy sta però nella definizione del personaggio dall’interno, che dovrebbe mostrarci la sua disabilità in atto, derivante dal modo in cui Benjy percepisce e vive il mondo circostante, dunque dal modo in cui egli costruisce il paesaggio circostante e il mondo che abita, sensorialmente, motoriamente, affettivamente, cognitivamente. Il primo dato interessante per la nostra prospettiva è che Benjy non sembra in grado di articolare la dimensione temporale: per lui il ‘passato’ non esiste, anche se esistono gli eventi passati che gli sono presenti non attraverso atti di rimemorazione ma come ‘presenze’ effettive, attuali, così come non esiste un ‘futuro’ separabile da una semplice pulsione di desiderio, semplice prolungamento, dilatazione, del presente. Il percepire, il ricordare, l’immaginare non costituiscono, come direbbero i fenomenologi, funzioni noetiche distinte capaci di costituire regioni del senso separate, ma appaiono fusi e totalmente indistinti. Gli eventi passati vanno a costituire il mondo entro cui Benjy si muove, articolandosi però in piani distinti che, con riferimento al Percorso Generativo del senso, potremmo descrivere come livelli di diverso grado di astrazione. Ciò ci permette di distinguere: una memoria (presenza attuale del passato) puramente percettivo-figurativa, che rende conto della qualità sensibile delle cose con forti effetti sinestesici («avevo nel naso l’odore del freddo sfolgorante», «potevamo udire il freddo», «Mi accovacciai, stringendo la pantofola. Non potevo vederla ma la vedevano le mie mani, e sentivo che si faceva notte, e le mie mani vedevano la mia pantofola ma io non mi vedevo, la vedevano le mie mani»); una memoria di tipo evenemenziale-narrativo, in quanto ricordo di accadimenti singolari o ritualizzati e reiterati; e una memoria affettiva legata a un orientamento pulsionale verso il mondo, che lo articola seconda una dimensione timica molto marcata tra ciò che fa stare bene Benjy (es. il caldo profumato) e ciò che lo fa star male (es. il freddo buio), ciò che lo attrae (es. l’odore naturale di Caddy) e ciò che lo respinge (es. l’acqua di colonia di Caddy). I diversi livelli riescono però solo raramente a omogeneizzarsi, a eccezione della dimensione timica, che articola sistematicamente sia

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la dimensione figurativa sia quella narrativa, e tendono a costituire quadri distinti organizzandosi in isotopie, che si accavallano senza riuscire a integrarsi o a determinarsi reciprocamente ma tendendo anzi a restare autonome. In particolare sono le figure del mondo che sembrano continuamente scollarsi dal ricordo degli eventi e iniziare a vivere di vita propria. Le figure percettive visive, olfattive, tattili, gustative, acustiche appaiono sempre eccezionalmente vivide, fatte di dettagli accurati altrettanto vividi delle percezioni presenti, e sembra essere proprio questa ‘continuità di consistenza’, di densità semica, a favorire la fusione fra orizzonte percettivo attuale e orizzonte percettivo memoriale. Se il passato è tale perché la nitidezza delle immagini si attenua con il tempo, nell’universo di Benjy, di fatto, il «passato» non esiste e di conseguenza sembra annullarsi la stessa dimensione temporale: nel paesaggio attuale convivono, indistinguibili in quanto semanticamente omogenee, le figure della memoria e le figure della percezione. Da questa omogeneizzazione della densità figurativa deriva un particolare effetto di ‘collocamento’ del soggetto, in quanto sembra essere Benjy che si muove in un ambiente in cui dislocazione spaziale e dislocazione temporale hanno la medesima forma. Benjy si muove dentro l’universo delle figure accumulate e in via di accumulazione indipendentemente dalla loro maggiore o minore contiguità tanto temporale quanto spaziale, cosicché ciascuno dei luoghi spaziali, a sua volta, può figurativizzarsi, alternativamente o simultaneamente, attraverso l’insieme delle ‘sue’ figure, tutte parimenti attuali, sia che siano percepite sia che siano rimemorate, sia che siano riconducibili a un’unica sequenza di eventi sia che condensino eventi lontani fra loro, sia che appartengano al mondo esterno sia che siano riconducibili al proprio corpo. Gli universi figurativi prodotti risultano in tal modo fortemente frammentati, imponendo al lettore un’attenzione costante e un continuo lavoro di separazione e riarticolazione configurativa, tematica e narrativa, per il quale gli indizi disponibili sono in genere di due tipi: uno semantico-discorsivo, la denominazione degli altri attori presenti sulla scena, specie dei servitori neri che nel corso del tempo si sono presi cura di Benjy, e che il lettore pian piano impara ad attribuire a generazioni diverse; e uno puramente espressivo, legato all’uso alternato di caratteri tondi e corsivi per segnalare la presenza di configurazioni diverse all’interno di una medesima sequenza discorsiva, salvo il fatto che entrambi questi aiutanti non sono sempre affidabili, da un lato a causa della ripetizione di nomi uguali in generazioni diverse, dall’altro a causa dell’uso non omogeneo degli artifici espressivi.

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«Ehi, Benjy», disse T.P. dall’interno. «Dove ti sei nascosto? Tu vuoi squagliartela. Lo so». Luster tornò indietro. Aspetta, disse. Ecco. Non andare là. Là sul dondolo c’è la signorina Quentin col moroso. Vieni da questa parte. Torna indietro, Benjy. Era buio sotto gli alberi. Dan non voleva venirci. Restava sotto i raggi della luna. Poi vidi il dondolo e mi misi a piangere. Via di lì, Benjy, disse Luster. Sai che la signorina Quentin si arrabbierà. Adesso erano in due, e poi uno sul dondolo. Caddy arrivò di corsa, bianca nel buio 10.

Luster e T.P. appartengono a generazioni distinte, e due situazioni affini – amori sul dondolo – relative a tempi e personaggi diversi, Caddy e sua figlia Quentin, vengono fuse in un’unica sequenza. Questo modo complesso di strutturazione del discorso, attraverso la convocazione discorsiva contemporanea di situazioni narrative disgiunte, caratterizza l’intera narrazione di Benjy e, a solo titolo esemplificativo, possiamo vederne un altro esempio nella sequenza relativa alla malattia della madre, in cui si condensano, entro una scena discorsiva unica, momenti temporali diversi e frammenti di eventi distinti, che si articolano intorno a un motivo figurativo, quello del fuoco: Caddy bisbigliò: «È malata la mamma?» Versh mi mise giù ed entrammo nella stanza della mamma. C’era un fuoco. Andava su e giù sulle pareti. C’era un altro fuoco nello specchio. Sentivo l’odore della malattia. Era sulla pezzuola piegata sulla testa della mamma. I suoi capelli erano sul guanciale. Il fuoco non ci arrivava, ma le splendeva sulla mano, dove lampeggiavano gli anelli. «Vieni a dare la buonanotte alla mamma», disse Caddy. Ci avvicinammo al letto. Il fuoco uscì dallo specchio. Il babbo si alzò dal letto e mi sollevò e la mamma mi mise una mano sulla testa. «Che ore sono?» disse la mamma. Aveva gli occhi chiusi. «Le sette meno dieci», disse il babbo […] «Zitta» disse il babbo. «Lo porto giù io per un po’». Mi prese in braccio. «Coraggio, vecchio mio. Andiamo giù per un po’. Dovremo stare attenti a non far rumore, perché Quentin sta studiando». Caddy andò a piegare il viso sopra il letto e la mano della mamma entrò nella luce del fuoco. I suoi anelli lampeggiarono sulla schiena di Caddy. La mamma è malata disse il babbo. Vi metterà a letto Dilsey. Dov’è Quentin? Versh è andato a

10 Tr. it., p. 40: «‘You, Benjy.’ T.P. said in the house. ‘Where you hiding. You slipping off. I knows it.’ Luster came back. Wait, he said. Here. Dont go over there. Miss Quentin and her beau in the swing yonder. You come on this way. Come back here, Benjy. It was dark under the trees. Dan wouldn’t come. He stayed in the moonlight. Then I could see the swing and I began to cry. Come away from there, Benjy, Luster said. You know Miss Quentin going to get mad. It was two now, and then one in the swing. Caddy came fast, white in the darkness».

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prenderlo disse Dilsey. Il babbo in piedi ci guardò passare. Sentivamo la mamma nella sua stanza. Caddy disse «Zitti». Jason stava ancora salendo le scale. Aveva le mani in tasca. «Dovete stare tutti buoni, stasera» disse il babbo. «E fare silenzio per non disturbare la mamma». «Staremo zitti», disse Caddy. «Adesso devi stare zitto Jason», disse. Camminavamo in punta di piedi. Si sentiva il rumore sul tetto. Io vedevo anche il fuoco nello specchio. Caddy tornò a tirarmi su. «Vieni adesso», disse. «Poi potrai tornare davanti al fuoco. Zitto, adesso». «Candace», disse la mamma. «Zitto, Benjy», disse Caddy. «La mamma ti vuole un momento. Da bravo, poi potrai tornare qui, Benjy». Caddy mi mise giù, e io tacqui 11.

Ciò che spesso manca è dunque quel lavoro interpretativo necessario a rendere intelligibili i rapporti fra le figure presentate. Lavoro che nella prospettiva di Benjy a volte assume vie inusuali, che anziché guidare il lettore entrano in conflitto con la sua prospettiva razionalizzante, e che finiscono con il costruire un mondo di tipo animistico, in cui le cose iniziano a muoversi di volontà propria secondo piani di azione indipendenti dallo sviluppo narrativo in cui si innestano, oppure, come nella sequenza sopra citata della malattia, le figure si autonomizzano rispetto agli oggetti, come accade al fuoco che si moltiplica con il moltiplicarsi delle sue figure riflesse: T.P. cadde per terra. Cominciò a ridere e la porta della cantina e il chiaro di luna schizzarono via e qualcosa mi colpì 12. 11 Tr. it, pp. 53-54: «Caddy whispered, ‘Is Mother sick.’ Versh set me down and we went into Mother’s room. There was a fire. It was rising and falling on the walls. There was another fire in the mirror, I could smell the sickness. It was on a cloth folded on Mother’s head. Her hair was on the pillow. The fire didn’t reach it, but it shone on her hand, where her rings were jumping. ‘Come and tell Mother goodnight.’ Caddy said. We went to the bed. The fire went out of the mirror. Father got up from the bed and lifted me up and Mother put her hand on my head. ‘What time is it.’ Mother said. Her eyes were closed. ‘Ten minutes to seven.’ Father said. […] ‘Hush.’ Father said. ‘I’ll take him downstairs a while.’ He took me up. ‘Come on, old fellow. Let’s go down stairs a while. We’ll have to be quiet while Quentin is studying, now’. Caddy went and leaned her face over the bed and Mother’s hand came into the firelight. Her rings jumped on Caddy’s back. Mother’s sick, Father said. Dilsey will put you to bed. Where’s Quentin. Versh getting him, Dilsey said. Father stood and watched us go past. We could hear Mother in her room. Caddy said ‘Hush.’ Jason was still climbing the stairs. He had his hands in his pockets. ‘You all must be good tonight.’ Father said. ‘And be quiet, so you wont disturb Mother.’ ‘We’ll be quiet.’ Caddy said. ‘You must be quiet now, Jason.’ She said. We tiptoed. We could hear the roof. I could see the fire in the mirror too. Caddy lifted me again. ‘Come on, now.’ she said. ‘Then you can come back to the fire. Hush, now.’ ‘Candace.’ Mother said. ‘Hush, Benjy.’ Caddy said. ‘Mother wants you a minute. Like a good boy. Then you can come back. Benjy.’ Caddy let me down, and I hushed’. 12 Tr. it., p. 35: Benjy ubriaco al matrimonio di Caddy: «T.P. fell down. He began to laugh, and the cellar door and the moonlight jumped away and something hit me».

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I gradini della cantina salivano verso la luna e T.P. cadde sui gradini, nella luna 13. Allungai la mano verso il punto dove prima c’era il fuoco. ‘Fermalo’, disse Dilsey, ‘Fermalo’. La mia mano tornò indietro di scatto e io me la portai alla bocca e Dilsey mi fermò. Sentivo ancora la pendola in mezzo alla mia voce… La mia voce era sempre più forte… La mano cercava di salirmi alla bocca ma Dilsey la teneva ferma 14.

In qualche modo, il lavoro interpretativo che la ‘forma della memoria’ di Benjy impone al lettore come ricucitura continua sembra introdurre un’isotopia, quella del lavoro interpretativo appunto, che domina l’opera a più livelli, sia sotto forma di tematizzazione diretta, come accade ad esempio nella lunga sequenza in cui i bambini, rientrati a casa dopo una giornata di giochi, di fronte a suoni inusuali devono decidere se si tratta di risa o di pianti, di suoni di gioia o di dolore (la mamma sta piangendo vs la mamma sta ridendo), problema che non tocca direttamente Benjy ma che egli si limita a riferire; ma soprattutto sotto forma di tema generale della narrazione: il dramma ‘primitivo’, origine della presunta maledizione, non viene mai indicato in modo diretto ma a esso si allude soltanto, imponendo al lettore di mantenere costante quello sguardo sul passato a cui abbiamo accennato all’inizio, con l’aiuto di Deleuze. In questa prospettiva, la narrazione di Benjy, che apre l’opera, sembra costituire una sorta di propedeutica didattica al ‘vero problema’ della narrazione faulkneriana, che consisterebbe nel contrattare con il lettore le modalità di cooperazione. Un lettore passivo non può che trovarsi nella situazione di Benjy: in balìa di una dispersione di elementi di cui non può venire a capo se non si impegna a delineare da sé le possibili isotopie in grado di far emergere linee di senso plausibili. La disabilità di Benjy, e la forma della memoria a cui sembra far capo, si delineerebbero in tal senso come vere e proprie istanze poetiche. La disabilità di Benjy sembra caratterizzarsi per l’incapacità di operare «astrazioni», di sintetizzare la molteplicità dei dati percettivi per finalizzarli alla costituzione di oggetti di riferimento, o, come direbbero i fenomenologi, di operare «sintesi di transizione». Ma proprio questa disabilità, che porta a connettere ogni singola figura a un oggetto diverso (un diverso ‘fuoco’ per ognuna delle figure che lo manifestano), fa sì che la memoria di Benjy, al pari di quella del borge13 Ibidem. «The cellar steps ran up the hill in the moonlight and T.P. fell up the hill, into the moonlight» 14 Tr. it., p. 51: «I put my hand out to where the fire had been. ‘Catch him.’ Dilsey said. ‘Catch him back’. My hand jerked back and I put it in my mouth and Dilsey caught me. I could still hear the clock between my voice. Dilsey reached back and hit Luster on the head. My voice was going loud every time».

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siano Funes, sia una memoria assolutamente prodigiosa, condannata a conservare ogni singolo dettaglio dei nudi dati percettivi come delle parole pronunciate, di ogni momento del passato, anche di quelli vissuti in stato di alterazione; come mostra il resoconto che Benjy fa della propria ubriacatura. Resoconto che non si distingue dal resto della narrazione né per la vividezza di dettagli, inalterata, né per l’incapacità di ricondurre quei dettagli a una struttura «oggettuale» razionale che resta affine a quella usuale. La memoria di Benjy si configura dunque come memoria essenzialmente figurativa, in cui il piano tematico e quello narrativo perdono consistenza, si incrinano continuamente e si dissolvono, per lasciare spazio a una pura distribuzione di figure che tende a caricarsi di valori timici: figure positive, da un lato, figure negative dall’altro; la presenza di Caddy, dentro le figure visive, olfattive, gustative, da un lato, e, dall’altro, la sua assenza o tutto ciò che minaccia la sua assenza. Distribuzione timica che a volte si rivela però impraticabile, in quanto le figure possono cumulare situazioni diverse: a un fuoco ‘buono’ della presenza, se ne può sovrapporre uno ‘cattivo’ della separazione; a un freddo ‘buono’ della prossimità se ne può sovrapporre uno ‘cattivo’ della distanza, e così via. Complessità ulteriormente accentuata dall’assenza di una chiara discriminante narrativa, che potrebbe distinguere le situazioni positive da quelle negative: non abbiamo un fuoco ‘buono’, in una situazione, e un fuoco ‘cattivo’, in una situazione diversa, ma semplicemente una disseminazione di fuochi, tutti in presenza, che non possono così che essere, a un tempo, ‘buoni e cattivi’. Complessità lacerante che si manifesta continuamente nei pianti, negli ululati, negli strilli di Benjy, che non udiamo mai direttamente ma solo attraverso le reazioni, descritte dallo stesso Benjy, dei suoi ‘ascoltatori’: sono la traccia costante dell’assenza fisica di Caddy e della sua presenza fantasmatica nelle sensazioni, nelle immagini, nelle parole attuali, che a loro volta possono duplicare sensazioni, immagini e parole che marcano la presenza o l’assenza di Caddy in momenti diversi del passato. Gli urli di Benjy, in quanto iscrizione permanente nel presente della memoria, assumono la funzione di manifestare continuamente la presenza della ‘maledizione’ che grava sulla famiglia e perciò impongono una serie di riti di ‘purificazione’, per far sì che la voce di Benjy taccia, e dunque che la maledizione non sia presente. ‘Purificazione’ che consiste essenzialmente nella cancellazione delle tracce dell’esistenza di Caddy, nell’obbligo di dimenticare Caddy, a partire dalla proibizione di pronunciare il suo nome fino alla proibizione, per la stessa Caddy, di rimettere piede in casa o in paese. Imposizione di un oblio inefficace, ora, per Benjy come per Jason, che trova Caddy inscritta in ogni gesto o espressione della figlia Quen-

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tin, o, allora, per il fratello Quentin, nella cui narrazione il passato, con Caddy, tende non tanto a sovrapporsi quanto a sostituirsi al presente. Tabù che si sgretola per Benjy di fronte allo pseudo-nome della sorella, l’urlo «caddy» lanciato dai giocatori di golf nei pressi della casa; o di fronte alle innumerevoli figure del paesaggio quotidiano: la semplice vista di una «cassetta» è la visione ‘positiva’ della cassetta usata da Caddy per sollevarsi fino a una finestra e sbirciare all’interno della casa in occasione dei funerali della nonna (per decidere se i rumori provenienti dall’interno fossero di gioia o di dolore, quelli di una festa o di una tragedia), ma è anche, simultaneamente, la visione ‘negativa’ della cassetta usata da T.P. per sbirciare all’interno della casa in occasione del matrimonio (e dunque della separazione) di Caddy. Da un lato, dunque, l’imposizione di un oblio ‘rituale’ finalizzato alla cancellazione di una maledizione e alle sue manifestazioni costanti, gli urli di Benjy; dall’altro l’impossibilità dell’oblio dovuta all’iscrizione della presenza da cancellare in tutte le figure presenti nel paesaggio del protagonista, che si danno come condensazioni stratificate di sentimenti positivi e negativi, grumi di senso che il protagonista, nella sua narrazione non è in grado di dipanare. 4. CONCLUSIONI La memoria di Benjy, stretta in questo dilemma fra un dover dimenticare e un non poter non ricordare, ma senza la capacità di strutturare i ricordi in quadri tematici autonomi o in sequenze narrative intelligibili, rivela alla fine tutta la sua impotenza quale strumento «interpretativo», in quanto non appare mai in grado di supportare la costruzione di un piano di senso sufficiente a dare una collocazione ai frammenti di eventi che emergono, e allo stesso Benjy rispetto a essi. In questa prospettiva, il racconto di Benjy sembra andare a tematizzare, metanarrativamente, il problema stesso dell’interpretazione, proprio a partire dai suoi ‘mancamenti’ continui, derivanti dal fatto che le singole figure, in assenza di un piano di connessione, non appaiono in grado di «significare». Una memoria puramente figurativa, come quella pur prodigiosa di Benjy, sembra aprirsi a una sola dimensione del senso, quella timica e affettiva. Ne deriva un mondo brulicante in cui forze di attrazione e di repulsione si accavallano e all’interno del quale il Soggetto che le vive non è in grado di assumere nessuna posizione, di acquisire alcuna distanza. Se assumiamo questa lettura metanarrativa, Benji viene allora a configurarsi come simulacro del lettore di The Sound And The Fury, in quanto questo, come quello, non ha a disposizione che il medesimo

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universo frammentato di figure che si raggrumano senza mai dipanarsi completamente, senza indicare la predominanza di una isotopia tematica, in grado di ‘spiegare’ la configurazione delle scene, o una struttura narrativa, in grado di reggere una configurazione sequenziale degli eventi. Come Benjy, anche il lettore non può che contare su una memoria inadeguata, per quanto prodigiosa possa essere, per riconnettere i frammenti disseminati nella rete spazio-temporale intessuta dal monologo di Benjy. La sfida poetica di Faulkner sembra consistere allora non tanto nell’esercizio di mostrare il mondo quale questo potrebbe configurarsi nella prospettiva di una forte disabilità cognitiva, ma nello spingere il lettore a una adesione emotiva che faccia economia delle interpretazioni «razionali», tematiche o narrative che siano, e si basi solo su una capacità di rimemorazione associativa, che sappia rendere conto della ricorrenza in tempi diversi e su piani diversi di elementi carichi di valori contraddittori: come per Benjy, anche per il lettore non è dato sapere se una certa figura, un certo suono, è un urlo di disperazione o un grido di gioia, se un assembramento è una riunione festosa o un evento luttuoso. Per ora è sufficiente che senta la ‘forza’ che emana da questa figura, suono o assembramento, il loro peso, e che condivida con i protagonisti la tensione emotiva che ne deriva. Per scoprire, razionalmente, di che cosa si tratta davvero dovrà confidare nelle narrazioni degli altri, così come Benjy, attraverso l’intraprendenza di Caddy, dovrà aspettare che qualcuno salga su una cassetta o su un albero, guardando al di là del suo orizzonte, per sapere se la tensione che sente è di gioia o di dolore.

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6. Dar corpo alla passione: figure dell’entusiasmo in Henry V di William Shakespeare

Questa breve analisi verterà su una sequenza narrativa dell’Enrico V di Shakespeare, concentrata fra il III e il IV atto, e sulla riformulazione cinematografica che ne è stata proposta da Kenneth Branagh. Questa riformulazione si presenta, sotto molti aspetti, come una vera e propria traduzione, o trasposizione letterale, in quanto riprende punto per punto, proprio come in una lettura teatrale classica, il testo shakespeariano, apportando però inevitabilmente elementi di variazione, specie a livello di organizzazione figurativa, che mettono in luce tutta la possibile distanza fra una riduzione teatrale e una riduzione cinematografica. Distanza che viene costantemente sottolineata dalle discrepanze fra quanto viene affermato dalla voce fuori campo del coro (rappresentato nel film da un attore con funzione di narratore) che, con la forma di preterizione che tanto spesso introduce le descrizioni nel tessuto narrativo 1, lamenta con insistenza la povertà e inadeguatezza dei mezzi teatrali («E ora la nostra scena deve spostarsi rapidamente al campo di battaglia dove, ahimè, con quattro o cinque spadacce intaccate mal maneggiate in ridicolo duello, faremo torto al gran nome di Azincourt» 2), e l’efficacia rappresentativa del mezzo cinematografico, che con effetti speciali è in grado di porci diret-

1 Si veda a questo proposito Philippe Hamon, Du Descriptif, Paris, Hachette 1993. 2 Le traduzioni in italiano sono tratte da William Shakespeare, Tutte le opere, Firenze, Sansoni 1964. Tr. it., p. 570: «Chorus: […] And so our Scene must to the Battaile flye: Where, O for pitty, we shall much disgrace, With foure or fiue most vile and ragged foyles, (Right ill dispos’d, in brawle ridiculous) The Name of Agincourt».

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tamente davanti agli eventi sul campo di battaglia, anziché imporci di «immaginare la realtà da quello che non è che una pallida imitazione». Possiamo anzi dire che la forza della lunga sequenza guerresca del film è costruita dal montaggio alternato di scene focalizzate sui personaggi noti di entrambi i campi, che chiamano in causa un ‘occhio’ situato a giusta distanza e capace di gestire con onniscienza tutto ciò che di rilevante, isolabile e distinguibile accade sul campo, rendendo in tal modo conto della dimensione ‘eroica’ della battaglia e scene focalizzate su dettagli ravvicinati di arti umani e animali e di commistioni materiche di fango e sangue, che chiamano in causa un occhio eccessivamente ravvicinato, completamente perso dentro la battaglia, che nulla sa dire degli eroi e che può rendere conto solo della forza bruta che nella battaglia azzera ogni differenza, costituisce forse la principale licenza di Branagh rispetto al testo teatrale, nel quale la battaglia è presente solo come un’eco lontana attraverso brevi accenni riassuntivi, e in cui quasi nulla si sa del comportamento sul campo, né dei singoli eroi né delle masse anonime. Dunque, se già l’originale shakespeariano proponeva spunti di carattere teorico e metateatrale in forma di meditazione sui mezzi rappresentativi del teatro, il testo filmico di Branagh accentua ulteriormente questa dimensione giocando sulle differenze fra teatro, cinema e testo verbale e sulle rispettive capacità di mettere in scena una realtà credibile o, soprattutto, coinvolgente ed emozionante. A questo proposito, ad esempio, è evidente che l’accompagnamento musicale adottato da Branagh per sottolineare proprio i passi che ci interessano di più, ed estremamente efficace nel marcare la dinamica patemica del testo (che costituisce l’oggetto del nostro interesse in questa occasione), non appartiene di fatto a nessun possibile mondo rappresentato (fatta eccezione per le moderne convention, in cui gli eventi reali sono accompagnati da una colonna sonora, che a un tempo accentua la passione e denuncia la finzione, e a dispetto della sempre più invadente sonorizzazione del mondo, operata dalla musica d’ambiente, che tende a installarci permanentemente dentro un videoclip pubblicitario), bensì al piano della rappresentazione, e dunque al livello delle scelte interpretative del regista. È proprio su queste «scelte interpretative» che sarà incentrata la nostra analisi e in particolare su una serie di «artifici retorici» di carattere non verbale, riconducibili soprattutto alla dimensione visiva, a quella prossemica e a quella musicale del testo cinematografico, che hanno l’evidente funzione di accompagnare, arricchire o determinare la modulazione emotiva e passionale del testo stesso. A questo proposito, si potrebbe forse aprire una prospettiva ulteriore, cosa che non faremo in questa sede, sul capitolo relativo alla di-

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mensione retorica dei testi non verbali 3, specie riguardo allo statuto dei tropi di maggior rilevanza, e in particolare a quello della metafora: non tanto affermando, come è già stato ampiamente fatto, che esistono metafore visive o metafore sonore, ma avanzando l’ipotesi che la «metafora» (tra virgolette per indicare ciò che, genericamente, è stato fino a ora denominato in tal modo nei vari campi di ricerca 4, dunque più come titolo di un capitolo problematico che come riferimento a una delle sue definizioni specifiche) possa assumere un ruolo di particolare rilievo nei processi di organizzazione e coordinazione dei diversi registri del piano dell’espressione, e che si possa dunque ragionevolmente parlare di metafora intersemiotica. La prossemica e lo sviluppo musicale, nel nostro caso, che sono introdotti nel testo cinematografico senza indicazioni preliminari nel testo verbale, e che costituiscono dunque una scelta interpretativa dell’enunciatore filmico, hanno a nostro avviso un carattere metaforico, in quanto figurativizzano, e dunque danno carattere sensibile, a dimensioni non percepibili come quelle emotive, che qui ci interessano, istituendo una identificazione fra la passione o l’emozione stessa e una figurazione (prossemica, sonora, visiva) che serve a ‘illustrare’ quello stato d’animo ma che non gli è ‘proprio’, né può esserlo. Il trasferimento metaforico non consisterebbe tanto, come nella prospettiva verbale tradizionale, nello spostamento di una immagine (propria) da un ambito a un altro (dove sarebbe impropria), ma nell’adozione di strutturazioni di tipo figurale o plastico, indipendenti e trasversali rispetto alle sostanze semiotiche implicate, che soggiacciono alle figure visive, sonore, ecc., al fine di ‘dare figura’ a elementi e concetti astratti come, nel nostro caso, quelli relativi alla dimensione passionale. In questa prospettiva, la problematica metaforica si aprirebbe al problema generale dei modi di ‘dar figura’ agli elementi semantici che non hanno una figura ‘propria’ o la cui ‘figura propria’ non appare adeguata alla situazione discorsiva. Problematica che ci appare ben più pertinente per la semiotica generale di quanto non lo sia quella della metafora verbale tradizionale, specie laddove intesa come semplice ‘spostamento’ di parole. 3 Citiamo a questo proposito le ricerche più recenti di Paolo Fabbri e il lavoro più tradizionale ma sempre di rilevante interesse del Groupe µ: Traité du signe visuel, Paris, Seuil 1992 (tr. it. Trattato del segno visivo, Milano, Bruno Mondadori 2007). Una prospettiva di particolare interesse è inoltre, a nostro avviso, quella presentata da Jurij Lotman nella voce «Retorica» da lui redatta per l’Enciclopedia Einaudi (vol. XI). Testo ripreso in Paolo Fabbri e Gianfranco Marrone (a cura di), Semiotica in nuce. Vol. 2: Teoria del discorso, Roma, Meltemi 2001. Fra le tante introduzioni alla retorica, il testo di Silvana Ghiazza e Marisa Napoli, Le figure retoriche. Parola e immagine, Bologna, Zanichelli 2007, offre un particolare rilievo alla retorica visiva. 4 Si veda a questo proposito il testo sopra citato di Lotman.

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Così inteso, ci sembra, il lavoro della metafora non avrebbe tanto, o almeno non solo, a che fare con la decorazione del discorso ma avrebbe la funzione di offrire modelli di articolazione della percezione del mondo e delle sue caratterizzazioni emotive, e proprio da ciò potrebbe derivare la sua «efficacia», non solo nella dimensione cognitiva ma anche in quella emotiva. Ma torniamo al testo shakespeariano per provare a descrivere la dimensione patemica del brano che ci siamo proposti di studiare. Ci soffermeremo in particolare su una delle passioni che vengono tematizzate, che lessicalizzeremo come «entusiasmo», anche se il testo non nomina mai esplicitamente questo stato passionale. A partire da questa analisi proporremo una separazione fra l’ambito delle «emozioni» e quello delle «passioni» che, a nostro avviso, da un punto di vista semiotico, costituiscono due problematiche distinte, e dunque meritevoli di una diversa strutturazione. Proveremo in particolare a mostrare, a questo proposito, che la differenza fra «emozioni» e «passioni» non è di ordine quantitativo, come viene generalmente suggerito, per cui le passioni sarebbero emozioni particolarmente intense, ma di ordine strettamente qualitativo. IL TESTO E LE SUE PASSIONI Il ‘frammento’ shakespeariano che prendiamo in considerazione è quello che mette in scena prima lo scoramento dell’esercito inglese, a fronte di una controffensiva francese che appare irresistibile, e poi la rimotivazione dell’esercito inglese stesso, determinata dalla celebre «orazione» 5 di re Enrico, che porterà, alla fine del IV atto, alla vittoria inglese sul campo di Agincourt. La sequenza ci presenta dunque la trasformazione fra due stati patemici opposti: il primo caratterizzato in modo pesantemente disforico e il secondo in modo accentuatamente euforico. Non solo perché il primo mette in scena la disforia e il secondo l’euforia, ma anche perché queste due dimensioni foriche sono a loro volta assunte cognitivamente da re Enrico, e valutate la prima come deleteria in vista dell’imminente battaglia e la seconda come condizione necessaria. Ed è proprio da questa valorizzazione degli stati patemici che consegue l’istituzione del programma di trasformazione degli stati passionali, preso in carico da re Enrico.

5 «Discorso rivolto a un pubblico, per lo più in tono solenne e riconducibile direttamente o indirettamente ai canoni classici dell’oratoria» (Devoto-Oli).

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I suoi uomini, già fieri di essere lì con lui, ora, di fronte all’imminenza della sconfitta preannunciata (pochi e male armati davanti a un esercito in piena forma), cominciano a sentire la fame, il freddo, la stanchezza (o meglio a prestare attenzione a esse, che certo erano presenti anche prima ma rimosse, dimenticate, nel furore della battaglia, nel miraggio della vittoria, nella bramosia del saccheggio). Ogni uomo comincia a pensare alla propria vita in pericolo, alla propria famiglia lontana e ai propri interessi abbandonati, forse per sempre. Così, ciascuno sogna di essere lontano da quel luogo, da quella folle impresa e da quegli altri uomini, di cui nulla più dice che ci si debba ancora fidare, dal momento che ognuno si ritrova a vivere per sé. Nel momento in cui ciascuno introduce il pensiero di sé, in quanto individuo sussistente indipendentemente da quella impresa, si delinea la dissoluzione del gruppo e di qualsiasi valore da attribuire all’impresa comune, e con ciò emerge un effetto di scoramento diffuso: ciascuno è inutilmente lì, mentre, molto più proficuamente, avrebbe potuto essere, proprio in quel momento, altrove, per sé e non per altri: Bates: Egli [il Re] può mostrare esteriormente tutto il coraggio che vuole; ma credo che, freddo come fa questa notte, si augurerebbe di essere nel Tamigi sino al collo; e vorrei che lo fosse ed io con lui, a tutti i patti, purché fossimo fuori di qui 6.

L’immagine del dopo battaglia è un’immagine funesta, proiettata direttamente nell’aldilà, unica destinazione immaginata possibile per gli uomini lì presenti e per il loro Re. Molto interessante, a questo proposito, è proprio la descrizione che di questa immagine viene proposta da un soldato allo stesso Re, che si aggira per il campo sotto mentite spoglie per cogliere l’umore degli uomini. In questa proiezione immaginaria viene messo in scena un giudizio, il giudizio finale, nel momento in cui saranno le imprese di Enrico a venir valutate, dopo la disfatta e la morte sua e dei suoi uomini, e ci si chiede quale duro verdetto ricadrebbe su di lui qualora la causa non fosse stata giusta. È dunque una sanzione negativa quella che viene immaginata, ma è soprattutto una sanzione nell’aldilà, che ribadisce l’idea di una ineludibile imminente disfatta: [Il Re] stesso avrà un grosso conto da rendere a Dio, quando tutte le gambe e braccia e teste tagliate in battaglia si ricomporranno il giorno 6 Tr. it., p. 572: «Bates: He may shew what outward courage he will: but I beleeue, as cold a Night as ‘tis, hee could wish himselfe in Thames vp to the Neck; and so I would he were, and I by him, at all aduentures, so we were quit here».

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del Giudizio e tutti gli grideranno: «Morimmo nel tale e tal luogo», chi bestemmiando, chi invocando un chirurgo, chi piangendo per la moglie lasciata povera su questa terra, chi lagnandosi per debiti non pagati e chi per i figli rimasti derelitti 7.

Dopo una meditazione solitaria sull’amaro destino dei re, caricati di tutti i personali affanni, peccati e timori umani, re Enrico si rivolge ai suoi uomini, prendendo lo spunto da una ennesima voce che lamenta la povertà non solo di mezzi ma anche di uomini, e si produce in una orazione che ha quale obiettivo proprio quello di trasformare lo stato patemico dell’intero gruppo. Trasformazione che, ci sembra, passa attraverso la ridefinizione del senso della presenza in quel luogo, esattamente in quel momento. Dunque attraverso il rovesciamento delle immagini legate al desiderio dei suoi uomini di essere altrove, in qualunque altro luogo. Ma vediamo più da vicino come viene costruita questa orazione 8. Notiamo innanzitutto che la strategia persuasiva di re Enrico non 7 Tr. it., p. 572: «Williams: But if the Cause be not good, the King himselfe hath a heauie Reckoning to make, when all those Legges, and Armes, and Heads, chopt off in Battaile, shall ioyne together at the latter day, and cry all, Wee dyed at such a place, some swearing, some crying for a Surgean; some upon their Wives, left poore behind them; some upon the Debts they owe, some upon their Children rawly left». 8 Tr. it., p. 575: «Westmoreland: Oh! Se avessimo qui anche solamente diecimila di quegli Inglesi che in patria se ne stanno sfaccendati oggi! Enrico: Chi esprime questo desiderio? Mio cugino Westmoreland? No, mio bel cugino; se è destino che si muoia, siamo in numero sufficiente a costituire per la patria una grave perdita; e se siamo destinati a sopravvivere, meno siamo e tanto più grande sarà la nostra parte di gloria. In nome di Dio, ti prego, non augurarti che abbiamo un solo uomo in più. Per Giove! Non sono avido di denaro, né mi curo di vedere chi mangia a mie spese; e non mi addoloro se altri porta i miei abiti. Tali cose esteriori non sono nei miei desideri: ma se è un peccato essere avido d’onore, allora sono l’anima più peccatrice di questo mondo. No, cugino mio, non augurarti neanche un solo soldato che ci venga dall’Inghilterra. Alla pace di Dio! Non vorrei perdere quel tanto d’onore che un solo uomo di più potrebbe condividere con me, neanche se ne andasse di mezzo la salvezza dell’anima mia. Oh! Non desiderarne neanche uno; e piuttosto, Westmoreland, fa’ proclamare in tutto l’esercito che chi non si sente l’animo di combattere se ne vada; gli daremo il passaporto e gli metteremo in borsa i denari per il viaggio. Non vorremmo morire con alcuno che temesse di esserci compagno nella morte. Oggi è la festa dei Santi Crispino e Crispiniano: chi sopravviverà e tornerà a casa, si leverà in punta di piedi e si farà più grande al nome di S. Crispiniano. Chi non morirà oggi e vivrà sino alla vecchiaia, ogni anno, la vigilia, conviterà i vicini e dirà: ‘Domani è S. Crispiniano’: poi tirerà su la manica e mostrerà le cicatrici e dirà: ‘Queste ferite le ebbi il giorno di S. Crispino’. I vecchi dimenticano: egli dimenticherà tutto come gli altri, ma ricorderà le sue gesta di quel giorno… e fors’anche un pochino di più. E allora i nostri nomi, che saranno termini familiari in bocca sua, re Enrico, Bedford e Exeter, Warwick e Talbot, Salisbury e Gloucester, saranno ricordati di nuovo in mezzo ai bicchieri traboccanti: questa storia il buon uomo insegnerà a suo figlio. E sino alla fine del mondo il giorno di S. Crispino e S. Crispiniano non passerà senza che vengano menzionati i nostri nomi. Felici noi, noi pochi, schiera di fratelli; poiché chi oggi spargerà il suo sangue con me sarà mio fratello, e per quanto bassa sia la sua condizione questo giorno la nobiliterà: mol-

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passa attraverso un tentativo di imposizione di un obbligo, egli infatti non ordina ai propri uomini di riprendere i propri posti, né dà per scontata la loro motivazione ad agire intervenendo sulla loro competenza, spiegando ad esempio quali sono i loro doveri o i loro compiti gentiluomini che dormono ora nei loro letti in Inghilterra malediranno se stessi per non essere stati qui oggi, e non parrà loro neanche di essere uomini quando parleranno con chi avrà combattuto con noi il giorno di S. Crispino… Salsbury: Mio sire, recatevi al vostro posto sollecitamente. Le truppe francesi sono in perfetto ordine e muoveranno tra poco all’assalto contro di noi. Enrico: Tutto è pronto, se lo sono anche i nostri cuori. Westmoreland: Perisca colui che si sente ora vacillare il cuore. Enrico: Ora non desideri altri aiuti dall’Inghilterra, cugino? Westmoreland: Per Dio! Mio sire, vorrei che voi ed io soli senz’altro aiuto potessimo combattere questa regale battaglia! Enrico: Ora hai sottratto al tuo augurio cinquemila uomini. E questo mi piace più dell’augurio dell’aggiunta di uno solo. Sapete quali sono i vostri posti: Dio vi assista tutti!». «– Westmoreland: O that we now had here But one ten thousand of those men in England, That doe no worke to day! – King: What’s he that wishes so? My Cousin Westmoreland. No, my faire Cousin: If we are markt to dye, we are enow To doe our Countrey losse: and if to liue, The fewer men, the greater share of honour. Gods will, I pray thee wish not one man more. By Ioue, I am not couetous for Gold, Nor care I who doth feed vpon my cost: It yernes me not, if men my Garments weare; Such outward things dwell not in my desires. But if it be a sinne to couet Honor, I am the most offending Soule aliue. No ‘faith, my Couze, wish not a man from England: Gods peace, I would not loose so great an Honor, As one man more me thinkes would share from me, For the best hope I haue. O, doe not wish one more: Rather proclaime it (Westmoreland) through my Hoast, That he which hath no stomack to this fight, Let him depart, his Pasport shall be made, And Crownes for Conuoy put into his Purse: We would not dye in that mans companie, That feares his fellowship, to dye with vs. This day is call’d the Feast of Crispian: He that out-liues this day, and comes safe home, Will stand a tip-toe when this day is named, And rowse him at the Name of Crispian. He that shall see this day, and liue old age, Will yeerely on the Vigil feast his neighbours, And say, to morrow is Saint Crispian. Then will he strip his sleeue, and shew his skarres: Old men forget; yet all shall be forgot: But hee’le remember, with aduantages, What feats he did that day. Then shall our Names, Familiar in his mouth as household words, Harry the King, Bedford and Exeter, Warwick and Talbot, Salisbury and Gloucester, Be in their flowing Cups freshly remembred. This story shall the good man teach his sonne: And Crispine Crispian shall ne’re goe by, From this day to the ending of the World, But we in it shall be remembred; We few, we happy few, we band of brothers: For he to day that sheds his blood with me, Shall be my brother: be he ne’re so vile, This day shall gentle his Condition. And Gentlemen in England, now a bed, Shall thinke themselues accurst they were not here; And hold their Manhoods cheape, whiles any speakes, That fought with vs vpon Saint Crispines day. … – Salsbury: My Soueraign Lord, bestow your selfe with speed: The French are brauely in their battailes set, And will with all expedience charge on vs. – King: All things are ready, if our minds be so. – West: Perish the man, whose mind is backward now. – King: Thou do’st not wish more helpe from England, Couze? – West: Gods will, my Liege, would you and I alone, Without more helpe, could fight this Royall battaile! – King: Why now thou hast vnwisht fiue thousand men: Which likes me better, then to wish vs one. You know your places: God be with you all».

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ti («Tutto è pronto, se lo sono anche i nostri cuori», «Sapete quali sono i vostri posti»). L’oratore mira invece a ridefinire il volere dei suoi uomini, e per questo si impegna nella costruzione di un’immagine fantastica, di un futuro eterno, in cui la ricorrenza di quel preciso momento (la vigilia…) sarà ricordata e celebrata in ogni casa e con essa tutti coloro che hanno partecipato all’impresa, nell’invidia e nel rimpianto di quanti invece sono stati assenti. Abbiamo di fatto un rovesciamento dell’immagine che uno dei soldati aveva allestito per il Re, quando gli aveva prefigurato la durezza del giudizio nell’aldilà. Immagine in cui i soldati erano presenti solo sotto l’aspetto di braccia gambe e teste ricombinate. Anche l’immagine proiettata da Enrico consiste in una sequenza di giudizio, di sanzione, ma è un giudizio che si attua nell’aldiquà da parte di uomini vivi nei confronti di soldati che sono presenti non come brandelli storpiati di corpi ma come uomini onorati, ormai superiori a quanti mai potranno giudicarli, e non più strumenti ma fratelli e pari del Re stesso. In tale immagine, il valore che ha l’essere lì, in quel momento, con quel gruppo di uomini, appare assolutamente incomparabile rispetto a qualsiasi altra cura o preoccupazione di sé che gli uomini possono avere: la famiglia, il letto, il cibo, gli affari svaniscono nel nulla, nuovamente fantasmi nella nebbia della battaglia imminente. Lo scoramento, disperato o melanconico, si muta, d’incanto, in un’onda di entusiasmo («vorrei che voi ed io soli senz’altro aiuto potessimo combattere questa regale battaglia»), che fa sì che gli uomini, ormai un sol uomo, vogliano essere lì, uno a fianco all’altro, e in opposizione a tutti coloro che lì non sono e che lì non potranno mai più essere, per tutti i tempi a venire. L’operazione di Enrico è una fine operazione semiotica e retorica: Enrico costruisce un’immagine, una rappresentazione, efficace e decisiva nel far sorgere un sentimento, l’entusiasmo, capace di trasformare radicalmente l’atteggiamento dei soldati. Il problema di Enrico è quello di ricomporre una duplice frattura, quella che corre tra i suoi uomini rendendoli estranei l’uno all’altro, se non nemici, tanto che uno dei soldati arriva a sfidare a duello lo stesso Re, non riconosciuto in quanto tale, e quella che corre dentro ognuno di essi, fra il loro essere persone con una molteplicità di interessi, con una vita complessa, e il loro essere impegnati in un certo ruolo, quello di soldati, con un preciso programma di azione: egli deve cioè riallineare, riadeguare le persone, con la loro reale complessità vitale, a un ruolo che per essi è stato predisposto, dal quale ci si attendono determinati impegni, comportamenti, atteggiamenti e il cui rispetto è condizione perché essi non siano individui singoli ma un ‘corpo’ unico.

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Per fare ciò Enrico si guarda bene dall’ammonire i propri uomini, richiamandoli razionalmente al proprio ruolo (siete soldati e pertanto questo è ciò che dovete fare), o, come già detto, spiegando a essi cosa dovrebbero fare sul campo di battaglia: ciò non avrebbe nessuna efficacia perché poggerebbe sul valore dei rispettivi ruoli, e cioè proprio su ciò che per essi di valore non ne ha più, e cioè l’essere soldati, lì, in quel momento, senza futuro alcuno. Enrico compie invece una sinuosa divagazione esterna, costruendo un’immagine centrata proprio su quel futuro che appare precluso. In quel futuro, gli uomini presenti non sono più soldati (ciò che si vuole che siano ora) ma sono persone con i propri interessi, lontani da lì, con le loro famiglie, ma allo stesso tempo parte di un gruppo, di una élite di uomini fortunati che può con orgoglio levare il calice dicendo: «Io c’ero». Il discorso, dunque, non è centrato sul momento della battaglia o sulla sua imminenza, ma sulle sue ricorrenze future e sulle celebrazioni dell’evento. In questo modo l’oratore riesce a risaldare le diverse sfere d’interesse dei personaggi, e fra queste ad attribuire il valore fondamentale a quella che investe il loro ruolo attuale di soldati: è grazie a essa, e solo grazie a essa, al loro essere lì in quel momento, come soldati, che quell’immagine potrà essere reale e non pura fantasia. Di questa sequenza vorremmo fissare alcuni aspetti che ci sembrano particolarmente istruttivi: – la battaglia, nel discorso di Enrico, non è mai data al futuro ma sempre al passato: l’ascoltatore deve collocarsi in un tempo futuro, dove non c’è più spazio per il timore e la paura ma solo per la celebrazione. In tal modo ciascuno è invitato a vedersi non come qualcuno che può perire ma come qualcuno che può celebrare, in opposizione non a chi è morto ma a chi non può celebrare perché non c’era. L’esserci è occasione unica, irrinunciabile, per poter celebrare, dunque non valore negativo ma totalmente positivo; – il poter celebrare, ovvero la ricompensa promessa, non riguarderà il soldato ma l’uomo nella sua complessità vitale: un uomo che ha combattuto in quel glorioso giorno, i cui effetti trovano riverbero nella vita sociale e familiare. In tal modo si crea una saldatura fra l’essere soldato in quella occasione e il resto della vita dei singoli; – Enrico non si sofferma mai sullo svolgimento effettivo della battaglia: non ammonisce per richiamare al dovere o alle competenze individuali, che così non vengono mai messi in discussione. Quello che propone non è un monito ma un esempio, in cui si mette in scena una figura eroica da emulare e con cui identificarsi: l’anonimo soldato che, orgoglioso e invidiato, potrà celebrare quella ricorrenza felice;

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– mettendo in scena un reduce anonimo, senza identità e senza rango, annulla le differenze interne fra gli uomini e fa del gruppo raccolto intorno a lui un Soggetto unico: non importa quale sarà la compagnia o il luogo della celebrazione, ognuno di essi si riconoscerà soltanto per essere stato lì. Il testo shakespeariano non fa alcun accenno ai movimenti del Re, alla sua posizione, alla sua gestualità, né si attarda nel descrivere le reazioni dell’uditorio, che sono lasciate alla nostra immaginazione, a partire da pochi indizi, quali la focosa risposta di Westmoreland, la richiesta di guidare l’avanguardia da parte di York, l’andamento trionfale del combattimento e la vittoria finale. Il film cerca invece di colmare tutte queste lacune, e benché la parola «entusiasmo» non venga mai pronunciata, non possiamo non leggerla sui volti via via più illuminati dell’uditorio, nei suoi movimenti di accostamento al Re, nel suo urlo finale collettivo, che sancisce la piena riuscita della performance persuasiva di Enrico. A questo punto della narrazione «i cuori sono pronti», come dice Enrico, e la battaglia può essere combattuta e vinta, dunque, non è Enrico che fa vincere la battaglia, è l’entusiasmo da lui suscitato e senza il quale (nello scoramento) la battaglia sarebbe stata persa. Dunque, l’entusiasmo, una passione, non sembra descrivere semplicemente uno stato d’animo, ma sembra anzi assumere una ben precisa funzione modale nel quadro della grammatica narrativa con cui possiamo descrivere la scena: l’entusiasmo ‘fa fare’, in opposizione allo scoramento che avrebbe ‘fatto non fare’. La passione, progettualmente e intenzionalmente ‘controllata’ sembra così assumere una posizione nodale nella tattica persuasiva di Enrico. Ruolo che veniva già riconosciuto alla passione, quale potenzialità, in un pionieristico saggio di Paolo Fabbri e Marina Sbisà: Non sempre la presenza dei fattori passionali in un testo e/o in un’interazione si manifesta come una perturbazione più o meno «irrazionale»; anzi, la passione si rivela presupposto, ingrediente, effetto ineliminabile di «razionali» comportamenti strategici 9.

Proprio in questa capacità fattitiva ci sembra che vada individuata la peculiarità delle «passioni», non solo dell’entusiasmo o dello scoramento ma di ogni «passione», rispetto alle «emozioni», che ci si presentano sì come capaci di modulare gli enunciati di stato ma non 9 Paolo Fabbri – Marina Sbisà, Appunti per una semiotica delle passioni, in «autaut», n. 208, 1985. Ora in Paolo Fabbri – Gianfranco Marrone, Semiotica in nuce, Vol. II, cit., p. 239.

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come capaci di indurre i soggetti a compiere o a non compiere determinate azioni (enunciati finalizzati alla trasformazione o alla conservazione di un dato stato di giunzione). Mentre le emozioni ci sembra che restino correttamente descrivibili in termini di «tumulto modale» a livello semio-narrativo, e cioè di modalizzazioni contrastive degli stati narrativi, e di peculiari modulazioni aspettuali a livello discorsivo; le passioni ci sembra che vadano descritte, inoltre, nei termini, narrativi, dell’emergere di un Attante non figurativo, della sfera del Destinante (Destinante, Antidestinante, Aiutante, Opponente), dunque pertinente alla definizione del valore e della gerarchia dei valori 10, con funzioni di tipo manipolatorio. La paura, l’odio, l’amore, l’avarizia, la gelosia, ecc. hanno in comune la capacità di imporre al Soggetto, per un tempo più o meno durevole, una prospettiva particolare sul sistema dei valori, che determina la riorganizzazione dei suoi programmi di azione. Come ben ci mostra Shakespeare, l’emergere di tale sistema di valori è strettamente dipendente da una interpretazione degli eventi e dal definirsi di una determinata rappresentazione di stato (attuale o fantasmatica, retrospettiva o prospettiva), ed è pertanto soggettivo, anche se tale soggettività può essere ‘collettiva’ e comune a più personaggi che, come nel nostro caso, accettino una comune rappresentazione di stato e una comune valorizzazione della stessa. Proprio questa prospettiva particolare sul sistema dei valori, che la passione sarebbe in grado di indurre, peraltro a tempo limitato (per la sola durata dell’impeto passionale) potrebbe costituire la base delle valutazioni negative delle passioni in quanto socialmente (collettivamente) destabilizzanti, sia che si tratti di passioni puramente singolari, che portano un Soggetto ad agire fuori dall’ambito valoriale socialmente condiviso, sia, ancora più, che si tratti di passioni collettive, ancora più destabilizzanti perché porterebbero non un solo individuo ma un gruppo di attori a costituirsi come Attante Soggetto che agisce sulla base di valori non socialmente condivisi e non permanenti 11. 10 A nostro avviso è strettamente in questi termini che andrebbe definito questo ruolo attanziale: il Destinante non si caratterizza per essere trascendente o per essere parte di una comunicazione a tre attanti, ma per la sua posizione particolare rispetto a un valore o a un sistema di valori: il Destinante è nient’altro che la rappresentazione di una gerarchia di valori, variamente figurativizzabile, e che nella sua forma soggettiva (propriamente attanziale) opera per far sì che i vari Soggetti agiscano in conformità a questi valori stessi, diffondendoli, o per giudicare la conformità a essi dei programmi narrativi. 11 A questo proposito, si vedano i tanti lavori sui «furori collettivi» o «di massa», da Elias Canetti a, soprattutto, René Girard, nelle cui opere questo tema ricorre costantemente (ci limitiamo a citare i due testi ‘fondativi’ La Violence et le Sacré, Paris, Grasset 1972 (tr. it. La violenza e il sacro, Milano, Adelphi 1980) e Des choses cachees depuis la fondation du monde, Paris, Grasset & Fasquelle 1978 (tr. it. Delle cose nasco-

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L’insistenza su questa caratterizzazione attanziale, semio-narrativa, della passione intende sottolineare una certa insoddisfazione nei confronti di quella forma di schematizzazione denominata «Schema Passionale Canonico», proposta inizialmente in Semiotica delle Passioni da Greimas e Fontanille e poi variamente ripresa dallo stesso Fontanille 12. Schematizzazione, che pur essendo nata come proposta ‘esplorativa’ all’interno di un campo che aveva occupato fino a quel momento una posizione decisamente marginale negli studi semiotici, circoscritti a qualche analisi strettamente limitata a un approccio lessicalista, se si escludono le proposte, rimaste a lungo in gran parte isolate, avanzate da Paolo Fabbri 13, ha finito, come spesso accade con le schematizzazioni, per affermarsi come strumento pressoché esclusivo per la descrizione del campo passionale, condizionandone, e limitandone, gli sviluppi in modo importante. Lo Schema Passionale, a nostro avviso, soffre inoltre di alcuni vizi di impostazione. Primo fra tutti, esso è stato esplicitamente improntato a un altro importante modello schematico, quello denominato «Schema Narrativo Canonico», elaborato da Greimas a partire dalla Morfologia della fiaba di Propp e dal lavoro svolto su di esso da Claude Lévi-Strauss 14. La costruzione di questo parallelismo suggerisce da sola che la passione costituisca una ‘materia’ ben distinta dalla narrazione, ridotta così di fatto a una sequenza di azioni; e, di fatto, Fontanille afferma esplicitamente che così come lo Schema Narrativo rende conto delle azioni del Soggetto, lo Schema Passionale è chiamato a rendere conto delle dinamiche passionali dello stesso. Nella nostra interpretazione però, lo Schema Narrativo non si limita a rappresentare le sequenze di azioni ma fornisce il fondamentale quadro di interazione fra gli Attanti, determinandone le posizioni reciproche. In questa prospettiva, come abbiamo suggerito sopra, anche le passioni dovrebbero troste sin dalla fondazione del mondo, Milano, Adelphi 1983). Sulla medesima problematica si veda anche Tarcisio Lancioni, Simulacri dell’invisibile, in «Carte semiotiche», ns 4, 2001. 12 Algirdas J. Greimas e Jacques Fontanille, Sémiotique des Passions (cit.); Jacques Fontanille, «Le schéma des passions», Protée, XXI, 1 (tr. it. «Lo schema passionale canonico» in Paolo Fabbri e Gianfranco Marrone, Semiotica in nuce. Vol. II (cit.). 13 Paolo Fabbri – Marina Sbisà, op. cit. Per una panoramica articolata su quest’area della ricerca semiotica si possono vedere: Isabella Pezzini (a cura di), Semiotica delle passioni, Bologna, Esculapio 1998; Paolo Fabbri e Isabella Pezzini (a cura di), Affettività e sistemi semiotici. Le passioni nel discorso, in «VS. Quaderni di studi semiotici», 47-48, 1987. 14 Ci teniamo a sottolineare questo aspetto, perché in realtà ci sembra che il lavoro costruttivo di Greimas debba assai più alle problematiche di Lévi-Strauss che a quelle di Propp, le cui ricerche sembrano spesso assumere solo il valore di materiale grezzo da rielaborare.

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vare posto al suo interno, in quanto è a esse peculiare una funzione propriamente attanziale, come rilevavano già Paolo Fabbri e Marina Sbisà nello scritto sopra citato: Passione ed effetto di senso si toccano, e così la passione può trascinare con sé sia la competenza modale del soggetto (il suo potere, dovere, sapere, e insieme e al di là di questi, il suo volere), gli scopi, le strategie, lo stile della sua risposta, sia anche il significato complessivo dell’azione patita 15.

Oltre ad avere un ruolo centrale nelle dinamiche narrative, che rende a nostro avviso poco praticabile l’idea di progettare uno schema canonico dedicato alle passioni in opposizione a uno dedicato alle azioni, così come non crediamo che sia utile immaginare uno schema canonico della cognizione, che per spirito di completezza dovrebbe aggiungersi agli altri due se si immaginano queste diverse sfere come ‘materie distinte’ da formare autonomamente. Oltre ad avere un ruolo narrativo, dicevamo, e qui ci sembra che risieda un’altra delle debolezze dello Schema Passionale, le singole passioni non sembrano avere una ‘vita’ autonoma descrivibile come processo continuo articolato in fasi diverse, dal suo prefigurarsi, al suo specificarsi, al suo somatizzarsi, alla sua valutazione a posteriori, poiché le passioni sembrano assai più spesso imbricarsi l’una nell’altra, raddoppiarsi in percorsi più o meno paralleli, coesistenti o emergenti in alternanza (i rapporti di amore-odio) o, come nel nostro caso, mutare repentinamente l’una nell’altra. Infine, lo Schema Passionale Canonico tende ad associare la passione con la dimensione attoriale del personaggio, facendo delle passioni questioni esclusivamente individuali, e della «soggettività» non tanto una problematica di carattere narrativo quanto una questione di «interiorità», in una prospettiva che anziché completare il quadro semiotico a cui vorrebbe aggiungersi tende invece a situarsi su un piano epistemologico completamente diverso. Prospettiva che, inoltre, e non ci sembra secondario, non permette di considerare adeguatamente le «passioni collettive», come quella che qui ci interessa, che a nostro avviso non sono meno rilevanti di quelle individuali. Ma torniamo, dalle questioni generali, al nostro caso particolare. L’«entusiasmo» viene così definito dal Devoto-Oli: s.m. 1. Incontenibile spinta ad agire e operare dando tutto se stesso: lavorare con e.; partecipazione totale, gioiosa o ammirativa, a ciò che si 15

Paolo Fabbri – Marina Sbisà, op. cit., pp. 238-239.

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vede o si ascolta: trascinare il pubblico all’e.; suscitare l’e. dell’uditorio; generic., infatuazione, esaltazione. 2. Presso gli antichi filosofi, condizione dello spirito, sotto l’urgenza esaltante dell’ispirazione divina. [Dal gr. enthúsiasmós ‘stato di ispirazione’].

Dell’insieme della definizione è ovviamente la prima parte quella che ci interessa, in quanto è ovvio che a essa mira re Enrico, che avrebbe poco aiuto da uomini in perenne estasi ammirativa. Secondo questa definizione, l’«entusiasmo» è quella passione che spinge ad agire dando completamente se stessi, a impegnarsi con tutte le energie in un determinato compito. Ciò che ci sembra interessante è il carattere fortemente esclusivo di questa passione, determinato dalla singolarità del compito e dalla esaustività delle risorse richieste («dare tutto se stesso»). Ora, abbiamo visto che proprio in questa sfera erano emersi i problemi a cui Enrico cerca di porre rimedio con la sua orazione: il problema per i suoi uomini è quello di accettare di essere soldati, dunque quello di riconoscersi in un determinato ruolo (tematico); difficoltà che ha come corollario l’emergere dell’attenzione verso le altre sfere vitali, verso gli interessi lontani (la famiglia, l’economia, ecc.), che fa sì che ciascuno di essi non sia più in grado di dare «tutto se stesso» dentro quel ruolo, e che anzi essi non si sentano più in grado di dare neanche le poche risorse restanti. L’operazione di Enrico consiste dunque in un lavoro di valorizzazione di quel ruolo in cui i suoi uomini non si identificano più (è la condizione necessaria alla gloria prefigurata) e di focalizzazione su di esso: non un ruolo fra i tanti che la vita comporta ma un ruolo unico, in cui identificarsi completamente, almeno per la breve durata della prossima battaglia, perché proprio l’aver assunto quel ruolo in quel momento permetterà la realizzazione delle sanzioni positive prefigurate. L’operazione retorica di Enrico sembra così consistere nella costruzione di un corpo collettivo unitario con il quale possano identificarsi tutti i suoi uomini, che vedono in esso sanarsi tutte le fratture, quelle di rango, che fanno di essi uomini diversi, come quelle di interesse che possono far esplodere ciascuno di essi in un ‘collettivo singolare’. Potremmo forse dire, allora, che l’«entusiasmo» si trova a metà tra le due dimensioni, quella della persona e quella del ruolo, e che costituisce proprio quella ‘forza’ che permette di rendere coesi la persona e il ruolo: tanto maggiore è l’entusiasmo quanto maggiormente la persona si dissolve nel ruolo, e accetta di assumere il ruolo come propria identità o almeno come aspetto centrale della propria identità. Al contrario, la perdita di fiducia (o di fede?) nel proprio compito o lo scollamento di questo dalla propria vita, come, che è lo stesso, il sentire

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che non ci si sente a proprio agio dentro quel ruolo, porta a effetti opposti di apatia (dentro il ruolo) e di melanconia generalizzata. DAR FIGURA ALLA PASSIONE Il discorso di Enrico, come abbiamo già visto, lavora sulla contrapposizione di due immagini: quella di un giudizio finale, unico e irripetibile, nell’aldilà, e quella, a essa opposta, di una glorificazione ricorsiva, ancorata a questo mondo e a un futuro di durata illimitata. Nella prima non ci sono reduci dalla battaglia imminente ma solo braccia, teste e gambe tagliate in una dispersione caotica e informe; nella seconda, le individualità sono invece conservate, benché trascese dall’essere parte di quel ‘corpo’ collettivo costituito dall’insieme di quanti avranno preso parte alla battaglia. Inoltre, al tratto semico, statico, di «dispersione» che caratterizza la prima, questa seconda immagine oppone una organizzazione «figurale» 16 assai più solidamente strutturata. Essa presenta infatti, in forma dinamica (durativa), un tratto, opposto al precedente, di «concentrazione», implicito nel riunirsi e nel celebrare dei sopravvissuti insieme ai propri cari, da lì in avanti, le ricorrenze di quel giorno. Il tratto semico di «dispersione» della prima immagine poggia inoltre, in modo implicito, su un tratto spaziale di «orizzontalità»; a questo, la seconda immagine oppone un tratto semico di «elevazione», che poggia su una valorizzazione «ascendente» dell’asse della verticalità. Valorizzazione «ascendente» che tocca almeno tre diverse aree semantiche quali quelle della «elevazione» vera e propria, quella della «dimensionalità» e quella della «posizione sociale»: Si leverà in punta di piedi […]. Si farà più grande […]. Per quanto bassa sia la sua condizione questo giorno la nobiliterà […].

16 Al termine «figurale» non diamo qui la medesima accezione che possiamo ritrovare in Lyotard, e che abbiamo discusso nell’introduzione, ma quella che ha preso campo in ambito semiotico a partire dal lavoro di Claude Zilberberg, in particolare Raison et poétique du sens, Paris, PUF 1988. Con questo termine indichiamo la dimensione più «astratta» del livello figurativo (inteso in senso ampio come livello di articolazione delle qualità sensibili, e non solo visive), al cui livello le figure stesse possono essere articolate sulla base dei tratti strutturanti che rendono conto della loro «geometria» o «architettura». In tal senso, il concetto di figurale rappresenta una estensione oltre l’ambito strettamente visivo del linguaggio plastico, e, allo stesso tempo, un ritorno alle tematiche di studio che Greimas (Sémantique structurale, cit.) riconosceva come pertinenti al «livello semiologico» del senso.

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Riassumendo, le due immagini di giudizio contrapposte da Enrico nella sua orazione si caratterizzano non solo per l’esito del giudizio stesso che manifestano: la prima di condanna la seconda di celebrazione; ma anche per l’architettura figurale su cui poggia il loro ‘aspetto sensibile’, dunque propriamente il loro «essere immagini»: da un lato abbiamo una combinazione semica di «dispersione» + «orizzontalità», dall’altro una combinazione di «concentrazione» + «elevazione (verticalità)». Il film non fa alcun tentativo di mettere in scena le due immagini di giudizio, non dà dunque a esse una interpretazione visiva, ma si limita a lasciarle emergere dalle parole del soldato prima e del Re poi, fedelmente al testo drammaturgico. Se guardiamo però più in dettaglio la sequenza dell’orazione di Enrico e dunque il passaggio dalla fase di scoramento a quella di entusiasmo vediamo che le immagini filmiche sono strutturate proprio mostrando il passaggio dalla prima struttura figurale alla seconda. Passaggio che ci sembra ben evidente confrontando le due immagini che abbiamo ritagliato dal flusso filmico come emblematiche dei due momenti:

Figura 1. Kenneth Branagh, Henry V. La meditazione di Re Enrico.

Nella prima, notturna e nebbiosa, sorta di veglia nel campo degli ulivi, il Re medita solitario sul proprio destino e sull’immagine del giudizio finale che uno dei soldati gli ha appena presentato, mentre i corpi addormentati dei soldati sussistono ognuno per sé in completa dispersione e in completo abbandono, totalmente inermi. Nella seconda immagine, colta al culmine dell’orazione di Enrico, si è completato un duplice processo: di avvicinamento progressi-

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Figura 2. Kenneth Branagh, Henry V. La fine dell’orazione di Re Enrico.

vo al Re da parte dei soldati, che gli si fanno via via più accosti, e di innalzamento, con il Re che via via sale più in alto, portando con sé in questo movimento ascendente quello che è ormai il ‘corpo’ unitario del suo esercito. La trasformazione che passa fra le due immagini coinvolge più dimensioni semiotiche ben isolabili: quella «figurativo-visiva» e quella prossemica innanzitutto, che mostrano il passaggio dallo stato di «dispersione orizzontale» a quello di «concentrazione» e di «elevazione» e che sono dunque strutturate sulla medesima articolazione figurale, poi quella somatica, che manifesta nei volti stessi degli uomini la trasformazione passionale, da uno stato di diffidenza, chiusura e isolamento, che conferma la distanza che corre fra essi a uno stato di ispirazione comune a tutti che ribadisce, anche su questo piano, le marche di «concentrazione» e di «elevazione». Infine la musica. La sequenza da cui è tratta la prima immagine è accompagnata da una configurazione ritmico-melodica reiterata, che scandisce il tempo, misurandolo, costruita su un intervallo di quinta che caratterizza il tema del film, e che proprio attraverso la ripetizione di un unico modulo ritmico-melodico crea un effetto di «sospensione», di assenza di movimento, e di «dispersione». Su questa base di immobilità, si ha un effetto di lenta drammatizzazione e di aumento di tensione, che accompagna la focalizzazione sulla figura del Re e le parole del suo monologo, per mezzo di un addensamento della tessitura contrappuntistica. La sequenza da cui è tratta la seconda immagine è invece sottolineata da una progressione armonica «ascenden-

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te», accompagnata da un marcato contrasto fra timbri orchestrali e caratterizzata da un crescendo dinamico, ottenuto anche attraverso l’ingresso ritmicamente ordinato di un gruppo ternario eseguito dai violini. In tal modo la «sospensione» e la «dispersione» sonora vengono a concentrarsi in una forma armonica dinamica e ascendente 17. Una medesima architettura figurale, basata sull’opposizione di due categorie semiche («dispersione» vs «concentrazione» e «orizzontalità» vs «verticalità (ascendente)» si presta dunque a essere manifestata su dimensioni semiotiche diverse e funge da schema unico di coordinamento fra di esse, ma, cosa che ci sembra ancora più interessante, il medesimo schema figurale centrato sulla valorizzazione dei tratti semici di «concentrazione» e di «elevazione» può essere tratto anche dalla definizione di «entusiasmo» sopra discussa che, lo ricordiamo, insiste sul dare ‘tutto se stesso’, sul ‘trasporto’, sulla dimensione verticale ascendente dell’ispirazione che non si limita a ‘calare’ dall’alto ma ha la funzione essenziale di ‘trascinare’ in alto. Se assumiamo la tradizionale tipologizzazione greimasiana delle categorie semiche, derivata dalla Gestalttheorie, che distingue semi «esterocettivi», relativi ai dati sensoriali e dunque alla figuratività, semi «interocettivi», relativi ai sistemi di classificazione, e dunque astratti, da cui dipende l’organizzazione delle isotopie, e semi «propriocettivi», relativi alla dimensione passionale; potremmo ipotizzare che il «figurale» costituisca un piano di astrazione immanente sia al dominio della figuratività nella sua interezza, indipendentemente dalle sostanze (l’esterocettivo), sia a quello patemico (il propriocettivo), permettendo così di articolare in modo omogeneo l’intero campo del «sensibile» e permettendo la costituzione di isotopie non solo di carattere tematico, ma anche di tipo figurativo, patemico o patemico-figurativo. Si tratterebbe cioè di forme di isotopizzazione relative non a ciò che Greimas chiamava «il semantico», garantite dalla reiterazione di semi interocettivi, ma, strettamente, al dominio del «sensibile» e dunque a ciò che Greimas chiamava «il semiologico» e che sarebbero determinate dalla reiterazione di semi e categorie di un tipo specifico, figurale, appunto. Le categorie «figurali» costituirebbero così una sorta di ‘semantico’ interno al semiologico, di astrazione interna al figurativo. In questa prospettiva non si tratterebbe allora di una «figuratività-astratta» generica, derivante da procedure di spoliazione o di riduzione della densità semi-

17 Per la descrizione della trasformazione musicale mi sono avvalso dell’aiuto, prezioso, di Stefano Jacoviello.

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ca, come quelle studiate da Jean-Marie Floch 18, e che hanno comunque a che fare con la maggiore o minore «riconoscibilità» delle immagini, intesa come possibilità di trovare posto all’interno di una data griglia culturale; ma di una tipologia semica specifica costruita sulla base di tratti «figurativi» molto generali riconducibili non tanto alla questione della «riconoscibilità» delle singole immagini quanto piuttosto alla «forma» della griglia culturale sulla base della quale operiamo il riconoscimento e l’articolazione del campo del «sensibile», quali ad esempio quelli relativi alla dimensionalità, alla direzionalità, alla consistenza, alla persistenza, e così via, assimilabili per certi versi a quelli individuati dalla fonologia per descrivere le «configurazioni sonore» verbali. Riprendendo la questione posta in apertura del libro si potrebbe allora provare a suggerire che la «profondità del figurativo» e il suo flirtare con i terreni paludosi del «simbolico» sia da ricondurre anche alla possibilità che il discorso articoli non solo isotopie astratte, tematiche, dal cui riconoscimento dipende la sua stessa leggibilità, ma anche isotopie specifiche, figurative appunto, o genericamente relative alla messa in scena del «sensibile» che pur non condizionando direttamente la leggibilità del testo offrono a esso piani di lettura «ulteriori» e con ciò gran parte della sua ricchezza. Ritornando all’Henry V, ci sembra che le diverse dimensioni semiotiche coinvolte nel processo di trasformazione dalla prima alla seconda scena abbiano anche la funzione di ‘dare un corpo’ alla passione, di darle figura, grazie al loro essere strutturate, tutte, in modo ridondante, su di un medesimo schema figurale. Si tratta ovviamente di una figurazione ‘impropria’, essendo quello di «entusiasmo» un concetto astratto, ma che ciò nonostante ci appare ‘motivata’ proprio perché costruita sulla selezione, in sostanze diverse, di una forma semiotica che presenta una struttura semica di tipo figurale soggiacente anche alla definizione che la nostra cultura dà di quella determinata passione. Passione che ci sembra allora evidentemente presente anche se nessuno, all’interno del testo, la nomina. È in questo senso che possiamo forse parlare di effetti di metaforizzazione intersemiotica, come sopra accennato, in cui a essere in gioco non è la sostituzione di una parola con un’altra ma l’intero gioco del produrre immagini per dare corpo ed evidenza sensibile anche a quegli elementi semantici «astratti» che, ‘propriamente’ non ne hanno. Per concludere, ci sembra interessante che Branagh per dare immagine al passaggio centrale del film, la ‘conversione’ dell’umore 18

Jean Marie Floch, Pétites Mythologies, cit.

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dell’esercito inglese indispensabile alla vittoria finale, sfrutti plasticamente le caratteristiche figurali che stanno alla base di due immagini contrapposte: quelle di «giudizio» presenti nel testo drammaturgico ma non ‘visualizzate’ direttamente, e le sfrutti omogeneamente per strutturare tutti i registri semiotici che caratterizzano due altre immagini la cui struttura non è in alcun modo derivabile dalla lettura del testo drammaturgico, per dare corpo alle trasformazioni passionali, e renderle così evidenti allo spettatore. Qualcuno chiederà: ma il regista era cosciente di ciò? Rispondiamo con Frye: «probabilmente, un fiocco di neve non si rende affatto conto di costituire un cristallo, ma val la pena di studiare il suo comportamento anche se non ci vogliamo occupare dei suoi processi mentali interiori» 19.

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Northrop Frye, op. cit., p. 118 della tr. it.

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INDICE DEI NOMI

A Acquarelli, Luca 5 Addis, Maria Cristina 5 Anzieu, Didier 30 Auerbach, Erich 5, 6n, 7 B Bachelard, Gaston 11-14 Baudelaire, Charles 58 Bachtin, Michail 48n Balzac, Honoré de 6 Barthélemy, Jean-Jacques (abate) 98n Barthes, Roland 6, 7, 21 Benveniste, Émile 56n Bertetti, Paolo 28n Bertrand, Denis 5, 28, 33, 88n Bianciardi, Lorenzo 5 Blonsky, Marshal 84n Branagh, Kenneth 24, 149 Brodie, Richard 109 C Calabrese, Omar 5, 88n, 89n, 90n Canetti, Elias 159n Cantelli, Giulia 5 Careri, Giovanni 5 Cassirer, Ernst 58-59, 63, 64, 88 Cavicchioli, Sandra 5, 66n Ceriani, Giulia 5 Cervelli, Pierluigi 5 Claudel, Paul 22 Collodi, Carlo (Lorenzini, Carlo) 55 Coquet, Jean-Claude 33n Corrain, Lucia 46n, 55n, 90n Costantini, Michel 88n

Courtés, Joseph 27n, 28 Coviello, Massimiliano 5 D Darwin, Charles 20, 24, 83, 94-104 Dawkins, Richard 109 Defoe, Daniel 106, 110 Delbouille, Paul 60 Deleuze, Gilles 133, 145 Delumeau, Jean 108n Detienne, Marcel 128n Dinoi, Marco 5, 108n Douglas, Mary 118n Durand, Gilbert 11 Duranti, Alessandro 19n Dusi, Nicola 47n E Eco, Umberto 4n, 21, 31, 32, 83-94, 104 F Fabbri, Paolo 5, 14n, 88, 137n, 151n, 158, 161 Faulkner, William 24, 133, 134, 136, 141, 148 Floch, Jean Marie 5, 28, 58, 61, 64, 65, 88n, 90n, 167 Fontanille, Jacques 29-30, 134, 160 Ford, Harrison 108 Foucault, Michel 21 Frontisi-Ducrot, Françoise 88 Frye, Northrop 8-13, 168 G Galeen, Heinrich 111 Geertz, Clifford 47

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Genette, Gerard 60-61, 63 Geninasca, Jacques 28, 89n Ghiazza, Silvana 151n Girard, René 109n, 112, 159n Gombrich, Ernst H. 22n Goodwin, Charles 19n Greimas, Algirdas Julien 11, 13, 19, 27, 28, 33n, 45, 55, 65, 74, 91, 134, 160, 163n Groupe µ, 151n Guattari, Felix 133 H Hamon, Philippe 149 Hartog, François 98n Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 20 Heidegger, Martin 135 Hénault, Anne 28n Herzog, Werner 112n, 118n, 127n Hildebrand, Adolf 58 Hjelmslev, Louis T. 18, 20, 33n, 46, 55, 56, 63, 65, 66, 91-93 Hoffman, Dustin 108 Hölderlin, Friedrich 135 J Jacoviello, Stefano 5, 88n, 90n, 166n Jakobson, Roman 18, 57, 88 K Keane, Teresa 28 L Lancioni, Tarcisio 4n, 46n, 47n, 88n, 160n Latour, Bruno 19n, 110, 119n, 137 Lee, Rensselaer W. 3n Lévi-Strauss, Claude 13-18, 33n, 61-64, 92, 160 Lo Feudo, Giorgio 47n Lotman, Jurij M. 4n, 48n, 151n Löwit, Karl 8n Lynch, Aaron 109 Lyotard, Jean-François 20-23, 163n M Manzoni, Alessandro 110

Marrone, Gianfranco 5, 14n, 47n, 137n, 151n, 158n, 160n Marsciani, Francesco 5, 47n, 56n, 64, 65-66, 68, 89 Martinet, André 56n Mengoni, Angela 5, 88n, 90n Mitchell, W.J.Thomas 3n, 22n Mottola, Barbara 5 Murnau, Friedrich 24, 111-112, 127n N Napoli, Marisa 151n O Omero, 110 Ormond, Julia 108 P Peirce, Charles S. 84 Petazzi, Paolo 20n Pezzini, Isabella 160n Platone 135 Poe, Edgar Allan 110 Polacci, Francesca 5, 88n, 90n Pozzato, Maria Pia 68n Preston, Richard 108 Propp, Vladimir J. 14, 160 Proust, Marcel 58 R Ricœur, Paul 46, 47, 135 Rocca, Vitaliana 5 Russell, Bertrand 32 S Saussure, Ferdinand de 66 Sbisà, Marina 158, 161 Sereni, Diletta 5 Shakespeare, William 24, 149 Shapiro, Meyer 88 Sofocle 110 Sperber, Dan 109 Stoker, Bram 24, 111-112, 115 T Taussig, Michael 101n Thürlemann, Felix 58, 64, 65, 88n, 90n

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INDICE DEI NOMI

Todorov, Tzvetan 4n, 60 Tucidide 106 V Valenti, Mario 55n, 90n Verga, Giovanni 110 Vernant, Jean-Pierre 135 W Warburg, Aby 108

Westermann, Diedrich 58, 88 Whitehead, Alfred N. 32 Wilde, Oscar 23, 27, 33 Woolgar, Steve 19n Z Zilberberg, Claude 28, 163n Zinna, Alessandro 56n, 58, 68n Zucconi, Francesco 5

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