Lo spazio letterario di Roma antica. La produzione del testo [Vol. 1] 8884020239, 9788884020239

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Italian Pages 520 [566] Year 1989

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Lo spazio letterario di Roma antica. La produzione del testo [Vol. 1]
 8884020239, 9788884020239

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LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA Direttori: Guglielmo Cavallo, Paolo Fedeli, Andrea Giardina

Volume I LA PRODUZIONE DEL TESTO

SALERNO EDITRICE

LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA Nello Spazio letterario di Roma antica al centro dell'interesse è il testo, nei suoi momenti e percorsi: dalla produ­ zione alla circolazione, dalla ricezione all'attualizzazione. Del testo si seguo­ no le vicende lungo la parabola del mondo romano, quindi, oltre il Me­ dioevo e il Rinascimento, fino alle ri­ prese piu o meno consapevoli o occa­ sionati nell'età contemporanea e nella civiltà dei mass-media. Per testo, inol­ tre, non s'intende soltanto ciò che a noi moderni è giunto in seguito al processo di selezione verificatosi nel­ l'antichità (e quando sia sopravvissuto alle insidie della lunga tradizione me­ dievale) ma anche quella vasta lettera­ tura sommersa, giudicata « minore >> e solitamente trascurata perché affidata a forme di tradizione orale o non lega­ ta a forme letterarie nobili. Dei testi considerati però non tanto nell'ottica limitata dei singoli autori, quanto piut­ tosto nella totalità dei generi - vengo­ no ricostruiti gli itinerari culturali, i modelli che agiscono e interagiscono, i caratteri originali e le successive strati­ ficazioni. In questa compiuta rivisita­ zione, ricevono piena luce anche i meccanismi complessi della tecnica al­ lusiva e i fenomeni d'intersezione dei generi stessi e dei modelli. I fattori unificanti della cultura romana si ac­ compagnano, lungo l'arco di una sto­ ria millenaria, a elementi di diversifi­ cazione, e lo spazio letterario di Roma antica può essere anche inteso come un insieme di spazi che interagiscono. Lo Spazio letterario di Roma antica è dunque una proposta originale di ri­ pensamento della cultura romana: in essa, il progetto, la scelta degli autori, l'elaborazione della materia, il coordi­ namento editoriale, sono il frutto di un grande impegno al fine di offrire un'opera di cui sia possibile una frui­ zione al tempo stesso continua e p] uri­ dimensionale. Scritta da studiosi tra i migliori di .cui oggi ]'Italia possa di­ sporre, quest'opera si propone anche come laboratorio di metodologie, di sperimentazioni, di prospettive.

Volume I LA PRODUZIONE DEL TESTO Il passaggio dall'oralità alla scrittura costituisce uno dei momenti meno noti della cultura romana: qui recupe­ rato in tutta la complessità delle sue ascendenze mitologiche, magico-sa­ crati, folkloriche. Ma il primo volume de Lo spazio letterario di Roma antica, nell'andare oltre questo preludio, per­ corre i modelli culturali del fatto lette­ rario nell'articolazione dei suoi generi e nell'« originalità >> dei suoi caratteri. Canto epico, poesia d'amore, pensiero storico, fìlosofìa, letteratura didascali­ ca, versi satirici, narrativa, partecipano di una vicenda che restituisce la trama di generi specifici e di intersezioni che caratterizza la letteratura di Roma. Recuperando la totalità dei saperi, ampio spazio è stato riservato all'anali­ si dei testi strumentali: dalla produzio­ ne giuridica a quella agronomica, dalla tecnica alla scienza. Si tratta di forme spesso ingiustamente relegate ai mar­ gini delle storie letterarie, quasi che esse non abbiano contribuito, a pari dignità con quelle definite in senso stretto « letterarie )), alla formazione della cultura romana. Già in questo primo volume le vi­ cende del testo - in particolare il suo « farsi >> - appaiono non soltanto nella loro dimensione puramente letteraria, ma nella loro dialettica profonda con le dinamiche della società romana.

In copertina: Marte e Venere. Da Pompei, Casa di Marco Lucrezio Frontone, prima del 79 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA

Volume I LA PRODUZIONE DEL TESTO

LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA

Volume I LA PRODUZIONE DEL TESTO Volume II LA CIRCOLAZIONE DEL TESTO Volume III LA RICEZIONE DEL TESTO Volume IV L'ATTUALIZZAZIONE DEL TESTO Volume V CRONOLOGIA E BIBLIOGRAFIA DELLA LETTERATURA LATINA

Con il patrocinio della

LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA Direttori: GUGLIELMO CAVALLO, PAOLO FEDELI, ANDREA GIARDINA

Volume I LA PRODUZIONE DEL TESTO

SALERNO EDIT RICE RO M A

In redazione: MARILENA MANIACI

ANNAMARIA MALATO

1•

edizione: maggio 1989 edizione: aprile 1993

2•

ISBN 88-8402-023-9 Tutti i diritti riservati - All rights reserved Copyright © 1989 by Salerno Editrice S.r.l., Roma. Sono rigorosamente vietati la ri­ produzione, la traduzione, l'adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la me­ morizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Salerno Editrice S.r.l. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge.

PRESENTAZIONE

L storia della letteratura latina è stata ed è una storia di modelli, e di mo­ delli greci. La sua originalità, tante volta difesa, è stata pur sempre posta co­ me originalità rispetto a quei modelli, tralasciando peraltro il piu complesso gioco di acculturazioni sotteso alfatto letterario. Ma ci si può porre in un'altra otticaJorse piu attraente, certo meno inquisita: quella di uno> o la«Scuola>> come soggetti, o infine il regista del cinema o della televisione, e lo scrittore di fumetti. L'uomo della strada può godersi il Satyricon di Federico Fellini senza sa­ pere di quell'età neroniana della quale il romanzo d'origine di Petronio resti­ tuisce uno spazio letterario ora ridotto inframmenti, non piu riferente di va­ lori, ma piano inclinato di ricerca, memoria, curiosità, divertimento. GuGLIELMO CAvALLO PAOLO FEDELI ANDREA GIARDINA

II

AVVERTENZA: Le abbreviazioni adottate nel citare le riviste sono quelle

dell'Année Philologique.

I TESTO SCRITTO E TESTO NON SCRITTO

MAURIZIO BETTINI

LE RISCRITTURE DEL MITO

Chi ama la letteratura classica, ha certo presente quel sentimento come di familiarità che prende il lettore di fronte al ventaglio di in­

trecci che ne costituiscono la base narrativa: si legge, e si corre lungo il filo di storie che molto spesso appaiono già note. In effetti, il mondo delle letterature classiche è un mondo in cui difficilmente si inventa un soggetto nuovo - il gusto della sorpresa, della tensio­ ne creata dalla storia « singolare>> o dalla « singolare>> piega presa dagli avvenimenti, è uno strumento narrativo che difficilmente viene applicato dagli autori antichi.Nella sua Philosophy of Composi­

tion, 1 Edgard Allan Poe commentava una osservazione che Charles Dickens aveva rivolto ad uno scritto dello stesso Poe: «A proposi­ to>> diceva Dickens «si è accorto, Poe, che Godwin scrisse il suo

Caleh Williams procedendo al rovescio? Dapprima egli avviluppò il suo eroe in una ragnatela di difficoltà, che formavano il secondo volume: poi, per mettere insieme il primo, costruf ciò che potesse render ragione di quel che era già stato fatto ...>> . Poe trovava che c'era molto di buono in questo modo di procedere. Per lui, infatti, la maniera migliore per scrivere una storia era proprio quella di

(plot), elabo­ dénouement: dopo di che, si poteva

aver ben chiaro in mente, sin dall'inizio, un intreccio rato nei particolari sino al suo partire. I. L'AUTORE CLASSICO

«RISCRIVE >>

Sin qui, credo, siamo perfettamente in linea con la pratica della narrazione classica: dove, per forza di cose, l'intreccio è chiaro sin

dall'inizio (si sa bene quale sarà il

dénouement della

storia diEdi­

po ... ). Si potrebbe anzi aggiungere che queste osservazioni, pro­ venienti dall'esperienza di uno scrittore come Poe, aiutano a capire 1. E.A. Poe, Poems and Essays, by J.H. Ingram, Leipzig, Tauchnitz, 1884, pp. 270 sgg.

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MAURIZIO BETTINI

quali potevano essere i vantaggi concreti che provenivano all'au­ tore antico dalla scelta di un soggetto noto: come minimo, esso si presentava «chiaro» all'elaborazione letteraria, sicuro e senza cattive sorprese. Solo che a Poe stava a cuore anche dell'altro, qual­ cosa che si discosta, invece, dal modo classico del narrare. Secon­ do lui, infatti, nella composizione contava soprattutto l'originali­ tà: quella «originalità» che occorreva «tenere sempre davanti agli occhi-perché mente a se stesso colui che si azzarda a fare a meno di una fonte di interesse cosi ovvia, e cosi facilmente raggiungi­ bile .. >>. Ecco dunque, a giudizio di Poe, il «valore>> supremo da .

ricercare nel difficile momento della scelta. Tutto al contrario, messo di fronte alla necessità di narrare una«storia» l'autore anti­ co avrebbe si badato, come sappiamo, ad averla ben chiara in men­ te, ma poco si sarebbe curato di questa«fonte di interesse» che a Poe pareva cosi primaria: non ad un soggetto originale, ma ad un soggetto già noto e trattato da altri sarebbe immediatamente corsa la sua fantasia. In altre parole, per ciò che riguardava l'intreccio, l'autore antico generalmente si preoccupava piu di ri-scrivere che non di scrivere. E questa è una delle differenze piu decisive che intercorrono fra la letteratura classica e la nostra letteratura mo­ derna. Il fatto è che la letteratura classica è una letteratura che vive di mito. Diciamo meglio: è una letteratura che, quando si propone di narrare storie, non è capace di concepire questa operazione se non nella forma di chi racconta un mito già noto. Ci vorrebbe un certo coraggio, credo, per affermare che Ovidio era un tipo senza fanta­ sia ... Eppure, quando si decise a scrivere qualcosa che contenesse storie fantastiche, lunghe, dilettevoli, non trovò di meglio che ricu­ cire in un meccanismo senza fine una quantità di miti piu o meno noti, ma certo già presenti altrove. E scrisse le Metamorfosi. L'inte­ laiatura generale dell'opera-con le sue astuzie di incastri, citazio­ ni, passaggi talmente lucidi da risultare impercepibili- è certo un capolavoro di invenzione letteraria: e quanto all'impressione stili­ stica che l'opera produce in chi vi si addentra, si sa bene che la sua cifra finisce immediatamente per coincidere con lo stupore, l'am­ mirazione-forse l'invidia. Ecco dunque un'opera in cui la fantasia 16

LE RISCRITTURE DEL MITO

(infiammata e cristallina, nello stesso tempo) regna senza contrasti. Eppure, le poetica. Di questo procedimento compositivo, come sappiamo, l'Iliade e l'Odissea serbano ancora vasta testimo­ nianza: e per la verità, nel nostro modo di vedere ciò che chiamava­ mo « O mero » molte cose sono cambiate da quando ci siamo resi conto che dovevano essere esistite altre > la storia di Saturno e del­ la sua era felice nella forma rituale di una festa . . . Sottolineiamo, però, un tratto importante di questa attualizzazione del testo miti­ co. N on si tratta di « agire » quei racconti mitici nel senso di metter­ li in scena, come si trattasse di una sacra rappresentazione. Ciò che di essi viene ripreso è piuttosto la struttura-base, quel complesso di significati e di valori culturali che davvero costituisce la pertinenza del racconto: tutto ciò viene espresso in un linguaggio simbolico che non necessariamente ricalca quello del racconto, anzi, se ne discosta. La ri-scrittura, insomma, non è superficiale ma attiva e profonda: il mito funziona da ossatura, da codice della festa. Proseguiamo. Alla stessa regola profonda - l'anti-destino, come l'abbiamo chiamata, il cancellamento della sors individuale - può essere riferita anche un'altra abitudine caratteristica di questa festa: quella di scambiarsi doni, uno con l'altro. E tutti quanti danno e ri­ cevono, ricchi o poveri che siano. Anche qui, sembra di riconosce­ re le fìla di un modello mitico, l'onnipresente proiezione dell'età dell'oro e del dio Saturno. A quel tempo, infatti, non esisteva la proprietà divisa, come poi è avvenuto dopo, tutto era meraviglio­ samente in comune. Per cui, è difficile non pensare che questo in­ cremento della reciprocità, questa distribuzione mutua di beni fra tutti coloro che partecipano alla festa non voglia rimandare ad un modello mitico in cui tutto era di tutti, in cui tutto era ripartito, scambiato fra tutti. Anche il « destino » dei beni vacilla pericolosa-

LE R I S C R I T T U RE D E L M I T O

mente- tanto pericolosamente quanto simbolicamente, come c'e­ ra da aspettarsi in una materia del genere. È come se si sottolineasse questo fatto profondo: ciò che hai lo hai non per possederlo ma per donarlo ad altri, i beni non sono possesso e fissità ma circolazione. La tua sors - nel doppio senso di « beni » e di sorte che te li ha asse­ gnati - va redistribuita, divisa. Ricorda come funzionavano le cose quando l'umanità era felice e serena, in piena età dell'oro. Di nuo­ vo una > la lingua del colpo di dadi: la loro caduta, la loro disposizione segna la sorte di chi l'ha richie­ sta. L'uomo antico è abituato a legare fra loro « dadi >> e « destino >>: a sentire che il destino si esprime per mezzo loro. E infine, è il linguaggio stesso che svela quanto profondo sia il le­ game che unisce ai « dadi >> la nozione di « destino >>. La metafora si è fatta in qualche modo parola, i due significati si sono congiunti in un'espressione mista che designa entrambe le nozioni in una volta sola. Perché il dado, si sa, « cade ». È questo il momento delicato, discriminante, del gioco: l'attimo atteso con ansia dai giocatori, il passo decisivo che segna - con la sublime indifferenza del cubo che rotola, e si arresta - la vincita o la perdita, la fortuna o la disgrazia. Iudice Fortuna ca da t alea, dice Petronio (sat. 174), « il dado c a d a a giudizio della Fortuna >>. E cadere, « cadere >> è il verbo che si usa per designare appunto questo momento di verità, quando il dado « se­ gna » inappellabilmente l'evento. Ebbene, quest'uso linguistico presenta una singolare prossimità con la parola che indica, in lati­ no, il « caso », la « sorte » : casus, appunto, la > presentarsi degli eventi. Come se il « cadere >> dei dadi nel gioco e l'« accadere » che marca la vita degli uomini si fossero lessicalizzati, insieme, in una espressione che può designarli simul­ taneamente entrambi. Le metafore di Terenzio, l'alea lanciata da Cesare al Rubicone, la pratica divinatoria della kybomanteia si salda­ no in una parola che è tanto semplice quanto angosciosamente enigmatica: il Caso. Dunque i dadi, l'alea, la possibilità di « rifare >> ad ogni mano il gioco della sorte, come simbolo dei Satumali. Giocandoli, si « ri­ scrive >> il racconto dell'età aurea, se ne dà una applicazione che è a 34

LE R I S CRITTURE D E L M I T O

un tempo già dentro il testo mitico e fuori di esso, applicazione let­ terale ed esplicitazione di una struttura simbolica profonda. To­ gliersi di dosso la toga, o servire in tavola i propri schiavi, fa tutt'u­ no con il colpo di dadi che segna l'utopico ritorno di un tempo sen­ za destino e senza distinzioni fra gli uomini.

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GIULIA PICCALUGA

I TESTI MAG I CO-SACRALI I.

LA D I M E N S I O N E SACRALE

D E LL E ORIGINI

Tra le molteplici tradizioni relative all'avvento della scrittura in ambiente italico - sulla scia della immigrazione pelasgica nel terri­ torio laziale (Salino, 2 7); oppure ai fini di imprimere il valore cor­ rispettivo sulle monete (Isidoro, orig. xvi 18 4) - particolare spicco sembra avere quella che fornisce uno sfondo decisamente sacrale all'ingresso delle lettere alfabetiche nello specifico spazio mitico destinato presto ad accogliere la città di Roma. Ad introdurre i caratteri grafici nel Lazio dei primordi sarebbe­ ro stati, infatti, stando a questa versione, degli esseri sovrumani: ad­ dirittura un dio, come Satumus (Isidoro, ibid.), o Hercules (Plu­ tarco, q. R. 59), oppure Evander,1 nato da divinità,2 e titolare an­ ch'esso di un culto pubblico celebrato annualmente sull'Aventino (Dionisio di Alicamasso, I 32). Il periodo in cui ha luogo questa sua introduzione è quello auro­ rale delle origini: Roma è di là da venire, ma ciò che dovrà costitui­ re la realtà romana è già in formazione in ogni sua componente, in specie sacrale. Se infatti girano ancora tra gli uomini quei perso­ naggi che la dimensione storica vedrà esclusivamente quale ogget­ to di venerazione, la sfera religiosa sta assumendo sin d'ora i suoi tratti definitivi, specialmente ad opera di quell'eroe culturale che risulta essere Evander, al quale la tradizione attribuisce la fonda­ zione di culti di importanza essenziale per la romanità: di Hercules all'ara Maxima, di Faunus nell'ambito del complesso festivo dei Lupercalia, di Carmenta, per ricordame solo alcuni.3 I. Plutarco, q.R. s6; Dionisio di Alicarnasso, I 33; Livio, I 7 8; Tacito, ann. Xl 14; Igi­ no,fr. 277. 2. Livio, 1 7 8; Pausania, VIII 43 2; Ovidio, Jast. 1 471. 3· Dionisio di Alicarnasso, 11 31; Livio, 1 7 e 9; Giustino, 43 I 6; Virgilio, Aen. VIII 344. Altri dati raccolti in Rosch. Lex. I 1394.

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G I U L I A P I C CALUGA

Sarà appunto quest'ultima, omnium litterarum peritissima (origo gent. Rom. 5) madre di Evander e sua compagna di sventure nell'esi­ lio che dall'Arcadia, dopo lungo peregrinare, li fa approdare alla fo­ ce del Tevere,4 a determinare la particolare aura sacrale nella quale l'alfabeto - l'invenzione del quale le verrà addirittura attribuita da una fonte medievale (Comm. Einsidl. in Don. art. m., GL suppl. 221, 19 sgg.) - si instaurerà in ambiente latino, e, soprattutto, a condizio­ nare la funzione principale della scrittura che in questa cultura sa­ rà, prima ancora che profana - vale a dire, idonea a fissare e/o tra­ smettere un messaggio - essenzialmente rituale - predisposta a controllare, bloccando e/o tramandando un testo, realtà altrimenti di difficile se non impossibile coercizione. Fatiloqua (Livio, I 7 8) , cioè indovina ispirata che trasmette, si, in preda alJuror sovrumano che la possiede, ma pur sempre accomo­ data in forma di carmen, l'altrimenti impenetrabile conoscenza di­ vina del passato e del futuro, 5 essa detiene, come abitualmente tutti i vates, quella mentis vis che consente loro di costringere in parole, formule e versi, e, quindi, in una fase culturale piu avanzata che or­ mai conosce e utilizza la scrittura, in segni grafici, l'impalpabile, sfuggente e perciò inquietante e terribile afflato del nume (Isidoro, orig. vm 7 3 sg.). Appunto in preda a questa possessione che le per­ mette tanto di prevedere la grandezza della futura Roma quanto di riconoscere le componenti dell'apparato sacrale di questa città an­ cora da fondare,6 essa sbarca nel Lazio accompagnata, secondo la tradizione, dalle sorelle o compagne di viaggio Porrima e Postver­ ta, capaci di cantare l'una il passato e l'altra il futuro,7 e dal figlio Evander, che dal canto suo reca con sé il mezzo tecnico atto a fissa­ re ciò che è stato - onde sia possibile riattualizzarlo all'occorrenza - e ad anticipare ciò che sarà - attualizzandolo già in anticipo alme­ no graficamente (Isidoro, orig. I 3 1-3 ). 4· Ovidio, fast. 1 475-503 sgg.; Livio, 1 7 8. s. Servio, auct. vm 336: antique vates carmentarias dicebantur, unde etiam librarios qui eo­ rum dieta perscriberent, carmentarias nuncupatos [. . . J vatibus etpraeterita etfutura sun t nota. La presente e le successive citazioni sono tratte dal commento all'Eneide. 6. Livio, 1 7; Ovidio, fast. 1 509-38; 583 sgg. 7· Ovidio, fast. 1 633-36; Servio, auct. vm 336.

I TESTI MAG I C O - SACRALI

Non a caso si sottolineerà come Carmenta preceda di poco l'ar­ rivo della Sibylla (Livio, 1 7 8 ), anch'essa portata ad imbrigliare nel rigido vincolo dei caratteri e nel coartante ordine della versifica­ zione la travolgente e quindi terrificante realtà « altra » costituita dal fato, sia che metta per iscritto i responsi tracciandone il testo sulla superficie delle foglie di palma nel segreto dell'antro cuma­ na, 8 sia che rapprenda il destino del popolo romano nel contenuto dei rotoli di scrittura gelosamente custoditi nei sotterranei del tempio capitolino,9 ritualmente consultati sino al 363 della nostra era (Ammiano Marcellino, XXIII 1 7) , fino alla loro distruzione ad opera di Stilicone all'inizio del V secolo (Rutilio Namaziano II 51). Nell'un caso come nell'altro, infatti, si tratta di scrittura ritmata, della trascrizione grafica di carmina (Virgilio, Aen. m 445) , della ste­ sura di versi addirittura acrostici che imprigionano ilJuror insanus di chi humanos sensus amisit mentre divinos adsecutus est (Cicerone, div. II 54 no sg.).10 Sarà appunto questa scrittura - che consente di leggere l'insieme di eventi che la sorte ha decretato per Roma (Isidoro, orig. VIII 8 5 ), di prendere provvedimenti in merito, e quindi di arginare le crisi che hanno portato alla consultazione dei responsi della Si­ bylla - il mezzo specifico atto a mantenere sotto controllo l'avve­ nire, che, comunque possa presentarsi, risulterà già praedictum en­ tro quel testo, e dunque cosi sottratto alla hominum et temporum defi­ nitione (Cicerone, div. II 54 no). 2. LA SCRITTURAIMIRACULUM Non è certo privo di significato che la tradizione racconti di co­ me la Sibylla, dotata dello straordinario potere di tenere a bada per iscritto il fato, e perciò insignita già dal tempo dei re dell'alto onore di una statua equestre al pari dell'augure prototipico Attus Na­ vius, 11 finisse rinchiusa in cavea ferrea (Ampelio, 8 16) o in ampulla 8. Varrone in Servio, auct. VI 74 e 76; dr. Virgilio, Aen. VI 443-47, nonché 74 sg. 9. Solino, n 17; Plinio il Vecchio, nat. xm 88. IO. « abdica alla sensibilità umana [ . . . J ne acquisisce una sovrumana ». n. Plinio il Vecchio, nat. XXXIV 22 e 29. Per Attus Navius devo rinviare al mio arti­ colo apparso su « SMSR », a. XL 1969, pp. 161 sgg.

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G I UL I A P I C C AL U GA

(Petronio, sat. 48 8), molto probabilmente allo scopo di essere essa stessa tenuta d'occhio in quanto considerata potenzialmente peri­ colosa.12 E in quest'ottica dovrebbe ugualmente essere valutata la disposizione dei maiores in base alla quale i decemviri non potevano consultare i libri Sibyllini iniussu senatus (Cicerone, div. II 54 n2) . La novità insita nella tecnica scrittoria - ancora poco diffusa in epoca estremamente arcaica, e dunque sospetta e temuta - fa si che la ci­ viltà romana rielabori la consapevolezza di averla ricevuta per ac­ culturazione nel tema mitico della sua provenienza da lontano, da una lontananza che non è solo geografica o cronologica, ma che travalica la normale dimensione esistenziale per riallacciarsi ad una sfera rischiosamente ultramondana. Come già a suo tempo la Grecia aveva favoleggiato dell'avvento della grafica dal cielo, da improbabili paesi orientali, dall'inconscio dominio della natura, 13 cosi Roma racconterà di come le litterae le fossero giunte dall'Arca­ dia primordiale e prelunare,14 e continuassero ad apparire, nel tempo delle origini, dalle profondità di quella zolla appena aperta dall'aratro da cui spuntò Tages già bell'e pronto a dettare i libri profetici, 15 dalle fondamenta appena scavate del tempio capitolino da cui saltò fuori caput hominis litteris Tuscis notatum (Isidoro, orig. xv 2 31),16 dal chiuso della roccia che, appena spaccata, mise in luce le sortes del futuro oracolo di Fortuna Praenestina, in robore insculptae priscarum litterarum notis (Cicerone, div. II 41 8s)P Ma l'atmosfera in cui ha luogo quest'epifania della scrittura, ca­ ratterizzata dal particolare scontatamente paradisiaco del miele che sgorga dal tronco degli alberi (Cicerone, ibid., 86), non deve 12. Si veda al riguardo il vecchio ma sempre valido articolo di C. Bonner, The Sibyl and bottle imps, in Quantulacumque. Studies presented to K Lake, London, Christophers, 1937, pp. 1-8. 13. Dati e argomentazioni nel mio saggio Processi diformazione di mitigreci: lafonda­ zione della scrittura, in stampa negli Atti del Convegno Internazionale La transizione dal Miceneo all'alto arcaismo. Dal palazzo alla città, Roma 14-19 marzo 1988. 14. Appunto con Evander, giunto nel Lazio dall'Arcadia orta prior luna (Ovidio,fast. 1 469 sgg.). Per gli Arcadi prelunari dr. quanto osservo nel mio Lykaon. Un tema mitico, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1968, pp. 32 sgg. 15. Dati raccolti in M.C. Di Spigno, Il ruolo di Tages nella religione romana, in « C&S », a. LXXXII 1982, pp. 174-85. 16. « una testa umana segnata da caratteri etruschi ». 17. « incise nel legno, a caratteri arcaici ».

I T E S T I MAG I CO- SACRALI

trarci in inganno circa la valutazione prima decretata per la grafica. Agli abitanti del Lazio dei primord� rudes artium homines, questa giunge prodigiosamente con l'ambigua ed inquietante novità del miraculum (Livio, I 7 8) . Ora, per le culture arcaiche come è quella romana, il prodigio, lungi dall'apparire quale evento sommamente positivo e quindi auspicabile, altro non è che turpe mostruosità1 8 tesa ad infrangere l'equilibrio di natura, e, in quanto tale, terrifican­ te sintomo di ulteriori sconvolgimenti nei piu diversi livelli del­ l'ordine delle cose.l9 La miracolosa apparizione della scrittura ad opera di Evander segnerà infatti, indubbiamente, per quegli Italiae homines qui sibi ritu ferino victum quaerebant ante chartae et membrana­ rum usum (Girolamo, epist. 8) 20 l'inizio di un processo che dalla dimensione mitica li farà ben presto approdare alla realtà storica caratterizzata da un vivere civile oltre che colto. Ma anche ogni sua ulteriore comparsa che abbia, se non sempre del prodigioso, alme­ no dell'eccezionale sembrerà destinata a segnare, per la romanità, il verificarsi di situazioni e accadimenti tanto significativi quanto, sia pur positivamente, sconvolgenti nei confronti dell'ordine so­ ciale, il quale, a partire, da quel momento, dovrà crearsi un nuovo assetto. Lo si può constatare nell'ambito di una serie di esempi­ che sarebbe anche troppo facile accrescere - i quali illustrano il ri­ petersi di questa tematica dal tempo mitico dei re sino all'epoca imperiale. La repentina apparizione, davanti a Tarquinius, dei libri Sibyllini che, racchiudendo in séfata et remedia Romana (Servio, auct. VI 72) dovrebbero, opportunamente consultati all'occorrenza da quegli esperti sacrali che sono i decemviri, risolvere prontamente ogni crisi che possa minacciare la romanità, sembra, tutto somma­ to, aprire la stura - fornendo le istruzioni per l'uso in forma scritta - all'infinita sequela di guai che, già tutti diligentemente elencati in 18. Nonio, p. 251, 27: mira et miracula veterespro monstris horrendis ponebant; Paolo Pe­ sto 123, 5 L: miracula {. . . } antiqui in rebus turpibus utebantur. 19. Ancora Agostino, che giustifica solo i miracula del dio cristiano in quanto costui è, appunto, un essere onnipotente, li considera in ogni caso quali eventi che contra na­ turae usitatum cursumflunt {gen. ad litt. 6 14, p. 189, 12). Cfr. gli altri dati raccolti in Thesau­ rus Linguae Latinae, vm 1053 sgg. 20. � abitanti d'Italia che si procacciavano il cibo come le bestie, ignari della carta e delle pergamene *· 41

G I ULIA P I C CALUGA

quei rotoli, costantemente andranno ad affliggere questa città. Il ri­ trovamento della testa scritta, oltre che appena spiccata dal busto, nelle fondamenta del Campidoglio, appunto in quanto interpreta­ bile quale sicuro auspicio della futura grandezza di Roma, com­ porta per costei l'immediata trasformazione in metropoli di piu ampio respiro cosi come, anche, prelude inevitabilmente al crollo del regime monarchico e alla successiva creazione della repubbli­ ca.21 Quell'immane sconquasso politico della prima secessione della plebe, che inizia con una vera e propria lacerazione della co­ munità, e quindi si conclude con uno stravolgimento definitivo dell'ordine sociale precedente, archiviato una volta per tutte in vi­ sta dell'instaurarsi di un nuovo clima teso a dare spazio anche ai piu diseredati, fa da sfondo all'esposizione in pubblico delle xn Tavole, prima legge scritta ad essere messa a disposizione di chiunque in­ tenda consultarla,22 cosa che, inevitabilmente, ha comportato che, sia pure per breve tempo, anno trecentesimo altero quam condita Roma era t mutaturforma civitatis ab consulibus ad decemviros {. . . } translato im­ perio (Livio, m 33 I sg.).23 Diversi anni piu tardi, nella crescente de­ mocraticizzazione della società romana, lo seriba Cn. Flavius, eletto edile curule nonostante provenga da ambiente servile, contravve­ nendo al giuramento di non rendere pubblico quanto sarebbe do­ vuto restare sotto esclusivo controllo pontifìcale, civile ius, repositum in penetralibus pontificum, evulgavitfastosque circaforum in albo proposuit, ut, quando lege agi posset, sciretur (Livio, IX 46 I-6) :24 puntualmente, il rivelarsi di questa scrittura alla massa, che sino ad allora non vi ave­ va avuto accesso, sarà foriero di tutta una serie di inarrestabili tra­ sformazioni sociali (Livio, IX 46 6-IS). Ancora al termine del perio21. Livio, 1 55 6. Il resto della documentazione è raccolto nel mio Terminus. I segni di confine nella religione romana, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1974, pp. 202-10. 22. Livio, m 57 10; cfr. quanto faccio osservare, in merito, in La colpa di petjìdia sullo sfondo della prima secessione della plebe, in Le délit religieux dans la cité antique, Roma, École Française de Rome, 1981, pp. 21-25. 23. « l'anno 302 dopo la fondazione di Roma muta l'ordinamento civico, il potere passando [ . . . ] dai consoli ai decemviri ». 24. « rese noto il diritto civile, riposto nei penetrali dei pontefici, ed espose i fasti nel foro su tavole imbiancate, affinché fosse noto quando era lecito amministrare la giustizia ».

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do repubblicano il rinvenimento, nel sepolcro del mitico Capyis, di una fabula aenea conscripta litteris verbisque Graecis,25 preannun­ ziando l'imminente uccisione di Cesare, spalanca nel contempo le porte all'insorgente epoca imperiale.26 3·

Po LITICA E

CULTURA SCRITTA

Sin dal tempo delle origini l'autorità statale, di qualsiasi genere essa sia, ha arrogato a sé, per comprensibili motivi di interesse, il controllo della scrittura grazie al quale assicurarsi la supremazia sulle masse illetterate e, nel contempo, legittimare la propria posi­ zione di spicco. È Evander, futuro sovrano del Lazio, il responsabi­ le della presenza della tecnica grafica in questa terra. È Romulus, fondatore e primo re di Roma, cui la tradizione greca attribuiva nella prima infanzia un vero e proprio addestramento nel leggere e nello scrivere (Plutarco, Rom. 6) , a farsi riconoscere quale membro della dinastia albana grazie alle lettere incise sulle cinghie della ce­ sta nella quale venne esposto assieme al fratello (Plutarco, Rom. 7 sg.), nonché ad eternare i nomi dei primi patres conscripti facendoli addirittura incidere in tabulas aureas (Isidoro,orig. IX 4 n). È Numa, appena salito sul trono, a mettere per iscritto i sacra, tramite i quali controllerà sul piano religioso il popolo romano, affidandoli, quin­ di, alla classe sacerdotale (Livio, I 20 s). A tempo debito sarà, come si è visto poc'anzi, il governo repubblicano a ritardare il piu possi­ bile la pubblicazione del corpus giuridico cosi come delle norme regolanti il tempo sacro nelle sue scansioni, anche a costo di provo­ care pericolose scissioni nella comunità. Le stesse strutture del re­ gime imperiale sembrano continuare ad avvalersi della scrittura su questo piano, senza darsi poi troppo pensiero delle componenti so­ ciali ancora da alfabetizzare: basta pensare, al riguardo, da un lato all'azione di propaganda della politica augustea svolta dai poeti di 25. � una tavola bronzea scritta a caratteri e in lingua greca ». 26. Svetonio, Caes. 81; cfr. Servio, auct. n 35: in quest'ultimo caso la scritta risulta in­ cisa sulla statua di una giovenca.

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corte tramite le loro opere; dall'altro alla imponente codificazione, addirittura bilingue, delle resgestae divi Augusti, attuata direttamente dall'interessato. Si comprende quindi come l'autorità statale intenda normal­ mente gestire, e addirittura tenere a bada - prendendo al riguardo, in ogni epoca, dalla dimensione delle origini alla realtà storica, pre­ cauzioni assai drastiche - quel singolare, inquietante e scardinante effetto rivoluzionario che la cultura scritta, finalmente concessa al­ le masse, potrebbe produrre nella società sotto ogni cielo e in qual­ siasi periodo storico, ma che soprattutto certa scrittura di contenu­ to sacrale - rimasta sino ad un certo momento segreta, oppure ri­ servata a pochi o comunque ignorata dai piti - ha mostrato di esse­ re in grado di scatenare nella cultura romana, facendo completa­ mente saltare, e su piti piani, l'ordine delle cose in vista della crea­ zione di un nuovo equilibrio, in primis politico. Alcuni esempi, iso­ lati rispettivamente nel tempo mitico in cui c'è ancora la monar­ chia, in pieno periodo repubblicano, all'inizio dell'epoca imperia­ le, mostreranno come un pericolo del genere lo si fronteggiasse sempre e costantemente in un solo modo: facendo si che tali scritti potenzialmente sovversivi finissero distrutti tra le fiamme. In casi del genere, infatti, l'atteggiamento dello stato risulta essere sempre lo stesso: un misto di diffidenza, timore e disprezzo nei confronti della cultura scritta, che se non si mostra in qualche modo control­ labile e utilizzabile con un certo profitto, va inesorabilmente an­ nientata. L'autorità statale, in questa circostanza specifica rappresentata da uno dei Tarquini, assiste impassibile, senza batter ciglio, alla di­ struzione nel fuoco della maggior parte dei libri profetici nella tra­ dizione mitica che narra come la stessa Sibylla sia venuta a propor­ ne l'acquisto al sovrano: una banale questione di prezzo fa' si che quei remedia a tutte le crisi che il popolo romano dovrà affronta­ re nel tempo a venire, suggeriti dalla sapienza divina e quindi di sicuro effetto, vadano per lo piti perduti per sempre solo perché il sovrano non ritiene che il loro contenuto sacrale possa valere la somma richiestane, cosi che solo l'insistenza del personale sacer­ dotale ottiene che, alla fine, se ne salvi almeno una minima par44

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te,27 destinata tuttavia a perire anch'essa tra le fiamme nell'incen­ dio del Campidoglio, nel corso della guerra civile dell'83 a.C. (Pli­ nio il Vecchio, nat. xm 88). Ricostituito in seguito questo patrimo­ nio di scritti divinatori, esso, tuttavia, verrà costantemente tenuto a bada dalle autorità che non ne consentiranno la consultazione sen­ za il permesso del senato, e controlleranno con oculatezza che a questa scrittura profetica non se ne aggiungano troppo disinvolta­ mente altre, consimili ma non autentiche, sbilanciando cosi il po­ tenziale di sacralità - e quindi di pericolosità! - insito nel contenu­ to di questi testi: ancora nel 32 della nostra era l'imperatore Tibe­ rio, tanto per fare un esempio, ingiunge con durezza che si indaghi circa l'opportunità di aggiungere un altro scritto ai libri Sibyllini (Tacito, ann. VI 12). Nel r8r a.C., a causa di uno smottamento di terreno sul Gianico­ lo, vengono accidentalmente in luce, assieme al sarcofago in cui sa­ rebbe stato sepolto il re Numa, anche i libri sacri scritti di suo pu­ gno e inumati con lui per suo ordine. Letti al pretore, si scopre che questi testi, tra i quali sono persino compresi diversi volumi de iure pontifìdo, contengono tuttavia pleraque dissolvendarum religionum.28 Attestata dal giuramento del magistrato, la loro pericolosità sem­ bra tale che il senato, senza neppure permettere che siano esami­ nati da altri, ne decreta immediatamente la distruzione tra le fiam­ me, che ha luogo in pubblico, nel Comizio, e addirittura in chiave rituale, dal momento che a bruciare questi testi sono i victimarii, normalmente incaricati dell'uccisione degli animali offerti in sacri­ ficio.29 C'è da sospettare che ancora vivo fosse, nella cultura roma­ na, il ricordo di quanto, stando alla tradizione, sarebbe successo al re Tullus Hostilius quando costui, volendo bloccare con mezzi sa­ crali una pestilenza che affliggeva il suo popolo, appunto srotolan­ do i commentarii di Numa vi aveva trovato, si, descritti, i rimedi del 27. Gellio, 1 19; Dionisio di Alicarnasso, IV 62; Servio, auct. m 445; Lattanzio, 1 6 IO; Lido, de mens. IV 34; Zonara, VII n; Myth. Vat. I I 88. 28. « una quantità di superstizioni da disperdere ». 29. Livio, X L 39; cfr. Plutarco, Numa 22. Altri dati raccolti in F. Della Corte, Numa e le streghe, in « Maia », a. xxvi 1974, pp. 3-20, ripubblicato in Opuscula VI, Genova, Istituto di filologia classica e medioevale, 1978, pp. 195-212.

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caso, ma evidentemente non i procedimenti da seguire per realiz­ zarli, cosi che, non avendo saputo agire rite, provoca l'ira e la folgo­ re di Iuppiter, e muore perciò nel conseguente incendio della pro­ pria abitazione (Livio, I 31 s-8). Alcuni anni dopo la distruzione dei libri di Numa, ecco che il se­ nato è costretto a mandare nuovamente al rogo, nel 186 a.C., una certa quantità di testi di contenuto sacrale. Nell'ambito dei provve­ dimenti presi urgentemente per far fronte allo scandalo dei Bac­ canali, infatti, ecco che risulta indispensabile decretare che vati­ dnios libros conquirerent comburerentque (Livio, XXXIX 16 8).30 In epoca imperiale, infine, sarebbe toccato ad Augusto prendere analogo provvedimento allorché, assunto il pontificato massimo, si trovò a dover compiere una cernita tra gli scritti profetici che ave­ vano letteralmente invaso Roma: risparmiando solo i libri Sibyllini, fece gettare disinvoltamente nel fuoco oltre duemila volumi (Sve­ tonio, Aug. 31), mostrando ancora una volta come l'autorità statale, di fronte ad eventuali rischi rappresentati dalla cultura scritta, scel­ ga coraggiosamente . . . di sacrificare quest'ultima. 4· SCRITTURA GIURI D I CA,

COERCITIVA, SACRALE

La scrittura di cui ci si è occupati finora - quella profetica, regi­ strante la volontà divina nelle forme versificate del carmen non è la sola a recare implicita nei caratteri la mentis vis capace di vincere la realtà, come si è detto, oltre che per mezzo della vocalità, anche e soprattutto tradotta in segni grafici (Isidoro, orig. vm 7 3 sg.). Esiste, infatti, tutta una serie di analogie che mostrano come la romanità considerasse da questa stessa angolazione anche la scrittura giuridi­ ca (scriptum ius: inst. 1 2 17). Anche la legge è sacra; lo è già nella sua forma orale e, prima an­ cora di essere proferita da esseri umani, nella sua essenza di ratio summi lavis (Cicerone, leg. II 4 10), risultando sorta simul cum mente divina (Cicerone, ibid.), e in quanto tale, eterna e trascendente ut il­ la divina mens (Cicerone, ibid. II 5 n) . Lo è, ovviamente, anche nella -

30. « requisissero e dessero alle fiamme i libri di profezie ».

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sua redazione scritta, che peraltro - mostrando di essere soggetta all'uso di uno stile specifico basato sull'impiego di vocaboli, clauso­ le, formule particolari, nonché alla conservazione del medesimo, destinato a restare inalterato, indipendentemente dal trascorrere del tempo e dall'evoluzione della lingua, che lo renderanno sem­ pre meno comprensibile ai piti e sempre maggiormente bisognoso di interpreti specializzati nel penetrarne il senso (Cicerone, leg. II IO 23) - parrebbe calarla nella condizione analoga a quella di un car­ men sacro a tutti gli effetti come quello intonato dai Salii, anch'esso infarcito di espressioni e termini ormai desueti ma immodernabili, a stento compresi anche dagli stessi esperti che devono recitarlo e cantarlo ritualmente,31 o, notoriamente, come i libri Sibyllini: le ve­ teres XII sacratae leges, del resto, il cui linguaggio e il cui significato si facevano sempre piti oscuri già sul finire del periodo repubblicano, non erano forse imparate a memoria dai bambini ut carmen necessa­ rium (Cicerone, leg. II IO 23 ; 23 59)? Come ogni testo di argomento sacrale, anche la legge è tenuta a non subire variazioni di sorta, ma a conservare intatto il suo contenuto che neque augeri littera una neque minui potest (Apuleio,flor. 9).32 In ciò è agevolata dall'essere messa per iscritto, il che consente di fissarne l'oggetto controllando che non subisca alterazioni. Altro vantaggio di questa sua redazione scritta è che solo in tal modo può essere esposto in pubblico, divul­ gato e gestito dalle masse un corpus giuridico che, come certi testi sacri, era sino a questo momento controllato da pochi. Si è già detto che l'insieme delle leggi, al pari di altre raccolte di scritti sacri (per esempio, i libri Sibyllini custoditi dai decemviri) , resta per lungo tem­ po affidato alla gelosa custodia di una classe sacerdotale (i Pontifices: Livio, IX 46 s); ugualmente si è osservato che, quando si arriva alla sua esposizione in pubblico, esso, alla stessa stregua della divul­ gazione della scrittura di contenuto decisamente religioso, risulta in grado di provocare un sovvertimento dell'ordine politico e so31. Quintiliano, inst. 1 6 40: Saliorum carmina vix sacerdotibus suis satis intellecta. Sed illa mutari vetat religio et consecratis utendum est { « i carmi dei Salii sono a stento compresi dai loro stessi sacerdoti. Ma la religione vieta di mutarli e bisogna valersi di essi in quanto consacrati »). 32. « non si può accrescere né sminuire di una singola lettera ».

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GIULIA PI CCALUGA

ciale destinato a culminare nella costituzione di un nuovo equili­ brio: non a caso, quando l'edile curule Cn. Flavius, commettendo cosi spergiuro, farà esporre insieme lo ius civile e il calendario, le ri­ percussioni sul piano politico saranno, come si è già visto, dello stesso tipo. Per concludere circa la convergenza esistente tra testo giuridico e testo sacro resta ancora da osservare come l'essere eter­ nata mediante una grafica che - ben prima dell'uso di materiali scrittori atti ad essere inchiostrati (per esempio, il papiro) - è essen­ zialmente incisa - e dunque tesa ad imprimere indelebilmente il suo oggetto sul supporto destinato a riceverlo e a trattenerlo in cer­ ti casi per sempre {dr. la scrittura su pietra) - renda la legge vinco­ lante non solo nei confronti del proprio contenuto che cosi risulta astratto dalla storia, ma anche rispetto a quanti, leggendone la ste­ sura, saranno tenuti ad osservarne le ingiunzioni. 33 Ma se la scrittu­ ra giuridica è obligatio (inst. m 21 s), essa risulta a sua volta obligata, vincolata come è, a prescindere dalla fedeltà ad un testo immutabi­ le, già col venire materialmente fissata, addirittura mediante chio­ di, alle pareti dei templi (Plauto, Trin. 1039). Esempio classico di come nella cultura romana convergessero in uno stesso tipo di scrittura coercitiva e coatta insieme tanto il dirit­ to che la sacralità è quello costituito dall'atto rituale, giuridicamen­ te imposto, del clavum pangere, che doveva aver luogo ogni anno al 13 di settembre, da parte del praetor maximus, su una parete del tem­ pio capitolino di Iuppiter: Lex vetusta est [. . . J ut qui praetor maximus sit, idibus Septembribus clavum pangat; fixa fuit dextro lateri aedis lavis Optimi Maximi, ex qua parte Minervae templum est. eum clavum, quia ra­ rae per ea tempora litterae erant, nota m numeri annorumfuisseferunt. eoque Minervae tempio dicatam legem, quia numerus Minervae inventum sit [. . . ]. Horatius consul ea lege templum lavis Optimi Maximi dedicavit anno post reges exactos . . (Livio, vn 3 s-8).34 .

33· Devo rinviare, al riguardo, al mio articolo La scrittura coercitiva, in « C&S », a. 1983, pp. 120 sg. 34· « secondo una legge antica [ . . . ] chi ricopre la carica di praetor maximus alle idi di settembre deve infiggere il chiodo [destinato a simboleggiare l'anno che sta, appunto, iniziando a questa data); fu affissa sul lato destro del tempio di Iuppiter Optimus Ma­ ximus, ove si trova il santuario di Minerva. Si dice che quel chiodo, giacché a quel LXXXV

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Sarebbe assai difficile - forse anche impossibile, o comunque controproducente cercar di stabilire, in merito, quanto, nel testo in causa, sia disposizione giuridica e quanto, invece, appaia, rispetti­ vamente, scrittura di contenuto sacrale, atto rituale, commemora­ zione solenne dell'inaugurazione del tempio e dell'instaurarsi del regime repubblicano, scansione del tempo in ritmi annuali.35 Que­ ste distinzioni avrebbero un valore solo relativo nell'ambito della cultura romana, per la quale, invece, ciò che soprattutto importa, nella cerimonia di infissione del clavus capitolino, è l'azione coerci­ tiva esercitata dalla scrittura indelebile, qui, piu che graffita, addi­ rittura inchiodata già materialmente prima ancora che obligata dal­ la forza vincolante del diritto.36 È appunto quest'azione specifica che consente al rituale di controllare una realtà altrimenti difficil­ mente arginabile quale è la sfera cronologica - qui volutamente in­ tesa come scorrere lineare, e quindi liberata dalla ripetitiva e in­ conscia ciclicità di natura - bloccata di anno in anno da ciò che è, insieme, disposizione giuridica, atto sacrale, scrittura sia pur rudi­ mentale, testa di chiodo. Con analoghe infissioni di un clavus - a se­ conda dei casi, nello stesso spazio sacro capitolino, oppure anche, in ambiente italico oltre che romano, nella parete di altri santuari, o infine dove capitava di dover bloccare materialmente la crisi 37 si sarebbe cercato di tenere a bada l'insorgere di epidemie - la peste che infuriò nel 366/5 a.C. (Livio, vn 3 3 sg.), la moria provocata dai venefici delle matrone nel 336 a.C. (Livio, vm r8), nonché il morbo del 314 a.C. (Livio, Ix 28 s) - o, comunque, di stati patologici assai tempo la scrittura era poco diffusa, indicasse il numero degli anni; e che quella legge fosse stata consacrata nel tempio di Minerva, perché Minerva è l'inventrice del nume­ ro [ . . . ]. Il console Orazio applicò questa legge quando dedicò il tempio di Iuppiter Optimus Maximus l'anno successivo alla espulsione dei re ». 35· Cfr. Paolo Diacono, Festo, 49 L: clavus annalis appellabatur, qui.figebatur in parieti­ bus sacrarum aedium per annos singulos, ut per eos numerus colligeretur annorum ( « era detto "chiodo annuale", perché era infisso annualmente nelle pareti degli edifici sacri, co­ sicché per mezzo di essi si potesse calcolare il numero degli anni »); cfr. anche Cicero­ ne, Att. v 15 I. 36. La scrittura coercitiva, cit., pp. n7; 123 sg. 37· Nel tentativo di contenere l'attacco epilettico, per esempio, il chiodo doveva essere infisso là dove il paziente, in preda al male, aveva battuto la testa cadendo (Pli­ nio il Vecchio, nat. xxvm 63) .

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molesti (come, ad esempio, la febbre quartana: Plinio il Vecchio, nat. XXXV III 46), sconcertanti (quali le allucinazioni notturne: Pli­ nio il Vecchio, nat. XXXIV 15 1), addirittura terrificanti (in specie gli attacchi epilettici: Plinio il Vecchio, nat. XXVIII 63). E sempre un analogo procedimento rituale si sarebbe operato per tenere a ba­ da, invece che l'insorgere della malattia, il prorompere di peri­ colosi rivolgimenti sociali comportanti smagliature nella compa­ gine statale, quali le secessioni della plebe (Livio, vm 18 12). Op­ pure, piu modestamente, sul piano privato, contra tonitruus (Plinio il Vecchio, nat. x 152). In ciascuno di questi casi l'intento sacrale risulta essere quello di fissare una volta per tutte la crisi allo sco­ po di bloccarla. Nella circostanza specifica dell'infissione del clavus capitolino, a tale intento si aggiunge il fatto che la successione dei chiodi doveva di necessità iniziare col sorgere della realtà repubblica­ na e del culto di Iuppiter Optimus Maximus, proseguire nel tempo, a data fissa, essere letta quale scrittura calendariale, sacrale e giuridica. 5·

GRAFICA D I TIPO MAGICO

L'infissione del clavus capitolino viene solitamente presentata dalla bibliografia estranea alla moderna problematica storico-reli­ giosa come atto magico.38 Ormai da tempo la storia delle religioni preferisce catalogarla, invece, tra i riti autonomi, funzionanti di per sé senza dover coinvolgere necessariamente entità extraumane,39 e, nell'ambito di questa categoria, tra quelli che cercano di attuare una data realtà anche materialmente, mediante la creazione e l'uti­ lizzazione di un apparato formale ricalcante, col rifletterne minu­ ziosamente e addirittura ossessivamente i particolari, la specificità di ciò che si tende a realizzare:40 tanto per limitarci all'esempio in esame, volendo fissare l'inizio dell'anno cosi come, la prima volta, 38. A partire da J.G. Frazer, The Golden Bough, London, Macmillan and Co., 1913, pp. 59 sgg., 67 sgg. 39· A. Brelich, Introduzione alla Storia delle religioni, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1966, pp. 32, 39 sg. 40. Cfr. in merito quanto scrivo al riguardo nel mio Elementi spettacolari nei ritualife­ stivi romani, Roma, Edizioni dell'Ateneo, p. 108, e in Obrzçdy magiczne, in � Euhemer », a. m (81) 1971, pp. 3-12. VI,

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I T E S T I MAG I C O-SACRALI

l'instaurarsi del regime repubblicano, li si inchioda concretamente a martellate, né piu né meno che se si volesse fissare un qualsiasi oggetto su un muro. Questo, sul piano morfologico, giacché su quello storico, invece, prima di procedere a simili, sempliòstiche e riduttive definizioni, si dovrà tener conto del fatto che la romanità ha sempre nettamen­ te distinto dai riti, celebrati da sacerdoti pubblici, per conto dello stato e a vantaggio di questo, quelli propriamente magici, che, an­ che utilizzando sovente le stesse strutture sacrali degli altri, risulta­ no comunque attivati da operatori non autorizzati, nell'ambito del privato, in vista di interessi personali, a danno di qualcuno, sia que­ sto un individuo qualsiasi, oppure addirittura l'autorità. Appunto perciò questi ultimi vengono accuratamente messi a margine dalla religione ufficiale, tollerati, e neppure sempre, nella dimensione privata, e sino a che non siano considerati elemento di disturbo nei confronti dell'equilibrio sociale: in tal caso lo stato interverrà pe­ santemente a vietarli e a punire chiunque sia anche lontanamente sospettato di praticarli.4 1 Non si dimentichi che già le leggi delle xn Tavole punivano qui malum carmen incantassit (Plinio il Vecchio, nat. XXVIII 17). Ora, si è visto che l'infissione del clavus capitolino è, a tutti gli ef­ fetti, inserita nella religione ufficiale, attuata come è da un magi­ strato in carica, su uno spazio che piu sacro non potrebbe essere da­ ta l'ubicazione sul Campidoglio e sulla parete del tempio di Iuppi­ ter, nell'interesse dello stato e dell'intera comunità. Del tutto fuori luogo risulta, quindi, l'applicazione dell'etichetta >. Si tratta solo di un frammento, e quin­ di è difficile comprendere fino in fondo il significato di questo comportamento. È indubbio, però, che nei racconti di folclore im­ postati sulla figura del simpleton, dello sciocco, è frequente che la stoltezza si manifesti proprio nella forma di chi mangia ciò che nessun altro mangerebbe: da Cacasenno che divora una ciotola di colla scambiandola per polenta, al Trickster nord-americano che trova « buonissimo >> un brodo di pesce cotto in una pentola da cui, però, il pesce era immediatamente fuggito . . . Andiamo avanti. Quando a Roma si scatena una pestilenza, Tar­ quinia invia i suoi due figli a interrogare l'oracolo di Delfi: e li fa ac­ compagnare da Bruto, « più come zimbello che come compagno >>, ci dice Livio.9 Stavolta siamo di fronte non ad un « motivo » di sa­ pore folclorico, ma ad uno s c h e m a c o m p o s i t i v o che rimanda alla « folcloricità » sul piano della struttura. Si tratta infatti di un classico schema di « triplicazione » (tre persone che devono affron­ tare una prova), in cui agisce la tipica opposizione fra due perso­ naggi > deridono lo « sciocco », ma falliscono, e sarà invece lo « sciocco » a trionfare. Come vedremo, è esattamente questo che accade nel racconto di Bruto: i cugini non riusciranno a 8. Fr. 2 Peter (= Fr. Gr. Hist. 812 1). 9· 1 56.

MAU R I Z I O BETT I N I

comprendere il senso delle parole oracolari (e perderanno cosf il regno), mentre sarà Bruto a coglierne il significato. Proseguiamo. Giunti a Delfi, lo « sciocco >} commette la solita « sciocchezzH. Offre infatti al dio non offerte sontuose, ma un rozzo bastone (di sambuco, ovvero di sanguinella). Come nel rac­ conto di folclore, i parenti } deridono la sciocchezza dell'e­ roe: in realtà, l'eroe la sa piti lunga di loro, perché dentro quel ba­ stone ha introdotto un'anima d'oro. L'esegesi di questa impresa del falso sciocco si presenta un po' piti laboriosa, ma il risultato è inte­ ressante. Livio dice che Bruto fece al dio questo insolito dono per manifestare « in modo enigmatico l'immagine del suo ingegno >} :1 0 legno di fuori, insomma, oro di dentro. La spiegazione è esatta e suggestiva, ma si può approfondire. In primo luogo, questo mani­ festarsi per ambages dell'eroe-sciocco, il suo porre enigmi a chi gli sta d'intorno, rammenta le prerogative folcloriche di altri eroi­ sciocchi, o finti tali: l'Ivan della fiaba russa, per esempio, che pone enigmi alla principessa; ma non si dimentichi il parlare e l'agire di Amelethus - un agire e un parlare « enigmatico >} di cui l'Amleto della tragedia shakespeariana, com'è noto, conserva visibili e sug­ gestive tracce. In altre parole, sembra essere tipica dello sciocco, nel folclore, la capacità di produrre messaggi che sono simultanea­ mente « al di sotto » della cultura (discorsi senza senso) e al di sopra di essa (discorsi comprensibili solo a pochi dotati di maggior inge­ gno). Nello sciocco, o in colui che si finge tale, la mancanza di sen­ so comune si trasforma in capacità di esprimere « sensi » riposti ed estremamente profondi. In questo senso, il comportamento di Bruto è perfettamente in linea con tratti e motivi di carattere fol­ clorico: e diviene anzi comprensibile solo alla luce di tali modelli generali. Ma non basta. La natura stessa del dono - un bastone di legno - lega infatti l'episodio a tratti molto marcati, dal punto di vi­ sta linguistico-culturale, della civiltà romana: infatti, tutti i nomi che indicano il « ramo » o il « legno >} in latino (truncus, stipes, codex, etc.) sono usati anche come espressione metaforica per indicare uno « stupido »: dunque, con quella offerta al dio di Delfì Bruto IO. I

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TESTO LETTERARIO E TESTO F O LCLORICO

manifesta realmente se stesso - un bastone con l'anima d'oro, uno stupido/ bastone che ha un talento superiore. In altre parole, il tratto folclorico appare qui « lessicalizzato » in modo specifica­ mente romano: affonda le sue radici nella sostanza della cultura da cui nasce. Sottolineiamo l'importanza di questa caratteristica. Per altro verso, il bastone, o il legno, appaiono frequentemente connessi a storie di « sciocchi » nel folclore europeo. Nel racconto noto come Lo sciocco e la betulla, l'eroe « vende » ad un albero secco un vitello: è deriso dai fratelli - ma dentro il cavo di quell'albero sta in realtà nascosto dell'oro, e lo sciocco diventa ricco. Allo stesso modo, il Ceneraccio della fiaba norvegese è sempre ritratto, all'ini­ zio della fiaba, mentre è intento a indurire bastoncelli nel focolare. La stessa operazione cui è intento Amelethus: tranne che gli unci, i bastoni a uncino che egli prepara sono in realtà (come dice Saxo Gramaticus) qualcosa che « simula l'arcano ingegno dell'artefice >> . Infatti, sarà proprio tramite un uso inatteso di quegli uncini di le­ gno che l'eroe prenderà vendetta sui suoi nemici. In altre parole, i racconti di folclore che conosciamo sembrano legare strettamente, in una solidarietà simbolico-narrativa di rara tenacità, i tratti della « stoltezza », del « legno » e della « superiore intelligenza » che in realtà caratterizza l'eroe-sciocco. Senza contare il fatto che anche racconti greci (cosi come un ulteriore episodio di Amelethus in Sa­ xo) si avvalgono di questo espediente dell'oro nel bastone. In definitiva, questa impresa delfica di Bruto appare un concen­ trato di « folcloricità » : motivi, schemi compositivi, profonda speci­ ficità romana, etc. Una caratteristica che, com'è chiaro, contraddi­ stingue anche il finale dell'episodio. I giovani Tarquini chiedono infatti al dio un responso su chi prenderà il regno dopo il loro pa­ dre. E l'oracolo svela: « colui che per primo bacerà la propria ma­ dre >>. I principi si accordano dunque per tenere all'oscuro di tutto il fratello rimasto a casa, e baciare contemporaneamente la madre al loro ritorno, in modo da dividersi poi il regno: Bruto invece, fin­ gendo di c a d e r e ( il tratto, come vedremo, è di estrema rilevanza) dà un bacio alla terra, cosi restituita consiste semplice­ mente in una ulteriore chiave d'accesso al patrimonio dei testi let12. AJ. Greimas, Semantica strutturale, tr. it. Milano, Rizzoli, 1969, pp.

71

104

sgg.

MAURI Z I O BETT I NI

terari che già possediamo, e non nella possibilità di arricchire ulte­ riormente la nostra biblioteca. 3·

LE

AVVENTURE D E L LUPO MANNARO

Cerchiamo adesso di esemplificare il caso b.: ovverosia, una « folcloricità » non inerte, passivamente trascinata dalla sostanza del racconto, ma al contrario attiva e ricercata. Abbiamo scelto un testo narrativo decisamente insolito all'interno della produzione letteraria romana che ci è nota, e il cui linguaggio, occasione narra­ tiva, tematica, etc. suggeriscono immediatamente l'impressione del racconto a carattere . Da segnalare poi la presenza di rapidi riferimenti a racconti dello stesso tipo di quello che lui sta narrando. Quando abbandona in gran fretta la casa della sua amica, Nicerote lo fa « come l'oste che fu pelato )), cioè « derubato )) : probabile riferimento ad un racconto (notoci tramite Esopo)P in cui un ladro si fìnse lupo mannaro per derubare un oste addirittura del vestito che aveva addosso, costrin­ gendolo a fuggire a gambe levate. Il racconto, insomma, ingloba formule e riferimenti provenienti da un piu vasto serbatoio (pro­ verbi, altri racconti), che nella loro rapidità e allusività svelano la presenza di un contesto culturale e narrativo condiviso da pubbli­ co e narratore. L'effetto di suggestione creato da Petronio è dunque eccellente. Proviamo perciò ad approfondire la nostra lettura. A livello dell'in­ treccio, il racconto presenta una notevole solidità di costruzione: soprattutto nella estrema esattezza dello schema spaziale, e del suo articolarsi allo sviluppo narrativo. Tutto comincia nella casa in cui abita Nicerote

(A), da cui egli si allontana con il soldato; il centro

dell'episodio è situato presso le lapidi funebri (B) , in cui avviene la

circumminctio e la trasformazione del soldato in lupo; mentre il fma­ le della prima sequenza si svolge presso la casa di Melissa (C), in cui Nicerote conclude il suo viaggio ed ha la conferma dell'esistenza del lupo mannaro. Dopo di ciò, ha inizio un movimento retrogra­ do, che porta Nicerote nuovamente in (B), ove scopre del sangue al posto dei vestiti, e in

(A), dove trova il soldato a letto con il collo

17. Cfr. Esopo, fab. 196 Halm: cfr. C. Rogge, Mitteilungen zu Petron, in Berl. Phil. Woch. », a. XLVII 1927, pp. 1927, 1021 sgg. «

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T E S T O LETTERA R I O E T E S T O F O LC L O R I C O

ferito. L'efficacia narrativa di questa costruzione è indubbia. Gli spostamenti topografici dell'eroe da un lato seguono un movimen­ to di andata / ritorno assai economico, dall'altro coincidono punto per punto con la crescita della tensione narrativa e le successive « scoperte >> del narratore: giunto in (C), Nicerote ha la conferma che il lupo realmente esiste, ed anzi che è stato da lui preceduto per un soffio; ripassando per (B), il sangue in luogo dei vestiti rende quasi certi che il lupo ferito dal servo di Melissa è realmente il suo ex compagno di viaggio; tornato in (A), la ferita al collo del soldato svela definitivamente che è lui il lupo mannaro. Le conferme della progressiva, orrorosa presenza del « lupo mannaro fra noi » sono sviluppate da Nicerote con estrema economicità ed efficacia. In particolare, la tecnica seguita sembra essere la sistematica attribu­ zione di una doppia valenza ai vari oggetti o parti del corpo impli­ cati nella narrazione: nel viaggio di andata, in (B) l'orinare del sol­ dato diventa una magica circumminctio, e i vestiti lasciati lungo la via della pietre; mentre in (C) si crea una certa attesa ed ambiguità con

il racconto del misterioso « lupo » ferito dal servo. N el viaggio di ri­ torno, in (B) l'orina e i vestiti di pietra diventano sangue, mentre in

(A)

il collo ferito del soldato è trasformazione del collo ferito del

lupo. È questa una della tipiche tecniche per la creazione del « per­ turbante >>.18

A

questo punto, possiamo anche chiederci: si tratta

davvero dell'intreccio di un racconto di folclore, o non piuttosto dell'abile impiego letterario di un intreccio

da

racconto di fol­

clore? Un discorso analogo si può fare per il livello stilistico. Come ab­ biamo visto, le « marche » popolari non mancano, e sono anzi parti­ colarmente significative. Si tenga conto, però, di un fatto molto semplice: il racconto è portato a conclusione con estrema disinvol­ tura ed economia anche dal punto di vista dell'espressione (cosi co­ me per ciò che riguarda l'intreccio) . Basti pensare che il tutto corri­ sponde a cinquantasette righe, una pagina e mezzo a stampa. Vi è assente qualsiasi forma di ripetizione, di inciampo o deviazione (ri­ petiamo: come a livello dell'intreccio), e la « popolarità » della nar-

18. S. Freud, Ilperturbante, in Opere, IX, trad. it., Torino, Boringhieri, 1977, pp. 81 sgg.

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MAU R I Z I O BETT I N I

razione sembra coincidere piu con la sintesi e l'efficacia che non con l'incertezza o la prolissità. Ma possono essere, queste, autenti­ che caratteristiche di un racconto di « folclore )) ? Francamente, ci attenderemmo il contrario. In realtà, sarebbe ingenuo catalogare questa fabula petroniana come la trascrizione fedele di un racconto popolare narrato in un ambiente di scarsa cultura del I secolo dopo Cristo. Il testo non ha nulla della registrazione « orale )), né dal punto di vista dell'intrec­ cio né dal punto di vista dell'espressione. Diciamo piuttosto che

è

una splendida simulazione letteraria su temi e linguaggi narrativi di tipo popolare. Come sa bene il pittore naturalistico, per riprodurre « fedelmente )) la realtà bisogna tagliare e simulare, per trasformar­ la in quello che si definisce « realismo )) : il quale

è, per l'appunto,

una forma di simulazione sulla realtà. Allo stesso modo, Petronio, utilizzando temi, modelli culturali, moduli espressivi da racconto popolare ha costruito qualcosa che per la sua concezione letteraria

(o per quella degli ambienti colti a cui il suo romanzo era indirizza­ to) possedeva un notevole effetto di realtà. Un effetto accresciuto dal fatto che il racconto, benché intessuto di moduli e temi di carattere « tradizionale )), è narrato da Nicerote in prima persona, come sua esperienza diretta. Procedimento che, se da un lato incrementa vi­ vacità e realismo « diretto )), dall'altro corrisponde alla nota tenden­ za (ugualmente a carattere folclorico) secondo cui storie orrorose e

aneddoti buffi vengono di norma narrati e ri-vissuti in forma di fat­ to accaduto direttamente al narratore. Da tutto ciò consegue che la « folcloricità )) o meno di questo te­ sto si trasforma inevitabilmente in una discussione sul livello e sul tipo di realismo che Petronio ha inteso realizzare nella scrittura del suo romanzo. Nuovamente, il testo > è prevalentemente centrata sull'altro verso del fenomeno: cioè insiste molto sulla coo­ perazione interpretativa del lettore. Averne tenuto conto non è fra i meriti piu piccoli del saggio di Pasquali che ha reso popolare la formula: « Le reminiscenze possono essere inconsapevoli; le imita­ zioni, il poeta può desiderare che sfuggano al pubblico; le allusioni non producono l'effetto voluto se non su un lettore che si ricordi chiaramente del testo a cui si riferiscono ». 8 La migliore contropar­ tita antica che di questo concetto sappiamo citare resta pur sempre Seneca Retore, suas. 3 7: non subripiendi causa, sed pala m mutuandi, hoc animo ut vellet agnosci.9 Per la sua maggiore ampiezza, si è andato affermando il termine omnicomprensivo intertestualità. Esso ha il vantaggio di cogliere oggettivamente ed empiricamente il fenomeno della compresenza di uno o piu testi in un altro. Non a caso il concetto nasce quasi co­ me implicita risposta e contraltare a « intersoggettività » : come a di­ re che in letteratura non ci si può affidare solo a un dialogo fra sog­ getti, ma bisogna ammettere l'esistenza di un sistema formato da rapporti fra testi. Il vantaggio è che ragionando in termini di inter­ testualità non si esclude ciò che imitatio o « arte allusiva » sanno co­ gliere, e ci si adatta a comprendere molto di piu. Per esempio, l'at­ tività cooperativa del lettore che il testo prevede vi è compresa al­ lo stesso titolo che la trasformazione dei modelli operata dall'au­ tore. Si capisce che operando con questo criterio non si fa solo una scelta tecnica, e di comodo: intertestualità, come molti altri concet­ ti, trascina con sé dei presupposti e qualche idea generale sul fun­ zionamento della letteratura. Ne espliciteremo qualcuna. Ricor­ dando però che, secondo alcuni, questo modo di esprimersi ha un odioso retrogusto di scientismo e tecnologia, vogliamo subito am8. G. Pasquali, Arte allusiva (1942), in Pagine stravaganti, Firenze, Sansoni, 1968, n, pp. 275-82 {si cita da p. 275). 9· « Non per sottrarre, ma per prendere apertamente a prestito, volendo che questo fosse riconosciuto �.

G I A N BIAGIO C O NTE - ALE S SANDRO BARCHIESI

mettere che « intertestualità » non pretende affatto di essere supe­ riore a « memoria dei poeti » o « allusività ». 10 Solo che, lavorando secondo questa categoria, ci riesce piu facile rinunciare a qualche pregiudizio che, questo si, danneggia l'esatta comprensione dei te­ sti che interpretiamo: se ne parlerà fra non molto.

3 · SE

)) da una connotazione carica di emozioni che non risultano immediata­ mente pertinenti alla situazione referenziale. Anche nell'arte allu­ siva, come in ogni figura, la dimensione poetica è data dalla com15. Cit. sopra (n. 8), pp. 31 e 33. Per i motivi che stiamo per esporre, non giudichiamo molto utile continuare a proporre, con variazioni solo terminologiche, nuove defini­ zioni dell'allusività che si pongano in termini strettamente retorici, cfr. p. es. M. Riffa­ terre, Syllepsis, in « Criticai Inquiry », a. VI 1980, pp. 625-38; e, piu recentemente ancora, F. Goyet, « Imitatio » ou intertextualité? (Riffaterre revisiteJ), in « Poétique », a. LXX 1987, pp. 313-20.

I M ITAZ I O NE E ARTE A L L U S IVA

presenza di due realtà diverse che aspirano a indicare una sola real­ tà, complessa quanto si voglia ma unica, forse indefinibile per mez­ zi diretti ma certo individuata e specifica almeno per il poeta. L'i­ dea poetica sta nello spazio tra la lettera e il senso - senza voler es­ sere né solo l'una né solo l'altro - e questo spazio (ancora ignoto) , non può esser indicato che facendo riferimento ai due estremi (no­ ti) che lo delimitano. Dato che questa analogia, questa visione « tropica » dell'allusivi­ tà, ha mostrato di saperci condurre lontano, è forse tempo di segna­ lare anche un limite intrinseco a questi studi. La considerazione re­ torica dell'arte allusiva si è rivelata innegabilmente migliore di al­ tre prospettive; se non altro si coglie cosi la solidarietà fra i diversi processi di formazione del testo poetico pili di quanto sa fare ad esempio un'analisi di motivazioni psicologiche e biografiche. Si tratta soprattutto di una strategia descrittiva che fa agire l'arte allu­ siva dentro un semplice modello di comunicazione. Ma da qualche tempo la retorica e la linguistica hanno comincia­ to ad abbandonarci ed è inutile lamentarlo dopo i loro grandi servi­ gi. I linguisti hanno sempre piu abbandonato la letteratura, che do­ potutto non era il loro campo principale. Retorica e linguistica hanno sempre pili accettato il limite di un'analisi che, se vuoi supe­ rare i confini della frase, cambia nettamente di statuto. Gli studi di poetica devono prendeme atto e continuare da soli. Il cammino fatto insieme ci insegna se non altro che il modello retorico era in realtà solo un'analogia, utile solo ed esattamente se resta un'analo­ gia. Non si può fingere che quanto accade al principio del carme IOI di Catullo sia una sostituzione metaforica, analizzabile negli stessi termini del modello aristotelico « sera » l «vecchiaia del gior­ no >> . Il problema sta nel mutamento di strumenti che si impone quando superiamo la misura della frase, campo d'esercizio in cui direttamente ci soccorrono gli strumenti retorico-linguistici. Se la virtli dell'allusione catulliana sta nel proiettare una sorta di sceneg­ giatura alternativa e già codificata (Catullo alla ricerca del fratello morto si confronta con Ulisse che molto pati per terra e per mare) , non si può ridurre questa sceneggiatura a un proprium che abbia una sua formulazione vincolante. O meglio: una parafrasi sarà uti99

G IAN BIAGIO CONTE - ALES SANDRO BARC H I E S I

le e indispensabile. « Catullo compie un amaro viaggio per ritrova­ re il fratello morto » è certamente una parafrasi accettabile, che molti lettori del carme IOI accetterebbero come descrizione del contesto referenziale in cui si sviluppa la poesia. Ma con ciò non abbiamo ridotto lo scarto allusivo ad una designazione propria: al­ meno non nel modo linguisticamente garantito con cui misuriamo la « vecchiaia del giorno » rispetto al « grado zero » che è « la sera >>. Quanto dire che nell'arte allusiva la letteratura già rinvia a se stessa e non si lascia ridurre a semplici presupposizioni. 6. QUALCHE E SEMPIO SCELTO PER M O STRARE (cOME ERA PREVE DIBILE) CHE LA VARIETÀ DEI

FEN O MENI

SUPERA QUALUNQUE CLAS SIFICAZIONE E TEORIA

Il nostro ripensamento sull'allusività non ha dato fino a questo punto spazio ad alcuni tratti specifici che il fenomeno assume nei testi latini. Si tratta in effetti di circostanze estremamente note e continuamente studiate. Basterà riflettere sul fatto che la letteratura romana nasce e si svi­ luppa in stretta connessione con i grandi modelli che già la lettera­ tura greca raccoglieva in sistema: abbiamo quindi a che fare con una duplice serialità che presuppone spesso un bilinguismo poeti­ co; e risulta di per sé evidente che tutte le operazioni che coinvol­ gono una pluralità di linguaggi finiscono per alimentare una sensi­ bilità allusiva (gli Alessandrini l'avevano già conquistata all'interno di una sola lingua, ma appunto grazie allo sviluppo di istituti lette­ rari, codificazioni specifiche, generi e sottogeneri poetic� la grande tradizione precedente si offriva come un intertesto ricco di voci contrastanti). Abbiamo anche evitato di occuparci dell'arte allusiva come pra­ tica intersoggettiva, legata a rapporti personali e a convenzioni di vita: si può dare per certo che molti enunciati allusivi vadano riferi­ ti, come risposte intenzionate, a dialoghi vissuti tra persone e pro­ grammi letterari. Quella che si usa chiamare poesia di circolo è so­ lo il caso piu marcato in un'ampia rete di riferimenti. Se però guar­ diamo ai testi soprattutto come atti comunicativi, qualificati dalla IOO

I M I TAZ I O NE E ARTE A L LU S IVA

letterarietà - dal volersi situare nel sistema letterario per trovare una voce - dobbiamo avere fiducia che ogni testo sappia motivare le sue scelte, renderle funzionali al senso che si va formando. Motivazione contestuale e funzionalità retorica ci sono apparse finora le condizioni principali nell'interpretare l'arte allusiva. Ma non si creda per questo che il campo dei problemi risulti molto semplificato, e l'interpretazione ridotta a un povero schematico questionario. Gli esempi che stiamo per discutere, infatti, vorreb­ bero ricordare non solo la polimorfìa della memoria poetica, ma anche mostrare certe zone d'ombra che nascono mentre abbando­ niamo la generica letterarietà procedendo verso le interpretazioni. Sarà questo anche un modo di ricordare le condizioni specifiche (la lacunosità) della documentazione su cui i classicisti si trovano ad operare. Abbiamo scelto fra i molti possibili criteri quello di un campio­ nario breve ma graduato. Per delineare la vastità del campo inter­ testuale, abbiamo scalato gli esempi e le discussioni procedendo da imitazioni fortemente lessicalizzate, che hanno come un forte sup­ porto « materiale », verso casi pili sfumati, in cui ha sempre meno importanza la sovrapponibilità della materia verbale e cresce il ri­ lievo di implicazioni diffuse, sceneggiature intertestuali e presup­ posizioni. In questi ultimi esempi si nota una debole codificazione metrico-verbale (quella canonica nei casi di arte allusiva resi cele­ bri da Moriz Haupt o da Pasquali) e predominano invece sugge­ stioni narrative, cliché iconografici: piu il repertorio che il lessico. Il nostro primo caso è appunto un campione di evanescenza, che tantalizza gli studiosi per la sua incorporeità. Ci sono imitazio­ ni che risultano fatte di niente, effetti d'eco senza materia di sup­ porto. Nel congedo della lettera ad Augusto Orazio elenca i temi di un possibile canto epico-encomiastico, e gli vien fuori questo verso (epist. n I 256) : 1.

et Jormidatam Parthis te principe Romam.16 16. « Roma che sotto il tuo principato fa tremare i Parti ».

IOI

G I A N B I A G I O C O NTE - ALE S SA N D R O BARCH I E S I

Da cento anni a questa parte qualche interprete (fino all'ottimo commentatore C. O. Brink) è inquietato dal ricordo di un verso per vari motivi impertinente - un verso epico di Cicerone assai noto sia per la sua cacofonia che per la travolgente presunzione: o Jortunatam natam me consule Romamf17

L'eco è attraente senza essere del tutto razionalizzabile: vi concor­ rono numerosi fattori metrico-verbali, nessuno dei quali per la ve­ rità unico e incontrovertibile. Sta di fatto che gli interpreti non rie­ scono a scacciarlo: è uno schema metrico-sintattico « vuoto », che non sembra convogliare una chiara corrente di significati. Del ver­ so di Cicerone possiamo dire, in sintesi, che è il piti famigerato del­ la poesia epica romana; la fusione di auxesis bombastica (se si guar­ da al referente storico) e di infelice figura fonica (la sequenza na­ tam-nata m era portata come malo esempio nelle scuole di retorica) appare veramente irresistibile. Data la statura dei personaggi coin­ volti (i due versi si riferiscono rispettivamente a Cicerone e Augu­ sto) l'interesse degli studiosi si è appuntato sul sottofondo dei rap­ porti personali; che cosa vuole dirci Orazio sui suoi rapporti col principe, e col principe degli oratori? Questa linea di indagine non ha dato frutti chiarificanti, nono­ stante i molti tentativi. Spicca piuttosto, per la sua economicità, la soluzione di Pasquali e Ronconi:18 sia Cicerone che Orazio stanno imitando un perduto modello enniano. Comprendiamo meglio, in questo caso, che il verso di Orazio (un verso non brutto, o almeno ben fatto) assomigli tanto all'infortunio poetico di Cicerone. O si dovrà pensare, invece, che Orazio « migliora » Cicerone (elimi­ nando, come è chiaro, il vero peccato del verso, la parechesi inizia­ le)? L'osservazione del contesto oraziano suggerisce però un'altra soluzione. Il finale dell'epistola ad Augusto riguarda i rapporti tra Orazio e la poesia epica, vista esclusivamente come celebrazione di grandi personaggi. La recusatio dell'epica comincia con un over17. « O Roma fortunata, sotto il mio consolato nata! » (Cicerone, FPL, 17 More!}. 18. G. Pasquali, in « SIFC », a. XXIV 1940, pp. 127 sg.; A. Ronconi, ibid., a. xxv 1951, pp. 105-ro; inoltre, W. Allen, in « TAPhA », a. LXXXVII 1956, pp. 130-46. 102

I M ITAZ I O NE E ARTE A L LU S IVA

tane ironico: ci sono poeti laudatori che rovinano per loro inade­ guatezza i loro stessi eroi: scriptores carmine faedo l splendida Jacta linunt (236 sg) .19 Orazio costruisce poi una complicata movenza ir­ reale: io non preferirei questi miei sermoni che strisciano per terra piuttosto che . . . In questo spazio >, lima, limpide sorgenti, ricerca di strade non battute e tutto il resto - finiva per entrare in aperto conflitto sia con la forma tipica dell'epos, sia, persino, con le sue condizioni « produttive ». Il pro­ blema genera una stridente contraddizione nella poetica di Eu­ molpo, che in verità teorizza ricerca formale, odi profanum vulgus, dottrina e labor limae, ma subito si rivela un epico torrentizio e un po' lutulento: una sorta di fiume in piena (l'emblema negativo di tutte le poetiche « culte >>) finisce per invadere le sue dichiarazioni (n8 3 sgg. mens [. . . l ingentijlumine litterarum inundata [. . . l precipitan­ dus est liber spiritus [. . . l hic impetus,4 e travolge tutto nel flusso di una ingens volubilitas verborum 5 (124 2: il commento finale di Petronio). Quanto ai Greci, l'Archia di Cicerone con le sue capacità estempo­ ranee (pro Archia 18) è un significativo parallelo. 3. Sulla diffusione a Roma del programma callimacheo, che mette in crisi la posi­ zione dell'epos nel sistema dei generi, lo studio piu ampio (non sempre perspicuo) è W. Wimmel, Kallimachos in Rom, Wiesbaden, F. Steiner, 1960. 4. « lo spirito [ . . . ] inondato dall'ampio fiume delle lettere [ . . . ] bisogna dar libero sfogo all'immaginazione [ . . . ] questo abbozzo ispirato ». 5· « enfatica volubilità di linguaggio ».

n8

' L EPOS

2.

AuTONOMIA, RIFLESSIVITÀ

Se vediamo la storia del letterato romano come una lunga lotta per accrescere e garantire il proprio ascolto e spazio sociale, dob­ biamo riconoscere che l'epica era schierata in prima fila: per una somma di motivi.6 La tradizione ellenistica su cui la cultura latina va modellandosi sanciva l'epica come il genere piu alto, piu diffici­ le (insieme alla tragedia), e piu separato dal quotidiano. D'altra par­ te, la vita culturale di Roma arcaica non offriva ai testi epici grandi linee di circolazione e di consumo (il teatro aveva ben altra diffu­ sione: e difficilmente Nevio, Ennio, e in fondo anche Livio Andro­ nico, avranno pensato ad un futuro come autori scolastici . . . ). L'o­ pera di Nevio ed Ennio sembra presupporre, quindi, un ambizioso programma di « autoaffermazione », a partire da condizioni non fa­ cili. L'epica si proponeva come denso testo letterario, certamente accessibile solo a un pubblico istruito, e giocava su due vie di au­ toaffermazione: la ricerca formale e l'esemplarità dei contenuti. La ricerca formale tendeva a separare l'epos dai livelli quotidiani della comunicazione: sin dai tempi di Andronico questi poeti lavorano ad uno stile nuovo, nutrito di molteplici esperienze. La poesia sa­ crale, il linguaggio ufficiale (iscrizioni celebrative, bollettini di guerra), l'arcaismo, il ricorso a glosse dialettali, i calchi e i prestiti dal greco, il neologismo, sono in questa luce strategie convergenti, sottoposte alla forza unificante del codice metrico (che peraltro co­ nosce, nel passaggio dal saturnia all'esametro, una soglia decisiva). Su questa ricerca, che sembra aver avuto cadenze assai rapide, vigi­ la il modello dell'epica greca, che si propone come analogia orien­ tativa e come guida al comporre. Al cuhnine di questo processo, Ennio si annuncia come il primo vero dicti studiosus, poeta-filologo, capace di rispecchiare la sua opera in spazi di autoriflessione. Sul versante dei contenuti, la ricerca formale si legittima come 6. Sull'« autorappresentazione » nella poesia epica l'opera di riferimento è W. Suer­ baum, Untersuchungen zurSelbstdarstellung iiltererromischer Dichter. Livius Androni us, Nae­ vius, Ennius, Hildesheim, Olms, 1968 (incentrato su Andronico Nevio Ennio, ma con utili riferimenti alla poesia tardo-repubblicana e augustea); inoltre, da una prospettiva spesso idealizzante, alcune ricerche di V. Buchheit, in particolare Der Anspruch des Dichters in Vergils Georgika, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1972. Il9

ALES S A N D R O BAR C H I E S I

lavoro al servizio di grandi ideali: Nevio ed Ennio vogliono affer­ marsi come poeti nazionali. I temi di canto coinvolgono la risco­ perta del passato, e momenti critici nella storia della comunità. In questo quadro, la sfida a grandi modelli greci trova una sua legitti­ mità. La celebrazione dei valori permette all'epica di assumersi un patrimonio collettivo, fondamento di un'identità culturale. La celebrazione delle gesta consente al poeta epico di confrontarsi con le grandi figure della tradizione, ma anche con le esigenze celebra­ tive dei clan gentilizi. Anche qui, Ennio è un autore cruciale: il suo poema storico doveva essere abbastanza grande e « collettivo » da permettere un delicato equilibrio tra esigenze celebrative, occasio­ nali e individuali, e autonomia del poeta, che prende forza, appun­ to, dalle dimensioni monumentali del progetto e dallo spessore ar­ tistico dell'opera. Non a caso, anche dalle nostre informazioni cosi frammentarie, Ennio emerge come il poeta epico romano piu « au­ toriflesso », piu esplicito nel discutere le sue scelte di poetica, piu apertamente individualista. Cosi, gli Annales aprono la via a nuove contraddizioni. Gli epigoni di Ennio, per quanto ne sappiamo, non aspirano a rifare gli Annales, e ne ereditano il gusto celebrativo (sempre piu legato all'attualità, e alle pressioni della committenza) ma non l'inquieta ricerca di autonomia e di autoespressione. Per una lunga stagione, anzi, la ricerca « artistica » si dissocia sempre piu dalla via del poema epico: sino al nuovo equilibrio classico si, ma non riproducibile - su cui si fonda l'Eneide. Virgilio cresce sotto forti influenze di poeti come Lucrezio, Catullo e Gal­ lo: autori di poesia personale, che si situa all'incontro fra autonomia artistica e individuale e roma­ nizzare il pantheon america-classico è evidentissimo già in Andro­ nico, ed era sostenuto certamente dagli apparati della religiosità uf­ ficiale. Ma si può dubitare se il Bellum Poenicum avesse spazio per un regolare apparato divino. I frammenti offrono qualche indizio nella sezione > degli Anna les (dedicati al racconto di imprese recenti) il Gotterapparat continuava a funzionare. Non ne abbiamo indizi, e d'altra parte su questi ultimi libri le nostre informazioni sono parti­ colarmente scarse. Guardando al ruolo di Ennio nella tradizione epica romana, si può avanzare almeno una generica congettura. Problemi di verosi­ mile, di buon gusto, di contesto storico, e la stessa formazione filo124

' L EPOS

sofìca di Ennio, rendevano impraticabile una piatta adesione alla teologia epica di Omero. Ma molte ragioni nuove spingevano a da­ re importanza all'apparato divino. Il progetto di « eroizzazione » della storia romana, cosi fondamentale per Ennio, reclamava anche uno sfondo sublime, olimpico - almeno nella soglia critica delle origini, o là dove erano in gioco destini universali. E la romanizza­ zione del pantheon era una sfida importante in un progetto di « inci­ vilimento », non limitato alla dimensione letteraria. Ma anche esi­ genze letterarie avranno avuto peso: il poeta che si presenta con audacia come erede e replicante di Omero avrà tenuto a « conti­ nuare » le divinità americhe: assumendosi, ad esempio, il proble­ ma di Giunone, la dea che avversa le ascendenze troiane di Roma. È possibile quindi una strategia di compromesso: Ennio avrebbe ridotto certi scandali della teologia america (possiamo immagina­ re divinità pili dignitose e numinose che in O mero) salvando però certe funzioni « cardine >> che la divinità ha nel racconto: qualche rara scena divina, collocata come pilastro narrativo in situazioni critiche per le sorti di Roma. D'altra parte, l'Iliade già offriva mate­ riali per questa soluzione; se depurato da interventi episodici e di­ gressioni scandalose, il tessuto olimpico della narrazione america può essere condensato in poche scene cruciali, dove è in gioco il destino di Troia e degli Achei. Convenientemente distanziate fra loro, le scene divine contrappuntano l'azione eroica senza prevari­ care. Le scelte di Virgilio sono ancora piu complesse, e (pur se questa volta il contesto letterario è perfettamente integro) è difficile dar­ ne un quadro riassuntivo. Le modalità del divino e dei suoi inter­ venti si dispongono su una scala che rivaleggia con O mero per va­ rietà e imprevedibilità - senza essere, però, una riproduzione del cosmo omerico. Il divino può assumere manifestazioni favolose e spettacolari che non dispiaceranno all'Ovidio delle Metamoifosi, o ridursi a un gioco di impalpabili influssi psicologici (an sua cuique deusflt dira cupido�.8 Può confrontarsi con l'impersonale fatalità di 8. « o a ciascuno diviene un Dio la propria smania crudele? » (trad. di L. Canali). 125

ALE S S A N D R O BAR C H I E S I

una Provvidenza stoicheggiante, o disperdersi nelle personalissi­ me rivalità e negli intrighi di palazzo dell'Olimpo. Virgilio è certamente consapevole di una contraddizione che peserà a lungo nell'epica occidentale. L'azione epica trova nello sviluppo di un « piano » divino la sua controparte sublime (« e si compiva il volere di Zeus », Iliade I s). Ma l'azione ha bisogno che questo piano sia continuamente contraddetto, violato, messo in questione e anche, abbastanza spesso, dimenticato (Giove ha nel­ l'Eneide lunghi periodi di latenza, e appare a volte un po' distratto). Questo conflitto è fonte di problemi quanto piu si sovrappone al­ l'omerico « volere di Zeus » (cui si lega, in modo non sempre chia­ ro, il grappolo dei diversi « destini personali », le Moirai) il nuovo ideale di un Fatum generale, cosmico, provvidenziale. Il crescere di questa volontà universale nelle antiche strutture dell'epos omerico ha qualcosa di minaccioso - i lettori di Lucano e anche di T asso ne sanno qualcosa. In Virgilio, il permanere del pantheon omerico non è un dato residuale, ma soprattutto una dife­ sa della libertà epica, della ricchezza dell'immaginario. Ancora per questo, forse, Virgilio evita il tema (già enniano) della fondazione di Roma: l'Eneide non è una completa ktisis, ma un antefatto trava­ gliato. Molti interpreti moderni sottolineano (a volte con vaghe impli­ cazioni « precristiane ») quanto Virgilio depura e moralizza le at­ mosfere dell'Olimpo omerico. È un'osservazione fondata: in veri­ tà proprio le scene divine piu scandalose - commentate con ese­ crazione, allegorizzate, a volte espunte, da Platone in avanti - ven­ gono trascurate, o emendate, da Virgilio. Diomede si pente di aver ferito Venere, ad esempio. La p ili contestata creazione omerica, la teomachia del libro xx, con due schiere di dèi che duellano a imita­ zione degli eroi, non trova spazio nell'Eneide: salvo che in una bre­ ve ekphrasis profetica della battaglia di Azio (un tema da epos stori­ co), dove, sembra di capire, dèi di Roma e dell'Egitto si frontegge­ ranno (vm 698 sgg.: gli eccessi di phantasia vengono dunque riser­ vati al presente). Tuttavia, sarebbe pericoloso generalizzare quest'impressione di un cosmo divino > è possibile solo come trasgressione di limiti ben noti, convenzioni generiche che tutti i letterati accettano e hanno imparato a praticare. Quando le « leg­ gi >> diventano scritte, si è notato, inizia anche la loro programmati­ ca infrazione. Ma questo modo di impostare il campo dei generi semplifica troppo la situazione dei latini. La tradizione poetica gre­ ca conosce leggi scritte « a posteriori », canoni dedotti da testi mol­ to piti antichi e solo in seguito applicati alla produzione di nuove opere. A Roma, invece, non esiste uno spazio originario dominato da canoni silenziosi, poetiche implicite e leggi « non scritte >>. I poe­ ti romani devono crearsi una tradizione sulla base di una « moder­ nità >> già realizzata e trionfante: cha ha già le sue leggi, e le sue pro­ poste di riforma. Questo spiega una curiosa inversione di tendenza, entro lo svi­ luppo dell'epos romano. L'antico poeta Ennio ci appare immerso in un clima di sperimentazione alessandrina. La sua epica, come si è visto, dava uno spazio inaudito (e irripetibile, nella tradizione ro­ mana) all'autocoscienza e alla discussione di poetica. Il moderno Virgilio, al contrario, sembra interessato a ritrovare la via di una pa­ rola diretta, nutrita di riflessione e di consapevole dottrina, ma ana­ loga e parallela, appunto, all'espressività diretta dei piti lontani mo­ delli greci, che forniscono non solo il nutrimento poetico, ma an­ che l'esempio di una « presenza >> comunicativa. Questo rapporto complesso (che non interessa, come è noto, solo l'epica) è precisa­ mente quello che di solito indichiamo come « classicismo augu­ steo >>. Il linguaggio dei proemi virgiliani è un esempio tipico di questa tensione verso la parola diretta. È del tutto chiaro che un proemio, per la sua posizione nel contesto e per le convenzioni comunicati128

' L EPOS

ve che lo investono, non può mai sottrarsi a una fitta rete di riso­ nanze connotative. Arma virumque ca no è una protasi dei contenuti; è un richiamo intertestuale dove si embricano Iliade eOdissea; è un

cliché metrico-verbale, forse riportabile allo stile epico enniano; è, soprattutto, la promessa di una parola epica diretta, in cui la perso­ nalità del narratore, istantaneamente evocata, subito si estranea nella sua missione narrativa. Ma si vede bene come tutte le iniziati­ ve « metaletterarie » siano abbandonate alla responsabilità dei let­ tori. Virgilio ha ideato, a fronte del primo proemio, un proemio mediano {nel vn libro, al principio della seconda esade). Questo proemio al mezzo gli è stato suggerito, a quanto si sa, dall'architet­ tura compositiva di Ennio, che delegava a un proemio supplemen­ tare, interno alla sua lunga opera, una serie di considerazioni meta­ letterarie. Solo che Virgilio ha svuotato questo stilema architetto­ nico di ogni funzione troppo metaletteraria e autoriflessa:

Tu vatem, tu diva mone. Dicam horrida bella, dicam acies adosque animis in Junera reges Tyrrhenamque manum totamque sub arma coactam Hesperiam. Maior rerum mihi nascitur ordo, maius opus moveo.lo (Aen. VII 41-45) Solo l'insistenza su

maior/maius

fa direttamente appello alla co­

scienza metaletteraria del lettore - la seconda metà del poema vuole stare alla prima come la sublime, eroica Iliade sta all'avventu­ rosa, e piu lieta,

Odissea. Per il resto, è ineccepibile il richiamo allo

statuto comunicativo dell'epica: una voce che si vuole neutra, ga­ rantita dall'aiuto della Musa, e protetta dall'identificazione con le « gesta >> che chiedono di essere raccontate. Funeste guerre, e co­ raggiosi re lanciati verso la morte, assicurano il richiamo alla !J.T\Vtç oÙÀ.OIJ.ÉVT), agli aÀ.yea di cui è quintessenziato il modello. L'adesio­

ne a questa voce che si vuole neutra e distanziata è in realtà la prima

10. « Tu, o diva, aiuta la mente del cantore. Narrerò funeste guerre, narrerò schiere, e re guidati verso la morte dal loro slancio, l'armata Etrusca, e tutta l'Esperia arruolata alle armi. Ecco per me una dimensione pit'i grande; inauguro un'opera pit'i alta » {trad. di L. Canali) . 129

A L E S S A N D R O BAR C H I E S I

mossa di una strategia ben piu ricca (l'Eneide, è ben noto, sa parlare anche altre « voci »). Il riferimento al genere deve essere concepito - non solo nell'epica, ma in gran parte della poesia augustea - co­ me un programma compositivo interno all'opera, e non separabile da essa. In questo quadro, è notevole la stabilità degli emblemi, dei gesti programmatici che individuano l'epos, visto dall'interno o da fuori. Virgilio annuncia la seconda esade - in certo modo, come si accennava, « piu epica » della precedente - in termini di del genere letterario: smonta le convenzioni che si stanno sedimentando, mette a nudo i procedi­ menti e gli « effetti di reale ». Simmetricamente, le Metamorfosi ri­ vendicano all'epos la finzione come spazio autonomo. I Fasti concepiti in significativo parallelo con le Metamorfosi - vogliono di­ mostrare che questa autonoma narratività può benissimo sommar­ si a un progetto celebrativo (l'omaggio, strutturale, al calendario augusteo): e finiscono cosi per dimostrare la fine del clima augu­ steo, come noi usiamo identificarlo. Si può pensare che nel laboratorio di Ovidio la trasgressione dei generi sia piu importante della loro funzionalità. I Fasti e le Meta­ morfosi sono, in effetti, le prime opere di poesia romana che ricor­ dano concretamente Callimaco; molto piu di quanto facciano poe­ ti (Catullo, Properzio) che a Callimaco pagano vistosi omaggi avanguardistici. I nessi canonici fra certi argomenti e certe scelte di stile entrano ora in un nuovo sistema, « trasgressivo », cioè appunto 13 1

A LE S S A N D R O BARC H I E S I

fondato sulla sistematica violazione degli ordini canonici. Non per questo, tuttavia, Ovidio è indifferente alle tradizioni dei generi. Il rapporto fra canone e violazione, fra rispetto dell'eidografia e « mescolanza dei generi >>, fra norma e apertura, era stata un'impor­ tante preoccupazione dei poeti augustei: ma, prevalentemente, una dimensione implicita, che aggiunge profondità e tensione ai loro testi. In Ovidio, invece, l'autocoscienza poetica rende esplicita questa tensione: un'opera come i Fasti è percorsa da una nervosa interrogazione sulla validità e la rilevanza dei canoni e delle norme (si può ammettere poesia elegiaca su temi eroici? cfr. n 123 -26. E non è strano riciclare cosi il distico che era servito alla lieve poesia erotica degli Amores e dell'Ars? cfr. n 3 -8) . Non avrebbe senso dire che Ovidio sia e s t r a n e o alla distinzione fra epica ed elegia; pro­ prio le innumerevoli misture e confusioni esibite dalla sua opera poetica, confermano la permanenza di un ordine che è li per esse­ re, momento per momento, eluso e mistificato. Il richiamo all'or­ dine che ormai sembra provenire dai capolavori augustei (è ironi­ co dirlo, quando Virgilio Orazio e Properzio erano stati in larga parte eredi della Kreuzung alessandrina) è una sfida in piu per lo sperimentalismo ovidiano. Messo alle strette, il poeta esule avan­ zerà qualche dubbio persino sulla purezza epica del nuovo, recen­ tissimo classico virgiliano; il poeta che cantava arma virumque ha pure reso omaggio al nemico dell'epos, la passione « elegiaca » di Didone: et tamen ille tuae felix Aeneidos auctor contulit in Tyrios arma virumque toros. (trist. n 533-3 4) 13

Con notevole lucidità, Ovidio sembra intravedere i pericoli di un nuovo classicismo, e di un futuro sin troppo ordinato.14 IJ. « e tuttavia il fortunato autore della tua Eneide ha sospinto dentro talami tirii le armi e l'eroe ». 14. l problemi toccati in questo paragrafo riguardano essenzialmente la « dialetti­ ca » fra generi nell'evoluzione del sistema letterario. Ecco alcuni contributi fra i piti importanti: W. Kroll, Studien zum Verstiindnis der romischen Literatur, Stuttgart, Metzler, 1924; L.E. Rossi, I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche, in « BICS », a. xvm 1971, pp. 69 sgg.; G.B. Conte, Virgilio. Il genere e i suoi confini, Milano,

132

' L EPOS

s.

MITo E ATTUALITÀ

Le ricerche sull'originalità della poesia romana (a volte definite come ricerche sull'« elemento romano » o persino - con un termi­ ne mai attestato in latino classico - sulla Romanitas degli autori lati­ ni) hanno prodotto risultati tuttora apprezzabili: vale la pena di ri­ peterlo perché oggi, di quegli studi, sentiamo spesso estranei, sba­ gliati, o indifferent� i presupposti estetici, culturali ed ideologici. Se si parla di epica, un'osservazione sembra imporsi: si tratta, ap­ punto, di un tratto distintivo, che allontana l'epica romana dai suoi modelli greci, e configura forse l'apporto piu originale della cultu­ ra latina rispetto alla tradizione della poesia eroica. Diciamo subito che si tratta di un'intuizione, di un'impressione piuttosto indefini­ bile, basata sul rapporto tra due concetti infidi - rispettivamente « mito » e « storia ». È, però, un'impressione ricorrente in quasi tutti gli studiosi interessati all'epica romana. La vaghezza del termine « mito », che davvero provoca sacro orrore in chi torna a impiegar­ lo, non ha bisogno di essere denunziata. Ma, aggiungerei, l'impie­ go del termine « storia >> è addirittura improprio. Si potrebbe utiliz­ zare con piu ragionevolezza, al suo posto, un concetto come « sin­ croma ». Infatti la coppia « mito-storia », in questo contesto, vuole opporre, in generale, un'entità lontana, vista « a distanza », e qual­ cosa di ravvicinato, di sentito come attuale. Il problema, come si sa­ rà capito, sta nel modo peculiare con cui l'epos accoglie in sé queste due istanze culturali: un tempo distante, originario, discontinuo, e un tempo ravvicinato, attuale, coinvolgente per l'autore e per il pubblico intenzionato dal testo. Questa dinamica di rapporti tem­ porali non gioca in genere un ruolo significativo nella poesia eroica greca, ed è invece una preoccupazione ricorrente nei poeti epici romani; è una forza che imprime ai testi epici strutture di tipo nuo­ vo. Nevio e Virgilio sono i due autori piu significativi in questa luce. Garzanti, 1984;].E.G. Zetzel, Re-creating the Canon: Augustan Poetry and the Alexandrian Past, in � Criticai Inquiry t, a. x 1983, pp. 83 sgg.; S. Hinds, The Metamorphosis ofPersepho­ ne. Ovid and the self-wnscious Muse, Cambridge, Univ. Press, 1987 (e in particolare, su Ovidio Fasti l Metamorfosi, è da rimeditare R. Heinze, Ovids elegische Erziihlung, Leip­ zig, Teubner, 1919 Vom Geist des Romertums, Stuttgart, Teubner, 1960 3, pp. 308 sgg.). =

133

ALES SANDRO BARCH I E S I

L'epos di Nevio ricorda per certi aspetti la tradizione (a noi mal conservata) dell'epos ellenistico di tema storico; poesie su campa­ gne militari, o poemi di patriottismo locale, o rievocazioni, ad e­ sempio, delle guerre persiane. È del tutto possibile che questa lignée epica fondesse, in qualche misura, soggetti di interesse nazionale, stilizzazione america, e struttura narrativa orientata su modelli storiografì.ci. A Nevio spetterebbe solo il passo - in verità impor­ tantissimo - di aver applicato questa ricetta a vicende romane (af­ frontando, con questo, sconvolgenti problemi di natura espressi­ va). Ma dai frammenti del Bellum Poenicum abbiamo indizi piu complessi. È certo che una porzione dell'opera (una quantità non trascurabile, forse piu di un sesto del totale) riguardava eventi lon­ tanissimi dal tema >. Certo, la ricostituzione delle condizioni di libertà con Nerva e Traiano ha preceduto l'impegno storiografico di un Taci­ to o di un Svetonio: il nuovo clima libera energie intellettuali, esso 47· Livio IX 17-19. Sugli sviluppi dell'idea in N. Machiavelli, D. Musti, Aspetti econo­ mici e aspetti politici dell'espansione romana nella storiografia polibiana, in The Imperialism of Mid-republican Rom, a cura di W.V. Harris, Roma, Papers and Monographs of the American Academy in Rome, xxix 1984, p. 52 n. 15. 48. A. Momigliano, Storiografia pagana e cristiana nel secolo W d. C., in Il conflitto tra pa­ ganesimo e cristianesimo nel secolo IV, a cura di A. Momigliano, trad. it., Torino, Einaudi, 1968, pp. 89-110. 220

IL PENSIERO STORICO ROMANO

non è stato attivamente conquistato dagli intellettuali che ne bene­ ficiano. Nondimeno autentico traspare il sentimento di Tacito, che si accinge a scrivere le Historiae (1 2) , di trovarsi di fronte ad un campo di rovine, un coacervo di mali esterni e interni, che ne ali­ mentano il pessimismo storico, nella stessa misura - si direbbe - in cui c'è il compiacimento tutto intellettuale del letterato di avere una materia importante da narrare (secondo la tipica concezione tucididea della storia come storia di mali): opus adgredior opimum ca­ sibus, atrox proeliis, discors seditionibus [. . . }, quattuor principesferro inte­ rempti: trina bella civilia, plura externa acplerumque permixta.49 E nel se­ guito il quadro diventa sempre piu fosco, investendo anche la sfera della corruzione e delle nefandezze private. Tuttavia (cap. 3): non [. . . ] adeo virtutum sterile saeculum ut non et bona exempla prodiderit;50 ma la nota pessimistica prevale anche circa la volontà degli dèi ver­ so Roma (non esse curae deis securitatem nostram, esse ultionem).51 Il compito della letteratura, e specificamente della storiografia è però quello di portare l'ordine (espositivo, esplicativo, mentale) nel di­ sordine, nella farragine degli eventi (ratio etiam causaeque noscantur, cap. 4).52 Il tipo di « ordine » che lo storico costruisce tuttavia, quando esso riflette un atteggiamento prevalente di tipo emotivo-affettivo, può costituire un ostacolo alla comprensione reale, cioè globale, della storia; è in tutto quel che egli in qualche modo sottrae alla visione pessimistico-moralistica generale, che si ritrova ciò che corrispon­ de alle concezioni ed esigenze di ricostruzione storica di noi mo­ derni. D'altra parte, anche Tacito condivide la convinzione, che impronta di sé la maggior parte della storiografìa antica, che scrive­ re di grandi e nobili imprese guerresche sia il momento piu alto dell'attività storiografica.53 È qualcosa infatti, questo, che sembra 49· « Affronto una situazione ricca di eventi (?), atroce per battaglie, piena di di­ scordie per le ribellioni [ . . . ] quattto principi furono uccisi: tra furono le guerre civili, anche di piti quelle esterne, e per lo piti le une mescolate alle altre ». so. « Il secolo non [ . . . ] cosi privo di virtti da non aver fornito dei buoni esempi ». 51. « Agli dei non sta a cuore la nostra tranquillità, ma piuttosto la nostra puni­ zione ». 52. « Si conoscano la ragione e le cause ». 53. Su Tacito: F. Arnaldi, Le idee politiche, morali e religiose di tadto, Roma, Scuola tip. 221

D OMENICO MUSTI

distogliere dalla corruzione e dalla degradazione della politica, e ri­ portare a un'atmosfera che, secondo questa concezione storica, ap­ pare piu propizia all'estrinsecarsi di piu autentiche doti morali, di co­ raggio, di tenacia, di lealtà (per es. le imprese di Corbulone in Ar­ menia, di cui trattano gli Annali, libri xm e sgg.). Questo nesso si ri­ vela come caratteristico di una società e una cultura come quella romana: ma, di per sé, esso appare già come un forte condiziona­ mento su una rappresentazione storica autentica. In definitiva è proprio il contenuto specifico di singoli racconti tacitiani che sod­ disfa di piu il nostro criterio di storia: certi aspetti della descrizione della campagna giudaica di Vespasiano, nelle Historiae, o della stes­ sa campagna di Armenia, ora ricordata, negli Annales; certe pro­ spettive sulla storia di Roma arcaica; le informazioni sulla diffusio­ ne del Cristianesimo a Roma e la pietà sulla condizione di perse­ guitati al tempo di Nerone, e cosi via di seguito. Velleio Patercolo aveva rappresentato l'altra faccia della tradi­ zione su Tiberio. Nel tono elogiativo, si avverte la soddisfazione di un ambiente sociale, che nella sicurezza e nelle possibilità di car­ riera comportate dall'impero trova autentiche ragioni di consenso. Velleio (di famiglia equestre) accompagnò Gaio Cesare e Tiberio nelle loro spedizioni militari. L'opera storica è un sommario del­ l'intera storia romana in 2 libri: il primo, frammentario, va dalle origini fino alla data « sallustiana >> del 146 a.C. (segue una storia delle colonie romane). Il risalire alle origini mette necessariamen­ te V elleio a confronto con l'impostazione storiografica liviana. Il secondo libro giunge al 3o d.C.: solo dopo il 49 a.C., cioè con l'età delle guerre civili, esso diventa piu ricco di particolari. Il tema delle Salesiana, 1921; E. Paratore, Tacito, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1951, 19622 ; C. Questa, Studi sullefonti degli Annali di Tacito, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1960; R. Haussler, Ta­ citus und das historische Bewusstsein, Heidelberg, C. Winter, 1965; A. Miche!, Tacite et le destin de l'Empire, Paris, B. Arthaud, 1966; R. Syme, Tacito, 2 voli., trad. it., Brescia, Pai­ deia, 1967-1971; D.R. Dudley, The world ofTacitus, Boston-Toronto, Little, Brown & Co., 1968; F. Giancotti, Strutture delle monografie di Sallustio e di Tacito, Messina-Firenze, G. D'Anna, 1971; D. Flach, Tacitus in der Tradition der antiken Geschichtsschreibung, Gi:it­ tingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1973; F. Gori-C. Questa (a cura di), Lafortuna di Ta­ cito dal sec. XV ad oggi, in « Stud Urb », a. un 1979 [1980]. Sull'etnografia: E. Norden, Die Germanische Urgeschichte in Tacitus' Germania, Leipzig-Berlin, Teubner, 1920. 222

IL P E N S I E R O S T O R I C O R O M A N O

guerre civili, difficile da trattare per un oppositore coscienzioso e accanito, e perciò anche diffidente ed elusivo, diventa invece un'occasione di meno tormentata e piu acquiescente storiografìa, per chi con il nuovo regime si trova in fondamentale armonia.54 8.

SVILUPPI

DELLA B I O G RAFIA E DELLA STORIA D I TIPO BIOGRAFICO

Nella storia di un'epoca di regimi personali, e in un'opera, cosi permeata di psicologismo, come quella di Tacito, è naturale la ten­ denza al biografìsmo. Esso è presente un po' in tutta l'opera tacitia­ na, dall'Agricola alle Historiae agli Annales, e in questi ultimi in forma anche piu marcata che nelle Historiae. Eppure, è proprio la tenden­ za a trasformare caratteri e comportamenti di singoli imperatori in segni generali dei tempi, in denotazione stessa di un'epoca, che spiega la reazione di difesa che nel lettore suscita, pur con tutto il suo straordinario fascino letterario, l'opera di Tacito. Ciò accade, anche se si sa che non sono fondamentalmente errate le rappresen­ tazioni che egli dà dei singoli imperatori e che, a parte probabil­ mente Tiberio, non ci sono in linea di massima vittime storiche il­ lustri di una ingiusta condanna tacitiana. Sono proprio il testo, il linguaggio, il sistema di connessioni, le concatenazioni piu o meno esplicite, che stimolano nel lettore quella reazione di difesa, il biso­ gno di interrompere ilfilo continuo del sospetto, del disgusto, della condanna, per ricercare quel che di positivo pur tuttavia l'epoca qua e là avrà potuto esprimere. Il biografìsmo sotteso a tanta parte dell'opera di Tacito, alla luce di queste esigenze di specificità e di positività, può quindi apparire da un lato troppo condizionante e ingombrante per la storia di uno stato e di un impero cosi comples­ si come quelli di Roma, dall'altro insufficiente rispetto al bisogno di distinguere meglio, pur nel continuum della crisi e della decaden­ za, tra regno e regno, e, all'interno dello stesso regno, tra questo e quell'altro atto politico. Troppo biografìsmo, per non colorire di sé 54- I. Lana, Velleio Patercolo o della propaganda, Torino, Univ. di Torino, Fac. di Let­ tere e Filosofia., 1952; M.A. Cavallaro, Il linguaggio metaforico di Velleio Patercolo, in « RCCM », a. XlV 1972, pp. 269-79; A.J. Woodmann, Velleius Paterculus. The Tiberian Narrative (2. 94-131) , Cambridge, Univ. Press, 1977.

223

D O MENICO MUSTI

la storia dell'impero; troppo poco, per permetterei di vedere le rea­ li capacità di decisione e di amministrazione dei singoli imperatori. C'è invero parecchio d'illusorio in una tale attesa di storicità reale (quasi opposta alla storicitàformale di chi scrive storie continuate, in­ vece che biografie) , di cui si carica la considerazione e valutazione del genere biografico in senso stretto: perché ideologie, stati d'ani­ mo, giudizi correnti, incomprensioni storiche, condanne o esalta­ zioni in genere, possono condizionare e aduggiare ogni racconto di contenuto storico, qualunque sia la forma (storiografica o bio­ grafica), che esso assume. Il genere da solo non garantisce l'obiettività. È vero tuttavia che la tecnica di costruzione di una biografia in sen­ so stretto può portare a recuperare e veicolare materiale diverso da quello che lo storico conosce e mette a fondamento della sua rico­ struzione generale. Quel > meno noto, e in­ trodotto nella narrazione e descrizione della vita di un imperatore, può per sé non essere ancora storia (cioè giudizio, ricerca e testi­ monianza): molto dipende dal grado di consapevolezza e di inten­ zione dello scrittore che lo reperisce e lo produce, e dalla idoneità stessa di quel materiale a modifìcare (nel senso piu ampio della paro­ la, quindi a connotare) il quadro e l'immagine generale di un go­ verno e di un'epoca. E tuttavia quel materiale all'apparenza cosi nuovo e diverso può a qualcuno sembrare la promessa, quasi la speranza, di una storia nuova e diversa. Con ciò sono dati i termini della moderna indagine sulle Vite dei Cesari di G. Tranquillo Sveto­ nio (il biografo largamente contemporaneo dello storico Tacito), perciò sul valore storico intrinseco delle Vite svetoniane, e del rap­ porto, sul terreno della rappresentazione obiettiva e della storicità, tra le Historiae e gli Annales di Tacito (che si estendono sul periodo 14- 96 d.C., dalla morte di Augusto a quella di Domiziano) e le bio­ grafie dei dodici Cesari (che, ai dieci imperatori considerati piu di­ rettamente da Tacito, premettono G. Giulio Cesare e Augusto). Ora, Svetonio fu, come risulta dall'iscrizione di Hippo Regius, a studiis e a bibliotheds, forse già sotto Traiano, e ab epistulis sotto Adriano, dal n8 al 121 d.C., quando fu dimesso, insieme col suo protettore, il prefetto del pretorio Septicio Claro. N elle Vite dei Ce­ sari (di cui la prima giuntaci incompleta), accanto a elementi ro224

I L PEN S I E R O S T O R I C O ROMANO

manzeschi, si verifica l'utilizzazione di documenti di diverso tipo, privati, perciò lettere, testamenti, ecc., e pubblici (acta: quelli del Senato, utilizzati dalla Vita di Tiberio in poi, ed eventualmente acta populi, acta diurna, ecc.).55 n tutto è tenuto insieme dalla struttura ti­ pica della biografia svetoniana, che disloca agli inizi e alla fine le vi­ cende della vita, in ordine cronologico, e all'interno organizza in­ vece una rappresentazione secondo categorie, quelle del privato e del pubblico, quelle del bene e del male, delle virtu e dei vizi. Si è spesso ripetuto che la biografia di tipo svetoniano mette a frutto, per le vite degli imperatori, uno schema già sperimentato dallo stesso autore per le vite dei Viri illustres (di cui conserviamo alcune, in particolare la prima metà delle vite relative alla categoria di grammatici e retori), e che esso deriva dalla biografia di tipo ales­ sandrino, rispetto a cui invece Plutarco (e già prima di lui Cornelio Nepote) rappresentano una forma di biografia in cui i dati avveni­ mentali di profilo diacronico si alternano frequentemente, e si in­ trecciano, con quelli caratterizzanti, e ordinati secondo categorie morali e comportamentali. Sul piano formale, dunque, le Vite di Cornelio Nepote come quelle, ben piu ampie e significative, del greco Plutarco, sembrano, nonostante tutto, piu vicine alla storia­ grafia; quelle di Svetonio parrebbero appartenere al genere « anti­ quario », con l'effetto ottico di tipologico appiattimento che ne ri­ sulta. Ma è proprio questa situazione che invita e quasi sfida a una nuova valutazione della storidtà della biografia. La storicità di uno scritto si misura, a nostro avviso, su due dati fondamentali, polari fra loro, e però inscindibili l'uno dall'altro: la ricerca di notizie at­ tendibili e/o documentate, e la loro proiezione su un piano piu ge­ nerale, che sia valido fondamento per una ricostruzione e valuta­ zione complessiva di una situazione o di un personaggio; insom­ ma, il particolare sicuro o attendibile, da un lato, e il quadro gene­ rale, reso verosimile dalla giusta disposizione e ponderazione dei 55. W. Steidle, Sueton und die antike Biographie, Miinchen, Beck, 1951, 19632; G. D'Anna, Le idee letterarie di Suetonio, Firenze, La Nuova Italia, 1954; F. Della Corte, Sve­ tonio eques romanus, Firenze, La Nuova Italia, 19672; G. Brugnoli, Studi Suetoniani, Lec­ ce, Milella, 1969;]. Gascou, Suéton Historien, Roma, École Française de Rome, 1984. 225

D OMENICO MUSTI

singoli dati, dall'altro. In questo senso, la storicità può essere diver­ sa dalla forma storiografica, se questa prevarica ai danni del parti­ colare, e impone una linea di sviluppo artificioso alla scelta e narra­ zione dei fatti richiamati all'attenzione del lettore; e può invece persino trovarsi piu adeguatamente nella frantumazione del mate­ riale biografico, quando quest'ultimo sia attendibile, e rivelatore di connessioni e contesti piu ampi. L'aspirazione oggi diffusa a una forma di storiografia documentaria suscita dunque legittimamente la riproposizione del confronto tra Tacito e Svetonio; e tuttavia ne può derivare solo un affinamento delle nostre nozioni di metodo storico, non il definitivo ribaltamento del giudizio sul valore stori­ co rispettivo dello storiografo e del biografo. Anche perché, in de­ finitiva, ci sono molti aspetti che assimilano il ruolo di Tacito e di Svetonio nel corso del pensiero storico romano: entrambi si gua­ dagnano e costruiscono un loro spazio letterario di tipo storico do­ po la fine di Domiziano, entrambi condividono giudizi negativi su una larga parte degli imperatori dell'epoca giulio-claudia e sull'ul­ timo dei Flavii; certo, piu positivo il quadro che si ricava su Cesare ed Augusto dalle vite svetoniane (per quella di Augusto d'altra par­ te, si pone il problema di una qualche dipendenza dalle Res gestae dell'imperatore medesimo, il che però già di per sé indica i limiti intrinseci, ai fini della definizione della « storicità » di uno scritto, dell'uso di materiale documentario: documentario non vuol dire immediatamente e necessariamente oggettivo, se il documento è costruito dall'autore stesso dei fatti documentati). Tacito, di origi­ ne senatoria e probabilmente urbana, e Svetonio, eques Romanus, condividono in definitiva le valutazioni correnti nell'ambiente se­ natorio (che sono poi quelle anche ammesse e perfino patrocinate dagli imperatori del nuovo corso post-domizianeo); anzi, l'adozio­ ne di categorie « opposte » fra loro, cioè quelle dei vizi e delle virru, consente al biografo di realizzare quella « obiettività » un po' ele­ mentare e meccanica, che nello storiografo tenta di esprimersi at­ traverso la complessa torsione di un giudizio analitico, il cui tono e la cui direzione di fondo traspaiono, a dispetto - per cosi dire - del­ la forma obiettiva scelta (la veridicità non coincide necessariamen­ te con la brevità o laconicità del dettato: si può mentire, o sbagliare, 226

IL PENSIERO STORICO ROMANO

con una frase breve, non meno che con una frase lunga; una lunga e tormentata frase può chiarire quanto può, invece, falsificare). In concreto, la storicità non è qualità che inerisca a una forma lettera­ ria determinata; e va individuata con i criteri sopra propost� caso per caso, nel materiale di tipo storico utilizzabile. Un altro tratto in qualche modo comune a Tacito e a Svetonio, come storici del primo secolo di vita dell'impero, è nella prevalenza quantitativa della parte relativa ai personaggi della dinastia giulio-claudia, rispetto a quelli del­ la transizione (68-69) e ai personaggi della dinastia flavia (69-96). Tacito lamentava, all'inizio delle Historiae {I 1) , la crisi della sto­ riografia (fiorente dum res populi Romani pari eloquentia ac libertate memorabantur) 56 dopo la battaglia di Azio e l'avvento dell'impero: postquam bellatum apud Actium atque omnem potentiam ad unum conferri pacis inteifuit, magna illa ingenia cessereY Ma, dopo Tacito e Svetonio si apre una nuova (e per tanti aspetti definitiva) fase di eclisse della storiografia romana. Alla nuova crisi vanno riconosciute e assegna­ te molte matrici, di ordine politico e culturale. In primo luogo, va ricordato che il terreno storico piu propizio al fiorire della storia­ grafia, è quello in cui la tensione delle idee, delle esperienze o addi­ rittura delle lotte politiche si coniughi con un minimo di condizio­ ni di libertà: ora, le condizioni storiche da Adriano, ma soprattutto da Antonino Pio a Marco Aurelio furono certo di maggiore armo­ nia tra potere imperiale, e potere del senato e di strati alti della so­ cietà romana, ma non certo di rinnovata e piena libertà, e neanche però di una tensione ideale che stimolasse una significativa ricerca storiografia, che a quella tensione desse spazio ed espressione, an­ che solo attraverso una riflessione condotta (in maniera indiretta 56. « Finché la storia del popolo romano veniva ricordata con pari eloquenza e li­ bertà ». 57. « Dopo che si combatté adAzio, e fu nell'interesse della pace che tutto il potere fosse trasferito nelle mani di uno solo, quei grandi ingegni scomparvero ». Tuttavia, lo stesso Tacito (ann. IV 34-35) esalta lafìgura di Cremuzio Cordo, autore di un'opera sto­ rica, che andava dalle guerre civili fìn forse agli inizi di Augusto, e che celebrava Bruto e Cassio: perseguitato da Tiberio, che ne fece bruciare l'opera, per un delitto di opi­ nione (opinione « storica »), che Tacito definisce novum ac tunc primum auditum crimen (« un crimine nuovo, udito allora per la prima volta »), si diede la morte per fame, nel 25 d.C. 227

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ed obliqua, su un passato considerato nettamente diverso dal pre­ sente. Gli imperatori « cattivi >> del passato erano stati ormai ogget­ to di storiografia e di biografia: quelli del presente erano « buoni », o comunque si doveva ormai considerarli tali. In secondo luogo, il II secolo d.C. appare come epoca favorevole piuttosto allo sviluppo dell'antiquaria, caratterizzata in questo pe­ riodo da uno spirito non solamente documentario, ma anche da un gusto arcaistico (per sé sempre proprio dell'antiquaria, ma in que­ st'epoca caratterizzato anche da una notevole selettività, rivolta al recupero, nell'antico, del pili antico, del raro e del prezioso). E que­ sta è caratteristica culturale non solo del mondo di lingua latina, ma anche della parte orientale dell'impero, anzi nella parte occidenta­ le si presenta come riflesso delle condizioni e istanze culturali delle regioni di lingua greca: ciò vale per lo stesso imperatore Adriano, come per l'Aula Gellio, autore delle erudite Noctes Atticae, che rap­ presentano l'esito culturale di un soggiorno di Gellio (II sec. d.C.) ad Atene.58 Si può verificare che questo è per la Grecia e l'oriente ellenistico un momento di relativa rifìoritura della storiografia, non senza la caratteristica antiquaria ed arcaistica ora rilevata. La Guida della Grecia di Pausania (un'occasione di tipo descrittivo ed antiquario per rivivere - in epitome - la storia dell'intera grecità) ne è significativa testimonianza: 59 ed essa riflette un giudizio posi­ tivo sull'impero di Adriano con cui, nella prima delle vite (almeno quelle conservate) della Historia Augusta, singolarmente contrasta un giudizio sull'imperatore ellenizzante, che contiene molto di negativo. Una rinascita arcaistica di altissimo valore è rappresenta­ ta non solo da gran parte della produzione di Plutarco, ma anche dalle opere di Flavio Arriano di Nicomedia (Bitinia). Il ritorno ad Alessandro Magno, anche se sulla scorta di tradizioni piu rigorose (quelle di Tolemeo e di Aristobulo) è pur sempre un recupero di 58. L. Gamberale, La traduzione in Cellio, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1969. Sulla sofistica greca dell'epoca, G.W. Bowersock, Greek Sophists in the Roman Empire, Ox­ ford, Clarendon Press, 1969; L. Cracco Ruggini, Soflstigreci nell'impero romano (a proposi­ to di un libro recente), in « Athenaeum », n.s. xux 1971, 402-25. 59. Pausania, Guida della Grecia. Libro l, a cura di D. Musti e L. Beschi, Milano, Mondadori (Fondazione L. Valla), 1982, pp. xxiv-xxvi, XLVIII sg.

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IL PEN S IE RO STORICO ROMANO

tipo arcaistico (anche Pausania è per noi fonte importante, seppure per alcuni aspetti discutibile e discussa, sull'Ellenismo, in particola­ re sul periodo dei Diadochi). Appiano di Alessandria si incarica di raccontare tanta parte della storia romana, in guerre civili e in con­ quiste esteme.60 In definitiva è come se, nel II sec. d.C., il bisogno di storia, nel complesso della cultura greco-romana, fosse soddisfatto soprattutto sul versante greco. E anche gli imperatori tra Marco Au­ relio (che aveva provveduto del resto per suo conto - e in greco - a scrivere un'autobiografia) e Massimino Trace, (la storia perciò che va dall'anno 181 all'anno 238), troveranno nel III secolo il loro stori­ co nel greco Erodiano.61 In tema di omaggio al passato e di recupe­ ri arcaistici di buon livello va ancora apprezzata l'opera di un An­ nio Floro, di difficile datazione, ma di possibile identificazione con l'autore di un dialogo Vergilius orator an poeta e con un corrispon­ dente di Adriano; lo scrittore a cui qui ci riferiamo è comunque l'autore di una epitome de Tito Livio del II sec. d.C., di un'epoca con cui il recupero arcaistico assume ormai spesso la forma dell'epito­ mazione, che può persino significare un momento di espansione della cultura, ma in forme scolastiche e riassuntive, che condanna­ no alla sparizione o mutilazione i piu lunghi (e piu difficili) testi originali. Traspare il problema della decadenza, tenuto ancora in termini liviani e polibiani: l'impero romano ha conosciuto l'infan­ tia con l'età monarchica, l'adulescentia per il periodo che giunge fino alla I punica, la iuventus nell'età che giunge fino ad Augusto, e ormai è nel periodo della senectus; ma il tono non è disperato, è solo lieve­ mente, cioè cautamente, preoccupato.62 9·

SviLUPPI E BILANCI

STORIOGRAFICI TARDO-ANTICHI

Tacito e Svetonio, negli eventi successivi della storiografia ro­ mana, hanno il loro seguito di attenzione ed imitazione. Per un'e­ satta valutazione del rapporto storico-culturale che sussiste tra i 6o. E. Gabba, Storici greci dell'impero romano da Augusto ai Severi, in « RSI », a. LXXI 1959. pp. 361-81. 61. Su Erodiano, cfr. D. Musti, Società antica, cit. a n. I, pp. 265-75. 62. Praifatio 4 sgg. Su Floro, cfr. sopra n. 40. 229

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due tipi di influenza, occorrerebbe preliminarmente aver risolto il problema, ormai secolare, della datazione delle biografie degli im­ peratori (da Adriano, II7-138, fino a Caro, Carino e Numeriano, 282-285 ) , che vanno sotto il nome di Historia Augusta, dato ad esse dal Casaubon. Le trenta biografie si presentano come opera di sei autori (Elio Sparziano, Giulio Capitolino, Vulcacio Gallicano, Elio Lampridio, Trebellio Pollione, Flavio Vopisco) e hanno apparen­ temente come destinatari in parte Diocleziano in parte Costantino. Ma, a cominciare da uno storico articolo di H. Dessau,63 la critica moderna ha revocato in dubbio l'autenticità sia dei nomi presunti degli autori, sia del contesto storico che il supposto unico falsario si è voluto dare. La cronologia ne fu fissata all'epoca dell'imperatore Giuliano (362-262) da N. Baynes in un libro del 1926, e successiva­ mente sospinta verso date ancor piu basse (fine IV, inizio V, perfi­ no VI sec. d.C.). Non è qui possibile discutere gli argomenti portati in favore di queste datazioni, né valutare il merito di ciascuna di es­ se. Va tuttavia segnalato, da un lato, quello che è il problema di maggiore portata per un profilo del pensiero storico romano, cioè il rapporto con l'opera di Ammiano Marcellino {se l'Historia Augu­ sta le è posteriore, è infatti particolarmente smaccata, data l'impor­ tanza dell'opera ammianea, la falsificazione che consiste nell'igno­ rarla); dall'altro lato, va rilevato almeno l'interesse che, per la rico­ struzione del profilo storico della storiografia romana tardo-impe­ riale, ha la sequenza di citazioni di scrittori latini e greci, fatte dal­ l'autore dell'Historia Augusta. 64 I 31 libri di Res gesta e di Ammiano 65 riguardavano il periodo che 63. H. Dessau, Uber Zeit und Personlichkeit der Scriptores historiae Augustae, in « H er­ mes », a. XXIV 1889, pp. 337-392; Id., Uber die Scriptores historiae Augustae, ibid., a. XXVII 1892, pp. 561- 6os; Id., Die Uberliiferung der Scriptores historiae Augustae, ibid., a. XXIX 1894, pp. 393-416. 64. Sul problema, N. Baynes, The Historia Augusta. Its Date and Purpose, Oxford, Clarendon Press, 1926; Historia Augusta Colloquia, a cura di J. Straub e A. Alfoldy, 12 voli., Bonn, R. Habelt Verlag, 1964-1987; S. Mazzarino, Ilpensiero storico classico II 2, cit. a n. 4, pp. 214-4 7; R. Syme, Emperors and Biography. Studies in the Historia Augusta. Oxford, Clarendon Press, 1971; T.D. Barnes, The Sources ofthe Historia Augusta, Bruxelles, Col­ lection Latomus 155, 1978. 65. G.B. Pighi, Studia Ammianea, Milano, Vita e Pensiero, 1935; Id., Nuovi studi am­ mianei, Milano, Vita e Pensiero, 1936; S. D'Elia, Ammiano Marcellino e il Cristianesimo, in « Stud Rom », a. x 1962, pp. 372-90.

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IL PENSIERO STORICO RO MANO

va da Nerva a Valentiniano I (375) e Valente (378) , fino alla batta­ glia di Adrianopoli (Edirne) in Tracia (378) , in cui trovò la morte l'imperatore Valente, combattendo contro i Goti: noi ne conser­ viamo però solo i libri dal XIV al XXXI, sugli anni 353-378. L'opera era probabilmente destinata, in un primo programma compositivo, a chiudersi con il libro xxv e la morte di Giuliano l'Apostata (363), il quale costituisce evidentemente il punto di riferimento biografico e ideologico piu forte per Ammiano e per la sua attività storiografi­ ca. Cominciando da Nerva, egli si ricollegava insieme alle Historiae di Tacito e alle biografie di Suetonio, che in Domiziano avevano avuto il loro punto di arrivo. Noi non sappiamo, quanto a campo d'osservazione storica, se la Historia Augusta avesse la stessa esten­ sione dell'opera ammianea, se cioè cominciasse con le vite di Ner­ va e Traiano: allo stato delle cose, cioè della tradizione manoscrit­ ta, la serie delle biografie è tuttavia aperta da quella di Adriano (mancano poi quelle degli anni 244-253). Quand'anche non ci fosse un aggancio cosi diretto - nello spirito, si direbbe, del >,2 ma era ancora la teoria I. Su questa questione si vedano le fondamentali pagine di E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, trad. it., Torino, Einaudi, I964 >, I pp. 36-57, e Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, trad. it., Milano, Feltrinelli, I960, pp. 42 sgg. e passim. 2. Nel trattato sulla commedia premesso al commento donatiano a Terenzio e risa­ lente in tutto o in parte al grammatico Evanzio (IV sec. d.C.) si legge (in Donato, Ter., ed. P. Wessner, Leipzig, Teubner, I902 [ed. ster. Stuttgart, Teubner, I962], p. 22 I9 sg.) comoediam esse Cicero ait imitationem vitae, speculum consuetudinis, imaginem veritatis, e (ibid., p. 23 I4) aitque esse comoediam cotidianae vitae speculum. Cfr. Cicerone, S. Rose. 47 (a proposito della commedia}: ut ejjìctos nostros mores in alienis personis expressamque imagi­ nem vitae cotidianae videremus. Immagini affini erano largamente presenti nella trattati­ stica greca: cfr. i numerosi passi citati da F. Marx nel suo commento (Leipzig, Teub­ ner, I905, rist. Amsterdam, Hakkert, I963) al fr. 1029 di Lucilio, in cui la materia della commedia è definita ea quae speciem vitae esse putamus. Cfr. anche la famosa frase di Ari­ stofane di Bisanzio (in Siriano, in Hermog., ed. Rabe, Leipzig, Teubner, I893, vol. 11 p. 23 IO sgg. « O Menandro, o vita, chi di voi due ha imitato l'altro? »; cfr. anche Quintiliano, x I 69) . Era comune nella trattatistica antica il riferimento alla dimensione « privata » come caratteristica della commedia: cfr. specialmente Diomede, in Grammatici Latini, ed. H. Keil, Leipzig, Teubner, I855 (rist. Hildesheim, Olms, I96I) , I p. 488 3 sgg. (pro­ babilmente da Teofrasto). Altrettanto comune era il concetto che la commedia do3II

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letteraria ellenistica (ripresa da Cicerone e Orazio) a mettere in dubbio se un genere cosi vicino, per contenuto e linguaggio, all'e­ sperienza comune, potesse essere considerato davvero poesia,3 mentre paradigma di altezza e pienezza poetica era la tragedia, di cui si sentiva, anche a livello teorico, la distanza dalla vita.4 È signifi­ cativo della radicalità che potevano assumere queste distinzioni il fatto che Aristotele, nella Poetica (1448 b 25 sgg.) còlloca inno ed en­ cornio, e poi epica e tragedia da un lato; invettiva, e poi giambo e commedia dall'altro, come le forme essenziali in cui si manifesta una distinzione primaria della poesia: quella secondo cui « gli auto­ ri di animo piu nobile imitarono le azioni pregevoli e quelle com­ piute da persone pregevoli, mentre quelli piu volgari imitarono quelle della gente dappoco » (salvo che Aristotele considera lo stes­ so Omero iniziatore di entrambe le forme, con l'Iliade e l' Odissea da un lato e con il Margite dall'altro lato). A Roma il bisogno di uno spazio letterario per l'interpretazione del quotidiano e per l'attualità trovò solo parziale soddisfacimento nel teatro comico, genere che già in Grecia si era presto staccato dall'attualità politica e sociale, diventando « specchio della vita » in senso generale, in quanto rappresentazione di caratteri tipici e di situazioni tipiche, e che sulle scene romane si sviluppava piuttosto nel senso di una libera inventiva comica in cui l'interesse realistico e l'attualità non erano certo elementi preminenti. L'esigenza di forme diverse di approccio artistico all'esperienza diretta della vita sociale, di forme che, al di là della impersonalità della commedia, consentissero un diretto confronto della persona del poeta con il suo ambiente e con la società e la cultura del suo tempo, ha portato vesse avere, in conformità col contenuto quotidiano, linguaggio semplice, non eleva­ to: cfr. ad es. Aristotele, rhet. m 7 (qo8 b 12 sgg.) . 3· Cfr. Cicerone, orat. 67; Orazio, sat. I 4 45 sgg. La questione era stata posta nella trattatistica greca ed era, probabilmente, di origine peripatetica. Cfr. Schol. Hephaest. 115 13 e Strabone, I 18, citati da W. Kroll nel suo commento (Berlin, Weidmann, 1913; rist. Ziirich-Berlin, Weidmann, 1964) al passo citato dell'Orator ciceroniano, e cfr. C.O. Brink, Horace on Poetry. Prolegomena to the Literary Epistles, Cambridge, Univ. Press, 1963, pp. 162 sgg. 4· Nel trattato Sul sublime (m 1) la tragedia è contrapposta ai « discorsi su fatti veri » (Àoyotç aÀT]6tvo1ç) . Cfr. anche il passo di Strabone cit. nella nota precedente. 312

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ad alcuni sporadici recuperi della poesia giambica, ma soprattutto ha determinato la nascita, già nelle fasi iniziali dello sviluppo della letteratura latina, di un genere letterario nuovo e originale - la sati­ ra - e ha indotto in età successiva a dare un assetto sostanzialmente nuovo a un altro genere, l'epigramma, che ha assorbito anche ele­ menti della tradizione giambica. Sia la satira che l'epigramma « realistico » di Marziale esibiscono apertamente, talora provocatoriamente, il loro carattere di generi « minori », contrapponendo la loro per la commedia:5 un genere che, se non fosse per la successione regolare dei piedi, sarebbe da considerare prosa 5·

Cfr. sopra, n. 3·

3 13

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pura e semplice (sermo merus: v. 48). La formula Musa pedestris, con cui Orazio definisce una volta le sue saturae (sat. II 6 17) , indica lin­ guaggio vicino a quello dell'uso corrente e trova corrispondenza in un'espressione altrove usata proprio a proposito del modo espres­ sivo caratteristico della commedia: sermo pedester (ars 95) ; anche l'e­ spressione sermones repentes per humum (« che strisciano per terra »), con cui Orazio, in epist. II I 250 sg., si riferisce alle sue satire ed epi­ stole, trova corrispondenza in humilis sermo di ars 229 a proposito di un linguaggio teatrale basso. Ma pedester come il corrispondente aggettivo greco m:(6ç aveva anche il senso di « prosastico », per cui Musa pedestris ha quasi il valore ossimorico di « poesia prosastica », che ancora una volta ci riporta all'analogia con la questione del­ l'impoeticità della commedia. Un valore ossimorico che ad Orazio è stato suggerito da Callimaco, il quale nell'epilogo degli Aitia an­ nunciava la poesia « minore », > probabilmente voleva corrispondere all'atteggiamento di drastica rottura rispetto alle convenzioni che veniva proposto at­ traverso il riferimento programmatico al cinismo di Menippo. Ma in Varrone si riconosce chiaramente una situazione che abbiamo già intravista in Lucilio, e che è in realtà ricorrente in tutta la tradi­ zione satirica: l'assunzione di una posizione di alternativa, o anche di rottura, rispetto alle forme poetiche convenzionali non com­ porta anche una proposta morale o ideologica innovativa o rivolu­ zionaria, ma anzi si accompagna di norma al riferimento a una sa­ nità e a un buon senso tradizionali (in realtà mediati dalla filosofia morale) che trovano sostegno e conveniente modalità di espressio­ ne proprio in quella saggezza popolare e in quella pretesa di infor­ malità e rudezza espressiva che pone la satira in opposizione alle forme poetiche convenzionali. Quanto a Varrone, il suo « ci­ nismo » è un atteggiamento di drasticità e mordacità, di razionali­ smo estremistico nella critica delle aberrazioni del costume, ma non comporta l'assunzione dei contenuti di fondo, nichilisti e aso­ ciali, del cinismo: Varrone propone anzi un richiamo alla moralità tradizionale romana, da lui venerata, e affida la propria opera « in eredità >> a coloro che vogliono lo sviluppo della grandezza di Ro­ ma (542 B.). E, analogamente, l'ostentata irregolarità formale e tut­ ta la rete di parodie letterarie che riusciamo a intravedere nei fram­ menti non vanno intese come una rivolta contro le convenzioni letterarie, impensabile nel grande erudito, ma anzi rivelano facil­ mente, soprattutto nel virtuosismo della varietà metrica, un gusto per la dimensione tecnica della composizione e per lo sperimenta­ lismo letterario che fa pensare ai poeti neoterici. La commistione del momento realistico e del momento fanta­ stico era già una caratteristica di Menippo: Varrone riprende que.

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sta modalità non senza un certo gusto per coloriti aristofaneschi, dando cosf spazio, nella tradizione satirica, alla dimensione del grottesco, di cui in Lucilio vi erano del resto già almeno gli spunti. E il grottesco nell' Apocolocyntosis di Seneca {e talvolta ancora nella letteratura rinascimentale e moderna) ritrova come forma privile­ giata di espressione la mescolanza « menippea » di prosa e versi, che può essa stessa essere concepita come un grottesco formale. Venature di grottesco e l'ambigua sospensione tra momento reali­ stico e momento fantastico troveranno una fascinosa e inquietante espressione ancora in un'opera « menippea » che sconfina però lar­ gamente dai limiti del genere satirico: il « romanzo » di Petro­ mo. Orazio, muovendo da Lucilio, percorre una strada opposta a quella di Varrone menippeo e porta la satira verso la maggiore re­ golarità e ordine formale che conserverà in Persio e Giovenale. Orazio appartiene a una generazione di poeti che ha assorbito pro­ fondamente l'esperienza del neoterismo e che, se da un lato si pro­ pone di superarne le chiusure estetizzanti e il soggettivismo trop­ po spinto, non intende d'altra parte lasciar cadere quella grande le­ zione di eleganza e nitore formale. « Satira » nitida ed elegante è un ossimoro: la satira oraziana realizza appunto questo ossimoro nel senso che riesce a conciliare la dimensione « satirica » dell' {appa­ rente) informalità e casualità, del senso vivo della quotidianità, con un rigoroso e raffinato esercizio di stile. Con Orazio la satira ab­ bandona per la prima volta il linguaggio comico caricaturale di tipo plautino, con i suoi effetti verbali vistosi e deformanti, e crea, ripor­ tandosi se mai al modello terenziano, un linguaggio poetico « me­ dio », diversamente e forse piti autenticamente « realistico » : in esso la dimensione della naturalezza colloquiale è infatti conservata piti fedelmente, anche se il lessico corrente e le strutture sintattiche colloquiali, pur largamente presenti, sono selezionate severamen­ te per conformarsi a un ideale molto esigente di conversazione « urbana » duttile e vivace, disinvolta e ironica, ma sempre molto composta e tersa e nella quale un'arte rigorosa esclude tutto ciò che la lingua dell'uso ha di generico e amorfo, attingendo una straordi­ naria densità. Anche l'articolazione del discorso si presenta con la 3 29

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casualità della conversazione, ma è sempre sapientemente control­ lata. Questo linguaggio che aderisce con naturalezza all'esperienza quotidiana sapendo rinunciare alla forzatura comica, è il linguag­ gio attraverso cui nel sermo della satira e soprattutto, in seguito, nel piu pacato sermo delle Epistole trova spazio l'espressione seria del­ l'intimità. Varrone, col richiamo a Menippo, aveva posto le sue satire sotto l'insegna della filosofia diatribica e, in conformità con la tradizione diatribica, aveva assunto una dimensione di divulgazione filosofica dilettevole presso i minus docti {Cicerone, ac. 1 8): una dimensione cui era funzionale la ricchezza di effetti vistosi e la molteplicità di invenzioni e di forme {anche se è difficile pensare a un pubblico davvero largo e poco colto per un'opera cosi infarcita di riferimenti culturali e con tanta presenza del greco). La composta forma della satira oraziana risponde invece alla sua dimensione piu intima e ri­ servata. Già in Lucilio la satira aveva avuto come punto di riferi­ mento la cerchia delle relazioni private del poeta, anche se si apriva in realtà, come intervento di giudizio e di denuncia, su tutta l'attua­ lità contemporanea. Orazio dichiara apertamente la dimensione privata ed elitaria della sua ricerca poetica e morale, che aspira al successo solo presso coloro che sapranno comprendere un'arte colta e raffinata e un senso sottile e delicato dei rapporti sociali. In Orazio il satirico si interroga sulle ragioni del comportamento so­ ciale e lo giudica sulla base di una saggezza che si presenta come elaborazione personale del poeta, condotta su elementi dati dalla sua esperienza biografica {la morale tradizionale assimilata attra­ verso l'insegnamento paterno e tramite la personale conoscenza della civiltà contadina italica) e dalla sua esperienza culturale {gli studi di filosofia). Una saggezza che trova la sua realizzazione e­ semplare nella vita del satirico stesso e in una cerchia di suoi amici in cui i valori di moderazione, buon senso, equilibrio, socialità, che egli professa, sono condivisi e praticati. Ma in quanto il giudizio morale si presenta come frutto di un'e­ laborazione personale rapportata all'esperienza di vita di un uomo inquieto, problematico, disposto all'autoironia, di un uomo che sente l'attrazione per una disciplina morale rigorosa, ma che 33 0

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vuole vivere e proporre una morale ragionevole e conciliante,21 la satira oraziana non solo non conosce le asprezze della polemica lu­ ciliana, ma adegua sempre valutazione e giudizio alle circostanze e il « satirico » si mostra perfino disposto a mettere in discussione la sua titolarità al ruolo di giudice: mi riferisco ad alcune satire del n libro, nel quale Orazio adotta largamente la forma del dialogo e dà talvolta la parola ai rappresentanti di punti di vista diversi dal suo (anche a rappresentanti del rigorismo morale stoico-diatribico da lui solitamente condannato) e pur evidenziando la distanza tra le loro parole e la sua posizione, si lascia mettere in difficoltà e non sempre sa confutare adeguatamente le loro ragioni.22 La satira di Orazio descrive e giudica la società da un punto di vista sostanzial­ mente saldo, ma non rigidamente univoco: la satira è uno spazio aperto di comprensione del comportamento umano che si fonda sulla comprensione di se stessi e avrà come sbocco la piu assorta ar­ te delle Epistole in cui la penetrante introspezione in se stesso, l'a­ spirazione a una piena realizzazione morale e la disponibilità alla comprensione del comportamento umano si confrontano sistema­ ticamente, attraverso il dialogo amichevole con i destinatari, con la varietà delle occasioni poste dalla convivenza sociale. N ella satira di Persio il difficile equilibrio oraziano tra informali­ tà satirica e controllo stilistico si è spezzato: quel prodigio di arte che nasconde se stessa non si rinnova. Anzi, la tensione tra i due momenti viene vistosamente allo scoperto e costituisce una moda­ lità caratterizzante della satira di Persio: il satirico si propone un'a­ sprezza disadorna che vuol essere un rifiuto di tutte le falsificanti bellezze della letteratura convenzionale e una adesione alla cruda 21. Le implicazioni di questa tensione sono state enucleate magistralmente da A. La Penna, Orazio e la morale mondana europea, saggio introduttivo a Orazio, Tutte le opere, vers., introd. e note di E. Cetrangolo, Firenze, Sansoni, 1968, pp. XLIV sgg. e CXXXIX sgg. 22. Su questo problematico aspetto del u libro, approfondimenti interessanti in W.S. Anderson, The Roman Socrates: Horace and His Sa tires, in AA.W., Criticai Essays on Roman Literature, u: Satire, ed. by J.P. Sullivan, London, Routledge and Kegan Pau!, 1963, pp. 1 sgg. (rist. in W.S. Anderson, Essays on Roman Satire, Princeton, Univ. Press, 1982, pp. 13 sgg.); N. Rudd, The Satires oJHorace, Cambridge, Univ. Press, 1966 (forse il miglior studio complessivo sulle satire di Orazio), pp. 160 sgg.; M. Labate, La satira di Orazio: morfologia di un genere inquieto, introd. a Orazio, Satire, Milano, Rizzoli, 1981, pp. 23 sgg. 33I

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deformità del reale quotidiano. Ma appunto perché il linguaggio poetico convenzionale della letteratura contemporanea è incapace di cogliere la verità del costume ed è anzi esso stesso uno degli aspetti della depravazione dei tempi, Persia si trova impegnato nella difficile operazione letteraria della costruzione di un suo stile originale in cui recupera certe durezze plebee della tradizione sati­ rica che il sermo oraziano aveva rifiutate, inserendole però in un gioco difficile e tormentato di scavo nelle possibilità espressive del linguaggio.23 Pur di ottenere dal linguaggio l'adesione all'intima perversità del reale, Persio non teme la difficoltà e l'oscurità, e nella satira programmatica si dichiara provocatoriamente pronto all'e­ ventualità di non avere lettori. Persia del resto sa che quanto ardua e severa è la forma delle sue satire, altrettanto arduo e severo ne è il contenuto. Il giudizio del satirico non si fonda piu su una generica moralità tradizionale riorganizzata attraverso un'assunzione libera ed eclettica del patrimonio della filosofia morale greca, ma sull'a­ dozione di una precisa posizione filosofica: quella di uno stoicismo rigido e senza compromessi. Anche le satire di Persio (e le notizie biografiche) configurano la dimensione di una cerchia che è in sintonia con le scelte del poeta: ma è una cerchia (riferibile agli ambienti dell'opposizione stoica) che non ha per Persia la funzione di tramite tra la sua individualità e la comprensione della società; anzi è una cerchia in cui egli vede condiviso e confortato il suo atteggiamento di estraneità al mondo contemporaneo. Con Persia la persona del « satirico » assume una dimensione nuova che, esaltata da Giovenale, sarà continuata nella satira moderna: la dimensione dell'isolamento dalla società che egli ritrae e giudica. Già in Persia, ma soprattutto in Giovenale, nei cui primi libri la dimensione della cerchia scompare quasi del tut­ to, la satira non si configura piu come lo spazio di ricerca di una ra­ gionevole norma di comportamento entro una certa dimensione 23. Queste tensioni nello stile e nella poetica di Persio sono state fatte oggetto di acute analisi specialmente da J.C. Bramble, Persius and the Programmatic Satire. A Study in Form and Imagery, Cambridge, Univ. Press, 1974, e F. Bellandi, Persia: dai "verba togae" al solipsismo stilistico, Bologna, Pàtron, 1988. Cfr. anche A. La Penna, Persia e le vie nuove della Satira latina, saggio introduttivo a Persio, Satire, Milano, Rizzoli, 1979. 332

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di rapporti sociali, ma come una voce che detiene la verità e che contrappone la sua verità a un mondo radicalmente corrotto. Ten­ de a venir meno anche il riferimento della posizione del satirico a esperienze biografiche personali: esigua in Persio, l'autobiografia è pressoché scomparsa in Giovenale. La motivazione che spinge il satirico a parlare non ha altro carattere individuale che la sua inca­ pacità caratteriale di tacere la verità di cui si sente il detentore. Egli non può fare a meno di parlare (Persio, I 12; Giovenale, I 79) ; il suo messaggio di verità non può non essere rivelato, indipendente­ mente dall'esistenza di un uditorio. La satira imperiale assume la dimensione della predicazione, specialmente in Giovenale, ove si atteggia in forme propriamente declamatorie, ma ha perso in realtà ogni fiducia in un miglioramento dell'umanità: perciò la predica­ zione non va verso un uditorio, ma è una sfida verso il vuoto che sente intorno a sé. La società imperiale, con i profondi mutamenti nel costume e con il nuovo quadro di valori instaurato dopo la can­ cellazione dell'ordinamento repubblicano, è troppo lontana dalla morale tradizionale romana su cui la satira, come del resto tutta la tradizione moralistica latina, continua a fondare il suo giudizio sul­ la società. Il satirico non dispone di una base di comprensione che sia in sintonia con la realtà e si isola nella sua ostilità. Il realismo della satira, che con Orazio si era distaccato dalla deformazione co­ mico-caricaturale, tende, nella satira imperiale, a una deformazio­ ne nella direzione del mostruoso e del sinistro. Il satirico insiste sulle perversioni del comportamento, sullo stato morboso della so­ cietà, con una sorta di ossessivo compiacimento che ha esso stesso delle venature morbose e che getta sulle sue rappresentazioni della società colori lividi e talvolta quasi surreali. La varietà della satira, già molto ridotta in Orazio, è ulterior­ mente limitata in Persio e Giovenale: non vi è piti spazio per l'au­ tobiografia, né per i piacevoli mimi urbani. La satira è solo osserva­ zione e giudizio morale del comportamento sociale. La satira si mantiene ancora fedele al principio della varietà, nel quale origina­ riamente si esprimeva massimamente la sua « informalità », solo in quanto oggetto dei componimenti satirici (tra loro alquanto omo­ genei) è la varietà dei comportamenti umani (Giovenale, I 8I-86) . 333

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N elle sue ultime satire (dalla decima in p o� e in parte già nell'ot­ tava) Giovenale si riavvicina in qualche misura ai modi oraziani, in quanto reintroduce forme di dialogo con dedicatari e in quanto una piu distaccata valutazione del costume tende a sostituire in qualche misura la tensione aggressiva. Questa nuova maniera gio­ venaliana, in cui la censura del comportamento aberrante lascia qualche spazio alla raccomandazione positiva del comportamento da adottare, non va probabilmente interpretata come un'apertura ottimistica, ma come una disillusa stanchezza in cui viene meno la base di vigoroso convincimento morale su cui si sosteneva la ten­ sione dell'in dign a tio e si fa avanti uno scetticismo anche piu ama­ ro.24 Ad ogni modo è soprattutto la prima maniera giovenaliana che ha fissato una tipologia di satira « indignata » e una immagine del « satirico » come campione solitario della verità di fronte a un mondo corrotto, destinate a restare come punto di riferimento fondamentale per la tradizione satirica moderna. La dimensione « pedestre » era stata assunta dalla satira come condizione per poter accedere al reale quotidiano, alla sua dimen­ sione umile che la poesia alta non poteva accogliere, e ogni poeta satirico aveva svolto una propria elaborazione artistica entro que­ sto presupposto formale. A Giovenale, alla sua persona satirica indi­ gnata, tesa nella denuncia, la dimensione umile non basta piu: non basta piu perché il reale quotidiano ha perduto la sua dimensione amichevole, familiare e ha acquistato una dimensione ostile, mo­ struosa. Rappresentarlo in modo adeguato richiede dunque l'ado24. L'interpretazione e la valutazione di questa « seconda maniera » giovenaliana e del rapporto con la « prima maniera » è problema difficile e aperto. Si è parlato di un'e­ voluzione « ottimistica » di Giovenale, dovuta a una nuova fiducia in un imperatore come Adriano: cfr. G. Highet,Juvenal the Satirist, Oxford, Clarendon Press, 1954; W.S. Anderson, The Programs ofjuvenal's Later Books, in « CPh », a. LVII 1962, pp. 145 sgg. (rist. in Essays on Roman Satire, cit., pp. 277 sgg.) . Lo stesso Anderson, nel successivo saggio Anger in Juvenal and Seneca, in « California Publ. in Class. Philol. », a. XIX 1964, pp. 127 sgg. (rist. in Essays on Roman Satire, cit., pp. 293 sgg.) , considera le due « maniere >> come due personae entrambe convenzionali, assunte da Giovenale per contrapporre due modi diversi di reagire all'osservazione del costume. Un'analisi penetrante, cui so­ stanzialmente qui mi attengo, del significato di questa evoluzione della satira di Gio­ venale, in F. Bellandi, Giovenale e la degradazione della clientela (interpretazione della sat. VII}, in « D Arch », vm 1974-1975, pp. 384 sgg., e Etica diatribica eprotesta sociale nelle satire di Giovenale, Bologna, Pàtron, 1980.

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MUSA PEDESTRE zione dei modi espressivi propri di quel genere letterario che tipi­ camente rappresentava i monstra, che per questo era sentito come lontano dalla vita e in opposizione al quale la satira si poneva, a fianco della commedia, come genere vicino alla vita. Portato dalla forza stessa del suo tema - una realtà che ha raggiunto l'orrore dei monstra tragici - Giovenale sente la sua satira assumere la sostenu­ tezza della tragedia {6 634 sgg.). Naturalmente la lingua satirica di Giovenale non assomiglia alla lingua della tragedia: è ricca di lessi­ co colloquiale e di modi del linguaggio corrente, come richiede la tradizione satirica e la tematica trattata. Ma questa qualità « satiri­ ca » non impedisce alla lingua di Giovenale di tenersi ad un elevato livello di pathos: un singolare pathos sarcastico costruito con un abile dominio della strumentazione retorico-declamatoria. Giove­ nale, alla conclusione della storia della satira classica, scopre, in questo senso di isolamento del satirico davanti alla deformità del reale, la serietà tragica che compete alla rappresentazione del quo­ tidiano e la capacità del linguaggio satirico di esprimere questa tra­ gicità. Ma è una tragicità che il quotidiano assume «per assurdo »: non per le sue qualità proprie di quotidiano familiare, con le sue in­ time tragedie che la letteratura alta non conosce, ma proprio per­ ché tradisce queste qualità, distorcendole nella dimensione del mostruoso. Una dimensione in cui lo slancio emotivo del satirico indignato colloca una realtà che è sfuggita ai suoi parametri di comprensione morale e della quale la sua sensibilità esasperata sa invece cogliere con esaltata acutezza di percezione i risvolti urtanti e paradossali. 5· GIAMBO ED EPIGRAMMA Il genere poetico umile per eccellenza della letteratura greca, il giambo, non ha avuto un'importante continuità nella letteratura latina come genere autonomo. La raccolta oraziana di giambi {gli Epodi, del resto molto vari per toni e temi) rientra solo in parte in un quadro di « Musa pedestre >> : Orazio intende riproporre la ag­ gressività, i toni accesi, la tensione vibrante del giambo archilocheo e in alcuni casi {quasi solamente in certi carmi erotici) non evita un 335

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linguaggio crudo e si concede qualche termine osceno. Ma questa poesia né ha, né vuol far mostra di avere, tono dimesso o, per cosi dire, prosaico. La carica aggressiva e passionale, autentica o costrui­ ta che essa sia, sostiene per lo piti gli epodi oraziani a un livello di tensione lirica che non vuole essere di molto inferiore a quello del­ le odi e che si esprime in un linguaggio di scoperta, elaborata lette­ rarietà, che ha fatto anzi spesso dubitare della genuinità di quella tensione. Una dimensione di immediatezza e naturalezza colloquiale è invece quella dei carmi giambici di Catullo, che recuperano anche forme popolari di aggressività verbale e modi dei versi popolari di scherno e di invettiva. Ma questi caratteri non sono propri dei soli carmi giambici della raccolta catulliana: essi attraversano in realtà tutta la sua poesia « minore », al di là delle pur importanti differen­ ze di linguaggio e di modalità compositive che si possono identifi­ care tra i polimetri e gli epigrammi in distici 25 e, all'interno dei po­ limetri, tra i carmi in metri giambici e i carmi in metri lirici. Nella poesia di Catullo la presenza incisiva della quotidianità ha ragioni del tutto diverse rispetto alla tradizione della satira: non si tratta di un interesse artistico per la comprensione e la rappresentazione della società, ma del bisogno di trovare spazio di rappresentazione letteraria - anche in questo caso entro forme tipicamente « mino­ ri » - per la vita privata individuale del poeta. E ciò non significa trovare spazio di rappresentazione soltanto al suo mondo senti­ mentale, ma anche agli aspetti comuni e banali della sua vita di re­ lazione, a qualunque aneddoto, episodio, personaggio, che non dovrà mai essere considerato troppo insignificante se ha avuto la capacità di mettere in moto l'estro del poeta. L'affermazione dei diritti del quotidiano individuale del poeta ha, in Catullo, uno slan­ cio provocatorio che lo porta a comporre carmi su « inezie » come una battuta salace, un'impressione di gioia o di irritazione colta nel vivo dell'occasione che l'ha suscitata. E il poeta raffinato ed esigen25. Cfr. A. La Penna, Problemi di stile catulliano, in « Maia )), a. vm 1956, pp. 141 sgg., e spec. D.O. Ross Jr., Style and Tradition in Catullus, Cambridge Mass., Harvard Univ. Press, 1969, nei quali si trova citata e discussa la bibliografia anteriore.

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te si compiace di usare espressioni drastiche e colorite, ed anche lo­ cuzioni che rinviano al turpiloquio quotidiano. L'espressione dra­ stica, il frequente ricorso alla dimensione della sessualità nell'insul­ to e nell'invettiva, il racconto breve e incisivo di un episodio, sono elementi che, pur svolti con piena aderenza all'uso linguistico cor­ rente, si possono ricondurre alla tradizione letteraria giambica (in­ dipendentemente dal fatto che ricorrano, in Catullo, in carmi in metro giambico o in carmi in metro diverso). Ma il senso diretto dell'esperienza nella pagina e la naturalezza di un linguaggio arti­ stico che si tiene sempre in contatto vivo con l'uso linguistico cor­ rente, la naturalezza e la concretezza dell'immagine e dell'espres­ sione nel bozzetto comico-realistico e nell'invettiva si riconduco­ no alla stessa matrice della naturalezza e concretezza con cui Ca­ tullo esprime amore, odio, gelosia, affetti familiari: si riconducono cioè a un atteggiamento proprio della personalità di Catullo, a una sua personale ricerca artistica che è debitrice a Saffo, alla lirica ar­ caica, allo studio dei sentimenti e al tenue realismo della lirica e dell'epigramma ellenistico non meno che ad Archiloco e alla tradì­ zione giambica. Ed è la ricerca artistica di Catullo e dei poeti della sua cerchia che determina il superamento delle modalità artefatte e pesanti della lingua poetica arcaica e tende a un nuovo linguaggio poetico che concilii eleganza e naturalezza. Per questa via Catullo arriva a creare nella poesia latina un linguaggio piano e naturale, non necessariamente caricaturale, del quotidiano « umile » e inti­ mo, ponendo cosi le condizioni che porteranno all'abbandono del linguaggio caricaturale « plautino » nella satira, da parte di Orazio. Ed è importante notare che in Catullo, a differenza che in Orazio, espressione drastica, linguaggio basso e anche gergale-osceno, non ricorrono solo nei carmi di tema giocoso o nelle invettive di ag­ gressività giambica, ma, qualche volta, anche in carmi che espri­ mono le lacerazioni sofferte dal suo sentimento d'amore: in Catul­ lo il linguaggio colloquiale « basso » può esprimere, eccezional­ mente, la tragicità di un'esperienza individuale quotidiana.26 È, 26. L'idea che la poesia minore catulliana arrivi talvolta ad attingere una sorta di « realismo tragico » (un caso esemplare potrebbe essere il c. 58) è di A. La Penna.

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questa, una possibilità che resterà limitata alla poesia catulliana « minore » e troverà solo una continuazione assai moderata nella successiva poesia d'amore lirica ed elegiaca. Nella tarda età repubblicana e nell'età imperiale vi era una note­ vole circolazione di poesia « minore » dilettantesca o poco piti che dilettantesca, prodotta e consumata nell'attualità: versi di polemica politica e personale, scherzi e motteggi, versi licenziosi e pomo­ grafici. Ne abbiamo sporadici resti in testimonianze letterarie o in epigrafi e ne conserviamo talora versioni di considerevole dignità tecnico-letteraria, come nel caso della raccolta dei Priapea in cui una tradizione di poesia licenziosa, trattata a volte anche da poeti illustri greci e latini, è svolta con marcata accentuazione dell'aspet­ to pornografico. La rilevanza e la diffusione di questo tipo di poesia di consumo ci è testimoniata anche da poeti come Orazio e Mar­ ziale, proprio in quanto essi si preoccupano di distinguere le loro opere rispettivamente dalla poesia di pura aggressione polemica e dalla produzione dilettantesca di versi diffamatorii o licenziosi. Anche se Marziale può aver concesso qualcosa a esigenze di consumo letterario poco qualificato indulgendo qua e là alla face­ zia o all'oscenità {cosi come, su un altro piano, ha concesso parec­ chio alla celebrazione e all'omaggio occasionale per i suoi protet­ tori), la sua opera ha in realtà realizzato ambizioni artistiche di ben diversa altezza. La scelta di questo genere tipicamente minore, adatto a un consumo nell'attualità occasionale, è in primo luogo, per Marziale, la scelta di un genere vario, aperto, duttile, capace di aprirsi a diversi aspetti e tematiche e di conformarsi alle esigenze di diversi tipi di lettori. Se per una parte notevole della sua opera l'e­ pigramma assume carattere cerimoniale-decorativo in rapporto a determinate occasioni di omaggio; se per un'altra parte la forma minore in Marziale è, come in Catullo {ma con ben minore inten­ sità e ricchezza) spazio di espressione « autobiografica » delle espe­ rienze e dei sentimenti del poeta in una forma letteraria « media », di contenuta eleganza, per una piti larga parte la scelta della forma minore è, come nella satira, la scelta di una forma che consenta l'ac­ cesso alla rappresentazione della realtà nei suoi aspetti comuni, quotidiani, ed anche bassi e sordidi. A differenza che nella tradizio-

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ne satirica, nell'epigramma comico-realistico di Marziale l'interes­ se non è però rivolto all'analisi e alla valutazione morale del com­ portamento, bensf in primo luogo alla sua rappresentazione in quanto tale. La forza attiva che sentiamo operare in questa poesia è il gusto nel ritrarre la realtà quotidiana, il piacere di scoprire gli aspetti curiosi, contraddittori, ed anche spregevoli, del suo funzio­ namento. È un tipo di realismo che trova dei precedenti in certi quadri mimici di Catullo (che sono però sempre fortemente legati all'esperienza emotiva dell'io del poeta) e nei mimi satirici oraziani (in cui a volte il giudizio morale sul comportamento rappresenta­ to, per quanto sia ben chiaro, resta implicito) e che certo doveva trovare notevoli precedenti nella tradizione dell'epigramma, ma che probabilmente non ha mai avuto una applicazione cosi siste­ matica prima di Marziale e che potrebbe essere accostato a quello petronianoP Nello stesso Marziale non mancano peraltro casi di condanna morale aperta del vizio (specialmente dell'ipocrisia e della doppiezza) e anche se l'« io » quasi sempre presente negli epi­ grammi comico-realistici non si lascia ricondurre ad una fisiono­ mia unitaria {p aragonabile alla persona del satirico) , si può ammet­ tere che la continua messa in evidenza delle assurdità e contraddi­ zioni della vita romana comporta implicitamente l'assunzione co­ me punto di riferimento positivo di un modello di vita priva di contraddizioni, naturale e quieta, quale a volte Marziale propone esplicitamente in epigrammi di tipo propriamente autobiografico. Il gusto per la rappresentazione realistica della società è una mo­ tivazione artistica che va al di là della sola parte « satirica » della produzione di Marziale: esso è largamente presente anche negli epigrammi cerimoniali, nei carmi autobiografici, negli epigrammi di « consumo » quali i bigliettini per i doni ai Saturnali, componi­ menti che tutti si integrano con gli epigrammi comico-realistici nel dare al lettore un quadro complessivo piu ricco dei molteplici aspetti della realtà. Un quadro che deve la sua grande efficacia non alla capacità di penetrazione nelle ragioni dei comportamenti, ma 27. Cfr. M. Citroni, Motivi di polemica letteraria negli epigrammi di Marziale, in « D Arch », a. 1 1 1968, p. 236.

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appunto alla ricchezza e vivacità dell'osservazione fenomenica del comportamento, del dettaglio, dell'oggetto. Una lingua duttile, di disinvolta eleganza ovidiana, si apre senza remare a questa funzio­ ne artistica, facendo entrare per la prima volta nella poesia con i lo­ ro nomi usuali tanti oggetti e figure del mondo quotidiano di cui la poesia non si era mai occupata e ammettendo una larga presenza di parole volgari e oscene. L'epigramma di Marziale segna il trionfo del genere poetico piu tipicamente > : quella della vita quotidiana rappresentata in chiave comica. Marziale, come a suo tempo Lucilio, accetta questa dimensione « minore », ne fa l'impegno unico della sua vita di poeta e crea, en­ tro questa dimensione, un'opera di grande mole e di grande respi­ ro che egli, come Lucilio, contrappone orgogliosamente, in nome dell'autenticità e dell'aderenza alla realtà, ai generi maggiori con i loro temi mitologici lontani dalla vita (monstra in Marziale, x 4 2; portenta in Lucilio, 587 M.) 28 e col loro linguaggio gonfio e artefatto. La dimensione « minore » è stata di volta in volta preferita dai poeti antichi su basi diverse: come forma che consente maggiore eleganza e finitezza, come forma che può esprimere con piu au­ tenticità la dimensione soggettiva, come forma piu aderente alla realtà. Quest'ultima posizione, che è quella di Marziale, si ricono­ sce con probabilità nei frammenti di Lucilio e ricorre, latente o esplicita, nella tradizione satirica (cfr. specialm. Persia, 5 14 sgg.; Giovenale, I 7 sgg.; 51 sgg.). Ciò che caratterizza Marziale è che in lui questa posizione si spoglia quasi completamente di ragioni mo­ ralistiche (ma in x 4 7 sgg. la poesia che aderisce alla vita è poesia che fa conoscere se stessi) e, soprattutto, che essa si definisce attra­ verso la considerazione della risposta del pubblico: la letteratura minore, con la sua aderenza alla vita, è la sola che interessa larga­ mente i lettori, mentre la letteratura solenne ha esaurito la sua fun­ zione nell'attualità e, se riceve riconoscimenti dalla critica ufficiale, non trova un suo pubblico di lettori (Iv 49). Marziale, nel dialogo 28. In Giovenale, 6 645, nel contesto dello stravolgimento tragico del quotidiano di cui si è detto sopra, i monstra della vita reale superano quelli della tragedia.

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intenso che la sua poesia instaura con i lettori, nella consapevolez­ za del suo eccezionale successo di pubblico, trova la ragione per ri­ vendicare, senza troppa esagerazione, alla propria poesia minore il ruolo di sola poesia vitale del suo tempo. La dimensione umile e quotidiana nella satira e nell'epigramma, se dà spazio a elementi di saggezza popolare e se porta a descrivere e interpretare comportamenti di persone comuni e di ceti umili, non comporta ovviamente, come abbiamo già osservato, che il poeta si ponga egli stesso dal punto di vista dei ceti umili. Ciò av­ viene in qualche misura in Marziale e Giovenale, che si pongono prevalentemente nell'ottica del cliente di condizione media o me­ dio-bassa. In Giovenale ci sono spazi di larga comprensione della condizione del cittadino povero, ma schiavi, stranieri, emarginati, sono visti per lo piu col pesante disprezzo proprio della mentalità tradizionale. Marziale connette apertamente la sua rinuncia ai ge­ neri maggiori e piu in generale l'esaurimento dei generi maggiori, con la mancanza di un mecenatismo che integri lui, e piu in gene­ rale i poeti del suo tempo, nella società « alta »; ma anche in Mar­ ziale le note di « protesta sociale » sono sostanzialmente limitate al­ la rivendicazione di maggiore spazio per gli intellettuali e per i ceti medi nei quadri superiori della società e di maggior umanità nei rapporti sociali. Solo la favola esopica aveva espresso nella cultura antica l'ottica degli schiavi e degli emarginati sociali. E sarà un ex schiavo a dare per la prima volta dignità di genere poetico alla favo­ la, fino ad allora, per quanto ne sappiamo, svolta solo in prosa o am­ messa sporadicamente entro componimenti dei generi « umili ». E naturalmente la favola diventa genere poetico nella dimensione « pedestre » del giambo, nella lingua piana e dimessa del sermo. Ma anche in questo caso sobrietà scarna e nitore sono frutto di un con­ sapevole lavoro di elaborazione formale, condotto con l'orgoglio di un uomo che sa di star arricchendo la letteratura romana di un genere nuovo e che sa che vi è spazio per una significativa grandez­ za anche entro la dimensione piu umile se un coerente esercizio artistico trova le modalità espressive adeguate per un ricco mondo di esperienza che coinvolge l'interesse dei lettori. 3 41

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I. ORIGINI E TEORIA DEL GENERE « La teoria della letteratura manifesta, nei riguardi del romanzo, la sua totale impotenza. Con gli altri generi letterari essa lavora in modo sicuro e preciso, poiché si tratta di un oggetto definito e compiuto, netto e chiaro. In tutte le epoche classiche del loro svi­ luppo questi generi conservano la loro stabilità e canonicità [ . . . ]. Tutto sommato, la teoria di questi generi letterari compiuti finora non ha potuto aggiungere quasi nulla di essenziale a ciò che era sta­ to fatto già da Aristotele. La sua poetica resta il fondamento incrol­ labile della teoria dei generi [ . . . ). Col problema del romanzo la teoria dei generi letterari si trova di fronte alla necessità di una ri­ strutturazione radicale. Grazie al paziente lavoro degli studiosi si è accumulato un materiale storico enorme e si è illuminata una serie di questioni legate all'origine di singole varietà del romanzo, ma il problema del genere nel suo complesso non ha trovato una soddi­ sfacente soluzione di principio [ . . . ). I lavori sul romanzo si riduco­ no, nella stragrande maggioranza dei casi, alla registrazione e alla descrizione piu complete possibili delle varietà romanzesche, ma come risultato di queste descrizioni non si riesce mai a dare una formula comprensiva per il romanzo come genere >> .1 La lunga ci­ tazione è giustificata dal fatto che, a parer mio, queste parole di Mi­ chail Bachtin non hanno perso affatto la loro attualità. D'altra parte sulla narrativa d'invenzione i retori e i critici del mondo antico, che pure hanno abbondato in teorizzazioni dei vari generi letterari, non ci hanno lasciato alcuna trattazione teorica: addirittura, per in-

1. M. Bachtin, Epos e romanzo. Sulla metodologia dello studio del romanzo, in AA.VV., Problemi di teoria del romanzo, Torino, Einaudi, 1976, pp. 186-87. Il saggio di Bachtin comparve, in origine, col titolo di Epos i roman (O metodologii issledovanija romana), in « Voprosy literatury », 1 1970, pp. 95-122; esso, però, riproduceva il testo della relazio­ ne letta da Bachtin nel 1938 all'Istituto di letteratura mondiale A.M. Gor'kij di Mosca.

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dicare tali opere narrative, essi si servivano di termini del tutto ge­ nerici, come historia o fabula, o di designazioni apparentemente precise (ad esempio, Milesia), ma in realtà adoperate senza alcun ri­ gore metodico. I problemi si acuiscono di fronte ai due prodotti del genere nar­ rativo a Roma (il Satyricon di Petronio e le Metamorfosi di Apuleio), che oltre a rappresentare casi isolati nella produzione letteraria la­ tina, secondo la maggior parte dei critici si distinguerebbero per tecnica e contenuti dagli esempi greci del genere romanzesco e, di contro, mostrerebbero chiare affinità con piu d'un genere lettera­ rio: ciò spiega la quantità e la diversità di ipotesi sull'origine del ro­ manzo. Ovviamente il problema delle origini si pone innanzitutto per il romanzo greco d'amore e d'avventura, ma finisce per coin­ volgere anche quello latino, che - nonostante la communis opinio al greco si rivela sempre piu vicino, cronologicamente e contenutisti­ camente. Risulta sempre piu chiaro che alla nascita del romanzo greco ha contribuito una serie di cause: dalla progressiva dissoluzione del­ l'epos al successo della corrente mimetica nella storiografia alla realtà « borghese » presentata dalla commedia nuova; ma non va dimenticato quanto abbia contribuito, al sorgere di un nuovo tipo di letteratura, il notevole ampliamento della cerchia dei lettori. Il fiorire delle ipotesi sulle origini della narrativa antica si ricollega in gran parte alla pubblicazione del volume di Erwin Rohde, Dergrie­ chische Roman und seine Vorliiufer (Lip sia, Breitkopf u. Hartel, 1876). Rohde muoveva da dati erronei per colpa dei tempi, perché l'unica notizia certa era, allora, quella relativa alle Storie Babilonesi di Giam­ blico, datate al II sec. dC.: di conseguenza egli ritenne il romanzo un tardo prodotto imperiale, tipico frutto della seconda sofistica. Paradossalmente Petronio verrebbe ad essere anteriore agli autori greci di romanzi, che vedrebbero invece in Apuleio un loro con­ temporaneo. Com'è noto, successivi reperti papiracei hanno note­ volmente alzato la cronologia delle prime testimonianze roman­ zesche (i frammenti papiracei del Romanzo di Nino, infatti, sono del I sec. a.C.). Dopo Rohde l'origine del romanzo è stata individuata nei gene-

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IL ROMANZO

ri letterari piu diversi: dalle declamazioni alla storiografia, dalla poesia erotica all'epistolografia, dalla poesia drammatica alla tradi­ zione novellistica (la fabula Milesia). Tali teorie, però, nonostante l'acutezza con cui talora sono state formulate, si limitano a cogliere alcune fra le componenti del romanzo: ma in tal modo si sposta il discorso al livello degli influssi. Con uguale diritto, allora, potrem­ mo sostenere che l'elegia latina deriva dall'epigramma, dalla com­ media, dalla poesia drammatica e, perché no, dall'epos, mentre il problema delle origini si pone su basi diverse: si tratta, cioè, di capi­ re quando e perché una materia talmente composita finisca per or­ ganizzarsi in genere letterario. Forse la teoria che ha retto meglio all'urto dei tempi è la piu anti­ ca e la piu semplice (e probabilmente per questo essa è stata ripro­ posta nelle epoche piu diverse) : il romanzo sarebbe sorto sulle ce­ neri dell'epos. Se si considera il problema da questo punto di vista, è singolare che sull'origine del romanzo le posizioni degli studiosi di narrativa antica finiscano per saldarsi con quelle degli studiosi di narrativa moderna: ciò si giustifica per la presenza di fenomeni analoghi di mutamento di generi legati a circostanze simili, a di­ spetto della distanza cronologica. È in ogni caso significativo che anche l'apparizione della novella e del romanzo nella cultura occi­ dentale (la novella nel XIV sec. in Italia, il romanzo nel XIX sec. in Inghilterra, Francia, Germania) sia stata messa in relazione dagli studiosi di narrativa moderna con la dissoluzione del poema epico a causa dello sfaldamento della società e della cultura aristocratiche e oligarchiche. Anche se prodotti della letteratura classica non fu­ rono né il romanzo storico né quello realistico, ma il romanzo d'a­ more e d'avventure, tuttavia in entrambe le circostanze il tramon­ to dell'epos si verificò in un periodo di affermazione di una menta­ lità diversa dalla tradizionale (oltreché di una diversa società) e di un ampliamento dei destinatari dell'opera letteraria. Inoltre, poi­ ché il romanzo riflette una società che non s'identifica piu con i va­ lori tradizionali in crisi ed è alla ricerca di valori nuovi, il carattere problematico del protagonista è il riflesso - in entrambe le circo­ stanze - del suo non riconoscersi pienamente nei valori della so­ cietà in cui vive. 3 45

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Già in H e gel, dall'Estetica ai Lineamenti difilosofia del diritto alla Fi­ losofia della storia, la nascita del romanzo moderno s'identifica con la definitiva scomparsa dell'epos ed è necessaria conseguenza del succedersi delle epoche universali. Su questa scia la teorizzazione moderna piu chiara è quella di Gyorgy Lukacs. Sin dalla relazione letta nel 1934 alla Sezione di let­ teratura dell'Istituto di Filosofia dell'Accademia comunista,2 egli stabili con chiarezza i punti di contatto e le innegabili differenze fra romanzo antico e moderno: punti di contatto, perché il roman­ zo antico e moderno viene da lui considerato come il polo opposto dell'epos di stampo america; differenze perché >.2 E poi, che cosa s'intende per genere? Qualunque sia la formula­ zione che se ne voglia dare, sembra difficile non ammettere che sia propria dello statuto di un genere l'associazione dei contenuti del testo letterario col sistema delle forme espressive: perché il genere è « l'apparato che a determinate costruzioni ideologico-tematiche fa corrispondere stabilmente specifiche strutture espressive »; e so­ no proprio « queste relazioni biunivoche fra contenuto e espressio­ ne adeguata che danno funzione critica al concetto di genere ».3 Se si ha chiaro questo principio, ben si capisce che il difetto di fondo del pur utile e meritorio lavoro di Cairns consiste nel fatto che egli ha limitato l'indagine a quanto attiene al livello dei contenuti e ha trascurato quanto concerne il livello espressivo dei contenuti stessi. In ricerche di questo tipo sarà opportuno far compiere un passo ulteriore alla pur benemerita filologia tradizionale: si rivela, infatti, L Cairns ne discute alle pp. 79-82 del suo volume. 2. G.B. Conte, A proposito di modelli in letteratura, in « MD », a. VI 1981, p. 154. 3· Ibid., p. 155.

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sempre piu insoddisfacente l'idea di un rapporto con le fonti, che si realizzi solo nelle forme dell'imitazione (che magari diverrà emu­ lazione e competizione col modello) . Nessuno, certo, vuole nega­ re che in alcuni casi esista un'intenzionale scopo emulativo nei confronti di un modello;4 ma piu spesso il presunto modello e il presunto imitatore rinviano ad una comune codificazione lette­ rana. Va pure riformulato il concetto di modello, non piu da intende­ re quale esempio condizionante per l'imitatore, che nei suoi con­ fronti finisce per avere ben pochi margini di libertà: occorre servir­ si di una formulazione piu complessa, tale da chiarire in modo piu efficace i processi reali di formazione del testo. Anche in questo ca­ so mi sembra che il passo decisivo sia stato compiuto da Conte, col suo concetto di modello-codice, « istituto letterario che consente di produrre realizzazioni piu o meno compiute, sistema di ele­ menti consapevoli e deliberati attraverso cui l'autore riconosce l'i­ dentità dell'opera e le intenzioni secondo cui va decifrato il testo ch'egli costruisce ».5 E andrà pure tenuto presente il concetto d'in­ tertestualità. Se, infatti, di un'opera letteraria si vogliono afferrare senso e struttura, essa può essere letta solo in rapporto con altri testi o in antitesi con loro proprio in quanto presenza e modificazione di altri testi. « Il poeta, in quanto individuo immerso in una tradi­ zione, si trova davanti il modello come successioni di testi concreti e il modello come codice (costrittivo) : egli di fatto, sulla base di una nuova esperienza di questa serie di testi, può realizzare una nuova distribuzione dei tratti costitutivi del modello, può in pratica modifi­ care il modello inteso come codice utilizzando certe possibilità del modello inteso come successione di testi: ma ciò facendo propone egli stesso un nuovo modello, fonda egli stesso per cosi dire una tradizione ».6 Compito del lettore, che a sua volta è una pluralità di testi, sarà 4· Basti pensare ai casi segnalati da G. Pasquali nel suo Arte allusiva: l'articolo com­ parve in « L'Italia che scrive » del 1942, pp. 185-87, e fu poi ristampato in Pagine strava­ ganti, u2, Firenze, Sansoni, 1968, pp. 275-82. 5· G.B. Conte, A proposito di modelli, cit., p. 148. 6. Ibid., pp. 153-54.

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quello d'individuare le giuste relazioni fra l'opera letteraria e i testi che in essa confluiscono come memoria (e sono a loro volta il frut­ to di una lunga serie di testi), in modo da coglierne i tratti significa­ tivi grazie ai quali si organizza il senso vero dell'opera stessa. « Fuo­ ri di questo sistema - afferma Conte - l'opera poetica è impensabi­ le: la sua percezione presuppone una "competenza" nella decifra­ zione del linguaggio letterario, che ha come condizione la pratica di una molteplicità di testi. Nel lavoro filologico sarà difficile di­ stinguere volta a volta lo statuto che individua i singoli modi dell'i­ mitazione letteraria, ma sarà comunque fruttuoso considerare i rapporti di un testo rispetto ad un altro come relazioni di trasfor­ mazione [ . . . ). Un gran sussidio potrà venire proprio dalla tradi­ zionale "critica delle fonti": ma dove la critica idealistica e positivi­ stica (con ideologie del fatto letterario, peraltro, diverse fra loro) vedevano solo "influssi" e "fonti" (metafore dal mondo dei fluidi) bisognerebbe sforzarsi di cercare testi e strutturazioni di testi. Ma soprattutto occorre uscire dall'immanenza dell'opera per ricollo­ care i testi e il loro movimento di formazione entro il sistema lette­ rario: ogni assetto (l'equilibrio del sistema) si configura cosi come la delimitazione reciproca di linguaggi diversi ».? 2. POIKILfA E VARIATIO:

L'EREDITÀ ELLENISTICA NELLA POESIA LATINA

C'è da aggiungere che, quand'anche ci attenessimo ai risultati della Altertumswissenschaft tradizionale, i principi di Cairns erano stati messi in crisi ancor prima del loro manifestarsi. Già Wilhelm Kroll, infatti, nel capitolo dedicato alla Kreuzung der Gattungen nelle sue fondamentali Studien zum Verstiindnis der romischen Literatur,8 aveva indicato come a partire dalla produzione letteraria alessan­ drina, che presuppone una diffusione scritta e non piu orale della cultura, i generi letterari finiscano per intrecciarsi ed intersecarsi: 7· lbid., p. 150. 8. Il volume di Kroll, pubblicato dallaJ.B. Metzlerschen Verlagsbuchhandlung di Stuttgart nel 1924, è stato ristampato dalla Wissenschaftliche Buchgesellschaft di Darmstadt nel 1973; il capitolo sulla Kreuzung der Gattungen è alle pp. 202-24.

LE I NT E R S E Z I O N I D E I G E NE RI E D E I M O DE L L I

di conseguenza essi manterranno pure i tratti distintivi legati al lo­

ro statuto, ma finiranno per contaminarli con quelli di altri generi. Un utile parallelo può essere istituito con quanto si verifica nelle tradizioni manoscritte, dove una rigida strutturazione in famiglie di maasiana memoria - tale da permetterei di risalire facilmente al­ l'archetipo è quasi sempre complicata dal processo di contamina­ zione fra i testimoni delle varie famiglie. N ella produzione ellenistica, e in quella latina che da essa deriva, dominante è il principio della poikilfa (variatio), che agisce a qualsia­ si livello. La mistione dei generi letterari, che è un elemento fonda­ mentale della poesia alessandrina, è una delle tante configurazioni del principio della poikilfa: se ne accorse nel 1921 Ludwig Deubner, in un suo studio illuminante e, sotto molti aspetti, rivoluzionario.9 Egli limitò la sua indagine al terreno dell'inno ed ebbe facile giuo­ co nel dimostrare che la mistione dei generi vige nel carme xxn di Teocrito, i Dioscuri, dove c'è contaminazione tra inno, epillio e poesia drammatica, e in alcuni inni di Callimaco (n. v. VI.) , dove c'è commistione fra inno e mimo. Proprio Teocrito era stato fra i cul­ tori p ili insignì di tale tecnica: oltre al già citato idillio xxn si posso­ no ricordare il IV (Ipastori: mimo; carme bucolico), il VI (I bucoliasti: epistola; canto bucolico d'amore; poesia bucolica), il xm (Ila: epi­ stola; epillio), il xvm (Epitalamio di Elena: epillio; canto nuziale), il xxvm (La conocchia: epigramma; poesia bucolica). Il libro di poesia alessandrino era vario per struttura, motivi, me­ tro e stile: per la struttura l'esempio tipico è costituito dal libro dei Giambi di Callimaco, in cui si alternano polemiche letterarie, in­ vettive, temi erotici, componimenti didascalici, argomenti eziolo­ gici, carmi d'occasione; che Callimaco ne fosse pienamente co­ sciente e, anzi, perseguisse una tale polyefdeia è provato dall'elogio che egli ne fa nel xm giambo, con cui verisimilmente si chiudeva la raccolta. Il libro dei Giambi di Callimaco ha esercitato in tal senso un influsso determinante sulle at · h ', w NuiJ.q>at, iepòv yévoç 'Qxeavo'ìo, oeil;a-r ' éeÀOOIJ.ÉV0101V EVW1taOÌç lij..Lj.l.L q>avd-rat f] nva ne-rpatT]V XD01V UOa-roç f] nva yatT]ç iepòv txpÀuov-ra, eeai, poov, ànò Oiwav ai60iJ.ÉVT]V lij..LO'tOV Àwljlf]ooiJ.eV. Ei oé xev aùnç of] n6-r ' 'Axatioa ya'ìav ixwiJ.e6a vaunÀi1]ot, O'IÌ -r6-re iJ.Dpia owpa IJ.e-rà 1tpW-r1]ot 6e>.

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LE I NTE R S E Z I O N I D E I G E N E R I E D E I M O D E L L I

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i

vv .

3.5-36 dell'elegia properziana: Jontis egens erro circaque sonantia lymphis; et cava succepto jlumine palma sa t est. 33

In entrambi i casi, poi, l'episodio sì conclude con un omaggio a Er­ cole: in Apollonio Rodio da parte dei compagni che lo riconosco­ no quale loro salvatore (vv. 1457-60), in Properzio da parte del poe­ ta, che ne esalta la funzione di alexfkakos nei due distici conclusivi. Col trattamento in chiave parodica della figura d'Ercole il callì­ machismo properziano, dunque, c'entra ben poco. Non mi sem­ bra, comunque, che tutto possa ridursi a un'individuazione di fon­ ti, che il poeta latino avrebbe collocato a mosaico: se trasferiamo il discorso al livello dei condizionamenti del genere, non è privo di significato il fatto che sin dalla I elegia del IV libro Properzìo lasci chiaramente capire che il cambiamento dei contenuti non impli­ cherà un mutamento di registro: i contenuti nuovi saranno inseriti negli elegi, che rimangono comunque unJallax opus {Iv I 135). Il ge­ nere elegiaco, quindi, potrà pure aprirsi al canto degli aitia, ma non potrà né rinnegare il proprio registro poetico né venir meno alle peculiarità di un genere tenue: in primo luogo, non potrà mai ab­ bandonare la sottile vena ironica che pervade l'elegia; non a caso, subito dopo il carme d'introduzione al IV libro viene offerta al let­ tore una chiara dissacrazione di una divinità (il dio Vertumno, d'o­ rigine etrusca). Ercole, quindi, sarà accolto nel genere elegiaco, ma dovrà deporre la sua dignità d'eroe e accettare d'esser collocato allo stesso livello dell'innamorato che implora l'amata perché gli apra la porta o, al colmo dell'ira, la percuote e l'abbatte .

4· TESTI, M O D E LLI E

RAPPORTO INTERTE STUALE

Ha scritto Gian Biagio Conte che « la pratica dell'imitazione classi­ ca è anche un invito alla lettura doppia dei testi e al deciframento del loro rapporto intertestuale col modello: i modi di lettura (e di 33. La traduzione è alla nota 27.

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imitazione) di ogni epoca sono anche impliciti nei loro modi di scrittura. In questo senso le opere letterarie non sono mai semplici "memorie", esse riscrivono i loro ricordi, "influenzano" i loro pre­ decessorì )>.34 Illustrerò questo principio ricorrendo ad un esempio all'apparenza singolare.35 Nel cap. 132 del Satyricon Encolpio, dopo aver deciso di recidere il suo membro inerte ed aver tentato per tre volte di compiere il gesto definitivo, passa ad altra tattica meno cruenta e si rivolge con una serie di accorate domande a quella pars corporis che è causa di tutti i suoi mali. Tuttavia, mentre egli dà libe­ ro sfogo alla sua rabbia, illa solo flxos oculos aversa tenebat, nec magis incepto vultum sermone movetur quam lentae salices lassove papavera collo.36

I tre esametri costituiscono un accorto mosaico di versi virgilia­ ni, inseriti nel contesto con una tecnica complessa: l'ultimo, infatti, combina due emistichi virgiliani: si tratta di bue. 5 16: lenta salix quantum pallenti cedit olivae (lenta salix compare anche in bue. 3 83: ma a favore della ripresa di 5 16 sta il fatto che anche li si tratta di un pa­ ragone) e di Aen. IX 436: languescit moriens lassove papavera collo, dove il confronto è con Eurialo morente. Se per ora si può restare in dubbio sul carattere di queste riprese (non è scontato, cioè, che per entrambi i paralleli si debba pensare a un fine preciso perseguito da Petronio), apertamente dissacratorio appare il carattere dei primi due versi: essi, infatti, istituiscono implicitamente un parallelo fra l'ovvio mutismo del membro di Encolpio e il silenzio di Didone, che negli Inferi si rifiuta - per ben altre ragioni - di rispondere alle esortazioni di Enea (i vv. 469-70 del VI dell'Eneide) Perché mai Petronio ha voluto variare il contesto epico, ricor­ rendo nel terzo verso alla fusione di due emistichi di altri luoghi .

34· G.B. Conte, A proposito di modelli, cit., p. 150. 35· Ne tratto piti diffusamente nell'articolo: Ilgesto negato. Petronio 132,8 e la scelta del silenzio, che sarà pubblicato negli scritti in onore di Alfredo Ghiselli (Bologna, Pàtron). 36. « quella col volto girato teneva gli occhi fissi al suolo, né si era mossa in volto da quando le o rivolto la parola, piti che un salice flessibile o un pupazzo dal collo molle ».

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LE I NT E R SE Z I O N I D E I G E N E R I E D E I M O D E L L I

virgilìani? Basta controllare il contesto dell'Eneide precedentemen­ te citato, dal quale sono tratti i primi due versi del centone petro­ niano: Enea in lacrime, si è visto, ha rivolto all'ombra di Didone il suo accorato appello a parlare; tuttavia, mentre egli spera di lenire quell'anima ardente, dallo sguardo torvo, illa solo Jìxos oculos aversa tenebat, nec magis incepto vultum sermone movetur. n contesto virgiliano continua, però, con una similitudine:

quam si dura silex aut stet Marpesia cautes.

L'atteggiamento inflessibile di Didone, dunque, è paragonato alla dura selce e al marmo dell'isola di Paro. È chiaro, allora, che Petronio non avrebbe mai potuto completa­ re la sua citazione con la stessa similitudine; perché al molle e flac­ cido membro di Encolpio sarebbe stato riferito un verso che sotto­ lineava il concetto del durum! La similitudine, quindi, doveva esse­ re necessariamente formulata con altro materiale, magari combi­ nando due emistichi di Virgilio. È evidente, però, che un tale intervento combinatorio produce un effetto devastante: perché implicitamente Petronio invita a ri­ leggere anche il contesto del modello alla luce del nuovo contesto in cui esso viene inserito. Il lettore che, muovendo dal passo petro­ niano, ritornerà a quello virgiliano, stabilirà inevitabilmente un grottesco e irriverente parallelo fra Didone e il membro inerte di Encolpio. Si può esser certi, d'altronde, che proprio per ottenere questo effetto Petronio ha citato quei versi virgiliani. Al tempo stesso questa chiave di lettura si riverbera pure sul ter­ zo verso del centone virgiliano: l'identico tono di irriverente dissa­ crazione finisce, infatti, per coinvolgere il « flessibile salice » canta­ to da Menalca in bue. 5 r6 e qui paragonato alla flaccida pars corporis di Encolpio. Si noti, per di piti, che nelle Bucoliche si tratta di un complimento rivolto da Menalca a Mopso: di quanto il flessibile salice è inferiore al pallido ulivo e l'umile valeriana agli scarlatti ro­ seti, di tanto Aminta deve cedere a Mopso.

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Ma, soprattutto, la forza dirompente dell'intervento petroniano travolge uno degli episodi pili patetici dell'Eneide: quello della morte di Eurialo. Là era l'eroico giovanetto a venir paragonato con toccante immagine, in punto di morte, ai papaveri che reclinano il capo sullo stelo, quando la pioggia li opprime (Ix 433-3 7) ; Eurialo, per di piti, cadeva vittima della spada di Volcente, alla quale si era offerto, incolpevole, al posto di Niso. Qui, invece, è quel singolare morticino, rappresentato dall'inutile pars corporis di Encolpio, ad es­ ser paragonato al papavero che china il capo sullo stelo: ma essa si era sottratta per ben tre volte alla bipenne, con cui Encolpio aveva cercato di reciderla. Per quanto riguarda i versi del VI dell'Eneide in cui è descritto l'incontro di Enea con Didone negli inferi, già agli antichi interpre­ ti virgiliani era ben chiaro che il poeta aveva ripreso e riadattato un celebre episodio omerico: come, infatti, commenta Servio al v. 468, tractum est hoc de Homero, qui inducit Aiacis umbram Ulixis conloquiaJu­ gientem, quod eiJuerat causa martis. (Che la situazione omerica sia fil­ trata attraverso un ipotetico intermediario ellenistico, ci sembra pura speculazione di Eduard Norden,37 che s'inquadra nella sua tendenza a rivalutare - e spesso a sopravvalutare - la presenza della componente ellenistica nella poesia di Virgilio). Nel viaggio di Odisseo nell'oltretomba, cantato nell'xi dell'O­ dissea, tutte le anime che a lui si accostano narrano i propri dolori. Tutte, tranne quella di Aiace Telamonio, che resta sola in disparte, ancora in preda alla collera per l'infausto esito della contesa per le armi di Achille (vv. 541-51). A lui si rivolge Odisseo con dolci ac­ centi, per invitarlo a deporre nella morte il rancore provato nella vita e il furore accumulato per l'onta subita (vv. 552-62) . Aiace, pe­ rò, resta chiuso in un cupo silenzio e si dilegua nell'Erebo fra le ani­ me dei defunti (vv. 563-64) : wç éqHXj..LEV, O O é j..L ' oÙOÈV Ùj..Leipe-ro, pfj Oé j..LE't ' aÀÀo:ç ljroxàç EÌç 'Epepoç VEXUWV XO:'t"O:'tt:0Vt:1W't"WV.38

37· P. Vergilius Mara. Aeneis Buch VI, erkl. v. E. Norden, Leipzig-Berlin, Teubner, 1916, p. 248. 38. « Dicevo cosi, ed egli non mi rispose, e andò l nell'Erebo tra le altre anime dei

LE I N T E R S E Z I O N I D E I G E N E R I E D E I M O D E L L I

È chiaro - e lo sottolinea opportunatamente Eduard Norden ­

che nei confronti del modello Virgilio ha operato un cambiamento di duplice natura: da un lato ha trasformato l'eroe silenzioso in una silente eroina, dall'altro ha trasferito la situazione america dalla sfera eroica a quella erotica.39 Possiamo dedurre, allora, che nella parodica rappresentazione del silenzio del languido membro di Encolpio, ottenuta grazie al­ l'utilizzazione di materiale virgiliano, non agisce il solo modello della Didone silenziosa di fronte alle esortazioni di Enea, ma è sot­ teso e implicitamente coinvolto anche quell'ipotesto america, nei cui confronti l'episodio virgiliano si configurava come ipertesto: anche in Petronio, cioè, continua ad agire sullo sfondo l'immagine america di Aiace ostinatamente silenzioso di fronte agli inviti di Odisseo. D'altronde il parallelo conclusivo di Encolpio con Odis­ seo che rampogna il suo cuore non può essere occasionale: anche in un episodio di imitazione virgiliana, dunque, Encolpio ha ritro­ vato il suo vero modello.

morti defunti » (la traduzione è di G.A. Privitera, Omero. Odissea, vol. m, Milano-Ve­ rona, Mondadori, 1983, p. 137). 39· E. Norden, Aeneis Buch VI, cit., p. 248. 39 7

III I SAPERI STRUMENTALI

AND REA GIARDINA

L'E C O NOMIA NEL TESTO

Ci sono due modi di affrontare il tema. Il primo consiste nel trat­ tare soltanto quei testi che si riferiscono intenzionalmente a feno­ meni economici: nello spazio letterario di Roma antica essi si ridu­ cono essenzialmente ai trattati agronomici, sicché lo studio del­ l'> vale, in una certa misura, an­ che per le rappresentazioni antiche del commercio: esse si presen­ tano piu frammentate che composte in unità. Cosi, proprio in mancanza di una elaborazione concettuale relativa al meccanismo di formazione dei prezzi, qualsiasi discorso sulle intuizioni roma­ ne delle attività commerciali va, già in prima istanza, scisso in un'a­ nalisi duplice e parallela, riguardante da un lato la tenuis mercatura, dall'altro la magna mercatura. Del piccolo commercio si è parlato nella prima parte di questo paragrafo; resta da affrontare il proble­ ma del grande commercio. N el sistema romano dei valori sociali il grande commercio non è mai stabilmente compreso tra i mestieri sordidi. Il riesame di al­ cuni tra i piu noti documenti della cultura romana in materia ha se­ gnalato la necessità di un'impostazione piu complessa. La pra ifatio al de agricultura di Catone, spesso ritenuta uno dei luoghi esemplari della condanna del mercante, contiene al contrario una delle piu decise lodi di questa figura sociale che l'antichità ci abbia lasciato: 51 oltre che « desideroso di accrescere le proprie sostanze » (studiosus rei querendae) , il che, fatti salvi determinati principi, nella prospetti­ va catoniana è sempre positivo,52 il mercator è detto « coraggioso » 51. Cfr. J. Rougé, Recherches sur l'organisation du commerce maritime en Méditerranée sous l'empire romain, Paris, S.E.V.P.E.N., 1966, p. 12; E. Gabba, Riflessioni antiche e moderne sulle attività commerciali a Roma nei secoli II e I a.C., in « MAAR », a. xxxvi 1980, pp. 91 sgg. Del buon uso della riahezza. Saggi di storia economica e sociale del mondo antico, Milano, Gue­ rini e Associati, 1988, pp. 89 sgg. 52. Cfr. ora soprattutto L. Capogrossi Colognesi, Proprietà agraria e lavoro subordinato nei giuristi e negli agronomi latini tra repubblica e principato, in A. Giardina - A. Schiavone, Società romana eproduzione schiavistica, I, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 445 sgg. (« già con Catone . . . abbiamo a che fare con un discorso fortemente ispirato ad una logica di profitto e orientato nel senso di una decisa commercializzazione della produzione agraria »); cfr. Id., L'agricoltura romana. Guida storica e critic-1, Roma-Bari, Laterza, 1982, p. XIV. - E' noto che secondo la testimonianza di Plutarco ( Cato Maior 21 5; ma cfr. anche =

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L'ECONOMIA NEL TESTO (strenuus) . Il limite della sua attività sta soltanto nel pericolo che es­ sa comporta per la persona e per le sostanze investite (mercatorem [. . . } periculosum et calamitosum). 53 Il pericolo del mercante che affronta la navigazione è un topos tra i piu comuni e risale agli albori stessi della poesia greca, collegan­ dosi direttamente alla valutazione del mare come infido e perico­ loso, il piu « giusto » degli elementi, quando nessuna forza lo tur­ ba, 54 il meno controllabile quando i venti lo agitano. Ma la dfke del mare,55 espressa in latino da un termine come aequor, che già Var­ rone riconduceva alla nozione di aequitas56 era tutt'altro che van­ taggiosa per il mercante marittimo, associato semmai alla velocità e quindi al vento. E infatti l'aequitas del mare fa da contrappunto al­ la sua iniquitas, che i mercanti conoscono piu di altri, ma che pure affrontano. 57 Questo topos era suscettibile di numerosi arricchi­ menti. In Columella 58 appare carico di una connotazione filosofi­ co-religiosa: il mercante è colui che ha osato rompere il patto con la natura; la sua audacia sacrilega provoca la collera degli elementi; egli è uno sradicato, un senza patria, un uccello migratore (un'imCicerone, o.ff. II 89) Catone fini per considerare l'agricoltura piti come una sorta di pas­ satempo che come una seria fonte di guadagno, e preferf investire in modo piti reddi­ tizio: allevamenti di pesce, sorgenti termali, fulloniche, estrazione e lavorazione della pece, pascoli e boschi: cfr. A. Giardina, Allevamento ed economia della selva in Italia meri­ dionale: trasformazioni e continuità, in Società romana e produzione schiavistica, 1, cit., p. 103. 53· Catone, agr.praif. (A. Mazzarinoz): Est interdum praestare mercaturis rem quaerere, n i­ si tam periculosum sit, et item Jenerari, si tam honestum sit. Maiores nostri sic habuerunt et ita in legibusposiverunt:furem dupli condemnari,feneratorem quadrupli. Quanto peiorem civem existi­ marintfeneratorem qua mfurem, hinc licet existimare. Et virum bonum quom laudabant, ita lau­ dabant: bonum agricolam bonumque colonum; amplissime laudari existimabatur qui ita lauda­ batur. Mercatorem autem strenuum studiosumque rei quaerendae, verum, ut supra dixi, periculo­ sum et calamitosum. 54· Cfr. soprattutto Esiodo, op. 6r8-94, con l'analisi di D. Musti, L'economia in Grecia, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 33 sgg. 55· Cfr. B. Gentili, La giustizia del mare: Solone,Jr. 11 D., 12 West. Semiotica del concetto di dike in greco arcaico, in « QUCC », a. xx 1974, pp. 159-62. 56. Varrone, L.L. VII 23. 57· Cfr. p. es. Filostrato, Her. r 2. 58. Columella, praif. 8: An bellum per obsessa maris et negotiationis alea sit optabilior, ut rupto naturaeJoedere terrestre animal homo ventorum et maris obiectus irae}luctibuspendeat sem­ perque ritu volucrum longinqui littoris peregrinus ignotum pererret orbem? Cfr. R. Martin, Re­ cherches sur /es agronomes latins et leurs conceptions économiques et sociales, Paris, Les Belles Lettres, 1971, pp. 322 sgg. 41 7

A N D REA G IA R D I N A

magine quest'ultima, ricorrente nei secoli: si pensi all'anatra selva­ tica, emblema del mercante italiano del tardo Medioevo).59 Ma proprio questo ricorso a un elemento naturalistico è il segno piti chiaro che la grande mercatura, quella che si praticava per mare, poteva anche essere fuori della lista nera dei mestieri sordidi (si no­ terà del resto, tanto in Columella che in Catone, la netta distinzio­ ne tra la Jaeneratio, attività giudicata detestabile e ripugnante, e la mercatura, non coinvolta in un identico disprezzo). Se poi spostia­ mo il nostro angolo visuale dall'opinione fortemente orientata del­ l'agronomo a una delle rarissime rappresentazioni « ideali » (quasi una autorappresentazione) di un mercante che la documentazione epigrafica ci ha trasmesso, constatiamo, sullo stesso tema, sfumatu­ re e accentuazioni diverse: il pericolo (quello degli elementi, ma anche quello di un mancato guadagno) è parte di un « modello » che pone in primo piano la conoscenza di molti paesi e l'audacia di chi, pur nel timore, ha accettato piti volte la sfida: « Sulle navi dalle vele veloci - leggiamo nell'epitafio di un mercante - spesso ho per­ corso il grande mare e ho raggiunto molte terre: questo è il termi­ ne, che a me, alla nascita, le Parche un tempo cantarono. Ora ho deposto gli affanni e le fatiche tutte. Qui non temo le stelle né i nembi né il mare crudele, né temo che le spese superino i guada­ gni » .6o Audacia ed esperienza: accostato a questi tipi di virtti il lucro po­ teva apparire persino un mezzo piu che un fine, o comunque si stemperava in un quadro piti complesso. Il luogo di massima con­ ciliazione tra le esigenze materiali di una crematistica moderata e quelle morali del desiderio di conoscenza culturale, era stato il te­ ma dei « viaggi di Solone », ripreso da Plutarco nel quadro di una ri­ flessione equilibrata e di ampio respiro, che risaliva, per taluni 59. J. Le Goff. L'Italiafuori d'Italia, in Storia d'Italia n 2, Torino, Einaudi, 197 4, p. 2004. 60. CIL IX 6o: Si non molestum est, hospes, consiste et lege. l Navibus velivolis magnum mare saepe cucurri, l accessi terras complures: terminus hicc(e) est, l quem mihi nascenti quondam Par­ cae cecinere. l Hic meas deposui curas omnesque la bores; l sidera non timeo hic nec nimbos nec ma­ re saevom, l nec metuo, sumptus ni quaestum vincere possit. l Alma Fides, tibi ago grates, sanctis­ suma diva: lfortuna infracta ter me fessum recreasti: l Tu digna es, quam morta/es optent sibi cuncti. l Hospes, vive, vale l in sumptum superet tibi semperl, qua non sprevisti nunc lapidem di­ gnumq(ue) dicasti.

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aspetti, a Ermippo e alle sue fonti: « Niente vieta al galantuomo e al buon cittadino (còv ayaOòv xaì 1WÀtnxòv avopa) di non disprezza­ re la disponibilità del necessario e sufficiente, senza ambire l'acqui­ sto del superfluo. A quei tempi [ . . . ] la mercatura godeva stima, perché avvicinava paesi stranieri, conciliava amicizie di sovrani e rendeva esperti di molti affari. Alcuni sono stati fondatori di grandi città, ad esempio di Marsiglia Prati, divenuto caro ai celti della zo­ na del Rodano. Si dice anche che Talete e il matematico Ippocrate abbiano praticato la mercatura, e che Platone abbia provveduto al­ le spese del suo viaggio vendendo una partita di olio in Egitto ».6 1 Plutarco proponeva questa sua visione anche in polemica con l'o­ pinione secondo la quale « Salone intraprese i suoi viaggi per desi­ derio di esperienza (1toÀum:tpia) e di conoscenza (ia't"opia) piutto­ sto che di lucro )) . 62 Il tema non era indenne da tensioni e da tentati­ vi di attenuazione, che tuttavia dovevano essere alquanto margina­ li, se lo stesso Aristotele aveva potuto sostenere, con semplicità, che Solone si era recato in Egitto « sia per commerciare che per ve­ dere il paese )) .63 Viaggi culturali dunque, e commerciali insieme, che non dovevano essere rari (anche tra la nobiltà media) nella Grecia arcaica e classica,64 e che offriranno, ancora in età romana, spunti e argomenti per la delineazione di modelli etici. Il rischio, il coraggio, l'abilità nella navigazione costituivano un complesso di elementi utili a sottrarre - almeno parzialmente - la funzione mercantile al sospetto e al disprezzo che la circondava. In alcuni contesti culturali e ambientali ben delimitati 65 questi ele61. Plutarco, Sol. 2 5-7, trad. di M. Manfredini in Plutarco, La vita di Solone, Milano, Mondadori (Fondazione Lorenzo Valla), 1977, p. 13; cfr. il commento di L. Piccirilli, a pp. 117 sgg. 62. Plutarco, Sol. 2 1. Secondo L. Piccirilli, commento cit. a n. 61, pp. 120 sgg., Plutar­ co avrebbe attinto ambedue le interpretazioni dei viaggi soloniani a Ermippo (che avrebbe riferito anche quella da lui non condivisa). 63. Aristotele, Ath. poi. n I. 64. B. Bravo, Remarques sur /es assises soda/es, /esformes d'organisation et la terminologie du commerce grec à l'époque archaique, in « DHA », xxv 1977. 65. ]. Matthews, The Tax Law ofPalmyra: Evidencefor Economie History in a City ofthe Roman East, in « JRS », a. LXXIV 1984, pp. 157 sgg. 41 9

ANDREA GIARDINA menti sembrano talvolta prevalere e innescare cambiamenti stabi­ li, ma il loro è in realtà un raffiorare sinuoso e mutevole, che non si fissa. La loro presenza resterà sempre parallela alla presenza della riprovazione, alla permanenza di un'etica antiacquisitiva che indi­ viduava nella pratica della mercatura un concentrato di vizi gravi. Questa sorta di parallelismo è stato impostato con chiarezza e sem­ plicità dalla stessa cultura antica. Nell'Eroico di Filostrato il dialogo tra il vignaiolo e il mercante fenicio si apre infatti con una presa di posizione che riassume in modo forte e sintetico, una problemati­ ca millenaria: > nella lette­ ratura agronomica fino a Columella porta a conclusioni opposte a quelle di Le Goff, l'esame dell'ultimo trattato di agricoltura roma­ no, quello di Palladio, sembrerebbe a prima vista, almeno per que­ sta parte della documentazione, confermare la sua opinione sul­ l'« occultamento della società rurale >>. L'assenza quasi totale della figura del lavoratore in questo trattato ha infatti colpito spesso gli studiosi. Si direbbe quasi che l'agricoltura di Palladio sia un'agricol­ tura senza uomini, una natura senza protagonisti. È necessario tut­ tavia cercare di approfondire le caratteristiche peculiari del trattato di Palladio rispetto ai suoi predecessori. Bisognerà partire dalla « prefazione >> dello stesso Palladio: Pars estprima prudentiae ipsam cui 429

A N DREA G IARD I NA

praecepturus es aestimare persona m: neque enimJormator agricola e debet ar­ ti bus et eloquentiae rhetoris aemulari, quod a plerisqueJactum est: qui dum diserte loquuntur rusticis, adsecuti sunt ut eorum doctrina nec a disertissimi possit intelligi.87 Questa dichiarazione è stata giudicata una captatio benevolentiae non sincera e artifìciosa,88 sulla base di due considera­ zioni: a) il primo e lungo libro del trattato (generale praeceptum, lo definisce l'autore),89 che si apre con quella dichiarazione d'intenti, è unicamente rivolto al dominus e alla conduzione del praetorium, non già ai rustici; b) i rustici cui Palladio si rivolge non sarebbero stati in grado di leggere il suo trattato. La dichiarazione di Palladio, tuttavia, non deve essere valutata in astratto, ma in riferimento alla struttura stessa della sua opera, con­ sistente, in larga parte (libri n-xm) in un calendario agricolo, agile e facilmente utilizzabile: questa innovazione, rivoluzionaria rispet­ to agli altri trattati agronomici, assicurò il grande successo (> ) 90 del trattato di Palladio nei secoli succes­ sivi (soprattutto a partire dal IX secolo). Sarebbe ingenuo immagi­ nare che Palladio puntasse a una diffusione capillare, tra i rustici del­ l'Occidente, della sua opera: l'uso del trattato va invece immagina­ to (nelle intenzioni stesse dell'autore) nel quadro sociale e cultura­ le di una tenuta tardoantica, di una struttura cioè, fortemente inte­ grata dal punto di vista sociale e culturale. In queste possessiones ove si tenevano nundinae e operavano artigiani, dove riviveva il mondo ludico delle città, dove si riteneva indispensabile ospitare due « ve­ scovi », uno cattolico, l'altro eretico, perché le esigenze spirituali di tutti i contadini trovassero un punto di riferimento, 91 poteva essere 86. Columella, I 7, trad. di R. Calzecchi Onesti. 87. Palladio, I I I: « La saggezza pili elementare vuole che ci si faccia un'idea giusta della persona che s'intende istruire. Chi vuole formare un agricoltore non deve certo gareggiare con lo stile e l'eloquenza di un professore di retorica, come ha fatto la mag­ gior parte degli agronomi; questi, parlando in modo ampolloso ai contadini, hanno re­ so il loro discorso incomprensibile anche ai letterati ». 88. R. Martin, in Palladius, Traité d'agriculture, Paris, Les Belles Lettres, p. LIII. 89. Su questo primo libro cfr. ora P. Hamblenne, Réjlexions sur le livre Ier de l'Opus agriculturae de Palladius, in « Latomus », a. XXXIX I98o, pp. I65 sgg. 90. R.H. Rodgers, An Introduction to Palladius, in « BICS », Suppl. xxxv I97S, p. rs. 91. Cfr. A. Giardina, Palladio, il latifondo italico e l'occultamento della società rurale, in Id. (a cura di) , Società romana e impero tardoantico I, Roma-Bari, Laterza, I98o, pp. 3I sgg.

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certo utilizzata (almeno nelle intenzioni dell'autore) un'opera co­ mc quella di Palladio, un menologio agricolo che, sotto forma di precetti, trasmettesse (non necessariamente tramite lettura, ma at­ traverso una fruizione che dobbiamo immaginare piu ampia e complessa) 92 una sapienza agronomica distillata e semplificata. L'Opus agriculturae di Palladio riflette un'articolazione della pos­ sessio in piu unità relativamente autonome e

13. Sempronio Asellione, 8 1'2.

=

Gellio, I 13 ro.

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ciano a percorrere sino all'ultimo gradino la scala degli « onori ». Una o due generazioni piu tardi, M. Antistio Labeone, - che non poteva vantare una posizione sociale molto elevata, ma solo una inflessibile mentalità aristocratica, - non andrà oltre la pretura ed eserciterà una forma di disimpegno politico. Labeone vive, e scrive, in piena epoca augustea. La giurispru­ denza che noi chiamiamo « classica » (ma l'aggettivo non implica piu ormai un giudizio di valore) comincia da questo momento e dura sino all'età severiana e oltre.14 Niente, a dire il vero, mutò al­ l'improvviso. I giuristi mantengono nelle loro mani, per una parte significativa e ancora per un lungo tempo, le leve del diritto, conti­ nuano a regolame il meccanismo in un diverso quadro politico. Qualcosa però viene cambiando. Il giurista aristocratico della Re­ pubblica cede il posto, a poco a poco, al giurista funzionario e « consigliere » del principe. Diviene altro anche lo scenario sul qua­ le opera la giurisprudenza: non piu l'àmbito cittadino e italico, ma l'intero mondo civile. Bisogna attendere il regno di Caracalla, per­ ché si abbia, nel secondo decennio del III secolo d.C., l'estensione della cittadinanza romana a tutti (o quasi tutti) gli abitanti dell'im­ pero. Ma, prima di allora, il mondo civile era già apparso, nell'> e a quelli del « diritto commerciale »: la « buona fede », sostenne, è una nozione amplissima, operante > matura - che si era evoluta, nella prospettiva della classe dirigente, come un organismo -,34 ampliava il significato di un suo evento iniziale riconoscendogli la forza di un simbolo. In un certo senso, duecento anni piu tardi, Labeone segui l'e­ sempio di Sesto Elio, dedicando un suo libro alle xn Tavole; ma la sua opera, dobbiamo supporlo, non aveva molto in comune con quella del lontano predecessore. Fra Antonino Pio e Marco Aure­ lio, Gaio riprese l'esame dell'antica legge, dalla quale era trascorso ormai piu di mezzo millennio. Il centro del pensiero giuridico, fra Repubblica e Principato, è però altrove. A costituirlo è l'editto pre­ torio: un testo normativa, insieme, tenace ed effimero. Come è risaputo, la facoltà di emanare « editti », ordinanze o proclami o annunzi di varia intensità e durata, rientrava fra i poteri del magistrato romano. Anche il pretore urbano ne era investito, e con lui il « pretore peregrino », istituito sul finire della prima guer­ ra punica per i processi fra stranieri o fra stranieri e cittadini roma­ ni; ne erano investiti gli edili curuli e i governatori delle province. L'esercizio del ius edicendi, da parte di tutti questi magistrati e del pretore urbano in primo luogo (noi ci riferiremo principalmente a lui), non si esauri in manifestazioni puntuali ed episodiche, ma eb­ be un suo esito duraturo. All'inizio del suo anno di carica, il pretore urbano, il cui compito fondamentale era quello di amministrare la giustizia fra i cittadini (nei modi propri del processo civile roma­ no), stabiliva le linee direttive della sua attività giurisdizionale; egli 33. 34 ·

Le parole di Cicerone, de orat. 1 43 1 93-44, 195, trovano un'eco in Livio, m 34 6. Cicerone, rep. n 1 2-3, con il richiamo a Catone. 449

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prefigurava le diverse ipotesi in cui avrebbe nominato un giudice a coloro che si fossero rivolti a lui come parti di una controversia, ed elencava i mezzi di tutela che si proponeva di applicare nel corso del suo ufficio. Formule processuali e altri rimedi trovavano il loro posto in un . 39. D. Iv 3 I 2 (Ulpiano, n ad edictum, L. Labeo 34): itaque ipse sic definiit dolum malum

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parte, l'àmbito di applicabilità dell'azione giudiziaria che la vittima del comportamento doloso può esperire contro l'autore dell'illeci­ to (un'azione che comporta l'infamia per il condannato) , è facile scorgere l'ordinamento sociale a cui essa si ispira. A certe persone l'azione per il dolo, in quanto azione infamante non sarà mai concessa: per esempio ai figli o ai liberti contro i genitori o i patroni. Ma neanche si dovrà concederla a un uomo di bassa condizione contro chi appartenga a un ceto elevato: per esempio a un plebeo contro un con­ solare di indiscusso prestigio; o a un dissoluto, a uno scialacquatore, o a un uomo dalla condotta altrimenti biasimevole, contro chi sia di costumi ir­ reprensibili.40

La giurisprudenza classica ebbe in Labeone sicuramente un mo­ dello. L'editto si era venuto lentamente consolidando, ma la « codi­ ficazione » giulianea era ancora lontana quando lo commentò Ma­ surio Sabino. Si può dubitare se Sesto Pedio scriva sull'editto già codificato, perché la sua collocazione cronologica rimane incerta. Il commento di Gaio sembra riguardare un certo numero di titoli, non l'intero testo normativa. Ho già detto come la gigantesca ope­ ra di Pomponio alimentasse la vocazione enciclopedica di Paolo e di Ulpiano. Insieme con l'editto pretorio, o da solo, viene preso in esame anche l'editto edilizio. Un commento autonomo è quello di Celio Sabino, uno dei maestri vespasianei. O ltre che sull'editto pretorio, l'attenzione si ferma sull'« editto provinciale ». Gaio è il primo a occuparsene. Tutto lascia credere che i Libri edicti monitorii di Callistrato si muovano nello stesso àmbito. Non è un caso che, in una maniera o in un'altra, entrambi questi giuristi siano legati al mondo delle province.41 esse omnem calliditatemJallaciam machinationem ad circumveniendumJallendum decipiendum alterum adhibitam. 40. IV 3 II I (Ulpiano, II ad edictum, L. Labeo 38): Et quibusdam personis non dabitur; ut puta liberis vel libertis adversus parentes patronosve, cum sitfamosa. Sed nec humili adversus eum qui dignitate excellet debet dari:puta plebeio adversus consularem receptae auctoritatis, vel luxu­ rioso atque prodigo aut alias vili adversus hominem vitae emendatioris. Et ita Labeo. 41. All'editto provinciale si dirige, forse, anche un commento di Furio Anziano, un giurista di cui non sappiamo praticamente nulla.

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LE

' ALTRE OPERE E L ORIENTAMENTO CAS I S T I C O -PROBLEMATICO

D E L D IS C O RS O GIURIDICO

La letteratura giuridica non si esaurisce nelle forme che abbia­ mo via via elencato. Oltre ai grandi commentari civilistici e editta­ li, ai manuali e ai compendi, ai libri che « annotano » o riassumono scritti di autori piu antichi, vi sono le opere « problematiche )), i li­ bri dedicati a singole leggi, quelli che adunano o interpretano sena­ toconsulti e costituzioni imperiali, le raccolte di definizioni e di re­ gole, i florilegi, le monografie, i trattati di diritto processuale, tribu­ tario e costituzionale-amministrativo. Le xn Tavole non sono l'unica legge che i giuristi prendono in esame. Fra quelle della Repubblica, la lex Cincia sulle donazioni, che risale alla fi­ ne del III secolo a.C., ebbe un commento da parte di Paolo, quattrocento anni pili tardi; e sempre Paolo, con Rutilio Massimo, dedicò uno scritto autonomo alla lex Falcidia sui legati del 40 a.C. La legislazione matrimo­ niale augustea fu attentamente studiata dalla giurisprudenza. La lex Iulia de maritandis ordini bus e la lex Papia Poppaea nuptialis costituirono una sorta di testo unico, su cui si soffermarono Gaio, Giunio Mauriciano e Ulpio Marcello, Terenzio Clemente, e infine Paolo e Ulpiano, in opere di di­ versa ampiezza. Anche i senatoconsulti, e in particolare il Tertulliano e l'Orfìziano, ebbero i loro interpreti in Gaio e Pomponio, Paolo ed Elio Marciano. Quanto alle costituzioni imperiali, sono molto rare le opere destinate a raccoglierle o ad esaminarle. È dubbio se avessero questo fine i Decreta Frontiana di Tizio Aristone. Si deve a un giurista-funzionario, Pa­ pirio Giusto, un'ampia raccolta di rescritti di Marco Aurelio e Lucio Vero o del solo Marco Aurelio. I Libri decretorum che corrono sotto il nome di Paolo hanno una notevole importanza; ma non sappiamo se Paolo li ab­ bia realmente composti, o non siano piuttosto un riassunto pili tardo dei suoi Libri imperialium sententiarum. Non è facile districarsi nella selva degli scritti privatistici di carattere monografico: il fedecommesso, la stipula­ zione, il diritto ipotecario sono fra i temi piu importanti, ma non manca­ no il matrimonio e la dote.

Una tipologia letteraria, almeno nel nostro caso, non può essere intesa come un rigido disegno classificatorio. Ha un valore euristi­ co, e non vuole imprigionare la ricerca entro confini invalicabili. Vi sono, tra le forme, somiglianze e parentele, e ricondurre un'o­ pera all'una o all'altra è, qualche volta, un'impresa ardua addirito

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IL T E S T O

G IURI D I C O

tura disperata. Se ne può vedere un esempio nei Pithana di Labeo­ ne. Se li guardiamo in una certa luce, i Pithana sembrano rivelare un carattere problematico; tuttavia, osservandoli da un altro punto di vista, dimostrano piuttosto un andamento regolativo. Qualcosa di simile si potrebbe affermare, forse, per le Membrana e di Nerazio. Le Institutiones di Elio Marciano, in sedici libri, sono apparse a ra­ gione una « mostruosità letteraria ». In che misura possono dirsi un'opera elementare? L'impronta casistico-problematica segna, in modo ora piu ora meno rilevante, l'intera produzione della giurisprudenza repub­ blicana e classica. Il « caso », diversamente da quanto avviene negli Year books o nei Law reports dei giudici inglesi, viene formulato in termini generali: i dettagli, le circostanze di luogo e di tempo, i no­ mi delle parti mancano del tutto; solo in qualche rara occasione se ne conserva una traccia. Ciò che conta, in definitiva, è la quaestio giuridica che il caso racchiude come in un involucro. Se la quaestio è il centro, si spiega perché rimanga estranea alla giurisprudenza ro­ mana, o si intraveda solo di rado, un procedere assiomatico e con­ cettualistico-deduttivo. Questa giurisprudenza non mira alla co­ struzione di un sistema nel senso rigoroso del termine, unitario e (almeno tendenzialmente) privo di lacune. Il suo razionalismo è di una qualità diversa. Le strutture sistematiche emergono come iso­ le in un oceano: un « vasto oceano » di cui non si tenta mai (po­ tremmo dire parafrasando Leibniz) una compiuta riduzione carto­ grafica. Lo vediamo, meglio che altrove, in certe opere che denunciano già nel titolo la loro particolare inclinazione verso il caso e il « pro­ blema » : Responsa ed Epistulae, Ambiguitates, Quaestiones, Disputatio­ nes, Digesta e cosi via. Fra Augusto e Adriano, scrivono libri intitola­ ti Responsa Labeone, Sabino e Nerazio Prisco; piu tardi, presumi­ bilmente alle soglie (o agli inizi) dell'età dei Severi, Cervidio Sce­ vola, sempre che non si tratti di un'opera pubblicata dopo la sua morte; poi Emilio Papiniano e Giulio Paolo, Ulpiano (se si prescin­ de da alcuni dubbi recenti) ed Erennio Modestino.42 Lo scenario 42. Se si considera autentico il Liber singularis responsorum attribuito a Marcello, è ra-

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del responso cambia nel corso del tempo. Il giurista tardo-repub­ blicano, e augusteo, si moveva ancora in uno spazio cittadino, era in un rapporto diretto con il suo pubblico, anche quando affronta­ va questioni che nascevano dal traffico commerciale mediterra­ neo, o discuteva di istituti (la compravendita, per esempio) che era­ no operanti in un àmbito geograficamente vastissimo. I Libri re­ sponsorum di Cervidio Scevola, di Papiniano o di Modestino, inclu­ dono una casistica provinciale e hanno un altro « stile ». Gli interro­ ganti sono non di rado uomini che vivono in ambienti romanizza­ ti, lontano dalla capitale, o che hanno acquistato da poco la cittadi­ nanza romana. Aspetto non secondario, i quesiti sono talvolta for­ mulati in greco. Il responso può assumere la forma di un' epistula, reale o fittizia. Non sono pochi i libri di epistulae, nei primi due secoli del Principa­ to. Il modello è in M. Antistio Labeone, dal quale proviene la pri­ ma raccolta di lettere giuridiche a noi nota. Dopo Pomponio, que­ sto genere letterario non trova piu cultori. Anche il titolo Digesta scompare nell'ultima epoca classica. Sull'esempio del vecchio Al­ ferro, intitolano cosi i loro scritti piu significativi Tizio Aristone, Celso, Ulpio Marcello; il capolavoro di Salvio Giuliano, in novanta libri, riceve lo stesso nome. Accanto ai Digesta celsini incontriamo le Quaestiones ; ma scrivono Quaestiones anche Fufidio, Cecilia Afri­ cano, Cervidio Scevola; fra i giuristi successivi ne seguono l'esem­ pio Callistrato, Papiniano, Tertulliano e Giulio Paolo. Ulpiano è invece autore di Disputationes, e cosi Claudio Trifonino. Le Disputationes di Ulpiano sono un documento esemplare. L'o­ pera contava dieci libri, ma i compilatori giustinianei ce ne hanno conservato meno di un sesto. Non è molto. Tuttavia, noi possiamo ancora seguire il maestro severiano nel suo lavoro. Egli risaliva in­ dietro sino al tempo della Repubblica, per riprendere in una nuova catena di idee le opinioni piu antiche.43 La perizia tecnica si mani­ festa in maniera chiara; ma il lettore avverte, al di sotto della gionevole ricondurlo al periodo di Antonino Pio. Nella datazione del Liber responso­ rum di Giulio Aquila si oscilla fra l'inizio e la seconda metà del III secolo d.C. 43· È quanto accade con Quinto Mucio, in D. xxvm 5 35 3, L. 87.

IL T E S T O G IU R I D I C O

perizia tecnica, un'inquietudine morale autentica. Nelle Disputa­ tiones, il giureconsulto non compare solo come funzionario del po­ tere e interprete del diritto positivo; aspira ad essere anche « filoso­ fo >>, custode privilegiato di una « scienza del giusto e dell'ingiu­ sto ».44 Il suo non è, si badi bene, un atteggiamento teoretico-con­ templativo. Come i suoi piu antichi predecessori, anche Ulpiano vuole tener fermo lo sguardo sulle res turbidae che affliggono la no­ stra esistenza di ogni giorno.45 Se mai egli tenta, senza illudersi, di ricondurre l'agire pratico (ogni volta che sia possibile) a una norma e a una misura che non dipendono dal volere umano.46 La letteratura giuridica ha dunque, nel suo insieme, un orienta­ mento problematico. Esso si attenua, fino a scomparire, nelle rac­ colte di regole e nelle trattazioni isagogiche. Le Institutiones ulpia­ nee o paoline possono dimostrarlo meglio di quanto non facciano le opere omonime di Fiorentino e di Gaio. Qualche parola bisogna dire anche sui Libri regularum. Non c'è dubbio che questa forma let­ teraria abbia esercitato su L. Nerazio Prisco una grande attrattiva. Percorsero lo stesso cammino, ma non direi con lo stesso entu­ siasmo, Pomponio, Gaio e Cervidio Scevola; dopo di loro, quasi tutti i giuristi a noi noti dell'età dei Severi. Papiniano, dal canto suo, intitolò Dtifìnitiones una sua opera, riprendendo in latino il nome "Opm dell'antico libro muciano. Definizioni e massime, distinzio­ ni e « differenze », non ricorrono solo nelle opere che specifica­ mente le privilegiano, ma anche altrove. Esse funzionano come strumenti topici e diagnostici di una strategia argomentativa, e la loro stabilità, quando una stabilità viene raggiunta, è sempre al­ quanto precaria. 44. D. I I I p r.-I (Ulpiano, I institutionum, L. I908) , da avvicinare a D. I I IO (Ulpiano, I regularum, L. 2362) . Il dubbio sull'autenticità delle Institutiones è infondato, mentre lo è meno quello sulle Regulae, che T. (A.M.) Honoré, Ulpian, Oxford, Clarendon Press, I982, pp. III-13, riconduce comunque all'epoca severiana. 45. Come Apollo Pizio, anche il giureconsulto si occupa di res turbidae, secondo la si­ militudine che Cicerone, de orat. I 45 I99, costruiva sui versi di Ennio, Scen. I4I- I44 Vz. 3I6-3I8 Jocelyn. 46. Meriterebbe un esame approfondito D. v I 67, L. II2, dove mi sembra di avverti­ re un'eco del principio, condiviso anche da Ulpiano, secondo cui tutti gli uomini sono per natura liberi: D. I I 4, L. I9I2 Inst. I 5 pr.; D. L I7 32, L. 2899.

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MARI O B RE T O NE

Il campo elettivo della casistica è il diritto privato. Verso il diritto privato, d'altra parte, la giurisprudenza manifesta una particolare predilezione. Nessuno dovrebbe negarlo. Il diritto pubblico non viene però tralasciato o messo da parte. Le strutture e gli organi della comunità politica, i modi di produzione e di applicazione delle norme, divengono oggetto di analisi perfino all'interno di opere essenzialmente privatistiche. Si potrebbe risalire ai libri sui « poteri » e sulle « magistrature » dei dotti antiquari della Repubbli­ ca. Fra il pensiero giuridico e l'antiquaria non mancano, quando si toccano problemi che riguardano lo stato, significativi punti di in­ contro. È vero però che una letteratura giuspubblicistica, nel senso tecnico della parola, si venne svolgendo nell'ultimo secolo dell'im­ pero classico, fra gli Antonini e i Severi. Appartengono a Marcello e a Venuleio Saturnino due opere, l'una sulla >.23 Questo tipo di mentalità che 23. G.B. Conte, L'inventario del mondo. Ordine e linguaggio della natura nell'opera di Pli­ nio il Vecchio, in G. Plinio Secondo, Storia naturale, 1, Torino, Einaudi, 1982, p. xxi. Sulla base di praif. 15 (res ardua vetustis novitatem dare, novis auctoritatem, obsoletis nitorem, obscuris lucem,Jastiditis gratiam, dubiisfidem, omnibus vero natura m et natura e sua omnia. Itaque no bis etiam non assecutis voluisse abunde pulchrum atque magnifìcum est: « È compito arduo dare una veste nuova ad argomenti triti, conferire autorità a quelli che si trattano per la pri­ ma volta, nuovo splendore a quelli desueti, chiarezza a quelli oscuri, attrattiva a quelli

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si afferma in età augustea e che considera inutile la ricerca scienti­ fica perché in ogni campo si è ormai raggiunto il culmen24 è estra­ neo a Seneca. Per Seneca la scienza è invece, molto modernamen­ te, un >.

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S CI E NZA E PRODUZ I O NE LETTERARIA

questo è un processo eterno. Se i progressi della scienza sono lenti e incerti, questo è colpa degli uomini, che non fanno della sapienza un'abitudine di vita, ma vi si accostano occasionalmente, quando non vi è altro di meglio da fare {vn 32 1): ad sapientiam quis accedit? quis dignam iudicat, nisi quam in transitu noverit? quis philosophum aut ullum liberale respidt studium, nisi cum ludi intercalantur, cum aliquis pluvius intervenit dies, qui perdere libet?26

Ne consegue che le maggiori scuole filosofiche sono ormai prive di continuatori. La conclusione è dunque, né poteva essere diver­ samente, ricondotta alla prospettiva del filosofo morale, che vede nella decadenza dei costumi il mancato salto di qualità nel campo del pensiero scientifico, perché l'indagine scientifica si fonda sulla speculazione filosofica. Il limite è qui: credere di poter fare progre­ dire la scienza con la pura forza del pensiero.2 7 3·

SCIE NZA E POESIA

La scienza può arrivare alla letteratura di tono alto anche attra­ verso la poesia, come nel De rerum natura di Lucrezio. Anche in Lu­ crezio scienza e destino dell'uomo sono strettamente legati. La contemplazione della natura (natura e species) guidata dalla ratio per­ mette di liberare l'uomo dal terrore della morte {I 1 4 6-4 8) : Hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest non radii solis neque ludda tela diei discutiant, sed naturae spedes ratioque.zs 26. « Chi si accosta alla sapienza? Chi la rispetta a meno che non la conosca occasio­ nalmente? Chi si volge allo studio della filosofia o di qualche altra disciplina liberale, se non quando i giochi pubblici sono rinviati, quando capita qualche giorno di pioggia che si perde volentieri? ». 27. Per una valutazione complessiva del problema O. Baldacci, Seneca scienziato, in Letterature comparate: problemi e metodo. Studi in onore di E. Paratore, n, Bologna, Pàtron, 1981, pp. 585-95. 28. « È dunque necessario che i timori e le tenebre dell'animo siano dissipati non dai raggi del sole né dai dardi luminosi del giorno, ma dalla contemplazione e dall'in­ terpretazione della natura ». Sui complessi problemi compositivi di questi versi cfr. da ultimo F. Giancotti, Lucrezio, 'naturae species ratioque', I, in « Vichiana » (Studi Arnaldi),

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La fisica epicurea, affermando l'eternità della materia e il ciclo pe­ renne delle nascite e delle estinzioni che riguardano sia il corpo che l'anima, non può non infondere un senso di serenità e di fidu­ cia all'uomo che si sente parte di un equilibrio cosmico al quale partecipa insieme ad ogni forma di vita. Anche il nostro mondo, uno dei tanti nell'infinità dell'universo, è destinato a morire se­ guendo l'incessante processo di aggregazioni e di disgregazioni. Non è questa la sede per entrare neppure di sfuggita nei com­ plessi problemi interpretativi posti dal poema lucreziano, ma biso­ gnerà almeno chiarire che il messaggio di Lucrezio è « non politi­ co, ma interiore e individuale ».29 È ben difficile infatti immaginare con Farrington un Lucrezio in polemica con la « religione di Sta­ to »30 per arrivare a sostenere che l'avversione politica dimostrata nei confronti del suo poema sia all'origine della « completa deca­ denza della coscienza scientifica dei secoli seguenti >>.31 Il « colpo fatale >> sarebbe venuto a Lucrezio dal ripristino della religio voluto dal principato, per cui, una volta smarrito « il senso della necessità di una conoscenza della natura e della storia come guida del desti­ no umano », si sarebbe dovuto attendere piti di un millennio per ri­ scoprire che « il pensiero umano, autore di tutte le bibbie e di tutti i credi, è superiore a tutte le bibbie e a tutti i credi >>.32 Affascinante certo questa interpretazione di un Lucrezio propu­ gnatore della libertà della scienza e quasi precursore di Galileo, ma manifestamente infondata. Lucrezio, seguace di Epicuro che pre­ dicava l'astensione dalla vita politica, non poteva che rivolgersi alle singole coscienze, proporre un modello di libertà interiore che non aveva nessuna forza rivoluzionaria sul piano politico-sociale; e d'altra parte « non ci sono fondati motivi di credere a un bando ideologico del poeta epicureo » da parte di Augusto.33 Lucrezio XIII 1984, pp. 58-93; Lucrezio, 'natura e species ratioque'. 2, in Filologia eforme letterarie. Studi offerti a F. Della Corte, n, Urbino, Università, pp. 285-302. 29. I. Dionigi, Due interpretazioni unilaterali di Lucrezio, in « StudUrb )) , a. XLVII n. s. B, 1973, pp. 335 sg. 30. Farrington, Scienza e politica, cit., p. 113. 31. Ibid., p. 141. 32. Ibid., p. 148. 33· A. Traina, Lucrezio e la « congiura del silenzio », in Dignam dis (A G. Vallot), Venezia,

S CI E N Z A E PRO D U Z I O N E LETTERARIA

inoltre non è uno scienziato, ma un poeta, per cui il De rerum natura va piuttosto ricondotto al genere del poema didascalico, di cui pe­ raltro egli fa un uso personale e originalissimo. L'interesse che egli ha per la dottrina atomistica di Democrito e il pensiero di Epicuro non è teoretico, ma pratico: la conoscenza scientifica della natura è il presupposto del suo messaggio di filosofo-poeta. Qualcosa di analogo avviene con Manilio. Come Lucrezio è il poeta dell'« interpretazione epicurea del mondo », cosi Manilio è il poeta « della cosmologia stoica >>.34 Certo sarebbe un errore fare di Manilio una specie di « Antilucrezio »,35 perché si attribuirebbe agli Astronomica un intento polemico che non hanno, ma non vi è dubbio che Manilio considerò Lucrezio il suo modello. A base della concezione del poema sta l'immanentismo stoico: l'universo si muove per volontà divina (1 484: mundum divino numine verti), non per un caso {I 531: non casus opus est, magni sed numinis ordo), ma Dio non crea il mondo, Dio è il mondo {I 485: ipsum {se. mun­ dum} esse deum). È proprio in virtU di quest'anima diffusa per l'uni­ verso, di questa simpatia cosmica che accomuna l'uomo agli astri, che egli può ascendere al cielo e penetrarne i misteri. Ed è sempre questa UUIJ.7t&8eux che consente all'astrologia di > fosse percepi­ ta dagli antichi stessi. Toccando un genere umile non si può aspira­ re alla gloria letteraria: è un sacrificio questo al quale lo scrittore si sottomette di buon grado nella consapevolezza di fare opera utile. È l'utilità che riscatta la materia.47 Eppure chi si cimenta in qualun­ que modo con la scrittura nutre sempre dentro di sé un'aspirazione letteraria. In effetti, se si esce dagli schemi classicistici e si prescinde da un criterio estetico di « bello stile », ci si accorge che anche gli scrittori tecnici possiedono una loro piu o meno agguerrita retori­ ca. Oggi, per esempio, il giudizio categorico del Norden sulla pro­ sa di Catone non è piu interamente condiviso. Scriveva Norden:48 Lo stile del De agri cultura è del tutto grezzo: ciò è naturale, perché il libro deve servire all'uso pratico del contadino, e a lui egli parla nel tono che era familiare all'orecchio del rusticus dal testo delle leggi, quando nei gior­ ni di mercato veniva in città: tutti i fenomeni che riscontriamo nel lin­ guaggio delle leggi si ritrovano qui, e anzitutto l'assenza di ogni costru­ zione artistica del periodo.

Ebbene, gli studi piu recenti hanno notevolmente ridimensionato questo giudizio, come sottolinea Calboli negli « aggiornamenti >> 46. Della Corte, Enciclopedisti latini, cit., p. 9. 47· I. Lana, Scienza e tecnica a Roma da Augusto a Nerone, in Studi sul pensiero politico classico, Napoli, Guida, 1973, p. 390. 48. E. Norden, La prosa d'arte antica dal VIsec. a.C. all'età della rinascenza, ed. it. a cura di B. Heinemann Campana, 1, Roma, Salerno Editrice, 1986, p. 177.

P I E R G I O R G I O PARRO N I

all'edizione italiana della Kunstprosa.49 Per fermarci alla prefazione del De agri cultura, il Leeman, ad esempio, fa osservare che l'insi­ stenza delle ripetizioni, lungi dall'essere un indizio di « trascura­ tezza primitiva », è invece « un costante mezzo d'intensificazione della prosa romana ».50 Al di là dell'apparente rozzezza si scopre dunque nella prosa catoniana una precisa volontà artistica, che si manifesta da un lato nell'aderenza alla