Lo spazio letterario di Roma antica. La circolazione del testo [Vol. 2] 8884020328, 9788884020321


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Italian Pages 624 [693] Year 1989

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Lo spazio letterario di Roma antica. La circolazione del testo [Vol. 2]
 8884020328, 9788884020321

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LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA Direttori: Guglielmo Cavallo, Paolo Fedeli, Andrea Giardina

Volume II LA CIRCOLAZIONE DEL TESTO

SALERNO EDITRICE

LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA Nello Spazio letterario di Roma antica al centro dell'interesse è il testo, nei suoi momenti e percorsi: dalla produ­ zione alla circolazione, dalla ricezione all'attualizzazione. Del testo si seguo­ no le vicende lun.go la parabola del mondo romano, quindi, oltre il Me­ dioevo e il Rinascimento, fino alle ri­ prese piu o meno consapevoli o occa­ sionali nell'età contemporanea e nella civiltà dei mass-media. Per testo, inol­ tre, non s'intende soltanto ciò che a noi moderni è giunto in seguito al processo di selezione verificatosi nel­ l'antichità (e quando sia sopravvissuto alle insidie della lunga tradizione me­ dievale) ma anche quella vasta lettera­ tura sommersa, giudicata « minore» e solitamente trascurata perché affidata a forme di tradizione orale o non lega­ ta a forme letterarie nobili. Dei testi considerati però non tanto nell'ottica limitata dei singoli autori, quanto piut­ tosto nella totalità dei generi - vengo­ no ricostruiti gli itinerari culturali, i modelli che agiscono e interagiscono, i caratteri originali e le successive strati­ ficazioni. In questa compiuta rivisita­ zione, ricevono piena luce anche i meccanismi complessi della tecnica al­ lusiva e i fenomeni d'intersezione dei generi stessi e dei modelli. I fattori unificanti della cultura romana si ac­ compagnano, lungo l'arco di una sto­ ria millenaria, a elementi di diversifi­ cazione, e lo spazio letterario di Roma antica può essere anche inteso come un insieme di spazi che interagiscono. Lo Spazio letterario di Roma antica è dunque una proposta originale di ri­ pensamento della cultura romana: in essa, il progetto, la scelta degli autori, l'elaborazione della materia, il coordi­ namento editoriale, sono il frutto di un grande impegno al fine di offrire un'opera di cui sia possibile una frui­ zione al tempo stesso continua e pluri­ dimensionale. Scritta da studiosi tra i migliori di cui oggi l'Italia possa di­ sporre, quest'opera si propone anche come laboratorio di metodologie, di sperimentazioni, di prospettive.

Volume II LA CIRCOLAZIONE DEL TESTO Dalla produzione alla circolazione del testo: il secondo volume de Lo spa­ zio letterario di Roma antica affronta gli innumerevoli itinerari dei testi verso il loro pubblico. Sono forme di comuni­ cazione orale che si svolgono in conte­ sti centrali nella vita civica romana. Anzitutto il Foro e gli altri luoghi del­ la politica: quelli tradizionali e quelli nuovi, creati dalla nascita del Principa­ to e delle cerchie di corte; ma anche il tribunale, il teatro, gli auditoria, gli am­ bienti delle élites. Sono pure, naturalmente, forme di comunicazione scritta. Alcune di que­ ste, come le scritture esposte, hanno caratterizzato talmente il mondo ro­ mano da farlo definire, appunto, come una « civiltà epigrafica )). Quelli dell'e­ pigrafia sono contesti aperti, ma la co­ municazione dello scritto si realizza anche negli spazi chiusi delle bibliote­ che pubbliche e private e delle scuole, e attraverso le pratiche epistolari. In questo universo di comunicazione, lingua e lingue hanno un posto centra­ le. Il mondo romano è variegato da in­ finite venature di idiomi e dialetti lo­ cali e dominato da due lingue, il greco e il latino: la circolazione del testo di­ venta acculturazione anche attraverso traduzioni spesso obbligate. Si creano particolari dislocazioni letterarie: in un impero connotato da forte polarità tra centro e periferie emergono e si af­ fermano le culture locali, qui rivisitate nelle forme problematiche della loro autocoscienza.

In copertina: Virgilio, Eneide:

Enea presso Didone. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 3867 (Romano), sec. V, f. roov.

LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA

Volume

II

LA C I R C O LAZ I O NE DEL TE STO

LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA Volume I LA PRODUZIONE DEL TESTO Volume II LA CIRCOLAZIONE DEL TESTO Volume III LA RICEZIONE DEL TESTO Volume IV L'ATTUALIZZAZIONE DEL TESTO Volume V CRONOLOGIA E BIBLIOGRAFIA DELLA LETTERATURA LATINA

Con il patrocinio della

U BANCA DI ROMA

CC.

GRUPPO CASSA DI RISP.ARMIO DI R0�1A

LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA Direttori: GUGLIELMO CAVALLO, PAOLO FEDELI, ANDREA GIARDINA

Volume II LA C I R C O LAZIONE DEL TESTO

SA LERNO E D I TRI CE ROMA

In redazione: MARILENA MANIACI

I" edizione: dicembre 1989 2" edizione: aprile 1993 ISBN

88-8402-023-9

Tutti i diritti riservati - All rights reserved Copyright © 1989 by Salerno Editrice S.r.L, Roma. Sono rigorosamente vietati la ri­ produzione, la traduzione, l'adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfìlm, la me­ morizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Salerno Editrice S.r.L Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge.

I LINGUA E LINGUE

A L D O L. PRO S D O CIMI

LE L I N GUE D O M I NANTI E I L I N G U A G G I L O CALI

Nel ricordo amico di Giorgio R Cardona I.

IL

TESTO COME PRODOTTO DI

LINGUA. LA N O RMA

Pur sapendo che è passato il tempo in cui « letteratura » era presa in senso bellettristico e non antropologico, e che pertanto il « testo letterario » non è soggetto a restrizioni dovute a giudizi di valore, ritengo opportuno riportare il « testo » oltre ogni tipo di letterarie­ tà - meglio, indipendentemente da qualsiasi letterarietà - definen­ dolo in prima approssimazione come un enunciato portatore di un senso sufficientemente compiuto. Per questa accezione si è sugge­ rito o decisamente usato il termine « discorso », che unifica senza trascinare i giudizi di valore connessi col termine « testo ».1 Mal­ grado ciò, continuo ad usare « testo » per esaugurare quello che di­ vide le diverse esecuzioni di lingua e, insieme, per porre al giusto posto ciò che le divide, il « valore ». Nella mia prospettiva interessa piuttosto quello che è accomu­ nante, cioè la socialità della lingua come comunicazione. Per que­ sto spazio come risultato uso il termine « coinè », mentre per la di­ namica che lo crea uso il termine di « norma », sostanzialmente nel senso di E. Coseriu.2 Questa prospettiva mi porta a considerare I. Ho abbozzato qualcosa del genere in Testo e diacronia, in AA.VV., Memoria del sa­ cro e tradizione orale, Atti del m colloquio interdisciplinare di Studi Antoniani (Padova 4-6 gennaio 1984) , Padova, Centro di Studi Antoniani, 1984, pp. 293-311; cfr. anche il mio. Su testo e segno, in AA.VV., Linguistica testuale, Atti del xv Congresso della SLI (Ge­ nova-S. Margherita Ligure, 8-10 maggio 1981) , Roma, Bulzoni, 1984, pp. 63-84. 2. In varie opere, per cui si vedano le bibliografie nelle Festschriften: Logos Semanti­ kos, Berlin-New York-Madrid, De Gruyter, 1981, ed Energeia und Ergon, Tiibingen, G. Narr Verlag, 1987; specificamente E. Coseriu, Sincronia diacronia e storia. Il problema del cambio linguistico, Torino, Boringhieri, 1981 ( trad. it. di Sincronia diacronia e historia. El problema del cambio linguistico, Montevideo 1958) , e Id., Sistema norma y habla, Montevi-

II

ALD O L. PRO S D O CI M I

come previsto dalla « committenza » espressa nel titolo - il rappor­ to (o non rapporto) del latino con altre lingue nell'Italia antica. « Nell'Italia » invece che « dell'Italia » vuole essere significativo contro una concezione che separa con iato una (presunta) italicità autoctona da una non autoctona; certo, quanto a « italicità » la gre­ cità è diversa dalla « etruscità » o dalla « oscità », ma la grecità (e non solo questa) ha, in Italia, un titolo di « italicità » che non va troppo subordinato o addirittura annullato in favore della matrice lontana (qui greca). Ma quella prospettiva mi porta anche a considerare, insieme o prima, la formazione del latino di Roma; meglio - eliminando il termine di « formazione », troppo restrittivo e finalizzato al latino di Roma, come ideologizzato ancor piu che come fattuale - inten­ do mettere in evidenza la complessità e la dinamicità precedente o entro la fase « letteraria », nelle diverse polarizzazioni culturali; per questo al termine Latinisch (latino non romano) opposto a Latei­ nisch (latino della tradizione, cioè romano) faccio corrispondere il termine « latini », dove il plurale non si oppone solo a un/il latino, quello di Roma, ma vuole significare la potenziale esistenza di « la­ tini » oltre che nel Latium vetus all'interno della stessa Roma. Il termine > è un concet­ to limite: si pensi al latino umanistico e al latino dei revivals moderni, tipo latino del Pascoli e del Certamen coronarium; un coefficiente di energeia, in quanto lingua, vi è sempre. Completerei con il concetto di DIA che ho e­ strapolato 6 da dia(cronia), dia(topia), dia(stratia), dia(fasia) per accentuare

3· Intendo questo concetto humboldtiano nell'interpretazione di Coseriu (nota 2). 4· Uso il termine « architettura » nel senso specifico di Coseriu, quale corrispon­ dente nella norma storica di ciò che nella lingua astratta è il sistema. s. Ho sviluppato questa prospettiva in corsi universitari e conferenze inedite; cen­ ni nel riassunto della comunicazione Il non-cambio linguistico, comparso nel Bollettino della Società di Linguistica Italiana del 1982; cfr. anche E. Coseriu, "Linguistic change does no t exist", in « Linguistica nuova e antica », a. 1 1983, pp. 51-63. 6. A.L. Prosdocimi, Diachrony and Reconstruction: J:enera proxima' and 'differentia speci­ fica', in Proceedings of the XIIth Int. Congress oJLinguists, Innsbruck, 1978, pp. 84-98; Id., 13

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l a continuità della varietà: l a varietà diacronica può essere o fissata nello spazio diatopia o nella stratificazione sociale diastratia o nello stile di esecuzione diafasia ; e ciò vale, di converso, per gli altri dia . . . : ciò che

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è«norma>> di uno strato può divenire diacronia una norma di altro stra­ to o generale sovraordinata etc.; la norma può essere isomorfa o può es­ sere in contrasto, nel dividere o nell'unire: la giunzione delle due pro­ spettive- immettendovi se si vuole ma non è necessario la autocoscien­ za storico-culturale - importa che una definizione quale«dialetto di una lingua X » sia relativa e non assoluta; è questa una variante «forte » di at­ tribuzioni quali urbanitas vs. rusticitas.

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Credo appaia, in traluce, il perché di questa premessa rispetto al latino di Roma che latinizza (romanizza) tutta l'Italia (e poi una buona parte del mondo allora conosciuto); 7 ma vorrei sottolineare l'importanza che io le attribuisco in rapporto alle varietà del latino (« latini ») prima (e durante) l'affermarsi del latino di Roma: « di Roma » significa che la lingua in questione è l'espressione linguisti­ ca di Roma come fenomeno storico, avviato a divenire unico nella storia, ma certo non ancora « unico » nel suo essere tra le altre co­ munità dell'Italia antica; non solo, ma nella fase iniziale, neppure unico rispetto ad altre comunità latine. Un autorevole sociologo del linguaggio,J.A. Fishman,8 pone la seguente affermazione: > : l'espansione etrusca; l'irradiare degli Italici, con fenomeni di sovrapposizione (anche all'interno di se stessi); l'elemento punico; quel grandioso fenomeno che è la greci­ tà presente sia per tramiti commerciali-culturali sia come massicci insediamenti, specialmente nell'Italia meridionale e insulare; e in­ fine il fenomeno romanizzazione che, ricoprendo spesso la realtà già complessa cui si è sopra accennato, offre il massimo, in quantità e varietà, di situazioni sociolinguistiche. L'affermazione di Fish­ man, inaccettabile, ha forse una giustificazione fattuale: la lingui­ stica se ne è troppo poco occupata, e i lavori dei filologi classici non hanno di norma interrogato le fonti da questo punto di vista. La prima affermazione sulle carenze della linguistica - che ha elabo­ rato le nozioni di sostrato, adstrato, superstrato, peristrato; che ha spesso trattato la romanizzazione etc. - stupirà: dirò subito in che senso si è parlato di carenze. La coesistenza e conflittualità è fisio­ logica e non patologica nell'esistenza delle lingue. Una tradizione appuntata su lingue letterarie o di coinè normalizzata - principal­ mente per orientamento filologico, ma non per questo esclusivo: basti pensare al senso delle leggi fonetiche nei neogrammatici, a certi aspetti della « langue >> saussuriana, alle astrazioni dello stan­ dard di Bloomfield, del parlante ideale di Chomsky etc. - ha impo­ sto una concezione deformata su questo punto, sia in sincronia che in diacronia. In sincronia: non c'era da aspettare la sociolinguistica nel senso afferma­ to negli ultimi trent'anni, per scoprire che società assolutamente mono­ lingui praticamente non esistono; e, anche ove esista, tale monolingui­ smo è relativo, cioè esistono almeno degli stili obbligatori a seconda del contesto di interazione sociale, che possono andare da un minimo, ridot­ to appunto a variazioni di stile e/o registri all'interno dello stesso codice, fino a commutazioni-alternanze di codice etc.

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Per quanto concerne la diacronia non vi sarebbero problemi, almeno in apparenza, nell'intendere quanto dico, perché al contrario della sincro­ nia, è questa la dimensione in cui la variazione è stata tosto colta, quasi identificatavi 9 dall'evoluzione dello stesso codice, alla sostituzione di co­ dice (cioè al cambiamento di una lingua con un'altra) e, all'interno,!'inter­ ferenza di codice sull'altro, tematica quest'ultima meglio conosciuta co­ me afferente al « sostrato ». All'insegna dell'etichetta «sostrato» 1 0 (e succedanei: parastrato, peri­ strato, adstrato) sono state combattute battaglie; si sono distinti gli studio­ si in«sostratomani» e «sostratofobi». Molto si sdrammatizzerebbe se i sostratofobi si rendessero conto di combattere un fenomeno costitutivo del meccanismo linguistico (prima che in diacronia, nella stessa sincro­ nia) e nello stesso tempo i sostratomani si rendessero conto di utilizzare un concetto non sbagliato ma spesso inadeguato, in quanto frutto di intui­ zioni o deduzioni da situazioni note, ma, di norma, non rigorosamente analizzate, specialmente nella complessa meccanica delle forze agenti (le analisi sul campo in questa direzione sono invece caratteristiche della so­ ciolinguistica). In assenza di questa verifica, della coscienza dell'esistenza di tali processi e della possibilità di coglierne una gamma tipologica da quanto offrono le varie lingue del globo (gamma da sfruttare almeno qua­ le indice euristico) il «sostrato» è stato addirittura antologizzato (piu spesso che non sembri) quasi forza trascendente i singoli parlanti e il con­ tatto, in essi, delle singole lingue. Perché sia valida, la prospettiva«sostrato» va riportata nel quadro plu­

rilinguismo o diglossia in atto; 11 !imitandoci al nostro tema, il latino si è sostituito a lingue in vario grado lontane, alcune potenzialmente passibili di essere«annacquate» dalla latinizzazione (mi si passi la dizione impres­ sionistica), recepite come varietà rustiche o dialettali del latino. Ciò di­

pende dalla distanza strutturale che separa le lingue; sotto questo aspetto le lingue dell'Italia antica erano, rispetto al latino, in diversa posizione: ma alcune - dialetti del Latium vetus, falisco, italico in generale(?) - era­ no nella condizione prevista, specialmente nei confronti delle varietà di latino non standard e/o urbano, con cui (o anche: entro cui) potevano es­ sere recepite in un continuum diglottico. Del plurilinguismo 12 dovrà essere, nei limiti del possibile e almeno ne-

9· Prosdocimi, Diacronia: ricostruzione, cit. a n. 6. Sul sostrato cfr. D. Silvestri, La teoria del sostrato. Metodi e miraggi, 3 voli., Napoli, Macchiaroli, 1977-1982. II. Sulla diglossia cfr. nota 55. 12. Sul plurilinguismo nel mondo antico cfr. ora A. Prosdocimi, Plurilinguismo e IO.

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LE L I NGUE D OM I NA N T I E I L I NGUAGGI LOCA L I

gativamente, individuata la posizione ideologica e strutturale nella co­ scienza del parlante, cioè della comunità di parlanti: tale atteggiamento è il condizionamento dell'accettazione o no di determinati moduli, di uno stile o di un altro, di una lingua o di un'altra, cioè di quanto determina il cambio linguistico,B sia all'interno di una singola tradizione, sia nell'im­ patto di tradizioni diverse. Donde l'importanza, anzi la centralità, nel de­ terminare tale atteggiamento: come è avvenuto il trapasso linguistico? e cioè: quali forze l'hanno imposto? quali classi l'hanno propagato? quale era la situazione plurilingue? come avveniva la comunicazione tra le va­ rie componenti sociali? etc. Dal punto di vista romanzo non si è loro risposto, anche perché in fon­ do interessava poco. Di fatto si parte 14 dalla situazione romanza e si cerca la giustificazione della sua complessità nella storia della romanizzazione: il che è sacrosanto (seppur parziale: non si dimenticheranno i dinamismi posteriori!), ma con« romanizzazione » si riportano i fatti politici, le date, nella migliore delle ipotesi i quadri socioculturali; ma pochi o punti ten­ tativi di individuare come il fatto storico si traduca, mediatamente, in per­ tinenza per quanto concerne la lingua. Questa« romanza» è comunque una prospettiva piu ancorata alla per­ tinenza linguistica che non quella dei classicisti, in cui, peraltro con note­ voli eccezioni, si ha spesso una trasposizione quasi brutale di fatti storici, mentre la pertinenza linguistica, che dovrebbe consistere nell'identifica­ zione del processo in atto (la disattenzione ai processi in favore dei risul­ tati è non poco frequente) è relegata agli eventuali riflessi romanzi (ri­ chiamo per tutti i lavori di Terracini).

In conclusione, in entrambe le prospettive (antica e romanza) il fattore «lingua», specialmente nella sua dinamica sociale e sincro­ nica, vi appare per lo piu in forma indiretta, come funzione di una grandezza diversa e, sostanzialmente, si ha sempre la stessa operaideologia del plurilinguìsmo nel mondo antico, in Commercia linguae. La conoscenza delle lingue nel mondo antico, Atti della giornata di studio nell'ambito degli Incontri del Diparti­ mento di Scienze dell'Antichità dell'Università di Pavia con i docenti delle scuole se­ condarie {Pavia, 16 marzo 1989) , Pavia 1989, pp. 9-30. Qui ho esposto parte di questo capitolo. Le comunicazioni degli altri relatori (M. Liverani, L. Canfora, A. Setaioli), come pure gli interventi di Gabba, Mazzoli e Ramat, sono stati particolarmente sti­ molanti e, in qualche caso, hanno dato motivo a ripensamenti; tuttavia qui non ho po­ tuto tenerne conto che marginalmente. 13. Coseriu, Sincronia diacronia e storia, cit. a n. 2. 14. Per tutti cito il bel lavoro di E. De Felice, La romanizzazione dell'estremo sud d'Ita­ lia, in « AATC �. a. xxvi 1961-62, pp. 231-82.

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zione, solo diversamente angolata (dall'alto o dal basso): proiezio­ ne (dal basso) o anticipazione (dall'alto) della situazione dialettale romanza nella storia, non nella storia linguistica, romano-italica. Que­ sta presenza indiretta del fattore lingua ha dato l'impressione di un pieno che in alcuni settori è sostanzialmente un vuoto. In partico­ lare si sente la necessità di un lavoro di scavo di fonti e della elabo­ razione, dalle stesse, sia delle reali situazioni plurilingui sia dell'i­ deologia antica sul plurilinguismo,15 senza queste premesse (come detto ancora in votis) ogni affermazione basata su singole fonti non può che avere valore impressionistico e l'argomentazione, su que­ ste basata, non può che risultare inconsistente [cfr. pp. 57 sgg.]. 2. LATIN O E ITALI C O C O ME ANTEFATTI

La prospettiva che è pertinente qui non è quella dei rapporti ge­ nealogici del latino di Roma con altre lingue indeuropee - in parti­ colare dell'Italia antica - ma è quella dei rapporti culturali con le al­ tre realtà linguistiche con cui è venuto in contatto; rispetto a queste ci atteniamo di massima a quelle dell'Italia antica per caratteristi­ che particolari e per la necessità pratica di restringere il campo, ma non per mancanza di interesse dell'impatto del latino con lingue extraitaliche. Ciò posto, dato il Jactum - a mio avviso p ili negativo che positivo - che per il latino esiste, ultracentenaria, la questione della parentela (= posizione nello stemma genetico), si ritiene op­ portuno dedicarle un appunto (al fine di accantonarla come poco o punto pertinente). La questione dell'unità latino-italica o la sua negazione era stata posta in termini classificatori sostanzialmente secondo lo Stamm15. Il mio antico programma « Per una raccolta di fonti sul plurilinguismo e sull'i­ deologia del plurilinguismo nel mondo antico: materiali per una sociolinguistica. Programma di lavoro » (appendice in Il conflitto delle lingue. Per una applicazione della so­ ciolinguistica al mondo antico, in La Magna Grecia nell'età romana, Atti del xv Convegno di studi sulla Magna Grecia, Napoli, Arte Tipografica, 1976 [-78], pp. 139-221, 208 sgg., ri­ preso con decurtazioni nella relazione di cui alla nota precedente, pp. 9-n, nota 2) re­ sta tuttora un desideratum, anche se si sono fatti passi in quella direzione (cfr. le già ci­ tate relazioni alla giornata pavese: n. 12).

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baum fino al Marstrander (negatore); 16 in un articolo coevo 1 7 G. Devoto importava un tentativo di storicizzazione, dapprima di­ stanziando nel tempo e nella cultura Latini e Italici, per arrivare al­ la fine 1 8 ad una formulazione che rinunciava alla classificazione verticale in favore della meccanica e dinamica di (ri)formazione tra i nuclei indeuropei (arrivati) in Italia. Ho ripreso la questione a proposito degli esiti delle aspirate, del perfetto come categoria, della risistemazione in basi verbali, del­ l'accento; 19 volutamente ho evitato una presa di posizione classifi­ catoria perché non ritengo ancora maturi i tempi per una nuova sintesi tra modelli di parentela linguistica e modelli di interpreta­ zione storica: ogni tipo di parentela linguistica ha alle spalle una ca­ tena di avvenimenti storici, ma questi non sono la reificazione ut sic del modello scelto per dare ragione della parentela linguistica; e, viceversa, il modello interpretativo di una certa realtà di cultura materiale non può essere tradotto, ut sic, in storia linguistica. Per quello che concerne il nostro àmbito (latino nel Latium pri­ ma, quindi rapporti con altri nuclei indeuropei), il punto centrale è di proporsi - non risolvere, il che credo immaturo - la questione di « come », in Italia, sono, cioè interagiscono e si evolvono le lingue indeuropee (e non), prima del X-IX secolo,20 cioè prima di quella 16. In « NTS », a. III 1929, pp. 129-52. 17. G. Devoto, Itaio-greco e italo-celtico, in Silloge linguistica dedicata alla memoria di G.L Ascoli, Torino, 1929, pp. 200-39, poi ripreso in Gli Antichi Italici, Firenze, Vallecchi, 1931. 18. A. Prosdocimi, Premessa alla Storia della lingua di Roma di G. Devoto, rist. anasta­ tica, Bologna, Cappelli, 1983, pp. II-xvi; Id., Interoento, in Giacomo Devoto a dieci anni dal­ la scomparsa, in « AATC », a. LIII, n. s. XXXIX 1988, pp. 305-16; Id., Giacomo Devoto, in stampa nel Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Ist. d. Enciclop. Ital. 19. A. Prosdocimi, Latin and Italic, in stampa in AA.W., LE. Phonology, [titolo prov­ visorio] a cura di W. Winter; Sull'accento latino e italico, in Festschriftfiir Ernst Risch zum 75. Geburtstag, Berlin-New York, De Gruyter, 1986, pp. 601-18; A. Marinetti, Il verbo italico: apporti dalle iscrizioni sudpicene, in « Linguistica Epigrafia Filologia Italica », a. II 1984, pp. 27-73; A. Prosdocimi-A. Marinetti, Sulla terza plurale del perfetto latino e indiano antico. Appendice: perfetto ed aoristo nell'Italia antica, in « AGI », a. XXIII 1988, pp. 94-125; sull'argomento ho altri lavori in stampa. 20. Queste riflessioni sono originate dalla lettura con occhi « linguistici » delle re­ centi « storie » su base archeologica per la fase di trapasso dal bronzo al ferro; per tutti cfr. G. Colonna, I Latini e gli altri popoli del Latium, in AA.VV., Italia omnium terrarum alumna, a cura di G. Pugliese Carratelli, I, Milano, Scheiwiller, 1988, pp. 411 sgg. I9

ALDO L. PRO S DO CIMI

polarizzazione che conosciamo come protovillanoviano-villano­ viano: è una questione che qui non trattiamo, ma che esige una ri­ meditazione e una revisione dell'essere delle lingue, del loro farsi rispetto alla realtà sociologica. Ciò ha evidentemente una implica­ zione per l'indeuropeismo in Italia, tra « l'arrivo » (o gli arrivi) e il farsi, che non è il dividersi dell'albero genealogico ma che è appun­ to ilfarsi che implica il dividersi come l'aggregarsi, non in alternati­ va ma in dialettica: come detto, è questo un obiettivo di identifica­ zione storica e storiografica che ci si deve porre per ciò che precede il X-IX secolo. Per ora è un (altro) desideratum. 3·

LA

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scRITTURA IN TALIA E A RoMA

Norma e/o norme nell'Italia antica sono riconoscibili a partire dalla fase documentale, cioè dalla fissazione scritta tramite la scrit­ tura, in questo caso alfabetica. Ma la scrittura è di solito considerata come fatto estrinseco e non come un fatto intrinseco per quanto ri­ guarda la norma nel farsi, e piu ancora nel perpetuarsi. A parte la mia personale posizione (che qui non giustifico), che vede nella scrittura una nuova dimensione della lingua, è evidente la funzio­ ne normativa della scrittura in quanto essa stessa è essenzialmente norma, e funziona come norma. L'alfabeto arriva in Italia con un ante quem da porre al 7oo a.C., data della pili antica iscrizione etrusca datata ( Cristofani). Ma già questa iscrizione da Tarquinia presuppone, per scelte grafiche ben « mature », anche fatti complessi cosi da retrodatare almeno di de­ cenni l'acquisizione della scrittura greca (alfabeto) nell'Italia anti­ ca. Si è usato « acquisizione » e non « introduzione » perché è una volontà culturale locale che fa importare la scrittura (qui alfabeti­ ca) : i « contatti commerciali » di una certa vulgata sono una occa­ sione ma non la causa; cosi, contro la predetta vulgata, la scrittura che viene prima « richiesta » e poi accolta come esigenza culturale, non arriva casualmente ma arriva tramite scuola e insegnamento 21 21. Su ciò A. Prosdocimi, Puntuazione sillabica e insegnamento della scrittura nel venetico e nelle fonti etrusche, in « AIQN », sez. linguistica, a. v 1983, pp. 75-126; Id., L'origine delle 20

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con un corpus dottrinale ben piu ampio, dotto e cosciente di quanto - diversamente che per altre scritture dell'antichità - si sia abituati a pensare per l'alfabeto, la cui semplicità di insegnamento e ap­ prendimento è certo superiore a quella di altre scritture, ma non è cosi semplice come si crede: dietro l'alfabeto c'è un corpus dottrinale in possesso di scuole e scribi: anche se l'alfabeto fosse stato insegnato da un pateifamilias22 il concetto di « scuola » conserverebbe la sua validità. La scrittura in Etruria è un tutt'uno col farsi dell'urbanismo, cioè, per alcuni, col farsi della stessa realtà etrusca; è, in sé, un indi­ ce-guida socioculturale all'interno delle tradizioni culturali etru­ sche - individualità e connessioni - ma è anche un indice-guida per i rapporti dell'Etruria col resto dell'Italia antica. Per quanto concerne l'Etruria vi sono aree alfabetiche - grosso modo nord vs. sud, con una particolarità a Cere - pur essendovi una unità di trasmissione e ricezione; 23 evidentemente c'è una vo­ lontà di connotarsi culturalmente come differenza ed espressione di autoidentità. L'alfabeto come volontà di connotazione culturale è evidente nella sua ricezione nell'Italia settentrionale, a partire dall'inizio del VI sec. a.C.; il caso piu evidente è quello venetico per piu ragioni, tra cui la fortunata

combinazione di avere il piu ricco corpus di testimonianze di una scuola scrittoria locale, promanante da una scuola scrittoria etrusca del sud (Cere? Veio?) e impostasi a una precedente scuola scrittoria del nord (Chiu­ si?), quindi con la possibilità di individuare almeno una tecnica di inse­

gnamento della scrittura e di intravvedere il corpus dottrinale che c'è die­

tro. È notevole il riaffermarsi di varietà locali, non casuali ma interna­ mente coerenti sia per le scelte scrittorie che per i correlati formulari; non solo ma in un centro del Cadore (Lago le di Calalzo) vi è la concorrenza di

rune come trasmissione di alfabeti, in Studi . . . Mastrelli, Pisa, Pacini, 1984, pp. 387-99; Id., L'alfabeto come insegnamento e apprendimento, relazione al Convegno su �Gli alfabeti nell'Italia antica » (Orvieto 1985) , in stampa negli Atti; Id., La trasmissione dell'a lfa beto nell'Etruria e nell'Italia antica: insegnamento e oralità tra maestri e allievi, relazione al II Con­ gresso Internazionale di Studi Etruschi (Firenze 1986) , in stampa negli Atti; cfr. anche Pandolfini-Prosdocimi a nota 25. In quanto segue è implicito il rimando a questi lavori. 22. E. Peruzzi, Romolo e le letteregreche, in « P & P », a. XXIV 1969, pp. 161-69, e Origini di Roma, II, Bologna, Pàtron, 1973. 23. Prosdocimi, La trasmissione dell'alfabeto, cit. a n. 21.

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due scuole o, meglio, d i usi scrittori coesistenti; i n questa prospettiva s i è, ancora una volta, constatato errato il giudizio di valore basato sulla super­ ficie documentale o sulla perifericità culturale: la«scuola» vale nel Vene­ to (fino al contiguo e«p ili periferico» retico) come nell'Etruria dei centri maggiori e già urbani optimo iure. Dopo di che va però detto che le caratte­ ristiche di cultura non urbana del Veneto riaffermano le proprie esigenze nel selezionare gli usi scrittori per dediche votive o funerarie - forse per qualche iscrizione civile o di diritto sacro - e con una stereotipicità pro­ gressiva, segno che l'esigenza culturale di VI secolo, corrispondente a un certo livello, va involvendosi e regredendo per mutate condizioni socio­ economiche. La riprova della funzione della scrittura insegnata nei santuari venetici e, insieme, della sua posizione «sociopolitica» oltre che culturale, viene dalla reinterpretazione dell'insegnamento nel trapasso alla romanizza­ zione, specialmente nell'inserzione di un esercizio scrittorio romano ne­ gli esercizi scrittori venetici in una lamina alfabetica del santuario di Rei­ tia a Este; 24 il committente (o lo scriba in funzione della committenza, il che è lo stesso), vuole connotarsi romanamente. C'è la premessa alla dis­ soluzione nella romanità, ma non c'è ancora dissoluzione: non è la vec­ chia cultura che agonizza ed è recuperata per operazione antiquaria (ma­ le eseguita) nella nuova cultura (scrittoria) affermata, ma c'è l'inizio del­ l'affermazione, l'affacciarsi della romanità in una cultura ancora locale. Il santuario di Reitia conserva fino alla fine la sua funzione scrittoria; e que­ sta vitalità si proietta in fase di romanizzazione come indica il fatto che proponga un esercizio alfabetico specifico della tecnica di insegnamento romano, e non un semplice alfabeto, come invece avviene in Es 29. Con­ giungendo Es 27 a Es 29 che ha un alfabeto latino, si dà consistenza a que­ sta prima fase di romanizzazione in cui il santuario si proponeva di assol­ vere alla stessa funzione di centro scrittorio che aveva in precedenza. L'o­ perazione non avrà avuto poi esito non per incapacità o assenza di deter­ minazione, ma perché le condizioni per centri di questi tipo erano ineso­ rabilmente cambiate con la civiltà pienamente urbana portata dalla roma­ mzzazwne. Abbiamo trascelto il caso del venetico per la marginalità culturale co­ me Italia settentrionale e quindi per la sua significatività; tuttavia è impli­ cito che l'espansione («richiesta» e acquisizione) dell'alfabeto nell'Italia

24. Si tratta dell'iscrizione siglata Es 27 nell'edizione di G.B. Pellegrini-A.L. Pro­ sdocimi, La lingua venefica, Padova-Firenze, Istituto di Glottologia dell'Università­ Circolo Linguistico Fiorentino, 1967; per la rilettura dell'esercizio scrittorio nel senso esplicato in testo: A.L. Prosdocimi, in G. de' Fogolari-A.L. Prosdocimi, l veneti antichi. Lingua e cultura, Padova, Editore Programma, 1987, pp. 271-74. 22

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settentrionale è u n fatto d i «scuola» e cultura, i n cui «cultura» arriva a valenze politiche in senso anche superetnico; di ciò parleremo a proposi­ to dell'orizzonte culturale sudpiceno (dr. avanti, par. 7) o del formarsi e perpetuarsi del sannita, qui con isomorfìa tra espressione alfabetica, lin­ gua e sentimento etnico e politico anche in fase di sicura romanità (ciò ol­ tre la romanizzazione) fino alla guerra sociale. C'è anche il negativo che può essere significativo, e cioè la mancata creazione di un alfabeto autonomo (alfabeto greco in Sicilia; alfabeto lati­ no nell'Italia antica di IV-III sec. a.C.) o l'accettazione di alfabeti allogeni con variazioni minime in funzione delle esigenze proprie delle lingue (umbro, messapica, lucano).

Sulla fonte dell'insegnamento come prospettiva di attribuzione di valori ho già detto sopra; qui mi preme rilevare che il corpus che portava i valori portava anche le regole d'uso per cui in etrusco cer­ te lettere avevano nome, avevano valore, si imparavano, ma non si dovevano usare; chi ha utilizzato quel corpus ha pertanto potuto ag­ giungere e sopprimere alcune regole d'uso e, in questo modo, ha creato un nuovo alfabeto in quanto definito da forme e valori = re­ gole d'uso. Se l'alfabeto, oltre che dalle forme, è definito dalle rego­ le d'uso, ove compaiano regole diverse si è in un alfabeto diverso; diviene allora importante determinare le regole: quelle viste sono oggettive in rapporto alla diversità di sistemi fonematici e alla co­ stanza di notazione. Resta il problema di f tra [w] e [� a proposi­ to dell'attribuzione, etrusca o latina, di vetusia (cfr. nota 25) . L'alfabeto latino continua l'alfabeto teorico, quindi l'insegna­ mento greco tramite l'insegnamento etrusco. L'alfabeto latino ha sempre imbarazzato fra una trasmissione etrusca che si può porre all'insegna del valore c di gamma, e una « grecità » da porre all'inse­ gna delle sonore e o in uso greco; a ciò si è aggiunto il caso ( vetu­ sia », l'iscrizione prenestina di+ 670 a.C., costituita da questa sola parola, ma assurta a notorietà e (presunta) centralità per la presen­ za etrusca anche linguistica nella Preneste di inizio VII secolo a.C.; il tutto basato sulla grafia F invece di V per [w]: ho mostràto che l'argomento è del tutto insussistente.25 Comunque l'iscrizione ha (

25. A.L. Prosdocim� Vetusia di Preneste: etrusco o latino?, in « StEtr »,a. XLVII 1979, pp. 379-85; Id., Ancora su Vetusia: il F = [!J] nell'alfabeto modello de/ latino, in « St Etr »,a. XLVJII 1980, pp. 285-90; Id., Helbig medJefaked? Sull'autenticità dellafibula prenestina: riflessioni an-

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ALDO L. PRO S D O C I M I

riproposto la questione: se e in quale misura si possa parlare di alfa­ beto teorico distinto per regole d'uso da un alfabeto etrusco. La composizione dell'aporia sta nel concetto di « scuola » alfabe­ tica, per cui e in cui l'alfabeticità precede e comprende le regole d'uso: una scuola alfabetica di VII sec. a.C. non è esclusivamente etrusca, ma è etrusca se e in quanto dà regole per l'etrusco; è latina se e in quanto dà regole per il latino etc.: non diversamente da un insegnamento alfabetico attuale in cui si differenziano le regole d'uso, poniamo tra italiano, francese, spagnolo etc. La sola differen­ za è soltanto in una prospettiva estrinseca e cioè nel fatto che in certe aree ed epoche il corpus dottrinale conserva regole precedenti (greche per l'etrusco; greche ed etrusche per il latino; ciò non di­ versamente dalla regole sumeriche o accadiche per l'ittita) e con­ templa regole diverse a seconda della lingua-cultura cui dovranno essere applicate. Il concetto di « corpus dottrinale » è ben piti ampio di quello che traspare da ciò che ci resta - iscrizioni ed alfabetari - e questo va sottolineato in opposizione a un modo restrittivo di concepire il fatto scrittorio (su ciò cfr. la letteratura cit. a nota 21) . Pertanto nel­ l'alfabeto latino come derivato dall'etrusco non era necessaria una presenza di grecità come fonte secondaria, ma era sufficiente la grecità che portava con sé il corpus teorico di cui sono riflessi docu­ mentali gli alfabeti teorici, cioè i nomi e la recitazione, cioè i valori, greci o prossimi a quelli greci, delle lettere « morte », come è nella definizione corrente, ma in realtà vivissime. Per ragioni che non è qui il caso di approfondire, l'alfabeto etrusco aveva ereditato dalla matrice greca una sovraddistinzione per la velare notata come c, k,g a seconda della vocale che segue (c= y davanti e, i; k davanti a; q da­ vanti u}. Per almeno un secolo le scuole scrittorie tendono a sem­ plificare questa sovrabbondanza, il nord in favore di k, il sud - spe­ cialmente Cere - in favore di c. Si afferma di solito che Roma segue la via di riduzione ceretana; go/ate dall'epigrafe, in« Linguistica Epigrafia Filologia Italica �.a. n 1984, pp. 77-n2; inol­ tre i lavori sugli alfabeti citt. a nota 21, e M. Pandolfìni-A. Prosdocimi, Gli alfabetari del­ l'Italia antica, Firenze, Olschki, in stampa.

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ciò con apriori di verosimiglianza storico-culturale. Mi pare trop­ po semplificato: se il risultato è la riduzione in c di tipo ceretano, il processo è, almeno in parte, autonomo e, comunque, va visto nella logica interna. In una scritta pubblica come il cippo del Foro - me­ tà VI secolo - il sistema c�k�q di fine VIII-VII secolo è ancora in­ tatto (salvo sakros per *saqros) ; ma contemporaneamente o una ge­ nerazione prima vi è in atto, con l'iscrizione di Dueno, una sempli­ ficazione interna: per due volte (pacari,Jececl) un k è corretto in c e questo uso si può considerare una « riforma » che non ha avuto se­ guito. Dopo queste fasi l'alfabeto a Roma si assesta a partire dalla fine del VI sec. a.C., forse in concomitanza dell'avvento della repubbli­ ca: in favore di questa precocità può non essere casuale che in un primo momento Margherita Guarducci avesse giudicato di IV se­ colo l'iscrizione di Satricum, riportata alla fine VI mediante conte­ stuazione con altre epigrafi da G. Colonna.26 Dopo l'assestamento (presumibilmente di V sec. a.C.) l'alfabeto di Roma si espande, il che è un indice di storia linguistica e culturale sottovalutato: non si impone, o si impone tardissimo (II-I sec. a.C.) su aree che hanno una loro individualità - sia pure a diverso titolo - individualità che si vuole mantenere, come è l'area sannita o l'area umbra; di con­ verso si impone precocemente su aree che pur avendo una loro in­ dividualità espressa in una coinè linguistico-alfabetica come è il ca­ so del sudpiceno (pp. 40 sgg.), non hanno motivazioni culturali di continuità: le nuove realtà politiche e culturali espresse da Picenti, Pretuzzi, Marrucini, Vestini, Peligni non continuano l'alfabeto (e quanto vi è sotteso) della precedente fase sudpicena, ma accolgono già in IV-III sec. a.C. l'alfabeto di Roma e, correlatamente, roma­ nizzano la lingua senza quello iato e attardamento cronologico che, per esempio, caratterizza il sannita che è lingua di coinè in scrittura nazionale fino alla guerra sociale. 26. G. Colonna, L'aspetto epigrafico, in AA.VV., Lapis Satricanus. Archaeological, epigra­ phical, linguistic and historical aspects of the new inscriptionJrom Satricum, Archeologische Studien van het Nederlands Institute te Rome, Scripta Minora, v, 's-Gravenhage, 1980, pp. 41-52. 25

ALDO L. PRO S D O CIMI



LE

« RIFORME » GRAFICHE A

Ro MA

La tradizione storica conosce riforme della scrittura in Grecia (per esempio quella sotto l'arconte Euclide) e a Roma (Appio Claudio, Carvilio Ruga, Accio, etc.) : « riforma » come concetto e termine è stato applicato sovente da M. Lejeune, per ambito dove non c'è tradizione storica ma solo i riflessi nell'uso scrittorio. È evi­ dente che dette riforme implicano una concezione « scolastica », secondo cui la scrittura è insegnamento e tradizione, su cui si può innovare, non da parte di singoli e/o con poligenesi comuni, ma da parte di un organismo o di un singolo che abbia l'autorità da im­ porre un uso scrittorio. Per l'ambito latino il Ritschl e, al suo seguito, lo Strzelecki, han­ no seguito questa via, suffragando con dati epigrafici le riforme at­ tribuite a determinati personaggi. Contro questo atteggiamento vi è quello di altri studiosi che invocano il fatto che - sia per il caso Euclide, sia per le riforme romane- i fenomeni che dovrebbero es­ sere effetto delle riforme, precedono le riforme stesse, quindi to­ gliendo o cambiando il senso delle riforme che sarebbero, al massi­ mo, sistemazioni dovute a singole volontà se non, addirittura, l'in­ staurarsi di norme, monogenetiche o poligenetiche, all'infuori di interventi precisi o teleologizzati. Vi è in questa impostazione un equivoco, o una serie di equivoci, sul senso di innovazione, in sé ed in rapporto ad una volontà dirigistica o alla sua assenza. Per quanto concerne l'innovazione, si dovrà distinguere tra una novità che può essere sporadicamente poligenetica e una innovazione vera e propria che è qualcosa di socialmente accettato e come tale, per de­ finizione, monogenetico. Dopo di che la >. La prospettiva non è errata, secondo noi è da riformulare: g può essere creato autonomamente, ma se entra nella serie alfabetica non dopo c, co­ me lettera sdoppiata, non alla fine come lettera aggiunta, bensi al posto di z come lettera eliminata, ciò significa che z è stato eliminato contestual­ mente alla introduzione di g nella sequenza, cioè nel corpus dottrinale: e questa è una riforma, chiunque ne sia l'autore. Quando z rientrerà, sarà aggiunto alla fine, e questa sarà un'altra riforma.



I L LATINO DI ROMA COME FARSI, TRA VARIETÀ ANTICHE E NORMALIZZAZIONI RECENTI

Il latino, meglio il « latino », come lingua naturale ha implicita una serie di deformazioni prospettiche, antiche e moderne, per lo piu all'insegna del > e comunque, se è da considerare genealogicamente come latino, storicamente e culturalmente non lo è allo stesso titolo dei latini del Latium vetus rispetto al latino di Roma. Ma questa è già una deformazione in quanto è prospettiva troppo « dal basso », dal latino di una Roma medio-repubblicana. Secondo questa prospet­ tiva si suole selezionare un « latino » piu tipico, e considerare tutto quello che non quadra come apporti dialettali: latini (non romani), italici, etruschi. C'è del vero, ma la prospettiva deve essere corretta nel modo seguente, « dall'alto >> e dinamicamente: quello che è il la­ tino medio- e tardo-repubblicano è il risultato di forze agenti al­ l'interno di Roma o verso cui Roma orbitava; questo, che è vero per qualsiasi lingua, per Roma ha un senso particolare, in quanto corrisponde al suo particolare farsi storico. Ciò è ben presente nel­ la tradizione, ma sempre in una prospettiva storiografìca romano­ centrica, mentre la critica piu recente - in ciò sostenuta dall'ar­ cheologia e dalla linguistica - vede Roma caratterizzata dall'essere « aperta » all'esterno. Ma vi è una controparte « interna », e cioè la prospettiva di avere varietà linguistiche all'interno. Di qui propon­ go un esemp10. Oltre gli esiti -o e -ai > -ae il latino conosce gli esiti -oi (alternati­ vo e non precedente di -o) e -a. Il dativo in -a è di varietà di latino non romano e dello stesso latino di Roma,29 ed ha una solidarietà al 29. E. Peruzzi, Il latino di Numa Pompi/io, in « P & P », a. XXI 1966, pp. 15-40; cfr. an­ che R. Lazzeroni, Il dativo 'sa bellico' in -a. Contributo alla conoscenza della Ialinizzazione dei Peligni, in « SSL », a. v 1965, pp. 65-86. 29

ALDO L. PRO S D O C I M I

dativo plurale (-as invece di -is: devas corniscas, anabestas) . Il dativo in -oi è attestato nell'iscrizione di Dueno e non è il precedente dell'e­ sito -o, ma è una soluzione alternativa, con abbreviazione del pri­ mo elemento del dittongo come mostra la continuazione quale -oe nei frammenti del carmen saliare e, piu ancora, il fatto, questo deci­ sivo, che il dativo maschile plurale in cui vi è pure un dittongo lun­ go -ois abbia un esito -ls e non -os, esattamente come -ai del nomi­ nativo plurale, dove -a è breve, e -ai passa a -! lungo (* lupai > lupi) . Ciò significa che il dittongo lungo -oi ha avuto due esiti, uno con la perdita del secondo elemento e conservazione della quantità lunga del primo, e l'altro con l'abbreviamento del primo, conservazione del secondo elemento e quindi monottongazione. Pertanto la varietà romana ha conosciuto tutti e due gli esiti per le due declinazioni, ma ha selezionato per la norma poi stabilitasi in modo dissimetrico: *ai > *ai >

e ciò contro la tendenza al parallelo strutturale. Quali siano le ra­ gioni non sono né tipologiche, né sistemiche ma solo di una norma che ha cosi selezionato e poi fissato. Gli esempi si potrebbero moltiplicare scorrendo qualsiasi gram­ matica storica: dal doppio esito del trittongo in -oue(ij- alle labiove­ lari labializzanti, alla polimorfia della terza plurale del perfetto, etc. La logica esplicativa della vulgata attribuisce un esito al latino pro­ prio e/o romano (uso questa semplificazione per una fenomeno­ logia esplicativa offerta dai manuali anche meno precisa) e l'altro a un latino « dialettale » o a un prestito da lingua italica non latina o a simili pseudo-spiegazioni; si hanno a volte casi - come per esem­ pio l'esito del trittongo -oue- - in cui un autorevole studioso attri­ buisce -u- al latino proprio e -o- al latino rustico e un altro studioso, parimenti autorevole, opera l'attribuzione inversa; si hanno altri 30

LE LIN GUE D O M I NANTI E I LINGUAGGI L O CALI

casi in cui il preteso prestito da italico - come è il caso delle parole con labiovelare labializzata - è invece attribuito a fonetica latina per una particolarità del comportamento delle labiovelari che compare anche altrove (germanico: come Wolf; è la nota tesi di Martinet); e altro ancora. Credo che le spiegazioni siano inadegua­ te, non perché siano errate, ma perché partono da premesse errate: latino urbano versus non urbano, latino cittadino versus rustico, lati­ no versus non latino è criterio valido quando esista una norma e/o una ideologia che opponga questi concetti; ma non è criterio vali­ do quando la norma si sta costruendo e, insieme o prima, quando la norma si autocostruisce selezionando le forme; naturalmente con « autocostruzione » non intendo un fantasma nell'aria, ma un pro­ cesso di selezione-accettazione legato ad eventi storici ed ideologi­ ci che ci possono essere ignoti, ma che vanno postulati come impli­ cazione logica degli effetti. Cosi, nell'iscrizione da Satricum {area di influenza volsca), dedi­ ca a Marte da parte dei seguaci di Valerio Publicola, uno dei « padri fondatori » della repubblica romana, c'è un latino con caratteristi­ che diverse da quello noto nella Roma repubblicana.30 Evidente­ mente nella Roma di VI secolo dovevano esserci delle varietà, pro­ babilmente in corrispondenza del fatto che Roma era il centro di un cerchio diviso in settori socioculturali proiettati nel territorio circostante; la lingua di una iscrizione « pubblica » e importante in Satricum non era quella di tutta Roma - o della Roma a noi nota ma dello spicchio che promanava dai Valeri e si estendeva nel ter­ ritorio sotto la loro influenza. Un periodo fondamentale per l'avvio al latino di Roma che co­ nosciamo è il V secolo a.C.; Devoto3 1 l'ha definito come « crisi del V secolo » e ne ha dato una spiegazione sociopolitica connessa al30. A.L. Prosdocimi, Sull'iscrizione di Satricum, in « GIF », a. xv {xxxvi) 2 1984, pp. 183-230; Prosdocimi-Marinetti, Sulla terza plurale, cit. a n. 19. 31. La crisi de/ latino nel Vsec. a.C., in « Stud. Clasice », a. VI 1964 (poi in Scritti Minori, 11, Firenze, Le Monnier, 1967, pp. 326-68); l'ultima formulazione in l/ latino di Roma, in A.L. Prosdocimi (ed.), Lingue e dialetti dell'Italia antica ( Popoli e dviltà dell'Italia antica vi ) , Roma-Padova, Biblioteca di Storia Patria, 1978, pp. 469-85, ripreso in Storia della lingua di Roma, cit. a n. 18, pp. xxxvii-uv. =

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l'emergere di forze nuove, cioè forze preesistenti ma emergenti solo alla caduta della dominazione etrusca, e col loro scontro-in­ contro nel formare la nuova Roma. > già nota da tempo, vi sono ora elementi che devono far riconsiderare la posizione del messapica all'interno della famiglia indeuropea, nel senso di una piu marcata prossimità a un tipo di indeuropeo orientale. La storia antica della Sicilia prima di Roma è, come noto, all'in­ segna di popolazioni non originarie, Fenici e soprattutto Greci. Tuttavia le fonti trasmettono notizie di popoli indigeni, tradizio­ nalmente ripartiti nei tre etne di Siculi (a est), Sicani (a ovest), Elimi (a nord-ovest). Dal complesso delle testimonianze epigrafiche non-greche e non-puniche, quindi attribuibili a popoli locali, non si delinea una corrispondente suddivisione linguistica, eccezion fatta per una serie di documenti da Erice-Se gesta, di natura e pro­ venienza piu compatta, cui si può attribuire l'etichetta di « elimo >> (tuttavia con la limitazione del tipo di testi: legende mone tali, ripe­ tute, e brevi graffiti con forme onomastiche). Per il resto, si ricono­ scono piuttosto aree di maggior concentrazione di iscrizioni: Adrano-Centuripe; Sciri ed Iblei; Montagna di Marzo presso Piaz­ za Armerina: si tratta però in genere di testi isolati, e per questo dif­ ficilmente interpretabili, anche se vi sono tra essi iscrizioni di una certa lunghezza. Oltre all'isolamento e alla non omogeneità tipo ­ logica, queste iscrizioni sembrano, in piu, pertinenti a diverse va­ rietà linguistiche, per cui è difficile parlare di « siculo >> tout court, mentre è piu prudente trattare separatamente ogni singola iscri­ zione. L'unico elemento che pare accomunante è la relativa anti­ chità di questi documenti, databili al VI-V secolo; se però già a que­ sta data la presenza di elementi dovuti alla grecità è in queste iscri­ zioni un dato comprensibile e quasi scontato ben altra rilevanza - linguistica e culturale - ha invece la sicura presenza di caratteri italici (di ciò cfr. anche p. 43) . 8. LE

LINGUE ITALICHE

Con « italico >> si designa un gruppo di lingue strettamente impa­ rentate, cioè con rapporti tali da definire una sottounità all'interno

LE L I N GUE D O MI NANTI E I LINGUAG G I LOCALI

della famiglia indeuropea (p er il problema classificatorio rispetto al « latino » : cfr. pp. 18 sgg.) . Le lingue italiche sono distribuite su un'area che copre l'Italia centro-meridionale, (con esclusione di parte del Latium vetus e della Puglia) . Ad indicare la stessa realtà si usa, oltre ad « italico », anche la dicitura di tuta) ; -rs > -if(nerf); lessico (persukant: umbro sukatu, etc.). Presenta impor­ tanti termini storico-istituzionali: safinum neif « sabinorum principes » « viri fortes » secondo la chiosa di Svetonio al cognomen Nero (sarà da ri­ vedere la posizione sociopolitica); okri- + touta « arx + comunità » è la cop­ pia istituzionale panitalica.42 Ma quello che è piu impressionante è il con­ testo in cui sono inserite: pur essendo ridimensionato l'andamento da elogio scipionico riconosciuto sotto l'entusiasmo delle ultime scoperte, nel frammento safinum neifpersukant « i principi dei Sabini dichiarano » viene a mancare l'andamento « scipionico », ma non la solennità e la con­ notazione ideologica. Credo utile proporre alcune iscrizioni per dare un'idea del livello di te­ stualità, specialmente per la lunghezza 43 non ripetitiva: quale ne sia l'in­ terpretazione 44 presuppongono una complessa organizzazione per la produzione di testi scritti e « pubblici ».4s =

Ap 2 (Castignano) :

matereih patereih qolofitur qupirih aritih imih puih l pupu­ num estujk apaius adstaiuh suais manus meitimum

Segnala il monumento « della madre e del padre » eretto da parte degli apaius, forse i «patres » del gruppo (etnico? gentilizio?) dei pupuno- « con le loro mani » (o « ai loro Mani »). Te 5 (Penna S. Andrea) : Sidom safinus estufeselsitstiom povaisis pidaitupasfitia­

som mufqlum mifistrui nemuneipraistait panivu meitims safinas tutas trebegies ti­ tui praistaklasa posmui Menziona l'erezione da parte della comunità (totita) sabina del monu­ mento al « genius » (tito-) della comunità stessa; la natura di questo « genius » è definita da circonlocuzioni del tipo « chiunque tu sia » (cfr. il latino « sive deus sive dea») e « a nessuno inferiore ».

Te 7 (Penna S. Andrea) :

brimeidinais epe[

42. Cfr. A. L. Prosdocimi, l/ lessico istituzionale italico. Tra linguistica e storia, in La cultu­ ra italica, Atti del Convegno SIG, Pisa, Giardini, 1978, pp. 29-74, da modificare per touta come non equivalente a nomen secondo Marinetti, Le iscrizioni sudpicene, cit. a n. 40. 43· Si noti particolarmente il frammento di sei linee, che doveva essere lungo piu del doppio, cioè quasi il doppio di Te s. 44· Secondo l'interpretazione di Marinetti, Le iscrizioni sudpicene, cit., con i limiti ma anche i meriti di essere la prima interpretazione di questi testi, anche di quelli da molti decenni conosciuti. 45· Le sigle si riferiscono alla citata edizione di A. Marinetti.

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]rtur hrimeqluf alfntiom okrei safina{ }nips to(ita tifei posmui praistafnt a[ ]psuq qoras qdufeniui Ampiamente lacunosa ma, come detto, significativa per la presumibile eccezionale lunghezza. Quanto al contenuto, si ricostruisce una dedica di monumenti da p arte della comunità (touta) sabina; da notare la presenza accanto a toUta dell'altro termine istituzionale italico, okrei « aru. Ch I (Crecchio):

deiktam h-lpas pimoftorim esmenadstaeoms upeke{. . . }orom iorkes iepeten esmen ekusim reaeliom rufrasim poioueta iokipedu pdufem okrikam enet hie l mureis maroum uelium uelaimes staties qora kduiu

Iscrizione di notevole lunghezza e complessità sin tattica ed interpretati­ va; la destinazione è certamente pubblica, come si desume anche dalla « soscrizione >> finale, probabilmente di magistrati.

Gli Italici di Penna S. Andrea definiscono safina la loro touta e i loro nerf nella sabina Cures è uscita una i­ scrizione in tutto identica a quelle sudpicene, specificamente a quelle di Penna S. Andrea. In una semiedita iscrizione su bracciale si legge ombrijen akren « nell'agro umbro », con l'ovvio richiamo al fatto che nell'umbro delle tavole iguvine (Vb) è richiamato come parte di una circoscrizione umbra un territorio (agro) in area del Piceno (genitivo Piquier Martier). La storiografìa 47 ha piu motivi di collegamento Umbri-Sabini-« Sudpiceni » (su ciò avanti) ; qui ne segnalo uno specifico: per il Geografo l'area costie­ ra corrispondente alle nostre iscrizioni è abitata da Umhri, il che indica l'etnico da attribuire e, insieme, è indice di compattezza culturale, alme­ no agli occhi dei Greci.

; anche qui la grecità an­ drebbe vista nei contenuti (semantica) oltre che nel lessico, impre­ sa pressoché disperata, salvo che in alcuni casi fortunati già indivi­ duati o in altri propriamente ideologici p ili che semantici, come è il caso del rituale del bronzo di Agnone e delle divinità ivi sottostan­ ti. Tuttavia a differenza di mie precedenti rivendicazioni in senso greco, tenderei ora a focalizzare la questione non tanto in senso ita­ lico (piu presente di quanto appaia) ma sul senso della nuova realtà culturale e rituale: se Euklo- è greco, ha l'epiteto di « pater >> (regali­ tà) che è piuttosto italico; seJutir è « figlia >>, x6pT), Demetra è sdop­ piata tra *Kerie- > Kerri- « Cerere » e Amma « mater »; cosi il ciclo annuale va insieme sia col « cereria >> italico che col « demetriaco >> 54. A.L. Prosdocimi, Sui gredsmi nell'osco, in Studi Bonfante, Brescia, Paideia, 1976, pp. 781-866; Id., Il conflitto delle lingue, cit. a n. rs; Id., Contatti e conflitti di lingue nell'Italia antica: l'elemento greco, in Lingue e dialetti dell'Italia antica, cit., pp. 1029-86. Ho di recente rivisto - e in parte ridimensionato - il senso di grecismo per la religione nelle opere ci­ tate a n. 53: a queste rimando per quanto segue.

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greco, o meglio la ciclicità italica ha anche una rimotivazione greca (ciclicità « demetriaca » ). A Rossano di Vaglio, santuario lucano (forse federale, comun­ que centrale e portatore del grosso della documentazione epigrafi­ ca), è stata da tempo rilevata la scarsità di grecismi, soprattutto in considerazione della sua esposizione all'influenza greca, un indi­ zio della quale è l'assunzione di alfabeto greco con abbandono di precedente alfabeto sannita, di cui restano tracce e con cui pure re­ stano contatti; anche qui ho avuto occasione di ridimensionare la grecità: i « re » non sono i Dioscuri ( fcxvcxxeç) ma la coppia divina, Giove e una divinità femminile « Giovia », identificata con Cerere (tra i Marrucini, al nord) o, come qui, con una divinità wvft: di ciò appresso in testo).

ALDO L. PRO S D O C I M I

valore di > di italicità da cui hanno attinto gli estensori (o l'esten­ sore: il Durante parla di una stessa mano) di Ve 213-14, questo fat­ to incide solo sull'utilizzazione di tali documenti per la classifica­ zione del peligna tra umbro e asco; mentre resta inalterato il prin­ cipio del r e c u p e r o , principio del resto normalmente riconosciu­ to. La diversità che proponiamo è nel valutare questo recupero che non va solo segnalato ma, come in casi analoghi, va pesato in tutte le implicazioni ai fini di qualificarlo nella situazione linguistica reale, che poi è tutt'uno col qualificare la situazione linguistica tout court. Concludendo, il nostro testo mostra, rispetto al latino, una vo­ lontà di Abstand locale; testimonia una fase di dissoluzione finale della italicità peligna; questa stessa italicità appare come dovuta ad un'operazione di reitalicizzazione: a quale livello (letterario, culto, popolare etc.) è difficile dire; l'oscurità del testo di Ve 213 potrebbe non essere casuale e dipendere allora dall'imperfetta competenza che ha permesso di piegare il dettato al ritmo, secondo un modulo che violava le stesse esigenze semantiche e sintattiche di questo ti­ po di ritmo.

ALDO L. P R O S D O CIMI

I5. PERSISTENZE

LOCALI E D IALETTISMI LATINI;

PERSI STENZE COME REGISTRI. I L CASO DEL MARSO.

E.

I L LATINO DEI CIPPI PESARESI SECON D O PERUZZI. MoRFOLOGIA LOCALE DA INTERFERENZA: IL cAso ILLRP 504

E. Peruzzi 94 ha mostrato dalla revisione del corpus epigrafico co­ me i Marsi si romanizzino linguisticamente nel giro massimo di due generazioni, poniamo entro la prima metà del III a.C.; e non si tratta di Romani e/o Latini ma di Marsi, come è ripreso nella lapi­ daria conclusione: « L'essenziale latinità linguistica delle iscrizioni qui esaminate è tanto piu significativa se si tiene conto del fatto che le persone che vi si menzio­ nano sono tutte marsiche, poiché nessuna reca nomi genuinamente lati­ ni, e che le divinità a cui ci si rivolge sono tipicamente indigene {fougno, uesune erinie, erinepatre) oppure non esclusivamente latine (ioue, uictorie, ua­ letudne). Non si tratta insomma di minoranze latine stanziate fra i Marsi, bensf di genti del luogo. Possiamo essere certi dell'esistenza di un'aristocrazia locale che sin dal­ l'epoca di Cantovio ha accettato la lingua latina in ogni manifestazione della vita quotidiana, anche nel culto alle proprie divinità. Non vi è dubbio che la parlata indigena si sarà conservata a lungo, nelle impervie zone montane, ma senza alcun significato, perché non resiste per virru propria ma solo per la miseria del proprio isolamento. La cultura dei Marsi non si esprime che in latino perché è solo cultura latina ».

A. Marinetti 95 ha ripreso la questione a proposito della rilettura e riqualificazione del rapporto delle due facce di ILLRP 303, re da­ zioni dello stesso testo, il che è stato dimostrato fuori ogni dubbio; ma, e questo è piu importante, è stato mostrato che la riscrittura non è avvenuta a lontananza di tempo, ma in immediata sequenza, per il rifiuto della prima (B della tradizione), e ciò non tanto o non solo per errori, ma per grafia e colorito linguistico come è certo dal fatto che cambino in punti essenziali. 94· E. Peruzzi, I Marsi con Roma, in « Maia », a. xm 1961, pp. 165-94; Id., Testi latini ar­ caid dei Marsi, in « Maia », a. XIV 1962, pp. 117-40 (la citazione è da p. 140) . 95· L'iscrizione ILLRP JOJ e la varietà del latino dei Marsi, in « Atti Ist. Veneto SS.LL.AA. », CXLIII 1984-85, pp. 45-89.

LE L I NGUE D O M INANTI E I LINGUAG G I L O CALI

Riprendo le caute conclusioni della Marinetti (disj:>Ongo le se­ quenze in modo diverso).

)

« [ . . . ] se prendiamo come parallelo italico la Tabula Veliterna (Ve 222 - di area volsca prossima a quella marsa, e con tratti fonetici (monotton­ gazione) affini al marso latinizzato - si vede benissimo che la lingua della Marsica è già latinizzata; il problema è la lingua, se è da considerare latina, sia nel senso socio linguistico di « come » pensavano di scrivere gli esten­ sori, sia nel senso di riconoscere delle eredità locali rispetto a tratti di un latino che noi non conosciamo; per esempio -(e)re è del latino urbano, di un latino non urbano, o è della lingua italica prelatina? Questo aspetto che concerne le prime attestazioni del marso è perti­ nente per le varietà che offre la nostra lamina in quanto è a quelle quote cronologiche che si pone la situazione sociolinguistica del latino e di sue varietà locali in quest'area, varietà che arrivano alla faccia B, che è latino, ma fortemente caratterizzato in senso locale, onomastica compresa (e l'o­ nomastica è per Peruzzi, ci pare a ragione, un indice di romanizzazione). La faccia B non dovrebbe essere stata incisa prima del ± 200 a.C., in quan­ to il nominativo è già -ius e non -io(s); quindi, indipendentemente dall'e­ sistenza della variante di lingua della faccia A, fa precisare il senso da attri­ buire alla romanizzazione dei Marsi e al suo consolidamento: non è una « romanizzazione » se con questa si intende l'affermarsi di un modello ur­ bano o di quel modello che un secolo dopo sarà la lingua di P lauto, ma è una latinizzazione mediante un latino non urbano, o comunque diverso da quello egemone a Roma nel III-II secolo. Se la lamina di Caso Cantovio testimonia il primo documento della la­ tinizzazione, la faccia B, posteriore di un secolo (?) mostrerebbe la conti­ nuità di questo filone, senza eccessivi cambiamenti. La faccia A mostra un latino diverso, piu conservativo come latino (dit­ tonghi conservati; nessi conservati), in questo caso sinonimo di un latino piu urbano: per l'area è certamente seriore, visto il filo che collega le atte­ stazioni di prima romanizzazione (Caso Cantovio) al testo B che precede il testo A. Se il testo A segue immediatamente il testo B, come crediamo, abbiamo la testimonianza del momento di impatto di una nuova ondata di latino promanante da Roma e dell'esistenza, anzi di una coesistenza, di cui non si può fissare la durata, di due varietà di latino [ . . . ]; avremmo la testimonianza di due livelli sociolinguistici del latino dall'area in questio­ ne, uno (faccia B) piu « locale », uno (faccia A) piu « romano ». Da questo punto di vista non è prova contraria che la faccia A abbia tratti locali (e/o del latino non urbano) quali veci, seino,Jecront, in quanto uno stile di esecu­ zione non ha valore assoluto ma relativo, e in ciò la faccia A, anche se non

ss

ALDO L. PRO S D O C I M I

arriva a farlo completamente, vuole distinguersi dalla faccia B in senso ro­ mano e antilocale. A ben guardare, di sicuramente locale nella faccia A c'è solo seino, perché vec- per vie- potrebbe rappresentare lo stadio fonetico [e] della monottongazione del dittongo in -i- che anche Roma deve aver co­ nosciuto; cosi pure Jecront per Jecerunt doveva essere del latino di Roma (anche se dellavarietà che poi non si è imposta) come testimoniano i cippi pesaresi, la continuazione romanza (fécero e non *Jecére) e passi metrici del­ la commedia [ . . . ].96 Il tipo portato dalla faccia A ha delle caratteristiche che lo qualificano: non è l'arrivo di un latino di base, cioè non è l'instau­ rarsi di una variante nel parlato ma nei moduli scrittorii o di quello stan­ dard parlato che è collegato ai moduli scrittorii: infatti resta il locale seino; veci è pure locale (ma può anche essere del latino urbano dell'epoca). Fe­ cront della faccia A è diverso da -0re di edndrelededre della faccia B e qui vi è una questione complessa relativa alla morfologia della 3• plurale del per­ fetto [ . . . ] ; ma oltre a ciò Jecront della faccia A, piti « romana », ha *-er- > -0r- e non er del latino ritenuto canonico, come non lo è dedro dei cippi pesaresi: e su ciò, indipendentemente da -(e)re-, è da rimeditare in rappor­ to alle forme irradianti dal latino di Roma (e- e) in questo periodo, cioè al­ le stesse varietà del latino urbano. Le due facce, mutile, della nostra iscrizione portano dunque, in diversa misura a secondo siano coeve o no, la testimonianza della coesistenza e della conflittualità di varietà di moduli scrittorii di latino in una regione romanizzata ». -

-

Le sezioni « pesaresi » del Latino di Numa Pompilio (cfr. nota 29) sono state riprese da E. Peruzzi da angolazione « coloniale >> e non , finisce per sfiorarla tangenzialmente, in rapporto copulativo o alternativo con exprimo e verto (Plinio il Giovane, epist. IV I8 I: Latine aemulari et exprimere temptavi; Gellio, XI 4 3: {Ennius} hos versus {Euripidis}, cum eam tragoe­ diam vertere� non sane incommode aemulatus est) P E, a loro volta, i ver15. « quanto in esse omise, aggiunse, mutò per rendere nella propria le peculiarità di un'altra lingua, non è questo il momento di ricordare �. 16. L. Gamberale, La traduzione in Cellio, Roma, Ed. dell'Ateneo, 1969, p. 107. 17. � ho tentato di emulare e di rendere in latino �; « [Ennio] non male emulò que­ sti versi [di Euripide] di cui traduceva la tragedia ». Sul rapporto oppositivo di Acad. 1 8 cfr. par. 4·

LE TRADUZ I O NI

bi del « tradurre », (con)verto,lB exprimo, transfero, possono riferirsi a operazioni intralinguistiche come la parafrasi e l'allusività (cfr. Se­ neca il Vecchio, contr. VII 1 27; Quintiliano, inst. x 5 4 sg. - in connes­ sione con aemulor-; Macrobio, Sat. VI I 2 e 6 - in coppia con imitar-; Girolamo, chron. praef. p. 4 Helm; epist. 70 2). La traduzione come imitazione avrà un futuro presso i poeti, da La Pléjade ad Annibal Caro, da Leopardi (che intitolerà Imitazione il xxxv carme desunto da A.-V. Amault) a Solmi e ai Lirid nuovi (dr. par. 5). 3· LA

TEORIA

Dalla prassi nasce e con la prassi concorda la teoria del tradurre, non per nulla rappresentata soprattutto da due grandi scrittori-tra­ duttori, Cicerone e Girolamo. Ma già i prologhi di Terenzio lascia­ no trasparire una polemica tra fautori ed oppositori di una (relati­ vamente) stretta fedeltà strutturale al modello greco (Andr. 16: con­ taminari non decerefabulas) ,19 e Terenzio si fermò a mezza strada fra la geniale neglegentia di Plauto e l'obscura diligentia di Luscio Lanuvi­ no, troppo buon traduttore per essere anche un buon autore (com­ positore o scrittore, secondo che s'interpreti il discusso bene verten­ do et easdem scribendo male di Eun. 7). Le numerose riflessioni cicero­ niane si scaglionano lungo l'arco di un decennio, a partire dal de oratore del '55, e riguardano soprattutto i due interessi principali del­ l'arpinate, la traduzione finalizzata alla formazione dell'oratore e la traduzione finalizzata alla fondazione di una filosofia romana. Ma il senso è sempre lo stesso, il rifiuto della traduzione letterale (quando non sia richiesta da uno scrupolo documentario, come nella polemica antiepicurea) a favore della traduzione letteraria, basata sull'equivalenza dinamica dei valori formali: la vis dell'insie­ me contro i singoli verba. Rinviando all'attenta analisi che di queste 18. Con inverto Tacito (ann. xv 63) designa la rielaborazione stilistica di parole al­ trui (in questo caso di Seneca), in omaggio al principio della Einheitlichkeit (E. Norden, Die antike Kunstprosa, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 19585, I, p. 89 = I, p. 101 della traduzione italiana, Roma, Salerno Editrice, 1986), lo stesso principio sotte­ so alla traduzione in versi latini delle citazioni poetiche greche nelle opere di Cicerone. 19. « non è bene contaminare le commedie ».

99

ALFO N S O TRAINA

riflessioni ha fatto P. Serra Zanetti - di cui riteniamo la conclusio­ ne: « in Cicerone traduttore - e anzitutto, teorico del tradurre, lo stile resta la cura piu costante »,20 stralciamo i testi piu significativi: Acad. I IO, dove si lodano i tragici latini qui non verba sed vim Graeco­ rum expresserunt poetarum2 1 (solo apparentemente smentito dafin. I 4: Jabellas Latinas ad verbum e Graecis expressas,22 perché qui Cicerone polemizza contro chi legge poesia scenica - si noti il diminutivo tradotta dal greco e snobba testi filosofici latini -gravissimae res - so­ lo ispirati dal greco) ; leg. 2 !7, dove la rinunzia a tradurre Platone è motivata dall'impossibilità d'imitare il suo stile (imitari orationis ge­ nus, opposto alla facilità di sententias interpretari e prope verbis iisdem convertere) ;fin. 3 IS, dove l'exprimi verbum e verbo è imputato agli inter­ pretes indiserti ( « privi di senso stilistico » ) Interpres, in quanto spesso collegato alla traduzione letterale, è sostantivo che suona male in Cicerone: il suo vero corrispondente, nella sfera della traduzione letteraria, ce lo rivela Cicerone nella piu programmatica delle sue asserzioni, opt. gen. 14: converti [. . . } ex Atticis duorum eloquentissimo­ rum nobilissimas orationes [. . . }, Aeschini et Demostheni; nec converti ut in­ terpres, sed ut o r a t o r, sententiis iisdem et earumJormis tamquamfiguris (le figure di pensiero e di parola, cfr. infta), verbis ad nostram consuetudi­ nem aptis. In quibus non verbum pro verbo necesse habui reddere, sed genus omne verborum vimque servavi. Non enim ea me adnumerare lectori putavi oportere, sed tamquam appendere.23 Criterio, dunque, non quantitativo (verba adnumerare) , ma qualitativo (appendere, « soppesare » quello che altrove Cicerone chiama il pondus, « l'efficacia », verborum) , in grado di ricreare in latino i valori semantici e stilistici del testo gre.

20. P. Serra Zanetti, Sul criterio e il valore della traduzione per Cicerone e S. Girolamo, in Atti del I Congresso Internazionale di Studi Ciceroniani, Roma, Centro di Studi Ciceronia­ ni, 1961, Il p. 367. 21. � i quali resero non le parole, ma il senso dei poeti greci ». 22. � drammi latini tradotti letteralmente dai Greci ». 23. � ho volto dal greco in latino i notissimi discorsi di due principi dell'eloquenza [ . . . ], Eschine e Demostene, e non l'ho fatto da traduttore, bensi da oratore, impiegan­ do i medesimi concetti e le medesime figure di pensiero e di parola, ma un lessico piu consono all'uso nostro. Non ho reputato necessario tradurre parola per parola, ma conservare piuttosto il senso e l'efficacia di ognuna. Mi è parso infatti di non doverle contare ad una ad una per il lettore, bensi soppesarne il valore ».

IOO

LE TRADUZIONI co (ibid. 23) : quorum ego orationes si, ut spero, ita expressero virtutibus utens illorum omnibus, id est sententiis et earumflguris et rerum ordine, ver­ ba persequens eatenus, ut ea non abhorreant a more nostro.24 Per realizza­ re questo ideale di traduzione l'interpres deve farsi orator, artista del­ la parola. La posizione ciceroniana resterà normativa per secoli. Di Cice­ rone si ricorda Orazio quando assimila l'imitatore pedissequo (il servum pecus di epist. 1 19 I9) al traduttore letterale (confermando la connessione tra il vertere e l'imitari) , ars 133 sg.: nec verbo verbum curabis reddere fldus l interpres; all'esempio di Crasso, citato nel de oratore (1 155) , e di Cicerone stesso si richiama Quintiliano (inst. x 5 2) nel raccomandare la traduzione come esercizio (exercitatio) stilistico al futuro oratore: al quale, fra gli altri, è proposto il modello di Messa­ la che traduce lperide in gara (ut [ . . . ] contenderet) con l'originale. Non diversamente Plinio il Giovane consiglia di tradurre alternan­ do l' imitatio (epist. VII 9 2) all'aemulatio (ibid. 3: quasi aemulum seribere; certare cum electis) , e l'attua lui stesso traducendo gli epigrammi greci di un amico (epist. IV 18 I: aemulari et exprimere temptavi) . Gellio sente, come Cicerone, l'impossibilità di tradurre Platone, ma alla propria insufficienza aggiunge, quello che mai Cicerone avrebbe fatto, l'oggettiva inadeguatezza dello strumento linguistico (x 22 3: vertere ea consilium non fuit, cum ad proprietates eorum nequaquam possit Latina oratio aspirare ac multo minus mea, 25 il che non gli impedi di cimentar­ si per scommessa in un saggio di versione letteraria del Convito in XVII 20 7: ad elegantiam Graecae orationis verbis Latinis adfectandam) .26 E a Cicerone si rifà, lo parafrasa e lo trascrive (insieme a Orazio), il santo « patrono dei traduttori », Girolamo, sia nelle prefazioni al Chronicon di Eusebio e ai varii libri biblici, sia nelle lettere, specie nella lettera-trattato a Pammachio (la epist. 57) . Girolamo, si sa, ave­ va due anime che non sempre andavano d'accordo, la ciceroniana e 24. « se, come spero, riuscirò a dare delle orazioni una versione che ne renda tutti i pregi, vale a dire il contenuto, le figure retoriche e la successione dei concetti, ripro­ ducendo le parole solo in quanto che non si discostino dal nostro uso . . . ». 25. « non era mio proposito tradurre quelle pagine, giacché lo stile latino, e tanto meno il mio, è nell'assoluta impossibilità di aspirare alle loro caratteristiche ». 26. « per cercare di raggiungere in latino l'eloquenza della lingua greca ».

IOI

ALFO N S O TRAINA

la christiana; tanto meno quando si trova di fronte a una nuova di­ mensione del tradurre, con due varianti rispetto a Cicerone. Una è l'oggetto, un testo sacro e non letterario, la parola stessa di Dio, do­ ve et verborum ordo mysterium est (epist. 57 s)P L'esigenza di rispettar­ lo comporta la rivalutazione della traduzione letterale, ilfide!iter in­ terpretari (pius chiama Agostino, enarr. in psalm. so 19, l'interpres cri­ stiano) e ne acuisce il conflitto con l'esigenza dell'ornate interpretari, la traduzione letteraria (l'antitesi avverbiale è novità terminologica di Girolamo, come in chron. praef. p. 6 H. quella nominale interpres l scriptor, subentrato all'orator ciceroniano) . L'altra variante sono i de­ stinatari, la massa dei fedeli, per lo piu illetterati, in un'epoca che aveva approfondito il solco tra lingua scritta e parlata: ne consegue l'esigenza della piena comprensibilità del messaggio (epist. 48 4: ut [. . . ] universo loquatur hominum generi),2 8 egualmente lontano dal pu­ rismo di un latino troppo culto e dall'imbarbarimento di un latino snaturato da troppi semitismi (e il poliglotta Girolamo aveva un senso acuto delle diversità strutturali delle lingue, quel suum et ver­ naculum linguae genus [chron. praef. p. 2 H.] 29 che determina l'assurdi­ tà - absurde resonat - di ogni traduzione ad verbum) . Dall'oscillante, discontinuo compromesso tra queste tre esigenze conflittuali, la fedeltà, la letterarietà, la comunicabilità (per dirla col Ronconi) na­ sce la Vulgata. Siamo ormai fuori dell'esperienza culturale di Roma antica, che non conobbe, come la Grecia antica, la religione del Libro. 4· LA

PRA S S I : C OSTANTI E VARIANTI

Il concetto di originalità che ha la cultura antica, basato sulla na­ tura mimetica dell'arte, rispetto alla moderna, erede dell'indivi­ dualismo romantico, pone, si è visto, il rapporto fra traduttore e au­ tore non in termini qualitativi di non-originalità vs originalità, ma 27. Ordo nel senso pili ampio del termine: cfr. P. Serra Zanetti, Una nota sul "myste­ rium" deUX'ordo verborum" nelle Scritture, in « CCC », a. VI 1985, pp. 507-20. 28. « perché [ . . . ] parli all'intero genere umano ». 29. « il carattere proprio e indigeno di una lingua ».

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LE TRADUZIONI piuttosto quantitativi, di minore vs maggiore originalità, nel senso antico di autonomia di fronte a un sempre presupposto e prescritto modello: se Cicerone fa dire a Varrone, a proposito delle Menippee: in illis {. . . J nostris Menippum imitati non interpretati30 (Acad. I 8, dove per altro interpretati riflette la connotazione negativa di interpres, il traduttore letterale), lo scarto è sempre rispetto all'auctor greco. È questo l'incerto confine che passa tra l'Odusia e le tragedie liviane, tra l'Arato di Cicerone e Germanico e quello delle Georgiche virgi­ liane, tra il De mundo e gli altri opuscoli filosofici di Apuleio, tra gli innumerevoli rifacimenti degli epigrammisti. E per questo la storia del vertere latino non è mai stata scritta - tranne, e in parte, per le traduzioni da Omero - e non si potrà forse mai scrivere per intero. Non per nulla una delle poche antologie della materia, Primum Graius Homo di B. Farrington,31 allinea tranquillamente frammenti tragici ed epici di Ennio, traduzioni aratee, omeriche e platoniche di Cicerone, passi di Lucrezio, di Virgilio, di Livio. E di recente un giovane studioso ha potuto con perfetta ortodossia metodologica analizzare alla stessa stregua una « presenza >> di Arato in Cicerone e in Virgilio, concludendo: > .47 Nel prosieguo del capitolo 2 del De grammaticis Svetonio porta alcune notizie precise, quali: « Quinto Vargunteio in giorni determinati davanti ad un grande pubblico leggeva gli Annali di Ennio »; 48 « Pompeo Leneo e Valerio Catone sostengono di aver dato lettura delle Satire di Lucilio l'uno presso Lelio Archelao, l'altro presso Vettio Filocomo ».49 Lo stesso Svetonio nel cap. n 2 riguardo a Va­ leria Catone,grammaticus, vissuto nel I secolo a.C., riferisce due ver­ siculi, che il Morel attribuisce a Furio Bibaculo, nei quali si celebra­ no, magari anche con un filo di ironia, da una parte il talento poeti­ co, dall'altra le capacità critiche: Cato grammaticus, Latina Siren, qui solus legit a cJacitpoetas; 50 sembra che l'autore dei versiculi intendesse dire che l'attività critica di Valeria Catone si realizzava soprattutto nelle lezioni (praelectio e interpretatio) attraverso le quali egli sapeva portare alla luce ciò che di uno scrittore in versi faceva un poeta: si tratterebbe dunque di una lezione che fa passare il testo dalla filo­ logia alla critica letteraria; oppure si trattava di lezioni di poesia, con le quali Catone formava i poeti (facit poetas) dopo averli scelti (legit poetas). Dalla testimonianza di Svetonio diverge quella, piu antica, di Se­ neca il Vecchio, secondo il quale l'introduzione a Roma delle reci­ tationes sarebbe opera di Gaio Asinio Pollione, uomo politico e sto­ rico (76 a.C. - 4 d.C.) « Pollione Asinio non declamò mai alla pre­ senza della folla, e pur non gli mancò il desiderio di successo nel­ l'attività culturale: infatti primo tra tutti i Romani, invitata gente, 47- Svetonio, ibid. 2 3: carmina parum adhuc divulgata vel difunctorum amicorum ve/ si quorum aliorum probassent diligentius retractarent ac legendo commentandoque etiam ceteris nota Jacerent. 48. Svetonio, ibid. 2 4: Q. Vargunteius anna/es Ennii [. . . } certis diebus in magnaJrequen­ tia pronuntiabat. Vargunteio fu coevo di Gaio Ottavio Lampadione, cfr. Gellio, xvm 5 II. 49. Svetonio, ibid. 2 4: Laelius Archelaus Vettiusque Philocomus Luci/ii saturasJamiliaris sui quas legisse se apud Archelaum Pompeius Lenaeus, apud Philowmum Valerius Cato praedi­ cant. s o. Svetonio, gramm. 11 2: « Catone grammatico, sirena latina, il solo che sa leggere e fare i poeti » ; cfr. Fragmenta poetarum Latinorum, ed W. Morel, Stutgardiae in aedibus B.G. Teubneri, 1927, p. 83 n. 17.

L ' ARTE DELLA PAROLA

diede lettura delle proprie opere »; 51 l'inizio delle pubbliche lettu­ re sarebbe caduto negli anni 43-42 a.C. Da quel momento la recitatio o lettura in pubblico di componimenti letterari in versi o in prosa diviene un'istituzione culturale permanente a Roma e nel mondo latino dell'Occidente. Svetonio attesta che « Augusto fu benevolo e paziente uditore non solo di versi e di storie, ma anche di orazioni e di dialoghi ».52 Tuttavia, nei decenni che seguono, la recitatio, men­ tre si trasforma in uno spettacolo di teatro e in un evento sociale, nel contempo finisce per privilegiare definitivamente come proprio co­ pione il componimento in versi: il modo preferito e socialmente si­ gnificativo della fruizione della poesia nella società romana imperiale è la recitatio; solo attraverso di essa la poesia trova la sua collocazio­ ne mondana e favorevolmente accolta nella vita di società. È opportuno rilevare non p otersi confondere la recitatio con la de­ clamati o; quest'ultima fu esercizio ed esibizione di retori (p rofesso­ ri di retorica) e di scolar� consistente nell'improvvisazione o pre­ sentazione di un discorso su argomento fittizio davanti a scolari e professori della scuola, praticata a Roma fin dal tempo di Cicero­ ne, 53 piu tardi, negli ultimi anni del regno di Augusto, aperta anche al pubblico.54 Che negli anni 43-42 la recitatio fosse praticata con successo a Ro­ ma è provato da una notizia particolarmente suggestiva trasmessa da Servio nel Commentarius in Virgilii Bucolica: vi si racconta che Vir51. Seneca Retore, contr. IV praif. 2: Pollio AJinius numquam admissa multitudine decla­ mavit, nec illi ambitio in studiis defuit: primus enim omnium Romanorum advocatis hominibus scripta sua recitavit; cfr. Svetonio, ibid. n 4 12. Secondo Quinn, The Poet an d his Audience, cit. p. 159, Pollione introdusse non tanto la lettura, quanto piuttosto la pubblicità di es­ sa: invitatis hominibus significherebbe, secondo Quinn, « tutti gli interessati sono invi­ tati ». Cfr. A. Dalzelli, C. AJiniusPollio and the early History ojpublic Recitations at Rome, in « Hermathena », a. LXXXVI 1955, pp. 20-28. 52. Svetonio, Aug. 89: recitantes et benigne et patienter audiit nec tantum carmina et histo­ rias sed et orationes et dialogos. 53· Si osservi che recitatio designa propriamente la lettura ad alta voce davanti ad ascoltatori; cfr. ad Her. n IO 15, e tra le molte testimonianze Plinio il Giovane, I 13; si ri­ tiene anche che alla recitatio sia connessa la pronuntatio; riguardo alla declamazione cfr. Seneca Retore, contr. 1 praif. I 2: declamatio apud nullum antiquum auctorem ante Ciceronem et Calvum inveniri potest. 54. Cfr. EJ. Kenney, Books and Readers in the Roman World, in The Cambridge History oj classica[ Literature, n, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 1982 9, p. 8.

257

ADRIANO PENNACINI

gilio in persona lesse pubblicamente le Bucoliche con grande suc­ cesso, e che in seguito la decima egloga, dove, verso la fine, viene invocata Licoride, fu cantata in teatro da Citeride, attrice mima celebre in quegli anni, liberta di Volumnio Eutrapelo, amata e am­ mirata da noti personaggi della politica romana: Marco Antonio, Marco Giunio Bruto, Cornelio Gallo,55 e che Cicerone, presente alla redtatio, ne fu talmente colpito da chiedere con insistenza chi fosse l'autore della pièce, e, quanto finalmente poté vederlo, gli ri­ volse un complimento assai elogiativo, che tuttavia non dimentica­ va di p orlo al proprio fianco: Magnae spes altera Romae!56 Peraltro ta­ le notizia colloca la composizione di almeno una parte delle Eglo­ ghe in età anteriore alla morte di Cicerone, che è del 7 dicembre 43 a.C.; del resto altra notizia, conservata da Svetonio, Vita Verg. 102-3, ci conferma il successo spettacolare delle Bucoliche: Bucolica eo suc­ cessu edidit, ut in scaena quoque per cantores crebro pronuntiarentur, 57 dove si osserva l'equivalenza di pronuntiatio con redtatio, ma si nota anche che la pubblica lettura è considerata conseguenza del successo del­ l'opera e non viceversa. Altra osservazione riguarda la trasforma­ zione della redtatio in spettacolo o addirittura in opera lirica: dallo stesso passaggio di Svetonio si ricava che le Bucoliche vennero lette sulla scena di un teatro (in scaena) e da cantanti professionisti (per cantores); la pratica della lettura come spettacolo di teatro è confer­ mata da Tacito, dial. 13, ancora riguardo a Virgilio: populus [. . . } auditis in theatro Vergilii versibus, surrexit universus et forte praesentem spectantemque Vergilium veneratus est sic quasi Augustum.58 Accanto a questo tipo di redtatio spettacolare e condotta da professionisti tro­ va luogo ancora la lettura tenuta dall'autore stesso (Svetonio, vi-

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55. Cfr. Cicerone,Jam. vn 26; Id., Att. x 10; Auct., vir. ili. 82 2; Servio, ad Verg. ecl. x 1. 56. Servio, ad Verg. ecl. VI n: Dicitur autem ingentifavore a Vergilio esse recitata, adeo ut, eum eam postea Cytheris cantasset in theatro, quam infine Lycoridem vocat, stupifactus Cicero, cuius esset requireret. Et cum tandem aliquando vidisset, dixisse dicitur et ad sua et ad illius lau­ dem "Magnae spes altera Romae!". 57· « Pubblicò con tale successo le Bucoliche, che spesso venivano recitate in scena da cantanti ». 58. « La gente, dopo avere ascoltato a teatro dei versi di Virgilio, si levò in piedi tut­ ta insieme ed espresse la propria venerazione per Virgilio, che per caso era li ed assi­ steva, come se fosse stato Augusto ».

L ' ARTE D ELLA PARO LA

ta Verg. no-n: pronuntiabat cum suavitate tum lenociniis miris) 59 davan­ ti a pochi amici {Servio, ad Aen. IV 323: dicitur autem ingenti affectu hos versus "cui me moribundam deseris hospes?" {. . . ] pronuntiasse, cum priva­ tim paucis praesentibus recitaret Augusto; Svetonio, vita Verg. 127-29: Oc­ tavia {. . . J cum recitationi interesset, ad illos defilio suo versus "tu Marcellus eris" dejècisse Jertur atque aegreJocilata est) 60 o addirittura ad uno solo con lo scopo dichiarato di ottenere un sincero e costruttivo contri­ buto di critica (Orazio, ars 438-52: Quintilio siquid recitares: "corrige, so­ des hoè' aie ba t "et hoc"; melius te posse negares, bis terque expertumfrustra; delere iubebat et male tornatos incudi reddere versus. Si defendere delictum quam vertere malles, nullum ultra verbum aut operam insumebat inanem, quin sine rivali teque et tua solus amares. Vir bonus et prudens versus repre­ hendet inertis, culpabit duros, incomptis adlinet atrum transvorso calamo si­ gnum, ambitiosa recidet ornamenta, parum claris lucem dare coget, arguet ambigue dictum, mutanda notabit,fiet Aristarchus, nec dicet: "Cur ego ami­ cum offendam in nugis ?". Hae nugae seria ducent in ma la derisum semel ex­ ceptumque sinistre),61 ma anche davanti ad un piu numeroso pubbli­ co (Svetonio, vita Verg. 130: recitavit et pluribus).62 Ma ancora abbia­ mo notizia di recitationes di opere poetiche fatte dagli autori in un tempio {quello di Apollo Palatino) per partecipare ad un pubblico concorso di poesia: Orazio, serm. I IO 37-39: Haec ego ludo quae neque in aede sonent certantia iudice Tarpa, nec redeant iterum atque iterum spec­ tanda theatris; 63 epist. n 2 92-95: aspice primum quanto cum Jastu, quanto 59· « Leggeva sia con soavità sia con straordinaria ricercatezza �. 6o. « Ottavia, essendo intervenuta alla lettura, a quei versi riguardanti suo figlio "tu sarai Marcello" si dice che venne meno e con fatica fu rianimata �. 61. « Quando si leggeva qualcosa a Quintilio, diceva: "correggi qui, per piacere, poi qui". Se si diceva che ci eravamo provati due o tre volte senza fare meglio, consi­ gliava di cancellare e di rifondere una poesia venuta male. Se non si voleva e si soste­ neva l'errore, non ne parlava piu, rinunciava all'inutile fatica di impedire a qualcuno di essere innamorato senza rivali di se stesso. Ma l'uomo buono e saggio censurerà i versi brutti, accuserà quelli faticosi, farà con la penna un rigo nero su quelli malfatti, taglierà via gli ornamenti superflui, vorrà che i passi opachi ricevano luce, e indicherà quelli oscuri, farà un segno dove c'è da rivedere: diventerà un Aristarco, ma non dirà mai: "Perché urtare un amico per delle schiocchezze?". Quelle sciocchezze condur­ ranno a mali seri l'autore una volta che sia stato deriso e abbia ricevuto accoglienze ostili ». 62. • Tenne letture anche davanti ad un pubblico numeroso �63. « Queste cose io compongo per giuoco, che non risuonino nel tempio (si sup-

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molimine circum spectemus vacua m Romanis vatibus aedem. Mox etiam, si forte vacas, sequere et procu� audi quidJerat et qua re si bi nectat uterque coro­ na m; 64 si tratta di un concorso di poesia con pubbliche letture nel tempio di Apollo Palatino, organizzato dal 28 d.C. dal Collegium Poeta rum. Sicché nell'età delle guerre civili e di Augusto appaiono praticati con successo quattro tipi di pubblica lettura: dell'autore davanti a pochi amici; dell'autore in aede nel tempio di Apollo Palatino, perché ivi risiedeva il Collegium Poetarum davanti ad un giudice per concorrere ad un premio di poesia; dell'autore in teatro; di can­ tanti o di attori professionisti in teatro: e quest'ultima assunse presto la forma di uno spettacolo del genere dell'opera lirica o del varietà. Ma negli stessi anni si levano voci di critica verso il costume della recitatio: già nel passo dell'epistola di Orazio a Floro testé citato (n 2 92-96) e nei versi che seguono fino a v. 105 emergono motivi di viva riprovazione, come nell'epistola I 19 39-42 di Orazio: non ego nobi­ lium scriptorum auditor et ultorgrammaticas ambire tribus et pulpita dignor. Hinc illae lacrimae. "Spissis indigna theatris scripta pudet recitare et nugis addere pondus",65 dove la lettura pubblica di versi (fatta in un teatro fitto di uditori) appare come un elemento di una strategia del suc­ cesso e del presenzialismo letterario, anche oggi ben nota a chi se­ gue o partecipa alle campagne di propaganda e agli eventi delle premiazioni. Il giudizio negativo sulla recitatio di versi ad opera del poeta stesso nasce anche sul terreno dell'irritazione che l'insistenza e la mancanza di misura del recitator producono sull'uditore: Ora­ zio, ars 470-76, unisce alle critiche convenzionali verso il poeta, considerato e presentato come un pazzo, una descrizione grottesca -

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pone il tempio di Apollo Palatino) in un concorso di cui sia giudice Tarpa. né ritorni­ no ripetutamente sulle scene dei teatri ». 64. « Prima guarda con quanto sfarzo, con quanto sforzo appare tutt'intorno pron­ to ad accogliere i vati romani il tempio; subito, se non hai impegni, entra e da lontano ascolta che cosa entrambi (i poeti che si confrontano) presentano e come intrecciano per sé la corona ». 65. « Io non sono ascoltatore di scrittori di fama, per vendicarmi poi con una com­ piacente presenza in collegi e tribune letterarie: ecco l'origine di tanti lamenti. "Mi vergogno di recitare davanti ad un grande pubblico scritti non meritevoli, di dare im­ portanza a delle povere cose" ».

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ed ispirata a parodistico straniamento del poeta che recita i suoi versi: Nec satis apparet cur versusJactitet, utrum minxerit in patrios cineres, an triste bidental moverit incestus; certeJurit, a c velut ursus, obiectos cavea e valuit sifrangere clatros, indoctumfuga t recitator acerbus; quem vero arripuit, tenet oaiditque legendo, non missura cutem nisi piena cruoris hirudo.66 L'evoluzione della pubblica lettura e la sua trasformazione in spettacolo vero e proprio continua nella generazione che segue all' età di Virgilio e di Orazio; accanto al verbo cantare che, come si è vi­ sto, già compare per designare le recitationes spettacolari condotte da attori e attrici professionisti, come Citeride al tempo di Anto­ nio, Bruto, Gallo, entra nell'uso il verbo saltare, evidentemente per designare un aspetto ancora piu spettacolare e visivo, e cioè la dan­ za; dunque le recitationes diventano, al tempo di Ovidio, spettacoli nei quali il testo poetico è interpretato come balletto e opera lirica insieme. Appunto Ovidio accanto ad ars m 345-46, dove una delle sue Heroides ovvero un' epistula è menzionata come testo da cantare: vel tibi composita cantetur epistula voce ignotum hoc aliis ille novavit opus,67 accenna ad altre sue opere presentate in forma di balletti in teatro: trist. n 519-20: et mea sunt populo saltata poemata saepe, oculos etiam deti­ nuere tuos,6B e ibid. v 25-28: carmina quodpieno saltari nostra theatro, ver­ sibus et plaudi seribis, a m ice, meis, n il equidemfeci (tu scis hoc ipse) theatris, Musa nec in plausus ambitiosa mea est; 69 cenni dai quali ricaviamo sen­ z'ombra di dubbio la prova dell'esistenza della pratica della mise en scène di componimenti in versi - in questo caso elegie o comunque componimenti in distici - in forma di spettacoli danzanti o balletti; 66. « E non è chiaro perché vada facendo versi: forse orinò sulle ceneri paterne o, empio, rimosse la tetra terra sacra al fulmine? Non sappiamo, ma certo è pazzo. E, co­ me un orso che sia riuscito a rompere le sbarre, mette in fuga dotti e indotti, recitatore crudele. E se ghermisce qualcuno, lo inchioda e leggendo lo uccide, come la sanguisu­ ga che non lascia la presa finché non è gonfia di sangue �. 67. « O canta con voce modulata un'epistola (una delle Heroides); quegli rinnovò questo genere ignoto ad altri �. 68. « Anche le mie poesie spesso sono state messe in scena in forma di balletto da­ vanti al popolo, spesso hanno incatenato perfino i tuoi occhi �. 69. « Poiché mi scrivi, amico, che le mie poesie vengono messe in scena in forma di balletto in un teatro pieno e si applaudono i miei versi, per quanto mi riguarda (e proprio tu lo sai) io non ho scritto niente per i teatri, né la mia M usa ambisce agli ap­ plausi �.

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vale a dire che i componimenti in versi, quali in questo caso le He­ roides, circolavano fra la gente di teatro come dei copioni o testi de­ stinati alla messa in scena di spettacoli di canto e danza; inoltre nel­ l'ultimo passaggio riportato Ovidio afferma chiaramente di non aver mai composto alcunché per il teatro e che non ha mai nutrito l'ambizione di ottenere con la poesia gli applausi delle platee: que­ sta dichiarazione può essere interpretata come rifiuto del facile successo conseguibile attraverso il fascino del canto, della danza, della bellezza delle mimae, ma anche come la manifestazione di una posizione critica di separatezza della poesia dalle scene dei tea­ tri; essa potrebbe suggerire che qualcuno pensava che il vero e au­ tentico valore dell'opera letteraria e poetica non può essere garan­ tito dal successo delle pièces teatrali cantate e danzate che da essa prendono spunto: in altre parole, letteratura contro spettacolo. Se qualcosa - non molto - può provare un passaggio delle elegiae ex Ponto IV 13 33-36,70 Ovidio vi racconta di avere composto in lingua getica e letto pubblicamente a Tomi davanti ad una platea di Geti un poemetto celebrativo sulla morte di Augusto e sulla successio­ ne di Tiberio: i barbara verba piacquero e alla fìne longum Getico mur­ mur in oreJuit; se ne potrebbe dedurre che Ovidio preferiva e privi­ legiava la recitatio tradizionale, quella praticata a Roma in antico e rifondata come mezzo istituzionale di circolazione orale delle opere letterarie da Asinio Pollione. La recitatio dunque ebbe grandissimo successo e durevole fortu­ na; dimostrò la sua vitalità riproducendosi in forme diverse, adatte allo spettacolo e idonee a promuovere la circolazione dei testi let­ terari, al di fuori del pubblico degli specialisti e delle persone colte, nel grande pubblico dei teatri nella forma di spettacolo leggero e d'intrattenimento. Della fortuna e della vita della recitatio anche nella sua forma tra­ dizionale leggiamo molte testimonianze: se ne occupa ampiamen­ te e con notevole e acuta penetrazione critica il poeta satirico Aulo 70. Haec ubi non patria perlegi scripta Camena, venit et ad digitos ultima charta meos, et ca­ put et plenas omnes movere pharetras, et longum Getico murmur in oreJuit: « Quando fìnii di leggere questo testo di poesia straniera ed ebbi tra le mani l'ultimo foglio, tutti mosse­ ro la testa e le faretre piene e vi fu sulle bocche dei Geti un lungo mormorio ».

L' ARTE D ELLA PAROLA

Persio Placco, dando per esempio una descrizione ironica e forte­ mente straniata di una pubblica lettura di propri versi fatta da un poeta contemporaneo: scribimus inclusi, numeros ille, hic pede liber, (si vede che al tempo di Persio e cioè di Nerone erano oggetto di reci­ tationes, come al tempo di Pollione, anche le opere in prosa) grande aliquod quod pulmo animae praelargus anhelet. Scilicet haec populo pexus­ que togaque recenti et natalicia tandem cum sardonyche albus sede legens cel­ sa, liquido cum plasmate guttur mobile conlueris, patranti Jractus ocello. Tunc neque more probo videas nec voce serena ingentis trepidare Titos, cum carmina lumbum intrant, et tremulo scalpuntur ubi intima versu (I I32I ) ; 7 1 anche Persio, per parte sua, dava pubblica lettura dei suoi componimenti (di quali, non è detto: Persio, secondo Probo, aveva scritto in pueritia etiam praetextam et hodoeporicon librum unum et paucos in socrum Thraseae in Arriam matrem versus, quae se ante virum occiderat. Ma, aggiunge Probo, Omnia ea auctorfuit Cornutus matri eius ut ab ole­ re; 72 sembra pertanto inverosimile che Persio, il quale riponeva in Cornuto la massima fiducia culturale, desse lettura di opere che al maestro non piacevano; se ne conclude che Persio leggesse le pro­ prie satire) e Lucano, suo coetaneo e compagno di scuola, scrive Probo, vita Persi: mirabatur adeo scripta Flacci, ut vix se retineret recitante eo a clamore, quae ille esse vera poemata, quae ipse Jaceret ludos.73 Come appare già bene nella descrizione straniata che Persio dà nella satira I di sopra riportata, la recitatio, anche nella forma pili tra71. « Chiusi in casa scriviamo chi in poesia chi in prosa grandi capolavori da soffia­ re dai polmoni ben gonfi d'aria. Tu naturalmente coi capelli pettinati tutto candido nella toga nuova con al dito la sardonice del tuo compleanno leggerai queste cose al popolo dall'alto del palco, dopo avere gargarizzato la gola con liquide modulazioni per renderla agile, disfatto con l'occhio languido di libidine, e allora vedrai Titi grandi e grossi fremere indecentemente e con voce turbata, quando penetrano nei loro lom­ bi i tuoi carmi e i tuoi tremuli versi grattano le loro parti piu intime »; cfr. A. Pennaci­ ni, I procedimenti stilistici nella I satira di Persio, in « Atti dell'Accademia delle Scienze di Torino », Torino 1970, pp. 417-87. 72. Probo, vita Persi 8: Fiacco aveva scritto da ragazzo anche un tragedia praetexta, un libro di viaggi e pochi versi in lode della suocera di Trasea, Arria Maggiore, che si era uccisa al cospetto del marito. Cornuto intervenne presso la madre di lui perché di­ struggesse tutte quelle cose. 73. Probo, vita Persi 5: « Ammirava tanto gli scritti di Fiacco da trattenersi a fatica dall'esclamare, quando quegli recitava, che quelli erano veri poemi, mentre i suoi, al confronto, non erano che scherzi ».

ADRIANO PE N NACINI

dizionale, stava perdendo ogni significato poetico e acquistava un senso meramente sociale, di occasione di incontro e di sensuale go­ dimento estetico; non il valore dei versi era garanzia di successo, ma la capacità del poeta di vellicare i bassi istinti degli uditori. Que­ sta naturalmente è l'interpretazione pessimistica e critica di un poeta e filosofo di ispirazione cinico-stoica come Persio; anche Giovenale, pur meno aguzzo e tagliente di Persio, inizia la satira I, dunque dà un segnale preciso e caratterizzante, con una breve ras­ segna di recitationes e di opere recitate, ma soprattutto presentando­ si come un contestatore giunto al termine della pazienza e della sopportazione {non spiega peraltro perché continua a frequentare le sale di audizione): Semper ego auditor tantum? numquamne reponam vexatus totiens rauci Theseide Cordi? inpune ergo mihi recitaverit ille toga­ tas, hic elegos? inpune diem consumpserit ingens Telephus aut summi p lena iam margine libri scriptus necdumfinitus Orestes?74 Ma talvolta vi sono occasioni gioiose, da non perdere: quando è annunciata una lettura della Tebaide di Publio Papinio Stazio, fatta dal poeta stesso: curritur ad vocem iucundam et carmen amica e Thebaidos, laetam eum fecit Statius urbem promisitque diem; tanta dulcedine captos adfidt ille animos tantaque libidine vulgi auditur; sed cumJregit subsellia versu, esurit, intactam Paridi nisi vendit Agauen; 75 tuttavia il grandissimo successo delle letture non offre un compenso in denaro a Stazio; che è costretto per pla­ care la fame a comporre la pantomima Agave e a venderla al mimo Paride che la rappresenterà in teatro; si tratta quindi di un testo composto espressamente per la messa in scena: un libretto per pan­ tomima, dove si svolge l'episodio di Agàve, regina di Tracia, madre del re Penteo, che invasata da Bacco e fuori di sé uccide in modo 74· Giovenale, I 1-6: « Sarò io sempre soltanto uditore? non mi rifarò mai, tante volte tormentato dalla Teseide del rauco Cordo? Impunemente dunque quello mi av­ rà recitato commedie togate, questo elegie? Impunemente mi avrà consumato la gior­ nata un grosso Telefo o un Oreste scritto sul margine ormai pieno della parte superio­ re del libro e sul retro e non ancora finito? �. 75. Giovenale, 7 82-87. « Si corre all'amabile voce e alla poesia dell'amica Tebaide, quando Stazio rallegrò Roma e prese impegno per un giorno; con tanto grande dol­ cezza egli conquista gli animi e con tanto godimento di popolo è ascoltato; ma dopo aver spezzato i sedili con la potenza del suo verso, soffre la fame, se non vende a Paride l'inedita Agave ».

L 'ARTE D ELLA PARO LA

atroce il figlio; la pantomima (fabula saltica) è una rappresentazione teatrale in cui un attore-cantante cantava il testo e un altro attore­ danzatore mascherato lo mimava con i movimenti del corpo e i ge­ sti delle mani; pur nel contesto di una opposizione motivata dagli scarsi proventi prodotti dalla poesia il libro in una ininterrotta sequenza di colonna in colonna e ascoltava la voce lettrice, si sostituiva una lettura frazionata e attenta, a voce sempre piu bassa, mormorata, atta a una ricezione autoritaria del testo, quale imposta dal libro cristiano, giuridico o scolastico, intesa a condizionare fortemente i modi del pensare e dell'agire; al « piace­ re del testo » succedeva un lavorio lento di riflessione e meditazio­ ne. Anche nell'àmbito del libro illustrato, alla sequenza di piu sce­ ne che l'occhio del lettore coglieva insieme sul rotolo, legandole lungo un fìlo narrativo continuo, succedeva sul codice un reperto­ rio iconografico sezionato su fogli singoli, non piu funzionale al contesto narrante, ma puramente d'apparato, inteso a « teatralizza­ re » il libro trasformandolo in un libro-spettacolo offerto all'ammi­ razwne. Il codice, in ultima analisi, venne a porsi come lo strumento del passaggio da una lettura > di molti testi da parte di un pubblico vario e stratifìcato, quale nei primi secoli dell'Impero, a una lettura « intensiva » di pochi testi - i libri della Bibbia e i com­ mentari a questi, i corpora legislativi e giurisprudenziali, i classici adottati dai canoni della scuola - fatta di ritorni ripetuti su segmen­ ti testuali, di sforzi interpretativi, di collegamenti, quale nella tarda antichità e poi nel medioevo; una lettura che diventa limitata non solo riguardo ai libri/testi, ma anche agli individui, ai luoghi e alle situazioni. Era la conseguenza della caduta verticale dell'alfabeti­ smo e della produzione scritta, riconducibile a sua volta alla crisi e alle trasformazioni profonde della società romana negli ultimi se­ coli dell'Impero.

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PAO L O F E DELI

I S I STEM I DI P RODUZIONE E DIFFUSIONE I. ALL'ORIGINE DELLA PRODUZIONE LIBRARIA: COMMITTENTI, PATRONI, FINANZIATORI

Ogni ricerca sui modi di produzione e diffusione libraria deve muovere dai soggetti stessi dell'attività letteraria, per definire quali possibilità concrete essi avessero di produrre cultura: il panorama muta, naturalmente, nel corso del tempo, per il diverso grado d'in­ terazione fra letterati e società. Il periodo arcaico, in ogni caso, pre­ senta aspetti di forte omogeneità: dalle origini sino alla metà del II sec. a.C. il letterato, sia esso d'origine greca o magnogreca o italica, è un personaggio socialmente subalterno (schiavo o liberto). È normale che egli esplichi funzioni di pedagogo in una nobile fami­ glia e si occupi dell'istruzione scolastica degli adolescenti che ad es­ sa appartengono. Un esempio per tutti è quello di Livio Andronico nell'ambito dellagens Livia: la sua traduzione dell'Odissea di Ome­ ro diverrà giustamente un modello di « traduzione artistica »; ma essa aveva in prima istanza un carattere pratico. È ovvio, d'altra parte, che l'entrare a contatto con la civiltà greca - dapprima grazie ai traffici e al commercio, successivamente con le guerre di conqui­ sta - ponesse ai Romani non solo problemi di assimilazione di una cultura ormai secolare e di una ben collaudata paideia, ma anche problemi pratici di contatti e convivenza con popolazioni dall'anti­ ca civiltà. Muovendo da una funzione didascalica il letterato pren­ de a sviluppare un'attività parallela non finalizzata a scopi pratici, che ben presto potrà divenire la sua unica attività: punto di parten­ za, in epoca arcaica, è la traduzione di opere greche, che implica una selezione accurata delle piti significative e, non raramente, un loro adattamento ai gusti e alla sensibilità dei Romani. Poste queste promesse, sarà facile dedurre che è impensabile una pubblicazione di opere letterarie a cura e a spese di chi non so­ lo non apparteneva all'aristocrazia, ma addirittura occupava un ruolo socialmente subalterno.Tanto piti in epoca arcaica, in cui al 3 43

PAOLO FEDELI

centro della multiforme produzione del letterato è il poema epico di notevoli dimensioni: pubblicare un'opera letteraria di tal fatta richiedeva uno sforzo finanziario non indifferente, perché molto elevato era il prezzo dei rotoli papiracei e costosa l'attività dei copi­ sti. Di fronte a una tale situazione stava, poi, l'esiguità del pubblico dei lettori, sul quale non sembra legittimo fantasticare troppo o nu­ trire eccessive illusioni: finché l'istruzione scolastica sarà forte­ mente elitaria - basti pensare che la scuola diviene una pubblica istituzione solo a partire dal II7 d.C., al tempo di Adriano - e ri­ marrà privata e libera da controlli statali, fruitori di cultura saranno quasi esclusivamente i membri dei ceti abbienti. Si aggiunga, infi­ ne, che dalla vendita dei libri non derivavano agli autori guadagni in forma diretta, come si chiarirà in seguito. Un aspetto si presenta fortemente omogeneo in tutta la latinità: a dispetto della sempre maggiore diffusione delle opere letterarie e della fama crescente dei loro autori, il motivo della povertà del let­ terato che non appartenesse all'aristocrazia è costante nelle varie epoche della storia di Roma, tanto da far sospettare che esso sia di­ venuto un topos. Lo è, almeno in parte, nei queruli elegiaci, in cui una reale condizione di ristrettezze economiche si affianca al topos callimacheo del poeta povero, che deve difendere l'amore per la donna amata dalle insidie dei rivali danarosi; non lo è, invece, in letterati come Marziale, in costante polemica con i ricchi avvocati. Sembra proprio che ci sia molto di vero nel lamento dell'Eumolpo petroniano sulla condizione dei poeti, allorché egli afferma che le doti dello spirito e il talento poetico non hanno mai reso ricco nes­ suno (sat. 83 9). Si tratta di lamentele piu che comprensibili se si tie­ ne presente che, di contro, molto ben remunerata era l'attività dei rappresentanti di forme di cultura orale: non a caso cantori, citare­ di, musici, attori, ballerini costituiscono il bersaglio privilegiato di Giovenale (7 175 sgg.) e di Marziale (m 4 8; v 56 8-9). Si può esser certi che già nel I sec. a.C. un poeta alla moda come Archia guada­ gnasse molto di piu dalla sua attività orale di cantore di città e po­ tenti che dalle sue raccolte di poesia tenue, che circolavano in for­ ma scritta. Perché, dunque, l'opera letteraria sia pubblicata, c'è bisogno del344

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l'intervento finanziario e del sostegno di un ricco e influente patro­ no. I nune, edere me iube libellos, esclamerà Marziale in un momento di euforia (n 6 1); ma, recuperata la ragione, metterà subito da parte le velleitarie intenzioni e si arrenderà di fronte all'impossibilità pratica di portare a compimento una simile impresa. Quello dei patroni non era sempre un intervento disinteressato e non stupisce che gli esponenti della cultura latina siano divenuti in massima parte diffusori degli interessi dei vari gruppi nobiliari e propagan­ disti delle loro tendenze. In epoca arcaica, in particolare, gli illustri patroni non ebbero alcuno scrupolo di servirsene per fini dichiara­ tamente celebrativi: è istruttivo il caso di Nevio, che non solo com­ pose una pretesta ( Clastidium) per celebrare la vittoria di Marco Claudio Marcello nel 222 a.C. a Casteggio sui Galli Insubri, ma dai suoi patroni fu usato come arma polemica contro gli avversari e pa­ gò con l'esilio le malevole allusioni ai Metelli e a Scipione l'Africa­ no contenute nelle sue commedie. Con Ennio e gli Scipioni prese a svilupparsi un rapporto di tipo « mecenatistico ». L'interesse mag­ giore dimostrato nei confronti della produzione letteraria da parte dei nobili patroni non implicò, tuttavia, un atteggiamento diverso del letterato verso di loro; le ricompense che toccarono ad Ennio (la cittadinanza romana, la guida del collegium scribarum histrionum­ que, come già era avvenuto per Livio Andronico) si giustificano alla luce della sua adesione al programma degli Scipioni, testimoniata se non altro dal suo Scipio (un poema celebrativo in metri vari in onore di Scipione l'Africano). Anche un letterato di nascita libera come Lucilio colpirà personaggi invisi ai suoi protettori e persino la sua polemica con Accio va inquadrata in uno scontro fra gentes (Accio aveva esaltato in una pretesta il suo patrono Giunio Bruto Calleco per i trionfi ottenuti in Spagna nello stesso periodo in cui vi combatteva Scipione Emiliano). Anche al tempo della declinante repubblica e agli inizi del prin­ cipato, in cui pure si assiste a mutamenti di grande importanza nel rapporto fra letterato e potere politico (si pensi solo all'accettazio­ ne della poesia tenue quale attività confacente alla dignitas di un cit­ tadino romano di nascita libera e all'integrazione dei letterati nel­ l'ambito dell'organizzazione del consensus) , un letterato privo di 345

PAOLO FEDELI

fortune personali ha bisogno dell'appoggio di un ricco patrono e la sua opera continua ad essere destinata a un pubblico ristretto di in­ tenditori: gli unici, d'altronde, capaci di coglierne le sottili implica­ zioni e i raffinati giuochi allusivi. Fermi restando, dunque, l'ampliamento progressivo dei fruitori di cultura, in seguito soprattutto a un'accresciuta penetrazione e assimilazione della letteratura greca, e l'atteggiamento di rivolta di singoli autori (si pensi a Catullo, ad esempio), si può affermare che sin dal periodo arcaico il letterato è un cliente o un'emanazione di­ retta dei ceti dominanti, che erano poi i soli in grado di recepire i prodotti culturali. I vari gruppi che si susseguono al potere conti­ nuano ad essere al tempo stesso i committenti e i fruitori, perché il pubblico dei lettori è formato dagli esponenti del mondo colto ed erudito che gravita attorno ai potenti. È legittimo, quindi, il sospetto che la dedica - specie quella da parte dei poeti nel primo carme o nel corso di un'opera - non sia sempre dettata da uno slancio disinteressato di affettuosa amicizia: in non pochi casi il destinatario sarà stato anche il finanziatore del­ l' opera letteraria. Ciò è particolarmente importante ai fini della sua pubblicazione: una testimonianza di Stazio nella prefazione al secondo libro delle Silvae (si tibi non displicuerin� a te publicum acci­ piant; si minus, ad me revertantur) , 1 ci fa capire che, se l'invio dell'e­ semplare con dedica avveniva prima della divulgazione di un'ope­ ra, il destinatario-finanziatore era libero di decidere in merito alla sua pubblicazione. La dedica, in ogni caso, equivale a un passaggio di proprietà, dall'autore al destinatario: ce lo attesta Orazio, allor­ ché dice (carm. IV 8 n-12) : carmina possumus donare etpretium dicere mu­ neri.2 In età imperiale cresce a dismisura il numero di opere su com­ missione e, non a caso, si moltiplicano le dediche: ad esse si ricorre nelle piu svariate circostanze e per occasioni non sempre significa­ tive: ne è un esempio la raccolta delle Silvae di Stazio, ricca di dediI. « (Questi carmi), se non ti dispiaceranno, che il pubblico li riceva da te; in caso contrario, ritornino pure da me ». 2. « Posso donare poesia e assegnare al mio dono il suo valore ».

I S I STEMI D I PRO D UZ I O NE E D I FFUS I ONE

che di singoli carmi 3 a ricordo non solo di illustri defunti, ma an­ che di inaugurazioni di ville e bagni lussuosi (I 5 n sgg.). Sembra proprio che, paradossalmente, si sia stabilito fra letterato e ricco pa­ trono un rapporto degradato nei confronti di quello originario: non piti il letterato alla ricerca affannosa del ricco per comprensibi­ li ragioni di sopravvivenza, ma il ricco alla ricerca del letterato dalla vena facile, per desiderio di celebrità a buon mercato. Il dato im­ portante, comunque, è che il patrono - come si è detto - finanzian­ do l'edizione e avendone in cambio la dedica diveniva il legittimo proprietario dell'opera stessa: con lui, dunque, e non con l'autore avranno dovuto trattare gli editori principi. In alcune circostanze è lo stato stesso, o i suoi rappresentanti uf­ ficiali, a configurarsi come committente: si pensi alle rappresenta­ zioni teatrali finanziate dagli edili (Giulio Cesare, com'è noto, riu­ sd a indebitarsi in modo catastrofico); essi probabilmente avevano il compito di vigilare perché non comparissero nei drammi ele­ menti troppo pericolosi per la morale romana o per l'ordine statale costituito. Che fossero lecite audizioni a porte chiuse delle com­ medie, ad opera dei magistrati prima della loro rappresentazione, è garantito dal prologo dell'Eunuchus di Terenzio, in cui si parla di una rappresentazione preliminare della commedia in presenza di un magistrato e dell'eterno rivale di Terenzio, l'invito Luscio La­ nuvino. In una celebre circostanza, poi, proprio lo Stato si fece committente: quando, cioè, nel 207 a.C. venne assegnato a Livio Andronico il compito di comporre un carmen in onore di Giunone Regina, per riceverne la protezione in vista dell'imminente scon­ tro con i Cartaginesi. Nel periodo augusteo è il principe stesso ad assumere il ruolo di committente, servendosi almeno in una prima fase dell'accorta mediazione di Mecenate: i casi di Virgilio, Orazio e, in generale, dei rappresentanti del circolo di Mecenate sono troppo noti per­ ché su di essi ci si debba soffermare. Da Tiberio in poi gli imperato­ ri si servirono ampiamente della loro prerogativa di censori per in3· Cfr. A. Hardie, Statius an d the Silvae, Liverpool, Francis Cairns, 1983, pp. 53-54; 70-71.

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PAOLO FEDELI

tervenire sulle opere letterarie: proprio sotto Tiberio, Cremuzio Cordo fu accusato di aver elogiato nei suoi annali Marco Bruto e di aver definito Gaio Cassio l'ultimo dei Romani. Il senato decretò che i suoi libri fossero bruciati: ma essi, chiarisce Tacito (ann. IV 35 4), manserun� oaultati et editi (« rimasero, nascosti e quindi pubblicati »). Da parte sua Domiziano, secondo quanto testimonia Svetonio (Dom. 8 3 ) , fece distruggere scritt� che erano stati divulgati per dif­ famare uomini e donne di ragguardevole casata, e ne colpi gli auto­ ri con una nota d'infamia. È rischioso, tuttavia, stabilire analogie fra la censura imperiale e le tecniche dei moderni Stati dittatoriali, per il semplice fatto che, in assenza di un'efficiente organizzazione repressiva, era pratica­ mente impossibile rintracciare e distruggere tutte le copie degli scritti incriminati. 1lvetallux, xaptç/elegantia;23 - uso del sermo cotidianus, che eviti i lenocini dell'ornatus da una parte, l'eccessiva humilitas dall'altra; 24 - creazione di una tipologia epistolare.25 Questo complesso di dettami trasforma un atto originariamente spontaneo come il « dialogare con assenti » in un atteggiamento al­ tamente sofisticato e stilizzato e comunque regolato e quasi coarta­ to da leggi piuttosto precise, quando non addirittura ferree: assi­ stiamo cosi alla progressiva costituzione di un vero e proprio genos, con formulari peculiari e caratteristiche inconfondibili: A. Formulari di apertura e di chiusura, che inquadrano il testo della lettera, di qualunque typos e livello essa sia: 26 22. Giulio Vittore, p. 448, 23 sgg. Halm = p. 106, 7 sgg. Giomini-Celentano; Ps.-Li­ banio, p. 8 Hercher; Prisciano, gramm. m, p. I49, I4 K.; Cicerone, domo 22;jam. VII 32 I e xvi r8 r; Att. m 23 r; Ovidio, Trist. v 13 33-34; Seneca, epist. I5 I; Plinio il Giovane, epist. I n; Simmaco, epist. 11 35 r; Procopio, epist. n6. 23. Demetrio, n. i:pf.L. parr. 228 e 235 Sp.; Filostrato, 11, p. 258 Kayser; Giulio Vittore, p. 448, I sgg. Halm = p. 105, I9 sgg. Giomini-Celentano; Exc. Rhet., p. 589, I2 Halm; Ps.­ Libanio, p. 7 Hercher; Seneca, epist. 45 13 ed altri luoghi; Plinio il Giovane, epist. 11 5 I3 ed altri luoghi; Frontone, p. 6o 9 VdH; Gregorio di Nazianzo, epist. 5I; Giuliano, epist. 31; Girolamo, epist. 7 6 ed altri luoghi; Agostino, epist. 242 5, etc. 24. Demetrio, n. i:pf.L. par. 229 Sp.; Quintiliano, inst. IX 4 19-20; Aquila, rhet. p. 27, I2 Halm; Exc. Rhet., p. 589, 20 Halm; Filostrato, 11, p. 258 Kayser; Ps.-Libanio, p. 7 Her­ cher; Cicerone,fam. IX 2I I; Seneca, epist. 75 I; Plinio il Giovane, epist. VII 9 8; Ambrogio, epist. 48 7; Simmaco, epist. vn 9; Gregorio di Nazianzo, epist. 5I; Sidonio, epist. vm r6 3; lsidoro di Pelusio, epist. v 133. 25. Ps.-Demetrio, p. I Hercher; Ps.-Libanio, pp. 6-7 Hercher: cfr. Cugusi, Evoluzio­ ne, cit., p. 3I; inoltre P. Bon. 5 = CPL 279 , sec. III-IV (cfr. infra par. 5 e n. 72) . 26. Tratto congiuntamente formulari greci e latini perché, come è ben noto, i se­ condi dipendono, per lungo tempo, dai primi. Riprendo qui in breve quanto ho detto in Evoluzione, cit., pp. 4 7-64; aggiungo qualche particolare relativo al periodo non trat­ tato in quel saggio. Sui formulari si potranno leggere:]. Babl, De epistularum Latinarum Jormulis, Progr. Bamberg, Gartner, I893, pp. 7 sgg.; H. Peter, Der Briefin der Romischen Litteratur. Litterargeschichtliche Untersuchungen und Zusammenfassungen, in « Abh. philol.­ hist. Kl. Kon. Sachs. Ges. Wiss. », xx 3 I90I, pp. 29 sgg.; F. Ziemann, De epistularum GraecarumJormulis sollemnibus quaestiones selectae, Diss. Hal., 1910, pp. 253-369; il lavoro di F.XJ. Exler, The Form ojthe Ancient Greek Letter. A Study in Greek Epistolography, Diss. Washington, The Catholic Univ. of America, 1923; G. Ghedini, Lettere cristiane, Mila-

L ' E P I S T O L O G RAFIA. M O DELLI E T I P O L O G IE

a) Aprono la lettera l'inscriptio e la formula di saluto, che hanno fatto registrare notevole evoluzione nel corso del tempo. Il tipo greco piu antico è Ò OEÌVU 't> , n.s. 11 1977-1978, pp. 5-36; poi Cotton, Documentary letters, cit. nella n. 82. 401

PAO LO CUGUSI

aliquem commendo l rogo commendatum habeas (in apertura di lettera) ; homo domesticus et carus simm. (detto del raccomandato) ; est enim homo + qualificante di homo . . . (detto del raccomandato) ; concessione di un favore si quid eguerit l petierit; erit mihi gratissimum che il favore venga elargito; b) formulari delle ricevute: 1 o2 accepi l Jateor me accepisse (et debere); tibi solvam l reddam stip endio proxumo; cum usuris sine controversia; actum + località + data. Si potrebbero ricordare ancora, per es., i formulari delle lettere di probatio l assegnazione di cavalli o reclute, 1 03 ma si entrerebbe cosi nel campo delle lettere burocratiche, per natura propria basate sulla stereotipia e dunque diverse dalle lettere di altri tipi. B. Temi ricorrenti nelle lettere documentarie. Se le epistole let­ terarie presentano temi largamente ricorrenti, facilmente identifi­ cabili nella loro raffinata elucubrazione, anche le lettere di umile livello ne presentano di altri tipi, tanto piu banali, intessuti di e­ spressioni stereotipate ben enucleabili, non certo suggerite dalla retorica, ma dovute all'immediatezza del parlato: basterà ricordare tra i temi: - il tema della mancanza di carta da lettera; 104 - il tema della sollecitudine per le condizioni di salute del destinatario, diffuso in misura amplissima nell'epistolografia su papiro, soprattutto quella di lingua greca; 105 - il tema del xatp6ç l occasio, 106 nel mondo greco dall'età tole102. In breve, Cugusi, Evoluzione, cit., p. 114. 103. Ibid., pp. 99 e 276. 104. P. Mich. VIII 468 e 481; P. Giess. 85; P. Fior. 367; P. Grenf 1 1 38, etc. Tema sporadi­ camente presente in testi letterari: Cicerone, Att. v 4 4, poi, molto pili tardi, Girolamo, epist. 7, Agostino, epist. 15 (e cfr. anche Gregorio di Tours, Hist. Frane. v 5) . Cfr. Cugusi, Evoluzione, cit., p. 77. 105. P. Mich. VIII 467; 468; 476; 479; 482; 484; P. Fior. 332; P. Hamb. 1 88; SB 6222, etc. Si vedano Koskenniemi, Studien zur Idee und Phraseologie, cit., pp. 71-72, e Cugusi, Evo­ luzione, cit., p. 77106. Steen, Les clichés, cit., pp. 126 sgg.; Tibiletti, Le lettere private, cit. nella n. 26, pp.

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maica in poi, in quello latino dai testi pompeiani in poi; 1 07 tra le espressioni caratteristiche, per es.: - scito(te) l scias l scire te volo (in greco yiyvwoxe l ytyvwoxew oe 8ÉÀ.w, dal sec. III a.C. [Witkwoski nn. 2; 3; 13 e, rispettivamente, n. 57] in poi) : anche in testi letterari, ma soprattutto nelle lettere do­ cumentarie, in cui non solo talvolta, in posizione immediatamente successiva ai convenevoli d'apertura, introducono la comunicazio­ ne epistolare vera e propria, ma spesso punteggiano e frammenta­ no lo svilupparsi del discorso epistolare (cfr. per es. P. Mieh. vm 467, ll. 4, 7, 8 latina � 477, ll. 7, 28, 32 greca).1 08 Il confronto tra questi temi l espressioni umili e quelli aulici del­ le epistole letterarie prova la grande distanza intercorrente tra i due livelli epistolari. C. Stereotipia: è caratteristica peculiare nell'ambito epistolare, in parte legata alla specificità di un dato tipo di lettera, in parte indi­ pendente da essa e collegata piuttosto con le modalità della comu­ nicazione epistolare in quanto tale. 1 °9 Non alludo, in questo momento, alla stereotipia delle lettere uf­ ficiali e burocratiche (per es. le lettere amministrative del carteggio tra Plinio e Traiano o le lettere di assegnazione di cavalli, etc.), in cui le ripetizioni sono dovute alla presenza di formulari fissi buro­ cratici; non alludo nemmeno alle ripetizioni peculiari di determi­ nati > .3° Sono il prodotto di un'Africa che ha solide strutture scolastiche, ampia­ mente diffuse: a Lepcis (magnificamente ricostruita da Settimio Severo), Utica, Cesarea di Mauretania, Oea, Ippona, Madaura, Cirta, Sicca Veneria, etc., ma soprattutto Cartagine.31 Rifondata e popolata di coloni in età augustea, Cartagine ha rag­ giunto uno sviluppo tale che le consente di rivaleggiare, per densi­ tà di abitanti, ricchezza economica, vivacità culturale con Alessan­ dria, Antiochia e la stessa Roma. Come Roma essa funge da polo di attrazione: a Cartagine si viene da tutte le città dell'Africa per com­ pletare gli studi (è l'unica sede con scuole di livello « universita­ rio >> ), per trovare maestri importanti e ricche biblioteche, per re­ spirare l'atmosfera cosmopolita, brillante, culturalmente stimolan­ te che solo una grande capitale può offrire. La presenza del pro­ console e di un'imponente cerchia di funzionari facilita le occasio­ ni culturali; anzi spesso i proconsoli stessi sono amanti delle lette­ re: basti ricordare fra i molti, in età adrianea giureconsulti come Giavoleno Prisco; sotto gli Antonini oratori come Lolliano Avito e filosofi come Claudio Massimo, davanti al quale fu discussa l'accu­ sa di magia contro Apuleio.32 Non stupisce che dopo i suoi soggiorni in Oriente e ad Atene Apuleio abbia deciso di tornare a Cartagine, dove aveva comincia­ to a studiare filosofia (flor. 18). Ma Cartagine è anche l'indiscusso centro di una forte Chiesa di lingua latina che emerge in pieno ri­ goglio alla fine del II secolo d.C. (mentre ancora a Roma e in Gallia il cristianesimo parla greco), spesso in fiera opposizione alla stessa Chiesa di Roma con la quale si trova in frequente contrasto su que­ stioni dottrinali. Dalla fine del II secolo all'inizio del IV la cultura 30. D'Elia, Letteratura latina, cit., p. 31; per gli autori cristiani d'Africa P. Mon­ ceaux, Histoire littéraire de l'Afrique chrétienne, I, Paris, Leroux, 1901; n, 1902; m, 1905; IV, 1912. 31. Per le scuole cfr. Monceaux, Les /ifricains, cit., p. 479; sulla cultura africana in ge­ nere cfr. N. Fick, Le milieu culture/ africa in à l'époque antonine et le témoignage d'Apulée, in « BAGB », 1987, pp. 285-96. 32. Su Cartagine cfr. Monceaux, Les Africains, cit., pp. 459-82; T.D. Barnes, Tertul­ lian. A Historical and Literary Study, Oxford, Clarendon Press, 1971, pp. 67; 194-95.

I SABEL LA GUALANDRI

cristiana latina occidentale è soprattutto africana e cartaginese. L'intollerante rigorismo di Tertulliano, l'equilibrata fede di Ci­ priano, il fanatismo settario di Commodiano (forse un siro appro­ dato a Cartagine a metà del III secolo) , la sofferta polemica di Ar­ nobio (insegnante di retorica a Sicca Veneria) sono le diverse voci di una cultura cristiana di straripante vitalità, intellettualmente tentata da movimenti ereticali, mutilata dalle persecuzioni (di De­ cio e Valeriano nel decennio 249-59), lacerata dalle abiure in tragi­ che crisi di coscienza (il problema dei lapsi) : un insieme di tensioni di fede e cultura quali raramente è dato trovare. Al confronto appa­ re assai sbiadito quanto si osserva altrove. Spagna e Gallia sono infatti in pieno declino culturale, travolte dalla grave crisi politica ed economica che caratterizza il III secolo in tutto l'Impero: ma già dalla metà del II secolo la forte diminu­ zione di Spagnoli e Galli nell'ordine senatorio ed equestre, con in­ versione di tendenza rispetto al periodo precedente, rappresenta un chiaro segnale di involuzione.33 Qualche traccia di vita si nota nella cultura greca: se Marsiglia sembra ormai decaduta rispetto al glorioso passato, è però gallico, di Arles, Favorino, retore famoso a Roma, in Grecia e Asia Minore; e per Frontone Reims è l'Atene di Gallia. Greca è pure la cultura cristiana, ora ai suoi inizi (qui come in Spagna - dove prenderà piede a metà del II secolo - la diffusione del cristianesimo è piu lenta della impetuosa fioritura africana) , che s'incentra su Lione: la città dove Antonino Pio ha solennemen­ te fondato nel r6o un grande santuario di Cibele, e dove paganesi­ mo e cristianesimo si scontreranno con violenza nel 177. Ireneo di Smirne, divenuto vescovo di Lione, avrà una funzione importante sia nel creare uno stretto legame tra la chiesa di Lione e le chiese d'Asia minore, sia nel dare forte impulso alla diffusione del cristia­ nesimo in Gallia.34 Teatro degli scontri tra Settimio Severo e Clodio Albino, culmi­ nati nel cruento saccheggio di Lione del 197 e seguiti da pesanti confische in Gallia e Spagna, devastata dalle incursioni barbariche, 33· Millar, L'impero romano, cit., p. 174. 34· Hatt, Histoire de la Caule, cit., pp. 181-84; Millar, L'impero romano, cit., pp. 167-70.

PER UNA G E O G RAFIA DELLA LETTE RATURA LATI NA

la Gallia conosce anche, durante i decenni dell'anarchia militare (246-76) la guerra civile e l'avventura del separatismo, con la costi­ tuzione dell'imperium Galliarum che spezza in due il paese: si arroc­ ca attorno a questo nuovo regno autonomo la parte settentrionale, che ha come centri Colonia e Treviri (città quest'ultima in piena ascesa) ; si mantiene fedele all'imperatore legittimo la parte meri­ dionale, ossia la Narbonese e la Lionese, di piu antica romanizza­ zione. Per non aver accettato il distacco dall'impero Autun, capita­ le degli Edui, sede di famose scuole (ricordate da Tacito, ann. m 43 come centro di attrazione per tutta la gioventu gallica già al tempo di Tiberio) viene assediata e saccheggiata. Devastazioni, brigantag­ gio, spopolamento e riduzione delle città segnano la storia di que­ st'epoca: le strutture della vita culturale non possono non esserne coinvolte.35 4· DA D I OCLEZIANO

AL sAcco m

RoMA

L'avvento di Diocleziano e l'istituzione della tetrarchia (289-90) segnano il superamento della crisi del III secolo e l'avvio di un rias­ setto della struttura dell'impero che determina (o riflette) profondi mutamenti. Roma, che continua ad essere sede del senato, gode so­ prattutto del riflesso dell'antico prestigio, ma la spartizione del po­ tere e delle aree d'influenza fra i due Augusti e i due Cesari e le ne­ cessità amministrative e belliche fanno salire al rango di capitali, sede della corte e cervello della complessa macchina burocratica e militare dell'impero, altre città, collocate in posizioni strategiche che consentano meglio di controllare i confini. Sono Treviri (poi Arles), Milano (poi Ravenna), Sirmio, Nicomedia, Antiochia; inol­ tre la fondazione di Costantinopoli nel 330 sancirà l'esistenza di una « seconda Roma >> creata per bilanciare la prima. La nuova im­ portanza acquisita da questi centri, che attraggono da ogni parte dell'impero chi aspira a far carriera nell'amministrazione statale e determinano anche profonde modifìcazioni economiche e sociali nelle aree sotto la loro diretta influenza, ha ovviamente delle con35.

Hatt, Histoire de la Caule, cit., pp. 195-229; Millar, L'impero romano, cit., pp. 181-83.

I SABE LLA GUALANDRI

seguenze pure in campo culturale: contribuisce cioè ad accentuare una sorta di movimento centrifugo rispetto a Roma, favorito al tempo stesso da altri fattori. Non ultimo fra questi il diffondersi e radicarsi del cristianesimo, che alla fine del III secolo ha raggiunto anche in occidente solidità e stabilità di strutture. L'infittirsi delle sedi episcopali {all'inizio del IV secolo si può dire che ve ne sia una in ogni città di qualche importanza) produce un notevole muta­ mento nel panorama geografico dei centri di cultura. Ciascuna se­ de episcopale è, infatti, potenzialmente un luogo in cui si produce letteratura cristiana, si tratti di omelie, testi esegetici, trattati teolo­ gici. Nella gerarchia che viene man mano istituendosi tra le varie sedi, alcune finiscono col diventare piu importanti di altre ed assu­ mono la funzione di punto di riferimento nelle dispute dottrinali. Cosi i vescovi delle grandi capitali pretendono sia loro riconosciuta supremazia sui colleghi, con diritto di giurisdizione, e il concilio di Nicea (325) conferma lo status speciale delle chiese di Alessandria, Antiochia, Roma. La chiesa di Roma, nell'ambito dell'occidente, è stata fino a questo momento importante soprattutto per la sua col­ locazione nella capitale e per la sua grande ricchezza, oscurata per altro quanto a prestigio dottrinale dalla forte e vitale chiesa di Car­ tagine: ma proprio il distacco di quest'ultima dal resto dell'occi­ dente per la lunga crisi donatista (iniziatasi nel 3r2) consente a Ro­ ma di emergere, sotto la guida di papa Giulio (337-52) e di raggiun­ gere un'indiscussa supremazia sotto Damaso (366-84).36 Interscambi e rapporti fra una sede episcopale e l'altra sono fa­ voriti dai concili che, introdotti come occasioni periodiche per de­ cidere sui molteplici aspetti della vita religiosa, si fanno numerosi nel IV secolo, accompagnando i grandi dibattiti che impegnano la Chiesa (basti qui enumerare i piu importanti tra quelli connessi con la questione ariana: 325 Nicea; 341 Antiochia; 3 42 Serdica; 353 Arles; 355 Milano; 357 Sirmio; 359 Rimini e Seleucia).Gli stessi esili a cui sono spesso costretti i piu significativi rappresentanti delle correnti che si fronteggiano servono in ultima analisi a mettere in 36. Per questi aspetti cfr. W.H. C. Frend, The Early Church, London, SCM Press, 1986, pp. !07-14.

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PER UNA G E O G RAFIA D ELLA LETTERATURA LATI NA

comunicazione realtà culturali diverse, di aree geografiche anche lontane: la presenza di Atanasio (il grande antiariano perennemen­ te bandito dalla sua sede di Alessandria) a Treviri (335-37) e a Roma (339-46) fa conoscere al mondo occidentale l'ascetismo e l'eremi­ tismo già in piena fioritura in Palestina, Siria, Egitto; il soggiorno coatto di Ilario di Poitiers in Anatolia (356-60) è occasione per uno studio approfondito della tradizione teologica greca. Nella Gallia devastata da anni di guerra lo sforzo di ricostruzio­ ne degli imperatori della tetrarchia è imponente: lotta al brigantag­ gio dei Bagaudae, rafforzamento del fronte germanico, ricostruzio­ ne di strade, fortezze, cinte urbaneY Fa parte di questo program­ ma la riorganizzazione delle scuole, primo passo per garantire la sopravvivenza di una classe di funzionari duramente messa alla prova negli ultimi decenni. N e è artefice soprattutto Costanzo Cloro, spinto anche dal suo segretario, Eumenio, un retore latino di origine greca nativo di Autun, che s'impegna in prima persona nella restaurazione delle famose scuole della sua città. E da Autun provengono per lo piu gli oratori anonimi che a Treviri, la sede im­ periale, pronunziano tra il 289 e il 312 una serie di panegirici per Massimiano, Costanzo Cloro, Costantino. Dopo di loro, però, di Autun non si sa pili nulla: mentre s'impone il primato di Bordeaux, capitale dell'Aquitania, trasformata da centro eminentemente commerciale in centro culturale con la fondazione della sua « uni­ versità » (286-87) . Punto di attrazione per gran parte della gioventu di Gallia in tut­ to il IV secolo, la scuola di Bordeaux ci è nota dai carmi di Ausonio, che vi fu allievo e maestro, cosi che conosciamo i nomi di molti suoi grammatici e retori, greci e latini. Bordeaux esporta i suoi pro­ fessori anche altrove, in Gallia e fuori: a Poitiers (Anastasio), An­ gouléme (Tetradio), Tolosa (Essuperio, che insegna ai nipoti di Costantino li relegati; Sedato). Tolosa vede anche la presenza di Emilio Magno Arborio, zio di Ausonio, precettore dei fratellastri di Costantino, poi chiamato a Costantinopoli per far da maestro 37·

Hatt, Histoire de la Gaule, cit., pp. 249-68.

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probabilmente a Costanzo. A Costantinopoli e Roma raggiunge grande fama un altro bordolese, Tiberio Vittore Minervio; e ad oratori di Bordeaux viene spesso affidato il compito di celebrare coi loro panegirici gli imperatori (Nazario, a Roma, per i quinquen­ nalia dei Cesari figli di Costantino; Latino Alcimo Aletio per Giu­ liano; piu avanti, nel 389, Latinio Pacato Drepanio a Roma, per la vittoria di Teodosio su Massimo). Alte cariche (governatorati, pre­ fetture) accompagnano spesso l'ascesa di questi maestri.38 Treviri, divenuta sede imperiale, è stata favorita e arricchita di monumenti: si tratta soprattutto di un centro di importanza strate­ gica (Ausonio la ricorda sesta fra le città dell'impero particolar­ mente per la presenza dell'esercito e per l'attività commerciale), ma l'essere sede della corte ne fa anche un punto di riferimento culturale. Treviri è lo scenario naturale dell'oratoria celebrativa, di parata (qui i retori gallici recitano la maggior parte dei loro panegi­ rici imperiali), ma ospita anche personaggi assai significativi, come l'africano Lattanzio, che vi giunge da Nicomedia dopo il 3r7 quale precettore di Crispo, figlio di Costantino, e vi rielabora probabil­ mente parte delle divinae institutiones e del de mortibus persecutorum; o come Atanasio, che vi soggiorna esule - già s'è detto - fra il 335-37; ed è suggestiva coincidenza che circa trent'anni dopo proprio a Treviri, nel corso di un viaggio, Girolamo venga a contatto con il monachesimo orientale. Ma soprattutto negli anni di Valentiniano I e di Graziano (367-8r), anche per la presenza del maestro di Gra­ ziano Ausonio, Treviri vive una animata stagione culturale, in un intrecciarsi di rapporti fra la corte, l'aristocrazia romana e una clas­ se di proprietari terrieri gallici, interessati alle lettere, in piena asce­ sa politica: basti pensare alla fitta serie di cariche che, morto Valen­ tiniano, segna la fortuna di Ausonio e della sua famiglia, divenuta la piu potente fazione dell'Impero occidentale.39 38. Su Bordeaux e i suoi professori cfr. R. Etienne, Bordeaux antique, Bordeaux, Fé­ dération Historique du Sud-Ouest, 1962, pp. 203-64; per la cultura in Gallia in quest'e­ poca cfr. C.Jullian, Histoire de la Caule, Paris, Hachette, 1926, vol. vm, pp. 242-92; Para­ tore, Letteratura pagana, cit., pp. 53-86. 39. Cfr.]. Matthews, Western Aristocracies and Imperia/ Court A.D. 364-425, Oxford, Clarendon Press, 1975, pp. 32-87.

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PER UNA GEO GRAFIA D ELLA LETTE RATURA LAT I NA

Fa da sfondo a questa società l'area gallo-ispanica compresa tra Aquitania e Tarraconese, tra la valle della Garonna e quella dell'E­ bro: un'area in cui le strade transpirenaiche consentono una fitta rete di scambi economici e culturali. Di qua e di là dalla barriera montuosa emerge un mondo relativamente omogeneo di possi­ denti e letterati, spesso alti funzionari a riposo, che condividono un certo stile di vita aristocratico e amano dare al loro secessus in villam il tono del ritiro meditativo, ora nella tradizione antica dell'otium, ora in quella cristiana (per esempio Ausonio; Paolina di Nola a Hebromagus; Sulpicio Severo a Primuliacum, dove compone la Vita Martini e dove crea una pia comunità laico-religiosa).40 Le interconnessioni di quest'area sono confermate anche dalla diffusione del priscillianesimo, che permette fra l'altro di intrave­ dere qualcosa della vitalità della cultura spagnola di quest'epoca. Se il cristianesimo spagnolo - già ricco di martiri al tempo delle perse­ cuzioni di Valeriano (25 7-59) e Diocleziano (iniziata nel 303) - si segnala all'inizio del IV secolo per la forte personalità di Ossio di Cordova, potentissimo consigliere di Costantino, è soprattutto la seconda metà del secolo che ne conferma la vivacità, con la poesia di Giovenco e Prudenzio, con il delinearsi dell'importanza di alcu­ ne sedi (ad es. Barcellona, dove è vescovo Paciano; dove è sacerdo­ te Vigilanzio; dove viene ordinato Paolina di Nola e soggiorna Prudenzio).41 Ma l'occasione che consente di conoscerlo meglio, e che conferma quei canali privilegiati di comunicazione Gallia­ Spagna a cui si alludeva, è rappresentata dalla controversia sorta in­ torno alla figura di Priscilliano e al suo insegnamento. Condannato prima in Spagna (380 Cesaraugusta) e poi in Gallia (384 Bordeaux), giustiziato a Treviri insieme coi suoi seguaci da Massimo (385), Pri­ scilliano con la sua dottrina dai tratti manichei ha avuto un vasto seguito tra classi colte e popolo, in Aquitania come in Spagna; e 40. ]. Fontaine, Valeurs antiques et valeurs chrétiennes dans la spiritualité des grands pro­ prietaires terriens à lafin du IV' siècle occidental, in Études sur la poésie latine tardive d'Ausone à Prudence, Paris, Les Beli es Lettres, 1980, pp. 241-65; Id., L'éclat de la romanité dans l'Aqui­ tanie du W' siècle, in