Il volto di Cristo. Gli archetipi del Salvatore nella tradizione dell'Oriente cristiano 8816409924, 9788816409927

Cristo lasciò personalmente e direttamente i tratti del proprio volto impressi su un panno. È questo l'affascinante

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Italian Pages 221 [240] Year 2011

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Il volto di Cristo. Gli archetipi del Salvatore nella tradizione dell'Oriente cristiano
 8816409924, 9788816409927

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EMANUELA FOGLIADINI

IL VOLTO DI CRISTO Gli Acheropiti del Salvatore nella Tradizione dell)Oriente cristiano

Presentazione di Piergiuseppe Bernardi

di fronte e attraverso

JacaBook

IL VOLTO DI CRISTO Gli Acheropiti del Salvatore nella Tradizione dell' Oriente cristiano Cristo lasciò personalmente e direttamente i tratti del proprio volto impressi su un panno. È que­ sto l'affascinante e misterioso inizio che accomuna le icone Acheropite di Cristo. Immagini «non fatte da mano d'uomo», pressoché sconosciute al mondo occidentale, rappresentano invece il fon­ damento della ritrattistica dell'Oriente cristiano per quanto riguarda il volto di Gesù. Icone stra­ ordinarie che fondano la teologia e la storia dell'arte o piuttosto immagini inventate dalla Chiesa per legittimare il culto delle rappresentazioni sacre in un'epoca di violenti dibattiti come fu quel­ la delle lotte iconoclaste? TI libro di Emanuela Fogliadini indaga intorno a queste fondamentali questioni, con uno studio completo sugli Acheropiti di Cristo, di cui nessuno si era più fatto cari­ co, in modo così sistematico, da oltre un secolo, dopo il monumentale lavoro di Ernst von Dobschiitz. Una rigorosa analisi dei fondamenti teologici, accompagnata da un viaggio entusia­ smante tra le avventure e i misteriosi intrecci di cui furono protagortiste queste sorprendenti icone, offre un quadro dettagliato sul tema e restituisce agli Acheropiti di Cristo il fondamento teologico-dogmatico di cui godono nell'ambito del cristianesimo ortodosso. Dalle pagine emerge il confronto tra le prospettive teologiche e artistiche di Oriente ed Occidente sugli Acheropiti di Cristo e, più in generale, sulle icone e la teologia tutta. EMANUELA FOGLIADINI ha conseguito la Licenza in Teologia presso la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale di Milano, dove è attualmente impegnata in un Dottorato di Ricerca in Storia della Teologia dell'Oriente cristiano.

È docente all'Istituto Superiore di Scienze Religiose di Milano,

alla

Facoltà Teologica dell'Emilia Romagna di Bologna e alla Scuola Iconografica di Seriate.

ISBN 978-88-16-40992-7

€ 24,00

9

Emanuela Fogliadini

IL VOLTO DI CRISTO GLI ACHEROPITI DEL SALVATORE NELLA TRADIZIONE DELL'ORIENTE CRISTIANO

Presentazione di Piergiuseppe Bernardi

Il

Jaca Bookl

©2011

Editoriale J aca Book Spa, Milano tutti i diritti riservati Prima edizione italiana aprile 2011 In copertina particolare del re Abgar con il Mandylion, x secolo, monastero di Santa Caterina del Sinai, Egitto Dittico del Sinai:

Redazione e impaginazione Gioanola Elisabetta, San Salvatore Monferrato (Al) Stampa e confezione Grafiche Flaminia, Foligno (Pg) marzo 2011

ISBN 978-88-16-40992-7 Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma ci si può rivolgere a Editoriale J aca Book SpA - Servizio Lettori via Prua 1 1 , 20146 Milano, tel. 02/48561520-29, fax 02/48 1 93361 e-mail: [email protected]; internet: www.jacabook.it

INDICE

Presentazione, Introduzione

l. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

di Piergiuseppe Bernardi

9 13

Parte prima LE ICONE ACHEROPITE DI CRISTO E LA LORO DIMENSIONE TEOLOGICA

19

Capitolo primo IL TRATTO CRISTOLOGICO DELL'ICONA NELLA TRADIZIONE DELL'ORIENTE CRISTIANO

21

Il ruolo dell'icona nella Tradizione dell'Oriente cristiano Il concilio Quinisesto e la prima fase iconoclasta La teologia iconoclasta di Costantino v e il concilio di Hieria Il concilio di Nicea II come fondamento del carattere teologico-dogmatico dell'icona Il rapporto immagine-prototipo come nucleo del carattere teologico-dogmatico dell'icona L'implicazione liturgico-rivelativa del tratto teologico-dogmatico dell'icona L'icona di Cristo come prototipo di ogni altra icona Capitolo secondo GLI ACHEROPITI

l. 2. 3. 4. 5.

Gli Acheropiti: definizione preliminare L'antecedente pagano degli Acheropiti Il prendere forma degli Acheropiti nel contesto cristiano primitivo La figura di Cristo come soggetto degli Acheropiti Il carattere plurale degli Acheropiti 5

21 25 28 31 37 40 44

47 47 51 56 61 65

Indice Capitolo terzo LA DECISIVITÀ DEL VOLTO E DELLO SGUARDO NELLA TRADIZIONE ICONOGRAFICA DELL'ORIENTE CRISTIANO volto e lo sguardo nella riflessione neotestamentaria La ripresa teologica del volto e dello sguardo nella Tradizione dell'Oriente cristiano Volto e sguardo come eiementi centrali dell'arte dell'icona n volto e lo sguardo di Dio nel volto e nello sguardo di Cristo n «Santo Volto» come Volto dei volti La replicabilità iconica delle immagini Acheropite n tratto miracoloso delle immagini Acheropite n tratto miracoloso delle immagini Acheropite verso l'enfatizzazione

l. n 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

l.

2. 3. 4. 5.

l.

3.

l.

3.

75 79 85 88 91 95 98

103

Capitolo primo LE ICONE ACHEROPITE DI CRISTO: INQUADRAMENTO COMPLESSIVO

105

Gli Acheropiti di Cristo tra attestazione e leggenda L'attestazione patristica di un'esistenza effettiva degli Acheropiti di Cristo nella prima ondata iconoclasta La posizione iconoclasta sugli Acheropiti e gli Acheropiti perduti La replica iconodula sugli Acheropiti La graduale assunzione da parte degli Acheropiti di una valenza liturgica

Le attestazioni storico-patristiche La riproduzione iconica della Camuliana Vicende storiche di una dissoluzione Capitolo terzo L'IMMAGINE DI CRISTO DI EDESSA

2.

71

Parte seconda LE ICONE ACHEROPITE DI CRISTO NELLA TRADIZIONE DELL'ORIENTE CRISTIANO

Capitolo secondo LA CAMULIANA 2.

71

La corrispondenza tra Gesù e Abgar come nucleo iniziale del racconto La complessa vicenda dell'immagine di Cristo di Edessa: dall'origine soprannaturale al prodigioso ritrovamento La comparsa dell'icona di Cristo di Ed essa nelle fonti apocrife e patristiche: la Dottrina di Addai e gli Atti di Taddeo 6

105 108 112 117 121

125 125 129 131

135 135 140 144

Indice 4. 5. 6.

l.

2. 3. 4. 5. 6.

L'immagine di Cristo di Edessa tra storia e leggenda: dal periodo edesseno alla scomparsa a Costantinopoli La venerazione liturgica dell'immagine di Cristo di Edessa Descrizione artistica dell'immagine di Cristo di Edessa

2. 3. 4.

156

Parte terza L'ATTENZIONE DELL'OCCIDENTE ALLE ICONE ACHEROPITE DI CRISTO NELLA VENERAZIONE DEI «SANTI VOLTI»

161

Capitolo primo LA VENERAZIONE DEL SANTO VOLTO «DELLA VERONICA» IN OCCIDENTE

163

La statua di Paneas: il retroterra orientale della leggenda occidentale del Sacro Volto «della Veronica» n corpo dèlla leggenda: la Cura Sanitatis Tiberii e la Vindicta Salvatoris L'icona romana «della Veronica» La devozione dei Papi verso i «Santi Volti» Le immagini riprodotte del Volto «della Veronica» in Occidente Sguardo sintetico sulla venerazione del Volto di Cristo «della Veronica» Capitolo secondo LA DIFFUSIONE DELLA VENERAZIONE DEI «SANTI VOLTI» IN OCCIDENTE

l.

148 152

163 167 171 175 183 186

191

I Santi Volti come immagini bizantine oggetto di venerazione in Occidente n Santo Volto di Laon n Santo Volto di Genova n Santo Volto di Manoppello

202

RIPRESA TEOLOGICA CONCLUSIVA DEL TEMA TRATTATO

207

191 194 198

Bibliografia

213

Indice dei nomi

218

7

PRESENTAZIONE

La parola dx.cbv, nella Tradizione dell'Oriente cristiano, identifica un'im­ magine sacra connotata da una particolarità che la rende irriducibile alle opere d'arte sacra figurativa messa a punto dall'Occidente cristiano: il suo rendere cioè effettivamente presente, seppure in modo misterioso, colui che nell'im­ magine sacra viene rappresentato. Perché ciò accada tuttavia è necessario che l'iconografo si muova nella prospettiva di un «doppio realismo»: l'immagine che egli creerà infatti per un verso dovrà rappresentare fedelmente la fisionomia storico-concreta del rappresentato e per l'altro evidenziare l'appartenenza di questa stessa figura, sia pure nella specifica forma di volta in volta pertinente ad essa, alla sfera del divino. Solo così infatti l'clx.cbv, destinandosi ad assumere un ruolo decisivo nella divinizzazione eli ogni uomo a partire dall'hic et nune della sua specifica storia, potrà davvero adempiere al suo compito di fungere da effettivo tramite liturgico fra l'eternità e il tempo. Il primo aspetto di questo «doppio realismo», strutturalmente implicito all'clx.cbv, ci aiuta a comprendere la ragione profonda della preoccupazione de­ gli .iconografi a che non vada mai completamente perduta, nel realizzare un'ico­ na, la somiglianza effettiva tra l'immagine e il prototipo da essa rappresentato: laddove infatti questa somiglianza dovesse dissolversi del tutto si assisterebbe di fatto al venir meno di quel legame antologico tra prototipo e immagine che dell'icona costituisce la stessa essenza. Solo nel permanere di questa somiglian­ za, invece, al fedele che venera l'icona è consentito eli stabilire un rapporto autentico con colui che vi è rappresentato e di essere investito dall'energia dei­ ficante che attraverso l'icona misteriosamente fluisce dall'eternità nel dominio della spazio-temporalità umana. Soltanto tenendo ben presente la decisività, che nell'Eix.cbv viene ad assu­ mere la somiglianza tra il prototipo e l'immagine, diverrà comprensibile la na­ turalezza con la quale l'Oriente cristiano considera parte della sua Tradizione, 9

Presentazione

ancorandola allo stesso Logos incarnato, l'immagine di Cristo «non fatta da mano d'uomo» (àXELQOrtoL�tOç). Nell'orizzonte dell'Ortodossia infatti, che in questo ripercorre il solco tracciato da Giovanni Damasceno nelle sue Orazioni in dz/esa delle immagini sacre, non risulta per nulla strano che il Verbo di Dio, divenuto visibile grazie all'incarnazione, non si limiti ad attestare il suo essersi fatto uomo attraverso la parola testimoniale degli Evangelisti, ma integri invece questa stessa attestazione anche su un piano visivo. Non dovrà dunque stupire il fatto che l'Ortodossia accolga nella sua Tradizione alcune immagini ritenute non «fatte da mano d'uomo», bensì misteriosamente impresse da Cristo stesso, sia prima che dopo la Pasqua, su pezzi di tessuto divenuti occasionali supporti alla sua stessa immagine e trasformatisi da subito negli imprescindibili modelli di un susseguirsi secolare di icone che, pur rispecchiando le diverse epoche che le hanno riprodotte e in assenza degli stessi originali aridati col tempo perduti, ha tuttavia inteso perdurare nella fedeltà a questi ultimi per oltre due millenni. Lo sguardo dell'Occidente su queste immagini Acheropite di Cristo ha tro­ vato la sua espressione più compiuta in E. von Dobschiitz, teologo liberale che, a cavallo tra '800 e '900, ha praticamente dedicato la sua vita a raccogliere e catalogare con attenzione tutti i testi antichi relativi a queste particolarissime immagini, tracciandone in parallelo un disegno complessivo destinato a rap­ presentare ancora a lungo un punto di riferimento imprescindibile per chi de­ cide di accostare questa tematica. n limite della sua preziosa opera tuttavia, al di là dell'assenza di alcuni testi ritrovati in seguito e del tutto integra bili nella sua prospettiva, appare quello di guardare a queste immagini in un'ottica tutta «occidentale», peraltro segnata dal forte sospetto che nei confronti dell'imma­ gine il protestantesimo, seppure non in modo del tutto unanime, ha sollevato. in una forma gradualmente tesa a consolidarsi. L'esito della ricerca di E. von Dobschiitz è dunque una riduzione delle immagini Acheropite di Cristo a sem­ plice leggenda insorta nel VI secolo e successivamente venuta ampliandosi con un tale vigore da essere recepita, dopo le lotte iconoclaste, addirittura nell'im­ pianto dogmatico ecclesiale elaborato dal secondo concilio di Nicea. A farne le spese, in questa lettura, sembra dunque essere proprio lo sguardo dell'Oriente cristiano su queste singolari icone: E. von Dobschiitz infatti, se comprensibil­ mente tende a liquidare le immagini Acheropite di Cristo come frutto di più o meno strategiche leggende, molto meno comprensibilmente sembra invece sot­ tovalutarne la portata effettiva che sul piano dogmatico esse vengono a rivestire nel tessuto ecclesiale dell'Ortodossia. La prospettiva di E. von Dobschiitz tenderà col tempo a trasformarsi in una sorta di koinè su cui si baseranno, assumendola come fondamento indiscusso di ogni possibile riflessione sulle immagini di Cristo «non fatte da mano d'uomo», tutti coloro che in Occìdente si interesseranno ad essa: teologi e storici dell' ar­ te, studiosi di estetica e cultori di iconologia finiranno dunque col muoversi lO

Presentazione

rigorosamente nella scia dell'ermeneutica avanzata dal teologo liberale tedesco, senza mai metterne in discussione il presupposto di fondo e senza mai tentare una riconsiderazione di queste particolarissime icone nella prospettiva assunta a loro riguardo dall'Oriente cristiano. Non sono certo mancate in merito solle­ citazioni e stimoli da parte soprattutto di teologi appartenenti all'Ortodossia. Tuttavia il carattere episodico dei loro interventi in merito a questa tematica, oltre che la loro stessa collocazione confessionale, ha impedito che l'Occidente prendesse finalmente e adeguatamente sul serio le istanze da loro avanzate. Le immagini Acheropite di Cristo si sono così viste trasformate in Occidente in uria sorta di sottoprodotto del cristianesimo precedente alle lotte iconoclaste, senza mai essere invece «pensate» come elementi portanti di quell'iconografia che dall'Oriente cristiano è considerata come parte viva della Tradizione eccle­ siale. Restituire le immagini Acheropite di Cristo all'orizzonte teologico-dogma­ tico che ne ha determinato l'insorgere, e che ne ha sostenuto il progressivo «inculturarsi» nella storia e nella vita di popoli accomunati da una Tradizione mai venuta meno rappresenta il riuscito obiettivo del volume di Emanuela Fogliadini. La vicenda squisitamente «ecclesiale» di queste immagini, pur svi­ luppata in una prospettiva che non ne perde mai di vista le implicazioni stori­ che, storico-artistiche ed estetiche, viene presentata in una forma nella quale un rigore che talora rasenta l'acribia riesce a coniugarsi in modo inatteso con una scrittura brillante e coinvolgente. Il volume dunque, dialogando in modo costante con E. von Dobschiitz ed evidenziando in modo costruttivo i pregi e limiti del suo insostituibile contributo, sembra sapersi spingere oltre E. von Dobschiitz stesso: la chiarificazione critica dello sguardo teologico-dogmatico con cui l'Oriente cristiano considera queste immagini prototipiche, pur svilup­ pata in una prospettiva squisitamente «occidentale», diviene infatti decisiva per la loro comprensione e getta una nuova luce sulla rilevanza che esse da sempre presentano in quello specifico contesto, oltre che sulla seduzione che hanno saputo esercitare sullo stesso Occidente. n profilo del volume, impegnato ad evidenziare la prospettiva teologico­ dogmatica dell'Oriente come orizzonte di comprensione imprescindibile delle immagini Acheropite di Cristo, non deve tuttavia trarre in inganno. La ricerca della Fogliadini presenta infatti un respiro ampio e articolato che interesserà sicuramente, e non senza guadagno, esperti e cultori di ambiti molto diversifi­ cati: teologia, filosofia dell'immagine, storia dell'arte, storia del cristianesimo, oltre ovviamente all'iconologia, si intersecano in questo studio in una forma che rispetta la peculiarità e specificità di tutte queste discipline, non senza tuttavia rivendicare la necessità di una contestualizzazione originariamente teologica di queste singolari immagini del Verbo incarnato. E tuttavia questo intersecarsi attento e puntuale di discipline non nuocerà affatto alla lettura di chi vorrà 11

Presentazione

semplicemente approfondire questa intrigante tematica facendo riferimento a un documentato testo che, soprattutto nella parte in cui ricostruisce le vicende delle singole immagini Acheropite di Cristo, sembra addirittura saper creare, nonostante l'argomento trattato, le atmosfere cariche di attesa di un appassio­ nante thriller.

Piergiuseppe Bernardi

12

INTRODUZIONE

La moda delle icone ha travolto l'Occidente a partire dal secolo scorso, inondandolo di immagini bizantine e di veri e propri tesori d'arte. Questa «pas­ sione» per le icone si è trasformata con il passare degli anni in una diffusione di riproduzioni - che ben poco hanno a che fare con l' «aura» unica degli originali - e in un loro frequente utilizzo anche all'interno di chiese e celebrazioni catto­ liche. Come spesso capita, la novità si è trasformata in consuetudine, tanto che attualmente l'Occidente annovera queste immagini orientali tra i propri abituali simboli religiosi. Nel riferirsi alle icone però il mondo latino si è raramente interrogato sul fatto che si trattasse di un patrimonio diverso dal proprio: ha valutato queste immagini dal punto di vista artistico, si è lasciato suggestionare dal mistero che emanano, si è accostato ad esse con un vago sentimento religio­ so ma, fondamentalmente, non ne ha colto il senso. Le icone sono immagini che nascono nel contesto ecclesiale, sono destinate alla vita della comunità cristiana e specialmente hanno una natura squisitamen­ te teologica. Non sono semplicemente opere d'arte: la loro dimensione estetica è irriducibile, ma la fondazione è teologica. Le icone sfuggono al meccanismo della moda, sono oltre i canoni mutevoli dell'arte: esse veicolano la rivelazione e attestano il dogma dell'incarnazione di Cristo. È eloquente che, per spiegare che cosa sono le icone, si sia costretti prima di tutto a chiarire cosa non sono. Le icone non sono solo reliquie, non sono solo dipinti a soggetto religioso, né solo opere d'arte. Queste precisazioni non risultano per nulla marginali: l'Occidente infatti, pur avendo contribuito a riscoprire la ricchezza di queste immagini, ne ha radicalmente frainteso il significato. L'essenza dell'icona è dunque stata misconosciuta nel contesto dell'Occidente cristiano, dando vita a utilizzi assolutamente impropri delle icone conseguenti al fraintendimento del senso profondo che l'Ortodossia assegna loro nell'orizzonte della sua teologia e della sua liturgia. Questo equivoco non è però frutto solo di disattenzione o superficialità, ma affonda le sue radici nella storia, ben prima che si consumasse ufficialmente lo scisma del 1 054. Fin dai primi secoli della storia 13

Introduzione

del cristianesimo, infatti, l'Occidente ha attribuito alle immagini un ruolo di primo piano, connotandole tuttavia in senso illustrativo e didascalico: la celebre espressione delle immagini come Biblia pauperum ben sintetizza il compito che la rappresentazione sacra riveste in ambito latino. Le immagini sono funzionali alla Scrittura, sono le didascalie della Parola, che permettono di avvicinare al mistero anche coloro che nella Parola incontrano difficoltà. Profondamente diversa è invece la concezione delle immagini nell'Oriente cristiano: l'Ortodossia riconosce infatti alle icone un carattere teologico, rivela­ rivo e liturgico. Le icone sono opere teologiche, che hanno un ruolo centrale nel trasmettere la rivelazione e nel mettere in contatto il fedele con il soggetto raffi­ gurato. Sintetizzando il concetto con un noto slogan, possiamo dire che l'icona è una «teologia in immagini». Le icone inoltre sono complementari alla Scrittura nell'attestare l'incarnazione di Cristo e nel rivelare la storia della salvezza. Icona e Scrittura sono due modi diversi, ma di pari valore nella rivelazione di Dio e di Cristo. L'immagine, per l'Oriente, non è funzionale alla Scrittura, non è riducibile alla Parola, bensì complementare ad essa. L'equivalenza di ruoli non è arbitraria: l'icona infatti è una forma di arte sacra la cui essenza è teologica. L'icona ha il compito di attestare il dogma dell'incarnazione, è garante della realtà e della verità del farsi carne del Verbo di Dio. In Occidente, in particolare dal Rinascimento in avanti, l'arte è pensata es­ senzialmente come una libera creazione dell'artista: questa concezione permise di dar vita a una varietà di capolavori artistici che hanno esercitato un forte fa­ scino anche sull'Oriente. La libertà creativa tradisce però per l'Ortodossia il ca­ rattere «debole» dell'arte occidentale. Dal punto di vista orientale, l'afte sacra è chiamata a seguire il percorso delineato dalla Tradizione: l'immagine sacra ha un carattere «forte» perché trasmette la rivelazione. L'elemento estetico dunque è funzionale a quello teologico, che è costitutivo dell'icona. Al contrario, all'arte sacra occidentale manca strutturalmente l'idea di essere rivelativa, il suo intento è esplicativo e pedagogico. L'icona invece è tramite tra colui che guarda e Colui che è rappresentato: è irruzione dell'eternità nel tempo. La comprensione, e il relativo riconoscimento della natura teologica e dog­ matica delle icone, trova il suo fondamento nell'icona di Cristo e, più specifica­ mente, nella convinzione da parte della tradizione dell'Ortodossia che lo stesso Cristo, sia nel corso della sua vita terrena che del suo apparire postpasquale sul­ la terra, abbia voluto lasciare ad alcune persone delle particolarissime immagini del suo volto: non immagini frutto di creatività artistica o di emozione spiritua­ le, bensì immagini che egli stesso ha in vario modo miracolosamente impresso. Queste immagini, nel contesto dell'Oriente cristiano considerate le icone per antonomasia, prendono il nome di Acheropiti di Cristo. li termine stesso che le definisce lascia intendere la realtà della loro natura. Gli Acheropiti sono im­ magini «non fatte da mano d'uomo» (ÙXELQOJtOL1']toç) e questo concretamente 14

Introduzione

significa che ebbero origine per un intervento volontario, diretto o indiretto, di Cristo stesso. Gli Acheropiti sono dunque icone nate sotto il segno di un prodi­ gio destinato a diventare un elemento così intrinseco ad essi da renderli capaci di replicarsi autonomamente in modo portentoso e di compiere essi stessi ogni genere di miracoli. E tuttavia questo clamoroso aspetto miracolistico è solo la conseguenza, nel contesto dell'Oriente cristiano, di ciò che gli Acheropiti del Salvatore in ultimo sono: immagini uniche lasciate da Cristo per attestare l'au­ tenticità della sua incarnazione. Cristo dunque in queste icone non donò semplicemente il proprio ritratto o la propria in1magine, ma consegnò invece alle generazioni di cristiani di ogni epoca una testimonianza reale ed autentica del suo essersi fatto uomo. I tratti fi­ sici del suo volto sono rilevanti prima di tutto in quanto «certificano» il mistero cardine del cristianesimo, legittimando conseguentemente l'esistenza e il culto delle immagini sacre. Per questo gli Acheropiti finirono col giocare un ruolo centrale nel dibattito sviluppatosi in Oriente sulle immagini: la loro esistenza minava infatti alla base le tesi iconoclaste, proprio perché le «protoicone» ave­ vano avuto origine da un intervento libero e volontario di Cristo stesso, inter­ vento che diventava così il fondamento stesso della legittimazione dell'icona. Gli Acheropiti di Cristo, considerati all'interno del panorama teologico dell'Oriente cristiano, rappresentano dunque l'obiettivo ultimo di questa ricer­ ca. Accostarsi alla questione delle immagini «non fatte da mano d'uomo», pren­ dendo sul serio l'istanz,a avanzata in merito dall'Ortodossia, significa tuttavia andare ben oltre i domini della storia e dell'arte per trovarsi invece a fare i conti in profondità con la dimensione del teologico. Lungi dall'affrontare questa te­ matica in chiave puramente storica, artistica o addirittura devozionale, come potrebbe indurre equivocamente a pensare un approccio all'immagine cristiana sviluppato in una prospettiva superficialmente «occidentale», il metodo di ana­ lisi utilizzato, senza escludere le dimensioni sopra citate, avrà primariamente e costitutivamente un carattere squisitamente teologico-dogmatico: è alla teolo­ gia infatti che rimanda l'icona di Cristo, così come le immagini Acheropite che la fondano, laddove essa viene intesa come autonoma «attestazione» dell'in­ carnazione, pur nella complementarità con la Parola, e come «tramite» capace addirittura di rendere presente e «divinizzante» il prototipo rappresentato. il lavoro che segue si articola in tre ampie parti. La prima si propone di esaminare la dimensione teologica delle icone, con un evidente riferimento agli Acheropiti di Cristo, considerati nel tratto «fondativo» che essi finiscono col rivestire in ordine all'icona di Cristo e a tutte le altre icone. Lo studio parte ana­ lizzando il tratto cristologico dell'icona nella Tradizione dell'Oriente cristiano, orizzonte irriducibile della comprensione degli stessi Acheropiti di Cristo. La loro portata autenticamente teologica, per poter essere evidenziata al di là di ogni equivoco, richiede di vederli ricondotti alla dimensione propria che ca15

Introduzione

ratterizza l'ermeneutica dell'immagine cristiana nell'Ortodossia. D'altro canto sono gli stessi Acheropiti di Cristo a legittimare sul piano teologico-dogmatico, e in una prospettiva che fa della teologia il fondamento della pur irriducibile di­ mensione estetica che la caratterizza, l'ermeneutica dell'icona che nell'orizzonte dell'Oriente cristiano è venuta gradualmente imponendosi. Per questa ragione la prima parte della ricerca delineerà le tappe del dibattito sulla legittimità delle icone, mettendo in evidenza i pronunciamenti conciliari che hanno esplicitato la natura teologica dell'icona, autorizzandone l'esistenza e il culto. Pertanto si evidenzierà come, proprio nell'alveo della teologia, vengono a collocarsi i prin­ cipali snodi che connotano il carattere teologico-dogmatico delle icone, special­ mente laddove ad essere precisata è la sua valenza attestativa dell'incarnazione del Logos e la singolarità del rapporto con il prototipo che essa rende efficace­ mente possibile. A questi due aspetti in particolare viene dedicata un'attenta analisi, poiché è in essi che si radica il senso autenticamente teologico del culto alle icone nel contesto dell'Oriente cristiano. La ricerca si precisa poi concentrandosi sugli Acheropiti di Cristo. Di essi viene innanzitutto fornita una disamina preliminare che evidenzia come solo una comprensione teologica degli stessi abbia potuto trasformarli in immagini che godevano, in ambito bizantino, di una venerazione tanto rilevante da ren­ derli protagonisti della stessa liturgia. Questo scavo intorno agli Acheropiti di Cristo è fatto precedere da un sintetico studio sui loro antecedenti pagani dal quale si evince come, pur in contesti religiosi diversi, l'immagine possa divenire oggetto di un'attenzione il cui orizzonte più proprio è quello del «manifestarsi» attraverso di esse di una presenza effettiva del divino. A emergere con forza è tuttavia il fatto che fu proprio l'ambiente cristiano dei primi secoli a creare il contesto teologico-dogmatico a partire dal quale, nei confronti di queste spe­ cifiche immagini, presero forma una venerazione e un culto che risulterebbero del tutto implausibili se a fondarli e legittimarli non fosse la teologia. È questa connotazione intrinsecamente teologica degli Acheropiti ad evidenziare l'im­ portanza che, a questo livello, viene attribuita al volto di Cristo: un approfon­ dimento quindi delle radici scritturistiche e della loro recezione da parte della teologia e dell'iconografia ortodosse chiude dunque questa parte, dettando la linea allo sviluppo successivo della ricerca stessa. Con la seconda parte si entra nel vivo della trattazione sugli Acheropiti di Cristo nell'Oriente cristiano. La loro storia fu segnata da un inizio sconvolgente: il gesto di Cristo di dar forma ai propri ritratti in modo miracoloso. li primo Acheropita, l'icona di Camuliana, e il più celebre Mandylion (Fig. 4) portano in sé i tratti fisici del volto del Salvatore che scelse liberamente e volontariamente di lasciare una prova singolare e straordinaria del suo costituirsi concreto come Logos fatto carne. Certo, di entrambi questi Acheropiti non si dà originale, an­ dato distrutto o forse smarrito. E tuttavia questa «assenza», lungi dal vanificare 16

Introduzione

il senso della ricerca, ne diventa il fondamento. La Tradizione dell'Oriente cri­ stiano infatti, proprio laddove l'Occidente guarda con sufficienza agli Acheropiti impegnandosi addirittura in rigorosi studi volti a liquidarli come mere leggende e invenzioni, ne afferma apoditticamente l'esistenza. Né potrebbe essere diversa­ mente, visto che essi si configurano come l'attestazione squisitamente teologica della visibilità irrinunciabile del Dio con noi. È per questo che la Tradizione or­ todossa non ha dubbi a scorgere nelle numerose copie che di questi Acheropiti di Cristo i secoli ci hanno tramandato, a dispetto della «sparizione» dei loro originali, i tratti stessi del Volto effettivo ed autentico del Salvatore. Tra intricate leggende e complesse cronache, viene delineandosi il ruolo chia­ ve che queste immagini di Cristo rivestirono nella dogmatica, nella teologia, nella liturgia, nel culto e nella devozione dell'Oriente cristiano. L'ampio spazio confe­ rito ai documenti relativi alla Camuliana e al Mandylion è voluto: alcuni di essi, raccolti da E. von Dobschi.itz, che li ha lasciati tuttavia in lingua originale, trovano in questa ricerca una traduzione in lingua italiana che, pur lasciando il testo ori­ ginale in nota, li rende più fruibili; altri documenti, in vari studi citati o più sem­ plicisticamente «ventilati», paradossalmente tuttavia senza indicarne gli estremi, sono stati rinvenuti, finalmente citati e infine tradotti del tutto o in parte. La terza e ultima parte riporta il lettore nel mondo occidentale. Il fascino per le icone non è un fenomeno solo recente: la Chiesa latina ha accolto all'inter­ no della propria storia alcuni presunti Acheropiti di Cristo. L'approccio è stato molto entusiasta, ma in generale riduttivo: queste immagini sono state infatti ridotte a «Volti Santi», ossia a preziose reliquie risalenti a Cristo stesso. Questo accadde al più celebre Acheropita occidentale, l'icona di Cristo det­ ta «della Veronica» (Figg. 7 e 8): questa icona fu centrale, per un certo arco di anni, per il culto e la devozione di milioni di fedeli che si recavano a Roma per contemplarla. E tuttavia molte risultano le differenze dell'Occidente nel rappor­ tarsi, in generale, agli Acheropiti di Cristo. In primo luogo essi non vennero mai considerati «attestazioni» dell'incarnazione del Verbo di Dio, bensì semplice­ mente reliquie, indiscutibilmente uniche e straordinarie, ma pur sempre reliquie; la devozione latina, inoltre, posticipò alla passione di Cristo il momento della nascita degli Acheropiti, evidenziando così la propria attenzione per l'umanità di Cristo, laddove l'Oriente preferiva sottolineare in essi l'emergere dell'incar­ narsi del Logos divino. Infine alcuni papi, in particolare nel periodo che va da Innocenza III ( 1 1 98- 12 16) a Giovanni XXII ( 13 16-1334), elessero l'icona di Cristo «della Veronica» a reliquia per eccellenza della cristianità, associando ad essa del­ le indulgenze e attirando a Roma per contemplarla fiumi di pellegrini provenienti da tutta Europa. Nonostante questo divergere ermeneutico, rimane comunque indubitabile, oltre che interessante, l'attenzione dell'Occidente per i Santi Volti orientali, testimoniata anche dalla diffusione di celebri icone bizantine che tuttora sono oggetto di venerazione e di pellegrinaggio da parte di molti fedeli cattolici. 17

Introduzione

Sia laddove essa si occupa in specifico dell'approccio sviluppato dalla Tradizione orientale nei confronti degli Acheropiti di Cristo e delle icone da essi derivate, sia invece laddove essa rileva l'attenzione dell'Occidente per i «Volti Santi», questa ricerca tenta di non perdere mai di vista il discrimine che separa a questo riguardo i due contesti cristiani in questione: la considerazione squisi­ tamente teologica di essi da parte dell'Oriente e la marginalizzazione devozio­ nale da essi subita in Occidente. Una prospettiva quest'ultima che ha avuto in Occidente il suo esponente di punta in E. von Dobschiitz, il cui monumentale lavoro su questo tema inaugura un filone di ricerche che, pur impegnate ad esplorare con attenzione e rigore il mondo degli Acheropiti, trascurano tuttavia quella dimensione teologica che, nel contesto dell'Oriente cristiano, rappresen­ ta la ragione stessa del loro essere pensati come parte della Tradizione ecclesiale e degni di entrare a pieno titolo nella liturgia. È proprio questa «disattenzione» al teologico da parte dell'Occidente, folgorato dallo splendore delle icone senza tuttavia riuscire ad andare oltre la loro superficie, che questa ricerca tenta mo­ destamente di colmare. E questo tentativo non potrà che passare attraverso una riaffermazione della teologia come elemento decisivo per comprendere queste «immagini di Cristo» e per ricollocarle nella luce di quell'Oriente cristiano che, al di là del loro costituirsi di questi «volti di Cristo» come reali o leggendari, li ha comunque venerati come «attestazioni» dell'incarnazione di Cristo e come «tramite» effettivo di un rapporto con Lui nell'hic et n une della storia. Questo volume è frutto del lavoro di ricerca per la preparazione della tesi di Licenza in Teologia presso la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale di Milano. Tale saggio non avrebbe assunto la forma attuale senza il prezioso aiuto del Prof. Piergiuseppe Bernardi, che mi ha insegnato a condurre una ricerca capace di coniugare il rigore dell'analisi storica con l'attenzione e il rispetto per la Tradizione dell'Oriente cristiano e la teologia che essa ha prodotto. A lui devo anche la mia gratitudine per avermi incoraggiata a perseverare con tenacia in un'indagine dai tratti complessi, per avermi spronata ad usare una scrittura «accattivante» e, specialmente, per avermi trasmesso la sua passione per lo studio della teologia. Il mio grazie va anche al Prof. Antonio Zani, i cui consigli in fase di stesura del lavoro si sono rivelati estremamente preziosi, e ai Proff. Pierangelo Sequeri e Alberto Cozzi, le cui osservazioni in sede di discus­ sione di Tesi mi sono state utilissime nella rielaborazione del testo in vista della pubblicazione. Per la parte più pratica, desidero ringraziare la Prof.ssa Evelina Frisenna che, con accuratezza ed entusiasmo, ha riletto più volte il manoscritto aiutandomi a rendere il testo maggiormente fruibile al lettare. Infine, il grazie che vale una vita è per miei genitori, che in ogni momento hanno creduto in me, favorendo e sostenendo in ogni modo il mio percorso di studi.

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Parte prima LE ICONE ACHEROPITE DI CRISTO E LA LORO DIMENSIONE TEOLOGICA

Capitolo primo IL TRATTO CRISTOLOGICO DELL'ICONA NELLA TRADIZIONE DELL'ORIENTE CRISTIANO

l. Il ruolo dell'icona nella Tradizione dell'Oriente cristiano

La presente ricerca, come si è già cercato di chiarire nell'introduzione, si propone di mettere in luce il rilievo teologico-dogmatico, liturgico, oltre che devozionale e artistico, rivestito nell'Oriente cristiano dagli Acheropiti di Cristo e dalle icone da essi derivate. È infatti nell'icona di Cristo, e in special modo nelle icone Acheropite del Salvatore, che la Tradizione ortodossa fonda e legittima la sua rivendicazione del tratto squisitamente teologico che carat­ terizza l'icona. La comprensione della valenza teologica e rivelativa attribuita dall'Oriente cristiano agli Acheropiti e alle icone che a questo «tipo» rimanda­ no impone dunque preliminarmente di dissipare l'equivoco in cui l'immagine cristiana orientale, venuta a contatto con la sensibilità occidentale, ha finito gradualmente col divenire prigioniera: quello cioè di essere considerata al pari di un dipinto, magari anche particolarmente capace di evocare il sacro, veden­ dosi tuttavia sottratta qud tratto teologico-dogmatico che invece, nel contesto della Chiesa d'Oriente, ne definisce antologicamente l'identità. Tratteggiare in modo sintetico la vicenda storico-dogmatica attraverso cui l'Oriente cristiano addivenne nei secoli alla legittimazione dell'immagine cristiana risulta dunque imprescindibile per questa ricerca, cui spetta tuttavia anche il compito, per un verso, di evidenziare senza esitazione alcuna la specificità dell'immagine cristia­ na orientale rispetto al suo corrispettivo occidentale e, per l'altro, di segnalare il rischio corso dall'Ocèidente nel leggere l'icona semplicemente sulla falsariga del proprio concetto di immagine cristiana. L'Occidente, che subisce chiaramente il fascino dell'icona, recepisce ordina­ riamente quest'ultima senza registrare il tratto teologico che la fonda, smarren­ do così la singolarità che questa particolarissima rappresentazione del divino riveste nell'ambito dell'Oriente cristiano, per il quale «la contemplazione della 21

Le icone Acheropite di Cristo e la loro dimensione teologica

Chiesa si distingue dalla visione profana precisamente perché nel visibile essa contempla l'invisibile, nel temporale l'eterno che essa ci rivela nella sua liturgia di cui l'icona è parte»1• La mentalità occidentale tende invece a ridurre l'icona ad una semplice immagine religiosa e tale confusione implica la pura negazione della sua specificità. L'uso dell'immagine, del resto, in Occidente è giustificato in ultimo per il suo significato didascalico e illustrativo: i dipinti narrano infatti la storia sacra per coloro che non possono leggere direttamente la Scrittura, faci­ litando all'uomo semplice la comprensione di una parola per lui inafferrabile. L'appropriarsi occidentale delle icone orientali, a cui abbiamo assistito nel '900, con la relativa commercializzazione che ne è derivata, ha prodotto intorno ad esse un ampio business che ha evidenziato tutta l'incomprensione dell'Oc­ cidente nei confronti di una Tradizione ortodossa per cui l'icona rappresenta invece il tramite intrinseco del farsi presente del divino nel tempo. Le radici di questo fraintendimento occidentale non sono però recenti, bensì radicate nelle viscere della storia: «L'Occidente, anche nel periodo in cui non era diviso dall'Oriente, non disponeva di un senso così profondo delle icone. Alla fine del VI secolo Gregorio Magno (590-604) definì le icone Biblia pauperum, ripren­ dendo le parole di Basilio Magno che sottolineava che "le parole della narrativa offrono la possibilità all'orecchio di ascoltare ciò che il dipinto silenzioso mo­ stra attraverso la rappresentazione" . Oltre a questo specifico fatto, i Dottori oc­ cidentali non misero mai in relazione l'arte religiosa con la teologia e il dogma, relegando le immagini al ruolo di illustrazione del testo».2 Non stupisce dunque che la questione delle icone sia innanzitutto orientale: è in Oriente che vengono realizzate le prime raffigurazioni di Cristo ed è sempre in Oriente che viene tematizzato il problema dell'origine del volto di Gesù. Se l'Occidente si lascia incantare dalle capacità artistiche dei pittori nel rendere i tratti del Signore, l'Oriente invece si pone esplicitamente la domanda sulla legittimità del rappresentare Cristo e sulla questione - a noi quasi ignota - della fedeltà di tali rappresentazioni al suo volto «vero» e «storico». L'icona del resto non è una semplice illustrazione, non ha solo le funzione didascaliche che l'Oc­ cidente attribuisce alle immagini, ma è tramite per giungere a Dio, ha una forza trasformante che permette a chi la contempla di partecipare del Divino, così L. USPENSKJJ, La teologia dell'icona, La casa di Matriona, Milano 1995 , p. 120. «The West, which had not yet separated from the East, did not possess such a profound un­ derstanding of icons. At the end of the sixth century Gregory the Great wrote about icons as "the poor m an 's Bible" , following the words of Basi! the Great who insisted that "words of a narrative offer the ear what silent painting shows through the representation". F urther than this, however, the Western doctors would not go and did not connect church art directly with the theology and dogma, leaving irnages with only the role of illustrating the text», in I. YAZYKOVA, H. LuKA (KOLOVKOV), The theological principles o/ icon and iconography, in A History of icon painting, Grand-Holding Publishers, Moscow 2005, p. 1 3 . 22

D tratto cristologico dell'icona nella Tradizione dell'Oriente cristiano

come chiaramente decreta il concilio di Nicea n: «L'onore reso all'immagine, in realtà, appartiene a colui che vi è rappresentato e chi venera l'immagine, venera la realtà di chi in essa è raffig urato»3. Questo nesso tra immagine e prototipo accompagnato da una chiara distinzione, nell'originale greco, tra venerazione e adorazione - è uno dei punti chiave per comprendere correttamente il rapporto della Tradizione ortodossa con le icone. Ridurre l'icona a un oggetto d'arte significa svuotarla della sua funzione primaria: essa è infatti una «teologia in immagini» che annuncia in modo attualizzante con forme e colori il messaggio proclamato dal Vangelo con la parola. L'icona nell'ambito dell'Oriente cristiano non può quindi essere in alcun modo interpretata in chiave meramente estetica, perché la sua origine e la sua natura sono profondamente teologiche. L'icona, analogamente al Vangelo che attesta l'evento Gesù Cristo mediante la Parola, è considerata dalla Tradizione ecclesiale dell'Oriente cristiano come l'attestazio­ ne in forma di immagine del farsi carne del Verbo. I fedeli ortodossi riuniti in una chiesa per la liturgia stabiliscono dunque, per il tramite delle icone e delle preghiere liturgiche, un legame speciale con la Chiesa celeste: «L'icona non mostra un frammento del mondo divino, bensì mostra un'immagine della pienezza dell'essere e una piena visione del mondo»4• n credente ortodosso ha una viva coscienza della sua appartenenza alla grande famiglia dei santi: le icone sono presenti in tutte le grandi fasi della sua vita, a partire dal battesimo in cui riceve un'icona del santo di cui porta il nome, al matrimonio dove gli sposi sono benedetti con le icone, fino al funerale in cui l'icona ricevuta nel battesimo e quella della Vergine sono portate in t�sta al corteo funebre e, in alcuni casi, messe nella bara. Le icone sono dunque parte integrante della Tradizione ortodossa: è infatti del tutto impossibile immagi­ nare una chiesa ortodossa, la sua liturgia, la sua teologia, la vita dei suoi fedeli senza le icone. La stessa contemplazione delle icone non è un avvenimento che accade al fedele come singolo individuo, ma è evento che coinvolge tutta la co­ munità: «Si tratta di una contemplazione comunitaria, non individuale. L'icona è una creazione della Chiesa nel suo insieme. Essa è direttamente correlata alla Liturgia, alla Chiesa e ai sacràmenti. Fuori dal suo contesto, l'icona non può essere compresa»5.

Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura di G. ALBERIGO, G.L. DossErn, PERJKLEs-P. ]OAN­ NOU, C. LEONARDI, P. PRODI, EDB, Bologna 199 1 , p. 136. 4 «An icon does not show a fragment of the heavenly world, but reveals an image of the fullness of being, of a full worldvieW>>, in I. YAZYKOVA, H. LuKA (KoLOvKOv), The theological principles o/ icon and iconography, cit., p. 13. ' «This is conciliar, not individuai contemplation. The icon is the creation of the Church as a whole. lt is directly linked with the Liturgy, the Church, and the sacraments. Outside of this context the icon cannot be fully understood», in ivi, cit., p. 25. 23

Le icone Acheropite di Cristo e la loro dimensione teologica

Il ruolo determinante che l'icona svolge nella vita dell'Ortodossia richiede all'Occidente di comprendere integralmente la portata teologica e dogmatica di queste immagini per la Tradizione dell'Oriente cristiano. Quest'ultima le pensa radicalmente in chiave teologica, pur senza eliminare da esse la portata estetica: le icone esprimono dunque le verità dogmatiche e offrono la possibilità unica e singolare di relazionarsi al divino, grazie al fatto che l'onore reso all'immagine passa al prototipo che raffigura. L'icona è tramite della rivelazione e ne si coglie in toto l'essenza soltanto laddove se ne riconosce iJ carattere teologico-dogmati­ co. Le icone sono simboli sacri - «germi e figure delle qualità divine e immagini sensibili di visioni arcane e soprannaturali»6 - di cui è necessario cogliere il trat­ to squisitamente teologico, se non ci si vuol privare della comprensione del suo senso autentico. L'Occidente, abituato a una concezione didascalica dell'imma­ gine, deve cogliere che «l'icona è il contrario di una pittura del Rinascimento; non è una finestra attraverso la quale lo spirito umano deve penetrare nel mon­ do rappresentato, ma è il luogo di una presenza; in essa il mondo rappresentato si irradia verso colui che si para per riceverlo»7• Nel panorama iconografico dell'Oriente cristiano, il primato spetta alle ico­ ne di Cristo e, in particolare, alle immagini Acheropite. L'origine miracolosa de­ gli Acheropiti, la loro storia che attraversa i secoli interrogando e affascinando, la portata che hanno nella discussione teologica sulla legittimità delle immagini sacre, l'ampio spazio assunto nella liturgia e il profondo successo riscontrato a livello popolare e devozionale, le rendono uniche e di assoluto primo piano nello studio delle icone. Il ruolo che queste icone rivestono nella Tradizione dell'Oriente cristiano richiede uno studio approfondito che sappia corretta­ mente valutare storia, leggende, culto e specialmente la teologia e la dogmatica ad esse sottese. Gli Acheropiti, immagini «non dipinte da mano d'uomo», han­ no rappresentato e continuano infatti a rappresentare per questa Tradizione il cuore stesso di una tradizione iconografica che della stessa Tradizione eccle­ siale, globalmente e autorevolmente intesa, sono espressione8. Esse infatti, in questo specifico contesto, sono diventate il criterio canonico imprescindibile della riproduzione iconica del volto di Cristo. Le immagini Acheropite di Cri­ sto giustificano la relativa immutabilità dei tratti del Salvatore nelle successive copie: tale ripetitività può risultare eccessiva, talora addirittura insopportabile, per il pittore occidentale spesso ansioso di rielaborare i tratti di Cristo lascianDIONIGI AREoPAGITA, Ep. rx, in PSEUDO DIONIGI, Tutte le opere, a cura di P. SCAZZOSO, Rusconi, Milano 1983 , p. 275. 7 S. BABOLIN, Icona e conoscenza. Preliminari d'una teologia iconica, Gregoriana Libreria Editrice, Roma 1990, p. 28. 8 La legittimazione dell'icona nell'Ortodossia come tradizione, riconducibile alla Tradizione ecclesiale è ben argomentata nel saggio di V. LosSKIJ, La Tradizione e le tradizioni, in L. UsPENSKIJ, V. LOSSKIJ, Il senso delle icone, Jaca Book, Milano 2007, p. 80.

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li tratto cristologico dell ' icona nella Tradizione dell 'Oriente cristiano

dosi guidare dal principio di «libera creazione». L'arte occidentale, affidandosi a forme e colori di volta in volta sempre nuovi, si è persino spinta a raffigurare Gesù con i tratti somatici delle varie etnie, con il risultato anomalo di un Cristo rappresentato secondo i canoni della bellezza occidentale, che veste di volta in volta gli abiti di un'epoca specifica, perdendo del tutto il riferimento alla

Sull'identità di questo personaggio, che scrisse un resoconto del proprio viaggio in Terra Santa (cfr. Itinerarium Antoninz· Placentini. Un viaggio in Terra Santa del 560-570 d.C., a cura di C. MILAN!, Vita e Pensiero, Milano 1 977) gli studiosi discutono da tempo. Se non vi sono dubbi su Piacenza come città di partenza per la Terra Santa, si discute sulla veridicità del viaggio: alcuni ritengono infatti l'Itinerario una narrazione frutto dell'uso letterario abbastanza diffuso nell'Alto Medioevo di ricostruire pellegrinaggi fittizi sulla base di testi precedenti. Quest'ultima 62

Gli Acheropiti

Terra Santa verso il 570 d.C., che ne confermò l'esistenza. La fama dei mira­ coli correlata a questo pallium aveva indotto una madre con il figlio malato a chiedere in dono a Maria una fascia appartenente a Gesù Bambino. La don­ na, dopo aver trasformato la fascia in una camicetta, la fece indossare al figlio per preservarlo, come di fatto avvenne, da ogni eventuale pericolo successivo: «Nella stessa città c'erano due donne, mogli di un solo uomo, e ognuna aveva un figlio febbricitante. Una di queste si chiamava Maria, e il nome di suo figlio era Cleofa. Questa si levò, prese suo figlio e andò dalla signora padrona Maria, madre di Gesù, e offertole un bel velo, disse: " Signora mia Maria, accetta da me questo velo e dammi in cambio una fascia" . Maria acconsentì; la madre di Cleofa ritornò a casa e, con la fascia, fece una camicetta che pose addosso a· suo figlio e questo così guarì dalla malattia. n figlio della rivale, nello spazio di ventiquattro ore, morì. Di qui sorse un'inimicizia tra loro due. Avevano l'usanza di compiere le faccende domestiche a settimane alterne. Quando toccò il turno di Maria madre di Cleofa, riscaldò il forno per far cuocere il pane; lasciato poi il figlio Cleofa al forno se ne ritornò a prendere la massa di farina lavorata per fare il pane. La sua rivale, vistolo solo, mentre il forno acceso stava bruciando, lo prese e lo gettò nel forno, e poi si allontanò. Maria, al suo ritorno, vedendo il figlio Cleofa che se ne stava ridendo in mezzo al forno, mentre il forno si era raffreddato, quasi che in esso non ci fosse il fuoco, comprese che era stata la sua rivale a metterlo nel fuoco. [ . . . ] Restarono poi meravigliati e lodarono Dio»44• Questo Acheropita, che risalirebbe a Gesù Bambino, testimonia il diffondersi di questa credenza, dai chiari influssi greci, anche in Egitto. Anche l'Occidente testimoniò la propria devozione a un'icona Acheropita di Cristo custodita da papa Stefano II (752-757) in un prezioso scrigno del La­ terano: qui comparve non solo il volto, ma la figura intera di Gesù. Racchiusa, a partire da papa Innocenza III, in un prezioso pannello d'argento, era possibile baciarla all'altezza dei piedi grazie a una porticina, mentre una lastra di vetro all'altezza del capo ne rendeva visibile lo sguardo. La presenza di quest' Ache­ ropita fu confermata a proposito della minaccia di un assedio longobardo a Roma nel 752: il papa infatti, per prevenire questa catastrofe, portò lui stesso sulle spalle durante una processione «la santissima icona del Signore nostro Dio e Salvatore, Gesù Cristo, detta Acheropita»45• L'origine di questa icona ri­ mane tuttavia dubbia, tanto che E. von Dobschutz liquida come «supposizioni,

tesi spiegherebbe i numerosi errori di identificazione di luoghi in cuj cadde l'autore piacen­ tino. 44 Vangelo arabo dell'infanzia 29, I-Il, in Apocrifi del Nuovo Testamento. Vol. 1. Vangeli, cit., pp. 328-329. 4l E. VON DOBSCHOTZ, Immagini di Cristo, cit., p. 67 . 63

Le icone Acheropite di Cristo e la loro dimensione teologica

tanto a buon mercato, quanto ingiustificate»46 le ipotesi di identificazione con la Camuliana, piuttosto che con il Mandylion o con il Velo «della Veronica»: la Chiesa romana, grazie anche all'autonomia di cui godeva, era al contrario pie­ namente consapevole della diversità e unicità della sua icona. Di genere· diverso, ma di altrettanta fama, fu la colonna del martirio di Cristo che, venerata dai pellegrini il venerdì santo, aveva impresso in sé l'impronta del corpo di Cristo: «Quando alla Croce è avvenuto il congedo, prima che il sole si levi, pieni d.i ardore subito tutti vanno a Sion per pregare davanti alla colonna contro la quale fu flagellato il Signore»47. Infatti, a differenza delle rappresenta­ zioni pittoriche posteriori che per motivi artistici dipingono Gesù poggiato di schiena alla colonna, in base a questa tradizione Cristo si sarebbe appoggiato ad essa con il volto e il petto in modo da «offrire» la schiena alle frustate. Que­ sto avrebbe permesso che tutto il suo corpo, compreso il volto, rimanessero impressi sulla colonna. Negli anni seguenti il riferimento all'immagine di Cristo sulla colonna andò perduto, da un lato a causa delle testimonianze che vennero moltiplicandosi aggiungendo particolari spesso in tensione fra loro, dall'altro perché si determinò uno slittamento dell'attenzione sulla colonna in quanto tale e sul possesso di quella autentica, contesa tra Gerusalemme, Costantinopoli e Roma. Di epoca successiva, ma sempre di origine miracolosa, era l'Acheropita posto in una delle chiese del Redentore a Costantinopoli. Si trattava di un'icona sopportata da un'attestazione tardiva, dato che le uniche tre testimonianze che rimangono sono di pellegrini russi del XIV e xv secolo48• Anche questa immagine ha qualcosa di peculiare e straordinario, perché si presentava come una pittura murale su una parete della chiesa molto visibile dal mare nel luogo dove Cristo sarebbe apparso lasciando la propria impronta. A questo riguardo è interes­ sante notare il cambiamento che investì le immagini Acheropite: l'immagine in questione, infatti, fu prodotta non dal Gesù terreno, ma da una apparizione del Cristo risorto. Questa apparizione e il carattere dell'icona sul muro escludono l'idea di un'impronta del corpo, attestando un mutamento dell'idea stessa degli Acheropiti che, pur mantenendo le caratteristiche essenziali, venivano eviden­ ziandosi come «impronte» del Gesù postpasquale. In ultimo vanno segnalati vari sudari, le sindones, che si presentano come la vera impronta del corpo di Gesù. Non ci addentriamo nella loro analisi perché risultano spesso problematiche già sul piano della datazione, oltre che frutto di narrazioni dal tratto sfuggevole e leggendario. È però importante notare che la Tradizione orientale contempla solo Acheropiti di Gesù vivo: di Cristo infat­ ti si esalta la divinità raffigurando volentieri il Pantocratore e «trasfigurando» 46 47 •

48

lvi, p. 67 . EGERIA, Pellegrinaggio in Terra Santa, Città Nuova, Roma 2000, Cfr. E. VON DoBSCHùTZ, Immagini di Cristo, ci t., p. 69. 64

p.

163 .

Gli Acheropiti

anche i momenti più dolorosi della sua vita, come semplicemente ed eloquen­ temente risulta anche a uno sguardo superficiale dall'icona della Crocifissione. In Occidente si segnalano invece sindones di Cristo morto che, nel loro es­ sere ricondotte agli instrumenta passionis, testimoniano il generale focalizzarsi dell'attenzione occidentale sulla passione e morte di Cristo. Complessivamente si può notare che gli Acheropiti di Cristo, sia quelli molto noti sia quelli meno celebri, testimoniano una diffusione crescente, capace di catalizzare su di sé una straordinaria venerazione. Mediante l'impronta su teli, sul muro, sulla colonna, le immagini del volto e dell'intero corpo di Cristo abbracciavano un orizzonte composto da forme, materiali, colori, riproduzioni diverse, eppure tutte acco­ munate dal proclamarsi immagini «non fatte da mano d'uomo». Queste diffe­ renze non misero però in dubbio la pretesa origine miracolosa delle immagini e specialmente non produssero ritratti differenti da quelli tramandati dalla Tra­ dizione, contribuendo invece a uniformare e «normalizzare» i tratti del volto di Cristo. In questo contesto, un ruolo di prim'ordine assunse il tratto miracolistico degli Acheropiti di Cristo, trait d'union fra tutte le leggende sorte attorno a queste immagini straordinarie. La genesi di queste immagini, strettamente le­ gata a un intervento divino prodigioso, conferì loro la capacità di essere veicolo diretto per guarigioni, miracoli, prodigi ed eventi soprannaturali. Questo trat­ to catalizzò l'attenzione soprattutto nelle leggende posteriori che, prendendo le mosse dai racconti origfuali, si modificarono al punto da mettere in ombra l'interesse per l'idea originaria, l'impronta di Cristo «non fatta da mano d'uo­ mo». Fu infatti proprio l'amplificazione smisurata di questo elemento, da parte soprattutto delle leggende tardive, a mettere inevitabilmente in ombra ciò che degli Acheropiti rappresentava la peculiarità stessa: «Anche per quanto riguar­ da queste particolari icone "non fatte da mano d'uomo" l'importante non è la fedeltà della raffigurazione quanto il sacro potere che si rende visibile attraverso diversi miracoli di guarigione»49.

5. Il carattere plurale degli Acheropiti

L'esistenza di una varietà di Acheropiti comportò un duplice risvolto: da un lato si diffusero svariate immagini di Cristo, presenti in luoghi diversi e spesso lontani tra loro, dall'altro si assistette alla nascita di Acheropiti non più incen­ trati sulla figura di Cristo, bensì su quelle della Madre di Dio e dei santi. Questo ampliarsi dei soggetti delle immagini «non fatte da mano d'uomo» è un elemen­ to di cui tenere conto; allo stesso tempo il carattere plurale degli Acheropiti 49

lvi, p. 7 3 . 65

Le icone Acheropite di Cristo e la loro dimensione teologica

interroga la riflessione teologica chiamata a spiegare questa molteplicità, senza correre il rischio di liquidare facilmente la questione, come purtroppo spesso è accaduto, collegandola a mode passeggere o devozioni locali senza metterne in evidenza la portata e lo spessore teologico. Nel momento in cui avvenne il pas­ saggio dal simbolismo al realismo, nel rappresentare Cristo, si avvertì l'esigenza, sollecitata anche dalle accese discussioni con gli iconoclasti, di riprodurre con la massima fedeltà il suo volto. Le immagini Acheropite svolsero, in tal senso, un ruolo insostituibile poiché esse si presentarono immediatamente come legittime immagini, dal carattere «ufficiale», attestandosi dunque come imprescindibili riferimenti per ogni successivo ritratto. La pluralità degli Acheropiti di Cristo, esposta dettagliatamente nel paragra­ fo precedente, trova una corrispondenza altrettanto illustre e indicativa nella quadruplice testimonianza dei Vangeli canonici. Ogni evangelista ha reso testi­ monianza all'unico evento utilizzando un linguaggio e una teologia che, seppur contrassegnati da elementi comuni, furono poi declinati in maniera specifica. L'evidenza oggettiva dell'evento Cristo ha infatti raggiunto ogni evangelista nel­ la sua singolarità e nella sua situazione storico-concreta e questo ha permesso a ogni Vangelo di essere redatto con proprie caratteristiche e sfumature, senza peraltro compromettere l'unità intrinseca e reale della rivelazione di Cristo. Al pari delle multiformi attestazioni evangeliche si collocano le molteplici imma­ gini Acheropite di Cristo: da un lato la loro identità è garantita dal manifestarsi dello stesso Cristo e, dall'altro, la pluralità è legata al suo rendersi presente in diversi momenti della storia degli uomini. li farsi partecipe di Gesù nelle situazioni contingenti produsse dunque Acheropiti di natura distinta, di cui il Mandylion e la Sindone offrono un esempio efficace: esse infatti sono state entrambe create miracolosamente e si riferiscono allo stesso Gesù, ma riflettono momenti molto differenti tra loro, di vita il primo e di morte la seconda50. Negli Acheropiti risplende l'irruzione dell'eternità del Logas nel tempo: il valore della storia non viene dunque vanificato ma anzi preservato imprimendo in essa i tratti del suo volto. Il sottostare del Verbo alla carne arriva così a comunicarsi anche in una serie di immagini che, pur mantenendo inalterati i propri tratti soprannaturali, risultano segnate dalla diversità delle situazioni contingenti in cui esse si produssero. Il volto Acheropita di Cristo non può che essere sem­ pre pressoché identico, poiché manifesta l'identità di Cristo ed è chiamato a salvaguardare, in maniera del tutto particolare, il rapporto tra l'immagine e il prototipo. Nel medesimo tempo, la pluralità degli Acheropiti racconta anche di 50

La Tradizione dell'Oriente cristiano, supportata dalia maggior parte dei documenti sul tema, attribuisce la nascita del Mandylion al gesto operato da Cristo prima della Passione. Fa ecce· zione l'Omelia della Traslazione attribuita a Gregorio il Referendario, che accanto alla versione ufficiale riporta anche la nascita dell'immagine di Cristo nel contesto della Passione. 66

Gli Acheropiti

una storicità legata all'occasione concreta che di volta in volta si determina. -La molteplicità è vincolata alla sensibilità e all'epoca storica degli iconografi, ma questo non costituisce un problema all'unicità del volto Acheropita di Cristo: «Tutte le icone del Cristo danno l'impressione d'una somiglianza fondamenta­ le, si riconoscono immediatamente, ma questa somiglianza non è ritrattistica. Giustamente non è l'individualità umana ma l'Ipostasi del Cristo che si rivela a ciascun iconografo in una maniera unica, ecclesiale e personale al tempo stesso, come le apparizioni del Risorto hanno aspetti molteplici. La Chiesa conserva nella sua memoria l'unico Volto Santo " non fatto da mano d'uomo" , eppure esistono tanti Volti Santi quanti sono gli iconografi»51 . Il carattere plurale degli Acheropiti ha anche u n ulteriore aspetto rappre­ sentato dalla presenza di soggetti nuovi che si affiancano a quelli di Cristo. Nel VII secolo questi Acheropiti, pur rimanendo in circolazione, furono sostituiti da immagini di origine miracolosa legati a sua Madre, che ebbero un'ampia diffusione e un vivo consenso: «L'iconografia mariologica è persino più ampia e più varia di quella del Salvatore; esistono più di 400 diversi nomi di icone rap­ presentanti la Vergine Maria»52. I tipi iconografici53 più diffusi della Madre di Dio la ritraggono con il Bambino, focalizzando l'attenzione sul Figlio, in piena sintonia con le definizioni della teologia ufficiale: «Inizialmente la Vergine era raramente rappresentata senza il Bambino perché la sua venerazione era lega­ ta primariamente e specialmente al mistero dell'incarnazione di Cristo»54• La «Vergine del Segno» per esempio, riprendendo le parole del profeta Isaia nella sua profezia sull'Emmanuele, è collegata direttamente al dogma dell'incarna­ zione; così come la Madre di Dio «Odigitria» che «indica la via», ossia Gesù stesso, e la «Madre di Dio della Tenerezza» che «presenta Maria che stringe a sé Gesù in una forma che ne evidenzia il tratto divino-umano»55. Questo spo,,

EVDOKIMOV, Teologia della Bellezza. L'arte dell'icona, cit., p. 208. «Mariological iconography is even more extensive and varied than that of the Saviour; there are more than 400 different names of icons depicting the Virgin Mary», in I. YAZYKOVA, H. LUKA (KOLOVKOV), The theological principles o/ icon and �·conography, cit., p. 20. ,3 Tre sono i fondamentali tipi canonici delle icone mariane, come ben delineato da Paola Cor­ tese: «La Glycophilousa o Eleousa, cioè "Madre di Dio della Tenerezza", raffigura la Madre e il divin Figlio stretti in un intenso, tenero abbraccio. [ . . . ] L'Odigitria ( ''Colei che indica la via" ) : così era denominata a Bisanzio l a tipologia della Madre d i Dio che, sorreggendo s u u n braccio il Bambino, con la mano lo indica come "via, verità, vita" . [ . . . ] J;Orante è l'icona in cui la Vergine appare frontalmente, con le braccia levate al cielo, in atteggiamento di supplica e lo sguardo rivolto ai fedeli, invitandoli a confidare in Cristo, cui Essa si rivolge intercedendo per l'umanità», in O. PoPOVA, E. SMIRNOVA, P. CORTESI , Icone, Guida completa al riconoscimento delle icone dal VI secolo a oggi, Mondadori Electa, Milano 2003 , pp. 1 4 - 1 5 . H «In the early days the Virgin was hardly ever shown without the Child, as her veneration was connected first and foremost with the mistery of Christ's lncarnation», in I. YAZYKOVA, H. LuKA (KOLOVKOV), The theological principles o/ icon and iconography, cit., p. 20. ,, P. BERNARDI, I colori di Dio, cit., p. 88. ,2

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Le icone Acheropite di Cristo e la loro dimensione teologica

stamento di interesse, che si verificò anche nella storia dell'icona, risentì dei dibattiti teologici: a partire dalle grandi dispute cristologiche, infatti, la figura della Madre di Dio venne acquisendo sempre più importanza, in una prospet­ tiva inizialmente legata al mistero cristologico e poi sempre più autonoma e indipendente da essa. Tra gli Acheropiti legati alla figura della Madre di Dio bisogna subito segnalare il più popolare, quello che veniva onorato nella chiesa di Diospolis o Lydda in Palestina. Il luogo, che a prima vista appare piuttosto insignificante, si lega a un soggiorno di Pietro riportato dagli Atti degli Apostoli «E avvenne che mentre Pietro andava a far visita a tutti, si recò anche dai fedeli che dimoravano a Lidda»56 - che in questa città, secondo la successiva leggenda, costruì con l'apostolo Giovanni una chiesa dedicandola proprio alla Madre di Dio. Per quanto riguarda la nascita dell'icona le versioni tramanda­ te sono, come peraltro capita spesso, dissimili tra loro, ma accomunate da un inizio straordinario: «Il carattere miracoloso della sua origine fu senza dubbio la ragione che fece intravedere in quest'icona un tipo di immagine analoga a quella del Cristo Acheropoz'etos, e che fece integrare il racconto della sua appa­ rizione nella liturgia di varie icone della Vergine»57. Il racconto più antico, risa­ lente all'viii secolo, narra dell'immagine comparsa durante una visita di Maria stessa a Lydda che, percorrendo la chiesa in costruzione, si appoggiò a una colonna e su questa rimase impressa l'impronta della sua immagine. La versio­ ne più recente - quella che ci tramandano i tre patriarchi orientali nella lettera all'imperatore Teofìlo dell'83658 - riferisce che l'icona comparve piuttosto per ordine di Maria che, non avendo partecipato all'inaugurazione della chiesa edi­ ficata da Pietro e Giovanni, accolse però le loro preghiere regalando, in segno della sua perenne presenza e protezione, l'impronta della propria immagine. Le due versioni della leggenda riferiscono sia di un'icona miracolosa generata per contatto sia, all'opposto, di un'immagine prodotta da una forza che sem­ bra penetrare dall'interno la materia trasformandola. Anche in questo caso si verificò il passaggio, già prodottosi nell'icona di Cristo a Costantinopoli, da una versione comune alle leggende più antiche sugli Acheropiti, legata all'im­ pronta miracolosa, a un resoconto più recente che propende per un'icona che si rivela e raffigura da sé. Questo sviluppo, che potremmo definire «spirituale», focalizza l'attenzione sulla forza insita nell'icona e inaugura un nuovo orizzonte in cui la presenza degli Acheropiti fu possibile non più solo grazie al contatto diretto, ma tramite apparizioni prodigiose: «L'idea della raffigurazione che si rivela da sé è quella più accreditata per gli Acheropiti più recenti. La maggior parte delle antiche leggende conosce solo la versione dell'impronta miracolosa.

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56 57 58

Atti 9,32. L. UsPENSKIJ, La teologia dell'icona, cit., p. 3 1 . Cfr. l'esposizione dettagliata di E. VON DOBSCHùTZ, Immagini di Cristo, cit., pp. 75-78. 68

Gli Acheropiti

[ . . . ] Lo sviluppo dunque va al contrario: da un'idea più concreta a una sempre più spirituale»59• A Costantinopoli erano presenti anche altri Acheropiti della Madre di Dio: nella capitale, infatti, furono traslate le icone più venerate nel re­ sto dell'impero. Tale fu la sorte della Camuliana, del Mandylion e probabilmen­ te anche dell'icona di Maria di Lydda. Risulta interessante notare che la maggior parte degli Acheropiti più illustri e più celebrati sia legata alle vicende di paesi lontani dalla capitale: nei luoghi più remoti infatti l'influenza delle dottrine uf­ ficiali era più debole e proprio ai confini dell'impero si ebbe un maggior campo d'azione rispetto a Costantinopoli, dove le diverse fazioni teologiche animavano il dibattito, e lo scontro, attorno alle immagini. In queste aree periferiche si rileva la presenza di un elevato numero di Acheropiti che documentano - oltre alla maggior libertà di pensiero e di sperimentazione di tali luoghi - un successo ormai assodato di queste immagini. Quando le controversie iconoclaste si attu­ tirono e la posizione ufficiale degli imperatori poté permettersi di legittimare il culto delle icone senza alimentare disordini o spargimenti di sangue, molti di questi Acheropiti furono traslati a Costantinopoli. Va registrata infine una cospicua presenza di immagini ritenute Acheropite di Maria in tutta l'Italia meridionale, ma bisogna subito notare che «per lo più in Occidente domina la credenza - e qui sta la differenza con le rappresenta­ zioni greche - secondo cui la Madonna appare non nell'icona, ma di persona: questo miracolo viene in seguito registrato e rappresentato nell'icona. Si pensi a Marpingen o a Lourdes»60• Questo dato è confermato da alcune celebri icone di Cristo in Occidente, come il Velo della Veronica che cattura i tratti del volto del Cristo durante la sua passione o la Sindone che ci consegna l'impronta pro­ digiosa del suo corpo ormai cadavere. Questa tendenza è un riflesso del doppio meccanismo che anima la teologia dell'Oriente e dell'Occidente: la prima privi­ legia infatti la mistica della Trasfigurazione che, pur mantenendo salda la realtà dell'umanità di Cristo, ne valorizza la sua dimensione divina in ogni tratto della sua vita compresi quelli più dolorosi. L'Occidente invece si è spesso mosso in una prospettiva, oggi forse divenuta più prudente, di esaltazione del dolore, dei patimenti di Cristo, delle sue sofferenze, favorendo rappresentazioni tese a ren­ dere partecipe il fedele alle dinamiche di tribolazione patite da Cristo stesso. Si distinsero poi degli Acheropiti di santi, ai quali fu riservato l'onore di la­ sciare le loro immagini miracolose ai fedeli. Tra questi la più famosa è quella di san Giorgio che fu particolarmente venerata proprio a Lydda in Palestina, dove già precedentemente era diffuso il culto dell' Acheropita della Madre di Dio. La leggenda narra che una pia donna desiderava donare una colonna per la costru­ zione della nuova chiesa di Lydda da dedicare proprio al santo. A seguito del 59 60

E. VON DOBSCHùTZ, Immagini di Cristo, cit., p. 76. lvi, p . 8 1 . 69

Le icone Acheropite di Cristo e la loro dimensione teologica

rifiuto del capo cantiere, la donna si rivolse in preghiera a san Giorgio che fece tornare la colonna, nuotando nel mare, fino al luogo dove venivano imbarcati i materiali per la costruzione della chiesa. Vista e riconosciuta la colonna che aveva rifiutato, il capo cantiere si vergognò del suo gesto e la collocò all'inter­ no della nuova chiesa. La leggenda, dai tratti macchinosi, esplicita tuttavia il legame tra l' Acheropita di san Giorgio venerato a Lydda nel VII secolo e quello di Maria che apparve miracolosamente nella stessa città tra l'vrn e l'Ix secolo61• Se palese è la relazione tra i due Acheropiti, resta il mistero della perdita delle tracce dell'icona di san Giorgio, laddove invece il culto dell'icona della Madre di Dio divenne così importante da subentrare e sostituire l'icona del santo. Comune alle cronache e leggende sui vari tipi di Acheropiti è la sottolineatu­ ra dell'elemento miracolistico. Da un lato infatti i miracoli legati agli Acheropiti sono sempre stati parte integrante delle leggende e notevoli furono sia lo spazio, sia la risonanza attribuiti agli esiti prodigiosi prodotti da queste immagini «non fatte da mano d'uomo». Dall'altro i racconti più recenti dell'antichità estre­ mizzarono l'accento su questo elemento, non solo più come effetto, ma come causa. Dunque il credere e valorizzare fino in fondo l'origine miracolosa degli Acheropiti permise agli stessi di generarsi anche senza la necessità del contatto diretto con Cristo e sua Madre. Questa evoluzione non deve essere però letta come una semplice risposta. al crescente bisogno di segni eccezionali che perva­ se il popolo, dato che la ricerca dei miracoli è un dato piuttosto costante nella storia della Chiesa, specialmente in alcune sue componenti. Qui sembrerebbe piuttosto chiudersi il cerchio attorno al modo di intendere gli Acheropiti, tenuti a tal punto in considerazione dal mondo bizantino che la stessa teologia, forte della loro origine prodigiosa, accettò tutti i miracoli che essi operavano in quan­ to derivanti da Cristo, dalla Madre di Dio o dai suoi santi.

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I punti di contatto sono vari: entrambi infatti sono comparsi miracolosamente come impronte e «di entrambi si afferma, cosa che non viene mai detta in altri casi, che si trovassero per così dire già prima nella pietra, al suo interno», in E. VON DosscHOTZ, Immagini di Cristo, cit., p. 86. 70

Capitolo terzo LA DECISI V ITÀ DEL V OLTO E DELLO SGUARDO NELLA TRADIZIONE ICONOGRAFICA DELL'ORIENTE CRISTIANO

1. Il volto e lo sguardo nella riflessione neotestamentaria n volto è il luogo del corpo dove, per eccellenza, sono maggiormente comu­

nicati atteggiamenti, emozioni, reazioni, sentimenti. Gran parte di ciò che sap­ piamo sugli altri lo apprendiamo dai loro volti, prima ancora che parlino, e gran parte degli indizi su noi stessi è trasmessa proprio dalle espressioni del nostro viso: «Il volto è a un tempo l'identità di una persona e il varco aperto sul suo segreto. Nel volto, la persona ti guarda e chiede di essere riconosciuta. Il volto è il luogo dove la persona comunica quando vuole aprirsi e rendersi accessibile, il volto è il cristallo trasparente dove brilla l'interiorità della vita o diventa uno schermo quando la persona vuole nascondersi e sottrarsi a uno sguardo inva­ dente e indagatore»1 . n VOltO Si differenzia dalla maschera grazie alla SUa essen­ za, che gli consente di presentarsi come «la manifestazione di una certa realtà e si apprezza appunto come mediatore fra conoscitore e conosciuto, come l'aprir­ si alla nostra vista e alla nostra intelligenza della realtà conosciuta»2• La Sacra Scrittura, esperta nell'indagare l'animo umano, si sofferma spesso sulla descrizione del volto come fonte di comunicazione del pensare e sentire dell'uomo. L'Antico Testamento utilizza assiduamente il termine piinim per in­ dicare sia il volto in senso proprio, sia l'aspetto fisico, ma anche lo sguardo e ad­ dirittura la persona stessa. L'importanza del concetto è tale che, con le sue 2 . 1 00 attestazioni, è la parola più frequente nei libri veterotestamentari. Essa inoltre, presente al plurale, sottolinea la molteplicità dei dettagli che compongono il volto. n termine è riferito sia agli uomini, sia a Dio: proprio in quest'ultimo caso emerge in pienezza la teologia di Israele. Nei testi veterotestamentari la ricerca umana del volto di Dio e della sua visione beatifica è una richiesta che si ripete 2

F. G. BRAMBILLA, Chi è Gesù? Alla ricerca del volto, Edizioni Qiqajon, Bose 2004, p. 10. P. FLORENSKI], Le porte regali. Saggio sull'icona, Adelphi Edizioni, Milano 2006, p. 43. 71

Le icone Acheropite di Cristo e la loro dimensione teologica

spesso, anche se destinata a non essere esaudita durante la vita terrena, per cui la risposta della Scrittura alla ricerca del volto di Dio si concretizza nell'invito a osservare le leggi e i comandamenti da Lui donati. La teologia ebraica abolisce, infatti, la possibilità di vedere direttamente Dio: «Persino la gloriosa teologia del kabod non significa né la pienezza di Dio né la presenza di Dio. Questa proteg­ ge l'individualità della presenza non mediata di Jahvè»3• La stessa espressione «guardare il volto di Dio» è termine tecnico del linguaggio liturgico che Israe­ le ha mutuato dall'ambiente circostante, in particolare dal linguaggio cultuale babilonese: «La forma più frequente della frase è la forma passiva (Nip 'a[) del verbo "vedere"; l'espressione "apparire di fronte al volto di Dio" è fi espressio­ ne tecnica per indicare la visita al santuario»4• n senso letterale dell'espressione indica la visita al santuario e, poiché il culto di Israele è aniconico, non si può parlare nella teologia ebraica di un guardare il volto di Dio: «li concetto "volto di Dio" non è divenuto perciò nell'A.T. un concetto teologico autonomo, ma esiste solo come un modo di esprirnersi»5. Poiché il volto è in grado di svelare l'essenza autentica dell'essere di una persona, quando Dio nasconde il volto significa che ritira la propria benevolenza, ma anche che rifugge dalle offerte umane di culto e di preghiera: «In quel giorno, la mia ira si accenderà contro di lui; io li abbandonerò, nasconderò loro il volto e saranno divorati. Lo colpiranno malanni numerosi e angosciosi e in quel giorno dirà: questi mali non mi hanno forse colpito per il fatto che il mio Dio non è più in mezzo a me?»6• Al contrario la benedizione per eccellenza equivale ad avere il volto di Dio che risplende su di sé: «Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio»7• Nel Nuovo Testamento prorompe, rispetto al tema del volto e dello sguardo, una prospettiva nuova e inattesa che capovolge la visione veterotestamentaria. Il Verbo di Dio, con la sua incarnazione, rimosse il velo che impediva agli occhi degli uomini di contemplare Dio, tanto che, nella nuova alleanza, i credenti sa­ ranno in grado di stare davanti a Dio senza velo sul volto, «a viso scoperto»8. In modo sorprendente e straordinario il volto di Dio si rese presente e accessibile in quello del Figlio - «Chi vede me, vede colui che mi ha mandato»9 - permet-

«Even the kabéìd-glory does not represent the fullness of God and God's presence. It shields the individuai from Yahweh's unmediated presence», in The Anchor Bible Dictionary, Vol. 2, Doubleday, New York 1 992, p. 743. 4 «The more common phrase is the passive (Nip 'al) form of "to see" with piinim literally, "to ap­ pear (be seen) before the face of Yahwe", a technical term for visiting a santuary», in ivi, p. 743 . ' Dizionario Teologico dell'Antico testamento, Volume Secondo, Marietti, Casale Monferrato 1982, p. 402. 6 Deuteronomio 3 1 , 17. Numeri 6,25. 2 Corinti 3 , 18. Giovanni 12,45. 72

La decisività del volto e dello sguardo nella tradizione iconografica

tendo all'immagine sacra, come formalizzò il concilio di Nicea II, di appartenere a pieno titolo all'essenza del cristianesimo con la stessa dignità della Parola. L'assunzione da parte del Verbo di Dio di un corpo e di un'anima umani impli­ cano, infatti, la presenza di un volto e di quindi di uno sguardo umani: da qui l'eccezionale occasione della rappresentazione delle immagini che, nonostante i dibattiti e le lotte iconoclaste, irruppe agli albori del cristianesimo e lo attraver­ sò, come una costante, durante tutta la sua storia. n bisogno di immagini in am­ bito cristiano subì un'accelerazione anche a causa dello slittamento del ritorno di Cristo sulla terra.· Le comunità apostoliche che inizialmente avevano vissuto nell'ardente attesa dell'imminente parusia non ritenevano infatti necessario con­ servare immagini o ritratti di Gesù. Man mano che l'attesa del ritorno di Cristo assumeva contorni temporali più remoti e a seguito della perdita di peso della componente ebraica, più incline al rifiuto delle rappresentazioni, sorse sponta­ neo il desiderio di disporre di immagini di Gesù. La visione del Figlio incarnato di Dio, di cui avevano goduto apostoli e discepoli, era tuttavia preclusa ai poste­ ri. Alle generazioni successive fu però donata la singolare opportunità di vede­ re Cristo attraverso le icone: «Nel tempo della grazia e dell'assenza successivo all'ascensione, la ricerca del vero volto del Redentore si divide tra il bisogno di rinvenirne le tracce del suo passaggio su questa terra e l'attesa del facie ad /acies che verrà in ultimo: è questo lo spazio in cui si collocano le immagini»10• n linguaggio neotestamentario ha il pregio di valorizzare sia l'importanza del volto sia dello sguardo. Prosopon è termine che, al pari del corrispondente ebrai­ co, è usato sia in modo letterale per indicare il volto dell'uomo, sia in senso più ampio per mostrarne l'intera persona. Nell'uno e nell'altro caso prosopon è rife­ rito ai volti di Cristo e di Dio. L'attenzione della Scrittura si concentra in partico­ lare sugli occhi, ritenuti l'elemento più espressivo del volto, essenziale per la co­ municazione non verbale. L'occhio, da sempre considerato specchio dell'anima, è misura del benessere spirituale e fisico dell'individuo - «la lucerna del corpo è l'occhio»ll - e la vista, grazie al suo naturale legame con la luce, appartiene alla serie classica dei sensi spirituali diventando metafora ampiamente utilizzata dagli autori neotestamentari. L'atto di vedere si compie quindi immergendo lo sguar­ do nel volto dell'altro, mentre il proprio rimane invisibile e questo permette di conoscere meglio se stessi e gli altri. Gli antichi però, ignorando che l'occhio av­ verte soltanto la luce riflessa, pensavano che «gli occhi emettessero attivamente dei messaggi, esprimendo un atteggiamento con ogni osservazione»12• Questa 10

G. WOLF, Dal volto all'immagine, dall'immagine al volto, in AA.VV., Il Volto di Cristo, a cura G. MORELLO, Gerhard Wolf, Electa, Milano 2000, p. 19. 11 Matteo 6,22. 12 Le immagini bibliche. Simboli, figure retoriche e temi letterari della Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2006, p. 161 1 .

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concezione si riflette sulla credenza che alcuni sarebbero capaci di provocare calamità con i loro sguardi cattivi, tanto che l'espressione «occhio cattivo» rende plasticamente il concetto di gelosia, come si evince dalle parole di Gesù stesso: «L'espressione letterale "il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?" diventa "Sei invidioso perché io sono generoso? "»13. In quest'ottica risulta importante discernere ciò che si guarda, perché l'occhio potrebbe essere oscurato e diven­ tare canale di giudizi negativi: «Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell'oc­ chio tuo c'è la trave? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello»14• In tali occasioni di­ venta necessario un trattamento radicale: «Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna»15. L'occhio è capace addirittura di causare effetti sconvolgenti sull'animo dell'uomo, come emerge dalle parole del Cantico. Lo sguardo ha infatti la forza sia di attrarre e sedurre: «Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo, con una perla sola della tua collana! »16, sia di sconvolgere: «Distogli da me i tuoi occhi: il loro sguardo mi turba»17• Lo sguardo non caratterizza solo gli uomini, ma anche Dio, a cui vengono attribuite, in senso figurato, parti del corpo umano tra cui gli occhi. J ahvè è spesso descritto come colui che osserva gli uomini e la creazione: il suo guarda­ re comporta la protezione di coloro che ama - «gli occhi del Signore sono sopra i giusti e le sue orecchie sono attente alle loro preghiere»18 - e il vedere Dio, de­ siderio e fine di ogni credente, è accordato soltanto ai «puri di cuore»19. Uno dei tratti qualificanti del Messia consiste proprio nella sua capacità di donare «ai ciechi la vista»20, qualità che Gesù incarna pienamente. li rapporto tra la fede e la vista, esplorato in vari episodi evangelici, diventa paradigmatico nell'episodio di guarigione del cieco nato. Non si trattava infatti solo di un recupero della facoltà visiva naturale, ma del riconoscimento di Colui che è la luce del mondo. A tal proposito risulta paradossale il contrasto tra il cieco guarito e i farisei che, pur avendo una vista perfetta, non riconobbero Gesù e vennero definiti da lui ciechi. L'appannamento della vista spirituale è figura impiegata anche nel cele13 14 15 16 17 18 19 20

lvi, p. 1 6 1 1 . Matteo 7,3-5 . Matteo 5 ,29. Cantico dei Cantici 4,9. Cantico dei Cantici 6,5 . l Pietro 3 ,12. Matteo 5 ,8. Luca 4,18. 74

La decisività del volto e dello sguardo nella tradizione iconografica

bre rimprovero dell'Apocalisse, che rimarca il nesso tra vista e senso spirituale: «Tu dici: " Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla" , ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista»21• li Nuovo Testamento quindi, pur tralasciando la descrizione dell'aspetto fisico di Gesù, si sofferma al contrario sul suo volto e in particolare sullo sguardo per esprimere la straordinaria novità dell'incarna­ zione «C'è un aspetto del volto che il racconto evangelico predilige ed è il suo sguardo, lo sguardo di Gesù. Potremmo dire che se il N.T. non ci dice nulla sul colore dei suoi occhi, sulla forma dei suoi capelli, sulla configurazione del volto, sull'inflessione della voce, sulla mimica del suo viso, come avrebbe fatto ogni buon biografo e narratore appena all'altezza del suo compito, è stato invece sorprendentemente fulminante nel descrivere lo sguardo di Gesù»22•

2. La ripresa teologica del volto e dello sguardo

nella Tradizione dell'Oriente cristiano Duplice è la fonte da cui scaturisce il pensiero teologico ortodosso sul volto e sullo sguardo: da un parte, svolge un ruolo decisivo l'episodio della Trasfi­ gurazione, che permette di comprendere il tema della divinizzazione dell'uo­ mo messo finalmente in condizione di vedere la luce divina e, dall'altra parte la riflessione teologica dell'Oriente cristiano a proposito delle icone è segnata dall'esistenza delle immagini Acheropite, in particolare del Mandylion di Edes­ sa. Volto e sguardo sono dotati nell'Oriente cristiano di autentiche capacità rivelative: «Si può dire che volto è quasi sinonimo della parola mam/estazio­ ne. [ . . . ] Lo sguardo è manifestazione dell'ontologia»23. E questo al punto che essi sono in grado di trasmettere il mistero: «Lo sguardo di per sé, in quanto contemplato, essendo testimonianza di questo Archetipo e trasfigurando il suo volto in sguardo, annuncia i misteri del mondo invisibile senza parole, con il suo tesso aspetto»24. Il peccato interviene però nella vita dell'uomo deturpando la persona e il suo volto che «cessa d'essere la finestra da cui si effonde la luce di Dio»25• Di conseguenza lo sguardo dell'uomo, offuscato dalla trasgressione, non è capace neppure di riconoscere la luce divina di Gesù che gli cammina ac21 22 2l 24 2�

Apocalisse 3 , 17-18. F.G. BRAMB!LLA, Chi è Gesù? Alla ricerca del volto, cit. , p. 12. P. FLOREN KIJ, Le porte regali. Saggio sull'icona, cit., p. 43 . lvi, p. 44. lvi, p. 48. 75

Le icone Acheropite eli Cristo e la loro dimensione teologica

canto: è l'esperienza fatta dagli apostoli e dai loro contemporanei che non scor­ gevano in Cristo la pienezza della sua divinità a causa del peccato, nonostante fosse di fatto questa «la condizione stabile in cui il corpo di Cristo viveva»26. Fu solo grazie alla divinizzazione che agli apostoli venne donata, nel momento della Trasfigurazione, la possibilità di penetrare la gloria del Verbo incarnato: «L'Epifania, il Tabor, la Risurrezione, la Pentecoste sono irruzioni folgoranti che si lasciano vedere. Ma in queste rivelazioni è l'oggetto che determina inte­ ramente il soggetto. La luce è l'oggetto della visione e ne è anche l'organo. La Trasfigurazione del Signore di fatto era quella degli apostoli; per un momento i loro occhi aperti poterono vedere, al di là della sua kénosis, la gloria del Signo­ re: " Mediante una trasmutazione dei loro sensi, essi passarono dalla carne allo Spirito" , insegna Palamas»27. I Sinottici, che narrano l'evento in maniera pres­ soché identica, pongono l'accento sulla luce raggiante che fluisce sia dal volto sia dalle vesti di Gesù: «Mentre pregava, il suo volto cambiò d'aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante»28. Pietro, Giovanni e Giacomo, grazie al dono che «trasfigurò» la loro vista, poterono contemplare la gloria di Cristo che discuteva con Mosè ed Elia, i grandi veggenti dell'Antico Testamento: «Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; tuttavia restarono svegli e videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui»29. La teologia dell'Oriente cristiano sottolinea che i segni della natura divina di Cristo erano presenti sul suo volto fin dalla sua incarnazione, ma i discepoli, pur condividendo molteplici esperienze quotidiane con Gesù, non riuscivano a percepirli: «La luce che gli apostoli hanno visto sul monte Tabor è propria di Dio per natura: eterna, infinita, esistente al di fuori del tempo e dello spazio, essa appariva nell'Antico Testamento come gloria di Dio. Al momento dell'in­ carnazione la luce divina si concentrò, per così dire, in Cristo, Dio-uomo, nel quale abitava corporalmente la pienezza della divinità. Questo significa che l'umanità di Cristo era deificata per l'unione ipostatica con la natura divina e che il Cristo, durante la sua vita terrena, risplendeva sempre della luce divina, rimasta invisibile alla maggior parte degli uomini»30. Gli apostoli sul Tabor, gra­ zie all'azione divinizzante di Cristo nei loro confronti, riuscirono finalmente a vedere l'aspetto divino del Signore, aspetto che fino a quel momento non erano stati capaci di scorgere: «Perché questo accadesse dovette intervenire una spiri­ tualizzazione dei loro sensi corporei, al fine di metterli in grado di contemplare 26

P. BERNARDI, La «cristologia asimmetrica». L'ermeneutica orientale bizantina del dogma calce­ danese nella sua origine e nel suo consolidamento, Pro Manuscripto, Facoltà Teologica dell'Italia settentrionale, Milano 2007, p. 291 . 27 P. EvooKJMOV, Teologia della Bellezza. I:arte dell'icona, cit., pp. 49-50. 28 Luca 9,28. 29 Luca 9,32. >O V. LossKJJ, A immagine e somiglianza di Dio, EDB, Bologna 1 999, p. 1 0 1 .

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La decisività del volto e dello sguardo nella tradizione iconografica

lo splendore di quella stessa luce. E a rendere possibile questa partecipazione fu la stessa luce divina che, unendo a sé sulla falsariga di quanto accaduto ai tre apostoli coloro che attraverso la preghiera esicasta invocano incessantemente Dio fino a riceverlo in dono, li trasformò in luce»3 1 . La luce taborica non è quindi solo l'oggetto della visione, ma ne è anche la condizione: «Chi parteci­ pa all'energia divina in qualche modo diviene luce egli stesso; egli è unito alla luce e, con la luce, vede ciò che resta nascosto a coloro che non hanno questa grazia; egli sorpassa così i sensi corporei e tutto ciò che può essere conosciuto (dall'intelligenza)»32• li volto di Cristo sul Tabor, in stato di deificazione, di­ schiude la manifestazione del volto di Dio agli uomini, resi finalmente capaci di contemplare la luce increata e di venirne penetrati: «li volto luminoso di Dio rivolto verso gli uomini è quello del Cristo trasfigurato»33 • L'altro versante da cui emerge il pensiero della teologia dell'Oriente cri­ stiano sul volto e sullo sguardo è quello delle icone Acheropite. La questione circa l'origine dell'immagine di Cristo si colloca in un panorama di dibattiti, spesso polemici, circa la sua natura: il suo essere Dio, pur incarnato in un cor­ po umano, richiedeva che il suo ritratto non fosse messo sullo stesso piano di quelli degli imperatori o in generale dei pagani. È la preoccupazione che traspare anche dalle parole di Eusebio di Cesarea il quale, negando il ritratto di Cristo all'imperatrice Costanza (3 1 8-354)3\ si fece portavoce dl un vivo di­ battito tra i vari gruppi cristiani sull'identità di Cristo: «In questione è un'ico­ na che rappresenti Cristo esattamente come egli era: questa è la richiesta che Eusebio respinge, perché proprio questo aspetto preciso non si fa " catturare" dall'arte»35. Pertanto, nei primi decenni dalla morte di Gesù, «chi egli fosse era più importante di quale aspetto avesse»36, sebbene tra le due domande vi fosse un nesso che, se inizialmente costituì un punto di scontro con il mondo braico, fu successivamente risolto da parte cristiana grazie alla realtà dell'in­ carnazione: «li linguaggio del testo è superato dall'evidenza delle immagini. t n questo superamento c'è la chiave della differenza tra la religione ebraica e quella cristiana, poiché vi si ripete la differenza tra rivelazione nella parola e rivelazione nella vista»37. Le immagini dl Cristo che maggiormente si diffusero nel mondo bizantino ''

P. BERNARDJ, La «cristologia asimmetn'ca», cit., p. 263 . GREGORIO PALAMAS, Omelia sulla presentazione della Santa vergine al Tempio, in P. EVDOKI­ MOV, Teologia della Bellezza, cit., pp. 223-224. '' lvi, p. 53. 14 Figlia dell'imperatore romano Costantino 1 e di Fausta, sorella degli imperatori Costantino n , ostanzo n e Costante 1 , ricevette il titolo di augusta dal padre. " C. SCJ-lùNBORN, I.:icona di Cristo, cit., p. 59. 16 H. BELTING, Gli inizi, in AA.VV. , Il Volto di Cristo, cit., p. 25 . 17 Ivi, p. 3 3 . 12

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Le icone Acheropite di Cristo e la loro dimensione teologica

sono i volti Acheropiti della Camuliana e del Mandylion di Edessa (Figg. l e 4). Prima di questo particolare modo di rappresentare Cristo che diventò in seguito il canone per tutta la tradizione iconografica ortodossa, si segnalarono tipi icono­ grafici che attinsero molto dagli ambienti circostanti. Richiamandosi innanzi tutto a passi biblici che profetizzavano la venuta di Cristo, si passò dall'identificazione di Gesù con l'uomo senza splendore «disprezzato e reietto dagli uomini»38, di cui parla il libro di Isaia, all'idealizzazione fisica della bellezza del Cristo - «Tu sei il più bello tra i figli dell'uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia, ti ha bene­ detto Dio per sempre»39 -, riverbero del suo splendore divino. Alle dichiarazioni bibliche fecero seguito concretamente due distinte modalità di rappresentazione di Cristo, la cui origine va indiscutibilmente ricercata in contesti differenti: «Un aspetto è di matrice romana, quello con l'ampia capigliatura "da filosofo " , e un altro che poneva enfasi su tratti somatici - i capelli corti e crespi, la forma quasi triangolare della testa - connotati in senso etnico, ossia riconosciuti come spe­ cificatamente "semitici"»40• Questa differenza mostra che - prescindendo dalle fattezze codificate successivamente nelle immagini Acheropite delle quali però non si ebbe notizia fino al VI secolo - il volto di Cristo nei primi secoli fu rappre­ sentato in modo simile ai volti dei filosofi o degli dei pagani41• Le caratteristiche fisiche di Gesù hanno conservato il loro valore e significa­ to attribuendo particolare risalto agli occhi e alla luce dello sguardo come luogo in cui si manifesta la sua divinità o, nel caso dei s � ti, la loro esistenza ormai Isaia 5 3 , 3 . Salmo 44,3 . 40 H. BELTING, Gli inizi, in AA.VV., Il Volto di Cristo, cit., p. 27. 41 Secondo gli studi di F. Caroli, presentati nel volume Il Volto di Gesù. Storia di un 'immagine dall'antichità all'arte contemporanea, Mondadori, Milano 2008, si diffusero «due immagini di Gesù completamente diverse, che coesistono nella mente dei primi cristiani, e che ovviamente si svilupparono in un contesto di discussioni teologiche. [ . . ] Una immagine è quella del "divino fanciullo" apollineo, simbolo di eterna giovinezza, che assume un carattere sempre più rituale. [ . . . ] Contemporaneamente, però, prende sempre più corpo l'altra immagine, del tutto diversa, la rappresentazione di un Gesù scarno, con i capelli lunghi e la barba, un Gesù ieratico, dispensato­ re di verità», in ivi, pp. 12- 1 3 . Fu la seconda di queste rappresentazioni - Gesù con la barba - a diffondersi nei secoli successivi, come conferma T.F. Mathews: «Un Cristo dalla fronte larga e dal collo robusto, con una gran massa di capelli scuri e una barba folta ma corta al punto giusto. La potenza di questo tipo non aveva niente a che vedere con l'accurattezza del ritratto; era più potente a motivo delle divine associazioni pagane con il padre degli dei», in Scontro di Dei. Una reinterpretazione dell'arte paleocristiana, J aca Book, Milano 2005, p. 95. In questo studio, infatti, lo storico dell'arte sostiene la tesi di un legame di derivazione delle icone cristiane dalle icone tardoantiche, che giustificherebbe la somiglianza di molti particolari nei ritratti e nella composi­ zione delle icone cristiane: «Le linee di continuità tra i pannelli pagani e le icone cristiane sono manifeste. I busti e le figure intere sono rappresentati in posizione frontale e impugnano i simboli del potere divino. Hanno w1o sguardo baldanzosamente fisso sui devoti e un'aureola intorno al volto. [. . ] La fabbricazione delle icone tardoantiche offre un precedente diretto per le icone cristiane», in ivi, pp. 94-95. 38

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.

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La decisività del volto e dello sguardo nella tradizione iconografica

trasfigurata, e questo è stato possibile proprio perché «lo sguardo di Gesù è il primo luogo di accesso al suo volto»42.

3. Volto e sguardo come elementi centrali dell'arte dell'icona

Gli occhi ricoprono un ruolo di rilievo e una precisa posizione nelle icone. Dipinti aperti nelle icone più antiche, essi sono la miglior applicazione del detto evangelico: «La lucerna del tuo corpo è l'occhio. Se il tuo occhio è sano, anche il tuo corpo è tutto nella luce; ma se è malato, anche il tuo corpo è nelle tenebre»43• È proprio attraverso gli occhi che le icone rivelano gli elementi più interessanti del personaggio rappresentato, in primo luogo la sua santità. I santi sono infat­ ti raffigurati come lontani dalle passioni terrene, quasi trasfigurati; di essi non vengono mostrate intenzionalmente né emozioni né sofferenze, per mettere in luce il loro carattere ormai divinizzato: «L'icona rivela il volto di un abitante del paradiso, non di una persona sulla terra»44• Questo non significa che siano ignorati i tratti distintivi ed esteriori (come il sesso, l'età, la forma della barba, l'acconciatura . . . ) che li contraddistinguono, anzi il volto, in particolare gli occhi, e le mani diventano elementi decisivi per cogliere l'identità del soggetto ritrat­ to. Tutti questi aspetti trovano il loro elemento coagulante nella luce che gioca un ruolo chiave nel trasmettere il significato teologico dell'icona. La luce che trasfigura i volti delle icone è infatti la stessa luce divina increata, la cui qualità simbolica rimanda intrinsecamente all'azione divinizzante di Dio nei confronti dell'uomo, nel cui volto la divinizzazione si esprime al massimo grado: «li sim­ bolismo dell'icona è fondato in tal modo sull'esperienza della mistica ortodossa: gli occhi immensi, di una dolcezza senza bagliori, le orecchie ridotte, come in­ teriorizzate, le labbra sottili e pure, la sapienza della fronte dilatata, tutto sta a indicare un essere unificato, pacificato, illuminato dalla grazia»45. I personaggi rappresentati nelle icone sono quindi dipinti non in modo realista, bensì con un volto trasfigurato per indicare che essi appartengono al mondo celeste e si sono già rivestiti di un corpo incorruttibile. Anche nel disegno dei corpi esiste una sobrietà nei movimenti e nei gesti dei personaggi, ritratti in un atteggiamento fisso e ieratico, che sfiora quasi la staticità: «Conformandosi al concetto di or­ todossia, gli artisti bizantini forgiano una pittura (la scultura quasi non esiste)

42

F.G. BRAMBILLA, Chi è Gesù? Alla ricerca del volto, cit., p. 1 7 . Luca 1 1 ,34. 44 «The icon reveals the face of a dweller in paradise, not of an earthly person», in I. YAZYKOVA, H. LUKA ( KOLOVKOV), The theological principles o/ icon and iconography, in A History o/ icon painting, cit., p. 15. 4l O. CLEMENT, La Chiesa ortodossa, Queriniana, Brescia 2005, p. 1 14.



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La decisività del volto e dello sguardo nella tradizione iconografica

tine, riconoscendoli come assodate tradizioni nella consuetudine artistica, reli­ giosa e teologica, al punto da presentarle come inequivocabili al mondo cristia­ no dell'Occidente. In sintesi si può affermare che, nella Tradizione dell'Oriente cristiano, i tratti del volto e del corpo di Cristo si consolidarono lungo i secoli in particolari pressoché identici, facilmente osservabili nello studio delle due sinossi riportate di seguito (Tav. sinottica l e 2 ) .

4 . Il volto e lo sguardo di Dio nel volto

e nello sguardo di Cristo Nel dibattito sulla liceità del culto delle immagini, l'attenzione degli ico­ noduli si concentrò sulle potenzialità racchiuse nell'incarnazione del Logos in ordine alla legittimazione delle immagini sacre. Agli occhi della Chiesa, infatti, «negare l'icona del Cristo equivale a negare la verità e l'autenticità della sua incarnazione e dunque rifiutare tutta l'Economia divina nel suo insieme»57• Nel farsi carne del Verbo di Dio si scorse il fondamento dell'inaudita opportunità di ve_dere, nel volto del Figlio incarnato, il volto di Dio: «È l'incarnazione del Verbo a rendere possibile la visione e la conseguente rappresentabilità di ciò che prima permaneva radicalmente invisibile. La rivelazione cristiana infatti permette all'uomo di vedere nel Verbo incarnato l'unico volto di Dio, volto costantemente cercato e altrettanto costantemente negato nella fase veterote­ stamentaria della storia della salvezza»58. Attraverso la natura umana di Gesù, che gode di una propria e specifica consistenza, si manifesta il volto di Dio stesso: « È proprio su questa natura umana, a un tempo profondamente trasfi­ gurata dalla natura divina e irriducibile ad essa, che si fonda per l'Ortodossia la possibilità da parte dell'icona di costituirsi quale autentica rappresentazione di Dio»59. li farsi visibile di Dio nella vita di Gesù - e la conseguente possibilità di rappresentare il volto di Cristo - costituì un punto di svolta decisivo per la nascente teologia cristiana. J ahvè, che aveva guidato il cammino del popolo ebraico da lui prescelto, che si era rivelato nelle misteriose teofanie, che aveva fatto sentire il suo amore e la sua cura per Israele ç�ttraverso l'annuncio dei suoi profeti, decise di mostrarsi volontariamente nel Figlio e di farsi conoscere defi­ nitivamente in lui. L'incarnazione di Gesù è il culmine della rivelazione di Dio che, nel Figlio, si fa totalmente prossimo all'uomo.

l7

L. UsPENSKIJ, IL significato e il Linguaggio delle icone, in L. USPENSKTJ, V. LOSSKlJ, Il senso delle icone, cit., p. 3 1 . '8 lvi, p . 90. '9 P. BERNARDI, Uicona. Estetica e teologia., cit., p. 3 1 . 85

Le icone Acheropite di Cristo e la loro dimensione teologica

Nel Nuovo Testamento, il Padre, «inconoscibile nella sua maestà, si fa co­ noscere nel suo amore, mediante il Verbo per il quale ha creato ogni cosa»60. Nei racconti evangelici si delinea il rivelarsi di Dio nell'esistenza di Gesù: dal compiacersi- del Padre al momento del battesimo del Figlio nelle acque del Giordano, ai segni delle parabole e dei miracoli, fino alla drammatica vicenda della passione, Dio mostra se stesso nel volto e nella vita del Figlio. Gesù vive in pienezza la consapevolezza del suo essere Figlio che rivela e manifesta il Volto del Padre, lasciando trasparire il suo rapporto con il Padre in ogni sua parola e in ogni suo gesto. Cristo giunse persino a confidare esplicitamente agli apostoli, che non riuscivano a scorgere nel suo volto la presenza di Dio, la verità del suo essere: « "Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?". Gli disse Gesù: " Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto" . Gli disse Filippo: "Signore, mostraci il Padre e ci basta". Gli rispose Gesù: "Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai co­ nosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse"»61. Ai Dodici che, a causa del peccato, non riuscivano a contem­ plare la costante divinità del Cristo terreno e che chiedevano al contrario di vedere Dio, Gesù affermò che solo nel suo volto si può pienamente e definitiva­ mente contemplare quello del Padre. La funzione rivelatrice di Gesù è assoluta, poiché egli solo può manifestare all'umanità il volto e i tratti di Dio e lo fa nella sua stessa carne: «Rappresentando l'Ipostasi incarnata del Verbo divino; l'icona rende testimonianza della piena realtà di questa in'carnazione. D'altra parte, attraverso questa icona, noi confessiamo che il " Figlio dell'uomo" che essa raf­ figura è veramente Dio, una verità rivelata»62• Il Figlio non è solo un profeta che ha il compito di annunciare il messaggio di Dio agli uomini, non è solo tramite delle promesse divine, non è solo strumento docile nelle mani del Padre, ma è luogo privilegiato in cui Dio si rende accessibile e visibile all'umanità. Il Figlio, «immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura»63, è la perfetta e consustanziale immagine del Padre, pur detenendo un'ipostasi propria. La sua somiglianza con Dio non viene meno con il farsi carne poiché «la carne è propria al Verbo e se il Verbo resta il Verbo consustanziale al Padre, allora que60

V. LOSSKY, Teologia mistica della Chiesa d'Oriente. La visione di Dio, EDB, Bologna 1985, p. 270. 61 Giovanni '14,5 - 1 1 . 62 L. UsPENSKIJ, Il significato e il linguaggio delle icone, cit., p. 3 3 . 63 Colossesi l , 1 5 .

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La decisività del volto e dello sguardo nella tradizione iconografica

sta conserva la sua somiglianza con Dio Padre anche nella sua incarnazione»64. Non solo l'umanità di Cristo non è un velo che nasconde la divinità ma, proprio nel mistero dell'incarnazione, nella sua vita terrena, nell'opera di salvezza da lui compiuta, egli mostra definitivamente Dio. Gesù rivela la sua dedizione al Padre nelle azioni, nelle scelte, nella kénosis, nell'accettazione della morte e, vi­ ceversa, Dio rende visibile il suo amore per l'umanità proprio nel dono assoluto e incondizionato del Figlio. Tra loro non s'instaura solo una comunione d'amore dai tratti certamente unici e totali, come dimostrano le parole colme di fiducia di Gesù stesso: «Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare»65. Tra la manifestazione di Dio e la rivelazione di Gesù all'umanità vi è un nesso antologico: il volto di Cristo è il luogo in cui si manife­ sta il volto del Padre al punto che «chi ha visto me ha visto il Padre»66. Questo inaudito convergere del volto di Dio in quello di Gesù arricchisce di spessore teologico le icone Acheropite: se il vedere il Padre, il poterlo incontra­ re in modo diretto, si realizza nel volto e nella vita del Figlio, le immagini nate miracolosamente, le icone create da Gesù stesso assumono una luce rivelativa ancora più intensa. In esse traspare la gloria di Cristo e la gloria di Dio; attra­ verso di esse la Tradizione ortodossa ritiene di poter entrare in contatto con Cristo e con Dio e solo una fede che crede le icone capaci, attraverso il loro prototipo, di unire il fedele a colui che invoca rende davvero giustizia all'ecce­ zionale evento di un Dio che si rivela nel volto e nello sguardo del Figlio fattosi uomo. Il senso dell'arte sacra, delle icone in particolare, consiste nel testimo­ niare visibilmente la realtà di Dio che si fa prossimo all'uomo: «L'arte liturgica non rappresenta soltanto la nostra offerta a Dio, ma anche la discesa di Dio verso di noi, una delle forme nelle quali si compie l'incontro fra Dio e l'uomo, fra la grazia e la natura creata, fra l'eternità e il tempo»67• L'icona di Cristo svol­ ge un compito fondamentale che si esprime in un duplice modo: «Tra icona e incarnazione si genera quindi una specie di circolo virtuoso grazie al termine medio della vista: da una parte la carne del Logos giustifica l'immagine, perché è Dio stesso che sceglie di farsi vedere oltre che sentire, e dall'altra l'immagine diventa duratura memoria della carne del Logos, perché prolunga la visibilità di Cristo anche al di là della sua limitata permanenza storica»68. Se nell'incar­ nazione di Cristo si rende presente in modo unico il volto di Dio Padre, le immagini legittimate dal prendere carne del Verbo hanno tuttavia il dovere di 64 65 66 67 68

C. SCHONBORN, L'icona di Cristo. Fondamenti teologici, cit., p. 79. Matteo 1 1 ,27. Giovanni 14,9. L. U PENSKJJ, Il significato e il linguaggio delle icone, cit., p. 34. G. LINGUA, L:icona, l'idolo e la guerra delle immagini, cit., p. 1 06. 87

Le icone Acheropite di Cristo e la loro dimensione teologica

rispettare e assicurare l'alterità inaccessibile di Dio: «Quest'immagine, nel suo costituirsi e legittimarsi come autenticamente cristiana, non potrà che essere consapevole di dovere continuare a salvaguardare il mistero profondo nel quale Dio, al di là del suo rivelarsi, continua a rimanere awolto. Solo così infatti essa riuscirà a rappresentare adeguatamente il Figlio di Dio incarnato nella pienezza del suo essere vero Dio e vero uomo»69. L'incarnazione di Gesù è il «luogo» in cui la contemplazione del volto di Dio diviene una possibilità reale: la persona di Cristo diventa così l'unico volto di Dio possibile e «di conseguenza esclusi­ vamente l'icona di Cristo, nella sua radicale fedeltà al prototipo di cui porta il nome stesso, potrà costituire, per l'Ortodossia, l'adeguata rappresentazione del volto di Dio»70.

5. Il «Santo Volto» come Volto dei volti

Si è già ampiamente trattato nei paragrafi precedenti del ruolo centrale che le icone Acheropite di Cristo rivestono nella riflessione teologica e nell'ambito liturgico del mondo dell'Oriente cristiano. Abbiamo mostrato quanto la loro presenza sia stata decisiva nella discussione sulla legittimazione del culto delle immagini: in esse infatti «si poteva leggere una prova che Cristo fosse vissuto in un corpo e che pertanto la sua fisionomia potesse essere ricordata. Il vero ri­ tratto si riferiva a un vero corpo»71 . Gli Acheropiti di Cristo sono un documento vivente della presenza di Gesù in mezzo agli uomini, capaci di mostrarne il vol­ to autentico, da lui stesso donato ai contemporanei e alle generazioni successi­ ve. L'origine degli Acheropiti di Cristo risale, infatti, a un intervento diretto o indiretto del Salvatore, come appare chiaramente nel racconto dell'origine del Mandylion: «Fino a noi è giunta una narrazione da antico tempo tramandata, e cioè che Abgar, sovrano di Edessa, infiammato di amore divino dalla fama del Signore, mandò a lui ambasciatori che chiedessero una sua visita: se egli avesse rifiutato, ordina che un pittore modelli la sua immagine. Avendo conosciuto ciò, colui che tutto sa e tutto può prese un pezzo di stoffa, lo accostò al volto e impresse su di esso la propria immagine. E tutto questo è stato conservato fino ad oggi»72. E tuttavia, nonostante l'origine straordinaria di queste immagini, sono secoli che non si dispone più degli originali e questa sintomatica assenza è paradossalmente, ma significativamente, il punto di partenza di ogni ricerca sugli Acheropiti. Di fronte a tale mancanza si deve ricorrere alle copie che si 69

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P. BERNARDI, I colori di Dio, cit., p. 5 1 . lvi, p . 9 1 . H. BELTING, Gli inizi, in Il Volto di Cristo, cit., p. 25. GIOVANNI DAMASCENO, Dz/esa delle immagini sacre, 1 , 3 3 , cit., p. 65 . 88

. La decisività del volto e dello sguardo nella tradizione iconografica

sono generate o sono state riprodotte sulla base degli Acheropiti per eccellen­ za, in particolare il Mandylion, e interrogare le fonti della Tradizione e della liturgia che attestano l'esistenza delle icone «non fatte da mano d'uomo» e ne illustrano il significato. Le copie sono un prezioso e imprescindibile punto di riferimento per la ricerca, non nell'inutile tentativo di giungere a «un'imma­ gine primordiale», ma perché, grazie ad esse, è possibile disporre dei tratti di Cristo, così come si impressero nel Mandylion, esclusivamente grazie alla fedeltà degli iconografi ai canoni iconografici, conservati e trasmessi immuta­ bilmente per secoli dalla Tradizione orientale. Il contemplare il vero volto di Cristo attraverso delle copie non sminuisce dunque il significato delle icone Acheropite: «Sono le copie a fornire la risposta. Gli occhi mortali hanno potu­ to contemplare il sacro Mandylion solo attraverso delle repliche che differiva­ no dall'originale per prodotto, mezzo e taglia»73 . Queste copie rivestono così il ruolo di «mediatore» capace di far accedere all'originale: «Esse stanno al Mandylion come il Mandylion stava a Cristo»74• Determinante non è dunque la ricerca dell'archetipo, ma la ricostruzione delle diverse tradizioni caratterizzate da molteplici intrecci in cui giocano un ruolo di prim'ordine le copie conserva­ te e preservate dalla storia. Nei primi secoli del cristianesimo circolavano dei ritratti di Cristo in am­ bienti eterogenei tra loro: tale pratica era piuttosto comune nel mondo greco e romano, tanto che la richiesta dell'imperatrice Costanza rivolta ad Eusebio di Cesarea di avere una raffigurazione di Gesù si iscriveva in una prassi ormai con­ solidata. Tali istanze si tradussero ben presto nella diffusione degli Acheropiti di Cristo - Camuliana e Mandylion - che iniziarono a interpretare il ruolo del Volto Santo per antonomasia. Dal punto di vista teologico, il Volto Santo rac­ colse gli elementi caratteristici e distintivi delle icone portandoli a compimento, mentre, dal punto di vista cronologico, esso diede inizio al cammino delle icone che, ispirandosi ad esso, produssero la storia dell'arte e la stessa concezione figurativa propria dell'Oriente cristiano. Quest'ultima conferì al volto un ruolo centrale: il corpo rispetto al volto divenne, infatti, trascurabile e il volto umano di Cristo apparve sempre più come un enigma in cui egli mostra e allo stesso tempo cela la sua divinità. Tale paradosso, mantenuto in equilibrio, è visibi­ le nella solennità dello sguardo di Cristo, nella precisione della divisione dei capelli, si evince dalla prospettiva rovesciata, dalla ieraticità della rappresen­ tazione. Questi elementi ribadiscono la subordinazione dell'elemento estetico 73

«Copies offered the answer. Mortai eyes contemplateci the sacred Mandylion only in replicas that differed from it in manufacture, medium and size», in H.L. KESSLER, Configuring the invisible by copying the Holy Pace, in The Holy Face and the Paradox o/ Representation, cit., p. 1 5 1 . 74 «They are to the Mandylion, what the Mandylion was to Christ», in H. L. KESSLER, Con/iguring the invisible by copying the Holy Face, in ivi, p. 1 5 1 . 89

Le icone Acheropite eli Cristo e l� loro dimensione teologica

alla necessità di proclamare in modo irrecusabile la verità dogmatica dell'in­ carnazione. n tipo iconografico del Salvatore Acheropita ci mostra solamente il volto di Cristo, senza collo né spalle, inquadrato da una lunga capigliatura che termina in riccioli in entrambi i lati. La sua espressione attrae e interroga: «Si tratta dell'impassibilità di una natura umana assolutamente pura, esente dal peccato, ma che accoglie tutte le sofferenze del mondo decaduto. I grandi occhi dilatati, rivolti verso l'osservatore, hanno uno sguardo attento e doloroso che sembra penetrare fino alla profondità delle coscienze, ma senza opprimerle»n. Le copie del Mandylion consegnano dunque, alla fede e alla storia, i tratti fisici del volto di Cristo conservando intatto il patrimonio che era stato loro trasmes­ so dall'originale. n ruolo di primo piano del Volto Santo di Cristo non fu significativo solo in ordine al suo diventare «norma normante» delle successive rappresentazioni artistiche del Salvatore, ma specialmente in ordine alla riflessione teologico­ dogmatica relativa all'incarnazione del Logos. A tal proposito risulta significa­ tivo uno studio delle letture liturgiche della Festa del Sacro Volto. Sebbene la festa sia denominata nell'Ufficio liturgico «Traslazione da Edessa alla città di Costantinopoli dell'immagine non fatta da mano d'uomo del nostro Signore Gesù Cristo, immagine detta "santo sudario"»76, la liturgia di questo giorno non si limita a una semplice commemorazione della traslazione dell'icona da un luogo a un altro. Essa al contrario, come evidenzia senza ombra di dubbio la scelta delle letture, è tesa a restituire in pienezza il senso dell'immagine ch�i sta celebrando. Nelle letture:; veterotestamentarie infatti si mette in risalto l'impos­ sibilità di vedere e dunque rappresentare Dio - «L'Eterno vi parlò di mezzo al fuoco; voi udiste il suono delle parole, ma non vedeste alcuna figura; non udiste che una voce»77 - e la funzione preparatoria della proibizione dell'immagine, funzionale all'apparizione di Cristo «immagine del Dio invisibile»78• Nei rac­ conti evangelici, l'incontro del Risorto con i discepoli di Emmaus viene inter­ pretato come figura del ruolo dell' Acheropita nella vita della Chiesa: « È Cristo stesso che accompagna i suoi Apostoli a Gerusalemme. Quanto a noi, la sua immagine ci accompagna verso la Gerusalemme celeste»79. Di fronte al fine ulti­ mo dell'uomo, il Regno di Dio, il rito ortodosso canta la sua gratitudine a Cristo per aver voluto donare all'umanità il suo Acheropita che ne sostiene e ne guida 75

L. UsPENSKIJ, V. LoSSKIJ, I principali tipi di icona, in L. USPENSKIJ, V. LoSSKIJ, Il senso delle icone, cit., p. 8 1 . 76 Le tre letture dei Vespri sono: Deuteronomio 4,6-7 . 9- 1 5 ; 5 , 1 -7 .9- 1 0. 23-26. 28; 6,1-5 . 1 3 . 1 8 e 3 Re 8, 22-23 . 27-30. Durante la liturgia eucaristica vengono letti Colossesi 1 , 12-18 e Luca 9,5556. 77 Deuteronomio 4,12. 78 Colossesi 1 , 1 5 . 79 L. USPENSKJJ, La teologia dell'icona, cit., p. 26. 90

La decisività del volto e dello sguardo nella tradizione iconografica il cammino verso la beatitudine celeste. Duplice è dunque il compito della li­ turgia della Festa del Sacro Volto: delineare il cammino terreno che l'umanità è chiamata a percorrere e «affermare l'esistenza di immagini autentiche di Cristo, immagini esistite fin dall'inizio»80, icone la cui esistenza ha segnato in modo sostanziale il corso della storia, della teologia, della fede, della vita dell'Oriente cristiano e, più globalmente, dell'intero cristianesimo.

6. La replicabilità iconica delle immagini Acheropite

Gli Acheropiti sono immagini che, per antonomasia, nascono da un inter­ vento miracoloso. Tra le caratteristiche fondamentali di queste eccezionali icone vi è anche la capacità di duplicarsi. Tale prodigio accompagna sin dall'inizio la loro storia: la Tradizione dell'Oriente cristiano ne è testimone con il culto litur­ gico di ben quattro Acheropite, due originali e due miracolose. La Camuliana e il Mandylion hanno prodotto, infatti, rispettivamente la copia di Melitene d'Armenia e il Santo Keramion (Fig. 1 ). L'origine delle copie incrementa il note­ vole successo in termini di devozione e diffusione che ha accompagnato queste riproduzioni. L'essere state generate dal contatto con gli originali conferì loro pari dignità e virtù simili agli archetipi da cui derivavano. Due, dunque, gli elementi che permettono alle copie di essere collocate sullo stesso piano degli originali: le riproduzioni furono prodotte con il medesimo procedimento so­ prannaturale e questo permise loro di mantenere le stesse virtù taumaturgiche dell'originale. n culto delle copie è legittimato da questi elementi intrinseci al loro prodursi. Le copie miracolose sono l'applicazione pratica del dettato di Nicea rr: se l'icona rende presente il prototipo che rappresenta, allora ogni ri­ produzione generata miracolosamente dall'originale avrà la medesima capacità di rappresentare il prototipo. n primo elemento, il duplicarsi in modo miracoloso, è un dato che ritorna nella storia di tutte le copie degli Acheropiti, come abbiamo già anche docu­ mentato analizzando precedentemente le icone della Madre di Dio. Le mo­ dalità con cui tale procedimento si realizzò furono molteplici e diverse, ma il tratto soprannaturale permane come denominatore comune, all'origine della duplicazione. Tale tratto accomuna queste straordinarie immagini cristiane ai diipetés greci, in grado di riprodursi sia naturalmente che dopo un'eventuale distruzione, e allo stesso tempo di conservare pari valore: «Il diopetés originale poteva anche essere bruciato dieci volte: quello nuovo che lo rimpiazzava valeva esattamente lo stesso per il culto religioso, addirittura era in grado tanto più alto 80

lvi,

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26. 91

Le icone Acheropite di Cristo e la loro dimensione teologica

quanto più corrispondeva alle idee evolute e alle accresciute esigenze estetiche dell'epoca»81 • Le copie più celebri furono quelle generate dagli Acheropiti d i Cristo. Tra queste il Santo Keramion «prima replica legittima del Mandylion»82 risulta certamente il caso di riproduzione più interessante e di conseguenza più noto. Questa icona si presenta come una tegola delle mura di Edessa che, dopo aver coperto per secoli il Mandylion, ne «assorbì» per contatto l'immagine miraco­ losa (Fig. 1 ) . Ritrovata con l'originale dal vescovo Eulalia, ai tempi dell'assedio di Edessa da parte del re persiano Cosroe I I (590-628), essa fu solennemente traslata a Costantinopoli con lo stesso Mandylion nel 944, nonostante le prote­ ste della comunità cristiana83• La richiesta del basileùs fu dettata dalla volontà di raccogliere e custodire nella capitale tante più reliquie possibili, dopo le ingenti perdite subite a causa delle feroci distruzioni iconoclaste. La pretesa di disporre anche delle miracolose riproduzioni del Mandylion rivela quanto la Tradizione dell'Oriente cristiano riconosca uguale dignità alle copie, proprio a causa del loro intrinseco legame con gli originali e alla loro conseguente capacità di met­ tere in contatto con il prototipo rappresentato. Anche la successiva soluzione di deporre sia il Mandylion sia il Santo Keramion nella cappella imperiale di Santa Maria del Faro a Costantinopoli e di celebrare liturgicamente la memoria di entrambe il 1 6 agosto conferma come il legame tra le due immagini risulti ormai accreditato a livello teologico e liturgico. Altrettanto pregnanti le vicende dell'immagine Camuliana e della sua copia di Melitene d'Armenia. L'origine della Camuliana non derivò da un contatto di­ retto con Gesù, come avvenne per il Mandylion. Cristo infatti apparve a Ipazia, donna pagana della città di Camula84, che chiedeva un'immagine concreta del Salvatore per poter credere in Lui: adempiendo alla richiesta, Gesù apparve «stampando» la sua immagine su un tovagliolo/tela. La vicenda delle copie sorte attorno a questo Acheropita è emblematica poiché, nei loro complicati sviluppi, di cui rimangono racconti molto frammentari, si rispecchia la sorte che è toccata a molte delle immagini Acheropite e alle loro copie. Esemplari, a tal proposito, i numerosi passaggi che subì il Mandylion da parte delle varie co-

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81

E. VON DosscHOTZ, Immagini di Cristo, cit., p. 3 7 . H.L. KESSLER, Il Mandylion, in Il Volto di Cristo, cit., p. 72. 83 Assolutamente singolare quanto accadde a Edessa nel momento in cui l'imperatore decise di traslare entrambe le immagini a Costantinopoli: vi furono forti resistenze, sia da parte della comunità cristiana, sia di quella islamica. I cristiani edesseni si rifiutavano di consegnare il Sacro Volto - che aveva segnato la storia della città determinando l'iniziale conversione al cristianesimo dei suoi abitanti e aveva garantito una costante protezione dagli attacchi nemici - e in questo fu­ rono appoggiati dalla comunità musulmana che, pur non condividendone la fede, riconosceva al Mandylion poteri apotropaici. Per una trattazione completa cfr. Parte seconda, Capitolo terzo. 84 Villaggio della Cappadocia in Turchia. 82

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La decisività del volto e dello sguardo nella tradizione iconografica

munità cristiane mentre si trovava a Edessa. Inizialmente custodito nella Chiesa di Santa Sofia a Edessa dalla comunità calcedonese-melchita, quando Cosroe II nel 609, dopo aver assoggettato la città, deportò in massa i cristiani melchiti e giacobiti, l' Acheropita passò nelle mani dei nestoriani. Una mutata situazione politica - l'imperatore bizantino Eraclio (610-64 1 ) , infatti, aveva inflitto dal 622 al 627 una serie di sconfitte a Cosroe II - determinò il ritorno del Mandylion in mano melchita. La situazione si complicò ulteriormente quando Edessa fu con­ quistata dagli Arabi musulmani: in prima battuta tolleranti nei confronti dei cri­ stiani, cominciarono a imporre tasse sempre più pesanti dal 700 in poi. Per far fronte alle crescenti richieste economiche, la comunità melchita fu costretta a dare in pegno il Mandylion a un ricco monofisita, che sostituì l'immagine origi­ nale con una copia ben fatta: «Se questa storia è vera, l'originale dovette, quin­ di, essere deposto presso i Giaco biti, nella loro Chiesa di Dio a Edessa. È da qui che sarà più tardi ritirato per essere portato a Costantinopoli»85. Il fatto che le tre comunità cristiane «affermassero di possedere un'icona di Cristo dell'epoca in cui questi era vissuto si può spiegare in parte con la naturale rivalità tra le diverse confessioni: ciò che avevano le une non doveva mancare alle altre»86. Nel contesto dell'epoca era un'abitudine diffusa quella di sostituire «perfette imitazioni all'icona originale per tenere quest'ultima al sicuro»87, sulla scia di quanto si era verificato nell'antichità per i palladi: ci si rassegnava dunque più facilmente «all'esistenza di più icone aventi la medesima origine che venivano poi denigrate l'una a copia dell'altra»88. Il dubbio che sorge - almeno agli occhi di uno studioso occidentale attento a seguire con criticità il susseguirsi delle vicende storiche - è che di «falsi d'au­ tore» ne esistessero più di uno: perché infatti solo il ricco monofisita avrebbe fatto una copia del Mandylion e non anche tutti coloro che precedentemente lo avevano custodito - consegnando ai propri rivali delle ottime riproduzioni e continuando a custodire con fede e devozione l'originale - o almeno tratte­ nendo, in segno di devozione, una copia di un originale che bisognava doloro­ samente restituire? Al di là di qualsiasi possibile soluzione, questo genere di speculazioni è con­ dannato dalla Tradizione dell'Oriente cristiano, che liquida tali dubbi come dispute tra studiosi occidentali, incapaci in ogni caso di cogliere il cuore del problema. In tal senso, la notizia che proprio l'Acheropita per eccellenza, il Mandylion originale, sia stato traslato a Costantinopoli nel 944, dopo tutti i pas­ saggi di mano subiti, è un'ulteriore conferma della modalità con cui l'Oriente 8�

86 87 88

G. GHAR!B, Le icone di Cristo. Storia e Culto, cit., lvi, p. 1 1 6. lvi, p. 1 1 5. lvi, p. 1 1 5. 93

p.

46.

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cristiano si accosta alle icone Acheropite, con una prospettiva che è ben lon­ tana dall'approccio storico-critico. Fuorvianti quindi le motivazioni addotte dall'Occidente, che ritiene inventate le copie degli Acheropiti di Cristo: «Nelle differenti confessioni cristiane della città esistevano immagini di culto in con­ correnza fra loro. Certamente per questa ragione nacque anche la leggenda di un duplicato su una tegola»89. È dunque opportuno tenere presente, oltre ai dati storici, i risvolti teologici che fondano la Tradizione dell'Oriente cristiano, per non rischiare di ridurre la portata e di tradire il significato delle immagi­ ni «non fatte da mano d'uotno». Limitarsi a valutare la dimensione estetica e storico-critica di tali icone significa non coglierne la reale portata, perché è nel­ la dimensione teologico-dogmatica che si radica anche l'estetica dell'immagine cristiana. n rapporto tra gli Acheropiti originali e le loro copie evidenzia delle caratte­ ristiche peculiari che lo differenziano dalle normali riproduzioni di icone. Oltre al carattere soprannaturale che contraddistingue queste immagini, un'ulteriore peculiarità è rappresentata dal fatto che la riproduzione è impressa su un panno. n ritratto di Gesù «stampato» su un panno comporta ovviamente caratteristiche e tratti differenti da quello dipinto su un'icona e questo dato va tenuto pre­ sente in rapporto al problema della rappresentazione: «L'immagine su panno o Mandylion del re Abgar fu diffusa in innumerevoli riproduzioni e " parafrasi" . Nell'idea coincidono tutte fino a confondersi, ma nella prassi condividono tra loro solo uno schema comune di fondo, che lascia ampio spazio al gioco delle varianti che si può caratterizzare come segue. Mentre di regola le icone scelgono lo schema del ritratto a mezza figura, le immagini ispirate a quella di Abgar si limitano all'impronta del volto e della capigliatura su uno spazio vuoto, che sim­ boleggia il panno. Esse si rifanno a un originale che non era un'icona, bensì un panno. Su questo, in linea di principio, i tratti del volto sono fissati meccanica­ mente e i capelli allargati nella superficie, mentre se si trattasse di una tavola do­ vrebbero cadere verso il basso. In tal modo, deviando dallo schema dell'icona e rendendo visibile una copia meccanica, le repliche recano in sé la prova tangibile della genesi dell'originale. Sono riproduzioni di una reliquia d'immagine, che, come si credeva, era sorta in virtù del contatto fisico con il volto di Gesù»90. Numerose sono infine le icone frutto dell'opera di artisti chiamati a ripro­ durre fedelmente i tratti del volto di Cristo impressi negli Acheropiti. Negli anni successivi alla traslazione del Mandylion e del Santo Keramion a Costantinopoli, si registrò in particolare una cospicua moltiplicazione delle copie di questi Acheropiti: «Fu in quel momento, negli anni che seguirono la collocazione 89

H. BELTING, Il culto delle immagini. Storia dell'icona dall'età imperiale al tardo Medioevo, Carocci Editore, Roma 2004, p. 261 . 90 lvi, p. 257.

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dell'immagine miracolosa del Cristo all'interno delle mura di Costantinopoli, che l'arte greca dovette prendere possesso del tema del Mandylion, per mol­ tiplicare le copie di un oggetto che le autorità dello Stato e della Chiesa con­ sideravano come il Tesoro più prezioso della capitale dell'impero cristiano. E in effetti, apparendo a partire dal XI secolo nelle miniature dei manoscritti di Metafrasto (che aveva introdotto la leggenda del Mandylion nel suo raccon­ to agiografico) e, a partire dall'XI-XII secolo negli affreschi e nelle icone (tutte immagini di tecnica e stile bizantini), l'immagine di Cristo "non fatta con le mani" entra per la prima volta nell'iconografia cristiana»91 • Sorsero subito delle difficoltà legate alla riproduzione di un volto che, seppur accomunato a quel­ lo degli altri uomini per certi tratti, doveva mantenere inalterati i segni della divinità del Logos: «La difficoltà, ovvero l'impossibilità di raffigurare il volto di Gesù, alla quale, secondo le leggende si trovavano confrontati gli artisti, si ripresenta in forma nuova, quando si doveva " copiare" un'immagine non fatta da mano umana. Da questa tensione è nata una molteplicità di capolavori che evidenziano il problema stesso dell'immagine e dell'arte. La vera icona diven­ ta così una metafora dell'inappagabile desiderio del trascendimento di sé pro­ prio dell'opera d'arte, che a sua volta diventa motore della creazione artistica»92• Questa attenzione permise una notevole diffusione nel mondo ortodosso del tipo iconografico del Santo Volto: nelle copie, il vero Santo Volto conobbe un successo e una celebrità indubbiamente straordinari.

7. Il tratto miracoloso delle immagini Acheropite

La vicenda delle Acheropite è tutta segnata dal miracolo: la loro storia traspira a ogni tappa un'aura soprannaturale e miracolosa. La Camuliana e il Mandylion ebbero origine da un intervento miracoloso, riuscirono a moltiplicarsi in modo prodigioso, elargirono protezione alle città assediate, garantirono guarigioni ai casi più disperati, rassicurarono imperatori ed eserciti nelle più aspre battaglie

Ql

«C'est à ce moment - dans les années qui suivirent l'installation de l'image miraculeuse du hrist à l'intérieur cles murs de Costantinople, et dans la capitale meme de l'Empire - que l'art grec a du prendre possession du thème du Mandylion, pour multiplier les copies d'un objet que les autorités de l'État et de l'Église considéraient comme le plus précieux trésor de la capitale de l'Empire chrétien. Et en effect, apparaissant dès le XJ• siècle, dans les miniatures cles manuscrits de Métaphraste (qui avait introduit la légende du Mandylion dans son recueil hagiographique), t dès le Xl·· Xli• siècle, dans les fresques et !es icones - toutes ces irnages, de technique et de style byzantins - l'image du Christ "non fait par les mains" entre pour la première fois dans l'icono­ graphie chrétienne», in A. GRABAR, La Sainte Pace de Laon. Le Mandylion dans l'art orthodoxe, cit., p. 24. ''2 G. WoLF, Dal volto all'immagine, dall'immagzne al volto, in Il Volto di Cristo, cit., pp. 20-2 1 . 95

Le icone Acheropite di Cristo e la loro dimensione teologica

e, anche nel momento della loro sparizione, mantennero inalterate le loro pro­ prietà straordinarie facendo fiorire attorno a sé un elevato numero di leggende, tanto che parecchie icone se ne contesero fieramente l'eredità. Inconsueta ed eccezionale è prima di tutto la modalità con cui nacquero: la Camuliana venne alla luce a causa dell'audace richiesta della pagana Ipazia, che vorrebbe credere in Cristo, ma non prima di averlo visto personalmente. I suoi dubbi furono fu­ gati quando, trovando in una piscina del suo parco un'immagine dipinta su un tessuto di lino, ne riconobbe l'immagine del Salvatore. Questo racconto, oltre a testimoniare l'intrinseco legame tra la genesi dell'icona e il miracolo, consegna alla nostra attenzione due particolari significativi. Ipazia identificò immediata­ mente l'immagine con i tratti di Cristo, a confex:ma della diffusione di ritratti di Gesù sia tra la comunità cristiana93 - qualcuno infatti le aveva parlato di questa nuova fede e auspicava la sua conversione - sia tra i pagani. Va inoltre notato come i tratti del volto di Cristo si siano impressi su un panno di lino, in modo simile a quanto avvenne al Mandylion; solo successivamente le immagini di lino furono racchiuse in teche per meglio preservarle. In modo miracoloso nacque anche il Mandylion. Fu la richiesta di un uomo malato di lebbra che, proprio per essere guarito da questa terribile malattia, si rivolse a Gesù, a segnare i natali di questa celebre immagine. La salvezza fisica di Abgar fu proprio dono miracoloso della straordinaria immagine donatagli da Cristo per mano del fedele servitore Anania. Le Acheropite dunque, da un lato, nacquero da un intervento prodigioso, diretto o indiretto, dello stesso Cristo e, dall'altro lato, si rivelarono eccezionali strumenti miracolosi la cui forza si ma­ nifestò attraverso guarigioni ai mali più atroci e attraverso la potente ed efficace protezione a città ed eserciti in difficoltà. Tratto qualificante della storia delle Acheropite è pure la replicabilità mira­ colosa: questo traspare chiaramente sia nell'immagine di Camulia sia in quel­ la di Edessa. A Camulia, dopo che Ipazia ebbe trovato il tessuto di lino con l'immagine di Cristo, >58.

57 58

Apolytikion della santa icona. Tono 2, in ivi, p. 925. L. USPENSKIJ, La teologia dell'icona, cit., p. 120. 124

Capitolo secondo LA CAMULIANA

l. Le attestazioni storico-patristiche

La prima immagine Acheropita di Cristo di cui si ha notizia passò alla storia come «Camuliana>>. Gli avvenimenti legati a quest'icona sono ricchi di artico­ lati intrecci, punti oscuri, prodigiose moltiplicazioni e misteriose sparizioni. A complicare la ricostruzione, la mancanza dell'originale e la tendenza di suc­ cessive icone ad accreditarsi come il prototipo perduto. Le origini di questo Acheropita furono, da un lato, «personalizzate» dai vari autori che ne riporta­ rono le vicende e, dall'altro lato, si intrecciarono con la nascita di riproduzioni generate da questa immagine, la cui storia successiva prese il sopravvento su quella del prototipo. È dunque necessario prendere in considerazione le at­ testazioni storiche e patristiche su questa icona, prima di tutto per illustrare nel modo più esauriente possibile l'intricata vicenda che la vede protagonista e, successivamente, per delineare il suo ruolo chiave nel panorama teologico e dogmatico del cristianesimo orientale. La città che le conferì il nome fu Camulia (o Camuliana), villaggio della Cappadocia indicato nelle liste episcopali come quarto luogo di suffragio del­ la diocesi di Cesarea. La cronaca più antica risàle agli anni tra il 560 e il 574: questa lega l'origine dell'icona di Cristo alla storia della conversione, di cui già abbiamo accennato, di una donna pagana di nome lpazia, che desiderava credere in Gesù, non prima però di averlo personalmente e fisicamente visto. Alla donna fu concesso un duplice privilegio: trovare in una piscina del suo parco un'immagine dipinta su un tessuto di lino, nel quale lpazia riconobbe immediatamente i tratti del viso di Cristo, e disporre immediatamente anche di una ulteriore copia fissatasi miracolosamente sulla sua veste, da lei usata per avvolgere l'immagine una volta tiratala fuori, ovviamente asciutta, dall'acqua. Entrambi gli elementi, l'origine miracolosa e il prodigioso moltiplicarsi, certifi125

Le icone Acheropite di Cristo nella Tradizione dell'Oriente cristiano

cavano l'autenticità dell' Acheropita. È peculiare che, in questo antico racconto, la nascita della Camuliana non contempli un intervento diretto di Cristo: questo mancato intervento, riscontrabile anche in altre icone «non fatte da mano d'uo­ mo», è tipico degli Acheropiti tardivi, non più generati dal contatto diretto con Cristo o la Madre di Dio, bensì da un'apparizione, una visione o un intervento mediato del Salvatore. Tale particolare potrebbe suggerire l'ipotesi di un rima­ neggiamento delle fonti antiche alla luce dell'evolversi della modalità con cui si formarono le prodigiose icone, confermato indirettamente dalla perdita della parte introduttiva del racconto antico, nella quale certamente non dovevano mancare dettagli significativi in ordine alla globalità stessa del racconto. La cro­ naca antica racconta anche il destino riservato alle due icone: la prima, quella ritrovata da lpazia, rimase a Camulia, mentre la replica impressa nella veste della donna fu invece trasferita a Cesarea. A queste si aggiunse una terza icona miracolosa, copia dell'originale, ottenuta da una donna cristiana di Diobulione, nel Ponto, che fu collocata all'interno di una chiesa costruita in suo onore. In definitiva nella cronaca antica appaiono tre immagini Acheropite di Cristo cir­ colanti al tempo di Giustiniano. La cronaca più recente fu scritta tra il 600 e il 750 e attribuita a Gregorio di Nissa (335-394 circa). In questa versione l'attenzione si concentra su un'unica icona, quella di Cesarea, che secondo l'autore, celato sotto il nome del Nisseno, era ancora venerata nel momento in cui egli scriveva. L' Acheropita in questione, secondo questa tradizione, sarebbe quello nato in modo miracoloso a Camulia al tempo di Diocleziano (284-3 05 ) e poi portato a Cesarea sotto Teodosio I (379395 ) . In questo racconto però l'origine dell'icona «è insufficientemente motiva­ ta e descritta in modo grottesco in base allo stile di un'epoca posteriore»1 • La protagonista è ancora una donna, questa volta di nome Bassa, poi ribattezzata Aquilina, pittrice del prefetto pagano Camulo (figura storica dubbia) , sposata con un uomo che perseguitava i cristiani. Pur desiderando essere battezzata, ella non si sentiva pronta· a professare apertamente la fede per paura del marito e questo la rese degna di un'apparizione di Cristo, che richiamava molto le ap­ parizioni veterotestamentarie, nella fattispecie il racconto di Isaia 6. Una voce dal cielo, infatti, dispose i preparativi dell'evento solenne fin nei minimi parti­ colari: fu richiesta una stanza adornata con un panno bianco su un piatto pulito e acqua in un recipiente di vetro intatto. La donna doveva prostrarsi a terra in adorazione all'uscita della stanza: solo in tal modo le sarebbe stata concessa la visione di Cristo, che secondo il racconto apparve come il Pantokrator cir­ condato da schiere di angeli celesti. Egli si lavò il volto e lo asciugò nel panno, !asciandovi miracolosamente impressi i suoi tratti. Tutto in questo resoconto

E. VON DOBSCHOTZ, Immagini di Cristo, cit., p. 5 3 . 126

La Camuliana

ruotò attorno alla creazione dell'immagine - «la cristofania [ . . . ] è finalizzata unicamente alla fabbricazione dell'icona di Cristo»2 - con un racconto così det­ tagliato da apparire costruito ad hoc per legittimare l'immagine miracolosa di Cesarea. Di particolare rilievo è anche la cronaca di Giorgio Cedreno3 sulla trasla­ zione a Costantinopoli dell' Acheropita di Camuliana. A partire dal IV secolo, infatti, nella nuova capitale imperiale fu avviato un considerevole programma di valorizzazione della città e della residenza imperiale: affluirono tesori, gioielli e reliquie provenienti da ogni parte del regno e, parallelamente, furono costrui­ ti palazzi e chiese sfarzose. Nel 574, sotto il regno di _Giustino II (565-578), anche l'icona Camuliana fu trasferita a Costantinopoli. Di questa traslazione l'unica notizia che rimane è quella dello storico bizantino, scritta nell'XI secolo, basata su fonti di qualità, sia dal punto di vista dell'antichità che del numero: «Sono giunti l'immagine non fatta da mani umane da Camulia, una località della Cappadocia, e i venerabili legni della croce dalla città di Apameia della seconda Siria»4• La sua attestazione risulta conferma.t a sia dai festeggiamenti che ebbero luogo nella capitale dell'impero in onore della Camuliana, sia dal silenzio delle fonti nella patria d'origine dell'icona. li ruolo di palladio rivestito dall'icona Camuliana fu davvero singolare: dal momento della traslazione a Costantinopoli l'immagine fu spesso portata in bat­ taglia contro i nemici. In questa usanza è evidente una convergenza di elementi politici e religiosi che registra una sovrapposizione tra «guerra dell'impero e guerra di religione»5. Le fonti raccontano di una partecipazione dell' Acheropita a varie guerre, tra cui le più significative risultano quelle persiane sotto Tiberio II (578-582), Maurizio II (582-602) ed Eraclio I I . Proprio sotto quest'ultimo fu cantata dal poeta Giorgio di Pisidia (VI-VII sec.) l'efficacia dell'Acheropita nelle battaglie imperiali, raccordandolo al carattere squisitamente teologico dell'im­ magme:

lvi, p. 53 . Storico bizantino che visse tra la fine del rx e l'inizio del XII secolo. Della vita di Cedreno non si sa praticamente nulla, si presume che fosse un monaco. Fu autore di una cronaca universale che si estende dalla creazione del mondo all'anno 1 057: partendo dalla storia biblica, la Cronaca ha per oggetto la storia di re giudei e di alcuni re orientali, dell'impero romano, fino ad arrivare agli imperatori bizantini. 4 E. PFEIFFER, Il Volto Santo di Manoppello, Carsa Edizioni, Pescara 2000, p. 1 7 . GIORGIO D I PISIDIA, De expeditione Persia I , 1 3 9ss., Ed. Bonn, p . , i n E . VON DOBSCHùTZ, Imma­ gini di Cristo, cit., p. 58; originale greco in E. VON DoBSCHùTZ, Christusbilder, n. Halfte, cit., ali. m, 8. 1 27

Le icone Acheropite di Cristo nella Tradizione dell'Oriente cristiano

«Egli prese la figura divina e venerata, la copia dello scritto non scritto, non scritto da mani, e nell'immagine il Logas che plasma e dà forma, senza scritto né forma - come senza seme d'uomo ha testimoniato - secondo la sua arte ha creato . . . confidando in un prototipo scritto da Dio, tu iniziasti divinamente l'opera delle battaglie. Ciò doveva credere il Logos, nostro amico, per darci ragione in ogni tempo di battaglia»6. Notevole il riconoscimento, da parte delle testimonianze storiche, del ruolo teologico dell' Aché;topita di Cristo, dovuto sia a una circolarità intrinseca tra teologia e società che questi mondi respiravano, sia al fatto che le immagini «non fatte da mano d'uomo» sono state recepite dal cristianesimo orientale come immagini non riconducibili a un'origine artistica e del tutto estranee a una loro «ideologica» invenzione finalizzata a supportare una dottrina. L'ultimo riferimento all'icona Camuliana è una mancata notizia: durante il concilio di Nicea n del 787 , gli iconoduli non si riferirono a questo Acheropita, che avrebbe potuto giocare il ruolo di prova «vivente» a favore della legittima­ zione delle immagini sacre. Il silenzio registrato fa dedurre che questa icona fosse già scomparsa; rimane comunque piuttosto misterioso il fatto che, nono­ stante non si disponesse dell'originale, si sia scelto di affidarsi esclusivamente a un altro Acheropita, il Mandylion, custodito in terra islamica. Dalle testimonianze riportate, sono presenti nell'icona di Camuliana i tratti tipici delle Acheropite: l'origine miracolosa che, in questo caso, appare in tutta la sua peculiarità, in quanto l'immagine si realizzò tramite un'apparizione di Cristo a una donna che ancora non credeva totalmente in Lui; e, a seguire, la sua capacità di riprodursi in modo miracoloso e quella di operare guarigioni. L'enfasi posta nella vicenda della Camuliana sulla sua immediata capacità di riprodursi è del resto tanto evidente da accompagnare la stessa a partire dalle sue origini fino alla sua misteriosa sparizione: sarebbe dunque più appropriato parlare non di una singola icona, ma del «gruppo dell'icona di Camuliana», tutte originarie della Cappadocia.

E. VON DOBSCHÙTZ, Immagini di Cristo, cit., p. 59. 128

La Camuliana 2. La riproduzione iconica della Camuliana

L'icona di Camuliana si caratterizzò fin dall'inizio per la sua pluralità. E que­ sto avvenne a un duplice livello. lnnanzitutto la molteplicità delle versioni a proposito della sua origine complica l'individuazione del nucleo narrativo origi­ nario. La cronaca più antica, infatti, testimonia la nascita di ben tre Acheropiti: i primi due per convincere definitivamente la pagana Ipazia a credere in Cristo, il terzo legato alla richiesta della devota, e malata, donna cristiana di Diobulione di poter tenere in casa sua il volto di Cristo di Camuliana che, prodigiosamente, avrebbe prodotto una copia di sé sul telo da cui era coperto. Le prime due im­ magini «non fatte da mano d'uomo», ossia il prototipo e la prima copia, ebbe­ ro origine pressoché contemporaneamente nello stesso luogo, il giardino della casa di lpazia, e in frangenti concomitanti: si tratta dunque di un caso unico di duplice origine. Il racconto ufficiale dei Menea greci dell' 1 1 agosto raccoglie la testimonianza di una tra le più celebri riproduzioni. La n arrazione fa riferimento a un'ulterio­ re versione della storia, per quanto riguarda l'icona originale. Anche il contesto cambia: non siamo più nella regione del Ponto, ma a Costantinopoli dopo la traslazione del 574. Il testo, intitolato Racconto circa l'immagine achiropita di Nostro Signore Dio e Salvatore Gesù Cristo, narra che, ai tempi dell'imperato­ re Tiberio II, una nobile donna pagana, Maria, si ammalò e dopo aver tentato inutilmente la guarigione attraverso rimedi umani, chiese ai sacerdoti di poter tenere l'icona di Camuliana per quaranta giorni in casa sua, per venerarla. La profonda devozione della donna convinse il clero a esaudirne la richiesta; Maria accogliendo l'immagine, la cop rì con un enorme lenzuolo di cotone, la pose in una cassa vuota e la venerò a lume di candela per il tempo stabilito. Ma le sue condizioni peggiorarono a tal punto che non riusciva più ad alzarsi dal letto: chiese dunque alla sua domestica di portarle la cassa, ma quest'ultima la trovò in fiamme. La leggenda riporta le grida di spavento della donna che attirarono l'attenzione dei sacerdoti che, accorsi sul luogo, iniziarono a pregare intensa­ mente, ottenendo la conclusione dell'incendio e scoprendo, con grande stupo­ re, che non solo l'icona nella cassa era perfettamente intatta, ma che sul lenzuolo che la ricopriva era rimasta un'impronta esatta dell'immagine. La patrizia Maria «guarita dal contatto con essa>/, prima di morire, offrì la sua copia al monastero dell'Ascensione di Melitene nella Cappadocia orientale. Durante la guerra di Eraclio II contro la Persia (610-640), le monache fuggirono a Costantinopoli portandosi dietro la riproduzione miracolosa: qui furono accolte dal patriarca Sergio (6 1 0-638), che però sottrasse loro la preziosa icona. Poco dopo egli fu

lvi, p. 56. 129

Le icone Acheropite di Cristo nella Tradizione dell'Oriente cristiano

però colpito da ogni genere di problemi e da ricorrenti visioni che gli intimava­ no di restituire l'icona strappata ingiustamente alle monache. La versione dei Menea contiene degli interessanti passaggi da studiare con attenzione. In primo luogo la riproduzione della Camuliana avvenne in modo miracoloso e, dato ancora più peculiare, la donna fu guarita non dall'origina­ le, bensì dalla copia. Questo elemento conferma quanto scritto sul ruolo degli Acheropiti nella Tradizione dell'Oriente cristiano: a essere determinante non è la questione di quale sia l'originale e quale la copia, quanto piuttosto la natura e il ruolo che queste immagini rivestono nella vita dell'Ortodossia. È �:ertamente lecito sospettare che l'attribuzione del miracolo alla copia sia un espediente per accreditarne l'identità di immagine «non fatta da mano d'uomo», ma l'ac­ coglimento di tale versione nei Menea8 conferma che per i cristiani d'Oriente è sufficiente anche una copia per operare un miracolo, purché essa sia nata in modo prodigioso e sia riconosciuta dalla Tradizione. È opportuno poi notare la singolarità del procedimento di creazione degli Acheropiti del «gruppo delle icone della Camuliana»: in tutte le versioni, infatti, l'origine avvenne per un in­ tervento indiretto di Cristo, ossia tramite un'apparizione, a differenza di quanto accadde per il Mandylion. Curiosamente però le riproduzioni si generarono per contatto: sia la copia creatasi sulla veste di lpazia, sia quella duplicatasi nella casa di Maria presero forma dal contatto diretto con il primo esemplare. L'area geografica di riferimento, anche in questo caso, fu la Cappadocia. Seb­ bene la copia in questione si sia formata a Costantinopoli, essa fu poi ridonata al monastero di Militene in Cappadocia. Quest'ultimo trasferimento conferma la tesi di un «gruppo di icone della Camuliana», legate a uno specifico territorio e supportate da una devozione locale, che aprì la strada al culto del volto di Cristo di Camuliana in tutto l'impero. Ulteriore elemento peculiare e comune a tutti i racconti sono le donne. Se certamente questo dettaglio non rappresen­ ta materiale per una speculazione teologica - sebbene ricalchi palesemente le orme evangeliche delle apparizioni del Risorto alle donne - conferma però un nucleo originario a partire dal quale le varie leggende attinsero, rielaborando poi personaggi e modalità d'origine di tali immagini. Gli Acheropiti del «gruppo di Camuliana» andarono per lo più distrutti . Nel dettaglio la loro dissoluzione e scomparsa sarà oggetto di ricerca nel para­ grafo successivo; tuttavia, giunti a questo punto, è opportuno soffermarsi su un dato che stupisce molto: l'assenza dei tratti del volto di Cristo di Camuliana. Anche al Mandylion e al volto di Cristo «della Veronica» toccò l'oscura sorte La presenza nei Menea di questa tradizione è significativa; i dodici volumi da cui è composto raccolgono infatti «gli uffici propri per ciascun giorno dell'anno secondo il calendario liturgico. [ . . ] D Menaion stabilisce una connessione con il contenuto centrale, pasquale della fede cristia­ na», in J. MEYENDORFF, La Teologia bizantina. Sviluppi storici e temi dottrinali, cit., p. 149. .

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La Camuliana

di una misteriosa dissoluzione tra le pieghe della storia, ma le loro riproduzioni hanno consegnato ai posteri dei tratti fisici ben precisi, che divennero, nel caso del Mandylion, la base per ogni iconografo chiamato a riprodurre il volto del Verbo incarnato. L'unico riferimento al possibile volto della Camuliana attual­ mente è dato dal Volto Santo di Manoppello (Fig. 1 6) che si è in Occidente

di nome Marcio, della vicenda di una donna chiamata Veronica, che guarita da un'emorragia tre anni prima da Gesù, si era fatta dipingere il suo ritratto mentre era ancora vivo. La donna fu convocata p resso Volusiano: «Quando la ebbe da­ vanti, Volusiano le disse: " Mi hanno parlato della tua bontà e della tua pruden­ za. Ora esaudisci la mia richiesta, manifestandomi l'immagine di quel grand'uo­ mo tuo Dio, che ti ha dato la salute del corpo". Alla domanda la donna rispose di non avere ciò di cui parlava. Volusiano allora, ritenendosi deriso, prese a interrogarla attentamente. E la donna, sebbene malvolentieri e con dispiacere, essendo devota al suo Dio, rivelò il segreto dell'immagine dell'autore della sua salute»25. Costretta a consegnare la propria reliquia, Volusiano partì alla volta di Roma, accompagnato sia dalla Veronica sia da Pilato in catene. L'imperatore Tiberio, dopo aver incontrato e ascoltato Volusiano, fu profondamente ama­ reggiato per la morte inferta a Gesù, tanto da non voler neppure incontrare Pilato, decretando di mandarlo immediatamente in esilio nell'Ameria tusca26. A cambiare radicalmente la vita all'imperatore fu l'incontro con Veronica e spe­ cialmente con l'icona di Cristo: «Alla vista della donna e dell'immagine che lei aveva, Tiberio Cesare le disse: "Tu hai avuto l'onore di toccare il lembo del vestito di Gesù ! " , e così dicendo guardò l'immagine di Gesù, fremette, cadde a terra tra le lacrime e adorò l'immagine di Gesù Cristo. E subito guarì dalla sua malattia e dalla ferita purulenta che aveva internamente. Sperimentata la forza della sua divinità con la guarigione del suo corpo alla vista dell'immagine, subi­ to diede ordine che la donna Veronica fosse ricolma di ricchezze, di onore e di averi dal pubblico erario, e che l'immagine fosse circondata di oro e di pietre preziose»27• Tiberio non solo fu guarito ma, riconoscente per il miracolo del quale aveva beneficiato, chiese e ottenne il battesimo e cercò persino di convin­ cere il senato affinché Gesù fosse adorato come vero Dio. La vendetta sui giudei è, invece, il tema dominante della Vindicta Salvatoris. Facendo propria un'antica concezione cristiana, la Vindicta avallò la tesi per cui i giudei furono molto più colpevoli del procuratore romano per la morte di Cristo. li campo d'azione fu l'Aquitania28, dove risiedeva Tito (79-81 ) che governava come viceré di Tiberio. Entrambi erano affetti da una grave malat­ tia: Tito dal cancro, Tiberio dalla lebbra29• Straziato dal dolore, Tito era solito

25 lvi, p. 758. 26 Nella scelta dell'area dell'esilio di Pilato si può scorgere un'implicita conferma sul luogo di composizione della Cura Sanitatis Tiberii, così come sostenuto da E. von Dobschi.itz. 27 Guarigione di Tiberio, in Apocrifi del Nuovo Testamento. Vol. 1. Vangeli, cit., p. 760. 28 E. von Dobschi.itz colloca l'autore della Vindicta Salvatoris in epoca pre-carolingia. La sua patria sarebbe la parte sud-occidentale della Francia, verosimilmente proprio l'Aquitania. 29 Ritorna, sia nelle cronache orientali sia in quelle occidentali, il tema della malattia e della guarigione miracolosa operata dall'immagine di Cristo. 1 69

L'attenzione dell'Occidente alle icone Acheropite di Cristo

supplicare il proprio assistente cristiano Natan (di origine ismaelita) perché gli trovasse un rimedio atto a guarirlo. Senza timore Natan gli parlò di Gesù e dei molteplici miracoli da lui operati. Nell'ascoltare tali prodigi, Tito lamentava il fatto che proprio sotto il governo di Tiberio si fosse messo a morte un così gran­ de medico e si r:iprometteva di vendicare presso i giudei la morte di Gesù: bastò questa promessa a donargli la guarigione, in seguito alla quale si fece battezzare, inviando poi Vespasiano a vendicare Gesù e punire i giudei, rei di aver messo a morte Gesù: «Tito esclamò: "Guai a te, imperatore Tiberio, pieno di ulcere e ricoperto di lebbra, poiché nel tuo regno fu commesso un simile delitto ! Nella Giudea, terra della nascita di nostro Signore Gesù Cristo, hai posto leggi in base alle quali fu arrestato e ucciso il re e governatore dei popoli e non fu fatto venire fino a noi a guarire te dalla lebbra e per purificare me dalla mia infermità. Perciò se li avessi al mio cospetto, con le mie mani ucciderei i corpi di quegli Ebrei e li appenderei a un rozzo legno perché hanno condannato il mio· Signore e i miei occhi non furono degni di vedere la sua faccia" . Quando ebbe finito di dire queste cose, subito scomparì la ferita dal volto di Tito e il suo corpo e il suo volto furono restituiti alla primitiva sanità»30. Tito e Vespasiano, dopo la prodigiosa guarigione, assediarono Gerusalemme compiendo stragi cruente per vendicarsi dei giudei. In concomitanza, chiesero a Tiberio di aprire un'inchiesta sulla morte di Cristo: l'imperatore incaricò Volusiano di interrogare Giuseppe d'Arimatea che testimoniò di aver deposto dalla croce Gesù, di averlo collo­ cato in un sepolcro nuovo e di essere stato testimone della sua risurrezione; a questa testimonianza seguì immediata la condanna di Pilato. Volusiano fece poi una breve indagine tra quanti avevano conosciuto il Salvatore per trovare una sua immagine da onorare, e la trovarono �ustodita presso una donna di nome . Veronica, da cui pretesero il ritratto per poterlo trasferire a Roma. La donna, che non se ne voleva affatto distaccare, prima negò di essere in possesso dell'im­ magine di Cristo, poi messa sotto tortura - elemento cruento che appare come una glossa evidente rispetto al racconto della Cura Sanitatis Tiberii - confessò di possedere l'immagine impressa su un panno di lino che Volusiano cercava. Dopo un anno di navigazione, l'immagine di Cristo fu presentata al cospetto di Tiberio, alla cui vista fu subito guarito dalla lebbra: «Volusiano aprì allora il suo mantello e il panno d'oro ove si trovava il volto del Signore. L'imperatore lo vide, e subito, non appena adorò, con cuore puro, l'immagine del Signore, fu purificato dalla lebbra e la sua carne divenne come la carne di un giovinetto»31. La miracolosa guarigione di Tiberio spinse l'imperatore a chiedere il battesimo e diventare a tutti gli effetti cristiano.

30 31

Vendetta del Salvatore, in Apocrifi del Nuovo Testamento. Vol i. Vangeli, cit., p. 758. lvi, p. 775. 170

La venerazione del Santo Volto «della Veronica» in Occidente

Nelle due cronache riportate la trama è simile e gli elementi comuni sono molteplici: la malattia dell'imperatore Tiberio, la scelta di Volusiano come uomo di fiducia da inviare a Gerusalemme, la figura della Veronica e del suo ritratto di Gesù, l'arrivo a Roma della Veronica, la guarigione di Tiberio, la condanna di Pilato e la sua morte violenta. In entrambi i testi appare ridimensionato anche il ruolo dell'icona di Cristo, ridotta a «mezzo» funzionale alla guarigione di Ti­ berio. La Cura Sanitatis Tiberii e la Vindicta Salvatoris, inoltre, pur riportando la notizia dell'arrivo a Roma dell'immagine, tacquero il ruolo di primo piano che l'icona di Cristo rivestì a livello di culto e devozione nella Chiesa latina, accentuato al contrario dalle rielaborazioni successive. Secondo queste versioni della leggenda non vi fu alcun nesso tra l'immagine di Cristo orientale della Veronica e quella divenuta famosa come la Veronica romana: «Nessuno dei due scritti - la Cura Sanitatis Tiberii e la Vindicta Salvatoris rivela anche solo con una parola di essere a conoscenza dell'esistenza di una reliquia romana. Nati al di fuori di Roma, i due scritti non hanno nulla a che vedere con l'icona romana di Cristo»32. -

3. L'icona romana «della Veronica»

L'origine dell'icona romana del Volto di Cristo appare poco chiara, resa an­ cora più complessa dal lungo periodo di silenzio su questa immagine, che ha dato spazio a numerose ipotesi, per quanto riguarda sia la sua genesi sia il suo rapporto con l'omonima icona orientale. Nella tradizione occidentale è eviden­ te la lacuna che intercorre tra l'epoca di Tiberio e quella in cui la Veronica ti­ comparve nella basilica di San Pietro. Silenzi e omissioni non debbono però far frettolosamente concludere che si tratti di un'arbitraria invenzione. Con un alto margine di probabilità a Roma «esisteva già da molto tempo un'icona di Cristo, che solo in seguito fu unita alla leggenda della Veronica»33. Le leggende orien­ tale e occidentale derivano dunque da due tradizioni diverse che però, nelle successive trasmissioni, furono a tal punto unite da fondersi insieme. L'icona ro­ mana, che passò alla storia come icona «della Veronica»3\ inizialmente era chia­ mata «santo sudario di Cristo». Difficile anche per questo aspetto comprendere come si sia arrivati a questa sovrapposizione di nomi e racconti: «L'origine di questa icona era però così poco chiara e la leggenda della Veronica passava così

32 E. VON DoBSCHOTZ, Immagini di Cristo, cit., p. 1 6 1 . 3 3 lvi, p. 1 62. 34 Giraldus del Galles, a Roma nel tardo x:m secolo, fu « il primo a riportare l'etimologia di Veronica come "vera icona, id est, imago vera"», in G. WOLF, «Or fu sì/atta sembianza vostra?». Sguardi alla