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Italian Pages 304 [309] Year 2017
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Un bambino stacca un lume dal soffitto, un altro siede su un lenzuolo disteso sul pavimento. Entra in campo la madre che cammina fra le stanze, si volta indietro, dice alcune parole che non udiamo, esce all’esterno. Rivediamo, al di là di una porta, il primo bambino che armeggia col lume. Rientra in campo la madre, passa davanti a noi ed esce nuovamente. La lasciamo per tornare a rivolgerci all’interno, dove il secondo bambino, immerso nel buio, accende un fiammifero… Il piano sequenza è tutto qui, dal punto di vista narrativo è pressoché inesistente: è vita che scorre nel fluire del tempo. Per Andrej Tarkovskij fare cinema non consiste infatti nel raccontare «piccole “storie” recitate e filmate». I suoi film si distinguono invece per un uso accentuato delle specificità del cinema, concepito come un’arte più vicina alla musica e alla poesia che alla letteratura. Le sue opere ci immergono in un narrare in cui la rappresentazione della cosiddetta azione, ovvero della parte immanente della vita, si è ineffabilmente rarefatta. La diegesi lascia il posto a meditazioni che si fanno pura immagine, immerse nel silenzio e nel tempo. Un altro tempo. E affinché ciò accada tutto deve fermarsi. Si medita stando immobili, si può ancora meditare in pacato cammino; non si medita in corsa.
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Filippo Schillaci si occupa di fotografia dal 1982 e di linguaggio cinematografico dal 1994. In campo cinematografico si è occupato in particolare dell’opera di Andrej Tarkovskij, Godfrey Reggio e Franco Piavoli. Il suo metodo di analisi si propone di risalire alla poetica dell’autore attraverso la comprensione della forma filmica.
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Saggi
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In copertina: un fotogramma tratto da Stalker (1979). © 2017 Lindau s.r.l. corso Re Umberto 37 - 10128 Torino Prima edizione: novembre 2017 ISBN 978-88-6708-912-3
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Filippo Schillaci
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IL TEMPO INTERIORE L’arte della visione di Andrej Tarkovskij
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IL TEMPO INTERIORE
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Introduzione
Il 29 gennaio 1973 Andrej Arsen’evič Tarkovskij scrisse nel suo diario: Non si può dire che il cinema sia fatto di piccole «storie» recitate e filmate. Questo non ha niente a che vedere col cinema. Prima di tutto il film è un’opera che è impossibile realizzare con qualsiasi altro mezzo artistico. Il cinema è solamente ciò che si può creare con i mezzi cinematografici, e solo con quelli.1
Questo è un libro sui film di Andrej Tarkovskij; sui film, intesi come Tarkovskij li intendeva, ed è dunque un libro in cui lo specifico cinematografico ha un ruolo di primo piano. Certamente non orbita, se non marginalmente, intorno alle «storie» che ne costituiscono la componente narrativa, benché senza dubbio «piccole» esse non siano. Perché il cinema di un autore come Tarkovskij non è narrativa filmata, è innanzitutto un’arte visiva che si dispiega nel tempo e come tale dunque va trattata. Poi è anche altro: è suono ed è sì, narrazione. Ma, innanzitutto, è musica d’immagini, come ben intuì il compositore Luigi Nono quando definì i suoi film «composizioni visive». Quanto segue è dunque estraneo alla diffusa opinione secondo cui analizzare un film significa stendere un commentario della sua componente narrativa: il soggetto, la storia, la trama, prescindendo totalmente da tutto ciò che è la forma cinematografica. Né può essere diversamente essendo la poetica di Tarkovskij del tutto estranea, anzi antitetica alla dominanza culturale che ha universalmente assunto il dogma del montaggio invisibile, tipico del cinema classico statunitense, 10
secondo cui tutto ciò che è lo specifico cinematografico deve essere quanto più possibile trasparente alla percezione dello spettatore in modo da non disturbare lo scorrere della narrazione, l’unica realmente importante. Questa concezione è finalizzata ovviamente al confezionamento di un prodotto standardizzato in cui la specifica personalità dell’autore non ha nessuno spazio per esprimersi. Non a caso Tarkovskij notava che nel cinema hollywoodiano i film sembrano montati tutti dalla stessa persona2, e non a caso era altrove che egli guardava nella ricerca dei suoi Maestri. «Nell’arte», scrisse nella sua principale opera teorica, «il pensiero non esiste al di fuori della sua espressione in immagini»3. È nel «pensiero per immagini», non nella strutturazione drammaturgica, che si manifesta dunque la personalità creativa dell’autore e questa affermazione, valida sempre, lo è immensamente in un autore come Tarkovskij, in cui le specificità del cinema, ben lontane dall’essere «invisibili», hanno anzi particolare evidenza e spessore. Pensiamo ad esempio a certe sequenze oniriche dei suoi film, in cui proprio ciò «che è impossibile realizzare con qualsiasi altro mezzo artistico» balza in primo piano. E poi, perché da un certo film in poi proprio in ciò che solo col cinema si può realizzare, ovvero nella concezione dello spazio filmico, del tempo, della luce, del colore, tutto improvvisamente cambia? Cosa è accaduto nel suo porsi di fronte al mondo che si è tradotto in un così vasto mutamento nel suo modo di creare un film, cioè di comporre le immagini, di muovere la macchina da presa, di dar forma al ritmo nell’inquadratura? Ecco le domande che l’approccio tradizionale lascia senza risposta. Ed è invece anche e soprattutto attraverso queste cose che un regista come Tarkovskij parla allo spettatore, al punto che non si può pretendere di capire Tarkovskij prescindendo da esse, perché in esse sta il cuore del suo cinema: in ciò che si può fare solo col cinema.
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Un grato e doveroso ringraziamento va a Tiziano Sozzi nella cui vasta videoteca ho trovato prezioso materiale che non avrei altrimenti potuto reperire, a Maurizio Pallante che mi ha sostenuto in questa ricerca pur essendo l’argomento di essa periferico rispetto ai suoi interessi prevalenti, a Norman Mozzato che mi ha proficuamente messo a disposizione il suo tempo e la sua personale conoscenza del maestro russo, a Maria Grazia Ferrario che ha sottoposto a paziente revisione l’intero dattiloscritto, ad Antonella Cecconi per l’ulteriore verifica dell’ultimo capitolo, e al gatto Agostino, la cui morbida presenza mi ha tenuto compagnia durante le lunghe ore dedicate alla revisione del testo. Un ringraziamento malinconicamente postumo va poi a Guido Aristarco e Giuseppe Gigliozzi che un ventennio fa, quando iniziai e poi inopportunamente interruppi questa ricerca, mi incoraggiarono, e a Roman Vlad che di essa pubblicò i primi, ancora parziali, risultati. 1
A. Tarkovskij, Martirologio. Diari, Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij, Firenze 2014, p. 90. 2 A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano 1988, p. 115. 3 Ivi, p. 53. Egli deriva il concetto di «immagine» dal pensiero di V. Ivànov (v. ivi, p. 98).
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1. Il metodo
L’identità di forma e contenuto Il nostro punto di partenza teorico sarà l’idea, che dobbiamo a Luigi Pareyson, secondo cui il contenuto di un’opera d’arte si identifica con la sua forma o, come si suol dire, con lo stile. La creazione artistica, secondo Pareyson, consiste nel realizzare forme; come ogni altra attività dell’uomo del resto, poiché anche una nave, un edificio, un trattato di algebra e ogni altra opera umana sono caratterizzate dal possedere una forma, con la differenza però che nell’arte la forma non è subordinata a un fine esterno, pratico o speculativo, ma è fine a sé stessa. Nell’arte formare è il fine, mentre in ogni altra attività è il mezzo. «L’operazione artistica», scrive Pareyson, «è un processo di invenzione e produzione esercitato […] perseguendo unicamente la forma per sé stessa: l’arte è pura formatività»1. Premesso ciò, il contenuto dell’arte è «la persona stessa dell’artista», non tanto in senso autobiografico, quanto nel senso che egli esprime nella sua opera tutta la sua interiorità, «cioè la sua concreta esperienza, la sua vita interiore, la sua irripetibile spiritualità, la sua reazione personale all’ambiente storico in cui vive, i suoi pensieri, costumi, sentimenti, ideali, credenze e aspirazioni»2, ovvero l’insieme di tutto ciò che concorre a formare il suo modello mentale del mondo e della propria posizione in esso. L’artista dunque è colui che traduce l’insieme «del proprio modo di pensare vivere sentire, del proprio modo di interpretare 13
la realtà e di atteggiarsi di fronte alla vita» in un suo specifico, unico, irripetibile modo di formare, quell’unico che può avere chi pensa vive sente in quella maniera, chi ha quella visione del mondo e ha quel costume di vita; e se pensasse vivesse sentisse altrimenti, formerebbe diversamente, non solo nel senso che, com’è probabile, figurerebbe altre cose, e sceglierebbe altri temi, ma soprattutto nel senso che diverso sarebbe il suo modo di formare. […] Fra la spiritualità dell’artista e il suo modo di formare v’è un vincolo così stretto e una corrispondenza così precisa, che l’uno dei due termini non può essere senza l’altro, e variare l’uno significa necessariamente anche variare l’altro. […] In questo modo di formare è presente tutta la spiritualità dell’artista, nel senso che questa, una volta che si è posta sotto il segno della formatività, esige il suo modo di formare, anzi si fa, essa stessa, quel determinato modo di formare. È dunque il modo di formare, cioè lo «stile», quello che trascina nell’arte l’intera vita spirituale dell’artista.3
Esiste pertanto una corrispondenza precisa fra una certa visione del mondo e un certo «stile» o «modo di formare», poiché questo viene da quella nel momento in cui essa si esprime attraverso la creazione artistica. Ciò è vero «tanto per i singoli artisti quanto per interi periodi storici», al punto che «si può dire che, nell’arte, una determinata spiritualità è il suo proprio stile»4 e che «una conversione nell’intera vita spirituale dell’artista porta con sé l’impulso a nuove ricerche di stile […]: vita che reclama la sua forma d’arte, e arte che risponde alla sua forma di vita»5. Forma e contenuto dell’opera d’arte non sono dunque due cose distinte, essendo l’attività artistica un processo in cui l’interiorità dell’artista (con la quale si può identificare il contenuto) si fa modo di formare. E se una certa interiorità si fa generatrice di un ben definito modo di formare e di esso soltanto, giungendo al compimento di una certa forma e di essa soltanto, allora colui che si trova di fronte all’opera d’arte compiuta, facendo a ritroso questo percorso può risalire al contenuto dell’opera stessa, ovvero a quella interiorità da cui essa è nata e che essa esprime. Dalla forma compiuta risalirà al processo formativo (che nell’arte possiamo considerare sinonimo di processo creativo) di cui essa è il risultato e infine 14
all’interiorità che si è tradotta in quel processo. Questo è il percorso che seguiremo nei prossimi capitoli.
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La diversità fra soggetto e contenuto Una conseguenza di quanto si è detto è che il contenuto di un’opera d’arte è cosa ben diversa dal soggetto (o tema o argomento)6 Quest’ultimo, nel cinema, può essere identificato con la componente narrativa, ovvero col soggetto propriamente detto del film o con la sua sceneggiatura, mentre il contenuto è il modo in cui il soggetto è tradotto in una forma cinematografica. Il soggetto può naturalmente essere strettamente collegato al contenuto, anzi scelto in base a quest’ultimo, poiché ben si adatta a esser tradotto in quel modo di formare, a generarlo. Ma può anche essere assolutamente indipendente dal contenuto, «accolto come mero pretesto per la formazione di un’opera, e l’artista vi partecipa così poco che non si cura per nulla di far sì che la trattazione sia adeguata all’argomento»7. Il creatore di forme (cinematografiche) di cui ci stiamo occupando, Andrej Tarkovskij, è certamente più vicino al primo caso che al secondo; in Scolpire il tempo scrive: La vera immagine artistica è sempre costituita dall’unità organica dell’idea e della forma. Invece la forma senza l’idea, oppure l’idea senza la forma, la distruggono e la conducono fuori dai confini dell’arte.8
Tanto è vero che quando è partito da soggetti non suoi, quali sono state le opere letterarie di Bogomolov, Lem e dei fratelli Strugatskij, li ha preventivamente «piegati» alle proprie esigenze formative, interiorizzando l’azione o inserendo situazioni, come il prologo sulla Terra in Solaris, che consentissero il dispiegarsi di quelle forme tipiche della sua poetica figurativa. Queste ultime considerazioni ci aiutano a capire alcune cose sulla relazione esistente fra un film e l’opera letteraria da cui eventualmente può essere tratto il suo soggetto, argomento su 16
cui è opportuno fare una breve digressione. A questo proposito scrive Antonioni: Quando si distacca una storia dalle parole che la esprimono, che la fanno racconto compiuto in sé artisticamente, che cosa rimane? Rimane una vicenda che equivale a un fatto di cronaca letto sul giornale, al racconto di un amico, a un avvenimento al quale abbiamo avuto occasione di assistere, a un parto della nostra fantasia. Questo è il nuovo punto di partenza. Si tratta poi di svolgere, plasmare, articolare la materia tornata grezza in un altro linguaggio, con tutte le conseguenze che il fatto comporta. Anzi a questo punto il testo originario può addirittura intralciare. […] Il cambiamento di linguaggio porta inevitabilmente a modifiche sostanziali.9
Si vede dunque come sia privo di senso ogni confronto fra un film e l’opera letteraria da cui eventualmente possa esserne stato tratto il soggetto, non meno di come è privo di senso confrontare un treno e una nave: entrambi sono mezzi di trasporto così come un romanzo e un film sono entrambi opere d’arte, ma l’analogia si ferma qui perché l’opera letteraria e quella cinematografica si esprimono secondo mezzi linguistici del tutto diversi e reciprocamente incommensurabili. Solo nel malcostume di considerare il cinema come semplice letteratura filmata può ricercarsi la causa di un simile, indifendibile quanto frequente, modo di fare. Il confronto può avvenire al più fra i soggetti (secondo la definizione di Pareyson) del romanzo e del film, con tutti i limiti del caso, non fra le opere nella loro totalità e compiutezza.
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Un modello a tre livelli dell’opera cinematografica Prima di immergerci nell’analisi dei film di Tarkovskij dobbiamo avere ben chiaro cos’è un film, cioè quale ne è la struttura. Partiamo dalle idee di Tarkovskij stesso, il quale scrive: Nell’intero film nessuna delle sue componenti può avere un significato autonomo: è il film che costituisce un’opera d’arte. Ed è in senso del tutto convenzionale che possiamo parlare delle sue componenti, solamente per fare delle considerazioni teoriche scomponendolo artificialmente nei suoi elementi costitutivi.10
Poiché scomporre il film nelle sue componenti costitutive, cioè «smontare il giocattolo» per usare un’espressione dello stesso Tarkovskij, è esattamente ciò che dovremo fare nelle pagine seguenti, è importante aver ben presente, a monte di tutto, questo concetto: che ciò ha senso solo se poi saremo in grado di ricomporlo e di vedere non solo la somma delle parti, ma anche la relazione organica fra esse. Nel caso di Tarkovskij questa scomposizione e analisi separata delle singole componenti ha senso perché, come vedremo, l’evoluzione cui è andata soggetta ciascuna di esse è sì parte di un mutamento formale complessivo che investe la concezione del film nella sua totalità, ma questo processo si svolge per così dire per piani paralleli. Tarkovskij in altre parole tratta le diverse componenti del film un po’ come le voci di una polifonia antica, che scorrono l’una sull’altra in perfetta sintonia, ma senza toccarsi. Ecco perché l’analisi separata di esse, fermo restando quanto già detto, nel suo caso può funzionare. Chiarito ciò, poniamoci l’indispensabile domanda preliminare: com’è fatto un film? E cominciamo col dire che la sua componente peculiare è quella visiva: possiamo realizzare un film privo di componente sonora (l’intera storia del cinema muto lo dimostra), privo di componente narrativa (pensiamo a Il 18
pianeta azzurro di Franco Piavoli o a Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio), ma non possiamo realizzare un film privo di componente visiva, perché allora diventa un’altra cosa, un radiodramma per esempio. Ecco perché mi concentrerò nel seguito proprio sull’analisi della componente visiva, di cui cercherò adesso di formulare un modello. A tale scopo si potrà pensarla strutturata su tre sovrapposti livelli, caratterizzati da unità sintattiche di ampiezza temporale progressivamente crescente. Vediamo quali. Il primo e più microscopico (che chiamerò nel seguito primo livello) è costituito da quelle singole immagini cui è possibile attribuire valore di entità espressive autonome prescindendo dal continuum temporale che le contiene. Le chiameremo immagini significanti. Consideriamo un personaggio che sta guardando fuori dalla finestra; la macchina da presa lo inquadra in primo piano, poi inizia una panoramica che si conclude con l’immagine del paesaggio che si vede all’esterno. Il primo piano del personaggio, la cui espressione rivelerà presumibilmente un certo stato d’animo, è un’immagine significante (se fosse una fotografia sarebbe un ritratto), l’immagine del paesaggio al di là della finestra è un’altra (un campo velato dalla nebbia, una desolata periferia cittadina, un susseguirsi interminabile di dune, un bosco illuminato dalla luce lunare…). Se le fermassimo, isolandole dal fluire del tempo, se le trasformassimo in fotografie, esse continuerebbero a dirci qualcosa. Tutte le immagini intermedie, in cui la macchina da presa si muove dall’immagine iniziale a quella finale, sono invece immagini di transizione; non sono importanti in quanto tali ma solo se immerse nel fluire del tempo. Esse hanno il solo compito di stabilire una relazione spaziotemporale fra le immagini iniziale e finale11. L’insieme di immagine iniziale, panoramica e immagine finale è un esempio di unità sintattica di secondo livello, il piano o inquadratura. Possiamo in generale definirlo come una parte del film girata in continuità, cioè senza alcuno stacco di 19
montaggio. Questa è l’unità sintattica minima in cui entra in gioco il tempo. È all’interno del piano che si manifesta quella peculiarità dell’opera cinematografica, fondamentale in Tarkovskij, che è il movimento della macchina da presa, o movimento di macchina. Parliamone un po’. È importante innanzitutto distinguere fra movimenti di macchina subordinati e indipendenti. Sono subordinati quelli aventi il solo scopo di seguire gli spostamenti dei personaggi e, in genere, l’azione che si svolge davanti alla macchina da presa. Definirò invece movimenti indipendenti quelli in cui la macchina da presa, per così dire, se ne va per conto suo assumendo un ruolo da protagonista nella struttura del piano. Diciamolo meglio: un movimento di macchina è indipendente in quanto è svincolato dalla rappresentazione di una azione esteriore, ovvero da funzioni narrative. Esso può anche, simultaneamente, averne, ma si presenta soprattutto sotto altra specie; la sua forza espressiva risiede altrove, risiede in sé stesso. In altre parole un movimento indipendente, funzionale o meno che sia alla narrazione, si presenta come componente autonomo della forma avendo con ciò il compito di evocare visivamente una dimensione interiore. E se la componente narrativa fosse tutt’altra, esso conserverebbe la sua efficacia in quanto tale, per ciò che è, ovvero come espressione peculiare del particolare modo di formare dell’autore. In un movimento di macchina indipendente è la macchina da presa a parlare in prima persona. Un piano può essere costituito da una singola immagine e durare pochi secondi, oppure può assumere una struttura anche notevolmente complessa e durare alcuni minuti, divenendo in tal caso ciò che usualmente si chiama un long take o piano lungo. Il piano è a sua volta inscritto in un’unità sintattica più ampia che chiameremo sequenza e che costituirà il nostro terzo livello. Possiamo definirla come un insieme di piani temporalmente contigui caratterizzati narrativamente da 20
continuità logica dell’azione, indipendentemente dalla presenza di unità di tempo e luogo. Così, ad esempio, nello Specchio, l’incontro della madre col medico, la prima poesia di Arsenij Tarkovskij e l’incendio del fienile costituiscono tre sequenze distinte perché fra esse, pur essendoci continuità di tempo e luogo (la casa e gli immediati dintorni), non c’è continuità di azione (sono tre episodi distinti fra i quali non c’è un rapporto causale). Al contrario, l’arrivo della madre in tipografia e la ricerca del refuso costituiscono un’unica sequenza, pur svolgendosi l’azione in più luoghi (la strada e vari locali dell’edificio). La sequenza è caratterizzata dall’insieme delle relazioni che si stabiliscono tra i piani, ovvero dal montaggio, il quale determina la macrostruttura temporale dell’opera12. Può accadere tuttavia che una sequenza sia composta da un unico piano, il quale sarà in questo caso un piano lungo particolarmente sviluppato, nella durata, nell’articolazione interna o in entrambe. Questo si chiama piano sequenza. In generale è consuetudine usare questo termine anche quando si è di fronte a piani lunghi con le caratteristiche che ho detto sopra ma che fanno parte di sequenze contenenti più piani. Parlerò nel seguito di piano sequenza ogni volta che saremo di fronte a un piano lungo che ha un ruolo dominante (sia come durata che come funzione) nell’ambito della sequenza. Una sequenza può infine essere internamente strutturata in scene. Intenderò per scena una porzione di sequenza caratterizzata da unità di luogo e tempo, oltre che di azione. Naturalmente esistono autori che sentono più congeniale alla propria poetica l’uno o l’altro di tali livelli e ne fanno il cardine delle proprie opere. Ad esempio Franco Piavoli in film come Nostos o Il pianeta azzurro concentra gran parte dei valori formali ed espressivi all’interno del primo livello, dunque nell’immagine, nel suo esistere e significare in quanto tale. Ėjzenštejn (e insieme a lui tutti gli autori russi che si riconobbero nella teoria del cosiddetto «montaggio sovrano»), 21
in film come Ottobre o La corazzata Potëmkin riduce il piano a una particella elementare che acquista valore espressivo solo nella sua relazione con gli altri piani, essendo in tal modo tutta la vitalità espressiva concentrata sul terzo livello. Anghelopoulos è invece un autore che concentra la propria poetica pressoché interamente sul secondo livello, essendo il suo un cinema di piani sequenza. E ci sono infine autori che lavorano simultaneamente su tutti i livelli linguistici come Orson Welles in Citizen Kane. Notiamo che in questo modello siamo di fronte a una struttura a scatole cinesi: l’immagine è interna al piano, che è a sua volta interno alla sequenza. Tuttavia è bene aver chiaro che un modello è solo un’approssimazione limitata e non rende conto di tutti gli aspetti della realtà (nel nostro caso di tutte le potenzialità del linguaggio cinematografico). Come per ogni altro modello, anche per questo esistono dei limiti di applicabilità, come dire che esistono delle opere cinematografiche per analizzare le quali esso non va bene. Ad esempio nel film La recita di Anghelopoulos si hanno dei salti temporali all’interno di uno stesso piano «segnati» da un movimento di macchina, non da un taglio di montaggio. Il piano non è più dunque un’unità sintattica interna alla sequenza, ma sta a cavallo fra due sequenze. Un altro caso anomalo è quello di Arca russa di Sokurov, film realizzato in un unico piano della durata di un’ora e mezza e dunque costruito interamente sul secondo livello. Esso è dunque per ovvie ragioni privo del terzo livello, ma anche del primo in realtà, essendo la componente figurativa caratterizzata dinamicamente da un susseguirsi continuativo di immagini di transizione in cui raramente si riuscirebbe a isolare una qualche immagine significante. Inoltre in esso il rapporto fra piano e sequenza è invertito rispetto al nostro modello perché le sequenze che è possibile individuare nel film sono contenute nel piano e non viceversa. 22
La struttura a scatole cinesi del modello sopra descritto si applica comunque bene a Tarkovskij, il che ci consente, come dicevo, di esaminare ciascuno dei tre livelli separatamente, salvo restando, naturalmente, l’obbligo di «rimontare il giocattolo».
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Il cinema come arte del tempo Poiché, secondo Tarkovskij, il tempo è la materia prima del cinema, mi è sembrato che il giusto punto di partenza di una corretta analisi sia l’esame della struttura temporale dei film. E mi è sembrato valido a tale scopo un approccio di tipo quantitativo, non diversamente da quanto già da tempo avviene in ambito letterario13. Una cosa però è bene premettere prima di inoltrarci su questa strada, perché se ci avventuriamo a percorrerla senza porre attenzione al reale significato di quanto stiamo facendo, rischiamo di travisarne i risultati, per oggettivi che siano. Nel cinema la durata cronometrica di un piano, e di un evento in genere, in sé non significa nulla. Scrive a questo proposito Balázs: «Il tempo come esperienza vissuta non può essere misurato con l’orologio nelle creazioni artistiche di genere narrativo o drammatico»14, e più specificamente a proposito del cinema: «Il ritmo interiore di un’inquadratura è indipendente dalla lunghezza in metri e dal numero di secondi della durata»15. Egli si trova così in perfetto accordo con le idee sulla natura del tempo cinematografico espresse qualche decennio dopo negli scritti teorici di Tarkovskij. È allora opportuno, per metterci al riparo da interpretazioni sbagliate di quanto stiamo per fare, soffermarci preliminarmente proprio sulle idee di Tarkovskij a proposito del tempo cinematografico, perché esse ne costituiscono l’imprescindibile chiave di lettura. Registrare il tempo Per Tarkovskij il cinema è innanzitutto «il mezzo per registrare direttamente il tempo […], la realtà del tempo […] nelle sue forme e manifestazioni fattuali»16. Da ciò l’idea che il lavoro di un autore cinematografico sia convenzionalmente paragonabile a una «scultura nel tempo», ovvero che 24
analogamente a come lo scultore prende un blocco di marmo e, guidato dalla visione interiore della sua futura opera, toglie tutto ciò che è superfluo, così il cineasta dal «blocco del tempo», che abbraccia l’enorme e inarticolata somma dei fatti della vita, taglia fuori e getta via tutto ciò che non serve, lasciando solo ciò che deve divenire un elemento del futuro film.17
Il piano come sede del ritmo «Il principale elemento formale nel cinema» secondo Tarkovskij è «il ritmo del film» che «nasce dal carattere del tempo che scorre dentro l’inquadratura»18. E poiché, come si era detto, la componente peculiare di un’opera cinematografica è quella visiva, possiamo ora più compiutamente dire, con Tarkovskij, che è il fluire del tempo all’interno di essa ciò che ne realizza la natura cinematografica, al punto che «ci si può facilmente immaginare un film senza attori, senza musica, senza scene e persino senza montaggio, ma non ci si può immaginare un’opera cinematografica senza la sensazione dello scorrere del tempo all’interno dell’inquadratura»19. Se la sede naturale del tempo cinematografico è l’interno del piano, ne consegue che «la saldatura delle inquadrature fra loro ne organizza la struttura, ma non crea, come si è soliti credere, il ritmo del film» il quale «viene determinato non dalla lunghezza dei brani montati, bensì dal grado di tensione del tempo che scorre all’interno di essi», tanto da poter affermare che «il tempo nel film scorre non grazie alle saldature, bensì nonostante queste»20. Questa consistenza del tempo che scorre nell’inquadratura, la sua concentrazione o, al contrario, la sua «rarefazione» la chiameremo, per esempio, pressione del tempo nell’inquadratura. Allora il montaggio può essere definito un metodo di collegamento dei singoli brani tenendo conto della pressione del tempo all’interno di essi.21
Tutto ciò equivale a dire che l’atto formativo fondamentale del film avviene durante le riprese, non al tavolo di montaggio. Tarkovskij si situa così su posizioni teoriche antitetiche rispetto a quelle del cosiddetto «montaggio sovrano», quali sono 25
espresse ad esempio da Ėjzenštejn, secondo cui l’inquadratura è una cellula di montaggio. Esattamente come le cellule danno origine dividendosi a un fenomeno d’altro ordine, l’organismo o embrione, così all’altra estremità del balzo dialettico dall’inquadratura, troviamo il montaggio. Ma che cosa dunque caratterizza il montaggio e quindi la sua cellula, o inquadratura? Lo scontro. Il conflitto di due pezzi opposti l’uno all’altro. […] l’idea che dallo scontro di due fattori dati nasce un concetto.22
Subordinazione del terzo livello al secondo Qual è invece il ruolo che Tarkovskij attribuisce al montaggio nel cinema? «Il montaggio» egli scrive «esiste in qualsiasi arte, come conseguenza della necessità di una scelta e di un collegamento, operati dall’artista, senza i quali non può esistere nessuna arte. Tuttavia la caratteristica del montaggio cinematografico consiste nel fatto che esso congiunge il tempo impresso nei singoli brani girati»23. È proprio il tempo, impresso nell’inquadratura, che detta al regista questo o quel criterio di montaggio, mentre, come si suol dire, «non si montano», ossia si collegano male insieme, quei brani nei quali è fissata una forma di esistenza del tempo radicalmente diversa […] come non si possono congiungere tra loro due tubi di differente diametro.24
Compito del montaggio è, in altre parole, quello di comporre le inquadrature già riempite di tempo organizzando la struttura vivente e unitaria del film, dentro i vasi sanguigni del quale pulsa un tempo di varia pressione ritmica che gli dà vita. […] Montare correttamente un film significa non disturbare l’unione organica delle singole scene e inquadrature poiché esse, per così dire, si montano anticipatamente da sé, dato che dentro di loro agisce la legge in base alla quale esse vengono unite e che occorre soltanto comprendere e avvertire effettuando, in obbedienza a essa, la giunta o il taglio di questo o quel fotogramma.25
Insomma, per Tarkovskij ciò che ho chiamato il terzo livello è interamente subordinato al secondo, è all’interno di quest’ultimo che nasce la forma significante dell’opera, mentre le scelte di montaggio sono pura conseguenza del contenuto dei 26
piani. Funzione del montaggio Tarkovskij però non nega in maniera assoluta una funzione creativa al montaggio: «Il procedimento di articolazione, il montaggio, turba il fluire del tempo, lo interrompe, e contemporaneamente genera una nuova qualità di esso. La deformazione del tempo è un procedimento per dare ad esso espressione ritmica», ma tenendo sempre ben presente quanto detto, ovvero che «la congiunzione di inquadrature di tensione temporale deliberatamente diversa deve essere dettata non da considerazioni casuali, ma da una necessità interiore, deve risultare organica al materiale nel suo complesso»26. Anche «la congiunzione di brani non equivalenti in senso temporale» dunque può avere un senso. È vero che essa «conduce inevitabilmente a una rottura del ritmo. Tale rottura, tuttavia, se è preparata dalla vita interiore delle inquadrature che vengono montate insieme, può divenire indispensabile per articolare il necessario disegno ritmico»27. In altre parole la possibilità di contrasti, soluzioni di continuità temporali, punti di singolarità, non viene esclusa da Tarkovskij, ma solo se essi sono «preparati» all’interno del secondo livello. Come vedremo Tarkovskij attuò in più d’una occasione tali principi. Infine, il fatto che la struttura del montaggio sia determinata dalla forma del tempo contenuta nel secondo livello, implica che il terzo livello porti in sé l’impronta del secondo. Infatti, poiché il sentimento del tempo è la percezione della vita propria del regista e questa o quella soluzione di montaggio è dettata dalle pressioni ritmiche nei brani che vengono montati insieme, il montaggio rivela la grafia di questo o quel regista. Attraverso il montaggio si esprime l’atteggiamento del regista nei confronti dell’idea stessa del film, attraverso il montaggio la visione del mondo del regista riceve la sua incarnazione definitiva.28
Il piano sequenza come scelta etica Ciò che mi preme a questo punto mettere in evidenza è 27
come le idee di Tarkovskij sul ruolo del montaggio nell’opera cinematografica nascano non da asettiche considerazioni estetiche, ma da un preciso atteggiamento etico di fronte all’attività artistica: «L’artista esprime la Verità attraverso la figura della realtà. La ricerca dell’assoluto è la tendenza motrice dell’evoluzione dell’umanità, dunque dell’arte. Per me il concetto di realismo è legato analogamente a questa fondamentale tendenza»29. Il cinema si presta particolarmente al raggiungimento di questi obiettivi perché «il tempo fissato sulla pellicola acquista la forma visibile del reale. Un fenomeno fissato sulla pellicola sarà sempre immancabilmente percepito nella sua immutabile integrità»30. A causa di questa sua natura l’immagine cinematografica «è chiamata ad esprimere la vita stessa e non le nozioni e le concezioni dell’autore sulla vita.»31 Il montaggio, quando diviene intervento artificiale, arbitrio intellettualistico del regista, si sovrappone, offuscandolo, al libero fluire della «Verità» attraverso il tempo impresso sulla pellicola. È questa la principale critica che Tarkovskij rivolge a Ėjzenštejn, il quale quando «in Ottobre paragona Kerenskij a un tacchino […] lancia un attacco massiccio contro lo spettatore, imponendogli il proprio atteggiamento rispetto ai fatti»32. Ad esempio La stessa opera di Tarkovskij offre, ovviamente, vari casi di pratica realizzazione delle sue idee teoriche. Consideriamo ad esempio uno dei rari momenti «di azione» nell’Infanzia di Ivan, il bombardamento, interamente costruito su un puro montaggio di piani molto brevi (durata media: 6 secondi) in cui il dinamismo interno ai piani, dominati dall’incalzare delle esplosioni o, usando la terminologia di Tarkovskij, la forte pressione temporale interna a essi, determina il loro rapido succedersi, cioè il ritmo sostenuto del montaggio. Un ritmo incalzante sul terzo livello dunque, ma indotto da una forte tensione temporale interna ai piani. Analoga relazione fra 28
pressione del tempo interna al piano e sua durata si ha in quel lieve accenno del Tarkovskij futuro che è il piano conclusivo della sequenza dove, cessato l’infierire delle bombe, tutto si quieta in una totale immobilità. L’immagine si fissa a lungo, quasi si congela, sul lento inclinarsi di una croce metallica dopo l’ultima esplosione e poi sul progressivo diradarsi del fumo e il simultaneo schiarirsi della luce mentre tutt’attorno si fa silenzio. La pressione del tempo adesso è pressoché nulla, il tempo interno al piano si è disteso, dilatato. E, in conseguenza di ciò, accade che questo sia anche il piano più lungo della sequenza (29 secondi). Prendiamo adesso alcuni momenti di Andrej Rublëv. Nell’episodio La campana la sequenza della preparazione della fonditura è tale che l’equivalenza fra piani lunghi e ritmo lento e fra piani brevi e ritmo veloce risulta invece invertita. La sequenza comincia con due piani lunghi, entrambi corrispondenti alla fase di massima concitazione, dove vediamo Boriska impegnato a dirigere gli operai che preparano l’impalcatura. Dà ordini, si irrita, fa anche frustare un giovane operaio. Ma Boriska è stanco e infine si apparta. È a questo punto che si accorge di Andrej, il quale prima lo osserva con attenzione, poi si distoglie e si immerge in una sua visione interiore mentre Boriska, ormai immobile e sfinito, si addormenta. Ed è durante il graduale sfumare della concitazione con l’esaurirsi delle energie di Boriska che la relazione fra i personaggi si trasferisce sul terzo livello con una serie di controcampi di breve durata fra i due, senza che con ciò venga meno l’allentarsi della pressione del tempo. E, sempre in Andrej Rublëv, si potrebbe infine citare la sequenza conclusiva in cui lo scorrere della macchina da presa sui dipinti assume una cadenza lenta e ieratica nonostante la durata media dei piani (15 secondi) sia relativamente bassa rispetto alla media dell’intero film. Tuttavia 29
Nel seguito tuttavia sceglierò, come ho accennato sopra, una via in apparente contraddizione con tutto ciò che si è detto finora perché prenderò come punto di partenza proprio un rilevamento della durata cronometrica delle inquadrature. Che senso ha una simile scelta? Certamente un ponte fra essa e le idee di Tarkovskij è costituito dal suo discorso sul fatto che la forma del tempo contenuta nel secondo livello, determinando la struttura del terzo, emerge in esso imprimendovi la sua impronta. Ma si può soprattutto aggiungere che quando una tale analisi rivela la presenza di certe regolarità, ovvero il mantenersi o il mutare secondo un certo ordine di alcune caratteristiche, allora esse non possono dirsi casuali e dobbiamo pensare che siano funzionali alla realizzazione di scelte formali significanti, quali quelle determinate ad esempio da un mutamento di poetica, di cui l’andamento dei parametri quantitativi che stiamo rilevando è il sintomo esteriore. Questa analisi preliminare in altre parole ci indicherà la direzione in cui incamminarci nelle fasi successive del nostro lavoro.
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Il simbolo proibito Un ultimo punto è bene chiarire preliminarmente. Tarkovskij si espresse in varie occasioni sulla sua concezione naturalistica del cinema33 come memoria del fluire della vita nel tempo, così come essa è. E dunque prese le distanze da ogni interpretazione intellettualistica in chiave di simboli, allegorie e quant’altro. Nei Diari, il 10 febbraio 1973 scrive: Dobbiamo tendere alla naturalezza. Nel modo più semplice e più profondo, tanto più è semplice, tanto più è profondo. Tutto dev’essere semplice, libero, naturale, senza false tensioni. Questo è l’ideale.34
Che si possa essere, in generale, d’accordo o no con questa sua convinzione, essa rimane la corretta chiave di lettura per la comprensione delle sue opere. A proposito della costante presenza degli elementi naturali nei suoi film, ad esempio, scrisse: Di continuo mi domandano con grande passione cosa significhi, ad esempio, nei miei film la pioggia. Perché essa ricorre in ogni film, perché si ripetono le immagini del vento, del fuoco, dell’acqua? Io rimango imbarazzato davanti a tali domande… Si potrebbe dire che le piogge sono una caratteristica della natura in mezzo alla quale sono cresciuto: in Russia vi sono piogge lunghe, malinconiche, incessanti. […] È possibile considerare la pioggia soltanto come cattivo tempo, mentre io utilizzo la pioggia per creare un’atmosfera esteticamente elaborata nella quale viene immersa l’azione del film. Tuttavia ciò non significa assolutamente che la natura nei miei film sia chiamata a simboleggiare qualcosa, Dio me ne scampi!35
E a proposito dello Specchio: Dopo che gli spettatori ebbero visto Lo specchio la cosa più difficile risultò spiegar loro che nel film non v’era alcun altro significato nascosto e cifrato eccetto il desiderio di dire la verità. Tali mie dichiarazioni sovente hanno suscitato incredulità oppure perfino delusione. Per taluni, evidentemente, questo era troppo poco: essi cercavano dei simboli nascosti, un significato cifrato, dei segreti perché non erano abituati ad avere a che fare con una poetica cinematografica basata sull’immagine.36
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E a proposito di Stalker: Mi hanno sovente domandato che cos’è la Zona, che cosa simboleggia, ed hanno avanzato le interpretazioni più impensabili. Io cado in uno stato di rabbia e di disperazione quando sento domande del genere. La Zona, come ogni altra cosa nei miei film, non simboleggia nulla: la Zona è la Zona, la Zona è la vita: attraversandola l’uomo o si spezza, o resiste. Se l’uomo resisterà dipende dal suo sentimento della propria dignità, dalla sua capacità di distinguere il fondamentale dal passeggero.37
E infine, a proposito dell’inquadratura conclusiva di Nostalghia: Pur riconoscendo che questa inquadratura manca di purezza cinematografica [perché «caratterizzata da una parziale metaforicità»], io spero che in essa non vi sia alcun simbolismo volgare: si tratta di una sintesi abbastanza complessa e non univoca che esprime figurativamente ciò che è accaduto al protagonista, ma che, ciononostante, non sta a significare nulla d’altro, di estraneo, che abbisogni di decifrazione.38
Tuttavia è proprio la chiave di lettura del simbolo, dell’allusione intellettuale la più praticata dalla critica, la quale si ostina a ignorare le indicazioni che Tarkovskij stesso diede. Facciamo un esempio: il dono della mela durante l’attesa dell’esame in Il rullo compressore e il violino. Achille Frezzato lo interpreta nel seguente modo: A un certo punto del racconto, una mela viene colta in primo piano: è il regalo che una bambina fa a Saša, il piccolo protagonista del racconto, uno studente di violino che poco dopo deve affrontare l’esame. Egli assaggia, prima della prova, prima di conoscere sé stesso, il «frutto della sapienza» ed il suo ardire viene punito: non supererà l’esame, uscirà sconsolato dalle stanze ordinate, lucide, imponenti in cui ha sede la scienza. Come un minuscolo Adamo abbattuto e deluso, si aggira per la città, finché…39
… eccetera. Peccato che sia il bambino Saša a regalare la mela alla bambina e non viceversa, e che sia quest’ultima a mangiarla (oltre tutto non prima bensì durante l’esame di Saša), il che mina alla base l’analogia biblica. Aggiungiamo poi che nella Genesi non si parla di mele ma soltanto, genericamente, 32
del «frutto dell’albero della conoscenza» e che, per di più, l’albero non è «della conoscenza» e basta, bensì «della conoscenza del bene e del male». La conoscenza cui allude la Genesi insomma non è da intendersi in senso intellettuale, bensì strettamente etico. Ma cosa c’entra tutto ciò con l’esame di violino del piccolo Saša? Proviamo invece a interpretare la scena in chiave naturalistica e, soprattutto, in sintonia con l’idea che siamo di fronte a un cinema della semplicità, tanto più in questo caso, visto che, non dimentichiamolo, stiamo parlando di un film per l’infanzia. Cambiamo dunque completamente ottica, usciamo per un momento da ogni mal riposta seriosità e cominciamo a guardare la bambina con gli occhi del suo coetaneo. Molto attraente, vero? È proprio il suo tipo. E infatti Saša sembra davvero farci un pensierino: si dà un certo contegno, assume un’aria spigliata, sicura di sé. C’è un gioco di sguardi durante il quale Saša tira fuori come niente fosse la mitica mela, la lucida ben bene e l’appoggia accanto a sé sulla sedia. Al momento di alzarsi per entrare nella stanza dell’esame prende la mela e, passando accanto alla bambina, la lascia con la massima naturalezza accanto a lei. Rimasta sola, la bambina è perplessa; il senso del dono a lei è chiaro (da grande non farà il critico cinematografico) ma che fare? Accettare un regalo da un uomo, per di più sconosciuto, si sa, non sta bene, che direbbe la gente? E la bambina rimette con gesto deciso la mela sulla sedia poco prima occupata da Saša. Ma la tentazione è troppo forte; ben presto la mela solitaria calamita il suo sguardo. Nella stanza accanto intanto l’esame di Saša va male e lui ne esce poco dopo di tutt’altro umore. Passa accanto alla bambina senza neanche guardarla, non accorgendosi che lei lo segue intensamente con gli occhi e soprattutto non accorgendosi che la mela nel frattempo è stata mangiata, ovvero che la bambina aveva deciso di dirgli di sì. Il film infatti non è altro che la storia di quelle che per Saša sono due occasioni di vita perdute. Questa, con cui il film si apre, è la prima e il mancato appuntamento con il nuovo 33
amico Sergej, che chiude il film, è la seconda. Tutto qui. È una sorta di dramma narrato in levità e nulla più. I grandi temi della conoscenza e dei suoi limiti, insomma, saranno sfiorati solo dodici anni dopo, con Solaris; qui non ci sono ancora. E anche lì, attenzione, solo sfiorati. In realtà, in Solaris era ben altro a interessare Tarkovskij, come disse in Un poeta nel cinema: A differenza di Lem, autore del libro, non mi interessava tanto lo scontro col problema della conoscenza, lo scontro dell’intelletto dell’uomo sulla via della conoscenza, quanto il problema umano, psicologico, interiore. Era possibile per un uomo vivere in condizioni disumane e rimanere uomo?40
E fu questo che gli procurò le critiche dell’autore del romanzo, Stanislav Lem: Per me Solaris, in sostanza, è lo scisma tragico tra l’atto conoscitivo, concepito come curiosità interminabile ed inappagabile che condiziona il comportamento e l’attività, ed i soggetti inconsci, cioè i personaggi stessi, gli esseri mentalmente minuscoli e non adulti che compiono il vano sforzo di superare i propri limiti antropomorfici. Per dirla in breve, si tratta di un dramma gnoseologico, nel cui centro focale sta la tragicità dell’imperfezione dell’apparato umano conoscitivo. Tarkovskij, invece, mirava a punti ben diversi: per quanto ho capito, per lui il problema centrale, il problema della conoscenza, non era essenziale, e perciò ha posto la gravità sulla situazione morale, sulla rappresentazione del cosmo, concepito come luogo che rifiuta l’uomo, e della terra, come vero rifugio dell’uomo, rifugio che non si dovrebbe abbandonare. È un atteggiamento completamente diverso dal mio.41
E se il problema della conoscenza «non era essenziale» per il Tarkovskij pienamente maturo del 1972, volete che lo fosse per il giovane esordiente del 1960? Ma tutto ciò non significa che l’opera prima di Tarkovskij sia una favoletta da nulla42. Dietro l’apparente esilità del soggetto c’è in realtà il non meno grande tema della vita non vissuta, del tempo della vita che sfugge di mano. C’è un gesto di Saša che sembra proprio essere sfuggito a tutti i commentatori, distratti da immaginari frutti del peccato originale: dopo aver ricevuto dalla madre il niet a recarsi all’appuntamento con Sergej e aver visto fallire i suoi tentativi di mettersi in contatto 34
con lui, Saša si siede di fronte a uno specchio. Davanti a sé ha una sveglia che ha appena inutilmente suonato nell’ora del mancato appuntamento. Di fronte al vano scorrere meccanico di quel tempo della realtà che lo imprigiona e cui egli si sente estraneo, Saša gira la sveglia in modo da non vederne il quadrante prima di rifugiarsi ancora una volta nel mondo riflesso dallo specchio, ovvero nell’immaginazione: in un luogo fuori dal tempo o meglio in cui scorre un tempo diverso. È il momento in cui l’inquadratura passa da lui alla sua immagine riflessa, come era stato nel momento della sosta, anch’essa fuori dal tempo, davanti alla vetrina del negozio, poi interrotta bruscamente dall’immagine di un orologio che risucchia indietro Saša da quella soglia che lo aveva attratto. Un orologio, ovvero l’incedere del tempo rigido, meccanicamente scandito, della vita reale. L’immagine riflessa in altre parole è una sorta di antimondo, una mitica Citera in cui è possibile fermare la fuga del tempo quotidiano, ritrovare, sia pur fittiziamente, quell’armonia che la vita reale non consente; tuttavia anche in questo caso non è un simbolo, bensì una figurazione di qualcosa che sta attualmente accadendo sotto i nostri occhi. Teniamolo presente quando affronteremo un film apparentemente impervio, ma in fondo anch’esso semplice, come Lo specchio. Rimane da identificare il movente di cotanto furore simbolista da parte dei critici. Può forse aiutarci la seguente considerazione: un’entità utilizzata come simbolo è da interpretare secondo un significato convenzionale attribuitole a livello sociale e collettivamente riconosciuto; l’entità rappresentata in quanto tale, al contrario, contiene il proprio significato nella sua semplice esistenza. Il primo caso appartiene all’ambito delle convenzioni sociali, il secondo a quello della realtà o, se così preferiamo chiamarla, della natura43. L’interpretare ogni immagine come simbolo, pertanto, non è che un sottoprodotto della pretesa di dominanza del gruppo sociale sul mondo, al quale non viene riconosciuto un 35
valore in sé ma solo in funzione dei significati, dei valori convenzionali, cioè arbitrari, che la società gli attribuisce. Il dilagare di interpretazioni simboliste, insomma, non è altro che un’espressione della cultura del dominio44. È tuttavia pertinente citare a questo proposito anche quello che credo sia l’unico caso in cui Tarkovskij inserì qualcosa di simile a un cameo in uno dei suoi film, una stilizzazione del suo monogramma che appare in due momenti di Stalker: sul casco dell’agente motociclista durante la scena che prelude all’attraversamento del posto di blocco e poi sul pacchetto di sigarette che la moglie ha in mano all’inizio del suo monologo conclusivo. L’agente e la moglie, ovvero l’emanazione di un potere che si oppone allo Stalker e la donna che gli sta accanto. Luca Blanc interpreta questa ambivalenza affermando che «l’antagonista di Andrej Tarkovskij è lui stesso. Stalker è la metafora di un viaggio interiore, i nemici che incontreremo saranno dentro di noi»45. Può darsi. Potremmo essere effettivamente davanti a un’eccezione in cui Tarkovskij ha voluto inserire un significato per così dire «cifrato» in un elemento dell’immagine. Ma facciamo un altro esempio, cominciando con ciò a varcare la soglia che conduce dal profilmico (tutto ciò che è inerente alla messa in scena, dunque l’ambiente, i personaggi, la luce; tutto ciò insomma che sta davanti alla macchina da presa e che è oggetto delle riprese) al filmico (tutto ciò che è inerente ai tre livelli sintattici cinematografici, dunque il modo di comporre l’immagine, di muovere la macchina da presa, di mettere in relazione i piani fra loro) su cui si concentrerà d’ora in poi gran parte della nostra analisi. Stalker, dopo il prologo nel bar a macchina da presa fissa sui titoli di testa, comincia con tre carrellate: la prima in avanti, le altre due laterali in un unico piano, verso destra, poi verso sinistra. C’è chi ha interpretato questo inizio come una sorta di «segno della croce» cinematografico46 e per una volta voglio 36
citare in maniera non critica una tale interpretazione perché essa, se non vera, ha se non altro, come quella precedente di Luca Blanc, il carattere della verosimiglianza. Anche qui dunque occorre dire: può darsi. È verosimile che Tarkovskij in questi movimenti di macchina abbia voluto imprimere un gesto rituale, è coerente con quel dichiarato atteggiamento di ricerca del trascendente che sta alla base di Stalker. L’ipotesi del segno della croce cinematografico è ripresa da Luca Blanc che vede in esso «una benevola benedizione di questa famiglia disagiata e più in generale del focolare domestico, consueto punto di ritorno degli Ulisse tarkovskiani, come dimostra l’aura di sacralità che regna nella scena»47 e anche Norman Mozzato, quando gliene parlai, fece considerazioni molto simili: «Sì, è come un segno della croce» mi disse. «In effetti si può dire che il proponimento inconscio di Andrej lo fosse proprio, anche se questi riferimenti poi li troviamo noi, li reinventiamo; però in effetti ciò che lo muoveva era proprio questo, una spiritualità molto profonda, molto concreta, forte».48 Verosimile dunque, ma se poi tutto ciò è in realtà anche vero, se c’è in questa scelta formale un’intenzionalità di Tarkovskij nella direzione ipotizzata, nulla autorizza a dirlo. Perché infine credo che valga anche qui, al di là di ogni congettura destinata a rimanere tale, l’ammonimento che ci diede Mario Apollonio a proposito di Dante: «Perché dovremmo rintracciare prove di un deliberato proposito del poeta nei segni che innalza ai crocicchi del viaggio?»49. Il quale in fondo dice con ciò quanto di saggio c’è da dire su questo argomento. Perché quando parliamo, con Pareyson, di contenuto che si traduce in un processo formativo, ed è dunque racchiuso nella forma, in realtà non facciamo discorsi del tipo: questo movimento di macchina somiglia a un segno della croce, quell’altro ricorda l’andatura di Paperino. Ci riferiamo a un certo tipo di percezione, di sguardo che un certo modo di formare (qui: di filmare) sollecita nello spettatore, a esclusione di altri. Se uno è l’oggetto – il referente come si dice in 37
semiotica –, infiniti sono i modi di guardarlo ed è in ciò, nello specifico modo di guardare, che l’autore cinematografico mette sé stesso. Né ciò è in contraddizione con il sussistere della chiave naturalistica perché quando parliamo di cinema naturalistico facciamo riferimento a tutto ciò che è il profilmico, e affermare che esso rappresenta null’altro che sé stesso non dice nulla sulla componente filmica, ovvero sul modo di filmare che dal profilmico «grezzo» crea l’immagine o forma cinematografica, i cui connotati hanno la capacità di rimandare a un mondo interiore. E qui, in questo aspetto tenacemente ignorato dalla critica, la ricerca di significati è al contrario lecita. Si può poi discutere sul fatto che questa dimensione interiore cui la forma conduce sia racchiudibile entro i confini di una descrizione univocamente determinata oppure, come Tarkovskij sosteneva, intrisa di ineffabilità e in questo senso rimandi all’infinito50. Si potrebbe discutere allo stesso modo sul fatto che il linguaggio cinematografico51, nelle sue componenti specificamente filmiche, rappresenti se non un codice quanto meno un sistema di segni iconici52. Ma entreremmo con ciò nel dominio della semiotica, divergendo dunque dalle indicazioni di Tarkovskij che nei confronti della sua applicazione al cinema fu molto critico53. Fermiamoci dunque un passo prima di oltrepassare questo confine e cerchiamo di chiarire cosa intenderò nel parlare di significato a proposito di questa o quella componente filmica in cui ci imbatteremo. Il capitolo conclusivo sarà il luogo in cui fare un discorso compiuto su questo argomento, ma intanto prendiamo, a titolo di esempio, il caso, importante in Tarkovskij, dell’onnipresenza dei movimenti di macchina. Si è parlato a questo proposito, ancora una volta erroneamente, di «fissità» della macchina da presa percependo falsamente come tale la lentezza. Ed ora: cosa significa il muoversi così frequente della macchina da presa di Tarkovskij, questa sua incapacità di rimanere immobile se non come eccezione alla norma? 38
A proposito dello «sguardo in movimento» nel cinema, è stato scritto che «osservare da un punto di vista fisso qualcosa che si muove comporta inevitabilmente un senso di distacco dal reale, uno sguardo oggettivo e assoluto; mentre adottare un punto di vista mobile sugli oggetti, magari per accompagnarne il movimento, provoca sempre un senso di forte coinvolgimento, e dunque dà un’idea di soggettività, di precarietà, di finitezza dello sguardo»54. Immobilizzare la macchina da presa dunque significa assumere un punto di vista esterno, estraneo, intangibile. La macchina da presa mobile realizza invece uno sguardo partecipe, vivo, introduce quella soggettività che Tarkovskij sentiva come condizione necessaria alla comprensione. Consideriamo ad esempio, nello Specchio, il piano iniziale della sequenza degli orecchini: una ripresa in campo lungo, al crepuscolo, della casa in cui essa sarà ambientata; vediamo la dimora da lontano, circondata da un paesaggio solitario e immobile; nessuna presenza umana è ancora percepibile tranne quella, indiretta, che suggerisce una finestra illuminata. Nulla di più ovvio che riprendere un simile soggetto realizzando un’inquadratura fissa; invece, facciamoci caso, la macchina da presa carrella leggermente verso destra, poi rallenta, si ferma. E con ciò ci trasforma da osservatori distaccati e indifferenti posti a distanze cosmiche, in viandanti giunti in quel momento sul luogo, fermatisi in quel luogo e dunque inevitabilmente posti in una condizione di vicinanza a quanto sta per accadervi. Questo è l’atteggiamento che Tarkovskij voleva in noi spettatori, ma non lo suggerì con prolisse e didascaliche battute di dialogo; ce lo disse così, con quel breve, silente moto introduttivo della macchina da presa. E col modo di muoverla, in mille altri momenti del suo cinema, ci disse poi molto altro, di cui parleremo più avanti. 1
L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Sansoni, Firenze 1974, p. 23. Ivi, p. 28. 3 Ivi, pp. 28-29. 2
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Ivi, p. 29. Ivi, p. 30. 6 Ivi, p. 35. 7 Ivi. 8 Tarkovskij, Scolpire il tempo cit., p. 28. 9 M. Antonioni, Fare un film è per me vivere, Marsilio, Venezia 1994, p. 72. 10 Tarkovskij, Scolpire il tempo cit., p. 107. 11 Le immagini significanti sono un caso di ciò che Rudolf Arnheim chiama «punti focali rigorosamente composti, connessi da trapassi di transizione» (R. Arnheim, Verso una psicologia dell’arte, Einaudi, Torino 1972, p. 168). 12 Altri autori (F. Casetti, F. Di Chio, Analisi del film, Bompiani, Milano 1999 11, p. 115 sgg.) riuniscono in un unico livello (che chiamano «messa in quadro») l’insieme di immagine significante e piano, e considerano come primo livello la messa in scena. Quest’ultima è assente nel modello che ho qui definito perché essa, dal punto di vista dello spettatore, entra a far parte della messa in quadro come insieme degli elementi visivi (profilmici) che formano la composizione dell’immagine ed evolvono nel tempo all’interno del piano e nelle relazioni fra i piani. Essa dunque, a differenza che nel teatro (il cinema non è teatro filmato) entra nel film non in quanto tale, bensì attraverso le sue modalità di rappresentazione filmica. Possiamo dire che lo spettatore cinematografico percepisce la messa in scena non in sé, ma attraverso la messa in quadro. La messa in scena è pertanto una sorta di livello zero pre-cinematografico, che è utile distinguere dagli altri analizzando la genesi del film, ma non il film come opera strutturalmente compiuta. 13 Penso ad esempio agli studi di Giuseppe Gigliozzi, che conobbi proprio negli anni in cui cominciavo a elaborare il metodo che sto qui per utilizzare (v. ad es. G. Gigliozzi, «Memoriale di Paolo Volponi», in Letteratura italiana. Le opere, vol. 4, Einaudi, Torino 1995, p. 729-769). 14 B. Balázs, Il film, Einaudi, Torino 1987, p. 120. 15 Ivi, p. 132. V. anche Casetti, Di Chio, Analisi del film cit., p. 147. 16 Tarkovskij, Scolpire il tempo cit., p. 59-60. 17 Ivi. 18 Ivi, p. 110. 19 Ivi, p. 107. 20 Ivi, p. 110. 21 Ivi, pp. 110-111. 22 S. M. Ėjzenštejn, Il principio cinematografico e l’ideogramma, 1929 (cit. in A. Grasso, Sergej M. Ėjzenštejn, Il Castoro, Firenze 1995). 23 Tarkovskij, Scolpire il tempo cit., p. 112. 24 Ivi, p. 110. 25 Ivi, p. 108. 26 Ivi, pp. 114-115. 27 Ivi, p. 115. 5
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Ivi. A. Tarkovskij, Sulla figura cinematografica, in «Circuitocinema», Comune di Venezia, giugno 1987, p. 23 (già O kinoobraze, in «Iskusstvo Kino», n. 3, marzo 1979). 30 Ivi, p. 27. 31 Ivi, p. 22. 32 Ivi, p. 27. 33 V. A. Tarkovskij, La forma dell’anima, Rizzoli, Milano 2012, p. 122. Cfr. anche Scolpire il tempo cit., p. 67. 34 Tarkovskij, Martirologio cit., p. 93. 35 Tarkovskij, Scolpire il tempo cit., p. 188. 36 Ivi, p. 124. 37 Ivi, p. 178. 38 Ivi, p. 190. 39 A. Frezzato, Andrej Tarkovskij, La Nuova Italia, Firenze, 1977, p. 18. 40 D. Baglivo, Andrej Tarkovskij, un poeta nel cinema, 1983, dall'istante 35’ 40” in poi. La prima versione di Solaris prevedeva in apertura un cartello contenente un frammento di un’intervista a Kelvin (assente nel romanzo di Lem) in cui questo atteggiamento del regista è esplicitato. Ecco il testo: «R: …No, da quando l’uomo ha distrutto l’ineguaglianza sociale e ha ripudiato la guerra, la scienza ha ottenuto tremendi successi. Nonostante ciò lei si sbaglia nel pensare che la scienza sia onnipotente. D: La conoscenza umana è davvero limitata? R: Vedo che lei si accanisce affinché io le dica ciò che dovrebbe aver imparato a scuola. Le darò questa consolazione: la conoscenza umana è infinita e senza confini. Ma ciò non significa che il problema con il quale stiamo lottando sarà risolto quest’anno, in questa decade o in questo secolo. D: Ma l’esperienza dello studio dell’universo fornisce l’evidenza… R: Ciò significa che lei conosce davvero molto sull’universo. (Risate nella sala). Se noi sapessimo così tanto non avremmo nulla da fare nello spazio. D: Vuol dire che nello spazio lei è attratto dall’Ignoto? R: Nuovamente non mi ha capito: io sono interessato all’umanità. Da un’intervista allo psicologo dott. K. Kelvin per la rivista “Nostri tempi”», presente nell’edizione home video russa in DVD di Solaris, realizzata dalla casa di produzione e distribuzione Ruscico. 41 Z. Zivkovic, Intervista con Stanislav Lem, in «Robot», n. 11, febbraio 1977, p. 100. Lem premise a queste considerazioni di aver solo letto il soggetto del film, senza poi vederlo. Esse risultano tuttavia esatte. 42 Dissento qui da Tarkovskij, il quale riteneva che non dovesse nemmeno essere considerata nella sua filmografia (v. Tarkovskij, Martirologio cit., p. 580, 21 dicembre 1985). 43 Derivo questo concetto, lì espresso con riferimento ai suoni, da AA.VV., Atlante storico della musica nel medioevo, Jaca Book, Milano 2011, pp. 102-103. 29
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Interessante notare che nella pittura di icone russa il simbolismo irrompe a metà del XVI secolo in coincidenza con l’instaurarsi dello stato totalitario. Scrive Michail Alpatov: «Nell’arte ufficiale, soprattutto a Mosca alla corte dello zar, la tutela della chiesa si manifesta nel modo più chiaro nelle cosiddette “icone complesse” di contenuto dogmatico […]. Il simbolismo dotto e complicato su cui sono basate non può essere capito senza un’adeguata preparazione: l’icona serve da illustrazione al dogma, decade la sua importanza artistico-poetica, non va guardata ma decifrata». (M. Alpatov, Le icone russe, Einaudi, Torino 1976, p. 68.) 45 L. Blanc, La fede nel cinema, tesi di laurea discussa presso l’Università degli studi di Bologna, a.a. 2004-2005, p. 39. 46 G. Pangon, citato in G. Mogani, Labirinti. Tarkovskij, Kubrick e altri percorsi, in AAVV, Il fuoco, l’acqua, l’ombra, La casa Usher, Firenze, 1989, p. 84. 47 Blanc, La fede nel cinema cit., p. 32. 48 Colloquio avvenuto a Roma il 26 novembre 2014. 49 M. Apollonio, Dante. Storia della Commedia, in AA.VV., Storia letteraria d’Italia, F. Vallardi, Milano 1951, vol. 1, p. 243. 50 V. Tarkovskij, Scolpire il tempo cit., p. 97. 51 Bisogna chiarire che secondo Tarkovskij il cinema, a differenza della letteratura, «non ha linguaggio: esso ci mostra sé stesso senza intermediari» (Tarkovskij, Scolpire il tempo cit., p. 58; V. anche p. 161), il che è vero se per linguaggio intendiamo un codice, ovvero un insieme di segni cui si attribuisce un significato convenzionale. Intendo dunque per linguaggio un insieme di regole compositive della forma, ovvero una grammatica del cinema. E questa senza dubbio esiste, anche se è tutt’altro che univoca. 52 Il segno è caratterizzato da un rapporto univoco e pertanto finito, concluso fra significante-significato-referente dove significante è il segnale percepibile ai nostri sensi, significato è il concetto che associamo a esso e referente è l’oggetto cui l’insieme significato-significante rimanda. Il segno si dice iconico quando esiste identità fra significante e significato. 53 «La concezione abbastanza largamente diffusa del cinema come sistema di segni mi sembra profondamente e radicalmente sbagliata» (Tarkovskij, Scolpire il tempo cit., p. 161). 54 Casetti, Di Chio Analisi del film cit., p. 83.
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2. Una frenata brusca
Una prima visione «satellitare» Abbiamo imparato da Luigi Pareyson che la forma, il cosiddetto stile, non è un orpello decorativo ma è il cuore dell’opera d’arte, la porta che ci conduce al mondo interiore dell’artista. Giungere dunque ai contenuti innanzitutto, forse soprattutto, attraverso un’analisi della forma: è questa la via che percorreremo insieme nelle pagine seguenti. Non posso escludere che affrontare un simile approccio rischi d’essere inizialmente poco gratificante per chi legge; mi metto nei panni del lettore come di chi, affascinato dall’ascolto dei Notturni di Chopin, decide di imparare il pianoforte e si ritrova di punto in bianco impastoiato nelle noiose e un po’ ridicole manfrine del solfeggio. Che delusione, vero? Eppure è un avvio necessario: senza solfeggio niente Chopin. Il «solfeggio» nel nostro caso consiste nell’imbattersi in cose che abitualmente in un libro sul cinema, come in uno sulla letteratura, non si incontrano: grafici, tabelle, ovvero nelle sembianze che assumono i risultati di quella che con un termine un po’ ampolloso possiamo chiamare «analisi computazionale». Un’analisi che comunque, in questo caso, al di là di quel parolone inquietante che è «computazionale», non ha nulla di complicato. Possiamo paragonare i grafici che incontreremo alle immagini satellitari che si utilizzano nello studio di un territorio; questi grafici sono anch’essi delle «immagini satellitari», non di un territorio ma della struttura temporale dei film e ci saranno utili, forse perfino molto utili, per averne un 43
primo quadro d’insieme. Dunque non si ceda alla tentazione della perplessità quando nelle pagine seguenti ci si troverà a dover posare gli occhi su questi strani oggetti. Servirà. Un’ultima cosa trovo importante aggiungere sul senso di un tale tipo di analisi applicata all’opera d’arte, letteraria o cinematografica che sia. Trovo che in ciò ci sia una motivazione soprattutto etica. Compito del critico è quello di aprire davanti allo spettatore una porta che gli consenta una più profonda comprensione dell’opera, indicargli la via, o una possibile via, per giungere al cuore di essa, e per far questo la sua soggettività deve esser messa da parte, deve essere quanto più possibile assente dal discorso. In altre parole, l’azione del critico deve essere quanto più possibile trasparente; solo in questo caso la sua analisi potrà dirsi non travisante, rispettosa dell’autore e dell’opera. In questo senso, basare l’analisi su un substrato costituito da dati oggettivi può dirsi un valido punto di partenza. Naturalmente si corre un rischio seguendo questa via: quello di imboccare il vicolo cieco di un atteggiamento da ragionieri della forma artistica, ma anche la strada convenzionale ne presenta uno non meno grave: quello di cadere nel soggettivismo esasperato, un vicolo ancor più buio, in fondo al quale c’è la barriera dell’autoreferenzialità fine a sé stessa, che senza dubbio è l’esito peggiore. Partendo dunque da tali principi ho fatto una misura cronometrica delle durate dei piani negli otto film1 di Tarkovskij. Ho poi considerato due grandezze: la durata media dei piani di ciascun film e il piano più lungo. Queste grandezze sono mostrate nella tabella 2.1 e nei grafici delle figure 2.1 e 2.2. Opera
Durata*
n° piani
Durata media dei piani
Piano più lungo
Il rullo compressore e il violino
42’
194
13’’
1’ 26’’
L’infanzia di Ivan
88’
256
21’’
3’ 17’’
44
Andrej Rublëv
167’
388
26’’
3’ 10’’
Solaris
142’
281
30’’
3’ 40’’
Lo specchio
92’
170
33’’
3’ 45’’
Stalker
153’
143
64’’
6’ 51’’
Nostalghia
120’
124
58’’
8’ 45’’
Sacrificio
138’
121
68’’
9’ 04’’
* Nel computo delle durate sono qui escluse le inquadrature documentaristiche e, in Solaris, il filmato di Berton. Tab. 2.1
Fig. 2.1
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Fig. 2.2
Nel rilevare questi dati mi si è posto un problema: L’infanzia di Ivan e, soprattutto, Lo specchio, contengono un certo numero di sequenze documentaristiche, mentre Solaris contiene una sequenza, la testimonianza di Berton, girata come se lo fosse. Dobbiamo considerarle significative nel calcolo delle durate medie? Ho deciso di no dopo aver constatato che le sequenze costruite su materiale d’epoca (o girate come se lo fossero) obbediscono a regole compositive diverse da quelle adottate per le sequenze costruite su piani originali e in particolare che la durata dei piani nelle prime è nettamente inferiore2. La concezione del tempo che caratterizza le parti girate da Tarkovskij sembra dunque essere significativamente diversa da quella del tempo cronachistico. I dati relativi ai piani da cinegiornale sarebbero dunque risultati fuorvianti in questa prima fase della nostra analisi, in cui ci serve invece concentrarci sui piani girati in prima persona da Tarkovskij. Analizziamo ora i dati. Fino a Lo specchio vediamo una costante tendenza all’aumento delle durate medie dei piani ma 46
di entità piuttosto moderata, almeno nei quattro lungometraggi. Fra Lo specchio e Stalker tuttavia la durata media dei piani raddoppia bruscamente e la durata del piano più lungo, che fino a Lo specchio non raggiungeva i 4 minuti, balza quasi a 7 minuti in Stalker e a 9 nelle due ultime opere. Sembra dunque esistere una chiara linea di demarcazione fra le prime cinque e le ultime tre opere. Ricordo che quando, nel 1996, mostrai questi primi risultati a Giuseppe Gigliozzi, egli li commentò con una frase che trovo piuttosto efficace: «Una frenata brusca». Dobbiamo ora capire cosa c’è dietro a questa «frenata». L’evoluzione delle durate dei piani ci dice che a un certo punto è accaduto qualcosa, tuttavia non ci aiuta a capire cosa. Possiamo intanto affermare che dopo Lo specchio Tarkovskij ha totalmente rimesso in discussione la sua concezione del tempo cinematografico, avvicinandola all’ideale di un fluire senza soluzioni di continuità dell’immagine. Ma fino a che punto egli si è spinto lungo questa strada?
47
Piano sequenza ma non troppo Dai testi teorici di Tarkovskij abbiamo imparato che egli considera l’interno del piano come sede del tempo cinematografico, e il montaggio subordinato alla struttura interna dei piani. Ciò non significa tuttavia che egli neghi al montaggio ogni funzione, ovvero che sia un regista del piano sequenza allo stato puro. Non, almeno, fino al punto in cui la vita gli ha consentito di giungere. Per capire meglio in che punto si situi Tarkovskij fra i due estremi del cinema di montaggio e del piano sequenza può essere utile un confronto con un regista che si situa su quest’ultimo versante, quale è Theo Anghelopoulos. Già la semplice considerazione delle durate medie dei piani rivela una netta differenza: in Anghelopoulos esse sono sensibilmente più elevate che in Tarkovskij, superando in quasi tutti i suoi film gli 80 secondi e giungendo fino a 121 secondi in Lo Sguardo di Ulisse3. La durata media dei piani, tuttavia, è un parametro che è ben lontano dal dirci tutto. Proviamo allora a spingere il confronto più nel dettaglio utilizzando una rappresentazione grafica della macrostruttura temporale dei film. Cominciamo col distribuire i piani in sei diverse classi di durata: – da 0 a 15 secondi – da 16 a 30 secondi – da 31 a 60 secondi – da 1 a 2 minuti – da 2 a 4 minuti – oltre 4 minuti. Immaginiamo ora un grafico in cui disponiamo in ascissa tali classi e in ordinata il numero di piani appartenenti a 48
ciascuna classe espresso come percentuale del numero di piani totali del film. Farò fra poche righe degli esempi chiarificatori. Proviamo a tracciare questi grafici per due film basati interamente o prevalentemente sui piani sequenza come La sorgente del fiume e La polvere del tempo di Anghelopoulos (figg. 2.3 e 2.4) e per un film prevalentemente basato sul montaggio di piani brevi come Il rullo compressore e il violino (fig. 2.7).
Fig. 2.3
49
Fig. 2.4
Proviamo innanzitutto a leggerli. Ad esempio, il grafico della figura 2.3 ci dice che nel film La sorgente del fiume il 5% dei piani è di durata compresa fra 15 e 30 secondi, il 27% dura dai 30 ai 60 secondi, il 41% da 1 a 2 minuti, eccetera. Il grafico della figura 2.7 ci dice invece che nel Rullo compressore e il violino ben il 69% dei piani dura meno di 15 secondi, il 23% è compreso fra 15 e 30 secondi, eccetera. Immaginiamo ora di unire idealmente le sommità di tutte le barre che compongono ciascun grafico, ottenendo così una curva che ne racchiuda il profilo e che chiameremo inviluppo. Nel caso dell’opera prima di Tarkovskij essa sarà una curva concava approssimabile a un’iperbole (fig. 2.5) perché abbiamo una grande quantità di piani brevi e un rapido decadere del loro numero man mano che si va verso le classi di durata maggiore. Questo è dunque l’inviluppo tipico che presenta un film basato prevalentemente sul montaggio di piani brevi. Sul versante opposto, ovvero nel caso di film strutturati interamente per piani sequenza, avremo invece una curva più o meno a campana (fig. 2.6). Questo tipo di curva, in generale, sarà tanto più spostata 50
verso la parte destra del grafico (le durate maggiori) quanto più accentuato è stato da parte del regista l’uso dei piani sequenza4. La curva sarà inoltre tanto più stretta quanto più uniforme all’interno del film è la durata dei piani. I due ultimi film di Anghelopoulos ci mostrano due casi di uso rigoroso (La sorgente del fiume) e «flessibile» (La polvere del tempo) dei piani sequenza. Nel primo la curva dell’inviluppo è piuttosto stretta, la classe dei piani più brevi è vuota e la classe di picco (cioè contenente il maggior numero di piani) è quella fra 1 e 2 minuti; nel secondo la curva dell’inviluppo è nettamente più allargata, il 6% dei piani si localizza nella classe di minor durata e la classe di picco è quella fra 30 e 60 secondi. In generale, in un film strutturato per piani sequenza, non essendoci piani di breve durata, l’inviluppo è pressoché staccato dal margine sinistro del grafico, come accade per La sorgente del fiume.
Fig. 2.5
51
Fig. 2.6
Se ora rappresentiamo nello stesso modo i film di Tarkovskij otteniamo i grafici dalle figure 2.7 a 2.14. L’estrema diversità rispetto ad Anghelopoulos è evidentissima, non solo nei film del primo periodo (il che era ovvio), ma anche in quelli del secondo. Analizziamo gli inviluppi. Fino ad Andrej Rublëv l’inviluppo è una curva concava, il che indica una dominanza delle inquadrature brevi, sia pur declinante da un film all’altro. L’inviluppo comincia a riempirsi accennando a diventare convesso con Solaris e Lo specchio, ma solo da Stalker in poi diventa pienamente convesso, avvicinandosi negli ultimi due film alla curva a campana già vista in Anghelopoulos. In altre parole, fino a Lo specchio abbiamo una struttura tipica del cinema di montaggio, ma sempre più ibridata da una sensibile presenza di piani lunghi. Questa ibridazione è particolarmente evidente negli ultimi due film del primo periodo. Per Stalker abbiamo una situazione a essi speculare, ovvero una struttura tipica dei film di piani sequenza, ma ibridata da una sensibile presenza di piani brevi, dunque da strutture di montaggio sul terzo livello, le quali fanno sì che l’inviluppo gravi ancora sul 52
margine sinistro del grafico5. Il fatto che l’inviluppo sia molto più convesso di quello dello Specchio, dal punto di vista della struttura temporale qualifica comunque Stalker come appartenente al secondo periodo.
Fig. 2.7
53
Fig. 2.8
54
Fig. 2.9
55
Fig. 2.10
56
Fig. 2.11
Fig. 2.12
57
Fig. 2.13
58
Fig. 2.14
In Nostalghia siamo di fronte a un andamento del tutto particolare: la curva a campana è ben visibile, e sarebbe anche quasi staccata dal margine sinistro del grafico se non fosse interrotta proprio nella sua parte sinistra dal persistere, anche qui, di una gran quantità di inquadrature brevi, la cui dominanza numerica è pertanto una caratteristica che sconfina anche nella seconda fase stilistica. Esse cessano di essere in numero rilevante soltanto nell’ultima opera, Sacrificio, che è l’unica a mostrare un andamento a campana abbastanza ben definito benché anch’esso non del tutto staccato dal margine sinistro del grafico. Anche qui, inoltre, siamo di fronte a una curva piuttosto allargata, un po’ come in La polvere del tempo, film che si distingue dai precedenti di Anghelopoulos proprio per un parziale uso di scene montate. Infine, la classe di durate più frequentata da Anghelopoulos è quella fra 1 e 2 minuti, mentre quella dell’ultima opera di Tarkovskij è la classe fra 30 e 60 secondi. Perfino nelle ultime opere, dunque, l’uso del piano sequenza da parte di Tarkovskij rimane non esclusivo, venendo spinto fino alle sue estreme potenzialità solo in certi particolari momenti. Non esclusivo significa incompleto? Tutto ciò vuol dire che siamo di fronte a un processo di evoluzione stilistica rimasto incompiuto? Questa è una delle domande che mi porrò al momento di trarre le conclusioni.
59
Le due fasi stilistiche secondo Tarkovskij Quanto del brusco giro di boa che abbiamo cominciato a intravedere trova riscontro nelle affermazioni e negli scritti teorici di Tarkovskij? Pochissimo, appena qualche laconico accenno all'esistenza di un prima e di un dopo, relativi soprattutto alla struttura narrativa. Racconta ad esempio Arkadij Strugatskij, co-sceneggiatore di Stalker, che quando Tarkovskij ne ebbe in mano la sceneggiatura definitiva disse: «È la prima volta nella mia vita che ho una mia sceneggiatura»6, frase che già suggerisce una qualche presa di distanza dalle sue opere precedenti. Ancora a proposito di Stalker, il 23 dicembre 1978 Tarkovskij scrive nei diari: È un film nuovo per me, anche per il fatto che è semplice nella forma e rompe con l’approccio tradizionale nei confronti dei compiti e delle funzioni del film in quanto tale.7
E nella sua opera teorica principale: Per me era un fattore molto importante che nella sceneggiatura di questo film fossero rispettate le tre unità: di tempo, di luogo e di azione. Se nello Specchio mi era parso interessante montare di seguito brani di documentario, i sogni, la veglia, le speranze, le supposizioni, i ricordi, cioè il garbuglio di circostanze che pongono il protagonista di fronte ai problemi ineludibili dell’esistenza, in Stalker, invece, volevo che tra i diversi spezzoni del film montati insieme non vi fosse soluzione di continuità temporale. Desideravo che il tempo e il suo fluire si rivelassero all’interno dell’inquadratura e che la giunta operata in sede di montaggio indicasse soltanto una prosecuzione dell’azione e nient’altro, che non comportasse un salto temporale, non avesse una funzione di cernita e di organizzazione drammaturgica del materiale, come se tutto il film consistesse di un’unica inquadratura.8
A proposito di Nostalghia scrive: Non mi interessavano il movimento esteriore, l’intrigo, il complesso degli avvenimenti: di queste cose di film in film ho sempre meno bisogno.9
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anche
il
seguente 60
passo,
situabile
temporalmente fra la realizzazione di Nostalghia e quella di Sacrificio: Da L’infanzia di Ivan a Stalker mi sono sforzato di evitare sempre di più il movimento […]. Da questo punto di vista persino la composizione dell’Andrej Rublëv oggi mi sembra troppo dispersiva e priva di compattezza.10
Ma soprattutto è significativa questa nota dei Diari, datata 21 luglio 1980, scritta durante la retrospettiva che la rassegna cinematografica di Taormina gli dedicò in occasione dell’assegnazione del premio David di Donatello e che dunque si situa temporalmente fra Stalker e Nostalghia, anch’essa pertanto nel pieno della seconda fase: Ho rivisto Rublëv. Sono tutti dei brutti film. Solaris, Rublëv… L’unica attenuante che ho è che gli altri girano peggio di me.11
È sconcertante constatare che nemmeno una così drastica presa di distanza da opere in cui pure Tarkovskij aveva in passato creduto abbia dato alla critica motivo di riflessione. Per quanto è a me noto, infatti, l’unica che giunge a una qualche percezione di un avvenuto mutamento e correttamente lo situa a partire da Stalker è Simonetta Salvestroni (sia pur confinando anche lei le sue considerazioni nell’ambito della sola componente narrativa), la quale scrive: A mio avviso, nel percorso artistico ed esistenziale del regista l’apice toccato con la coraggiosa opera autobiografica chiude un periodo. Stalker segna una svolta, l’apertura di un nuovo ciclo. La confessione è avvenuta. Immergendosi in sé stesso, l’autore dello Specchio ha compreso il significato della propria esistenza, di quella delle persone a lui più care, delle sofferenze di due generazioni. Ora è il momento di ritrasmettere quello che ha capito. Come il personaggio del film del 1979, è già in cammino in un mondo che va nella direzione opposta. […] Il cambiamento più evidente avvertibile in Stalker è di natura spazio-temporale. La zona non è un luogo concreto come la stazione del film del 1972, i paesaggi russi, le case di legno vissute o visitate nella memoria. È come se da questo momento il regista abbandonasse il mondo quotidiano, gli esterni luminosi, la gioia di immergersi nella natura e di assaporarne la bellezza.12
Il cambiamento non interessa in realtà la sola tematica 61
narrativa, ma coinvolge anche tutte le componenti strutturali dell’opera cinematografica, ed è radicale. Comprenderne l’anatomia è un passo fondamentale per giungere al senso della «frenata brusca» di Tarkovskij e sarà questo pertanto il filo conduttore dei capitoli seguenti. In essi non seguirò il metodo usuale, ovvero descrivere un film dopo l’altro secondo la successione cronologica, bensì analizzerò l’uno dopo l’altro i vari livelli sintattici, dalla composizione delle singole immagini fino alla struttura delle sequenze. Consisterà in questo il procedere «per piani paralleli» cui accennavo nel capitolo precedente. 1
Ho considerato come opera prima Il rullo compressore e il violino. Esso in realtà è preceduto da altri due film (Gli assassini, del 1956 e Oggi non ci sarà libera uscita, del 1958), anch’essi realizzati come saggi di regia durante il periodo di apprendistato al VGIK. Ho deciso però di considerarli soltanto come esercizi preparatori, non come opere mature, e dunque di ometterne l’analisi, non tanto perché essi sono stati realizzati in co-regia con altri allievi (Marika Beiku e Aleksandr Gordon il primo, il solo A. Gordon il secondo), quanto per l’assenza di caratteristiche personali che possano in qualche modo identificare un intervento creativo della personalità artistica, evidentemente ancora in formazione, di Tarkovskij. 2 In L’infanzia di Ivan si ha una sequenza costituita da 33 piani documentaristici la cui durata media è di 3’’ mentre la durata del piano più lungo è di 7’’. Considerando anch’essi, i dati complessivi del film risultano: Durata: 90’; n° piani: 288; durata media piani: 19’’. In Solaris è presente un finto documentario, il filmato della testimonianza di Berton, costituito da 64 piani. Considerando anch’esso, i dati complessivi del film risultano: Durata: 157’; n° piani: 345; durata media piani: 27’’. Nello Specchio sono comprese 8 sequenze costituite da immagini documentaristiche per un totale di 85 piani, la cui durata media è di 5,6’’ mentre la durata del piano più lungo è di 23’’. Considerando anch’essi, i dati complessivi del film risultano: Durata: 102’; n° piani: 257; durata media piani: 24’’. Fra le immagini documentaristiche di Lo specchio, le più lente sono quelle della marcia dei soldati dell’Armata Rossa attraverso il lago Sivaš, cui Tarkovskij attribuisce un particolare valore poetico. 3 Composto da 92 piani, di cui 20 documentaristici, dei quali non ho tenuto conto nel conteggio. Ecco i dati dei suoi ultimi tre film: L’eternità e un giorno è composto da 62 piani la cui durata media è 118”; La sorgente del fiume da 92 piani di durata media 105” e infine La polvere del tempo da 89 piani di durata media 80”. 4 In un film di piani sequenza questa struttura centrata attorno alla classe di piani più utilizzata è da considerarsi naturale se consideriamo la durata dei piani non predeterminata dal regista, ma derivata da scelte di poetica avvenute a monte (ad esempio un certo modo di concepire la struttura narrativa, il ritmo interno al film ecc.).
62
Allora tale durata ha le caratteristiche di un fenomeno casuale centrato attorno a un valore medio o più probabile (la classe di picco). Come tale esso obbedisce alla legge di Gauss che descrive gli scostamenti da tale valore, i quali hanno appunto l’andamento di una curva a campana. 5 Possiamo vedere l’inviluppo di Stalker, quanto meno da un punto di vista qualitativo, come la somma di un inviluppo a campana e di uno a iperbole. 6 Arkadij Strugatskij, As I Saw Him, trad. di Sergei Sossinskij, in About Andrej Tarkovskij, Memoirs and Biographies, Progress Publishers, Moscow 1990, disponibile su www.nostalghia.com. Cit. in L. Blanc, La fede nel cinema, tesi di laurea discussa presso l’Università degli studi di Bologna, a.a. 2004-2005, p. 18. 7 A. Tarkovskij, Martirologio. Diari, Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij, Firenze 2014, p. 198, 23 dicembre 1978. 8 A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano 1988, p. 175. Tarkovskij scrive la stessa cosa, ma in astratto, senza cioè far riferimento a specifiche opere, nelle lezioni di regia (Id., La forma dell’anima, Rizzoli, Milano 2012, pp. 80-81). 9 Tarkovskij, Scolpire il tempo cit., p. 181. 10 Ivi, p. 182. Affermazione quanto mai significativa se si pensa che Andrej Rublëv fu un’opera cui Tarkovskij attribuì particolare importanza lungo tutta la prima fase della sua attività. 11 Tarkovskij, Martirologio cit., p. 313. Andrej Rublëv era stato proiettato quel giorno stesso. 12 S. Salvestroni, Il cinema di Tarkovskij e la tradizione russa, Edizioni Qiqajon, Magnano (BI) 2005, pp. 121-122.
63
3. La poetica dell’immagine
Premessa Prima di immergerci nella dimensione figurativa dell’opera di Tarkovskij torniamo un momento sul concetto di immagine significante e proviamo ad abbozzare un po’ di istruzioni per l’uso. Sembrerebbe inevitabile che un’analisi dell’immagine cinematografica non possa prescindere dal suo evolversi nel tempo, tuttavia si è detto che spesso in questa evoluzione sono individuabili dei momenti cardine o «punti focali» nel fluire del tempo, in cui è l’immagine in quanto tale, con la sua istantanea, sincronica struttura interna, con le leggi compositive che la governano, ad assumere un valore espressivo interno che le dà compiutezza e giustifica un’analisi che prescinda dal contesto temporale, facendo appello esclusivamente agli strumenti della critica delle arti visive. L’immagine significante è con ciò la componente sincronica di un’arte per il resto essenzialmente diacronica quale è il cinema. L’immagine cinematografica, inoltre, per materiali impiegati e tecniche di realizzazione, è un’immagine di tipo propriamente fotografico. Le immagini significanti dunque, pur non essendo semplicisticamente uniformabili alle pure fotografie, appartengono agli immediati dintorni della fotografia stessa e ha dunque senso una loro analisi effettuata dal punto di vista della cultura fotografica. Proviamo a chiarire meglio affinità e differenze fra immagine pittorica e fotografica da una parte e immagine significante cinematografica dall’altra. Anche l’immagine 64
fotografica e l’immagine pittorica sono immerse nel tempo, ma è un tempo esterno a esse, appartenente a colui che guarda: queste immagini vengono percepite come immerse nel tempo perché chi le osserva lo è, ed è dunque un tempo soggettivo cui chi guarda dà la sua forma. Nell’immagine cinematografica invece il tempo è interno a essa, è dotato di una sua peculiare «personalità» poiché è quello che è stato fissato una volta per tutte durante la fase di ripresa e lo spettatore non può far altro che entrare in sintonia o, se si preferisce, in risonanza con quel tempo su cui non ha alcun controllo. Di questa differenza, ovvero dell’esistere dell’immagine cinematografica in un suo tempo peculiare che non posseggono invece le immagini fisse delle arti visive, bisognerà tenere conto, e torneremo dunque sull’argomento in apertura del prossimo capitolo. Tuttavia rimane vero che anche l’immagine cinematografica, quando diventa immagine significante secondo la definizione che ne ho dato prima, è governata dalle stesse leggi di composizione delle immagini fotografiche e pittoriche, dunque in essa non viene mai meno la sua natura intrinsecamente sincronica. Possiamo immediatamente rendercene conto confrontando un’immagine significante tratta da Il rullo compressore e il violino (fig. I)1 con un dipinto su tela dell’800 di Henry W. Fisk di soggetto analogo2 (fig. II). Fingiamo di non sapere che la prima è un fotogramma di un film e guardiamola come si guarda una fotografia. Siamo dunque di fronte a due ritratti di bambine, uno fotografico e l’altro pittorico. Consideriamo il primo e concentriamoci innanzitutto sulla sua caratteristica più evidente: la luce. Il viso e la parte superiore del corpo sono illuminati morbidamente, ma intensamente, in alcuni punti anche al limite della sovraesposizione, e ciò stacca la figura dal doppio sfondo costituito dalla spalliera, col suo elaborato gioco geometrico dai contorni netti, e dalla parete retrostante, grigia e percorsa da sfumati chiarori. La luce scolpisce le forme curvilinee della spalliera, ma non la bambina sulla quale traccia invece, più che 65
contorni d’ombra, diverse gradazioni di luminosità togliendole così consistenza materiale, come se gli aloni di luce che ravvivano lo sfondo e davanti ai quali ella si staglia proseguissero, coagulandosi, in lei. Un altro elemento di tensione visiva è poi costituito dalle caratteristiche cromatiche: il bianco e il rosa (tonalità «leggere») della bambina contro il marrone scuro e il grigio (tonalità «pesanti») dello sfondo. Il quadro di Fisk «funziona» nello stesso modo. La bambina è illuminata da una luce diffusa che non crea ombre a parte quelle, appena accennate, sui panneggi della gonna e sul gomito. La spalliera, che oggi appare quasi fusa nello sfondo, probabilmente in origine si stagliava molto più nettamente, con un effetto scultoreo non molto lontano da quello dell’immagine di Tarkovskij e Jusov. Le forme vegetali a sinistra inoltre hanno un ruolo affine a quello degli aloni luminosi sulla parete. Identiche infine sono le caratteristiche cromatiche: il rosa dell’abito e il marrone chiaro del cagnolino contro il marrone scuro, il grigio e il nero dello sfondo. Ultima affinità: in entrambe le immagini la figura emerge da uno sfondo costruito sul dialogo-contrasto tra forme geometriche e organiche, nette le une e sfumate le altre e ne costituisce in un certo senso la mediazione. Il fatto che lo spettatore sia libero di porsi davanti a un’immagine fotografica o pittorica secondo il proprio tempo soggettivo, mentre lo spettatore di un’immagine cinematografica si trova di fronte allo scorrere di un tempo oggettivo a lui esterno, non toglie che questo ulteriore elemento interviene su una lettura istantanea dell’immagine (significante) del tipo di quella che abbiamo appena fatto, anche se essa avviene nello spettatore secondo modalità diverse. Approfondiamo quest’ultimo punto, anche allo scopo di prevenire una legittima obiezione di chi legge. Quando siamo di fronte a un’immagine, tipicamente non ci addentriamo in considerazioni analitiche come quelle ora fatte e ciò può facilmente indurre a supporre che simili caratteristiche 66
racchiuse nella struttura formale rimangano implicite e comunque non siano percepite dallo spettatore. In realtà bisogna considerare che quando si è di fronte a un’immagine, come pure ad altre forme di comunicazione non verbale, la percezione che abbiamo di esse non è di tipo analitico ma sintetico; lo spettatore in altre parole non decifra l’immagine considerando separatamente le sue componenti come ho, sia pur sommariamente, fatto io poco fa, ma ne ha una percezione intuitiva, immediata, che tende a sedimentarsi nella sfera dei contenuti inconsci piuttosto che a essere memorizzata ed elaborata consapevolmente. Nondimeno (anzi a maggior ragione) tali contenuti vengono recepiti e rimandano a un ben preciso atteggiamento verso il mondo. Per fare un esempio, nella storia dell’arte la contrapposizione fra prospettiva rovesciata e diretta non è un argomento tecnico per addetti ai lavori, ma è il mezzo formale che ha consentito il passaggio dal mondo «piatto» e statico della pittura medievale (soprattutto bizantina e russa) a quello fortemente plastico e dinamico dell’arte del Rinascimento occidentale. Lo spettatore non si pone certo problemi di prospettiva, che anzi tipicamente ignora, tuttavia percepisce la natura strettamente terrena, direi «carnale» della figuratività di Raffaello o Botticelli e la dimensione trascendente che impregna al contrario la figuratività di Rublëv o Teofane il Greco, ottenute, l’una e l’altra, anche attraverso il ricorso alle due diverse tecniche di costruzione prospettica dell’immagine (le quali sono poi null’altro che due diversi «modi di formare»). Detto ciò, siamo in grado di iniziare l’analisi delle opere.
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Alla ricerca di un linguaggio visivo L’opera prima di Tarkovskij, Il rullo compressore e il violino, girata interamente a colori, si distingue innanzitutto per un uso accentuato delle risorse visive del cinema; Tarkovskij e Vadim Jusov che, fino a Solaris, sarà il suo direttore della fotografia, mostrano già una forte consapevolezza del valore che l’immagine ha al suo interno e la volontà di metterla in gioco come strumento espressivo3. Se la componente narrativa ci pone di fronte, sotto le mentite spoglie della favoletta infantile, al grande tema della disarmonia fra vita immaginata e vita vissuta, alla fuga del tempo in cui scorre quest’ultima e che allontana tenacemente dalla prima, la componente visiva immerge questo tema in una dimensione di grande levigatezza formale, a torto definita calligrafica da certa critica per la quale sembra proprio che la bellezza debba essere bandita dal cinema. Autocompiacimento? Narcisismo estetizzante? È un fatto che questa componente, sì, estetizzante del mondo espressivo di Tarkovskij percorrerà tutta la sua opera e sempre su livelli senza alcun dubbio «alti», ma è anche vero che essa sarà sempre ben lontana dal risultare gratuita, rivelando anzi fin da questo esordio, e sempre più profondamente col passare degli anni, la capacità di rendere l’immagine portatrice di valori che si spingono al di là di quelli puramente decorativi. È vero che a volte di fronte alla ridondanza di valori estetici è lecito domandarsi se il soggetto non sia un puro pretesto per esibirli, se insomma i valori estetici non abbiano varcato la soglia dello sterile estetismo fine a sé stesso, la soglia fra la bellezza che si fa veicolo di valori etici e la bellezza che si sovrappone a essi cancellandoli, ma se l’esordiente Tarkovskij si è avvicinato a questa soglia, se forse l’ha perfino sfiorata, non è lecito affermare che l’abbia attraversata. Non c’è immagine infatti che non sia costruita secondo una precisa funzione espressiva e che 68
non abbia qualcosa da dirci sulla vicenda del piccolo violinista Saša. Cominciamo dunque a guardare le immagini. Luce e acqua innanzitutto: queste ne sono le principali componenti. Parleremo fra poco dell’acqua, ma intanto soffermiamoci sulla luce; perché cos’altro è la fotografia se non l’arte di plasmare la luce? Nulla di più normale dunque che Tarkovskij e Jusov abbiano iniziato il loro cammino esplicitando questa sua fondamentale natura, rendendola evidente col porre la luce stessa in campo come protagonista dell’immagine, fino a farne spesso l’elemento che dell’immagine definisce il carattere stesso. Luce e acqua, dunque. E, in contrasto con la loro leggerezza, muri, muraglie a volte, stringenti e opprimenti. L’opera prima di Tarkovskij è infatti ambientata in un contesto urbano, e rimarrà l’unica a esserlo nei quasi trent’anni successivi. Questo contrasto fra leggerezza, fluidità, e pesantezza, rigidità ha un ruolo importante nel film, insieme ad altri analoghi come la contrapposizione fra rettilineo e curvilineo, morbido e duro, grigio e colorato, materiale e immateriale. È un primo accenno alla contrapposizione fra debolezza e forza, flessibilità e rigidità che sarà esplicitata in Stalker con la nota citazione da Lao Tzu. Approfondiamo l’analisi di questi due versanti. Immagini intrise di luce dicevo, perché la luce è qui il principale fra gli elementi chiamati a dar vita alla composizione. Perfino nelle sale dell’edificio in cui Saša sostiene l’esame essa s’irradia creando sui pavimenti e sulle pareti forme sfumate che vivificano il grigiore degli sfondi, donando ariosità ad ambienti che altrimenti sarebbero, con la loro imponenza, opprimenti. Questa dialettica fra materia e luce la vediamo nell’immagine della figura 3.1, giocata sul contrasto visivo fra la composizione e la luce stessa. Il bambino che ha sostenuto senza successo l’esame prima di Saša è inquadrato dal basso in modo da evidenziare il rapporto impari fra lui, piccolo, e la massiccia, enorme porta da cui è appena uscito, ma la porta non è grigia, cupa come gli edifici della città circostante, al contrario è 69
alleggerita dal diffondersi di molteplici, sfumati chiarori.
Fig. 3.1
È frequente, in particolare, la presenza in campo di luce riflessa, a partire dalla sosta fascinosamente «caleidoscopica» di Saša davanti alla vetrina mentre sta andando a sostenere l’esame (fig. 3.2), quando essa assume il volto di una seducente porta verso il tempo della vita immaginata; e in tal senso è probabilmente interpretabile il suo ricorrere durante tutto l’arco del film.
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Fig. 3.2
Un ruolo di primo piano fra gli elementi utilizzati per riflettere la luce è naturalmente giocato proprio dall’acqua, che mai abbandonerà le immagini di Tarkovskij fino a costituirne il leitmotiv visivo principale; semplice acqua di pozzanghere o acqua che bagna un lastricato, ma dall’immancabile caratteristica di essere una superficie speculare non neutra la cui funzione singolare e suggestiva è quella di un vero e proprio utensile capace di modellare la luce conferendole di volta in volta una qualche qualità, una forma particolare. Un discorso a sé meriterebbero i ritratti. Alcuni li abbiamo già visti: la bambina in attesa dell’esame (fig. I) e Saša davanti alla vetrina del negozio (fig. 3.2). Eccone altri due: l’insegnante di musica e Sergej (figg. III e IV). Sono due personaggi contrapposti, che incarnano rispettivamente la rigidità delle norme e la liberazione da esse, e queste due immagini ne esprimono la natura. Non mi riferisco all’espressione del viso (anche Sergej è capace di espressioni severe e anche l’insegnante nell’ultima inquadratura dell’esame 71
accenna un sorriso), ma alla composizione. Sergej appare avvolto dall’armonico movimento di linee curve costituite dalla cancellata e dalle ombre sulla parete, il tutto ravvivato da un elemento di tensione cromatica costituito dalla forma rossa, anch’essa curvilinea, sul bordo destro dell’immagine, verso la quale le curve sembrano convergere. L’insegnante appare invece stagliarsi contro lo sfondo monocorde e vuoto di una parete rossastra, appena ravvivata da un alone di luce gialla; le forme che l’accompagnano sono rigide: la linea retta del tavolo, il triangolo del metronomo, gli angoli retti del ritratto sulla parete. Sono entrambe immagini costruite con grande maestria compositiva, sono quel che si dice due immagini belle, ma non per questo è lecito parlare di vuoto calligrafismo, di estetismo fine a sé stesso. Queste immagini descrivono l’anima dei personaggi quanto pagine intere di sceneggiatura dialogata. Il primo lungometraggio, L’infanzia di Ivan, è al contrario girato interamente in bianco e nero. Abbandonato l’ambiente urbano, Tarkovskij può aggiungere all’acqua, primo fra quelli che diverranno progressivamente i soggetti caratteristici delle sue immagini, il motivo dominante delle forme organiche, ovvero la vegetazione e la terra, cui si affiancano fin da adesso il fuoco e l’aria nelle sue molteplici manifestazioni visibili. Anche qui il soggetto è basato su una contrapposizione fra vita immaginata e vita vissuta, ma questa volta sviluppato in un contesto ben più tragico, quello della guerra. Tanto tragico che l’immaginazione è relegata entro i confini del sonno e del sogno, la cui distanza dalla realtà si fa abissale. La dimensione visiva del film è interamente centrata su questa contrapposizione, ma la pacata dialettica fra linee curve e rette, fra figure dai vivi colori e sfondi grigi, qui non basta più; il contrasto visivo, per esser pari a quello narrativo, deve giungere a estremi altrettanto strazianti, deve essere amplificato fino a esiti espressionistici. Tarkovskij e Jusov affidano questo risultato alla composizione dell’inquadratura, ma soprattutto 72
alle qualità tonali, ovvero a una marcata dialettica fra ciò che in fotografia chiameremmo high key e low key4. Tutto l’arco narrativo del film è percorso dalla contrapposizione fra i toni chiari del sogno e quelli scuri della realtà già a partire dalle due sequenze iniziali, il primo sogno di Ivan e il suo risveglio nel mulino abbandonato. Nella figura 3.3 vediamo Ivan come egli vede sé stesso nel sogno: un’immagine dominata da tonalità chiarissime, da una luce morbidamente e intensamente diffusa, priva di forti chiaroscuri. Il brusco risveglio, il passaggio dunque dall’immaginario onirico all’incubo del reale dominato dalla guerra (fig. 3.4), trova invece la sua corrispondenza visiva in un passaggio altrettanto brusco ai toni scuri marcati da luci dure e ombre dense. Perché è questo il mondo in cui Ivan si muove, un mondo modellato dalle ombre, popolato da forme cariche di minaccia, oppresso da cieli cupi immancabilmente percorsi da pesanti masse di fumo nero; un mondo stravolto e impregnato di morte. L’inquadratura, orientata nel sogno in maniera pacatamente naturale, assume nel contempo un taglio esasperato, con la macchina da presa fortemente angolata lungo il piano verticale e inclinata lungo l’asse ottico in modo da realizzare, alla maniera espressionista, un’immagine tutta costruita per linee oblique, priva di qualsiasi elemento di stabilità e distensione.
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Fig. 3.3
Fig. 3.4
Un altro punto importante è la tendenza a comporre le immagini dotandole di un forte dinamismo interno. Con ciò 74
intendo la presenza di punti di fuga da cui diverge o verso cui converge una molteplicità di direttrici che creano una sorta di movimento da o verso l’esterno. L’immagine insomma non è chiusa in sé, non è in uno stato di equilibrio, ma si protende al di fuori di sé stessa. Guardiamo in particolare le due immagini seguenti, tratte dalla sequenza dell’incontro col vecchio del gallo. Nella prima (fig. 3.5) le rovine bruciate dell’isba formano una raggiera di punte nere e acuminate che, dall’esterno dell’inquadratura, convergono da ogni parte, minacciosamente, verso Ivan. È uno dei pochi esempi di composizione radiale che troviamo nel cinema di Tarkovskij. Nella seconda (fig. 3.6), perfetto esempio di composizione triangolare asimmetrica, tutti gli elementi principali della composizione seguono le direttrici di un triangolo ideale il cui vertice è situato presso il punto mediano del lato sinistro dell’immagine e sembrano diramarsi da esso, facendone il centro attrattore dello sguardo e proiettandosi dinamicamente verso l’estremo opposto e oltre ancora. L’immagine ha inoltre una forte spazialità poiché gli elementi figurativi si protendono non solo da sinistra verso destra, ma anche dal fondo in avanti.
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Fig. 3.5
Fig. 3.6
A quest’ultimo proposito è da notare che non sono rari, in questi primi film, i casi di composizione in profondità di campo, 76
o a fuoco totale, dunque dotati di un estremo grado di spazialità, come nell’immagine della figura 3.7, tratta dalla sequenza dell’archivio della Gestapo, in cui l’elemento figurativo dominante è l’incombere minaccioso di una massa oscura in primo piano, la scultura con il simbolo della svastica, ma non meno importanti sono le figure sullo sfondo e in particolare il convergere di linee inclinate poste a varia distanza (la svastica stessa, la scalinata, i bordi del pavimento) verso il centro, occupato dai due soldati che stanno recuperando i dossier degli innumerevoli prigionieri giustiziati, fra i quali Galtsev scoprirà quello di Ivan.
Fig. 3.7
Nella sezione centrale del film, a partire dalla sequenza del corteggiamento di Maša da parte di Kholin nel bosco di betulle, c’è nella vicenda un intermezzo di parziale ed effimera distensione. Il contrasto veglia-sonno brevemente si stempera, e anche le immagini del mondo reale si schiariscono, giungendo a divenire a volte perfino ariose (fig. 3.8). 77
Fig. 3.8
Ma non può durare: Ivan, lasciato solo, si lascia riprendere dai suoi incubi giocando alla guerra, mentre fuori la guerra vera torna a farsi sentire con un pesante bombardamento. La luce stessa sembra disgregarsi, e tutto precipita nuovamente nel buio. È una sequenza in cui ha un ruolo importante un susseguirsi frenetico di immagini di transizione, frammenti visivi, fulminei balenii, inquadrature instabili, di cui sarà dunque più pertinente parlare nei prossimi capitoli. Essa tuttavia non è priva di un nucleo di immagini significanti in cui lo spazio è deformato, dissolto, come in quelle di transizione lo è il tempo. Nella figura 3.9 abbiamo un caso, quasi unico in Tarkovskij, di distorsione prospettica così accentuata da rimandare ancora una volta, drammaticamente, al più esasperato cinema espressionista. L’angolo più vicino del tavolo è così innaturalmente acuto da sembrare una punta di freccia e i gradini, più lontani e sul lato opposto, ne ripetono la forma. Il buio domina su tutto: solo una lama di luce percorre diagonalmente il pavimento partendo dall’angolo inferiore sinistro dell’immagine e terminando sui tre 78
gradini che conducono verso le ulteriori tenebre dello sfondo. La figura verticale di Ivan, con il braccio proteso verso la campana che occupa il centro esatto nel lato superiore dell’immagine, è l’unico elemento di stabilità, ma immensamente precario: Ivan sembra poggiare su un piano inclinato; tutta l’immagine pende vistosamente, tutto sembra dover essere risucchiato da un momento all’altro verso l’angolo in basso a sinistra, in direzione del quale sono rivolti lo spigolo del tavolo e lo stesso sguardo del ragazzo. La sicura centralità della piccola campana in alto non ha forza visiva sufficiente a compensare tutto ciò.
Fig. 3.9
La seconda immagine (fig. 3.10) è situata ancor più in profondità nel labirinto d’incubo in cui si è perso Ivan: lo spazio si è dissolto, una tenuissima e secca sagoma triangolare di luce in alto a sinistra richiama, come un’ormai debolissima eco, la tagliente composizione per angoli acuti dell’immagine precedente; il viso di Ivan, che in essa era ancora illuminato, ora è nel buio, tutta la sua figura è ridotta a una sagoma nera che si 79
staglia contro un’esigua macchia di luce tetra, desolata, sorgendo dall’identico nero perfetto e incorporeo delle tenebre circostanti.
Fig. 3.10
Nel finale, e soprattutto nelle immagini dell’ultimo sogno, il contrasto fra tonalità chiare e scure si concentra e trova la sua sintesi all’interno di una stessa immagine, come nella figura 3.11 dove l’oscuro albero morto si erge sulla chiarissima spiaggia illuminata dal sole. Ed è l’albero su cui s’infrangerà la corsa di Ivan nell’inquadratura conclusiva.
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Fig. 3.11
Un’ultima nota sul ruolo dell’acqua: sebbene presente in molte immagini (la vicenda si svolge sulle due rive di un fiume), essa appare spesso come un elemento fra gli altri del paesaggio, diventando solo in due casi protagonista esclusiva dell’inquadratura: all’inizio e in prossimità della fine del film, quando la macchina da presa si sofferma a lungo sulla superficie stagnante della palude. È l’acqua da cui giunge Ivan ed è l’acqua in cui scompare partendo per la missione da cui non tornerà (fig. 3.12)
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Fig. 3.12
Nessuna novità figurativa presenterebbe ancora Andrej Rublëv, se non fosse che qui gli orizzonti si dilatano, la macchina da presa spazia, con campi lunghi e lunghissimi, su paesaggi di notevole vastità, grandi inquadrature corali, «immensi totali fatti di aneddoti in miniatura»5, in molti dei quali sono evidenti i riferimenti a Bruegel. Il senso di essi è stato spiegato, con particolare attenzione alla scena della passione di Cristo (fig. 3.13), dallo stesso Tarkovskij, e basterà dunque citare le sue parole: Noi ci siamo effettivamente ispirati a Bruegel che io amo molto. La ragione per cui l’abbiamo scelto, io e il mio operatore, è che Bruegel è molto vicino ai russi e ha molto affetto per loro, perché nella sistemazione dei piani, l’azione parallela che esiste nei suoi quadri, i numerosi personaggi occupati ciascuno nei propri affari, in tutto questo c’è qualcosa di molto russo. Se la maniera di Bruegel non trovasse delle risonanze nello spirito russo noi non l’avremmo mai utilizzato nel nostro film o meglio non ci sarebbe venuto in mente… D’altra parte io credo che è piuttosto uno sbaglio, un difetto di questa scena, perché così come noi l’abbiamo girata essa finisce per spingere lo spettatore intellettuale a fare questa analogia, che a conti fatti è del tutto inutile.6
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Fig. 3.13
«Qualcosa di molto russo». Ma cosa significa per Tarkovskij «molto russo»? Mi sono sembrate pertinenti a questo proposito le considerazioni di Achille Frezzato che prendono l’avvio dalla differenza fra il Rinascimento italiano «connesso a una base ideologica che si identifica con la nozione di personalità», dunque centrato sull’individuo, e il Rinascimento dell’Europa settentrionale e in particolare delle Fiandre per il quale «la società è concepita come un tutto, è priva di livelli, classi e ceti che ne qualifichino i rispettivi diritti». A questo Rinascimento «collettivista» appartengono Bosch e, appunto, Bruegel, i quali «rinunciano al repertorio di immagini tradizionali, conformi a una concezione categoriale e legalitaria del mondo (iconografie di santi, ritratti di principi), e rappresentano la vita del loro tempo. E questa vita trasferiscono dal piano della storia ufficiale a quello dell’esperienza umana vista nella sua interezza»7. E in tutto ciò c’è molto di Andrej Rublëv. Questo «senso del collettivo» è infatti, fra l’altro, ciò che avvicina Bruegel al contesto artistico dell’icona russa con cui notoriamente Tarkovskij si sentiva in forte sintonia, sia come russo che come portatore di una visione religiosa. A tale proposito, con riferimento all’iconostasi, massima espressione della pittura d’icone, scrive M. Alpatov: Nell’iconostasi russa il singolo è parte inscindibile di numerosa schiera, non vi si
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perde, anzi, apparendo con altri, acquista importanza. […] Tutte le figure sono legate da un impeto spirituale comune […] I partecipanti sembrano cantare una stessa nota, come in una potente monodia, quale era preminente nella musica ecclesiastica del tempo.8
Se dunque un parallelo può esser tracciato fra le immagini di Andrej Rublëv e la pittura di icone è proprio nella dimensione collettiva che abbraccia sia la componente narrativa che quella appunto figurativa del film. Ma il parallelo, in quest’opera, si ferma qui. Molti di questi totali sono ancora costruiti secondo una composizione in profondità di campo (una scelta stilistica che sarà quasi del tutto abbandonata dopo Andrej Rublëv) in cui alle figure principali fa da contrappunto una varietà di figure minute che si muovono, agiscono per conto loro sullo sfondo, a volte anche a grande lontananza (fig. 3.14). Notevole è, fra le altre, l’immagine del volo delle oche sulla città di Vladimir invasa dai tartari (fig. 3.15), che ripropone il contrasto fra pesantezza e leggerezza nella contrapposizione fra la tragicità della cupa massa umana in lotta sullo sfondo e la bianca levità del volo che attraversa l’immagine, in diagonale, a distanza ravvicinata.
Fig. 3.14
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Fig. 3.15
Domina in queste immagini, realizzate, a eccezione dell’ultima sequenza, in un terso bianco e nero, il respiro grandioso, la dimensione solenne, la compostezza infinita dell’epica; una poetica della grande dimensione che si sarebbe tentati di definire «la risposta di Tarkovskij al cinema di Ėjzenštejn». Il fatto che ciò si contrapponga alla componente narrativa del film, già rivolta alla riflessione interiore, ci dice come Andrej Rublëv sia l’opera di un artista già maturo sul piano della concezione del mondo (qui enunciata appunto nella componente narrativa), ma ancora alla ricerca di un linguaggio visivo che sia in grado di raffigurare il proprio sistema di idee, in altre parole alla ricerca del proprio modo di formare. Ho notato in L’infanzia di Ivan l’opposta caratterizzazione fotografica delle sequenze oggettive e di quelle che costituiscono ciò che potremmo chiamare la raffigurazione di un paesaggio interiore (coincidenti, lì, con i momenti onirici). Ciò non accade in Andrej Rublëv perché, mentre da una parte nelle due principali sequenze «interiori» che esso contiene (la rappresentazione della crocifissione nell’immaginazione di Andrej e il dialogo fra Andrej e Teofane nelle rovine della chiesa di Vladimir) la fotografia non ha nessuna peculiarità rispetto a quella che caratterizza le sequenze oggettive, dall’altra vistosamente anomala è una di queste ultime, quella della festa pagana (fig. 3.16), dove la nettezza dell’immagine si 85
polverizza nella luce crepuscolare, diffusa e resa magica da un velo di nebbie iridescenti fra cui vagano lontani bagliori. La fotografia evoca qui una dimensione arcana, dà un’apparenza onirica, di sortilegio, a un evento reale. Siamo così di fronte al primo manifestarsi di quella ambiguità fra visione oggettiva e immaginazione, sogno, ricordo che dominerà Lo specchio e non sarà mai del tutto abbandonata nei film successivi.
Fig. 3.16
Per quanto riguarda l’acqua, come nel precedente L’infanzia di Ivan, essa si limita spesso a svolgere un ruolo di sfondo o complemento nella composizione; vi sono tuttavia anche qui alcune avvisaglie del Tarkovskij successivo: alghe ondeggianti durante il dialogo fra Andrej e Teofane nel bosco (tema che si ritroverà quasi identico, ma a colori, in Solaris), o perfino attimi di pura astrazione, quali sono lo spandersi di un liquido bianco in uno specchio d’acqua scura nella sequenza dell’accecamento e poi analogamente in quella dell’uccisione di Fomà dopo la scorreria. Anche la struttura delle immagini non presenta novità rispetto al film precedente: la tendenza dominante è quella di una composizione per linee inclinate, spesso triangolare o diagonale (figg. 3.17 e 3.18), sempre comunque prevalentemente dinamica anche se ormai lontana dall’esasperazione da cinema espressionista del film precedente 86
(si confronti a questo proposito l’immagine della figura 3.9 con quella, dotata di un ben maggiore equilibrio interno, di fig. 3.17).
Fig. 3.17
Fig. 3.18
Rimane da considerare la sequenza finale, la più originale e problematica, un autentico poema visivo che trae da alcuni dipinti di Rublëv il suo materiale figurativo e che dell’intera opera rappresenta senz’altro uno dei vertici espressivi. È qui che, attraverso immagini improvvisamente divenute a colori (fig. da V a VII e fig. 3.19), l’epica esteriore delle precedenti immagini figurative si trasforma, con poeticissima solennità, in epica del pensiero.
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Fig. 3.19
La sequenza si può dividere in due grandi parti, la seconda delle quali è interamente centrata sulla Trinità angelica (fig. VI), «il senso e il vertice della vita di Andrej»9, e approda a un breve epilogo sfociante nella figura del Salvatore (fig. VII). I momenti iniziali di ciascuna parte sono caratterizzati da immagini di forte astrattismo geometrico (fig. V) e l’intera sequenza da una profusione di colori accesi che le conferiscono un sapore quasi apologetico. Le forme geometriche rimarranno un episodio isolato, fatta eccezione per gli interni della stazione di Solaris, mentre la ricchezza cromatica, che rimarrà intensa nelle due opere successive, e soprattutto in Solaris (fig. X), solo nelle opere del secondo periodo sarà del tutto abbandonata. L’immagine conclusiva dell’epilogo (fig. 3.19) propone infine, nell’organicismo di isolate macchie di colore sulla tavola consunta d’una icona e nella presenza della pioggia, quelli che diverranno presto gli elementi guida dell’universo visivo di Tarkovskij. Andrej Rublëv è il primo film in cui Tarkovskij utilizza immagini in bianco e nero e a colori all’interno di una stessa opera, una compresenza che caratterizzerà anche tutti i film successivi. Da adesso dunque si pone il problema del rapporto fra bianco e nero e colore, rapporto che, come vedremo, Tarkovskij ridefinisce da film a film. Nel caso di Andrej Rublëv, lo intese così: 88
Ciò che è importante per noi, è di presentare la vita. Per me la vita può essere tradotta nel cinema attraverso delle immagini in bianco e nero e questo tanto più perché noi abbiamo dato un rapporto tra l’arte e la pittura da una parte e la vita dall’altra. Questo rapporto tra un finale a colori e un film in bianco e nero è per noi l’espressione di un rapporto tra l’arte di Rublëv e la sua vita. Per grandi linee questo si riassume così: da una parte la vita quotidiana, realista, razionale, dall’altra la convenzione artistica di questa vita, la tappa successiva di un seguito logico.10
Vi è dunque, nelle parole di Tarkovskij come nelle immagini del film, l’idea di una netta separazione fra il momento della vita (in cui non vediamo mai Rublëv dipingere) e quello dell’arte (in cui non vediamo mai Rublëv): due blocchi compatti che, benché conseguenti, si guardano bene dal compenetrarsi. Possiamo considerare l’opera successiva, Solaris, come il primo autentico passo verso quel processo di interiorizzazione dell’immagine che Tarkovskij porterà ben presto a compimento e come tale è probabilmente lecito definirla, sotto certi aspetti, un’opera di passaggio, senza che ciò implichi il suo essere in qualsiasi maniera «minore». Tutto ciò che nell’opera precedente era stato dimensione epica, qui scompare e la macchina da presa circoscrive l’orizzonte visivo su un cosmo la cui estensione è quella dell’animo umano, colto (anche) a fare i conti con l’impari rapporto fra i limiti delle proprie capacità intellettive e la doppia alienità, gigantesca e insondabile, del cosmo fisico e dei fantasmi del proprio inconscio. Ma colto soprattutto, come già detto, a sostenere il peso della cosmica distanza fra la disarmonia che la tensione verso l’altrove innesca e il proprio esistere naturale, legato alla terra, nella cui quiete ci immergono le inquadrature iniziali (fig. 3.20) e ci riportano, sia pure illusoriamente, quelle finali. In questo inizio e in questa fine lo sguardo si immerge in «immagini stagnanti»11 fatte d’acqua, vegetazioni acquatiche e terrestri, paesaggi avvolti in una luce morbida e in una lieve foschia. Un rigoglioso fluire e, appunto, stagnare di colori e forme organiche, manifestazioni di una natura percepita come immobilità contemplativa cui il tempo, il 89
divenire, il mutamento sono estranei12.
Fig. 3.20
Questo prologo terrestre e questo epilogo apparentemente tale ci introducono in un territorio di organica morbidezza, in opposizione al quale gli ambienti della stazione spaziale sono caratterizzati da un estraneo rigore geometrico alla Kubrick (fig. XI), stemperato e contraddetto tuttavia dal disordine, dal caotico affollamento di oggetti o resti, frammenti di oggetti che ingombrano pareti, pavimenti, tavoli, scaffali quale segno della presenza umana quando sono oggetti d’uso quotidiano, o del disgregarsi dei prodotti della ragione quando sono parti di macchine (cavi elettrici, componenti elettronici)13. È interessante commentare il dissidio sorto fra Tarkovskij e Jusov sulle lunghezze focali degli obiettivi. Tarkovskij avrebbe voluto girare tutto con il 50 o il 75 mm, dunque il «normale»14 o il medio teleobiettivo; Jusov tendeva invece verso il 35 mm, cioè il grandangolare. Non è una questione puramente tecnica poiché dietro di essa si cela una diversa impostazione che potremmo dire «filosofica». Il grandangolare dà prevalenza all’ambiente nei confronti della figura umana, il normale e il teleobiettivo, avendo un angolo visivo più ristretto, concentrano lo sguardo sulla figura umana. «Siamo in conflitto con Jusov per problemi di carattere estetico. Io sono contrario a che l’ambiente abbia un peso equivalente a quello dell’attore», 90
scriveva Tarkovskij il 12 luglio 1971 nel suo diario. E l’11 agosto: Temo che in Solaris ci sia una certa commistione di generi. Questi dannati corridoi, laboratori, apparecchiature, basi di lancio. Forse è inevitabile, chi lo sa. Mi sembrava che bisognasse girare tutto questo in modo non concreto, con un obiettivo da 50 o 80 millimetri… invece abbiamo girato molto con il 35. Cosa ne verrà fuori non lo so. Sono molto in apprensione.15
Probabilmente, reduce dall’esperienza a suo modo magniloquente di Andrej Rublëv, Tarkovskij sentiva un bisogno di raccoglimento, di concentrazione che il totale, il campo allargato non gli consentiva. E infatti lungo tutto l’arco del film il taglio dominante nella figura umana è il mezzo primo piano, che solo raramente si apre fino alla figura intera (scelte cui, oltretutto, mal si adatta il formato panoramico). Tarkovskij evita dunque gli estremi sia del campo lungo, che annulla la figura umana, sia del primissimo piano che spinge fino all’estremo l’introspezione. Sembra che voglia mantenere un equilibrio fra interiorità e oggettività. Non sappiamo se anche nelle immagini paesaggistiche iniziali Tarkovskij avrebbe voluto realizzare una non dominanza del paesaggio e se dunque i campi lunghi e lunghissimi che vediamo in esse (come nella figura VIII) siano più frutto della volontà di Jusov che di quella del regista. Tuttavia in questo caso è probabile che il dissidio, se ci fu, fu più mite. Le perplessità di Tarkovskij sono relative alle sequenze girate all’interno della stazione, dove la sua preoccupazione era tenersi a distanza dalla convenzionalità di certe immagini «di genere». Ricordiamo che parlando di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, egli aveva commentato: «Chissà perché in tutti i film di fantascienza che ho avuto la possibilità di vedere, gli autori costringono lo spettatore a fissare la sua attenzione sui dettagli delle strutture di astronavi o sugli aspetti degli ambienti del futuro»16. Le immagini dello stagno e del bosco, certamente a lui più congeniali, è improbabile che lo inducessero ad analoghe perplessità. 91
Per quanto riguarda la composizione delle immagini, ovunque non domini la circolarità degli ambienti della stazione, viene mantenuta la tendenza, sviluppata nelle opere precedenti, a una strutturazione per linee inclinate, ma il dinamismo è in genere meno marcato. L’opposizione naturale-artificiale è evidenziata anche attraverso l’uso dei colori, essendo gli interni della stazione quasi interamente dominati dal bianco, cioè da un non colore, e dal rosso, cioè il colore opposto al verde vegetale delle immagini iniziali. Con Solaris infatti Tarkovskij torna a utilizzare in maniera prevalente il colore e più esattamente sviluppa quella compresenza di immagini a colori e in bianco e nero inaugurata con Andrej Rublëv, non però in blocchi compatti e non comunicanti, bensì in una forma più articolata e sottile, che costituirà da questo momento una delle caratteristiche peculiari del suo stile. Sono sei le sequenze in cui egli ricorre al bianco e nero; soffermiamoci ora in dettaglio su di esse. La prima è quella del ritorno di Berton in città. La sequenza comincia in bianco e nero e tale rimane per gran parte della sua durata alternando immagini a colori soltanto nelle inquadrature finali. Berton, proveniente dall’abitazione del padre di Kelvin sulla riva dello stagno, da quel luogo di quiete e armonia in cui ci siamo trovati immersi nelle immagini iniziali a colori, si trova ora circondato da un ambiente che ne è l’esatta negazione. Le immagini delle autostrade, tranne che nelle ultime inquadrature, sono riprese in soggettiva17 dall’interno dell’automobile in movimento e alternate a primi piani di Berton. Noi vediamo dunque quel paesaggio desolato attraverso i suoi occhi. Possiamo ben pensare che egli percepisca il contrasto stridente fra il luogo da cui proviene e quello in cui viene risucchiato e che senta quest’ultimo come estraneo («si sta bene da voi», aveva detto al padre di Kelvin). Il bianco e nero esprime allora questa estraneità. Ma quello è il mondo in cui si svolge la sua vita e verso cui è verosimile credere che 92
abbia maturato col tempo una sorta di assuefazione. Il sentimento di estraneità dunque poco a poco si dissolve e il paesaggio urbano si fa più presente attraverso il ritorno dei colori. Il totale immergersi di Berton in esso, il suo perdersi in esso è infine espresso dalle ultime inquadrature in cui il punto di vista diventa oggettivo: vediamo dall’alto un groviglio di autostrade percorse da flussi interminabili di automobili (fig. IX), sappiamo che una di esse è quella di Berton, ma non siamo in grado di distinguerla dalle altre. Berton si è perso nei meandri di un mondo disumanizzato di cui è tornato, suo malgrado, a far parte, è uscito dallo sguardo dello spettatore come dalla vicenda del film. In bianco e nero sono poi gli ultimi momenti di Kelvin sulla Terra (fig. 3.21), in cui appare per la prima volta, in un ritratto, il volto della moglie morta, Harey, e le due sequenze che costituiscono il prologo (la prima) o presiedono (la seconda) alle successive apparizioni di Harey. Il delirio-sogno di Kelvin durante la malattia, infine, è girato a colori nella sua parte iniziale, poi in bianco e nero nella visione dell’incontro con la madre, che lo conclude (fig. 3.22). Infine sono in bianco e nero le immagini dell’oceano di Solaris che vediamo mentre si ode, fuori campo, il monologo di Kelvin che prelude al finale («…e persistevo nella fede irremovibile che l’epoca dei miracoli crudeli non era trascorsa»).
Fig. 3.21
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Fig. 3.22
Possiamo dire che il bianco e nero interviene nei momenti d’irrealtà, i momenti cioè in cui un mondo lascia il posto a un altro mondo. La sequenza del ritratto di Harey in particolare è a pieno titolo uno di essi: è innanzitutto il brusco ritorno alla quiete della natura subito dopo la frenesia urbana delle autostrade (le immagini di fig. IX e fig. 3.21 sono montate in successione), ma è anche, per Kelvin, il congedo dalla sua vita sulla Terra, prima della partenza. Le apparizioni di Harey sono allo stesso modo i momenti in cui le certezze della ragione vengono meno per lasciare il posto a una realtà aliena e incomprensibile. Infine, nella sesta sequenza, Kelvin è sospeso fra due mondi, subito prima di una scelta forse irreversibile fra il ritorno sulla Terra e la permanenza su Solaris. Voglio tornare in conclusione sul discorso dell’ampiezza dell’orizzonte visivo. In netta contrapposizione con Andrej Rublëv, Solaris è, fin dalle immagini iniziali, centrato sulla piccola dimensione: pensiamo alle alghe, ma anche al breve orizzonte dello stagno, sempre circoscritto dalla vegetazione sullo sfondo (fig. XII). Una piccola dimensione che, da armoniosa che era nelle immagini terrestri, si ribalta, diviene opprimente dal momento dell’ingresso nella stazione spaziale nei cui claustrofobici confini la macchina da presa rimane prigioniera. Ne uscirà quasi soltanto per fissarsi ripetutamente dall’alto sulle lente, immense evoluzioni spiraliformi 94
dell’Oceano (fig. X), gli sterminati orizzonti del quale saranno gli ultimi su cui si poserà l’occhio cinematografico di Tarkovskij. D’ora in poi infatti la vastità intesa come immediatezza esteriore dell’universo fisico scomparirà per essere più profondamente evocata attraverso quel metafisico alludere dell’immagine all’infinito di cui Tarkovskij parla nei suoi testi teorici. Anche in Solaris è presente Bruegel, questa volta in prima persona attraverso le riproduzioni di cinque suoi quadri presenti nella biblioteca della stazione. Su uno di essi, Cacciatori nella neve (fig. 3.23)18, si sofferma in lunga contemplazione Harey dopo la sequenza del compleanno di Snaut e a lungo la macchina da presa lo percorre come aveva fatto nel film precedente con le icone di Rublëv. Il procedimento adottato da Tarkovskij è identico: il quadro viene dunque mostrato attraverso una successione di dettagli in movimento e mai nella sua interezza, tuttavia è interessante notare un’affinità fra il modo di comporre le immagini che è stato fin qui prediletto da Tarkovskij e la composizione del dipinto di Bruegel.
Fig. 3.23
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Siamo in esso di fronte a una rigorosa, ordinata struttura bidimensionale messa al servizio della terza dimensione che racchiude il centro espressivo dell’opera. C’è infatti, per dirla in linguaggio cinematografico, innanzitutto un dialogo fra figure in campo medio, lungo e lunghissimo, ovvero una composizione in profondità di campo inscritta in una struttura che definirei a doppio triangolo. Il triangolo principale è formato dalla linea ascendente costituita dall’orizzonte e dal profilo delle montagne, e dalla linea discendente del pendio nevoso lungo il quale avanzano i cacciatori. Il secondo triangolo, più piccolo, è formato dalla parte sinistra dello stesso pendio e dalle basi degli alberi, e circoscrive il movimento dei cacciatori e dei cani, idealmente prolungantesi poi lungo l’intera diagonale principale. L’insieme dei due triangoli e del movimento delle figure (non escluso il volo dell’uccello in alto a destra19) orienta dinamicamente l’immagine da sinistra a destra e forma una composizione triangolare asimmetrica come se ne trovano molte nelle inquadrature di Tarkovskij del primo periodo. In particolare la già analizzata immagine della figura 3.6, pur differendo totalmente per il soggetto, ha una struttura molto simile al quadro di Bruegel. Ma la terza dimensione, pur inscritta in uno schema compositivo che distribuisce secondo ordine e misura le figure nel piano, ha un ruolo altrettanto importante. La principale caratteristica di molte opere di Bruegel (e questa non fa eccezione) è infatti, come notavo prima, una costruzione in profondità di campo in cui sfuma la contrapposizione figura-sfondo. C’è un soggetto o insieme di soggetti (figure) principali in primo piano, ma la minuta moltitudine di soggetti in lontananza è a sua volta moltitudine di figure, ciò che avviene a grande distanza non è detto che sia meno importante di ciò che avviene a pochi passi dall’osservatore. E abbiamo visto che questo è vero, almeno fino ad Andrej Rublëv, anche per Tarkovskij. Passiamo
ora
a
Lo
specchio. 96
Analizzandone
la
macrostruttura temporale abbiamo detto che esso si situa a tutti gli effetti all’interno della prima fase stilistica e infatti, come vedremo, esso ne conserva in ciascuno dei tre livelli formali le caratteristiche fondamentali. Ma allo stesso tempo il processo di interiorizzazione dell’immagine iniziato in Solaris diviene da adesso definitivo e irreversibile: la macchina da presa si immerge in una sorta di flusso di coscienza visivo da cui mai più uscirà nelle opere successive. E non è casuale che con Lo specchio inizino (embrionalmente) a manifestarsi alcune caratteristiche che anticipano quello che pochi anni dopo sarà il secondo stile. Il nuovo mondo visivo di Tarkovskij, pur rimanendo vicino ai modelli precedenti per la composizione dell’immagine e per l’uso del colore, in questo film sembra invece aver raggiunto una sistemazione definitiva per tutto ciò che è il profilmico, nel quale soprattutto troviamo una già compiuta anticipazione di quello che sarà il suo secondo stile. Cominciamo a considerare quest’ultimo punto, ovvero cosa forma d’ora in poi l’universo visivo di Tarkovskij. La prima cosa da dire è che qui la dominanza delle forme e delle materie organiche, e in generale naturali, già presente nelle opere precedenti, si fa totale. Gli esterni sono in grandissima parte ambientati in luoghi di campagna, gli interni in case di legno o le cui pareti mostrano, spesso al di là di quanto una concezione puramente naturalistica vorrebbe, quelle texture usurate e dunque di sapore accentuatamente organicistico che incontreremo così spesso nei film successivi (ma non, come vedremo, in Sacrificio, pur essendo esso sotto ogni altro aspetto riferibile assolutamente al secondo stile). La presenza delle texture organiche assume un ruolo di primo piano a partire dalla sequenza onirica successiva all’incendio del fienile, in cui vediamo pareti in disfacimento percorse da fitti rivoli d’acqua, prima apparizione di quel tema, d’ora in poi ricorrente, dello sgretolamento della materia: il tendere a una condizione che, conosciuta la forma, se ne allontana per tornare allo stato 97
primigenio, indifferenziato, della materia originaria. L’usura delle cose è il segno esteriore del fluire del tempo e dunque della presenza della vita, che esiste in esso. A questo proposito Tarkovskij cita il giornalista Ovcinnikov: Si ritiene che il tempo di per sé favorisca la manifestazione dell’essenza delle cose. Perciò i giapponesi vedono un fascino particolare nelle tracce dell’età. Essi sono attratti dal colore inscurito del legno vecchio, dal muschio che copre la pietra e persino dall’usura, dai segni lasciati da molte mani sul bordo di un quadro. Questi segni di antichità vengono chiamati col termine «saba», che alla lettera significa «ruggine». La saba quindi è la ruggine autentica, il fascino dell’antichità, il marchio del tempo. Un elemento della bellezza come la saba incarna il legame tra l’arte e la natura.20
E a proposito della «casa dell’autore» nello Specchio scrive: In questa scenografia che riproduceva un vecchio appartamento moscovita, sono stati riprodotti con estremo realismo i muri del vano scale, le ragnatele sulla carta da parati logora della stanza disabitata, le tubature arrugginite che sgocciolavano in bagno, il vecchio lavandino incrostato in cucina, diventato verde dalla muffa, il soffitto infiltrato d’acqua, che per poco non cadeva in testa agli inquilini dell’appartamento. Era un appartamento abitato dal tempo.21
Abbiamo visto che fin qui le immagini a colori di Tarkovskij sono state caratterizzate da una notevole ricchezza cromatica. Pur ammorbidendone l’intensità, Lo specchio non fa eccezione, prediligendo i toni caldi del fuoco, che trovano una delle loro massime realizzazioni nelle due intense inquadrature della mano dinanzi al ramo in fiamme (fig. XIII). Ancora tonalità calde e luce diffusa troviamo nella predilezione per le ore estreme del giorno negli esterni o per l’uso di illuminazione non elettrica (dunque candele o lampade a petrolio) negli interni. Appare anche in alcune immagini una sorta di «minimalismo», ovvero il concentrare il senso dell’immagine in dettagli minuti. Guardiamo ad esempio quella di figura XIV, un campo lungo della casa in cui avverrà l’incontro con la «signora degli orecchini». È da poco trascorsa l’ora del tramonto e la luce è quella debole e fredda del crepuscolo. Nel prato che occupa i due terzi inferiori dell’immagine il verde dell’erba si è incupito 98
e sta cedendo il posto al nero della notte; sullo sfondo la casa è una sagoma scura, e così pure il bosco alle sue spalle, benché rischiarato da una debole foschia biancastra. Una fredda striscia di cielo viola è l’unico elemento cui potremmo attribuire una certa evidenza cromatica se non fosse anch’esso molto debole, evocatore più della notte in arrivo che del giorno ormai concluso. Se l’immagine fosse tutta qui, sarebbe soltanto grigia, spenta, desolata. Ma nella casa una finestra, una sola, è illuminata di un giallo vivo. E quel piccolissimo rettangolino di luce e colore caldo in prossimità della sezione aurea dell’immagine, crea un elemento di tensione cromatica che la trasforma totalmente, dà alla casa l’apparenza di un luogo ospitale; essendo il centro di attrazione dello sguardo, bilancia e supera il distendersi di toni scuri e cromatismi freddi su ogni altra parte dell’immagine. Siamo ormai davanti a una poetica delle piccole cose che si è lasciata totalmente alle spalle la grande dimensione di Andrej Rublëv. Un uso del tutto particolare è quello che Tarkovskij fa qui dell’alternanza fra colore e bianco e nero. La componente narrativa del film si svolge, con buona approssimazione, su quattro piani temporali distinti relativi all’infanzia, all’adolescenza (mondo del ricordo), all’età adulta (il recente passato) e al presente (la malattia) del narratore, nonché su due diversi stati di coscienza, l’oggettivo e l’onirico. Ebbene, tutti i mezzi formali a disposizione sono orientati verso l’ottenimento di una totale indifferenziazione fra i vari tempi narrativi e stati di coscienza, e fra essi il mezzo fotografico lo è mediante l’uso indifferenziato del colore e del bianco e nero. Non presenta ancora una volta una sostanziale novità la composizione, in cui prevale sempre la tendenza a un orientamento non frontale della macchina da presa e dunque a uno schema prevalentemente triangolare asimmetrico o diagonale. È quest’ultimo il caso dell’immagine della figura 3.24, costruita appunto su una fuga di linee diagonali ascendenti e per di più con l’asse di ripresa a sua volta inclinato dal basso 99
in alto. Cominciano tuttavia ad apparire le prime avvisaglie di uno stile compositivo nuovo, caratterizzato da una rigorosa frontalità. Nel già citato piano dell’incendio, ad esempio, in tutti i momenti che possiamo identificare come immagini significanti ci troviamo di fronte a composizioni per piani variamente angolati rispetto all’asse di ripresa, tranne quella che nella sua struttura risulta la più importante, l’ultima: punto di arrivo del percorso della macchina da presa ma anche, idealmente, dell’itinerario che Tarkovskij sta percorrendo attraverso l’universo visivo. L’immagine (fig. 3.25) è strutturata secondo due piani paralleli (in primo piano la tettoia, sullo sfondo il fienile in fiamme) che racchiudono spazialmente due, poi tre figure umane immobili in campo medio. Queste ultime, più che soggetto della composizione, appaiono come un puro elemento di tensione, mentre l’elemento qualificante dell’immagine risiede nel rigoroso parallelismo dei due piani e nel posizionamento perfettamente frontale rispetto a esse della macchina da presa. Da qui partirà il nuovo linguaggio visivo di Tarkovskij. Né si tratta di un caso isolato; cito ancora, ad esempio, l’immagine del bambino nel suo letto nella sequenza degli orecchini e l’immagine della levitazione (fig. 3.26), che ritroveremo molto simili in Sacrificio (fig. 7.6). Entrambe inoltre sono costruite secondo direttrici orizzontali e verticali, una composizione che, come vedremo, si ritroverà costantemente nei film successivi.
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Fig. 3.24
Fig. 3.25
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Fig. 3.26
Facciamo infine alcune considerazioni sull’uso della luce; e, perché no, del suo opposto, il buio. La luce, dicevo, è in generale morbida e calda, ma spesso anche il buio lo è, un buio ben diverso da quello angoscioso delle fantasie guerresche di Ivan. Qui la sua presenza è parte di una tendenza a sfumare, rendere incerti i contorni ponendo la figura umana su un labile confine fra luce e ombra. È il caso di alcune fra le più riuscite immagini della madre nella sequenza della poesia Primi incontri. Analizziamo quelle della figura 3.27 e della figura XV. Nella prima più di metà dell’immagine è completamente buia, mentre dalla finestra, sul cui davanzale è posato un quaderno, viene una luce calma e non invasiva. La madre è nella zona oscura, lo sguardo è rivolto in basso verso il quaderno, l’espressione è assorta. E soprattutto, emerge appena dal buio che la avvolge; di lei vediamo solo la gonna, le mani, il viso e il collo. Ma nonostante la dominanza del buio, l’immagine è agli antipodi sia della tensione angosciosa del gioco di Ivan sia del vitalismo panico o dionisiaco della festa pagana di Andrej Rublëv; emana piuttosto una quiete riflessiva in cui l’oscurità 102
assume l’apparenza sicura di una coltre protettiva.
Fig. 3.27
Ancor più dominata dal buio è la seconda immagine, in cui della madre, nuovamente assorta nella lettura, vediamo solo il viso e le mani. La luce che viene dall’esterno è adesso quella azzurrina del crepuscolo e forse ciò renderebbe fredda, perfino inquietante l’immagine se non fosse anche qui, come in quella della figura XIV, per un elemento minimale, in questo caso la candela, la cui minuscola luce calda riesce a far pendere da tutt’altra parte il piatto della bilancia; l’intera immagine si «riscalda» grazie a quei pochi oggetti che essa illumina, e il buio stesso nuovamente non assedia, ma avvolge e protegge la figura umana che si fonde in esso senza esserne annullata. Ancora una volta è bene notare l’estraneità delle immagini di Tarkovskij a qualsiasi estetismo fine a sé stesso. E infatti esse non esitano a diventare scarne o dure quando sono chiamate a presentare situazioni di disagio o tensione, come nella sequenza 103
della tipografia, girata in un desolato bianco e nero quasi da cinegiornale, in cui tutto appare freddo e scialbo a partire dalle inquadrature della madre che corre sotto una pioggia fitta (fig. 3.28); oppure nella scena del gallo, dove la madre è inquadrata, prima che sia costretta a ucciderlo, addossata a una parete, quasi appiattita contro di essa, con la sua stessa ombra che sembra incombere su di lei, e poi ancora, dopo che il gallo è stato ucciso, è ritratta in primo piano (fig. 3.29) sotto una luce dura, tale da far sì che siano le ombre a scolpire drammaticamente i lineamenti del suo volto.
Fig. 3.28
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Fig. 3.29
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L’immagine trovata Riassumendo quanto abbiamo visto finora, possiamo dire che la principale caratteristica dei primi cinque film è la diversità. Benché vi siano in essi degli elementi abbastanza ricorrenti, ad esempio un certo modo di comporre le immagini, ciascuno è un mondo a sé, caratterizzato da un suo peculiare modo di formare che inizia con esso e in esso si conclude. Possiamo dire che il «primo stile» di Tarkovskij consiste nell’assidua ricerca di uno stile, in un avvicinarsi per cerchi concentrici alla sua immagine cinematografica sfiorandone alcuni frammenti, ma non ancora toccandola nella sua totalità. Ogni opera costituisce una tappa di questo avvicinamento, ma il vero balzo è quello cui ci stiamo accostando soltanto adesso. Siamo dunque giunti al giro di boa. Le ultime tre opere (Stalker, Nostalghia, Sacrificio) sono anch’esse molto diverse dalle precedenti, molto di più di quanto queste non lo siano fra di loro, ma non lo sono l’una dall’altra. È ancora vero che ciascuna ha le sue peculiarità, che è lecito interpretare come sintomi di una evoluzione creativa ancora in corso, ma adesso si tratta di elementi che si innestano su un’uniformità stilistica di fondo che unisce le tre opere e giustifica l’identificazione in esse di una seconda, e questa volta relativamente stabile, fase stilistica. Tutto lascia insomma pensare che Tarkovskij abbia a lungo cercato il modo di formare a sé congeniale e, trovatolo, l’abbia mantenuto. Cominciamo col considerare l’uso della luce, ma un uso molto particolare: la luce come generatrice di buio che, è bene chiarirlo, è cosa diversa dalle immagini dello Specchio viste prima, basate su un dialogo fra luce e buio. In realtà abbiamo già visto la luce svolgere questa funzione in alcuni momenti della prima fase stilistica come il gioco disperato di Ivan nel primo lungometraggio, ma è solo in questa fase che l’uso della 106
luce dura, radente, o perfino del controluce diventa una presenza importante. Tarkovskij aveva già mostrato di conoscere bene le possibilità dell’uso espressivo del controluce, che popola l’immagine di sagome nere, quando il buio non diviene esso stesso presenza autonoma racchiudendo le figure umane all’interno di un mutevole confine fra chiarore e ombra. Ma è solo da Stalker in poi che egli sembra sentirne un bisogno quasi costante. Ombre dense e soggetti in controluce, nei quali sembra tornare il low key dell’Infanzia di Ivan, ricoprono e attraversano tutta la prima sezione di Stalker (fig. 3.30) fino all’attraversamento del posto di blocco, e anche quella sorta di discesa agli inferi che è la sequenza del «tritacarne» dove gran parte del lento avanzare dello Scrittore lungo il tunnel è dominato da cupi controluce che ne disegnano la sagoma esitante in un alternarsi di zone d’ombra fitta e diafani chiarori (figg. XVIII e XIX). In controluce infine (fig. XVII) viene a trovarsi ancora lo Scrittore nel momento in cui si rifiuta di entrare nella Stanza (ed è l’unico momento in controluce della sequenza).
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Fig. 3.30
Alla luce come generatrice di oscurità, Tarkovskij ricorre anche in Nostalghia, soprattutto nella prima metà del film (fig. 3.31), fino cioè a quella sorta di svolta che è l’«illuminante» dialogo di Gorčakov con Domenico in cui la metafora di una luce che penetra nel buio è resa anche visivamente in alcune inquadrature sia di Gorčakov (fig. 3.32) che di Domenico (fig. XXII). È, questa, un’immagine tutta giocata sull’accostamentocontrapposizione fra luce e ombra, che nelle due metà sinistra e destra giocano ruoli complementari, ed è in essa che riappare fra l’altro il tema della candela nel buio, appena sfiorato nello Specchio (fig. XV) e ben più distesamente sviluppato in Nostalghia (fig. XXI).
Fig. 3.31
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Fig. 3.32
Per comprendere infine le scelte formali operate da Tarkovskij in Sacrificio, bisogna preliminarmente chiarire che esso è strutturato in tre sezioni: la prima, a colori, si conclude con il passaggio degli aerei sulla casa; la seconda, decolorata, coincide con l’immersione nell’incubo dell’imminente guerra nucleare; la terza, nuovamente a colori, è il ritorno alla normalità e l’epilogo. L’uso del controluce è limitato qui solo ad alcuni momenti della sezione centrale, nella maggior parte della quale il buio assume, lo vedremo fra poco, un’altra, e più pervasiva, forma. Il salto figurativo più brusco è sicuramente nella nuova concezione dei colori che in questa seconda fase del percorso creativo di Tarkovskij segna un intransigente allontanamento dai cromatismi intensi dei film precedenti, al punto che in Stalker e Nostalghia essi risultano attenuati spesso fino al confine dell’assenza. Guardiamo ad esempio Stalker, dove il solo spazio dato loro è quello di una vegetazione pallida circondata dalla nebbia e illuminata da una luce livida e piatta, cui si alternano il marrone della terra e il grigio dei muri sui quali si posano diafane tonalità che si staccano appena dal bianco e nero. Per renderci conto della portata di questa nuova 109
poetica del non colore, basti confrontare l’impercettibile differenza fra le immagini della figura 3.30 e XVII, in bianco e nero la prima, a colori la seconda. In Sacrificio l’ascetica tavolozza delle due opere precedenti si conferma sia negli interni, dalle tonalità oscillanti fra il grigio, il bianco e il marrone, che negli esterni, sempre dominati dal rigoroso monocromatismo verde chiaro del tappeto erboso22, occasionalmente delimitato dalla luminosità immancabilmente bianca di una sottile striscia di cielo. Questi colori già tenui, nella sezione centrale del film si disfano; non in un vero e proprio bianco e nero, bensì in una inedita via intermedia: essi non spariscono completamente ma si fanno evanescenti, diafani, al limite della percepibilità. Con singolare efficacia, non annullandoli ma riducendoli a fantasmi di sé stessi, Tarkovskij ha ancora di più accentuato il sinistro senso della loro assenza, che qui evoca l’immersione nell’oscurità dell’incubo nucleare23. Contemporaneamente, la fotografia da chiara e luminosa che era si fa scura: non le regioni di luce e ombra di Nostalghia e Stalker o, ancor più lontane, quelle di alcuni momenti dello Specchio, ma una luce terrea, crepuscolare, incapace di gettar ombre perché essa stessa è una sola, monolitica ombra che avvolge gli uomini e le cose. Nella terza e ultima sezione cessa la decolorazione ma, al contrario di Andrej Rublëv dove il passaggio dal bianco e nero al colore è un evento eclatante (fig. V), qui è solo un lieve mutare di sfumatura (fig. XXIII), mentre la luce torna a farsi chiara fino a divenire protagonista nel controluce finale dell’albero contro lo sfondo del mare. Solo al culmine della sequenza dell’incendio Tarkovskij torna un’ultima volta (sarà davvero l’ultima) a un intenso contrasto cromatico, ancora tramite il fuoco che si riflette nell’acqua proiettando un fluire di onde luminose rossastre sull’erba. Scrive Tarkovskij, probabilmente ai tempi dello Specchio: Bisogna sforzarsi di neutralizzare il colore, evitando che esso agisca attivamente sullo spettatore. Se invece il colore in sé diventa la dominante drammaturgica dell’immagine, ciò significa che il regista e l’operatore prendono a prestito dalla
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pittura i mezzi per agire sul pubblico. È esattamente questo il motivo per il quale assai sovente ora un film medio, solidamente costruito, produce un’impressione affine a quella di certe riviste «riccamente» illustrate. Sorge un conflitto tra il contenuto espressivo della raffigurazione e la fotografia a colori. […] In sostanza un autentico film a colori costituisce il risultato di una lotta contro la tecnologia del cinema a colori, oltre che contro il colore tout court.24
Tarkovskij non spiega in cosa debba concretizzarsi questa lotta, tuttavia è un fatto che da Stalker in poi l’uso del colore nei suoi film è decisamente antitetico rispetto a quello, diciamolo pure, da rotocalco patinato che ritroviamo nella quasi totalità della cinematografia commerciale e in tanta parte di quella d’autore. Se in Sacrificio il bianco e nero è stato sostituito dalla decolorazione, esso è presente invece in quanto tale nei due film precedenti. Come si è già detto per Sacrificio, anche in Stalker torna la suddivisione in blocchi compatti di Andrej Rublëv. Qui sono a colori (tenuissimi colori) le immagini della Zona cui si contrappone il cupo bianco e nero del mondo esterno. In Nostalghia invece ritorna quel succedersi non monolitico di immagini in bianco e nero e a colori che era stato di Solaris e che qui assume un ruolo ancora diverso: al bianco e nero sono affidati i sogni e le visioni interiori di Gorčakov25, alle immagini a colori le vicende realistiche. Consideriamo ora la composizione delle immagini. A partire da Stalker, e fatta esclusione per certi esterni in cui non è individuabile alcuna presenza di riferimenti geometrici, esse sono costruite mediante una strutturazione dello spazio per piani frontali; una scelta formale, ripeto, che d’ora in poi costituirà uno dei mainstream stilistici della poetica visiva di Tarkovskij. Ritroviamo infatti questo modo di strutturare l’immagine nei successivi Nostalghia e Sacrificio, accompagnato frequentemente da una pressoché assoluta assenza della terza dimensione, in immagini dunque «piatte», da cui rimane esclusa ogni percezione di profondità. Delle diversità sono presenti a 111
dire il vero nella prima sezione di Sacrificio, in cui coesiste con la frontalità un momentaneo reinserimento di elementi compositivi dinamici (che sparirà quasi del tutto nelle due sezioni successive), il quale si colloca nell’ambito di un progressivo passaggio dalla staticità al dinamismo che caratterizza tutto l’arco temporale di questa sezione. Potremo darne una descrizione più compiuta durante l’analisi del secondo e del terzo livello. C’è poi in Sacrificio e Nostalghia, ma anche in Stalker, una ricorrente tendenza alla simmetria, di cui parleremo nel prossimo paragrafo. La componente profilmica delle immagini è anch’essa decisamente unitaria, pur mostrando una lenta evoluzione, non tanto negli esterni, sempre dominati dalle forme vegetali, quanto negli interni dove si passa dall’esasperato organicismo di Stalker alla relativa levigatezza di Sacrificio. Questa evoluzione è particolarmente visibile nelle texture dei muri, che in Stalker mostrano asperità fortemente accentuate, spesso fino a esiti che si sarebbe tentati di definire espressionisti, come pure in Nostalghia dove appaiono pareti le cui irregolarità sono evidenziate dalla presenza di luci radenti, sia pure in una forma meno marcata che rimane entro i confini del naturalismo. Nell’ultima opera, al contrario, ritorna un’insolita levigatezza a proposito della quale, ricordando il significato che Tarkovskij dà ai segni dell’usura del tempo sulle cose, mi pare corretta l’interpretazione di Simonetta Salvestroni: Le dimore dei film precedenti di Tarkovskij racchiudono […]una vita familiare che abbraccia diverse generazioni. La casa di Sacrificio ha invece la memoria corta, che coincide con quella del bambino nato lì. È arredata con estrema cura, ma appare fredda, non vissuta. […] Non ha il potere di rendere felici poiché manca l’essenziale: la presenza degli affetti, dei ricordi condivisi che creano nel tempo l’energia e il calore del luogo e possono trasfigurare, come avveniva in Stalker, anche l’interno più povero e grigio.26
Parlando ancora di soggetti, è sulla terra di Sacrificio che voglio in ultimo soffermarmi (fig. 3.49 e fig. XXIV), la terra di un paesaggio di astratta pianura che tanto ricorda quello del 112
Grido di Antonioni, verso cui spesso si rivolge la macchina da presa e sulla quale si muovono, quasi sempre lontane e solitarie, le figure umane. È con questo rarefatto, sperduto apparire di «figure in un paesaggio vuoto» che si conclude, o meglio si interrompe, il lungo itinerario di Tarkovskij attraverso l’immagine.
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Evoluzioni Sono stato piuttosto sintetico nel descrivere il secondo stile perché, giunti a questo punto, per comprendere l’entità del mutamento intercorso fra Lo specchio e Stalker trovo più utile scegliere dei temi di riferimento ed esaminare come la loro rappresentazione sia mutata nel tempo da un’opera all’altra. Questo ci consentirà di mettere a fuoco con maggior precisione e approfondimento alcuni dei concetti espressi nei paragrafi precedenti. Prenderò in particolare in esame i seguenti temi: inquadrature plongée; composizione circolare; inquadrature di interni; composizione simmetrica; figure umane in un paesaggio. Inquadrature plongée Le inquadrature plongée (e contro-plongée)27 sono una rarità nel cinema di Tarkovskij. Sono circoscritte di fatto a una sola sequenza dell’Infanzia di Ivan (fig. 7.1) e ad alcuni momenti di Andrej Rublëv come il prologo e la fonditura della campana (fig. 3.33), unite immancabilmente a una composizione fortemente dinamica. Esse scompariranno totalmente dopo Andrej Rublëv; unica, isolatissima eccezione, in Stalker, l’immagine del pozzo circolare (fig. 3.34) che accompagna il primo monologo interiore fuori campo dello Stalker («Che possano avverarsi i loro desideri…»). Ma confrontiamo le immagini delle figure 3.33 e 3.34. Dov’è, nella seconda, il vertiginoso, plastico effetto prospettico che struttura la prima, il dinamismo delle linee inclinate e radialmente convergenti verso il centro? Abbiamo al loro posto una superficie d’acqua piatta e frontale circondata dal buio uniforme. Nessuna spazialità, nessuna dinamica interna all’immagine. La circolarità suggerisce la presenza di un centro, ma nessun elemento visivo lo individua, nulla vi converge. 114
Tutto un altro mondo visivo.
Fig. 3.33
Fig. 3.34
Composizione circolare Anche la composizione circolare è minoritaria in Tarkovskij, praticamente limitata a due soli film, Solaris e Stalker; ma non per questo è poco importante. Delle tre versioni cinematografiche di Solaris28, quella di 115
Tarkovskij è l’unica in cui la forma circolare caratterizza ogni ambiente della stazione; ecco, ad esempio, l’immagine della figura XI, letteralmente dominata dalla forma del cerchio: circolare è, in sezione e in pianta, il corridoio, e circolare è lo specchio che occupa il lato sinistro dell’immagine duplicandone la forma. In Stalker incontriamo la forma circolare nell’immagine già vista del pozzo, ma soprattutto nella sequenza del «tritacarne», il tunnel dalla forma identica al corridoio della stazione di Solaris (fig. XVIII e XIX). Notiamo in particolare l’analogia compositiva delle figure XI e XVIII, ma soprattutto le differenze: il buio nella seconda lì dove nella prima è lo specchio e la levigata, perfetta geometria della prima contrapposta al rugoso organicismo della seconda; infine i colori: al rosso vivo della prima si contrappone un leggero marrone chiaro nella seconda, che la rende quasi indistinguibile da un’immagine in bianco e nero virata. Notevole anche l’immagine di fig. XIX, anch’essa tecnicamente a colori, che in un contorno circolare inscrive un compendio del modo di formare l’immagine nel secondo periodo di Tarkovskij: frontalità, staticità, simmetria e assenza di colori. Inquadrature d’interni È anche interessante esaminare l’evoluzione che ha subito nel tempo un tema figurativo ricorrente come le inquadrature d’interni. Cominciamo dall’immagine della figura 3.35, tratta dall’opera prima: un totale della sala d’attesa nell’inquadratura iniziale della sequenza dell’esame. L’inquadratura è orientata frontalmente rispetto alla parete di fondo in cui si apre la porta che conduce alla stanza dell’esame, ma questa parete, benché la porta occupi quasi il centro dell’immagine, è poco più di un dettaglio; la sua frontalità pertanto non è percepibile come elemento dominante dell’immagine. Gli elementi dominanti sono piuttosto le due pareti laterali, e dunque il convergere prospettico verso la porta delle direttrici triangolari che le individuano. Altro elemento figurativo importante è il motivo 116
ritmico costituito dalle strisce di luce sul pavimento, il cui insieme si potrebbe anch’esso interpretare come una terza struttura triangolare convergente verso lo sfondo. La sedia col gatto in primo piano, sulla quale termina la prima striscia di luce, rende percepibile l’esaltata profondità prospettica dell’immagine a «fuoco totale». Tutto dunque converge, come in un imbuto, verso il centro, verso la porta che bisognerà varcare per sostenere l’esame e che in tal modo, benché piccola e lontana, diviene l’attrattore di tutti gli elementi figurativi dell’immagine (e dello sguardo). Perfino i due personaggi in fondo alla sala sono, quasi simmetricamente, orientati verso la porta. L’unico indifferente a cotanto risucchio è il gatto che, intento tranquillamente a pulirsi, rivolge la testa in direzione opposta alle direttrici di convergenza. Non occorre dire che siamo di fronte a un’immagine la cui struttura figurativa è totalmente dinamica e centripeta.
Fig. 3.35
Dinamica è pure l’immagine della figura 3.36, tratta da 117
L’infanzia di Ivan, in cui gli elementi figurativi sullo sfondo sono strutturati secondo due direttrici triangolari, questa volta in alto e in basso (gli archi del soffitto e la linea di dislivello del pavimento) che, insieme alla linea verticale centrale (l’angolo della parete) dividono, appunto dinamicamente, l’immagine in due zone occupate dalle due coppie di personaggi. I due elementi figurativi in primo piano (la ringhiera in basso, il tubo in alto) sono inclinati in modo da accentuare la percezione della direzione verso cui è rivolto lo sguardo dei due personaggi a destra. L’intera immagine viene così a «pendere» verso la sua parte sinistra e verso i due personaggi che la occupano i quali, a differenza dei primi due, sono un elemento figurativo chiuso in sé (non guardano altrove). Essi costituiscono pertanto il centro attrattore su cui convergono e su cui si fermano tutti gli elementi dell’immagine.
Fig. 3.36
Poche sono le inquadrature d’interni figurativamente significative in Andrej Rublëv. Fra queste cito quella della 118
figura 3.37, tratta dall’episodio del Giudizio universale, strutturata in maniera non molto diversa da quella della figura 3.35. Anche qui tutto (le direttrici geometriche e gli sguardi) converge verso un punto: la porta sullo sfondo e il personaggio che vi è appena entrato. Anche qui la frontalità della porta e dell’arco che la incornicia è secondaria rispetto al dominante dinamismo delle direttrici prospetticamente convergenti verso essa. C’è in più la notevole differenza che la porta non occupa il centro, bensì, con buona approssimazione, la sezione aurea dell’immagine, il che conferisce all’immagine stessa un ulteriore grado di dinamicità.
Fig. 3.37
Del tutto diverso è il caso della figura 3.38, tratta dallo stesso episodio. Essa (che corrisponde narrativamente a un momento di indecisione, di stasi, di dubbio) appare fortemente destrutturata, non ci sono centri di attrazione, tutti gli elementi figurativi, architettonici e umani, sono disposti in ordine sparso, non ci sono un «da dove» e un «verso dove», dunque il divenire preciso che orientava le precedenti immagini, ma nemmeno una certezza del momento presente quale potrebbe venire, come vedremo fra poco, da una struttura fortemente statica. È un momento di sospensione impalpabile del tempo.
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Fig. 3.38
Saltiamo Solaris i cui interni, a pianta circolare, non ci consentono utili elementi di paragone, e passiamo a Lo specchio con l’immagine della figura 3.39, tratta dalla sequenza della lettera di Puškin. Qui è la forma stessa della stanza, esplicitamente triangolare, a creare due direttrici dinamicamente convergenti verso il centro, occupato dai due personaggi. Nulla di nuovo, e dunque non mi dilungherò su di essa, ma siamo con ciò giunti sulla soglia di Stalker, dunque della «frenata brusca» di Tarkovskij.
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Fig. 3.39
Notiamo, prima di andare oltre, che le quattro immagini d’interni fin qui esaminate (compresa l’ultima, anche se in essa è meno evidente) sono composte in profondità di campo, dunque evidenziando pienamente la spazialità degli ambienti mediante la presenza e la messa a fuoco totale di elementi figurativi sia a breve che a grande distanza dal punto di ripresa. E adesso guardiamo l’immagine della figura 3.40, tratta dalla sequenza iniziale di Stalker. Siamo entrati in un altro mondo. L’asse visivo è orientato frontalmente rispetto alla parete sullo sfondo, come nelle immagini delle figure 3.35 e 3.37, ma questa volta essa occupa la totalità del quadro. Nessuna direttrice inclinata, dunque nessun dinamismo, nessun centro di attrazione. Inoltre, gli unici elementi figurativi percepibili sono il letto, la finestra, le stampelle appoggiate alla parete; tutti sullo sfondo o in stretta prossimità di esso, e in primo piano nulla. Dunque, nessuna spazialità. Siamo di fronte a un’immagine statica e «monoplanare», a uno spazio immobile e piatto.
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Fig. 3.40
Questa stessa struttura la ritroviamo, con pochissime eccezioni, in Nostalghia, ad esempio nella prima sequenza ambientata nella camera d’albergo di Gorčakov, cui appartiene l’immagine della figura 4.2, molto simile a quella appena vista di Stalker. Anche in quella della figura 3.41 la staticità e la planarità sono assolute; non esistono direttrici inclinate, ma solo orizzontali e verticali, e la profondità prospettica, così esaltata nelle prime immagini, qui è ridotta a zero. È ovvio che la parete del bagno è più lontana della parete della camera, ma la prospettiva è appiattita. Quanto è profondo il bagno? Per quanto noi vediamo, quasi nulla; i due piani potrebbero ben essere lo stesso piano. Infine non c’è, come non c’era nella precedente immagine, un centro attrattore dello sguardo; forse lo specchio, se non altro in quanto unico elemento circolare, ma è ben debole cosa, sia perché è appena percepibile contro la parete del suo stesso colore, sia perché nulla conduce a esso, sia infine perché non occupa nessun punto «nevralgico» dell’immagine, centro o sezione aurea che sia. È questa un’immagine nettamente strutturata, dunque a suo modo «forte» rispetto a quella della figura 3.38, un’immagine che esprime la sicurezza di uno stato (formale) stabile raggiunto, ma anche meno imperativa delle immagini delle figure 3.35 e 3.37; nulla è in funzione di un centro, di un elemento di dominio verso cui tutto deve convergere, ma ogni elemento, benché concorra a formare la struttura appena detta, esiste in quanto tale, è chiuso in sé e non sente il bisogno di attirarne altri nella propria orbita. L’immagine insomma è priva di una forza centripeta dominante ed è in questo senso «debole». Ed è in funzione di quest’ultima caratteristica che la sua struttura esiste.
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Fig. 3.41
In Sacrificio il discorso spazialità-planarità e dinamismostaticità si fa più complesso, soprattutto nella prima sezione. Rimane comunque vero che l’inquadratura dominante è quella frontale (fig. 3.43 e fig. XXIII, rispettivamente appartenenti alla seconda e terza sezione) e vale anche qui il discorso della struttura planare dell’immagine, dunque con tutti gli elementi significativi prossimi allo sfondo, col che anche la componente figurativa di Sacrificio si situa pienamente nell’alveo del secondo stile. Qualche anomalia proviene dalla presenza di immagini come quella della figura 3.42, appartenente alla prima sezione. Anche questa è frontale, ma con due direttrici triangolari sul lato destro (l’orlo superiore delle tende e la tastiera del pianoforte) che convergono verso il personaggio davanti alla finestra, e in più una spazialità in profondità di campo evidenziata dagli oggetti in primo piano. La presenza di immagini come questa si può considerare funzionale alla struttura generale della prima sezione, che presenta un evidente divenire dalla staticità al dinamismo, ma la comprensione di questa evoluzione richiede, come già detto, la presa in esame della struttura temporale del film; ecco perché ne riparleremo nei due capitoli seguenti. 123
Fig. 3.42
Fig. 3.43
Composizione simmetrica Contemporaneamente all’apparire della frontalità, e nell’ambito di questo modo di strutturare la composizione, si sviluppa una nuova organizzazione dell’immagine: la 124
simmetria, che la priva di quel proiettarsi verso l’esterno che abbiamo visto in precedenza. Essa non giunge mai a diventare onnipresente come accade nelle opere mature di Paradžanov, tuttavia diviene una presenza significativa al punto da essere senza alcun dubbio fra gli elementi caratterizzanti il secondo stile. Possiamo distinguerla in due tipi: la simmetria costruita secondo direttrici triangolari e quella secondo direttrici orizzontali e verticali. Entrambe sono rarissime nelle opere del primo periodo: le immagini delle figure 3.44 e 3.45, tratte da Andrej Rublëv e Solaris, sono pure eccezioni, sia pur notevoli per la loro anticipatrice purezza formale. Sono entrambe composizioni a triangolo: nella figura 3.44 i bastoni impugnati dai due fonditori sullo sfondo convergono verso la sagoma di Boriska in primo piano formando una figura a triangolo rovesciato; nella figura 3.45 i corpi di Harey e Chris abbracciati formano anch’essi un perfetto triangolo, questa volta con il vertice rivolto verso l’alto.
Fig. 3.44
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Fig. 3.45
Analogamente, in Stalker e Sacrificio troviamo composizioni come quelle delle figure 3.46 e 3.47 rispettivamente, dove i personaggi sono inscritti nella figura di un triangolo. In alcune sequenze di Nostalghia la simmetria triangolare è derivata da fughe prospettiche, come nel caso della figura XXI, tratta dalla sequenza della Madonna del parto, dove le colonne formano due triangoli dai vertici convergenti verso il centro dell’immagine, occupato dal quadro, ancora in penombra.
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Fig. 3.46
Fig. 3.47
Quanto al secondo tipo di simmetria, ne troviamo in Stalker le prime sporadiche apparizioni (fig. 3.48). Essa diverrà però importante solo negli ultimi due film, e in particolare in Nostalghia, cui appartiene l’immagine della figura 7.2.
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Fig. 3.48
Figura umana in un paesaggio Cominciamo col considerare la composizione. La prima immagine (fig. XII), da Solaris, è caratterizzata da una struttura per così dire «forte». Abbiamo innanzitutto i tronchi neri degli alberi che chiudono il campo a destra e sinistra formando una sorta di cornice interna al quadro; all’interno di questa cornice l’immagine è costruita secondo due direttrici rettilinee ortogonali: la prima, orizzontale, è la sponda opposta dello stagno, disposta quasi esattamente secondo la regola dei terzi; la seconda, verticale, è la figura della donna. Quest’ultima è leggermente spostata a sinistra rispetto al centro dell’immagine, quanto basta a compensare il fatto che è rivolta verso destra. Infine la rigida staticità che deriverebbe da questo incrociarsi di direttrici rettilinee perpendicolari, nonché dall’immobilità generale, è mitigata dall’essere alcuni alberi leggermente inclinati verso destra, assecondando così l’orientamento della figura umana e dando un lieve, ma sensibile, dinamismo all’immagine. 128
Anche la seconda immagine (fig. XVI), da Lo specchio, presenta una struttura analoga, benché meno rigorosa. L’immagine è suddivisa orizzontalmente in due metà dalla striscia di bosco che chiude l’orizzonte; anche qui degli alberi in primo piano chiudono il campo formando lo stesso effetto di cornice interna al quadro, e anche qui l’inclinazione dei rami asseconda l’orientamento della figura umana, ma essi sono meno netti, più amorfi che nell’immagine precedente. La donna è anche qui leggermente spostata a sinistra per lo stesso motivo detto prima, ma l’insieme costituito da lei e dal cespuglio sullo sfondo verso cui guarda (e che ha un ruolo importante nella sequenza) occupa il centro orizzontale dell’immagine. Al posto delle linee rette che strutturano la prima immagine risultano qui dominanti, piuttosto che la linea dell’orizzonte, le linee irregolari, e per di più leggermente angolate, della staccionata. L’immagine appare insomma improntata a un’estetica più organicistica della precedente. Soffermiamoci ora ad analizzare i colori. L’immagine di Solaris è dotata di una forte dinamica cromatica. Intendo con questo termine la distanza fra l’elemento figurativo cromaticamente più forte (per intensità e saturazione del colore) e quello più debole. In questo caso fra i vistosi colori rosso e bianco acceso dell’abito e, all’estremo opposto, il grigio scuro dello stagno e i tenui colori sullo sfondo. Tutti freddi questi ultimi, tranne una costellazione di foglie color rame che crea una sorta di aura attorno alla parte superiore della figura umana, e dunque di mediazione cromatica fra essa e lo sfondo. Nell’immagine dello Specchio abbiamo già una dinamica meno forte, e perfettamente duale nel ruolo figura-sfondo: in questo caso il massimo è dato infatti dal rosa del cielo vicino al tramonto e il minimo dal nero e dal bianco spento degli abiti della donna. Ma passiamo alla terza immagine (fig. XX), tratta da Nostalghia, con la quale dunque entriamo nel secondo stile. Rispetto alle precedenti, essa è del tutto amorfa: il cespuglio in 129
primo piano è soltanto un’indistinta massa nera che conferisce all’insieme appena un accenno di profondità, il palo sulla sinistra è relegato sul margine del quadro e potrebbe anche non esserci, una linea grosso modo orizzontale divide anche qui l’immagine in due metà, superiore e inferiore, ma è appena percepibile, e la figura umana infine è anch’essa una forma un po’ più densa di ciò che la circonda, persa nella nebbia come ogni altra cosa. Quanto ai colori, sarebbe pleonastico precisare che le due immagini precedenti sono a colori, tale ne è l’evidenza, qui invece non è superfluo chiarirlo. Perché sì, anche questa immagine, tecnicamente, è a colori, ma dove sono i colori? Tutto si risolve in uno sfumare l’una nell’altra di diverse gradazioni di grigio. Proprio come nell’immagine successiva (fig. 3.49), tratta dall’inizio della seconda sezione di Sacrificio, in cui ogni residuo accenno di struttura è scomparso: la figura umana è immersa in una piatta e monotona distesa erbosa dominata da una luce grigia e scialba, incapace di gettare ombre, in un paesaggio quasi astratto o, se si preferisce, metafisico che potrebbe estendersi infinitamente al di là dei confini dell’immagine. Siamo all’inizio dell’incubo nucleare, non ancora annunciato ma già evocato dal trasformarsi dei pur lievi colori in fantasmi di sé stessi.
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Fig. 3.49
Questa immagine dunque è fotografata in quella sorta di quasi bianco e nero che distingue questa sezione dalle altre due, tuttavia la differenza fra le sue qualità cromatiche e quelle della precedente di Nostalghia è ancora una volta davvero impercettibile. Passiamo ora all’ultima immagine (fig. XXIV). Ancora Sacrificio, ma siamo adesso nel finale. Tutto è compiuto, l’incubo è alle spalle, l’ambulanza ha portato via Aleksander. Maria, sola sulla riva del mare, osserva il bambino (fuori campo) che, fedele all’impegno preso col padre, annaffia l’albero secco che, senza alcun dubbio, tornerà a fiorire. È un momento dominato, nella componente narrativa, da «fiducia e speranza» (sono queste le parole che appariranno di lì a poco nella dedica finale del regista al figlio), e cui corrisponde, nella componente figurativa, un ritorno all’immagine luminosa e compositivamente strutturata. Cominciamo nuovamente dalla composizione. La piccola figura di Maria occupa quasi il centro dell’immagine, su di lei converge e termina un cuneo di ghiaia, uno spicchio di spiaggia sassosa lambito dalla regolare e morbida curva della strada che è l’elemento strutturale 131
dominante e che sullo sfondo diviene quasi rettilinea, formando, insieme alla figura della donna, un accenno (ma appena percepibile) di divisione verticale dell’immagine in due metà. La parte terminale della strada confluisce e si perde nella striscia orizzontale del mare che non chiude, bensì apre lo sfondo dell’immagine. La quale, dicevo, è luminosa, ma anche di modesta dinamica cromatica: l’argento della ghiaia e del mare, il marrone chiaro del terreno e il verde tenuissimo della poca erba sono gli unici colori. L’immagine è aperta, ariosa, morbida, ma esprime un’armonia che, a differenza delle immagini terrestri di Solaris, e anche dello Specchio, non è più di questa Terra. E insieme evoca un’idea di solitudine e distanza che era a esse ancora sconosciuta. 1
Si sono indicate con numeri romani le illustrazioni nell'inserto a colori. Henry W. Fisk (1797-1872), Ritratto di bambina, olio su tela, cm. 70 x 91, Merate (LC), collezione privata. 3 In una tarda intervista (contenuta nell’edizione home video russa in DVD di Solaris) Jusov dice a questo proposito: «Tutti i film di Tarkovskij sono cinematograficamente estremamente espressivi. È facile capire perché egli si sforzò di esprimere le sue idee attraverso questo medium. Non dobbiamo dimenticare che il cinema è un’arte proteiforme, un’arte visiva, ed essa comunica le sue idee attraverso le immagini. L’intera storia della cinematografia conferma questo, dal cinema muto al sonoro. Non c’è disaccordo su questo punto, ma raramente ciò è pienamente compreso. Lungo tutta la sua carriera cinematografica Tarkovskij rimase sempre fedele a questa concezione». 4 Sono due tecniche di ripresa e stampa tipiche della fotografia in bianco e nero in cui vengono esaltati rispettivamente i toni chiari e i toni scuri. 5 Francesco Savio cit. in A. Frezzato, Andrej Tarkovskij, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 33. 6 A. Tarkovskij, Andrej Rublëv, intervista rilasciata a M. Ciment e L. Seguin, «Positif», n. 109, ottobre 1969, in A. Frambosi, A. Signorelli (a cura di), Andrej Tarkovskij, Bergamo film meeting 2004, p. 98. 7 Frezzato, Andrej Tarkovskij cit., pp. 92-93. 8 M. Alpatov, Le icone russe, Einaudi, Torino 1976, p. 82. 9 Andrej Tarkovskij, Andrej Rublëv, Garzanti, Milano 1992, p. 202. 10 Tarkovskij, Andrej Rublëv, intervista cit., p. 96. 11 Frezzato, Andrej Tarkovskij cit., p. 68. 12 C’è una differenza fra le immagini iniziali, che sono la vera Terra e quelle finali che ne sono un simulacro creato dall’Oceano di Solaris. L’immobilità delle prime è 2
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comunque animata dal vibrare della vita, l’immobilità delle seconde è totale, raggelata. Quest’ultimo aggettivo è vero non solo in senso metaforico bensì anche letterale. Racconta a questo proposito Vadim Jusov: «Appena prima di lasciare il luogo […] la temperatura improvvisamente andò sotto zero. Lo stagno ghiacciò, ma non c’era neve. […] Gli alberi erano spogli, il lago gelato come se l’acqua fosse morta. Noi facemmo in modo di avere tutto ciò nel film. […] Nessuno davvero lo ha notato ma funziona. È una visione periferica e una contraddizione costruita nella scena. Ogni cosa appare reale, come sulla Terra, ma è assolutamente immobile» (intervista contenuta nell’edizione home video russa in DVD di Solaris). 13 Dice a questo proposito Jusov: «La nostra idea era di una stazione artigianale, pensata per compensare i viaggiatori della perdita di connessione con i propri simili. Inoltre, essa era in frantumi, usurata, trascurata. In perfette condizioni nei suoi primi giorni ma ormai in cattivo stato, benché ancora funzionante» (ivi). 14 Si dice «normale» un obiettivo il cui angolo visuale è uguale a quello dell’occhio umano. 15 A. Tarkovskij, Martirologio. Diari, Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij, Firenze 2014, pp. 62-63. 16 Citato in Frezzato, Andrej Tarkovskij cit., p. 8. 17 Si dice soggettiva un’inquadratura in cui la macchina da presa occupa il posto degli occhi di uno dei personaggi. 18 Gli altri sono: Paesaggio con la caduta di Icaro, La torre di Babele (nella versione firmata e datata 1563), La mietitura, Il trionfo della morte. Probabilmente non è casuale che tre di essi abbiano come tema l’hybris umana e la sua fallacia. 19 Piccolo ma situato in un punto cruciale dell’immagine che ne amplifica il ruolo: a metà fra l’ultimo albero e il bordo destro del quadro ed esattamente lungo la linea di demarcazione fra terra e cielo. 20 A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano 1988, p. 56. 21 Id., La forma dell’anima, Rizzoli, Milano 2012, p. 137. 22 Specificamente voluto dall’autore. Racconta infatti Layla Alexander-Garrett, interprete di Tarkovskij durante le riprese del film, che il prato era pieno di piccoli fiori gialli e che Tarkovskij volle che fossero tutti eliminati: «Non un singolo fiore giallo deve essere visibile nell’inquadratura» (L. Alexander-Garrett, Andrej Tarkovsky: a Photographic Chronicle of the Making of The Sacrifice, Cygnnet Publishing, London 2011). La stessa cosa racconta Maria Chugunova a proposito di Stalker: «Durante le riprese strappammo tutti i piccoli fiori gialli che erano nel campo visivo della macchina da presa. […] L’intero spazio dove i tre protagonisti lanciavano i loro dadi doveva essere verde» (Maya Turovskaya, 7_ili filmy Andreia Tarkovskovo, 1991, citato in L. Blanc, La fede nel cinema, tesi di laurea discussa presso l’Università degli studi di Bologna, a.a. 2004-2005, p. 88, n. 183). 23 Esiste una lettera indirizzata da Sven Nikvist al laboratorio fotografico «presumibilmente durante la pre-produzione, durante un periodo di prove» in cui egli scrive: «Vogliamo un’immagine ricca in contrasto, nella quale quanto più colore possibile sia stato rimosso. Ciò che si vuol realizzare è che il colore del film sia quanto più simile possibile al bianco e nero. Stoccolma, 20 Settembre 1984» (dal sito web
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www.nostalghia.com, sezione dedicata a Sacrificio, sottosezione Documenti). 24 Tarkovskij, Scolpire il tempo cit. pp. 129-130. 25 In quest’ultimo senso è interpretabile anche il ritorno al bianco e nero in alcuni momenti della sequenza della sosta all’interno della Zona in Stalker, dove il bianco e nero visualizza il mondo interiore dello Stalker. 26 S. Salvestroni, Il cinema di Tarkovskij e la tradizione russa, Edizioni Qiqajon, Magnano (BI) 2005, pp. 214-215. 27 Si dice plongée un’inquadratura in cui l’asse di ripresa è verticale e la macchina da presa è orientata dall’alto verso il basso; contro plongée quando la macchina da presa è orientata dal basso verso l’alto. 28 Le altre due sono quella, anch’essa sovietica (e più esattamente televisiva), di Boris Nirenburg del 1968 e quella statunitense di Steven Soderbergh del 2002.
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4. Lo spazio e il tempo
La notazione Poiché il nostro scopo è adesso l’analisi della struttura interna dei piani, sarà utile innanzitutto inventarsi una notazione grafica che ci consenta di raffigurarla. Per capire in cosa essa consista facciamo riferimento ad esempio alla figura 4.10. A sinistra abbiamo un asse che chiameremo linea del tempo su cui sono segnati, dall’alto in basso, gli istanti cardine del piano, ovvero quelli corrispondenti ai mutamenti nei movimenti di macchina; a destra abbiamo le miniature delle immagini corrispondenti a tali istanti e fra esse, ove sia opportuno, alcune immagini intermedie riprodotte più in piccolo. Accanto alla linea del tempo abbiamo infine dei simboli indicanti i movimenti di macchina e la loro velocità. Nella tabella 4.1 sono riportati i simboli utilizzati per i movimenti di macchina semplici, cioè di pura rotazione (panoramica) o traslazione (carrellata o dolly), e nella tabella 4.2 le sigle indicanti la loro velocità. Nella tabella 4.3, infine, sono esemplificati tre casi di movimenti di macchina composti, ovvero compresenza di più movimenti semplici. In particolare ho distinto i casi in cui più movimenti semplici simultanei sono presenti con pari importanza (frequenti nei film del primo periodo) da quelli in cui esiste un movimento semplice principale cui si somma un movimento secondario di minore entità (frequenti nei film del secondo periodo) e infine un terzo caso in cui il movimento secondario non è altro che un semplice aggiustamento, non avente funzione espressiva. Ho espresso tali differenze 135
attraverso riduzioni corrispondente.
nelle
dimensioni
del
simbolo
Tab. 4.1 LL
Molto lento
Movimento al limite della percepibilità
L
Lento
Come il precedente ma percepibile
N
Normale
La velocità di un uomo che cammina
V
Veloce
La velocità di un uomo in corsa
VV
Molto veloce
La velocità di un cavallo in corsa Tab. 4.2
Carrellata all’indietro e simultanea panoramica verso destra. Carrellata laterale destra (movimento principale) e simultanea panoramica verso sinistra (movimento secondario) Carrellata in avanti preceduta, senza soluzione di continuità, da un breve aggiustamento panoramico verso sinistra. Tab. 4.3
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Nella maggior parte dei grafici alcuni istanti (come ad es. 3’ 13” e 6’ 14” nella figura 4.10) sono segnati in maniera più evidente di altri (come ad es. 0’ 23” e 2’ 29” nella stessa figura). Questo per evidenziare la struttura temporale generale del piano. Accade infatti che alcuni piani sequenza di una certa durata, soprattutto nel secondo periodo, siano composti da più sezioni ognuna delle quali è caratterizzata da un movimento di macchina dominante. Gli intervalli segnati in maniera più marcata individuano tali sezioni, coerentemente con la visione sintetica attuata dallo spettatore, ovvero con la maniera naturale di fruire un film, nella quale si percepiscono soprattutto i movimenti dominanti e molto meno quelli minori.
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Un concetto unitario di visibilità spaziale e temporale Prima di passare all’analisi dei film poniamoci una domanda: ha senso concepire in maniera unitaria la percezione dello spazio e del tempo? Secondo Bela Balázs, sì: «Quello che definiamo tempo cinematografico è un effetto temporale, analogo all’effetto spaziale, prospettico. Le linee dell’immagine segnano lo spazio in prospettiva. Alcuni tipi di movimenti dell’immagine segnano invece il tempo in prospettiva»1. Confrontiamo ora un’immagine tratta dalla sequenza iniziale dell’Eclisse di Antonioni, in cui Vittoria e Riccardo sono insieme nel soggiorno della casa di lui (fig. 4.1), con un’immagine tratta dal preludio al primo sogno in Nostalghia (fig. 4.2). Entrambe le inquadrature sono frontali, ma nel caso di Antonioni questa caratteristica dello spazio non è percepibile con immediatezza a meno che non si rivolga una specifica attenzione alla parete sullo sfondo. Nel caso di Tarkovskij invece l’ortogonalità fra la parete e l’asse visivo si presenta immediatamente allo sguardo, è subito chiaro che la frontalità dello spazio determina il carattere dell’immagine. Perché?
Fig. 4.1
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Fig. 4.2
Nell’immagine di Antonioni una moltitudine di oggetti ingombra lo spazio, lo frammenta, ne dissolve la forma; nell’immagine di Tarkovskij invece, poiché niente si interpone fra la macchina da presa e la parete che, con la finestra, il letto e la porta, dà forma allo spazio, niente incrina l’integrità di esso: essendo vuoto, è un’unità monolitica, pura. La differenza è nella totale visibilità dello spazio che l’immagine di Antonioni non consente, l’immagine di Tarkovskij sì. È possibile ragionare analogamente sul tempo? Abbiamo visto che secondo Tarkovskij il ritmo è determinato non dal montaggio, ma dalla maggiore o minore «pressione temporale all’interno delle inquadrature»2. Possiamo far derivare da questo concetto quello di visibilità del tempo e domandarci: quando il tempo diviene visibile all’interno di un piano? Prendiamo nuovamente l’esempio del preludio al primo sogno in Nostalghia, questa volta però nella sua dimensione temporale (fig. 4.9). Come vedremo fra poche pagine, è un unico piano sequenza della durata di circa quattro minuti in cui sia il soggetto che la macchina da presa sono quasi immobili e in cui dunque non accade quasi nulla. Quasi significa che nessun 139
evento macroscopico interviene a spezzare l’uniforme, monolitico fluire del tempo, che pertanto appare (ripeto: macroscopicamente) sgombro di avvenimenti, vuoto. Di esso abbiamo così una piena percezione, che è come dire una totale visibilità. Consideriamo invece il piano sequenza di Sacrificio in cui Otto racconta la storia della misteriosa fotografia del soldato morto al fronte. Il tempo è anche qui di circa quattro minuti ma è occupato da una molteplicità di eventi: gli spostamenti di Marta, poi di Otto che si allontana verso il fondo della stanza, i movimenti di macchina che seguono i personaggi, non ultimo il loro fitto dialogare. Tutto ciò articola e frammenta il continuum temporale impedendo allo spettatore di percepirne la «profondità prospettica», così come gli oggetti nella stanza del film di Antonioni spezzano la continuità dello spazio e ci impediscono di percepirne la struttura. Notiamo infine che le considerazioni fatte sulla visibilità dello spazio sono interne al primo livello mentre quelle sulla visibilità del tempo appartengono al secondo. Si può tuttavia parlare di visibilità dello spazio anche nel secondo livello. Un esempio dei due modi di mostrare lo spazio è dato, in Solaris, dalle prime inquadrature delle stanze di Kelvin e di Gibarian. La prima (fig. 4.3) ci viene mostrata, sincronicamente, in un asettico totale a macchina da presa ferma (dunque sul primo livello); la seconda ci viene mostrata diacronicamente mediante una lenta panoramica a 180 gradi al termine della quale lo spettatore ha accumulato una visione spaziale complessiva pur non essendo stata la stanza in nessun istante inquadrata nella sua interezza. Questa diversità nel modo di introdurci in due ambienti a priori simili ha un motivo: la stanza di Kelvin era disabitata fino a un attimo prima, è dunque un locale anonimo, impersonale; un ambiente senza tempo. E tale è l’immagine che ce lo mostra, che potrebbe ben figurare in un film «alla Kubrick». La stanza di Gibarian è stata invece intensamente abitata, in essa è passato (e si è bruscamente concluso) un flusso di vita e ne rimane a segnarlo uno stratificarsi di innumerevoli 140
oggetti terrestri che la panoramica ci mostra a distanza relativamente ravvicinata, passando in rassegna il loro accumularsi nel tempo.
Fig. 4.3
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L’immagine nel tempo Abbiamo già discusso la differenza fra le modalità di percezione di una fotografia o di un quadro e di un’immagine significante cinematografica; soffermiamoci adesso ancora un po’ su quest’ultima, che è poi quella che qui ci serve comprendere, per capire meglio il ruolo che essa ha nel flusso del tempo cinematografico. Noi dunque percepiamo l’immagine all’interno del piano e il modo in cui la percepiamo dipende molto da come essa entra a farne parte. Vediamo ora alcuni casi rappresentativi delle diverse situazioni che possono presentarsi, partendo da alcune immagini significanti viste nel capitolo precedente e analizzando il ruolo che ciascuna ha nel piano cui appartiene. Le immagini della figura X e XIII non evolvono nel tempo. Ciascuna di esse coincide con il piano che la contiene, il quale non ha altro scopo che mostrarcela per un numero di secondi sufficiente a farcela correttamente percepire. È il caso in cui ci troviamo maggiormente vicini a una modalità di visione analoga a quella delle arti visive pure, dove la componente diegetica, cioè la narrazione, è del tutto assente. Un primo passo verso l’introduzione nel piano di un divenire temporale è quello della figura XIV, già discussa a conclusione del capitolo 1, e della figura XII, punto di arrivo di una lenta carrellata all’indietro che partendo dal mezzo primo piano della madre di Kelvin, dunque da un ritratto che mostra ancora ben poco dell’ambiente circostante, apre progressivamente la visione del paesaggio in cui è immersa. Un caso perfettamente duale è quello della figura XVI, questa volta immagine iniziale del piano e punto di partenza di una carrellata in avanti verso il cespuglio da cui giungerà lo sconosciuto. Il movimento di macchina ha qui uno scopo non soltanto visivo come nel caso precedente, ma anche di introduzione alla 142
narrazione. L’immagine della figura 3.35 è il fotogramma terminale di un piano avente anch’esso una evoluzione interna, di cui costituisce pertanto il punto di arrivo. L’immagine si compone gradualmente davanti allo spettatore tramite l’insieme di un movimento discendente della macchina da presa e dell’allontanarsi di Saša lungo il corridoio. Nel momento in cui egli prende posto sulla sedia la formazione dell’immagine è giunta al suo compimento e avviene lo stacco sul piano successivo. L’evoluzione interna al piano converge verso l’immagine significante conclusiva, così come all’interno di essa ogni elemento figurativo converge verso la porta. È in entrambi i casi un convergere dinamico che suggerisce l’esigenza di un subitaneo passare oltre; da ciò il non soffermarsi più di un istante sull’immagine di arrivo. Proviamo ora ad analizzare i casi delle figure 3.33 e 3.34. La prima è l’immagine conclusiva di un travelling che parte da un campo lunghissimo della città, da dove una moltitudine di persone si sta muovendo, e percorre il flusso di gente fino alla meta del suo cammino, il luogo in cui è stata fusa la campana. Tutto, ovvero sia la macchina da presa che la gente, il filmico e il profilmico, nel fluire del tempo interno al piano converge verso tale meta, così come nell’immagine conclusiva la struttura radiale dell’intera composizione converge con forte effetto prospettico verso la campana, che è il centro dell’attenzione generale. Anche nel caso della figura 3.34 c’è una perfetta sintonia fra i due livelli: nell’immagine vediamo una semplice, statica forma circolare priva di qualsiasi elemento che funga da attrattore della visione, e tale essa si mantiene, come una lunga nota tenuta, dall’inizio alla fine del piano col solo ondeggiare, sempre uguale (come dire immobile), della superficie liquida oleosa. Ciò fa da contrappunto visivo al fluire della voce fuori campo dello Stalker, una meditazione pervasa di raccoglimento e dunque anch’essa estranea a ogni tensione dinamica. 143
Un caso intermedio fra gli ultimi due è quello della figura 3.49 in cui l’azione è costituita dal lento allontanarsi di Maria la cui figura si perde progressivamente in un paesaggio vuoto, decolorato e velato dalla nebbia. L’evoluzione è uniforme, priva di una struttura interna che non sia il lento regredire della figura umana, e segnata al più da un solo momento di discontinuità, quello in cui Maria si volta brevemente indietro. Allo stesso modo l’immagine è figurativamente priva di struttura, uniforme e monotona. Le immagini viste fin qui, per l’impatto visivo o per la permanenza nel tempo, si imprimono nello sguardo; ma ve ne sono altre che lo sfiorano appena. È il caso delle immagini delle figure 3.27 e XV, figurativamente segnate da una marcata levità, dall’incertezza fra luce e ombra, così come lieve, quasi effimero è il loro passaggio nel flusso del tempo interno al piano. Non sono né iniziali né finali, non durano che un istante, segnate solo da un fugace soffermarsi (fig. XV) della macchina da presa o da un suo estremo rallentamento (fig. 3.27) che sfiora la piena stasi senza raggiungerla. Anche l’immagine della figura 3.10 dura un attimo, ma c’è una grande differenza fra essa e le precedenti immagini dello Specchio: la velocità, dunque una diversa pressione del tempo che crea un effetto espressivo del tutto diverso. Quelle sono sfiorate con levità dal fluire del tempo, questa vi entra per un istante e subito ne balza fuori, non è soltanto fugace, ma precaria; lo è nel tempo come quella della figura 3.9 lo è nella struttura dello spazio. In ciascuno dei casi che abbiamo visto c’è una sintonia perfetta fra la composizione dell’immagine e l’evoluzione temporale interna al piano che la contiene. Quest’ultima, in un certo senso, è già insita nell’immagine. E soprattutto in tal senso l’immagine è significante. Un momento di attenzione infine è necessario dedicare alle modalità di presentazione delle opere pittoriche, ovvero di immagini non originariamente concepite per l’immersione nel 144
flusso temporale cinematografico. Facciamo riferimento al caso più importante, il finale di Andrej Rublëv e, insieme a esso, a Cacciatori nella neve nel successivo Solaris, sottoposto, come sappiamo, allo stesso processo di scomposizione in dettagli, o meglio di composizione temporale dei dettagli. A proposito di Rublëv Tarkovskij disse: Noi abbiamo ampliato dei dettagli perché è impossibile tradurre la pittura, che ha le sue leggi di composizione tanto dinamiche che statiche, nel cinema, facendo vedere allo spettatore, all’interno di piccole sequenze, ciò che egli avrebbe visto stando delle ore intere a contemplare le icone di Andrej Rublëv. Non ci sono analogie possibili. Ed è solo attraverso la presentazione di dettagli che noi abbiamo cercato di creare un’impressione d’insieme della sua pittura.3
Apparentemente sono concetti opposti a quanto ho scritto all’inizio del precedente capitolo. Occorre dunque innanzitutto domandarsi se le due posizioni sono conciliabili. In realtà lo sono perché l’incompatibilità di cui parla Tarkovskij non è fra l’immagine cinematografica e quella pittorica in quanto tali ma fra le diverse modalità di percezione: all’interno del piano in un caso, attraverso una contemplazione idealmente senza limiti temporali nel secondo. Ma questa non è altro che la distinzione fra il tempo soggettivo in cui lo spettatore immerge l’immagine pittorica o fotografica e il tempo oggettivo in cui vive l’immagine cinematografica, sul quale lo spettatore non ha alcun controllo. Trasferire un’immagine pittorica, nata per la prima di tali modalità, nella seconda sarebbe arbitrario; lo spettatore, per il solo fatto di vedere in un altro modo, vedrebbe un’altra cosa. Le modalità attraverso cui un’opera si presenta al suo destinatario sono infatti parte della sua forma e dunque contribuiscono al suo essere. Ma andiamo avanti nella lettura. D’altra parte avevamo l’intenzione di condurre lo spettatore tramite una successione di dettagli verso una visione d’insieme della Trinità, il vertice più alto dell’opera di Rublëv, di portare lo spettatore verso questa opera compiuta attraverso una sorta di drammatizzazione colorata, facendolo avanzare dai frammenti verso il tutto, creando una sorta di corrente di impressioni.4
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Dunque una drammaturgia della visione, consistente nell’inserire l’opera pittorica in un processo temporale che, nel caso di Rublëv, parte dall’astratto e giunge al figurativo realizzando nel dominio del tempo quell’armonia di organico e di astratto che Rublëv e i suoi allievi realizzarono nello spazio dell’icona. Nel caso di Bruegel la trasposizione drammaturgica si realizza con intenti più narrativi, ma anche qui attraverso una scansione che pone in diversi istanti del fluire del tempo le singole vicende che il quadro narra in diversi spazi della sua struttura compositiva. Il principio è dunque lo stesso. Con ciò credo si possa considerare sufficientemente compiuto il discorso sul rapporto dialogico fra primo e secondo livello, sull’incastonarsi dell’uno nell’altro. Entriamo ora nel vivo del nostro argomento: l’analisi della struttura interna dei piani in quanto tale con particolare riferimento agli aspetti filmici, ovvero la forma dello spazio e del tempo cinematografico realizzata attraverso i movimenti di macchina.
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Da «Il rullo compressore e il violino» a «Lo specchio» Non ci dicono molto sotto l’aspetto che si sta qui esaminando le prime due opere. È vero che in esse già troviamo tracce di quei movimenti di macchina indipendenti che diverranno una caratteristica delle opere più mature (solo piccoli accenni per ora, ma già degni di nota), tuttavia in generale dai movimenti di macchina non emerge ancora una concezione personale dello spazio, essendo essi prevalentemente subordinati agli spostamenti dei personaggi. Troviamo inoltre una significativa presenza di momenti di tipo «teatrale», ovvero piani lunghi a macchina da presa fissa dominati dal dialogo puro. Tarkovskij stesso, del resto, a proposito dell’Infanzia di Ivan, affermò di essere «ancora assai lontano da un coerente rinnovamento dei principi fondamentali della regia cinematografica»5. Da un punto di vista formale possiamo definirli due film «esplorativi», in cui Tarkovskij sembra misurarsi con tutto il ventaglio di potenzialità linguistiche del cinema, possedendone già una perfetta padronanza ma senza ancora fare, fra esse, la sua scelta; non esiste in particolare un livello sintattico privilegiato. A parte il loro imporsi innanzitutto allo sguardo per la ricercatissima fotografia, la caratteristica più rilevante di entrambi i film è infatti una compresenza di scene costruite sul montaggio e di momenti più concentrati sul secondo livello, dunque sull’uso dei piani lunghi, che sono naturalmente quelli che più ci interessano in questo capitolo. È opportuno evidenziare che in generale già da adesso Tarkovskij muove molto la macchina da presa, caratteristica che nelle opere successive diverrà una sua costante stilistica; movimenti che di opera in opera diverranno sempre più composti e misurati, ma allo stesso tempo quasi incessanti. Cominciamo però dai piani lunghi a macchina fissa che sono anche, in entrambi i film, quelli di maggior durata, il che 147
induce a supporre che Tarkovskij in questa fase d’esordio attribuisse loro una certa importanza. È tale il piano più lungo dell’opera prima (che comprende tre soli piani di durata superiore al minuto): un dialogo fra Saša e Sergej durante la sequenza del pranzo (è il momento in cui parlano del violino). Ed è tale il piano più lungo del primo lungometraggio (l’ultimo, subito prima delle immagini documentaristiche): ancora un dialogo, fra Kholin, Galtsev e Maša, questa volta di oltre tre minuti, su un totale della stanza, una sorta di vero e proprio teatro filmato, quasi stile cinema delle origini se non fosse in questo caso per la compresenza di personaggi in primo piano (Maša) e campo medio (gli altri) che crea fra essi una relazione in profondità di campo, sconosciuta nei primi decenni del cinema. Ma il momento in cui si raggiunge il più assoluto purismo teatrale è il piano più lungo della sequenza in cui Ivan guarda le immagini di Dürer: un piano della durata di quasi due minuti giocati interamente su una serie sincronizzata di entrate e uscite laterali di vari personaggi mentre Ivan, per gran parte del tempo immobile in posizione centrale, è una sorta di tenor attorno a cui si svolge il vorticare dell’azione. In questi due primi film sembra insomma che Tarkovskij, pur sapendo dare fin da subito uno spessore ben visibile alle componenti strettamente filmiche, mostra anche una disponibilità a lasciar spazio a momenti in cui tutto ciò che è il dispiegamento delle specifiche potenzialità linguistiche del cinema, tutto ciò che può anche manifestarsi come virtuosismo stilistico, tace e l’attenzione è rivolta soltanto al libero manifestarsi del profilmico, ovvero al puro fluire della vita davanti allo sguardo silenzioso, fedele, trasparente della macchina da presa. Aggiungo che questi momenti di «silenzio filmico» non verranno mai meno del tutto: basti pensare a questo proposito agli ultimi tre minuti del piano sequenza iniziale di Sacrificio, che vedremo più avanti. È lo stesso principio ispiratore dei non pochi piani lunghi strutturati secondo movimenti subordinati della macchina da 148
presa, nei quali dunque prevale ancora la funzione narrativa. Ecco dunque nell’opera prima i due piani che per durata seguono immediatamente il più lungo, ovvero il piano in cui Sergej induce Saša a difendere un altro bambino maltrattato da un coetaneo e quello del dialogo di Saša con la madre. O anche, nell’Infanzia di Ivan, il piano sequenza di oltre due minuti del dialogo fra Maša e Kholin fra le betulle. Un po’ di attenzione voglio ora rivolgere a quei movimenti mediante i quali la macchina da presa diviene un’entità attiva assumendo in prima persona il ruolo di narratore o, più ancora, di narratore onnisciente, situazione che possiamo considerare intermedia fra i movimenti subordinati e quelli indipendenti. Consideriamo a tale proposito, nell’opera prima, il piano conclusivo dell’attesa dell’esame (fig. 4.4), in cui la bambina e la mela sono protagoniste di un tale movimento di macchina il cui scopo è qui di rivelarci non un’azione, ma un pensiero. Riassumiamo il contesto narrativo: Saša è andato a sostenere l’esame e la bambina è rimasta sola con la mela che lui le ha regalato. Che farne? Inizialmente decide di ignorarla, poi cambia idea e il suo sguardo si concentra sulla mela. Ebbene, il progressivo concentrarsi dell’attenzione della bambina sulla mela è reso internamente al piano mediante un movimento di macchina che, partendo da un’immagine che include la bambina che guarda la mela e la mela stessa, avanza concentrandosi progressivamente sulla sola mela.
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Fig. 4.4
Soffermiamoci adesso sul momento dell’uscita di Saša. Egli esce, avvilito, dalla stanza dell’esame, passa accanto alla bambina che lo segue con lo sguardo, ignorandola e non avvedendosi, soprattutto, che lei nel frattempo aveva mangiato la mela. Tutto ciò viene narrato all’interno di un unico piano in cui la macchina da presa passa in panoramica dalla bambina a Saša che, dopo un’esitazione, si allontana e infine, con un movimento discendente, conclude sul dettaglio rivelatore del torsolo della mela, che Saša non ha visto e di cui solo la macchina da presa (narratore onnisciente) si accorge. Parlando di movimenti indipendenti, ma non del tutto svincolati da una funzione diegetica, possiamo citare due esempi in un certo senso opposti in quanto pervasi da un respiro affine all’apollineo l’uno, al dionisiaco l’altro. Il primo è il 150
piano iniziale della scena dell’esame. Si parte (fig. 4.5) da un primo piano di Saša che suona il violino, rivolto verso il lato sinistro dell’immagine. Inizia poi una composta, uniforme carrellata verso sinistra che scorre lungo la partitura; mentre l’immagine perde la messa a fuoco, la macchina da presa passa oltre e si ferma su un’astratta, fascinosissima struttura luminosa verso la quale si può sospettare che sia in realtà diretto lo sguardo di Saša. Si odono ancora le note del violino, poi irrompe la voce dell’insegnante che gli ordina di fermarsi. In quel momento l’immagine viene improvvisamente rimessa a fuoco e ciò che fino a un attimo prima era una figura fantastica si concretizza in una semplice bottiglia piena d’acqua. È ancora una volta il tema del sogno e del brusco richiamo alla realtà che, in forme ben più drammatiche e con tutt’altri mezzi linguistici, ritroveremo all’inizio del successivo L’infanzia di Ivan.
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Fig. 4.5
Il secondo esempio appartiene alla sequenza in cui Saša e Sergej assistono all’abbattimento di un edificio, nella quale, dopo che era stata inquadrata la gru che, mediante una grossa sfera metallica, sta effettuando la demolizione, la macchina da presa si abbandona a una dinamica rappresentazione visiva dell’entusiasmo di Saša prendendo il posto della sfera e mimandone i movimenti ondeggianti in alcuni secondi da capogiro. Rimandiamo però ai capitoli successivi l’esame più approfondito di questo uso della macchina da presa, ancora legato, come dicevo, alla funzione diegetica e comprendente anche i movimenti con funzione di montaggio interno al piano, perché qui, ricordiamolo, l’idea di spazio e tempo che più ci interessa non è tanto intesa in senso narrativo quanto in senso strettamente filmico. Non sono molti i movimenti indipendenti puri nell’opera prima, e solo di poco diverranno più rilevanti nelle opere seguenti, fino a Solaris. Non molti, s’intende, in confronto al ruolo che essi avranno nelle opere successive. Soffermiamoci ancora su L’infanzia di Ivan, nel quale troviamo alcuni momenti in questo senso degni di nota. Abbiamo fra essi il momento del bacio «sospeso» sulla trincea fra Maša e Kholin, durante il quale la macchina da presa carrella lateralmente, entra nella trincea riprendendoli da sotto il livello del suolo e poi risale, forse a voler suggerire, con quella ripresa «dall’interno della terra» (Jusov), una sorta di presagio della futura morte in guerra di Kholin, che apprenderemo nel finale da un monologo interiore di Galtsev. Ma l’eccezione più notevole è senza dubbio l’espressionistica sequenza di Ivan che gioca alla guerra prima del bombardamento, in cui lo spazio descritto dai movimenti di macchina ha la struttura del nulla, è la tenebra uniforme dell’incubo, freneticamente solcata dal vagare casuale di ovali 152
di luce che dall’oscurità staccano istantanei frammenti di immagine per subito precipitarli nuovamente nel buio; un delirio visivo che nessuno schema grafico riuscirebbe a rendere nemmeno approssimativamente e che rappresenta un secondo e ultimo esempio di spirito dionisiaco nel cinema di Tarkovskij, ovviamente di natura opposta – atrocemente drammatica anziché giocosa – a quello dell’opera precedente. E come non citare infine il preludio al secondo sogno di Ivan, il sogno della stella nel pozzo. Anche qui una carrellata laterale, ma estranea a qualsiasi necessità narrativa e dunque totalmente extradiegetica, che racchiude in pochi istanti moltissimo, quasi tutto del mondo visivo che sarà la firma del Tarkovskij maturo e che potrebbe già ben figurare nello Specchio: dal fuoco all’acqua attraverso la mediazione della materia organica lungo un percorso guidato dalla macchina da presa che trasforma i pochi metri di una stanza nell’immenso spazio fra la realtà e il sogno. Sarà, ma possiamo a questo punto dire che embrionalmente è già, il modo di formare che ha fatto di Tarkovskij un unicum nella storia del cinema. Non c’è molto da dire infine sul fluire del tempo che, ancora privo di caratteristiche personali in questi esordi, appare legato al ritmo convenzionale della narrazione. Ma ancora una volta non senza qualche presagio del Tarkovskij futuro, come nella lenta carrellata dell’Infanzia di Ivan sull’acqua della palude dopo che Ivan ha lasciato Kholin e Galtsev per l’ultima missione, da cui non tornerà. Non siamo ancora a quella quasi immobilità che assumerà nelle opere mature una notevole densità di significato, tuttavia si mostra già una predilezione per lo scorrere lento del tempo, un primo embrionale concedergli visibilità attraverso momenti di rarefazione o, come in questo caso, di annullamento dell’azione. Momenti ancora una volta non fini a sé stessi, non puramente estetizzanti, bensì sempre legati a una chiara funzione espressiva; rivolta qui, come già detto, all’evocazione della morte di Ivan, suggerita, profetizzata dall’essere l’acqua vuota di presenze e dal dilatarsi del tempo 153
vuoto di eventi. Anche nel successivo Andrej Rublëv accade che i piani più prolungati siano dominati dalla funzione diegetica, con la macchina da presa che rimane concentrata sui personaggi senza che emerga dai suoi movimenti una precisa forma dello spazio filmico6, la quale tende invece a manifestarsi, e secondo una concezione marcatamente plastica, in alcuni piani di durata minore. Così avviene ad esempio nel piano della sequenza iniziale in cui l’aeronauta, muovendo dalla sponda del fiume, entra nella chiesa e la attraversa, mentre la macchina da presa, seguendolo, dà forma allo spazio attraverso cui l’uomo si sposta mediante un movimento in cui si combinano plasticamente panoramica e carrellata; o anche in non pochi piani della fonditura della campana in cui il regista non esclude, sempre in combinazione con lunghe carrellate in qualche caso perfino rampanti, l’uso spettacolare di ampie panoramiche su angolazioni a volte vertiginose. Molte infine sono le sequenze dominate da una densa molteplicità di avvenimenti che saturano la visuale temporale, così come la molteplicità di figure umane frequentemente in campo occupa la visuale spaziale. In quel primo passo sulla via dell’immagine «interiore» che è Solaris, il concentrarsi della macchina da presa sui personaggi si fa esclusivo, raramente andando, nei momenti cruciali, oltre la distanza del mezzo primo piano. Tarkovskij si astrae qui da ogni azione intesa in senso fisico concentrandosi sull’uomo, sull’universo del suo volto in cui si rispecchia un’epica che è ormai totalmente dell’anima. Per capire il senso di questa scelta rivolgiamoci a Balázs e alle sue considerazioni sul primo piano come astrazione dell’immagine dallo spazio: Griffith non soltanto avvicinò spazialmente allo spettatore il volto umano, ma lo trasferì dalla dimensione dello spazio in un’altra dimensione. […] Il significato spaziale che generalmente si attribuisce al fatto che le singole parti del volto si vedono l’una accanto all’altra […] scompare allorché vediamo un’espressione: che è quanto dire un sentimento, uno stato d’animo, un’intenzione, un pensiero, e non
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figure in carne e ossa. Vediamo dunque, coi nostri occhi, qualcosa che non esiste nello spazio.7
E dunque la grammatica filmica tende a ridursi all’essenziale, scompaiono le carrellate8, gli spettacolari travelling che avevamo visto in Andrej Rublëv, il punto di ripresa si immobilizza e la pacata panoramica su inquadrature costantemente ravvicinate, dunque non descrittive dello spazio, diviene il movimento di macchina pressoché esclusivo, assecondato per di più dagli ambienti, insistentemente circolari, della stazione spaziale, che non creano alcun riferimento prospettico. Quel riempire l’inquadratura con i personaggi che fino al film precedente aveva il sapore di una scelta linguistica ancora convenzionale (sfociante anche nel riempirla di personaggi) assume, in virtù del particolare rigore, dell’esclusività con cui è qui adottata, il diverso sapore di una scelta meditativa, il primo tentativo di realizzare quell’ascetismo figurativo che, con mezzi linguistici del tutto diversi, Tarkovskij avrebbe attuato nelle opere della sua seconda fase stilistica. Nella velocità dei movimenti di macchina, infine, che vede il rifiuto di ogni concitazione come di ogni estremo rallentamento, percepiamo un tempo interiore che è il tempo ideale dell’uomo, della sua «normale» dimensione terrena. Nello Specchio Tarkovskij ritorna a quella concezione plastica dello spazio tracciato dai movimenti di macchina già attuata in Andrej Rublëv, ma ripensandola attraverso il filtro di scelte stilistiche decisamente più personali in cui la prosa del secondo lungometraggio si dissolve per tradursi in lirismo introspettivo. La macchina da presa percorre traiettorie più o meno marcatamente curvilinee, secondo movimenti spesso compositi in cui la panoramica su campo largo, dunque descrittiva dello spazio, ha un ruolo dominante. Numerosi piani risultano in tal modo costruiti mediante un continuo, quasi 155
ininterrotto mutamento sia del punto di ripresa che dell’angolazione dello sguardo, il che determina una piena percezione della tridimensionalità anche in assenza di inquadrature totali. Abbiamo una chiara percezione di ciò fin dall’iniziale dialogo fra la madre del narratore e lo sconosciuto, uno dei cui piani (fig. 4.6) presenta la notevole caratteristica di una carrellata quasi semicircolare attorno a un primo piano della donna, che accumula nel tempo una rappresentazione a tutto tondo di lei: un ritratto dinamico in cui Tarkovskij realizza l’equivalente cinematografico di un’opera d’arte plastica.
Fig. 4.6
Possiamo considerare il piano centrale dei tre che compongono l’episodio dell’incendio del fienile come esemplare di questa concezione dello spazio cinematografico, 156
ma allo stesso tempo dei primi sintomi di un suo superamento. Ne abbiamo già parlato nel capitolo precedente notando come tutte le sue immagini significanti siano composte secondo direttrici variamente angolate rispetto all’asse di ripresa, tranne l’ultima (fig. 3.25), strutturata secondo una rigorosa frontalità. Osserviamo ora lo stesso piano concentrando l’attenzione sul secondo livello (fig. 4.7). Un’iniziale carrellata all’indietro leggermente curvilinea sfocia in una panoramica verso sinistra divisa in due tempi separati da una sosta. Alla ripresa della panoramica successiva alla sosta si sovrappone dopo alcuni secondi un avanzamento della macchina da presa, quindi, senza alcuna soluzione di continuità, l’insieme di questi due movimenti evolve verso una pura, lenta e uniforme carrellata verso destra e una stasi finale. Anche qui il mutamento continuo che la macchina da presa imprime all’orientamento dello sguardo durante il suo multiforme percorso immerge l’osservatore in uno spazio plastico e dinamico; esso però converge, ma sarebbe più corretto dire scivola, nel finale verso una meta in cui lo spazio descritto dal movimento di macchina si riduce a una pura retta e dunque, mentre l’orientamento dell’asse visivo (e infine l’asse stesso) si staticizza, ogni plasticità scompare. Inoltre, il momento in cui lo spazio si appiattisce corrisponde perfettamente al momento in cui la composizione dell’immagine da angolata si fa frontale; e questa correlazione fra il manifestarsi del movimento di macchina rettilineo sul secondo livello e della frontalità sul primo diverrà ben presto sistematica.
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Fig. 4.7
Consideriamo ora la visibilità temporale. Tutti i momenti spazialmente dinamici di questo piano sono caratterizzati dalla presenza di un certo numero di eventi (i due fratellini escono correndo fuori campo, un oggetto rotola giù dal tavolo, un altro bambino attraversa il campo visivo) o dalla precisa sensazione dell’attesa di un evento (la stasi fra le due panoramiche, in cui vediamo l’immagine dei due fratellini riflessa nello specchio percependo nel contempo, senza ancora averne una visione diretta, la presenza delle fiamme). Vi è comunque una più o meno densa, più o meno rarefatta tensione temporale, fino al momento finale (la carrellata laterale e la stasi) in cui nulla o quasi accade più: tutti sono immobili, dell’acqua gocciola, sempre uguale a sé stessa, dalla tettoia in primo piano, e sempre uguali a sé stesse si levano le fiamme dalla facciata del fienile 158
sullo sfondo. Il terzo bambino fa alcuni passi di corsa andando a raggiungere gli altri, vicino al pozzo (è quel quasi cui accennavo, che accentua la generale sensazione di immobilità, così come un lieve suono circondato dal silenzio assoluto accentua la percezione di quest’ultimo), ma non accade nient’altro, il divenire si è dissolto in una quasi perfetta immobilità contemplativa durante la quale, nel rarefarsi dell’azione fino al limite dell’assenza, si respira un’atmosfera da «tutto è compiuto»: il divenire delle cose si è fermato, o forse il nostro sguardo ne è uscito. E cosa contempliamo attraverso il fienile che brucia, l’acqua che gocciola, i personaggi immobili, se non il tempo? Il tempo non più ingombro di alcun evento, sul quale ora il nostro occhio può liberamente spaziare. Ho posto tanta attenzione su questo piano perché esso riproduce su piccola scala l’evoluzione del quasi trentennale cammino di Tarkovskij nel mondo dell’immagine cinematografica. Esso prelude alla svolta stilistica che è alle porte e che in Stalker troverà la sua prima, piena attuazione. Prima di andare oltre però, è opportuno definire quale è stato il ruolo e il senso che il ricorso al piano lungo ha assunto fino a questo momento. Già dal suo primo lungometraggio Tarkovskij ha cominciato ad allontanarsi, sia pure in maniera ancora non drastica, dal cinema di montaggio puro9, scelta che trova la sua motivazione nei principi espressi da Tarkovskij stesso nei suoi testi teorici. A esso si sostituisce appunto il piano lungo (che sfocerà nel piano sequenza in non pochi momenti dei film successivi) visto come una sorta di montaggio senza punti di singolarità, concezione che motiva in maniera prevalente la scelta di Tarkovskij in suo favore fino a Solaris, ma che permane anche nelle opere successive. Possiamo trarre proprio da Lo specchio un esempio di questa sua funzione. Consideriamo infatti, nell’episodio della tipografia, il piano in cui Liza segue la madre nel corridoio dopo il litigio, in cui la macchina da presa avanza seguendo le due donne e quindi effettua una panoramica di 180 gradi che la porta a inquadrare il 159
corridoio in direzione opposta alla precedente. È un esempio di controcampo ottenuto senza quella soluzione di continuità che è il taglio10. Ciò che Tarkovskij chiama la «pressione del tempo» ha in corrispondenza della panoramica una rapida impennata, ma non una discontinuità. Già nello Specchio tuttavia comincia a svilupparsi una diversa concezione del piano lungo che, essendo dominata dai movimenti di macchina indipendenti, svolge un ruolo slegato dal contesto strettamente narrativo per assumere la funzione di scelta formale capace di plasmare il puro fluire del tempo. Il piano dell’incendio che abbiamo visto sopra ne è un esempio. È significativa di questa nuova concezione la rilevanza, in senso quantitativo, che proprio i movimenti di macchina indipendenti assumono in ciascun film. Questo parametro è mostrato nella figura 4.8 dove esso è espresso come percentuale della durata totale del film. Ad esempio, nell’opera prima i movimenti indipendenti della macchina da presa occupano appena il 2,6% della sua durata, mentre in Nostalghia giungono al 12,5%. Essi si mantengono su valori modesti, fra il 5 e il 6%, fino a Solaris – essendo in particolare concentrati in Andrej Rublëv quasi interamente nella sequenza finale11 – ma aumentano nettamente, anche se in maniera discontinua, negli ultimi quattro film. Anche sotto questo aspetto dunque Lo specchio, pur appartenendo al primo stile, si presenta come un’opera anticipatrice del secondo.
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Fig. 4.8
Analizzando le immagini avevamo notato la disomogeneità stilistica di queste prime cinque opere; qualcosa di analogo ci mostra ora l’analisi della struttura interna dei piani. Ogni film di questo periodo ci appare nuovamente come un evento creativo chiuso in sé, e nuovamente il primo quindicennio dell’attività creativa di Tarkovskij si presenta come una fase di ricerca del proprio stile, di definizione della propria grammatica visiva. Vediamo ora cosa accade nel passaggio al secondo periodo.
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Da «Stalker» a «Sacrificio» La concezione marcatamente plastica dello spazio che abbiamo incontrato fino a Lo specchio, da Stalker in poi improvvisamente scompare: lo spazio viene ora percorso mediante movimenti di macchina semplici e rettilinei, in pratica ridotti alla pura traslazione, laterale o longitudinale, del punto di ripresa, mentre diviene trascurabile la panoramica in quanto movimento che determina un mutamento dinamico nell’orientamento dell’asse visivo. Se prima il piano era strutturato secondo la «polifonia» dei movimenti di macchina composti o del continuo trasformarsi di un movimento di macchina nel successivo, ora regna la «monodia» del movimento di macchina singolo o, al più, di una pluralità di movimenti singoli, sempre nettamente distinti tramite una fase di stasi. La forma dello spazio che ne risulta è piana, statica è la percezione che se ne ha. La panoramica non è in realtà del tutto assente; essa, semplicemente, cessa di essere descrittiva dello spazio: appare ancora in associazione alle carrellate, ma solo come movimento secondario, oppure nelle riprese a distanza ravvicinata, dove lo spazio non è visibile; tuttavia quando la distanza fra l’osservatore e il soggetto aumenta, e lo spettatore comincia ad avere percezione dello spazio circostante, l’orientamento dell’asse visivo nuovamente si immobilizza. Così accade, ad esempio, in Sacrificio, nel dialogo in cui Otto rivela ad Aleksander che Maria può salvarli: all’inizio i due appaiono in primo piano e la macchina da presa ne segue gli spostamenti mediante tre brevi panoramiche; poi entrambi cominciano ad allontanarsi verso il fondo della stanza che appare ora, per la prima volta dall’inizio del piano sequenza, nella sua interezza. In questo momento la macchina da presa è già disposta frontalmente rispetto alla parete sullo sfondo, e ora essa 162
comincia ad avanzare, ad attraversare a sua volta la stanza fino a giungere nuovamente alla distanza del primo piano dai due personaggi. Dal momento in cui lo spazio diviene presente cessa dunque ogni mutamento nell’orientamento dello sguardo e il movimento si riduce a una traslazione in avanti, uniforme e statica. Parallelamente a un maggior ricorso ai movimenti di macchina indipendenti, in questa seconda fase creativa accade che anche i movimenti subordinati mutino la loro natura. Piuttosto che parlare di movimenti subordinati della macchina da presa infatti è più corretto dire che si ha spesso la sensazione che siano i movimenti dei personaggi ad apparire subordinati a essa. Ovvero, l’organizzazione dello spazio filmico sembra preesistere alla messa in scena del profilmico e determinarla. Più esattamente, il profilmico agisce non più in uno spazio plastico che la macchina da presa percorre dinamicamente, ma lungo una linea retta. Questa può coincidere con l’asse visivo, nel qual caso l’azione profilmica si svolge davanti a una macchina da presa (raramente) immobile o (più spesso) lentamente avanzante o arretrante; oppure può essere parallela al percorso della macchina da presa durante le lunghe carrellate laterali. Passando dallo spazio al tempo, un elemento filmico che ritroviamo costantemente da Stalker in poi è il movimento di macchina lentissimo, al limite della percepibilità, molto spesso notevolmente prolungato nel tempo (fino a Lo specchio i movimenti di macchina si mantengono pressoché sempre, anche se lenti, nettamente percepibili). Ne troviamo un immediato esempio nel piano sequenza che ho prima descritto, dove la traslazione in avanti si svolge con tale lentezza da protrarsi per oltre cinque minuti. A ulteriori considerazioni si presta il già citato preludio al primo sogno di Gorčakov in Nostalghia (fig. 4.9), in cui vediamo realizzata una sintesi delle nuove concezioni di Tarkovskij sullo spazio e sul tempo cinematografico. Ho già 163
accennato a esso all’inizio di questo capitolo per dire che non vi accade quasi nulla. In realtà la dominante sensazione di rarefazione, la percezione dello scorrere di un tempo vuoto di eventi nasce non dalla loro assenza, bensì dalla loro natura «minimale». Ma cosa intendiamo quando parliamo di eventi? Da cosa è costituito questo quasi? Abbiamo intanto il succedersi di un certo numero di eventi di natura profilmica: il disfarsi dell’intonaco, il formarsi della pozzanghera sul pavimento, il mutare della luce, l’entrare di Gorčakov nel sonno, l’apparizione del cane Dak; tuttavia manca ancora un personaggio importante: la macchina da presa, che ha un ruolo centrale nel definire la struttura temporale del piano sequenza e nel dar forma al nostro percorso di avvicinamento al mondo onirico di Gorčakov, poiché è essa che in questi quattro minuti ci prende per mano nel viaggio e ci conduce alla meta. Ci accorgiamo innanzitutto che proprio l’agire della macchina da presa definisce nel piano sequenza due sezioni di durata quasi identica (2 + 2 minuti); nella prima, essa è per gran parte del tempo immobile, nella seconda compie una lentissima, uniforme carrellata in avanti, un avanzamento così lento da situarsi sul limitare dell’impercettibile non meno del succedersi di microeventi che popola ciascuna sezione.
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Fig. 4.9
Si comincia con Gorčakov al centro della stanza che scaraventa in un angolo il libro preso poco prima dalle mani di Eugenia. Da questo inizio, che con una metafora musicale potremmo definire quasi un fortissimo, comincia un decrescendo che giungerà ben presto a un estremo pianissimo. Gorčakov si allontana verso il fondo della stanza, da cui non si distaccherà più, spegne l’abat-jour sul comodino alla destra del letto e apre la finestra alla sua sinistra. Attenzione: questi mutamenti di luce sono nel piano sequenza gli unici che possano dirsi diegetici. Gorčakov si siede adesso sul bordo del letto e così rimane, quasi immobile, a lungo, in contemplazione della pioggia. Qui abbiamo il primo mutare extradiegetico della luce: il già debole chiarore che lo illuminava si spegne, l’ombra su di lui e intorno a lui si fa fitta. Questo momento è segnato da 165
un primo breve accenno di avanzamento della macchina da presa, 20 secondi appena, ma importanti perché enfatizzano l’addensarsi dell’ombra attorno a Gorčakov. Ma «enfatizzano» è una parola che rischia di essere fuorviante perché il movimento è appena accennato, e solo una visione molto attenta può percepirlo in maniera consapevole. Esso tuttavia dà all’oscurarsi della figura umana il senso di un primo passo verso quel lungo viaggio onirico che stiamo per intraprendere. Gorčakov adesso comincia ad assopirsi, si china per un istante in avanti, come vinto dal sonno, si riscuote. A questo punto, al di là della finestra, un piccolo frammento di intonaco si stacca dal muro; è un segno di quel disfarsi della materia immersa nel fluire del tempo, di cui già sappiamo. Gorčakov si toglie le scarpe e il cappotto, ma sono gesti quasi inavvertiti: il suo essere in estrema penombra ci dice che non è lui, non più, il soggetto principale dell’azione, bensì ciò che avviene intorno a lui. Trascorrono ancora alcuni istanti di immobilità, di attesa forse, poi la metà destra del pavimento si oscura. È il secondo mutamento extradiegetico della luce. Questo evento segna la fine della prima sezione; subito dopo inizia il lentissimo e prolungato avanzamento della macchina da presa che da questo istante costituirà l’azione principale. Quasi simultaneamente la pioggia comincia a entrare dalla finestra aperta e a formare una pozzanghera sul pavimento, e Gorčakov compie un’ultima azione: si corica. Ma, un po’ perché evento a questo punto ovvio, un po’ perché di nessuna rilevanza visiva, ancora una volta non è questo che lo spettatore è chiamato a percepire. Passano alcuni istanti, poi appare Dak, gira attorno al letto e si accovaccia accanto a Gorčakov che, nel dormiveglia, lo accarezza più volte. La diegesi, come si vede, non è del tutto assente (non lo è mai in Tarkovskij e non certo qui dove, oltretutto, egli ricostruisce molto da vicino un evento della sua vita reale12); piuttosto, essa è eccezionalmente rarefatta, quasi messa in ombra, in senso sia letterale che metaforico, mentre il vero centro dell’azione cinematografica si 166
sposta sul versante filmico in quella sorta di tenor, su cui si innestano i simultanei microeventi profilmici, che è il lentissimo avanzare della macchina da presa. Quando essa giunge in prossimità del letto, abbiamo il terzo mutare extradiegetico della luce: il letto e la parete alle sue spalle sono rischiarati da un chiarore percorso da onde discendenti, come di acqua che cola sui vetri di una finestra; la macchina da presa avanza ancora fino a un primo piano di Gorčakov ormai addormentato e qui infine si ferma. Il chiarore sul volto di Gorčakov aumenta ancora; le porte del mondo onirico si sono aperte, è il momento di attraversarle. Soffermiamoci sulla lentezza del movimento di macchina e facciamo ricorso nuovamente a Balázs il quale, prendendo spunto da un film di Chaplin, ci fornisce alcune interessanti considerazioni sull’effetto di dilatazione spaziale ottenuto tramite la dilatazione temporale del movimento di macchina. Chaplin interpreta il ruolo di un soldato che viene visto dai suoi commilitoni come portatore di sfortuna; sono tutti schierati in trincea in attesa di balzare fuori all’assalto delle postazioni nemiche ed egli si accorge che gli altri soldati si stanno allontanando da lui. Soltanto di un paio di passi perché lo spazio a disposizione non è molto, ma quei due passi sono sufficienti a stabilire fra lui e gli altri una distanza abissale. La macchina da presa allora mostra con una panoramica la distanza che aumenta fra Charlot e i compagni. La macchina si muove con tanta lentezza e impiega tanto tempo a farlo che i due passi di terreno sembrano un deserto senza fine. Ed è questo che Chaplin vede: il deserto. Vede come i compagni si siano allontanati da lui nel momento del pericolo. Il derelitto è rimasto solo al mondo. Spesso si son visti nei film paesaggi sconfinati e immense distese marine. Eppure mai era accaduto che in uno spazio così ristretto si fosse potuta esprimere tanta solitudine. Nessun’altra forma d’arte potrebbe fare altrettanto. Qui il movimento di macchina acquista un valore altamente lirico.13
Tarkovskij usa lo stesso mezzo filmico di Chaplin, ma spingendolo più in là perché la rarefazione della diegesi, 167
donando visibilità al tempo, ha un effetto di amplificazione espressiva su quell’elemento extradiegetico che è il movimento in sé della macchina da presa. Avevamo visto in Andrej Rublëv e Solaris sconfinati orizzonti, ma essi erano soltanto vasti, non infiniti; siamo ora nel microcosmo di una stanza, ma qui accade che lo spazio, pur essendo quello chiuso, finito di un interno, si trasfigura fino a farsi percepire come infinito, perché in esso la macchina da presa ha dato forma a un tempo che percepiamo come infinito. Siamo di fronte a un esempio perfetto di piano sequenza in cui è il libero fluire del tempo a divenire soggetto in quanto tale della composizione cinematografica14. E anche a uno dei molti luoghi cinematografici tarkovskiani in cui l’immagine si svincola dal ruolo di substrato passivo della diegesi cui troppo cinema l’ha destinata, in modo da liberare, come ci ricorda Arnheim, la sua capacità di raggiungere lo spettatore attraverso un processo di percezione che dall’oggetto particolare ricava qualità percettive generali. È forse a un simile uso dei mezzi del cinema che Tarkovskij pensava quando scriveva: «Posso soltanto dire che l’immagine tende all’infinito e conduce all’assoluto»15. Un’ultima, importante considerazione va fatta su uno dei microeventi della prima sezione: la caduta dell’intonaco. Confrontiamolo con un momento dello Specchio in cui assistiamo a un evento analogo: la sequenza onirica successiva all’incendio, in cui il disfacimento è un crollo improvviso e rovinoso, un evento macroscopico. Qui siamo invece di fronte a uno scivolare lento, un evento minimo che occupa solo una piccola parte dell’immagine. Scrive Balázs: «Nel film, il tempo è tema e materia della creazione artistica […]. Un fatto che si svolga nel tempo con una certa rapidità e lo stesso fatto che si svolga con lentezza, non sono la stessa cosa. Anche l’esplosione si distingue dalla normale combustione semplicemente perché avviene con maggiore rapidità»16. È, nel tempo, una distanza espressiva analoga a quella che si potrebbe porre, nello spazio, fra la grande e la piccola dimensione. Non sottovalutiamo 168
dunque quel pezzetto di intonaco che si stacca e scivola via dalla parete perché esso ci racconta molte cose su quale importante mutamento di poetica si sia verificato nel modo di guardare il tempo di Tarkovskij. Tuttavia in Nostalghia egli sembra avere quasi dei ripensamenti, essendo presenti in esso alcuni elementi che erano stati del primo stile. Possiamo dire a questo proposito che Nostalghia è stilisticamente duale rispetto a Lo specchio: così come quest’ultimo si caratterizza come appartenente al primo stile, ma con scelte stilistiche anticipatrici del secondo, Nostalghia si caratterizza come appartenente al secondo, ma con scelte stilistiche «di ritorno» del primo stile. Alludo soprattutto all’occasionale riapparire di una concezione plastica dello spazio che troviamo ad esempio nella sequenza della chiesa allagata, oppure nel piano in cui Gorčakov ascolta l’Inno alla Gioia di Beethoven nella casa di Domenico, casi questi in cui è la panoramica a dar forma allo spazio. Come accadrà anche nella prima sezione del successivo Sacrificio, ma mentre lì, come vedremo, ciò assume un senso in funzione della struttura generale del film, qui un tale senso non è altrettanto rintracciabile. È bene chiarire però che in Nostalghia simili caratteristiche rimangono ben circoscritte ad alcuni isolati momenti di un’opera che si segnala anche e soprattutto per la presenza di episodi di assoluta purezza formale, oltre che di intensa suggestione. Notevoli, accanto al preludio al primo sogno, i due piani sequenza dell’abbazia di san Galgano, dominato il primo da una pura carrellata laterale molto lenta che percorre l’intera larghezza della chiesa17; costruito il secondo su un non meno puro, lentissimo movimento di allontanamento che, partendo dalle figure di Gorčakov e Dak davanti a un piccolo stagno, giunge a un totale della navata centrale, cui segue una lunga stasi (circa un minuto) animata solo dal cadere della neve. Sono entrambi fra le più perfette realizzazioni di uno stile cinematografico che ha ormai l’anima di un canto gregoriano 169
tradotto in immagini. Anche certi momenti di Sacrificio, dicevo, fuoriescono dal mainstream costituito da inquadratura frontale e movimento di macchina rettilineo. Si possono però individuare a monte di questa scelta delle ragioni espressive che credo non autorizzino a parlare di «ripensamenti» bensì, per così dire, di un uso non dogmatico (e comunque sempre circoscritto) della norma stilistica, risolto con il prevalere dell’espressione sulla forma dominante ogni volta che la prima richieda un atteggiamento flessibile nei confronti della seconda. Mi riferisco in particolare alla prima sezione, caratterizzata da un crescendo di dinamismo e plasticità che prende l’avvio dal lungo piano sequenza iniziale (fig. 4.10) e sfocia nella sequenza del passaggio degli aerei sulla casa (fig. 4.11). Il primo, il più lungo piano sequenza mai realizzato da Tarkovskij, si articola in tre sezioni di uguale durata (tre minuti ciascuna). Ciascuna delle prime due è caratterizzata da una lenta e uniforme carrellata laterale, indipendente la prima, subordinata la seconda; la terza è una fase di stasi. La lenta uniformità del tempo filmico trova inoltre un perfetto contrappunto diegetico nel pacato fluire del dialogo fra Otto e Aleksander.
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Fig. 4.10
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Fig. 4.11
Già in questo piano avvertiamo tuttavia un primo accenno di crescendo nel progressivo avvicinarsi dei personaggi dal campo lungo al campo medio, ma molto diluito nel tempo; per il resto la staticità è assoluta. Perfino le minime correzioni panoramiche che accompagnano le carrellate sono percepibili solo a una visione analitica e il loro scopo sembra ridursi al mantenere in campo il piccolo capanno sullo sfondo, unico, minimale elemento di tensione dell’immagine. All’estremo opposto, durante il passaggio degli aerei sulla casa, il dinamismo giunge al suo apice (sia pur racchiuso all’interno di un perfetto equilibrio di opposti movimenti che strutturano simmetricamente lo spazio) in un piano di appena 22 secondi che racchiude ben 4 panoramiche veloci. Poi, nello stacco sul piano successivo che dà inizio alla seconda sezione 172
(fig. 4.12), tutto improvvisamente si congela, con un netto salto di pressione temporale, su quel rigido flettersi del torso di Aleksander che la macchina da presa segue con una lenta e altrettanto rigida traslazione verso il basso. Una rottura nel continuum temporale di notevole potenza espressiva, che solo l’accostamento di contrastanti soluzioni formali poteva consentire.
Fig. 4.12
Questo istante di transizione brusca è preparato lungo tutta la prima sezione, dicevo, attraverso una progressiva introduzione di sempre più frequenti elementi dinamici su tutti i livelli sintattici. Sul secondo livello ciò è ottenuto con l’uso sempre più frequente della panoramica. Ecco nel grafico della figura 4.13 la distribuzione delle panoramiche lungo tutta la 173
prima sezione: il loro addensarsi verso la fine è evidentissimo18.
Fig. 4.13
Del tutto particolare è infine il piano sequenza del Padre Nostro, momento cardine dell’intera opera, di cui occupa il centro esatto. Si comincia con la macchina da presa immobile su Aleksander che, allontanandosi, passa dal primo piano alla figura intera. A questo punto (ovvero in presenza di una precisa percezione dello spazio), seguendo il movimento di Aleksander che si inginocchia, si ha una panoramica verso il basso cui fa seguito una lentissima, appena percepibile avanzata mantenendo una posizione elevata rispetto al volto di Aleksander, e infine una lunga immobilità su un primo piano di quest’ultimo durante il monologo. Concluso il quale, una lenta panoramica verso l’alto e una lentissima carrellata all’indietro ci riportano a una visione «normale», ovvero frontale dello spazio. Cosa è accaduto? Il monologo di Aleksander è una preghiera rivolta alla divinità. La macchina da presa si sposta progressivamente dal proprio punto di vista oggettivo a una soggettiva del destinatario dell’invocazione. Contemporaneamente al mutare della prospettiva lo spazio scompare, l’immagine si astrae da esso rappresentando in tal modo un progressivo intensificarsi dell’ascolto, poiché la divinità è tipicamente concepita come esistente al di fuori dello spazio, e anche il momento del dialogo con essa lo è. Concluso il monologo, la macchina da presa cessa di essere «Dio» e si riporta progressivamente alla posizione 174
iniziale, oggettiva; lo spazio riappare, il cerchio è così chiuso. 1
B. Balázs, Il film, Einaudi, Torino 1987, p. 149. A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano 1988, p. 112. 3 A. Tarkovskij, Andrej Rublëv, intervista rilasciata a M. Ciment e L. Seguin, «Positif», n. 109, ottobre 1969, in A. Frambosi, A. Signorelli (a cura di), Andrej Tarkovskij, Bergamo film meeting 2004, p. 96. 4 Ivi. 5 Tarkovskij, Scolpire il tempo cit., p. 31. 6 Non dimentichiamo che l’attenzione è qui concentrata sul secondo livello. Questa affermazione è dunque da intendersi con esclusivo riferimento alla forma dello spazio generata attraverso i movimenti di macchina. Altra cosa è la spazialità di dimensioni epiche realizzata attraverso la vastità delle scene di massa e la presenza degli sconfinati paesaggi russi, tutte cose che trovano realizzazione all’interno del primo livello. 7 Balázs, Il film cit., p. 56. 8 In tutto il film se ne contano solamente cinque, di cui una sola di durata rilevante. 9 È nuovamente significativo un confronto con L’eclisse di Antonioni, film orientato sul versante del montaggio, in cui la durata media dei piani è di 11 secondi, circa la metà dell’Infanzia di Ivan. 10 Abbiamo dei casi analoghi anche in due film precedenti. Nell’Infanzia di Ivan il dialogo fra Kholin e Galtsev nella trincea e in Solaris il dialogo fra Snaut e Kelvin nel corridoio dopo la scena nella biblioteca. 11 Occupano complessivamente il 6,26% della durata totale, di cui il 4,6% nella sequenza finale. 12 V. T. Guerra, Frammenti di memoria, in AA.VV., Il fuoco, l’acqua, l’ombra, La Casa Usher, Firenze 1989, p. 65. 13 Balázs, Il film cit., pp. 144-145. 14 In ciò consiste la maggiore differenza fra questo piano sequenza e quello del dialogo fra Otto e Aleksander descritto prima, essendo quest’ultimo dominato dalla componente diegetica. 15 Tarkovskij, Scolpire il tempo cit., p. 97. 16 Balázs, Il film cit., p. 120. 17 Si tratta di un movimento indipendente nonostante a una prima visione possa apparire subordinato. La macchina da presa infatti apparentemente segue Gorčakov che attraversa le tre navate della chiesa, ma in realtà il suo movimento, lento e rigorosamente uniforme, sembra essere del tutto indifferente a quello dell’uomo che avanza, esita, si ferma, riprende a camminare senza che ciò influenzi minimamente il movimento di macchina. 18 Il dinamismo, sia sul primo che sul secondo livello, è invece quasi assente nelle altre due sezioni. 2
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5. Il mosaico fatto di tempo (Prima parte)
Premessa È ora il momento di affrontare l’analisi del «terzo livello» sintattico, il montaggio, cioè la costruzione del mosaico i cui tasselli sono i singoli piani. Essendo molto diffusa la leggenda dell’«uso intensivo dei piani sequenza» da parte di Tarkovskij, ci si aspetterebbe di trovarsi di fronte a un argomento esile e sbrigativo. Scopriremo invece che le cose stanno in maniera alquanto diversa. Abbiamo visto infatti dai grafici delle classi di durata dei piani che la struttura temporale di quasi tutte le opere di Tarkovskij differisce più o meno sensibilmente sia da quella tipica dei film totalmente strutturati per piani sequenza, sia da quella dei film di puro montaggio, il che lascia supporre la presenza di un «terzo livello» dotato di un certo spessore. Ma, innanzitutto, è questa la maniera giusta di impostare il discorso sul montaggio nel nostro caso? Se Tarkovskij fosse un autore classico certamente sì, ma egli non lo è. Se dunque pensassimo di partire dal concetto convenzionale di montaggio inteso come insieme di relazioni fra i piani, e attraversassimo alla (fioca) luce di esso l’itinerario cinematografico di Tarkovskij, scopriremmo di non essere in grado di trarre, alla fine, nessuna conclusione: perché per Tarkovskij il montaggio è semplicemente un’altra cosa. Dovremo allora, prima di avventurarci nell’analisi delle opere, fare alcune ulteriori considerazioni sulla struttura temporale dei film e anche 176
riflettere sul concetto stesso di montaggio. Nei Diari Tarkovskij paragonò il montaggio a una rete di fili le tensioni fra i quali dovevano essere tali da mantenere un perfetto equilibrio nell’intera struttura, al punto che il regista non doveva esitare a buttar via riprese anche molto ben riuscite se esse non si inserivano in questa rete di relazioni senza alterarne l’equilibrio generale1. E nella pratica non si smentì. Potremmo immaginare semplicisticamente che in questa metafora i nodi della rete siano i piani e i fili le relazioni fra essi, ma è molto probabile che Tarkovskij la intendesse in un senso più sottile perché, come abbiamo imparato dai suoi testi teorici, all’atto del montaggio egli non guardava i piani dall’esterno ma, al contrario, guardava al montaggio ponendosi all’interno dei piani. È pertanto necessario formulare una diversa idea di montaggio, che coinvolga tutti e tre i livelli sintattici. Analizzando i primi due livelli abbiamo visto infatti che il brusco aumento nella durata media dei piani riscontrabile fra Lo specchio e Stalker coincide con una profonda messa in discussione della forma cinematografica, all’abbandono di certe scelte stilistiche in funzione di altre che possiamo supporre Tarkovskij considerasse più consone alla rappresentazione del proprio mondo interiore. La domanda che sorge spontanea adesso è se un discorso analogo è valido anche a proposito del modo di strutturare le sequenze, poiché la sequenza sarà l’unità sintattica cui rivolgeremo adesso la nostra attenzione. Iniziamo anche questa volta con un’analisi quantitativa, considerando a questo scopo due grandezze: la durata media delle sequenze e il numero medio dei piani che costituiscono una sequenza. Questi dati sono riassunti nella tabella 5.1. Una precisazione prima di andare avanti: nel calcolare le durate medie dei piani nei film L’infanzia di Ivan, Solaris e Lo specchio avevo escluso il contributo dato dai piani da cinegiornale e simili; qui invece ho ritenuto di doverli inserire. Questo perché, essendo la nostra attenzione ora concentrata non 177
sul singolo piano, ma sull’intera sequenza, non possiamo prescindere dal fatto che essi, essendone parte integrante, contribuiscono in maniera non trascurabile a determinarne la struttura temporale. Durata media sequenze
Numero medio di piani per sequenza
Il rullo compressore e il violino
3’ 30”
16,17
L’infanzia di Ivan
3’ 54”
12,6
Andrej Rublëv
3’ 30”
8,08
Solaris
5’ 37”
12,39
Lo specchio
4’ 20”
11,09
Stalker
7’ 14”
6,81
Nostalghia
7’ 04”
7,29
Sacrificio
6’ 54”
6,10
Tab. 5.1
Commentiamo ora la tabella. Così come accadeva per le durate medie dei piani, le durate medie delle sequenze mostrano un aumento, anche se in questo caso meno marcato, fra Lo specchio e Stalker. Nonostante ciò, si ha una diminuzione nel numero medio dei piani che costituiscono le singole sequenze. Ancora una volta dunque ci troviamo di fronte a una prima fase, coincidente con i primi cinque film, e a una seconda fase, comprendente gli ultimi tre, caratterizzata da un netto distacco dalla struttura delle opere precedenti. L’aumento nella durata delle sequenze è coerente con la transizione, fra il quarto e il quinto lungometraggio, verso una struttura narrativa meno frammentata (ricordiamo l’adozione, a partire da Stalker, delle tre unità di spazio, tempo e azione), che troverà nel monolitico Sacrificio, con la sua estrema concentrazione spaziale e temporale, l'esito più avanzato.
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Alcune definizioni Nel seguito del discorso dovrò usare alcuni termini e concetti specifici di cui è bene avere una precisa padronanza, e di cui pertanto darò qui le definizioni, anche se alcuni di essi appartengono a quella concezione convenzionale del cinema dalla quale Tarkovskij non tardò ad allontanarsi. Nel cinema ci si trova spesso a dover rappresentare più eventi che si svolgono in contemporanea, in luoghi diversi o anche nello stesso luogo. Si parla allora di montaggio alternato nel primo caso e campo-controcampo o découpage nel secondo. Vediamone le differenze. L’esempio più classico di montaggio alternato è l’inseguimento, in cui si alternano immagini dell’inseguitore e di colui che è inseguito. In generale si parla di montaggio alternato quando rappresentiamo due eventi che, pur svolgendosi in luoghi diversi, sono uniti da un rapporto di causa-effetto. Spesso, ma non necessariamente, i due eventi confluiscono in un unico luogo (nell’esempio precedente, quando l’inseguito viene raggiunto). In Tarkovskij troviamo un esempio di montaggio alternato nel finale dell’Infanzia di Ivan, con la corsa dei due bambini sulla spiaggia o anche, in Nostalghia, nel discorso di Domenico in Campidoglio mentre Gorčakov, a Bagno Vignoni, compie il rito della candela. Nel primo caso l’alternanza è fra piani all’interno di una stessa sequenza (una inquadratura di Ivan, una della bambina, una di Ivan ecc.), nel secondo caso è fra sequenze (discorso di Domenico, arrivo di Gorčakov a Bagno Vignoni, fine del discorso e morte di Domenico, sequenza della candela e morte di Gorčakov). Il caso più semplice di eventi simultanei che avvengono nello stesso spazio è il campo-controcampo. Un esempio tipico è il dialogo fra due personaggi in cui ci si trova a dover 179
mostrare le azioni, i gesti, le espressioni di ciascuno. Abbiamo due alternative chiamate rispettivamente controcampo esterno e interno. Nel primo (figg. 5.1a e 5.1b, da L’ora di religione di Marco Bellocchio) la scena si riprende con due macchine da presa disposte alle spalle dei due personaggi in modo da avere in campo uno di essi quasi frontalmente e, su un lato dell’immagine, l’altro, inquadrato parzialmente, di spalle. Nel secondo invece (figg. 5.2a e 5.2b, da Solaris) i punti di ripresa sono disposti fra i due personaggi e abbiamo così in campo uno solo di essi. In entrambi i casi si dispone poi anche un terzo punto di ripresa in cui i due personaggi appaiono simultaneamente e che costituisce una sorta di quadro d’unione. Questa si chiama inquadratura master. Nel montare la scena poi si comincia e, a volte, si finisce con una inquadratura master e fra esse si alternano parti delle riprese a e b. Quello mostrato nella figura 5.2 è un caso tipico di controcampo interno in Tarkovskij: il primo dialogo fra Kelvin e Snaut. Rarissimi invece i casi di controcampo esterno, ed è facile capire perché: esso, come sul secondo livello la fissità della macchina da presa, corrisponde a un punto di vista oggettivo e distaccato, pertanto estraneo, che già sappiamo essere poco gradito a Tarkovskij. Il controcampo interno, in cui la macchina da presa (lo sguardo dello spettatore) è in una posizione prossima alla soggettiva, pone invece lo spettatore in una condizione di vicinanza, quando non di piena appartenenza, agli eventi che sta osservando.
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Fig. 5.1a
Fig. 5.1b
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Fig. 5.2a
Fig. 5.2b
Una forma più complessa delle strutture ad alternanza è il découpage, una tecnica di montaggio in cui, dopo un’inquadratura iniziale, detta anche qui master, che presenta in totale l’ambiente in cui si svolge l’azione, lo spazio della messa in scena viene scomposto in una serie di inquadrature parziali che mostrano singoli aspetti dell’azione, il dialogo fra i quali è affidato al montaggio. In conclusione si ritorna spesso a un’inquadratura totale. In una messa in scena cinematografica una qualsiasi azione avviene sempre secondo una linea privilegiata chiamata linea di interesse. Ad esempio, in un dialogo fra due personaggi la linea di interesse è la linea che unisce le loro teste; nel caso di un personaggio che guarda in una direzione essa è la direzione 182
dello sguardo; nel caso di un personaggio che cammina o corre è la direzione del suo movimento. La linea di interesse divide lo spazio cinematografico in due metà. È importante per un montaggio corretto che i punti di ripresa si mantengano tutti su uno stesso lato di essa. Ad esempio, il controcampo della figura 5.1 è corretto perché la macchina da presa è situata in entrambe le inquadrature alla destra dell’uomo e alla sinistra della donna. Se invece essa nella figura 5.1b fosse stata posizionata alla destra della donna si sarebbe trovata sul lato opposto della linea di interesse rispetto alla posizione della figura 5.1a. Quando ciò avviene si parla di scavalcamento di campo. Parliamo di raccordo sull’asse quando fra un piano e il successivo la posizione della macchina da presa muta, mantenendo invariato l’asse visivo. Lo si usa quando si vuole ad esempio evidenziare un oggetto o un personaggio con un’inquadratura più ravvicinata, o al contrario quando si vuol mostrare il contesto in cui si trova il soggetto rappresentato allontanando il punto di ripresa. Si ha invece raccordo di sguardo quando vediamo un personaggio che osserva qualcosa e nel piano successivo vediamo ciò che egli guarda. Si parla di inserto quando si ha una inquadratura, tipicamente breve, che mostra un particolare di un ambiente che in precedenza era stato mostrato nella sua totalità, mentre si definisce cut away un’inquadratura di un soggetto che era escluso dalle inquadrature precedenti, ma che appartiene allo stesso ambiente.
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Verso un’altra idea di montaggio Come già detto, fin qui ho dato una serie di definizioni appartenenti a una concezione convenzionale del linguaggio cinematografico, ma in Tarkovskij niente è convenzionale, la sua capacità di reinventare le scelte formali è notoriamente altissima. Facciamo allora qualche riflessione ulteriore. Sappiamo che il montaggio, inteso come «terzo livello» della forma cinematografica, è convenzionalmente definito come la messa in relazione fra i piani. È in questo senso che esso rappresenta appunto un «terzo livello» rispetto all’immagine significante e al piano. Nel caso di Tarkovskij, però, questa definizione ci è poco utile perché egli costruisce la sequenza tanto nelle relazioni fra i piani quanto nella loro struttura interna e anche, in certi casi, nella composizione delle singole immagini. Il terzo livello sembra dunque in realtà non vivere di vita autonoma, bensì compenetrarsi con gli altri due. Si parla in questi casi usualmente e, a mio avviso, impropriamente di «montaggio interno al piano»; impropriamente perché se il montaggio è una relazione fra piani, ciò che è interno al piano non è montaggio. La contraddizione si risolve se introduciamo un ulteriore concetto, in sé abbastanza intuitivo, quello di centro di interesse, definito come ogni entità profilmica che ha un qualche ruolo nell’azione cinematografica. Ad esempio, in un dialogo fra due personaggi essi sono i due centri di interesse della sequenza; se un personaggio corre verso una meta, egli e la meta sono i due centri d’interesse. Se ora definiamo il montaggio come la messa in relazione dei centri di interesse non abbiamo più problemi di coerenza perché tale relazione può instaurarsi indifferentemente fra i piani, all’interno del piano e perfino all’interno della singola immagine. Possiamo anche ridefinire più propriamente la linea di interesse come quella linea ideale che unisce due o 184
più centri di interesse. Ha senso a questo punto parlare di montaggio interno al piano e a questo proposito definire una terza categoria di movimenti di macchina, intermedia fra i subordinati e gli indipendenti. Li chiameremo movimenti attivi. Sono quelli attraverso i quali la macchina da presa modifica la nostra posizione di spettatori nei confronti di uno o più centri di interesse, ad esempio spostandosi da un centro di interesse a un altro oppure avvicinandosi a uno di essi e amplificandone con ciò l’importanza. Sono movimenti funzionali alla narrazione, e in tal senso non indipendenti, ma allo stesso tempo non asserviti passivamente ai movimenti dei personaggi o di tutto ciò che è profilmico, e dunque non subordinati. È attivo, ad esempio, un movimento di panoramica in cui la macchina da presa passa da un personaggio a un altro, o una carrellata di avvicinamento che concentra l’attenzione su un primo piano o su un dettaglio, essendo con ciò un equivalente sul secondo livello di ciò che il raccordo sull’asse è sul terzo2. Uno stesso movimento di macchina può caratterizzarsi come appartenente a una qualsiasi delle tre categorie che ho qui definito. Mentre è abbastanza chiaro quando esso è da intendersi come subordinato, un po’ più problematica è la distinzione fra attivo e indipendente quando quest’ultimo ha anche funzione narrativa. Possiamo dire che la differenza è in tal caso nello «spessore» che in quel momento assume la componente diegetica nella «polifonia» di eventi filmici e profilmici cui un’opera cinematografica ci pone di fronte a ogni istante, e nel fatto che la macchina da presa si ponga o meno in relazione con tale componente. Lo vedremo come attivo quando in esso prevale la funzione diegetica, come indipendente quando il movimento di macchina stesso è la «voce» principale o una delle principali; quando insomma ciò che fa la macchina da presa balza in quanto tale in primo piano segnalandosi con la sua peculiare significanza alla percezione dello spettatore. Fermo restando che il confine può anche essere sfumato, ben 185
potendo esistere un territorio comune. Questa concezione del montaggio consente di inglobare anche il cosiddetto «découpage in profondità di campo» consistente nel far coesistere in una stessa immagine due o più centri di interesse simultaneamente agenti e in relazione fra loro, posti a diversa distanza dalla macchina da presa. L’esempio classico, a questo proposito, è quello della sequenza di Citizen Kane di Orson Welles in cui i genitori discutono col banchiere del futuro del loro figlio il quale, nel frattempo, gioca ignaro all’esterno col suo slittino. La madre e il banchiere sono vicini alla macchina da presa, in mezza figura; il padre è più distante, in figura intera; il bambino è invece sullo sfondo, visibile attraverso il riquadro di una finestra, in campo lungo. Abbiamo dunque tre centri di interesse simultaneamente agenti all’interno della stessa immagine lungo la direzione dello sguardo dello spettatore. Il découpage in profondità di campo è cosa diversa dalla semplice composizione in profondità di campo intesa in senso figurativo, dunque inerente al primo livello. Naturalmente il primo presuppone la seconda, ma non è vero il contrario. Ad esempio, una composizione del tipo figura-sfondo in cui sia l’una che l’altro sono ben nitidi ma in cui solo la figura è agente, non appartiene al nostro discorso poiché il centro di interesse è uno solo. Nel seguito parlerò di composizione in profondità di campo quando vorrò far riferimento agli aspetti figurativi e di relazione in profondità di campo quando vorrò far riferimento alla messa in relazione dei centri di interesse. Andrej Rublëv ci offre notevoli esempi dell’uno e dell’altro caso. Abbiamo innanzitutto una forte tendenza alla composizione plastica dell’immagine, lo abbiamo visto analizzando il primo livello; quanto alla relazione in profondità di campo, è più rara, ma non assente. Ad esempio, il momento in cui i fonditori si rifiutano di scavare la buca è un esempio di composizione in profondità di campo perché è del tipo figurasfondo. C’è un solo centro di interesse: Boriska e il gruppo degli 186
operai (figure), mentre le mura bianche della città (sfondo) non lo sono. Un interessante caso di relazione in profondità di campo è invece l’uscita dalla città del corteo del principe nell’episodio La campana. Il corteo (primo centro di interesse) viene inquadrato sullo sfondo mentre a distanza ravvicinata vediamo le impalcature della campana e alcuni operai intenti al suo sollevamento (secondo centro di interesse). La relazione fra i due centri di interesse è innanzitutto nel fatto evidente che campana è la meta del corteo, nonché nel fatto che gli operai volgono gli occhi verso di esso. È chiaro che questa concezione estesa del montaggio ci porterà a riprendere in considerazione alcuni aspetti del primo e del secondo livello. Mentre però nei capitoli precedenti abbiamo analizzato tali livelli concentrando l’attenzione sugli aspetti extradiegetici, ovvero sulla struttura dello spazio e del tempo derivante dalla composizione delle immagini significanti e dai movimenti di macchina, qui ci concentreremo sugli aspetti più pertinenti alla strutturazione filmica della diegesi. Mi capiterà nel seguito di usare un’espressione come profondità sintattica, che ho così definito con riferimento al montaggio per analogia con ciò che è la profondità prospettica nell’immagine. Voglio indicare con questo termine il fatto che le relazioni fra i centri di interesse vengano realizzate ricorrendo simultaneamente a più i livelli sintattici, indipendentemente da quali essi siano. È necessario infine precisare che mettere in relazione due centri di interesse sul terzo livello o su uno degli altri sottostanti non è del tutto equivalente. Scrivono a questo proposito Casetti e Di Chio con riferimento ai movimenti di macchina: Si è parlato spesso di «montaggio interno» a proposito di questi movimenti di macchina, per indicare che essi non fanno altro che legare tra di loro le cose passando dall’una all’altra dentro l’inquadratura, anziché allineandole con una serie di stacchi. Ma l’equivalenza tra il montaggio vero e proprio e quello che si designa come «montaggio interno» è in verità del tutto fuorviante: certo il film «va avanti» ugualmente, ma allineare le cose in inquadrature diverse vuol dire far ricorso a operazioni mentali del tipo A+B=C (che poi esse siano coscienti o
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automatiche, che producano costrutti realistici o astratti ecc., poco importa), mentre legarle in una medesima inquadratura significa legarle «nella realtà», proporle non come somma ma come unità. Ciò comporta in pratica un dato essenziale: anche nei casi più astratti e simbolici, il movimento di macchina, grazie alla sua coesione e alla concentrazione spaziale e temporale, induce a un maggior senso di immediatezza e di verità, dà sempre l’idea di una presenza reale.3
Tutto ciò mi sembra in perfetta sintonia con le idee di Tarkovskij. Quando dunque fra poche pagine ci porremo il problema di quanto egli lavori all’interno del piano e quanto nelle relazioni fra i piani, dovremo tener presente che non porremo una questione di arida tecnica cinematografica. La domanda cui cercheremo di dare una risposta è: quanto egli mette in relazione i centri di interesse accostandoli nella realtà del fluire naturale del tempo e quanto contrapponendoli in quella astrazione da esso che è la soluzione di continuità fra un piano e l’altro? Non è una differenza da poco. Introduciamo infine una distinzione fra due diverse tipologie di sequenze che, con una terminologia derivata dalla musica, potremmo definire polifoniche e monodiche. Definirò polifoniche le sequenze in cui si ha la compresenza di due o più centri di interesse simultaneamente agenti, come appunto le linee melodiche sovrapposte di una struttura musicale polifonica. Definirò invece monodiche le sequenze in cui si ha un solo centro di interesse oppure si passa da un centro di interesse al successivo in maniera graduale senza poi ritornare al precedente. Le relazioni in profondità di campo e tutte le strutture ad alternanza quali montaggio alternato, découpage, controcampo sono strutture polifoniche. Il preludio al primo sogno di Nostalghia è invece un esempio di sequenza monodica.
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Studio delle transizioni Possiamo affermare a questo punto che comporre o, come si usa dire, montare una sequenza significa definire la successione di relazioni fra i suoi centri di interesse. Parlerò a questo proposito di transizione fra centri di interesse quando si ha un qualsiasi mutamento nella loro presenza in campo o nel modo di inquadrarli. Ad esempio, quando uno di essi entra in campo o esce fuori campo, sia muovendosi esso stesso (transizione profilmica) sia perché incluso o escluso da un movimento di macchina o da uno stacco (transizione filmica). Parlerò invece di transizione sul (o interna al) centro di interesse quando muta la nostra posizione di osservatori nei confronti di uno stesso centro di interesse; ad esempio, quando un movimento di macchina o uno stacco ci porta dall’inquadrarlo di spalle all’inquadrarlo di fronte, o dalla distanza della figura intera a quella del primo piano. Naturalmente le transizioni sul terzo livello non sono altro che gli stacchi fra un piano e il successivo; tutte le altre sono transizioni sul secondo livello. Concentriamo da adesso la nostra attenzione su questi eventi perché l’analisi del montaggio quale l’abbiamo definito si identifica con lo studio delle transizioni fra, o sui, centri di interesse. La prima domanda che ci porremo riguarda la natura della frenata brusca di cui abbiamo scoperto l’esistenza nel capitolo 2. In cosa consiste? In che modo l’aumento delle durate dei piani è in relazione col loro ritmo interno? Per capire questo ci immergeremo in alcuni conteggi sulle transizioni o meglio sulla loro frequenza. Ci attende dunque ancora qualche, apparentemente arida, pagina di «solfeggio», ma ci sarà nuovamente utile per capire qualcosa che difficilmente potremmo capire in altro modo. Definiamo frequenza delle transizioni il numero di transizioni al minuto che si hanno durante una sequenza. 189
Calcoleremo separatamente le frequenze sul secondo e terzo livello e ne ricaveremo la frequenza complessiva pari alla loro somma. Poiché questo linguaggio è piuttosto astratto e rischia di essere percepito come esoterico o, detto più francamente, astruso, proviamo a fare un esempio pratico: il calcolo delle transizioni per la sequenza del compleanno di Snaut in Solaris. La sequenza dura 12 minuti ed è composta da 19 piani. Essa comprende dunque 18 stacchi fra i piani. Queste sono le transizioni sul terzo livello. All’interno dei piani ci sono poi 28 entrate in campo o uscite fuori campo dei personaggi, ognuno dei quali è un centro di interesse. Queste sono le transizioni sul secondo livello (in questo calcolo non facciamo distinzioni tra filmiche e profilmiche). Se dividiamo ciascuno di questi due numeri per la durata della sequenza, otteniamo la frequenza delle transizioni sul terzo (1,5) e sul secondo livello (2,33) rispettivamente. La loro somma (1,5 + 2,33 = 3,83) darà poi la frequenza delle transizioni complessiva dell’intera sequenza. Tornando alla tabella 5.1, il mutamento dei valori fra le opere della prima e della seconda fase può essere il sintomo di due diverse situazioni: o Tarkovskij si è concentrato sul montaggio interno al piano aumentando il numero di transizioni sul secondo livello a spese di quelle sul terzo, oppure ha attuato una rarefazione complessiva della frequenza delle transizioni su entrambi i livelli. Il grafico della figura 5.3 ci mostra che quest’ultima è l’ipotesi corretta. Questo grafico rappresenta la frequenza delle transizioni delle più rilevanti sequenze degli otto film di Tarkovskij4. Ad esempio, la quarta linea verticale da sinistra, relativa alla sequenza del primo dialogo fra Ivan e Galtsev nell’Infanzia di Ivan, ci dice che in essa ci sono 4,3 transizioni al minuto di cui 2,6 sul secondo livello. Si vede chiaramente che gli ultimi tre film presentano valori quasi ovunque nettamente inferiori a quelli dei primi cinque. Ciò che è accaduto nel passaggio dal primo al secondo stile è dunque una rarefazione 190
delle transizioni su entrambi i livelli5.
Fig. 5.3
Ma in che misura Tarkovskij ricorre alle transizioni interne ai piani e a quelle ottenute tramite stacchi? Per saperlo calcoliamo innanzitutto, per ciascun film, la frequenza delle transizioni relativa all’insieme di tutte le sequenze considerate nel grafico della figura 5.3. Rappresentando poi il risultato in forma percentuale otteniamo il grafico della figura 5.4 in cui ciascuna linea ci dice quale percentuale di transizioni è sul secondo livello (tratto scuro) e quale sul terzo (tratto chiaro) nell’insieme di tutte le sequenze di ciascun film presenti nel grafico precedente.
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Fig. 5.4
Ad esempio la seconda linea da sinistra ci dice che nell’insieme delle sequenze dell’Infanzia di Ivan riportate nel grafico della figura 5.3, il 52% delle transizioni è sul secondo livello e il 48% sul terzo. In questo nuovo grafico vediamo chiaramente come nell’opera prima la maggior parte delle transizioni sia fra i piani (l’87%), in Sacrificio sia all’interno dei piani (il 65%), mentre nelle sei opere intermedie il punto di demarcazione si situa fra il 45 e il 52%; in esse pertanto le transizioni sui due livelli coesistono senza che l’uno prevalga sull’altro. Questo significa che, benché Tarkovskij abbia sviluppato notevolmente nel suo secondo stile la struttura interna dei piani, egli, almeno fino a Nostalghia, non ne ha fatto la sede privilegiata del montaggio. Ciò porta con sé una conseguenza: il fatto che nei film del secondo stile la durata dei piani aumenti, la frequenza delle transizioni diminuisca ed esse non si concentrino, se non nell’ultima opera, sul secondo livello, ci fa pensare che l’aumento della durata dei piani nel secondo stile abbia scopi prevalentemente extradiegetici, legati cioè a una diversa 192
concezione del tempo piuttosto che a un diverso modo di organizzare la rappresentazione filmica della narrazione. Diversamente, l’aumento della durata dei piani sarebbe stato accompagnato da un simultaneo concentrarsi delle transizioni al loro interno. Riassumiamo: nel capitolo 2 abbiamo visto che Tarkovskij nel secondo stile ha mostrato una maggiore tendenza allo sviluppo della struttura interna dei piani, ma le rappresentazioni lì utilizzate, essendo cieche nei confronti di essa, non ci dicono di più. L’analisi delle transizioni ci porta più avanti dicendoci che egli, fino a Nostalghia, lo ha fatto per fini diversi da quelli della dinamica delle relazioni fra i centri di interesse. In altre parole, per fini extradiegetici. L’importanza nuova della componente extradiegetica è infatti una delle caratteristiche del secondo stile. La nuova struttura formale non è dunque finalizzata a un diverso approccio alla struttura narrativa, bensì a fare con il cinema «solamente ciò che si può creare con i mezzi cinematografici». Solo con Sacrificio a ciò si aggiunge una diversa organizzazione filmica della diegesi, che tende a concentrarsi sul secondo livello creando un’ossatura portante costituita da piani dal notevole sviluppo interno. Ciò rende evidentissima in molti momenti fondamentali dell’opera un’ormai decisa tendenza verso il piano sequenza puro. Anche sotto questo aspetto possiamo dunque guardare a Sacrificio come a un anticipo di un ipotetico terzo stile.
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Le transizioni distribuite Le transizioni che abbiamo fin qui preso in considerazione sono istantanee se consistono in stacchi di montaggio, o comunque di breve durata se sono dissolvenze incrociate o se avvengono all’interno dei piani; chiamiamole transizioni puntuali. Nella nostra analisi abbiamo preso in considerazione finora solo esse; esiste tuttavia un secondo tipo di transizioni di più lunga durata che chiameremo transizioni distribuite nel tempo, le quali assumono particolare importanza nel secondo stile di Tarkovskij, ma non sono assenti dal primo. Per chiarire cosa intendo, partiamo da un esempio concreto: Stalker, sequenza del dialogo nel bar prima del viaggio nella Zona. I tre protagonisti sono inizialmente ripresi in un totale del luogo, poi inizia uno di quei movimenti lentissimi, al limite della percepibilità che, come abbiamo visto, sono uno degli elementi caratterizzanti il secondo stile. È una carrellata in avanti che ci conduce, su un intervallo di tempo di tre minuti, fino alla distanza della mezza figura. Il centro di interesse rimane costituito dai tre uomini, ma la nostra posizione di spettatori davanti a loro è drasticamente mutata. C’è stata indubbiamente una transizione interna al centro di interesse (è un movimento attivo) analoga a ciò che sul terzo livello sarebbe un raccordo sull’asse, ma essa è avvenuta lungo un arco temporale inusitatamente dilatato e questa non è una caratteristica che sia lecito ignorare. Si tratta dunque di un elemento sintattico diverso dalla transizione puntuale, che come tale va considerato a parte. Domandiamoci ora: quale rilevanza temporale hanno in ciascun film le transizioni distribuite? Il grafico della figura 5.5 ce lo mostra in termini di percentuale della durata complessiva del film, mentre quello della figura 5.6 ci dice qual è la loro durata media. Ad esempio, nella figura 5.5 la quarta linea da 194
sinistra ci dice che in Solaris le transizioni distribuite occupano il 6% della durata del film, mentre la figura 5.6 ci dice che la loro durata media è di 22 secondi.
Fig. 5.5
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Fig. 5.6
In entrambi i grafici vediamo ancora una volta una netta differenza fra i primi cinque e gli ultimi tre film, poiché nelle opere del secondo stile troviamo valori quasi tripli rispetto a quelli del primo, sia nella percentuale della durata complessiva, sia nella durata interna di ciascuna transizione. Nel primo stile il concetto stesso di transizione distribuita è alquanto sfumato e spesso è stato difficile stabilire una linea di demarcazione6. Aggiungiamo che, benché non necessariamente debba essere così, nel caso di Tarkovskij le transizioni distribuite sono sempre interne al centro di interesse e in gran parte di tipo filmico, ovvero realizzate tramite un movimento di macchina, tipicamente una lenta o lentissima carrellata longitudinale che ci avvicina al centro di interesse con un effetto di amplificazione della nostra attenzione su di esso o, molto più raramente, ce ne allontana aprendo lo sguardo all’ambiente che lo circonda. In misura minore, incontriamo anche transizioni profilmiche, ovvero basate sui movimenti dei personaggi. Un caso tipico è il 196
loro progressivo avvicinarsi o allontanarsi, situazione di cui il cinema convenzionale ha orrore classificandola nella categoria nera dei tempi morti, e come tali fonte di noia per lo spettatore. Un suggestivo esempio di transizione distribuita profilmica lo troviamo, in Sacrificio, nella sequenza della casa in miniatura, con cui inizia la seconda sezione e che si chiude con l’allontanarsi di Maria fino a perdersi in un paesaggio vuoto, decolorato e velato dalla nebbia (fig. 3.49). L’inquadratura prende avvio da un intenso primo piano di Maria; la macchina da presa la segue poi in panoramica, sempre a breve distanza, poi Maria comincia molto lentamente ad allontanarsi; da questo momento la macchina da presa si immobilizza e vediamo la donna farsi sempre più piccola fino alla distanza del campo lungo, e il paesaggio, inizialmente invisibile, farsi sempre più presente. Maria e il paesaggio sono i due centri di interesse e il graduale allontanarsi della prima amplifica progressivamente la presenza del secondo con un simultaneo effetto di decrescendo su Maria e di crescendo sul paesaggio. Ancor più rari, ma non assenti, sono i casi in cui la transizione è simultaneamente filmica e profilmica. A questo terzo tipo di transizioni distribuite appartengono i tre minuti centrali del piano sequenza iniziale di Sacrificio (fig. 4.10) in cui i tre personaggi passano, come già sappiamo, dal campo lungo al campo medio. In questi tre minuti i personaggi e la macchina da presa si muovono lungo due rette convergenti ed è l’insieme di questi due movimenti, profilmico l’uno, filmico l’altro, ad avere come effetto combinato la transizione. Un altro caso importante sono le transizioni continue; sono transizioni filmiche (tipicamente carrellate) in cui scorre davanti alla macchina da presa una successione continua di centri di interesse, come la carrellata sull’acqua in Stalker o quella sull’erba poco prima del finale dello Specchio. Poiché si tratta però in questo caso di momenti extradiegetici, essi rientrano di fatto nella categoria dei movimenti di macchina indipendenti.
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In conclusione, dal punto di vista che stiamo qui esaminando, il passaggio dal primo al secondo stile si attua nel rarefarsi degli eventi nel tempo, sia diegetico che extradiegetico, poiché la riduzione delle transizioni puntuali accompagnata da un dilatarsi delle transizioni distribuite non significa altro che questo. Ed è in realtà l’insieme di questi cambiamenti che giustifica il parlare di una «frenata brusca», certamente più dell’aumento nella durata dei piani, il quale, come si era ipotizzato nel capitolo 2, è in effetti solo il sintomo esteriore del fatto che al loro interno si sono verificati dei (notevoli) mutamenti7. 1
V. A. Tarkovskij, Martirologio. Diari, Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij, Firenze 2014, p. 456, 29 luglio 1982. 2 Usualmente i movimenti attivi e indipendenti sono riuniti sotto l’unica denominazione di «movimenti liberi», cui è attribuita funzione di manifestazione dell’istanza narrante, ovvero in cui la macchina da presa assume un ruolo analogo a ciò che in letteratura è il narratore onnisciente. Questa classificazione è affetta da una visione prettamente narrativa dell’opera cinematografica, prescindendo essa dal fatto che un movimento di macchina possa avere funzione non narrativa come spesso accade in Tarkovskij. Essa è dunque inadeguata ai nostri scopi. 3 F. Casetti, F. Di Chio, Analisi del film, Bompiani, Milano 1999, p. 84. 4 Le sequenze sono, per Il rullo compressore e il violino: l’attesa dell’esame, Saša e Sergej si conoscono, il pranzo; per L’infanzia di Ivan: primo dialogo fra Ivan e Galtsev, Ivan rifiuta di andare alla scuola di guerra, il vecchio col gallo, ritorno in automobile, Dürer, Ivan gioca alla guerra; per Andrej Rublëv: dialogo Teofane-Kirill, Kirill lascia il monastero, dialogo Andrej-Danijl nella sua cella, ritorno di Andrej dalla festa pagana, fuga di Marfa, lettura della Bibbia, dialogo Andrej-Teofane nella chiesa distrutta, preparazione fonditura della campana; per Solaris: Berton, arrivo alla stazione e primo dialogo con Snaut, secondo dialogo con Snaut, Gibarian, prima apparizione di Harey, terzo dialogo con Snaut, compleanno di Snaut, malattia di Kelvin, ritorno; per Lo specchio: dialogo madre-medico, prima poesia, incendio del fienile, primo dialogo con la moglie, gli spagnoli, vita nella casa d’infanzia, gli orecchini; per Stalker: casa dello Stalker, sosta, carrello ferroviario, arrivo nella zona, lo Scrittore tenta di raggiungere la Stanza, tritacarne, sala delle dune, telefonata, dialogo sulla soglia della stanza; per Nostalghia: madonna del parto, dialogo nella hall dell’albergo, dialogo nella piazza di Bagno Vignoni, dialogo nella casa di Domenico, la chiesa sommersa, Campidoglio 1 e 2, la candela 1 e 2, finale; per Sacrificio: piano sequenza iniziale, monologo di Aleksander nel boschetto, dialogo sul teatro, l’hobby di Otto, il passaggio degli aerei sulla casa, la casa in miniatura, l’annuncio della guerra,
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monologo di Adelaide, visita a Maria, preparazione dell’incendio, finale. 5 Un limite di questa analisi è che non è stata considerata la dinamica delle transizioni ovvero l’entità del salto di «pressione temporale» che consegue a ciascuna di esse. La frequenza delle transizioni può comunque essere considerata essa stessa un significativo, benché appunto incompleto, indice quantitativo di ciò che Tarkovskij chiamò «pressione del tempo» senza tuttavia darne mai una definizione formale. 6 Relativamente alle opere del primo stile, infatti, questo grafico è inevitabilmente affetto da un certo margine di soggettività, che comunque non inficia le conclusioni, dato il notevole divario di valori rispetto alle tre ultime opere. Convenzionalmente ho considerato puntuale una transizione di durata inferiore a 10 secondi. 7 Si potrebbe aggiungere che tali mutamenti sono del resto ben percepibili già a una semplice visione (non distratta) dei film, cioè a una percezione di tipo sintetico e intuitivo. La diversa impostazione analitica cui sono improntate queste pagine ci dice in più in che modo tutto ciò è stato cinematograficamente ottenuto.
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6. Il mosaico fatto di tempo (Seconda parte)
Il passo successivo della nostra analisi consisterà nell’esplorare le sequenze dall’interno. Lo faremo guidati dagli usuali concetti di spazio e di tempo, a partire dai quali possiamo individuare come punti di riferimento due strutture sintattiche di cui studiare l’evoluzione da un film all’altro. Esse sono nel tempo le strutture ad alternanza e nello spazio la dinamica delle linee di interesse e dell’asse visivo, ovvero il modo in cui nel corso della sequenza muta l’orientamento della linea di interesse stessa e della macchina da presa.
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Il periodo giovanile Abbiamo visto che l’opera prima si distacca solo lievemente dalla concezione convenzionale del cinema di montaggio. Tipica di essa è ad esempio la scena in cui Saša e Sergej si conoscono nella piazza, basata sullo schema classico del découpage, dunque tutta concentrata sul terzo livello. Le sequenze così strutturate tuttavia ci dicono poco del Tarkovskij futuro, mentre più utili sono a tale scopo sequenze caratterizzate da una maggior profondità sintattica, come l’attesa dell’esame e il pranzo. Non dimentichiamo infatti che fondamentale per Tarkovskij è il dialogo fra il secondo e il terzo livello, a proposito del quale, dopo esserci domandati «quanto?» è giunto il momento di domandarci «quando?». Quando dunque Tarkovskij ricorre a una transizione sul terzo o sul secondo livello? Con che funzione espressiva nell’ambito della sequenza? Teniamo presente quanto già detto nel precedente capitolo sul significato dei due diversi modi di operare una transizione, e dunque lo spessore che assume questa domanda al fine di comprendere la poetica di Tarkovskij. L’attesa dell’esame ci offre un esempio di découpage coinvolgente anche il secondo livello attraverso il ricorso a piani internamente strutturati mediante movimenti di macchina. Possiamo identificare due coppie di centri d’interesse principali, ovvero Saša e la bambina, che è la coppia portante, e l’insieme di un terzo bambino e di sua madre; più un centro d’interesse secondario, la mela, e uno occasionale (appare una volta sola), il gatto. Si comincia anche qui con un’inquadratura master, che conosciamo per averla già analizzata nei precedenti capitoli (fig. 3.35): un totale della sala d’attesa con l’arrivo di Saša. Dopodiché lo spazio viene scomposto in un dialogo di inquadrature parziali in relazione fra loro, il cui succedersi nel tempo mostra anche qui una tipica struttura ad alternanza. Ma in 201
tre piani, il terzo, il quarto e l’ultimo, l’espressività si sposta sul secondo livello. I primi tre piani costituiscono un prologo, in cui vengono presentati e messi in relazione fra loro l’ambiente (nel primo) e i centri d’interesse principali. È notevole il fatto che il terzo, il momento dell’arrivo della bambina, ponga in relazione i personaggi sul secondo livello, prima in successione guidata dai movimenti di macchina (tre successive panoramiche) passando dalla madre a Saša, poi alla bambina che sopraggiunge, infine riunendoli nella stessa immagine (come dire: sono tutti nella stessa barca). E adesso vediamo cosa succede: un netto stacco elimina la madre dal piano successivo (la sua è un’altra storia), un movimento di macchina elimina poi la bambina e si concentra su Saša (mantenendo però con ciò una relazione fra i due essendo essi nello stesso piano). È l’inizio di una alternanza tutta sul terzo livello (8 piani); ed è qui che Saša cerca di far colpo sulla bambina, che però sta ancora un po’ sulle sue (qualcosa dunque ancora li divide, sono sì parte della stessa storia, ma «a distanza», pertanto il loro dialogo di sguardi appartiene a piani diversi, situandosi così ora sul terzo livello). Un singolo piano introduce in questa alternanza la madre, immobile e indifferente come una statua (è lì per lo stesso motivo, come ci ha detto il piano 3, ma allo stesso tempo è come se fosse su un altro pianeta: la sua è davvero un’altra storia). Questa digressione non è gratuita; ci ricorda l’esistenza di questo terzo centro di interesse perché di lì a poco dalla fatidica porta uscirà suo figlio, cui l’esame è andato male. È un momento abbastanza toccante; abbiamo già parlato di questo bambino analizzando il primo livello, e abbiamo detto quanto egli appaia minuscolo davanti alla gigantesca porta che si richiude alle sue spalle (fig. 3.1). Qui lo vediamo uscire, solo. Dopo uno stacco vediamo la madre che si accorge di lui. Infine li vediamo insieme mentre lei cerca di consolarlo, e ancora insieme, nonostante il gesto di rifiuto e di fuga del bambino, uniti nella stessa immagine, mentre si allontanano, con la 202
macchina da presa che li segue mediante un movimento puramente subordinato. L’attenzione torna a Saša e alla bambina con due piani lunghi separati da un breve inserto, il gatto che va via. Ora tocca a Saša, ed è il momento della mela. Tutto si svolge da adesso sul secondo livello, quello del collegamento nella realtà, perché è per la bambina il momento in cui dovrà decidere che farsene del palese invito di Saša. Nel primo dei due piani lunghi Saša va a sostenere l’esame lasciando la mela accanto alla bambina, ripreso a macchina fissa con la linea d’interesse coincidente con l’asse visivo e una costruzione dell’immagine affine a quella in profondità di campo. Nel secondo invece, come abbiamo visto nel capitolo 4, è la macchina da presa a «parlare» con il suo movimento in avanti verso la mela. Ed è a questo punto chiaro perché il raccordo di sguardo è realizzato all’interno del piano stesso e non con uno stacco dalla bambina alla mela. La bambina e la mela, emanazione di Saša, sono, salvo i ben noti eventi successivi, ormai avvinti in un preciso legame. E il gatto? Poiché il suo salto dalla sedia giunge a interrompere le meditazioni della bambina sulla mela, il suo intervento è sbalzato sul terzo livello, quello della soluzione di continuità, del turbamento nel naturale fluire del tempo. Vediamo ora la sequenza del pranzo. Saša e Sergej sostano in un androne ingombro di materiali da costruzione che si apre sulla strada davanti a una pozzanghera da cui il sole trae tenui giochi di luce. Nella pozzanghera gocciola dell’acqua e questo è importante perché il ritmato cadere delle gocce costituisce uno dei centri di interesse della sequenza; vediamo dunque in che modo esso ne entra a far parte. Un primo strato di alternanza a due voci è costituito dal dialogo fra Saša e Sergej, costruito in gran parte in controcampo. Ad esso si aggiunge un secondo strato di alternanza in cui l’insieme Saša-Sergej costituisce una voce multipla che si alterna in contrappunto con una terza voce che è il cadere della goccia1. L’acqua della pozzanghera ha nella sequenza un duplice ruolo, svolto da una sua qualità visiva e da 203
una temporale. Essa rimane per gran parte del tempo fuori campo, ma la sua presenza è evocata in ogni inquadratura tramite i giochi di luce riflessa che provoca sui muri (è questa la qualità visiva). Semplici orpelli decorativi questi ultimi? Così sembrerebbe, ma vorrei azzardare qui la seguente interpretazione. L’evento puntuale e cadenzato del cadere della goccia (la qualità temporale) cui periodicamente si ritorna durante la sequenza come a un succedersi di rintocchi che scandiscono rigidamente il tempo, è assimilabile allo scorrere meccanico, inavvertito ma, lo sappiamo bene, inarrestabile del tempo di orologi e metronomi con cui Saša aveva dovuto già fare i conti e ha, col suo ripetuto «intromettersi» nel dialogo, un effetto di memento nei confronti di quel tempo. Al contrario, i riflessi di luce che provengono dalla pozzanghera e si proiettano sui muri, il cui movimento è fluido, privo di soluzioni di continuità ed è con ciò l’esatta antitesi della cadenza secca e ritmata della goccia, esprimono un diverso, più armonico scorrere del tempo. Intendiamoci: non sto dicendo che una qualità simboleggia il tempo meccanico, mentre l’altra il tempo «della fantasia». Anche qui niente simboli. Ciò che voglio dire è che l’una e l’altra qualità sono, per loro intrinseca natura, portatrici di due diverse percezioni dello scorrere del tempo. Ma ora concentriamoci sul dialogo fra Saša e Sergej. Possiamo dividerlo in tre parti: prima, durante e dopo il «concerto» di Saša. La sequenza comincia con Saša e Sergej che parlano di cose banali; e quasi convenzionale è il montaggio, che si avvicina alle regole canoniche del campocontrocampo, anche se con due notevoli varianti: innanzitutto il ritmo piuttosto dilatato (ogni inquadratura è distesa su più battute di dialogo), ma soprattutto una tipologia di alternanza che non è quella classica A – B – A – B ma del tipo: A – AB – B – AB – A – AB o varianti di esso. I centri di interesse non vengono cioè semplicemente (semplicisticamente) contrapposti ma il passaggio dall’uno all’altro è sempre mediato dalla coesistenza in campo di entrambi. La chiameremo alternanza 204
mediata. Poi Saša comincia a suonare e, mentre Sergej si lascia poco a poco prendere dalla musica, il montaggio passa, nei tre piani centrali del «concerto», all’interno di essi con fluidi movimenti di macchina che vanno dall’uno all’altro personaggio o da entrambi a uno solo dei due. I due piani successivi ci riportano morbidamente verso il terzo livello, poi la musica finisce. Ciò accade esattamente in corrispondenza di uno dei «rintocchi» della goccia, il terzo. Nel piano ancora successivo troviamo un’inquadratura fissa in figura intera dei due, puramente neutra e oggettiva. Il momento speciale è finito, si torna alla piatta, oggettiva normalità. In questa sequenza dunque il montaggio è interamente situato sul terzo livello nei momenti narrativi, passa invece all’interno del piano nei momenti che potremmo definire più lirici; il momento in cui Saša offre la sua musica all’amico è uno di questi, un momento speciale, in cui i due entrano in risonanza ed ecco dunque che essi vengono legati insieme all’interno del piano. Questi iniziali accenni di distacco dal modo convenzionale di strutturare una sequenza cominciano già nel primo lungometraggio a evolvere verso scelte stilistiche più personali. Soffermiamoci, ad esempio, sul primo dialogo fra Ivan e Galtsev, che già mostra un’impostazione molto diversa dai momenti appena visti dell’opera prima. Possiamo suddividere la sequenza in cinque sezioni (i diversi livelli di allineamento evidenziano la struttura simmetrica della sequenza): a) [3 piani: dall’1 al 3] un soldato conduce Ivan, intercettato da una pattuglia, davanti al tenente Galtsev; b) [5 piani: dal 4 al 8] dialogo: il tenente interroga il ragazzo che insiste affinché egli telefoni al comando. Fra i due c’è un confronto piuttosto duro: sospettoso Galtsev, esasperato e autoritario Ivan. Infine Galtsev telefona al colonnello Grjaznov; c) [1 piano: 9] nel suo ufficio Grjaznov riceve la telefonata e conferma l’identità del ragazzo;
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d) [5 piani: dal 10 al 14] dialogo: adesso l’atmosfera è più distesa; Galtsev fa fare un bagno al ragazzo e gli dà abiti asciutti; e) [3 piani: dal 15 al 17] dopo il bagno Ivan tenta di mangiare, ma viene vinto dalla stanchezza e dal sonno.
La sequenza è caratterizzata da un elevato grado di profondità sintattica: Tarkovskij affida la gestione dei centri d’interesse (coincidenti qui con i singoli personaggi) tanto agli stacchi fra i piani quanto alle transizioni interne ai piani, sia filmiche che profilmiche; e coinvolge infine in misura significativa anche il primo livello attraverso ripetute relazioni in profondità di campo. Le relazioni fra i centri di interesse sono insomma distribuite su tutti i livelli sintattici e pressoché tutte le possibilità di strutturazione della sequenza sono utilizzate. La struttura delle transizioni è affine allo schema dell’alternanza mediata, ma non rispettato rigorosamente, tanto che possiamo parlare di una strutturazione libera delle transizioni. Rimane tuttavia il principio che il passaggio da un centro d’interesse all’altro è sempre mediato da una loro coesistenza nell’immagine. Dalla sintesi del substrato narrativo fatta prima, dovremmo aspettarci che la sezione b), in cui i rapporti fra i personaggi sono conflittuali, sia ben diversa dalla d), dove i toni si fanno più pacati. Ad esempio, che la prima sia dominata da brusche transizioni in controcampo e la seconda da più morbidi passaggi interni al piano. In realtà non emerge nessuna differenza strutturale fra le due sezioni2. Adesso però consideriamo il piano centrale della sequenza, quello in cui il colonnello Grjaznov risponde alla chiamata telefonica di Galtsev, e proviamo a confrontare i cinque piani seguenti con i cinque che lo precedono. Troviamo che i primi hanno una struttura specularmente analoga ai secondi, ovvero, essendo il piano di Grjaznov il n. 9, il piano 8 ha una struttura simile al 10, il piano 7 all’11 e così via. L’unica differenza strutturale fra le due sezioni sta in questa contrapposizione speculare, che tuttavia non è percepibile alla visione del film, ma solo a un’analisi 206
grafica. Due situazioni narrativamente opposte (conflitto – risoluzione del conflitto) vengono dunque realizzate mediante strutture filmiche analoghe ma ribaltandole specularmente, e il ribaltamento dell’una rispetto all’altra viene nascosto, quasi «criptato» nelle profondità della forma cinematografica3. Originale è anche la concezione dello spazio filmico, che potremmo assimilare a un découpage esteso a tutti i livelli sintattici se non fosse che manca l’inquadratura master iniziale e dunque la visione d’insieme dell’ambiente in cui si svolge la sequenza. Si parte da un dettaglio della mano di Galtsev ancora addormentato, ma solo dopo la telefonata a Grjaznov si giunge a un totale (piano 10). È un primo manifestarsi di quella attenzione rivolta più ai personaggi che agli ambienti di cui abbiamo già parlato a proposito delle immagini di Solaris. E ricordiamo che l’inquadratura ravvicinata di un centro di interesse, avendo l’effetto di estraniarlo dallo spazio fisico, costituisce una amplificazione del suo spazio interiore. Nella struttura di questa sequenza si ha un uso organico e ben integrato dei tre livelli; in altri casi però lo spaziare fra più scelte linguistiche, che si manifesta nell’usare stili di montaggio diversi in situazioni tematiche analoghe, assume l’aspetto di una discontinuità stilistica. Un buon esempio di essa è la sequenza del dialogo fra Maša e Kholin nel bosco di betulle. La prima parte è girata in un unico piano lungo di oltre due minuti, c’è poi un breve stacco su Galtsev che cerca Maša; tornati su lei e Kholin, la ripresa si frammenta in dodici piani senza che vi sia, rispetto a prima, alcun mutamento né di tema narrativo né di pressione del tempo interna ai piani. Se la dimensione del sogno corrisponde qui alle scelte linguistiche più semplici, quella dell’incubo – e parlo della sequenza in cui Ivan gioca alla guerra – è forse la più complessa dell’intero film, quella in cui tutte le dimensioni sintattiche (visive e acustiche) del mezzo cinematografico vengono messe in campo. I primi cinque piani sono un crescendo, ma che si realizza, in accordo con le teorie dell’autore, internamente alla 207
struttura dei piani stessi. Si comincia con il lento movimento ascendente della campana, poi con l’altrettanto lento movimento di Ivan che striscia nell’ombra sul pavimento. La prima, momentanea, impennata nel ritmo si ha nel momento in cui Ivan lancia una bottiglia, sottolineato da un rapido controcampo fra Ivan e la parete contro cui essa si infrange. È un anticipo del crescendo successivo che comincia, nel piano seguente (Ivan che continua a strisciare), nella sola componente acustica. La componente visiva si aggiunge a essa nel piano ancora successivo, il più lungo della sequenza, il cui motivo conduttore è il concitato vagare di un ovale di luce che la macchina da presa insegue velocemente e lungo percorsi sempre più tortuosi4 nel buio della stanza, dal quale emergono per brevi istanti, in alternanza interna al piano, le figure di Ivan e di una donna nella quale possiamo riconoscere la madre. Questo angoscioso crescendo interno al piano si risolve nel piano seguente con l’immagine di Ivan che suona la campana; è una soluzione di continuità nella pressione del tempo e serve con efficace esito espressivo a introdurre una nuova fase: l’attacco contro il nemico. I tre piani seguenti sono caratterizzati sia da un sostenuto ritmo interno (tenuto soprattutto dalla dinamica dei soggetti, ovvero Ivan e soprattutto l’ovale di luce che è, ancor più del ragazzo, il vero protagonista di questa sequenza), sia da efficaci salti di immagine fra un piano e l’altro che accentuano, con l’introduzione di punti di singolarità nel fluire del tempo, il rapido precipitare verso la conclusione: la cattura del nemico, sulla cui immagine tutto si ferma. La tensione però non si azzera, perché il confronto faccia a faccia tra Ivan e l’immaginario tedesco è reso attraverso un crudo e netto susseguirsi di controcampi interni. Infine, un ultimo stacco devia bruscamente verso l’irrompere della guerra vera nella pur drammatica finzione del gioco, con l’inizio del bombardamento. La forma del tempo che caratterizza la sequenza si determina dunque all’interno dei piani, nondimeno l’introduzione di opportuni punti di singolarità non solo non la disturba, ma anzi 208
la completa. È sì la condizione interiore dei piani a determinare il montaggio ma quest’ultimo interviene con una sua determinante (benché non certo autonoma) dignità espressiva. Si può affermare che in questa sequenza, di certo la più filmicamente creativa dell’intero film, Tarkovskij abbia realizzato la più compiuta sintesi presente nel primo periodo di quei due apparentemente contrapposti, in realtà utilmente complementari mondi, che sono il tempo interno al piano e il tempo che scorre fra i piani.
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La prima maturità Passiamo ora ad Andrej Rublëv. Abbiamo già detto che nei suoi piani lunghi di maggior durata domina la diegesi. Più esattamente, essi corrispondono ai dialoghi importanti, quelli in cui i personaggi discutono di argomenti in qualche modo cruciali, e questo è vero, in minore o maggior misura, per tutti i film della prima fase. Il lungo viaggio di Tarkovskij verso i territori del piano sequenza compie dunque i suoi primi passi lì dove prevale la parte più riflessiva della narrazione: non l’azione ma il confronto di idee. Non è tutto però, perché dal punto di vista che qui ci interessa Andrej Rublëv presenta delle novità stilistiche, alcune delle quali influenzeranno anche le due opere successive. Innanzitutto, a differenza dell’Infanzia di Ivan dove le alternanze seguivano degli schemi tutto sommato piuttosto liberi e differenti da sequenza a sequenza, qui si delineano alcuni schemi regolari abbastanza ricorrenti. Premetto che ho parlato finora, e parlerò fino a Lo specchio, di piano lungo e non di piano sequenza, nonostante vi siano piani che durano anche alcuni minuti, perché essi non «osano» ancora estendersi oltre un certo limite temporale. Questa… reticenza? …esitazione? …scelta stilistica? Chiamiamola come più ci piace; qualunque cosa sia, si manifesta con particolare evidenza nei dialoghi di Andrej Rublëv dove appare infatti per la prima volta il piano sequenza spezzato, ovvero una struttura costituita da due piani lunghi consecutivi interni alla medesima scena, a volte separati da un breve inserto o cut away. Essa ci indica la volontà di lavorare all’interno del piano, ma non ancora portata alla perfezione del piano sequenza puro. La ritroveremo fino a Lo specchio, sparirà da Stalker in poi; è pertanto una struttura tipica del primo stile. Analizziamo ad esempio la sequenza del dialogo fra Kirill e 210
Teofane nell’episodio Teofane il Greco. La sequenza comincia con un una serie di controcampi interni corrispondenti all’arrivo e al progressivo avvicinarsi di Kirill a Teofane sdraiato su una panca per meglio ammirare le immagini dipinte sulla volta della chiesa. Questa sezione è dunque strutturata sul terzo livello. Poi Teofane si alza e il dialogo entra nel vivo. Siamo ora nel cuore della sequenza e qui troviamo due piani lunghi di circa tre minuti e un minuto e mezzo che costituiscono il piano sequenza spezzato. In particolare, lo schema del primo di essi non potrebbe essere più regolare: Teofane – entrambi – Kirill – entrambi – Teofane – entrambi – Kirill. È la struttura ad alternanza mediata A – AB – B – AB – ecc. che abbiamo incontrato nella sequenza del pranzo dell’opera prima, dove era però realizzata sul terzo livello, prevalentemente in controcampo esterno, mentre qui lo è sul secondo e determinata, del tutto internamente al piano, dall’insieme dei (frequenti) movimenti dei personaggi seguiti in panoramiche subordinate (il filmico qui si modella sul profilmico) alla distanza prevalente del mezzo primo piano. I personaggi, in altre parole, non si fronteggiano nei due convenzionali mondi contrapposti del campo-controcampo come nel montaggio invisibile, ma si affiancano l’uno all’altro, non sono separati dalla linea netta dello stacco fra due piani, ma uniti dal fluido movimento in panoramica della macchina da presa. Siamo insomma del tutto al di fuori dell’ideologia del controcampo, ma anche da quella discontinuità stilistica che avevamo incontrato in Ivan. E la soluzione di continuità fra i due piani lunghi? Per quanti sforzi io abbia fatto non sono riuscito a trovare in essa una motivazione espressiva precisa. Non corrisponde a un punto cruciale o di svolta del dialogo, non introduce un evento inatteso che turbi il fluire del tempo. C’è e basta. Da ciò il sospetto che Tarkovskij non osi ancora spingersi oltre un certo limite di durata del piano benché aneli ormai chiaramente a immergersi in esso. Quanto alla conclusione della sequenza, è una breve coda 211
che ci riporta sul terzo livello secondo il principio del montaggio alternato classico: Teofane, indignato, esce mentre Kirill, rimasto solo all’interno, concentra la sua attenzione su un’icona. Vorrei ricordare che l’attenzione che sto ponendo alla distinzione fra secondo e terzo livello non ha nulla a che fare con questioni di «ritmo» interno al film, bensì mira a comprendere quale ruolo abbiano in esso i due versanti del cinema di montaggio e del piano sequenza. Tarkovskij si situa in questo momento della sua attività creativa in un punto di prima coesistenza fra i due estremi: ha sensibilmente cominciato a prendere le distanze dal cinema di montaggio e comincia a guardare al secondo livello come al centro espressivo dell’opera, ma è ancora ben lontano dal concetto di piano sequenza puro perché anche il terzo livello continua ad avere un ruolo importante. Il viaggio in quella direzione è però cominciato. Possiamo intanto dire che nelle sequenze dominate dai dialoghi, dunque le più interiorizzate, sul terzo livello sono strutturati i momenti introduttivi, conclusivi o di «cerniera» fra diverse sezioni dell’azione mentre nei momenti che sono il cuore della sequenza l’azione si immerge all’interno del piano. Ci rimane da considerare l’altro versante diegetico di Andrej Rublëv, quello delle scene di azione; facciamolo esaminando la sequenza della fuga di Marfa lungo il fiume. Andrej e i suoi compagni di viaggio stanno discendendo il fiume a bordo di alcune barche quando scorgono sulla riva un drappello di guardie del principe lanciato all’inseguimento di due pagani, un uomo e una donna nella quale riconosciamo Marfa, colei che Andrej ha incontrato la notte prima durante la festa nel villaggio pagano. La donna riesce a fuggire e attraversa a nuoto il fiume passando a breve distanza dalla barca di Andrej. La sequenza è costruita in tutti i suoi piani, tranne l’ultimo, come un’alternanza sul terzo livello, inizialmente fra i due centri d’interesse costituiti dal gruppo delle barche e dal gruppo sulla riva. Dal quinto piano in poi l’attenzione si concentra non più 212
sui gruppi ma sui due personaggi principali, Marfa e Andrej, mostrati in alternanza ancora tramite stacchi, fino al piano finale in cui essi vengono uniti con una lenta carrellata laterale che da Andrej passa alla donna che nuota accanto alla barca. È dunque una sequenza essenzialmente montata, con una struttura affine al classico montaggio alternato, che esprime la separazione fra due mondi reciprocamente incomprensibili, ma il confluire finale in un’unica inquadratura dei due centri di interesse principali suggerisce una ideale, inespressa comunione, quanto meno a livello individuale (l’inquadratura comprende solo Andrej e Marfa, gli altri sono ormai tutti fuori campo), una comunione da cui la cieca collettività è assente. Anche in Solaris Tarkovskij si muove su uno sfumato confine fra cinema di montaggio e del piano lungo, costruendo sequenze nelle quali il montaggio inteso come relazione fra piani si integra organicamente con quanto avviene all’interno dei piani stessi. Rublëv si conclude con un montaggio monodico, la sequenza delle icone; Solaris si apre analogamente, con il momento contemplativo dell’ultima passeggiata di Kelvin fra i boschi prima che lasci la Terra. È una sequenza di grande semplicità compositiva, che prelude alla sequenza più complessa, più polifonica dell’intero film, la visita di Berton a Kelvin, dove troviamo profusa a piene mani quella profondità sintattica che già conoscevamo dalle opere precedenti. L’astronauta Berton, accompagnato dal figlio, va a trovare Kelvin per chiedergli di opporsi alla chiusura della stazione scientifica e alla cessazione degli studi sull’oceano intelligente che lo ricopre. La sequenza si svolge nella casa del padre di Kelvin, in riva allo stagno visto nella sequenza iniziale, ed è strutturata secondo un principio di alternanza a più strati orizzontali sovrapposti; ritroviamo dunque il Tarkovskij «contrappuntista» che avevamo già incontrato nella sequenza del pranzo dell’opera prima, che però qui si esprime su una 213
durata di ben più ampio respiro e su una articolazione interna notevolmente più sviluppata. Un’analisi dettagliata non ci direbbe nulla di nuovo, ma non voglio passare oltre senza notare una caratteristica del primo strato di alternanza, fra scene, che pone le azioni dei quattro personaggi adulti (voce principale) in contrappunto a quelle del figlio di Berton e di un’altra bambina (voce secondaria). La caratteristica è il forte contrasto fra l’esilità della seconda e lo spessore, la forte complessità interna della prima, perfettamente in sintonia con la natura dell’una e dell’altra: i bambini immersi serenamente nei loro giochi, gli adulti alle prese con la complessità dei problemi che stanno dibattendo. Composita è anche la lunga sequenza del compleanno di Snaut. È interessante analizzarla in maniera dettagliata per il preciso ruolo che in essa hanno le transizioni sui due diversi livelli. Ci è utile una suddivisione in sezioni, otto per l’esattezza, ciascuna definita secondo criteri di unità concettuale. Una sorta di prologo (1 piano) in cui vengono presentati il luogo e i personaggi. Un unico movimento di macchina attivo ci mostra prima Sartorius, poi Kelvin e Harey che in questo momento costituiscono un centro d’interesse unico, infine tutti e tre in un totale della biblioteca. L’attesa (1 piano). Da questo momento tutte le inquadrature sono a distanza ravvicinata; la struttura è quella di un découpage su due livelli. La prima azione dei tre personaggi è l’attesa del quarto, Snaut, che tarda ad arrivare. Li vediamo ancora tutti e tre insieme, poi l’inquadratura si concentra su quelli che nel dialogo che verrà saranno i principali antagonisti, prima Sartorius poi Harey; ma li vediamo uniti all’interno di un unico piano perché non siamo ancora in una situazione conflittuale. Essi sono al contrario accomunati, come nell’opera prima i personaggi in attesa dell’esame, dal trovarsi in un identico stato, direi di sospensione temporale. L’arrivo di Snaut (3 piani). Infine Snaut giunge. Il suo 214
arrivo è mostrato con un raccordo di sguardo interno al piano che parte da Sartorius escludendolo poi con un movimento di macchina attivo che segue la direzione dei suoi occhi. Si torna con uno stacco a Sartorius che fa notare a Snaut il suo ritardo e si passa ad Harey che prende il candelabro a quattro ceri e lo pone davanti a sé e Kelvin. È il suo primo gesto attivo, un’azione che in sé non ha uno scopo pratico ed è forse questo che ha indotto Simonetta Salvestroni a interpretare i ceri come simboleggianti, in forma di fiammelle, i quattro personaggi5, ipotesi «simbolista» che per una volta credo si possa far passare. Questo gesto porta in campo Kelvin, a proposito del quale bisogna dir subito che, avendo egli in questa sequenza un ruolo poco più che passivo, i suoi ingressi o le sue uscite dall’immagine all’interno del piano sono sempre determinati da movimenti di macchina, e sempre in relazione ad Harey. Con una sola eccezione, che vedremo fra poco. Il discorso di Snaut (1 piano lungo). Cosa fa Snaut appena giunto? Sottrae a Kelvin il libro che sta leggendo, probabilmente un trattato di solaristica, definendolo «spazzatura» e lo invita a leggere un elogio del sonno di Cervantes. Interviene Sartorius, il cui atteggiamento non è ancora apertamente oppositivo, che invita a brindare a Snaut e ciò offre a lui lo spunto per un monologo sull’uomo di fronte alla «conquista» del cosmo («In questa situazione mediocrità e genio sono ugualmente inutili […] non abbiamo bisogno di altri mondi, abbiamo bisogno di uno specchio. […] L’uomo ha bisogno solo dell’uomo»). Tutta questa sezione ruota attorno all’agire di Snaut ed è girata in un unico piano lungo in cui egli, quasi sempre in campo, è una sorta di tenor cui gli altri due centri di interesse, Sartorius e Harey-Kelvin, sono subordinati. Il dialogo conflittuale su Gibarian (5 piani). Snaut ha concluso il suo monologo invitando a brindare piuttosto alla memoria di Gibarian. È qui che l’atteggiamento di Sartorius si fa apertamente conflittuale, rivolgendo la sua polemica contro Kelvin che tenta una debole difesa dell’amico morto. Ma 215
l’attacco di Sartorius non è sufficiente a far uscire Kelvin dal suo ruolo passivo, e infatti egli appare sempre legato alla presenza, ancora intensamente silenziosa, di Harey (tranne nell’ultimo piano della sezione, in cui Snaut si rivolge direttamente a lui). L’unità del piano lungo dominato da un unico personaggio che esprime il suo pensiero si frammenta in questa sezione in una struttura polifonica con Harey e Kelvin come centri d’interesse principali in alternanza sul terzo livello con Snaut e Sartorius. Dicevo che Harey intanto tace, tace intensamente, ma la sua presenza in campo non è per nulla secondaria, si avverte come presenza attiva forse ancor più delle parole di Kelvin e prepara il successivo intervento di lei nel dialogo. Il monologo di Harey (5 piani). E Harey infine parla. Lo fa in un monologo che non è meno intenso del suo precedente silenzio; intenso e accorato. Questo monologo si dispiega su due piani lunghi fra i quali si inserisce un brusco, ostile intervento di Sartorius, in conclusione del quale la macchina da presa passa per un istante da lui a Kelvin. Questo movimento, che inizia come subordinato (a seguire Sartorius) e si conclude come attivo (una carrellata in avanti verso Kelvin immobile di spalle) anticipa quelli che saranno i due piani conclusivi di questa sezione. Kelvin ascolta le parole fredde e disumane di Sartorius, ma la passività che lo ha avvinto finora sta per venir meno. C’è una continuità in questo momento fra lui e Sartorius, nel senso che le sue parole stanno agendo su Kelvin, ed eccoli infatti presenti nello stesso piano, ma l’essere Kelvin ripreso di spalle esprime in lui il maturare (passaggio da Sartorius a lui in movimento di macchina subordinato) e il crescere (la carrellata in avanti, ovvero movimento attivo) di un atteggiamento oppositivo. Harey risponde a Sartorius sostenendo la propria umanità (è il secondo piano lungo) e conclude il suo monologo urtando un vassoio con il candelabro acceso. Qui il piano si conclude, ma quello immediatamente successivo ci riporta ancora su Harey. Lo stacco però ha senso perché ora non sono 216
più le parole ma i gesti a esser portatori di significato. Harey tenta di bere ma non ci riesce (la sua fisiologia non umana non glielo consente); Kelvin le si avvicina e compie silenziosamente l’azione di ribellione più estrema contro le parole dello sprezzante collega: si inginocchia ai piedi di Harey. Stacco (ovviamente) sulla fulminea, furibonda reazione di Sartorius: è il piano più breve della sequenza, appena 3 secondi. L’uscita di Sartorius (1 piano) E con ciò tutto quel che doveva esser detto e fatto lo è stato. Possiamo ora tornare su una inquadratura ampia della stanza, non proprio un totale ma quasi, che comprende inizialmente tutti tranne Sartorius, cui non rimane che riapparire brevemente per poi uscire di scena mentre Kelvin lentamente si rialza. L’epilogo (2 piani) Anche Snaut, accompagnato da Kelvin, se ne va tornando ai temi del suo monologo iniziale. La macchina da presa li segue, poi li precede, ma sempre senza stacchi poiché le parole di Snaut accanto al silenzioso Kelvin scorrono senza soluzioni di continuità nel flusso temporale. L’unico stacco di questa sezione è motivato soltanto da un cambio di ambiente. La sequenza può considerarsi esemplare del ruolo che Tarkovskij attribuisce in questa fase alle transizioni sui due livelli sintattici. La sede della gestione naturale dei centri di interesse è ormai il secondo livello, nel senso che a esso appartengono le transizioni che esprimono il «normale» fluire della vita nel tempo. In particolare, la forma cinematografica si immerge all’interno del piano ancora una volta quando la narrazione penetra in quella che Tarkovskij chiamò «l’azione interiore». Al terzo livello sono invece affidati compiti di articolazione della struttura narrativa o di turbamento nel fluire del tempo6. Lo specchio, per l’eterogeneità dei materiali narrativi e visivi che vi convergono, è certamente quanto di più cinematograficamente vicino a un labirinto si possa immaginare; è il film più frastagliato, o meglio molteplice, di 217
Tarkovskij, un’opera in cui egli ricopre tutte le gradazioni intermedie fra l’immagine poetica totalmente interiorizzata e quella strettamente documentaristica, con conseguente grande varietà di stili di montaggio. Cominciamo dall’inizio, in cui, dopo il prologo, ci troviamo davanti a un insieme di tre sequenze caratterizzato da una perfetta unità di spazio e tempo. Non di azione però, perché si tratta della rappresentazione di tre eventi fra loro non causalmente collegati, benché siano temporalmente contigui e avvengano nello stesso luogo, la casa d’infanzia del narratore. Nella prima sequenza la madre, seduta su una staccionata davanti alla casa, dialoga con uno sconosciuto. Nella sequenza successiva ritorna alla casa mentre si ode la poesia Primi incontri di Arsenij Tarkovskij; la vediamo poi muoversi nella casa immersa nei suoi pensieri, chiaramente nei suoi ricordi, mentre i due bambini mangiano giocando con un gatto sulla tavola. La terza sequenza comincia quando l’attenzione della madre viene attratta da voci che annunciano l’incendio del fienile, e giunge alle immagini dell’incendio stesso. Secondo le definizioni date sopra, possiamo considerare la prima sequenza polifonica, le altre due prevalentemente monodiche. Inoltre, mentre queste ultime sono costruite soprattutto sul secondo livello, nella prima possiamo notare un certo grado di profondità sintattica. Facciamo una breve digressione: finora la presenza di momenti monodici è stata modesta, benché le poche eccezioni siano spesso di grande suggestione. Citerò qui il preludio al secondo sogno di Ivan, la rarefatta visione interiore di Andrej durante l’episodio della campana nonché, ovviamente, tutta la sequenza finale di Andrej Rublëv e quella iniziale di Solaris. È a partire da Lo specchio che queste strutture cominciano invece ad avere un’importanza senza precedenti, soprattutto nei momenti più intensamente interiori. Soffermiamoci ora sulla prima sequenza. Abbiamo all’inizio una relazione in profondità di campo quando vediamo la madre 218
di spalle in campo medio, seduta sulla staccionata mentre nella pianura verso cui guarda, in mezzo al grano saraceno, avanza in campo lungo lo sconosciuto. Per il resto, la sequenza è strutturata come nei dialoghi principali di Andrej Rublëv dove al controcampo interno sono affidati i momenti in cui fra i centri di interesse non c’è ancora un rapporto (la donna e l’uomo che sta avvicinandosi sono reciprocamente sconosciuti), o esso è cessato (l’uomo va via e fra i due non ci saranno ulteriori incontri), mentre nel cuore della sequenza, ovvero nel momento del dialogo, la messa in relazione fra loro si immerge nella profondità dei piani lunghi, anche qui nella forma del piano sequenza spezzato. All’interno delle due componenti di esso la struttura è ancora una volta una variante dell’alternanza mediata. In particolare, nel primo piano lungo è contenuto quel movimento di macchina semicircolare attorno al volto della madre già visto nel capitolo 4 (fig. 4.6) con riferimento ai suoi valori plastici. Esso è sì un movimento indipendente, ma ha anche una funzione diegetica: è sotto questo aspetto un controcampo interno al piano che ha lo scopo di riportare in campo l’uomo. Questa sequenza, in conclusione, ripropone le forme filmiche più caratteristiche del primo stile. Facciamo ora una seconda digressione perché, parlando di profondità sintattica, un discorso a sé merita la relazione in profondità di campo, la cui progressiva scomparsa dopo le prime opere, o meglio la sostituzione di essa con una sua versione diacronica, è una delle caratteristiche del passaggio dal primo al secondo stile. Facile comprenderne il motivo: questo modo di mettere in relazione i centri di interesse implica una composizione plastica dell’immagine dalla quale, come già sappiamo, Tarkovskij sentì a un certo punto l’esigenza di allontanarsi. Nulla di strano dunque che l’assottigliarsi della profondità sintattica cominci proprio col suo ritrarsi dal primo livello. Troviamo infatti la relazione in profondità di campo molto presente nelle prime due opere, ma già in Andrej Rublëv essa comincia ad avere un ruolo meno importante, scomparendo 219
dai momenti dialogati e rimanendo confinata ad alcuni momenti corali su orizzonti figurativi ben più vasti che nelle opere precedenti. Un ruolo ancora minore ha in Solaris e infine cessa di esistere dopo la sequenza iniziale dello Specchio. Analizziamo ora l’episodio della tipografia, interessante per la compresenza di stili diversi che utilizzano tutto lo spazio esistente fra gli estremi del piano sequenza puro e del montaggio. L’intero episodio è di sapore essenzialmente cronachistico, spoglio come appartenesse anch’esso a un cinegiornale, ma con caratteristiche nettamente anomale rispetto a qualsiasi stile documentaristico. La sequenza del refuso, in particolare, è girata mediante piani lunghi dominati dalla concitazione dei movimenti di macchina subordinati al personaggio della madre, in continuo movimento da un ambiente all’altro ma costantemente in campo, centro di interesse portante della sequenza attorno al quale tutti gli altri si avvicendano. Gli stacchi sono quasi esclusivamente in corrispondenza dei cambi di ambiente. Qui il piano lungo ha un ruolo diverso da quello che ha durante il dialogo della sequenza iniziale; mentre lì era l’immersione dell’interiorità dei personaggi nel flusso del tempo, qui è la registrazione fattuale, cronachistica della realtà. Passiamo alla sequenza degli orecchini, che rievoca un evento degli anni della guerra in cui la madre, in gravi difficoltà economiche, tenta di vendere degli orecchini a una donna benestante. Anche qui le transizioni sono equamente ripartite fra secondo e terzo livello, tuttavia Tarkovskij sembra concedersi una maggior libertà compositiva, sia nello spaziare fra i due livelli sia, all’interno del secondo, nello strutturare le transizioni secondo uno schema del tutto libero, in cui solo alla lontana è possibile ravvisare traccia del principio dell’alternanza mediata. Si tratta di una sequenza essenzialmente polifonica in tutte le sue parti narrative, ma contenente anche due scene interiori al contrario totalmente monodiche. Nella prima, l’adolescente narratore viene lasciato solo in una stanza e si immerge in una 220
sua intima meditazione. È interessante in essa il piano centrale dove si passa, a macchina da presa fissa, dall’uno all’altro dei centri d’interesse (una mano di donna, un uomo e una ragazza) situati a tre diverse distanze, poiché ciascuno scopre il successivo uscendo fuori campo. Non è però una relazione in profondità di campo perché manca la presenza sincronica dei centri d’interesse simultaneamente in campo. È il primo manifestarsi di una modalità che si svilupperà nel secondo stile, sostituendovi la relazione in profondità di campo, e che potremmo chiamare profondità di campo diacronica. Questa definizione può apparire una contraddizione in termini perché relazione in profondità di campo significa vedere nitidamente e simultaneamente (sincronicamente) più centri di interesse a diversa distanza dall’obiettivo. Trasferire questa percezione sul secondo livello significa organizzare la messa in quadro in modo che i centri di interesse siano disposti lungo l’asse visivo a diverse distanze dalla macchina da presa e l’azione sia strutturata, a macchina da presa fissa, mediante una serie di passaggi dall’uno all’altro nel tempo, dunque all’interno dell’evolversi del piano anziché nella stessa immagine. Vorrei notare in conclusione che il fatto che Tarkovskij, in questo suo quinto film, spazi liberamente fra i due livelli non significa, non più, che lo faccia arbitrariamente. Ancora una volta la relazione posta sul terzo livello ha funzione di soluzione di continuità in tutte le gradazioni possibili, da quella di semplice articolazione della narrazione a quella di barriera con effetto di isolamento di un personaggio dagli altri o, ancor più, di contrapposizione; quella sul secondo (o sul primo) invece unisce i centri d’interesse nella medesima realtà del fluire del tempo. Siamo comunque lontani dalla semplicistica equivalenza: separazione uguale conflittualità, unione uguale armonia. Separazione, come abbiamo visto, può significare semplicemente segno di punteggiatura nella frase filmica, così come la coesistenza in una medesima realtà temporale può non essere priva di tensioni interne. 221
Il secondo stile Siamo così giunti a Stalker. Abbiamo visto (fig. 2.12) come la sua struttura temporale sia un ibrido fra il cinema di montaggio e del piano sequenza, benché già spostata su quest’ultimo versante. Un’analisi più accurata mostra una struttura temporale bipartita, con un’ampia sezione finale in cui si ha un netto aumento della durata (media) dei piani, dunque un avvicinarsi alla struttura a piani sequenza puri7. Questa sezione comincia con la sequenza della telefonata del professore, che contiene il piano più lungo del film, ovvero a partire dal momento in cui i tre protagonisti sono ormai giunti in prossimità della Stanza, coincidente con i due terzi circa della durata del film. Siamo qui di fronte, per la prima volta, a un cinema del piano sequenza localmente compiuto, con la sola eccezione dell’arrivo della Moglie nel bar dove un momentaneo ripristino della struttura a controcampo separa la famiglia dello Stalker dai suoi due compagni di viaggio nella Zona. Questo è l’ultimo di cinque momenti, abbastanza equidistanziati, in cui la durata media locale dei piani diminuisce bruscamente, evidenziando la presenza di strutture prevalentemente montate8. Parliamo ora di spazio. Il suo «appiattimento», constatato durante l’analisi dei primi due livelli, non è privo di effetti sulla concezione del montaggio. Da questo punto di vista ciò appare innanzitutto come una diversa concezione della dinamica dell’asse visivo e delle linee di interesse. Abbiamo detto che nel primo stile un modo tipico di strutturare i dialoghi principali era di far muovere i personaggi intorno alla macchina da presa che li seguiva o passava dall’uno all’altro in panoramica; avevamo dunque un continuo mutamento dinamico dell’asse visivo e della linea di interesse, molto meno della distanza fra macchina da presa e personaggi. Ci troviamo adesso di fronte al prevalere di una struttura in un certo senso opposta; da Stalker infatti 222
Tarkovskij tende a realizzare tutta l’azione di una stessa sequenza mantenendo invariata la linea di interesse, che può coincidere con l’asse visivo, oppure essere ortogonale a esso, alle due alternative corrispondendo la carrellata longitudinale o laterale. Parallelamente, scompare a partire da Stalker il piano sequenza spezzato; Tarkovskij non esita più a eliminare ogni soluzione di continuità e riprendere i dialoghi in piano sequenza puro anche quando si dispiegano su lunghezze di vari minuti. Consideriamo, come caso esemplare di questo nuovo modo di costruire i dialoghi, l’incontro dei tre protagonisti nel bar prima del viaggio nella zona. La sequenza è composta da tre piani: l’ingresso nel bar; il dialogo; l’uscita. L’asse visivo, cioè la direzione del nostro sguardo, è orientato sempre lungo l’asse del locale, in direzione della porta all’inizio e alla fine, in direzione opposta durante il piano centrale9. Soffermiamoci su quest’ultimo: un dialogo di quattro minuti e mezzo senza stacchi con i tre personaggi fermi attorno a un tavolino e la macchina da presa che, lentissima, si avvicina progressivamente a loro dalla distanza del totale fino alla mezza figura. Questo è un movimento attivo ed è l’equivalente all’interno del piano di ciò che il raccordo sull’asse è sul terzo livello. In più è estremamente dilatato nel tempo. Esso, col progressivo concentrarsi dell’immagine sulle tre figure, amplifica gradualmente la loro importanza, escludendo nel contempo l’ambiente ed enfatizzando con ciò il momento finale in cui lo Stalker annuncia l’arrivo del treno. È in questo senso un movimento diegetico, ed è ciò che ho chiamato una transizione distribuita: lo scorrere degli eventi converge linearmente verso quel momento che segnerà l’inizio vero e proprio del viaggio. Questa struttura, quasi assente nel primo stile, assume d’ora in poi un ruolo rilevante. I tre uomini costituiscono per gran parte della sequenza un unico centro di interesse, dunque non si può parlare di presenza di una vera e propria linea di interesse; la sequenza, pur essendo un dialogo, è pertanto, sul piano visivo, prevalentemente monodica. 223
Nella sequenza degli orecchini dello Specchio non siamo in grado di ricostruire una topografia generale della casa, abbiamo tuttavia una percezione abbastanza precisa dei vari ambienti; l’indeterminazione spaziale è pertanto parziale, forse perfino non significativa. Nella sequenza della sosta di Stalker siamo invece di fronte a un grado totalmente nuovo di indeterminazione: l’assenza di qualsiasi percezione dello spazio, la sua completa dissoluzione; un caso inedito, e anche unico nella stessa filmografia di Tarkovskij, di ciò che potremmo chiamare montaggio astratto. La sequenza comincia nel momento in cui lo Stalker e lo Scrittore ritrovano il Professore, tornato indietro a riprendersi lo zaino. Lo Stalker è sconcertato perché si rende conto che lui e lo Scrittore hanno inesplicabilmente compiuto un percorso circolare; decide allora di fare una sosta. Il Professore e lo Scrittore si impegnano in una disputa, mentre lo Stalker si isola immergendosi in una sua visione interiore. La sequenza si può suddividere in sei sezioni. La prima è un prologo in cui si definisce la situazione narrativa, ed è girata in piano sequenza con i tre uomini inquadrati contemporaneamente; il campo si apre poco a poco con una carrellata all’indietro, ma prima che essa abbia termine lo Stalker e lo Scrittore escono fuori campo, il primo da destra, il secondo da sinistra, mentre il professore rimane immobile. Questo è l’unico accenno di relazione spaziale presente in tutta la sequenza. Se essa fosse concepita a découpage, questo piano iniziale sarebbe l’inquadratura master; in realtà però il piano non racchiude lo spazio in cui si svolge l’azione seguente, che al contrario gli è totalmente esterna e la cui struttura ci rimane invisibile e ignota. Ognuno dei personaggi è in un luogo a sé, ma non percepiamo le posizioni reciproche poiché le inquadrature successive, tutte a distanza ravvicinata e prive di raccordi spaziali (di sguardo, di movimento ecc.), non ce ne danno alcuna idea. Lo spazio filmico dunque si dissolve; ma perché? Per capirlo teniamo presente che questa sequenza, posta 224
al centro esatto del film, è anche quella in cui ciascuno dei tre personaggi rivela in profondità sé stesso. L’azione qui è davvero, ed esclusivamente, interiore. E dunque ricordiamo ancora una volta quanto ha scritto Balázs sull’inquadratura ravvicinata come astrazione dallo spazio fisico ed espressione dell’immagine interiore, concetto che qui è condotto alle sue estreme conseguenze. Avendo chiaro questo, inoltriamoci nella nostra analisi. Dall’ingresso nella seconda sezione la sequenza si svolge su tre diversi piani di alternanza compenetrati: quello visivo, quello dialogico e quello fra la realtà oggettiva e l’interiore. La seconda sezione è un montaggio di 6 piani brevi in cui i tre uomini più il sopraggiungere del cane si alternano in maniera sparsa. Da adesso, e fino a tutta la quinta sezione, lo Stalker, il Professore e lo Scrittore entrano in relazione fra loro solo attraverso le proprie voci, spesso fuori campo, mentre nella sfera visiva, apparendo sempre in inquadrature separate, sono del tutto isolati. Nelle tre sezioni successive questa distanza si accentua progressivamente: si ha una sorta di montaggio alternato esteso, nel senso che l’alternanza è ora fra sezioni anziché fra piani singoli. Ed ecco dunque il Professore e lo Scrittore da una parte, protagonisti della sezione 4, e lo Stalker e il cane dall’altra, protagonisti delle sezioni 3 e 5. Ma mentre nella sezione 3 c’è ancora una relazione fra i due versanti dell’alternanza attraverso il dialogo (non vediamo il Professore e lo Scrittore, ma ne udiamo le voci fuori campo), nella quarta e nella quinta uno solo dei due versanti è presente, mentre l’altro tace. Anche il dialogo, dicevo, segue una struttura ad alternanza: dalla seconda alla quarta sezione è lo scrittore a guidarlo rivolgendosi prima al professore, poi allo Stalker, poi di nuovo al professore. È lui dunque ad avere un ruolo portante, mentre il Professore gli fa da semplice contraltare e lo Stalker si immerge sempre più in sé stesso. La terza sezione contiene cinque inquadrature consecutive 225
dello Stalker, la seconda e la quarta delle quali sono in quel bianco e nero che, ricordiamo, all’interno della Zona esprime la visione interiore. Esse sono dunque visioni interiori dello Stalker e preparano la lunga carrellata sull’acqua, anch’essa in bianco e nero, della quinta sezione. Questa loro appartenenza a un altro piano di realtà qui è inoltre amplificata dall’esser messe in relazione con le inquadrature oggettive mediante scavalcamenti di campo e incongruenze nella posizione dello Stalker. In particolare uno degli scavalcamenti di campo segue la sua battuta «io sto bene così» e ne rappresenta la visualizzazione: lo Stalker disteso su un’isoletta circondata dall’acqua, mentre il cane gli si avvicina e gli si siede accanto. Ciò descrive il cane come acquisito alla vita interiore dello Stalker. Nella quinta sezione lo Stalker raggiunge il culmine della sua immersione in sé stesso nella lunga carrellata sull’acqua che ne costituisce la maggior parte ed è anch’essa una sua visione interiore, un vero e proprio flusso di coscienza visivo. Possiamo dire che fin qui il progressivo accentuarsi della distanza dello Stalker dai suoi compagni di viaggio costituisce l’asse portante della sequenza. Nell’ultima sezione infine i due versanti sembrano riavvicinarsi col riemergere dello Stalker dalla sua visione interiore e col suo ristabilire una certa relazione con gli altri due. Non in un dialogo ma in un monologo. Lo Stalker fa alcune considerazioni sul senso dell’arte, che gli altri due ascoltano in silenzio ma con attenzione. Il montaggio torna a essere un’alternanza fra piani (ma ben più lunghi di quelli della sezione 2) in cui il Professore e lo Scrittore, esaurita la disputa, appaiono finalmente insieme, prima uniti diacronicamente da una doppia carrellata laterale e infine sincronicamente nella stessa immagine, al contrario dello Stalker che continua a essere visivamente in un mondo a sé, unito agli altri, come nelle sezioni 2 e 3, solo dalla sua voce fuori campo. Consideriamo ora la sequenza chiave dell’ultima sezione del 226
film, in cui i tre protagonisti sono finalmente sulla soglia della Stanza. La durata media dei piani qui è di 126 secondi, quasi il doppio della media complessiva del film, e le transizioni sono per la prima volta concentrate sul secondo livello. La profondità sintattica si assottiglia notevolmente e la diegesi è tutta interna ai piani, al punto che ognuno di essi contiene un blocco narrativo compiuto. Volendo fare un paragone letterario, qui un piano non è una parola ma un intero periodo, a volte anche più di un periodo. Gli stacchi hanno il solo scopo di articolare la struttura narrativa. In questa sequenza, come in molte altre del film, tutta la dinamica dell’azione avviene lungo una linea retta coincidente con l’asse visivo. Ciò è particolarmente evidente nel piano lungo in cui lo Stalker tenta di strappare di mano al Professore la bomba con cui egli vorrebbe far saltare la Stanza: due minuti e mezzo che potremmo definire di azione essendoci fra i tre uomini una lotta fisica, ma girati interamente a macchina fissa, pur secondo un’impostazione che non ha nulla di teatrale. Qui tutto si gioca su transizioni costituite dal ripetuto passare dei personaggi dal primo piano al campo medio in maniera tale che l’asse visivo viene a coincidere con la linea di interesse. Non dobbiamo però pensare a una costruzione in profondità di campo come ne abbiamo viste nelle opere del primo periodo; nemmeno per un istante infatti abbiamo due centri di interesse simultaneamente agenti a diversa distanza. Accade piuttosto che quando un personaggio giunge al primo piano, gli altri sono coperti da lui o fuori campo o estremamente sfocati, e in quest’ultimo caso non fanno nulla di significativo. È la struttura che ho chiamato profondità di campo diacronica, nel senso che la relazione fra centri d’interesse a diversa distanza si attua nel tempo del piano, non nello spazio dell’immagine. A partire da Stalker, Tarkovskij tende dunque a far sì che l’asse visivo divenga la totalità dello spazio della messa in scena. Questa struttura non è naturalmente l’unica; il dialogo sulla soglia della Stanza è molto più articolato, ma la tendenza 227
rimane quella: la struttura generale della sequenza si fa più monolitica e il movimento interno al piano, sia filmico che profilmico, si fa rettilineo. In questo modo di mettere in relazione i centri di interesse scompare non solo qualunque dinamica nell’orientamento dell’asse visivo all’interno del piano, ma anche la sua inversione, ovvero il controcampo, che infatti è assente da questa sequenza e da quasi tutta la sezione conclusiva di Stalker. Questa ampia sezione finale, che si stacca così nettamente dal resto del film e in cui l’attenzione compositiva si concentra nettamente all’interno del secondo livello, anticipa la struttura di Sacrificio. Sappiamo già che, benché Nostalghia presenti tutte le caratteristiche tipiche della seconda fase stilistica, vi ritornano alcuni elementi tipici della prima. Fra essi, nella struttura narrativa, la mancanza delle tre unità di luogo, tempo, azione poiché il film, come si addice a un viaggio, si svolge in luoghi e tempi diversi. Altri elementi, più strettamente filmici, sono presenti soprattutto nella sequenza centrale, l’incontro fra Gorčakov e Domenico, che sarà uno dei quattro momenti, rappresentativi di altrettanti modi di concepire lo spazio e il tempo filmico, su cui mi soffermerò. Cominciamo però dalla sequenza della Madonna del parto, e consideriamo separatamente la concezione del tempo e dello spazio. Tempo: l’alienità totale e il dialogo a distanza. La macrostruttura della sequenza è quella di un montaggio alternato fra due eventi simultanei: da una parte la visita di Eugenia alla cappella che ospita il quadro e il suo dialogo col sacrestano, dall’altra una sorta di rito della fertilità che contemporaneamente vi si svolge. Eugenia e le donne che lo celebrano occupano sì lo stesso luogo spaziale, ma luoghi culturali immensamente lontani; a questi ultimi allude il montaggio che, non mostrando mai nello stesso piano Eugenia e la processione delle donne, pone l’una e le altre in due mondi diversi ed estranei. Questo costituisce il primo strato di 228
alternanza, realizzato sul terzo livello. Ma Eugenia, che non comunica con le altre donne, dialoga, sia pur suo malgrado si direbbe, con il sacrestano. E questo dialogo costituisce uno strato più interno di alternanza realizzato interamente sul secondo livello, ovvero tramite l’avvicendarsi dei due personaggi come principale o unico centro d’interesse all’interno del piano; più esattamente, il dialogo avviene in due momenti, ciascuno composto da un solo piano lungo. Al terzo livello dunque è demandata l’espressione radicale della totale incomunicabilità; al secondo il, sia pur vano, tentativo di relazione. Spazio: due universi paralleli. Un’ulteriore modalità di rappresentazione dell’estraneità è la struttura dello spazio. Abbiamo in un certo senso anche qui una forma di montaggio astratto, ma diverso da quello della sosta nel film precedente: lì era l’annullamento delle relazioni spaziali, qui il loro stravolgimento in funzione della rappresentazione di due paesaggi interiori reciprocamente alieni. Lo spazio della rappresentazione cinematografica infatti è diverso, e incompatibile, con lo spazio fisico del luogo. Il sacrestano, appartenendo culturalmente al mondo delle donne in preghiera, ma apparendo cinematograficamente all’interno dello spaziotempo di Eugenia, è una sorta di tramite fra i due mondi, ma un tramite che non riuscirà a metterli in comunicazione. L’incompatibilità fra essi sembra anzi accentuarsi col procedere della sequenza: se all’inizio Eugenia e le donne della processione percorrono ancora lo stesso spazio (analogo è il cammino dell’una e delle altre e analogo è il movimento di macchina), nel seguito sembrano muoversi su due diversi piani di realtà fisica. A un certo punto, ad esempio, la processione si ferma davanti all’abside in cui è situato il quadro, ma nel piano successivo Eugenia avanza verso la macchina da presa passando proprio nello stesso punto, che adesso è vuoto, come se si muovesse in un universo parallelo. In entrambi gli universi tuttavia le linee di interesse e 229
l’orientamento dell’asse visivo sono stazionari: i personaggi e la macchina da presa si muovono lungo le navate longitudinali e trasversali della cripta disegnando il perimetro di un rettangolo, dunque secondo linee e angoli retti. Siamo insomma entro i canoni stilistici del secondo stile. Questa sequenza, infine, la prima marcatamente polifonica che incontriamo in Nostalghia, è racchiusa fra due sequenze monodiche centrate su Gorčakov. E, in generale, l’intero film può esser visto come una continua alternanza fra momenti (sequenze o scene) monodici e altri polifonici. La sequenza dell’attesa di Eugenia e Gorčakov nella hall dell’albergo è il successivo momento, sia pur blandamente, polifonico. E sarà il prossimo su cui ci soffermeremo. Tempo: l’alternanza dilatata. La sequenza della Madonna del parto mostra come Tarkovskij anche in questa fase di piena maturità non abbia abbandonato il concetto di alternanza, tuttavia ciò non significa che ne sia ancora preso come nelle opere iniziali; nel successivo dialogo fra Gorčakov ed Eugenia infatti egli rimette in discussione questa struttura, ripensandola in maniera del tutto personale. I due sono nella hall dell’albergo di Bagno Vignoni, in attesa della proprietaria; partendo dall’intraducibilità dell’arte, discutono dell’incomunicabilità fra le culture umane, della vicenda del musicista Satsnovskij, di altro ancora: un dialogo piuttosto articolato che parte da un lungo primo piano di Gorčakov, prosegue con uno di Eugenia, poi nuovamente di Gorčakov. Alternanza? La forma è quella, ma in realtà ogni piano è tenuto su numerose battute di dialogo in cui l’altro personaggio entra come voce off. La durata interna al piano, in altre parole, toglie spessore alla forma alternata sul terzo livello e dona staticità al fluire del tempo. L’esclusione di ciascun personaggio dalla prolungata inquadratura dell’altro suggerisce, anche in questo caso, una percezione di reciproca estraneità. Spazio: il congiungimento e l’immobilità. Ma questa estraneità sembra esser contraddetta dal piano finale in cui, con 230
un movimento a precedere il sopraggiungere di un’ospite dell’albergo (una donna che tiene al guinzaglio un cane) il campo si apre progressivamente fino a mostrare l’intero spazio, fino cioè a divenire inquadratura master. E vediamo adesso i due proseguire il loro dialogo insieme, in campo medio, e per gran parte del tempo a macchina ferma. Infine, giunge l’albergatrice che si allontana insieme a Eugenia, e la sequenza si chiude. Si tratta infatti di un’evoluzione di quel processo di allargamento progressivo del campo visivo già visto nel primo dialogo fra Ivan e Galtsev nell’Infanzia di Ivan: il concentrarsi iniziale sul particolare, in questo caso il volto umano astratto dallo spazio fisico, per giungere solo dopo un lungo indugiare al totale, e al disvelamento delle relazioni spaziali fra i centri d’interesse, inizialmente ignote. Ed è infatti solo con l’aprirsi dell’inquadratura verso il totale che scopriamo che i due sono seduti l’uno di spalle all’altra, una configurazione tipica di molti dialoghi di Tarkovskij, almeno da Rublëv in poi, e che contribuisce a suggerire una distanza senza aver bisogno del controcampo. Accade nell’evoluzione di questa sequenza qualcosa che è tipico del secondo stile: ciò che nel primo era l’alternanza mediata, diventa ora un confluire dei centri d’interesse nella medesima immagine, fino, a volte, a fondersi al punto da essere visivamente un unico centro di interesse. Anche qui, infine, abbiamo una struttura delle linee di interesse stazionaria e per angoli retti: una longitudinale, lungo l’asse del corridoio e una trasversale che unisce le due poltrone su cui sono inizialmente seduti Gorčakov ed Eugenia. La direzione dello sguardo rimane sempre fissa lungo la prima di esse, e senza alcuna inversione. Portiamoci adesso nel cuore di Nostalghia affrontando il dialogo fra Domenico e Gorčakov, che è il cardine narrativo dell’opera. Se le sequenze prima viste sono interamente immerse nella poetica del secondo stile, in questa ritorniamo, soprattutto nei momenti centrali, ad alcuni aspetti del primo. Possiamo suddividerla in nove scene fra le quali ritroviamo 231
l’alternanza monodia/polifonia cui accennavo prima ed entro le quali si manifesta il massimo grado di varietà stilistica contenuta in Nostalghia. Scena 1 – Polifonica (1 piano). Si comincia con un piano sequenza all’esterno, un prologo che introduce i personaggi e, per il tramite dei nervosi andirivieni di Eugenia, le loro relazioni e le loro distanze. Eugenia fa, vanamente, da tramite fra Domenico e Gorčakov passando ripetutamente dall’uno all’altro, infine si irrita e va via. Possiamo considerarla un’alternanza mediata, ma del tutto diversa da quelle del primo stile: personaggi in campo medio, dunque visibilità dello spazio, e sua struttura rettilinea (carrellate anziché panoramiche). Andata via Eugenia, dopo un primo approccio di Gorčakov… Scena 2 – Polifonica (4 piani). …si passa all’interno con un breve interludio in cui egli, inizialmente solo, ha una sorta di «iniziazione» nella nota immagine interiore del micropaesaggio. Ma la relazione fra Gorčakov e la visione rimane confinata nell’astrazione concettuale del controcampo, egli guarda dalla lontananza di un altro mondo, da un irrimediabile altrove. Ne viene infine distolto dalla voce di Domenico che lo invita a entrare. Prima di seguirlo, una breve considerazione sull’uso che del controcampo viene fatto in Nostalghia. Un uso molto parco, essendo esso limitato a soli quattro momenti, e in forma molto rarefatta10; tutti momenti in cui comunque la dimensione filmica è chiamata a esprimere distanza, incomunicabilità, estraneità. Scena 3 – Monodica (1 piano) Entriamo ora, insieme a Gorčakov, nella casa di Domenico. Siamo in una piccola stanza con una finestra e uno specchio; Domenico non c’è ancora, ma si sentono le note dell’Inno alla gioia di Beethoven. Questo è il primo dei due ambienti in cui si svolgerà il dialogo, e ci viene presentato nella sua totalità diacronicamente, con un lungo movimento di macchina. Siamo nella prima delle tre scene monodiche, tutte costituite da un singolo piano, che si insinuano fra quelle del dialogo realizzando un’alternanza 232
monodia/polifonia. I momenti polifonici costituiscono gran parte del dialogo vero e proprio, mentre i monodici sono di tipo «contemplativo» e hanno l’effetto di introdurre momenti di sospensione nel fluire del tempo narrativo o, in altri termini, di allentare la pressione del tempo, oltre che internamente al piano, nel più ampio ambito della sequenza. E veniamo al dialogo vero e proprio. Esso comincia e si svolge in gran parte (scene dalla 4 alla 8) nella stanza piccola e si conclude in una grande, decrepita sala ritmata da quattro pilastri (scena 9). Due scene monodiche (5 e 7), girate secondo i canoni del secondo stile, dividono in tre parti il dialogo nella stanza piccola, girato invece nel primo stile. L’alternanza polifonia/monodia si accompagna dunque a quella primo/secondo stile. Ancora una volta, inoltre, le parti polifoniche si strutturano come successione di lunghi spezzoni monodici. La polifonia, in altre parole, si stempera a favore di ciò che potremmo chiamare una tendenza all’unità: qui, Gorčakov e Domenico appaiono raramente insieme nello stesso piano e quasi mai nella stessa immagine, il che corrisponde alla loro iniziale distanza interiore, ma il loro dialogo è anche un percorso di avvicinamento e dunque questo loro isolamento visivo tende progressivamente ad attenuarsi fino a che, nella scena 9, anzi già nel finale della 8, essi, ovvero le «due gocce» che unendosi formano «una goccia più grande», appaiono definitivamente uniti nella stessa immagine. Nella conclusione del dialogo (scena 9) si torna al piano sequenza e al secondo stile (carrellata laterale su inquadratura frontale con i personaggi in campo medio). Come nella scena 1, ma mentre essa è costruita mediante un’alternanza fra Gorčakov e Domenico guidata dagli andirivieni «a pendolo» di Eugenia, qui non si può parlare di alternanza poiché i due centri d’interesse, fino all’uscita di Gorčakov, appaiono fusi nella stessa immagine. L’unione fra i due mondi che essi incarnano è avvenuta. In certi momenti della filmografia di Tarkovskij ricorre una 233
struttura ad alternanza di ampio respiro; non fra piani ma fra sequenze. La troviamo in quasi tutti i film del primo periodo11, ma non in quelli del secondo, con una sola eccezione, in Nostalghia: l’alternanza fra le due sequenze del Campidoglio e le due ultime di Bagno Vignoni. Siamo in vicinanza del finale, dove assistiamo al simultaneo epilogo delle vite di Domenico e Gorčakov, l’uno nella piazza del Campidoglio, l’altro nella piscina di Bagno Vignoni. Entrambi i protagonisti muoiono, l’uno volontariamente, l’altro per il sopraggiungere di un infarto, ma mentre la morte di Domenico è una morte pubblica ed eclatante, quella di Gorčakov è un fatto quasi privato, cui assistono solo quei pochi testimoni occasionali che sono gli operai addetti alla pulizia della piscina. Questa diversità è parallela al diverso carattere dei due personaggi: proteso Domenico verso il cambiamento del mondo, raccolto il poeta russo nella propria interiorità. Ed è parallela anche a una totale diversità formale fra le due coppie di sequenze. Quelle di Gorčakov sono pressoché totalmente monodiche e strutturate internamente al piano. La seconda, in particolare, è quasi interamente costituita dal noto piano sequenza di quasi 9 minuti in cui Gorčakov attraversa la piscina con la candela accesa, piano che sfocia in maniera quasi naturale, senza alcun salto di pressione temporale, nel quieto epilogo di San Galgano. Del tutto diverse le due sequenze del Campidoglio, entrambe polifoniche e in particolare la seconda, in cui l’impostazione polifonica si accentua fortemente. È interessante, a questo proposito, la diversità abissale fra le due ultime sequenze dell’alternanza. La percepiamo già nell’istante di passaggio dall’una all’altra, nel contrasto fra la concitazione della morte di Domenico che conclude la prima e il quieto raccoglimento sul dettaglio della candela che apre la seconda. Ma soprattutto, quando anche Gorčakov, nove minuti dopo, è giunto al suo epilogo, la percepiamo nelle divergenti impostazioni delle due sequenze considerate nella loro interezza. Basti dire che la prima ha la più alta frequenza di 234
transizioni del film (3,21) e la seconda la più bassa (0,56), la prima ha il più alto numero di centri d’interesse (almeno 5), la seconda è quasi interamente costruita su un unico centro d’interesse (Gorčakov). Non ci sono in realtà altre differenze: in entrambe la struttura delle linee di interesse e dell’asse visivo è statica e per angoli retti, il movimento di macchina dominante è la carrellata, la composizione è frontale. Ma il ritmo interno a ciascuna non potrebbe essere più diverso, e questo basta. Contrariamente a quanto accade nel montaggio alternato classico, in cui i due elementi dell’alternanza tendono a convergere, qui abbiamo dunque un divergere dell’uno dall’altro. Sembra che Tarkovskij voglia con ciò suggerirci un certo grado di presa di distanza dal gesto estremo, scenografico e in fondo autodistruttivo di Domenico. Da quel momento infatti tutto si concentra su Gorčakov che, sì, muore, ma non per sua volontà. La sua vicinanza a Domenico è nella scelta di portare fino in fondo il proprio compito, anche mettendo in gioco la propria vita se necessario, ma non distruggendola volontariamente. Sacrificio, ultima tappa del cammino che ha portato Tarkovskij da un cinema di montaggio che non esclude il piano sequenza a un cinema di piani sequenza che non esclude (o non ancora) il montaggio, rimane un film fondamentalmente polifonico, la forma dell’alternanza lo pervade fino alla fine, fermo restando quanto già detto sulla sua natura ormai ineffabilmente rarefatta e pur essendoci alcuni fondamentali momenti che ne prescindono in modo assoluto. Inoltre, Tarkovskij guarda adesso più che mai all’interno del piano come sede naturale della forma cinematografica e pertanto la molteplicità (e a volte discontinuità) stilistica, che caratterizzava le relazioni fra i centri d’interesse nelle opere precedenti, sembra adesso stemperarsi. Tuttavia, per quanto sia sviluppata la struttura interna dei piani, anche il terzo livello svolge ancora un suo ruolo. Significativo è che Sacrificio 235
contenga il piano sequenza più lungo (oltre 9 minuti) e il piano più breve (meno di un secondo) che Tarkovskij abbia mai girato; del primo ho parlato nel capitolo 4 (fig. 4.10), del secondo parlerò qui. Esso appartiene alla sequenza in cui Aleksander, seduto sull’erba in un boschetto, riflette criticamente sulla via sbagliata presa dall’umanità contemporanea, «una società basata sulla forza». Insieme a lui è il bambino, che inizialmente sta sulle sue ginocchia e poi, non notato, si allontana. Aleksander continua nelle sue riflessioni e solo al termine di esse si accorge che il bambino non è più con lui. Lo chiama, lo cerca. Improvvisamente il bambino gli salta addosso abbracciandolo da dietro. Aleksander, colto di sorpresa e spaventato, lo spinge istintivamente via facendolo cadere sull’erba e ferendolo leggermente. Subito dopo, resosi conto di quanto ha fatto, sviene. Adesso vediamo come tutto ciò è reso filmicamente. Il monologo di Aleksander, da cui si prende avvio, è girato in piano sequenza con una lentissima transizione distribuita che lo porta da campo medio a figura intera: un fluire continuo di pensieri nella componente profilmica parallelo a un fluire senza soluzioni di continuità del tempo nella componente filmica. Il tempo comincia a frammentarsi solo dal momento in cui il bambino si allontana, ancora non notato dal padre, e subisce un’incrinatura nel momento dell’incidente. Aleksander è inquadrato di spalle, dalla sua destra; il bambino gli salta addosso. E qui abbiamo uno stacco. Nella fulminea inquadratura successiva (una frazione di secondo) in cui Aleksander scaraventa a terra il bambino, egli è inquadrato davanti e dalla sua sinistra, dunque in controcampo con scavalcamento di campo. Quest’ultimo, violazione delle regole grammaticali del montaggio classico, quando è usato con accortezza possiamo pensarlo come l’equivalente visivo di ciò che in musica è la dissonanza: un’incrinatura, una frattura nel tessuto dello spaziotempo filmico. E questa «dissonanza visiva» risulta qui efficacissima nell’esprimere la forte tensione emotiva, l’incrinatura nella realtà, la frattura nel lucido fluire del pensiero 236
nel tempo, che si crea in quell’istante12. All’estremo opposto della rottura drastica, traumatica del flusso temporale, la relazione sul terzo livello ha anche qui un più «tranquillo» ruolo di semplice articolazione grammaticale del discorso narrativo. È ciò che accade nella sequenza successiva in cui ritroviamo Aleksander in casa che sfoglia un libro sulle icone russe regalatogli dall’amico Victor. Comincia un dialogo fra Victor, Aleksander e la figlia Marta sul passato di attore teatrale di Aleksander nel quale a un certo punto interviene polemicamente la moglie Adelaide. La prima parte del dialogo è girata in un piano sequenza di quasi tre minuti strutturato secondo i canoni del secondo stile, ovvero mediante una transizione distribuita in avanti sui personaggi fermi o che si muovono prevalentemente lungo l’asse visuale. Si voltano tutti quando si sente la voce di Adelaide. Il suo intervento segna l’inizio di una nuova fase del dialogo e qui si ha uno stacco. Il nuovo piano è un controcampo del precedente ed è anch’esso un piano sequenza. Questo momento è la prima apparizione significativa di Adelaide, in cui ella si rivela come antagonista di Aleksander. Ed è, in tutto il film, uno dei soli quattro momenti in cui appare il controcampo13. La struttura più classica del cinema convenzionale dunque, adottata pur non sistematicamente nel primo stile, presente ancora, sia pur dilatata nel tempo, in Stalker, appare come episodica negli ultimi due film. A differenza del piano precedente, la linea di interesse è qui ortogonale all’asse visuale: Adelaide cammina lateralmente verso destra avvicinandosi, sostando al centro e andando poi verso sinistra. Entrano in campo gli altri. A questo punto viene inserito un cut away: ripresa in mezzo primo piano Giulia, la cameriera, in un angolo appartato della stanza, osserva e commenta a bassa voce il dialogo. Poi esce fuori campo scoprendo la figura di Maria in campo medio. La linea di interesse coincide qui nuovamente con l’asse visivo. Si ha adesso una ripresa del piano precedente con la continuazione 237
del dialogo, ma a macchina da presa fissa. Il cut away crea pertanto una struttura ad alternanza poiché fa entrare in gioco un secondo, solo apparentemente secondario, centro di interesse della sequenza. Ancora più articolata per la compresenza di momenti dominati dai piani lunghi ed altri di montaggio ad alternanza, è la sequenza della visita di Aleksander a Maria. Possiamo suddividerla in tre sezioni di identica durata (quattro minuti e mezzo), la seconda delle quali è il monologo in cui Aleksander racconta del suo goffo tentativo di «abbellire» il giardino della madre, girato in un piano sequenza unico. Attorno a questo asse di (quasi) simmetria il dialogo è strutturato prevalentemente secondo un montaggio alternato fra Aleksander e Maria, in parte affine al controcampo interno. Il momento iniziale dell’ingresso di Aleksander nella casa, fino al lavaggio «lustrale» delle mani, e il conclusivo momento d’amore sono invece girati rispettivamente in uno e due piani lunghi che ci mostrano sempre Aleksander e Maria insieme. I momenti montati sono dunque quelli del dialogo o comunque quelli in cui si vuol sottolineare l’ascolto di Maria, ed è un po’ strano che i ripetuti stacchi isolino l’uomo e la donna proprio nei momenti in cui la loro vicinanza emotiva comincia a percepirsi, mentre il contrario accade all’inizio, quando Aleksander è appena entrato e il dialogo stenta ad avviarsi («perché non dice niente?» domanda Maria). Questa unione nel silenzio e separazione nelle parole ricorda la diffidenza che Tarkovskij provava per queste ultime («Le parole non possono mai esprimere tutto quello che pensiamo! È come se fossero sempre fiacche», dice il protagonista dello Specchio durante la telefonata alla madre). E sarà infatti non di fronte alle parole di Aleksander, ma in risposta a un suo gesto drammatico, forse perfino melodrammatico, il puntarsi una pistola alla tempia, che Maria cederà alla sua richiesta d’amore, momento che assume anch’esso, nelle ultime inquadrature, il carattere d’un rito lustrale. 238
Nella sequenza conclusiva, infine, la struttura ad alternanza assume un particolare significato. I due centri d’interesse sono qui il bambino e Maria. Vediamo innanzitutto il bambino che si fa carico della missione paterna di annaffiare l’albero morto; poi, in un unico piano, Maria che sopraggiunge in bicicletta e raggiunge il bambino nel momento in cui fra di loro passa l’ambulanza che sta portando via Aleksander. È l’unico, definitivo momento in cui li vediamo tutti insieme nella stessa immagine. Ma subito dopo questo momento di unione per il tramite del pur invisibile Aleksander, cui entrambi sono legati, Maria e il bambino, pur essendo a pochi metri di distanza, non appaiono più nello stesso piano; ognuno va per la sua strada, Maria verso l’orizzonte, il bambino a continuare la missione ormai sua, per poi sdraiarsi, nel piano conclusivo, ai piedi dell’albero. Forse non si rivedranno mai più. Importante è l’ambivalenza di questa conclusione, del film e di tutta l’opera di Tarkovskij: alle qualità visive, e in particolare alla luminosità che avvolge le ultime immagini del bambino e di Maria, è affidata l’espressione di una qualche speranza nel tempo a venire. Al contrario, la struttura ad alternanza, tutta confinata sul terzo livello, che separa il bambino e la donna, suggerisce uno stato di isolamento che avvolge i due personaggi. Abbiamo assistito a uno sfiorarsi di due solitudini e infine a un divergere di destini. Come Luigi Nono nei suoi ultimi anni, l’ultimo Tarkovskij sembra parlarci di un’impossibile speranza, impossibile come sarebbe stata un anno dopo la sua guarigione e, nei lunghi secoli della storia umana, sembra proprio esser stata la guarigione del mondo. 1
I due elementi dell’alternanza confluiscono poi, secondo i canoni classici, nell’ultima inquadratura in cui vediamo Saša e Sergej che vanno via, riflessi nell’acqua della pozzanghera. 2 In particolare, nella sezione b) abbiamo una sola transizione assimilabile al controcampo, fra i piani 5 e 6, corrispondente a una frase irritata di Ivan e a una energica reazione di Galtsev. 3 Ricordiamo che, nella maturità, Tarkovskij prenderà le distanze da qualsiasi
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significato nascosto nell’opera cinematografica. 4 Ritroviamo questo modo di muovere la macchina da presa nel finale della sequenza del carcere nazista e poi mai più nel cinema di Tarkovskij. 5 S. Salvestroni, Il cinema di Tarkovskij e la tradizione russa, Edizioni Qiqajon, Magnano (BI) 2005, pp. 112-113. 6 Anche in Solaris sono tuttavia presenti momenti di discontinuità stilistica. Ad esempio, il dialogo davanti alle altalene fra Berton e Kelvin è girato in gran parte in controcampo interno mentre il primo dialogo di Kelvin con Sartorius, non meno conflittuale del precedente, è girato in un neutro piano sequenza. 7 La durata media dei piani fino alla sequenza nella sala delle dune di sabbia è di 54 secondi; dalla sequenza della telefonata in poi è di 105 secondi, circa il doppio. Se facciamo il grafico delle classi di durata relativo a quest’ultima sezione del film otteniamo un inviluppo molto vicino a quello a campana. 8 I momenti sono: il posto di blocco; lo scrittore va da solo verso la Stanza; la sosta (seconda sezione); il Tritacarne (finale) e la sala delle dune (inizio); il bar (dopo il ritorno dalla zona). 9 Notiamo l’analogia con la struttura dominante nei dialoghi importanti del primo stile: prologo ed epilogo in controcampo, o comunque con prevalenza di strutture montate, e dialogo centrale interno al piano. Del tutto diversa però è la concezione delle durate e la struttura del piano centrale. 10 Questo è il primo; gli altri tre sono: il finale della scenata di Eugenia, il dialogo con la bambina Angela nella chiesa sommersa ed Eugenia nella casa di Vittorio, dopo la sua telefonata a Gorčakov. 11 Questa struttura appare nelle prime due opere nella forma embrionale di sospensione narrativa. Nel Rullo compressore la sequenza della piazza termina sul dettaglio del violino, cui si torna dopo la sequenza del bambino maltrattato da un coetaneo. Nell’Infanzia di Ivan abbiamo il tema del pugnale alla fine della sequenza di Dürer, cui si torna nella sequenza di Ivan che gioca alla guerra dopo la sequenza delle barche. In Andrej Rublëv tutto l’episodio Il silenzio è un’alternanza fra sequenze. Nello Specchio infine possiamo riconoscere una tale struttura nelle due inquadrature dell’orfano di Leningrado sulla neve, incastonate fra scene di cinegiornale di guerra. 12 A questo proposito notiamo (fig. 5.3) che la frequenza delle transizioni nelle cinque sequenze che costituiscono la prima sezione del film aumenta progressivamente da una sequenza all’altra (coerentemente col crescendo di dinamismo che, come sappiamo, caratterizza questa sezione) e che solo quella del monologo nel boschetto (la seconda) esula un po’ da questa progressione. Ma le transizioni in più, in essa, sono proprio quelle della «dissonanza visiva», che dunque anche sotto questo aspetto risulta una frattura nell’ordine formale dell’opera. Se immaginassimo di eliminarle, il valore di questo parametro passerebbe da 2,29 a 1,73, divenendo così intermedio fra quello precedente (0,55) e quello successivo (1,85) e dunque rientrando perfettamente nella progressione. 13 Il primo è quello del boschetto mentre il terzo è, nella seconda sezione, fra Adelaide e Giulia, quando ella rifiuta di svegliare il bambino. L’ultimo infine è nella conclusione del dialogo notturno fra Aleksander e Maria.
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7. Verso l’icona
Immagine ed espressione Con l’analisi del montaggio abbiamo completato la descrizione delle opere. Siamo ora di fronte al compito di percorrere a ritroso il cammino che ha condotto Tarkovskij dalla sua visione interiore del mondo a quel peculiare modo di formare che ha contraddistinto il suo cinema. In che maniera dunque una tale forma cinematografica rinvia a quella spiritualità? Abbiamo già visto che ogni interpretazione in chiave simbolico-allegorica è stata respinta dal regista e, in generale, che non si presta a capire Tarkovskij ogni sorta di interpretazione di tipo segnico, ovvero «questo significa quello». Il discorso da fare riguarda piuttosto un certo stato mentale indotto da un certo tipo di immagine, da una certa forma dello spazio e del tempo. È solo nell’essere capace di indurre questo stato interiore che l’immagine cinematografica può alludere all’infinito. Ma appunto, in che modo lo è? Adesso, per usare le parole di Rudolf Arnheim, «quanto ci occorre è un’interpretazione capace di spalancare gli occhi e le orecchie ai messaggi trasmessi dalla forma»1. Ma ha senso cercare una tale interpretazione? Ovvero cercare un’espressione in una forma non verbale? Tutta la mia analisi presuppone che a questa domanda si possa dare una risposta affermativa. Nel partire dalle idee di Pareyson, infatti, ho dato per scontato che egli avesse ragione nell’affermare che la forma, l’immagine cinematografica nel nostro caso, possieda la facoltà di esprimere; questo tuttavia non è un assioma e sarà bene allora 241
spendere qualche parola per motivarlo2. Ci farà da guida in questa parentesi proprio Arnheim, i cui contributi nel campo della psicologia dell’arte sono ancor oggi considerati fondamentali e dal quale potremo dunque trarre utili indicazioni. Naturalmente qui non ci interessa capire secondo quali processi psichici lo stimolo prodotto sulla mente da un certo pattern visivo induca un certo stato mentale. Questo è un problema interno alla psicologia dell’arte. Ci basterà appurare che ciò avviene e, fatto ciò, avremo gettato quel ponte fra forma ed espressione la cui esistenza nei capitoli precedenti ho dato per scontata. Innanzitutto, cosa significa percepire o, specularmente, rappresentare? Significa mettere in relazione l’insieme dei dati che riceviamo dai nostri sensi con qualità generali come la forma, le proporzioni, i colori. Percorrere il cammino che dalla realtà conduce alla sua rappresentazione consiste, scrive Arnheim, nel trovare «un equivalente figurativo delle forze universali fisiche e psicologiche sottese dalla natura e dalla vita, e delle loro mutue interferenze»3. Percepire una rappresentazione significa percorrere lo stesso cammino in senso inverso. Questo «equivalente figurativo» è uno schema o forma o pattern (considererò nel seguito questi termini sinonimi) astratto caratterizzato al suo interno da un insieme di tensioni direzionate, e sono tali tensioni che generano espressione, ovvero «armonia e disarmonia, dominio e coordinazione, contrasto e somiglianza, movimento e riposo, equilibrio e squilibrio»4. Il principio su cui si basa questa equivalenza5 è quello dell’isomorfismo, secondo il quale «processi che hanno luogo in mezzi differenti possono risultare, nondimeno, simili nella loro organizzazione strutturale»6. Cerchiamo di spiegarlo meglio. Da una parte abbiamo l’oggetto osservato con la sua natura fisica, le sue «forze» interne che sono quanto di esso viene percepito, 242
dall’altra abbiamo la dinamica psichica che si attiva nell’osservatore quando interagisce percettivamente con esso. In sintesi il processo sembra essere questo: da un oggetto reale la psiche umana astrae una forma, un pattern; a quest’ultimo corrisponde, per isomorfismo, uno schema o stato mentale, dunque una qualità espressiva universale, che è il contenuto. È grazie a questa corrispondenza che l’opera d’arte trasmette qualità astratte e universali attraverso la rappresentazione di oggetti, personaggi, eventi particolari assumendo con ciò un significato espressivo. «Quando dipinge un pino» scrive Arnheim «l’artista può riferirsi all’espressione di torreggiante altezza e di ampiezza che l’albero trasmette all’occhio umano, e abbracciare così con la sua opera l’intera gamma dell’esistenza, dai suoi principi più generali alle manifestazioni tangibili di essi nei singoli oggetti»7. C’è indubbiamente una buona sintonia fra questo processo e l’alludere dell’immagine all’infinito di cui parla Tarkovskij. Esistono naturalmente ricerche sperimentali che confermano l’esistenza di simili corrispondenze. Arnheim cita a questo proposito un’esperienza del 1921 di H. Lundholm: Egli chiese ad otto persone, estranee al campo artistico, di disegnare linee, ciascuna delle quali avrebbe dovuto rappresentare il tono affettivo di un aggettivo indicato verbalmente. Si trovò, ad esempio, che soltanto linee rette, interrotte da angoli, venivano impiegate per rappresentare aggettivi come eccitante, furioso, duro, potente; mentre unicamente le curve venivano impiegate per rappresentare aggettivi come triste, calmo, pigro, felice. Se le linee erano dirette verso l’alto, ciò significava forza, energia, vigore; se dirette verso il basso, esprimevano debolezza, mancanza di energia, rilassamento, depressione ecc.8
Nell’analisi del primo livello ho attribuito qualità dinamiche o statiche a immagini significanti prescindendo dalla loro evoluzione nel tempo. Ho attribuito cioè a forme visive sincroniche e pertanto atemporali la qualità percettiva interna del movimento o della sua negazione e la loro capacità di trasmettere tali qualità a chi guarda. Ciò discende dal fatto che esse contengono tensioni verso determinate direzioni ovvero 243
quella che Arnheim chiama «dinamica visuale»9, che è cosa diversa dal movimento inteso in senso temporale, consistendo piuttosto nella capacità di una forma sincronica, quale è un’immagine, di generare la percezione di una realtà in divenire. In tal modo anche delle forme visive sincroniche si può dire che «rappresentano un evento più che un’esistenza»10. Questa percezione di movimento si manifesta indipendentemente dal fatto che l’oggetto raffigurato sia o meno effettivamente in moto. E anche indipendentemente dall’oggetto. Stiamo infatti parlando di una qualità inerente al pattern visivo astratto, non all’oggetto specifico11. Quali forme portano in sé la qualità del movimento e quali della staticità? La prima deriva semplicemente dal fatto che tali pattern deviano dalle «posizioni zero» di riferimento «connaturate allo stato di immobilità» quali sono la verticale (tipica di una figura stante) e l’orizzontale (tipica del giacere)12. Possiamo dire in generale che si ha dinamismo ovunque vi sia un progressivo mutamento (gradiente) in una qualità percettiva. Facciamo un esempio: qualsiasi forma a cuneo, o ad angolo, tale che proceda da una zona larga a un vertice ristretto è caratterizzata da un mutamento graduale della dimensione. Ogni linea obliqua può esser vista come un progressivo amplificarsi della distanza dall’orizzontale o dalla verticale (gradiente di distanza). Allo stesso modo risulterà dinamica una superficie costituita da una zona chiara che sfuma verso lo scuro (gradiente luministico). Ad esempio, scrive ancora Arnheim, nelle istantanee di una persona che cammina, il passo apparirà lungo o corto in funzione dell’angolo fra le due gambe, e ciò senza riguardo per la dimensione del passo vero e proprio […]. Se una delle gambe appare in posizione verticale, l’osservatore non vede un uomo che cammina, ma un uomo ritto su una gamba sola, con l’altra sollevata.13
Una particolare evidenza può esser data a questi concetti dal confronto fra un’opera di un qualsiasi autore futurista e una di Morandi. Il Futurismo, come è noto, fece del dinamismo 244
esasperato, del mutamento incalzante, del divenire infinito, della velocità vertiginosa gli imperativi della propria poetica. E sarà ben difficile trovare in un’opera futurista una singola direttrice orizzontale o verticale. Solo linee oblique, asimmetrie, angoli acuti, forti gradienti luministici e cromatici. Rivolgiamoci ora a Morandi. Non c’è pattern che si discosti sensibilmente dall’orizzontale o dalla verticale, la luce è diffusa, le ombreggiature smorzate, i colori prossimi all’inesistenza. E ne risulta una perfetta percezione di immobilità, tutto appare immerso in un’intangibile quiete; tutto è così da sempre e per sempre lo sarà. Il respiro del tempo è quello dell’eternità. Con questi esempi davanti possiamo comprendere cosa induce Arnheim a parlare di «stabilità degli assi orizzontale-verticale» e di «tensione e irrequietezza di quelli obliqui»14. La simmetria può intervenire a smorzare queste tensioni direzionate. Essa, anche quando è strutturata su linee oblique, come accade nell’immagine della figura 3.45, conferisce staticità all’immagine perché le tensioni direzionate contrapposte, equilibrandosi, si annullano a vicenda. Per meglio comprendere il ruolo della simmetria può esserci utile confrontare questa immagine con quella della figura 3.6 e domandarci perché la struttura della prima ci appare statica e quella della seconda dinamica, considerato che in entrambe si ha una conformazione triangolare a cuneo. Il vertice del triangolo è ottuso nel primo caso, acuto nel secondo; inoltre la prima immagine non si proietta nella terza dimensione, la seconda sì e queste due differenze hanno certamente il loro peso. Ma la differenza più evidente è proprio la simmetria piramidale con asse verticale della prima e l’asimmetria della seconda, in cui il cuneo parte dal punto mediano del lato sinistro e, allargandosi verso destra, tende verso la parte bassa dell’immagine secondo un asse inclinato. Un’immagine strutturata dinamicamente può presentare un certo grado di ambiguità nella direzione del movimento. Esemplificando, nel caso di forme a cuneo, essa può essere 245
percepita indifferentemente dalla base al vertice acuto o viceversa15. L’ambiguità può però essere risolta dalle specificità del soggetto figurativo. Ad esempio, nella figura 3.6 si percepisce un movimento verso destra, dunque divergente verso la parte ampia del cuneo, perché l’automobile è rivolta in quella direzione e quello è il suo senso di marcia normale. Fin qui ho parlato di pattern lineari, ma è evidente che discorsi analoghi possono essere sviluppati riferendosi a caratteristiche di superfici o masse. La levigatezza metallica delle superfici di Kubrick è certamente uno stimolo visivo ben diverso dalle frastagliature organiche delle superfici di Tarkovskij e rimanda a due stati della materia (e del mondo) immensamente distanti. Allo stesso modo un insieme di masse compatte quale è quello della figura 3.6 presenta qualità percettive di forte impatto, ben diverse da quelle, minute e fragili, della figura XV che introducono a un microcosmo intimo e raccolto16. Un ultimo punto è la distinzione fra organizzazione gerarchica e coordinata di una forma. L’organizzazione gerarchica è caratterizzata da un elemento strutturale dominante in relazione al quale gli altri elementi si distribuiscono secondo livelli di importanza decrescenti. L’elemento dominante può essere un punto centrale, come nel caso della disposizione circolare o radiale, oppure un asse di simmetria. Limitatamente a quel che ci serve per comprendere le immagini di Tarkovskij, possiamo identificare la gerarchia con un’organizzazione in cui siano presenti dei centri dominanti, ovvero dei punti (o assi) se parliamo di struttura dell’immagine, degli istanti se parliamo del piano, che fungono da attrattori della percezione o da centri di irradiazione delle tensioni direzionate, spaziali o temporali che siano. È il caso delle figure 3.35 o 7.1, entrambe del primo periodo. Coordinata è invece una struttura in cui le relazioni fra i suoi elementi sono impostate su un piano paritario, in modo tale che tutte le componenti della struttura abbiano pari importanza. Ed è il caso della figura 3.41, appartenente al 246
secondo periodo. «Una gerarchia» scrive Arnheim «possiede una direzione o sequenza inerente, mentre in un sistema di coordinazione le varie tensioni si equilibrano, in una quiete animata»17.
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Riassumiamo Torniamo ora a Tarkovskij e al nostro problema di trarre le somme da quanto abbiamo imparato sui suoi film. Potrà innanzitutto esserci utile avere una visione sintetica dei risultati cui siamo giunti confrontando una tipica immagine del primo periodo con una del secondo ed estendendo poi l’analisi a tutti e tre i livelli. Composizione. Nella prima immagine (fig. 7.1), tratta da L’infanzia di Ivan, siamo di fronte a una struttura fortemente centripeta, dunque gerarchica. Davanti allo spettatore, sia nel piano proiettivo frontale dello schermo cinematografico, sia nello spazio tridimensionale del soggetto raffigurato tutto converge dinamicamente verso la sagoma circolare del secchio all’imboccatura del pozzo, posta quasi esattamente al centro della composizione. Vi converge grazie alla fuga prospettica dei quattro angoli del pozzo, ma soprattutto grazie alla figura di Ivan, dallo sguardo proteso a sua volta verso il centro e verso l’alto, che si proietta nella terza dimensione lungo una delle diagonali e cui dona particolare evidenza il contrasto fra i toni chiari della pelle e lo sfondo scuro delle pareti del pozzo contro cui essa si staglia nettamente. La figura di Ivan accentua la forza centripeta che anima l’immagine e allo stesso tempo introduce un determinante elemento di tensione che sposta asimmetricamente il centro attrattore dello sguardo verso la semidiagonale che unisce l’angolo inferiore destro al centro. Questo spostamento toglie alla centralità del secchio qualsiasi efficacia stabilizzante. L’intera immagine, costruita nel piano insistentemente su linee oblique, nello spazio su una relazione in (estrema) profondità di campo fra Ivan e l’oggetto della sua attenzione, esprime la spasmodica tensione verso l’imminenza di un drammatico mutamento, l’incombere di un irreversibile (e irrimediabile) divenire. Vediamo anche come una 248
rappresentazione plastica dello spazio si traduca, nel piano, in un forte dinamismo interno. È un esempio di grande efficacia di ciò che Arnheim chiama «tensioni direzionate».
Fig. 7.1
Questo modo di comporre le immagini, come sappiamo, scompare da Stalker in poi e viene sostituito da inquadrature dotate di caratteristiche del tutto opposte, ben rappresentate dall’immagine della figura 7.2, tratta da Nostalghia. L’orientamento dell’asse visivo è rigorosamente frontale, nella costruzione domina la simmetria, le direttrici sono esclusivamente orizzontali o verticali come, volendo fare un paragone architettonico, nella struttura trave-pilastro, dunque secondo forme assolutamente statiche. L’immagine inoltre è priva di plasticità: la profondità prospettica, così esaltata nella prima immagine, qui è quasi annullata dall’essere tutti gli elementi della composizione disposti a ridosso dell’unico piano di riferimento costituito dalla parete, la cui frontalità occupa e caratterizza gran parte dell’immagine. La stessa simmetria, infine, non essendo perfetta, non costituisce un centro attrattore 249
forte e l’avvicina pertanto al modello della struttura coordinata piuttosto che a quello gerarchico18. Quanto alla figura umana, benché essa, trovandosi sull’asse di simmetria, costituisca il centro compositivo dell’immagine, non è un centro attrattore in senso forte perché nulla vi conduce; le direttrici geometriche orizzontali e verticali, nonostante la racchiudano, non sono in relazione inevitabile con essa, possono anzi ben prescinderne, tanto è vero che ne prescinderanno pochi istanti dopo quando Eugenia scomparirà al di là del portale. Infine, l’intenso contrasto chiaroscurale19 che dona alla figura di Ivan un ruolo forte nella figura 7.1, non si ritrova nella figura di Eugenia. Al contrario, il suo abito scuro l’amalgama agli altri elementi dell’immagine: alla sedia, ai mobili, ma soprattutto alla penombra al di là del portale che sta per attraversare.
Fig. 7.2
Struttura dei piani. Consideriamo ora il piano di cui fa parte ciascuna delle due immagini, e con ciò il tempo. L’immagine della figura 7.1 è l’immagine iniziale del piano, un piano a macchina da presa fissa ma non per questo statico. Al contrario esso è dotato di un fortissimo, drammatico dinamismo interno, 250
tutto concentrato su un elemento profilmico, il precipitare del secchio, che inizia con l’inizio stesso del piano ed è un evento rapidissimo (il piano dura solo 4 secondi) situato spazialmente quasi esattamente lungo l’asse visivo, dunque nella terza dimensione. Il secchio, nel precipitare verso Ivan, precipita anche verso lo spettatore situandolo così all’interno dell’azione con un effetto molto vicino a una soggettiva. La composizione dell’immagine è tale da concentrare intensamente l’attenzione su questo evento e su quella che ne sarà la sua evoluzione nel tempo. In altre parole, il convergere della composizione sul secchio nel primo livello prepara l’evento di cui esso sta per essere protagonista nel secondo. L’immagine della figura 7.2 è il momento (quasi) conclusivo dell’inquadratura, la quale inizia su un mezzo primo piano di Eugenia che, dopo aver pronunciato una breve battuta, si allontana lentamente, assecondata da una lieve e lenta carrellata all’indietro. Nell’immagine iniziale lo sguardo di Eugenia è rivolto verso Vittorio, lo squallido personaggio che poco prima, durante la telefonata a Gorčakov, ha definito «il mio uomo». È uno sguardo desolato, come lo è il tono della sua voce e poi lo sarà il suo incedere pacato, o più verosimilmente rassegnato, la cui lentezza evoca una sorta di svuotamento interiore. Anche qui siamo di fronte a un divenire, costituito questa volta dal doppio movimento di allontanamento di Eugenia verso il fondo e della macchina da presa all’indietro. Anche qui esso avviene lungo l’asse visivo, ma dove prima eravamo di fronte a un irrompere improvviso, rapidissimo, drammatico ora siamo di fronte a un digradare che si prolunga nel tempo (il piano dura 63 secondi). La non immobilità della macchina da presa che, non dimentichiamolo, è il nostro sguardo di spettatori, ci rende presenti e coinvolti, ma in maniera diversa dal caso precedente. Siamo qui testimoni partecipi di una sconfitta esistenziale di cui diveniamo consapevoli nel tempo attraverso il progressivo rimpicciolirsi, e infine svanire al di là del portale, della figura di Eugenia. Lo 251
siamo attraverso quel duplice movimento di allontanamento di lei da noi e di noi (macchina da presa) da lei, una consapevolezza che matura nella lentezza del divenire, nella persistenza dell’evento in un tempo vuoto e in uno spazio dominato, come abbiamo visto, dalla staticità. Un ulteriore elemento di diversità è il modo in cui il secchio ed Eugenia escono fuori campo. Il secchio scompare oltre il bordo inferiore dell’immagine, il suo movimento dunque si proietta verso l’esterno; Eugenia invece scompare oltre il portale, dunque nel centro dell’immagine. Un movimento divergente il primo, convergente il secondo. Possiamo definire polifonico il piano della figura 7.1 essendo strutturato su due centri di interesse, Ivan e il secchio, fra i quali esiste una relazione in profondità di campo. Il piano della figura 7.2 è invece monodico essendo Eugenia l’unico centro di interesse, mentre l’ambiente della stanza, che poco a poco si fa presente al nostro sguardo quando ella si allontana, ha soltanto un passivo ruolo di cornice intorno a questo evento. Il suono. Benché esuli dai confini della nostra analisi, consideriamo brevemente anche la componente sonora, limitata in entrambi i piani a una breve battuta, ma tale che anche sotto questo aspetto la diversità è enorme. La battuta di Ivan è un urlo angoscioso, quella di Eugenia è pronunciata a mezza voce, con un tono che è insieme secco e mesto. Il grido di Ivan inoltre ha un ruolo forte nei 4 secondi del piano, che culminano in esso; la battuta di Eugenia è invece preceduta e seguita da due lunghe parentesi di silenzio che, costituendo l’elemento sonoro dominante, quasi la sommergono intensificandone la debolezza. Le sequenze. Infine, entrambi i piani sono inseriti all’interno di strutture ad alternanza assimilabili al campo-controcampo ma, mentre nella prima abbiamo una frequenza di 6,2 transizioni al minuto, nella seconda tale frequenza si riduce a una al minuto20, oltre sei volte di meno. L’abbattimento della frequenza delle transizioni ci parla di un diverso fluire del tempo, mentre il persistere di un’equa 252
ripartizione delle transizioni fra secondo e terzo livello (dunque di una presenza significativa di queste ultime) ci dice che la frattura, il turbamento nel normale fluire del tempo della vita, potremmo dire della sua armonia, continua a essere materia persistente della narrazione cinematografica. In Sacrificio queste incrinature si concentrano in momenti particolari, ma proprio per questo assumono una maggiore intensità di significato: il balzo dalla prima alla seconda sezione, il ferimento accidentale del bambino da parte di Aleksander e infine l’alternanza divergente della sequenza conclusiva sono momenti cardine in cui il salto dal secondo al terzo livello assume una forza non altrimenti esprimibile. L’equivalenza tra l’insieme di frontalità, simmetria e assenza di centri attrattori (caduta dell’organizzazione gerarchica21) sul primo livello, movimenti rettilinei sul secondo e ridotta frequenza delle transizioni nel montaggio può non apparire ovvia, dunque parliamone. Le tre scelte stilistiche possono essere accostate innanzitutto sotto il comune denominatore della staticità. Statica è un’immagine costruita secondo piani frontali, priva di direttrici oblique di fuga e di elementi centripeti che, fungendo da attrattori delle tensioni direzionate, esercitano una funzione dominante nella composizione. Statico è uno spazio tracciato da un movimento in cui l’orientamento dello sguardo è fissato in una direzione immutabile nel tempo, coincidendo con l’asse del movimento stesso o essendone ortogonale. Statico infine è un tempo diegetico in cui l’attenzione rimane lungamente concentrata su uno stesso centro di interesse e le transizioni assumono un ritmo dilatato e rarefatto. La staticità si lega inoltre inscindibilmente alla mancanza di spessore o, se si preferisce, profondità nella struttura dello spazio, ottenuta sul primo livello col non ricorrere a composizioni in profondità di campo e sul secondo col concentrare l’azione, filmica e profilmica, lungo linee rette ortogonali o parallele all’asse visivo. Al contrario la struttura 253
plastica dello spazio è strettamente correlata a una concezione dinamica della visione, essendo realizzata sul primo livello mediante direttrici oblique di fuga nella terza dimensione che pongono per loro stessa natura lo sguardo in movimento, e sul secondo mediante movimenti di macchina, quali la panoramica, che implicano un continuo mutamento nell’orientamento dell’asse visivo. Non è pertanto fortuita coincidenza che movimenti di macchina rettilinei e frontalità dell’immagine compaiano contemporaneamente rimanendo, durante tutta la seconda fase, un binomio inscindibile. Dunque: da una concezione plastica e dinamica a una concezione piana e statica dello spazio, dalla rapidità alla lentezza, dalla concentrazione alla rarefazione, dal pieno al vuoto, dai colori alla loro assenza, e infine dal suono al silenzio: questi sono gli elementi fondamentali della soluzione di continuità stilistica situata fra Lo specchio e Stalker.
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Le ragioni del silenzio Di questo mutamento, come abbiamo visto, quasi non c’è traccia nei testi di Tarkovskij, solo l’espressione di una forte insoddisfazione nei confronti dei film del primo periodo. Proviamo a dare un’interpretazione di questo strano silenzio e torniamo ancora un momento a Pareyson. Certo, prima che la spiritualità abbia scoperto il suo stile, cioè si sia fatta modo di formare, v’è un processo lungo e complicato di ricerca […] L’artista in cerca del proprio stile lo tenta formando: ecco le prime opere, in cui il modo di formare non è ancora spiritualità fattasi stile, ma spiritualità che adopera uno stile ereditato o imitato, e allora v’è uno sfasamento fra spiritualità e modo di formare. […] La ricerca è coronata dal successo solo quando una spiritualità definisce insieme sé stessa e il proprio stile, cioè definisce sé stessa come stile: solo allora si vede che quella spiritualità non poteva avere che quello stile e che quello stile non poteva appartenere che a quella spiritualità, e le opere precedenti appariranno come saggi, tentativi, abbozzi e prove.22
Benché non sia così, sembrano parole scritte con l’intento di descrivere il percorso creativo di Tarkovskij, ovvero il senso delle due fasi stilistiche come ricerca di un modo di formare cinematografico in cui tradurre quella spinta interiore che la componente narrativa rivelava fin da Andrej Rublëv. È vero che Tarkovskij si disse contrario all’arte come ricerca, tuttavia lo fece a proposito dell’ostentazione del procedimento come contenuto dell’opera23. Il concetto di ricerca egli lo intendeva a un livello ben più alto: «L’aspirazione alla perfezione», scrisse infatti, «stimola l’artista a fare delle scoperte sul piano spirituale, lo sprona in continuazione a compiere il massimo sforzo morale»24. Questo sforzo, queste scoperte sono ciò che egli poi riversa nel processo formativo da cui nasce l’opera d’arte. Il giudizio negativo che, a posteriori, diede sulle sue prime opere probabilmente è da interpretarsi come un’acquisita consapevolezza di una ancora imperfetta aderenza fra il piano 255
spirituale e quello della forma artistica che era chiamata a rappresentarlo. Egli allora vide in tali opere fasi intermedie (e dunque, secondo i suoi principi, non meritevoli di esser portate al pubblico) di una ricerca ancora ben lontana dall’esser giunta a compimento. Ma, vorrei aggiungere, una ricerca che, nonostante ciò, situa queste opere «imperfette» fra le più alte realizzazioni del cinema di tutti i tempi. Ancora una considerazione sulla netta linea di demarcazione fra le due fasi. Tarkovskij vedeva l’arte guidata non da un processo conoscitivo razionale ma da qualcosa di simile a ciò che nello Zen è il satori, un’intuizione immediata, improvvisa, luminosa della verità. In Scolpire il tempo scrive: Nell’arte […] l’intuizione […] è una condizione dell’anima e non un metodo di pensiero. […] Il pensiero per immagini è mosso dall’energia della rivelazione. Si tratta di una specie di illuminazione improvvisa, come se un velo cadesse dagli occhi! Ma non riguardo ai particolari bensì all’insieme, all’infinito, a ciò che la coscienza non può afferrare.25
Si può giungere a dire che per Tarkovskij la creazione artistica è la modalità (o una delle modalità) attraverso cui quello stato mentale che egli chiama «illuminazione» si manifesta nel mondo. E se guardiamo l’evoluzione del suo stile, sembra proprio che sia andata così: in qualche momento fra Lo specchio e Stalker tutto gli fu improvvisamente chiaro; quel mondo interiore che era la sua spinta a fare cinema trovò in un istante la sua espressione in forma cinematografica, e fu un’intuizione che la coinvolse nella sua totalità. Ma non bastava: Tarkovskij era probabilmente ancora in cammino quando la morte lo fermò. Verso dove, possiamo solo nebulosamente intravederlo. Vorrei aggiungere che ammettere tutto ciò non significa supporre nella creazione artistica un intervento sovrumano, divino o faustiano che sia, ma soltanto riconoscere il ruolo che l’attività psichica non consapevole ha in essa. Sappiamo infatti che solo una limitata parte di quei processi psichici che 256
chiamiamo pensiero avviene nella sfera cosciente mentre molto avviene in strati sotterranei della psiche di cui non abbiamo alcuna consapevolezza. «L’«inconscio»» scrive Arnheim «non è un nome, ma un attributo dei fenomeni mentali: ci dice semplicemente se tali fenomeni siano presenti alla coscienza o assenti. Circa la loro natura, non ci dice nulla affatto»26. E ancora: «In nessun campo più che nelle arti vengono fieramente riconosciuti tali contributi delle forze sotterranee, e gli psicologi sono d’accordo nell’ammettere che probabilmente nessuna opera d’arte degna di questo nome è mai stata prodotta, né mai potrà prodursi, interamente al livello della coscienza»27. Ecco dunque come spesso accade che la «soluzione del problema» (la forma compiuta nel caso della creazione artistica) si faccia presente in maniera istantanea, come se si materializzasse dal nulla. Ed è ciò che chiamano ispirazione, intuizione, illuminazione. Essa in realtà è l’ultimo anello, il solo emergente al livello della coscienza, di una catena di cause ed effetti che si è dipanata in quelle zone remote della psiche cui la consapevolezza non giunge. Tarkovskij era consapevole di questa natura prevalentemente inconscia della creazione artistica. Il 3 luglio 1975 scrive nei Diari: Come matura l’idea di un’opera? Evidentemente è questo il più misterioso, il più sfuggente dei processi. Si direbbe si sviluppi indipendentemente dal nostro controllo, nel subconscio, dove l’idea cristallizza all’interno delle pareti della nostra anima. Ed è solo dalla forma dell’anima che dipende il suo carattere irripetibile, e non soltanto, ma dalla presenza stessa dell’anima dipende quel «periodo intrauterino» di latenza dell’immagine, che sfugge allo sguardo cosciente nel corso della gestazione.28
E, dopo aver notato quanto le immagini di Nostalghia esprimessero lo stato di angoscia da lui provato nei mesi in cui lo realizzò: Io non mi ero coscientemente proposto questo scopo, ma per me era un fenomeno straordinariamente sintomatico il fatto che, indipendentemente dalle mie concrete, private intenzioni razionali, la macchina da presa avesse soprattutto obbedito allo
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stato d’animo interiore col quale avevo girato il film.29
A causa di questa natura prevalentemente inconscia della creazione artistica accade che l’artista spesso non sia consapevole di essere portatore di uno stile. In ogni aspetto della vita umana accade che quanto è tipico del proprio modo di essere e di fare venga percepito come «normalità», non come peculiarità. E così accadrà all’artista davanti alle proprie opere, plasmate secondo il proprio modo di formare, in cui egli non percepirà uno stile, bensì il volto naturale della realtà. Ed è allora probabile che la divergenza fra forma e contenuto che il Tarkovskij di Stalker percepiva come «brutta» nei suoi film precedenti sia stata da lui intesa come lontananza da questa idea di naturalità della rappresentazione maturata dopo Lo specchio. Ecco dunque che questa raggiunta naturalità non gli appariva come un «secondo stile», bensì come il compimento di un processo formativo che le opere precedenti non avevano raggiunto.
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Storicizzazione È importante anche chiarire che quanto è stato detto in apertura di questo capitolo non può tradursi nella definizione di un criterio universale e immutabile. Ferma restando la «connessione intrinseca tra gli schemi percettivi e l’espressione che essi trasmettono»30, questo concetto va in un certo senso storicizzato, ovvero la corretta traduzione di una forma in espressione deve essere calibrata in relazione al contesto culturale (inteso sia in senso spaziale che temporale) in cui gli schemi percettivi vengono di volta in volta immersi. Analizzando il preludio al primo sogno di Gorčakov in Nostalghia ho parlato di «un primo breve accenno di avanzamento della macchina da presa, 20 secondi appena». Il fatto che io abbia qualificato come breve questo intervallo di tempo non è però così ovvio. Esso è breve nel flusso temporale dei 4 minuti del piano sequenza ma non certo in assoluto. Immaginiamo di prendere come termine di paragone un qualsiasi videoclip di musica di consumo. Sappiamo bene quale forma del tempo li caratterizza, sia nel filmico che nel profilmico: pressione del tempo interna ai piani altissima, durate tipiche di essi, uno o due secondi, a volte solo frazioni di secondo. In un tale contesto 20 secondi sono un tempo interminabile. Dunque la percezione del tempo cinematografico non può essere stimata in assoluto ma solo in relazione a una scala di valori temporali tipica dell’opera. Inoltre questa scala può essere percepita in maniera diversa in un diverso periodo storico o in una sociocultura diversa. E ciò è vero per ogni altro parametro. Scrive a questo proposito Arnheim: Qualsiasi opera d’arte è costruita in base a una scala di valori dinamici. […] L’estensione e l’apice della scala dinamica variano da opera ad opera, da artista ad artista, da epoca ad epoca. Il valore dinamico di un qualsiasi elemento percettivo dipende dalla scala del suo contesto. Il gesto di una mano in una miniatura medievale, che appare libero ed energico nel suo contesto, potrebbe sembrare
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rigido in un’opera dalla scala dinamica più ampia o più alta, in un dipinto del Veronese, per esempio. Da qui i frequenti fraintendimenti delle qualità dinamiche, a causa dei quali un critico definisce privo di vita un mosaico bizantino o esasperato un soffitto barocco, e lo fa perché applica la propria scala di movimento ad opere concepite secondo una scala diversa.31
In una sociocultura di quelle che Lévi-Strauss chiamò «fredde», ovvero statica e apollinea, la diversa forma dei due mobili ai lati del portale della figura 7.2 potrebbe essere vista non come una semplice attenuazione del grado di simmetria ma come una rottura determinante di essa, dunque un drammatico elemento di squilibrio, disarmonia; al contrario, l’allontanarsi lento di Eugenia sarebbe interpretato non come indice di mestizia, desolazione ma di normale tranquillità. Allo stesso modo in cui «la musica di Mozart può apparire serena e lieta all’ascoltatore moderno, che la percepisce in un contesto temporale costituito dalla musica del ventesimo secolo, mentre ai contemporanei essa trasmetteva l’espressione di passione violenta e sofferenza disperata, in relazione alla musica ad essi nota»32. È importante capire dunque che l’opera di Tarkovskij appare, qui e adesso, così fortemente anomala perché percepita secondo i criteri, i valori, gli schemi percettivi elaborati all’interno di una sociocultura «calda» ovvero in continua, irrequieta trasformazione, quale è quella occidentale (e, non diversamente, quella dell’Asia sovietica). In un contesto socioculturale diverso essa potrebbe tranquillamente apparire naturale mentre sarebbe la maniera convenzionale di concepire la forma cinematografica ad apparire caratterizzata da un’esasperante, inaudita, malsana frenesia. Possiamo con ciò concludere questa fase e incamminarci lungo il percorso a ritroso cui sopra accennavo. Il percorso o, più probabilmente, un percorso. È bene premettere infatti che la chiave di lettura che utilizzerò nel seguito è quella religiosa; perché non c’è dubbio che sia questo il primo e più naturale livello di lettura dell’opera di Tarkovskij. È risaputo che tutto il suo pensiero è impregnato di misticismo e sono innumerevoli i 260
riferimenti presenti nei suoi testi. Ad esempio nei Diari dove, nelle prime annotazioni relative a ciò che sarebbe stato Stalker, egli scrive: «La cosa che potrebbe trovare in me una forma espressiva molto armoniosa, sarebbe un film su soggetto degli Strugatskij: in un’azione continua, dettagliata, ma equiparata al gesto religioso, puramente idealistica, quindi semi-trascendente, assurda, assoluta»33. E, pochi giorni dopo: «In qualche modo oggi il mio desiderio di fare Picnic è simile allo stato d’animo in cui mi trovavo prima di Solaris. E adesso capisco il perché. È una sensazione che deriva dalla possibilità che ho di accostarmi al trascendente»34. È importante tuttavia notare che questo livello di lettura non è certamente l’unico, che possiamo riconoscerne altri i quali, pur non contraddicendolo (il che, piaccia o no, sarebbe scorretto nei confronti di Tarkovskij) consentano di estendere il discorso anche a una visione laica. Ciò esula dai confini di questo libro, per cui mi limiterò solo a un accenno, con riferimento al passaggio da strutture gerarchiche a strutture coordinate che abbiamo visto guardando alla composizione delle immagini, dunque da composizioni con una forte presenza di punti di attrazione nel primo stile a una vistosa assenza di essi nel secondo. Scrive Arnheim: Evidentemente l’ordine gerarchico ha la sua chiave in un atteggiamento mentale che accetta un’organizzazione centralizzata, o sulla quale deve imprimersi l’effetto di potere e di prestigio inerente a tale centralizzazione. D’altra parte la coordinazione implica una specie di impianto federalistico, nel quale ogni soggetto è, nello stesso tempo, membro associato al governo, nel quale cioè i governati siano insieme governanti: nobile mescolanza di libertà e soggezione.35
Dove termini come «governo», «potere» non hanno necessariamente un significato politico ma possono anche aver valore di metafora di una certa idea non dogmatica, non piramidale della realtà, una norma etica che si riallaccia a quell’idea di «forza della debolezza» che percorre tutta la poetica di Tarkovskij. E che non implica necessariamente una 261
visione religiosa.
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Cinema e pittura, Medioevo e Rinascimento Ogni uomo è la somma, o più propriamente la sintesi, d’innumerevoli uomini. In lui convergono e si esprimono i contributi di tutti coloro che vennero prima di lui, che sono intorno a lui e nei quali egli rispecchia sé stesso. Tarkovskij, e con lui la sua attività creativa, il suo cinema, non fa eccezione, e dunque le opere che stiamo analizzando affondano le proprie radici in sedimenti di lunghi secoli di cultura e spiritualità, sedimenti ben più antichi del cinema. Ecco perché, nella ricerca di una chiave di lettura dell’evoluzione stilistica di Tarkovskij, rivolgerò lo sguardo al passato. «Sono stanco di queste bellezze eccessive; non voglio più nulla solo per me» dice Gorčakov all’inizio di Nostalghia. La bellezza «eccessiva» è quella dell’arte rinascimentale, espressione di un uomo non proteso verso «l’altro da sé» ma concentrato sul culto della propria individuale autoreferenzialità, un’arte cui Tarkovskij, russo, dunque appartenente a una cultura che non conobbe o comunque non fece mai proprio il Rinascimento occidentale, si considerò sempre estraneo, preferendo a essa la sobria purezza della pittura medievale. Partiamo da questa distanza e facciamo alcune considerazioni relative a certi «balzi» stilistici che segnarono, nelle arti figurative, la transizione fra cultura medievale e rinascimentale. Gli storici dell’arte considerano un momento qualificante del passaggio dall’una all’altra una correzione effettuata da Antonello da Messina sul suo ritratto del Salvator Mundi (fig. 7.3): la mano benedicente, orientata originariamente in senso verticale, è stata in seguito cancellata dall’autore e ridipinta inclinata nella direzione di chi osserva. Nel dipinto, per il resto dominato da una rigorosa frontalità (che implica in questo caso la simmetria) e da una assoluta planarità, viene così 263
introdotto, tramite una direttrice inclinata che si proietta nella terza dimensione, un nuovo dinamismo, un equivalente pittorico di ciò che nel cinema si chiama sfondamento della quarta parete, estraneo alla pittura medievale, che vede invece proprio nella frontalità, nella planarità e nell’effetto di staticità che ne consegue i suoi elementi linguistici portanti.
Fig. 7.3
Questa tensione verso il dinamismo si accentua con il passaggio dal Rinascimento al Barocco, nella cui arte Heinrich Wölfflin nota un’inedita «tensione nelle proporzioni», una dominanza di forme convergenti e divergenti, di superfici e contorni curvilinei. L’angolo retto, quando non scompare del tutto, si fa implicito, smorzato o nascosto dal fluido flettersi di una direzione in un’altra36, mentre nell’architettura all’unicità 264
del punto di vista frontale si sostituisce la pluralità delle prospettive. Nell’evoluzione formale di Tarkovskij possiamo riconoscere il processo inverso, ovvero l’eliminazione progressiva di tutte quelle scelte che possano condurre l’osservatore a una percezione dinamica; un’evoluzione che, estraniandosi da cinque secoli di cultura artistica occidentale, trae la propria origine in Rublëv e prima ancora, piuttosto che nel lungo, ma a modo suo coerente, arco creativo che va dal Rinascimento alle avanguardie artistiche del Novecento. Volendo ancora cercare un’analogia nella storia dell’arte possiamo accostare l’evoluzione individuale di Tarkovskij al passaggio dall’arte romana a quella paleocristiana: il realismo plastico della prima viene abbandonato a vantaggio di modalità di rappresentazione più stilizzate e smaterializzate in cui l’astrazione dal dettaglio concreto, fisico, lascia spazio a qualità che si sollevano dal contingente, dall’individuale, per evocare la persistenza, l’universalità di una condizione spirituale concepita come più alta. Le stesse qualità che troviamo nelle icone russe, nelle quali inoltre, nota Alpatov, il movimento ha un ruolo ben modesto: La maggior parte delle figure sta dritta, ferma, sicura, immobile, solenne, tranquilla, imperturbabile. Questo è lo stato più costante in cui l’uomo può partecipare a un rito solenne. […] La pittura russa preferisce gli stati duraturi, riposo, contemplazione.37
Una somiglianza interessante è quella fra l’immagine di Kelvin addormentato poco prima della seconda apparizione di Harey in Solaris (fig. 7.4) e il Cristo morto di Mantegna (fig. 7.5), datato pochi anni dopo il Salvator Mundi di Antonello38 e quindi opera rinascimentale. Naturalmente rilevare una tale somiglianza non significa affermare che Tarkovskij abbia voluto citare Mantegna; ogni discussione in merito verrebbe ad appartenere allo sterile ambito delle ipotesi, né qui sarebbe importante. Ciò che invece conta è l’indubbia analogia formale 265
fra le due immagini. Entrambe sono basate su una accentuata fuga di linee prospettiche che proiettano la figura nella terza dimensione, anzi l’immagine di Tarkovskij è in questo senso ancor più dinamica di quella di Mantegna perché tutta costruita su un convergere di linee radiali verso il volto di Kelvin39, mentre l’immagine di Mantegna, pur proiettandosi anch’essa fortemente nella terza dimensione, è affetta ancora da una certa rigidità. Anche il differente rapporto d’aspetto40 delle due immagini, il 2,35:1 dello schermo panoramico usato da Tarkovskij contro il quasi quadrato 1,2:1 di Mantegna contribuisce alla maggiore tensione dinamica della prima immagine e alla conservazione di una relativa staticità della seconda. Scopo di queste considerazioni è notare la natura prevalentemente «rinascimentale» del modo di formare di Tarkovskij in questo suo primo periodo. Una composizione guidata da criteri così fortemente dinamici è al contrario impensabile nel Tarkovskij del secondo periodo così come la composizione dell’opera di Mantegna lo sarebbe stata nella pittura medievale.
Fig. 7.4
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Fig. 7.5
Prendiamo infatti una tipica immagine del secondo periodo, tratta dalla sequenza dell’incontro mistico-magico-erotico fra Aleksander e Maria in Sacrificio (fig. 7.6). L’immagine è esemplare dei canoni stilistici figurativi dell’ultimo Tarkovskij: nessuna direttrice dinamicamente inclinata, nessuna profondità; un unico piano, rigorosamente frontale, su cui sono concentrati simmetricamente tutti gli elementi della composizione. Vanamente si cercherebbe nelle arti visive del Rinascimento un valido punto di riferimento. Rivolgiamoci invece alla pittura di icone russa e confrontiamola con la Dormizione della Vergine41 della figura 7.7. Anche qui abbiamo (ripeto non casualmente le parole precedenti) un unico piano, rigorosamente frontale, su cui sono concentrati simmetricamente tutti gli elementi della composizione. Anche qui nessuna profondità prospettica e una costruzione per direttrici orizzontali e verticali con in più, unica differenza, una costruzione a piramide (simmetrica) della parte 267
centrale, con il vertice nel volto del Cristo. Quest’ultimo elemento è assente nell’immagine di Tarkovskij42, tuttavia abbiamo visto che ritroviamo la struttura a triangolo simmetrico come centro compositivo in un certo numero di altre sue immagini, tanto da poter affermare che fa anch’essa parte del secondo stile. E, come nota Alpatov, la struttura a piramide fa parte degli schemi compositivi tipici della pittura di icone43.
Fig. 7.6
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Fig. 7.7
Ma perché questo modo di formare, in Tarkovskij come in quell’alto ideale creativo che per lui fu, come ben sappiamo, il contesto della pittura di icone russa44? Parliamone aiutati ancora da Alpatov il quale, confrontando un dipinto di Giotto (La Pietà della cappella degli Scrovegni) con un dipinto russo del XV secolo di tema analogo (La Sepoltura della collezione Ostrouchov), così scrive: nella figura di Maria che abbraccia il corpo morto di Cristo, tutti e due i maestri conseguono un’enorme espressività, umanità, nobiltà. Ma in Giotto si tratta di dramma terreno: la possente modellatura delle forme ci fa sentire che tutto l’avvenimento si svolge in terra. Se, nell’icona russa, la tensione non è meno intensa, plasticamente le figure non hanno altrettanto rilievo tangibile, tutto è reso in termini di spirito, la «pietà» non è dramma personale, è un mistero che concerne l’intera umanità. Questo […] vuol segnalare l’esistenza di due vie, ciascuna con le proprie motivazioni, i propri sviluppi e le proprie soluzioni.45
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Le figure di Giotto sono dominate dalla convessità; esse sembrano protendersi nello spazio fra il piano del quadro e lo spettatore, aggrediscono lo spazio come la mano del Salvatore di Antonello. In questo senso la plasticità e il dinamismo coincidono sotto il comune denominatore dell’invasività46. C’è in esse dunque, sotto ogni aspetto, una forza tutta terrena, fisica, carnale che si contrappone alla natura trascendente del soggetto, allo stesso modo in cui una composizione dalle tensioni fortemente dinamiche rimanda all’irrequietezza di un’azione rivolta al mondo fisico, opposta allo stato mentale contemplativo che si assume nella ricerca di un avvicinamento al «trascendente», in qualunque modo lo si voglia intendere. Giotto diede avvio a un processo di evoluzione delle arti in cui il dinamismo (specchio estetico del divenire incessante della vita terrena) e la plasticità (specchio della intrinseca corporeità dell’esistenza terrena), dunque i caratteri formali dell’immanenza, giungono progressivamente al loro massimo grado fino agli esiti parossistici del Futurismo. L’arte europea dei secoli scorsi [scrive Arnheim] persino laddove impiega ancora soggetti religiosi convenzionali, ha espresso una filosofia del concreto, dell’attuale. La concretezza fisica delle figure michelangiolesche, dei ritratti di Rembrandt, degli alberi di Altdorfer interpreta e valuta la vita nei termini dell’esistenza materiale, anziché presentare tale esistenza come il puro oggetto di poteri immateriali.47
Una forma piana e statica rimanda al contrario a una dimensione ulteriore, aliena, immerge lo sguardo in un altro spazio, in un altro tempo allontanandolo da quanto di terreno, materiale possa esservi nel soggetto. È una scelta verso la spiritualità dell’immagine. Che essa sia poi collegabile a una visione di tipo religioso e in particolare a quella religiosità piuttosto che a un’altra, è il soggetto a dircelo: la componente iconografica in un’opera pittorica, la componente narrativa nel cinema, ma è un fatto che quel modo di formare che vediamo da Stalker in poi esprime un tale stato interiore, lo rispecchia visivamente; non così Andrej Rublëv, la cui dimensione visiva è 270
affetta da un’immanenza che diverge dal percorso interiore lungo cui ci guida la componente narrativa. Tarkovskij, da parte sua, definisce «non senza fondamento» la tesi di Pavel Florenskij secondo cui la mancata applicazione da parte degli antichi pittori russi delle leggi ottiche della prospettiva utilizzate dalla pittura rinascimentale italiana sarebbe frutto non dell’ignoranza di tali leggi, ma di una scelta consapevole48. È vero che esse consentivano una corretta rappresentazione della tridimensionalità dello spazio, ma questo poteva benissimo non essere interessante per i pittori di icone: A dire il vero [scrive Tarkovskij, della prospettiva albertiana] sarebbe stato possibile non averne bisogno per il momento, ossia sarebbe stato possibile trascurarla. Perciò la prospettiva inversa nella pittura russa antica, a differenza di quella rinascimentale, esprime l’esigenza di una peculiare messa in luce dei particolari problemi spirituali che si ponevano gli antichi pittori russi, a differenza dei pittori italiani del Quattrocento (a proposito, esiste una teoria secondo la quale Andrej Rublëv si sarebbe recato a Venezia e di conseguenza, non avrebbe potuto ignorare l’elaborazione del problema della prospettiva operata dai pittori italiani).49
Quanto le conclusioni di Florenskij siano condivisibili sul piano storico è un problema che riguarda gli storici dell’arte; a noi qui basterà constatare la loro plausibilità. Del resto, anche in pieno Rinascimento italiano vi furono pittori come Rosso Fiorentino e Pontormo che non usarono la prospettiva e adottarono nelle loro opere una struttura «piatta» dello spazio che li accomuna all’arte medievale. Ma ciò che qui soprattutto ci interessa è che le tesi di Florenskij siano condivisibili sul piano estetico-percettivo: la prospettiva non interessava gli antichi pittori russi perché è un modo di formare che rivolge lo sguardo all’immanenza, adatto a rappresentare eventi «terrestri» e pertanto incompatibile con gli ideali etici che quei pittori erano chiamati a esprimere. È del tutto naturale pertanto che Tarkovskij avesse fatte proprie le tesi del teologo suo conterraneo, che egli percepisse quel modo di formare come in armonia con la propria spiritualità e avesse cercato (e trovato) 271
un suo modo di formare che, con i mezzi del linguaggio cinematografico, esprimesse quella stessa spiritualità degli antichi pittori di icone in cui egli si identificava e che essi espressero con i mezzi della pittura. In questo senso la contrapposizione fra la sobria e immateriale semplicità della pittura medievale russa e il terreno spessore, il rigoglio estetico della pittura rinascimentale europea è la chiave di lettura per comprendere l’evoluzione stilistica di Tarkovskij. A queste tematiche si aggiunge quella del «silenzio cromatico» che permea anch’esso, non casualmente, le ultime tre opere. Pur senza chiamare in soccorso gli iconoclasti, è facile infatti vedere nel ricorso all’intensità cromatica un modo di formare che fa appello alla pienezza delle percezioni dei sensi e dunque nell’arte che ne fa uso, un’arte carnale, terrena. Il silenzio dei colori, l’approdo dunque a una percezione più quieta, concentrata, meditativa, che fa seguito al chiudersi dell’azione narrativa nell’interiorità, è al contrario il richiamo visivo a una dimensione di totale raccoglimento o, nello specifico di Tarkovskij, a quella spiritualità mistica che, come ben sappiamo, era centrale nella sua visione del mondo e dalla quale l’intensità cromatica inevitabilmente distrae.
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Luce e buio Vorrei adesso prevenire un’obiezione che sorge spontanea dal confronto delle immagini della figura 7.6 e 7.7: nell’icona divampano la luminosità e i colori, mentre l’immagine di Tarkovskij è dominata dal buio. Scrive Pavel Evdokimov: «sulle icone non c’è mai una sorgente di luce, perché la luce è il loro soggetto: non si illumina il sole»50. Al contrario, nel secondo stile di Tarkovskij spesso le immagini è come se assorbissero la luce. L’oscurità è il loro soggetto. È del resto proprio con un allontanarsi dalla luce che si conclude la prima fase creativa di Tarkovskij, con quel ritrarsi della macchina da presa verso le ombre della boscaglia nell’ultima inquadratura dello Specchio, che sembra anch’essa quasi un’anticipazione del secondo stile, di tante immagini future giocate sul confine dell’ombra. Non dimentichiamo a questo punto che un’opera pittorica è un’immagine compiuta in sé, mentre un’immagine di un film è parte di un’opera più ampia e la sua completa interpretazione spesso richiede la comprensione dell’opera nella sua totalità. Parliamo allora del contesto in cui queste immagini sono inserite. Perché dunque così tanto buio nel secondo stile? Credo che questa domanda equivalga alla seguente: perché così tanta violenza in Andrej Rublëv? La risposta a quest’ultima è che il protagonista doveva scendere fino al fondo dell’orrore affinché le sue scelte assumessero uno spessore, una profondità assoluti; parlo sia della scelta del silenzio sia di quella, su cui il film si chiude, di uscirne tornando a dipingere. Se la prima non avesse avuto motivazioni così tragiche, la seconda non avrebbe l’intensità di significato che ha. A proposito di Nostalghia, come ho già accennato, Tarkovskij scrive: «Quando vidi per la prima volta tutto il 273
materiale che era stato girato per il film, rimasi colpito dall’impressione di cupa disperazione che da esso promanava. Il materiale era assolutamente uniforme per atmosfera e per lo stato d’animo da cui era improntato»51. Possiamo allora supporre che l’oscurità negli ultimi tre film abbia un ruolo non diverso da quello che la rappresentazione della violenza ha in Andrej Rublëv, che ne sia una sorta di rappresentazione sublimata. In ciascuno di questi film il protagonista compie una sorta di viaggio, innanzitutto interiore, lungo le più remote profondità dell’Ade, ma un viaggio che immancabilmente si conclude con un pacato disfarsi delle tenebre. Tarkovskij non fece mai suo il «non deve essere» di Adrian Leverkühn52: L’arte [scrisse] porta in sé una nostalgia dell’ideale. Essa deve instillare nell’uomo la fede e la speranza, anche se il mondo descritto dall’artista non lascia loro spazio. Anzi, dirò di più: quanto più è cupo il mondo che si crea sullo schermo, tanto più chiaramente si deve avvertire l’ideale posto alla base del sistema teorico dell’artista, e tanto più nitidamente lo spettatore deve intravedere la possibilità di un’apertura verso una nuova altezza spirituale.53
E infatti, nel finale di Stalker non ci sono ombre sulla figura della moglie durante il monologo che ella rivolge agli spettatori, è morbida e calma la luce che avvolge Gorčakov, il cane Dak e la loro casa russa fra le mura di san Galgano nell’ultima inquadratura di Nostalghia; e sono immerse nella luce le ultime inquadrature di Sacrificio. Il buio è dunque il tunnel iniziatico che occorre attraversare per giungere alla luce (interiore).
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Un altro tempo Abbiamo però ancora un importante aspetto da discutere. Ho già notato che nella seconda fase stilistica (ma anche a partire da Lo specchio) il piano sequenza, o piano lungo che sia, prima utilizzato quasi sempre come semplice contenitore del tessuto narrativo, assume un ulteriore, più personale significato. E abbiamo anche visto che spesso ciò accade (non nello Specchio) in concomitanza con la seconda scelta stilistica fondamentale di questa fase: il movimento di macchina estremamente rallentato. Mi riferisco a quei momenti in cui l’azione diegetica, senza mai perdersi del tutto, viene posta in sordina, giusto un’ombra sottile laggiù all’orizzonte, e il flusso del tempo entro gli argini costituiti dai bordi dell’immagine, il flusso del tempo in quanto tale, non più occultato dall’ingombrante succedersi di eventi narrativi, è il soggetto che si dispiega in primo piano nel porsi dell’inquadratura allo sguardo come melodia di immagini. E come la melodia in musica, il piano sequenza così utilizzato è un’entità compatta e indivisibile che prende forma all’interno di un blocco monolitico di tempo dove ogni istante è inseparabile da tutti gli altri, pena la perdita di senso dell’intera struttura. Può esserci o non esserci un andare «da… a…», ovvero una «tensione direzionata» nel tempo, ma, che ci sia o meno, siamo comunque di fronte a un processo unitario in cui questa volta è l’esistenza a prevalere sull’evento. Anche, ripeto, lì dove un divenire connaturato al soggetto c’è. È il caso, ancora una volta, del preludio al primo sogno di Gorčakov in Nostalghia in cui, come ormai sappiamo, si va dal totale al primo piano, ovvero ci si astrae progressivamente dallo spazio entrando con ciò nell’interiorità (onirica) del personaggio. È narrazione? Se tale vogliamo ancora chiamarla, sì, ma narrazione di un’azione interiore, l’analogo cinematografico di 275
ciò che è il flusso di coscienza in letteratura. Soffermiamoci su un altro esempio, questa volta privo di una qualsiasi «tensione direzionata» interna: nello Specchio, il piano sequenza della vita nella casa d’infanzia. Un bambino stacca un lume dal soffitto, un secondo bambino siede su un lenzuolo disteso sul pavimento. Entra in campo la madre che cammina fra le stanze, si volta indietro, dice delle parole che non udiamo, esce all’esterno. Rivediamo, al di là di una porta, il primo bambino che armeggia col lume. Rientra in campo la madre, passa davanti a noi ed esce nuovamente all’esterno, sotto un porticato. La lasciamo per tornare a rivolgerci all’interno, dove il secondo bambino, immerso nel buio, accende un fiammifero. La macchina da presa compie movimenti molto simili a quelli della figura 4.7, si ferma in momenti di attesa e sospensione, riprende il cammino. Il piano sequenza è tutto qui, non vi accade nulla di speciale, dal punto di vista narrativo è pressoché inesistente: è vita che scorre nel fluire del tempo. Simili momenti sono l’equivalente nel dominio del tempo degli aspetti formali che abbiamo prima analizzato nello spazio dell’immagine. Tarkovskij ci immerge in un narrare dove la rappresentazione della cosiddetta azione, ovvero della parte immanente della vita, si è ineffabilmente rarefatta e si è mutata nella messa in musica (d’immagini) di un paesaggio interiore. La diegesi lascia il posto a meditazioni che si fanno immagine, immerse nel silenzio e nel tempo. Un altro tempo. E affinché ciò accada tutto deve fermarsi. Si medita stando immobili, si può ancora meditare in pacato cammino; non si medita in corsa. È a proposito di questi momenti che si avverte come naturale il paragone fra il cinema di Tarkovskij e quel fluire arcaico e senza tempo, quella quiete perfetta fatta suono che sono i canti gregoriani. L’uno e gli altri appartengono a un universo in cui l’irrequieto contrapporsi del prima al dopo, della causa all’effetto lasciano il posto al dispiegarsi uniforme e infinito del sempre. Anche questa è tensione verso il trascendente, ma è anche un altro modo di porsi di fronte alla 276
vita immanente.
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Tarkovskij dopo «Sacrificio» E dopo? Cosa avrebbe fatto Tarkovskij se la morte non glielo avesse impedito? Sappiamo che egli non si arrese mai alla malattia. Il 14 gennaio 1986 scrisse nei Diari: «Questa che sto combattendo è una guerra che devo vincere […] devo rimettermi per qualche anno almeno, in modo da fare qualche altro film»54. Fino alle ultime settimane non cessò di pensare a nuovi progetti o, più esattamente, di sentirne l’esigenza vitale. Quali soggetti avesse in mente ci è noto dalla lettura dei Diari; sul modo in cui egli intendesse realizzarli possiamo invece solo fare ipotesi, tuttavia ciò che abbiamo imparato analizzando l’evoluzione stilistica della sua opera ci consente di congetturare con cognizione di causa. Ma cominciamo dai soggetti. Sono soprattutto tre. Innanzitutto Hoffmanniana, un’idea che egli si portava dietro dal 1975, quando ne scrisse la sceneggiatura, e di cui rimane la suggestiva versione narrativa55, forse il testo più d’atmosfera che Tarkovskij abbia mai scritto; un crepuscolare susseguirsi di visioni, onirismi, dialoghi interiori in cui si respirano inedite atmosfere gotiche. L’Hoffmann di Tarkovskij «è come se trovasse scampo nel mondo delle sue fantasie. Anzi, quel mondo diventa la sua dimora, il suo castello, la sua roccaforte. Lui non è un abitante di questo mondo e di esso non ha bisogno»56. Ma negli ultimi mesi questo soggetto viene messo in ombra dall’urgenza di darsi a temi che egli avverte come più elevati, e infine, il 31 gennaio 1986, giunge la decisione di abbandonarlo: «Se farò un film, se Dio lo vorrà, dovrà essere sull’essenziale e al massimo delle mie capacità. Ho promesso. Nessuna Hoffmanniana. Forse il Sant’Antonio?»57. Sorgono dunque i progetti per la realizzazione cinematografica delle Tentazioni di sant’Antonio di Flaubert e poi del Vangelo. Al Sant’Antonio egli pensava già dal 1981. Il 278
12 novembre lo definisce come «il dramma dell’impossibilità, protési verso la spiritualità, di superare in sé stessi la propria terrigna umanità»58 e il 29 marzo 1982 aggiunge: Ancora e ancora sant’Antonio e le sue tentazioni. Ancora e sempre la stessa cosa! La libertà dell’uomo dispone in questo modo di una specie di diapason, a un capo del quale c’è il male e, all’altro, il bene. E non ho mai sentito parlare di qualcuno che lottasse abbassandosi, cadendo. L’elevazione invece è sempre una lotta.59
Il 27 gennaio 1986 descrive questa scena: Il santo parla con una donna (V. N.) da una sponda all’altra di un fiume. L’acqua scorre calma, lenta e profonda. La donna comincia a parlare a voce alta per via della distanza, poi ripete quello che ha detto sottovoce. Le voci risuonano lontano sull’acqua. Vuole un bambino da lui. Lui le spiega che è impossibile. Lei che è indispensabile. È l’idea di popolare il mondo con i figli dei santi. Lui ride. Tenta di scorgere il volto di lei. Ma è lontana e si vede male.60
E nel primo riferimento al progetto, il 4 novembre 1981, descrive quella che avrebbe dovuto esserne la scena conclusiva: Uno scoppio di irrefrenabili singhiozzi di Antonio (dovuti all’impossibilità di ritrovare l’armonia dentro di sé), che progressivamente diventano soltanto dei sospiri convulsi, con rari singulti, mentre sopravviene gradualmente la calma e, un secondo dopo l’altro, i suoi occhi si impregnano sempre più della prorompente bellezza del mondo: l’alba, la natura raggelata, gli alberi intirizziti, le stelle che si spengono mentre da Oriente la luce dilaga su tanta bellezza della vita. Sant’Antonio, ma anche Tolstoj e Ivan Karamazov e tutti coloro che soffrono d’essere imperfetti.61
Il dramma dell’inadeguatezza umana all’ascesa verso una verità superiore: è questo dunque il Sant’Antonio di Tarkovskij, ma un dramma che si scioglie in una visione pacificatrice della bellezza immanente, forse unica immagine accessibile ai sensi di quella verità che, vuol dirci Tarkovskij, rimane troppo alta per essere svelata. Durante il 1986, col passare dei mesi, si fa sempre più presente nei Diari l’idea di un film sui Vangeli62, cui egli fa riferimento col titolo Golgota. Le note sono frammentarie, esprimono soprattutto i suoi dubbi («ma è veramente "mio" 279
questo progetto? Se davvero lo fosse! Ma ne sarò poi capace?» scrive il 31 gennaio 1986). Il 26 ottobre egli si sofferma infine su questa idea e riporta nei Diari alcune approfondite riflessioni centrate sulla figura di Giuda che egli sente come la più problematica. Ma perché esiste Giuda Iscariota? A che è servito il suo bacio? Si poteva farne a meno con i Sadducei, gli scribi e i Farisei. Perché Giuda? Evidentemente per spiegare con chi Lui aveva a che fare: cioè con gli uomini. L’unico personaggio che porta un inimmaginabile peso psicologico. Giuda è il motivo per cui Gesù deve compiere la sua missione. Un esempio concreto per capire fin dove può arrivare l’uomo nella sua caduta. Qui bisogna scavare più in profondità!63
La tragedia di Giuda, da queste note, sembra essere il vero centro dell’attenzione di Tarkovskij, al punto che anche il suo Gesù ne è intensamente coinvolto: Gesù è costernato di fronte alla necessità implacabile che farà di Giuda un traditore. Egli osserva di nascosto il maturare nella coscienza di Giuda dell’idea del tradimento, vede come Giuda, pieno di stupore, presta orecchio a quest’ispirazione; e Gesù osserva tutto questo con dolore e amarezza. Come chi avesse somministrato del veleno a qualcuno e aspetti ansiosamente che il veleno cominci a fare effetto.64
Il 31 gennaio aveva ipotizzato di rappresentare non tutta la vicenda evangelica ma un solo episodio. Quale? Non lo dice, né sappiamo se perseverò in questo proposito, ma è probabile che esso sarebbe stato proprio questo: il tradimento di Giuda. Non sappiamo altro e soprattutto non sappiamo da quale punto di vista egli avrebbe narrato la vicenda: se, canonicamente, da quello di Gesù o, come fece Giuseppe Berto65, da quello di Giuda. Siamo a soli due mesi dalla morte di Tarkovskij. Da questo punto in poi la nebbia si fa troppo fitta. Fin qui il «cosa». Poniamoci ora la domanda più difficile: come? Qualche suggerimento può forse venirci dall’ultima nota sul Golgota che egli scrisse nei Diari in quel 26 ottobre 1986: Pasolini ricostruiva gli avvenimenti. Bisogna invece creare la poesia degli
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avvenimenti. Il mito. Con una misteriosa profondità. Con una domanda. La profondità non nel realismo di avvenimenti incredibili, ma nella tendenza all’interiorità. Bisogna emanciparsi per sentirsi completamente liberi. Come Bach nelle Passioni.66
È una precisa dichiarazione di poetica in cui Tarkovskij esprime la volontà di giungere fino in fondo nel suo progressivo distacco dall’incombenza di rappresentare l’esteriorità dei fatti, il suo volere al contrario immergersi nella loro essenza, mettere in immagine un universo interiore che si protende verso l’infinito67. Forse perfino Sacrificio gli appariva in quel momento un’opera incerta, non ancora spinta abbastanza in profondità lungo questa direzione. Probabilmente egli vedeva già qualcos’altro, un modo di formare ulteriore. Proviamo ora a estrapolare quella che avrebbe potuto essere la forma del suo mai realizzato nono film partendo dalle tre opere del suo secondo stile. Innanzitutto, possiamo pensare che egli avrebbe mantenuto alcune caratteristiche stilistiche rimaste immutate in esse, e che è dunque verosimile supporre definitivamente stabilizzatesi: il modo di comporre l’immagine, l’uso del colore al limite del bianco e nero e la compresenza con il vero bianco e nero. Poi, il modo di muovere la macchina da presa e una ridotta frequenza delle transizioni. La notevole presenza di movimenti di macchina indipendenti e transizioni distribuite fa pensare alla possibilità di un dissolversi della linea di demarcazione fra gli uni e le altre, mentre la strutturazione dello spazio profilmico della messa in scena per linee rette, in funzione dunque dello spazio filmico, fa pensare anche a un dissolversi (già parzialmente attuato) del concetto di movimento di macchina subordinato. Tutto ciò non è altro che il corrispettivo sul versante filmico di ciò che sul versante profilmico sarebbe il dissolversi del confine fra diegetico ed extradiegetico, fra prosa e poesia. Ma torniamo ai grafici delle classi di durata, da cui abbiamo visto che soltanto Sacrificio presenta una struttura vicina a quella del cinema di piani sequenza. Dall’analisi delle 281
transizioni abbiamo anche visto che solo in Sacrificio esse si concentrano all’interno dei piani, mentre fino a Nostalghia erano equamente distribuite fra secondo e terzo livello. Tarkovskij dunque, pur avendo sempre utilizzato il linguaggio cinematografico in tutto il suo spessore, tendeva verso un cinema raccolto nell’intima struttura del piano, un cinema del piano sequenza puro, ed è dunque pensabile che il suo nono film ne avrebbe avuto per la prima volta fino in fondo la struttura. Concludiamo. Il cinema di Tarkovskij costituisce in un certo senso un paradosso: è un cinema improntato a un’estrema originalità formale, ma che nasce da un pensiero integralmente e coerentemente arcaico, se tale vogliamo considerare la sua distanza dal modernismo contemporaneo. Paradosso che però si spiega facilmente proprio a partire dall’essere Tarkovskij in ogni senso un uomo del medioevo russo, più vicino a Rublëv e Florenskij che a Eco e Joyce. Egli dunque, regista cinematografico, ha dovuto esprimere contenuti molto più antichi del cinema, per i quali esso non aveva mai elaborato, per pure ragioni di non contemporaneità storica, un modo di formare adeguato. La storia del cinema di Tarkovskij è la storia di una disarmonia fra una visione del mondo che attingeva alla «medievalità» della tradizione culturale russa e un’arte troppo giovane per esprimerla; è la storia di questa disarmonia e del suo progressivo sanarsi, nel senso di un progressivo flettersi del linguaggio cinematografico verso un modo di formare che fosse consono a quel modo di porsi di fronte al mondo. Il suo cinema appare dunque così nuovo perché è così intensamente antico. Un ipotetico Tarkovskij compositore avrebbe avuto i suoi punti di riferimento creativi nel canto gregoriano e in Pierluigi da Palestrina, ma il cinema era troppo giovane per offrirgliene di analoghi. Egli allora, nella sua ricerca di una sempre più profonda coerenza fra pensiero e forma artistica, ha dovuto inventarsi, solo e senza appigli, il suo cinema del medioevo russo, il suo linguaggio visivo sempre più estraniato da ogni immanenza, il suo canto gregoriano fatto di immagini. E ha 282
dovuto farlo in un secolo, contro un secolo cui era profondamente estraneo e cui estranea è ogni sillaba della sua poetica visiva. Ma Tarkovskij è morto all’età di cinquantaquattro anni, ovvero a circa due terzi di quella che è la vita media umana; la sua è dunque un’opera incompiuta. Gli ultimi tre film, pur nella loro effettiva affinità stilistica, non sono ancora un punto di arrivo; già l’evidente diversità dei tre ultimi grafici delle classi di durata (figg. da 2.12 a 2.14), e la precisa linea evolutiva che essi individuano, lascia pensare che un ulteriore passo verso una diversa concezione del tempo estesa a tutti i livelli sintattici fosse alle porte nel 1986. Una concezione che possiamo intravedere nel piano sequenza iniziale di Sacrificio, con la sua struttura temporale rigorosamente chiusa in sé e uniformemente tripartita, così come in Lo specchio, la conclusione del secondo piano lungo dell’incendio accennava alla svolta stilistica di Stalker. Sono nove minuti in cui l’unico, tenuissimo accenno di tensione è il lento passare dei tre personaggi dal campo lungo al medio nei tre minuti centrali (fig. 4.10). Nove minuti fra i più semplici e distesi del cinema di Tarkovskij, che non si ripeteranno nelle sequenze successive dove abbiamo visto che si rifà presente quell’irrequieta frattura nel flusso del tempo che è lo stacco fra i piani. Da questi nove minuti è verosimile supporre che sarebbe germogliato il terzo stile, il punto di arrivo mai scritto del viaggio visivo di Tarkovskij. Ma se così è, non lo sapremo mai. 1
R. Arnheim, Verso una psicologia dell’arte, Einaudi, Torino 1972, p. 26. 2 Naturalmente la lettura di questo paragrafo non è da considerarsi obbligatoria. Il lettore che non ha dubbi sul fatto che una struttura visiva (o, equivalentemente, sonora) possa esprimere può tranquillamente saltarlo. 3 Arnheim, Verso una psicologia dell’arte cit., p. 52. 4 Ivi, p. 52. 5 Ivi, p. 74. 6 Ivi, p. 75. 7 Ivi, pp. 88-89.
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Ivi, p. 89. Ivi, p. 94. 10 Ivi, p. 94. 11 «La linea fluttuante di un berretto in un ritratto di Rembrandt può essere dinamica quanto la gonna di una ballerina disegnata da Toulouse-Lautrec, sebbene ben si sappia che il berretto è immoto, mentre la gonna si muove» (ivi, p. 103). 12 Ivi, pp. 95-96. 13 Ivi, pp. 97-98. 14 Ivi, p. 126. 15 Ivi, p. 124. 16 Ivi, p. 126. 17 Ivi, p. 166. 18 Del resto, anche nel caso di simmetrie perfette l’asse di simmetria non ha mai, in quanto centro attrattore, un ruolo forte come lo ha l’imboccatura del pozzo nel caso della figura 7.1. 19 Equivalente in bianco e nero di ciò che in un’immagine a colori è una elevata dinamica cromatica. 20 Questo dato è riferito ai soli 4 piani ambientati nella casa di Vittorio, la cui durata media è di 45 secondi; il precedente ai soli 8 piani del sogno, la cui durata media è di 13 secondi e in cui tre transizioni sono interne ai piani. 21 Che non sia quella, intrinsecamente statica, generata dalla presenza di un asse di simmetria. 22 L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Sansoni, Firenze 1974, pp. 34-35. 23 A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano 1988, pp. 91-93. 24 Ivi, p. 106. 25 Ivi, p. 41. Possiamo dire che l’episodio La campana di Andrej Rublëv, in cui un ragazzo che nulla sa dell’arte di fondere campane ne realizza una assolutamente perfetta, illustra questa visione dell’atto creativo. 26 Arnheim, Verso una psicologia dell’arte cit., p. 349. 27 Ivi, pp. 348-49. 28 A. Tarkovskij, Martirologio. Diari, Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij, Firenze 2014, p. 148. 29 Tarkovskij, Scolpire il tempo cit., p. 180. 30 Arnheim, Verso una psicologia dell’arte cit., p. 85. 31 Ivi, p. 100. 32 Ivi, p. 85. 33 Tarkovskij, Martirologio cit., p. 137, 25 dicembre 1974. 34 Ivi, p. 139, 7 gennaio 1975. Tarkovskij si riferisce qui a Stalker con il titolo Picnic perché il suo soggetto è tratto dal racconto dei fratelli Strugatskij Picnic sul ciglio della strada. 35 Arnheim, Verso una psicologia dell’arte cit., p. 165. 9
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Arnheim, Verso una psicologia dell’arte cit., pp. 100-101. Arnheim nota anche che «Un’evoluzione consimile può riscontrarsi, ad esempio, nella scultura greca. Qui la composizione delle opere arcaiche si fonda sulla verticale e sull’orizzontale. L’orientamento frontale delle figure comporta la simmetria. Le membra sono in riposo, o attive solo in scarsa misura. Più tardi, il fattore del movimento risulta sottolineato dall’uso crescente delle direzioni oblique. La posizione delle figure diviene asimmetrica, il corpo si torce, l’orientamento spaziale dei piani cambia in ogni punto. Divengono più frequenti le linee e i volumi curvi, e le forme si sovrappongono. Vi sono continui mutamenti di direzione. Le membra sono flesse e in azione.» 37 M. Alpatov, Le icone russe, Einaudi, Torino 1976, pp. 152, 199. 38 Il Salvator Mundi è datato fra il 1465 e il 1475, il Cristo morto fra il 1475 e il 1478. 39 Cui seguirà, sul secondo livello, un convergere del campo sul suo volto tramite carrellata in avanti. 40 Rapporto fra base e altezza di un’immagine. 41 Dormizione della Vergine, inizio XIII sec., tempera su tavola, 155 x 128 cm, Mosca, Galleria Tret’Jakov. 42 È vero che potremmo vederne un equivalente nella gamba sollevata di uno dei due personaggi, ma mi sembra in questo caso un’analogia piuttosto incerta. 43 Alpatov, Le icone russe cit., p. 278. Ma in realtà si ritrova anche nella pittura occidentale fino a tutto il Rinascimento. A piramide, ad esempio, è strutturata la metà inferiore dell’Adorazione dei magi di Leonardo citata in Sacrificio. 44 «La tradizione iconografica russa si situa a un livello inarrivabile, forse al di sopra dell’arte del Rinascimento italiano» (A. Tarkovskij, La forma dell’anima, Rizzoli, Milano 2012, p. 139). 45 Alpatov Le icone russe cit., p. 265. 46 Interessanti a questo proposito le considerazioni di Arnheim sulla presenza di concavità nella scultura di Henry Moore (Arnheim, Verso una psicologia dell’arte cit., p. 307). 47 Arnheim, Verso una psicologia dell’arte cit., p. 57. 48 Una tesi analoga viene esposta nel cap. XXVIII del Doctor Faustus di Thomas Mann (Mondadori, Milano 1984, p. 338), e anche Arnheim la pensa nello stesso modo: «La storia dell’arte non è proprio nulla più che la storia del graduale miglioramento di una falsa rassomiglianza con la natura? I mutamenti nelle concezioni artistiche della natura non derivano forse dal mutare degli atteggiamenti nei riguardi della vita e del mondo? […] Ad esempio, secondo le norme dell’arte medievale, un volto umano ritratto nella propria individualità sarebbe apparso indebitamente particolareggiato, ai fini di rappresentare la santità, la regalità o le sofferenze della passione. Occorse un interesse nuovo alle manifestazioni specifiche della natura umana, perché tali elementi venissero considerati accettabili, pertinenti, e invero necessari» (Arnheim, Verso una psicologia dell’arte cit., p. 199 e 204). 49 Tarkovskij, Scolpire il tempo cit., p. 77. 50 P. Evdokimov, Teologia della bellezza, cit. in S. Salvestroni, Il cinema di Tarkovskij e la tradizione russa, Edizioni Qiqajon, Magnano (BI) 2005, p. 172.
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Tarkovskij, Scolpire il tempo cit., p. 180. Protagonista del Doctor Faustus di Thomas Mann. Egli dice questa frase, come negazione di ogni speranza nell’esistenza, nella salvezza, dopo la morte per meningite del nipotino Echo. 53 Tarkovskij, La forma dell’anima cit., p. 28. Concetto analogo Tarkovskij esprime in Scolpire il tempo cit., p. 174 e in particolare, a proposito di Andrej Rublëv, a p. 152. 54 Tarkovskij, Martirologio cit., p. 584. 55 In id., Racconti cinematografici, Garzanti, Milano, 1994, pp. 137-184, traduzione di Norman Mozzato. 56 Tarkovskij, Martirologio cit., p. 148, 3 luglio 1975. Inutile dire che la sceneggiatura fu bocciata dal Goskino. 57 Ivi, p. 590. 58 Ivi, p. 382. 59 Ivi, p. 411. 60 Ivi, p. 588. 61 Ivi, p. 379. 62 Particolare attenzione probabilmente egli rivolse al Vangelo di Luca, «assai poetico e scritto molto armoniosamente» (ivi, p. 610) e più volte nomina il «Vangelo secondo Steiner» ovvero il testo di alcune conferenze che Rudolf Steiner tenne sui Vangeli a partire dal 1910. 63 Ivi, p. 612. 64 Ivi, p. 611. 65 Nel romanzo La gloria, Mondadori, Milano 1978. 66 Tarkovskij, Martirologio cit., p. 612. 67 Ancora una analogia con la pittura d’icone: «I pittori [russi] non tentavano di riprodurre quanto l’occhio umano vede, limitandosi a raffigurare una piccola parte del visibile, aspiravano a farlo in modo tale che ci si potesse fare un’immagine dell’intero mondo» (Alpatov, Le icone russe cit., p. 180). 52
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Oltre
Se avessi scritto un saggio su Kubrick o Antonioni, giunto a questo punto avrei potuto mettere la parola «fine» e null’altro aggiungere, ma nel caso di Tarkovskij è diverso. Nelle pagine precedenti abbiamo, per usare le sue stesse parole, «smontato» (e rimontato) «il giocattolo» e abbiamo con ciò imparato certamente tanto sulla sua opera. Questo tuttavia ci aiuta soltanto a comprendere il suo cinema. Sappiamo però che per Tarkovskij l’opera d’arte non è da comprendere, cioè da penetrare con i mezzi della ragione, bensì da vivere. Torniamo a sfogliare i suoi Diari. Il 21 aprile 1982 egli scrive: «Tutto quello che ho fatto non è cinema e i miei film non sono da vedere. Vanno sofferti con me, ma chi mai è in grado di farlo?»1. Tarkovskij stava lavorando in quei mesi a Nostalghia, che sarebbe stato certamente, fra tutti, il suo film più sofferto; non è dunque casuale che proprio allora egli abbia posto l’accento sull’intensità esistenziale della sua opera, e bisogna riconoscere che essa da questo libro è assente. Per quanta fiducia si possa avere nei mezzi della ragione (e io sono fra coloro che ne hanno), è inevitabile che per trovare la chiave di un percorso creativo bisogna assumere il punto di vista di colui che ne è l’artefice. Questo significa, nel nostro caso, che per giungere al cuore dell’opera di Tarkovskij bisognerebbe essere Tarkovskij, ma ciò è chiaramente impossibile. Più realistico è pensare di specchiare il suo percorso esistenziale nel proprio. Queste due visioni, l’oggettiva che mira a comprendere le opere, e che ha guidato le precedenti pagine, e la soggettiva che mira a viverle, ovvero a penetrarle 287
attraverso la vita e a penetrare attraverso esse la vita, nel caso di Tarkovskij si completano in realtà a vicenda. Questo libro è dunque una tappa di un cammino più vasto: il viaggio comincia lì dove esso finisce. 1
A. Tarkovskij, Martirologio. Diari, Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij, Firenze 2014, p. 427.
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Filmografia
La filmografia più completa e affidabile in edizione italiana, comprendente anche le regie teatrali e radiofoniche, è quella riportata in appendice ai Diari1. Rimandando a essa il lettore per informazioni più dettagliate, mi limito qui a riassumere i dati fondamentali di ciascun film. 1960 Il rullo compressore e il violino Col., 43’, 1.33/1. Sceneggiatura: A. Mikhalkov-Končalovskij, A. Tarkovskij. Fotografia: V. Jusov. Musiche: V. Ovčinnikov. Montaggio: L. Butuzova. Scenografia: S. Agojan. Interpreti: I. Fomčenko (Sacha), V. Zamjanskij (Sergej). 1962 L’infanzia di Ivan B/n, 95’, 1.33/1. Sceneggiatura: V. Bogomolov, M. Papava. Fotografia: V. Jusov. Musiche: V. Ovčinnikov. Montaggio: L. Fejginova. Scenografia: E. Černjaev. Interpreti: N. Burljaev (Ivan), V. Zubkov (cap. Kholin), E. Žarikov (ten. Galtsev), V. Maljavina (Maša), S. Krylov (capor. Katasonyč), N. Grin’ko (col. Grjaznov). 289
1966 Andrej Rublëv B/n e col, 185’, 2.35/1. Sceneggiatura: A. Mikhalkov-Končalovskij, A. Tarkovskij. Fotografia: V. Jusov. Musiche: V. Ovčinnikov. Montaggio: A. Tarkovskij, L. Fejginova et al. Scenografia: E. Černjaev. Interpreti: A. Solonicyn (A. Rublëv), N. Grin’ko (Danijl), I. Lapikov (Kirill), N. Sergeev (Teofane), M. Kononov (Fomà), I. Rauš-Tarkovskaja (la sordomuta), N. Burljaev (Boriska). 1972 Solaris Col. e b/n, 166’, 2.35/1. Sceneggiatura: A. Tarkovskij., F. Gorenstein. Fotografia: V. Jusov. Musiche: E. Artem’ev, J. S. Bach. Montaggio: A. Tarkovskij, L. Fejginova. Scenografia: M. Romadin. Interpreti: D. Banionis (Kelvin), N. Bondarčuk (Harey), J. Jarvet (Snaut), A. Solonicyn (Sartorius). 1974 Lo specchio Col. e b/n, 105’, 1.33/1. Sceneggiatura: A. Tarkovskij., A. Mišarin. Fotografia: G. Rerberg. Musiche: E. Artem’ev, J. S. Bach, G. B. Pergolesi, H. Purcell. Montaggio: A. Tarkovskij, L. Fejginova. Scenografia: N. Dvigubskij. Interpreti: A. Solonicyn (lo sconosciuto), M. Terekhova (Natalja e la madre giovane), M. Tarkovskaja (la madre anziana), I. Danilzev (Ignat e Aleksej a 12 anni), O. Jankovskij (il padre). 290
1979 Stalker Col. e b/n, 161’, 1.33/1. Sceneggiatura: A. Tarkovskij, A. e B. Strugatskij. Fotografia: A. Knjažinskij. Musiche: E. Artem’ev, M. Ravel, L. van Beethoven. Montaggio: A. Tarkovskij, L. Fejginova. Scenografia: A. Tarkovskij. Interpreti: A. Kajadanovskij (Stalker), A. Solonicyn (Scrittore), N. Grin’ko (Professore), A. Frejndlikh (Moglie). 1983 Nostalghia Col. e b/n, 120’, 1.85/1. Sceneggiatura: A. Tarkovskij, T. Guerra. Fotografia: G. Lanci. Musiche: L. van Beethoven, G. Verdi, canto popolare russo. Montaggio: E. Marani, A. Salfa. Scenografia: A. Crisanti. Interpreti: D. Giordano (Eugenia), O. Jankovskij (Gorčakov), E. Josephson (Domenico), P. Terreno (Marija). 1986 Sacrificio Col. e b/n, 149’, 1.85/1. Sceneggiatura: A. Tarkovskij. Fotografia: S. Nykvist. Musiche: J. S. Bach, musica strumentale giapponese, canti di pastori svedesi. Montaggio: A. Tarkovskij, M. Leszczylowski. Scenografia: A. Asp. Interpreti: E. Josephson (Aleksander), A. Edwall (Otto), S. Wollter (Victor), S. Fleetwood (Adelaide), G. Gísladóttir (Maria), F. Franzén (Marta), V. Mairesse (Jiulia), T. Kjellqvist (Ometto). 291
1
A. Tarkovskij, Martirologio. Diari, Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij, Firenze 2014, pp. 666-669.
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Indice
Introduzione 1. Il metodo L’identità di forma e contenuto La diversità fra soggetto e contenuto Un modello a tre livelli dell’opera cinematografica Il cinema come arte del tempo Registrare il tempo Il piano come sede del ritmo Subordinazione del terzo livello al secondo Funzione del montaggio Il piano sequenza come scelta etica Ad esempio Tuttavia Il simbolo proibito 2. Una frenata brusca Una prima visione «satellitare» Piano sequenza ma non troppo Le due fasi stilistiche secondo Tarkovskij 3. La poetica dell’immagine Premessa Alla ricerca di un linguaggio visivo L’immagine trovata Evoluzioni Inquadrature plongée 293
Composizione circolare Inquadrature d’interni Composizione simmetrica Figura umana in un paesaggio 4. Lo spazio e il tempo La notazione Un concetto unitario di visibilità spaziale e temporale L’immagine nel tempo Da «Il rullo compressore e il violino» a «Lo specchio» Da «Stalker» a «Sacrificio» 5. Il mosaico fatto di tempo (Prima parte) Premessa Alcune definizioni Verso un’altra idea di montaggio Studio delle transizioni Le transizioni distribuite 6. Il mosaico fatto di tempo (Seconda parte) Il periodo giovanile La prima maturità Il secondo stile 7. Verso l’icona Immagine ed espressione Riassumiamo Le ragioni del silenzio Storicizzazione Cinema e pittura, Medioevo e Rinascimento Luce e buio Un altro tempo Tarkovskij dopo «Sacrificio» Oltre 294
Filmografia
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Fig. I - Il rullo compressore e il violino
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Fig. II - H. W. Fisk, Ritratto di bambina, olio su tela, cm. 70 x 91
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Fig. III - Il rullo compressore e il violino
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Fig. IV - Il rullo compressore e il violino
Fig. V - Andrej Rublëv
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Fig. VI - Andrej Rublëv
Fig. VII - Andrej Rublëv
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Fig. VIII - Solaris
Fig. IX - Solaris
Fig. X - Solaris
301
Fig. XI - Solaris
Fig. XII - Solaris
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Fig. XIII - Lo specchio
303
Fig. XIV - Lo specchio
Fig. XV - Lo specchio
304
Fig. XVI - Lo specchio
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Fig. XVII - Stalker
Fig. XVIII - Stalker
306
Fig. XIX - Stalker
Fig. XX - Nostalghia
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Fig. XXI - Nostalghia
Fig. XXII - Nostalghia
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Fig. XXIII - Sacrificio
Fig. XXIV - Sacrificio
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