Il fuoco, l'acqua, l'ombra. Andrej Tarkovskij: il cinema fra poesia e profezia


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Il fuoco, l'acqua, l'ombra. Andrej Tarkovskij: il cinema fra poesia e profezia

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Lo sfondo religioso del cinema di Tarkovskij Thomas Spidlik

Parlando dello sfondo religioso di Tarkovskij, vorrei, sin dall’inizio, evitare un equivoco. In quale senso deve essere intesa questa religiosità? Essa va intesa nello stesso senso di quella cui si allude quando si parla della religiosità di Do­ stoevskij, di Solgenitsin ed altri. Nella cultura dell’Europa occidentale, un autore religioso si presenta spesso sotto questa forma: ha le sue ferme convinzioni religiose, osserva, presenta e giudica la realtà dall’altezza della sua persuasione. Del tutto diverso è l’atteg­ giamento di Dostoevskij. Al centro della sua attenzione non vi è il cristianesi­ mo, neppure Dio, ma l’uomo concreto, così com’è, con tutti i suoi difetti: un ubriacone, una prostituta, un razionalista, un impiegato servile ecc. Ma tutti sono uomini e con tutta l’anima cercano di risolvere i loro problemi umani. Non vi riescono e così tormentano se stessi e gli altri perché l’uomo, in se stes­ so, è un enigma insolubile. La sua persona ha uno sfondo misterioso: demo­ niaco o divino. Allora, per comprendere l’uomo, bisogna avventurarsi in que­ sta regione del mistero che è, per gli scrittori russi, essenzialmente cristiano, perché è il mistero dell’uomo-Dio. In questo senso, credo, si deve vedere anche la religiosità dei film di Tar­ kovskij. Egli è, senza dubbio, un autore molto originale. E sono forse pochi, come lui, inconsapevolmente legati all’antica tradizione spirituale russa con le sue note caratteristiche. Sarà diffìcile, in una breve conferenza, presentarla. Ma proviamo almeno a sottolinearne alcuni tratti fondamentali che ci aiuteranno a comprendere Tarkovskij.

La spiritualità ontologica

Il termine è stato diffuso da Pavel Evdokimov 1 che afferma che la santità on­ tologica si oppone alla santità morale adottata in Occidente. Qui è santo colui al quale non si possa rimproverare nulla dal punto di vista morale. E inserito negli schemi delle virtù tradizionali. I russi hanno avuto sempre la coscienza del fatto che l’aspetto morale è solo una manifestazione, non sempre infallibile, di qualche cosa che è più pro­ fondo; al di là dei fenomeni empirici e razionali vi è una forza operante nel mondo e soprattutto negli uomini: lo Spirito. Spesso, a questo proposito, vie­ ne citato un famoso brano tratto dalla vita di Serafino di Sarov ( t 1833),2 un santo molto popolare in Russia. Egli, ad un tale che si recò da lui, spiegò il mistero della vita spirituale in questi termini: « Essi [i preti] ti hanno detto: ‘Va’ in chiesa, prega Dio, osserva i comandamenti di Dio, fa’ del bene. Ecco per te il fine della vita cristiana!’ Non ti hanno parlato a dovere. La preghiera, 1 P. Evdokimov, La novità della vita, Milano 1979, p. 111.

2 T. SpidJfk, 1 grandi mistici russi, Roma 1977, pp. 173 sgg.

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il digiuno, le veglie e tutte le altre opere del cristiano, per eccelse che possano essere, non sono, in quanto opere, lo scopo della vita cristiana, sebbene siano mezzi indispensabili per conseguirlo. Il vero fine della nostra vita cristiana con­ siste nell’acquisire lo Spirito di Dio. » In quel « Colloquio » si presentò del tutto logicamente la domanda: « Le buone opere sono visibili, ma come si può vedere lo Spirito Santo? Come sape­ re se è in me o no? » Secondo la testimonianza del protagonista, egli fu» in seguito, capace di sentire, « vedere » lo Spirito con l’aiuto prodigioso dello sta­ rei Seraphim. Ma è pericoloso fondare la vita quotidiana sulle visioni prodigiose. D’altra parte l’uomo non può vivere senza rendersi conto della realtà nella quale vive. Se questa realtà è « Spirito », dobbiamo avere qualche visione spirituale del mondo. Di questa necessità erano convinti gli autori russi: non solo gli eccle­ siastici, ma anche i profani. Citiamone almeno uno di entrambe le « correnti ». G.S. Skovoroda (f 1794)3 può essere considerato il precursore della fi­ losofia russa. Da giovane cercò di liberarsi dal predominio della cultura eccle­ siastica del suo paese. Studiò con entusiasmo le scienze naturali e volle conver­ tire i suoi contemporanei a una visione empirica e scientifica del mondo. Ma più studiava i fenomeni, più si rendeva conto che la realtà si « spezzava » da­ vanti ai suoi occhi. Alla fine, ammise apertamente che al di là dell’esperienza dei sensi si deve scoprire l’unico possibile principio di unione viva che è il divi­ no Verbo o Logos. Infatti, nel quadro delle sue vedute cosmologiche, « Cristo è la legge interna del mondo ». Indirizzandosi alle creature, Skovoroda escla­ ma: « Dietro al vostro cattivo sole troveremo quello nuovo e magnifico: si fac­ cia luce!... Egli ci grida: Rallegratevi! Siate fiduciosi! La pace sia con voi! Non temete! Io sono la luce per l’idolo del sole e del suo mondo. Chi ha sete venga a me e beva. »4 Come esempio dell’altra « corrente » può esserci utile un autore tipicamente spirituale, Teofane il Recluso ( f 1894).5 Per questo autore la scoperta del sen­ so spirituale del mondo non dovrebbe essere tanto difficile, perché tutti abbia­ mo un « senso estetico », senso della bellezza, senso per l’unità. Questo « sen­ so estetico » suscita in noi, da una parte la scontentezza per tutto ciò che vedia­ mo, una triste malinconia; d’altra parte, però, ci dà la sicurezza che il mondo deve avere un senso. Se non lo si trova, si è come un affamato che corre a destra e a manca in cerca del cibo, l’unico che gli conviene. Non è forse questa ricerca « estetica » del senso spirituale del mondo che si trova in tutti i film di Tarkovskij?

La spiritualità vitale Lo Spirito è la vita: non può, quindi, essere espresso in maniera compiuta con termini astratti. Pavel Florenskij scopre quest’atteggiamento speciale già nel­ l’analisi filologica del termine « verità ».6 La parola « verità » è molto signifi­ cativa per comprendere la mentalità di vari popoli. 11 termine latino veritas è 3 Ivi, p. 329. 4 Ibidem. 5 T. Spidlfk, La doctrine spirituelle de Tbéophane le Reclus. Le Coeur et TEsprit. Ro-

ma 1965. 6 P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità. Milano 1974, pp. 55 sgg.

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piuttosto sacro. Ha la stessa radice del tedesco wehren. impedire e del latino verenda. La verità è un mistero» un tabù. Al contrario, del tutto profano è il termine greco aletheia\ significa ciò che è uscito dalla dimenticanza, significa la scoperta, la verità scientifica. Il termine slavo per dire < verità > è istina. Ha la stessa radice del latino est, Ncsq è ciò che esiste. Ma è anche vicino al sanscri­ to asthmì che significa aspirare, vivere. Gli slavi hanno sempre fortemente av­ vertito che quanto esiste deve essere vivo. La verità è la vita. Ciò che è vivo si muove. La vita è una vibrazione: arrestarla significherebbe uccidere. Avendo davanti agli occhi questa considerazione, facilmente possiamo comprendere l’i­ tinerario spirituale di tanti pensatori russi del secolo scorso. Quanti di essi furo­ no affascinati daH’hegelismo tedesco, dalla perfezione delle idee pure. Ma, pla­ cato il primo entusiasmo, intervenne una crisi: la riconversione dalle idee alla vita che sfugge le idee. Purtroppo questa scelta della verità viva reca un altro grave pericolo. La vita che si muove, che cambia, è assoggettata alla morte. Le idee sono eterne, la vita muore. Eppure i cristiani credono alla vita eterna. Non vi è forse una contraddizione? Dio è eterno perché è immobile; le idee, le verità astratte si dicono eterne perché partecipano a questa immobilità. Come potrebbe essere eterno il ritmo della vita? A questa domanda, che si presenta ai teologi come un grande problema, la teologia russa diede una propria risposta. Essa non chia­ mò la verità semplicemente Dio, come gli scolastici. La verità è Cristo. Cioè, non è una pura idea, non è solo una « prima causa > di tutto l’universo, ma è una persona viva che regna per tutti i secoli. Cristo è la verità viva, nasce e muore, soffre e gioisce ed è anche eterno. È una contraddizione? Cristo è una < forza > che riesce a conciliare sul piano logico ciò che sembrerebbe inconci­ liabile. 7 Come esempio possiamo citare V.G. Belinskij ( f 1848).8 Un tempo, Belinskij credeva all’Assoluto in senso hegeliano. Ma sopraggiunse una crisi inte­ riore. L’Assoluto di Hegel può spiegare forse il senso dell’universo quando si pensa in maniera astratta, teoretica, ma non consola gli individui che soffrono e che muoiono. Per gli esseri umani l’unica salvezza si trova nella croce di Cri­ sto e nella sua resurrezione, che è il punto centrale della storia dell’umanità. « Per il rinnovamento dell’umanità era necessario che questo caos di morte e di putrefazione apprendesse la parola del Figlio dell’uomo, parola piena di gra­ zia: ‘Venite a me voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò’. Era necessario, per distruggere questo colossale potere (si parla del mondo antico greco-romano), per dividerlo con la spada in una moltitudine di poteri, che le folle dei barbari accettassero il Verbo e andassero, ciascuno per la propria via, verso un unico fine. > Il valore della vita, il fascino della vita concreta nelle sue manifestazioni storiche, la sete della vita che abbia un senso e una fonte nell’eternità: questo è il valore costante in Belinskij. « L’eternità non è un sogno; non è un sogno nemmeno la vita che le serve di gradino! C’è molto di brutto in essa, ma c’è ancor più di bello. Ci sono in essa debolezze, vizi e misfatti, ma ci sono anche lacrime di pentimento, ardenti e insieme consolanti, lacrime di pentimento, a mezzanotte inoltrata, davanti alla Croce di Colui che fu crocifisso per noi. C’è la caduta, ma c’è anche il rialzarsi. C’è la tensione, ma c’è anche il rag­ 7 T. Spidlfk, 1 grandi mistici russi, eh., pp. 327 sgg.

8 Ivi, pp. 333 sgg.

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giungimento. Ci sono minuti amari, micidiali, minuti di dubbio e di dispera­ zione, minuti di distruttiva disarmonia con se stessi, di ripugnanza contro la vita, ma ci sono anche minuti inebrianti di fede, quando nel petto si fa sentire un tal calore, nell’anima tanta luce, e la vita diventa così bella, così piena, così identica alla felicità; ci sono delle sofferenze profonde, insopportabili, ci sono delle miserie che eccedono la misura della pazienza e convertono per noi la ter­ ra in un inferno, dove s’ode stridor di denti, donde spira un soffio di fredda umidità sepolcrale, dove non c’è né uscita né fine; ma da questo mondo di distruzione e di morte si fa sentire all’anima una voce consolante: ‘Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, ed io vi ristorerò. Prendete sopra di voi il mio giogo, e imparate da me clje sono mansueto e umile di cuore: e troverete riposo per le anime vostre. Poiché soave è il mio giogo, e leggero il mio carico’. Allora l’anima di nuovo si riempie di felicità inesplicabile, ed il cimitero, con la vita degli estinti in putrefazione, si converte per essa in una tranquilla valle di quiete, dove le tombe sono coperte di erbe e fiori, ombreg­ giate da salici piangenti, dove il mormorio del limpido ruscello si confonde con il fruscio sommesso dell’aria, ma lontano, dietro la montagna, diventa vi­ sibile l’orlo del cielo della sera, illuminato, bagnato dai raggi porporini del so­ le che tramonta, e le sembra in questa solenne calma di contemplare il mistero dell’eternità, che vede come una nuova terra e un nuovo cielo. >

La verità come una Omni-unità Con questo termine, V. Soloviev ha designato il criterio della verità: 9 vero è ciò che riesce a conciliare tutto. Segno che una cosa è giusta, è che non si oppo­ ne alle altre, ma costituisce il loro compimento, il loro sviluppo. Ciò vale per le persone e per le cose. Per quanto riguarda le persone basta ricordare il famo­ so detto di Chomiakov: < All’inferno ci va ognuno per conto suo, in paradiso si può andare solo con gli altri ».10 La persona, afferma P. Florenskij, non è l’or­ ribile, aristotelica indipendenza da tutti e da tutto, ma, al contrario, una miste­ riosa relazione con tutti e con tutto. Le cose del mondo, in se stesse, sono isolate, ma l’uomo, che cercali loro misterioso nesso, aiuta il mondo materiale ad usci­ re dalla propria solitudine e morte. La verità, perciò, nel suo senso più profon­ do, non può essere la cartesiana idea clara et distincta ah quavù alia. È in nesso con tutto; è dinamica, ma, soprattutto, è un mistero che si trova solo in una ricerca continua. Erland Josephson, l’attore svedese che interpreta Domenico in Nostalghia afferma: < Tarkovskij è un uomo che adora il mistero e il segreto. Lo spettatore deve poter creare il proprio racconto [...]. Durante la preparazione del film, Tarkovskij spiega riga per riga il testo della sceneggiatura. Poi, durante le ri­ prese, il tutto viene decantato ed egli realizza una nuova alchimia ». 11 In al­ tre parole è lui che cercava di afferrare la dinamica della verità e non il testo scritto e fisso della sceneggiatura. Per afferrare una tale verità bisogna liberarsi dallo spirito schiavo continuamente condannato a correggere bozze, come ap9 V. Soloviev. Fondamenti spirituali del­ la vita, in Opere (in russo), vol. Ili, Bruxelles 1966, p. 365. 10 T. Spidlfck, l grandi mistici russi, eie,

p. 332. 11 Intervista in « Cahiers du cinema ». n. 369, aprile 1985, p. 15.

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pare nel film Lo specchio. E, in Stalker, bisogna arrivare alla zona della libertà eludendo la sorveglianza di coloro che la controllano. O, come disse lo stesso Tarkovskij: < Cercare la verità significa seguire le esigenze spirituali dell’uo­ mo »,12 che lo conducono attraverso la molteplicità e variabilità dei fenomeni della vita. La spiritualità personalistica

Dato che la vita è eterna mobilità, non può essere racchiusa in un sistema, in una somma di nozioni. Solo la persona viva riesce a fare una sintesi delle mol­ teplici manifestazioni della realtà fluida. Perciò anche Cristo non può diventa­ re un « cristianesimo », un catechismo. Egli è la vita e allora deve vivere. Ed egli vive specialmente in quelle persone che da parte della natura sono state dotate della possibilità di dare la vita, cioè nelle madri cristiane. La migliore immagine di Dio Padre è la madre umana. Un esempio eloquente di questa riflessione lo troviamo nel fondatore del movimento slavofilo A.S. Chomiakov (t I860), che diede un’impronta deci­ siva al pensiero religioso russo del secolo scorso.13 Chomiakov proveniva da un ambiente familiare colmo di incoerenze, ma tenuto in armonia da una madre meravigliosa. Più tardi fece molti studi e riconobbe che l’Europa occidentale era, per molti aspetti, incomparabilmente più progredita della Russia. Nono­ stante ciò, vi erano molte divisioni ideologiche e travagli che nella sua famiglia egli non aveva potuto conoscere. Quale il motivo di questa diversa esperienza? La risposta gli parve semplice. La civiltà europea è alla ricerca di un’unità ideo­ logica, mentre a casa sua il principio dell’unità in famiglia era la madre. La verità viva non la si può costringere dentro le ideologie: da ciò nascono i con-x flirti. La sintesi della vita può essere fatta solo da una persona viva. Per vedere^ la verità bisogna avere un cuore materno, la capacità di conciliare i contrasti. Non è questo il luogo per sviluppare questa riflessione. Ma tenendola di­ nanzi agli occhi possiamo capire varie cose del cinema di Tarkovskij. Anche nella sua evoluzione spirituale, il momento decisivo è stato sua madre. Basta vedere il film L'infanzia di Ivan per rendersene conto, per comprendere questa forza sintetica di una persona umana capace di unire le antinomie del corso della vira.

La spiritualità contemplativa Spesso la Chiesa d’Oriente è stata paragonata a Maria e la Chiesa occidentale a Marta. Bisogna convenire che anche gli autori russi hanno esaltato le delizie della contemplazione, essendo questa, secondo la legislazione di Giustiniano fNovellae 133), il solo scopo della vita monastica. I russi, sotto quest’aspetto, continuano la ricca tradizione greca. Anche per essi la contemplazione, in gre­ co theoria. rappresenta l’ideale della vita degna di un uomo saggio. 1415 12 Conferenza stampa in « Le Figaro Magazinc >, n. 257, agosto 1984, édition internationale. 15 A. Gratieux, A.S. Chomiakov et le

mouvement Slavophile, 2 voli., Parigi 193914 T. Spidlik. La spiritualità dell'Oriente cristiano, Roma 1985, p. 284.

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Etimologicamente la parola theoria significa « visione >. Ma vi sono diver­ si tipi di visione. La prima è quella che si ha con gli occhi. Essa scopre la bellez­ za della realtà carnale. Attraente sì, ma vuota di significato profondo. Essa non istruisce, ma acceca perché impedisce la visione interiore. « Come sono stanco di vedere le cose belle », sospira il protagonista di Nostalghia all’inizio del film. Vi è, però, un’altra visione. I saggi greci hanno fatto presto quest’espe­ rienza nella ricerca della verità: i sensi non procurano che l’« opinione » {doxa). Se l’uomo ha mai visto qualche cosa di bello o di buono, dice Platone, l’ha colto « altrimenti, con un senso che non è corporeo ». Esiste, quindi, ac­ canto alla visione dei sensi, un’altra, quella interiore, intellettuale, mentale. I filosofi greci la chiamano anche spirituale, raggiunta con la forza dello spirito umano. Non vi è bisogno di mostrare quanto è stata sottolineata nell’antichità greca la supremazia dell’intelletto che si eleva alla conoscenza delle cose celesti grazie ad un’affinità col mondo superiore delle idee. L’intelletto è considerato « vedente » per natura, simile a Dio e divino. Ma i cristiani sono in radicale disaccordo con loro su questo punto. Insi­ stono che vi è, al di là delle due precedenti, ancora una terza visione e che solo quella è spirituale nel vero senso. Solo quella è capace di decifrare il mistero del mondo, il segreto del Creatore, la ratio mundi, il contenuto della parola creatrice di Dio. La tradizione « sofianica » russa chiama questo senso primor­ diale di tutte le creature sofia, sapienza del mondo e lo rappresenta come un angelo divino di forme femminee, das ewig Weibliche, descritto nella « visio­ ne » di Soloviev con i versi seguenti: 15

Tutto ciò che fu, ciò che è e tutto ciò che sarà un unico sguardo immobile lo abbracciò... O luce che mi hai sedotto, ti ho vista tutta nel deserto. Dovunque io vada, ti porterò sulle onde della vita, nell’anima mia queste rose non appassiranno mai. E inutile voler dimostrare quanto Tarkovskij insista su questa visione spi­ rituale del mondo. Essa può essere definita il contenuto principale dei suoi film. Questa terza visione supera non soltanto la visione dei sensi, ma anche quella dell’intelletto. È concessa solo a coloro che sono di cuore puro: « Beati i puri di cuore, perché essi vedranno Dio » (Mi. 5,8). La spiritualità russa ha tanto insistito su questo aspetto che vi si è manife­ stato un certo, per così dire, culto della follia. 15 16 Sullo scorcio del XVI secolo, lo Srato moscovita si separò decisamente dall’Occidente umanistico e dalla Grecia filosoficamente platoneggiante. Il mo­ mento culminante fu raggiunto verso la metà del medesimo secolo, che rap­ presenta il Medioevo russo, e precisamente sotto lo zar Ivan il Terribile e il me­ tropolita Macario. Tutta la vita civile di quel tempo era compenetrata di eserci­ zi spirituali monastici. Su qualunque atto di ogni uomo imperava la legge di­ vina rappresentata dalla Chiesa. Pietà monastica c pietà laicale erano identi­ che. Anzi tutta la società sembrava un grande monastero dove l’abate e padre 15 V. Soloviev. Opere, vol. XII, BruxelIcs 1970, p. 84.

T. Spidlik. I grandi mistici russi, eie., pp. 139 sgg.

Thornai Spidltk

comune (batjuska zar) era lo zar. I fatti storici dimostrano che questo clericalismo statale arrecò danno allo spirito della Chiesa russa. Diminuiscono perciò i santi nei monasteri e fra i ve­ scovi. Al contrario, compaiono quelli che sorsero come una sona di rivoluzio­ nari, di difensori della libertà interiore. In Russia li chiamarono jurodivyje. pazzi. V Enciclopedia russa del Brockhaus definisce questa maniera di vivere co­ me l’atteggiamento di coloro che, spinti dall’amore di Dio e del prossimo, hanno adottato la forma ascetica di pietà cristiana che si chiama follia per amore di Cristo. Essi rinunciano volontariamente non soltanto alle comodità ed ai beni della vita terrena, ai vantaggi della vita in comunità, ai beni familiari, ma ac­ cettano inoltre di essere considerati pazzi, gente che non ammette le leggi del­ la convivenza e del pudore e si permette azioni scandalose. Questi asceti non avevano paura di dire la verità ai potenti di questo mondo e di accusare quanti avevano dimenticato la giustizia di Dio. Al contrario, consolavano quelli la cui pietà era basata sul timor di Dio. Le parole dell’apostolo: « Noi siamo stolti a causa di Cristo » (1 Cor. 4, 10) sono servite di fondamento e giustificazione a questa maniera di vivere. Un troparion liturgico slavo in onore degli jurodi­ vyje ne fa l’elogio in questo modo: « Dopo aver sentito la voce del tuo apostolo Paolo: ‘Noi siamo stolti per Cristo’ il tuo servo N. si fece pazzo in terra. » Ma l’apparenza esteriore di pazzia non è il primo fondamento spirituale di questi uomini. Lo è piuttosto il desiderio ardente della libertà di spirito. Quando le leggi scritte ebbero il predominio nella società ecclesiastico-sratale, quando tutto ciò che Dio aveva da dire all’anima fu come un monopolio del­ l’autorità esterna, vi furono quelli che, più o meno consapevolmente, si resero conto che la prima base di un’azione veramente buona è il libero arbitrio. Nel cuore umano si sente la voce della coscienza, essendo anch’essa una rivelazio­ ne: le leggi esterne sono date soltanto per guarirla dall’offuscamento causato dal peccato. Ma un cuore veramente puro non avrebbe più bisogno di leggi scritte. Così si afferma espressamente nella Vita scritta in greco di san Simeone Salos. Anche se vi è un grande pericolo di deviazioni, il principio è ben com­ prensibile in una società dove, sotto il patrocinio delle « leggi divine », si com­ mettono gravi ingiustizie. Quando uno jurodivyja Mosca sputava dietro a uno stimatissimo borghese e si inchinava fino a terra davanti a un brigante condot­ to al supplizio, non poteva esprimere più spettacolarmente la sua opinione. Gli jurodivyje condannavano senza pietà tutte le ipocrisie della gente conside­ rata onesta. Quante volte nei film di Tarkovskij appare la figura di un folle, l’unico capace di indicare, nella complicazione della vira, la giusta strada. In Nostal­ gia è il folle Domenico che ispira Gorciakov ad intraprendere l’avventura del­ la fede. Anche Maria, nel Sacrificio, mostra i segni dell’ignoranza. Il folle sacro indica la giusta strada non perché ragiona, ma perché vede ciò che altri non riescono a vedere. In Russia questa opinione fu tanto comune che vi è un gran­ de numero di santi tra gli jurodivyje. Trentatre sono canonizzati e la cattedrale di Mosca, è dedicata ad uno di essi, san Basilio il Beato. L’articolo della « Civiltà Cattolica » 17 su Tarkovskij insiste molro su que­ sta visione religiosa, trascendentale, dei film del nostro autore. Siamo d’accor­ do con questa tesi, ma al sottoscritto non piace il termine « trascendenza »: è 17 M. Alcala, Andrej Tarkovskij, in « La civiltà cattolica >, 137 (1986) I, pp. 234-245.

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troppo occidentale e, come tale, in un certo modo, iconoclasta. La visione spi­ rituale supera rutto ciò che è nel mondo, ma non si acquista fuggendo, « tra­ scendendolo », bensì, al contrario, immergendosi pienamente nella sofferenza che la vita porta con sé. Gli autori lo esprimono con il principio della praxis'. la pienezza della vita è la salita alla theoria, alla conoscenza spirituale. La spiritualità iconografica

Le icone occupano nella spiritualità russa un posto speciale. Costituiscono ri­ conoscasi, vengono portate in processione; le case privare hanno un piccolo san­ tuario detto < l’angolo bello ». Nella tradizione della Chiesa orientale è mani­ festazione di fede allo stesso modo della tradizione scritta e di quella orale. Il secondo concilio di Nicea, nel 787, paragona la pittura alla predicazione del­ la fede. Secondo il Podlinnik russo (manuale per i pittori), l’arte iconografica rassomiglia al ministero sacerdotale. « La vita liturgica e sacramentale della Chiesa è inseparabile dall’immagine », scrive B. Uspenskij; l’icona è un simbolo che < esprime e, in un certo qual modo, incorpora e rende presente una realtà su­ periore ». 18 Non ci sorprende, quindi, che il problema iconografico occupasse Tarkov­ skij sin dall’inizio della sua attività artistica. Lo affrontò nel film AndrejRu­ blèv, in una maniera non soltanto artisticamente preziosa, ma anche in asso­ nanza con il tradizionale insegnamento della teologia russa sull’arte sacra. L’i­ cona, come tale, presuppone da una parte la visione spirituale del mondo, quindi la contemplazione, mentre dall’altra essa non rimane semplice visione. L’ico­ nografo è colui che riesce a comunicare la sua esperienza agli altri per mezzo del suo quadro. Con una fine osservazione psicologica, P, Florenskij19 descrive come dal­ la visione nasca un’icona. È tutto un processo particolare. Il primo sradio è « te­ nebroso ». E una penosa esperienza del contrasto fra la bellezza della visione spirituale e la bruttezza del mondo concreto. L’artista soffre. È, quindi, spinto a creare nuove forme, belle ma irreali. Gli artisti impazienti le producono co­ me definitive. In tal modo, secondo Florenskij, nasce un’arte falsa, illusoria. I veri artisti attendono il terzo stadio. Scoprono che certe forme concrete, anche se formalmente non perfette, possono divenire simbolo della prima visione spi­ rituale. E così nasce un’icona. È una forma reale della vita, ma in essa, piutto­ sto che < al di là di essa », si vede la realtà spirituale. Il problema concreto, quindi, si presenta sotto questa forma: come arriva­ re alla visione spirituale e come esprimerla. Abbiamo già notato che il princi­ pio di base è: per mezzo della praxis, cioè la vita, si arriva alla theoria, cioè alla visione, ed è proprio questo principio che è bene illustrato dall’evoluzione artistica di Andrej Rublèv, così come ce la presenta Tarkovskij, nel suo film. All’inizio appare la figura di Teofane il Greco, pittore delle belle forme osser­ vate nella vita e copiate su modelli vivi. Ma Rublèv sente che questa non è l’ar­ te da lui desiderata: è la visione dei sensi che corre il rischio di rimanere al livel­ lo dell’estetismo profano. I monaci pittori procedono in modo diverso: studia18 L Ouspensky, Essai surla the'ologie de l'icòne dans TEglise orthodox?, Parigi I960, p. 11.

l P. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull'icona, Milano 1977, pp. 32 sgg

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no attentamente le Scritture e dipingono ciò che hanno vissuto nelle loro me­ ditazioni. Ma neppure queste icone piacciono a Rublèv. La sua grande opera iconografica comincia solo dopo le sofferenze della vita ed in accordo con la campana uscita dalla terra. È la vita nella sua pienezza che ispira la vera pittura, i travagli della terra ci elevano alla visione del cielo. La vita, come abbiamo detto, viene chiamata praxis. Per arrivare alla visione spirituale si esige anche la praxis spirituale il cui perno è la carità, la compassio­ ne per il prossimo. Su questo gli autori russi sono concordi: l’amore è il princi­ pio gnoseologico; chi non ama non conosce la verità divina, che è amore. Non è, quindi, l’intelletto che ci deve guidare, ma il cuore. Citiamo due testi tipici. II primo è di P. Ivanov: « È solo per mezzo del cuore che si può intendere il segreto dell’universo [...]. Allora, chi ha cuore percepisce Dio, gli uomini, gli animali, la natura. Solo il cuore è capace di dare la pace dell’anima. »20 Il cuore è la sede naturale dell’amore. Ne segue che l’amore è il primo e più importante principio gnoseologico. Anche ciò lo dimostriamo con un so­ lo testo. Scrive B. Vyseslavcev: « Per l’intellettualismo recente è profetica que­ sta espressione di Leonardo da Vinci: ‘Un grande amore e figlio di una grande conoscenza’: noi cristiani orientali possiamo dire il contrario: ‘Una grande co­ noscenza è figlia di un grande amore’. »21 Anche quest’aspetto è ben sottoli­ neato nel film Andrej Rublev.

La verità è anamnetica Adopero espressamente il termine liturgico di anamnesis perché è a tutti noto quanto influsso abbia esercitato sulla mentalità degli slavi orientali la bellezza delle lunghe liturgie. Già san Vladimiro, secondo il racconto della Cronaca. si sarebbe convertito al cristianesimo perché stimolato dalla bellezza della li­ turgia di Costantinopoli.22 Sembra che sia l’amore per le manifestazioni este­ riori e per lo sfarzo che ispira queste solennità liturgiche. Sorprende, d’altra parte, come amassero lo splendore liturgico anche quei santi che si concentra­ vano sull’aspetto interiore della vita spirituale. Nella liturgia essi scoprivano qualche elemento che sembrava loro indispensabile per sentirsi cristiani. Come caratterizzarlo? Si dice che la liturgia attira i russi perché offre loro, in mezzo al grigiore di ogni giorno, la visione di un’altra vita, del « cielo sulla terra » come afferma S. Bulgakov.23 L’espressione è buona, però potrebbe essere in­ tesa in maniera errata, come una visione del mondo futuro, di un mondo del tutto nuovo. In questo senso si parla anche dell’escatologismo russo, il concen­ trarsi sulle realtà a venire.24 Queste considerazioni, però, spiacevano a molti, ad esempio a V. Soloviev. Gli sembrava persino che i predicatori che parlavano troppo del « mondo nuovo » rinnegassero il vero cristianesimo, la cui essenza è la resurrezione (che è tutt’altro che una proiezione illusoria nel futuro). Essa significa, al contrario, il ritorno esteriore alla vita e, quindi, a tutti i valori vis-

20 P. Ivanov, L'umile riconciliazione in Cristo (in russo), Parigi 1925, p. 97. 21 B. Vyseslavcev, Il cuore nella mistica cristiana e indiana (in russo), Parigi 1929, p. 26. 22 Tradotto in T. Spidlik, La spiritualità russa. Roma 1981, pp. 33 sgg.

S. Bulgakov, Le ciel sur la terre. Mo­ naco 1928. 24 H. Biedermann, Der eschatologische Zug in der ostkirchlichen Frommigkeit, Wurz­ burg 1949-

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suti sulla terra.25 Quest’aspetto è anche essenziale per la liturgia, che è tutta un anamnesis. ricordo del passato ed anche del futuro in un gesto presente. La preghiera cen­ trale della messa si chiama appunto anamnesis: ricordo della vira di Cristo, della sua nascita, passione, resurrezione, ascensione, c anche della sua venuta nella gloria. Si aggiunge il ricordo dei santi, dei morti: cioè la vita della Chiesa attra­ verso la sua lunga storia. Tutto viene concepito come un atto simbolico che riunifica i tempi diversi e rende presente la realtà lontana. Il tempo dà la vita, ma la separa anche, la lacera in diversi momenti: Vanamnesis vince questa fu­ gacità del tempo, unisce ciò che fu lacerato. Questa è la forza della liturgia. Bobrinskij parla del carattere « eucaristico » dei riti,26*Bulgakov del loro « rea­ lismo »2? spiegandolo così attraverso l’azione liturgica: a Natale Cristo vera­ mente nasce, a Pasqua egli muore e risorge. Questo carattere anamnctico appare non solo nella messa, ma è fortemen­ te vissuto nei riti funebri. Un russo, scrive Turgenev, muore come se comple­ tasse un rito. E al suo funerale viene ripetutamente cantato: « eterna memo­ ria », vecnajapamjat'. In questo contesto possiamo ben capire le parole di Tar­ kovskij, il quale definisce la sua concezione estetica del cinema come « un’arte capace di arrestare il tempo », imprigionandolo e « sigillandolo ». Il termine anamnesis è liturgico, ma ha un parallelo profano: nostalgia. Evidentemente vi Sono due sfumature diverse. La nostalgìa sì sente a causa di un passato che viene considerato perduto. anamnesis è un ricordo gioioso che rende il passato più presente di quando fu vissuto. Il film di Tarkovskij porta il titolo di Nostalghia. Se dovessi spiegarlo lo interpreterei in questi termini. Vi si mostra una enorme forza religiosa capace di trasformare la nostalgia in anamnesis. Il protagonista Gorciakov soffre di nostalgia al punto di morire non sopportando la perdita del passato. E appena morto per un infarto miocardico dopo aver attraversato la piscina di Bagno Vignoni. Ecco l’antico simbolo del­ l’acqua, elemento caotico di distruzione e di oblio. Ma Gorciakov attraversa la piscina con una candela accesa in mano, simbolo della fede. Quella candela opera la trasfigurazione. La cinepresa si trasferisce allora fra le rovine della chiesa dell’abbazia di San Galgano. Al centro del transetto, aperto a tutti i venti, ap­ pare, in sovrimpressione, la dacia dove Tarkovskij ha trascorso la sua infanzia. Shll’argine di un ruscello, Gorciakov sta seduto con il sorriso sulle labbra (dun­ que non è più in nostalgia!). Nevica dolcemente, anche se è primavera. I tem­ pi e gli spazi si avvicinano. Il cane fedele li custodisce. Il tempo non si distrug­ ge, ma si trasforma in eternità: eterno ricordo, vecnaja pamjat'.

L'idea di salvezza generale28

Nei villaggi russi, spesso così lontani tra loro, il lavoro comune e la stretta colla­ borazione crearono uno spirito collettivistico che si riflette anche in campo spi­ rituale. Dostoevskij ha saputo esprimere questa idea col dire che < tutti sono responsabili di tutti ». La coscienza russa non si è mai accontentata di conside25 V. Soloviev, fondamenti spirituali della vita, Casale Monferrato 1949, p. 108. 26 In S. Verchovskoj, Ortodossia nella vita (in russo). New York 1953, p. 244.

22 S. Bulgakov, The Orthodox Church, Londra 1934, p. 150. 28 T. Spidlfk, I grandi mistici russi, cit. p. 355.

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rare come sufficiente la salvezza individuale. Questo universalismo dev’essere conciliato col caldo sentimento patriottico, anzi dev’essere la sua interpretazio­ ne più genuina. Scrive Dostoevskij: < Io credo nel fatto che noi, cioè — s’in­ tende — non noi, ma i futuri uomini russi, finiranno per capire tutti fino al­ l’ultimo che diventare un autentico russo significa appunto tendere a introdur­ re definitivamente la conciliazione nelle contraddizioni europee, additare alla nostra nostalgia europea un’uscita nella nostra anima universalmente umana e unitaria di tutto, accogliere in essa con amore fraterno tutti i nostri fratelli e, alla fine, forse, pronunciare una parola di grande, comune armonia, di fra­ terno definitivo accordo di tutte le tribù, secondo la legge evangelica di Cristo [...]. Io parlo della sete incessante del popolo russo, sete che sempre lo accom­ pagna, sete di una unione, nel nome di Cristo, universale, di tutti i popoli, di tutti come fratelli. E se questa unione non esiste ancora, se la Chiesa non si è ancora pienamente edificata, non soltanto nella preghiera, ma neppure nella realtà, nondimeno l’istinto di questa Chiesa e la incessante, talvolta persino quasi inconsapevole, sete di essa, sono indubbiamente presenti nel cuore dei vari milioni del nostro popolo [...]. Esso crede che si salverà, alla fine, soltanto nell’unione di rutto il mondo nel nome di Cristo. »29* Tale è il senso universale che, secondo Soloviev, deve avere anche la paro­ la « ortodossia » conservata nel popolo russo e l’idea della vocazione speciale della Russia. Considerarsi come unica nazione eletta da Dio significa ritornare al Vecchio Testamento, alla religione ebraica. Nel Nuovo « non vi è più que­ stione di alcuna nazionalità in particolare; viene, al contrario, dichiarato che nessun antagonismo nazionale deve esistere ». Dio non chiama più le nazioni separatamente, ma soltanto nella loro unità. Una nazione non può avere una vocazione da Dio se non nella Chiesa universale. Questa ortodossia universale, pensa Soloviev, è ben fondata nel semplice popolo russo e non potrà essere sra­ dicata dai cuori credenti. « Non è bene per l’uomo restare solo. Non lo è altri­ menti per una nazione. E da novecento anni che siamo stati battezzati da san Vladimiro nel nome della Trinità vivificante e non nel nome di qualche unità sterile. L’idea russa non può consistere nel rinnegare il nostro battesimo. L’i­ dea russa, il dovere storico della Russia ci domanda di riconoscerci solidali con la famiglia universale di Cristo e di adoperare tutte le nostre forze nazionali, tutta la potenza del nostro impero alla realizzazione completa della Trinità so­ ciale, dove ognuna delle tre unità organiche principali — la Chiesa, lo Stato e la Società — è assolutamente libera e sovrana, non separandosi dalle altre, assorbendole, distruggendole, ma affermando la sua propria assoluta solidarie­ tà con esse. Restaurare sulla terra questa immagine fedele della Trinità divina, ecco l’idea russa. E se questa idea non ha in se stessa niente di esclusivo o di incline ai particolarismi, se essa non è altro che un nuovo aspetto della stessa idea cristiana, se per compiere questa missione non dobbiamo agire contro le altre nazioni, ma con esse ed a favore di esse — tutto questo costituisce una grande prova che questa idea è vera. Perché la Verità forma il Bene e il bene non conosce l’invidia. »50

29 Iviw V. Soloviev, L'idee russe, Parigi 1888,

p. 46.

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La sofferenza purificatrice 31 I pensatori russi si sono sempre soffermati a indagare sul vero senso del dolore, della morte, delle violenze sofferte. Esempio recente ne è Pasternak quando, nelle ultime righe del Dottor iivago. scrive: « L’anima è triste fino alla morte [...]. Ma il libro della vira è giunto alla pagina più preziosa di ogni cosa sacra. Ora deve compiersi ciò che fu scritto, lascia dunque che si compia. Amen. »32 La sofferenza è una grande forza, perché santifica non soltanto gli inno­ centi, ma anche coloro che hanno peccato, che hanno sbagliato indirizzo di vita ma che lo sanno ammettere. Per meglio comprendere quest’aspetto, forse, sarà utile menzionare una riflessione del poeta V. Ivanov sui tre gradi del mi­ sticismo. 33 II primo è chiamato « anarchico » e la sua espressione migliore la si può vedere nel Giudizio universale di Michelangelo, nella cappella Sistina. È il misticismo dei giovani che aprono gli occhi al mondo e scoprono molta disonestà ed ipocrisia. La loro reazione è: « Via da me, maledetti! > Il secondo grado è quello della speranza, espresso da Raffaello nella Tra­ sfigurazione. Nella parte inferiore si vedono i farisei che condannano l’adulte­ ra. Ma gli apostoli, saliti sul Monte, vedono, con gli occhi illuminati, il mondo nuovo, futuro, dove non ci sarà più malizia, ma soltanto luce. Questa mistica si solleva, ma nel contempo ci allontana dalla vita concreta, dal presente, dalla realtà. Ed ecco il terzo grado del misticismo, quello del sacrificio. Ivanov vede la sua espressione nell’Ultima cena, di Leonardo da Vinci. Cristo si rende conto del tradimento eppure china la testa accennando un < sì »: accetta la sofferen­ za, perché scopre che anch’essa è divina c trasformatrice del mondo. Nell’Atfdrej Rublev di Tarkovskij è proprio questo pensiero che domina nell’ultima scena, quando la nuova campana suona a distesa. L’inverno russo è un simbolo naturale della morte e della distruzione. Non vi è il minimo segno di vita che riesca a mantenersi da un’estate all’anno suc­ cessivo. Un nuovo maggio crea la ricchezza dei suoi fiori sul campo di stermi­ nio. Nella mentalità del russo, la vita nuova, la società nuova può cominciare soltanto dopo la distruzione della società precedente, la vita eterna dopo la mone temporale. Espressioni di questo genere non possono sorprendere in un rivolu­ zionario come Bakunin, ma le leggiamo anche, in tono filosoficamente sereno, nel Senso della vita, scrino dal principe E. Trubcckoij (1863-1920): « Nella storia più recente troviamo una quantità di esempi. La visione dell’indistruttibile, eterna città di Dio, si rivelò a sant’Agostino nei giorni della catastrofica occu­ pazione di Roma da pane di Alarico, al tempo della decadenza dell’Impero romano d’Occidente. Lo sforzo religioso di Savonarola e del Beato Angelico si verificò nei giorni delle apparizioni spirituali del male, al tempo di Machia­ velli e di Cesare Borgia. Da noi, in Russia, in mezzo ai terrori dei tartari, nac­ que la crescita spirituale che si esprime nella vita di san Sergio c nelle opere immortali di Novgorod. Tutti questi ed altri esempi danno testimonianza di una stessa cosa: del significato positivo dell’elemento catastrofico del mondo, del nesso fra rivelazioni profondissime e la distruzione del genere umano. Ecco perché alla seconda venuta del Salvatore deve precedere una tale miseria, quale non vi è stata ancora dall’inizio del mondo [...]. È vero solo questo: la vira 31 T. Spidlik, Igrandi mistici russi, cit., pp. 13 sgg. 32 B. Pasternak, Il dottor iivago, Mila-

no 1958, p. 709. 33 Opere, voi. Ili, Bruxelles 1979, p. 86.

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eterna del mondo si realizza mediante la morte delle sue forme temporali; il raggiungimento del senso assoluto si prepara mediante la distruzione di tutto ciò che ha senso parziale e doppio [...]. Si realizza il giudizio sul mondo, e tutte le forze spirituali nascoste nell’umanità devono manifestarsi in questa prova del fuoco. La stessa distruzione del mondo prova che si avvicina il Regno di Dio: è vicino, è presso la porrà. >M Si dice che Tarkovskij denunci nei suoi film le ingiustizie di ogni genere. È certamente vero. Ma non è soltanto un’accusa. Vi appare anche una grande compassione per il mondo che sembra andare verso la catastrofe. Egli stesso scrive: « Abbiamo costruito una civiltà che minaccia di distruggere l’umanità. Di fronte a una simile catastrofe globale sorge in me un unico bisogno essen­ ziale, che è quello di far emergere la responsabilità personale dell’uomo e la sua disponibilità ad un’offerta spirituale. >54 55 Questo carattere oblativo e di servizio nei confronti del mondo è precisamente il tema del suo ultimo film, Sacrificio. Per mezzo di esso il mondo si salverà.

54 Cit. in T. SpidKk, Igrandi mistici rus­ si, cit., p. 351.

35 A. Tarkovskij, Die versiege/te Zeli, Berlin-Frankfurt a.M. 1985, P- 234.

Il senso della nostalgia: da Nostalghia a Sacrificio Simona Argentieri

Oggetto di questo intervento è il sentimento della nostalgia in Tarkovskij: un sentimento che credo pervada tutte le sue opere. In particolare vorrei centrare l’attenzione su Nostalghia e poi su Sacrificio. Il tema della nostalgia, come tutti sappiamo, è estremamente ampio, sfug­ gente, difficile da definire, con infiniti significati filosofici, poetici, psicologi­ ci. È un tema universale che attraversa la cultura in tutte le epoche della storia e che originariamente ha il significato del distacco dalla propria patria, con la sofferenza che ciò comporta, ma che poi ha assunto un significato più comples­ so, a indicare il dolore per la perdita di qualche cosa di molto caro che una volta si è posseduto e che poi si è perduto. Tarkovskij dedica a questo senti­ mento addirittura un film col titolo di Nostalghia. Peraltro, nelle interviste ri­ lasciate parallelamente al film, ha tenuto a sottolineare che il sentimento della « nostalgia » come lui lo intendeva era assolutamente speciale, e non doveva essere confuso col concetto italiano di nostalgia. Ha addirittura detto: « La no­ stalgia è qualcosa di strettamente legato alla natura russa. Il film è l’eco del mio stato d’animo di sofferenza per la lontananza della mia patria ». Qualco­ sa, dunque, di assolutamente speciale, legato alla sua individualità e alla sua identità di russo. Brevemente ricorderemo che la storia di Nostalghia è quella di uno studioso russo deU’arte italiana che decide di intraprendere un viaggio in Italia, perché sente l’impossibilità e l’inadeguatezza di parlare ai suoi studenti di queste opere d’arte staccate dal contesto storico, sociale, umano e naturale del loro paese di origine. Quindi, ecco subito l’accenno che Tarkovskij introduce al problema della separazione, del distacco: un russo che compie il suo viaggio in Italia alla ricerca di un contesto, di un legame con opere che ama, ma che sente di non poter comunicare e far conoscere ai suoi studenti soltanto attraverso l’infedele oggettività delle riproduzioni. Oltre, però, a segnalare la specificità russa di questo sentimento della nostalgia, Tarkovskij ha anche detto in più occasioni che a suo avviso la « nostalgia » (e il film che le aveva dedicato) era anche un’a­ namnesi: la storia di una malattia. < Una malattia » cito lo stesso Tarkovskij « che annulla le forze dell’anima, la capacità di lavorare, perfino il piacere di vivere. La mancanza di qualcosa, di una parte di se stesso. E una sofferenza morale, dell’anima. Chi non la supera muore ». Queste parole, oltre che mol­ to poetiche, sono anche estremamente drammatiche; perché Tarkovskij fa rife­ rimento non soltanto a qualcosa di speciale, ma anche a qualcosa di malato e di mortale. Vorrei ora concedermi una brevissima digressione sul tema della nostalgia, perché — a partire da tutti i complessi significati filosofici, poetici, psicologici che questo tema ha assunto nel corso del tempo — è soltanto nel XVIII secolo che la nostalgia assume una qualità e un significato di tipo psicopatologico. Nel Settecento dunque, e in particolare in Svizzera, si comincia a riscontrare in giovani soldati mercenari costretti a lasciare il loro paese per an­ dare in terre lontane a combattere, una malattia che viene appunto chiamata

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Heimweh, ossia < mal del paese ». È interessante osservare che quegli antichi medici la consideravano proprio una malattia fisica, anche se cercavano di indi­ viduarne la causa in una supposta patologia dell’informazione (« Soltanto un’im­ magine rimane nella mente e la occupa... »). Questo « mal del paese » si ma­ nifestava con tremori, sentimento di perdita di sé, febbricola, vertigini, dispo­ sizione agli incidenti, fino a sfociare in casi estremi in un vero e proprio deperi­ mento, e addirittura nella follia delirante o nella morte. Interrogandosi su quale potesse essere la causa di una malattia che prima era del corpo e poi dell’ani­ ma, quei medici pensarono — se si vuole, acutamente — che la malattia avesse proprio a che fare con l’elemento del distacco: del distacco non soltanto dalla patria come luogo, ma anche da tutto un contesto di cose care c amate, da abi­ tudini c consuetudini radicare. < La parte sofferente la forza dell’immagina­ zione [...] soprattutto quella parte del cervello in cui sono presenti le immagi­ ni di quegli oggetti che evocano nostalgie... ». Ci fu addirittura un medico che ipotizzò che fosse la mancanza della minestra della sera, al ritorno dalla gior­ nata di lavoro nei pascoli, cui erano abituati questi giovani, a determinare la malattia. Può essere interessante citare le note storiche di un altro medico sviz­ zero del Settecento, che scrive: < ...Gli ufficiali svizzeri hanno notato nelle lo­ ro truppe in Francia e in Olanda [...] che quando le nuove reclute provenienti dalla Svizzera intonano, attorniati dai soldati più anziani, la cosiddetta KuheReihen che i contadini elvetici usano cantare e suonare con lo zufolo tra le loro mandrie nei pascoli alpini, reagiscono i vecchi commilitoni evocando con inu­ sata veemenza il dolce pensiero della patria immagine, tanto da cadere precipi­ tosamente nella cosiddetta Heimweb e, di seguito, in una febrem ardentem, cosicché gli ufficiali, con un'ordinanza che commina severissime pene, debbo­ no proibire il canto e il suono di questa melodia. » Per quel che concerne il nostro discorso, ancor più interessante della pato­ genesi e della diagnosi era però la cura, una sorta di poetica ed ingenua terapia simbolica che veniva attuata nei casi estremi. Oltre alle cure consuete, delle quali nel Settecento si usava ed abusava (il lassativo, l’emetico, il salasso...) c che raramente — è ovvio — ottenevano risultati felici, si ricorreva dunque all’espediente terapeutico di prendere il giovane soldato e di portarlo nel luo­ go più alto che fosse possibile reperire nei dintorni (una torre, una collina). Lì gli si faceva volgere il viso e gli occhi verso la patria lontana, in modo che attraverso lo sguardo potesse tentare di ristabilire un contatto, un legame con la terra perdura. Era certo una profonda intuizione, perché attraverso quel ge­ sto si tentava di ristabilire l’unione. Interessante è che questo < mal del paese » era considerato una malattia nazionale. Quel che Tarkovskij dice della < sua » nostalgia gli svizzeri dicevano della loro. Addirittura Jung — mi permetto di citare Jung anche se io sono una freudiana — la chiamava « malattia naziona­ le » e considerava questa sofferenza come specifica, legata all’identità naziona­ le svizzera. Colpito nella sua suscettibilità nazionalista da questa pretesa di spe­ cificità della Heimweh svizzera, Jean-Jacques Rousseau notava con malizia: « È davvero singolare che un paese così rude, dal quale gli abitanti sono così inclini ad uscire, ispiri loro tuttavia un amore talmente tenero (...]. Io non posso im­ pedirmi di notate che la Francia è sicuramente il miglior paese del mondo, do­ ve tutte le comodità e tutte le piacevolezze della vita concorrono al benessere degli abitanti [...]. Questa malattia diminuisce molto presso gli svizzeri da quan­ do si vive più piacevolmente nel loro paese ». Credo che la spiegazione di tali contestazioni sia in fondo semplice. I rus­

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si, i francesi, gli svizzeri si sono comportati come ciascuno di noi si comporta di fronte alla pienezza delle passioni. Davanti, per esempio, a un grande amo­ re o a un grande dolore, ciascuno crede che sia unico, assolutamente impossibi­ le da confrontare con quello altrui. Che dobbiamo dire dunque di questa specificità russa della nostalgia di cui parla Tarkovskij? La storia del film Nostalghia è davvero, a mio avviso, una sorta di anamnesi. Non tratta soltanto di una situazione di sofferenza legata ad un effettivo distacco concreto, alla separazione reale nello spazio e nel tem­ po, come appunto quella che vive chi è stato costretto ad emigrare. Ma tratta anche di un altro tipo di nostalgia malata, che è poi quella che — come psicoa­ nalista, come medico — specificamente mi interessa e mi compete. E la nostal­ gia tutta interna, legata non alla mancanza reale di persone, di cose, ma a una dimensione di perdita interiore, cioè alla perdita del contatto con « oggetti in­ terni » — come noi diciamo — di parti di sé, alla sensazione di essere esiliati (in una dimensione immaginaria) da qualcosa che una volta era stato nostro e che è stato perduto. Per cui, anche in questo senso, temo che non possiamo consentire a Tarkovskij di considerare unica e speciale questa sua nostalgia, perché se è vero che l’anima russa è grande, credo che questo sentimento lo conoscano purtroppo anche gli umani di tutte le altre terre, col nome meno poetico di depressione. Una depressione che, appunto, ha la caratteristica di essere legata alla sensazione dell’angoscia — all’angoscia di morte — e alla sensazione della perdita di sé e dei rapporti d’amore interiori. D’altronde, la grande intuizione poetica di Tarkovskij in questo film mi sembra sia stata proprio quella di rappresentare come una storia questa dimen­ sione malata, patologica, depressiva della nostalgia. Ricorderete che Gorciakov — lo storico dell’arte protagonista — lascia il suo paese per congiungersi con qualcosa da lui molto amato: le opere d’arte italiane nel loro contesto natura­ le. Ma non appena comincia ad avvicinarsi allTtalia, alle pitture, alle architet­ ture dell’Italia, ora che le può raggiungere sensorialmente e non solo con l’im­ maginazione, comincia paradossalmente a soffrire la lontananza dalla Russia lontana. È una scena bellissima e — dal mio punto di vista — estremamente illuminante quella in cui Gorciakov arriva di fronte alla piccola chiesa che, nel­ l’arbitraria ricostruzione del film, è quella che contiene la Madonna del parto di Piero della Francesca. Nel momento in cui sta finalmente per vedere da vici­ no questo capolavoro da lui tanto amato, dice due volte, forte, prima in italia­ no poi in russo: < Non voglio >. Credo che così si esprima il vero dramma di Gorciakov, perché il bisogno autentico non è quello di ricongiungersi con que­ sto oggetto simbolico sognato (in questo caso la Madonna delparto} ma di espri­ merne l’impossibilità. Il dramma ch’egli vive a livello delle opere d’arte si ri­ produce fedelmente anche con le due donne che non riesce ad amare. Nel film vediamo continuamente l’alternarsi della nostalgia, della sofferenza per la se­ parazione — passata o futura — per le due donne. La giovane sposa russa, la­ sciata da un anno, ma rimpianta come mona, rievocata con la tenera curva del­ la sua gravidanza, somiglia — lo dice egli stesso — alla bellezza italiana della Madonna di Piero. Mentre la bionda, grandiosa bellezza di Eugenia — la don­ na che gli sta davvero accanto e che invano cerca di comunicare con lui pensieri ed emozioni — sembra appartenere ai colori e alle luci della sua Russia lontana. C’è sempre questo doppio intreccio di cose perdute, e il tentativo, lo sfor­ zo di un ricongiungimento che non può giungere mai ad avverarsi. Per farti sentire questo dilemma, ho trovato molto suggestiva la modalità con cui Tar-

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kovskij ha « usato » i luoghi, gli spazi, le opere d’arte italiane. So che Tarkov­ skij le ha ricercate con fervore quasi religioso, che ha girato chilometri di pelli­ cola lungo tutta la penisola. Però ha anche compiuto in continuazione un arbi­ trario stravolgimento di spazi e di luoghi, inventando una topografia assolutamente fantastica. Si osservi, per esempio, il modo in cui ha situato la Madonna del parto, anziché nella cappellina del cimitero di Monterchi, in una cripta. Questo continuo bisogno di stravolgere, frammentare e ricostruire, credo che esprima il bisogno disperato di integrazione che aveva l’autore. Il bisogno di tentare di riunifìcare un mondo interno che sentiva frantumato e disgregato. Di Giammatteo dice che forse Tarkovskij al fondo è un’anima semplice, che non è una personalità così contorta ed ermetica come tanti critici hanno detto. Credo che sia al tempo stesso vero e non vero. I problemi di fondo di Tarkovskij sono semplici perché sono universali: sono il dramma dell’angoscia di morte e la sofferenza per la separazione. La grande differenza che esiste fra lui e tutti gli altri umani è che noi probabilmente avremmo avuto una depres­ sione, mentre lui invece ha fatto un grande film, e non è una differenza da poco. In questa dimensione, molti studiosi hanno però riscontrato — ed io su questo sono abbastanza d’accordo — che c’è un eccesso di sacralizzazione. C’è troppo sublime in questo dramma, che affronta un dolore che in fondo è sem­ plice ed universale. Tarkovskij, invece, ha un bisogno disperato di dargli una dimensione eccezionale e sacrale. Può essere illuminante, a questo punto, cita­ re una frase di Binswanger (ancora uno svizzero!), che a mio parere testimonia molto bene la qualità profonda e melanconica della nostalgia di Tarkovskij: Binswanger dice: « Così il melanconico sembra apparentemente reclamare che gli restituiscano gli oggetti d’amore del passato, incosciente dello scorrere della vita, dello spazio, del tempo [...]. In realtà tenta vanamente di assolvere al­ l’impossibile compito di essere fedele a un oggetto d’amore irraggiungibile, ideale o inesistente nella condizione tragica della inaccessibilità al divino ». Si può forse dire che questo bisogno quasi coatto di sublime esprima il tentativo estremo di Tarkovskij di trovare una soluzione all’angoscia di mone. Il significato psicologico, psicoanalitico della nostalgia è, come dicevamo, quello deH’esperienza interiore di sentirsi solo e separato, di avere subito la perdita: una perdita, però, di oggetti « interni » e non di oggetti reali. In que­ sto simbolismo arcaico la cosa più consueta che noi vediamo nell’esperienza clinica è che la nostalgia originaria (quella che poi è il capostipite di tutte le altre nostalgie) è quella per l’unione prenatale con la madre. Credo però che occorra chiarire un equivoco. Quando noi parliamo di nostalgia dell’utero, del ventre materno, non intendiamo una nostalgia concreta di quella situazione. Intendiamo piuttosto la nostalgia di un vissuto, di uno stato di sé inconsapevo­ le, ancora libero dai conflitti, dalle frustrazioni e dai limiti che impongono la vita e il principio di realtà. Può forse essere interessante ricorrere a un esempio tratto dall’esperienza, di quello che noi psicoanalisti clinicamente vediamo nel nostro operare quoti­ diano. Le persone malinconiche, quelle che soffrono a livello di coscienza di una nostalgia irrinunciabile per il passato (ma in una dimensione inconscia, simbolica vivono la nostalgia per la regressione prenatale) non sono affatto — come sarebbe logico pensare — coloro che hanno avuto un’esperienza felice nel loro passato, un rapporto con la madre. Al contrario: soffre di nostalgia per il tempo perduto proprio chi ha avuto invece un’esperienza reale deficita­ ria, carente ed infelice. È un paradosso interessante dal punto di vista clinico,

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e che forse vale anche per tutti noi a livello delle umane vicende: la nostalgia ha quasi sempre a che fare soprattutto con l’immaginario, con qualche cosa di fittizio c con il rifiuto della vita. Infatti, al di là di questa qualità di amore struggente, di meraviglioso desiderio del ritorno, di riconquista di oggetti per­ duti, c’è quasi una sotterranea dimensione di morte. Non soltanto è la ricerca illusoria di un paradiso perduto: ma è il paradiso perduto stesso che ha in sé una connotazione regressiva e mortale. Credo che anche su questo punto Tar­ kovskij non faccia che darci una precisa conferma, perche la fine di Nostalghia è appunto la morte; la morte fisica del protagonista che solo così riesce a realiz­ zare il suo disperato tentativo di unificare e integrare tutte le sue esperienze, i suoi mondi. Soltanto nel momento in cui Gorciakov muore si ha finalmente una sensazione di quiete e di serenità. Solo alla fine della vicenda tutto si ri­ compone in un’immagine di grande poesia: tra i ruderi romanici dell’antica basilica a cielo aperto, sull’erba che ne ha sommerso la pavimentazione, appa­ re il paesaggio della campagna russa, con la casa, gli alberi, gli animali e rutti i suoi cari. Al centro, finalmente placato, sta Gorciakov, disteso sulla riva di un pic­ colo stagno che riflette nella sua acqua tranquilla l’intera scena: i personaggi, la natura, il contorno delle grandi arcate di pietra. Con un solo sguardo nello specchio dell’acqua l’uomo può raccogliere concentricamente tutto il suo spa­ zio e il suo tempo. Anche nella rappresentazione della Madonna di Piero c’è questa sensazione del « contenere ». Nella cappellina del piccolo cimitero di Monterchi quasi l’intera parete è occupata dall’affresco: due angeli aprono le conine laterali; al centro, Maria posa la mano sui due lembi della veste che si aprono sulla perfetta rotondità del ventre. Anche lo sguardo di Maria è « in­ terno ». Tutto è un racchiudersi concentrico a partire dal suo grembo, « punto dell’orizzonte » di chi dipinse e di chi guarda; un rapporto privatissimo ed in­ tenso a cui ogni « spettatore » è ancora oggi convocato. Il motivo per cui ho pensato di accostare Nostalghia a Sacrificio è perche a mio avviso in queste due opere si coltivano gli stessi temi cari a Tarkovskij, seppure in Sacrificio questi ci appaiono condotti ormai alTestremo. Innanzi­ tutto, c’è il dramma della catastrofe, il dramma della fine. In Nostalghia il per­ sonaggio di Domenico (fra l’altro, interpretato dallo stesso attore, Erland Jo­ sephson) cercava di scongiurare la fine del mondo (la candela accesa per implo­ rare pietà per le sorti dell’umanità). In Sacrificio il dramma della catastrofe, invece, si fa estremamente concreto, reale: non è più simboleggiato o immagi­ nato come un’ipotesi di fine possibile, ma è proprio la catastrofe nucleare, rap­ presentata direttamente. In questa catastrofe immanente troviamo, e per en­ trambi è così, il tentativo delle povere forze umane di porre riparo al dramma della distruzione finale. Interessante è il fatto che in questa catastrofe totale, cosmica, avviene un duplice gioco di proiezione: da una parte l’angoscia pro­ dotta dall’ipotesi della fine del mondo si riflette (e lo aggrava e lo determina) nel senso di angoscia individuale e psichica del protagonista e del regista, che prova dentro di sé l’ombra depressiva della mone: dall’altra, c’è il senso di morte interno del regista che si proietta fuori, mediante quello che è un espediente poetico caratteristico di Tarkovskij e che consiste nel cercare di fare assurgere ad una dimensione tragica, cosmica i suoi problemi personali. L’altro dramma presente in Nostalghia. e condotto all’estremo in Sacrifi­ cio. penso sia quello dell’impossibilità di comunicare. Se il protagonista di No­ stalghia. Gorciakov, era chiuso nel suo silenzio c nella sua disperazione, in Sa-

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orificio questa difficoltà della comunicazione si fa totale. Il modo in cui il pro­ tagonista si aggira, per tutto il tempo del film, attraverso i luoghi e le situazio­ ni, ricorda i sogni di certi moribondi che vivono già la sensazione del distacco, sentono di non fare più parte del mondo dei vivi eppure cercano ancora dispe­ ratamente di incidere su questa realtà che loro di continuo sfugge. Qui in Sacrificio viene reiteratamente utilizzato un altro modello espressi­ vo caro a Tarkovskij, quello del mutismo (la non comunicazione, o, per lo me­ no, la non comunicazione attraverso le parole). In questo film il bambino è muto, sia pure temporaneamente. Ricorderete che muto è il ragazzo dello Spec­ chio', muto è Rublèv stesso dopo il dramma del sacco di Vladimir, e muta è la ragazza di cui egli si prende cura all’inizio del film; e ancora muta è l’ope­ raia, interpretata dalla sensibile Milena Vukotic, che raccoglie i detriti nella pi­ scina vuota di Nostalghia. Ossia Tarkovskij ci fa vivere il mutismo come perdi­ ta della parola in quanto legame, nesso di comunicazione con gli altri. Inoltre, il protagonista di Sacrificio è persona che, anche quando parla col bambino, ha un tipo di comunicazione assai bizzarra: un modo di parlargli continuamente ma di non rivolgersi mai effettivamente a lui (sembra piuttosto un monologo interiore, e in realtà del bambino nessuno si prende cura). Quando, sia pure per sbaglio, lo colpisce e gli fa sanguinare il nasino, reagisce con lo svenimen­ to: perde totalmente il contatto sia col bambino sia col suo senso di colpa per averlo ferito. È una comunicazione ancora una volta simbolica, endopsichica. Credo che quel bambino rappresenti, in modo semplificato al massimo, lo stesso Tarkovskij, la sua parte infantile, dalla quale sente di essere lontano e separa­ to. Probabilmente c’è una sorta di coazione a ripetere nella dimensione del film rispetto alla sua realtà biografica: noi sappiamo che da bambino, il regista ha subito la separazione, l’abbandono da parte del padre, e sappiamo che lui stesso si è sentito obbligato dal suo destino ad allontanarsi a sua volta dalla moglie e dal figlio (così, per una sorta di coazione, nella realtà come nelle ope­ re, si determina la difficoltà di mantenere il rapporto tra padre e figlio). Perciò penso cha sia lui quel bambino del quale è così difficile prendersi cura, quel bambino per il quale tuttavia il protagonista non vuol rinunciare a nutrire speranze. A mio parere, le scelte tecniche messe in opera in Sacrificio possono con­ fermare quello che ho cercato di leggere nel film. Per esempio, la scelta del modo di inquadrare le scene. Tarkovskij sceglie come scenario le lande immen­ se del Nord Europa, ma poi la macchina da presa indugia su inquadrature « re­ strittive », anguste. Non solo, ma la macchina e lo sguardo sono quasi sempre rivolte verso il basso. La prospettiva è chiusa, rattrappita. Non c’è mai la sensa­ zione di un allargamento dell’orizzonte. C’è sempre, inoltre, una luce di eter­ no crepuscolo (il crepuscolo è proprio l’ora della depressione), che rende anco­ ra più intensa questa sensazione di angustia dello sguardo che non può spazia­ re, respinto in continuazione verso il basso, verso la claustrofobia e lo spezzet­ tamento dell’immagine in oggetti parziali. L’unica inquadratura che va dal basso verso l’alto è quella finale, enfatica, con l’albero secco che il bambino annaffia secondo il rito suggerito dal padre. L’altra cosa interessante è che anche la costruzione scenografica dello spa­ zio è assai bizzarro, perché la distinzione tra esterno e interno viene continuamente stravolta. Ad esempio, la stranissima casa piena di porte e di finestre — che ha un po’ le linee della dacia russa — è però poi ingombrata da pareti che continuamente interrompono lo sguardo e precludono, di nuovo, la possi­

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Il senso della nostalgia: da Nostalghia a Sacrifìcio

bilità di passare, di trascorrere da una stanza all’altra, dal dentro al fuori. È uno spazio chiuso, ma che non « contiene ». Uno spazio tanto frammentato da perdere la capacità di accogliere e proteggere, che dovrebbe essere la qualità precipua di una casa. Si determina così un inquietante paradosso, di uno spa­ zio che è al tempo stesso opprimente, claustrofobico, ma che non offre sicuri confini che possano svolgere la funzione di contenere. Un altro aspetto tecnico che mi è apparso molto significativo è anche quello del colore. Sappiamo quanto per Tarkovskij sia sempre stato importante l’uso del colore e il trascorrere del bianco e nero al colore. Qui in Sacrificio troviamo invece una splendida, ma algida fotografia. Che differenza con il passaggio bru­ sco, ma glorioso, dal bianco e nero aH’immagine vivamente colorata del finale àeW Andrej Rublèv. In Sacrifìcio c’è appena un passaggio lievissimo: dallo sco­ lorare al riprendere appena una sfumatura esangue, in una tenue differenza che non è un vero confine tra realtà e fantasia, tra incubo e veglia. E, ancora, l’uso del suono. La colonna spesso è muta, e i dialoghi — a mio parere — sono la parte più ingenua e meno significativa del film (talvolta sono addirittura carenti). Invece, la comunicazione è sovente affidata — oltre che alle opere d’arte figurativa, così spesso citate — alle musiche. Musiche che, però, hanno un andamento veramente bizzarro: una commistione di musiche ieratiche, musiche giapponesi, Bach. Dagli accostamenti stridenti si giunge fi­ no all’assoluto silenzio: come nella scena in cui viene rappresentata la catastro­ fe nucleare, e c’è un silenzio, una solitudine, un’assenza sinistra di suono che sembra esprimere al massimo l’ossessione del mutismo di Tarkovskij. Sulle citazioni cinematografiche si potrebbe aprire un interessante discor­ so. Vorrei distinguere tra plagio, citazione e quella che non chiamerei rimozio­ ne ma, con un termine freudiano, « criptomnesia ». Cioè, tutte le volte in cui conosciamo qualcosa, questo qualcosa diventa un nostro possesso inconscio e viene da noi utilizzato senza alcuna intenzione furtiva e malandrina. E proba­ bilmente si tratta proprio delle cose che sono entrate più profondamente a far parte della struttura artistico-espressiva, quelle che poi vengono citate incon­ sciamente, mentre nella citazione, di cui forse Tarkovskij, abusa (anche se noi ne abusiamo tutti) c’è da una parte il bisogno di stabilire un legame tra sé e le cose che ama, e dall’altra forse un processo incompiuto. In conclusione, mi sembra che in Sacrificio vi sia il dispiegarsi di tutte le povere forze utnane per far fronte all’angoscia di morte. Sono tentativi che oscil­ lano dall’ascetismo (il sacrificio attraverso il fuoco purificatore...) all’ingenua disquisizione filosofica (« Non esiste la morte, esiste solo la paura della mor­ te... »). Oppure si alterna l'illusione mistica di inventare un rituale privato — come annaffiare il ramo secco — che possa scongiurare la fine universale (« .. .il metodo ha un suo valore! Se uno compisse ogni giorno sempre la stessa azio­ ne... il mondo cambierebbe! ») con un altrettanto illusorio e vago progetto di azione, che prescinda dall’arido intellettualismo (« Fare, non parlare! » — dice ancora). Infine — rievocato nella memoria del protagonista — un altro doloroso tentativo votato al fallimento di contrastare l’angoscia: quello del ricorso alla creazione artistica. Esemplare in questo senso la scena in cui il protagonista va a trovare la serva Maria e le racconta l’episodio del giardino della madre (accan­ to al letto della madre morente vide fuori della finestra il giardino incolto, de­ cise di intervenire, lavorò, mise tutte le sue energie al servizio di questo proget­ to; alla fine, al momento di contemplare il risultato di tanta fatica, non potè

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far altro che constatare che era una ben povera cosa). « Mi sembrò un’orribile violenza! » commenta. Qui c’è proprio il dramma dell’artista, di tantissimi ar­ tisti che, per quanto grandi e geniali, sentono che la creazione è sempre al di sotto della loro aspirazione verso il sublime. Forse può essere interessante nota­ re che la psicoanalisi usa proprio la parola tecnica di « sublimazione » per desi­ gnare il tentativo umano di compensare talvolta le tensioni, i conflitti, le ango­ sce attraverso il sublime ed il bello. Ma Tarkovskij sente come vana e inadegua­ ta anche questa sua preziosa capacità creativa. L’ultimo tentativo al quale si può fare ricorso per tentare di trovare un rimedio all’angoscia rimane quello estremo della regressione. E questo della regressione è anche il tema che più da vicino mi riguarda. Dopo aver rivolto la struggente preghiera al padre (il < Padre nostro », che non esaudisce la sua implorazione di pietà), il protagonista decide di andare dalla serva, che — per l’appunto — si chiama Maria. All’apparenza, quello che cerca è un rapporto sessuale adulto con la donna, seppure un rapporto d’amore rituale, magico, che deve servire a scongiurare il terrore della morte e della distruzione. Ma non è difficile cogliere in questo abbraccio qualcosa di assai più arcaico: la regres­ sione verso l’infanzia, dal padre alla madre. In Nostalghia c’era l’unione prenatale con la madre rappresentata dalla Madonna di Piero: in Sacrificio viene citata V Adorazione dei magi di Leonar­ do; ma qui, alla fine, nell’amplesso del protagonista con la serva Maria, tutto avvolto in un grande lenzuolo, credo che non possiamo che vedere la Pietà, la Madonna con il figlio morto in braccio, con il bianco delle pieghe del len­ zuolo che evocano l’immobilità del marmo. Il sentimento della « pietà >, umana o divina, credo sia veramente quello che pervade e impronta quest’ultimo film di Tarkovskij. Penso di poter concludere così, lasciando rispettosamente a ciascuno la li­ bertà di leggere secondo le sue personali ossessioni e passioni, secondo la sua fede o la sua capacità di interpretare, il dramma umano e l’avventura creativa di Tarkovskij. A me preme soltanto sottolineare che, al di là di quella che può essere la soluzione individuale di questo regista, egli è sicuramente riuscito a trasmetterci il senso estremo della tragedia umana, il tentativo delle nostre for­ ze di « contenere » l’angoscia di mone.

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Andrej Tarkovskij è sepolto vicino a Parigi, nel piccolo cimitero di SainteGeneviève des Bois. Ci si arriva con un traballante autobus pieno di anziane signore dallo sguardo fiero c il cappotto cento volte rovesciato, che parlottano in russo a bassa voce. Giunti alla fermata ci si avvia lungo un viottolo di cam­ pagna cosparso di pozzanghere dello stesso grigio del cielo. Dopo una curva, appare in lontananza un bianco bosco di betulle, in mezzo al quale si intrave­ de la cupola azzurra orlata d’oro di una chiesetta ortodossa. Là è come se ter­ minasse la Francia e si aprisse davanti a noi l’immensa Russia. Un muro sbrec­ cato, coperto di angeli, delimita il cimitero. Dietro la chiesa di Notre-Dame de l’Assomption, tra gli alberi, si stendono le tombe. Subito ci si imbatte nella lapide dedicata allo scrittore piu amato da Tarkovskij: il romanziere premio Nobel Ivan Bunin, anch’egli morto in esilio. Dopo lunghe ricerche, ci viene finalmente indicata la tomba, in travertino, di un certo Wladimir Grigorieff (1895-1973). Due piante di gerani rossi coprono una targhetta di plastica nera, fissata alla pietra col fil di ferro. Lì c’è scritto: Andrej Tarkovskij. Riposa nella romba di un altro in attesa che, con i soldi di una sottoscrizione tra gli emigrati a Parigi, sia possibile comprargli un posto e collocarvi una lapide. Fu Tarkovskij stesso a voler essere seppellito in questa piccola isola di rus­ si, nell’illusione di poter esser in questo modo di nuovo nella sua terra. Il regi­ sta russo non si è mai trovato bene in Occidente. Per un farro di nostalgia anzi­ tutto. In una delle ultime interviste da lui rilasciate aveva detto: « Non biso­ gnerebbe lasciare la patria. Non dovrebbero farlo i polacchi, i russi, tutti gli slavi in generale. Dove potranno ritrovare la propria ‘slavità’? »1 È vero: po­ chi popoli come i russi sanno stare così male nell’emigrazione. Basterebbe pren­ dere, tra gli esempi contemporanei, Andrej Sinjavskij — che, emigrato nel 1973 a Parigi, non parla una parola di francese — o Solgcnitsin, che nel Vermont si è ricostruito un piccolo pezzetto di Russia. Ma non è su questo aspetto — che così efficacemente Tarkovskij ha mostrato in Nostalghìa (1983) — che ci interessa qui soffermarci. È un altro aspetto del difficile rapporto di Tarkovskij con l’Occidente che ci sembra meriti qualche considerazione ed un tentativo di approfondimento: l’avversione culturale e morale del russo Tarkovskij verso l’Occidente. Per tre anni il regista russo non si è mai stancato di ribadire la sua « alterità », il suo essere un « uomo dell’oriente », di un mondo diverso da questo. La prima critica di Tarkovskij riguarda lo stato della cultura occidentale e il modo di essere degli intellettuali. Da noi, secondo il regista russo, la cultu­ ra ha perso la sua natura spirituale: « In Occidente la cultura è diventata già da molto tempo un oggetto di consumo, proprietà del consumatore. Cultura è, per gli occidentali, ciò che essi possono avere ». Gli intellettuali sono ego­ 1 « Res Publica » [Varsavia], n. 1, giugno

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centrici, romantici, si sentono padroni del mondo. Avendo eliminato Dio ri­ tengono che all’uomo tutto sia possibile. Tarkovskij invece pensa che l’uomo debba essere umile, che non possa pretendere di conoscere l’aspetto profondo della realtà. La sua idea di spiritualità consiste nel considerare la crescita intel­ lettuale come un cammino, un avvicinamento, e non come un dominio. Nel film Nostalghia, il protagonista si fa condurre fino alla chiesa dove si trova la Madonna del parto di Piero della Francesca. Giunto là si rifiuta di entrare. La­ scia che vada la sua accompagnatrice-traduttrice che è curiosa di sapere perché tante donne si rechino in quel posto. Vorrebbe scoprire il segreto della Fede. Non otterrà nessuna risposta. Tarkovskij vuol farci capire che l’importante è l’« andare a » e non l’« entrare in >. L’uomo deve sapersi fermare. Anche in Stalker si scontrano due diversi atteggiamenti: la « guida » che rispetta la < zona », si vuol fermare alle soglie della stanza, e lo scrittore narcisista Trigorin, affiancato dallo scienziato, che vorrebbe addirittura piazzare una bomba in quel mistero che sfugge alle sue definizioni. L’atteggiamento spirituale, magico, dell’Oriente si contrappone alla folle < volontà di potenza » della cultura occiden­ tale. Lo « stalker » è « un profeta che crede che l’umanità stia andando verso la morte perché ha smarrito i valori dello spirito; egli cerca di trovare persone che credano in qualcosa, quel qualcosa che permette alla figlia apparentemen ­ te minorata (anche il figlio del protagonista di Sacrificio è momentaneamente muto ma riuscirà a capire, come nella scena finale del film, che ‘bisogna an­ naffiare ogni giorno un albero morto avendo fede che risorgerà’, muto è il bam­ bino de Lo specchio} che è in grado di spostare gli oggetti con la forza del pensiero. »23 Nella contrapposizione tra poesia e fede da una parte e ragione e tecnica dall’altra sta tutta la tradizione di una certa cultura russa dell’Ottocento. Le radici sono quelle di una separazione tra Russia ed Europa che restituisca al mondo orientale una sua specificità che il filoccidentalismo di Pietro il Grande aveva frustrato. Basterebbe andarsi a rileggere, ad esempio, il libello del lin­ guista Nikolaj Trubcèkoj, L’Europa e Pumanità (1920), per trovarvi espressi i temi della critica all’eurocentrismo, alle < conseguenze pesanti e spaventose della europeizzazione » che tornano nelle interviste a Tarkovskij. Ci vorremmo però qui soffermare un attimo su due aspetti particolari del­ la differenza tra la cultura occidentale e orientale su cui insiste Tarkovskij. Mi riferisco alla musica e alla pittura. Le musiche di Wagner e di Beethoven sono definite dal regista russo « un infinito monologo su se stessi ».* Nella musica orientale, invece, < la persona è totalmente assorbita in Dio, nella Natura, nel Tempo »:4 trova se stessa in tutto, e scopre tutto in se stessa. La musica euro­ pea « positiva » finisce con Bach e Pergolesi, che accompagnano le immagini de Lo specchio, come anche quelle di Sacrificio, dove la Math 'àus Passion si fonde con una melodia giapponese per flauto. Riguardo al rapporto di Tarkovskij con la pittura, mi sia consentito un ri­ cordo personale. Quando abitava a Firenze ebbi occasione di chiedergli se an­ dava agli Uffizi. Mi rispose che riusciva a vedere soltanto le prime sale, adorava Simone Martini, Ambtogio Lorenzetti e Giotto. Gli ori di quelle tavole gli ri­ cordavano le icone, e anche gli sguardi delle madonne. Col Rinascimento la 2 Intervista a « La Repubblica >, 9 gennaio 1981. 3 Intervista cit. su « Res Publica >.

4 A. Tarkovskij. Sculpting in Time, Londra 1986, p. 226.

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pittura italiana si era allontanata dalla tradizione dell’icona, come la cultura — esaltando l’uomo — aveva < voltato le spalle alla spiritualità e a Dio ». Co­ me sostenne il teologo russo Pavel Florenskij: « La pittura religiosa dell’Occidente, incominciata col Rinascimento, fu una radicale falsità artistica e pur pre­ dicando a parole la prossimità e fedeltà alla realtà raffigurata, gli artisti non avevano niente a che fare con quella realtà che pretendevano e ardivano rap­ presentare; non ritenevano nemmeno opportuno osservare le norme della pit­ tura d’icone tradizionale, cioè la conoscenza del mondo spirituale, quale era trasmessa dalla Chiesa cattolica ».5 In questo valore sacro dell’icona Tarkov­ skij credeva molto, e con orgoglio riaffermava questa specificità dell’arte russa, da molti occidentali considerata « minore ». Per questo motivo teneva molto affinché nel film Andrej Rubl'èv non si cogliesse soltanto l’aspetto storico, ma anche quello cultural-rcligioso. Parlando di questo film, forse uno di quelli che amava di più, ricordava un’altra affermazione di Florenskij: « Fra tutte le di­ mostrazioni filosofiche dell’esistenza di Dio suona la più persuasiva quella di cui non è fatta menzione nei manuali: si può formulare con il sillogismo: ‘Esi­ ste la Trinità di Rublèv, perciò Dio è’. » La pittura ha un ruolo importante anche in altri film di Tarkovskij. Il regista russo la utilizza per rappresentare due visioni opposte del mondo, come nel caso della musica. Al di là delle cita­ zioni, più o meno esplicite, da Bosch, Rembrandt, Breughel e Dùrcr (il piccolo Ivan, sfogliando un album di riproduzioni artistiche del pittore tedesco, ritro­ va la stessa violenza che i nazisti compiono nella realtà), è a Leonardo da Vinci che Tarkovskij dedica la maggiore attenzione. Leonardo come esponente più rappresentativo della cultura occidentale, della razionalità che si allontana, do­ po il Medioevo, dall’oriente. C’è fascinazione ed inquietudine nei confronti di questo pittore. In Lo specchio il figlio del protagonista, Ignat, sfoglia un album (uno dei tanti album sfogliati dai protagonisti di Tarkovskij: Ivan, co­ me abbiamo visto; Ignat; Alexander, il giorno del suo compleanno) con le im­ magini della Madonna col bambino e sant Anna. l’Ultima cena, la Gioconda. la Vergine delle rocce. Sempre nello stesso film compare il Ritratto di giovane donna con il ginepro (Ginevra de’ Benci), attribuito a Leonardo, che Tarkov­ skij ha definito < un labirinto infinito; qualcosa che attrae e respinge ».6 In Sacrificio invece un fascino malato emana dalla riproduzione Adorazione dei magi, sempre di Leonardo. E lo strano postino-filosofo Otto afferma: « Ho sempre avuto molta paura di Leonardo ». Il protagonista Alexander, invece, con l’album di riproduzioni di icone, ricevuto in regalo, si abbandona ad un {JèJogio di questa pittura e del senso di pace e di spiritualità che emana da qucl'• Le figure ieratiche. C’è un ultimo aspetto che vorremmo considerare nell’esame del rapporto difficile c polemico di Tarkovskij con il mondo e la cultura occidentali. Tarkov­ skij non si è mai stancato, nelle interviste che ha concesso quand’era in Occi­ dente, di ribadire la differenza che esiste tra libertà interiore e libertà esteriore. La libertà politica e la libertà spirituale sono due concetti diversi. Quando par­ liamo di libertà politica, come nei paesi dell’Est europeo, non abbiamo in real­ tà in mente la Libertà, ma il diritto. Il diritto di poter vivere nel modo in cui riteniamo giusto, secondo le nostre convinzioni ed esigenze. Per quanto riguarda invece la Libertà, secondo Tarkovskij, se uno vuol essere libero, può esserlo do’ P. Florenskij, Le porte regali [1922], Milano 1977.

6 |n < kkusstvo Kino », n. 3, 1979-

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vunque, persino in prigione. Ad un polacco che lo intervistò poco prima del­ l’aggravamento della malattia, Tarkovskij disse in proposito: « Gli occidentali non capiscono niente di ciò che dico a questo proposito. Tempo fa ho parteci­ pato ad un incontro qui in Svezia ed i giornali hanno scritto che io, riguardo alla libertà, non faccio che parlare della spiritualità. Per loro è strano, non han­ no più la minima idea di che cosa sia. Io parlo di spiritualità nel senso che l’uo­ mo dovrebbe sapere perché vive, dovrebbe pensare al senso della sua vita. Se fa questo, e riesce a realizzarlo dentro di sé, allora è libero ». La Russia, da que­ sto punto di vista, gli appariva — come in Berdiajev — « la libertà interiore », un luogo dove la spiritualità è ancora, nonostante tutto, salva. « L’unica sal­ vezza: quella personale », soleva ripetere, sconcertando i giornalisti: « La mia libertà è la mia arte ». In Svezia, durante le riprese di Sacrificio, dichiarò: « Sto cercando di fare anche un discorso sulla libertà. Più vivo in Occidente, più mi convinco che la gente ha perso la sua libertà. Non c’è dubbio che in Russia la gente sia più libera. Non in senso legale, certo. Ma non dobbiamo confondere la libertà con i diritti. In Occidente tutto ha un prezzo c forse la gente ha dovuto sacrificare la sua libertà interiore per garantirsi dei diritti. »7 Queste sue idee si trovano espresse, in modo meno categorico, in quello che può esser considerato il suo testamento: la « Conclusione » del libro Scol­ pendo nel tempo, che raccoglie le sue riflessioni sul cinema e sulla vita. La no­ stra epoca, dice amaramente Tarkovskij, è la fase finale di un intero ciclo stori­ co nel quale il massimo potere è stato nelle mani del « grande inquisitore », di uomini e gruppi che si erano assunti la responsabilità della felicità altrui. Ma queste promesse del benessere per tutti sono risultate in flagrante violazio­ ne dei diritti degli individui. In nome di una necessità storica, della « retta via » si è assassinato l’uomo e la sua vita spirituale. Noi viviamo in società dove tutto è organizzato in modo « concertato », e non facendo leva sugli sforzi degli in­ dividui. L’individuo è diventato lo strumento delle idee e delle ambizioni de­ gli altri. Il progresso materiale non ha proceduto di pari passo con il progresso spirituale. Il progresso materiale non porta alla felicità. Il protagonista di Stal­ ker dice che il presente ha fagocitato il futuro, nel senso che esso contiene tutte le precondizioni dell’imminente disastro. Questo perché il rapporto tra il com­ portamento umano ed il destino individuale è stato distrutto. La caratteristica del mondo occidentale è che le innegabili libertà democratiche coesistono con una mostruosa crisi spirituale che affligge i cittadini. La libertà non può essere presa come un dono, come l’acqua che sgorga dalla fonte, che non costa una lira, e non richiede nessuno sforzo. La libertà non è qualcosa che può essere incorporata nella vita di un uomo una volta per tutte: deve esser sempre co­ stantemente raggiunta attraverso uno sforzo morale. In rapporto al mondo ester­ no, l’uomo è essenzialnjente schiavo perché non è solo. Ma egli possiede, sin dall’inizio, una libertà interiore, se soltanto può evocare il coraggio e la risolu­ tezza ad usarlo, accettando il fatto che la sua esperienza interiore ha un signifi­ cato sociale. Nei suoi due film girati in Occidente — Nostalghia e Sacrificio — Tarkov­ skij ha lanciato questo messaggio. Un messaggio accompagnato che ripete un rito. Sembra caratteristico della cultura russa: « Immolarsi col fuoco » — ha scritto 7 Intervista a < La Repubblica », 4 giugno

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Nikolaj A. Berdiajev — « più che un atto di coraggio religioso, è un fenomeno nazionale russo che gli altri popoli conoscono appena ».8 Infatti Gorciakov, il protagonista di Nostalghia, conduce a termine la cerimonia ideata da Domeni­ co portando nella piscina la candela accesa, diventando così colui che chiude il cerchio del sacrificio (per interpretare sia questa scena sia il gesto di Alexan­ der ci può esser di grande aiuto La psicanalisi delfuoco, 1938, del filosofo fran­ cese Gaston Bachelard: l’immaginario, per lui come per Tarkovskij, costituisce una forma di conoscenza più profonda di quella tecnico-scientifica). Oltre alle fiamme e al sacrificio, Tarkovskij ci propone però anche un’uto­ pia, un punto di incontro tra il suo mondo e il nostro. Mi riferisco al sogno utopico nella scena finale di Nostalghia'. la dacia russa dentro la chiesa scoper­ chiata di San Galgano. Solo dall’incontro della semplice religiosità medievale con la cultura contadina è possibile un futuro unitario tra Occidente e Oriente. Al di là di un’analisi del messaggio poetico che i film di Tarkovskij han­ no, credo che sia oggi giunto il momento di confrontarci con le sue idee. Nel farlo, sarebbe un errore fermarsi sulle sue soventi forzature e schematizzazioni. Contrapponendo a lui le nostre ragioni di « occidentali offesi » rischieremmo di perdere il valore positivo delle sue « provocazioni ». Una volta, proprio qui nel salone de’ Cinquecento di Palazzo Vecchio, Tarkosvkij iniziò il suo intervento analizzando le immagini che si vedono alle pareti e sul soffitto ed esclamò: « ecco il tempio della vostra cultura, solo batta­ glie, feste, satiri, niente religiosità. Amo queste immagini ma non mi appar­ tengono! ». Questo senso di comunità e allo stesso tempo di distanza, che ca­ ratterizzava il suo rapporto con l’Occidente, deve essere da noi salvato. In fon­ do il suo « manicheismo », il suo dividere il mondo in bianco e nero, è come una scossa elettrica che ci viene data. Un segnale d’allarme che ci obbliga a fermarci un attimo e ripensare a ciò che siamo, a quel cammino che la nostra cultura e la nostra arte hanno iniziato a percorrere col Rinascimento. Dovendo­ ci « difendere » da Tarkovskij abbiamo la possibilità di riconsiderare tante cose e tanti valori che siamo abituati a dare per scontati. Allora la sua sofferta intol­ leranza, invece di allontanarci, ci farà capire meglio il suo mondo ed il nostro. In questo Tarkovskij, oltre ad averci dato dei bellissimi film, ci ha fatto e ci farà un grande servizio.

8 B.A. Kovacs e A. Szilagi, Les mondes d'A. Tarkovski, Lausanne 1987.

Le fonti pittoriche del cinema di Tarkovskij Marco Fagioli

Appare interessante l’analogia tra alcune pagine di Viktor B. Sklovskij sulla concezione di spazio nella pittura bizantina e nel Rinascimento e le riflessioni che, intorno alla pittura russa di icone ed alla Adorazione dei magi di Leonar­ do da Vinci, vengono svolte in alcuni dialoghi dell’ultimo film di Tarkovskij, Sacrificio. Non sappiamo se Tarkovskij, al momento di concepire la scrittura di Sacrificio, avesse letto le pagine di Sklovskij, edite nel 1970, e ciò non è im­ portante ai fini delle nostre considerazioni: occorre rilevare invece che proprio nello scritto di Sklovskij si trova un paragone tra lo spazio pittorico bizantino e quello rinascimentale, che in qualche modo è analogo alle riflessioni svolte in Sacrificio. L’analisi di una famosa icona di Rublèv, quella raffigurante IfAn­ nunciazione della cattedrale di Mosca, precede nella stessa pagina la citazione di un brano di Leonardo, dal Trattato della pittura, e l’accostamento dei due testi — il primo visivo e il secondo teorico — enuncia la profonda opposizione, la < disputa >, insita secondo Sklovskij nei due modi di raffigurare lo spazio. Nell’icona di Rublèv la concezione dello spazio rimane sostanzialmente legata alla « prospettiva inversa » della tradizione bizantina, seppure il pittore abbia usato una sorta di visione complessa, per cui < le parti semanticamente meno importanti obbediscono alla prospettiva diretta. Le parti per così dire principa­ li obbediscono alla prospettiva convenzionale e alla presentazione frontale. Ne risulta una specie di torsione dell’edificio »; Leonardo invece, scrive Sklovskij, « eliminando i vecchi metodi raffigurativi del volume degli oggetti in superfi­ cie, annullò le convenzioni dell’iconografia bizantina. »' Non ci interessa seguire le ulteriori riflessioni di Sklovskij sul concetto se­ condo cui i due diversi metodi di raffigurazione dello spazio corrispondono a « una precisa regola semantica >, a < codici convenzionali diversi > e non ad una presunta arretratezza del primo rispetto al secondo, riflessioni che concordano con quelle della critica moderna, a partire dal contributo ormai classico di Er­ win Panofsky del 1927; ci interessa invece sottolineare la profonda opposizione che in questo resto si stabilisce tra lo spirito della tradizione bizantino-russa ed il Rinascimento, di cui Leonardo è assunto a simbolo. Una simile opposizio­ ne, non corrispondente invece alla lettura di Andrej Rublèv in chiave di pro­ fondo rinnovatore e primo rappresentante del Rinascimento russo (che per cer­ ti versi è al centro del film di Tarkovskij sul pittore) ci sembra adombrata in 1 V.B. Sklovskij, Simile e dissimile (1970), Milano 1982, p. 48. Si ricordino a que­ sto proposito anche alcune considerazioni di Er­ win Panofsky: « Ma Tane bizantina, che in fondo non si staccò mai compiutamente dalla tradizio­ ne antica, non pervenne a una rottura radicale con i principi della tarda Antichità (così come viceversa, non giunse ad un vero Rinascimento) [...]; tanto che il Bizantinismo — e ciò riveste

per noi una particolare importanza — potè con­ servare. malgrado la disorganizzazione che in­ trodusse nella composizione, singoli elementi co­ stitutivi dell’antico spazio prospettico e trasmet­ terli al Rinascimento occidentale >; in E. Panof­ sky, La prospettiva come forma simbolica e al tri scritti (1924-1925), Milano 1961, pp. 56, 57, e n. 32 a p. 97.

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Sacrificio, quando all’immagine della Adorazione dei magi, preludio visivo e motivo conduttore del film, si oppone l’affermazione della grandezza della pit­ tura di icone, della sua vicinanza a Dio, nelle parole di Alexander quando sfo­ glia il libro che Victor gli ha regalato per il compleanno. Le icone russe colpiscono Alexander per la < saggezza e spiritualità {...] profonda e virginale nello stesso tempo. Incredibile come una preghiera », ma « tutto questo è andato perduto. Non siamo più neppure capaci di pregare ». A questa affermata esaltazione di un principio cardinale dell’estetica bizantina e della teologia greco-ortodossa, che vede nella icona — similmente alla pre­ ghiera — un mezzo per pervenire alla trascendenza ed alla « contemplazione di Dio mediante immagini sensibili », secondo la formulazione di Giovanni Damasceno nelle Omelie sulle sante immagini,2 fanno riscontro in due occa­ sioni le considerazioni negative di Otto, ex insegnante e postino, sulla Adora­ zione dei magi di Leonardo. Egli non riesce a distinguere le figure « troppo scure » del quadro e, rivolto ad Alexander, afferma: « Lo trovo terribilmente sinistro. Ho sempre provato un gran terrore di fronte a Leonardo », ed aggiun­ ge poi, in una sequenza successiva: « Io preferisco Piero della Francesca ». L’opposizione icone russe - Adorazione dei magi sembra rimandare sim­ metricamente al più sfumato dualismo Dostoevskij - Shakespeare e quindi spi­ rito russo - spirito europeo, ripreso più volte nei dialoghi sui trascorsi di attore di Alexander e del suo oscillare tra Riccardo II e il principe Miskyn, per risol­ versi parzialmente nella riflessione sulla autonomia dell’attore come unico tipo di artista che può spiritualmente creare l’arte in se stesso ed attraverso se stesso. L’antinomia nascosta quindi in questi dialoghi, ma centrale, tra pittura russa di icone e pittura rinascimentale, sembra essere una costante del pensiero di Tarkovskij ed alludere forse ad un più generale scontrarsi tra spirito russo e spi­ rito europeo, tra misticismo greco-ortodosso ed umanesimo rinascimentale. An­ che nella Infanzia di Ivan, in due sequenze diverse, Tarkovskij sembra abboz­ zare questa opposizione: quando Ivan sfoglia l’album di riproduzioni d’arte del giovane tenente Galcev e vede nella xilografia I quattro cavalieri deirApo­ calisse di Albrecht Durer, il più rinascimentale dei pittori tedeschi, la stessa foga distruttrice dei soldati nazisti, e successivamente quando durante il bom­ bardamento di artiglieria appare nella luce abbagliante delle esplosioni l’im­ magine scheggiata di un affresco bizantino, la Madonna Eieusa, subito seguita dall’inquadratura di una croce divelta.3 Estremizzando questa chiave di letiurà si potrebbe affermare che in Sacrificio queste coppie antinomiche di idee sembrano innestarsi su un più profondo, quasi oscuro dualismo tra una religio­ sità della preghiera e del culto antico, delle origini, e una religiosità della nascitaredenzione, allusa simbolicamente neW Adorazione dei magi, il mistero cristo­ logico della doppia natura, umana e divina, nonché il tema del dono, la pissi­ de che la mano del magio mirroforo adorante volge al Bambino, particolare del quadro sul quale la camera torna insistentemente. Non si vuole qui identificare direttamente il pensiero di Tarkovskij con i giudizi espressi da Alexander e Otto nei dialoghi di Sacrificio', ci sembra inte­ ressante riprendere, a questo proposito, una serie di considerazioni di Michail 2 V. Lazarev, Stona della pittura bizan­ tina (1947), Torino 1967, pp. 23 sgg. Damasce­ no riprende questo concetto da Dionigi l’Aeropagita.

3 Per alcune interessanti considerazioni sui rapporto tra Tarkovskij e la pittura si veda A. Prezzano, Andrej Tarkovskijy Firenze 1977, PP- 91 sgg.

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Bachtin sul problema della posizione dell’autore nei confronti del personaggio nell’opera di Dostoevskij, che a parer nostro possono servire ad illuminare me­ glio anche la posizione di Tarkovskij verso i suoi personaggi. Vi sono dei ricor­ renti indizi biografici, che pure sono tanti, ma che possono fuorviare: ci riferia­ mo a Lo specchio ed anche ad alcuni più recenti accenni nelle vicende di Ale­ xander in Sacrificio, e cioè la recita shakespeariana (regia di Tarkovskij, Amie­ to. nel 1976), e le allusioni al principe Miskyn, lavoro interrotto della trasposi­ zione cinematografica di L'idiota. Al di là di questi indizi biografici va analiz­ zato il rapporto stesso che il regista costruisce con i suoi personaggi nel film. Bachtin scrive a proposito di Dostoevskij: « Il personaggio interessa Dostoev­ skij non come elemento della realtà che possiede determinati e stabili segni socialmente tipici e individualmente caratterologici, non come figura determi­ nata che nasce da tratti univoci e oggettivi che nel loro insieme rispondono alla domanda ‘chi è’. No, il personaggio interessa Dostoevksij come particolare punto di vista sul mondo e su se stesso [...]. Per Dostoevskij è importante non quello che il suo personaggio è nel mondo, ma ciò che il mondo è per il personaggio e ciò che egli è per se stesso ».4 In questo contesto la costruzione del perso­ naggio non riguarda il « chi è » quanto il « come egli prende coscienza di sé », secondo una operazione di scrittura che trasferisce « l’autore e il narratore, con tutto l’insieme dei loro punti di vista e delle descrizioni, caratterizzazioni e determinazioni del personaggio da loro fornite, nell’orizzonte del personaggio stesso » trasformando « la sua compiuta, totale realtà in materiale della sua au­ tocoscienza ».5 Questo tipo di rapporto tra l’autore e il personaggio nei romanzi di Do­ stoevskij viene definito da Bachtin « dialogico », in opposizione alla tecnica nar­ rativa di Lev N. Tolstoj, nel quale invece « l’orizzonte dell’autore non interse­ ca e non incontra mai dialogicamente l’orizzonte-visione dei personaggi », co­ sicché « il punto di vista del personaggio (là dove è messo in luce dall’autore) è sempre un oggetto per il punto di vista dell’autore ».6 II procedimento se­ guito da Tarkovskij nella costruzione dei personaggi dei suoi film, in particola­ re di AndrejRublèv e Sacrificio, ci sembra — pur tenendo conto delle diffe­ renze strutturali tra linguaggio letterario e filmico — in qualche modo assimi­ labile a questa concezione « dialogica ». In tal senso i giudizi e le riflessioni sulla pittura espressi da Rublèv e Teofane, oppure da Alexander e Otto, con le loro convergenze e antinomie, vanno intesi come « punti di vista », come illuminazioni appartenenti a unjprocesso dialettico di autocoscienza che si ra­ dica ed attua nell’autore stesso. E interessante notare come la presenza di Leo­ nardo nella cultura russa abbia trovato uno dei maggiori momenti di risalto nel libro Leonardo da Vinci 0 la resurrezione degli dei (1902), di Dimitrij Sergeevic Merezkovskij, un’opera che, seppure mai citata, deve essere stata pre­ sente a Tarkovskij. A Merezkovskij si deve, per primo, l’introduzione del siste­ ma comparativo nello studio di Tolstoj e Dostoevskij, con un saggio del 1909. Molti temi di questo scrittore sembrano presenti nella problematica ideologica di Tarkovskij: la rivolta contro il positivismo e l’utilitarismo, la ricerca di una missione religiosa dell’arte, l’aspirazione profonda ad un nuovo cristianesimo, la convinzione — confermata dallo studio di Dostoevskij — « che il vero spiri­ to cristiano è da ricercare in Russia ». Una personalità, quella di Merezkovskij, 4 M. Bachtin. Dostoevskij. Poetica e siiUstica (1963), Torino 1968, pp. 64 sgg.

5 Ivi, p. 97. 6 Ibidem.

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complessa e contraddittoria, che passò dalla slavofilia ortodossa all’adesione, nel 1905, al movimento rivoluzionario, alla pubblicazione di scritti contro l’au­ tocrazia, al riconoscimento dei decabristi come « preannunziatoti di un tempo nuovo, ma per il fatto di essere venuti troppo presto, all’oscuro della propria missione e perciò destinati al fallimento ».7 Ma quello che ci interessa sottolineare è come il libro di Merezkovskij su Leonardo, notissimo e per niente da sottovalutare, come dimostra l’attenzione che gli dedicò Werner Sombart nel saggio sulla formazione dello spirito econo­ mico borghese, può aver stimolato la visione che Tarkovskij ha del grande pit­ tore. 8 Ci troviamo di fronte, in questo caso, ad una situazione ambigua che spesso si ripete anche per le fonti iconografiche del regista: Tarkovskij ama in­ fatti citare sempre alcune delle sue fonti come Dovzenko e Bruegel, ma per altre egli opera una sorta di oscura rimozione, come per Ejzenstejn e Il’ja Re­ pin. Anche in Andrej Rublèv torna, seppure più sfumata, l’opposizione tra un Rinascimento europeo con connotazioni laiche e la tradizione bizantinorussa, con connotazioni mistiche, nella sequenza in cui — episodio della fusio­ ne della campana — al momento della consacrazione appare, al seguito del principe, l’ambasciatore italiano: nel dialogo, in italiano nel sonoro originale, due uomini del paese che per eccellenza rappresenta il Rinascimento, manife­ stano tutto il loro stupore di fronte all’impresa di un popolo considerato anco­ ra primitivo e arretrato. Già il costituirsi di questa opposizione, che nel percor­ so di Tarkovskij assumerà aspetti diversi, dimostra quanto sia profonda nella sua opera la congiunzione pittura-cinema e quanto problematiche ne siano le motivazioni filosofiche. La citazione di opere pittoriche, le suggestioni formali derivate nonché la riflessione ideologica intorno ad esse, si pongono come un procedimento carat­ teristico di Tarkovskij. Sebbene a questo procedimento si affianchi, con eguale profondità, quello dell’inserimento di motivi e testi letterari, nella stesura del­ la sceneggiatura c dei dialoghi, che a volte hanno essi stessi valore strutturante nella composizione generale del film (si ricordino i versi di Fédor I. Tjutcev in Stalker, oppure le poesie del padre Arsenij Tarkovskij e il brano della lettera di Puskin in Lo specchio, film in cui appare la prima « scoperta » della pittura di Leonardo), si può affermare che in Tarkovskij il tema della presenza e del significato della pittura occupa un posto centrale. Si deve considerare che quesjArpotivo, del rapporto pittura-cinema, appare peculiare anche in altri registi russi: nel saggio già ricordato di Sklovskij viene indicata l’importanza che un dipinto di V.A. Serov assume nella riflessione di Ejzenstejn. Si tratta di un ri­ tratto dell’attrice Ermolova al quale Ejzenstejn dedica un’analisi dettagliata in uno scritto del 1935, e Sklovskij sottolinea nitidamente quanto la scomposizio­ ne « in quadri » di questo ritratto fatta dal regista, con la scoperta che il pittore ha usato tre diversi « punti di vista », assuma una valenza che oggi definirem­ mo strutturale ai fini della concezione del linguaggio filmico.9 Ma mentre in Ejzenstejn il rapporto con la pittura investe il modo stesso del « fare cinema », ed in ciò appare una sua congiunzione con le avanguardie, in Tarkovskij il rap7 E. Lo Gatto, Storia della letteratura rus­ sa, Firenze 1942, pp. 435 sgg. 8 W. Sombart, Il borghese (1913), Mila­ no 1983, pp. 86-88 e p. 305. 9 V.B. Sklovskij, op. cit., pp. 44-45. Per

il ritratto della Ermolova si veda V. Serov, Peri­ ture, Art graphiqu'e, Décor théatral. a cura di D. Sarabianov e G. Arbouzov, Leningrado 1982, n. 466, tavole 141, 142.

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porto con la pittura — pur generando profonde suggestioni formali, incide in misura minore nella struttura del linguaggio, ma si estende in direzione delle implicazioni filosofiche e spirituali, diviene pretesto di riflessione morale. In EjzenStejn, come ha dettagliatamente analizzato Pier Marco De Santi, alla messa in scena ispirata a testi figurativi quali le battaglie di Paolo Uccello e Piero del­ la Francesca in Aleksandr Nevskijoppure il san Sebastiano di Antonello o Man­ tegna in Que viva Mexico!. si affianca il continuo rapporto con la pittura e il disegno, tecniche operative, nei bozzetti, schizzi e schemi, come strumenti di lavoro per la preparazione di ogni film: e questo uso duplice della pittura, quale patrimonio iconografico e procedimento operativo, si realizza in Ejzenstejn a contatto con un ambiente fervidissimo, animato dalla presenza dei futuristi, da Majakovskij a Malevic, Tatlin, Rodcenko, e dei formalisti, da Sklovskij a Tynjanov, in una emergenza unica per la storia della cultura russa del No­ vecento. 10 In Tarkovskij la congiunzione con la pittura avviene invece ad un livello più « teologico » e meno linguistico e non di rado serve proprio ad innescare un processo di riflessione filosofica, al pari del testo letterario. Nella prima par­ te di Sacrificio, ad esempio, il testo pittorico serve di avvio ad una riflessione che investe tutta la concezione della realtà, della vita, della verità stessa: nelle parole di Otto: « Noi guardiamo ma non vediamo nulla », e ancora, « La veri­ tà, non esiste la verità »; infine, « Noi siamo proprio ciechi, non vediamo nul­ la ». In questi dialoghi sembra di avvertire il consumarsi di una speranza meta­ fisica, di un credo nel valore spirituale della immagine, che era partito da lon­ tano, affondando le sue radici in alcune formulazioni del?estetica bizantina. In Tarkovskij non troviamo mai la messa in scena integrale di quadri come avviene in molti altri registi, da Pasolini, La ricotta, a Godard in Passion', il rapporto che Tarkovskij instaura con il testo pittorico è un rapporto interno alla struttura del film, nel senso che alla citazione diretta (la camera inquadra sempre una riproduzione dell’opera e ne analizza in successione i dettagli) cor­ risponde poi l’estensione del tema « visivo » ad una presenza continua nello svolgimento del film, come avviene per VAdorazione dei magi in Sacrificio. oppure per i Cacciatori nella neve di Pieter Bruegel in Solaris. Vi sono però alcuni casi, e rivestono un’importanza determinante, in cui Tarkovskij non si limita ad assumere solo la citazione diretta, iconografica, del quadro, ma deri­ va da esso un procedimento di strutturazione visiva, non solo per l’impianto scenico e la concezione dello spazio, ma anche per il movimento della macchi­ na da presa e nella costruzione stessa della sequenza. Prendiamo come primo esempio l’episodio di II buffone nella prima par­ te di Andrej Rublèv. Si tratta di un episodio che già nelle figure dei contadini e del buffone richiama direttamente i « tipi » delle pitture di II’ja Repin (1844-1930), forse il maggior pittore russo della seconda metà dell’Ortocento. La critica si è limitata a segnalare i rapporti di Tarkovskij con i pittori da lui amati e citati direttamente nei suoi film, in particolare Rublèv, Leonardo, Brue­ gel e Piero della Francesca, ma appare indubbio che egli abbia « visto » e ri­ cordato anche altri artisti russi dei quali si trova, a parer nostro, traccia eviden­ te nella sua opera; uno di questi è appunto Repin. È interessante notare che uno dei personaggi di L'infanzia di Ivan, il capitano Kolin, durante il collo­ quio con la giovane donna, tenente medico Masa, nel bosco di betulle, ricorda 10 V.B. Sklovskij, op. cit.. pp. 164-165.

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un altro importante pittore russo dell’ottocento, Vasilij Surikov (1848-1910), pittore cosacco, a proposito del proprio paese di nascita, Krasnoyarsk in Sibe­ ria. Sebbene tale citazione avvenga nel contesto di un dialogo in cui risalta un velo di ironia, la ragazza vanta infatti lo scrittore Alexej Tolstoj in risposta alla fama di Surikov, e non si può quindi considerare tale citazione in chiave « dia­ logica » come segnale di pregnanza ideale, essa rimane probabilmente, in tut­ ta la filmografia del regista, l’unico accenno diretto ad un pittore del gruppo degli « Ambulanti », al quale apparteneva anche Repin. Nell’episodio di « Il buffone », come in altre parti di Andrej Rublèv, il rapporto con la pittura russa dell’ottocento diviene stretto. La figura del buf­ fone, che ritorna poi alla fine nell’episodio di « La campana », appare derivata come quella degli altri contadini, dai servi della gleba che popolano i quadri di Repin; in particolare il buffone sembra il calco della figura in primo piano nel quadro I battellieri del Volga, dipinto da Repin nel 1873. Una analogia interessante ci sembra di cogliere anche tra l’idea di spazio pittorico esterno del quadro 1 battellieri del Volga e il movimento di macchina con cui Tarkovskij descrive l’interno dell’isbà nell’episodio già ricordato: in am­ bedue i casi infatti lo spazio è stato inteso ellitticamente. Nel quadro il gruppo delle figure si muove sulla striscia rettilinea della riva, seguendo una direzione di fuga che tocca prima il battello trascinato, poi l’orizzonte dal quale sembra­ va partita, ed in senso opposto, uscendo dai margini stessi del quadro. Nella sequenza dell’isbà la macchina da presa, ad un certo punto, compie un movi­ mento ellittico completo inquadrando in progressione lo spazio perimetrale della capanna, inclusa la porta aperta sulla pioggia, e tornando alla fine al punto di partenza da cui aveva iniziato. L’inquadratura dell’interno dell’isbà, con la porta aperta sul paesaggio, sembra rimandare anche ad un altro quadro di Repin, La partenza del coscritto (1879) ora al Museo Russo di Leningrado.11 L’influsso di Repin su Tarkovskij, ancorché nascosto, deve essere stato ben profondo, pur mancando conferme dichiarate del regista, e sembra essersi svolto su un duplice piano: da un lato nel suggerire ambienti e tipi iconografici, dall’altro — e questo appare partico­ larmente importante — nella concezione stessa dello spazio pittorico, dell’im­ magine, e nel taglio dell’inquadratura, che in Repin, ad esempio nei ritratti, fu eccezionalmente originale, non solo rispetto alla pittura russa ma anche a quella europea contemporanea. Un esempio di calco da Repin, o quantomeno di suggestione ricevuta, può essere individuato nella figura di Teofane in An­ drej Rublèv'. la testa del personaggio, con i capelli e la barba bianca rimanda infatti al volto di san Nicola Taumaturgo nel quadro Nicola di Myra salva tre innocenti condannati a morte nella città di Myra in Licia (1888), Museo Russo di Leningrado. Colpisce di quest’opera, come in altre di Repin, la gestualità costruita in modo teatrale, ma nello stesso tempo misuratissima, fissata secon­ do una cadenza quasi rituale, in cui la disposizione delle figure, i particolari delle mani, assumono una valenza simbolica, e questo è ciò che troviamo spes­ so nelle cosiddette sequenze « lente » di Tarkovskij. 11 12*È noto quanto la pittu­ ra degli « Ambulanti », in russo Peredvizniki, sia stata importante per Ejzen11 Per questo e gli altri quadri di Repin citati si rimanda alla monografìa llia Repine. Pcinture, Art Graphique, a cura di G. Sternine ed altri autori, Leningrado 1985, p. 250, n. 14 e

p. 255, n. 56. Per i quadri degli altri pittori « Ambulanti » citati si veda in A. Lebedev, The Itinerants, Leningrado 1974. 12 G. Sternine, op. cit., p. 269, n. 170.

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stejn, che nella costruzione di alcuni personaggi, da Nevskij a Ivan il Terribile avrebbe sovrapposto « alla propria sintetica viscerale visualizzazione grafica », quella cioè dei disegni iniziali, « elementi di mediazione recuperati airinterno della tradizione iconografica sul personaggio », elementi propri appunto dei quadri di Repin, Vasnecov e Serov.13 Nel caso di Tarkovskij si deve aggiungere che le suggestioni da Repin ed altri pittori non servono solo a storicizzare la messa in scena di un episodio, quanto ad accentuarne le suggestioni visive e formali. Qui sarebbe necessario fermarsi a considerare il parziale fraintendimento che la critica europea ha ope­ rato nella valutazione dell’opera di Repin, definita dai più retorica, di un rea­ lismo finalizzato alle « roboanti rappresentazioni di un eroico passato », ma il discorso si amplierebbe troppo. Ci basta ricordare una considerazione fonda­ mentale di Roman Jakobson sul carattere relativo della nozione di « realismo » e sull’uso ambiguo che la critica ne ha fatto. Jakobson sottolinea che la defini­ zione di « realismo nell’arte », come stile fondato sul carattere di « verisimiglianza e fedeltà alla realtà », conduce poi a due diversi significati, di contenu­ to antitetico: « la tendenza a deformare i canoni artistici in voga, interpretata come un ravvicinamento alla realtà » e all’opposto « la tendenza conservatrice all’interno di una tradizione artistica, interpretata come fedeltà alla realtà ».14 Tra gli esempi che Jakobson cita a proposito di un uso assoluto e quindi fuor­ viarne di tali definizioni relative — e cioè: « Sono un rivoluzionario in rappor­ to alle abitudini artistiche attuali e ne percepisco la deformazione come un rav­ vicinamento alla realtà », e di nuovo all’opposto: « Sono un conservatore e per­ cepisco la deformazione delle abitudini artistiche attuali come un’alterazione della realtà » — vi è proprio un quadro di Repin, Ivan il Terribile e suo figlio Ivan, Jakobson ricorda come questa opera, una delle predilette da Ejzenstejn, vero e proprio manifesto della pittura degli « Ambulanti » e da questi esaltata in nome del realismo, suscitò la reazione indignata del maestro di Repin all’Accademia per la deformazione del verisimile che egli avrebbe operato rispetto ai canoni tradizionali. 15 In effetti l’opera di Repin, così come quella del più vecchio Kramskoj e del più giovane Serov fu tesa — per usare le parole di Jakobson — « a deforma­ re al massimo la composizione di tipo accademico », introducendo un « disor­ dine » che per questi pittori significava il desiderio di un « più stretto accosta­ mento alla realtà ». Non c’è da stupirsi poi se le novità che gli « Ambulanti » avevano introdotto nella composizione siano diventate regole accademiche nel secolo successivo; e non c’è da stupirsi neppure quando Jakobson, nello stesso saggio, scrive che « a sua volta Repin non riesce a vedere nelle opere di Degas e Cézanne che storture e perversioni ».16 Se insisto particolarmente sulla pit-

15 Per una puntuale analisi della questio­ ne si veda in P.M. De Santi, I disegni di Eisen­ stein, Bari 1981, p. 57. 14 R. Jakobson, II realismo nell'arte (1921), in 1 formalisti russi. Teoria della lette­ ratura e metodo critico, a cura di Tzvetan To­ dorov, Torino 1968, p. 101. 15 Ivi, p. 102. 16 Ivi, p. 103. Alcuni studiosi hanno in­ sistito nell’affermazione che Rcpin, recatosi a Pa­ rigi già nell'ottobre del 1873 — e quindi poco

avanti della prima esposizione degli Impressio­ nisti — non avrebbe capito la novità di tale pit­ tura; si veda M. Gibellino Krasceninnicowa, L'ar­ te russa moderna e contemporanea. Pittura e scultura, Roma I960, p. 35. Altri studiosi insi­ stono nell’interpretare la sua opera come < un equivalente russo di Courbet »; si veda S. Monneret, L Impression isme et son epoque. Dictionnaire international'illustre, Parigi 1979, voi. 2, p. 182. In effetti Repin, come successivamente Serov, fece i conti a suo modo con l'Impressio-

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tura di Repih, anche in assenza di qualsiasi indicazione del regista che sembra non averlo mai ricordato tra le sue fonti pittoriche, a differenza di Bruegel e Leonardo, è perché nella sua opera mi sembrano evidenti gli indizi di tale pre­ senza. Tutro AndrejKubl'èv, pur svolgendosi sul tema della pittura antica, guar­ da al Medioevo russo con occhi che hanno sempre presente la pittura russa del­ la fine Ottocento. Gli echi di questa pittura sono spesso volti da Tarkovskij in chiave simbo­ lista, sì da ricordare quadri precisi come la Visione del giovane Bartolomeo di Mikhail Nesterov (1862-1942), opera del 1889» ora alla Galleria Tret’jakov. Ne­ sterov è un altro pittore che dopo un debutto, da giovanissimo, nel gruppo degli « Ambulanti », si caratterizzò per una sorta di realismo simbolico a sfon­ do mistico e liricheggiante. Nella Visione del giovane Bartolomeo non è solo l’impianto del quadro, il primo piano di due figure intere su uno sfondo di paesaggio, che rimanda a certe inquadrature di AndrejBublèv , ma soprattutto il rapporto tra la figura del giovanissimo santo biondo in preghiera e il monaco in abito nero che sta di fronte a lui, sembrano essere una suggestiva anticipa­ zione della figura di Boris e quella di Andrej nell’episodio « La campana ». E più in generale, alcuni dei ritratti di Nesterov di giovani ed adolescenti, qua­ si esaltati in un lirismo di acerba purezza, rimandano a Ivan e a Boris di Tar­ kovskij. Così alcune sequenze del massacro nella cattedrale di Vladimir, nell’e­ pisodio « La scorreria », con i tartari e i russi che distruggono e uccidono, pos­ sono rimandare seppure in modo più indiretto ai quadri di soggetto epico, alle battaglie dipinte da Viktor M. Vasnecov (1848-1926). Quello del rapporto tra Tarkovskij e la pittura moderna russa è comunque un capitolo tutto da scrivere. Non ci stupiremmo infatti, se ad una indagine più approfondita alcune scene militari di L'infanzia di Ivan, rivelassero legami con la pittura degli anni cinquanta, quindi del cosiddetto « realismo sociali­ sta ». Pur restando valida l’analisi di Sartre che colse subito la grande novità del film nel trattare il rema della guerra, rispetto alla tradizione agiografica e retorica del cinema russo, si deve ricordare che a fianco di alcune « concor­ danze formali » con altri film del periodo, Quando volano le cicogne (1958) di M.K. Kalatazov e Pace a chi entra (1961), di A.A. Alov e V.N. Naumov, appaiono ricordi formali di pittori « realisti » degli anni cinquanta, soprattutto nel taglio obliquo del quadto che le scene di partenza dei soldati mostrano. La tradizione iconografica russa con temporanea sembra ben presente quindi in Tarkovskij, anche quando egli si volge a negarne i contenuti retorici e trion­ falistici. Ma riprendendo il discorso su un eventuale rapporto tra il cinema di Tarkovskij e certi quadri di Repin si deve rilevare come molte delle sequenze, gli interni, di Sacrificio suggeriscano connessioni dirette. A volte Tarkovskij co­ struisce la progressione della sequenza e del dialogo sincronicamente, con una tecnica teatrale, fino a risolvere la tensione del dialogo facendone coincidere la fine con l’uscita dei personaggi dalla scena stessa e proseguendo con la cine­ presa all’esterno: sono queste situazioni, di un’attesa che sembra incombere sugli eventi, di tensione progressivamente accumulata ed infine disciolta, che nismo ed in particolare con la nuova importan­ za assunta da! rapporto luce-colore nella pittu­ ra: nc sono testimonianza non solo alcuni ritratti, come quello della figlia Vera con un mazzo di fiori del 1878 o quello della figlia Nadezda, Al

sole, del 1900, in cui appare evidente il confron­ tarsi con Renoir, ma anche il più ambizioso Gruppo di famiglia in campagna, dei 1876. Si veda per queste opere G. Sternine, op. cit., nn. 35, 51, 266.

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fanno ricordare nei dialoghi di Sacrificio situazioni omologhe al teatro di Cechov oppure ad un testo di Ibsen come 11 piccolo Eyolf. Ebbene, di questo meccanismo — attesa e tensione finalmente risolta — Repin ha dato una esemplare realizzazione pittorica, nel quadro Non l1atten­ devano (1884-1888) nella Galleria Tret’jakov di Mosca. Si tratta di un quadro molto famoso, di importanza capitale nella storia della pittura russa moderna, che raffigura il ritorno di un esule politico dalla Siberia: dello stesso soggetto esiste anche una versione precedente, 1883-1898, più semplice, in cui l’esule è una donna invece di un uomo. Nella seconda versione, quella che a noi inte­ ressa, la compilazione della scena avviene in una stanza in cui dalla porta aper­ ta entra l’esule, dal volto quasi allucinato: i familiari, una donna al pianoforte, un’altra che si alza dalla poltrona e i due giovani figli al tavolo che studiano, appaiono sorpresi dall’improvviso ritorno. Sulla porta apena la domestica si sta­ glia controluce e nella stanza adiacente si apre una finestra con un altra figura femminile anch’essa controluce che guarda. La costruzione prospettica del qua­ dro, due stanze allineate con la luce della finestra che funziona da punto di fuga, sottolinea la scansione verticale delle figure in concordanza del significa­ to psicologico della vicenda: alcuni dettagli alle pareti, fotografie, stampe ed una carta geografica, rafforzano la percezione dell’evento. Di questa opera i critici europei, pur avendo sottolineato il « penetrante valore psicologico », non hanno afferrato appieno le novità e la originalità strut­ turale, disturbati dall’eccesso di moralismo e di propaganda ideologica preva­ lente nel soggetto. 17 In Repin si assiste a una costruzione originale dello spa­ zio pittorico, a una definizione di « interno » in cui gli elementi prospettici si associano sempre ad una distribuzione delle emozioni raffigurate, una co­ struzione che non trova riscontro alcuno nella pittura europea degli stessi anni; di questa visione dello spazio interno in rapporto alle vicende rappresentate, per ceni versi sempre teatrale e mai melodrammatica, sembra essersi nutrita l’immaginazione visiva di Tarkovskij. Poniamo accanto alcune sequenze di Sa­ crificio, come quella tra i quattro personaggi alla fine del primo tempo dopo la discussione sui trascorsi teatrali di Alexander, sequenza che si scioglie nel­ l’inquadratura del volto della cameriera Giulia, in primo piano, di profilo, con porta e figura in controluce sullo sfondo, poniamola in una visione sinottica con il quadro Non Vattendevano e vedremo quanto sottile sia la presenza di quello che azzarderei chiamare il « Repin methodus » in Tarkovskij. Se la pittura di Repin sembra costituire una delle riserve nascoste che han­ no influenzato l’ottica compositiva di Tarkovskij, la presenza manifesta della pittura russa antica e la problematica relativa al rapporto arte-religione-società assume in Andrej Rublèv cadenze quasi ossessive. La lettura che di Rublev ci dà Tarkovskij nel suo film sembra in gran parte corrispondere a quella già com­ piuta dallo studioso di pittura russa e bizantina Victor N. Lazarev in una mo­ nografia del I960. Così come l’interpretazione della Adorazione dei magi de­ gli Uffizi in Sacrificio sembra rimandare alla lettura iconografica fatta da An­ dré Chastel in alcune pagine di Arte ed Umanesimo a Firenze, sulla novità leonardiana di presentare il tema della natività come un avvenimento sconvolgen­ te ed enigmatico, e non più semplicemente gioioso, l’interpretazione della fi­ gura di Rublèv sembra ricalcare molte pagine della monografia di Lazarev. Ad 17 T. Talbot Rice, L'Arte Russa (1963), Firenze 1965, p. 238.

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esempio il contesto delle fonti ideologiche di Rublèv, definito nel modello de­ gli scritti di padre Sergej Radonezskij (1322-1392) e dei suoi seguaci Epifanio il Saggio e Nil Sorskij (1433-1508). Epifanio, autore di una vita di Sergej, vie­ ne citato insieme al maestro nel dialogo tra Teofane e Kirill all’inizio del terzo episodio di Andrej Rublev-. « Potrai penetrare la sostanza di ogni cosa, se veri­ dicamente saprai darle un nome [...]. Quella fede che erompe dal profondo dell’anima. E non c’è semplicità. Come è detto da Epifanij a proposito delle virtù di san Sergio: ‘Semplicità senza fronzoli’ ». Ma anche in Sacrificio, proprio all’inizio del colloquio con Otto, Alexan­ der ripete — tra citazioni di Nietzsche — un luogo del pensiero di padre Ser­ gej: « Un saggio disse: TI peccato è tutto ciò che non è necessario’ », ed ag­ giunge la sua considerazione: « Se questo è vero tutta la nostra civiltà è sbaglia­ ta, è fondata sul peccato ». Mettiamo a confronto questa chiave interpretativa di Tarkovskij e Konèalovskij, coautore della sceneggiatura, con alcuni brani dello scritto di Lazarev: « Come San Francesco d’Assisi, Sergej fu nemico per princi­ pio di qualsiasi proprietà e tanto più della ricchezza. Egli escludeva qualsiasi forma di sfruttamento del lavoro obbligatorio dei contadini sulle terre dei mo­ nasteri. Queste terre dovevano lavorarle gli stessi monaci. Secondo Sergej, l’uomo aveva diritto a un compenso solo per il lavoro compiuto con le proprie mani [...]. Probabilmente Rublèv si ricordò della pura e modesta fisionomia del fa­ moso fondatore del monastero della Trinità. » Proseguendo su questa linea in­ terpretativa Lazarev afferma: « Vi sono tutte le ragioni per ritenere che Rublèv trovò ancora tra i vivi Sergej, la cui notevole personalità doveva lasciare traccia incancellabile nella sua coscienza ».18 Lazarev si spinge poi ad un confronto tra Rublèv e il monaco Nil Sorskij, che sebbene sia vissuto dopo la morte del pittore costituirebbe, dal punto di vista filosofico, la testimonianza più significativa di quella visione religiosa e spirituale che animò la sua pittura: « Gli scritti di Nil Sorskij, sono, dal punto di vista filosofico, quanto di più significativo ci ha lasciato in eredità il secolo XV. Essi con evidenza testimoniano della comparsa dell’interesse perii mondo spirituale individuale dell’uomo. Solo su questo terreno poteva svilupparsi l’arte di Andrej Rublèv. Allo stesso modo di Nil Sorskij, Andrej Rublèv non rompe con la cultura della Chiesa, ma introduce nei dogmi tradizionali un nuovo con­ tenuto ». 19 Non entreremo nel merito della discussione sul ruolo che Rublèv ha avuto nella storia della pittura russa, se cioè egli sia da considerarsi o meno il « primo » pittore russo moderno rispetto alla tradizione bizantina: per la va­ lutazione di questo problema si rimanda al già citato studio di Lazarev, con il quale concordiamo pienamente.20 Quello che ci preme sottolineare è come il complesso quadro del rapporto di Rublèv con la storia e la cultura del suo tempo e la relativa, ancor più ampia, « ragnatela » dei riferimenti ideologici, appaia già tutta delineata nel saggio di Lazarev, che nel 1966 — anno della realizzazione del film — era già stato pubblicato in russo da sei anni.

18 V. Lazarev, AndrejRublèv (I960), Mi­ lano 1966, p. 13. Su Rublèv si veda anche l’al­ tra fondamentale monografìa di M. Alpatov, Andrej Rublèv, Milano 1962. Per quanto riguar­ da la sceneggiatura del film si veda A. Michalkov Konèalovskij-A. Tarkovskij, Rublèv il pit­ tore delle icone, traduzione dal russo di K. Ri­

sei, Rimini 1983. Per la sceneggiatura ed i dia­ loghi desunti dalla colonna sonora del film si ve­ da in Tarkovskij. Andrej Rublev-ll testo, a cura di F. Vigni, Quaderni della Mediateca regiona­ le toscana, Firenze 1987. 19 V. Lazarev, AndrejRublèv, cit., p. 15. 20 Ivi, p. 77.

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Anche il tema del discepolato-confronto con Teofane il Greco, che Tar­ kovskij ha saputo genialmente drammatizzare in chiave filosofica sì da farne uno dei centri ideologici di tutto il film, trova nelle pagine di Lazarev la sua prima formulazione: così i motivi del laicismo di Teofane, le sue invettive con­ tro gli ortodossi, il suo pessimismo nei riguardi del genere umano, la sua vitale fiducia nel dipingere, elementi tutti che si profilano nei colloqui-scontri tra il vecchio pittore e Rublèv, si inseriscono nel quadro interpretativo delineato da Lazarev. Qui ci troviamo nuovamente di fronte ad una caratteristica del me­ todo di Tarkovskij; l’uso di una o più fonti, a volte anche tra loro discordanti, finalizzato a comporre una visione spirituale d’insieme che giustifichi le moti­ vazioni della scelta interpretativa stessa. Alcuni critici hanno esaltato come mo­ mento centrale del film l’aspirazione totale alla « libertà personale » contrap­ posta all’intolleranza del sistema sociale, del « corpo delle istituzioni »; non ci sentiamo di condividere un’interpretazione così estrema. Le relazioni tra i diversi temi ideologici che circolano nei film di Tarkovskij non sono mai così esplosive e conflittuali come sembrano apparire a prima vista. Ancora una volta il richiamo ad una lettura di alcune pagine di Lazarev mostra quanto i temi del dissidio tra spirituale-individuale e sodale-collettivo, che animano tutto il film su Rublèv, l’anelito alla discesa nella propria coscien­ za, non sono solo metafora di una condizione presente alla quale Tarkovskij sembra alludere, ma anche elementi di una corretta lettura storicistica della fi­ gura del pittore stesso: « Non temette di procedere aperramente contro i diritti di proprietà fondiaria dei monasteri; alla così diffusa intolleranza ecclesiastica contrappose l’esigenza della libertà personale [...] mirò a penetrare nel pro­ fondo dell’anima umana [...] e soprattutto si volse all’analisi di questa ‘co­ scienza’ dell’uomo, della sua mente e del suo cuore ».21 Con queste parole La­ zarev descrive il pensiero di Nil Sorskij, ma appare evidente quanto esse corri­ spondano alla tematica ideologica che sta alla base del film di Tarkovskij. È proprio questa chiave di lettura storicizzata della figura di Rublèv, nella scelta di Tarkovskij, che amplifica il quadro dei riferimenti culturali presenti nel film a tutto un corpus di motivi propri della tradizione e della storia della pittura bizantina: tali elrtnenti vengono poi utilizzati dal regista secondo un modello di riflessione quasi « teologica ». Ci limiteremo ad indicarne alcuni. Il tema della priorità della parola sulla vanità delle forme: « Potrai penetrare la sostanza di ogni cosa, se veridicamen­ te saprai darle un nome », è la frase che corre nell’incontro tra il monaco Kirill e Teofane il Greco, già citata in precedenza. Questa richiama un’altra afferma­ zione all’inizio di Sacrificio, quando Alexander rivolto al figlio dice: « In prin­ cipio era il Verbo, ma tu sei muto, muto come un pesce... come un salmone ». Queste due enunciazioni sul primato del Verbo ci richiamano un’altra enun­ ciazione: il voto di silenzio che Rublèv fa al fine di espiare l’omicidio commes­ so, e il silenzio è il tema di un episodio intero nella seconda parte del film. Più volte Rublèv appare tormentato dal valore e dal significato religioso della pittura, quasi ad ostentare che essa degradi l’essenza dello spirito. Questa « an­ goscia » della pittura sembra correre per tutto il film, fino a manifestarsi nel­ l’episodio « Il giudizio universale », con il gesto di ribellione di Rublèv, che imbrattando con larghe pennellate-macchie scure le pareti bianchissime pron­ te per l’affresco, rifiuta di continuare i lavori. 21 Ivi, pp. 14 e 15-

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È questo uno dei momenti in cui Tarkovskij, come farà poi in Solaris, uti­ lizza appieno una sorta di pluralità di significati: la commistione dell’elemen­ to ideologico, motivazione spirituale che sta alla base del rifiuto, con la valen­ za visiva, il gesto di imbrattare-dipingere con larghe pennellate una parete bian­ ca, splendida allusione all’informalità della pittura. È forse uno dei rari mo­ menti (se non l’unico, perché vi sono poi i diversi, nitidi e ripetuti movimenti della macchina da presa sui rivoli, le sgorature di acque e l’accumulo di ogget­ ti, rifiuti e brani di un mondo vegetale e meccanico, sorta di nature morte post­ industriali, di cui Tarkovskij anima i suoi film), ove presenta un rapporto con la pittura contemporanea come quotidianità, al di fuori quindi di ogni storicizzazione. Ma è anche questo, del muro imbrattato come rifuto al gesto del « figurare », un rimando ad uno dei temi emblematici, centrale, della storia della pittura bizantina: la condanna dell’immagine come degradazione idola­ trica del sacro e del divino. Non è un caso che tale condanna, « precocemente serpeggiata » nei testi dei Padri della Chiesa, ufficialmente dichiarata con l’e­ ditto contro le immagini sacre del 730 d.C. di Leone III Isaurico, si sia rivolta poi principalmente contro l’uso del colore; il colore infatti, componente fon­ damentale dell’icona bizantina, rappresentava nel pensiero degli iconoclasti quel­ la « materia » che introdotta dalla malizia di Lucifero nel mondo cristiano, fa­ cendo sì che alle icone-idoli si attribuisse il nome di Cristo, confondeva la crea­ tura divina con la « degradante materia ».22* Non possiamo seguire tutta la complessa questione della disputa iconocla­ stica, dall’editto di Leone III fino alla riabilitazione della pittura durante il con­ cilio niceno II (787 d.C.); a noi urge sottolineare come alcune questioni ogget­ to di accesa controversia, inserite poi nel corpo dell’estetica bizantina, abbiano trovato puntuali risonanze in Tarkovskij e costituiscano una sorta di sotterra­ nea riflessione in AndrejRublèv. Così l’esaltazione del colore propria di alcuni testi della patristica, la distinzione stessa tra il colore inteso come Grazia e Ve­ rità in opposizione all’ombra intesa come Legge, presente nell’orazione in di­ fesa delle icone di Giovanni Damasceno (657-749 d.C.), e ancora più espressamente i passi di Cirillo di Alessandria (prima metà del V secolo) nella lettera Ad Acacium, in cui si afferma che « l’ombra e la delineazione costituiscono soltanto l’inizio dell’immagine, ma che è il fiore dei colori che fa risplendere la pittura di bellezza »,25 la costituzione stessa in questi testi di una sorta di « cromaturghia » cioè di « azione e forza del colore come linguaggio figurato », trovano suggestivi riscontri ed echi in Andrej Rublèv. Ci limiteremo a indicare, oltre al già citato episodio, la sequenza imme­ diatamente precedente, in cui, dopo l’episodio dell’accecamento del capoma­ stro, il latte rovesciato dalla borraccia si spande lentamente nell’acqua come una sorta di calce; preludendo, questa opposizione bianco-nero, alla successiva nero-bianco del colore lanciato da Andrej contro la parete. Oppure, subito do­ po, la sorpresa attonita della sordomuta che osserva le macchie informi sul mu­ ro, ed ancora l’invettiva pronunciata da Teofane nella sua apparizione onirica ad Andrej dopo la morte: « Il Signore ha detto: ‘Se i vostri peccati saranno co­ me purpurei, io li farò candidi come la neve’ ». 22 Per tutta la complessa questione delle lotte iconoclastiche, del concilio di Nicea e dei loro riflessi neirescetica bizantina si veda: V. La­ zarev, Storia della Pittura Bizantina, Torino

1967, pp. 25-27; E de’ Maffei, Icona, pittore e arte al Concilio Niceno II, Roma 1974, pp. 14 sgg 23 F. de’ Maffei, op. cit., pp. 18-21.

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La lista dei temi dell’estetica bizantina, o meglio dei dilemmi presenti in AndrejRublèv. che andiamo compilando, potrebbe continuare a lungo; ne in­ dichiamo ancora solo i principali. Il problema della incircoscrivibilità del Cri­ sto e l’eresia del pittore: si avvertono gli echi di questo problema nei colloqui tra Andrej e Teofane, e tra questi e Kirill. Secondo la corrente iconoclastica (iconomaci) era impossibile « circoscrivere in una immagine la divinità del Cri­ sto »; da qui derivava uno svilimento del valore dell’icona, che recando la pre­ tesa immagine del Cristo avrebbe presentato al fedele « soltanto il Cristo nato dalla Vergine » e quindi « il Cristo uomo, e non il Cristo Dio », contribuendo a diffondere l’eresia.24 A nostro parere questa concezione suggerisce una più ampia chiave di let­ tura della scena di tortura di fronte all’icona con il Cristopantocrator e la Deesis di Vladimir nell’episodio del massacro. Ed ancora le domande ironiche del Khan tartaro sulla Vergine Maria al principe minore — « Che vergine è dunque se ha un figlio? » — sembrano alludere al tema dell’eresia nuova, quella della trasformazione della Trinità in Quaternità, di cui i pittori di icone furono con­ siderati fautori. Infine, tutta l’assillante questione, a cui si è già accennato, della « supremazia della parola sull’immagine dipinta »: secondo gli iconomaci la via della salvezza si esplicava non attraverso la « visione » e la venerazione delle icone, ma attraverso « l’ascolto e la venerazione delle parole divine ».25 Ab­ biamo così indicato quella che è, secondo noi, una delle più attendibili chiavi di lettura di AndrejRublèv'. l’assunzione del tema biografico del pittore, il suo rapporto con la storia, la posizione « dialogica » del regista che si muove in due direzioni opposte, come il pittore; verso la tradizione mistica bizantina, greco­ ortodossa, e verso lo scandalo della modernità. La tensione tra questi due poli, una tensione mai risolta, caratterizza Andrej Rublèv. e da esso si irradia agli altri film di Tarkovskij, pensiamo ad esempio a Solaris. dove la riflessione sulla modernità e sul futuro appare così intrisa di elementi spiritualistici da sentirsi metafisica; e ricordiamo come nella sequenza di Kris nella camera con la mo­ glie che dorme, all’inizio della seconda parte, appaia sulla parete una riprodu­ zione dell’icona La santa Trinità (Galleria Tret’jakov), a segnare ancora una volta nella religiosità il fondamento di ogni riflessione. Si tratta di una pittura che riveste un significato tutto particolare; in pri­ mo luogo per la novità iconografica che il pittore introdusse rispetto alla tradi­ zione, l’eliminazione delle figure di Abramo e Sara dall’episodio raffigurato. In secondo luogo per tutto il complesso simbolismo a cui questa rimanda: l’im­ magine della Trinità interpretata dai teologi bizantini come rappresentazione della divinità una e trina, come prototipo dell’eucarestia, come simbolo circo­ lare della fede, della luce c dell’amore. L’icona della Trinità fu dipinta da Ru­ blèv in onore del santo Sergej Radonezskij e Lazarev descrive anche la comples­ sa situazione culturale in cui il pittore si trovò ad opetare, in una sorta di riaf­ fermazione del dogma della Trinità come risposta alle innumerevoli eresie an­ titrinitarie, che a Novgorod e Pskov scuotevano la Russia di allora.26 Ma pen­ siamo anche a Sacrificio, dove la riflessione metafisica sulla verità, sulla parola e sulla redenzione, pur assumendo la forma di citazione da Nietzsche e da Do­ stoevskij, si ancora ad un retroterra che implica quelli che si sono chiamati i « dilemmi » dell’estetica bizantina. 24 F. de’ Maffei, op. cit., p. 24 . 25 F. de’ Maffei, op. cit., pp. 28-29-

26 V. Lazarev, Andrej Rublèv, cit., pp. 47-56.

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E pensiamo anche a Nostalghia, dove la citazione della Madonna del par­ to di Piero della Francesca propone un’opera rinascimentale ma che, rispetto alle altre del grande pittore, denota uno schema compositivo in qualche modo « aulico ». Come ha rilevato Roberto Longhi, nella Madonna del parto, « Piero immaginò una rappresentazione estremamente piana, eppure, come amano i villici, del tutto aulica », ove nella ripetizione capovolta dei due Angeli reggicortina Pieto — sono parole del Longhi — « non si peritò di rimare affattissimo angelo con angelo, invertendo semplicemente lo spolvero »27. Ora, per quanti abbiano una qualche confidenza con la pittura di icone o più approssi­ mativamente con i mosaici bizantini, non sarà difficile riconoscere in questa operazione di Piero, l’inversione appunto dello spolvero, l’applicazione di una norma compositiva della pittura bizantina e cioè della « simmetria bilaterale speculare ». Tutto questo ci riconduce ad una affermazione di Otto nella seconda par­ te di Sacrificio, di fronte alla Adorazione dei magi di Leonardo: « Io preferisco Piero della Francesca ». Quello che Tarkovskij amava di Piero della Francesca non era, probabilmente, il suo essere un pittore del Rinascimento, quanto in qualche modo la « sacralità », la cosmica sospensione delle sue figure. Di nuo­ vo si affaccia qui l’opposizione tra mondo bizantino e mondo rinascimentale, tra misticismo ascetico e mondanità, da cui si era iniziata la nostra riflessione. Proponiamo questa come una delle possibili chiavi di lettura, consapevoli che il mondo poetico di Tarkovskij è ben più complesso rispetto ad ogni possibile riduzione in termini critici. Se si afferma però che Andrej Rublèv è un’opera centrale nella produzione dell’artista occorre tener conto anche di questo tipo di lettura. La struttura stessa del film diviso in episodi, preceduto da un prolo­ go e chiuso da un epilogo, sembra rimandare a quella che in un saggio acutissi­ mo di Henry Maguire è stata definita come una delle caratteristiche strutturan­ ti dell’arte bizantina: la stretta connessione tra eloquenza retorica e arti visive.28 Si schiude così una possibilità nuova, rispetto a quelle consuete, di deco­ dificare un’opera complessa e densa di citazioni e significati come AndrejRu­ blèv. E nello stesso tempo si riafferma la stretta dipendenza di Tarkovskij dalla cultura russa.

27 R. Longhi. Piero della Francesca, Fi­ renze 1963, p. 52. 28 H. Maguire, Art and Eloquence in By­ zantium, Princeton 1981. Particolare interesse rivestono, per il nostro tipo di analisi, le osser­ vazioni che Maguire dedica all’influsso che le tec­

niche retoriche di narrazione, sermoni, inni, hanno avuto non solo nella concezione dei sog­ getti della pittura bizantina, dall’Annunciazione alla Passione, ma anche nella strutturazione delle composizioni e dei ritmi figurativi.

Le « convergenze parallele »: Tarkovskij e Koncalovskij Sauro Barelli

Gli anni sessanta hanno segnato, per il cinema, il momento di radicale discri­ mine tra convenzionali statuizioni e codificazioni quali scuole nazionali, insor­ genze innovatrici, tendenze stilistiche-espressive ed una teorizzazione e ancor più una pratica creativa improntate da una deregulation, un’informalità tematica-operativa per se stesse sovvertitrici di acquisiti criteri, di collaudate espe­ rienze nel vasto campo della « settima arte ». In tale contesto, relativamente facile fu anche, giusto in concomitanza col proliferare nel nostro paese delle cosiddette televisioni private, l’automatico, prevaricante influsso della produ­ zione americana. Ci riferiamo specificamente al termine « produzione », poi­ ché in effetti la montante egemonia del cinema hollywoodiano in Europa e, in ispecie, in Italia, propiziò la diffusione, la circolazione — e, d’immediato riflesso, il consenso vistosissimo — di cose abbastanza spurie. Cioè, una com­ plessa congerie ove il lungometraggio a soggetto di tradizionale fattura o, in misura minoritaria, certi film d’autore, risultavano indistintamente mischiati a confezioni, a materiali assolutamente incongrui che solo in forza di taluni allettamenti strumentali (gadgets, effetti speciali, mode musicali giovanili) di­ ventarono presto successi spropositati, oggetti immotivati di un culto consumi­ stico dissipatore. Fu, insomma, ciò che oggi si lamenta quasi ritualmente come quel male — parrebbe — esiziale, irreversibile, definito efficacemente « l’americanizzazione dell’Europa » in generale e del cinema tout court in particolare. Un riscontro consistente, spesso drammatico di tale fenomeno di degrado civile-culturale si avvertì in modo più sensibile, pregiudizievole nel nostro pae­ se tanto per l’oggettiva, congenita fragilità, la colpevole imprevidenza dell’ap­ parato produttivo-disttibutivo del cinema italiano, quanto per l’insipienza, la neghittosità con cui la stessa cultura europea, il proverbiale lassismo italiano finsero velleitariamente di resistere alla montante marea « normalizzatrice » made in USA. Si sa bene oggi, come era stato chiarito fin dai primordi del cinema e sulla scorta delle ricorrenti crisi che hanno contrappuntato costantemente l’av­ venturosa storia della « settima arte » al di qua e al di là dell’Atlantico, che uniche risorse, strumenti efficaci per far fronte a tanta e rale destabilizzante « invasione » risiedevano nel ricorrere alle cinematografie nazionali dei singoli paesi europei. E, soprattutto, nel puntare al recupero di quelle inespresse risor­ se di cinematografie di prestigiosa, classica tradizione come la sovietica, l’ita­ liana, la francese, che in un non lontano passato, avevano già dato circostan­ ziata, puntuale prova di innegabile originalità stilistico-cspressiva, oltreché di una tempestività, di una pertinenza tematica-narrativa pregevolissima. Squadernare una volta di più questo frequentato cahier de doléance può servire, tra l’altro, per rinverdire una constatazione apparentemente scontata e, in effetti, invece mai abbastanza ribadita, ricordata. Lo stentato mercato ci­ nematografico italiano attuale risulta, ad esempio, sintomaticamente rivelato­ re di una sindrome abbastanza sconcertante. E notoria, anche fuori della ri­ stretta cerchia degli specialisti, la dovizia, la varietà, l’altissima qualità delle

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realizzazioni cinematografiche provenienti da un grande consolidato apparato produttivo quale quello sovietico e, più latamente, dei paesi dell’Est europeo. Il che non vuol dire che per resistere alla massiccia invasione di gadgets ameri­ cani quali Top Gun, Rambo ecc., si debba proporre, in meccanica alternativa, il cinema di qualità, i film d’autore provenienti da contrapposte latitudini, quan­ to può suggerire piuttosto che esistono, sono praticabili anche strategie diver­ se, scelte alternative al fatto di subire, senza colpo ferire, un’egemonia mer­ cantile esosa, dannosissima sotto tutti i punti di vista. Nell’impasse desolante in cui si trovano oggi le cose del cinema mondiale — anche facendo salve le mirabili « eccezioni» incarnate dai superstiti film di Fellini, Bergman, Kubrick, Mikhalkov ecc. — si può ricavare paradossalmente una preziosa, utile lezione di merito e di metodo sui possibili rimandi, le con­ seguenti riflessioni innescare, appunto, dalle mutate condizioni produttive creative come dalle sovvertite forme di fruizione dello spettacolo cinematogra­ fico. In questo senso c’è una casistica abbastanza ravvicinata, persino di nobile sostanza, che quasi specularmente, documenta, emblematizza la querelle sem­ pre persistente, sempre rinnovata, sulle divaricanti « anime », i plurimi, con­ trastanti volti del cinema. Riassumiamo in estrema sintesi i fatti. Cannes ’86, 39° Festival internazionale del cinema. In lizza per la Palma d’oro, nella rassegna, ufficiale, due opere per se stesse significative: Sacrificio di Andrej Tarkovskij, Runaway Train di Andrej Koncalovskij. Si tratta cioè di cineasti sovietici. Ognuno dei due, a suo modo, transfuga dall’URSS, dalla cul­ tura, dalle consuetudini che gli erano state proprie per buona parte della vita. Dislocati e operanti, il primo in Europa, il secondo in America, entrambi ve­ leggiano attorno ai cinquant’anni. Si tratta inoltre di pellicole di composita matrice produttiva. Sacrificio risulta in effetti realizzato per conto di un pool franco-svedese, mentre Runaway Train, pur essendo ufficialmente americano, vanta un cast tecnico-artistico cosmopolita: soggettista d’eccezione per quest’ul­ timo (film è il maestro giapponese Akira Kurosawa, coproduttore è l’italiano Fernando Ghia, mentre per l’opera di Tarkovskij interprete e direttore della fotografia sono, rispettivamente, gli svedesi Erland Josephsson e Sven Nykvist. Naturalmente, a Cannes ’86 l’impatto, le emozioni suscitati dall’uno e dall’altro film si sono dimostrati subito intensi, ma di opposto segno proprio per il discrimine, e tematico e stilistico, esistente tra l’opera di Tarkovskij e quella di Koncalovskij. Sacrificio, cinema sapientissimo, fitto d’impervi significati, si sublima in un apologo morale austero prospettato con abbaglianti, visionarie illuminazioni poetiche. Runaway Train, un action-movie concitatissimo e cruen­ tissimo, procede invece, con suggestioni e irruzioni spettacolari forse più corri­ ve, nel proporzionare sullo schermo una « canzone di gesta » tutta attuale, tut­ ta allarmante, dai riverberi metaforici a volte fin troppo schematicamente pre­ figurati. Sta di fatto, insomma, che Andrej Tarkovskij e Andrej Koncalovskij, pur se indirettamente, e senz’altro involontariamente, sono parsi, perlomeno agli osservatori più attenti, non tanto gli antagonisti, quanto piuttosto i dcureragonisti di una vicenda, a dir poco, sconcertante. Affermazione, questa, del tutto lecita, sol che si pensi alle comuni ascen­ denze formative-professionali di Andrej Tarkovskij e Andrej Koncalovskij. L’uno e l’altro approdati al cinema nei primi anni sessanta, dopo personali e un po’ disorientare esperienze esistenziali abbastanza eccentriche rispetto alla discipli­ na della « settima arte », trovarono presto, grazie al determinante insegnamento di « padri nobili » quali Aleksandr Dovzenko e Mikhail Romm, la loro più au-

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teorica vocazione. Appunto, il cinema. E, sintomaticamente, Tarkovskij e Kon­ calovskij si cimentarono fin dagli inizi in una complice collaborazione sfociata, prima, nella comune sceneggiatura del « saggio di regia » Il rullo compressore e il violino (I960) e, quindi, nella successiva, più densa fatica del soggetto e della sceneggiatura della memorabile « opera seconda » AndrejRublèv (1966), lavori questi tra i più tipici, caratterizzanti del fervore creativo innovatore dello stesso Tarkovskij già postosi risolutamente in luce, tra l’una e l’altra realizza­ zione ora citate, col film tutto eterodosso, intrinsecamente trasgressivo L'in­ fanzia di Ivan (1962). In qualche misura, anzi, L'infanzia di Ivan costituì verosimilmente il cu­ neo che, via via spinto più a fondo, determinò poi la progressiva separazione tra la poetica tendenzialmente spiritualistica, larvatamente irrazionalista dello stesso Tarkovskij e quella più intimista, classicamente « umanistica » (più pre­ cisamente, cecoviana) cui si rifa Koncalovskij fin dalle sue ispirate, originali prove iniziali, Ilprimo maestro e Storia di Asja la zoppa. Si è detto significativamen­ te, giusto a proposito di questo « distacco » operato da Tarkovskij, nel momen­ to stesso in cui, con la sua ricerca, il suo stile, rivisita luoghi e miti all’apparen­ za intoccabili o troppo frequentati del mondo sovietico: « Mette in causa una cultura che [...] divinizza la ragione. Ma il suo umanesimo ignora le classi e le loro lotte (che pure erano presenti in Rublèv}, e si fonda su un’idea dell’uo­ mo astratto, eterno. Il solo motore della storia, secondo lui, resta la coscienza individuale. L’analisi storica è, dopo tutto, la grande assente dai film di Tar­ kovskij. Il passato vi è esaltato (infanzia, tradizione, ricerche spirituali) e con­ dannato (per le sue sofferenze). Tutti i suoi personaggi sono presi dalla storia ma non possono agire su di essa. Privato e collettivo costituiscono due sfere se­ parate. Destoricizzata, la guerra, ne L'infanzia di Ivan, è solamente condizio­ ne tragica e assurda. E quando la storia è ritrovata — come ne Lo specchio — è a vantaggio della « russiti », delle dottrine e delle convinzioni slavofile sulla missione della Russia santa e pagana ». Il giovanile sodalizio tra Tarkovskij e Koncalovskij si esaurisce dunque in una convergenza accidentale, episodica, contingente, anche se, nel corso degli anni, e particolarmente in occasione della ricordata coincidenza e concomitan­ za delle presenze delle loro opere ultime a Cannes ’86, rivelano in trasparenza talune costanti occultate, certi percorsi segreti che, se indagati a fondo, potreb­ bero forse rimettere in discussione tanto il ribadito « spiritualismo » di Tarkov­ skij, quanto la presunta mondanità, l’ostentato cosmopolitismo (e persino ci­ nismo) di Koncalovskij. In altri termini, porre mano e mente al cinema di Tar­ kovskij implica, d’immediato riflesso, proiettarsi sul terreno accidentato e ol­ tremodo problematico della totalità del vissuto. Con tutto ciò che tale avven­ tura tarkovskiana comporta necessariamente di cimenti narrativi, dialettici e, se si vuole, poetici spericolatamente tesi a cogliere, a penetrare la complessità, la contradditorietà estreme d’una condizione esistenziale unica, irripetibile, volta ossessivamente verso mete, approdi assoluti. E, per ciò stesso, irraggiungibili, angosciosamente frustranti. Al termine di una simile, pur disorganica incursione nelle contigue e, ta­ lora, complici esperienze di Tarkovskij e Koncalovskij emerge, tra l’altro, un’ul­ teriore, più precisa constatazione. Con le successive, più caratterizzate prove « occidentali », realizzate dallo stesso Koncalovskij in Inghilterra e negli Stati Uniti, quali Duet for One e Shy People, prende forma ed evidenza anche più marcata quel distacco, il discrimine, diremmo, ormai classico tra la spettacela-

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Le * convergenze parallele »: Tarkovskij e Koncalovskij

rità edonistica-dionisiaca (pur se espressa in scorci e storie drammaticissimi, spesso cruenti) del cinema americano o di film ad esso omologabili per impianto regi­ stico e concezione narrativa, e la più assona, non di rado enigmatica, specula­ zione filosofica-concettuale tanto sulla lucida consapevolezza di una sofferta con­ dizione esistenziale, quanto sulle consolanti suggestioni poetiche di una possi­ bile rigenerazione, di un approdo salvifico sempre e comunque dilazionati. Dun­ que, parafrasando la celebre intuizione di Adorno, poi surrettiziamente con­ trabbandata nel manniano Doktor Faustus, si potrebbe arguire che il cinema è « un’arte politicamente sospetta ». Con in più il fatto d’essere anche una pratica creativa assolutamente infi­ da, intrinsecamente ambigua. Appunto, i « percorsi » esistenziali e professio­ nali paralleli e insieme divergenti di Tarkovskij e Koncalovskij insegnano.

L’ideologia e la contraddizione Fernaldo Di Giammatteo

Accade sempre che in una personalità complessa (anche se semplice nel fondo) si riverberino influenze culturali disparate. Accade, non può non accadere, che per Tarkovskij si avverta la presenza di una filosofia come quella heideggeria­ na. Così come accade che in questa chiave possano essere interpretate le stesse inclinazioni mistiche presenti in tutta la filmografia del regista. Accade, infi­ ne, che la contraddizione complessità-semplicità si trasformi, nelle mani dei critici, non soltanto in un metodo di analisi ma anche in un gioco linguistico. Quanti hanno notato che il gioco linguistico è parte integrante e imprescindi­ bile di quella che si vorrebbe chiamare la « nuova critica » cinematografica? Forse pochi, ma è necessario sottolinearlo: il gioco linguistico come metodo critico è innovazione ricca di follia ma anche di futuro. È certo che su questa strada molti si muoveranno, ed è sicuro che l’opera di Tarkovskij sarà un’ottima pie­ tra di paragone per certe esercitazioni. Non c’è bisogno di evocare Wittgen­ stein per sapere che il gioco linguistico è sempre la spia di segreti profondi. E non è necessario ripensare ossessivamente al linguaggio di Tarkovskij (o ai linguaggi di artisti al pari di lui contorti, da Murnau a Bergman) per sapere che molto spesso la complessità (il parere) è figlia della più disarmata e fragile semplicità (l’essere). È ovvio ma va ribadito: la contraddizione complessità-semplicità ha anche origini esterne. Quando si parla dei tormentati rapporti fra Tarkovskij e il po­ tere sovietico si offre anche un elemento fondamentale alla comprensione di uno stile di artista. Un poeta — diceva Tarkovskij — « è colui che non tenta di riprodurre la realtà che lo circonda ». Non era vago, in questo, e non parlava delle nuvole. Così dicendo, faceva la sua dichiarazione di poetica contro il « rea­ lismo socialista », rifiutava la piatta riproduzione di quella che il potere usava chiamare — ma non era — la realtà (era, semmai, la schematizzazione, la glo­ rificazione, la sclerotizzazione della realtà sovietica). Citando il poeta, Tarkov­ skij sapeva di non citare un generico intellettuale che inseguisse vaghi ideali, come noi tendiamo a pensare quando usiamo la parola « poesia ». Si riferiva, al contrario, alle condizioni di lavoro che erano le sue e dei suoi colleghi. Si riferiva a tutto ciò che gli veniva imposto e che egli (a differenza di molti altri) non voleva e non poteva accettare. Si riferiva, in ultima analisi, a una visione del mondo che respingeva. Così, la sua affermazione dovrebbe essere tradotta, per essere veramente compresa, in questo modo: « Un poeta non tenta di ri­ produrre la realtà che lo circonda perché un poeta non può essere realistasocialista ». Ecco, dunque, un altro spunto per la riflessione. Per una riflessio­ ne che non attenga soltanto ai rapporti fra il regista e il « suo » potere politico, ma che concerna il problema stesso della libertà-costrizione che ogni artista vi­ ve nell’ambito della sua società. E che naturalmente riguardi le conseguenze che questa « lacerazione » inevitabile produce sugli sviluppi dell’ideologia e del linguaggio propri dell’artista. . Con ogni probabilità non è sbagliato far risalire a tale lacerazione la pre-

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senza di quella « criptomnesia » che la psicoanalisi offre come strumento erme­ neutico. Ciò che conta non è la citazione conscia. Conta soprattutto, anche se non esclusivamente, la citazione inconscia. Fuorviarne. Dire e non dire. Dire una cosa per dirne un’altra. Di nuovo, essere e parere. Alla fine, e nel fondo: far perdere le tracce. Che questo meccanismo della « criptomnesia » debba es­ sere accostato (sovrapposto, forse) alla « lacerazione » prodotta dal potere è quasi certo. Come l’accostamento abbia funzionato lo si potrebbe vedere attraverso un’analisi specifica dei film del regista. Ma, forse, lo si scopre nella maniera più chiara se quei film (alcune sequenze di quei film) li si mette a confronto con le dichiarazioni del regista. Per prendere un solo caso, esistono numerose dichiarazioni di amore che Tarkovskij ha pronunciato verso i pittori del Rinascimento italiano: verso Leo­ nardo in special modo. Si provino ad osservare i suoi film. Si vedrà come esista­ no, evidenti, i segni della figuratività rinascimentale, ma come siano ben più evidenti i segni di un’altra pittura, e si scoprano le tracce di un pittore russo come Repin. Repin al posto di Leonardo. O accanto a Leonardo. Tracce perdu­ te, tracce nascoste. Che il regista pensasse al Rinascimento, e alla sua civiltà, era naturale: non è stato il primo russo e non sarà l’ultimo a farlo. Ma, nel caso di un artista come lui, il fatto che Leonardo « nasconda » la pittura dell’Ottocento russo (o, se si vuole, le dia una patente di nobilità) è assai signifi­ cativo. Un discorso simile può essere fatto per i maestri cinematografici di Tar­ kovskij. Ha detto di averne cercato alcuni (il maggiore di tutti Dovfenko) e di averne rifiutati altri (uno soprattutto, quell’Ejzenstejn da cui s’è sempre vo­ luto lontano). Eppure, a guardare bene, in Andrej Rublev la presenza di Ejzenìtejn è continua, ossessiva perfino: la si scopre nei movimenti delle folle, ki molti totali dall’alto, in tutto l’episodio della fusione della campana, nel tentativo (sovente riuscito, e splendido) di trasfigurare la materia visiva, di far­ la significare oltre la semplice apparenza. Lontano nelle intenzioni ma vicino nei fatti, Ejzenstejn è a buon diritto'uno dei maestri di Tarkovskij. E un singolare esempio di « criptomnesia ». Si ricordi come su entrambi abbia agito la suggestione di Leonardo, e forse nella stessa maniera. Sia da Tar­ kovskij che da Ejzenstejn il pittore italiano fu considerato un modello di artista prima ancora che un modello di arte. Ritorna il tema della complessità con una sfaccettatura ancor più interessante. Tarkovskij (e anche Ejzenstejn?) si richia­ ma a Leonardo per far perdere le tracce, per nascondersi, richiudersi in se stes­ so, manifestare le proprie idee attraverso segni ambigui. Fa tutto questo me­ diante un linguaggio denso e « sottolineato » (inquadrature inconsuete, ango­ lazioni « innaturali », dall’alto, fissità eccessive e lentezze quasi in tollerabili, improvvise accensioni ritmiche ecc.). Di nuovo sembra riapparire l’analogia Tarkovskij-Ejzenstejn: fratelli nemici (ideologicamente?), mistici (anche se cia­ scuno a suo modo), portatori di un’immagine contraddittoria dell’uomo. Sul terreno della contraddizione si dovrà anche parlare dei segni e dei sim­ boli ricorrenti. Non sono molti questi simboli, ma sono tutti « forti ». Intanto, i quattro elementi naturali: l’acqua (gocce, pioggia, stagni, pozzanghere, ter­ reni paludosi ecc.), che è sempre legata al suono che produce o che da essa si estrae; il fuoco (la fusione della campana, è forse l’esempio più alto, ma quanti altri ve ne sono in Rublèv. e quante altre volte riemerge, in più di un film e in forme complesse, come nel magma incandescente di Solaris)’, l’aria (mate­ rializzata nel vento, come nella « sospesa » sequenza iniziale di Lo specchio)'.

pernddo Di Giammatteo

la terra (zolle, radici, arbusti, fili d’erba, foglie, rami, nei quali la macchina da presa si immerge, si incunea e quasi scompare: Stalker e Nostalghia rappre­ sentano i due episodi più clamorosi). Gli elementi naturali si trovano sempre al centro della rappresentazione: la sostengono, la guidano, la giustificano. Fanno pane della storia. Accanto ai simboli citati — quelli che si potrebbero definire macroscopici — vi sono quelli indiretti. Sono simboli che ora si presentano nel loro aspetto concretamente simbolico, ora possono essere colti dallo spettatore come sem­ plici temi. Ad esempio, il tema-simbolo del fanciullo. 11 fanciullo « ignaro » che possiede la verità: colui che non vede, non sente, non conosce, ma tutto vede, sente e conosce. E tutto decide, come Boriska che finge di essere il depo­ sitario del segreto della fusione della campana (ma non è vero) e che alla fine la campana riesce davvero a fonderla, nella sequenza più straordinaria di Ru­ blèv, Accanto a questo ragazzo possiamo porre il piccolo muto di Sacrificio, che rimane accanto (custode e padrone insieme) all’albero della vita. I fanciulli sono, insieme, l’innocenza (del mondo) e la vera conoscenza: i dottori del Tem­ pio non hanno nulla da contrapporre alla sapienza di Gesù. Temi o simboli che siano, Tarkovskij introduce i suoi fanciulli dentro storie atroci e pietose. Li osserva impassibile, senza commozione alcuna. Simboli e temi. Sono due nozioni che, per Tarkovskij, possono ridursi a una. Nel suo linguaggio tutto è simbolico, perché ogni tema affrontato riman­ da ad altri temi e suggerisce altri significati. Che cosa vi sia alle spalle di questa tematica (per così dire) simbolica, in parte sappiamo, ma parecchio ancora do­ vrà essere scoperto. Quando ci si trova di fronte a una struttura simbolica così ramificata, si può anche reagire (molti hanno reagito, e reagiscono) con un ri­ fiuto. È del tutto naturale. Non solo, ma è lo stesso Tarkovskij che non ha mai chiesto il consenso, né dei suoi produttori, né dei suoi spetratori. Ha sempre cercato di provocare attraverso una totale, e complessa, sincerità. Lo stesso suo individualismo, così sbandierato e così intenso, è stato una sfida continua non solo al potere ma all’ideologia dominante. La provocazione non ha mai cono­ sciuto il compromesso c, come ogni provocazione autentica, è stata o accolta con entusiasmo o duramente respinta. Tutte le inquadrature dei film rarkovskiani sono, incerto senso, fuori misura. Provocatorie, appunto. Ma non basta. Lo sguardo che Tarkovskij rivolge agli uomini e al mondo è fermo tanto da parere immobile. Da qui nasce quell’impressione di impassibilità che co­ municano le sue immagini. Da qui nasce anche quella concezione dello spazio e del tempo che fa del regista russo un caso unico. Dire che lo spazio tarkovskiano imprigiona ma non contiene (è l’osservazione che scaturisce dal metodo psicoanalitico) significa che anche qui si ritrova il segno della contraddizione, come in tutti gli altri temi e simboli del regista. Lo spazio non può essere « abi­ tato >, eppure chiude chi vi si trova come in una cella e gli impedisce di uscire. Quasi sempre si tratta di uno spazio « incorniciato »: la macchina da presa guarda verso gli interni (le stanze, i luoghi chiusi) attraverso cornici o finestre o porte, e qualche volta penetrando nella finta realtà degli specchi. La sospensione che dà senso al linguaggio si esprime in modo ancora più chiaro nella « messa in scena » del tempo. I lunghi carrelli che « accentuano » l’immobilità ottengono l’effetto di dilatare il tempo, di « sospenderlo » in una sorta di « infinità » dell’immagine. Così, il tempo sospeso e immobile si tra­ sforma insensibilmente, di sequenza in sequenza, nell’attesa di qualcosa che dovrà accadere (e che certamente accadrà). Le contraddizioni si moltiplicano

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e, in un certo senso, gli estremi si toccano: la mobilità della macchina da presa diventa immobilità, il tempo finito di ciascuna inquadratura (anche se è una inquadratura-sequenza) si trasforma in tempo senza confini. I film di Tarkov­ skij offrono l’immagine di uno spazio c di un tempo che si ripiegano su se stes­ si, si riproducono sempre uguali, come in un ciclo che non debba subire mai variazioni. L’esempio più calzante è quello dell’albero morto che apre c chiu­ de Sacrificio, ma contraddizioni analoghe, e immagini simili, ci sono nello Spec­ chio, in Stalker e in Nostalghia. Nella struttura dei film tarkovskiani confluiscono — si potrebbe dire ar­ monicamente — le influenze esterne, le disavventure private, il misticismo, le reminescenze figurative, la « popolarità » del sentimento di fondo, le ango­ sce e la < follia » di un artista fra i più tormentati del cinema contemporaneo. Quando si diceva che II’ja Repin è il pittore cui il regista in realtà si ispira, mentre dichiara il suo debito verso Leonardo, si forniva un’altra prova di « crip­ tomnesia » (per continuare ad usare l'immagine psicoanalitica). Ma si potreb­ be proseguire in questa direzione, e non si commetterebbe alcun sopruso. Si potrebbe per esempio affiancare al nome di Repin quello di Gerasimov, prin­ cipe dei pittori del realismo socialista. Una cosa è respingere l’ideologia, un’al­ tra cosa è vivere fra i prodotti di questa ideologia, nel clima e nella cultura dal­ la ideologia creati. Tanto più forte diventa allora (tanto più produttiva) la con­ traddizione.

L’equivoco dell’occidente Krzysztof Zanussi

Vorrei anzitutto ringraziare per questo invito. Mi sento molto onorato di poter parlare di Tarkovskij a Firenze, la città che lo ha accolto in un momento dram­ matico della sua vita. Qui l’apertura tradizionale e la continuità della storia si sentono e si esprimono in gesti come questo. Credo che questo sia per tutti gli artisti un segno di ottimismo: anche quando si è nei guai d’ordine politico, o amministrativo, si trova appoggio in gente che riesce a superare questa pro­ spettiva immediata e politica e a vedere l’artista come un individuo e a dargli una mano. Ma parlare di Tarkovskij per me non è facile: non sono uno studio­ so, non sono un critico. Ho sentito ieri interventi belli, dotti, complessi, io in­ vece posso port . e solo la mia testimonianza, raccontare i miei contatti con lui e forse cercare di generalizzare un po’, magari rischiando di essere mal compre­ so (il mio italiano non e abbastanza sottile per esprimere le cose che vorrei espri­ mere, ma confido nella vostra fantasia per essere capito anche se non sarò mol­ to chiaro). Mi sembra che il rapporto tra Tarkovskij e il pubblico occidentale (e i criti­ ci occidentali) sia un rapporto complicato. C’è senza dubbio interesse ma c’è anche un malinteso permanente, e un equivoco che Tarkovskij stesso sentì e soffrì per tutta la vita. Cerco di capire da dove viene questa spaccatura. Essen­ do polacco, un po’ a metà strada fra la vostra Europa occidentale e l’Europa orientale della Russia, forse sento questo sentimento come particolarmente mio. Perché è tanto difficile essere d’accordo con Tarkovskij per il pubblico e soprat­ tutto per gli intellettuali occidentali? Vorrei azzardare un’ipotesi: il « revisio­ nismo » di Tarkovskij va molto più lontano di quanto gli intellettuali e l’Euro­ pa occidentale vogliano accettare. La mia intuizione è questa: venendo dalla Mitteleuropa, dalla Polonia, vedo l’Europa occidentale particolarmente con­ tenta di sé, perché ha constatato che tante sue aspirazioni si sono realizzate (la società occidentale, soprattutto oggi dopo la seconda guerra mondiale, è dive­ nuta una società del benessere, una società democratica che si sente profonda­ mente soddisfatta, e questo stato d’animo non permette revisioni radicali, per­ ché non ce n’è bisogno). Vedo un certo compiacimento, un’approvazione pro­ fonda del mondo nel quale si vive. So benissimo quante correnti di critica, e anche di rabbia, esistono in Occidente, ma dubito che lo scontento sia davvero profondo. Ricordo di aver letto Stefan Zweig che parlava dell’Austria di fine secolo. Scriveva di questa Austria come del Regno della sicurezza, dove si sape­ va tutto, dove il denaro era sicuro, dove non c’era inflazione, dove ciascuno conosceva perfettamente il suo futuro, e dove si pensava che con la conciliazio­ ne si possono risolvere tutti i problemi dell’umanità. Questo srato d’animo si è dissolto durante la prima guerra mondiale, ma ora lo si può attribuire alla cultura dell’Europa occidentale, dell'Europa tecnicizzata. Se ci spostiamo ancora più a Occidente, troviamo che questo sentimento è persino più forte: la cultura nord-americana è ancora più sicura e contenta di sé. Questo si vede negli atteggiamenti degli americani, che sono sempre pronti

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L'equivoco deirOccideMe

a dare buoni consigli su come risolvere i problemi degli altri. Ho viaggiato at­ traverso gli Stati Uniti accanto a Tarkovskij, e ho visto come la sua opera sia accolta in America con maggiore difficoltà che nell’Europa occidentale. Forse questi sono fatti collegati. Tarkovskij intuiva che lo sbaglio dell’occidente co­ mincia col Rinascimento. Sbaglio iniziato da Galileo, continuato da Cartesio, Hegel, Freud e Marx. Sentiva che questa strada non è buona: Tarkovskij la con­ testava, pensava che non fosse giusta. Uno di voi, ieri, parlava del suo gusto per la pittura e ricordava che nella Galleria degli Uffizi voleva vedere solamen­ te le prime tre sale. Mi sembra un fatto abbastanza emblematico. Nelle moke conversazioni che abbiamo avuto, parlava a me — polacco, cioè slavo ma occi­ dentale — di questo Rinascimento maledetto, che rende fieri voi fiorentini, voi italiani, e che per lui non era affatto positivo. Non accettava (lo dico in forma poetica) questo mettere al centro dell’universo non più Dio ma l’uomo con il suo orgoglio, la sua arroganza, la sua imperfezione. Lo intuisco soprat­ tutto dalla sua opera e ciò mi spiega come questa opera, così bene articolata, così bene calibrata, trovi difficoltà enormi a essere compresa, perché contraddi­ ce totalmente la coscienza occidentale. vDa dove viene la differenza? E facile dire che viene dalle sue origini russe. Ma non basta. Occorre penetrare più a fondo nella mentalità russa. Occorre (Estinguere tra la corrente filo-occidentale e quella, per così dire, isolazionisticaùÒa una pane troviamo Herzen, dall’altra E)ostocvskij, forse Solgenitsin. Dove collocare Tarkovskij? È un problema da approfondire, ma probabilmente più che le radici culturali contano l’esperienza vissuta, la paura che qualcuno bussi alla porta di notte. Per tutti noi questo è parte della nostra esperienza esisten­ ziale. Per voi sono cose astratte. Chi può bussare alla vostra porta, nella notte? Un ubriaco? Una persona sbagliata o il fattorino dei telegrammi? Per me, inve­ ce, può significare la fine della mia esistenza artistica, può significare un cam­ biamento radicale della vita. E questo poteva accadere, particolarmente negli anni cinquanta, ogni giorno. Da qui nasce una visione del mondo compietamente diversa. Questo credo sia il punto di partenza per capire Tarkovskij. Egli comincia sempre con domande filosofiche d’ordine ontologico, che da molti anni — dal­ l’inizio (quasi) del secolo — l’Occidente non si pone più, considerandole do­ mande non necessarie. Tanti filosofi hanno espresso il dubbio se queste do­ mande si debbano porre. « Perché siamo nari, perché siamo stati chiamati dal­ la non esistenza all’esistenza, qual è il nostro posto nell’universo, qual è il ruo­ lo che dobbiamo interpretare ». Sono parole di Tarkovskij ed è un modo di parlare opposto al modo che probabilmente usate voi: per voi l’uomo è sempre il soggetto che sceglie, decide, è onnipotente. Al contrario, l’umiltà verso la propria sorte viene da un’altra esperienza, e, se il mondo di oggi fosse meno contento di sé, queste sarebbero domande valide. Se Tarkovskij oggi ricorre all’irrazionale contestando il razionalismo occidentale, compie un’operazione di grande valore perché apre una prospettiva per lungo tempo trascurata dalla sensibilità occidentale. C’è di più. Credo che questa esperienza sia non sola­ mente collettiva ma anche individuale. La sua è una dimensione particolarmente tragica. Conoscevo Andrej quando ancora viveva in Russia, so come doveva lot­ tare, sino ad impazzirne, per conservare la sua libertà, la sua indipendenza dal potere, dalle pressioni esterne, dal conformismo, dalle esigenze estetiche del­ l’ufficialità. Quante volte fu denunciato dai suoi colleghi pur ostili al potere, che accusavano Tarkovskij di contrabbandare nei film idee condannate e vieta­

Krzysztof Zanussi

te. I rulli Ae\V Andrej Rublev furono bloccati all’aeroporto quando stavano per partire per Cannes, su denuncia di parecchi colleghi che, visto il film, si erano appellati al potere dicendo che « non era degno di rappresentare il nostro Pae­ se ». Tutta la vita di Tarkovskij è stata controcorrente. Fu sempre accusato di essere politicamente sospetto, anche se non si era mai occupato di politica (par­ lava di valori umani, spirituali, e questi valori hanno un impatto politico). De­ vo dire che con gran dolore, ieri, ho sentito nell’intervento del collega e amico Borelli, che stimo molto, le parole < politicamente sospetto ». Ho potuto par­ lare di Tarkovskij a Mosca mesi fa, durante il festival dove ufficialmente il regi­ sta era stato riabilitato, con le sue opere (incluso Sacrificio). Sono state proiet­ tate tutte e noi abbiamo potuto lodarlo post mortem, senza pressioni politi­ che. Come è possibile usare oggi in Italia questo termine « politicamente so­ spetto »? Sappiamo quali erano le conseguenze della definizione. Il < politicamente sospetto » non può più lavorare, non può fare film. Sarà condannato. È una parola grave. Sono sicuro che Borelli non aveva pensato a queste conse­ guenze, non ha riflettuto sul fatto che questa definizione può trasformarsi in una valanga. Non voglio rivolgere un’accusa a un critico così valido e simpati­ co. Voglio solamente citare questo esempio per mostrare come siano diverse le esperienze che abbiamo vissuto e per sottolineare la necessità, che noi abbia­ mo imparato, di misurare le parole, perché le parole possono servire come con­ danna. E Tarkovskij durante tutta la sua vita fu < condannato », sia quando visse in Russia sia dopo, in Occidente.

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Frammenti di memoria Tonino Guerra

Mi sono innamorato delle opere di Tarkovskij molti anni fa, quando in Italia non era ancora conosciuto. Così, decisi di andare in Russia, anche perché ero facilitato per aver sposato una ragazza di Mosca. Volevo portarlo in Italia. Ho impiegato tre anni. Lui credeva che non ci potessi riuscire. Invece io — aiutato da mia moglie — ci sono riuscito. Soprattutto perche amavo molto i suoi lavori e, siccome tra le altre cose sono anche sceneggiatore, amavo molto il modo che aveva di usare la natura. Una delle cose che mi aveva colpito di più fu l’inizio dello Specchio. Vi parlo di un fatto tecnico, perché Tarkovskij era un grande sceneggiatore. All’inizio dello Specchio si vede — di spalle — una donna bionda che sta guardando una grande valle piena di sole. Noi vediamo che sulla destra ci sono anche dei bambini. Questa donna che guarda la valle piena di sole, noi capiamo, è come in attesa di un incontro, e noi immediatamente sentiamo la sua grande solitudine. Infatti, a un certo momento, qualcuno cammina fra il grano. E un dottore, che adesso vediamo in primo piano. Un dottore con la barba, che sta cercando una casa. C’è subito un attimo di simpatia tra i due. Lui chiede: « Dov’è la casa tal dei tali? > (non ricordo il nome russo). La donna dice: < Non è questa >. C’è delusione negli occhi dell’uomo: « Ma dov’è? > « De­ ve ridisccndere, andare a destra e troverà quella casa >. Lui, affascinato dalla presenza di questa ragazza, dice: « Posso fumare una sigaretta? > Accende, fu­ ma, appoggiandosi anche lui sulla staccionata. La staccionata crolla. Lui chiede scusa, la rimettono a posto. La donna si mette a sedere, l’uomo se ne va e cam­ mina nel grande prato, nella valle di grano. Ma a questo punto interviene una cosa che noi avevamo già notato. Il vento che muove i rami degli alberi, ora scende questo vento, abbassa il grano, colpisce la schiena dell’uomo, il quale si gira quasi chiamato dalla donna. Come dicesse: < E un vento ruffiano >. Ep­ pure si guardano, si salutano da lontano. Non si vedranno mai più. Questa irruzione del vento ha aumentato la stima che avevo per Tarkov­ skij. È uno degli elementi che mi ha portato in Unione Sovietica a parlare con lui. La casa di mia moglie è a dieci passi dalla casa dei Tarkovskij. Così noi, tutti i giorni, si parlava, si cercava un soggetto. Il soggetto che ci sembrava il più furbo (a quel tempo bisognava proprio dire così) era un « Viaggio in Ita­ lia » di Tarkovskij. Se c’era stato il viaggio di un grande scrittore francese come Srendhal, poteva andare anche per un regista. L’ho proposto alla televisione. Alla televisione la cosa piaceva. I contatti sono durati tre anni. Poi, finalmente Tarkovskij è venuto in Italia. Io ho cercato di mostrare le cose che mi sembravano abbastanza magiche. Siamo andati nel Sud e siamo, alla fine, approdati in questo paese magico che è Bagno Vignoni. Credo che la scoperta di questa piscina dove si bagnava Caterina da Siena, lo abbia vera­ mente deciso a inventare il film. All’inizio era proprio un viaggio, realizzato in film da Tarkovskij, con un operatore un tantino distratto. Da lì nacque l’i­ dea di Nostalghia.

Tonino Guerra

« Nostalgia » per un russo non è la stessa nostalgia che può avere un italia­ no (un italiano che va in America ha la nostalgia deir Italia, se ha i soldi viene in Italia). Per un russo, anche quando non c’erano i comunisti e anche prima (adesso le cose sono molto cambiate), significa probabilmente, una volta che decide di abbandonare l’Unione Sovietica, non tornarci mai più. Accadeva sotto gli zar, a quelli che venivano a studiare in Italia. Molti erano musicisti. Cono­ sciamo la storia: si tratta di un musicista mandato in Italia da un principe che lo teneva come schiavo. Era venuto a studiare a Bologna dall’abate Martini, lo stesso che insegnò a Mozart. Quest’uomo ha lasciato una lettera dove dice: « Vorrei pagarmi la libertà ». Ma cambia idea: « No, tanto il principe non me la darà mai la libertà e io ho troppa nostalgia per non ritornate ». Per un russo, è una cosa drammatica la nostalgia. Da romagnolo l’ho provata anch’io. Con tutto questo occuparmi di Tarkovskij, mi hanno proibito per tre anni di entra­ re in Russia, una terra per cui ho grande simpatia, una terra che a me ha dato molto. Ho sofferto anch’io di quello stesso tipo di nostalgia. Devo dire che ho rivisto Nostalghia. come ho rivisto Sacrificio, e trovo più perfetto Sacrificio. Ma certo Tarkovskij non poteva fare Sacrificio se prima non partiva dalla nostalgia, perché il tema, secondo me, è quello. La gente giudica il film noioso, ma le opere d’arte sono noiose (chi ha voglia di leggere La divi­ na commedia!}. Sotto sotto, al di là del racconto, c’è la meraviglia di Tarkov­ skij, quel suo darci l’acqua, i rumori dell’acqua, di toccarci dentro per farci capire che cosa è la chiarezza di un avvenimento. Intanto, è proprio la storia vera di Tarkovskij. Volle il caso che nei due film il protagonista muoia o stia morendo. Sono film che vanno riveduti per bene. Due mesi fa sono stato in Unione Sovietica e ho visto che finalmente c’è grande stima e amore per Tarkovskij. Ci sono stati degli incontri. Io ho parlato anche in un teatro e durante una trasmissione televisiva. Mi sono trovato in una situazione un pochino drammatica, avevo sette persone attorno e improv­ visamente tutti si sono messi a piangere. Tra l’altro dovevo andare a trovare la madre di mia moglie, malata, la quale si trovava in una casa di riposo molto comoda vicino a Mosca. Mentre stavo mangiando mia moglie mi dice: « Sta arrivando il padre di Andrej ». Vedo questo grande poeta (Tarkovskij amava il padre e lo stimava enormemente) che avanza appoggiandosi a due stampel­ le, per raggiungere il suo tavolo. Devo andare a salutare quest’uomo mi dico. Aspetto un po’, mi decido, resto in piedi con le mani appoggiate al tavolo. Dico soltanto: « Sono Tonino Guerra ». E il viso di quest’uomo si trasforma in una maschera di commozione e di dolore. Mi accarezzava la mano, quasi come se io fossi suo figlio, quasi fossi io il ritratto, la memoria di suo figlio. Sentivo questa mano leggera che mi accarezzava in questo immenso atto di umil­ tà. Subito cerco di fuggire. Io sono romagnolo e la prima cosa che fa un roma­ gnolo è di dire di no. Vi potrei parlare mezz’ora dell’incontro con mio padre (con lui non ci si dava mai la mano) quando tornai dalla Germania. Ero stato prigioniero un anno. Torno e quest’uomo mi guarda con il sigaro in bocca. Stiamo fermi a quattro metri di distanza perché so che baci non si danno, la mano non si dà, non si dà niente. Lui si toglie il sigaro di bocca e mi dice: « Hai mangiato? » « Certo, moltissimo! » E se ne va. Entro in casa con gli amici che mi aspettano. A un certo punto entra un personaggio con la valigetta in mano. Dico: « Lei cerca me? » « Sì ». « Cosa vuole? » Dice: « Sono il barbiere, sono venuto a farle la barba ». « Chi glielo ha detto? » « Suo padre ». In quel­ l’occhiata aveva visto un tantino di barba lunga.

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Frammenti di memoria

I romagnoli fanno questi gesti. E sono ostinati. Trovandomi in Unione Sovietica voglio a tutti i costi andare a vedere Pskov. Perché voglio andare a vedere Pskov? Perché Andrej mi ha detto: « Guarda è uno dei paesi più belli di tutta l’Unione Sovietica ». Ci arrivo che un uragano fa volare le piante. Una cosa terrificante, ma io ho vissuto quella visita nel pensiero di Tarkovskij. E di lui vi racconto ora un episodio, lo stesso che raccontai alla televisione russa, e che mi aveva raccontato Terilli, l’amico italiano che Tarkovskij amava di più. Terilli era stato a trovarlo a Parigi all’ospedale, e Tarkovskij lo pregò di richia­ marlo una volta in Italia, perché avrebbe dovuto dirgli cose importantissime al telefono. Terilli chiama Parigi. Chiama l’ospedale, l’ospedale passa la came­ ra di Tarkovskij. Tarkovskij alza il telefono. Non è capace di parlare e restano tre minuti in silenzio. Credo sia uno dei colloqui più potenti che possono avve­ nire tra due amici. Vi dico anche che noi tutti dobbiamo ringraziare che TarkóVskij abbia respirato l’aria italiana, l’aria toscana e di Firenze (ha anche re­ spirato un poco Varia del mio paese). Noi parlavamo dell’acqua, una volta. Lui dice: « Sai, una volta ero nella dacia, con la finestra aperta. L’aria c l’acqua entravano sul pavimento di legno, e io ho permesso che entrasse perché si stava formando una pozzanghera den­ tro casa, ma che sembrava uno specchio e che rispecchiava le cose dentro e fuo­ ri. Mi piaceva la nascita di questo fatto. Senonché passa il cane (amava molto questo cane, mi pare si chiamasse Dark) e naturalmente, non sapendo che c’e­ ra l’acqua, si bagna le zampe. Si ferma subito per scrollarsi le gocce che aveva sulle zampe posteriori ». Dopodiché il cane va in un’altra stanza, Andrej resta a guardare la pozzanghera. Viene il sole, e in pochi momenti la pozzanghera scompare. Riappare il cane, si ferma, perché sospetta che ancora ci sia l’acqua. Restano lì tutti e due, a guardare questo punto, per chiedersi come sia bello il mondo che vede nascere le cose e queste cose scompaiono anche se sono me­ ravigliose. È il caso di Andrej, che è apparso ed è scomparso lasciandoci queste meraviglie.

Un poeta del cinema

Orio Caldiron

Comincio con il dire dell’emozione che ho provato sentendo parlare Zanussi, quando ricordava un’epoca, un clima, una situazione, un momento che può continuare ad essere il momento decisivo della propria vita. Si sta dormendo, e improvvisamente ci si sveglia perché qualcuno bussa violentemente alla por­ ta: una situazione che molti di voi possono non aver provato. Tarkovskij diceva qualcosa del genere quando alludeva al momento in cui ci si sveglia improvvi­ samente durante la notte, ci si alza e si va a guardare se la donna accanto e se il figlio nell’altra stanza sono vivi, stanno bene. Brivido delle piccole cose di ogni giorno che possono essere la forma di una tragedia: una tragedia storica a cui alludeva, mi sembra, Zanussi. E la grande emozione che ho provato quando a un certo punto — nei racconti di questo straordinario sceneggiatore italiano ma anche russo, che è Tonino Guerra — ho sentito nominare l’acqua, all’im­ provviso, mentre si parlava di Sacrificio e di Nostalghia, Un altro suggerimento di Tonino Guerra dovremmo ricordare: non fa niente se i film di Tarkovskij sono noiosi, le grandi opere di poesia possono anche es­ sere noiose, e continuare ad essere splendide, stupende opere di poesia. Credo si possa, semplificando molto, dire che c’è un nucleo di straordinaria poesia in Tarkovskij ed è un nucleo semplice e disarmato. Un nucleo di cose sue, fa­ miliari, soggettive, intime, personali, che si colloca in film la cui struttura in­ vece è complicatissima, stratificata, polisemica, ricchissima, quasi narcisisticamente compiaciuta di se stessa. Prendiamo Sacrificio, film bellissimo che co­ mincia e finisce con due grandi piani-sequenza sul rapporto tra Alexander e il bambino. Alexander — ecco un punto da esaminare — visita Maria. Dopo essersi lavato le mani, dopo naturalmente essersi fatto versare l’acqua, comin­ cia a raccontare a Maria del giardino che aveva cominciato a mettere in ordine per sua madre. E solo alla fine si accorge che questo giardino potato e ripulito rischiava di essere privo di vita. Maria sembra non capire, ma improvvisamente capisce e improvvisamente Alexander cerca il grembo di Maria e sta con lei. Questo momento di Sacrificio è calato dentro una stratificazione di problemi, di discorsi, di riferimenti che tocca anche la tragedia di tutti e di ciascuno: il dramma nucleare che Alexander vede come una minaccia tremenda e generale ma insieme anche personale. Ma io, prima delle « provocazioni » di Zanussi e di Guerra, mi ripromet­ tevo di discutere Stalker, un film che è stato visto più volte come l’opera in cui l’eccesso di discorsi e di significati, l’avvolgersi della vicenda su se stessa, ha prodotto più guasti che pregi. 1979, esce dopo il consueto periodo di silen­ zio che sembra esserci tra un film e l’altro di Tarkovskij, e ha un’origine legata a un racconto di fantascienza (è imparentato in qualche modo a Solaris proprio per il pretesto fantascientifico da cui prende le mosse). Ora, la struttura del racconto è certamente fantascientifica ma è anche — poiché si impernia sulla figura dello « stalker » e sulla categoria della « zona » — imparentata in qual­ che misura con un prototipo del racconto come il racconto poliziesco. Lo stai-

Un poeta del cinema

ker, che si muove a suo agio solo nella « zona » e nel sistema di trabocchetti della « zona », è colui che agisce di soppiatto. È occhio di lince, si muove nella giungla della metropoli come si muovono gli indiani nel loro territorio, ma è anche colui che guadagna soldi sfruttando l’angoscia dei due (lo scrittore e lo scienziato) che accompagna nella « zona ». È in qualche modo un prototipo del detective, forse è un detective dell’inconscio (può alludere anche al detecti­ ve dell’inconscio, allo psicanalista). Lo stalker conduce nella « zona » e la « zo­ na » è un sistema complesso di trabocchetti imperniati intorno allo stato d’ani­ mo. E una nostra creazione. Non lascia passare né i buoni né i cattivi ma quelli che non hanno più nessuna speranza: lascia passare gli infelici. Il rapporto tra lo stalker e la « zona » spiega anche come l’ultimo stadio di incarnazione dello stalker sia il verme, l’idiota, colui che non ha alcun meri­ to: probabilmente lo stalker può essere una lettura in termini dostoevskiani di una figura tipica del racconto occidentale. Le caratteristiche della « zona » sono -Questo sistema complesso di trabocchetti, di percorsi non rettilinei, di tracce, -di piste che portano a una infinita serie di riferimenti all’acqua. La presenza dell’acqua è ossessiva, assillante. C’è pressoché dappertutto, nelle sue varie for­ me: pioggia, acqua stagnante, palude ecc. L’acqua, che è il punto d’approdo della « zona sono questo sistema complesso di trabocchetti, di percorsi non rettilinei, di tracce, di piste che portano a una infinita serie di riferimenti al­ l’acqua. La presenza dell’acqua è ossessiva, assillante. C’è pressoché dapper­ tutto, nelle sue varie forme: pioggia, acqua stagnante, palude ecc. L’acqua, che è il punto d’approdo della « zona », lascia trasparire nel suo fondo — quando c’è un fondo — i detriti e i relitti di ciò che è stato: bottiglie vuote, siringhe, icone, corpi, pezzi, oggetti. Credo che in Stalker sia molto forte il riferimento a una serie di aspetti, di significati e di rimandi che fanno la struttura complessa del film, e dei film di Tarkovskij. C’è, anzitutto, il riferimento portante all’acqua, simbolo cosmo­ gonico, ricettacolo di ogni forma e genere di vita come diceva Heidegger: for­ mule mitiche di una stessa realtà, metafisico-religiosa. Nell’acqua abitano la vita, il vigore, l’eternità. Naturalmente, quest’acqua non si può avere né facil­ mente né da tutti. E custodita da mostri, si trova in territori difficilmente pe­ netrabili, la possiedono divinità o demoni. La strada per raggiungere la sorgen­ te, conquistare l’acqua viva, implica una serie di consacrazioni e di prove preci­ samente come la ricerca dell’albero della vita. L’acqua come elemento di nasci­ ta e di rinascita, come l’acqua amniotica del parto. Questo complesso itinera­ rio ha momenti alti di rappresentazione, quasi astratti, un paesaggio in cui non c’è posto per l’uomo. Il percorso che compiono è un viaggio di uomini che guardano un po’ da dove vengono e un po’ dove vanno. Non sanno esatta­ mente che cosa li aspetta. E un percorso che condurrà alla sequenza finale, che arriva all’improvviso: vediamo che sono lì sulla soglia della stanza e poi li ve­ diamo di nuovo nel bar da cui sono partiti. Questo percorso è attraversato da momenti di raffigurazione che riguarda soprattutto l’acqua nelle sue varie forme (una serie di tunnel, di passaggi ecc.) ma è anche attraversato da una serie di temi interessanti in astratto ma noiosis­ simi: polemiche sull’otrimismo della scienza, sul contrasto tra l’inquietudine (e i compromessi) dello scrittore e la ricerca dello scienziato. Polemiche, tenta­ tivi, discorsi e contrapposizioni che forse non sono un incidente di percorso ma un transito verso qualche cosa, E si arriva così alla sequenza finale. La bambina e tre bicchieri sul tavolo. Bambina con questo copricapo curioso, e una faccia

Orio Caldiron

da antica icona. Vediamo la bambina camminare (infatti, è una specie di mira­ colo, un miracolo della macchina da presa perché cammina sulle spalle del pa­ dre che poi scopriamo quando l’inquadratura si allarga). Tarkovskij punta tut­ to su questo finale, che è un’epifania di forme rigorose, come ha detto Emengual in un suo saggio. È un momento altissimo, è tutto quello che Tarkovskij ha da dirci con Stalker. È un po’ come Sacrificio, con tanti livelli di lettura e una grande ricchezza di riferimenti, e forse una maggiore sapienza di risulta­ ti (qui tutto quello che ha da dire, forse, Tarkovskij lo dice benissimo nella visita a Maria). C’è in Tarkovskij un doppio livello, una doppia dimensione. Perché due dimensioni e non una? Perché usare due parole per dire la stessa cosa? Perché in pieno giorno può apparire qualcosa che non sia il giorno, qualcosa che in un’atmosfera di limpida luce rappresenti il brivido di terrore da cui il giorno è nato. Una bella follia: il parlare. Nei film di Tarkovskij si parla molto. A molti ricordano, giustamente, il cinema da camera di Bergman. Sono parole importanti. In molte di esse ci sono le idee di un uomo coltissimo, le idiosin­ crasie culturali di un uomo che aveva parecchio da dire. Nel suo Sacrificio c’è tutto il suo amore per l’Oricnte. Nell’ultima intervista, ha detto chiaramente: « Mi sento più vicino alla Thailandia, al Tibet, al Nepal, che non alla Francia o alla Germania ». Ho ricordato prima il suo contrastato rapporto con il Rinascimento. Nei suoi film c’è tutto questo, ma c’è anche il bisogno di elaborare una grossa mac­ china di significati e di riferimenti, per potersi rimettere nelle condizioni di provare il brivido di terrore da cui è nato il giorno.

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Contro il cinema di prosa Morando Morandini

L’intervento di Tonino Guerra sulla funzione e l’importanza dello sceneggia­ tore mi permette di osservare che, nell’itinerario così breve di Tarkovskij (sette film in 25 anni sono molto pochi), i primi tre sono in un certo senso film di genere. L'infanzia di Ivan è un film di guerra; Rublèv è un film storico, anzi storico-biografico; Solaris è un film di fantascienza (fra l’altro è tratto da uno straordinario romanzo di fantascienza di un autore polacco). Persino Stalker, anche se chiamarlo un racconto di fantascienza mi sembra un po’ esagerato, possiede elementi di fantascienza. Dunque, solo gli ultimi sono film d’autore nel senso che diamo noi in Italia e in Francia a questa parola, un’opzione, tra l’altro, molto riduttiva e piuttosto artificiosa. Una cosa che avrei voluto sentire, analizzare più a fondo è la presenza del­ la storia e della politica nei film di Tarkovskij. Borelli, mettendo l’accento un po’ troppo sul lato spiritualistico, ha rimproverato in un certo senso a Tarkov­ skij il suo distacco dalla politica. Non mi sembra molto giusto. È vero che Tar­ kovskij esamina la storia soprattutto nella sua atrocità. Qualcuno ha detto che la storia è un incubo da cui ci si dovrebbe svegliare un giorno (e naturalmente è impossibile). E Zanussi ha messo giustamente l’accento sul fatto che noi occi­ dentali — almeno noi italiani — non possiamo capire bene, perché non l’ab­ biamo vissuto in prima persona, che cosa sia stato prima Auschwitz, e tutto quello che ciò significa, e poi lo stalinismo nelle sue forme più dure. Ebbene, prendiamo quello che, secondo me, è il più poetico dei film tarkovskiani, Lo specchio. Lì troviamo, eccome, la presenza della storia e della politica, sia pure intesa come atrocità. Di Giammattco ha citato l’angoscia della correttrice di bozze per quel famoso refuso: quello non è soltanto un rimando ai tempi della paura dell’epoca staliniana ma è anche una variazione sul tema della colpevo­ lezza, ossia su uno dei temi del film. Non solo. C’è l’episodio degli esuli spagnoli che si son farti una famiglia nell’Unione Sovietica ma i cui figli ormai ignorano che cosa sia la Spagna. In un certo senso, questa è un’anticipazione, forse profetica, del tema dell’esilio che il regista avrebbe provato sulla propria pelle. Ci sono, sempre nello Spec­ chio, spezzoni di cinecronaca di repertorio, dalla guerra civile spagnola agli scon­ tri cino-sovietici sull’Ussuri e sul culto fanatico di Mao Zedong, ma qui il di­ scorso si dovrebbe allargare a quella che probabilmente era l’idea di Tarkovskij sulla missione salvifica della Russia nei rapporti tra l’Oriente (quello vero) e l’Occidente. Si è discusso delle citazioni nel cinema tarkovskiano: sia quelle esplicite sia quelle segrete. Ora, in un’intervista che gli fu fatta proprio da Tonino Guerra (< Panorama », aprile 1979), Tarkovskij parla per Lo specchio di una inquadra­ tura « alla Ingmar Bergman ». Aveva pensato: « Questa avrebbe potuto farla anche Bergman ». E la rifece uguale. Parla invece di due altre inquadrature chiaramente ispirate a quadri di Bruegel e aggiunge di averle costruite, molto coscientemente e deliberatamente, non con l’idea di rubare (esiste un libro che

Morando Morandim

si chiama Ladri di cinema) o di mostrare quanto fosse colto, ma « per testimo­ niate il mio amore per Bruegel, la mia dipendenza da lui, il segno profondo che ha lasciato nella mia vita ». Cita poi una scena del Rublev che — dice lui — potrebbe appartenere a Mizoguchi. E quando, con molto buon senso, Guerra gli dice che pretendere di non citare è pretendere di non avere dei padri, dei nonni, degli avi, Tarkovskij continua: « Mi sembra che ogni aspetto profondo nell’opera di autentici scrittori, pittori, musicisti abbia sempre radici molto pro­ fonde, sicché è inevitabile trovare richiami nel passato. Non so neppure da che cosa derivi. Forse non è una caratteristica del nostro tempo perché il tempo è pur sempre reversibile — almeno così credo io. Spesso scopriamo qualcosa che abbiamo già vissuto. Quando lavoro, mi aiuta molto pensare a Bresson. Solo il pensiero di Bresson. Non ricordo nessuna delle sue opere in concreto, ricordo solo la sua maniera supremamente ascetica, la sua semplicità e la sua chiarezza ». Qui il discorso potrebbe ritornare al tema della semplicità-complessità. Pri­ ma, sia pure scherzosamente Tonino Guerra diceva che i film di Tarkovskij so­ no spesso noiosi. Ora, sapete spero che la noia non è una categoria critica, nel senso che c’è chi si annoia a vedere i film di Tarkovskij o di Dreyer perché sono lenti e chi si annoia a vedere i western. D’altra pane, nel cercare le ragioni per le quali i film di Tarkovskij, almeno alcuni, sono non noiosi, ma difficili, ostici e faticosi non si tiene abbastanza conto del fatto che molto dipende dalla no­ stra pigrizia mentale, dalla mancanza di allenamento. Siamo assuefatti al cine­ ma di tutti i giorni che, bello o brutto che sia, è un cinema di prosa mentre quello di Tarkovskij è un cinema di poesia, e non si può leggere la poesia come si legge un romanzo, perché si tratta di un altro meccanismo. Si parlava della popolarità di Tarkovskij. È come pretendere che un libro di poesie, non dico di Tonino Guerra (che tra l’altro scrive in dialetto, anche se poi le traduce mol­ to bene in italiano), ma di Umberto Saba abbia la stessa tiratura di Moravia. A proposito dell’atteggiamento di Tarkovskij verso il mondo occidentale, nell’intervista che gli fece Tonino Guerra trovo un’osservazione che mi ha col­ pito, per fatto personale. Io sono arrivato ai sessant’anni e, forse come molti di quelli che si avvicinano alla mia età, ho il problema dei libri: in casa non ci stanno più, non si sa dove metterli e, siccome sono sfrattato e entro due anni devo andarmene, la sola idea del trasloco dei libri mi mette l’angoscia fin da adesso. Il mio sogno — lo dico da dieci o quindici anni — sarebbe di ridurre la mia biblioteca a 100-120 libri, quelli fondamentali (se pensate che solo di cinema ne ho 1500, e non ne ho letti nemmeno la metà). Tarkovskij racconta che in Stalker gli era venuta voglia di far apparire all’improvviso uno scaffale pieno di libri (lo scaffale apparirà nel finale in una scenografia del tutto impro­ pria per un simile oggetto). E aggiunge: « Vorrei avere a casa mia una libreria simile. Non ho mai avuto una libreria così. Mi piacerebbe averla nello stesso disordine in cui la tiene lo Stalker ». Ecco, questa osservazione marginale di uno dei quattro o cinque poeti che il cinema possegga mi ha dato molto da pensare a proposito dei discorsi che si sono fatti sul progresso, sul benessere, sul consumismo dell’occidente, e sulle altre cose alle quali stanno arrivando a poco a poco i paesi socialisti. Questa frase sulla libreria che Tarkovskij vorreb­ be avere mi ha anche un po’ commosso.

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Labirinti. Tarkovskij, Kubrick e altri percorsi

Giovanni Bogani

Il sistema generale delle scienze e delle arti è una specie di labirinto, di cammino tortuoso che lo spirito affronta senza troppo conoscere la strada da seguire

(D’Alembert, introduzione alla Encyclopedic}

« Come ti chiami? » « Stephen Dedalus » « Che razza di nome è questo? » (J. Joyce, A Portrait of the Artist as a Young Man) * Com 'è bello il mondo e come sono brutti i labirinti! », dissi sollevato. • Come sarebbe bello il mondo se ci fosse una regola per girare nei labirinti », rispose il mio maestro. (U. Eco, Il nome della rosa}

Vorrei poter tenere conto della complessità, che non vuol dire oscurità, dei film di Tarkovskij, ma sono costretto a cercare un filo conduttore: sarà l’idea di la­ birinto. Sulla strada, naturalmente, ho incontrato altri film, e primo di tutti Shining di Stanley Kubrick. Non voglio trovare a tutti i costi delle analogie, anche se qualcosa in co­ mune tra i due autori così grandi la troviamo subito: entrambi hanno fatto i loro film col contagocce. Nei quattordici anni tra il 1966 e il 1970, ad esempio, ciascuno ha realizzato solo quattro film. E, quasi in ogni film, entrambi i regi­ sti affrontano un genere nuovo, o almeno diverso dal precedente. Se Tarkov­ skij passa da un film « storico » (con tutte le riserve dell’etich et razione per ge­ neri ad autori come loro) come Rublèv alla fantascienza di Solaris, poi ad un film parzialmente autobiografico come Lo specchio (Zerkalo), Kubrick passa dalla fantascienza di 2001: a Space Odyssey a A Clockwork Orange (Arancia meccanica), ad un film storico come Barry Lyndon. Insomma, non si adatta a loro la battuta « mi chiamo John Ford e faccio western », neanche cambiando il nome. È come se la ricerca dell’antitesi nel genere costituisse per loro un passo necessario per proseguire; ma anche per non rimanere schiacciati dall’eredità del film precedente. Allo stesso modo, sono entrambi tenaci perfezionisti: se si racconta che Kubrick, durante la lavorazione di Barry Lyndon, abbia fatto attendere la troupe per settimane intere in mezzo alla campagna finché non ha visto il giusto colore dei cieli e dei prati, allo stesso modo, tra le più recenti, c’è una testimonianza di Olof Lòtwall, sulle pagine di < Positif », il quale rac­ conta di ore e ore passate a provare la stessa scena senza che Tarkovskij manife­ stasse il minimo segno di stanchezza o di irritazione, nonostante la malattia fosse ad uno stadio già avanzato; o di come tutta la troupe fosse mobilitata

Giovanni Bogani

per cogliere tutti i fiori di colore incongruo dal prato dell’ultima scena. Due punti in comune, dunque: lentezza di gestazione e perfezionismo, del resto l’uno pendant dell’altro. C’è stato poi un momento in cui i due auto­ ri sono stati costantemente paragonati. Quando in Europa uscì Solaris, se ne parlò come della risposta sovietica a 2001. Naturalmente, non lo era né lo vole­ va essere: confrontate a quelle di 2001, le astronavi di Solaris sembrano lavatri­ ci. Così doveva essere: Tarkovskij non ha mai voluto suscitare furori o entusia­ smi tecnologici. Entrambi trovano poi la loro grandezza nella forza espressiva dell’imma­ gine. Kubrick può permettersi, nell’ultimo Full MetalJacket, di ridurre i dia­ loghi a una serie di urli e di canzoncine militar-demenziali, tanto sa di poter contare sulle sue immagini: del resto, era srato per anni, prima di prendere la cinepresa in mano, fotografo per la rivista « Look ». La qualità d’immagine di Tarkovskij è ugualmente inconfondibile, anche se cambiano i generi, i pae­ si, i direttori di fotografia: Vadim Jusov fino a Solaris, Georgij Rerberg per Lo specchio, Aleksander Kuniazinskij per Stalker, Giuseppe Lanci per Nostalghia. Ultimo, il mago delle luci di Bergman, Sven Nyqvist, per Sacrificio. I suoi sce­ nografi, poi, cambiano ad ogni film. Tutto questo significa solo una cosa: l’u­ nità di un film con l’altro, nel suo caso, si trova solo nella persona del regista. E lui che riesce a dare alle immagini di ogni film un’impronta « tarkovskiana ». « Il colore toglie allo spettatore tutte le possibilità d’evasione, e costringe il suo sguardo a meditare su una realtà che non riconosce come sua », è stato scritto, e per quello che riguarda la maggior parte dei film a colori, giustamen­ te. Ma proprio Tarkovskij smentisce la frase, nel porsi come uno dei più grandi registi « a colori ». E non solo perché i colori dei suoi film rivelano un’intensità che rimanda a chissà quali accorgimenti d’illuminazione, pellicole, tecniche di laboratorio (e i verdi della sua tavolozza forse non esisterebbero se non avesse l’abitudine di allagare la scena prima di filmarla). Ma perché in lui colore, vi­ raggio monocromatico e bianco-nero, usati all’interno dello stesso film, riesco­ no a creare doppie e triple realtà, funzionano da veri e propri indicatori del livello narrativo al quale ci troviamo. E moltiplicano, per lo spettatore, le pos­ sibilità d’evasione. Solo pochi registi, e spesso registi sperimentali, gli si possono paragonare nell’uso del colore. Uno è Patrick Bokanowski: un artista nato ad Algeri da ge­ nitori polacchi nel ’43, allievo del pittore e fotografo Henri Dimier, che impie­ ga anni per realizzare i suoi cortometraggi in cui gioca con viraggi e decolora­ zioni per tentare la descrizione degli stati di coscienza « intermedi » tra il son­ no e la veglia. O, su versanti di più largo consumo, l’Alain Tanner di Dans la ville bianche-, e poi si torna a Kubrick, magari a quei cieli attesi giorni e gior­ ni dalla troupe di Barry Lyndon. Un altro momento in cui questi due grandi dell’immagine s’imbattono in qualcosa di simile è il tema del labirinto. Detto questo, divarichiamo subi­ to: anche figurativamente, i labirinti di Kubrick sono di linee nette, superfici lisce, bagnati di luce, e se ne dà un punto di vista esterno. Tarkovskij, al con­ trario, evita superfici lisce o geometrie regolari, il suo labirinto è fatto di cuni­ coli fangosi e non riducibili a nessuna delle figure geometriche più semplici, in continuo rivolgimento. Ma ne parleremo poi, con il fine (neanche troppo nascosto) di rivalutare la modernità di Andrej Tarkovskij, di gettare dubbi sul­ la correttezza di parlare dell’autore di Nostalghia già in termini nostalgici. La sua opera non è un canto antico. Anche se i suoi temi hanno radici millenarie,

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Labirinti. Tarkovskij, Kubrick e altri percorsi

come parte del suo universo di riferimenti, nondimeno sono estremamente mo­ derni. C'è ancora molto, sui suoi film, da dire. C’è ancora quasi tutto, proba­ bilmente, nei film che già conosciamo, da vedere. Perché — come scrive Em­ manuel Carrère su « Positif » — « i territori che con i suoi film ha esplorato sono territori nuovi per il cinema intero ».

L'universo del sogno « Quando ho scoperto per la prima volta i film di Tarkovskij, è stato per me come un miracolo. Mi trovavo d’improvviso di fronte alla porta di una camera di cui fino ad allora mi mancava la chiave. Una camera dove avrei sempre volu­ to entrare, e dove lui si sentiva perfettamente a suo agio. Se Tarkovskij è per me il più grande, è perché ha offerto al cinema un nuovo linguaggio che gli permette di cogliere la vita come apparenza, la vita come sogno ». Questa frase non è di uno spettatore qualunque. L’ammiratore di Tarkovskij si chiama Ing­ mar Bergman. E una frase che contiene un nocciolo critico notevole: l’idea che in Tarkovskij l’abbondanza di sequenze oniriche sia capace di generare una si­ tuazione di — per così dire — dormiveglia costante, in cui lo spettatore deve far ricorso a tutta la sua attenzione per discernere ciò che i personaggi vivono da ciò che pensano e sognano. Ma c’è di più: spesso il segnale cinematografico che rivela che tutta una serie di immagini fanno parte del mondo immaginato o sognato dal personaggio è un segnale posto non all’inizio, ma alla fine della sequenza. Per esempio, quando in Solaris ritroviamo il personaggio in un let­ to, e appare chiaro che ciò che abbiamo visto, credendoci, è stato un suo so­ gno. In Stalker i protagonisti si ritrovano, alla fine del film, nella medesima situazione iniziale, nello stesso bar: tutto quello che è successo potrebbero non essere state che chiacchiere tra amici. Nell’universo narrativo di Tarkovskij ciò che sembrava reale può rivelarsi in qualsiasi momento immaginato, e ciò che sembrava sogno, o immaginazione, si rivela realtà: se poi aggiungiamo a que­ sti piani la dimensione temporale, quella della memoria (ciò che sembra pre­ sente può rivelarsi passato, e viceversa, particolarmente in un film come Lo spec­ chiò), siamo già persi. Persi in quella che appare una sorta di febbre della visione. II suo primo film, Il rullo compressore e il violino, prova di diploma che presenta alla Scuola di cinema di Mosca nel I960, è considerato più realistico dei suoi lavori successivi. C’è anche chi ha parlato di « realismo socialista ». E certo, la figura del protagonista, operaio in tuta blu, e il modo stesso di inqua­ drare enfaticamente la macchina al suo servizio, il rullo compressore, ne deri­ vano. Ma già qui appaiono sequenze di ambigua collocazione: quella grande palla di ferro manovrata da una gru che demolisce un edificio e che l’altro pro­ tagonista, il bambino, vede subito dopo aver conquistato una palla di gomma appesa a un filo in un litigio che per il resto l’ha visto soccombere, è vera oppu­ re solo immaginata? Certo, qui si può ancora parlare di influenza del « mon­ taggio delle attrazioni » di S.M. Ejzenstejn, che Tarkovskij doveva aver studia­ to non poco, alla scuola di cinema. Anche se, poi, i 142 piani di Stalker, con­ frontati con i 3225 di Ottobre, che dura peraltro un’ora di meno, daranno un’i­ dea della rottura con la concezione eisensteiniana del montaggio. Ma già nel secondo film, L'infanzia di Ivan (Ivanovo Destvo, 1961), alme­ no tre sequenze si distinguono per il loro distaccarsi dal mondo reale dei perso­ naggi. In tutte e tre compare la figura della madre. Da qui in avanti, essa sarà

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presente nei film successivi quasi esclusivamente nei sogni o nei ricordi dei pro­ tagonisti: figura desiderata e desiderabile, mai connotata negativamente. In una di queste sequenze, dalla mano del piccolo Ivan, che abbiamo vi­ sto prima tentare di riposare, ma ancora con gli occhi apeni, mano su cui goc­ ciola dell’acqua, si sale in verticale verso l’orlo di un pozzo dove rivediamo Ivan c la madre, che si sorridono radiosi. Tra noi e i due c’è una massa d’acqua; ma l’immagine è talmente nitida che ce ne accorgiamo solo quando Ivan sfiora la superficie dell’acqua, e l’immagine si fa ondulata. In fondo al pozzo c’è qual­ cosa di luminoso: « una stella », gli dice la madre. Ivan cerca di afferrarla: il secchio cade e adesso, all’orlo del pozzo, c’è soltanto sua madre distesa in ter­ ra, morta. A parte l’innegabile suggestione della sequenza, essa ci mostra uno dei procedimenti che Tarkovskij userà per introdurre il sogno nel film. Da un par­ ticolare del suo corpo (ma in realtà viene utilizzata una controfigura), in que­ sto caso la mano, la cinepresa si sposta ad inquadrare la scena sognata, che in­ clude il personaggio. È ciò che avviene in Stalker (1979): dalla mano dello stal­ ker addormentato parte una lunga carrellata su oggetti d’ogni tipo (e c’è chi ne ha analizzate le valenze simboliche) giacenti sotto un velo d’acqua, fino ad arrivare di nuovo alla figura dello stalker disteso. Tarkovskij non userà mai, per introdurre i suoi sogni, il segnale più comodo e banale: né il flou, né la dissolvenza incrociata. Utilizzerà invece, oltre alla tecnica descritta sopra, i pas­ saggi dal bianco c nero al virato, al colore, per attuare le sue strategie di passag­ gio dall'universo « reale » a quello fantastico o onirico, o da un tempo ad un altro. Naturalmente, si potrebbe tracciare una storia di come, nel cinema, i pas­ saggi tra le gradazioni cromatiche (bianco e nero, seppia, colore e i vari tipi di dominanti e di < iper » colorazioni) siano srati in vario modo usati come in­ dice di transizione tra i livelli della narrazione. Ai tempi del cinema muto, si usavano virare nello stesso tono (per esempio, un leggero seppia) le scene del film ambientate negli stessi luoghi, ciò che si è tentato di fare anche nell’ope­ razione di maquillage svolta su Metropolis di Fritz Lang ad opera di Giorgio Moroder. Ma vi sono esempi, a volte anche mal riusciti, di un uso narrativo del colore anche in molto cinema recente, dal Mistero di Oberwald (1980) di Michelangelo Antonioni all’uso « tematico » delle dominanti rosa c celeste in Zuckerbaby (1985) di Percy Adlon, recentemente distribuito in Italia, ad ope­ ra della videoartista Johanna Heer. Infine, nel Cielo sopra Berlino (Der Him­ mel uber Berlin. 1987) Wenders, a costo di contraddire certe sue precedenti, ormai « famose » affermazioni circa la maggior « realtà » del bianco e nero ri­ spetto al colore, sceglie il bianco e nero per mostrarci la modalità di visione degli angeli, e il colore per quella dei comuni mortali: anche se ex angeli. E, non a caso, all’ex angelo (e ispiratore, nell’uso dei diversi piani cromatici?) An­ drej Tarkovskij è dedicato il suo film.

Nel labirinto Il termine è di moda, ma l’idea di labirinto esiste da almeno tremila anni. Una « danza del labirinto » viene descritta Iliade. Si parla di Minosse nell' Odissea, di Dedalo nelle Storie di Erodoto, del Minotauro nelle Metamor­ fosi di Ovidio; sembra anche che sia esistita una tragedia di Sofocle oggi per­

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dura: Dedalo. Ma, andando ancora indietro nel tempo, troveremo labirinti di pietre risalenti al Paleolitico sulle coste del mar Bianco e del mare di Barents. Tra i più antichi graffiti preistorici di cui siamo a conoscenza troviamo spirali a numerose circonvoluzioni: e il labirinto è, nella sua forma più semplice, una spirale. Questi « embrioni di labirinto » risalgono al Neolitico, circa 2500 anni avanti Cristo. Una popolazione di marinai, infine, incise disegni a forma di labirinto sulle rocce della Scozia tra il 2000 e il 1500 avanti Cristo, nell’età del Bronzo. Sigilli di scisto rinvenuti in Egitto raffigurano meandri e spirali rettango­ lari, e forse risalgono al terzo millennio a.C. Infine, su una terracotta del 1400 a.C. troviamo, con un testo in lineare B, il primo accenno cretese ad una « si­ gnora del labirinto » Arianna, forse. Dal lontano tempo dell’edificazione del Palazzo di Cnosso o meglio della leggenda che lo riguarda, giardini, pavimenti di cattedrali, disegni, città scritte e immaginate possiedono le caratteristiche del labirinto.

Errare humanum est Se da migliaia di anni l’uomo è affascinato da questa figura, essa deve possede­ re un nucleo tematico universale. Che, semplificato al massimo, potrebbe esse­ re quello di un Percorso in fondo al quale è il Mostro, o il Tesoro; o forse en­ trambi. Oppure, può essere il tema della coazione a raggiungere il Centro. Al­ l’importanza del centro nelle arti visive, Rudolf Arnheim ha dedicato il suo volume The Power of the Center (University of California, Berkeley-Los Ange­ les 1982), tradotto in Italia da Einaudi. Ma, nel Potere del centro, Arnheim dimostra scarso interesse alle figure « labirintiche ». Il terzo rema è quello di un luogo in cui è facile entrare, ma difficile uscire. Per questo, con una simbologia comune a varie popolazioni c registrata dalla Illustrated Encyclopaedia of Traditional Symbols di J.C. Cooper (Thames & Hud­ son, London 1982), entrare nel labirinto significa morte e uscirne rinascita. Più semplicemente ancora, la sua caratteristica fondamentale, almeno dal Barocco in poi: quella di essere un luogo in cui ci si perde. Un « labirintologo » tra i più accreditati nel mondo, Paolo Santarcangeli, nel Libro dei labirinti (edito la prima volta nel 1962 e di nuovo, in anni di postmoderno interesse per l’argomenro, nel 1984 da Frassinelli di Milano), parla di mitologia, architettura, storia dell’arte, geologia, giardini: non un accenno a un solo film. Avviene lo stesso nello splendido volume a cura di Hermann Kern, Labirinti. Forme e interpretazioni, che Feltrinelli pubblica nel 1981 in occasione di una mostra milanese. Da Achille Bonito Oliva, che aveva pubbli­ cato nel 1979 il suo Labirinto, ad Umberto Eco ognuno traccia il proprio excur­ sus nella storia dell’arte, della filosofia, dell’architettura: silenzio, però, sul­ l’ultima delle arti, tranne, paradossalmente, un accenno a Shining in un breve intervento di Santarcangeli. La voce Enciclopedia Einaudi di Pierre Rosenstiehl tratta principalmente il labirinto da un punto di vista matematico: con quali sistemi di equazioni si può trovare la più breve via d’uscita da un percor­ so complesso? Più vicine ai nostri interessi « umanistici », le dodici pagine che Omar Ca­ labrese dedica all’argomento nel suo volume L'età neobarocca, uscito nel 1987 da Laterza. Calabrese analizza la presenza del labirinto come suggestione figu-

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rativa e come figura strutturale alla base di molti aspetti della cultura di oggi. E se analizza quello di Shining come motivo figurativo, è più interessante quando descrive in termini di labirinto il modello di un serial come Dallas. in cui lo spettatore « non arriva mai » all’uscita, e in cui non riesce nemmeno, dopo un numero sufficiente di puntate, a capire a quale punto della vicenda (del labi­ rinto) si trovi: non riesce ad aver presente la mappa dell’edificio serial. Oppu­ re, quando accosta al piacere dello smarrirsi la rivoluzione introdotta dall’uso del personal computer, in cui si scrive senza veder dispiegarsi davanti a noi uno dopo l’altro i fogli di ciò che abbiamo scritto, ma solo una limitatissima por­ zione di testo: infiliamo materiali in una specie di « buco nero », esercitando quella che Rosenstiehl ha definito « miopia teorica ».

Falsi movimenti Si è visto che i labirinti possono avere infinite forme, da quella di un word processor a quella di un serial TV. Ma si possono ricondurre abbastanza age­ volmente a tre tipi: specialmente se c’è Umberto Eco a guidarci. Il suo saggio L'Antiporfirio è in Sugli specchi (Bompiani, Milano 1985). Quello classico, di Cnosso, è unicursale\ come vi si entra, non si può che raggiungere il centro, e dal centro non si può che ritrovare l’uscita. Se questo labirinto fosse « srotola­ to », ci ritroveremmo tra le mani un unico filo. Il filo d’Arianna altro non è che il labirinto stesso: ci vuole un Minotauro, per rendere la vicenda interessante. Poi c’è il labirinto detto Irrgarten (Irren. « errare ». Auf der Irrweg sein. « essere sulla strada sbagliata »), in cui tutti i percorsi portano a un punto mor­ to tranne uno, che porta all’uscita. Vi si possono commettere errori, c non c’è bisogno del Minotauro: il Minotauro è il visitatore stesso, capace di ingannarsi e di girare là dentro tutta la vita. Il terzo tipo, il più interessante, è la rete. in cui ogni punto può essere connesso con un altro punto. Può essere finito, ma anche, purché abbia la pos­ sibilità di espandersi, infinito. Non c’è bisogno d’andar lontano per trovarne un esempio. La stessa Enciclopedia Einaudi, fatta a < voci » collegabili l’una all’altra secondo i percorsi cognitivi più vari, è un sistema asistematico di que­ sto tipo. Proprio la casa editrice torinese, non a caso, ha organizzato un semi­ nario sul « Sapere come rete di modelli ». Di questo tipo è anche il rizoma', un modello epistemologico ispirato alle forme degli steli sotterranei, reso « celebre » da un libretto di Gilles Deleuze e Felix Guattari, pubblicato in Italia nel 1977 da Pratiche editrice di Parma. Nel rizoma, ogni punto può essere connesso con qualsiasi altro; esso non ha né dentro né fuori; di esso non si dà descrizione globale. Non si può definire: non esiste la parola definitiva, che lo squadri da ogni lato, il « senso » ultimo d’un’opera che si rifaccia a questo modello. Un modello che, probabilmente, è l’ultima derivazione di quelli proposti dalle poetiche dell’« opera aperta » e dalle rivoluzioni « informali » nel campo dell’arte figurativa. Deleuze e Guat­ tari saranno, tra l’altro, alfieri di quel nomadismo artistico (vedi il loro Nomades et vagabonds. Paris 1976) che rifiuta ogni soluzione e orizzonte finale. Con le osservazioni che seguiranno vorrei suggerire l’ipotesi che i labirinti di Kubrick siano di un tipo diverso da quelli di Tarkovskij. Non dirò di quale tipo: l'assassino si scopre alla fine. Tutto ciò, con alcune conseguenze di carat­ tere più generale sulla loro opera.

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Marienbad: un luogo? Al cinema, un labirinto del secondo tipo (cioè senza Minotauro, ma dove è facile perdersi) è rappresentato da uno dei film sui quali più si è scritto e che più continuano a stupire: L'année dernière à Marienbaddi Alain Resnais, da un soggetto di Alain Robbe-Griller: il lavoro combinato di uno dei registi più originali e intelligenti dell’epoca con l’autore dei testi più significativi del nou­ veau roman ci dà, nel 1961, un cult-movie che resta per molti aspetti un miste­ ro. Giorgio Albertazzi e Delphine Seyrig s’incontrano in un edificio (un alber­ go, un manicomio, o chissà cos’alno) c lui, per tutto il film, cerca di convince­ re lei e se stesso del fatto che si sono già visti, un anno prima, a Marienbad, e di convincerla a fuggire con lui. Dov’è il labirinto? Nelle immagini, innanzitutto. I corridoi dell’edificio vengono ripresi come se non finissero mai: la macchina da presa compie conti­ nue peregrinazioni con movimenti che tornano al punto di partenza per farne iniziare di nuovi, nessuno dei quali sembra condurre ad un luogo dorato di senso y ma solo ad una successione infinita di stanze e corridoi. Una successione infinita sottolineata dalla voce fuori campo che ripete le stesse frasi e le stesse parole: « avanzare, corridoi, sale, passi... ». Ci sembra di ritrovare gli stessi luoghi che la cinepresa ha percorso poco prima, ma non possiamo esserne sicuri (se non riguardando alla moviola). È un labirinto in cui abbiamo, da spettatori, la sensazione di passare sempre dagli stessi incroci. Il tutto è complicato dalla « storia » del film, le cui interpretazioni sono subito state molteplici; una mol­ teplicità incoraggiata dagli stessi autori del film: mentre Alain Resnais propo­ neva una gamma d’interpretazioni, quelle proposte da Robbe-Grillet sono al­ tre, e spesso in contraddizione tra loro. Chi ha visto il film non dimentica l'estenuante successione di corridoi, sa­ le, decorazioni alle pareti, tutte uguali o forse tutte diverse: ci vorrebbe un punto di riferimento per non perdersi. Di questo immenso labirinto potrebbe essere la stessa Delphine Seyrig un luogo; un luogo in cui Albertazzi ricorda final­ mente d’esser passato, un anno prima. È lei « Marienbad »; quando lui riesce ad esserne sicuro, può finalmente uscire, insieme alla sua Arianna. Era solo una suggestione, più che un’interpretazione. Ma uno studio di Roy Armes — pub­ blicato sulla < Quarterly Review of Film Studies » nell’inverno 1980: RobbeGrillet, Ricardou and 'Last Year At Marienbad' — in certo modo la avvalora. Vi si evidenzia la sorprendente simmetria di situazioni tra la prima metà del film, fino alla passeggiata nel giardino, e l’alrra metà, in cui compaiono tutte le situazioni, per così dire, cambiate di segno. E l’inversione si ha nel giardino, dove ad un primo tentativo di abbraccio Delphine Seyrig risponde con un « Laissez-moi! » e poi con un « Approchez-vous ». In questa luce, tutta la se­ conda parte del film non è che un ritornare sui propri passi; quale miglior via per uscire da un labirinto? Del resto già nel ’62, in un articolo su « Esprit », Marie-Claire RoparsWuilleumier vedeva Marienbadcome « una costruzione mutevole, che si mo­ difica essa stessa, au fur et à mesure qu'elle existe ». Analizzando quei movi­ menti della cinepresa che non si compiono mai dei tutto, ma semplicemente servono ad innescarne di nuovi, in un continuo riparrire, la Ropars ha afferma­ to che « non è l’itinerario che conta, ma il dedalo »: è lei forse la prima a con­ cepire questo film non solo come labirinto, ma come labirinto senza Minotau­ ro, nel cui interno lo spettatore si perde. E nella vertigine di possibilità che

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il film suggerisce risiede la sua grandezza: « la realtà di Marienhad non può esistere che nella consapevolezza di tutte le realtà possibili ».

Citizen Kane Uno dei primi film a considerare l’abisso del possibile, un film che secondo Borges « raggiunge il prisma del romanzo » (in Borges y el cine), è anche uno dei film più celebri in assoluto: Quarto potere (Citizen Kane, 1941) di Orson Welles. Tutti ricordano, all’inizio, la cinepresa che avanza superando cancelli, sbarramenti, cartelli con la scritta TVb Trespassing, finché giunge al letto di morte del « cittadino Kane ». Che, nell’ultimo istante, fa cadere una palla di vetro e la mitica parola Rosebud', nome, soprannome, invettiva? Intanto, nella palla di vetro entriamo noi spettatori, per scoprire la « verità » di quella vita e di quella parola. E scopriremo che I’insieme dei gesti del cittadino Kane, così co­ me gli oggetti che ha collezionato, hanno costituito un insieme in cui ci si per­ de, di cui non si riesce a ricostruire l’esatto tracciato, così come l’insieme dei passi percorsi da un uomo nella sua vita dà luogo ad una figura geometrica, che forse un dio è capace di comprendere all’istante, come noi comprendiamo un cerchio o un triangolo. Come in Rashòmon, ancora da venire, vari testimoni visualizzeranno il me­ desimo evento, ognuno da un punto di vista diverso. In questo caso, l’evento è la vita di Kane. Più andiamo avanti, più la personalità di Kane si rivela sfac­ cettata, sfuggente, e ancor più lo è il significato di quel misterioso « Rosebud »: ci siamo persi nel labirinto, ogni testimone incontrato ci ha condotti su una strada diversa. Cosa fosse « Rosebud » lo sappiamo solo in fondo, e scopriamo che in fin dei conti non significava molto. Scriveva Borges che « la soluzione del mistero è sempre inferiore al mistero stesso. Il mistero ha a che fare addirit­ tura col divino; la soluzione con un trucco da prestigiatore ». Non è forse un caso che Citizen Kane fosse piaciuto tanto a Borges, noto architetto di labirinti letterari. Sempre su Welles, un luogo in cui ci si perde, dove si perde la sicurezza della visione, è la stanza degli specchi che si rompono nell’istante di massima tensione drammatica di The Lady from Shangai (La signora di Shangai, 1946) e che ci impediscono di capire cosa sia successo, chi sia vivo e chi mono dei tre personaggi moltiplicati all’infinito dagli specchi frantumati da uno sparo; un gioco anticipato dalla mise en ahimè della figura di Welles che passa in un corridoio dove si fronteggiano due specchi — e quindi duemila, infiniti — ver­ so il finale di Citizen Kane. E, naturalmente, tutti i luoghi della continua fuga di Anthony Perkins nel film che Welles trasse da Kafka: The Trial (Ilprocesso, 1961). In un film non suo, infine, è Welles stesso vittima d’un labirinto. Nel Third Man (Il terzo uomo, 1950) di Carol Reed, Welles fugge tra i cunicoli scuri delie fogne di Vienna. Per Welles, ci sembra, i labirinti sono del tipo in cui certamente ci si per­ de, e proprio lì sta il piacere dello spettatore: non certo nel sapere cos’è Rose­ bud o chi è l’assassino nel trio infernale di The Lady from Shangai. In un labi­ rinto c’è anche il fascino di perdersi.

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L'angelo sterminatore

Un altro film in cui si trova una situazione di facile entrata, ma difficile uscita è di Luis Bufiuel: El angel exterminador (L'angelo sterminatore. 1961). Un grup­ po di persone si riunisce in una casa dopo esser stata a teatro e, poiché in obbe­ dienza a norme di educazione e cortesia, nessuno fa il gesto di andarsene per primo, nessuno si muove. Presto nessuno ricorderà il perché di quello stallo: l’uscire sarà creduto impossibile, creando una situazione d’isteria e panico col­ lettivo, e di degradazione fisica e morale di tutti i personaggi. Vorrebbero usci­ re, ma non riescono. Finché si ritrovano, per l’intuizione di una di loro, nella esatta posizione dell’inizio della vicenda. Sono tornati all’inizio della storia, all’entrata del labirinto, e dunque possono uscire. Naturalmente, qui il labirinto è l’universo claustrofobico delle convenzio­ ni borghesi, contro cui si scaglia la metafora di Bunuel. E, anche qui, ripassia­ mo visivamente dagli sressi luoghi non solo per uscire dalla casa (e dal film). Una stessa breve scena è stata montata due volte nel film, a distanza di pochi minuti. Bunuel afferma che si tratta di un errore del montatore che però, ac­ cortosi che « ci stava bene » (ovvio che ci stava bene), non ha voluto tagliare. Ma di certe affermazioni dei registi è bene fidarsi poco.

Realtà al quadrato Di labirinti come suggestioni figurative o metaforiche, come struttura profon­ da, ne troveremo ancora nella storia dei film. Ad esempio nella discesa agli inferi, « oltre lo specchio » (riferimento ad Alice?) dell’ Orphée di Cocteau; in certo cinema di Rivette: Céline et Julie, o Paris nous appartieni. O nell’opera d’un autore che fa perdere i suoi protagonisti negli abissi delle possibilità, del­ le commistioni tra vero e falso e tra presente e passato come Raul Ruiz, l’aurore delle Tre corone del marinaio (Les trois coronnes du matelót. 1982) e dell’7/>otesi del quadro rubato (L'ipothè se du tableau volé. 1978). Ma, proseguendo, ci vorrebbe presto un’Arianna per tirarci fuori. Citiamo solo un altro film. Si chiama « Le labyrinthe » uno dei luoghi strani che vediamo nel film La prisonnière (1967) di Henri-Georges Clouzot. Ed è un labirinto in perfetto stile pop, in un film che figurativamente è una serie di punti esclamativi della visione, capace di dare la temperatura artistica di un’e­ poca come pochi altri in quegli anni: la « Swingin’ London » di Blow-up o i deliri pop di Arancia meccanica. Clouzot era stato anche uno dei pochi a usare lo stacco tra bianco-nero e colore come « indice di transizione » tra livelli della realtà. Nel suo Mystère Picasso (1951) crea una « realtà al quadrato » degra­ dando genialmente in bianco e nero quella che siamo soliti vedere, ed « ele­ vando a colore » quella dei quadri di Pablo Picasso. Una intuizione che André Bazin comprende e descrive in modo affascinante; e che probabilmente è la stessa che è alla base di tutti i salti cromatici del cinema di Tarkovskij, a comin­ ciare da quel suo primo balzo nel colore (datato 1966) nel finale di Andrej Ru­ blev che è, anch’esso, un entrare nella « realtà al quadrato » del mondo pro­ dotto da un artista figurativo.

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Shining

Siamo invece, adesso, nell’Olimpo dei labirinti cinematografici, alle prese con i due film che più ci interessano. Tratto da un romanzo del re dell’horror Ste­ phen King, The Shining, tradotto in Italia da Bompiani, il film Shining (The Shining, anche in originale) esce nel 1980. Jack Nicholson (Torrance), scrittore a corto di ispirazione, accetta di essere il custode per l’inverno di un hotel nel Colorado: si stabilisce lì con la moglie e il piccolo figlio Danny. L’hotel è pieno di corridoi che il bambino percorre incessantemente col suo triciclo, mentre il padre, che anche nell’albergo non riesce a trovare la forza di uscire dalla sua impasse creativa, comincia a sviluppare un inarrestabile odio verso moglie e fi­ glio. Allo svilupparsi di strani sentimenti non sembra estraneo l’isolamento o forse l’albergo stesso: tutti c tre i personaggi cominciano ad avere strane visioni di ascensori pieni di sangue, di cadaveri e fantasmi. Finché Nicholson-Torrance non cerca di uccidere moglie e figlio e insegue il bambino in un labirinto di siepi nella migliore tradizione del giardino-labirinto che tanta fortuna ebbe in Inghilterra nel Sei-Settecento. Quello di Shining, in particolare, richiama il giar­ dino di siepi di Hartfield House, nell’Hertfordshire, fatto costruire alla fine del Seicento dal conte di Salisbury. La prima cosa da notare è che, nel film, i labirinti sono tre. Uno è infatti lo stesso hotel Overlook: non per nulla, pur di mostrarci le continue svolte del piccolo Danny in triciclo lungo i suoi corridoi, Kubrick sperimenta l’allora ri­ voluzionaria steadicam\ e, di fronte alla enorme cucina che funge da magazzi­ no di provviste, Shelley Duvall esclama: « Ma questa cucina è un labirinto! ». All’interno dell’hotel, nella cui stanza centrale sta Nicholson-Torrance, sem­ pre più intrattabile e feroce, come si conviene ad un Minotauro, c’è anche un modello in scala del giardino situato all’esterno. Ma, leggendo il romanzo di Stephen King, pubblicato nel 1977 negli USA e nel 1981 da noi, abbiamo una piccola sorpresa. Il labirinto di siepi non c’è, non se ne parla. Nessuna traccia. Insomma, è un « particolare » aggiunto da Kubrick, il quale ne è doppiamente responsabile, metteur en scène e ideatore. Un altro piccolo cambiamento c’è. Nel libro, l’arma del protagonista è una mazza da croquet. Nel film è diventata una sorta di ascia doppia che non a caso somiglia tanto a quella labrys. ascia simbolo di potere, che stava all’entra­ ta del palazzo di Cnosso e da cui pareva derivare l’etimologia di labirinto. Vera o no che sia l’etimologia, Kubrick ha « deviato » in direzione labi­ rinto. Ancora, nel romanzo molte pagine introducono la situazione di Jack e della famiglia prima dell’arrivo all’Overlook. Di tutto questo, che potrebbe spiegare la successiva follia del protagonista, non resta niente. Vediamo solo, all’inizio del film, alcuni ghigni un po’ strani di Nicholson. La follia sembra procedere in modo autonomo, innescata dall’isolamento. La prima sequenza del film, uno splendido « volo » della cinepresa sopra monti e valli, situa fin dall’inizio il microcosmo dell’Overlook nell’isolamento più assoluto, con i suoi labirinti che, seguendo la divisione proposta prima, sono del primo tipo. Tutti i labirinti dell’Overlook sono caratterizzati dalla pre­ senza, prima all’interno e poi nel giardino, del Minotauro: Nicholson. Il qua­ le, contrariamente a quel che avviene nel romanzo, non possiede una storia. una vita precedente ed « esterna » al labirinto; anzi, è lì da sempre, come sug­ gerisce la fotografia finale, che ce lo mostra, identico a se stesso, in una festa da ballo del 1921.

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Lo scontro col piccolo Danny appare inevitabile, e diviene il soggetto stes­ so della narrazione ambientata nel labirinto. In fondo, Shining è più la storia (d’un duello tra due personaggi maschili che non la storia dell’esplorazione d’un labirinto, che non è molto diverso dal ring in cui si devono affrontare i pugili del primo film di Kubrick, Day ofthe Fight (« Il giorno del combattimento », 1949): uno spazio chiuso da cui non si esce se non si è steso il rivale. Sarebbe poi facile dimostrare come in molti film di Kubrick si tratti di un duello: tra figure paterne e filiali, per la maggior parte dei casi, con la co­ stante vittoria del figlio: insomma, di casi di Edipo puntualmente rispettati. I padri rimediano sempre gran brutte batoste: basti pensare a Barry Lyndon ferito, umiliato e ricondotto alla miseria iniziale dal figliastro (il film Barry Lyn­ don mette in scena, contemporaneamente, anche un Edipo « alla rovescia »: il piccolo Redmond Barry, troppo innamorato del padre e abituato alle sue coc­ cole, finirà sbatacchiato per terra al primo incontro con la Vita, nella forma di un cavallo ancora non ben domato che doveva essere il suo regalo di com­ pleanno). Basta pensare, ancora, alla fine che fa, in Full MetalJacket, l’istrut­ tore delle reclute, signore e padrone, ma soprattutto padre di tutti i futuri ma­ rines compressi nell’universo concentrazionario della scuola di addestramento. Oppure, basterebbe ricordare quanto Kubrick sia affascinato da scacchie­ re e giocatori di scacchi, tanto che appena può ce ne mostra.1 Gli scacchi sono, evidentemente, un gioco sostitutivo dell’arte della guer­ ra. Ma c’è di più. In un libro sulla Psicologia del giocatore discacchi, pubblica­ to in Italia da Adelphi nel 1977, Reuben Fine, un maestro americano di livello mondiale, porta molte conferme all’iporesi che « il movente inconscio che spinge all’azione i giocatori non è semplicemente il gusto per l’agonismo, ma quello più oscuro della uccisione del padre ». Del resto, dovrebbe bastare a fare suo­ nare un campanello d’allarme l’osservazione che chi insegna a giocare a scacchi (gioco, tra l’altro, eminentemente « maschile ») è spesso il padre, e che lo sco­ po del figlio diventa ben presto quello di batterlo. In 2001: Odissea nello spazio (2001: a Space Odyssey, 1968), uno degli astronauti che moriranno ed il computer Hai giocano a scacchi. E l’uomo per­ de. L’altro astronauta David ingaggia una diversa lotta col computer Hai, la cui posta in gioco è la sopravvivenza. Se caratteristica del gioco degli scacchi è che un giocatore può perdere tutti i pezzi, o quasi, e vincere ugualmente, questo è ciò che fa David, perdendo tutti i colleghi, tra l’altro congelati in in­ volucri come « pezzi » da mettere sulla scacchiera, ma alla fine vincendo su Hai, al quale a sua volta smonta tutti i « pezzi ». Tornando a Shining, sembra appropriato parlare di un labirinto « facile » con Minotauro, al cui interno ciò che conta è il duello tra i personaggi, che assume carattere edipico. Che lo scontro, in Kubrick, assuma importanza fon­ damentale ce lo spiega lui stesso quando dice, in una delle sue rare interviste, che è difficile negare « che esista un a priori relativo all’istinto di combattere ». Nonostante l’ambientazione « labirintica », inoltre, nel suo film i confini tra visione reale e allucinazione sono molto ben definiti (mentre non lo sono 1 Per esempio in Rapina a mano armata, in Lolita e in 2001. Ma anche in Orizzonti di gloria c'è un pavimento a forma di scacchiera. Ed Enrico Ghezzi ci racconta {Stanley Kubrick, Firenze 1978) come Kubrick giocasse fin dal­

l’età di dieci anni nei club del Greenwich e co­ me, ancora all’epoca del suo primo film, The Day ofthe Fight, si mantenesse con i soldi gua­ dagnati nei tornei scacchistici.

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quelli temporali: dalla didascalia che annuncia « Il giorno di chiusura » dell’Overlook, si ha anche nel film una chiusura del tempo lineare, con una serie di indicazioni temporali, per così dire, disancorate da ogni rete di riferimento, come nota Franco La Polla in The House Thai Jack Built in AA.W., Stanley Kubrick. Spazio, tempo, storia e mondi possibili, Pratiche, Parma 1985; volu­ me in cui appare anche un intervento di carattere più generale sulle ambiguità e le inversioni temporali nel cinema di Kubrick di Guido Fink: Senso antiora­ rio, ovvero le due immortalità di Lolita). I confini rra reale e allucinazione, si diceva, sono abbastanza distinguibili. Poche sono le immagini allucinatorie, che i vari personaggi si « passano »: quella dell’ascensore pieno di sangue, quella delle due gemelline le quali, nel roman­ zo, sono solo due sorelle (di sei e otto anni) e che Possessione per la simmetria di Kubrick trasforma in gemelline assai simili a quelle, celebri, fotografate da Diane Arbus. È ovvio che, quando rivediamo le gemelline, o stiamo per avvici­ narci alla stanza 237 dove capita di tutto, siamo avvertiti. Naturalmente, molte altre sono le letture di un film come Shining e dell’Overlook, universo chiuso in cui si consuma il rituale della Morte come già in tanta letteratura « gialla », da Poe (La maschera della morte rossa) ad Aga­ tha Christie (Five Little Pigs). Ci interessava solo, però, ciò che accomunava il giardino intorno all’Overlook (e naturalmente, solo analizzando il nome « Overlook » potrebbero sorgere altre letture: overlook possiede ad esempio il significato di < stregare »: e di motivi tipici della fiaba, compresa una bella ra­ gazza che si rivela orrida strega nella stanza 237, è disseminato il film, come nota La Polla nel saggio citato)2 a quello di Marienbad', ciò che accomuna le infinite svolte del palazzo di Marienbad a quelle dell’albergo; e, infine, ciò che fa assomigliare il 1921 che vede Nicholson tale quale appare nel 1980, a queH’tf»»^ demière impossibile da afferrare.

Ellissi e attrazioni

Su Shining e su Kubrick in generale, Omar Calabrese scrisse un saggio su « Pro­ meteo » (dicembre 1985), in cui notava come Kubrick scelga spesso punti di vista che non possono appartenere né ad un personaggio, né ad un osservatore umano vicino alla scena rappresentata. Punti di vista « impossibili », dunque, e non qualunque: per esempio, quello che permette di congiungere, in 2001: Odissea nello spazio, il famoso < monolito » con una costellazione astrale: ba­ sterebbe che il punto di vista si spostasse anche solo di poco, e questa congiun­ zione non sarebbe più possibile. Ancora in 2001, uno scimmione lancia in aria con gioia un osso — primo strumento tecnologico e prima arma con cui ha uc­ ciso altre scimmie —: l’osso visto al rallentatore si trasforma nella sagoma ad esso simile d’una astronave. Con l’ellissi più audace della storia del cinema, Kubrick ha saltato in un colpo solo qualche migliaio di anni. Ma questa imma­ gine ci interessa perché l’uso di questi punti di vista impossibili (o questi mon­ taggi impossibili: chi può vedere in un colpo solo due istanti lontani migliaia di anni?) mostrano la forte volontà del regista di fare emergere un punto di 2 Ancora, nel Minotauro - Nicholson non è diffìcile vedere una proiezione del Minotauro Kubrick che se ne sta da anni pressoché chiuso

nel suo maniero in cui controlla mediante ogni ritrovato tecnologico enormi quantità di infor­ mazioni riguardanti il mondo esterno.

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vista esterno a quello dei personaggi della storia, e al loro sapere superiore: il suo. E Kubrick si serve di essi per un « discorso > di origine ancora eisensteiniana, di montaggio delle attrazioni. L’osso e l’astronave, montati l’uno dopo l’al­ tro, vengono anche paragonati, e il giudizio implicito è ovviamente che ogni strumento, anche l’astronave, non è che quel primo osso perfezionato con il suo corollario, che l’uomo del 2000 non è che la scimmia di allora. Kubrick si mostra così capace di vedere ciò che i suoi personaggi non ve­ dono, e di operare collegamenti logici che essi non possono compiere: di espri­ mete giudizi su ciò che mostra. In termini narratologici, è un regista fortemen­ te < extradiegetico » e onnisciente rispetto ai personaggi. Lo stesso accade quando usa il vecchio montaggio parallelo con cui ci mostra contemporaneamente ciò che avviene in luoghi diversi, come in II bacio dell'assassino (Killer s Kiss, 1955) o nella voce narrante che ripete ossessivamente: « Nello stesso momento... », in Rapina a mano armata (The Killing, 1956), segnalandoci ogni volta con for­ za che lui sa quello che i personaggi e noi non sappiamo. Al contrario, Tarkovskij mostra di possedere uno « sguardo esterno » solo in rari casi, come nella sequenza finale di Solaris. Molto più spesso si rannic­ chia in uno sguardo interno ad essi: all’interno dei loro sogni, dei loro ricordi, della loro soggettività pensante (il monologo interiore dello stalker). Ascoltare i pensieri. Ciò che sanno fare gli angeli di Wenders lo fa il regista Tarkovskij con i suoi personaggi, seguendone i ricordi e i sogni: forse per questo, nella dedica di Wenders alla fine del Cielo sopra Berlino, Tarkovskij è nominato co­ me un ex angelo. Non si entra mai, invece, all’interno dei personaggi kubrickiani, cui non è concesso un pensiero a voce alta, un solo sogno o ricordo che non si faccia dialogo, azione o « oggettivo » flash-back.

Stalker

Stalker è tratto dal racconto di Arkadij e Boris Strugackij, due rra i più noti narratori di fantascienza sovietici, tra i pochi tradotti anche in Occidente. E un racconto che si chiama Picnic sul ciglio della strada (Piknik na Obokine, 1972) e che nel gennaio 1988 è stato pubblicato nella collezione Urania di Mon­ dadori. Il film esce nel 1979: curiosamente, quasi in contemporanea con Shining. Totalmente inassimilabile ai canoni del realismo socialista, Stalker è il film che provoca il definitivo affermarsi di quella « congiura del silenzio » che da allora in poi la critica sovietica opporrà a tutto ciò che riguarda l’opera di Tar­ kovskij (fino, ovviamente, al tardivo invito a tornare in patria, e allo scongela­ mento recente di film come Lo specchio}. La più importante rivista sovietica di cinema, « Iskusstvo Kino », non recensisce il film; la pubblicazione che tie­ ne conto dei principali eventi cinematografici della stagione, l’annuario < Ekran », non lo registra. Ma cominciamo dall’inizio: dal titolo. Stalker è una parola che non esiste. Esiste, nella lingua inglese, to stalk, « avvicinarsi di soppiatto ». Lo stalker è dunque colui che avanza furtivamente. Verso dove? Verso la cosiddetta « zo­ na »: un’area della terra in cui — forse a causa d’un meteorite, o di esseri ve­ nuti da fuori che, come i gitanti che lasciano cartacce e lattine dopo un picnic, avrebbero lasciato dei « rifiuti » totalmente estranei al nostro universo — tutte le leggi della fisica sono sconvolte. Al centro della « zona », una stanza: dove si soddisfano i desideri più intimi e profondi, più irrinunciabili di coloro che

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riescono a entrarvi. Ma la polizia blocca l’accesso alla « zona », ed il percorrerla è perigliosissimo. Per pochi soldi, gli stalker fanno da guida a chi la sfida. Co­ me il nostro, che accompagna uno scrittore ed uno scienziato. Ma quando i tre raggiungono la stanza dei desideri, nessuno osa entrare, o non vuole. Tor­ nano indietro. Nell’ultima inquadratura la figlia dello stalker, paralitica (gli stalker, esposti agli effetti della « zona », non dovrebbero avere figli), con lo sguardo fa cadere dei bicchieri da un tavolo. Ma forse è un treno che passa e scuote la casa. Del film, con la sua « zona » certamente suggestiva e simbolica, sono state offerte molte interpretazioni. Una critica di taglio sociologico, per esempio quella di Daniele Dubroux sui « Cahiers du cinema » n. 330, ha visto, nella stanza dei desideri, nella stessa « zona » interdetta, Berlino Ovest vista dall’Esr. Alcu­ ni particolari coincidono: come i binari della ferrovia sono gli unici tracciati ad affondare nella « zona », così la metropolitana è la sola via che attraversa le due Berlino: e sia l’ingresso alla « zona » che quello all'« altra » città (da cia­ scun punto di vista) sono sorvegliati dalla polizia. Ma, in questo caso, cosa c’è nella stanza dei desideri? La cosiddetta libertà di cui gode l’Occidente? Un mag­ gior benessere? A occhio e croce, sembrano ideali un po’ insufficienti per Tar­ kovskij . « A occhio e croce ». Proprio sotto il segno della croce è stato visto il film dal versante spiritualista della critica.3 È stato persino notato che le due pri­ me inquadrature sono in questo senso perfettamente esplicite: un lungo carrel­ lo avanti attraversa una porta, ed è seguito da due carrelli laterali, il primo da destra a sinistra ed il secondo nel senso opposto. Tarkovskij avrebbe fatto, cine­ matograficamente, proprio il segno della croce. Poi, nel corso del film, citazio­ ni più o meno esplicite del Vangelo secondo Matteo, Luca, dell’Apocalisse. Ma a noi interessa, qui, un altro aspetto del film. Appena entrati nella « zona », lo stalker avverte: « Qui non si torna indie­ tro ». Poco dopo dice: « Vi darò di volta in volta la direzione ». E ancora: « Là c’è la stanza. Ma ce ne vorrà di tempo per raggiungerla: nella ‘zona’, la via Tetta non e la più breve ». Poco dopo, i tre penetrano all’interno d’una vecchia centrale elettrica ab­ bandonata. Il « professore » torna indietro (vivamente ammonito a non farlo dallo stalker) per cercare lo zaino lasciato all'entrata. Gli altri proseguono in un lungo tunnel, all’uscita del quale trovano il professore che li attende: sono allo stesso punto esatto in cui sono entrati (non c’è accenno di tutto questo, nel racconto dei fratelli Strugackij: i quali però hanno collaborato anche alla sceneggiatura, insieme a Tarkovskij, e non si può quindi giurare che l’aggiunta sia sua). Riuniti, i tre proseguono in una serie di cunicoli sotterranei, tra acqua, pozzanghere e stalattiti. Gran parte del percorso nella « zona » è sotterraneo, in una caverna in cui solo lo stalker conosce la giusta strada da percorrere, e dove secondo le sue parole « ogni minuto cambia tutto ». Ora, tutti gli studi sui labirinti pongono questa immagine in relazione col concetto di caverna, con ambienti ipogei. Una delle etimologie da cui si farebbe derivare il termine « labirinto » è da labur, che è il nome della caverna in lingue preelleniche, se­ condo il volume di Kern. E anche secondo Santarcangeli, < al contrario della 3 Ad esempio G. Pangon, Un film du doute sous le signe de la Trìnité\ nel numero

135-138 di « Etudes cinématographiques > dedicato a Tarkovskij nel 1986.

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ziqqurat, che si protende verso il cielo, il labirinto s’inabissa verso gli inferi ». Il percorso nel labirinto è la discesa nel ventre della madre Terra. E stato notato, anche in questo stesso convegno, che Tarkovskij non spin­ ge quasi mai la cinepresa verso l’alto nel Sacrificio (Offret/Sacrificatio, 1986). Ma questo è vero, in misura più generale, per tutti i suoi film. Già in Andrej Rublèv, nella sequenza in cui un uomo si solleva nel cielo su una rudimentale mongolfiera, ciò che quest’uomo guarda non è il cielo, ma la terra. Addirittu­ ra, in Stalker, non ci sono più di tre o quattro inquadrature in cui il cielo sia realmente presente. Tarkovskij è uno dei registi che filma con maggior atten­ zione il suolo, l’erba, \'humus, mentre si ricordano poco le sue nuvole. C’è anche una spiegazione molto semplice, a questo piccolo mistero di un regista tanto « spirituale » (secondo molta critica), ma così ancorato al < pianterreno » della natura. Forse non tutti sanno che, prima di andare alla Scuola di cinema di Michail Romm, il futuro regista fu per molti anni geologo. Il percorso ipo­ geo all’interno della « zona », dunque, sembra accettabile vederlo come un la­ birinto: anche perché ci si perde. Vi è anche un centro, in cui non si trova il Minotauro, ma la stanza dei desideri. Ma ciò che è più interessante, di questo labirinto, è che si muove al suo interno. E lo stalker lo dice: « La ‘zona’ è un sistema complesso di trappole, tutte mortali. Non so cosa succede quando non c’è nessuno, ma basta che ap­ paiano delle persone e tutto entra in movimento. Le vecchie trappole scom­ paiono, ne appaiono di nuove. I posti sicuri diventano impraticabili e il cam­ mino si fa ora semplice, ora ingarbugliato fino all’impossibile ». Dei tipi di labirinto di cui sopra, il rizoma di Deleuze e Guattari è l’unico modello che esprime un riassestamento continuo, un aprirsi incessante di canali impensati; qualche cosa che si disfa e si riforma, secondo leggi sempre nuove. Mi sembra che il labirinto di Stalker sia quello che, al cinema, più si avvicina a questo terzo tipo. Non ci sono angoli retti e siepi: ma il viaggiatore può aspettarsi di rutto. Scrive ancora Calabrese nelTEtó neobarocca\ « Il più moderno dei labi­ rinti non è quello in cui prevalga il piacere della soluzione, ma il gusto dello smarrimento e il mistero dell’enigma ». In questo, nel peso ancora maggiore dello smarrimento rispetto alla soluzione, Tarkovskij appare ancora più « mo­ derno » di Kubrick. Ma vorrei suggerire che la sospensione della storia, l’assenza di soluzioni, non sta soltanto nel fatto che i personaggi non entrano nella stanza dei deside­ ri. È anche una questione di colori. Prima di affrontare la « zona », i tre perso­ naggi siedono in un bar: l’immagine è in bianco e nero. Solo quando si entra nella « zona » appaiono i colori: il passaggio da bianco e nero a colore funziona da « indice di transizione » da un mondo supposto reale ad un < mondo possi­ bile » in cui le leggi della fisica non valgono più. Poi si torna al bar dell’inizio, e le immagini ridiventano in bianco e nero: e viene il sospetto che tutto il viag­ gio nella « zona » sia da mettere tra parentesi: che non sia altro che l’immagine di un mondo strano immaginato da tre tipi che forse hanno bevuto un po’ più del solito. Ma, poi, nell’ultima sequenza Tarkovskij ritorna al colore: rivelan­ doci che con la « zona » non abbiamo affatto finito, che non ne siamo fuori. E infatti succede qualcosa di molto strano: la figlia dello stalker con il suo sguardo opaco e sofferto fa muovete i bicchieri che sono sul tavolo. Quando noi credia­ mo di essere fuori dal labirinto, l’ultima sequenza rivela che anche quel « fuo­ ri » vi è immerso.

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Uno stalker sogna? Nella pane « a colori » del film, quella che si svolge nella < zona », c’è una sequenza in bianco e nero. Mentre il professore e lo scienziato si dispongono a passare la notte tra l’erba e i sassi, lo stalker si accovaccia in un acquitrino. Dapprima, ascoltiamo un suo monologo interiore. Poi dalla sua mano rilascia­ ta parte una carrellata a pelo d’acqua: un movimento lunghissimo che svela, appena sotto l’acqua, una serie di oggetti: delle siringhe, un bollitore, un ca­ lendario, delle bende, pezzi di specchio, una icona con sopra alcune monete, pezzi bruciacchiati di giornale, un mitra. Poi troviamo, di nuovo, la resta dello stalker. Andando avanti, siamo tornati al punto di prima, come nella centrale elettrica. Ma anche, partendo dalla mano di un protagonista semiaddormenrato siamo ritornati a lui: come nell7»/ww di Ivan. Dunque, quello che abbia­ mo visto era, con ogni probabilità, un sogno. Infatti all’interno della « zona », realtà diversa da quella del bar e della casa dello stalker, dunque a colori rispetto al bianco e nero (in realtà è una « seppia »), come un < bianco e nero al quadrato », il sogno dello sralker deve essere di natura ancora diversa; ed il colore « al quadrato » ritorna bianco e ne­ ro. Ma, ancora, questa carrellata riserva altri sensi. Se io pano da un punto, come il corpo d’un uomo che dorme, e me ne allontano in linea retta, lo ritro­ verò solo dopo aver compiuto il giro del mondo. Dunque questa carrellata è, idealmente, lunga come un giro del mondo: ed in essa troviamo, del mondo, i simboli. La divisione del tempo sociale (il calendario), la medicina (la siringa e il bollitore), l’informazione (il giornale), l’arte ridotta a merce (l’icona sovra­ stata dalle monete), la violenza (il mitra). Sì, gli stalker sognano. E, com’è ovvio, sognano quello che sanno: per esem­ pio la scatola sterilizzatrice sotto il pelo dell’acqua, che è la stessa che avevamo visto all’inizio del film in casa dello stalker. Probabilmente è un’allusione alla malattia di sua figlia, che doveva essere ceno nei suoi pensieri. Tutto il film, abbiamo suggerito prima, potrebbe essere stata una lunga parentesi immaginata tra due estremità reali: la « zona », le avventure nella « zona », i discorsi, i litigi: nient’altro che chiacchiere fra amici al bar. Ma fac­ ciamo attenzione al fatto che il film inizia con lo stalker che esce dal letto. Alla fine del film, lo troviamo lungo disteso in biblioteca. La moglie gli si avvicina e gli dice: « Non puoi star qui. È umido, e ci sono i libri ». Lo stalker riesce solo a mormorare: «... Sono cattivi... ». In mezzo, potrebbe non esserci stato che un sogno. Il sogno di un uomo stanco che alzatosi dal letto si sdraia sul pavimento umido della stanza-biblioteca, e che, addormentatosi, sogna di dormire disteso nell'acqua e di sognare (ecco l’altro cambio di colore, il ritorno al bianco-nero) la lunga carrellata di simboli di un universo che si disfa.

A case scoperte

Contrapposta al luogo in cui ci si perde — anche sotto le forme del magma indefinito di Solaris, o delle foreste di Ivan e di Rublèv, dove può nascondersi il nemico o dove si possono smarrire, affascinati da danze diaboliche, la strada e la coscienza —, contrapposta al labirinto è la casa. Il protagonista di Solaris afferma spesso di volerci tornare; e dopo la tre­

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menda esperienza della « zona », lo stalker torna a casa. In Sacrificio, poi, la casa è il centro di gravità del film, e lo si vede fin dalla prima sequenza. La cinepresa volteggia, con complessi movimenti, intorno a Josephson e al bambi­ no, poi segue lo strano postino in bicicletta, Otto. Non ce ne accorgiamo subi­ to: ma ciò che questo lungo piano-sequenza non abbandona mai è una piccola macchia in alto a destra, una casa. « La » casa. Era quello il vero punto d’attra­ zione deirimmagine. Tanto più grande sarà il sacrificio del protagonista: di­ struggere quella casa che aveva affermato immediatamente la propria impor­ tanza, e distruggere con essa il proprio stare nel mondo, il proprio ruolo socia­ le, per entrare nell’universo dei folli. Poi, naturalmente, ci sono le case dello Specchio, rifugi della memoria, legati alla presenza di figure materne. E tutte le altre. Lo stesso sentimento della < nostalghia » non è, forse, voglia di casal Ma, proprio nel film Nostalghia. c’è una casa particolare: la chiesa di San Galgano. Che è un edificio apeno, senza pavimento né tetto, in cui giocano le loro scorrerie il vento, la pioggia, la luce. Anche le altre case di Tarkovskij sono un po’ come San Galgano: apene, scoperte. In AndrejRublèv, addirittu­ ra, è la Storia a spalancarne le porte: persino delle case del Signore, e vi pona denjjo morte c devastazione; l’ultima sequenza di Solaris rivela che la casa non è l^n^na dal mare misterioso, ma affondata in esso; e, in Sacrificio, è il vento radioattivo che non fa certo caso a muri e tetti, c la radio che annuncia « il miglior posto, il posto più sicuro della terra, adesso, è dove vi trovate » non fa che confermare che tutti i posti sono uguali, case e non case, ogni rifugio costruito dall’uomo per salvarsi è scoperto: scoperto di fronte alla Storia deva­ stante, ai nostri fantasmi che ci torturano, alla morte. Altri labirinti

Ci sono altri luoghi, nel cinema di Tarkovskij, in cui ci si perde. In Ivan, l’ac­ quitrino fitto di reticolati, dove le betulle spuntano all’infinito; e l’altra fore­ sta di betulle dove MaSa (la donna tenente medico) fugge alle pesanti attenzio­ ni del capitano Colin, e la cinepresa corre con foga addosso agli alberi, evitan­ doli per un pelo e dandoci dopo pochi istanti un senso di vertigine e smarri­ mento. In un’altra foresta si perde, di notte, Andrej Rublèv. Ma anche l’astro­ nave di Solaris è composta da una serie di corridoi da cui se ne diramano altri, e non è facile per l’occhio trovare punti fermi a cui orientarsi. Più audace di tutti gli altri, l! labirinto narrativo dello Specchio, in cui non sono rispettate né le cronologie né la corrispondenza univoca attore-personaggio, ed è lo spet­ tatore a dover ricomporre il puzzle i cui pezzi gli vengono dati in ordine spar­ so. E ancora una foresta, infine, quella in cui Josephsson perde il figlioletto, c sente per la prima volta quell’inquietante canto popolare scandinavo che ac­ compagnerà anche le immagini di angoscia successive all’annuncio della cata­ strofe. Infine, la sequenza splendida, purtroppo del tutto eliminata nella ver­ sione italiana del film, della prima' parte di Solaris. Prima di partire per lo spa­ zio, una lunga sequenza, in soggettiva, di un’auto che s’immerge nel traffico della metropoli al crepuscolo (Mosca, è stato detto). Ed è un caos infernale di circonvoluzioni stradali che sembra non aver fine, mentre la colonna sonora scatarra tremendi rumori metallici. Una sequenza introduttiva all’« alrra real­ tà », quella dell’oceano Solaris, così come lo sarà quella dei tre protagonisti di Stalker che raggiungono la « zona ».

Giovanni Bogani

Mazes Labirinto, in inglese, non si dice solo labyrinth, ma anche maze. « Maze » vuoi dire sorpresa, meraviglia. « Amazement » è l’atteggiamento di chi non sa da che pane voltarsi per la sorpresa. E il cinema di Tarkovskij è pieno di sorprese in cui, a perdersi, è lo spettatore. Piccole, o grandi, mazes, che sono anche ge­ niali invenzioni cinematografiche. Solaris. Il protagonista Kelvin si trova in una stanza della navicella spazia­ le e sta abbracciando la moglie, che esce da una porta situata alla destra del quadro. La cinepresa si muove verso sinistra, e svela, vestita allo stesso identico modo, la madre di Kelvin. Si sposta ancora e ritrova, di spalle, la moglie, che esce di nuovo dalla stessa porta di destra da cui già una volta era uscita. Andia­ mo ancora verso sinistra: troviamo di nuovo la spalle; infine, ne ve­ diamo una quarta, che ci mostra il volto. Non ci sono dubbi, è proprio lei. Kelvin la abbraccia, e nel controcampo dell’immagine sta abbracciando la ma­ dre ed è a casa sua. Poi si sveglia: è nell’astronave, e una voce gli dice: « È tem­ po che tu torni sulla terra ». Era un sogno del protagonista, visualizzato usan­ do due controfigure della moglie, di spalle, e la moglie « vera » che, appena uscita dalla porta, passa dietro la cinepresa e cone nel luogo dove dovrà essere vista, di fronte, per la seconda volta. Ma l’effetto è straordinario: siamo già entrati in quella < febbre della visione » di cui sopra. Sogno e realtà stanno dis­ solvendo i propri confini. E infatti, nell’oceano Solaris, i sogni si materializza­ no: noi non riusciamo quasi più a distinguere. Poi, Kelvin torna finalmente a casa: il cane lo saluta, e lui va ad abbraccia­ re il padre. Zoom indietro: l’inquadratura allargandosi mostra la casa, il lago accanto, una strada. Appaiono in dissolvenza, delle nuvole. Quando l’imma­ gine ritorna visibile, la casa appare come un’isola immersa in un ribollire di liquidi colorati. Altre nuvole in dissolvenza. La casa stessa, dunque, è dentro l’oceano di Solaris: di quell’oceano non esiste nessun « fuori ». La casa perde la sua caratteristica di àncora, di realtà ferma e al di fuori da un mondo inquietante. Fino a quel momento potevamo pensare che tutta la parte centrale del film fosse un lungo sogno di Kelvin mentre gira per i cam­ pi intorno casa. Con l’ultima inquadratura anche questa consolatoria ipotesi ci è negata. E si noti che nel romanzo Solaris (1961) di Stanislaw Lem non v’è nulla di simile. Lo specchio. Non è certo nuovo il procedimento per cui è possibile che un personaggio sia interpretato da più attori, o che il medesimo attore inter­ preti più personaggi. Ma, nello Specchio, questo procedimento è talmente este­ nuato (con Margarita Terechova che impersona sia la madre che Natalja, e Ignat Danilchev che impersona sia Ignat che Aljosha a 12 anni, mentre un altro bam­ bino impersona Aljosha a 5 anni), e combinato alla complessa operazione di smontaggio della successione cronologica, per cui una successione di avveni­ menti a-b-c-d viene montata nel film nella sequenza c-b-d-a, che non è raro che lo spettatore, alla prima visione, si perda. Nello Specchio appare, più evidente che altrove, la grande rivoluzione nar­ rativa di Tarkovskij. Il continuo intercalarsi di flash-back su piani temporali diversi, dove il ri­ cordo < realistico » del passato vissuto si intercala alle immagini di un passato « immaginato » (immaginare il proprio padre bambino) — e sono due nature diverse di flash-back — e ancora a quelle della memoria collettiva negli inserti

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documentari, è un modo di mettere in scena la memoria dell'individuo che focalizza il racconto, il flusso della sua coscienza, il suo stream ofconsciousness. Lo < specchio » del titolo è, sì, quello che rivela che il presente è solo un doppio del passato, che la storia (dai comunisti spagnoli costretti alla fuga alla Berlino distrutta dai bombardamenti nel 1945, alle moltitudini cinesi che sven­ tolano minacciose il libretto di Mao) è sempre violenza, ieri come oggi. Non è solo quello che rivela che nel presente come nel passato c’è sempre un figlio con una madre: e il fatto che la stessa attrice, Margarita Tcrechova, impersoni sia la madre del protagonista che la moglie, madre a sua volta, è significativo: dando lo stesso volto alle due madri del film, quel volto diviene quello di una madre per così dire universale, di tutte le madri del mondo. Noi non vediamo mai il protagonista, ne sentiamo solo la voce fuori cam­ po e vediamo ciò che vede: più che il suo sguardo, la sua memoria. Come la Donna del lago di Montgomery è una continua soggettiva della visione, Lo spec­ chio è una continua « soggettiva della memoria >. Che si attua per immagini. Raramente il protagonista razionalizza con parole i suoi ricordi; le immagini partono quasi sempre da sole, così come avviene nella nostra coscienza. Lo « spec­ chio » è il film stesso, nelle cui immagini riconosciamo il funzionamento della nostra coscienza, i meccanismi della nostra mente; nel film si trova specchiata la nostra menre. Per questo non vediamo il volto del narratore: lo « specchio » che è il film non potrebbe rimandarci l’immagine fisica di ognuno di noi, ma può avvicinarsi a rimandare quella dei nostri meccanismi di associazione. In questo caso il film stesso, Lo specchio, è un labirinto. Un labirinto che rende l’esperienza a tutti consueta del vagare della memoria. Per questo il film procede per continui salti all’indietro, nel ricordo, persino con inserti onirici all’interno del flash-back, quindi col ricordo di sogni. Così come in due ore della coscienza di ognuno possono presentarsi eventi reali, memoria del passa­ to privato e di quello storico, sogni, ma anche il ricordo dei propri sogni passa­ ti. Le due ore della coscienza del protagonista assomigliano alla giornata di Leo­ pold Bloom deiru/mtf di Joyce. Non è forse un azzardo affermare che i risulta­ ti cui la letteratura giunge agli inizi del secolo, al cinema si realizzano con Tar­ kovskij, uno dei registi più « joyciani » della storia del cinema. Scatole cinesi. Maze. meraviglia tra le più interessanti, nel cinema di Tar­ kovskij, quella definibile delle « scatole cinesi >: un mondo che sta dentro un altro. La isbà russa dentro San Galgano; le due identiche case, quella vera e quella in miniatura, di Sacrificio, ad esempio. Ma la sequenza più interessante a que­ sto riguardo appare in Nostalghia. Gorciakov, il protagonista, è andato a visi­ tare Domenico, il personaggio interpretato da Erland Josephsson. Gorciakov apre una porta: gli appare una grande stanza piena di pozze. La macchina da presa avanza, in carrellata, verso le pozze. Prima pozzanghera; una sedia; se­ conda pozzanghera... Ma la pozza, stavolta, è un lago, con alberi intorno e un corso d’acqua che ne defluisce. Eppure, non ci sono stati « stacchi » del­ l’immagine! La carrellata prosegue: vediamo, in lontananza, delle colline. Ciò che è avvenuto in noi, nella nostra mente, è stato uno sconvolgimento di scala, ma come, credevo di vedere una pozza e invece era un intero lago? Naturalmente, il primo paesaggio, quello del lago, era un plastico realizzato con perfezione tale da ingannarci; il secondo paesaggio solamente era quello vero. Questo tipo di sconvolgimento di scala, se così lo possiamo chiamare, è un procedimento tipico in un altro artista figurativo. Solo per fare un esempio.

Giovanni Bogani

in Natura morta e strada, una incisione del 1937 di Escher, vediamo in primo piano un tavolino con dei libri e un mazzo di carte da gioco. L’ultimo dei libri è appoggiato alla parete di un palazzo, parete appena più alta del dorso del libro; questo palazzo s’affaccia su una strada affollata che è anche il ripiano del tavolo, su cui stanno le carte da gioco. La presenza simultanea, nello stesso spazio, di due mondi di diversa scala getta lo spettatore in una condizione di smarrimento; ma, anche, lo costringe ad intensificare la sua visione. Tarkovskij come Escher? In fondo, in entrambi, la costruzione di mondi differenti all’interno dello stesso spazio non è che un aspetto del loro straordinario saper fare coesistere mondi reali c mondi possibili. Ct

La materia e il mondo Si potrebbe parlare di altre piccole mazes frequenti nell’opera di Tarkovskij. Fenomeni come la levitazione (corpi sospesi nel vuoto, come nello Specchio o in Sacrificio) c la telecinesi: oggetti mossi a distanza grazie, apparentemente, alla forza del pensiero, come nel finale di Stalker. Già Riccardo Rosctti, su « Film­ critica > (n. 373, aprile 1987), ne ha scritto con intuizioni molto interessanti. Qui, potremmo semplicemente aggiungere che, in generale, Tarkovskij ha com­ preso a fondo il principio che fonda la fortuna stessa del genere « fantascien­ za »: il cinema rende tutto (entro certi limiti) ugualmente credibile, ugualmente reale. Al punto che i primi spettatori dei film di Méliès si chiedevano se davve­ ro, all’epoca del Voyage dans la lune, gli attori fossero sbarcati sul satellite del­ la terra. Tarkovskij ha capito, insomma, che al cinema realtà e sogno, possedendo entrambi il medesimo grado di visibilità, si assomigliano. Si assomigliano al punto da rendere problematico ogni discorso sulla rappresentazione del sogno nel cinema: le immagini cinematografiche sono tutte quante un sogno ad oc­ chi apeni, ed in ogni istante possono sovvertire le leggi non solo del senso co­ mune, ma anche della fisica e della logica; ed è ciò che fa Tarkovskij. Questa azione disgregatrice della realtà narrativa, che abbiamo cercato di presentare nelle osservazioni precedenti, è analoga a quella che esercita sulla materia. Ad esempio, quei muri che sotto l’azione della pioggia si sgretolano, come in No­ stalghia: muri che ridiventano terra, opere umane che ridiventano natura. E anche la < zona » di Stalker non è solo un territorio le cui vie mutano in conti­ nuazione. I materiali stessi che la compongono stanno attraversando fasi di tra­ sformazione. Cos’è infatti quello sgretolarsi, arrugginire, dissolversi di prodot­ ti umani della lunga carrellata che scivola, mentre lo stalker dorme, su maioli­ che, ferro, immagini sacre, armi e monete arrugginite? È il ritorno di ogni espres­ sione della civiltà alla materia, all’eterno ciclo della polvere. In questo senso, è l’acqua che, sia materialmente (chimicamente) che visi­ vamente, trasforma ed amalgama, che facilita il passaggio tra una materia e l’altra, dal lucido degli specchi o dei letti di ferro all’opaco della terra e dei visi; dalle linee rette dei muri a quelle irregolari del suolo. Il muro, così, diven­ ta terra. Anche il < centro del mondo >, la casa, ugualmente perde la sua carat­ teristica di oggetto sociale e civile, umano, quando la si mostra isolata in mez­ zo alla terra, nel confronto con l’eterna natura, il non-umano che la circonda. Tolto 11 rullo compressore e il violino, quante case < metropolitane » vediamo nel cinema di Tarkovskij? Ma le sue case in mezzo alla campagna, invece di

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rassicurare, ci spaventano, nel loro rivelarsi un campo di forze amiche talmente fragile rispetto all’ambiente intorno, nel loro rivelarsi « scoperte ». Tarkovskij, dunque, dissolve, sgretola, fa arrugginire persino i corpi: si pensi alla macchia di capelli bianchi e al viso larvale dello stalker, o a tutti i suoi bim­ bi feriti, disastrati, afferri da degenerazioni. Dissolve persino gli abiti: ultima, la giacca di Josephsson in Sacrificio, a cui l’usura del tempo ha tirato fuori la materia, la pelle screpolata. E, nel far questo, ottiene due importantissimi scopi. Toglie agli oggetti quasi ogni determinazione temporale, ogni data\ nella gran parte dei casi non siamo in grado di determinare in quale anno si svolge l’azione d’un suo film. Ci dà l'immagine così non già di un periodo, ma del tempo immutabile. In secondo luogo, con i suoi oggetti che diventano materia indifferenziata, riesce a farci sentire (come suggerisce anche Rosetti) non più delle materie, ma la materia. Non più delle cose, ma il mondo. Quando filma il processo stesso della disgregazione, Tarkovskij raggiunge uno dei momenti più intensi della sua poetica, del suo stile.

Fonderet confondere...

Fondere, confondere e infine rifondare. Ecco quello che ha fatto Tarkovskij. Non solo coniugando vecchio e nuovo, o Occidente ed Oriente, come viene brillantemente dimostrato in altri interventi del convegno. Fondere, confon­ dere e rifondare. Lo ha fatto con le sue immagini impastate di fumi, nebbie e vapori; con la sua famosa « acqua » che non solo purifica, ma disgrega. Di­ sgrega la stessa identità storica e sociale degli oggetti, fa tornare pura materia anche l’arte e i mitra. Lo ha fatto con le sue meraviglie, i suoi mazes, per effet­ to dei quali non distinguiamo più nel film realtà e allucinazione o sogno. Lo ha fatto con i suoi personaggi, esploratori della memoria e della mente, che procedono in informi labirinti. E così come i labirinti sono fatti apposta per mettere in scacco l’ingegno di chi li percorre, chi scrive questa nota non ha preteso di aver trovato la regola per girare in quello splendido costituito dalla sua opera. Ha solo vagato, incon­ trando meraviglie, talora sperdendosi. E sperando di aver percorso vie che non conducano solo alla pur evidente « poesia » o alla « spiritualità » del suo cinema.

Una testimonianza

Charles de Branthes

Ho avuto negli ultimi due anni la possibilità di seguire da vicino la vita di An­ drej. Per capire Andrej bisogna amarlo, bisogna lasciarsi trascinare dall’imma­ gine ch’egli ci offre. Il che significa non opporgli un distacco critico ma essere completamente aperti. Qualcuno qui ha detto: « Attenzione al manicheismo. Guardatevene. La vita non è così, non è tutta bianco e nero ». Sì, può essere vero se non ci abbandoniamo all’esperienza che Tarkovskij ci comunica. Ma se c’è l’abbandono, se si vive questa esperienza, allora si capisce perché la si­ tuazione è molto dura e rigida: ciò che egli ha vissuto era molto duro e rigido. Qui davvero scopriamo come l’approccio di Tarkovskij alla vita sia molto complesso. Ma impariamo anche che al fondo della complessità c’è una grande semplicità. Una volta che ci siamo immersi nel fondo della complessità, tutto diventa chiaro, evidente. E si capisce quanto sia essenziale il valore dell’uomo, la responsabilità dell’uomo. Fuori di questa esperienza, Tarkovskij diventa ab­ bastanza intollerante, perché il resto sono parole, come in Shakespeare. In questo senso, è un po’ intollerante. Perché Tarkovskij colpisca tanto sia il pubblico di destra che quello di si­ nistra, è un fatto misterioso. Quel che è certo è che a destra come a sinistra si cerca di appropriarsene. Credo che sia la destra che la sinistra subiscano in egual misura il dominio del materialismo. Ed è per questo che Tarkovskij scuo­ te un po’ tutti, perché dimostra come, accanto alla liberazione, all’edonismo e al progresso (accanto anche alla generosità che ha prodotto il progresso), c’è qualcosa che manca. Qui il regista tocca quel che c’è di più importante nel­ l’uomo: l’infanzia. Per questo, le sue immagini dell’infanzia sono così pure. Con l’ausilio di un’arte del tutto moderna, contemporanea, dà spessore e cor­ po a ciò che sembrava impossibile da esprimere: alla purezza. Lavorando al Comitato accanto ad Andrej per un anno, ho potuto ascolta­ re telefonate di molta gente che amava Tarkovskij. Una volta chiamò un uomo che aveva deciso di suicidarsi e che vi aveva rinunciato dopo aver visto Sacrifi­ cio. In Tarkovskij c’è il segno di un nuovo Rinascimento che si nutre di spiri­ tualità, ma fuori di ogni dogma e alimentato dall’esperienza. Una nuova espe­ rienza che cerca di strappare la maschera all’uomo moderno. Quella maschera così pesante e rigida che si trova ancora in alcune istituzioni o in alcuni am­ bienti politici. Tarkovskij tocca nell’uomo ciò che è vero nell’uomo. Qualcuno ha detto stamattina che non esiste una unica interpretazione dei suoi film, e lui era d’accordo su questo. Era d’accordo sul fatto che tutte le interpretazioni possono essere valide. Ognuno si può esprimere secondo le proprie origini, il proprio ambiente, la propria cultura, ma liberamente, anche se la libertà com­ pleta è impossibile. Andrej era il primo a dirlo. Diceva che una persona com­ pletamente libera è come un pesce fuor d’acqua, un pesce gettato sulla spiag­ gia, fuori dal suo ambiente naturale. La libertà, per l’uomo, è la libertà di es­ sere se stesso; è la libertà di essere l’immagine del suo creatore. Per Tarkovskij non vi sono alrernative: la vita è questa, o è la mone.

Solaris: cinema e profondità

Riccardo Ferrucci

Afferma Gian Luigi Rondi: « Mi è accaduto di scriverlo anche qualche tempo fa quando ho dovuto fare il punto sugli anni ottanta nel cinema. Mi sono guar­ dato attorno con attenzione, ho passato al setaccio le cinematografie di tutto il mondo, mi sono mentalmente riletto le carriere dei singoli autori. Ne ho tro­ vato solo tre cui dedicare questa decade, Tarkovskij e Paolo e Vittorio Taviani ». 1 Forse è un giudizio troppo categorico, ma non siamo molto lontani dal vero nel ritenere il cinema dei Taviani e quello di Tarkovskij come uno dei fatti culturali determinanti della nostra epoca. Il regista russo e i due autori toscani rappresentano in modo splendido il lato poetico del cinema, legati anche dalla presenza dello sceneggiatore To­ nino Guerra. Affermava nel 1984, in una intervista televisiva a Donatella Baglivo, Andrej Tarkovskij: « Coloro che rimarranno nella storia del cinema co­ me autori sono tutti poeti. A mio avviso esiste una legge: il cinema d’autore è un cinema di poeti. Che cos’è un poeta? È un regista che crea il proprio mon­ do e non tenta di riprodurre la realtà che lo circonda ». Nei suoi sette film Tar­ kovskij ha sempre cercato di creare un proprio mondo, rifiutando di riprodurre resistente. Il paragone tra Tarkovskij e i Taviani si può estendere anche alle singole opere: in Stalker i personaggi si muovono in direzione di una misteriosa « zo­ na » nella quale si realizzano i desideri; in La notte di San Lorenzo l’azione si svolge nella notte delle stelle cadenti, la notte in cui si realizzano i desideri. Un luogo spaziale e un momento temporale che rompono l’ordine quotidiano e lasciano emergere il fantastico, il sogno. In Good Morning Babilonia, il so­ gno dell’uomo sopravvive nell’arte, nella forza del cinema; tutto questo sem­ bra ricordare un film di Tarkovskij, AndrejRublèv, dove all’arte pittorica era affidato il messaggio di trasmettere il pensiero e la memoria del protagonista. Le rispondenze potrebbero continuare, a cominciare dalla riscoperta del passato e delle proprie radici, degli affetti familiari. Il cinema dei Taviani, par­ tito in chiave ideologica, ha radicalmente mutato il proprio scenario: a partire da San Lorenzo è nel passato, nel sogno, che si cerca il lato positivo delle cose. Anche Babilonia è un ritorno all’alba del cinema, all’infanzia. Proprio nei ri­ cordi, nell’infanzia, risiede uno dei motivi centrali del cinema di Tarkovskij: il suo viaggio nel cinema inizia con la storia di un ragazzo perso tra gli orrori della guerra (L'infanzia di Ivan). Nel passato, nei ricordi, si perdono i personaggi del suo cinema: dall’a­ perta autobiografia di Lo specchio alla trasfigurata avventura di Solaris. Per il russo l’infanzia è un tempo splendido, felice, dove il pessimismo e la sconfitta non trovano spazio. Così ricorda la sua infanzia: « Mi viene in mente un tempo in cui davanti a me c’era tutta la vita, e io ero immortale e tutto era possibile, 1 G.L. Rondi, 11 leone d’oro ai fratelli Taviani, in Paolo e Vittorio Taviani, Roma 1986.

Riccardo Ferrucci

realizzabile ». Quale differenza rispetto all’angoscia e al senso di mone che si respira nell’ultima opera, Sacrificio, dove l’autore sembra avvertire la fine del­ la vita e la chiusura di ogni possibilità di cambiamento. Quello di Tarkovskij è un cinema dell’insicurezza e dell’incertezza, della profonda riflessione problematica. A proposito di Solaris afferma il regista: « È il meno riuscito dei miei film, me lo ricordo poco. A differenza di Lem, autore del libro, non mi interessava tanto lo scontro con il problema della conoscenza, quanto il problema umano, psicologico, interiore. Era possibile per un uomo vivere in condizioni disumane e restate uomo »? Un viaggio aH’interno del­ l’uomo, con il genere fantascienza usato come pretesto. Ci sembra un tentati­ vo ampiamente riuscito e crediamo che questo film resti una tappa obbligata della filmografia di Tarkovskij, uno dei suoi momenti più alti. E con questa opera che prevale decisamente il tono pessimistico. Dopo le vittorie parziali di Ivan e Rublèv, inizia il tempo della sconfitta. I numerosi viaggi nel futuro {Stalker e Solaris), nella memoria {Lo specchio e Sacrificio), nell’arte (Nostalghia) si chiu­ dono con evidenti delusioni, perfino con la morte. Solaris è film svolta e film chiave, resto assolutamente centrale. Esaminando Solaris dobbiamo osservare che lavoriamo su un testo filmico mutilato, su una versione ridotta. La versione originale molto più lunga (con il lungo colloquio tra gli scienziati, il dialogo di Kelvin con il padre, la visione notturna di Mosca) sottolinea la complessità del lavoro. Il genere fantascienza sembra all’autore una prigione troppo stretta e, conseguentemente, l’opera successiva {Stalker) conserva solo minimi accenni al genere science fiction a cui si ispira. Ci sembra però che Solaris, pur parlando di astronauti, di mondi lontani, di basi spaziali, riesca comunque a muoversi nella direzione della profondità e della complessità. Una fantascienza adulta che non trova paragoni, a parte 2001: Odissea nello spazio di Kubrick. Il viaggio verso il futuro si risolve in una riscoperta del passato, con Kelvin inginocchiato davanti al padre con la madre che lo guarda. È nei ricordi, nelle proprie radici, che l’uomo ritrova le sue qualità più autentiche. Alla stessa maniera si concludeva l’avventura futuribile di Kubrick con l’a­ stronauta Bowman che supera l’infinito per ritrovarsi nel passato settecentesco. Il futuro e i mondi possibili nascono dal nostro passato, daU’interno dell’uo­ mo. Ricordiamo una riflessione di Kelvin nel film: « Ma perché andiamo a fru­ gare l’universo quando non sappiamo niente di noi stessi? Gibarian non è mono di paura, ma di vergogna. La vergogna ecco il sentimento che salva l’uomo ». La vergogna come sentimento positivo, accorgersi dei propri limiti, dei propri errori. I film successivi di Tarkovskij sono ricchi di gente che si perde, che prova forti sensi di colpa. Avvertire i propri limiti, avvertire gli errori della storia. I ricordi del passato sono importanti, ma anche il passato non nasce puro, non è una età dell’oro. Nel cinema di Tarkovskij si respira il senso di disperazione di fronte ad un passato pieno di morte e di tragedia. Il futuro non appare più lieto, minacciato dall’incubo atomico, dal pericolo della distruzione totale. Kubrick e Tarkovskij hanno in comune la capacità di servirsi dei generi cinematografici senza corrompere il proprio stile. Passano dalla fantascienza al film storico, dalla guerra al dramma, soltanto come stimoli esteriori; le domande che si pongono sono sempre le stesse, e sempre decisamente importanti. Han­ no entrambi una filmografìa molto contenuta, una capacità visionaria partico­ lare, una identica profondità. Le differenze nascono nei modi della comunica-

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zionc: da una parte la ferocia, l’ironia, l’aggressività di Kubrick; dall’altra la religiosità, la poesia, la dolcezza di Tarkovskij. La pubblicità ha proposto Solaris come risposta sovietica a 2001. Per alcu­ ni aspetti è vero. Però, più che di risposta parlerei di approfondimento e prose­ guimento di un comune discorso. Il film di Kubrick terminava con la morte e la rinascita del protagonista in un finale oscuro e enigmatico. In Solaris l’uo­ mo è di nuovo di fronte all’ignoto, a qualcosa di più grande di lui (un enorme oceano pensante). Ogni tentativo di comunicazione è vano, e l’isola finale è un’immagine ambigua: non sappiamo se sia luogo terrestre o la risposta del­ l’oceano a Kelvin. Finale ambiguo, come ambiguo è il comportamento del­ l’uomo diviso tra desiderio di mone e voglia di vivere. Un cinema dell’ambiguità e del labirinto che non dà risposte, ma che mol­ tiplica i punti di vista come in un gioco di specchi. È nell’ambiguità, della foto finale di Shining o del « miracolo » della bambina di Stalker. che si concludo­ no i percorsi del cinema di Kubrick c di Tarkovskij. Solaris vive e resta nella memoria, oltre che per la ricchezza tematica, per la forza figurativa. Alcune pagine sono splendide: da Kelvin e la moglie che volano nella stanza alle dissolvenze in apertura dell’incontro con il padre. Mo­ menti di grande pathos con esatti inserimenti musicali in sincrono con l’imma­ gine. La musica di Bach assolve pienamente il ruolo di prepararci a un’atmo­ sfera magica e solenne. L’idea del disfacimento, deH’orrore, è presente nel disordine e nell’ab­ bandono che regna nella base spaziale. Gli « ospiti » non sono le presenze evo­ cate dai ricordi, ma gli uomini stessi. Gibarian sceglie il suicidio, ma anche gli altri tre scienziati sembrano come sperduti in questo enorme labirinto. In Shining tre persone sono sperdute nell’albergo/astronave. AH’Ovcrlook Hotel di Kubrick l’isolamento e la solitudine fanno affiorare le pulsioni più segrete e nascoste dell’uomo: fantasmi e strane presenze. In Tarkovskij l’incontro con i fantasmi è ancora più lacerante, perché questi « ospiti » nascono dalla coscienza e dai ricordi dei protagonisti: a Kelvin si materializza la presenza della moglie che si è suicidata. Nel film seguente il viaggio nella « zona » si risolve con un’altra disillu­ sione e un’altra sconfitta. Emblematiche diventano le parole del poeta Lao-Tze che, citate nel film, riassumono il pensiero del regista:

La debolezza è grande, e la forza è niente. Quando l’uomo nasce è debole e flessibile e quando muore è forte e duro. Rigidità e durezza sono compagne della morte, flessibilità e debolezza esprimono la freschezza dell’esistenza. Per questo ciò che si è irrigidito non vincerà. La debolezza, ma potremmo anche dire la dolcezza, per opporsi a un mon­ do sempre più desolato e vuoto. Spesso i personaggi escono di scena lasciando l’inquadratura vuota, e ciò aumenta il senso di « perdita ». I film successivi — in particolare Nostalghia e Sacrificio — confermano questo viaggio verso la lacerazione e il senso di morte: due finali con altri suici­ di. Sono film realizzati fuori dalla Russia, uno in Italia e l’altro in Svezia, dove la lontananza dalla patria si fa canto altissimo, ma dolente. Il tono generale

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è fin troppo lento e oscuro, difficilmente accessibile. Un cinema della difficol­ tà; in Solaris il contenitore-pretesto della fantascienza permetteva di mantene­ re il film a livelli più elevati di spettacolarità, senza rinunciare alla forza delle idee; inoltre affrontava tematiche ricorrenti e ripetute: dal motivo dell’acqua all’immagine vuota, dai paesaggi naturali ai particolari in primo piano. Diceva in un’intervista Tarkovskij: « La mia ambizione è di fare quanto più possibile dei film che aiutino gli altri a vivere felici. E anche se alcuni film fanno scop­ piare in lacrime gli spettatori questo non significa necessariamente che si tratta di film brutti o deprimenti ».2 Parlando di II prato diceva Paolo Taviani: « Per paradosso mi viene da dire che il film si presenta come un film disperato proprio perche la vita potrebbe non essere disperata, c invece lo è. Oggi il dolore sta in mezzo a noi, e come sempre sono i giovani che lo rilevano >.3 II coraggio di essere deboli, di vergo­ gnarsi. È il motivo di partenza dell’immagine commovente c religiosa del cine­ ma di Tarkovskij. Trovare un equilibrio tra le cose materiali e quelle spirituali è la scommessa più difficile che attende l’uomo di oggi. Uno scrittore italiano, Carlo Cassola, si pone lo stesso interrogativo: cosa lasciare in eredità alle nuove generazioni? « La nostra eredità, di certo, non può essere fatta solo di cose mate­ riali. Dovremo lasciare loro qualche parola, qualche gesto, comportamenti che insegnino ad amare la vita e chiunque e qualsiasi cosa la poni con sé ».4 Solaris si chiude sull’attesa di una svolta, di un cambiamento. Un cam­ biamento anche crudele e drammatico, ma che apra nuovi scenari. In realtà il finale del film, con il ritorno alle radici, alla casa paterna, forse è solo l’ulti­ ma e crudele beffa: un luogo evocato dall’oceano per catturare il personaggio di Kelvin. Il ritorno alla terra, alla felicità, è forse un percorso non realizzabile. Italo Calvino concludeva la sua ricerca della verità con un segnale di resa. Pensa il signor Palomar: « Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose, ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesau­ ribile ».6 Tarkovskij si è spinto molto al di là della superficie delle cose, la sua im­ mersione nella profondità dello spirito umano è stata totale. ♦ Ciò che si è irri­ gidito non vincerà ». Per questo ha cercato di diventare debole, partecipe e di­ sponibile alle sofferenze e ai dolori. Il personaggio di Kelvin, fermo nell’attesa di una risposta, anche crudele, resta un simbolo alto del suo interrogarsi e in­ terrogarci su dove stiamo andando e perché.

2 Intervista a Tarkovskij, in « Posicif », n. 249, dicembre 1981. 3 Intervista ai fratelli Taviani, in A. Tassone, Parla il cinema italiano, Milano s.a. [ma: 1979).

4 C. Cassola, L'uomo e la nube nucleare, in « II Tirreno », 30 gennaio 1987. 5 S. Lem, Solaris, Roma 1973. 6 I. Calvino, Palomar, Torino 1983-

Fra poesia e verità Sandro Bernardi

Poesia e verità. Un titolo goethiano, per un poeta che, come Tarkovskij, cerca nelle immagini una via verso la conoscenza, è particolarmente indicato, non solo per l’intenso e profondo rapporto con la figura materna che sottende tutta la biografia di Goethe (come anche tutta l’opera di Tarkovskij) ma anche c so­ prattutto perché Goerhe poneva queste due parole a titolo di un’opera che in­ dicava l’essenza di ogni percorso conoscitivo in un processo di trasformazione interiore. E Tarkovskij, come vedremo, pone a fondamento di tutta la sua espe­ rienza cinematografica — che è soprattutto esperienza della visualità, o espe­ rienza della poesia come visione — proprio il concetto di Verità, un concetto inteso in senso tutt’altro che dogmatico e definitivo, a differenza di come lo intendeva il realismo socialista contro il quale tutta la sua opera costituisce una lotta. È per lui un concetto aperto e dialettico, una Verità intesa come fattore di instabilità, come elemento critico che dissolve le certezze, come una teolo­ gia negativa, fondata sulla non raffigurabilità, o piuttosto sulla impossibilità di esaurire attraverso il discorso la descrizione degli uomini, delle cose, del mon­ do: « Si rimane stupefatti », come scrive egli stesso « davanti a questo accento di unicità che esprime il principio di base del nostro comportamento emozio­ nale verso la vita: l’artista cerca senza sosta di riprodurre la coloritura di questa unicità, sforzandosi invano di cogliere la immagine della Verità... ». Da questo rapporto con la Verità ha origine ciò che Tarkovskij, prenden­ do a prestito il termine probabilmente da Auerbach e dai suoi studi sulla lette­ ratura cristiana medievale, chiama la « figura », che diventa per lui un elemen­ to portante della rappresentazione cinematografica: « Quale cosa fantastica è la figura! In un certo senso essa è ben più ricca della vira, forse nel senso che essa esprime l’idea della Verità assoluta ». 1 La Verità che Tarkovskij indica come obiettivo dell’artista, va quindi inte­ sa non nel senso formale-linguistico, come verificazione, ma piuttosto nel sen­ so simbolico, come ricerca, come processo, e anche come sostanziale ambiguità del visibile. L’arte è un’attività conoscitiva e il cinema per Tarkovskij è cono­ scenza visiva, che si sviluppa quindi come un percorso senza fine: parte dagli oggetti e dal loro aspetto chiaro e distinto, per discioglierli in un mare di per­ cezioni imprecise ed incene, o viceversa mostra il loro processo di generazione dal magma impreciso dell’essere, dalla terra intesa come madre delle cose. So­ no le sedie abbandonate nel fango, le monete, le siringhe, i vestiti, i piatti, i vetri, i mobili, i pesci, i coltelli e tutti gli altri oggetti che, reimmersi nell’ac­ qua, si disciolgono nella loro componente essenziale, la terra, o la materia. Co­ me osserva con grande precisione Riccardo Rosetti, i suoi film « nel pieno di una funzione poetica scelgono la strada di quello che chiamo realismo, ossia di una effettiva riflessione sulle possibilità di una riorganizzazione sempre ul1 A. Tarkovskij, De la figure cinematographique, in « Positif », n. 249. dicembre 1981.

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tenore della esperienza e sulle condizioni che presiedono il formarsi del senso in riferimento al non-detto. [...] Tarkovskij ci fa così sentire non più delle ma­ terie, ma la materia, non più le cose, ma il mondo ».23 E la Verità è questo processo di generazione-dissoluzione, che appare ovun­ que nel cinema di Tarkovskij, ma soprattutto emerge nei tre mirabili pianisequenza in bianco e nero, in Stalker, Nostalghia, Sacrifìcio, dove la macchina da presa scivola con carrelli o panoramiche sopra una serie di oggetti disposti senza ordine e senza intenzione, abbandonati nell’acqua o immersi nel sonno dei significati. Un concetto di Verità, dunque, in cui la teologia negativa (secondo la quale possiamo dire di Dio solo ciò che non è) si avvicina sensibilmente alla filosofia ermeneutica ed epistcmica, e a molte riflessioni contemporanee sulla conoscenza umana. Come a quella di Gadamer, ad esempio, che illustra una concezione della Verità come forza critica e trainante, e giunge ad una specie di religiosità laica, fondata sull’antica massima eschilea « topathei mathos »: « Ciò che l’uomo deve apprendere attraverso la sofferenza non è una nozione qualunque, è l’in­ tendimento giudizioso dei limiti dell’uomo, la comprensione dell’insopprimibilità della sua distanza dal divino ».5 Anche per Tarkovskij allora, potremmo commentare, la Verità non ha al­ tro senso che questa distanza dalla Verità: è un rapporto erotico-visuale con il mondo, dove il soggetto che vede e continuamente trascinato, o fascinato, attratto verso il regno della possibilità, verso quello che, per usare un termine di Rilke, potremmo definire « l’Aperto » (< das Offene »).4 Ma come si determina in un cineasta questa convergenza di vedere e sape­ re, oppure di sapere e di non sapere, di singolarità e di universalità? Ricorria­ mo subito ad un esempio. Il film Stalker, nella sua opera complessiva, occupa un posto centrale per quanto riguarda questo problema del rapporto fra visio­ ne e conoscenza; è un’opera fortemente simbolica che conduce direttamente, sotto forma di percorso allucinarono, alla scoperta della Verità come dissolu­ zione c genesi della forma, come luogo senza spazio e momento senza tempo. Dopo un esordio notturno in cui i preparativi per la partenza ci mostrano lo stalker e i suoi compagni di viaggio, lo < scrittore » e lo « scienziato », ecco che un lungo carrello ci conduce dentro la misteriosa « zona », nel luogo in cui, secondo la storia, la caduta di un meteorite avrebbe creato una condizione favorevole alla realizzazione dei desideri umani. Questo carrello, dicevamo, è reale c figurato insieme, ovvero è l’idenrirà di figura e di contenuto: si tratta infatti di un carrello delle ferrovie, che i tre compagni rubano e usano per en­ trare nella zona. La macchina sale con loro e per tutto il tragitto rimane sul carrello, fra uno sferragliare molto ritmico di rotaie, e un vibrare di altro mate­ riale ferroso, fili, tubi, lamiere, che tutti insieme costituiscono una specie di musica aleatoria, alla Cage. Mentre l’inquadratura è riempita dalla testa dello stalker o, alternativamente, di uno dei suoi passeggeri (i primi piani della testa sono frequentissimi lungo rutto il film, dato che si tratta di un viaggio simboli­ co) dietro a loro a poco a poco si schiude, con il sorgere dell’alba, uno strano paesaggio in abbandono. Si apre la natura sconosciuta che, nei colori slavati 2 « Filmcritica », n. 373, aprile 1987. Questo articolo è una delle cose migliori che sia­ no state scritte sul regista. 3 H.G. Gadamer. Wahrheit undMetho­

de, Tubingen I960 (tr. it. di G. Vattimo, Mi­ lano 1983, p. 413). 4 Nelle Duineser Elegien\ è l'ottava elegia.

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dell’aurora, poi nell’oro del sole che sorge, poi nell’azzurro cupo, quasi violet­ to, di un cielo ancora nuovo, ancora giovane, mostra, o comincia a mostrare, i suoi aspetti più comuni e nello stesso tempo meno conosciuti all’occhio, esal­ tati da una fotografia molto diaframmata. La < zona » dovrebbe essere, come apprendiamo dai dialoghi, il regno del fantastico, anzi della fantascienza, dove avvengono i prodigi, dove apparizioni misteriose si susseguono incomprensibili. In effetti appare come un luogo ab­ bandonato dagli uomini, in cui varie costruzioni desolate e materiali in disfaci­ mento, come anche alla fine le torri di una centrale nucleare, tutto sta a sugge­ rire il luogo di una mutazione. « È stato lui, ad aprirmi gli occhi » dice lo stal­ ker, parlando del suo maestro, chiamato il « porcospino », e segnala con que­ ste parole il fatto che nella zona, in primo luogo, si tratta di vedere. Ma che cosa? E chi era questo porcospino, chiedono sconcertati gli altri due, si tratta forse di « una figura retorica »? Non era il suo vero nome, risponde lo stalker, ma un soprannome, esattamente come il vostro (scrittore e scienziato). Dun­ que si tratta di una figura retorica. Di una metafora. E un’altra figura retorica seguirà subito dopo. < Voi aspettate un momento qui, non allontanatevi », di­ ce lo stalker « Io devo... ». Ecco una reticenza: niente di meglio per segnalare l’apertura del senso sul regno del possibile, per aprire suggestioni indefinite. Intanto, abbandonando i due novizi, la macchina da presa, rivolta a terra, par­ te da sola, da un traliccio di ferro arrugginito e caduto, per tracciare un percor­ so visivo: si solleva lentamente, passa sopra una ragnatela congelata dalla bri­ na, e continua il suo dolly fino a scoprire una casa azzurrina nella lontananza, diroccata, con un rettangolo nero al posto della porta. È una scenografia, se alcuna mai, da horror, che ricorda le case anseatiche di Brema, in Nosferatu, diroccate e scure, quelle in cui entra il vampiro, portando sottobraccio la sua bara; ma potrebbe anche semplicemente essere una vecchia casa di contadini disabitata e screpolata dal tempo. Una metafora visiva? Un’eco di antiche per­ cezioni, di antiche visioni? Le domande non avranno risposta. Con i dadi lanciati dalla guida, i tre personaggi attraverseranno lo spazio sconosciuto, fino a giungere davanti a questa casa: « Ecco là, la vostra stanza. Ma noi non ci andremo direttamente, dovremo fare il giro... Nella zona la strada diretta non è la più corta. Più si allunga e meno si rischia ». Anche qui, un’al­ tra figura viene proposta, la più ambigua, l’ossimoro, unione di affermazione e negazione, secondo cui la strada diretta non è la più corta; ma il discorso dello stalker ci indica anche nella forma dell’aggiramento, del percorso indi­ retto, il modello di tutte le figure reroriche: il dire non dicendo, la significa­ zione indiretta, velata, la traslazione. Forse, il tema del film è proprio questo: di figura in figura, il percorso dentro la « zona » si rivelerà come cammino ver­ so la Verità, verso il senso diretto delle cose, ma questa Verità risulterà irrag­ giungibile o addirittura temibile: la stanza dei desideri è solo uno spazio vuo­ to, dove una leggera pioggia e frequenti cambiamenti di colore manifestano la incessante potenza del divenire, e il trascorrere di ogni elemento nel suo con­ trario. Ma i tre personaggi pensano che sia bene rimanere fuori, poiché la « stan­ za » non soddisfa i desideri conosciuti, ma quelli più veri, interiori e sconosciu­ ti agli stessi uomini che li portano. È dunque il luogo, oltre che della « felici­ tà », anche della Verità. Ma come tale si rivela appunto impraticabile, come c impraticabile anche il senso diretto delie cose: occorre passare per metafore e metafore, di traslato in traslato (ritroviamo qui la tesi rousseauiana, secondo

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la quale il linguaggio non può essere che figurato). Occorre girare, aggirare, passare sotto e sopra continuamente, per ritrovarsi poi anche più indietro di dove si era all’inizio; e una volta giunti al centro, i tre viaggiatori scoprono misteriosamente di essere fuori, aH’esterno, nel bar da cui erano partiti. La « zo­ na » frattanto, dice lo stalker, cambia continuamente, e dove prima c’era l’ac­ qua, ora ci sono le braci ed i carboni ardenti, mentre i fiori calpestati ora ricre­ scono ancora, ma « non odorano più ». Questo percorso, che non può raggiungere il suo oggetto se non evitando­ lo, è il percorso del linguaggio, e della conoscenza, che opera per via figurativa (intendendo per figura non semplicemente qualche cosa al posto di qualcos’al­ tro, ma piuttosto un velo imposto ad un oggetto che appare solo in quanto nascosto dietro questo velo). Mentre i tre personaggi cercano di raggiungere la meta, ecco che la < zona > (cioè, fuor di metafora, la natura) dispiega intor­ no a loro le sue forme e i suoi colori più misteriosi ed affascinanti, rivelando un’apologià della visibilità, dove il verde dell’erba e il fremito del vento uni­ scono suoni e luci in un perpetuo divenire. Il film potrebbe essere anche un wtfgg/o, un trip visuale (ad un certo punto nell’acqua appare anche la siringa), un’esperienza dove il percorso è solo simbolico e consiste in una trasformazio­ ne della facoltà visiva. Paradossalmente infatti questo film, che si presenta come un film fanta­ stico o fantascientifico, non mostra assolutamente niente di questo genere: nes­ sun effetto speciale, nessun oggetto immaginario. Ma piuttosto attiva una messa in immagine senza fine (ricordiamo la « Einbildung » di Kant) in cui gli ogget­ ti più consueti vengono allucinati, inventati, fantasticati. La scoperta di Stalker è la scoperta del fantastico nel reale, degli aspetti infiniti del visibile: sono l’er­ ba, le rovine, le acque, l’aria, il vento, il fuoco, i muri screpolati, la sabbia, il ferro, le ragnatele, la terra, il fango, il legno, i colori, i suoni, il silenzio, che diventano fantastici, in modo conforme al suggerimento che Leonardo da­ va ai pittori, di guardare le mura screpolate, le braci, le nuvole, come fonte d’ispirazione per la fantasia. Forse Stalker, in questa apologia della visibilità, è il film che maggiormente si accosta al principio dello sforzo infinito con cui Leonardo, pittore molto amato da Tarkovskij (ma amato con « terrore » come dice il postino Otto in Sacrificio} si studiava di riprodurre e disegnare l’eternamente mutevole: i vortici dell’acqua, o la forma delle nuvole. Forse la « zona » è proprio questo: un apparire delle cose ad occhi che co­ munemente non possono vedere, o che guardano senza vedere. Vedere infatti significa, come scrive Gombrich, proiettare sempre forme distinte sopra gli og­ getti, comporre e schematizzare secondo figure predeterminate gli stimoli visi­ vi che riceviamo. Nessun modello figurativo certamente è in grado di esaurire la « infinita ambiguità dello stimolo visivo »; ma d’altra pane, osserva sempre Gombrich, nessun oggetto sarebbe visibile se non ci fossero i modelli figurati­ vi, le forme della percezione e della rappresentazione, che ci consentono di ve­ dere, di identificare ciò che abbiamo davanti.5 La visione dunque consiste in un movimento duplice, con il quale proiettiamo un modello sopra dei dati sen­ sibili,^ nello stesso tempo però scopriamo anche l’inadeguatezza di questo mo­ dello di partenza, perché l’oggetto rivela sempre inarrestabilmente nuovi aspetti sconosciuti. Ecco allora che l’artista, come diceva Tarkovskij, si sforza invano 5 E. Gombrich, The Heritage of Apelles. Oxford 1976 tr. it. di M.L. Bassi, Torino 1986).

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di cogliere questa unicità e complessità infinita del visibile. Le forme, le figu­ re, le metafore infatti, oltre a consentirci di vedere la « cosa », finiscono anche per nascondercela. E la Verità non è forse, come dice Foucault, questo « conflitto inesauribile fra il visibile e l’enunciato », fra la visibilità indefinita degli oggetti, e le forme definite, volta a volta conchiuse, attraverso cui noi ce li raffiguriamo? La natu­ ra figurale del linguaggio si applica anche alla conoscenza sensibile c all’occhio che vede sempre sotto qualche modello, sotto qualche figura; chi è il pittore, se non colui che produce nuovi modelli raffigurativi e percettivi, partendo da quelli che gli vengono tramandati dai suoi predecessori? Per Tarkovskij il regi­ sta è un pittore che usa la macchina da presa, un creatore di modelli, di < figu­ re cinematografiche », intese come nuove forme del vedere e del sapere. Qui, il regista sovietico si avvicina straordinariamente ad una concezione dell’arte come « pura visibilità », quale fu definita da Konrad Fiedler, a partire dalle acquisizioni della Critica del giudizio kantiana. La Verità agisce qui come visibilità, ovvero come possibilità. E la possibili­ tà, come apprendiamo dai filosofi « sta più in alto della realtà ».6 Ma in che modo il cinema diventa il luogo della Verità, ovvero della possibilità? C’è in Tarkovskij un sistema privilegiato che serve a mostrare questa infinita apertura delle cose, questa conoscibilità illimitata: è l’insistenza sull’effetto di reale, la durata c la fissità dell’inquadratura. Tarkovskij considera il cinema una specie di « scultura fatta con il tempo »; per lui le inquadrature sono « tubi pieni di tempo » e il montaggio stesso è analogo a un lavoro di idraulica, a un confron­ to fra le diverse « pressioni del tempo dentro l’inquadratura ». La funzione del tempo nell’immagine è quella di liberare i due aspetti della figura cinemato­ grafica: la sua definitezza c la sua indefinitezza, giungendo ad una specie di « universale nel particolare », che è anche l’infinito estetico, o il sublime. Qui, è molto chiara ed evidente l’influenza delle teorie di Ejzenstejn (uno dei mae­ stri rifiutati da Tarkovskij), l’eco delle sue ricerche sul processo di « generaliz­ zazione » dell’immagine (pbobscenje), e della sua distinzione fra « rappresen­ tazione » (izobrazenje). intesa come evento singolo, contingente, e « immagi­ ne » (obraz\ intesa come schema generale che incarna l’idea dell’evento, il suo valore concettuale. Ciò che però Tarkovskij introduce rispetto alle teorie di Ejzenstejn è il fat­ tore tempo. Il tempo insiste sull’immagine, fino a che la sua funzione signifi­ cante si spezza, fino a che noi non vediamo più una casa, un albero, una testa, un volto, oppure un prato, ma cominciamo a vedere qualcos’altro, comincia­ mo a vedere nel senso pieno della parola. Ma che cosa vediamo? Niente, o me­ glio non un’altra figura, ma solo la possibilità, la pura e semplice possibilità di altre figure, di altre forme. Il mondo ci appare allora come il possibile e l’immaginabile: dato che l’oggetto estetico, come dice mirabilmente Mikel Dufrenne, non è altro che « il sensibile che appare nella sua gloria ».7 Questa funzione dis-identificante che ha la Verità nei confronti dell’oggetto, del visto che viene trasformato in visibile, si riflette anche sul soggetto della visione, che viene ugualmente dis-identificato, collocato in un movimento ottico senza cen­ tro. Alla domanda: chi guarda? non possiamo allora rispondere più con sicu­ 6 La frase è di Martin Heidegger e si trova in Sein und Zeii, Tiibingen 1927 (tr. it. di P. Chiodi, Torino 19742, p. 100).

7 M. Dufrenne, Phénomenologie de l'experience estbétique, Paris 1953 (tr. it. di L. Magrini, Roma 1969, p. 148).

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rezza. Il punto di vista del personaggio collocaro sulla scena infatti si sposta all’indietro c si dilata fino ad acquisire proporzioni smisurate, fino a coincidere con lo sguardo della macchina da presa o con il punto di vista di Dio. Anche qui la visibilità come forza dissolutrice muove i riferimenti, sposta i punti di vista, fino a rivelare in ciascun vedente la funzione primaria del vedere, resi­ stenza di uno sguardo-soggetto impersonale e primitivo, ma anche finale ed assoluto. Nel finale di Solaris, ad esempio, vediamo che la difficoltà della soggetti­ va viene segnalata da una serie di falsi raccordi fra gli sguardi del personaggio e quelli della macchina da presa; questi due punti di vista infatti, seppure ri­ volti allo stesso paesaggio e alle stesse cose, non coincidono mai, e suggeriscono continuamente la soggettiva senza mai raggiungerla. Dopo la guarigione e do­ po che Snaut gli ha detto: « Credo che sia tempo per te di tornare sulla terra », Kelvin viene a trovarsi improvvisamente a casa, nello stesso paesaggio campe­ stre, nella stessa immobile atmosfera invernale, in cui lo avevamo visto all’ini­ zio. Attraverso tre falsi raccordi, come li chiamerebbe Burch,8 abbiamo l’im­ pressione, sempre contraddetta, di vedere con i suoi occhi un paesaggio che appare poi invece guardato con altri occhi: dalle erbe fluttuanti e viscide, agli alberi immersi nell’acqua ferma dello stagno, alla casa lontana; solo alla fine, come una difficile conquista, le inquadrature si allineano in un raccordo fati­ coso ed instabile fra i due sguardi, il nostro ed il suo. In compenso però non tarderemo ad apprendere che lo stesso Kelvin si trova, e noi con lui, dentro una ricostruzione oggettivata del suo ricordo, quindi dentro una sua soggetti­ va, dentro un’immagine tridimensionale che l’oceano pensante di Solaris ha tratto dalla sua memoria. La pioggia dentro casa infatti coniuga non solo l’interno con l’esterno, ma anche il presente con il passato. NeH’inizio infatti (particolalre che purtroppo manca nell’edizione italiana) piove sulla terrazza della casa di Kelvin, e questa pioggia che batteva sui piatti, sulle mele, sul tavolo, si è trasferita, alla fine, dentro la casa, c cade sopra le spalle del padre, sollevando anche un certo vapo­ re. Questa dis-identificazione (chi sei? dove sei?) viene accettata da Kelvin, in­ sieme con tutti gli altri prodigi già accaduti, e il personaggio si china ad ab­ bracciare le ginocchia del padre. La macchina da presa allora inizia un maesto­ so dolly che la solleverà fino ad una visione aerea della sressa scena, sopra le nuvole, fino a scoprire che l’isola e il frammento di paesaggio ricostruito stan­ no in mezzo alle acque dell’oceano. Vediamo allora che il groppo di terra su cui si trova Kelvin è senza cornici, è immerso nel vago delle acque vorticanti, come quei frammenti di paesaggio cinesi, circondati dal bianco della pagina, in cui Éjzenhejn affascinato, intravedeva uno dei momenti maggiormente esta­ tici: l’uscira del personaggio e dello spettatore da se stessi, < il sentimento di un dissolvimento e della risoluzione di noi stessi nella natura ».9 II punto di vista di un osservatore terreno di fronte alla casa si è trasformato nel punto di vista di Dio. Lo comprendiamo meglio se confrontiamo questo modello con quello analogo, ma più chiaro, che troviamo in Sacrificio, nella scena della mi­ niaturizzazione della casa. II passaggio dal colore al bianco e nero, in questo film, è accompagnato 8 N. Burch, Praxis du cinema. Paris 1969 (ir. it. di C. Bragaglia, Parma 1980). 9 S.M. EjzenStejn, La natura non indif

ferente, a cura di P. Montani, Venezia 1981, p. 369.

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dall’annuncio della catastrofe. Il rombo dell’aereo, i personaggi che corrono sgomenti a destra e a sinistra attraverso la sala, trascinandosi dietro la macchina da presa, e infine la caduta della brocca di latte, accompagnata da un violento carrello avanti, producono nella rappresentazione un forte senso di instabilità, di incertezza riguardo alle cose e alle proporzioni. A questo punto uno stacco improvviso ci porta fuori di casa in lontananza, nel prato, dove Alexander (Etland Josephson) si china ruotando il busto (con lo stesso movimento maestoso che tante volte vediamo compiere a Ccrkasov in Ivan il Terribile, o ai marinai del Pot'èmkiri) ed osserva qualche cosa che sta a terra. Si tratta di un modellino della sua stessa casa: la disposizione di questa scena, con il punto di vista aereo, è una variante del finale di Solaris ottenuta, anziché con un dolly, con una miniaturizzazione; ma l’effetto è lo stesso, qui Alexander sta guardando dall’alro il suo stesso mondo, la scena oggettivata della sua vita, con lo stupore che lo porta a recitare la nota frase di Macbeth: « Which ofyou have done this? ». La funzione simbolica di queste visioni semi-soggettive, come le chiame­ rebbe Mitry, ci appare più chiara se rivolgiamo la nostra attenzione ad un’altra immagine di un film precedente. Nel finale di Nostalghia troviamo una scena che condensa due motivi precedenti: il protagonista Andrej che, nel corso del film, ha spesso visto con gli occhi della memoria la sua isbà, la sua terra, con le donne, i bambini, il cane, alla fine, dopo la morte improvvisamente si vede dentro questa scena. È entrato, con la morte, in una sua soggettiva. Ma questa soggettiva in cui è contenuto il soggetto stesso che sta guardando, appare (gra­ zie al movimento indietro e senza stacchi, che allarga il campo visivo) come contenuta dentro un’altra scena: la basilica di San Galgano, che era già appar­ sa precedentemente nel sogno di Andrej, mentre fuori campo si udiva la voce di Dio. Come nei sogni surrealisti di Bufiuel, dove contenente e contenuto si scambiano le parti, qui il vedente si fa oggetto di se stesso; ma in più lo vedia­ mo allontanarsi fino ad essere presente-assente. L’esperienza estatica di Kelvin, di Andrej, di Alexander consiste nell’esse­ re assorbiti dentro una loro propria soggettiva, pur rimanendo se stessi: una morte simbolica che Ejzenstejn non avrebbe esitato a identificare come uscita da se stessi: exstasis. Questo ci mostra come la forza trainante della Verità, o della visibilità, per il mistico Tarkovskij e per il non mistico Ejzenstejn, si risol­ va in un procedimento non privo di analogie. Se in Ejzenstejn lo strumento principale era un montaggio fatto di tensioni e di conflitti che spostava conti­ nuamente il punto di vista e produceva una continua fuga di metafore, fino alla sparizione dell’oggetto (basta pensare alla famosa sequenza degli « dei » in Ottobre}, qui invece, in Tarkovskij, si tratta di un movimento di macchina, o di una inquadratura inconsuetamente lunga e prodigiosamente insistente, che si protrae fino a quando non rimane il puro e semplice senso dello spazio e del tempo, il sentimento di sé, la tautologia dell’ex-stasis, in cui il soggetto vede se stesso dal di fuori. Così, nonostante le dichiarazioni di Tarkovskij ostili al maestro sovietico, la sua opera tradisce chiaramente e indiscutibilmente la influenza di Ejzenstejn, come anche quella di un altro maestro apparentemente respinto e remuto: Leo­ nardo da Vinci, il pittore imitato in Lo specchio e citato in Sacrificio. Sono due figure di « padri » rifiutati (come un altro padre, quello autentico, il poeta Arsenij) che determinano il suo stile, fondato sulla forza della contraddizione.

La malattia e la solitudine Fabrizio Borin

Una prima cosa che potrebbe essere interessante è rifarsi alla lettera di Sartre all’< Unità >. Non per riaccendere la discussione a proposito dell7»^»z/j di Ivan, ma perche in quella lettera Sartre etichettava nella maniera giusta la fi­ gura del giovane Ivan, definita a un tempo mostro e martire, ossia una figura doppia, apparentemente oppositiva; un bambino vittima della guerra e, insie­ me, un « diverso », reso tale dalla guerra e dalla privazione dei genitori. Que­ sta doppia immagine — mostro e martire — la ritroviamo in molti personaggi dei film successivi, e potremmo anche, meccanicamente, riferirla alla figura stessa di Tarkovskij, regista come mostro c come martire. Semmai, alle due « M » potremmo aggiungerne una terza: M come ma­ lattia. Il tema della malattia, del malato, è un tema ricorrente in Tarkovskij perché egli è, a mio avviso, un malato. Malato non tanto di nostalgia, ma dell’invasamento; dell’ossessione dell’artista, questa insopprimibile necessità di creare accoppiata a un’insofferenza personale per la mancata accettazione del mondo nei suoi confronti. Nei film la malattia è resa da una serie di personag­ gi come il ragazzo all’inizio di Lo specchio, la bambina di Stalker, l’ometto di Sacrificio (malato temporaneamente, e dunque malattia e convalescenza). È come se i film di Tarkovskij fossero, nella loro realizzazione, malattie supera­ te, dalle quali il regista e i personaggi escono con guarigioni che non sono mai definitive, (così come non sono mai definitive le soluzioni finali delle situazio­ ni tarkovskiane). Anche le sconfitte non sono mai decisive. Lo stalker tornerà. Ogni volta conduce gli intellettuali e gli uomini di cultura nella « zona », e ogni volta torna stanco e sconfitto. Ma è una sconfitta sempre provvisoria, dalla quale, a mio avviso, si riprende e si rigenera. Da un film si passa a un altro, il sacrificio e la rigenerazione si rinnovano. Il sacrificio di Alexander non sareb­ be possibile se non si fosse passati attraverso la « sconfitta » dello stalker. Mostruosità, martirio. Il martirio è quello che sono costretti a vivere i per­ sonaggi del cinema di Tarkovskij, ed è quello che deve vivere il regista stesso, perché è un regista isolato. Allora, l’isolamento è un’altra delle caratteristiche del suo fare cinema. Può darsi che l’insegnamento di Tarkovskij abbia fatto discepoli fra i nuovi registi sovietici, ma io resto profondamente convinto del­ l’assoluta individualità della posizione tarkovskiana: se ha eredi, si tratta di con­ tinuatori di un ideale, null’altro. La sua solitudine potrebbe suggerire di rivolgere l’attenzione da una parte verso la fede e dall’altra verso il pessimismo. Che Tarkovskij sia un regista pro­ fondamente pessimista è stato detto da molti. Ma si dovrebbe aggiungere che Tarkovskij non avrebbe voluto essere pessimista, non avrebbe voluto che esi­ stesse questa frattura (fra il mondo occidentale e il suo mondo, fra il suo modo di sentire e quello degli altri, fra la sua visione delle cose e la visione che delle cose hanno gli altri, prima in Unione Sovietica e successivamente in Italia). Il pessimismo, in lui, fu una contraddizione e un dramma. Oggi bisogna evitare la beatificazione del personaggio. Per evitarlo con­

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verrà mettere l’accento, magari per paradosso, sulle sue debolezze, sui suoi di­ fetti, veri o presunti. Ad esempio, l’esasperazione formalistica, la ripetitività e l’insisrenza su certi elementi ricorrenti. Non mi ripeto sugli esempi dell’ac­ qua, e degli oggetti dentro l’acqua. Solo, agli esegeti dell’oggettistica cinema­ tografica potrei segnalare quel contenirore porta-siringhe di metallo che sta sul­ l’oblò della stazione orbitante di Solaris, dove è cresciuta una piantina. È l’ul­ tima immagine sulla quale il regista insiste prima di farci rivedere il protagoni­ sta di nuovo sulla terra, accanto alla riva del lago gelato. Ecco è la stessa scato­ letta che troviamo nella lunga carrellata di Stalker sull’acqua (accanto a un’al­ tra serie di oggetti). Sembrano insistenze gratuite, orpelli. Ma basta un attimo di attenzione per comprendere che queste insistenze sono essenziali allo svi­ luppo del racconto. Si è discusso sulla complessità (o semplicità) delle temati­ che tarkovskiane. Tarkovskij complica le cose elementari oppure no? Si potreb­ be osservare che in alcuni film i personaggi minori hanno la funzione di fare chiarezza, di spiegare cose che il filo del discorso invece non contribuisce a chia­ rire. Pensiamo al personaggio del postino Otto in Sacrificio, un non protagoni­ sta che fornisce una serie di indizi necessari per spiegare il comportamento fi­ nale di Alexander: in particolare, dove parla dell’episodio della fotografia. Si apre qui un discorso sull’immagine fotografica, e cinematografica, che potreb­ be appunto spiegare alcune delle motivazioni che conducono il protagonista al gesto finale del dar fuoco alla casa. Quanto alla solitudine, come non ricordare che la solitudine è la condi­ zione della preghiera? E la preghiera in Tarkovskij non è soltanto lo stadio fi­ nale cui giunge Alexander quando prega per scongiurare la catastrofe nucleare e pur sacrificando se stesso. La preghiera è già presente nei primi film: una pre­ ghiera intesa come implorazione per operare nella realizzazione di un mondo « ideale » (irreale) che contraddice la realtà quotidiana, dove l’artista è costret­ to a vivere. È un’opposizione che contraddistinguerà tutte le tappe del suo ci­ nema: Il violino e il rullo compressore, una divisione insanabile; da una parte l’arte, la poesia, la musica ccc., e dall’altra il rullo compressore dell’immagine, in grado di costruire e di distruggere nello stesso tempo. A proposito della preghiera, mi veniva da pensare (è stato citato) a Jancsó. L’ultimo film di Jancsó, Le stagioni dei mostri, è molto tarkovskiano. Pone gli stessi problemi, sfocia nell’uccisione metaforica di Cristo e in una serie di esplo­ sioni che si sentono fuori campo (di rumori che possono far pensare a esplosio­ ni analoghe a quelle di Sacrificio). Ci sono grandi vampate di incendi, e arri­ viamo, anche qui, al nodo: cosa fare per contrastare la catastrofe che ci sta mi­ nacciando. (Catastrofe che non è solo Òernobyl, o la guerra nel Golfo, ma è proprio il punto di rottura, la contraddizione tra due mondi, tra due sfere del sentire). Tarkovskij, in maniera molto fideistica, sposta il problema all’interno di se: per salvarsi non c’è altra strada che il < sacrificio » personale. Bisogna sa­ crificare qualcosa di noi stessi: evidentemente, Tarkovskij non pensa solo al sa­ crificio del benessere occidentale raggiunto, ma anche allo spirito, nel tentati­ vo di far coincidere lo sviluppo spirituale, con lo sviluppo materiale. Jancsó approda qui anche lui. Alla catastrofe. Si muove, però, a un livello cinematografico più basso, perché non riesce a staccarsi dall’uso del pianosequenza inteso come labirinto (simbolo della situazione di stallo alla quale siamo giunti). Dal piano-sequenza di Jancsó non emerge alcuna indicazione per il futuro. Indicazione che invece (si porrà essere d’accordo o meno su quel che contiene) emerge con straordinaria chiarezza da Sacrificio.

A proposito di Stalker Gabriele Boccacini

A Torino la Compagnia < Stalker Teatro » ha imperniato su questo film di Tar­ kovskij un’azione teatrale. Non ho mai conosciuto personalmente Andrej Tar­ kovskij, eppure a volte mi sembra di conoscerlo molto bene, per il solo motivo di avere visto i suoi film. Questa sensazione penso sia comune al pubblico, quan­ do avverte intimamente un’opera, quando viene portato dagli stimoli dell’o­ pera stessa ad interpretare, ad intuire, a condividere l’esperienza che essa rap­ presenta. Posso quindi dire di avere conosciuto Andrej Tarkovskij una sera, a Tori­ no, in un cinema d’essai dove, per pochi giorni, agli inizi del 1980, venne proiet­ tato Stalker. Come talvolta può accadere, ero andato al cinema senza sapere, se non vagamente, cosa avrei visto; dell’autore allora non conoscevo nessun la­ voro. Come mi era successo altre volte andando al cinema o a teatro, leggendo un libro o guardando un quadro, mi aspettavo qualcosa di utile, che avesse qualcosa a che fare con me, anche se non previsto e definito, qualcosa di cui si avverte la mancanza, per riempire quel vuoro, maturato durante una qua­ lunque giornata. Quella volta, a differenza di tante altre, ho provato una sensazione di ap­ pagamento, come se, guardando il film, avessi realmente compiuto un’espe­ rienza di vita. Nonostante il film possa essere incluso nel genere della fanta­ scienza, ho avuto l’impressione che venisse raccontata una storia realmente ac­ caduta; i personaggi erano vivi, modellati nelle loro contraddizioni, carichi di umanità; le metafore risultavano limpide ed illuminanti, le allucinazioni cre­ dibili, come utopie che in seguito, un giorno, si sarebbero potute avverare. Non nell’immediato, ma dopo circa due anni in cui quest’avventura dello spirito di tanto in tanto tornava in luce, scorsi l’occasione per intraprendere un viaggio affine, per tematiche e visioni, attraverso il mezzo a me più conge­ niale, il teatro, ispirandomi a Stalker di Tarkovskij. Proposta l’ipotesi, e verifi­ cata con gli altri componenti della compagnia, individuammo la < zona », il luogo misterioso del film, in un ex ospedale psichiatrico, quello della città di Collegno, dove abbiamo costituito la base fisica c mentale da cui iniziare il viaggio. È bene a questo punto precisare che quanto dirò in seguito sull’opera di Tarkovskij, limitandomi fra l’altro al film Stalker, va inteso come una nostra libera interpretazione. Da questo film, infatti, abbiamo tratto il pretesto poe­ tico per realizzare un’esperienza di ricerca teatrale. La struttura del viaggio del­ lo stalker da noi individuata è formata da nove momenti o unità, tradotti in ambienti teatrali che compongono un percorso in cui si devono avventurare gli interpreti e gli spettatori, sia mentalmente che fisicamente, procedendo real­ mente nello spazio. Nella scelta di un teatro ambientale a percorso c’è già un’affinità con quello che è lo spazio fisico del cinema, cioè i set cinematografici: gli interni e gli esterni di diversi e magari remoti luoghi che per virtù del cinema si ricompongono

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A proposito di Stai

in un unico percorso. Immaginare di lavorare in tali condizioni, facendo tea­ tro, ritengo dipenda dal farro che sia proprio un film ad esserne il punto di partenza; se fossimo partiti da un resto teatrale o da un romanzo saremmo pro­ babilmente arrivati ad altre conclusioni. Ma come poter operare in luoghi am­ pi, non previsti negli spazi abituali delle prove teatrali? Non restava che utiliz­ zare ambienti reali che avessero, di per sé, attinenza con i luoghi di avventura dello stalker. La « zona », il luogo misterioso del film (proibita, recintata, chiusa e ritenuta pericolosa perché non conosciuta), può rimandare per facile associa­ zione ad un ospedale psichiatrico, altrettanto proibito, cioè non praticato dalla gente, attorniato da aire mura di cinta, e da quelle ancora più alte costruite dalla logica sociale, chiuso a qualsiasi cambiamento esterno perché non si vuo­ le né conoscere, né tanto meno sapere, così come non si vogliono sapere i desi­ deri di chi, nel film, potrebbe realizzarli giungendo nel cuore della zona vieta­ ta: « la stanza dei desideri ». Ritornando alla nostra interpretazione del film, che dicevo scandita in no­ ve ambienti teatrali, vorrei mettere in evidenza alcuni precisi fotogrammi del film, nove fuggevoli immagini che come fossero icone incise fortemente con i colori sul legno, ci hanno abbagliato suggerendoci un possibile cammino. Di queste nove immagini, che abbiamo scelto e utilizzato come punto di riferi­ mento anche nelle schede di presentazione dello spettacolo, vorrei descrivervi brevemente parte di quello che abbiamo inteso, che è certamente solo pane di quello che altri ancora possono avere colto, ma comunque sia immagini, sen­ sazioni e riflessioni conseguenti, importanti per noi per il loro valore. Il primo fotogramma preso in esame è l’equivalente simbolico dell’inizio del nostro spettacolo: il primo ambiente intitolato « la casa ». L’immagine mo­ stra il protagonista, lo stalker, intento a lavarsi vicino a un lavandino in una stanza disadorna di una povera casa. Poco prima s’era alzato dal letto, cauta­ mente per non svegliare la moglie e la figlia che dormono. Mentre sta ultiman­ do i preparativi per uscire e dirigersi verso la zona proibirà, improvvisamente la luce, che tenuamente aveva finora dominato l’inquadratura, pare che salti in un lampo e rischiarando la stanza sorprende lo stalker. La moglie interviene maledicendolo per il suo, presunto, menefreghismo nei confronti dei familia­ ri. Lo stalker tenta blandamente di giustificarsi per poi demandare compietamente ai suoi stessi atti la decisione ultima di andarsene. La moglie, dopo aver­ lo ripetutamente ingiuriato, cade a terra piangendo. In questa prima sequenza del film abbiamo ravvisato le condizioni iniziali che generano una forza creati­ va, l’energia primigenia che dà origine all’epica di questo eroe moderno. Vi è un nucleo, in questa prima parte, che è composito, un realtà cruda e contrad­ dittoria formata da opposti che si attraggono e si respingono formando, per un movimento irrequieto (dato dalla rottura e dalla crisi), una energia iniziale, sostanzialmente propositiva, di necessario cambiamento di stato. Lo stalker la­ scia la famiglia, ma la famiglia è parte di lui; egli lascia quindi una parte di sé, nel dolore e nella sofferenza, per evolversi. Ma non è un atto egoistico: è chiaro che lo fa anche per i suoi cari, forse per tutto il genere umano. Sembra un atto sacrificale che vada oltre una concezione cristiana del sacrifìcio e della redenzione, ricordando piuttosto una genesi naturale: separazione, sdoppia­ mento e proliferazione, indispensabile all’evoluzione del ciclo della natura. Così come non è affatto ovvio che sia l’uomo, Io stalker, ad andarsene; sì, può esse­ re un’utile convenzione narrativa, ma emerge con chiarezza, in particolare nel momento del ritorno a casa, 1’esistenza in lui di forze antagoniste (rappresen-

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tabili proprio dallo stalker e dalla famiglia), così come entrambe sono presenti nella donna-moglie. In questo senso, nel nostro spettacolo la figura dello stal­ ker viene interpretata sia da uomini sia da donne. Abbiamo ipotizzato che sia quindi la famiglia a generare la volontà di azione dello stalker, e ciò di nuovo rimanda a una immagine della natura: alla terra che tutto genera e alla fine tutto raccoglie. Tralasciando queste interpretazioni forse troppo cosmogoniche, che fra l’al­ tro possono essere stimolate anche da altre parti del film, procediamo nella let­ tura passando alla seconda immagine scelta. Qui lo stalker si incontra con i due visitatori, lo scrittore e lo scienziato, che intendono farsi condurre all’interno della « zona » e — per bisogno e sfida — addentrarsi nella « stanza dei deside­ ri >. I tre personaggi appaiono seduti attorno al tavolino di un locale pubblico, dimesso, di cui sono i soli avventori. Nel dialogo che segue scopriamo un’altra unità o momento del racconto, che nella nostra interpretazione teatrale diven­ ta il secondo ambiente: « il bar ». Il bar, come luogo pubblico, diviene l’occa­ sione di incontro e di confronto fra tre diversi punti di vista o filosofie di vita, che racchiudono nell’insieme altre contraddizioni facenti parte di un tutto em­ blematico. Lo scienziato con le sue motivazioni dettate dalla necessità di cono­ scere, e forse di distruggere; lo scrittore con la voglia di indagare su se stesso, per meglio alimentare la sua arte; lo stalker, infine, con il suo compito fatale e morale di condurre gli altri sulla soglia della verità, pur senza condividere lo stesso scopo. Tutti e tre danno la sensazione di rappresentare un unico indi­ viduo sfaccettato nelle sue diverse componenti emotive, intellettuali e impre­ scindibilmente naturali, in balia di un fato che domina l’uomo desideroso di sapere per appieno manifestarsi. In questa sequenza del film sembra che i tre parlino linguaggi diversi, che non si possano capire tra loro, ma tutti sono uniti da un destino comune, un segnale per iniziare insieme il viaggio, e solo uno stalker può percepirlo. Il nostro terzo ambiente teatrale, « il viaggio », si ispira ad alcune parti precedenti e successive all’attraversamento del recinto che circonda la « zona ». Nel fotogramma ripreso nelle nostre schede, vediamo lo scrittore che corre ver­ so una jeep in un ambiente fortemente degradato. Attorno alla < zona », in­ fatti, tutto appare distrutto ed abbandonato; i tre personaggi si aggirano na­ scondendosi alle ronde delle pattuglie che sorvegliano l’unico possibile acces­ so. Solo qui compaiono gli antagonisti, militari in divisa, armati. Ma di fatto hanno un’importanza relativa. Ben altri risulteranno essere i pericoli, i nemici impalpabili frutto delle angosce e delle visioni dei protagonsiti stessi. Con un espediente narrativo di più facile comprensione (le raffiche di mitra esplose dai militari) si sottolinea la difficoltà del superamento del recinto che circonda la « zona ». Al suo interno ritroveremo sempre i soldati, ormai impotenti anche se armati, senza ferite ma misteriosamente privi di vita. La sequenza attinente al tema del viaggio che più mi ha sollecitato è quella in cui i tre, ormai adden­ tratisi nella zona, proseguono su di un carrello disposto su interminabili rotaie. Un bel piano-sequenza mette in luce le mutevoli espressioni dei personaggi, che ben rappresentano la sensazione del perdersi nel vuoto, di dense distanze che generano timori; paure che con il passare del tempo e il procedere verso luoghi sempre più remoti, si traformano, cedendo alla stanchezza, in un pro­ fondo oblio. Addormentati ed incoscienti riescono a giungere nel centro della « zona » vera e propria, quasi si volesse affermare che il luogo tanto agognato si può raggiungere solo se si abbandonano tutte le difese, solo se ci si lascia

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A proposito di S

andare e vigile resta solo l’inconscio che anela (e continua) a respirare. Il quarto nucleo, già in parte descritto, Tabbiamo chiamato « la barriera riferendoci all’imponente struttura in legno e ferro che nel film blocca Tacce so alla zona. In termini essenziali rappresenta una linea di demarcazione, u confine, un limite preciso fra convenzioni, logiche e percezioni differenti, il limite di cui è proibito il superamento, ma solo infrangendo tale divieto entra in una nuova dimensione, e si sprofonda in un diverso livello di cosciei za con un tuffo nel tempo verso un passato che ritorna ed un futuro che si avv cina vertiginosamente dando un senso di realtà del presente. Tornando al momento dell’ingresso nella « zona », dopo il definitivo al bandone del carrello, vediamo lo stalker che si apparta e si allonana da soli per rendere omaggio, in un intimo ed affettuoso rapporto, alla sua terra di el zione, quella della « zona ». In questa immagine, nel primo piano dello sta ker disteso sulla terra nuda, abbiamo individuato il fotogramma che rappr senta nel nostro percorso il quinto ambiente, « la zona ». In questo e nei t ambienti successivi abbiamo cercato di enunciare alcuni aspetti e caratterist che di quanto avviene nella « zona », con una successione di eventi, dilatazioi e sviluppi che si discostano da quelli del film. Accenneremo solo ai segni p: forti dai quali siamo partiti per reinventare una nostra « zona », composta, c tre che dal quinto ambiente, anche da « il sistema », « il labirinto » e « la stai za dei desideri ». Mentre, quindi, negli ambienti del « fuorizona » abbiati seguito la successione di situazioni del film, compresa l’ultima scena del rito no a casa, nello spettacolo gli ambienti della « zona » hanno una propria d mensione. Nella « zona » del film viene a mancare la necessità di una successione 1< gica degli eventi, in assenza di coordinate spazio-temporali, per cui è possibi immaginare liberamente, inseguendo e materializzando sogni e paure. Per pr< cedere è necessario attenersi ad alcune pratiche che si potrebbero definire 1 tuali, di cui non conosciamo i rimandi precisi ma solo l’imperiosa necessit un’estrema attenzione nel rispetto per l’ambiente circostante, che sembra av re una propria vita, un’anima, come le divinità boschive di un tempo remoti Rispetto per la natura anche se impoverita, rispetto per l’ambiente: ogni fi d’erba ha la sua ragione d’essere, non va ignorato né inconsapevolmente ca pestato. Seguendo sentieri invisibili, lo stalker conduce i visitatori verso Tobictt vo. Non è detto che la via più breve, quella più facile ed ovvia, sia quella cl permette di giungere alla meta. Tanto più la meta è ambita, tanto più è nece sario procedere cautamente, guardandosi attorno, ascoltare i suoni più licv fermarsi a riflettere, riposare e sognare, seguire l’istinto più profondo e cela e le proprie sottili intuizioni. Forse è la ricerca del giusto modo, per ognuni di procedere che permette di giungere alla « stanza dei desideri », forse già ce cando di chiarire i propri desideri si ha un modo per realizzarli, e forse la « stan; dei desideri » non esiste, esistono solo le nostre aspcrtative. Il percorso di avv cinamento è la stanza stessa, i modi scelti per procedere sono l’espressione d desideri. Non è la prima volta che qualcuno osa avventurarsi nella zona: lo stalk scopre le tracce dei suoi predecessori. Altri stalker del passato prossimo c rem< to hanno tentato di giungere alla meta. Qualcuno ha fallito, si è smarrito lui go la via, ha ceduto ad opportunità fittizie, magari arricchendosi improvvisi mente con molto denaro ma perdendo poi la via. Come è accaduto al persi

Gabriele Boccacint

tabili proprio dallo stalker e dalla famiglia), così come entrambe sono presenti nella donna-moglie. In questo senso, nel nostro spettacolo la figura dello stal­ ker viene interpretata sia da uomini sia da donne. Abbiamo ipotizzato che sia quindi la famiglia a generare la volontà di azione dello stalker, e ciò di nuovo rimanda a una immagine della natura: alla terra che tutto genera e alla fine tutto raccoglie. Tralasciando queste interpretazioni forse troppo cosmogoniche, che fra l’altro possono essere stimolate anche da altre parti del film, procediamo nella let­ tura passando alla seconda immagine scelta. Qui lo stalker si incontra con i due visitatori, lo scrittore e lo scienziato, che intendono farsi condurre all’interno della « zona » e — per bisogno e sfida — addentrarsi nella « stanza dei deside­ ri ». I tre personaggi appaiono seduti attorno al tavolino di un locale pubblico, dimesso, di cui sono i soli avventori. Nel dialogo che segue scopriamo un’altra unità o momento del racconto, che nella nostra interpretazione teatrale diven­ ta il secondo ambiente: « il bar >. Il bar, come luogo pubblico, diviene l’occa­ sione di incontro e di confronto fra tre diversi punti di vista o filosofie di vita, che racchiudono nell’insieme altre contraddizioni facenti parte di un tutto em­ blematico. Lo scienziato con le sue motivazioni dettate dalla necessità di cono­ scere, e forse di distruggere; lo scrittore con la voglia di indagare su se stesso, per meglio alimentare la sua arte; lo stalker, infine, con il suo compito fatale e morale di condurre gli altri sulla soglia della verità, pur senza condividere lo stesso scopo. Tutti e tre danno la sensazione di rappresentare un unico indi­ viduo sfaccettato nelle sue diverse componenti emotive, intellettuali e impre­ scindibilmente naturali, in balia di un fato che domina l’uomo desideroso di sapere per appieno manifestarsi. In questa sequenza del film sembra che i tre parlino linguaggi diversi, che non si possano capire tra loro, ma tutti sono uniti da un destino comune, un segnale per iniziare insieme il viaggio, c solo uno stalker può percepirlo. Il nostro terzo ambiente teatrale, « il viaggio », si ispira ad alcune parti precedenti e successive all’attraversamento del recinto che circonda la < zona ». Nel fotogramma ripreso nelle nostre schede, vediamo lo scrittore che corre ver­ so una jeep in un ambiente fortemente degradato. Attorno alla < zona », in­ fatti, tutto appare distrutto ed abbandonato; i tre personaggi si aggirano na­ scondendosi alle ronde delle pattuglie che sorvegliano l’unico possibile acces­ so. Solo qui compaiono gli antagonisti, militari in divisa, armati. Ma di fatto hanno un’importanza relativa. Ben altri risulteranno essere i pericoli, i nemici impalpabili frutto delle angosce e delle visioni dei protagonsiti stessi. Con un espediente narrativo di più facile comprensione (le raffiche di mitra esplose dai militari) si sottolinea la difficoltà del superamento del recinto che circonda la « zona ». Al suo interno ritroveremo sempre i soldati, ormai impotenti anche se armati, senza ferite ma misteriosamente privi di vita. La sequenza attinente al tema del viaggio che più mi ha sollecitato è quella in cui i tre, ormai adden­ tratisi nella zona, proseguono su di un carrello disposto su interminabili rotaie. Un bel piano-sequenza mette in luce le mutevoli espressioni dei personaggi, che ben rappresentano la sensazione del perdersi nel vuoto, di dense distanze che generano timori; paure che con il passare del tempo e il procedere verso luoghi sempre più remoti, si traformano, cedendo alla stanchezza, in un pro­ fondo oblio. Addormentati ed incoscienti riescono a giungere nel centro della « zona » vera e propria, quasi si volesse affermare che il luogo tanto agognato si può raggiungere solo se si abbandonano tutte le difese, solo se ci si lascia

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A proposito di Stalker

andare e vigile resta solo l’inconscio che anela (e continua) a respirare. Il quarto nucleo, già in parte descritto, l’abbiamo chiamato « la barriera » riferendoci all’imponente struttura in legno e ferro che nel film blocca l’acces­ so alla zona. In termini essenziali rappresenta una linea di demarcazione, un confine, un limite preciso fra convenzioni, logiche e percezioni differenti. È il limite di cui è proibito il superamento, ma solo infrangendo tale divieto si entra in una nuova dimensione, e si sprofonda in un diverso livello di coscien­ za con un tuffo nel tempo verso un passato che ritorna ed un futuro che si avvi­ cina vertiginosamente dando un senso di realtà del presente. Tornando al momento dell’ingresso nella « zona », dopo il definitivo ab­ bandono del carrello, vediamo lo stalker che si apparta e si allonana da solo, per rendere omaggio, in un intimo ed affettuoso rapporto, alla sua terra di ele­ zione, quella della « zona ». In questa immagine, nel primo piano dello stal­ ker disteso sulla terra nuda, abbiamo individuato il fotogramma che rappre­ senta nel nostro percorso il quinto ambiente, « la zona ». In questo e nei tre ambienti successivi abbiamo cercato di enunciare alcuni aspetti e caratteristi­ che di quanto avviene nella « zona », con una successione di eventi, dilatazioni e sviluppi che si discostano da quelli del film. Accenneremo solo ai segni più forti dai quali siamo partiti per reinventare una nostra < zona », composta, ol­ tre che dal quinto ambiente, anche da « il sistema », < il labirinto » e < la stan­ za dei desideri ». Mentre, quindi, negli ambienti del « fùorizona » abbiamo seguito la successione di situazioni del film, compresa l’ultima scena del ritor­ no a casa, nello spettacolo gli ambienti della < zona » hanno una propria di­ mensione. Nella « zona » del film viene a mancare la necessità di una successione lo­ gica degli eventi, in assenza di coordinate spazio-temporali, per cui è possibile immaginare liberamente, inseguendo e materializzando sogni e paure. Per pro­ cedere è necessario attenersi ad alcune pratiche che si potrebbero definire ri­ tuali, di cui non conosciamo i rimandi precisi ma solo l’imperiosa necessità: un’estrema attenzione nel rispetto per l’ambiente circostante, che sembra ave­ re una propria vita, un’anima, come le divinità boschive di un tempo remoto. Rispetto per la natura anche se impoverita, rispetto per l’ambiente: ogni filo d’erba ha la sua ragione d’essere, non va ignorato né inconsapevolmente cal­ pestato. Seguendo sentieri invisibili, lo stalker conduce i visitatori verso l’obietti­ vo. Non è detto che la via più breve, quella più facile ed ovvia, sia quella che permette di giungere alla meta. Tanto più la meta è ambita, tanto più è neces­ sario procedere cautamente, guardandosi attorno, ascoltare i suoni più lievi, fermarsi a riflettere, riposare e sognare, seguire l’istinto più profondo e celato e le proprie sottili intuizioni. Forse è la ricerca del giusto modo, per ognuno, di procedere che permette di giungere alla < stanza dei desideri », forse già cer­ cando di chiarire i propri desideri si ha un modo per realizzarli, e forse la « stanza dei desideri » non esiste, esistono solo le nostre aspettative. Il percorso di avvi­ cinamento è la stanza stessa, i modi scelti per procedere sono l’espressione dei desideri. Non è la prima volta che qualcuno osa avventurarsi nella zona: lo stalker scopre le tracce dei suoi predecessori. Altri stalker del passato prossimo e remo­ to hanno tentato di giungere alla meta. Qualcuno ha fallito, si è smarrito lun­ go la via, ha ceduto ad opportunità fittizie, magari arricchendosi improvvisa­ mente con molto denaro ma perdendo poi la via. Come è accaduto al perso-

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naggio chiamato « il porcospino », un altro ricercatore di cui lo stalker racconta la triste storia. Compaiono altre tracce di segno diverso, probabilmente di altri stalker ancora: riecheggiano nell’aria versi di antiche poesie, se non sbaglio di Arsenij Tarkovskij, poeta, padre dell’autore. Come un perenne ritorno, di ge­ nerazione in generazione, gli stalker si avventurano nella zona, sforzandosi di condurre altri con se. Questa mi pare una bella metafora del compito dell’artista. L’andamento degli eventi in forma ciclica è anche espressione del ritmo della natura di cui la « zona » è invasa. In molte occasioni l’acqua sgorga da sorgenti misteriose, coprendo e avvolgendo l’ambiente, celando e svelando, in una lunga sequenza, oggetti e reperti di altre epoche, tracce dell’indelebile storia di cui anche la « zona », territorio virtuale, risente. Dal fotogramma dell’icona e delle monete, velate da un sottile strato d’acqua, siamo partiti per inventare il sesto ambiente dello spettacolo, in cui, con un salto nel tempo, si precipita in un salotto ottocentesco abitato da personaggi in costume d’epoca che intrat­ tengono i visitatori-spettatori secondo regole di uno strano sistema, arto a go­ vernare una casa di cura per le malattie della mente. Nella « zona » possono avvenire le cose più sorprendenti: dipende dall’im­ maginazione di chi vi si avventura, dalle intenzioni dello sguardo di chi osserva per vedere al di là di ciò che appare. La « zona » esprime altre forze della natu­ ra, vi sono anche animali, un cane nero immobile e un rapace che vola gran­ dioso e lento; nel nostro settimo ambiente due cavalli, uno bianco e l’altro ne­ ro, si muovono in un labirinto, sfuggendosi e cercandosi nel tentativo di ricon­ giungere in un’unica direzione le forze più semplici e pure. Poi, finalmente, il cuore della « zona », la « stanza dei desideri », l’apice, preludio del ritorno. A questo punto i tre personaggi del film danno sfogo, ormai senza riserve, alle proprie passioni e ai propri ideali; storie e frammenti del passato e del presente riappaiono e si intrecciano fra loro, creando un’unica condizione di sofferenza e piacere, di conoscenza e delusione, di armonia e dissidio. Fra loro lo stalker, eroe del nostro tempo, che piange, piange nell’intimo, disperatamente. La se­ quenza si chiude con lo stalker, lo scienziato e lo scrittore che fissano lo sguar­ do, attoniti, oltre la « stanza dei desideri », verso il pubblico, quasi a indicare che ognuno dovrà trovare possibili soluzioni a sua misura, attraverso l’esperienza in prima persona. Il nostro nono ambiente teatrale, « il ritorno », si ispira alle ultime inqua­ drature del film, dove si vede lo stalker tornato a casa, sdraiato sul letto, stanco e febbricitante per l’impresa appena compiuta. Accanto a lui la moglie che lo consola. Il ritorno alla famiglia non è da intendersi come un pessimistico ri­ pensamento sugli inutili sforzi appena compiuti, ma piuttosto come un’accet­ tazione delle leggi naturali, per cui, secondo un andamento a spirale di sempre maggiore ampiezza, si compie nella vita un movimento circolare aperto, e ad ogni apice corrisponde un ritorno. In questo senso ho inteso l’ultima parte del film. A fianco dello stalker e della moglie che lo confona vediamo la bambina, la figlia, rappresentante di una nuova generazione, quella dei « mutanti » le cui particolari proprietà appaiono, per ora, soprannaturali. La bambina è impedita nei movimenti da una strana malattia, probabil­ mente provocata dagli influssi della « zona » o forse solo dal fatto di essere fi­ glia di uno stalker. Guarda un bicchiere posto su un tavolino, e con la sola forza del pensiero lo sposta verso il bordo. Il film finisce su questa inquadratu­ ra, un attimo prima che il bicchiere cada a terra. Nella nostra versione, alla fine dello spettacolo, il personaggio della bambina si spoglia dalle bianche bende

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A proposito di Stalker

avanzando verso il pubblico lungo una traiettoria composta da nove sedie anti­ che di diversa epoca. Togliendosi le fasce, e sempre guardando verso il pubbli­ co, con forza imprevedibile prende ad una ad una le sedie e le scaglia lontano. Finché, concluso il percorso, si trova per qualche attimo ancora di fronte al pub­ blico, investita da una forte luce. Non so quanto abbia oggettivamente riportato del film, quanto abbia rein­ ventato, quanto sia opportuno interpretare e quanto, bene o male, abbiamo saputo cogliere, e ad altri riportare attraverso lo spettacolo. Dopo alcuni anni di lavoro sull’opera di Tarkovskij, i diversi livelli di esperienza quasi si confon­ dono fra loro. Volevo parlare di Stalker di Tarkovskij, ma mi è difficile a que­ sto punto dissociarlo da quello che ne abbiamo tratto. Considerando Stalker come una parabola sulla vicenda dell’uomo moderno, che non si arrende alla perdita dell’utopia, pur ravvisandone i limiti ed il probabile scacco, noi abbia­ mo perseguito per pratiche e per metafore le indicazioni che Tarkovskij ci ha suggerito. Teoricamente certi della necessità, per chi opera nelle arti, di lottare attorno ai limiti da cui l’uomo è costretto, nella pratica cerchiamo di potenzia­ re con gli strumenti del linguaggio l’immaginario confrontandolo ed alimen­ tandolo con dati di realtà. La « zona », quindi, per noi è diventata un ospedale psichiatrico e lì sia­ mo andati anche fisicamente a vivere, ad abitare. Abbiamo avvertito la separa­ zione dai luoghi cari e dagli affetti, abbiamo conosciuto la sofferenza dell’e­ marginazione e di chi vive costretto in un altro mondo, e siamo ritornati, a nostra volta, per raccontare e far conoscere ad altri ciò che abbiamo provato. Credo che anche Tarkovskij abbia vissuto un’esperienza per qualche verso atti­ nente a quella del film. Immagino lo stalker come una figura emblematica della condizione di chi, con certe intenzioni e presupposti, svolge un lavoro artistico. Per tutto questo ringrazio Tarkovskij: per quello che la sua opera ci ha dato. Vorrei in suo ricordo citare una poesia di Holderlin che, scavata nel fan­ go, compare nella « zona » del nostro spettacolo: In alto il mio spirito si protese, ma subito amore lo tirò giù: dolore con più forza lo incurva; così ho percorso della vita l’arco e ritorno donde mi mossi.