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Italian Pages 291 [338] Year 2001
Sergej M. Ejzenstejn IL MONTAGGIO a cura di Pietro Montani
Con un saggio di Jacques Aumont
Marsilio
© 1986 BY MARSILIO EDITORI S.P.A. IN VENEZIA
Titoli originali Izbrannye proizvedenija v sesti tomach (Opere scelte in sei volumi), Mosca, Iskusstvo, 1963-1970, vol. n (I titoli originali dei singoli saggi sono riportati nelle note ai testi)
Traduzioni dal russo di Giorgio Kraiski, Federica Lamperini, Antonella Summa Traduzione dal tedesco di Giovanni Spagnoletti
ISBN 88-317-4932-3
Prima edizione: novembre 1986 Seconda edizione: aprile 1992
INDICE
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Rileggere Ejzenstejn: il teorico, lo scrittore di Jacques Aumont IL MONTAGGIO
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Fuori campo Drammaturgia della forma cinematografica
36 Appunti per le integrazioni all’articolo di Stoccarda 53 71 75 89 129
La quarta dimensione nel cinema L’errore di Georges Méliès «Eh!» la purezza del linguaggio cinematografico Montaggio 1938 Il montaggio verticale APPENDICE
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Il montaggio delle attrazioni
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Il montaggio delle attrazioni cinematografiche
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La linea teatrale del Proletkul’t II montaggio delle attrazioni
Premessa principale
Indice dei nomi
RILEGGERE EJZENSTEJN: IL TEORICO, LO SCRITTORE
La storia si ripete, com’è noto (almeno dopo Marx). La Storia si ripete e le storie ritornano. Ritorna, per esempio, la storia di questo cineasta - così tanto celebre e così poco conosciuto - che bisogna continuamente riscoprire, continuamente sottrarre all’oblio e a un vago senso di noia. La storia di un cineasta che non riusciva a fare film, o i cui film, appena finiti, venivano distrutti, o rifatti, o imboscati; la storia di un cineasta di cui nessuno guarda più i film, perché sono stati troppo visti (ma da chi?). E - altra ripetizione della Storia - la sventura di uno scrittore travestito da cineasta: uno scrittore prolisso, autodidatta come il cineasta, capace di inventare in modo selvaggio e di ripetersi ossessiva mente: insomma, uno scrittore che fa di tutto per non essere letto e che, una volta letto, fa di tutto per non essere capito. Esiste, ancor oggi, un caso Ejzenstejn. Ciascuno è convinto di sapere qual è il vero Ejzenstejn: l’autore, di fronte all’eternità, del Potemkin (o di Ivan il Terribile, a seconda dei casi); il teorico confusionario ma-chestraordinario-insegnante-doveva-essere; e, ultimo cliché in ordine di tempo, il servile officiante della religione staliniana. Ciascuno ha il suo Ejzenstejn, e tutti si sbagliano. Certo, Ejzenstejn è stato tutto questo come negarlo, e perché, poi? -, ma è stato anche altro, e molto di più: uno scrittore. Ecco, allora, la principale utilità di un’impresa editoriale come que sta: ritrovare, al di là di ogni riesumazione pietosa, al di là di ogni pignoleria di archivista, la traccia difficile e frammentaria di uno scrittore perduto. Non è passato troppo tempo da quando un eminente critico poteva farsi beffe della sua mentalità «dogmatica» e «apodittica», dire spiritosaggini a proposito del suo «confusionario hegelismo da motoci clista», e malignare a proposito delle sue «civetterie culturali che rivela no, oltre a qualche ampiezza di curiosità da avido autodidatta, anche i limiti modesti della sua comprensione di quanto andava precipitosamen
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te leggiucchiando»*. Si poteva, si può sempre essere spiritosi o maligni sulla pelle di Ejzenstejn scrittore: quanto a me, dirò subito che è stato un errore, un errore che oggi è diventato imperdonabile. Non mi pronuncerò sul suo stile: uno stile aspro, tagliente e aggirante al tempo stesso. Lo stile di uno che non ha mai voluto imparare - o che disprezza - il «bello stile». Uno stile che si inventa via via che va inventando il suo proprio discorso, che adatta i suoi ritmi irregolari a un senso un po’ morboso della velocità, che modella la lunghezza quasi proustiana delle sue digressioni su un interminabile saltar di palo in frasca. Uno stile, se si vuole, un po’ terrorista: insomma, una scrittura. C’è, soprattutto, un movimento ininterrotto: una mira, uno sguardo puntato. È una scrittura di cui sentiamo che non potrà mai fermarsi, che dovrà sempre procedere e spostarsi, perché l’affermazione più netta non è mai definitiva, perché ogni cosa, anche le teorie, anche i concetti, anche i dogmi (soprattutto quei dogmi che Ejzenstejn sembra voler maggior mente rispettare per poterli poi meglio negare), tutto sarà di nuovo messo in gioco, e con un nuovo rilancio. Una pubblicazione come questa offre la migliore testimonianza di un tale movimento: l’apparente limita zione tematica non fa che porre meglio in risalto il gusto (anzi, non il gusto: la necessità) dello spostamento, quella bulimia che, in qualche modo, spinge a passare dovunque anche se dovunque non si può, appun to, che passare. Non insisterò oltre su questo punto. Si tratta, in fondo, di ricordarsi solo del fatto che una teoria del cinema, o un’estetica, o una storia dell’arte (è la triplice impresa di Ejzenstejn) non si producono al di fuori di una scrittura. Che la sistematicità perseguita dalle teorie che hanno ambizioni scientifiche si raggiunge altrettanto bene, o addirittura meglio, nel gioco ossessivo. Che uno sguardo analitico, clinico sull’opera d’arte, uno sguardo che non sappia condividere in qualche misura la passione di quest’opera, mancherebbe il suo bersaglio. E questa, ad evidenza, la prima lezione del cineasta-scrittore. Ed è una lezione che non si capisce bene come potrebbe essere «superata» (mentre è vero che oggi si può, si deve lasciarla riformulare liberamente: vedi Godard, vedi Duras). Al cospetto di questa lezione essenziale, tutto il resto impallidisce, si fa contingente: l’erudizione (comunque stupefa cente), la volubilità, l’immaginazione, perfino l’ostinato rigore che Ejzen stejn si impegnava a far proprio, guardando al suo idolo, Leonardo. Non dovremo mai cercare, in lui, la teoria conclusa, e men che mai la teoria 1 U. Barbaro, in «Bianco e Nero», xn, n. 6, giugno 1951.
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applicabile: solo il movimento, incessante come il lavoro, della teoria che si fa e si mette alla prova e si sposta, perché a ogni possibile approfondi mento di una teoria, com’è noto, Ejzenstejn preferiva sempre l’invenzio ne di una teoria nuova, foss’anche in contraddizione con la precedente. Così la coerenza, la stessa continuità, non vanno cercate nella costanza dei concetti: essenzialmente labili, i concetti elaborati da Ejzenstejn vivono sotto la minaccia perenne di essere eclissati da altri concetti che, per qualche ragione, apparissero d’improvviso provvisti di una maggiore utilizzabilità. Come qualcuno ha detto a proposito di Freud1 2, anche le nozioni ejzenstejniane non sono «poste», ma «camminano», «slittano», prese nel moto del pensiero e della scrittura.
Se c’è, tuttavia, un termine che attraversa, senza alterazioni apparen ti, l’intero corpo dell’opera di Ejzenstejn, questo è, senza dubbio, il termine montaggio e, nella sostanza, è l’unico (perfino l’altro tema maggiore, quello del «conflitto» tende a scomparire dal vocabolario dell’Ejzenstejn della maturità, o a presentarsi sotto vesti diverse). Sembra, così, di essere ricaduti nella disputa dei luoghi comuni: a favore di un Ejzenstejn inventore del montaggio breve, del montaggio produttivo (la famosa formula sul montaggio di due inquadrature corri spondente, più che alla loro somma, al loro prodotto) e di una indifendi bile teoria del cinema «sonoro», o contro l’uomo delle infinite manipola zioni inflitte alla realtà (in nome del postulato baziniano che assimila montare e mentire}, e l’opportunista che abbandona una forma rivoluzio naria per glorificare, con un sol colpo, gli zar, Stalin e il cinema narrativo coprendo l’intera operazione con 1’«ombrello del montaggio». Insomma, ci troveremmo all’idea passe-partout di Ejzenstejn come «il cineasta per il quale il cinema è il montaggio». Dobbiamo allora precisare subito un punto: è piuttosto semplice «estrarre» dall’opera di Ejzenstejn delle teorizzazioni del montaggio (egli stesso non si nega il diritto di segnalarle, talvolta anche di etichettarle); le difficoltà cominciano quando ci si vede costretti a constatare che queste teorizzazioni non nascono da una pratica di cui sarebbero la razionalizza zione e, d’altra parte, che non possono interpretarsi come semplici varianti di uno stesso sistema. Ciò che il testo ejzenstejniano ci offre non è un’elaborazione di metodi di montaggio (non c’è nulla di meno applicabi le in concreto della nozione di montaggio armonico avanzata nel saggio 1 C. Metz, Le signifiant imaginaire, Paris, Venezia, Marsilio, 1980).
uge,
1977, pp. 282-283 (tr. it. Cinema e psicanalisi,
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La quarta dimensione nel cinema}, e nemmeno la costruzione sistemati ca di un concetto di montaggio universale e immutabile. Se i testi presentati in questo libro (e nel volume che lo precede, la Teoria generale del montaggio, per esempio) hanno un’unità, si tratterà di un’unità di natura diversa: in questo e nel caso precedente noi abbiamo a che fare con un’impresa che procede, con un territorio che si va configurando via via, con lo studio permanente di un oggetto variabile. Dunque, «montaggio» non è un concetto: tutt’al più è un principio generale ancora da legittimare, da spiegare, da descrivere. E questo il compito cui sono dedicati i saggi qui raccolti. Prima di provarmi a dire che cosa, in positivo, si può tentare di concludere a partire dalle concezioni ejzenstejniane del montaggio e dai concetti che ne vengono messi in gioco, vorrei ricordare rapidamente - non per respingerle, ma perché mi sembrano incapaci di produrre vere e proprie conclusioni le principali critiche che sono state mosse a Ejzenstejn. Lasciamo pure da parte l’accusa, banale, di oscurità e di confusione. Ejzenstejn è talvolta oscuro e confuso, e questo è un fatto, ma di scarso interesse. La prima critica seria mossa contro la teoria di Ejzenstejn è quella di sopravalutare il montaggio, di esagerare la sua efficacia, di enfatizzarne la necessità. Ecco una questione che è stata per molto tempo scottante: parecchi critici e teorici hanno rigirato in tutti i sensi l’argomento paradossale di un cinema la cui natura «presentativa» si opporrebbe alla facoltà di esprimere concetti, idee astratte, a quella «schermizzazione immediata dei concetti» di cui parlava lo stesso Ejzenstejn5. Balàzs, Bazin, Metz, chiunque abbia davvero avuto un peso nella teoria «classica» del cinema non ha potuto sottrarsi dal prendere posizione, prima o dopo, in questa grande disputa che oggi è diventata una vera e propria disputalo medioevale, con tanto di ruoli obbligati e argomenti convenuti. In questa disputa sulla cine-lingua, sulle cose che parlano da sole e sull’articolazione del discorso filmico, tutto appare ormai interamente scontato, ed è inutile descrivere ancora una volta gli argomenti contrapposti. La teoria degli ultimi vent’anni, d’altra parte, sembra aver sufficientemente chiarito la questione, dapprima coi lavori di Metz, che hanno polverizzato la metafora della cine-«lingua», e poi con la ricerca di Marie-Claire Ropars, che mira a riesaminare questo
5 Cfr. «Il male voltairiano» (testo del 1946), nelle Opere Scelte (edizione russa), tomo 1, pp. 470-488.
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grande luogo comune in un senso più moderno, che ruota attorno alla nozione di «scrittura»4. In sintesi, si potrebbe facilmente convenire sul fatto che Ejzenstejn abbia davvero sopravalutato le possibilità del montaggio (non necessa riamente in un senso rozzamente linguistico, malgrado certe formulazio ni infelici sparse un po’ qua e là), ma bisognerà anche aggiungere che questa sopravalutazione non agisce sul terreno su cui è stata sempre collocata. Come mostrerò tra poco, ci sono poche speranze di rendere giustizia alla riflessione ejzenstejniana sul montaggio se la si priva di ciò che le è cooriginario: il pensiero dello spettatore e i modelli che possono descriverlo. In fondo, la questione del «geroglifico» (= dell’ideogram ma), del «cinerebus» (Balàzs), della cinescrittura, resta mal posta se si fa astrazione dai suoi obbiettivi comunicativi e, soprattutto, generativi. Il fatto che non vi sia una lingua cinematografica nel senso che non esistono né una grammatica né un lessico stabilito è un fatto noto da tempo, e ad Ejzenstejn per primo. Ciò che interessa, in questa metafora della lingua, è da vedere solo nei meccanismi, nei processi, nelle forme di apprendi mento: se si vuole, nel rapporto tra una competenza e una performanza, tra una produttività e una comprensione, in una parola, nel rapporto attivo dello spettatore (e dell’autore) nei confronti di questo cosiddetto «linguaggio». Ecco, in definitiva, la giustificazione ultima che Ejzenstejn dà - e si dà - del ricorso al montaggio in quanto tecnica universalmente operante: il montaggio è importante, anzi, di più, è la chiave della creazione in generale, perché appartiene per la sua stessa natura al fatto della creazio ne, sta dentro l’attività creativa - il montaggio infatti obbliga a creare. Per essere onesti dobbiamo ancora ricordare l’altra accusa mossa in genere contro Sergej «Montaggio» Ejzenstejn. Non solo, si dice, vuol vedere e produrre montaggio dovunque, ma poi non è capace di propor re una definizione di montaggio a cui attenersi. E il famoso argomento dell’instabilità teorica di Ejzenstejn, che i critici più indulgenti hanno inteso come una «deriva epistemologica»5 e quelli più severi come un’autentica debolezza del pensiero, che squalificherebbe il teorico Ejzenstejn come tale. Ho provato altrove a far giustizia di questa critica6,
■* M.-C. Ropars, Le lexte divise, Paris, puf, 1981. 5 D. Bordwell. Eisenstein's Epistemological Shift, in «Screen», vol. 15, n. 4, Winter 1974-75, pp. 32-46. 6 J. Aumont, Montage Eisenstein, Paris, Albatros, 1979, in particolare pp. 157 ss.
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forse con un pò* più di malafede polemica del necessario; ma, in fin dei conti, mi trovo ancora d’accordo col mio atteggiamento di allora: che interesse ha la deriva, che importano le contraddizioni, entrambe agevol mente riparabili: ciò che conta, come ho già detto prima, non è forse la permanenza del movimento e del suo obbiettivo? Se c’è qualcosa di imbarazzante in questa variabilità della teoria ejzenstejniana, credo piuttosto che debba trattarsi non tanto del fatto che essa, appunto, si modifica, quanto delle tattiche di diversione, di prote zione, di camuffamento che vengono necessariamente adottate. Mi sor prendo sempre, a ogni rilettura di Ejzenstejn, di fronte al peso di certe sue preoccupazioni o, più banalmente, di cene sue terminologie, perfet tamente datate, che risentono al tempo stesso dello scrupolo autoprotet tivo di cui ho appena detto e di una sicura permeabilità da parte delle mode o delle pressioni intellettuali e ideologiche. Per esempio: tutto ciò che, nel giovane Ejzenstejn, riecheggia la moda «costruttivista». Fatto tanto più sorprendente se si pensa che in seguito si sarebbe visto con perfetta chiarezza che Ejzenstejn in realtà era del tutto disinteressato al fondamento ideologico del costruttivismo, cioè all’amministrazione fun zionalmente corretta delle condizioni della vita quotidiana e alla subor dinazione delle forme e dei modi dell’arte a quest’unica determinazione. Ne erano nate, per esempio, quelle formulazioni intransigenti sulla necessità di «sopprimere il teatro in quanto tale» (nel Montaggio delle attrazioni-, un testo che, in ogni caso, non si vieta di legiferare «comun que» su questa forma superata - in perfetta incoscienza o in perfetta malafede). Ancor più inverosimile, nella stessa direzione, la vera e propria professione di fede, espressa nel Montaggio delle attrazioni cinematografiche, in favore di un’idea di bellezza intrinsecamente legata alla dimensione funzionale (peraltro limitata al fotogenico). Un’idea e un vocabolario destinati a sparire senza residui, e apparentemente senza rimpianti, dalla teoria ejzenstejniana. Per quanto riguarda più specificamente il montaggio, mi pare che uno dei tratti più bizzarri dell’attività teorica di Ejzenstejn - cioè la produzione, continuamente ripresa, di tipologie del montaggio - rispon da alla medesima tattica della cortina fumogena. Certo, in superficie vi si può cogliere (come nelle incongrue e inutili reminiscenze matematiche di IA28) una persistente nostalgia per la sua formazione scientifica, un amore un po’ ingenuo per le formule e le classificazioni, per le leggi e i teoremi. Certo, vi si può cogliere, ancora, il sintomo e la conseguenza di una concezione meccanica e dogmatica della Storia, intesa come succes sione rigida di tappe «dialetticamente» concatenate (e le tipologie della
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Quarta dimensione nel cinema e della Teoria generale del montaggio, che vorrebbero presentarsi al contempo come un catalogo ragionato di meto di di montaggio e come un profilo della storia del montaggio cinemato grafico, non raggiungono né l’uno né l’altro obbiettivo). Ma è pur vero che l’essenziale non è questo, e che l’apparente positività delle classifica zioni non fa che renderle più perversamente normative; nei due casi ap pena citati l’intenzione reale è chiara: si tratta di promuovere certi film (Il vecchio e il nuovo, Ottobre e, in filigrana, Il prato di Bezin) e, insieme, certe etichette teoriche (montaggio intellettuale, montaggio organico), per non dire di una più sotterranea promozione del nome-deli’-autore. Si tratta dunque soprattutto - ecco l’aspetto imbarazzante - di camuffare in vesti «scientifiche» sia l’obbiettivo propriamente promozionale sia l’incertez za concettuale. (Naturalmente, l’effetto ottenuto nella fattispecie non è quello previsto, e queste classificazioni, tanto perentorie quanto oscure, concorrono vigorosamente alla formazione dell’immagine di un Ejzen stejn pensatore approssimativo e «moticiclista»). Ecco dunque le principali critiche che si possono muovere all’Ejzenstejn teorico: esagerazione un po’ cieca della portata delle sue scoperte, malafede e astuzia nella loro esposizione. Resta da valutare la gravità di questi peccati, che sarà senza dubbio da attenuare ove si arrivasse a mettere in luce le possibili acquisizioni derivanti dalla teoria ejzenstejniana. Ora, a me pare non solo che tali acquisizioni ci siano, ma anche che esse vadano oltre ciò che generalmente conveniamo di descrivere come il sistema teorico e concettuale di Ejzenstejn. Nei limiti di questa prefazio ne esaminerò in breve: 1 ) le grandi concezioni del montaggio proposte da Ejzenstejn; 2) due concetti generali che vi si collegano; 3) infine, quello che mi sembra l’apporto potenzialmente maggiore del suo lavoro: una teorizzazione dello spettatore. Fin dal primo articolo pubblicato, Ejzenstejn sviluppa, e definisce con aggressività, una concezione spettacolare del montaggio: il famoso «montaggio delle attrazioni». L’idea di «attrazione», nonostante la sua ambiguità, non è priva di interesse; tuttavia l’articolo-manifesto del 1923 - è lo stesso autore a farlo notare - riguarda soprattutto il teatro ma, già solo a partire dal 1924, con un testo assai più lungo e denso, Il montaggio delle attrazioni cinematografiche (la cui pretesa consiste nell’adattare al cinema una nozione - l’attrazione, appunto - così fortemente implicata con lo show), si produce di fatto ciò che sarà destinato a configurarsi come uno spostamento necessario di quella nozione verso un’altra pro-
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Edematica, stavolta puramente cinematografica: il montaggio «intellet tuale». La grande differenza tra teatro e cinema, osserva Ejzenstejn in quest’ultimo testo, sta nella forza di connotazione, di evocazione, di associazione infinitamente superiore dell’immagine filmica: in tal modo la caratteristica apparentemente negativa del cinema in quanto signifi cante immaginario si rovescia di colpo in suo favore. Questa semplice osservazione sul potenziale «associativo» del cine ma evidenzia subito due tipi di conseguenze: essa induce a definire il cinema come mezzo di riflessione e concettualizzazione e sposta dalla parte dello spettatore l’autentico luogo della produzione del senso. Sul secondo argomento torneremo più avanti, ma osserviamo fin d’ora la ricchezza degli spunti che ruotano attorno a questo tema, in particolare nei testi che fondano la nozione di un cinema «intellettuale»: in IA28 si afferma che occorre mobilitare delle «serie associative prese nella riserva dello spettatore», e nelle Note sul «Capitale» si esplora dettagliatamente il modo (ipotetico) in cui si potrebbero far corrispondere le associazioni di idee prevedibili nello spettatore con la catena di associazioni nelle quali consisterà, alla lettera, il film. Il primo punto - la proposta di un cinema dei concetti - è ad evidenza il più sorprendente. «E ancora molto diffìcile pensare “comme qa” in immagine e senza soggetto. Ma poco importa, “ ga viendra” »: questa nota (del 4 aprile 1928) ci dà la misura, vagamente mostruosa, della nozione di cinema intellettuale-, un cinema che, come minimo, mirerebbe a sostituir si al pensiero, a riprodurne i meccanismi o, più ambiziosamente, a produrli. È noto che Ejzenstejn non ha mai veramente detto, e a ragione, in che modo intendeva esattamente realizzare questo tipo di cinema; è noto anche che, in alcuni testi del 1928 e 1929, egli ha abbozzato, e talvolta non senza precisione, certi principi formali e semiotici che apparterrebbero necessariamente a un tale cinema. Non riprenderò qui l’analisi di questi principi, che è già stata fatta in diverse occasioni7. Vorrei solo cercare di vedere (nei limiti di una riflessione a posteriori) dove si trovava il punto debole che impediva alla teoria di giungere a compimento. Se dovessimo riassumere, «modellizzare» la teoria del cinema intel lettuale potremmo avanzare un’articolazione in tre tempi: 1) associazio ne; 2) astrazione; 3) razionalizzazione. Il primo tempo, come si è già detto, sarebbe quello che, muovendo indifferentemente dallo spettatore 7 Si veda, per esempio. B. Amengual. Que Viva Eisenstein, Lausanne, L’Age d’homme, 1980, e J. Aumont, op. di.
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o dall’autore, dovrebbe operare sull’immagine cinematografica in quan to fonte delle associazioni, lasciare libero gioco alle associazioni (su tutti i livelli e su tutti i piani: «il cinema intellettuale sarà capace di realizzare la combin azione conflittuale degli armonici fisiologici e degli armonici intel lettuali», si dice nella Quarta dimensione nel cinema, e ciò significa, in termini più chiari, che l’immagine filmica produce sia associazioni di ordine intellettuale che associazioni di ordine sensoriale). Cogliamo qui subito due problemi, due punti di frizione della teoria: in primo luogo, di chi sono le associazioni? Ejzenstejn naturalmente vorrebbe che fossero dello spettatore, ma non può rinunciare al fatto che si tratti, anche, delle sue, delle associazioni di Ejzenstejn. Certo, l’ideale sarebbe che lo spetta tore associasse nello stesso modo in cui ha associato l’autore... Questa sorta di double bind ossessiona tutte le Note sul «Capitale» : bisogna dare allo spettatore nutrimento sufficiente perché gli venga voglia di associa re, di derivare / bisogna canalizzare questa deriva, averne già percorse e valutate tutte le vie possibili e, soprattutto, averne scelta e indicata una sola. Secondo problema (che forse è solo un altro aspetto del primo): dove passa la linea di demarcazione tra il sensoriale e l’intellettuale, e come tracciarla? Nel suo pellegrinaggio teorico, Ejzenstejn non smette di urtare contro questo problema come si urta contro un muro - e le «soluzioni» che propone somigliano tutte ad altrettante pie illusioni: «Solo il cinema intellettuale saprà porre fine alla contraddizione tra il “linguaggio della logica” e il “linguaggio delle immagini” in virtù della cinedialettica. [...] Cinema della massima presa di coscienza e della massima sensualità, che possiede fino in fondo l’arsenale di tutti i mezzi d’influenza derivanti da stimoli visivi, acustici e biomotori» (Prospettive, 1929). Ma di fatto la logica del montaggio intellettuale ha già operato una scelta: se, come ho proposto, il suo secondo tempo è Yastrazione, allora bisogna dire che, senza averlo mai confessato a chiare lettere, Ejzenstejn ha dovuto, almeno provvisoriamente, rinunciare all’altro termine, alla sensorialità, alla sensuosità. Un’espressione, qui, appare indicativa: è quella di «deaneddotizzazione», ampiamente utilizzata da Ejzenstejn nel suo lavoro sul Capitale. Soprattutto, niente aneddoti come tali, vale a dire: niente scena, niente personaggi, nessun racconto focalizzato, nessu na soggettività nella narrazione. Ogni aneddoticità dovrà essere epurata, ridotta a qualche grande tratto significativo, generale, astratto appunto. Nel cinema intellettuale le rappresentazioni concrete devono fungere da semplice materiale di partenza, da giacimento di astrazioni: il processo filmico consiste in primo luogo neYY estrarre queste astrazioni. Il film non sarà più costruito a partire da unità «eventuali» ma da unità ideali; in
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modo ancor più preciso, ogni frammento di film avrà senso non tanto in virtù del carico figurativo che continua a veicolare, quanto in virtù del valore associativo (talora confuso con un puro e semplice valore metafo rico) di queste figurazioni. La chiusura del sistema (tutti i sistemi di Ejzenstejn sono chiusi) è assicurata dal terzo tempo, quello che ho definito della «razionalizzazio ne». Conscio delle aporie che nascono dalla duplice nozione di associa zione e di astrazione, nel momento in cui elabora la nozione di montag gio intellettuale Ejzenstejn probabilmente si accorge da un Iato che la contraddizione tra figuratività sensibile e astrazione significante è sem pre meno risolvibile e, dall’altro, che non gli riesce di concepire il film se non come discorso articolato, intenzionale e controllato. La scappatoia, allora, può essere solo un’ulteriore sistematizzazione del sistema abboz zato. Le associazioni non sono davvero controllabili, non si sa chi è che deve veramente produrle? Bene, basta decretare che appartengono al film e il gioco è fatto: non sarà al singolo frammento, allora, che spetterà il compito di innescare la catena associativa ma, al contrario, sarà il montaggio, l’articolazione dei frammenti, il contesto che il film rappre senta per i singoli frammenti a caricarsi del compito di ridurre il processo associativo, di sorreggerlo, di canalizzarlo. Quanto al piacere spettatoriale (al quale Ejzenstejn tiene enormemente: è forse questa la cosa più sorprendente e, per noi oggi, la più importante dell’intera operazione), se non potrà essere assicurato dalla carica sensoriale specifica di ogni singolo frammento (ancora una volta il danno consisterebbe in una dispersione, in una perdita di controllo), basterà dire che sarà prodotto dal principio stesso dell’articolazione del senso, di nuovo dunque dal montaggio. «Emozionalizzare: noi lo facciamo e dobbiamo farlo quand mème» (nota del 4 aprile 1928; il «quand mème» è ammirevole), ma ciò che importa è come farlo: per esempio, «attraverso una serie di stimoli filmici portare lo spettatore fino a un certo effetto emozionale e poi dare la scritta: “Eccovi portati al punto di...” ecc. ecc.» (nota del 7 aprile 1928): piacere previsto, segnalato, canalizzato e, infine, fruito. Per fragile che sia l’impalcatura, è comunque dal vertice che Ejzenstejn ritiene di farla stare in piedi, mettendo sotto controllo tutt’insieme l’attività spettatoriale (associazione, emozione, piacere, intellezione), l’attività creatoriale (associazioni, calcolo, selezione), la coerenza del testo filmico (siste ma delle associazioni-metafore-connotazioni e loro articolazione discor siva), e «pertanto», beninteso, la sua efficacia. Il richiamo monotono e rituale al successo effettivamente ottenuto, nella realtà della proiezione cinematografica in sala, dalla «scalinata-salita-da-Kerenskij» o dagli
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«dei» di Ottobre sta là a dimostrarlo (al prezzo di un paralogismo implicito, per cui se la cosa funziona è perché il principio era corretto, e perché, inoltre, tale principio altro non era che quello del montaggio intellettuale). Scacco del cinema intellettuale: certo a causa di un contesto storico poco favorevole sul fronte dell’arte e su quello dell’ideologia. Ma anche, credo, a causa del suo vizio di fondo: l’imprigionamento del potere «associativo» dell’immagine filmica appena suscitato nei ceppi di un dominio senza remissione. E questo incontenibile desiderio di restare il padrone assoluto del gioco che obbliga Ejzenstejn a tener sempre per sé tutte le carte della partita e, in fin dei conti, a impedire a chiunque altro di giocare. L’errore, più profondamente, sta forse nel cercare sempre in che modo il cinema possa materializzare delle idee senza mai aver sentore del fatto che se è vero che il cinema pensa, può darsi che ciò non debba necessariamente configurarsi come un semplice ricalco del pensiero. Cinema intellettuale-, l’etichetta, in fondo, lo diceva bene. Malgrado il radicalismo, l’avanguardismo delle formulazioni, non poteva che trattar si di un tentativo di associare il fìlmico al dominio del discorsivo e dell’intelligibile. (Cinquant’anni dopo, se prima Lyotard, poi Deleuze, hanno voluto vedere nel cinema una gigantesca macchina psichica, ciò è accaduto, al contrario, proprio nel tentativo di voler isolare ciò che ne costituisce la singolarità rispetto all’esercizio del pensiero logico). Questo scacco del montaggio intellettuale sarebbe stato successiva mente accettato da Ejzenstejn, come si ricorderà, dopo un tentativo abbastanza lungo di autoilludersi (lo attesta, in particolare, il suo lavoro di conferenziere e di sceneggiatore in Germania, in Francia e negli usa intorno al 1930). Accettazione un po’ forzata, accelerata dal trauma del film messicano sabotato, dalle innumerevoli lavate di capo subite al ritorno in urss e, infine, dalle umiliazioni che gli furono abbastanza sadicamente inflitte nel corso del Congresso dei cineasti sovietici nel 1935. Esaminerò tra poco le tracce della teoria del montaggio intellettua le che continuarono a turbare il pensiero di Ejzenstejn durante questo periodo di transizione e di difficile riadattamento. Prima, però, vorrei discutere, per un confronto il più possibile diretto delle due grandi teorizzazioni del montaggio del nostro autore, quello che per comodità chiamerò «montaggio organico», cioè, per esempio, quel montaggio che in uno dei testi presenti in questa raccolta viene indicato con l’etichetta di «montaggio verticale». Questa seconda e ultima teorizzazione, che occupa gli anni 1937-40, viene effettuata sostanzialmente nel lungo trattato oggi noto col titolo di
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Teoria generale del montaggio, in Montaggio 1938 e in Montaggio vertica le. Che c’è da osservare? Essenzialmente, dal mio punto di vista, una sorta di sfaldatura, un desiderio che si sdoppia in modo incompatibile e riproduce la «forbice» teorica, il double bind già segnalato a proposito delle teorie del 1929: lo scarto, ancora una volta, tra la sfera del sensoriale e quella dell’intellettuale. Il sensoriale: non più solo affermato come una necessità un po’ astratta, una contingenza sempre sul punto di creare pentimenti, ma finalmente oggetto di autentici tentativi (maldestri, parziali, tutto quel che si vuole, ma reali) di definizione e di esplorazione. Si comincia con certe osservazioni marginali fatte, en passant, a proposito del Potémkin (cfr., per esempio, in «Eh!» La purezza del linguaggio cinematografico Ejzenstejn che, con un atteggiamento pseudocomico, prende la difesa della vista, dell’occhio dello spettatore, delle sue orecchie, affermando il loro diritto a non essere feriti da immagini e suoni di cattivo gusto). Si procede, con ben altra ampiezza e sicurezza, con le lunghe digressioni di Montaggio verticale sui rapporti tra musica, colore e film. Certo, queste pagine, come accade troppo spesso in Ejzenstejn, sono un vero e proprio accumulo, un aggregato di erudizione da cui non viene fuori un’idea chiara e ben definita; i lunghi sviluppi sul simbolismo dei colori (senz’al tro quanto di più debole Ejzenstejn abbia scritto a proposito del colore o di più debole in assoluto), sfilacciati e labirintici, non si prestano facil mente a produrre conclusioni; la ripresa precipitosa del tema della sinestesia, poi, appare decisamente poco convincente. I difetti, ripetia molo, sono qui numerosi e facili da denunciare: Ejzenstejn vuol strafare, le sue citazioni finiscono per contraddirsi reciprocamente; inoltre - e questo è più grave - pretende di far passare per fatti accertati, quasi scientifici, fenomeni del tutto eccezionali (è tutt’altro che onesto, per esempio, dar «prova» delle corrispondenze tra tonalità di colore e tonalità musicali ricorrendo alla sensibilità straordinaria, ai limiti del patologico, di un Cajkovskij)*. Tuttavia, e malgrado questi difetti, emer ge dovunque, in queste pagine, un desiderio, una volontà reale di affrontare il problema senza più riserve, senza più accontentarsi dell’ap pello rituale alla «inevitabile sensorialità dell’immagine», e uno sforzo di capire in che cosa, infine, consista questa «sensorialità».
8 Lo stesso si potrebbe dire a proposito del riferimento, frequente in Ejzenstejn, a Debussy e Skrjabin come «prova» che la musica si fonda sugli armonici (e si veda, in questo libro, La quarta dimensione nel cinema) : ognuno sa che questi due musicisti (sono gli stessi musicisti a dirlo, non io) avevano un orecchio totalmente fuori dell’ordinario.
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Certo, proprio su questo punto, Ejzenstejn è visibilmente handicap pato: come si può pensare il colore e, più in generale, la dimensione plastica dell’immagine cinematografica, se nel 1938 (1938!) ci si trova ancora a dover decretare che Kandinskij, Klee, Delaunay e compagni hanno realizzato solo informi scarabocchi? Un confronto con un contem poraneo come Moholy-Nagy sarebbe chiarificatore: è abbastanza stupe facente ritrovare in Film Foto Malerei ( 1925 ) di quest’ultimo esattamente gli stessi riferimenti di Montaggio verticale — Skrjabin e il «clavicembalo ottico» di padre Louis-Bernard Castel, e tutto l’armamentario delle corri spondenze suono-colore — ma posti alla base di un sistema plastico e formale totalmente astratto, il che, per lo meno, è abbastanza coerente, mentre Ejzenstejn si vede costretto ad «applicare» queste corrisponden ze a un materiale che oppone loro resistenza: il film drammatico. Ho insistito un po’ sul problema del colore e sulle manifeste aporie della teorizzazione che Ejzenstejn ne dà in questo libro, per meglio affermare quanto segue: è forse proprio a partire da uno sviluppo della riflessione sul colore (questa riflessione appassionata, amorevole sul colore) che avrebbe potuto costituirsi un'altra teoria ejzenstejniana. Non è un caso che Ejzenstejn sia morto nel bel mezzo di una lettera a Kulesov sul colore, e ancor meno che il colore sia utilizzato, in Ivan il Terribile, per filmare un’orgia. L’«altro» Ejzenstejn, quello che, chissà, avrebbe forse superato definitivamente il blocco costituito dalla contraddizione tra sensoriale e intellettuale, si trova in germe nelle pagine sul colore (cfr., passim, il volume intitolato 11 colore) e quasi in nessun altro posto. E certo, comunque, che nei testi che definiscono il montaggio organi co ne siamo ben lontani. Dopo aver sottolineato i tratti che attestano l’ostinata preoccupazione di render giustizia alla dimensione sensoriale dell’immagine, dobbiamo ora rapidamente ricordare che la teoria degli anni 1937-40 recupera, reintegra, riassorbe questa sensualità. L’operato re di un tale riassorbimento è la nozione di «immagine» o «immagine globale», [’«obraz» del testo russo. Malgrado il suo nome, l’immagine globale non ha niente che fare con l’«iconico» nel senso di Peirce: presentata ora come metafora, ora come «generalizzazione», ora come interpretazione dei dati figurativi della rappresentazione, essa costituisce il grande principio unificatore posto da Ejzenstejn alla base della sua concezione; un principio, una volta di più, di ordine puramente intellet tivo. (Lo prova, se è necessario, quell’osservazione di Montaggio verticale secondo la quale l’immagine globale può prendere forma muovendo da materiali diversi così come la struttura musicale nasce dalla polifonia: un’indifferenza nei confronti del’ materiale che fa dell’immagine un
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sicuro equivalente dell’idea). Non dobbiamo lasciarci illudere dal fatto che Yobraz possa realizzarsi in una singola immagine (nel senso comune del termine), in una singola inquadratura: pur se in termini più sintetici, essa conferma l’idea del montaggio intellettuale, l’idea di un senso che orienta la rappresentazione essendovi iscritto, e per il fatto di esservi iscritto. D’altronde, il carattere chiuso dell’opera d’arte presupposto dalla concezione del montaggio organico era già chiaro da un pezzo. Nella seconda parte del Montaggio delle attrazioni cinematografiche, Ejzenstejn espone un’analisi del movimento dell’attore che, certo, è per più versi tributaria delle tesi sulla «nuova antropologia dell’attore» (a quell’epoca divenute di moda nella ristretta cerchia dei cineasti grazie a Kulesov)9, ma anticipa anche, in modo sorprendente, qualcosa che nel 1938 sarà enunciato come un fondamento generale. Le «norme dell’organicità» nei processi motori, si dice, sono riconducibili a tre principi: 1) il principio di totalità; 2) il principio del centro di gravità; 3) il principio della «liberazione». Indubbiamente non è possibile una completa trasposizio ne letterale di questi principi che mirano ad analizzare il comportamento del corpo umano, ma le grandi linee ci sono già tutte: il principio di «totalità», che vuole che a ciascun movimento locale partecipi il corpo nel complesso, prefigura un rapporto tutto-parti che è, pari pari, il rapporto che il film «organico» mirerà a stabilire tra l’opera intera e i suoi frammenti; il principio del «centro di gravità» è, metaforicamente, il luogo che allaccia questa totalità, che la fa tenere insieme; in termini analogici, totalità e centro di gravità andranno a realizzarsi, precisamen te, nel funzionamento dell’immagine globale (che unifica le parti etero genee e le munisce di un centro); infine l’idea di «liberazione» (raskreposcenie), o piuttosto di Entspannung, di rilassamento, è ben presente nelle numerose descrizioni di Ejzenstejn della dinamica del film intesa come «dialettica» tra tempi forti e tempi deboli, tra durate prolungate e improvvisi colpi di tuono. «Organico»: il film è un corpo. Ejzenstejn cita (ripetute volte) la frase dei Quadernifilosofici dà Lenin: «Il tutto e le parti, solo nel cadavere»; e si preoccupa costantemente di dar prova che il film, nella sua concezione, è un organismo vivente, percorso da innumerevoli e incessanti conflitti (dialettici, evidentemente). Nondimeno, anche se non c’è un Tutto finito, fissato una volta per sempre, il presupposto dell’organicità del montaggio 9 Cfr. M. Jampolski, Les experiences de Koulechov et la nouvelle antbropologie de l'acteur, in «iris», voi. 4 (1986), n. 1, pp. 25-47.
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è comunque un processo di ritotalizzazione permanente delle parti (dei frammenti). Il testo è una totalità, vivente se si vuole, ma chiusa, e sempre posta sotto la dipendenza del senso, dell’immagine globale. Sono in gioco, dunque, due concezioni del montaggio che, dall’intel lettuale all’organico, al di là delle evidenti differenze, mantengono lo stesso rapporto di dominanza dell’intelligibile sul sensibile, pur attestan do, per altri versi, una viva preoccupazione di non neutralizzare del tutto, alla fine, questo livello sensibile. Anche se la deriva epistemologica è autentica (Ejzenstejn non fa più riferimento allo stesso corpus di saperi costituiti) sarebbe certo un sopravalutarla il non accorgersi di quanto, fin dall’inizio, l’idea di organicità fosse già presupposta dal montaggio intel lettuale. Si direbbe che, ogni volta che sistematizza, Ejzenstejn ritorna su questo principio ossessivo (legato evidentemente alla sua fantasia di controllo): determinare per intero, in ultima istanza, il lavoro della forma, dell’espressione, per mezzo di un contenuto, di un senso. Tanto più interessanti, e potenzialmente rivelatori, quindi, i momenti della sua riflessione che sfuggono a questa sistematizzazione. Ho parlato prima del tema del colore; bisognerebbe aggiungere i curiosi tentativi del periodo «intermedio», quello in cui Ejzenstejn sconta la disperazione per non aver consumato la sua storia d’amore col Messico, il periodo in cui rasenta la scomunica e i suoi rischi (estremi), il periodo, infine, in cui si dedica anima e corpo all’insegnamento. Viene spesso messa in evidenza, a proposito di questo periodo, l’idea del «monologo interiore», introdotta, per esempio, in Servitevi! (1932): un modello che mescola Joyce allo stream-of-consciousness di James e che pretende di risolvere tutti i problemi formali nati con l’apparizione del cinema sonoro. Esposta in questi termini, l’idea è perfettamente arbitraria (ed è proprio ciò che se ne dice il più delle volte): perché mai il monologo interiore dovrebbe diventare la forma privilegiata del raccon to, di ogni racconto? E perché diavolo il cinema sarebbe più appropriato a ciò della letteratura? In realtà, limitarsi a questo aspetto del monologo interiore come innovazione formale significa non coglierne l’essenziale. E sufficiente, per accorgersene, integrare Servitevi! e le sue dichiarazioni lapidarie e programmatiche con le tesi assai più esplicite contenute nel lungo intervento di Ejzenstejn al Congresso dei cineasti sovietici ( 1935). In primo luogo, il monologo interiore viene presentato in quella sede come un antidoto agli «eccessi» del cinema intellettuale (si ricorderà che questo intervento si configura al tempo stesso come un testo autocritico e
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una polemica): a quell’eccesso, tra l’altro, che tendeva ad accordare al film null’altro che la capacità di dare espressione a un processo intellet tuale. Secondo le parole di Ejzenstejn: «La tecnica del “monologo interiore” può servire anche da struttura per costruzioni diverse rispetto alla semplice riproduzione di un monologo interiore». Ma questa tecni ca, in secondo luogo, è giustificata perché ha radici ben più profonde, che Ejzenstejn, nello stesso intervento, esplicita con la definizione di «pensiero prelogico». Che cos’è il pensiero «prelogico»? Parecchie cose, a dire il vero, nel testo del 1935, che mette insieme alla rinfusa il pensiero primitivo (nel senso di Lévy-Bruhl), il pensiero sensoriale (in particolare il cosiddetto «pensiero visivo»), certi aspetti del pensiero «regressivo» (come quello di alcuni malati mentali) e, certo, anche il «monologo interiore». L’inte resse della nozione per la teoria del montaggio sta nel fatto che essa rappresenta effettivamente l’unico tentativo un po’ spinto di superare la contraddizione (tra spettatoriale e creatoriale, tra sensoriale e intellettua le) che affligge il montaggio intellettuale. Certo, la dimostrazione non è portata fino in fondo (nonostante l’accumulo di esempi, resta difficile sostenere che l’arte si fonda solo su simili processi «prelogici»), ma Ejzenstejn sembra sbilanciarsi assai nettamente, in quel momento, verso un’altra concezione del cinema, fondata sull’empatia, il pathos e la catarsi, una concezione che mette in primo piano l’espressività e non il controllo assoluto del senso. Servitevi! e l’intervento del 1935 non compaiono in questo libro e dunque non vi insisterò oltre. Resterebbe comunque importante, credo, valutare (non lo si è mai fatto davvero) tutte le conseguenze di quella che, spinta a un punto limite, sarebbe stata ben più che una semplice «deriva». E non sarebbe privo di interesse interrogarsi sulle ragioni che spinsero Ejzenstejn, nel 1937, a rinunciarvi per tornare precipitosamente sul terreno familiare dell’intellettuale/organico, per tornare a un’ossessione di controllo ancor più onnipresente, e infine a una pratica più ermeticamente chiusa che mai (Aleksandr Nevskij e la sua incredibile compattezza: nessun interstizio dove lo sventurato spettatore possa andare a cercare un po’ d’aria...).
A rischio di semplificare, ho voluto ridurre la concezione ejzenstejniana del montaggio (del cinema) a due o tre grandi idee direttrici (e suggerire il profilarsi di un altro discorso, che virtualmente ne perturba il bell’ordine). Come ho già anticipato, vorrei ora esaminare il destino riservato, in questo libro, a due concetti generali, entrambi legati al montaggio, entrambi appartenenti al fondo permanente della teorizza
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zione di Ejzenstejn: si tratta dell’inquadratura nella sua accezione speci fica di cornice, e del frammento. (Va osservato che questa scelta è in parte arbitraria: se non mi occupo, tra le altre cose, né della questione del conflitto né di quella della forma, la ragione è che mi pare di aver molto poco da aggiungere a quanto può essere già stato detto, da altri o da me, a proposito del loro trattamento in Ejzenstejn). La cornice innanzitutto. Una parola, e una problematica, che volens nolens Ejzenstejn deve prendere insieme a tutto il peso della tradizione teorica - e pratica — che vi si collega. Come che sia (si pensi, per esempio, allo scherno nei confronti della pittura da cavalletto in Fuori campo) la cornice si lega necessariamente alla storia della pittura occidentale; al suo apogeo, diciamo tra il 1600 e il 1900, la cornice pittorica è almeno tre cose diverse, tre fenomeni: 1) una cornice-oggetto, in legno scolpito e dorato, per esempio; sotto un profilo economico è ciò che arricchisce il quadro, sottolineando il suo valore di arredo e di oggetto venale; sotto un profilo semiotico, è ciò che segnala l’opera in quanto opera d’arte e la inserisce così in un ambiente; 2) una cornice-limite-, ciò che essa contiene è il quadro, ciò che non contiene appartiene a un altro spazio; sotto un profilo semiotico essa designa l’opera in quanto discorso (nella pittura classica e barocca la cornice è anche, esplicitamente, cornice della istoria)-, sotto un profilo estetico essa organizza una superficie in maniera pittorica (donde il termine talvolta utilizzato di cornice compositiva)-, 3) una cornice-finestra-, il quadro apre su una diegesi; invita a penetrarvi o, al contrario, fa mostra di volerla preservare, comunque presuppone e induce sempre uno spettatore sottomesso a un certo regime di credenza (un regime duplice: la cornice-finestra sfalda il soggetto tra credenza e diniego); negandosi come tale, aprendo sull’immaginario, la cornicefinestra neutralizza, in qualche modo, le prime due. Ci si vorrà perdonare questo schema un po’ selvaggio e l’uso di una terminologia di fortuna che ha il solo scopo di sintetizzare. In particolare è importante, specie in rapporto a Ejzenstejn - che vuole sempre situarsi storicamente, ma non esita a riscrivere qua e là la storia delle arti figurative - ricordarsi dei mutamenti delle tre funzioni della cornice nel corso di tale storia. Prendiamo un caso particolare ma centrale, quello inquadratura (cadrage). La parola (che in francese, per esempio, è recente: 1924 secondo il dizionario Robert), designa un fenomeno - la mobilità virtuale della cornice in rapporto all’oggetto o alla scena rappre sentata - che compare intorno al 1800, alla vigilia dell’invenzione della fotografia, e marca profondamente, tra l’altro, la pratica del paesaggio
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nel xix secolo10. Fondamentalmente, l’inquadratura è legata al posizio namento di un punto di vista, al posizionamento attivo di un punto di vista potenzialmente mobile; il posto del cinema nella storia della rap presentazione occidentale è evidentemente quello di aver incarnato l’inquadratura, inclusa la mobilità, in un’apparecchiatura. È questo, precisamente, il presupposto su cui si basa Ejzenstejn in Fuori campo (1929) quando, a proposito della stampa giapponese, descrive un tale inquadramento come un’operazione compiuta da un occhio mobile che di colpo si blocca, un occhio che si potrebbe definire fotografico tanto ricorda ciò che Cartier-Bresson ci ha insegnato a considerare, in fotogra fia, come un «incontro della geometria e dell’istante». Altrove, per esempio nel celebre corso su Delitto e castigo, Ejzenstejn si servirà ancora (in modo diverso) di questa virtù della cornice come veduta, come finestra: una finestra dai bordi affilati, che opera un taglio nel reale, un Ausschnitt, come egli dice, ma, infine, pur sempre una finestra. Sembra dunque indispensabile far subito osservare che, a dispetto della «defini zione» dell’inquadratura come stadio primitivo o embrionale del mon taggio, avanzata in Teoria generale del montaggio (1937), Ejzenstejn concepisce - e pratica - anche l’inquadratura-cornice come apertura su una profondità apparente, su una scena drammatica, come inquadra mento e, se si vuole, come finestra. Naturalmente sarebbe poco conforme al vero vedere in ciò la funzio ne dominante dell’inquadratura in Ejzenstejn. Nell’operare un taglio (l’obbiettivo della macchina da presa non ha forse prodotto la bizzarra metafora dell’^c/