Robert Zemeckis. Ediz. illustrata 8831793942, 9788831793940

Robert Zemeckis è oggi il più "sperimentale" dei registi hollywoodiani. Attraverso un rapporto privilegiato co

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Italian Pages 140 [183] Year 2008

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Table of contents :
Copertina
Abstract - Autore
Frontespizio
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Il cinema di Robert Zemeckis. Per un’immagine ibrida e meticcia. Di Gianni Canova
Carne, carta e pixel: l’ibridazione materica
Visioni del non visibile: l’ibridazione scopica
Tempo e spazio: l’ibridazione diegetica
Il ritorno del fantasma: l’ibridazione intertestuale
Robinsonismo postmoderno: l’ibridazione fra iconico e idolico
Chi ha incastrato Roger Rabbit. Di Marco Toscano
L’uragano Roger: un cinema senza autore, senza certezze, fuori controllo
Segnali di passaggio: immagini, generi, corpi
Mr. Valiant va a Cartoonia
Ritorno al futuro. Di Vincenzo Buccheri
1. Una trilogia
2. Un’estetica postmoderna
3. Ritorno all’Edipo
4. Reagan e Chuck Berry
5. Il Grande Altro
Forrest Gump. Di Riccardo Caccia
Confessioni
Immissioni
Omissioni
Cast Away. Di Roy Menarini
Il tempo e lo spazio. Struttura del film
Parte I
Parte II
Parte III
Parte IV
Cast away come atopia
Feticci globali
Le verità nascoste. Di Luisella Farinotti
Lo spazio liquido (emersioni)
La scena allo specchio
L’ordine della trasparenza
Note al testo
Biografia. A cura di Ivan Moliterni
Filmografia. A cura di Ivan Moliterni
Bibliografia
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Robert Zemeckis. Ediz. illustrata
 8831793942, 9788831793940

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Robert Zemeckis è oggi il più “sperimentale” dei registi hollywoodiani. Attraverso un rapporto privilegiato con la tecnologia, il suo cinema persegue il sogno di generare immagini ibride e meticce, che sappiano fondere e coniugare la tradizione analogica con l’innovazione digitale. insegna storia e critica del cinema all’Università IULM di Milano. Fondatore e direttore del mensile «Duel» (ora «Duellanti»), è stato critico cinematografico per «il Manifesto», «la Repubblica» e «la Voce». Attualmente conduce una rubrica quotidiana di cinema su Sky. Per Marsilio ha curato il volume XI 1965/1969 de La storia del cinema italiano (in coedizione con Edizioni di Bianco & Nero). GIANNI

CANOVA

Robert Zemeckis a cura di Gianni Canova Marsilio

elementi sequenze d’autore a cura di Paolo Bertetto © 2008 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione digitale 2015 ISBN 978-88-317-3962-7 www.marsilioeditori.it [email protected] Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Seguici su Facebook Seguici su Twitter Iscriviti alla Newsletter

Indice Copertina Abstract - Autore Frontespizio Copyright Il cinema di Robert Zemeckis. Per un’immagine ibrida e meticcia di Gianni Canova Carne, carta e pixel: l’ibridazione materica Visioni del non visibile: l’ibridazione scopica Tempo e spazio: l’ibridazione diegetica Il ritorno del fantasma: l’ibridazione intertestuale Robinsonismo postmoderno: l’ibridazione fra iconico e idolico Chi ha incastrato Roger Rabbit di Marco Toscano L’uragano Roger: un cinema senza autore, senza certezze, fuori controllo Segnali di passaggio: immagini, generi, corpi Mr. Valiant va a Cartoonia Ritorno al futuro di Vincenzo Buccheri 1. Una trilogia 2. Un’estetica postmoderna 3. Ritorno all’Edipo

4. Reagan e Chuck Berry 5. Il Grande Altro Forrest Gump di Riccardo Caccia Confessioni Immissioni Omissioni Cast Away di Roy Menarini Il tempo e lo spazio. Struttura del film Parte I Parte II Parte III Parte IV «Cast away» come atopia Feticci globali Le verità nascoste di Luisella Farinotti Lo spazio liquido (emersioni) La scena allo specchio L’ordine della trasparenza Note al testo Biografia a cura di Ivan Moliterni Filmografia a cura di Ivan Moliterni

Bibliografia

Il cinema di Robert Zemeckis. Per un’immagine ibrida e meticcia di Gianni Canova Robert Zemeckis, forse, non è un autore. Non lo è, verrebbe da dire, perché il suo lavoro di cineasta non rientra nei canoni dell’autorialità messi a punto dalla critica e dalla teoria del cinema almeno a partire dai tempi in cui i giovani turchi dei «Cahiers du cinéma» teorizzavano la cosiddetta politique des auteurs1. Ma in modo analogo, in secondo luogo, Zemeckis risulta complessivamente estraneo anche a quelle nuove forme di autorialità debole e mediatica che si sono andate delineando all’interno del cinema postmoderno2: non si può dire di lui che sia un’auctoritas, come possono esserlo, ad esempio, David Lynch o David Cronenberg; ma non è neppure un brand, come il suo amico e sodale Steven Spielberg; e non è neanche un narciso che galleggi sui flutti della comunicazione mediatica, diventando «il personaggio di una delle tante narrazioni che il cinema può raccontare»3, come sono – almeno in parte – tanto Lars von Trier quanto Nanni Moretti o Quentin Tarantino. Zemeckis, ancora, non è un autore perché anche in sede critica stenta ad affermarsi l’idea che lo sia: la maggior parte dei critici e dei recensori ostenta anzi, nei suoi confronti, un sussiego spesso venato di diffidenza, e il successo commerciale di molti suoi film, assieme ai numerosi riconoscimenti ricevuti dall’establishment hollywoodiano (si pensi anche solo ai sei Oscar andati a Forrest Gump, 1994), non facilitano la sua canonizzazione presso gli adepti del culto esoterico della cinefilia. La bibliografia che lo riguarda, non a caso, è tuttora relativamente esigua: a fronte dell’interesse suscitato dai suoi film e documentato da una mole significativa di interventi e recensioni, risultano invece limitati e spesso scarsamente significativi i contributi e gli studi che

prendono in esame il complesso della sua opera, come avviene invece per altri “autori” riconosciuti, sia classici che moderni o postmoderni4. E tuttavia, paradossalmente, Robert Zemeckis risulta interessante proprio per questo: se è vero che nel campo degli studi cinematografici – come denunciava Leonardo Quaresima già più di dieci anni fa – si assiste a un’ingiustificata e tenace persistenza della nozione di autore, «malgrado le trasformazioni radicali di questi ultimi anni, che hanno portato a un “oggetto cinema” totalmente nuovo e diverso rispetto a quello del passato»5, Zemeckis sembra sottrarsi in modo deciso a questa tendenza. Come se il suo lavoro di cineasta fosse costruito in modo tale da impedire o – quanto meno – da sconsigliare la reiterata applicazione della categoria dell’autorialità. Come se il suo cinema non tollerasse e anzi respingesse l’arretratezza dello stato dei “discorsi sul cinema”, e svelasse la scarsa produttività di un approccio che continua a usare una strumentazione obsoleta anche di fronte a dispositivi filmici, linguistici e tecnologici che non hanno quasi più nulla a che vedere con quelli su cui tale strumentazione si è a suo tempo formata. Zemeckis, insomma, risulta interessante per la resistenza che oppone alla possibilità di essere assunto dentro le vecchie categorie dell’istituzione critica: benché nei suoi film siano ravvisabili uno stile, un’estetica e forse finanche una poetica, c’è qualcosa nel suo cinema – nei suoi modi di produzione, nei suoi statuti comunicativi, nel legame che intrattiene con l’immaginario collettivo – che impedisce (o sconsiglia) di riconoscere a chi ne è “regista” lo statuto di “autore”. Lo stesso Zemeckis, non a caso, da un certo momento in poi espunge il suo nome dai titoli di testa di tutti i suoi film, rinunciando in modo esplicito e quasi ostentato – come nota Luisella Farinotti nel saggio contenuto in questo volume – a rivendicare la propria paternità autoriale sulle singole opere e

delegando casomai al logo della casa di produzione il compito di “marcare la soglia” e di firmare il film. La ragione di questa refrattarietà, o di questa inassimilabilità, è probabilmente duplice. Da un lato, nel cinema di Zemeckis si rivela, quasi epifanicamente, quell’idea di «intelligenza distribuita e cooperativa»6, quell’approccio collaborativo che moltiplica le entità creatrici e si avvale delle possibilità offerte di volta in volta dalla tecnologia per mettere a punto nuovi modi di produzione dell’immagine artificiale che finiscono per decostruire (o per rendere impraticabile) la nozione tradizionale di autorialità. Dall’altro lato, nel suo rendersi generosamente disponibile alle ragioni e alle esigenze mutevoli dell’industria culturale in una fase di vorticosa trasformazione, nel suo lavorare deliberatamente sui generi nella fase della loro deriva, nel suo essere sempre dentro l’industria ma mai banalmente al suo servizio, Zemeckis si differenzia tuttavia anche da quegli alfieri della neo-spettacolarità hollywoodiana che come lui lavorano con grandi budget e su progetti kolossal (Jan De Bont, Paul Verhoeven, Michael Bay, lo stesso James Cameron) per la radicalità con cui non rinuncia a fare di ogni film un’operazione a suo modo sperimentale, volta a spingere il cinema fino al suo limite estremo, a sottoporre a verifica le sue categorie fondative (il tempo, lo spazio, il personaggio) e a mettere a punto nuove modalità di costruzione del visibile. Il tutto operando però non per via ideologica o estetica (se così fosse, probabilmente, sarebbe già stato accolto con tutti gli onori nel club degli Autori), ma per via tecnologica. Ed è proprio il suo rapporto privilegiato ed esclusivo con la tecnologia che non solo denuncia una volta per tutte il retroterra tardoromantico e vetero-umanistico su cui si fondano, ancora oggi, molte delle più diffuse e celebrate teorie dell’autorialità, ma che offre anche una possibile chiave, empirica ed euristica, per provare a definire il

nuovo tipo di operatività – al contempo spettacolare e sperimentale – che i film di Zemeckis cercano di attuare. Di fatto, Zemeckis si muove nell’industria hollywoodiana dello spettacolo secondo un progetto volto a mettere a punto, attraverso una sperimentazione prima di tutto tecnologica, una ridefinizione dello statuto dell’immagine filmica che vada nella direzione del meticciato e dell’ibridazione. Questa sperimentazione viene agita a più livelli: materico, scopico, diegetico, iconico, intertestuale. Vediamo di esaminare più analiticamente, ricorrendo di volta in volta agli esempi più opportuni, i vari livelli su cui si articola questa plurima e pervasiva tensione all’ibridismo che percorre e sostanzia i film realizzati da Robert Zemeckis, determinando la loro peculiare e inconfondibile ossimoricità. CARNE, CARTA E PIXEL: L’IBRIDAZIONE MATERICA

C’è spesso qualcosa che volteggia, nei film di Zemeckis. In Forrest Gump era la piuma bianca e leggiadra che si posava ai piedi del candido e ingenuo protagonista; dieci anni dopo, in Polar Express (2004) è il biglietto del treno che porta i bambini increduli al Polo Nord per verificare di persona, la notte di Natale, l’esistenza di Santa Claus. Sfuggito di mano al piccolo protagonista, e sospinto dal vento fuori dal finestrino del vagone, il biglietto compie – in un unico piano sequenza – un percorso vertiginoso che lo porta a cadere sulla neve soffice del bosco in mezzo a un branco di lupi, poi a finire nel becco di un’aquila, quindi a precipitare nell’acqua ribollente di una cascata, e poi ancora a risollevarsi e a tornare, alla fine, sul treno da cui era partito. Se Zemeckis fosse un autore si potrebbe essere tentati di verificare l’eventuale recursività di un simile topos del volteggio

negli altri suoi film. Ma Zemeckis non è un autore. E le due sequenze citate, più che una somiglianza o una persistenza figurativa, segnalano l’evoluzione di una tecnologia e, insieme, di un modo di produzione: là, nel film del 1994, una piuma digitale volteggiava sull’immagine analogica di Tom Hanks seduto su una panchina; qui – in Polar Express – tutto è disegnato in digitale, e non c’è nessun biglietto vero se non quello fatto di pixel e di niente che si materializza danzando dentro le immagini del film, e che esiste solo in esse e per esse. Ma Zemeckis non è un cultore integralista delle mirabilia del digitale: con Polar Express porta anzi al punto più alto possibile la sua ricerca sperimentale sul plurilinguismo iconico e sulla possibilità di realizzare un cinema che sia ontologicamente multietnico e meticcio. Si era già mosso in questa direzione fin dai suoi esordi, quando in Used Cars (La fantastica sfida, 1980) aveva sperimentato le prime forme di meticciato iconico sovrapponendo immagini filmiche e immagini video nella sequenza in cui un’improvvisata troupe televisiva cerca di inserire una pubblicità “pirata” nella telecronaca in diretta di una partita di calcio, con effetti grotteschi che svelano la refrattarietà del visibile a essere ingabbiato nelle forme previste dagli aspiranti produttori delle immagini7. Successivamente, con Who Framed Roger Rabbit (Chi ha incastrato Roger Rabbit, 1988), aveva fatto recitare fianco a fianco, nella stessa inquadratura, attori in carne e ossa e cartoni animati, generando immagini abitate e agite contemporaneamente dal corpo naturale del performer e dal corpo artificiale del cartoon. In modo ancor più radicale, in Death Becomes Her (La morte ti fa bella, 1992) aveva prodotto una vera e propria cartoonizzazione del corpo degli attori, trasformando due star come Meryl Streep e Goldie Hawn in manichini disarticolati capaci – grazie alla computer graphic e agli effetti speciali di Ken Roltson, premiato

con l’Oscar per il suo lavoro – di allargarsi, stirarsi, schiacciarsi e dilatarsi esattamente come accade a certi personaggi dei cartoons. Aveva poi proseguito la sua ricerca in Forrest Gump, dove riusciva a far interagire un personaggio di finzione come quello interpretato da Tom Hanks con le immagini di personaggi storici morti da tempo come John F. Kennedy o John Lennon, mescolando questa volta l’immagine finzionale con l’immagine di repertorio, l’artificio con il documento. Con Polar Express Zemeckis realizza infine, con la cooperazione di un eccezionale team di tecnici del digitale, il primo film della storia del cinema in cui attori in carne e ossa recitano ricoperti da sensori che trasferiscono ogni minima movenza del corpo e del volto (da una smorfia della bocca a un battito di ciglia) a personaggi digitali disegnati con il computer. La tecnica adottata si chiama Performance Capture e consente ad esempio a Tom Hanks di dar vita contemporaneamente a ben cinque personaggi diversi: non solo il controllore del treno – nelle cui fattezze e sotto i cui folti baffi si riconoscono il volto e il sorriso dell’attore – ma anche il bambino protagonista, suo padre, Babbo Natale e lo stravagante Hobo, il vagabondo che vive sul tetto del treno in corsa, come uno degli homeless raminghi che popolavano la cultura e la società americana negli anni della Grande depressione. Ciò che colpisce è che questi personaggi non sono né interamente digitali (come, poniamo, quelli del film Final Fantasy, 2001) né mimeticamente analogici (come quelli di qualsiasi film realizzato in pellicola con tecnica tradizionale). Non sono neanche un esempio di convivenza o coabitazione fra personaggi analogici e personaggi digitali (come in certe sequenze di The Lord of the Ring, Il Signore degli Anelli, 2001 o dell’ultimo capitolo della trilogia di Matrix, 2003). La novità che fa di Polar Express un film epocale è che i suoi personaggi sono al contempo e analogici e digitali: nascono dall’attrito e dalla

sovrapposizione fra il corpo di attori veri e la totale simulacralità delle icone del computer. Vero esempio di meticciato visivo, segnano – con il loro ibridismo – il crepuscolo del cinema antropocentrico senza per questo sprofondare nel vacuum di un cinema postumano. Al contrario, conservano l’impronta dell’uomoattore e la mescolano con il lavorio delle macchine elettroniche. Il risultato è stupefacente: non solo per l’impatto visivo di immagini che sembra di non avere mai visto in precedenza (si pensi anche solo alla festa degli elfi nella piazza della città di Babbo Natale allo scoccare della mezzanotte, con milioni di figurine realizzate con la tecnica della Performance Capture che saltano, ballano, cantano e gioiscono), ma proprio per la densità teorica con cui il film traccia un nuovo confine del visibile proclamando con forza – oltre ogni idolatria del “purismo” iconico – la possibilità di integrare corpi e pixel in un nuovo modo di produrre e generare immagini in movimento. VISIONI DEL NON VISIBILE: L’IBRIDAZIONE SCOPICA

Capita spesso, nei film di Zemeckis, che il visibile assuma configurazioni impreviste e imprevedibili, tali da indurre i personaggi a compiere esperienze scopiche del tutto inusitate e da coinvolgere anche lo spettatore nella sperimentazione di vere e proprie visioni impossibili. La barca a vela che solca le vie di una città e naviga sull’asfalto del paesaggio urbano nel finale di Romancing the Stone (All’inseguimento della pietra verde, 1984) è – nella sua semplicità – un esempio di come Zemeckis sappia rendere visivamente possibile l’impossibile. Ma più interessante e decisamente più radicale è l’operazione compiuta con Contact (Id., 1997). Ellie Arroway (Jodie Foster), protagonista del film, non vede la morte del padre. La sente. Ode un tonfo sordo nel sottoscala e si precipita

verso il punto da cui le sembra sia partito il rumore. È il suo destino, quello di percepire le cose con l’udito prima che con la vista. O la sua condanna. Nonostante faccia l’astronoma, quando osserva le stelle non vede che puntini luminosi perduti nel cielo infinito, mentre quando le ascolta riesce ad avvicinarsi un po’ di più al loro mistero. Non a caso, fin dallo scanner cosmico che apre il film, tutto il materiale sonoro vagolante nell’etere (voci della radio, messaggi di radioamatori, brandelli di conversazioni telefoniche, refrain di canzonette, rumori, silenzi…) è stato risucchiato dal buco nero del suo occhio bambino. Dall’occhio, non dall’orecchio: come se il cinema di Zemeckis confessasse qui – nel suo essere cinema acustico, o musica iconica – la sua inevitabile vocazione sinestetica, il suo non poter fare a meno di sovrapporre, confondere e ibridare i sensi e gli apparati percettivi così come, in altri luoghi, mescola e confonde – come si è visto – l’analogico e il digitale, il materiale e l’immateriale, il visibile e il non-visibile. Ellie, dunque, non vede l’evento-catastrofe della sua vita (la morte del padre): accorre piuttosto nel luogo in cui il corpo del padre si è accasciato e lo vede quando ormai è già morto. Poi, in un unico piano sequenza, sale di corsa le scale di casa, inquadrata frontalmente dalla macchina da presa, che la anticipa senza stacchi fino a quando entra – dopo un percorso tutt’altro che lineare e pieno di svolte – nel bagno al piano di sopra. A prima vista sembra si tratti di un’inquadratura “oggettiva” sul personaggio, ma a mano a mano che Ellie si avvicina allo specchio dell’armadietto dei medicinali ci si rende conto che il punto di vista da cui stiamo assistendo all’azione è una soggettiva della bambina che vede se stessa, appunto, riflessa nello specchio. Si tratta, in tutta evidenza, di un’inquadratura impossibile8. O di un tipico piano anfibologico in cui oggettivo e soggettivo coincidono, sorprendentemente, senza che si possa capire chi sta

guardando cosa9. Lavorando, ancora una volta, con la tecnologia più che con l’ideologia, Zemeckis riesce a dar forma a un’utopia della visione capace di srotolarsi sullo schermo e nei nostri occhi come un nastro di Moebius, di rendere visibile l’impossibile e di produrre nello sguardo dello spettatore un brivido di sorpresa e di spaesamento. E ciò è tanto più significativo perché attuato in un film come Contact: che è a tutti gli effetti – nella filmografia di Zemeckis, ma anche nello scenario complessivo del cinema contemporaneo – un film sul non-poter-andare-oltre-delle-immagini. Un film che mette a tema il nostro bisogno di altrove, ma anche l’impossibilità di visualizzare questa necessità per l’inadeguatezza della strumentazione (tecnologica, ma anche emotiva, percettiva, epistemologica) di cui disponiamo. Il viaggio siderale di Ellie nel cosmo si risolve infatti in un ritorno al mondo perduto dell’infanzia, rievocato con una serie di cromatismi accesi e di effetti-vortice che sfociano nell’immagine a luce sovraesposta di una cartolinesca spiaggia caraibica. Nulla che non si fosse già visto. Nulla che trasmetta davvero l’immagine di una radicale alterità visuale. Quasi a denunciare un limite. Quasi a dirci la necessità di andare oltre questo cinema, ma scontando prima di tutto su di sé l’impossibilità di farlo per davvero. Contact è di fatto un film che tanto più aspira all’altrove (visivo e percettivo) quanto più sente (e riconosce) di non poterlo di fatto raggiungere. Le immagini – sembra suggerire Zemeckis – sono impotenti. Queste immagini, che da un secolo danno vita al cinema (e ai suoi sogni), e che ora sembrano giunte al terminale della loro capacità espressiva e comunicativa. A meno che non si riprenda a lavorare su di loro come fa, appunto, Zemeckis. Che trasferisce sul cinema stesso l’operatività ossimorica dello sguardo filmico individuata e analizzata con illuminante lucidità da Francesco Casetti10. Se il cinema è stato l’occhio del Novecento – come sostiene

Casetti – per la sua capacità di negoziare un equilibrio fra le grandi categorie antitetiche della modernità novecentesca (oggettivo e soggettivo, frammento e totalità, macchinico e antropico, eccitazione e ordine, immersività e distacco), può aspirare a essere ancora l’occhio dei primi anni del nuovo millennio – sembra suggerire il cinema di Zemeckis – solo nella misura in cui diventa capace di negoziare un equilibrio fra le polarità e le antinomie che attraversano non più il mondo ma il cinema stesso in quanto produttore di (immagini di) mondi. Ecco allora che la coabitazione degli opposti su cui si fonda il cinema di Zemeckis (come si diceva: visibile/invisibile, analogico/digitale, materiale/immateriale, visione oggettiva/visione soggettiva, e così via) diventa il tratto connotativo e peculiare di una ricerca che pone a tema prima di tutto proprio il voler continuare a vedere di un cinema che si confessa conscio della propria difficoltà di continuare a produrre visioni. Un po’ come accade, appunto, proprio in Contact: nel corso del suo viaggio cosmico-siderale Ellie vede. E vede qualcosa che noi spettatori (impotenza del cinema, di nuovo…) non riusciamo ancora a percepire, o che il film non sa come farci vedere. Le telecamere piazzate sulla navicella spaziale, non a caso, non registrano nulla. Non ci sono immagini sui nastri magnetici esaminati dai tecnici dell’astronautica mondiale. Solo il brusio e il nevischio elettronico di un segnale vuoto. Ma mentre il viaggio, nella percezione terreste (la nostra? quella del cinema?) e nella diegesi del film è durato una frazione di secondo, le telecamere – veniamo a sapere dagli stessi personaggi del film – hanno registrato il vuoto per diciotto ore. Diciotto ore di nulla, di silenzio, di interdizione alla visione11. Con una limpidezza prospettica davvero non comune, Zemeckis individua in questo vuoto, e in questo silenzio, e nel bisogno di farceli comunque percepire, l’unico vero set possibile

per il cinema del futuro. La sua fantastica sfida, la nostra necessità. TEMPO E SPAZIO: L’IBRIDAZIONE DIEGETICA

«È da un’ora che mancano cinque minuti a mezzanotte!», dice uno dei giovani viaggiatori del treno di Polar Express. È una battuta significativa, se non altro perché evidenzia in modo emblematico come Zemeckis giochi continuamente a sottolineare o a rivelare l’arbitrarietà e la convenzionalità di una figura-chiave del suo cinema quale è il tempo. La stessa “durata” viene percepita e categorizzata in modo diverso dai suoi personaggi: si pensi a quanto accade non solo all’astronoma protagonista di Contact ma anche al naufrago di Cast Away (Id., 2000): per chi va oltre, per chi si avventura su sentieri diversi da quelli consueti, il tempo cessa di avere la linearità uniforme, omogenea e misurabile del quotidiano, e diventa una variabile emotiva (in Polar Express), cognitiva (in Contact) o esistenziale (in Cast Away)12. Per questo la tasca piena di biglie del pigiamino del protagonista di Polar Express, che si era rotta all’inizio del film rovesciando le sfere di vetro sul pavimento, si rompe (si ri-rompe?) di nuovo alla fine, confondendo ogni possibile distinzione fra l’inizio e la fine della storia, ribadendo che la confusione e il mescolamento sono i veri tratti fondativi di un cinema che aspira, appunto, a far vedere il tempo, e i suoi paradossi, e la sua arbitrarietà. E tuttavia, per essere visibile, nel cinema di Zemeckis il tempo ha quasi sempre bisogno dello spazio. Di uno spazio. Di un luogo, di un ambiente o di contesto che consentano di misurare e verificare lo scarto temporale, o la dimensione della durata, o il flusso del cambiamento. Zemeckis lo sa bene. E fin dalla trilogia inaugurata con Back to the Future (Ritorno al futuro,

1985) fa della piazza centrale della cittadina californiana di Hill Valley, sovrastata dall’edificio del municipio con l’orologio, il luogo simbolico primario della serie. Osservano Carmagnola e Pievani: «È questo luogo che, nei vari episodi, si sposta avanti e indietro nel tempo: la piazza, luogo simbolico della comunità, mostrerà così con le sue variazioni nel futuro e soprattutto nel passato la fluidità e la non sequenzialità del tempo in cui la narrazione si muove»13. I viaggi nel tempo del giovane Marty McFly (Michael J. Fox), che a bordo di una DeLorean appositamente modificata viene spedito da Doc (Christopher Lloyd) trent’anni indietro nel tempo (dal 26 ottobre 1985 al 5 novembre 1955) approdano sempre allo stesso luogo: lo spazio in cui avviene la regressione è infatti identico a quello di partenza (ancora e sempre la cittadina di Hill Valley: a suo modo, a sua volta, quasi un ossimoro, fin dal nome…). Ma proprio l’invarianza spaziale accentua e valorizza le varianti temporali e l’effetto di spaesamento che producono sul giovane “viaggiatore”. La situazione non cambia neppure nei due sequels: in Back to the Future Part II (Ritorno al futuro parte II, 1989) McFly viaggia infatti prima nel futuro, nel 2015, poi torna ancora nel 1955 prima di riapprodare al suo “presente” diegetico, mentre in Back to the Future Part III (Ritorno al futuro parte III, 1990) insegue Doc nel vecchio West del 1885, andando a visitare la fase pionieristica della vita di Hill Valley in un singolare e bizzarro cocktail di western e fantascienza. In qualunque epoca venga visitata, Hill Valley non cambia: c’è sempre una famiglia (i McFly) vessata e angariata, c’è un prepotente (il torvo Biff Tannen, con i suoi antenati e discendenti) che sfrutta ogni occasione per arricchirsi, c’è una fanciulla innocente insidiata dal medesimo malvagio e un eroe che la aiuta a salvarsi. Il mondo è così, ed è immodificabile: cambiano le tecnologie, le configurazioni del territorio,

le mode e gli oggetti (le scarpe autoallaccianti, gli skateboard senza ruote), le forme di spettacolo (nel 2015 nel cinema di Hill Valley si proietta Lo squalo 19, nel 1955 l’idea che un attore come Ronald Reagan possa diventare presidente degli Stati Uniti suscita l’ilarità collettiva), ma quel che conta resta immutato e gravita attorno a un evento naturale riproposto in ognuno dei tre episodi della serie (il fulmine che ha colpito l’orologio della torre e che ha fornito a Doc l’energia necessaria per i suoi salti nel tempo). Come è stato opportunamente notato, il meccanismo seriale adottato da Zemeckis ricorda le varie versioni della cattedrale di Rouen dipinte da Monet: cambiano la luce e i colori, ma il resto rimane invariato14. Non c’è altrove possibile, alla fine del viaggio: dopo aver esplorato avanti e indietro la storia, McFly approda alla convinzione che il tempo non è che il ciclico ripetersi dell’identico, appena appena variato dall’uso di abiti di scena, di maschere e di arredi di volta in volta leggermente differenziati. La piazza di Hill Valley – luogo centrale della ricognizione – assume il carattere esemplare di un campionario, di un archivio dove un affollamento di materiali e di merci fin troppo coerenti tra loro insiste nell’additare un modello di vita invariabile. Un effetto iperreale investe tanto il passato quanto il futuro, che smettono di appartenerci, di essere il prodotto della nostra memoria o della nostra immaginazione, «per un’amplificazione ipertrofica del nostro potere di disposizione»15. Ma a un trattamento analogamente significativo Zemeckis sottopone anche un luogo “reale”del profilmico – un vero e proprio simbolo del paesaggio americano e del cinema che l’ha configurato – come la Monument Valley: quando in Back to the Future Part III la DeLorean di McFly sbuca nel paesaggio di Stagecoach (Ombre rosse, 1939) di John Ford proprio mentre gli indiani stanno dando l’assalto alla diligenza, la Monument Valley – come ha notato acutamente Paolo

Bertetto – diventa di fatto un’icona pop, in un processo di riconfigurazione che ha insieme «il carattere di un intreccio di epoche, di una mescolanza indubbiamente incongrua di oggetti e di spazi, e di un’ibridazione di generi cinematografici»16. Epoche e luoghi diventano insomma sullo schermo significanti immaginari, in un processo di intensa e insistita intertestualità che «afferma il cinema come regno dell’immaginario, come mondo autonomo, che usa il mondo esterno per trasformarlo in un’icona autocentrata»17. IL RITORNO DEL FANTASMA: L’IBRIDAZIONE INTERTESTUALE

Se il ritorno è da sempre in Zemeckis il momentochiave per verificare l’impermeabilità del presente (diegetico, ma anche sociale ed esistenziale) rispetto a esperienze maturate in un altrove spazio-temporale, What Lies Beneath (Le verità nascoste, 2000) si colloca nella sua filmografia con un ruolo e un peso davvero significativi: non solo film-cesura (o filmcerniera) che separa e unisce la prima e la seconda parte delle riprese di Cast Away (segnato da una frattura congenita, non a caso, fin dal titolo cast/away), ma anche tentativo estremo di declinare la figura del ritorno nell’unica forma (quella fantasmatico-spettrale) che sfugge – proprio per il suo potenziale incontrollabile e inquietante – alle fragili rimozioni e alle sprezzanti indifferenze messe in opera dai personaggi dei suoi altri film. Le verità nascoste è un film sul passato che ritorna sottoforma di fantasma così come, in un certo senso, Cast Away è la storia di un fantasma (Tom Hanks) che ritorna inopportuno a ricordare al felice oblio degli altri la scomodità esistenziale del passato. Il rapporto che lega i due film è, in tutta evidenza, di tipo chiasmico: come se Zemeckis volesse raccontare due storie complementari che si integrano l’un l’altra, che

si incistano (già a partire dai modi e dai tempi di produzione) l’una nell’altra, e che usano gli stessi materiali profilmici per provare a percorrerli alla rovescia, intessendo trame di senso reciprocamente integrate. Si pensi anche solo al tema dell’acqua: in Cast Away isola ma poi salva, in Le verità nascoste congiunge ma poi occulta e uccide. O a quello delle immagini fotografiche di persone care: in Cast Away la foto della donna amata aiuta il protagonista a sopravvivere ma lo inganna anche, mentre in Le verità nascoste proprio una foto di famiglia ferisce la protagonista ma poi finisce per essere rivelatrice. Certo: per Zemeckis fare un film sul passato che ritorna significa anche – inevitabilmente – riflettere sul passato del cinema. Sulla sua storia e sulla sua memoria. Sui fantasmi che dalla storia del cinema riaffiorano e arrivano fino a noi. L’aveva già fatto in Romancing the Stone, in Who Framed Roger Rabbit, in Forrest Gump. Ma questa volta lo fa esplicitando una volta per tutte il fondamento intertestuale che sta alla base di tutti i suoi film. Così, prima di tutto, Le verità nascoste è un film sul fantasma di Hitchcock nel cinema contemporaneo: scegliendo una “terza via” rispetto all’approccio postmoderno-citazionista di Brian De Palma o di Quentin Tarantino, così come allo sguardo feticistico-clonativo del Gus van Sant di Psycho (Id., 1999), Le verità nascoste fantasmatizza Hitchcock e lo rimette all’opera secondo una strategia “additiva” che sembra voler marcare con precise scelte enfatizzanti tutte le “apparizioni” dello spettro (del Maestro) affabulate dall’intreccio. Ecco allora che il voyeurismo alla Rear Window (Claire che spia indiscreta la vita della coppia della villa di fronte), il sospetto alla Suspicion (i dubbi reciproci che incrinano il rapporto fra i coniugi), le reincarnazioni alla Vertigo (il fantasma come icona di una “donna che visse due volte”) o le psicosi e le patologie alla Psycho (richiamato fin dal nome del protagonista, Norman,

esattamente come il personaggio di Anthony Perkins, ma poi ossessivamente ripresentificato nelle scene della vasca da bagno come nel tema dell’automobile con cadavere sepolto nell’acqua del lago) danno forma a una sorta di catalogo di stilemi hitchcockiani, tutti vistosamente caricati e sottolineati rispetto al modello di partenza, quasi a volersi imporre come marche di riconoscimento che nessuno spettatore può sentirsi autorizzato a ignorare. Più che citazioni, o allusioni metalinguistiche, sono segnali di apparizione. Meglio: provocazioni scopiche volte a verificare cosa produce il ritorno del rimosso nel cinema contemporaneo. Hitchcock funziona cioè per lo spettatore esattamente come il “fantasma” dell’amante del marito funziona per la protagonista del film: scardina certezze, insinua dubbi, induce a interrogarsi sullo statuto di veridicità, di attendibilità e di credibilità delle proprie visioni. Non solo: Zemeckis mette a frutto Hitchcock soprattutto nell’esattezza geometrica con cui lavora visivamente dentro gli spazi del set, usando stipiti, angoli, pertugi, specchi e finestre per trasformare uno spazio domestico in luogo perturbante, secondo un percorso ancora una volta chiasmicamente opposto a quello realizzato in Cast Away (dove la tecnica di ripresa, la fotografia e i movimenti di macchina rendono banale e quasi domestico l’altrove dell’isola deserta, spogliata da ogni appeal turistico da Club Med così come da ogni potenziale inquietudine di esotismo sauvage). Gli opposti si incrociano, i fantasmi danzano l’uno accanto all’altro, ma seguendo direzioni rovesciate. Così, se il protagonista di Cast Away sperimenta al suo ritorno nel mondo civile che una donna che egli credeva reale in realtà è solo un fantasma della sua mente, analogamente – e inversamente – la protagonista di Le verità nascoste scopre suo malgrado che ciò che lei percepisce come fantasma non è che il ritorno allucinato di un qualcosa di molto reale. Dentro ogni immagine c’è il fantasma di

altre immagini, ogni visione è abitata dal ricordo e dalla memoria di altre visioni, e ogni nostro vedere è di fatto, contemporaneamente, un vedere per la prima volta e un rivedere ciò che già era stato visto, in un gioco di ibridazioni intertestuali che mentre conserva all’immagine filmica la sua parvenza iconica, le conferisce anche – sempre più marcatamente – una valenza idolica18. ROBINSONISMO POSTMODERNO: L’IBRIDAZIONE FRA ICONICO E IDOLICO

Nella vicenda di Chuck Noland (Tom Hanks), il manager protagonista di Cast Away che naufraga su un atollo sperduto del Pacifico ed è costretto a far ricorso a tutta la sua intraprendenza per riuscire a sopravvivere millecinquecento giorni in assoluta solitudine e in un ambiente ostile, molti critici e commentatori hanno visto la rilettura contemporanea o la versione aggiornata del Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe. L’accostamento è del tutto pertinente, a patto di rilevare una differenza sostanziale: il Robinson di Defoe era il prototipo del capitalista, teneva i libri contabili perfino dei relitti salvati dal naufragio, e applicava le sue doti umane per celebrare le virtù fondative dell’etica borghese (l’intraprendenza, l’ingegno, l’operosità, la capacità di fronteggiare i pericoli con ardimento e di risolvere i problemi con spregiudicatezza). Ha scritto lucidamente James Joyce: «con in tasca un coltello e una pipa [Robinson] diventa architetto, falegname, arrotino, astronomo, prestinajo, costruttore navale, figulo, bastajo, agricoltore, sarto, ombrellajo e chierico. Egli è il vero prototipo del colonizzatore britannico»19. Chuck Noland (che porta iscritto un destino di sradicamento e di deterritorializzazione fin nel nome: No/land) non fa

nulla di tutto questo. Non “umanizza” l’ambiente circostante. Non costruisce oggetti, utensili o arnesi che facilitino la sua sopravvivenza e le diano una parvenza di civiltà. Non riproduce nell’isolamento dello “stato di natura” le forme del mondo “civile” da cui è stato bruscamente espulso e separato. Al contrario, si limita tutt’al più a un uso defunzionalizzato dei pochi oggetti scampati al naufragio: la lama di una scarpetta per pattinare sul ghiaccio diventa così di volta in volta – e secondo il bisogno – un coltello, uno specchio o una leva cavadenti, mentre la veletta di un abito da sera per signora si presta ottimamente a far da rete per la pesca. Insomma: pur avendo alle spalle un passato da manager con eccellenti capacità organizzative, Chuck Noland non si preoccupa di riorganizzare il mondo “altro” in cui si trova a dover cercare di sopravvivere per millecinquecento giorni. Una volta soddisfatti i bisogni primari (l’acqua, il fuoco, una caverna in cui passare la notte), si dedica a un’unica attività: quella di creatore di immagini. Se Robinson popolava la sua isola deserta con artefatti funzionali, Chuck la riempie di icone dal valore affettivo. Così, ad esempio, passa il tempo a contemplare l’unico oggetto personale salvato al naufragio (un antico orologio a cipolla contenente la fotografia della donna che ama: il tempo e l’immagine, il tempoimmagine, il tempo che conserva e nello stesso tempo smarrisce un’icona…), e incide sulle pareti della grotta in cui si rifugia di notte il ritratto della stessa donna accanto all’impronta delle proprie mani. Non solo: per vincere la solitudine, Chuck si crea una vera e propria immagine idolica: quella di Wilson. Wilson è originariamente un pallone bianco da volley. Questo, almeno, è il suo inerziale statuto di “cosa”: uno dei pochi oggetti impacchettati che il naufrago ritrova accanto a sé sulla spiaggia deserta dopo il naufragio.

Ma quel pallone – nell’economia del racconto di Zemeckis – cessa ben presto di essere un oggetto e diventa un vero e proprio idolo. Si inserisce nel “robinsonismo” di Tom Hanks con una funzione analoga a quella che nel romanzo di Defoe aveva il “selvaggio” Venerdì. È agente dell’unica, residua forma di relazionalità che ancora è possibile nella solitudine dell’isola. Con una differenza: Venerdì era un essere “reale”, appartenente a una cultura “altra” che il “colonizzatore” Robinson cercava di assimilare a sé, facendone il suo servo. Wilson, invece, è una creatura virtuale. È un oggetto-feticcio: una “cosa” totalmente deprivata del suo valore d’uso empirico immediato (impossibile servirsene in base alla sua funzione originaria) e risemantizzata per svolgere altre funzioni. Wilson è il fantasma della socialità. È l’idolo attraverso cui il naufrago esorcizza l’orrore della solitudine. Ma Wilson è un idolo che nasce come icona. La sua genesi è quasi accidentale. Chuck si ferisce a una mano mentre tenta di rompere il guscio di una noce di cocco. Furente e dolorante, si sfoga schiaffeggiando il pallone e lasciando su di esso l’impronta insanguinata della sua mano ferita. Più tardi, il naufrago si rende conto che l’impronta, essiccando, è diventata una macchia rossastra che ha assunto i contorni di un volto: Chuck gli disegna allora gli occhi, aggiunge quattro arbusti in funzione di capelli, trasforma la “marca” dell’oggetto – Wilson, appunto – in nome proprio, e il gioco è fatto. Wilson diventa l’amicoimmaginario di Chuck Noland. È l’avatar della sua socialità perduta, il simulacro del suo residuo bisogno di relazione. Chuck lo sgrida, gli parla, si confida con lui. Si illude, grazie a lui, che i suoi monologhi possano ancora avere la parvenza di dialoghi. Perché Wilson è al contempo icona (conserva in sé l’impronta del sangue di chi l’ha generato, quasi riproponendo la metafora baziniana del cinema come “sindone del

mondo”) ed è un idolo a cui Chuck conferisce a priori un’identità e una soggettività. E quando l’Oceano glielo porta via, non c’è spettatore che non provi un grumo di commozione di fronte a un distacco che ha l’intensità e l’ineluttabilità della separazione fra un uomo e una donna nella solitudine dello spazio cosmico messa in scena da Brian De Palma in Mission to Mars (Id., 2000). Commuovere con le cose. Spogliarle del loro statuto strumentale e farne poli di gravitazione affettiva. Fare di un pallone un’immagine. Suggerire che le immagini ci servono, oggi, più delle cose. O che le cose hanno ancora valore solo nella misura in cui diventano immagini. Solo se e quando conservano in sé l’impronta (il sangue) del mondo che le ha generate e sanno generare, al contempo, affetti e passioni. Se pensiamo che per più di un secolo il cinema è stato la “cosa” che ci ha presentificato il mondo conservandone l’impronta, Cast Away è allora, davvero, un grande film-epocale sul cinema/mondo. O sulla nostalgia di un mondo capace di farsi cinema, e di popolare il nostro orizzonte scopico di visioni, miraggi e fantasmi in grado di appagare il nostro bisogno di immaginazione, di socialità e di affettività. Proviamo dunque a riassumere. A tutti i livelli della messinscena, la procedura dominante del cinema di Zemeckis va nella direzione dell’ibridazione, in vista di una ridefinizione dell’immagine filmica in chiave ossimorica e meticcia. Sul piano materico, rendere meticcia l’immagine filmica significa per Zemeckis, prima di tutto, sperimentare la possibilità di generare immagini che siano al contempo sia analogiche sia digitali. L’ibridazione scopica implica invece il tentativo di inglobare in modo sempre più massiccio il non visibile dentro i confini del visibile. Quella diegetica genera un processo di deliberata contaminazione fra i codici di genere, ma anche un lavoro di sovrapposizione e contaminazione delle categorie di spazio e tempo. L’ibridazione iconica

sfocia nel tentativo di inglobare anche immagini idoliche nello spazio visuale del dispositivo filmico. L’ibridazione intertestuale implica infine la capacità di generare immagini che siano sempre abitate dalla memoria (o dal fantasma) di altre immagini filmiche precedentemente prodotte. Insomma: come Forrest Gump, anche il cinema di Zemeckis sembra inseguire il sogno di potersi finalmente liberare degli attrezzi ortopedici (la verosimiglianza, il suo essere traccia e impronta del reale) che gli hanno consentito di camminare nel suo primo secolo di vita. Non rinnegando la propria storia e il proprio passato, ma spingendoli verso una nuova frontiera del visibile in cui il cinema riconosca finalmente la propria natura di artefatto iscritto più nell’universo del simulacro che in quello dello specchio. La tecnologia, come si è visto, gioca un ruolo fondamentale in questo processo. Ma non è solo lo smagliante assetto tecnologico che fa dei film di Zemeckis degli oggetti d’avanguardia. Sono anche la radicalità e la coerenza con cui Zemeckis persegue un progetto che mira senza requie a mettere in moto le cose, i punti di vista, i livelli di racconto, e a confonderli e a mescolarli. Si era detto, all’inizio, che forse Robert Zemeckis non è un autore. Il ragionamento che si è sviluppato in queste pagine, assieme alle successive analisi dei film, scelti non in base al loro valore “estetico”, ma per la loro pertinenza emblematica rispetto all’angolazione prospettica adottata, sembrerebbero smentire l’assunto di partenza: ma non è così. Zemeckis è troppo dentro la cultura ossimorica della postmodernità (et… et…, non aut… aut…) per lasciarsi ingabbiare da rigide definizioni categoriali. Non è un autore e insieme lo è. Forse, lo è nell’unico modo in cui ha ancora senso esserlo. O nella misura in cui i suoi film sono ogni volta sintomi di un cambiamento in atto.

Per questo, in genere, non piacciono né ai critici né agli apologeti videoludici del cinema-sensazione. Zemeckis sta in mezzo. Impegnato a ridefinire la nozione stessa di visibile. E nella consapevolezza che – come dice il capotreno al bimbo protagonista di Polar Express – «alcune volte bisogna vedere per credere. Altre volte invece le cose più reali del mondo sono quelle che non si vedono».

Chi ha incastrato Roger Rabbit di Marco Toscano Tra animazione e cinema “vivo” c’è una differenza che non può cambiare. Nel cinema piazzi la macchina da presa e hai davanti tutto l’universo, nell’animazione hai il foglio bianco e devi inventare tu tutto l’universo. MAMORU OSHII

Nella sequenza finale di Who Framed Roger Rabbit (Chi ha incastrato Roger Rabbit, 1988)1, al termine della lotta che lo ha visto avere la meglio sul malvagio giudice Morton (Doom in originale), il detective Eddie Valiant invita Roger Rabbit a declamare la lettera d’amore che il coniglio ha scritto per la moglie Jessica su un foglio di carta trovato per caso nei pressi del camerino di quest’ultima, la notte dell’omicidio di Marvin Acme. Eddie ha già intuito dalla macchia (ri)comparsa sulla propria camicia ciò che sta per accadere: al rossetto con cui Roger ha “enumerato” il proprio sentimento si sovrappone d’improvviso l’inchiostro simpatico con il quale Acme ha redatto, fedele fino in fondo al suo spirito goliardico, il testamento con cui lascia Cartoonia (Toontown in originale) ai suoi abitanti [ill. 1]. Nella lettura di Roger i due testi si confondono, graficamente ed emotivamente, unica dichiarazione d’amore di un cartone (Roger, ma anche Acme, “materializzazione” filmica di un’entità tipica del mondo animato) per un cartone/per i cartoni. La carta su cui si “scrive” l’happy end è solo uno degli innumerevoli corpi/elementi disseminati nel film chiamati a subire una trasformazione, modificando la propria natura (qui il foglio sembra assumere quasi l’aspetto di un monitor, transitando dall’analogico al digitale, dalla cellulosa al pixel) e mutandosi in territorio di confine, teatro di contrattazioni e commistioni identitarie.

L’URAGANO ROGER: UN CINEMA SENZA AUTORE, SENZA CERTEZZE, FUORI CONTROLLO

La tentazione in sede critica di archiviare Who Framed Roger Rabbit, al momento della sua folgorante apparizione, come un’opera degna di nota più per il suo mirabolante portato tecnologico (e per gli eclatanti risultati ottenuti al box-office) che per i valori espressi in termini linguistici e squisitamente cinematografici, nonché per le importanti implicazioni filosofiche relative alla modificazione irreversibile dello statuto dell’immagine e alla scomposizione del reale (e per il dibattito che ne è conseguito), è stata sostanziale e probabilmente inevitabile, indotta dall’imbarazzo di trovarsi di fronte a un oggetto, se non completamente inedito, comunque spiazzante e inclassificabile. Per alcuni addirittura inquietante. Joël Magny inaugura così il suo articolo sui «Cahiers du cinéma»: «Da Who Framed Roger Rabbit si esce come da un cataclisma, un uragano o un incubo: sfiniti, inebetiti, storditi e sbalorditi, spaventati, affascinati e irritati. Improvvisamente tutti i nostri riferimenti cinematografici sono capovolti»2. Più avanti egli scriverà ancora di «reazioni confuse di gioia e timore davanti alla mostruosità all’opera in Roger Rabbit, dal progetto globale al contenuto propriamente detto»3 e di «carattere a volte affascinante, quanto un sogno infantile realizzato, altre terrificante, quanto un incubo da cui non si può uscire se non attraverso il risveglio»4. Le parole di Magny descrivono una re(l)azione esemplare, rivelatrice di un disagio e di sensazioni conflittuali, ma anche di una nostalgia per una concezione gerarchica e irrinunciabilmente antropocentrica della rappresentazione di fronte al manifestarsi travolgente di un altro cinema (che lo studioso francese arriva a definire con toni apocalittici “anticinema”, disumano nell’essere generato dagli effetti speciali e votato all’auto-dissoluzione dalla logica di indifferenziazione tra visibile e invisibile,

reale e immaginario, superficie e profondità di cui si fa portatore)5, ostentatamente fondato sulla virtualizzazione, spettacolarizzazione, commistione, citazione e autoreferenzialità. Se Jonathan Rosenbaum, sempre sui «Cahiers», sottolinea il coraggio dell’incontro di due generi così lontani come il noir e l’animazione che, pur non innescando una contraddizione assoluta, si fanno carico di un’elaborazione e gestione molto diversa dei temi fondamentali (il tempo, il sesso, il caso, la morte)6, Conforti evidenzia il contrasto tra il mondo del noir, materializzazione delle più cupe pulsioni dell’animo umano, e il mondo dell’animazione, luogo del divertimento sfrenato e della trasgressione spensierata e creativa di tutti i vincoli imposti dal principio di realtà7. Magny segnala invece l’assoluta mancanza di originalità di un prodotto che attinge scopertamente a entrambe le tradizioni, saccheggiando da una parte Chandler o Hammett per ricoprirsi di una patina di atmosfere e stereotipi noir (del quale, per così dire, ritrova il motivo, ma non la musica, riducendo l’intreccio a semplice pretesto o, meglio, a mera illusione, «puro significante che non rimanda che a se stesso, privo di profondità»8) e accumulando personaggi, riferimenti e ammiccamenti dall’altra9, limitandosi a perfezionare soluzioni visive peraltro già ampiamente sperimentate – l’interazione tra umani e cartoni, proposta in svariati film, da The Reluctant Dragon (Il drago recalcitrante, 1941) a The Three Caballeros (I tre caballeros, 1945) a Mary Poppins (Id., 1964), seppur circoscritta a una sezione dell’opera e non coincidente con essa10. Così, se sul versante dell’animazione si ritrova lo stesso fenomeno accorpante e ricombinatorio che contraddistingue la traccia poliziesca (con lo stesso Roger Rabbit che, per ammissione di Zemeckis, è assemblaggio di «un corpo Disney, una mente Warner e un’azione Tex Avery», ma che denuncia anche altre influenze, da Chuck Jones ad

Hanna & Barbera), «si giunge alla conclusione che la quasi totalità del cinema contemporaneo non cessa di dimostrare: Spielberg, Zemeckis e le loro équipe non inventano niente»11, sancendo «il fallimento di tutto un cinema americano segnato dal primato della tecnologia e dei rimandi cinefili sull’autentica creazione»12. Ma tale è il paradigma della postmodernità, la cui originalità risiede per l’appunto nella mescolanza e rigenerazione di elementi preesistenti e la cui vocazione alla sintesi (che, nel caso di Who Framed Roger Rabbit come degli altri film del suo autore, risulta elevata a sistema, meccanismo diegetizzato e connotativo dell’opera in sé) è in grado di modificare ontologicamente ed 13 epistemologicamente la materia filmica . Quella riconducibile a un cinema “mutante”, non più costruito sulla solida roccia, rassicurato dalla rigidità divisoria, espressiva e interpretativa, garantita dal sistema dei generi, ma edificato sull’acqua e partecipe di quella liquidità di forme (in-forme) che è tratto essenziale e (de)strutturante della postmodernità: trasformazione e sgretolamento, contaminazione e corrosione intaccano la carne dei corpi come il corpo stesso del cinema, sfumando la realtà come la finzione, l’identità come l’alterità. L’uomo messo in discussione coesiste con la propria rielaborazione alfanumerica, sceglie di fare a meno di sé mettendo in atto una sostituzione simulacrale, privilegiando nuove forme di visione e rappresentazione che riconosce come le più adatte per restituire e realizzare la nascita di una “nuova” umanità purgatoriale e ologrammatica14. Scrive Magny: «Per sopravvivere, Eddie deve subire nel suo corpo le deformazioni dei personaggi animati, reagire come loro […]. È allora che si sviluppa l’aspetto più terrificante, per la sua crudeltà e il suo sadismo, del film. Nel trattare il corpo umano come pura materia filmica, un’immagine di celluloide, Roger Rabbit fa scomparire le nostre ultime certezze»15. L’uomo perde

il controllo di un cinema creato dalle macchine e ormai del tutto autonomo, abdicando infine (a favore dei dispositivi informatici) alla qualifica esclusiva di autore di un’arte non più al suo servizio e non più concepita a sua immagine e somiglianza. La paternità autoriale di un’opera complessa come Who Framed Roger Rabbit è in effetti questione particolarmente controversa e di difficile soluzione. Davvero, come sostiene Magny, gli strumenti musicali o le calzature animate che fuoriescono continuamente dalla propria cassa portando lo scompiglio negli Studios, non dovendo il proprio moto che a se stessi, automi senza scopo né origine, possono rivelare metonimicamente l’intima natura di un testo parimenti privo di un “autore”, prodotto di una massa indifferenziata di anonimi creatori? Anche Rosenbaum si domanda se Who Framed Roger Rabbit debba essere considerato un capolavoro senza autore, nella tradizione di film come King Kong (Id., 1933), Wizard of Oz (Il mago di Oz, 1939) o dei capolavori Disney, riconoscendo l’indispensabilità di una serie di apporti tecnici e artistici, da Gary K. Wolf (suo il romanzo Who Censored Roger Rabbit?) agli sceneggiatori Jeffrey Price e Peter Seaman, dalla Industrial Light & Magic di George Lucas a Steven Spielberg, che ha collaborato a diversi livelli al film, dal direttore dell’animazione Richard Williams ai vari ideatori dei personaggi presi in prestito per affollare il variopinto mondo di Cartoonia, ai romanzieri noir sopraccitati. Il concetto di autorialità applicato a un’arte eminentemente collettiva come il cinema, aggregazione e armonizzazione di contributi eterogenei, è in sé debole e rischioso, ma comunemente accettato: come mai allora proprio Who Framed Roger Rabbit sembra rigettare un’identità autoriale univoca, estendendola non solo ai responsabili dell’animazione (atteggiamento comprensibile per un film come questo), ma

addirittura agli artefici del soggetto, della sceneggiatura, degli effetti speciali (la ILM, un soggetto collettivo di per sé) e finanche agli artisti del passato che, in un modo o nell’altro, hanno contribuito indirettamente all’universo ipotizzato dal film con la loro opera16? Anche 2001: A Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio, 1968) si ispira ai racconti di Arthur C. Clarke ed è esaltato dagli effetti speciali di Douglas Trumbull come dalle musiche di György Ligeti, Richard Strauss e Johann Strauss, ma nessuno si sognerebbe di frangerne e disperderne la paternità, negandone la completa appartenenza a Kubrick. Se ciò invece è possibile per Who Framed Roger Rabbit, la ragione è da rintracciare nella peculiare posizione di Robert Zemeckis, non identificabile come “autore” in senso classico ma piuttosto come un catalizzatore di dinamiche produttive, sperimentatore instancabile di forme, capace di servirsi consapevolmente della tecnologia per affrontare e interpretare di volta in volta alcuni nodi storici cruciali, facendosi carico, nell’idea stessa sottesa alle proprie immagini, di un dubbio, un limite (al di là del quale proiettarsi), un orizzonte simbolico, una non rassicurante alterità. Eppure il cinema di Zemeckis, al di là della continuità garantita proprio dal configurarsi ogni volta in verifica e ridefinizione dei canoni e delle possibilità della rappresentazione, rimane comunque espressione e reiterazione di una certa quantità di temi e figure, di una poetica coerente e ricorrente alla quale Who Framed Roger Rabbit è perfettamente ascrivibile: ad esempio nella rievocazione nostalgica di un’America perduta – qui gli anni quaranta, come in Back to the Future (Ritorno al futuro, 1985) il decennio successivo e in Back to the Future Part III (Ritorno al futuro parte III, 1990) addirittura il selvaggio West di fine Ottocento, immediatamente prima della chiusura della frontiera – e soprattutto nell’ossessione per il tempo, autentica matrice dell’opera del regista – basti

pensare alla sua soggettivizzazione nella saga di Back to the Future o in film come Contact (Id., 1997) e Cast Away (Id., 2000). In Who Framed Roger Rabbit il tempo assume un valore duplice e contraddittorio, declinandosi variamente e rendendosi percorribile in ambedue le direzioni: da una parte è tempo della memoria, trascorso e soggettivo (il dolore per l’uccisione del fratello non si attenua con il suo avanzare, il passato non è tale – tant’è che si ripresenta, offrendo a Valiant l’occasione di affrontare i propri fantasmi); dall’altra è tempo della risoluzione, prossimo e oggettivo, lancetta che corre inesorabilmente verso la mezzanotte allo scoccare della quale il giudice Morton metterà le mani su Cartoonia, decretandone la scomparsa. Un tempo dunque come riproduzione infinita e struggente di un istante decisivo, un altro tempo invece come scadenza improrogabile e meccanismo narrativo generatore di suspense: entrambi comunque avvertiti come minaccia, fardello, barriera (esistenziale – ma anche professionale, dato che dalla morte del fratello e socio, Valiant ha scelto di non lavorare più a Cartoonia – nel primo caso, giuridica e morale nel secondo). Il rientro in una temporalità oggettiva non è mai privo di difficoltà per i personaggi di Zemeckis detentori di una percezione soggettiva del tempo: così è anche per Valiant, la cui indagine è ostacolata dal peso del passato e dalle sue scorie (il bere eccessivo, il cinismo, il rifiuto di lavorare a contatto con i cartoni, addirittura per loro). Per portarla a termine, egli dovrà necessariamente metabolizzarlo e, in qualche modo, dimenticarlo. SEGNALI DI PASSAGGIO: IMMAGINI, GENERI, CORPI

Vi è tuttavia un altro elemento che inserisce Who Framed Roger Rabbit all’interno di un percorso

autoriale personale e continuativo, vale a dire quel principio di ibridazione che sembra davvero costituire il nucleo centrale e l’intima aspirazione del cinema di Zemeckis, e che si esercita su molteplici piani. A un primo livello, più epidermico, esso è ovviamente riconoscibile nella natura “mista” delle immagini, combinazione di riprese dal vero e disegni animati, di una deriva iconica e di un’elaborazione simulacrale che verrà portata alle sue estreme conseguenze con la Performance Capture di The Polar Express (Polar Express, 2004), tecnica che attribuisce la recitazione di “veri” attori a figure digitali rendendo del tutto inscindibili gli uni dalle altre. Ma il lavoro di contaminazione e rifondazione dell’immagine svolto da Zemeckis si muove anche in altre direzioni: come in Forrest Gump (Id., 1994), dove l’ibridazione tra riprese realizzate ad hoc e materiali di repertorio (con Forrest inserito in filmati d’epoca e posto in condizione di interagire perfettamente con i loro protagonisti) dà luogo a una manipolazione del visibile che va ben al di là di operazioni come quella svolta per semplice giustapposizione da Dead Men Don’t Wear Plaid (Il mistero del cadavere scomparso, 1982) di Carl Reiner, che tramite il montaggio si limita a imbastire raccordi impossibili tra materiali eterogenei al fine di stravolgerne il significato, ma che si dimostra molto più radicale anche rispetto a quella messa in atto in un mockumentary (peraltro abilissimo) come Zelig (Id., 1983) di Woody Allen, non limitandosi a dotare di un’impressione di autenticità immagini fittizie, ma creando una nuova tipologia di immagine in cui svanisce la distinzione stessa tra vero e falso. La commistione tra realtà e animazione rappresenta senz’altro l’aspetto più reclamizzato di Who Framed Roger Rabbit (soprattutto in virtù della sua innovatività dal punto di vista puramente tecnico), tuttavia non è il solo a rivestire un certo interesse.

Se più in profondità De Bernardinis riconosce un’integrazione tra mondo della fabula e quello che Eco definisce «mondo di riferimento»17, individuando inoltre nell’uomo che “invade” il set del corto iniziale una figura che assomma regista e spettatore, informatore e narratario18, anche i codici di “genere” – secondo una consuetudine nella poetica zemeckiana – risultano ridefiniti dal fenomeno di crossover, spostando la dinamica ibridatoria da un registro narratologico a quello narrativo: così, allo stesso modo in cui Used Cars (La fantastica sfida, 1980) attinge scopertamente ai modelli del western nella lunga sequenza dello spostamento di una “mandria” di automobili, Romancing the Stone (All’inseguimento della pietra verde, 1984) risulta chiaramente debitore degli stilemi del fumetto (ma anche del romanzo d’appendice) e un film come Cast Away denuncia la propria schizofrenia incastonando una lunga sezione centrale di respiro quasi metafisico tra i ritmi frenetici della prima parte e i toni melò dell’ultima, Who Framed Roger Rabbit combina consapevolmente animazione e noir, universi iconografici e narrativi distinti e apparentemente di ardua conciliazione rispetto alle questioni fondanti19. Come il sesso ad esempio: onnipresente nelle dinamiche seduttive tipiche del noir (elemento connaturante di una delle sue figure archetipiche, la femme fatale) e principale motivo di perdizione assieme al denaro; depurato e sublimato in un eterno corteggiamento nei cartoni rivolti a un pubblico infantile, fattore perturbante e “peccato originale” nel film di Zemeckis (che ambisce dichiaratamente a rivolgersi a uno spettatore adulto)20, vero punto di intersezione tra il mondo animato e l’intreccio noir. Anche il concetto di morte è affrontato da prospettive antitetiche, perennemente incombente nel noir quanto invisibile nell’universo edulcorato del cartone: non però in Who Framed Roger Rabbit, in cui una sostanziale novità (non solo

per il genere, ma nello specifico per gli stessi protagonisti del film) è costituita dall’invenzione della “Salamoia”, miscela chimica a base di trementina, acetone e benzina in grado di dissolvere un cartone, di ucciderlo – senza contare che l’omicidio del fratello di Valiant, sebbene se ne apprenda solo dalle parole dei personaggi, rappresenta già una decisiva infrazione alla regola, rivelando il volto oscuro (seppur identificato come “eccezione”) di un mondo di totale innocenza e trasparenza. L’interpretazione della morte si riflette poi naturalmente nel diverso sentimento del tempo: da una parte un mondo sordido e prettamente “umano”, ossessionato dal passare di un tempo che è lineare, motore di un disfacimento – morale e materiale – progressivo e inarrestabile (quasi mai nel noir si ha la possibilità di tornare indietro, di recedere dalla scelta compiuta, e non resta che perseguirla fino in fondo), e ricorsivo insieme (il ritorno di vecchi fantasmi, i conti insoluti con la propria coscienza, le “catene della colpa” che inchiodano a un destino); dall’altra un mondo di cartone che costruisce e fruisce la propria temporalità nell’istante, vivendo di un eterno presente. I suoi protagonisti non invecchiano, esistono per quel tanto che rimangono in scena, non recano alcun segno duraturo degli avvenimenti trascorsi – né fisici (nonostante i continui e catastrofici incidenti in cui incorrono) né tantomeno psichici. Eppure in Who Framed Roger Rabbit la narrazione restituisce almeno in parte al cartone un tempo della trasformazione, un passato: non solo personale, nell’album di fotografie che Roger sfoglia affranto dopo aver appreso il tradimento della moglie e che rimanda evidentemente a momenti in cui i due erano felici, ma anche metacinematografico e “oggettivo”, nella rapida apparizione di un’icona in bianco e nero degli anni trenta come Betty Boop che l’avvento di nuove bombe sexy come Jessica Rabbit, ma specialmente il passaggio al colore, ha ridotto ai

margini. Nell’economia degli interscambi tra noir e cartone, dunque, si può concludere che, se Magny sottolinea come il (com)plot(to) noir risulti “cartoonizzato”, equiparabile nella sua sottigliezza al canovaccio slapstick di fughe, inseguimenti e capitomboli desumibile da un qualsiasi episodio di Tom e Jerry, è l’universo dell’animazione che sembra snaturarsi in maniera più significativa, trascinato nelle nefandezze e nei bassifondi del noir. Vi è anche un altro aspetto della narrazione, che concerne i percorsi dei singoli personaggi e che finisce per agganciarsi a un ulteriore livello di analisi, quello del “corpo” in scena. Se i protagonisti del noir sono schiacciati da un destino ineluttabile (ai quali li condanna in prima istanza il loro stesso “carattere” – il detective cinico e solitario, la dark lady dal fascino morboso e pericoloso…), che non di rado si sovrappone alla casualità imperscrutabile di un incontro, di un contrattempo, di un detour, il mondo dei cartoni appare invece governato da un’anarchia assoluta, salvo poi volgersi in un sistema di “destini” immutabili, reiterazione illimitata di azioni previste da un autore per le proprie creature (Wile E. Coyote continuerà invano a tendere agguati a Road Runner, così come Paperino sconterà in eterno i propri debiti lucidando le monete di Zio Paperone): in questo senso Who Framed Roger Rabbit rappresenta un’infrazione rilevante, concependo i cartoni come “interpreti” consapevoli di un ruolo al quale (almeno alcuni di essi) non sono del tutto assimilabili, ipotizzando dunque nei loro confronti un’inedita dissociazione tra sfera privata e professionale e facendoli carico talvolta di un’identità autonoma rispetto al “personaggio” che sono chiamati a incarnare sul palcoscenico. Tale ribaltamento non è esteso a tutti: Dumbo assume le medesime caratteristiche universalmente note anche fuori dal set (ma lavora «per un pugno di noccioline» afferma R.K. Maroon, introducendo comunque una

duplicazione, un’esistenza slegata da una presunta prestazione attoriale), come pure Topolino o Bugs Bunny. Ma non Jessica, non Baby Herman, «personaggi che marcano una finzione, recitano una parte»21 (e la prima arriva addirittura a rimarcarlo verbalmente, con la celebre frase «Io non sono cattiva, è che mi disegnano così»): quando ciò si verifica il cartone perde la propria “purezza”, non acquistando semplicemente caratteristiche tipicamente umane, ma “contaminandosi” in profondità, nel suo stesso corpo. Così Jessica è davvero una “bambola di carne”, addirittura più sensuale di una donna reale [ill. 2], figura massimamente ambigua (anche dal punto di vista narrativo) e disegno capace di suscitare desideri concreti negli uomini che la guardano (e pronto per accedere alla sfera sessuale, aduso a quella pratica di fare “farfallina” riscattata dalla sublime ironia di Zemeckis), prigioniera di un corpo che è indelebile definizione identitaria – come lamenta nella battuta che la identifica – ma anche promessa di una fisicità tangibile (per gli altri) e al contempo di un’umanità impossibile (per se stessa); così ancora, allo stesso modo di Jessica, Baby Herman confida a Valiant il disagio per l’inadeguatezza di un corpo impossibilitato a crescere e a modificarsi («ho le voglie di un cinquantenne e il pisellino di tre anni») e, nell’evocare connotazioni anagrafiche, parla di sé come di un essere umano, dal momento che i cartoni non hanno età. Anche il giudice Morton, personaggio programmaticamente liminale che attraversa in entrambi i sensi la linea d’ombra dei cartoni, assorbendo tanto dall’umanità (l’avidità22, il disprezzo, l’ingegnosità deviata, la brutalità, la corruzione, la sete di potere) da “farsi” uomo, incarna la doppiezza del corpo nel film, assommando su di sé entrambe le nature: ciononostante nel suo caso il processo ibridatorio si definisce in maniera tutto sommato meno estrema rispetto a quello di Jessica Rabbit e Baby

Herman, svolgendosi più per sostituzione – in quanto egli partecipa solo di una dimensione per volta (prima uomo, poi cartone) – che per condensazione, come avviene per coloro i quali contraddicono l’apparente stabilità di una forma configurandosi (e percependosi) in senso contrario. In effetti, l’ambivalenza di Morton (un cartone “travestito” da uomo) è solo ricostruibile a posteriori, allo scioglimento della vicenda, ma nella sua figura non vi è mai disaccordo tra immagine ed essenza (quando appare come umano esprime una rigidità inconciliabile con la forma-cartone; quando lo scopriamo cartone distilla una follia che lo allontana irreversibilmente dalla forma-uomo) e anche la mescolanza di carne e disegno della sequenza finale (estranea a tutti gli altri personaggi del film), supercorpo dalle sembianze umane e dalla sostanza (e l’armamento) di cartone, definisce un percorso più artificioso e, in ragione di ciò, costretto all’esplicitazione e all’ostentazione. Allo stesso modo di Jessica e Baby, anche un umano si fa portatore di una natura autenticamente sintetica: la sublimazione di una fisicità concreta da parte di alcuni cartoni è infatti bilanciata dalla “trasformazione” di Eddie Valiant in cartone a sua volta23. Se tuttavia Jessica e Baby sono già “ibridi” in partenza, il corpo di Eddie subisce una vera e propria mutazione, peraltro ripetutamente profetizzata («Vedo che lavorare per un cartone per lei è contagioso» lo apostrofa il giudice, mentre già nella sua escursione per le strade malfamate di Cartoonia Valiant vede la propria ombra diventare autonoma), che è presupposto indispensabile alla soluzione del caso da parte sua: se il giudice lo schernisce accusandolo di non possedere immaginazione (per gli affari), è proprio recuperando l’idealismo, lo humour e la fantasia che i colpi della vita gli hanno fatto smarrire che Valiant è in grado di sconfiggerlo. Ciò è particolarmente evidente durante lo scontro nel magazzino Acme, nel balletto

improvvisato che, una dopo l’altra, manda all’altro mondo le faine (nel corso del quale Valiant si lascia cadere pesanti palle sulla testa e si procura una violenta scossa, come nella migliore tradizione, senza risentirne minimamente – [ill. 3]) e nella lotta finale col giudice, per sostenere la quale il detective è costretto a servirsi di una serie di aggeggi animati e non24. Proprio alcuni oggetti possono essere indicati come espressione dell’ambivalenza dell’universo di Who Framed Roger Rabbit, dando origine a ulteriori momenti di confronto tra animato e inanimato: ad esempio l’automobile delle faine è contrapposta (anzi, in principio addirittura lo “contiene”) al ciarliero taxi Benny (che in sé assomma mezzo di trasporto e autista), il quale riesce infine a sfuggirle proprio grazie alla sua essenza di cartone, a strumentazioni e a un movimento ascensorio negati a un veicolo “normale”; nella scena dell’omicidio di R.K. Maroon, poi, la pistola che uccide è quella “reale”, sovrapposta nel riflesso a quella disegnata sul manifesto di un cartone (e l’antitesi tra l’arma del giudice e una pistola di cartone è riproposta poco dopo per i bassifondi di Cartoonia); al bastone animato (reale) di Morton, infine, Valiant non può che opporre una, del tutto inappropriata, spada-cantante. Se questi oggetti imbastiscono tra loro dei parallelismi, un meccanismo simile sembra applicarsi anche ai personaggi principali: così se il giudice vive effettivamente due volte (da uomo e da cartone), Jessica ha il suo doppio (mostruoso) nella figura che inganna Valiant a Cartoonia e che si definisce come un cartone a tutto tondo (è in virtù di ciò che il detective se ne libera, deviando la striscia della strada contro un muro) quanto la moglie di Roger, al contrario, si appropria idealmente di un corpo in carne e ossa. Persino l’adirato regista del cartone introduttivo ha un suo doppio, nella madre che minaccia Roger al momento di affidargli Baby. Gli unici a non esserne provvisti

sembrano proprio Roger e Valiant, ma solo perché sono l’uno il doppio dell’altro. Inizialmente antitetici, finiscono infatti con il sovrapporsi più di una volta: ad esempio nella sequenza in cui il gesto del coniglio, che piange a dirotto sulle istantanee che lo ritraggono in spiaggia assieme a Jessica [ill. 4], trova perfetta equivalenza in quello con il quale il detective riapre l’album dei ricordi, soffermandosi prima sulle fotografie delle ultime vacanze con Dolores, poi su quelle in cui compare il fratello [ill. 5]; o, ancora, quando Eddie afferma come qualcuno abbia voluto incastrarlo, “rubando” il titolo del film a Roger. Man mano che l’azione procede, Roger e Valiant si scambiano sempre più frequentemente i ruoli, con il detective che si tramuta in clown e il clown che gioca a fare il detective (come fuori dall’ufficio di Maroon, o nell’irruzione nel magazzino dove Valiant e Jessica sono ostaggio del giudice). Tuttavia è necessario sottolineare come sia solo Valiant a muoversi verso Roger, in quanto lui solo è chiamato a ritrovare se stesso (e ciò ne fa il vero protagonista del film), mentre il coniglio ha un’identità immodificabile: egli è infatti l’unico personaggio a non cambiare (carattere, forma) per tutto il film, cartone assoluto che rigetta ogni attributo umano (non reagisce in preda alla gelosia al tradimento della moglie, ma le scrive una lettera d’amore; l’alcol produce su di lui effetti disastrosi) e si attiene alla regola di genere che gli impone di mantenersi identico attraverso le storie e i mondi che è chiamato ad abitare (non a caso la testa di Roger nel riquadro del frigorifero che lo schiaccia alla fine dello spezzone animato figurativizza la dimensione schermica da cui egli non esce neppure a riprese concluse)25. Con l’eccezione di Roger, a ogni modo, i corpi principali di Who Framed Roger Rabbit si configurano dunque come ibridi, non totalmente umani né propriamente cartoni. Assodata la composizione

proteiforme dell’universo del film e ricostruite le traiettorie dei suoi vari componenti, resta però da definire un’ultima questione, vale a dire quale delle due nature abbia effettivamente “contagiato” l’altra o, in altri termini, quale delle due abbia il sopravvento. A tale proposito le interpretazioni sono discordanti: se per alcuni sono i cartoni-personaggi a sconfinare nello spazio «reale»26 e, alla soluzione della vicenda, «i toons possono diffondersi a piacere nel nostro mondo, la frontiera è abolita. […] Roger è liberato da tutte le menzogne e nessuno può ormai “incorniciarlo”, contenerlo»27 (idea che sembra trovare rispondenza, all’inverso, nell’adeguamento umano alle leggi fisiche dei cartoni – come nel caso di Valiant)28, altri insinuano la possibilità che sia accaduto piuttosto il contrario, con gli uomini a invadere quel territorio dell’immaginario dominio dei cartoon29, come confermerebbe l’ipotesi che sia stato il noir ad aver “sporcato” i cartoni più di quanto questi lo abbiano “ripulito” e come si evincerebbe anche dall’umanizzazione di Morton (nonché dalla personificazione di un’entità cartoonesca come Acme) e dalla trama stessa del film, che vede la cupidigia “umana” – anche se non di un uomo – minacciare l’innocuo mondo di Cartoonia. Al fine di fare chiarezza fra le differenti posizioni sarà utile prendere in esame due frammenti dell’opera di Zemeckis, che sembrano configurarsi come vere e proprie sezioni autonome: il cartone iniziale e la lunga sequenza centrale della visita di Eddie nella città dei cartoni. MR. VALIANT VA A CARTOONIA

Somethin’s Cookin’, il cortometraggio d’animazione in cui Roger è incaricato di badare a Baby, miracolo di ritmo e comicità, costituisce la porta d’ingresso al film, di cui rivela immediatamente anche il carattere

fortemente “prolettico”. Spesso infatti in Who Framed Roger Rabbit alcuni elementi, magari poco appariscenti, svolgono la funzione di anticipare ciò cui si assisterà in seguito. Ad esempio, il momento dell’entrata del giudice nel magazzino teatro dello scontro finale prevede già i segni dell’esito di quest’ultimo (rivelando al contempo la vera/falsa natura del “cattivo”: la prima inquadratura contiene infatti in primo piano delle maschere di gomma, profetiche rispetto all’immagine conclusiva che mostra il giudice ridotto a una maschera scolorita – come lo definisce un poliziotto); subito dopo una scatola di palline si rovescia sul pavimento, rimandando all’attimo della rinascita e mutazione di Morton (i cui occhi “umani” cadono come due palline di plastica30, lasciando il posto a due sfere di cartone iniettate di rosso – i cartoni non hanno sangue –, ipnotiche e affilate). Così, anche il cartone iniziale propone alcuni elementi che si ritroveranno nel finale: ad esempio Roger si gonfia d’aria sino a volteggiare per tutta la cucina come un aerostato, allo stesso modo in cui Morton, silhouette (ri)animata, ricrea un proprio spessore gassoso con l’aiuto di una bombola. Ma è l’intera concatenazione di disavventure domestiche dell’inizio a contenere già i pericoli e le modalità della lotta tra Valiant (ancora una volta doppio di Roger), il giudice e le faine, tanto che si potrebbe ipotizzare che tutto il film sia compreso fra un ciak e l’altro della stessa scena, fra le riprese di uno sketch riuscito male (il regista che si infuria con Roger, il quale non ha rispettato la sceneggiatura) e la sua ripetizione, stavolta a buon fine (non a caso il coniglio, dopo essere stato sepolto dalla tonnellata di mattoni che gli è caduta in testa, produce finalmente le sospirate “stelline”, commentando «sono pronto a girare, Raoul»). E il nome stesso del regista – Raoul J. Raoul, appunto – sembra quasi fare riferimento a una pratica di iterazione della messa in scena. Anche in

Romancing the Stone si assiste a qualcosa di molto simile, con il prologo “letterario” (anch’esso una sorta di “cortometraggio” nel film) a porre una serie di elementi che troveranno diretta equivalenza in seguito31, rappresentando la loro versione “romanzata” rispetto agli impacci del mondo reale così come il cartone iniziale di Who Framed Roger Rabbit volge in chiave ludica le minacce concrete dell’epilogo e insinuando nuovamente il dubbio che le peripezie del film non siano state altro che un prodotto dell’immaginazione della scrittrice. Come nel caso di Romancing the Stone, in cui tra la scena del prologo e quelle successive si stabiliscono analogie strutturali, anche le due sequenze prese in esame di Who Framed Roger Rabbit sono entrambe giocate su cadute verticali (mattoni e palle da bowling nel magazzino, il frigorifero in cucina), schiacciamenti (quello di cui è vittima Morton, quello che chiude il cartone), sospensioni nel vuoto (il pendolo cui si aggrappa Baby per raggiungere il recipiente dei biscotti, il gancio al quale sono appesi Roger e Jessica – che peraltro, nel seguire l’evolversi della situazione, riproduce proprio un movimento oscillatorio), spostamenti (i coltelli da cucina che Roger deve evitare come i colpi inferti da Morton che Valiant riesce a schivare). Assistendo al continuo rovesciarsi delle sorti del combattimento finale, al prolungato avvicinarsi e allontanarsi del gancio al quale sono legati Roger e Jessica dal punto in cui si troverebbero a contatto con la terribile salamoia [ill. 6], si comprende come in effetti proprio gli spostamenti rappresentino le traiettorie privilegiate del film: sostiene infatti Magny che «tutto non è che un affare di spostamento, più o meno rapido. Se, come afferma Paul Virilio, nel mondo contemporaneo la velocità e il potere si equivalgono, si comprende che Roger Rabbit si può riassumere in un’immensa corsainseguimento oppure in una fuga in avanti», indicando la velocità come la sola modalità per governare lo

spazio del film ed evidenziando come ciò renda quest’ultimo invisibile, percorso non più dai personaggi o dagli oggetti, ma da puri spostamenti32. Il parallelismo tra le sequenze d’apertura e di chiusura è confermato definitivamente dalla considerazione secondo cui la velocità deforma lo spazio della cucina «tanto da farla sembrare immensa quanto uno stadio – effetto che rima con il climax principale della partita giocata nel film» in uno spazio altrettanto dilatato come quello del magazzino33, ma soprattutto da quella per cui «lo spazio “reale” del magazzino di Acme diventa […] malleabile quanto quello della cucina del cartone iniziale. La verità ontologica del cinema si dissolve nell’illusionismo del disegno animato. […] Tutte le forme si equivalgono»34. Tale “cartoonizzazione” del mondo fisico sembra dunque avvalorare ulteriormente la teoria secondo la quale sia l’universo cartoonesco a influenzare decisamente quello umano. Eppure, nonostante gli evidenti legami con il prosieguo del film, è indubbio come il corto d’animazione continui a trasmettere la sensazione di un’introduzione che finisce per acquisire la statura di una porzione distaccata, slegata dall’opera sebbene in dialogo con essa35. Robert Watts sottolinea ad esempio come, all’apertura del sipario, non compaia a eccezione del titolo nessun segnale paratestuale – un logo di studio, i nomi del cast – ad annunciare l’inizio dello spettacolo e a riassorbire il cartone all’interno di esso, ma come senza alcun preavviso ci si ritrovi subito faccia a faccia con Roger Rabbit: «Questo non è assai sorprendente? […] Per quasi due minuti è un cartone animato formidabilmente ludico»36. D’improvviso però un uomo (il regista) fa “irruzione”, seppur tramite uno spostamento non nell’inquadratura ma dell’inquadratura (movimento di macchina all’indietro che contestualizza e svela la finzione), nel mondo animato, ridimensionandolo a set circondato da

un ambiente molto più grigio, paradossalmente ben più problematico di una cucina disseminata di innocui incidenti [ill. 7]. Se da una parte sono i cartoni a lavorare a Hollywood, affollando gli Studios e mischiandosi ai personaggi reali, un uomo interrompe lo spettacolo, facendolo ripartire sotto altre forme e “contaminando” per primo uno spazio immaginario37. Sebbene molti abbiano sottolineato come il desiderio dell’uomo di diventare un “cartoon” prevalga sulla dinamica opposta, analizzare i transiti identitari dei singoli personaggi non sembra risolvere del tutto il quesito di partenza, coprendo l’intero spettro delle possibilità – l’uomo che si fa cartone (Valiant), il cartone che si è fatto uomo (Morton), l’uomo che aspira a essere un cartone (Acme), il cartone che aspira a essere uomo (Jessica Rabbit e Baby Herman), il cartone che rimane tale (Roger), l’uomo che non può essere altro (Maroon). Allora, per giungere a una risposta definitiva, maggiore importanza assumono forse le loro traiettorie spaziali. Oltre all’intervento sul set da parte di Raoul Raoul, vi è infatti solo un altro momento in cui un uomo accede a un mondo di cartone. Eddie Valiant non decide di sua spontanea volontà di recarsi a Cartoonia, nella quale non fa ritorno dalla morte del fratello. È l’inseguimento di Jessica Rabbit, la cui auto – dopo l’omicidio di R.K. Maroon – sparisce nella galleria che introduce alla città dei cartoni, a trascinarvelo. Per entrare a Cartoonia è necessario oltrepassare una soglia che, se per Eddie è in primo luogo esistenziale, si pone anche in maniera sostanziale. I fenomeni ibridativi che percorrono il film a più livelli e in molteplici direzioni (applicandosi all’immagine, al materiale narrativo e ai corpi, all’ambiente sociale come anche alla sfera temporale – nell’integrazione memoriale di passato e presente e in un meccanismo di suspense che sottopone la prospettiva di un termine ultimo a continue

digressioni, delle quali una delle più corpose è appunto il viaggio a Cartoonia38) non sembrano infatti riguardare, a sorpresa, la dimensione spaziale. Malgrado l’incessante compenetrazione tra un universo e l’altro, la linea che stabilisce il confine tra Hollywood e Cartoonia non è mai messa in discussione. Certo, essa viene scavalcata di continuo (a cominciare da Yosemite Sam che la sorvola letteralmente, atterrando dall’altra parte), ma permane a segnare una demarcazione nettissima e una diversità inconciliabile. In un film pieno di soglie e di aperture – dal sipario che annuncia l’inizio di Cartoonia all’ingresso nel locale in cui si esibisce Jessica, dai numerosi fori che si schiudono agli sguardi all’iride finale in cui Porky Pig cerca di inserirsi, dai buchi portatili Acme allo schermo della sala cinematografica39, anche quando nel finale la gigantesca macchina della salamoia approntata da Morton sfonda il muro divisorio e si addentra per qualche metro nel territorio dei cartoni immediatamente un treno spuntato chissà da dove la rimuove, senza lasciarne traccia alcuna. A nessun residuo di umanità è dato di entrare a Cartoonia, gli unici due cui è concesso (Morton e Valiant) possono farlo in quanto ex/già cartoni. Anche nel finale, che farebbe supporre una riconciliazione fra i due mondi e una loro definitiva integrazione, solo Eddie e Dolores si avviano ad attraversarne la frontiera: ma il primo è ormai per l’appunto un cartone (e come tale accettato dagli altri), e lo è diventato a partire dal suo viaggio a Cartoonia. Appena arrivato in città, Valiant si rende conto del principio che governa Cartoonia: l’anarchia assoluta, la totale assenza di regole e di ordine. A tale proposito è significativo paragonare questo microcosmo a un altro universo di cartone che intrattiene rapporti di vario tipo con il mondo umano, quello immaginato in Cool World (Fuga dal mondo dei sogni, 1992) da Ralph

Bakshi40. Cartoonia e Cool World (Mondofurbo nella versione italiana) presentano alcune rilevanti analogie. Entrambe ad esempio privilegiano la dimensione verticale, con grattacieli percorsi in salita (Valiant in ascensore, Frank in arrampicata) e in discesa (ambedue precipitano vertiginosamente, ma senza impattare al suolo) – senza contare che Jack Deebs accede a Cool World sempre piombando dall’alto –, mentre la direttrice orizzontale è connotata come costante fonte di rischio (ogni volta che si muove lungo di essa Valiant incappa in inconvenienti di vario genere o in situazioni di vero e proprio pericolo: l’incidente in auto subito dopo il suo ingresso, le corse sfrenate della finta Jessica – la prima è appunto causa della sua caduta dal grattacielo –, la sparatoria nei bassifondi). Tanto Cool World quanto Cartoonia si aprono inoltre all’ingresso del reale (facendo peraltro ricorso a metafore di carattere esplicitamente sessuale – lo spillo magico e la fenditura vaginale da cui Frank penetra nel mondo animato nel primo caso, la galleria nel secondo), eppure tendenzialmente il loro rimane un movimento non di accoglienza, bensì centrifugo, di invasione del reale: esemplare in tal senso l’entrata collettiva degli abitanti di Cartoonia, attraverso la frattura nel muro di confine, nel magazzino Acme [ill. 8], così come la determinazione di Holly a essere “vera” (come Pinocchio, come il cinema – non a caso il suo nome completo, Holly Would, gioca con quello di Hollywood) che produce l’incontenibile fuoriuscita di cartoni in Cool World, vera e propria “eruzione” che “ridisegna” il reale dando luogo a una trasformazione di massa. Ambedue le città sembrano infine sul punto di scomparire a causa di un uomo, ma in effetti sono minacciate dall’interno, da un cartone (le speculazioni del giudice, le voglie di Holly), ed entrambe preludono a una metamorfosi dei protagonisti, a un andirivieni dalla condizione umana a quella di cartone. Tuttavia se i corpi di Zemeckis sono intimamente ibridi, quelli di

Bakshi ricorrono a mutazioni artificiose (quando Jack e Holly cambiano forma in rapida intermittenza, le due entità si alternano senza mai incontrarsi): non a caso i personaggi di Cool World hanno bisogno di modificare la propria natura (Holly che diventa umana, Frank e Jack che si trasformano in cartoni) o di camuffarsi (come il dottor Mustacchi, simile in questo al giudice Morton)41, a differenza di quelli di Who Framed Roger Rabbit che partecipano di una natura autenticamente di confine. È questa la prima di una serie di caratteristiche che differenziano in maniera significativa i due universi: se ad esempio Cartoonia si delinea come un mondo del tutto autosufficiente, che coesiste con quello reale (anche spazialmente adiacente a esso e dunque perfettamente “collocabile”, tanto da poter affermare che partecipa di una dimensione ucronica, ma non utopica), rimanendone comunque distinto, Cool World è invece connotato come luogo della mente, Paradiso lisergico in cui rifugiarsi dalle sofferenze della vita42 (ma anche Eden da cui essere scacciati dopo avere infranto il divieto di fare sesso con gli umani, cioè dopo aver acquisito la “conoscenza”43, o ancora Aldilà in cui rinascere in spirito/di cartone), opposto al mondo reale – ogni contatto col quale rappresenta la più grave delle minacce – ma soprattutto parallelo e alternativo a esso, trasposto in un’altra dimensione. In Zemeckis invece la “realtà” di Cartoonia non è mai in dubbio, anzi il film fonda la propria originalità proprio sulla sua totale equiparazione con l’esterno. Ciò sembra confermato dalla considerazione di come Cool World sia il palcoscenico privilegiato del film di Bakshi (al punto da dargli il titolo; Cartoonia invece si intravede in due occasioni, mentre è effettivamente esplorata solo nella sequenza in cui Valiant vi accede), ma soprattutto dal fatto che Cool World ha un “autore” (il disegnatore Jack Deebs), Cartoonia invece no (Acme è il suo proprietario, non certo il suo creatore). Se

entrambe le città sono inevitabilmente ritagliate sul mondo degli uomini dal punto di vista paesaggistico, urbanistico e architettonico (prevedendo nel loro territorio strade più o meno malfamate e palazzi antropomorfi, alberi e mezzi di trasporto), la prima è, a differenza dell’altra, un universo a immagine e somiglianza di quello umano perché modellato su di esso dal punto di vista sociale (e morale, dal momento che è dominato da violenza, lussuria e degradazione): vi sono locali alla moda, vi si compiono attività umane verosimili (ballare, fumare, scopare) e non incredibili e gratuite (gettarsi da un grattacielo col paracadute, come Topolino e Bugs Bunny), sono previste gerarchie e ci si è organizzati in bande, ma soprattutto vi è stato introdotto il concetto di divieto, vi è una regola (anche se una soltanto, anche se inattuabile in un altro sistema). La maggiore vicinanza di Cool World al mondo reale è poi confermata dal fatto che, mentre a Cartoonia tutto è rigorosamente “di cartone” (Valiant deve non a caso riprendere in mano una pistola animata al momento di addentrarsi in quel mondo, mentre l’unico oggetto reale è l’arma del giudice, a marcare l’alterità del suo proprietario), il mondo di Bakshi presenta una commistione tra disegni e materiali reali (come i pavimenti, ad esempio) e Frank può fare uso di oggetti non animati (la pistola) o al massimo ibridi (l’automobile vera con un pneumatico di cartone). Cool World è dunque sovrapponibile alla realtà (come le versioni “cartoonizzate” dei personaggi che sostituiscono per qualche breve istante i corpi in carne e ossa), ma non assurge a “realtà” esso stesso. Ecco perché ha maggiore bisogno del mondo degli uomini. Se i cartoni di Zemeckis non hanno altro scopo che quello di far ridere, anche a costo di mettere a repentaglio la propria esistenza, a quelli di Bakshi, proprio come agli umani, non resta che la prospettiva di sopravvivere.

1. La lettera d’amore di Roger si contamina con il testamento di Acme

2. La “bambola di carne” nella sua straripante sensualità

3. Valiant non può esimersi dalla classica scossa per far (letteralmente) morire dal ridere

4. Roger e Valiant sfogliano l’album dei ricordi, già doppio l’uno dell’altro

5. Roger e Valiant sfogliano l’album dei ricordi, già doppio l’uno dell’altro

6. Lo spostamento come principio narrativo ed emotivo di Who Framed Roger Rabbit

7. Un regista interviene sul set, ma soprattutto un uomo irrompe in un universo di cartone

8. La festante popolazione di Cartoonia si riversa in massa nel mondo reale

Ritorno al futuro di Vincenzo Buccheri 1. UNA TRILOGIA

Back to the Future (Ritorno al futuro, 1985), con i due sequels Back to the Future Part II (Ritorno al futuro parte II, 1989) e Back to the Future Part III (Ritorno al futuro parte III, 1990)1, forma una delle saghe più celebri della storia del cinema. Prodotta da Steven Spielberg, scritta dallo stesso Zemeckis con il cosceneggiatore di fiducia Bob Gale, è la storia dei folli viaggi nel tempo compiuti dal teenager americano Marty McFly (Michael J. Fox, all’epoca star della sitcom televisiva Family Ties – Casa Keaton), in compagnia di un bizzarro mad scientist, Emmett “Doc” Brown (Christopher Lloyd), inventore di una macchina del tempo ricavata da un’auto DeLorean (“Emmett” deriva dalla parola “time” letta al contrario). Nel corso dei tre episodi, i protagonisti si trovano a dover risolvere diversi problemi per evitare che si verifichino pericolosi paradossi temporali: il mancato congiungimento dei genitori (primo episodio), la morte del padre (secondo episodio), la morte di Doc (terzo episodio). 2. UN’ESTETICA POSTMODERNA

La trilogia di Zemeckis, mix di fantasy e di commedia, si iscrive in un’estetica che, dando per scontata una definizione da problematizzare, si potrebbe chiamare postmodernista2. Tutto, nel film, è operazione di secondo grado, che si sostanzia di cinema, di mass culture e di un’ideologia del passato come spazio mitico dell’euforia e dell’innocenza perduta. Ecco per sommi capi i caratteri di questa estetica:

a. l’effetto-nostalgia (che il teorico Jameson indica come uno dei tratti primari della sensibilità postmoderna3): gli anni cinquanta sono rappresentati con affetto e ironia come luogo originario del sogno americano middle-class, tra villette unifamiliari, televisori che trasmettono le prime serie televisive (The Honeymooners), balli del liceo, auto d’epoca, canzoni di Patti Page e Nat King Cole; b. il gioco con i prodotti del mercato e dell’immaginario pop, a cavallo tra anacronismo comico, product placement e una poetica degli oggetti da romanzo di Bret Easton Ellis, che porta a un’identificazione tra personaggi e oggetti di consumo (“siamo ciò che acquistiamo”), versione, appunto, euforica della reificazione consumistica. Tutto, nella trilogia, è rassegna di marche, marchi, prodotti glamour, a partire dal nome, Calvin Klein, che la Lorraine del 1955 affibbia a Marty per averlo letto sulla sua biancheria intima (nel doppiaggio italiano diventa Levi Strauss perché il marchio CK negli anni ottanta non era abbastanza conosciuto fuori dagli Usa), per finire con il videogioco Wild Gunman che nel terzo episodio servirà a fare di Marty un provetto pistolero. E poi Pepsi, Nike (nel terzo episodio si crede sia una parola in dialetto indiano!), Mattel, Pizza Hut, Black & Decker, AT&T, il frisbee, la break dance che Marty balla nel saloon ecc.; c. l’(auto)citazionismo cinematografico: Marty che nella Hill Valley del 2015 vede l’ologramma pubblicitario di Jaws 19 (Lo squalo 19), diretto da Max Spielberg [ill. 1], o il travestimento da Darth Vader per spaventare George McFly, o il mitico monologo allo specchio («You’re talking to me?») da Taxi Driver di Scorsese, o Per un pugno di dollari mostrato nel secondo episodio e stracitato nel terzo (dal dolly che si alza sulla Hill Valley del

d.

e.

f.

g.

Far West al nome che Marty si attribuisce – Clint Eastwood –, all’espediente della piastra metallica sotto il poncho per proteggersi dalle pallottole); la presenza di una sorta di ipertestualità: quello di Ritorno al futuro è un racconto “forte” (si veda la strutturazione in tre atti nelle sinossi del paragrafo precedente) che subisce un sovradimensionamento, una iper-ramificazione. Tra i film della trilogia si instaura una rete di richiami, citazioni, riferimenti incrociati che li rende interdipendenti (impossibile capire il terzo episodio senza aver visto gli altri due…) e che per una corretta fruizione fa appello alla conoscenza enciclopedica dello spettatore4; il carattere “plastico” della messa in scena, con inquadrature che, dal décor alle posture degli attori (le smorfie di Biff, gli occhi strabuzzanti di Doc [ill. 2], hanno un taglio da fumetto, e personaggi che, come in un racconto di Coover, possiedono la consistenza del cartoon (poetica che Zemeckis condivide con il primo Spielberg, e che sfocerà in Who Framed Roger Rabbit, Chi ha incastrato Roger Rabbit, 1988); un’esplicitazione dei nodi concettuali (ad esempio il tema del futuro, del destino e dell’autodeterminazione), che invece di agire nel sottotesto del film, come sensi impliciti da inferire attraverso l’analisi, diventano presenze esplicite, quasi “personaggi” del racconto, come in una riedizione della pratica dell’allegoria (anche questa tipicamente postmoderna: si pensi ai mille simboli del tempo che punteggiano le immagini e i dialoghi – gli orologi di Doc che rintoccano nella prima sequenza, la fissazione del preside Strickland per la puntualità, la torre dell’orologio che torna in tutti gli episodi ecc.); un effetto di “spazializzazione” del tempo, che sempre secondo Jameson costituisce uno dei tratti

principali dell’episteme postmoderna. In Ritorno al futuro non solo si viaggia nel tempo con frenesia, eccitazione, per scoprire che – paradossalmente – non si ha mai abbastanza tempo, che il tempo sta per scadere, che tutto può crollare se si arriva in ritardo anche di un solo secondo («Perché dobbiamo sempre ridurci all’ultimo minuto?» si lamenta Marty nel terzo episodio). Nella trilogia si viaggia avanti e indietro nel tempo come sulla mappa di un gioco da tavolo e tutto, i paradossi temporali, i cortocircuiti della memoria, tutto sembra essere contemporaneamente presente su uno schermo, una lavagna, uno spazio bidimensionale («Pensa in modo quadridimensionale!» dice sempre Doc a Marty…). Come nell’Atlante di Aby Warburg, tutti i tasselli del passato, del presente e del futuro sono compresenti, tutta la Storia è lì, davanti a noi, e noi possiamo percorrerla liberamente; h. un universo narrativo non di tipo gnoseologico, ma ontologico, per usare l’etichetta che lo studioso Brian McHale utilizza per distinguere la narrativa modernista da quella postmodernista: Il tratto dominante della narrativa postmodernista è ontologico. Tipiche domande postmoderne riguardano sia l’ontologia del testo letterario sia l’ontologia del mondo che esso rappresenta, sul modello: Che cosa è un mondo? Quali tipi di mondo ci sono, come sono costituiti e in che modo differiscono? Che cosa succede quando tipi diversi di mondo vengono posti a confronto o quando i confini fra i mondi vengono violati5?

Ma le categorie estetiche del postmoderno schiudono solo un aspetto della comprensione del film. Perché Ritorno al futuro è molto più di questo. È un film che mette in discussione proprio il nodo della soggettività postmoderna, facendosi portatore di un “imperativo etico” ideologicamente conservativo, o perlomeno ambiguo: la nostalgia dell’Edipo…

3. RITORNO ALL’EDIPO

Come scrivono Thomas Elsaesser e Warren Buckland nell’analisi più acuta dedicata al film, Back to the Future «si presta piuttosto facilmente a una lettura freudiana»6. Punti di riferimento di tale lettura sono le analisi di Raymond Bellour e Thierry Kuntzel dedicate al cinema classico americano7. Bellour, in particolare, mostra come la maggior parte dei film hollywoodiani siano racconti di formazione di identità normative, storie di iniziazione maschile che tentano di rispondere alla domanda: cosa significa diventare un uomo? Il primo passo nell’analizzare un film narrativo in quanto edipico sta nel determinare come il personaggio maschile principale incanala il suo desiderio sessuale lontano da sua madre o da figure materne (il regno pre-edipico del desiderio incestuoso, in cui egli è in competizione con il padre) verso un “sostituto della madre” (in cui egli diventa come suo padre)8.

Così, la lettura bellouriana di North by Northwest (Intrigo internazionale, 1959) di Alfred Hitchcock dimostra: a. che il plot del film riguarda la formazione di un’identità maschile: il protagonista Roger Thornhill accetta la separazione dalla madre e concentra il suo desiderio su una donna sostitutiva, consentendo la formazione della coppia eterosessuale; b. che la struttura del film (e del cinema classico tout court) si basa su un gioco di simmetrie e variazioni (il campo/controcampo, situazioni ripetute) che replicano a livello stilistico-narrativo il meccanismo dell’Edipo (la ripetizione, l’infrazione, il mascheramento) e, più in generale, del nostro apparato psichico (la condensazione e lo spostamento di Freud). Da questo punto di vista, Ritorno al futuro (soprattutto il primo episodio, ma anche gli altri due, che ne

riverberano temi e procedimenti) si presenta come un film meta-edipico, sia per quanto riguarda il plot sia per lo stile narrativo. Sotto il profilo tematico, infatti, argomento esplicito del film è lo stesso complesso di Edipo, o meglio una sua versione rovesciata. Invece di una storia di iniziazione che coinvolge padri buoni/cattivi e donne affascinanti ma pericolose (surrogati dell’immagine materna sessualizzata), in Ritorno al futuro abbiamo un protagonista, Marty, che incontra una figura paterna debole e il desiderio di sua madre per lui, sicché il “normale” tabù dell’incesto (uccidere il padre e giacere con la madre) qui è trasformato nel suo opposto, con Marty che si sottrae alle avances della madre e insieme cerca di fare di suo padre un “uomo”. Ma il vero problema è nel presente: grazie al viaggio nel tempo, «Marty comprende che all’origine dei suoi problemi esistenziali c’è una figura paterna priva di autorità (e incapace di diventare padre a tutti gli effetti)»9. Il padre di Marty è un inetto, un immaturo (mangia i cereali e ride come un bambino davanti alla TV), troppo debole per ribellarsi al prepotente collega Biff, che lo costringe a scrivere al posto suo le relazioni di lavoro e gli distrugge l’auto presa in prestito. D’altro canto, la madre di Marty è una casalinga frustrata sovrappeso, dedita all’alcool e preoccupata solo di impedire ai figli una normale evoluzione sessual-sentimentale [ill. 3]. A questa famiglia disfunzionale Marty preferisce la compagnia di Doc, che come modello paterno, però, è altrettanto immaturo e asociale. Biff invece è il padre “cattivo” e antisociale (e l’incubo di diventare suo figlio si materializzerà nel secondo episodio), mentre il preside Strickland la sua versione autoritaria e maniacale. Insomma, i ruoli maschili che Marty si trova di fronte sono uno peggio dell’altro, mentre l’amore “corretto” per Jennifer, sostitutivo della

madre, è continuamente rinviato dagli incidenti che si accumulano lungo il percorso (i due riescono a baciarsi solo alla fine dell’ultimo episodio). In sintesi, «Ritorno al futuro presenta una situazione iniziale in cui la “normale” traiettoria edipica è stata doppiamente bloccata, rendendo evidente lo scopo della narrazione: ristabilire la “giusta” identità edipica, quella eterosessuale»10. In questo senso, il viaggio nel tempo diventa il mezzo per restaurare il complesso di Edipo, permettendo a Marty da un lato di realizzare la fantasia incestuosa al centro dell’Edipo, dall’altro di organizzare la sua “scena primaria”, cioè la fantasia di assistere al momento del proprio concepimento, l’atto sessuale dei genitori. È un viaggio obbligato: non serve a “cambiare la storia”, ma a far sì che una storia abbia luogo. Così, quando Marty ritorna al presente, alla fine del primo episodio, i suoi genitori si sono trasformati in una perfetta coppia middle class: il padre scrittore di successo, la madre bella e magra, il fratello in completo da lavoro [ill. 4]. E nel garage un fuoristrada pronto a trasportare Marty e Jennifer nella serata romantica sotto le stelle. «Ora che ha dei genitori “ordinari”, Marty può affrontare la sfida edipica. Può emergere come maschio pienamente costituito e proseguire con il vincolo eterosessuale, eventualmente fondando una propria famiglia»11. Ma la centralità dell’Edipo ha un riscontro anche a livello stilisticonarrativo. Perché Ritorno al futuro è un film che si basa su una continua e sistematica variazione dell’identico: si pensi a come, nel primo episodio, moltissimi elementi del primo atto (la presentazione di Hill Valley, della torre dell’orologio, di Strickland, dei genitori, di Biff ecc.) ritornino nel seguito, ora identici (Biff che umilia il padre di Marty, la campagna elettorale del candidato sindaco, la raccolta fondi per la torre dell’orologio, la severità di

Strickland, la frase «se ti impegni puoi fare qualsiasi cosa»), ora variati o rovesciati (lo zio in galera che da neonato si trova bene solo tra le sbarre della culla, il comportamento disinibito di Lorraine giovane che smentisce le prediche di Lorraine anziana ecc.). Tale ripetitività (quasi una parodia del meccanismo di semina/raccolta che sostanzia le sceneggiature americane in tre atti12) non riguarda solo il primo episodio, ma è il principio costitutivo di tutta la saga, che si costruisce attorno all’imperativo di complicare all’infinito il raggiungimento della scena primaria (il ricongiungimento dei genitori – non solo nel primo episodio, ma anche nel secondo, dove in ballo c’è addirittura la morte del vero padre e la sua catastrofica sostituzione con quello “cattivo”, Biff, mentre nel terzo c’è in gioco la morte del padre “adottivo”, Doc). Tra gli innumerevoli “ritorni” della trilogia, ricordiamo: Marty che arriva nella piazza di Hill Valley del passato (1955), del futuro (2015) o del Far West (1885); l’incontro con Biff/Griff/Buford nel caffè della piazza (nel 1885 è un saloon); le strigliate di Strickland; il pugno sferrato a Biff/Griff dopo averlo distratto; l’inseguimento in skateboard [ill. 5 e ill. 6] (che nel secondo episodio Biff vecchio commenta con «Tutto ciò mi ricorda qualcosa»); il ruolo simbolico della torre dell’orologio (che viene costruita proprio nel 1885); l’insofferenza di Marty per chi lo chiama “fifone”; le continue mutazioni delle residenze Lyon dove abita la famiglia di Marty; Biff/Griff/Buford che si schianta contro il carico di letame; Doc che spiega il piano di fuga servendosi di un modellino ecc. Queste continue ripetizioni/variazioni, si è detto, sembrano riproporre il meccanismo di condensazione/spostamento tipico dei sogni. E tutta la trilogia finisce per assumere i caratteri del sogno – o dell’incubo – a occhi aperti (quante volte Marty si

addormenta e crede di aver sognato), dove tutto si ripete all’infinito perché niente sembra succedere veramente… 4. REAGAN E CHUCK BERRY

Nella sua veste classica, la teoria psicoanalitica del cinema non vuole farsi carico di un discorso storicopolitico sui film. Il che, nel caso di Ritorno al futuro, può essere un problema, perché questo rovesciamento postmoderno dell’Edipo, dove il “padre forte” non è una naturale condizione di partenza, ma un bisogno invocato da una società debole per poter accedere alla felicità, è un tema dal chiaro risvolto ideologico, specie se si pensa al momento in cui il film è stato realizzato, gli anni ruggenti di Ronald Reagan e del neoconservatorismo americano. Ora, se si rimane alla superficie del testo, Ritorno al futuro prende le distanze dal reaganismo. Basti pensare allo scambio di battute tra Marty, appena approdato nel passato, e il Doc del 1955: Doc – «Chi è il presidente degli Stati Uniti nel 1985?». Marty – «Ronald Reagan». Doc – «Ronald Reagan? L’attore? Ah, ah. E chi è il vicepresidente? Jerry Lewis?».

Nel messaggio esplicito di Ritorno al futuro l’elogio dell’individualismo si sposa con il riconoscimento del diritto all’emancipazione delle minoranze e dei deboli: una visione liberal, si potrebbe dire, della parola d’ordine del sogno americano, il “volere è potere” («se ti impegni puoi fare qualsiasi cosa», appunto). Quando, nel primo episodio, il padre di Marty, nel bar, subisce senza fiatare le angherie di Biff, un cameriere nero gli si avvicina e lo rimprovera: Cameriere – «Combatti, devi farti rispettare. Se lasci che ti calpestino, lo faranno per tutta la vita. Guardami. Pensi che passerò tutta la vita

in questa catapecchia? Un giorno sarò qualcuno». Marty (riconoscendolo) – «Esatto. Diventerà sindaco». Cameriere – «Sindaco! Questa è una bella idea! Potrei candidarmi come sindaco». Padrone (passando) – «Un sindaco nero. Voglio proprio vederlo». Cameriere – «Aspetta e vedrai. Sarò sindaco».

Non a caso Roy Menarini ricorda che Zemeckis, a dispetto della sua immagine di regista commerciale, si è formato in un retroterra culturale politicizzato: «acceso attivista nelle lotte per i diritti civili degli anni sessanta. La cultura della protesta, e il sogno di una società liberata da ogni oppressione, animavano i sogni del giovane Zemeckis, già posseduto dal demone del cinema e tuttavia agitato dall’esigenza di far sentire la propria voce»13. Ora, proprio questa evidenza dei significati sembra nascondere qualcosa. Così come, secondo Elsaesser e Buckland, il fatto che Ritorno al futuro squaderni così apertamente i suoi sintomi psicoanalitici può sembrare una forma di difesa o di diniego. Perché il film presenta molti altri elementi di interpretazione, tra i quali, in particolare, snodi che riguardano la cultura americana e il discorso etnico. Esattamente su questi si concentra la lettura di Fred Pfeil, che, in un libro intitolato Politics and Narrative in Postmodern Culture14, mette a confronto gli opposti progetti ideologici di Ritorno al futuro e di Brazil (Id., Terry Gilliam, 1985), accusando il primo di veicolare un messaggio conservatore. Pfeil parte dagli elementi che abbiamo focalizzato nelle pagine precedenti: a. il fatto che Marty viaggi nel tempo per poter accedere all’Edipo simbolico della sua società, riassumibile nell’ideale del maschio bianco americano «se ti impegni puoi fare qualsiasi cosa»; b. il fatto che la narrazione si costruisca su un sistema di ripetizioni e rispecchiamenti (ad esempio Biff e i terroristi libici sono figure speculari – entrambi si servono di veicoli a

motore per attuare la loro minaccia, entrambi subiscono incidenti comici). Obiettivo di Pfeil è quello di portare alla luce il segreto progetto ideologico del film: vale a dire, «una collusione con la politica reaganiana del cinismo e della nostalgia, data dalla coesistenza delle frecciate di Doc contro Ronald Reagan nel 1955 (un suo western di serie B, Cattle Queen of Montana, è programmato nell’unico cinema di Hill Valley) con il programma conservatore di riscrivere il passato per giustificare e prolungare lo status quo»15. In effetti, a dispetto delle dichiarazioni di principio (“il futuro dipende da noi”), per tutta la trilogia i protagonisti lottano perché le cose non cambino mai, o subiscano tutt’al più un’evoluzione che vada a esclusivo beneficio dell’affluente middle class bianca cui Marty appartiene. Questa posizione contraddittoria spiegherebbe l’enorme successo del film nel cuore degli anni ottanta, e Pfeil la oppone a quella di Brazil, in cui lo stesso tema (il viaggio nel tempo) subirebbe un trattamento in chiave progressista. In entrambi i film, infatti, l’eroe prova a rimediare a un errore passato per provocare un cambiamento nel presente, ma Brazil, a differenza di Ritorno al futuro, è un film autoriflessivo e distopico, dove l’anti-eroe viene punito e tradito crudelmente. Elsaesser e Buckland obiettano che Pfeil, pur fornendo un eccellente esempio di lettura sintomatica, per sfuggire al relativismo postmoderno applica all’oggetto uno schema tutto “modernista” (per cui il trattamento comico-realistico di Ritorno al futuro sarebbe reazionario, mentre quello grottesco di Brazil progressista). Detto questo, è anche vero che è possibile ricavare dal film di Zemeckis una diversa interpretazione “politica” attraverso un’analisi di altre scene chiave: ad esempio

domandandoci in che modo il tema della mascolinità si intreccia con il tema razziale, così importante nelle recenti discussioni sull’identità storica americana. In questa direzione, Elsaesser e Buckland si soffermano sulla sequenza del ballo scolastico “Incantesimo Sotto il Mare”, nella quale Marty, per consentire ai genitori di baciarsi durante il ballo, sale sul palco a suonare la chitarra in sostituzione del chitarrista nero che si è ferito a una mano. Durante l’esibizione, a Marty viene in mente di suonare Johnny B Goode nello stile di Chuck Berry (compreso il suo tipico “passo dell’anatra” [ill. 7]), giocando sul fatto che nessuno, né tra il pubblico né nella band, poteva conoscere questo classico del rock’n’ roll. Così, mentre Marty suona, il chitarrista ferito, che si chiama Marvin Berry, telefona a suo cugino Chuck e, brandendo la cornetta per fargli ascoltare il pezzo, gli grida entusiasta: «Cugino, ecco il sound che stavi cercando!». Che dire di questa scena? Che Marty, all’apice dello sforzo di trasformare suo padre in un uomo, compie un’altra sostituzione, inversa e parallela a quella del plot principale: lui, maschio bianco borghese (all’inizio del film lo vediamo impegnato a eseguire un pezzo di Huey Lewis16) insegna il rock a uno dei padri neri del rock’n’ roll. O, per usare le parole di Elsaesser e Buckland, «diventa capace di assumere il patrimonio di Chuck Berry, vale a dire il linguaggio del corpo, la cultura musicale, e con questo gran parte dell’ideale maschile che definisce i tratti essenziali della mascolinità americana nella seconda metà del ventesimo secolo»17. Di qui l’idea che, oltre alle ragioni edipiche, per il viaggio nel tempo di Marty esista una ragione storico-ideologica diversa da quella indicata da Pfeil nella sua critica: si tratta infatti di “redimere” il rock’n’ roll nero a beneficio dei maschi americani bianchi, reinventandolo in un gesto di

appropriazione che sarà pure ideologicamente ambiguo (è comunque un furto culturale – “reinsegnare” il rock a chi lo aveva inventato) ma che è «specificamente americano e profondamente implicato nelle questioni della razza e dell’alterità»18. 5. IL GRANDE ALTRO

C’è però un’altra via d’accesso al film e all’analisi del suo ambiguo progetto ideologico: quella offerta dalla proposta neo-lacaniana del filosofo Slavoj Žižek, che appare la più adeguata a sposare discorso psicoanalitico e attenzione socio-politica ai testi. Intanto il ricorso a Lacan può essere utile per il semplice motivo che la decostruzione di Freud operata da Lacan risulta, si parva licet, vicina alla rilettura di Freud proposta da Zemeckis. Non a caso, uno degli oggetti di studio dei neo-lacaniani è il rapporto tra temporalità e soggettività: estendendo un concetto introdotto da Freud (Nachträglichkeit), essi discutono l’idea di “azione differita” per sviluppare una serie di temi come il viaggio nel tempo, la narrativa nonlineare, l’identità post-gender. Così, il mondo di cui ci parla la trilogia di Zemeckis è un mondo (postfreudiano? post-edipico? post-moderno?) in cui non si dà più una linearità del tempo e della trasmissione padre-figlio, né una fissità dei ruoli e delle identità, ma tutto diventa fluttuante, relativo (sono i figli che possono insegnare ai padri!), e la vita interiore una questione di identificazioni in progress. In questa chiave, il testo di Zemeckis, più che un sospetto rappelle à l’ordre, può suonare come una testimonianza di cosa significa vivere – faticosamente – il presente, e l’ottimistico “puoi farcela”, depurato della sua ideologia yuppie, come un paradossale elogio dell’atto libero, un invito a reinventarsi giorno per giorno, fuori dai ruoli moralisticamente prefissati.

A partire da qui può innestarsi il riferimento a Žižek, il quale, attraverso una stratificata impalcatura teorica, punta a “politicizzare” il discorso psicoanalitico. Il metodo Žižek, a cavallo tra psicoanalisi, sociologia, filosofia e critica culturale, consiste nell’applicare concetti lacaniani all’analisi della società di massa. Il reale, l’immaginario, il simbolico – categorie centrali del complesso pensiero lacaniano19 – nelle pagine di Žižek vengono “esteriorizzati”, diventano chiavi d’accesso – mediante l’analisi dei prodotti culturali – all’ordine simbolico della società di massa nel regime del liberalismo globale. Quest’ordine è quello che Žižek chiama il Grande Altro, un concetto che prende le mosse dal simbolico lacaniano e che «denota il potere in tutte le sue forme: la legge dello Stato, ma anche il codice delle leggi non scritte»20. Il Grande Altro rappresenta l’Ordine costituito, la struttura simbolica che definisce l’uomo come soggetto culturale, e in quanto tale esercita un ruolo di controllo. Quando collassa, però, come è accaduto nella seconda metà del Novecento, mostra la sua faccia corrotta, irrazionale, “oscena”: Il collasso del Grande Altro rappresenta il momento nel quale il soggetto si trova di fronte all’assenza di una strutturazione simbolicoimmaginaria capace di definirlo. Tale fenomeno, che Žižek usa per descrivere gli accadimenti recenti nei paesi ex comunisti, ma che può essere esteso anche alle democrazie occidentali, non deve essere affatto inteso come un momento di liberazione giubilatoria, in esso infatti il soggetto si trova a “fare i conti con il negativo”, a fronteggiare da solo la sua stessa paradossalità21.

Dal punto di vista politico, la critica di Žižek si basa sull’idea che le società occidentali liberaldemocratiche non siano sane e che i numerosi «discorsi di tecnici, politici, futurologi riguardo la libertà, la crescita e le possibilità illimitate, i diritti umani e il nuovo ordine mondiale in realtà nascondano una “malattia” pervasiva, che si può collocare nelle nuove soggettività postmoderne, e ripercorrere

attraverso vari testi sociali, di cui i blockbuster popolari sono una significativa manifestazione»22. Per usare la sua terminologia, Žižek pensa che l’attuale liberalismo globale sia attraversato da un nuovo tipo di autoritarismo, un autoritarismo senza autorità (cioè senza la legittimazione tradizionale del simbolico come si manifesta nella sottomissione all’Edipo dell’ideologia patriarcale borghese). Žižek chiama questa nuova forma di “anarchia dentro la legge” tirannia del godimento, o della jouissance del super-Io: un obbligo a godere, un dover-godere… Se ora riconsideriamo Ritorno al futuro, ci accorgiamo che sono molti gli elementi che possono prestarsi a un’analisi neo-lacaniana: a. si prenda la curiosa relazione tra Marty e Biff: Biff è l’antagonista e il doppio di Marty, il che spiega la sovra-identificazione di Biff come eterna nemesi di Marty. In termini žižekiani, ciò che definisce la loro relazione è l’umiliazione e la vergogna della figura paterna (Biff che umilia il padre di Marty davanti a lui, o i terroristi che uccidono l’altro “padre”, Doc, sotto i suoi occhi), la quale genera un “osceno godimento” tra la vittima e il carnefice. Tale jouissance (che per Žižek non è il piacere, ma «la soddisfazione paradossale procurata da un incontro doloroso con una cosa che perturba l’equilibrio del “principio del piacere”»23) è l’essenza del Grande Altro, del dispositivo del potere, nel momento in cui si afferma e insieme collassa24. b. Un altro elemento significativo nel primo episodio è la presenza dei terroristi libici che uccidono Doc [ill. 8]: qui l’umiliazione del padre allude alle numerose umiliazioni politiche subite dagli Stati Uniti nella loro storia recente (dalla Baia dei Porci al Vietnam alla crisi degli ostaggi iraniani alla fallimentare chiarificazione di Reagan con,

appunto, Gheddafi), e Pfeil in questo senso leggerebbe il film come una forma di risarcimento simbolico. In termini žižekiani, invece, Ritorno al futuro segue la logica di quella che il filosofo sloveno, riferendosi agli interventi internazionali degli Stati Uniti, ha chiamato «la dialettica della vittima»: i libici sono l’istanza “altra” al cui sguardo onnipresente e imperscrutabile il soggetto costituisce il suo desiderio (qui l’orgoglio nazionale dello status di super-potenza), ma questo “altro” è tollerato solo finché si comporta da “vittima” (cioè è povero, sofferente, incapace di manifestare una propria volontà). Una volta che l’altro manifesta proprie aspirazioni cessa di godere dello status di vittima e viene dichiarato un terrorista, perché agli occhi della supremazia razziale «il desiderio dell’altro è intollerabile». c. Ma si consideri infine il significato etico del viaggio nel tempo: in Ritorno al futuro, esso coincide con la rivelazione, per Marty, che il passato non si può cambiare ma si deve accettare com’è, e anzi che questa accettazione è l’unico modo per rendere possibile il presente. Per Elsaesser e Buckland, questo è un «tentativo di usare il paradosso del viaggio nel tempo per trarne una nuova “etica”, quella dell’“azione differita”: poiché non possiamo cambiare niente nel passato, allora dobbiamo imparare ad amare ciò che non ci piace del nostro passato (per esempio i nostri genitori, ciò che ha fatto di noi quello che siamo, o la cultura nera popolare, ciò che ci ha fatto desiderare quello che ora immaginiamo di essere)»25. Accettare ciò che non si può cambiare è l’essenza della morale kantiana di libertà. Ma «per Žižek essa è stata contaminata e pervertita dall’imperativo del super-Io: “Godi!” (una versione “etica” dell’idea di consumismo di Marcuse, nel momento in cui il consumo è

diventato la base della crescita economica capitalistica e della riproduzione sociale. Il piacere ora è un business serio, e divertirsi un dovere civile)»26. In questo senso, allora, Ritorno al futuro si può leggere come un film che tenta di attenuare lo storico senso di colpa della società americana nei confronti degli errori razziali e politici del passato. Un film che utilizza il genere della fantascienza per riconfigurare il concetto stesso di responsabilità individuale. Concludendo: il progetto ideologico di Ritorno al futuro è ambiguo. Per Elsaesser e Buckland, quello di Zemeckis è un film impegnato «a inventare un nuovo imperativo etico fuori dalla soggettività postmoderna e dall’identità post-coloniale»27. Un film che ci mette in allarme rispetto alla deriva del godimento, suggerendo che «senza un ordine simbolico, senza un’identità edipica e un Io, l’America è perduta, preda del Reale e del super-Io»28. Esso costituirebbe dunque una sorta di cattiva coscienza dell’ideologia dominante, analogamente a molti film della Nuova Hollywood, che lotterebbero per «reinventare una visione tragica della vita nel momento stesso in cui l’economia del divertimento illimitato regna suprema»29. La nostra opinione, invece, è che la trilogia di Zemeckis rifletta quella conciliazione tra dovere e godimento che costituisce la nuova ideologia liberaloccidentale criticata da Žižek. Si pensi come la realizzazione personale di Marty e di suo padre coincida alla fine con l’assunzione di un ruolo sociale “creativo” all’interno della cultura di massa: musicista rock l’uno, scrittore di fantascienza l’altro. Entrambi, quindi, raggiungono il successo entrando sì nell’ordine simbolico dell’Edipo, ma anche reinvestendo quest’ordine di quel godimento che rende “estetica” la nostra vita quotidiana, all’insegna di un sempre più diffuso dover-essere artisti.

Questo impasto di darwinismo sociale («se combatti ce la puoi fare»), di estetizzazione del quotidiano («sii artista») e di correttezza politica venata di sentimentalismo («tutti, bianchi e neri, dobbiamo amarci e possiamo farcela») è il fulcro dell’ideologia liberal che si affermerà negli anni novanta con il clintonismo, la nuova sinistra mondiale e la cosiddetta “terza via”. A parole, una reazione al reaganismo – e al bushismo – degli anni ottanta; nei fatti, una soluzione di compromesso tra le parole d’ordine della contestazione sessantottesca (la fantasia al potere, la libertà) e le esigenze di un Capitale che si è reinventato light e seducente nel segno di nuovi imperativi morali (non solo «Godi!», «Consuma!», ma «Esprimiti!», «Crea!»)30. Non a caso, il fenomeno coincide con l’ascesa al potere della generazione dei baby boomers cui lo stesso Zemeckis, nato nel 1952, appartiene. Nella parabola di questa generazione, del suo successo e delle sue creazioni, c’è tutta l’ambiguità politica – e la pericolosità – di una cultura oggi dominante, non solo tra le élites intellettuali. Una cultura dell’effimero, impegnata nella pura amministrazione dell’esistente, incapace di guardare il futuro, di progettarlo, anche solo di sognarlo.

1. La citazione parodistica: la pubblicità de Lo squalo 19 di Max (!) Spielberg

2. Personaggi con espressioni da cartoon

3. La famiglia McFly

4. La “nuova” famiglia McFly

5. L’inseguimento in skateboard nel primo episodio

6. L’inseguimento in skateboard nel secondo episodio

7. Marty imita Chuck Berry

8. L’uccisione di Doc come morte/umiliazione del padre

Forrest Gump di Riccardo Caccia CONFESSIONI

Il rinomato e più volte citato incipit di Forrest Gump1, con la candida piuma che volteggia lieve nel cielo e, dopo varie peripezie aeree, va a posarsi tra i piedi dell’eroe eponimo che la raccoglie e la posa con dolcezza tra le pagine di un libro illustrato per l’infanzia, può essere letto come una sorta di “passaggio del testimone” in cui l’istanza narrativa del film passa le consegne a Forrest. Il film, che si apre presentando allo spettatore un punto di vista “irreale” (la macchina da presa volteggia nel cielo seguendo le fluide movenze di danza della piuma), va immediatamente ad ancorarsi a un personaggio con i piedi ben saldi al terreno e, da quel momento in poi, da quando Forrest avrà raccolto questo messaggero e lo avrà riposto all’interno di un oggetto fatto di parole scritte, sarà lo stesso personaggio a guidarci, per il tramite della sua voce, del suo racconto, delle sue parole, della sua confessione, attraverso le stanze della sua storia personale e della Storia. La piuma bianca, dunque – oltre a prefigurare il candore dell’eroe del film, un ritardato mentale che compie imprese straordinarie e vive dolori strazianti, sempre esibendo una tranquilla noncuranza, un’atarassia ebete che è in realtà una reazione misurata e composta a un aggrovigliarsi di emozioni contrastanti –, è soprattutto portatrice di parola, latrice del dono affabulatorio di cui darà prova Forrest (e con lui, il film). Le prime due ore del film, vale a dire la quasi totalità, non sono infatti altro che la visualizzazione del racconto di Forrest Gump che, in attesa del bus seduto sulla panchina della fermata, narra gli episodi della sua esistenza a una serie di occasionali

ascoltatori (altre persone in attesa dell’autobus) che a loro volta si “passano il testimone”: quando uno di essi si alza per prendere il suo autobus, un altro ne prende il posto. La prima ascoltatrice è un’infermiera di colore che si lamenta del dolore ai piedi. Questa scena è importante a un duplice livello: in primo luogo perché il riferimento ai problemi podologici della donna dà l’avvio al primo flashback nel quale Forrest ricorda come da ragazzino dovette portare per un certo periodo delle vistosissime protesi che gli sostenevano le gambe; in secondo luogo perché le parole della donna attivano il primo dei molti riferimenti alla storia degli Stati Uniti di cui il film trabocca (e che sono stati l’oggetto di studio prediletto delle molte disamine critiche del film), quello al caso di Rosa Parks, una donna di colore che nel 1955, seduta su un autobus nella zona riservata ai bianchi, rifiutò di cedere il posto proprio a causa del mal di piedi e venne per questo arrestata, dando origine a una serie di proteste da parte dei movimenti per i diritti civili dei neri. Da subito, quindi, il film instaura un parallelo tra la storia di Forrest e la Storia degli Stati Uniti, che percorrerà l’intera pellicola, e lo fa a partire da un racconto. Poiché «porre la questione della natura della narrazione significa spingere a una riflessione sulla stessa natura della cultura e, forse, persino sulla natura dell’umanità stessa»2, l’inestricabile intreccio tra storia individuale e Storia, tra esperienza soggettiva e dato storico posti in atto da Forrest Gump, si configurano anche come una presa in esame della “Storia come narrazione”. Una storia di cui è parte integrante anche il cinema. Il protagonista racconta infatti che la madre gli pose quel nome di battesimo ispirandosi alla figura del generale Nathan Bedford Forrest, identico a lui, fondatore del Ku Klux Klan, la cui figura si inserisce nelle immagini di The Birth of a Nation (La nascita di una nazione, 1915) di David Wark Griffith, nel primo esempio di integrazione

visiva tra immagini preesistenti e immagini ex novo che saranno una delle marche forti del film. La storia di Forrest (l’origine del suo nome), la Storia degli USA (un ulteriore riferimento alla questione razziale, qui al suo vertice di parossismo) e la storia del cinema (il capolavoro del muto dell’“inventore” del linguaggio cinematografico moderno) si mescolano e si fondono indissolubilmente. Del resto, come dice Jean-Luc Godard, «la Storia con la S maiuscola è la storia del cinema; essa è più grande delle altre perché proietta se stessa»3. L’arte affabulatoria di Forrest, una volta che l’infermiera sarà salita sul suo autobus, troverà nuovi, incantati ascoltatori: prima una donna con il figlioletto, poi un uomo grassoccio piuttosto incredulo dei successi imprenditoriali di Gump, quindi una donna anziana toccata dal racconto dell’uomo fino alle lacrime. L’attività del narrare diviene, in Forrest Gump, materia stessa del film. Non ci troviamo certo di fronte alla prima pellicola che abbia posto al proprio centro un narratore dal cui racconto scaturiscono le immagini, ma indubbiamente uno degli elementi di novità di Forrest Gump è di fare del narratore un protagonista non soltanto della propria storia, com’è ovvio, ma anche della Storia. «È strano come si ricordino alcune cose e non altre», dice Forrest all’infermiera di colore dopo averle raccontato un fatto che lega a questo punto indissolubilmente il protagonista alla Storia. La grande casa nella quale il piccolo Forrest vive con la madre, viene da questa trasformata in pensione dove prendono alloggio varie persone: tra di loro, un giovane con un ciuffo di capelli neri che suona la chitarra e canta. Forrest si diverte ad ascoltarlo e accenna dei passi di danza resi goffi dalle protesi [ill. 1]. Qualche tempo dopo, passando con la madre davanti a un negozio di elettrodomestici, vede in uno show televisivo quel giovane che canta e muove il bacino proprio come faceva lui: altri non è che Elvis

Presley4. La memoria, afferma dunque Forrest, è selettiva, il che non gli impedisce di ricollegare costantemente gli eventi della propria esistenza a quelli della Storia del proprio paese, instaurando così un cortocircuito con lo spettatore (soprattutto americano) il quale deve attingere alla propria memoria, ai propri ricordi e confrontarsi con essi e con la loro messa in scena nel film. Secondo Robert Burgoyne, però, quella attivata da un film come Forrest Gump, è una memoria “prostetica”, una memoria che deve fare ricorso agli artefatti tecnologici, quali il cinema, dissociandosi dalla propria origine psichica e organica: Il fatto di porre lo spettatore dentro lo scenario della storia reale, per mezzo dell’identificazione con il personaggio di Forrest Gump, fa implodere la distinzione tra personale e storico e instaura relazioni complesse e stratificate tra la memoria individuale e collettiva e la storia nell’epoca del cinema e dei media5.

Il ricordo svela anche un interessante parallelismo tra storia personale e collettiva: entrambe sono contrassegnate dalla ciclicità. Il primo giorno di scuola, salito sullo scuolabus, Forrest deve scontrarsi con la palese ostilità degli altri bambini, che gli ricordano la sua diversità rifiutandosi tutti di farlo sedere al proprio fianco. Soltanto Jenny, che incontra per la prima volta e che accompagnerà, tra alti e bassi, slanci emotivi e improvvisi abbandoni, tutta l’esistenza di Forrest (o quanto meno quella parte mostrata dal film), lo accoglie con dolcezza nel posto accanto al suo. Forrest incontrerà lo stesso ostracismo una volta montato sull’autobus che lo condurrà nella caserma di addestramento prima della partenza per il Vietnam; in questo caso, a farlo accomodare accanto a lui sarà Bubba, un nero un po’ strano che comincia a parlargli della sua passione per le barche per la pesca dei gamberi. In fondo, le uniche persone che non lo rifiutano, sono a modo loro degli outcast, dei diversi. Jenny è una bambina la cui infanzia è resa un inferno

dalle molestie del padre; Bubba è un nero ritardato come lui che ha un’ossessione bizzarra: pescare gamberi. Sarà proprio Jenny a far scoprire a Forrest la sua propensione alla corsa. Rincorso da alcuni ragazzini che lo deridono e gli lanciano pietre, Forrest ascolta il consiglio di Jenny: «Corri, Forrest, corri!». E Forrest comincia a correre, nonostante le protesi che ne inibiscono i movimenti, sfuggendo ai teppisti che lo inseguono in bicicletta, così come, liceale e oramai privo delle protesi, ancora dietro esortazione della ragazza, sfugge ad alcuni giovinastri che questa volta lo inseguono con un furgone [ill. 2]. «Corri, Forrest, corri!» diventerà un leitmotiv: Forrest corre da giocatore di football nella squadra universitaria dell’Alabama, corre continuamente avanti e indietro per salvare i suoi commilitoni, tra cui il tenente Dan Taylor, durante un attacco in Vietnam, e corre, infine, per ben cinque anni, avanti e indietro per gli Stati Uniti, dopo l’ennesimo abbandono da parte di Jenny, fino a che, seguito da una folla di accoliti che lo adorano, si fermerà pronunciando tre semplici parole: «Sono piuttosto stanco». Anche Jenny sperimenterà la ciclicità quando, tornata nella natia Greenbow, Alabama, si recherà di fronte alla casa nella quale il padre la molestava, per scagliarvi contro delle pietre, sebbene essa sia ormai vuota e abbandonata. La circolarità e l’iterazione sono ribadite nel finale del film, che mima l’incipit 6: nell’attesa dell’arrivo dello scuolabus, seduti sul ciglio della strada, Forrest e il figlio avuto da Jenny, che porta il suo stesso nome (il ciclo della vita è ribadito anche dall’onomastica), leggono il libro Curious George, lo stesso che leggeva la madre a Forrest. Dalle pagine del libro cade una piuma che va a posarsi tra i piedi di Forrest Gump: il vento la sospinge in volo ma, questa volta, il volteggio della piuma si arresta contro l’obbiettivo della macchina da presa, ricollocando il film sotto l’egida

dell’istanza narrativa che decretandone pure la fine.

lo

aveva

aperto

e

Ma la ciclicità riguarda anche gli eventi storici: il film è letteralmente ritmato da una serie di attentati e omicidi politici, spesso ripresentati attraverso quella protesi mnemonica per eccellenza che è la televisione. Così assistiamo agli omicidi del presidente John Fitzgerald Kennedy e di suo fratello, il senatore Robert, e ai tentati omicidi del senatore George Wallace, e dei presidenti Ford e Reagan. Questi ultimi due accadimenti, in particolare, sono legati ad altrettanti eventi di profonda importanza per la vita di Forrest. Mentre si trova in barca con il tenente Taylor, tornato dal Vietnam privo delle gambe e divenuto suo socio nella pesca dei gamberi, Gump apprende via radio che la madre sta molto male, mentre in TV scorrono le immagini dell’attentato a Gerald Ford. Giunto al capezzale della madre per chiedere cosa stia succedendo, Forrest riceverà una risposta decisa quanto serena: «Sto morendo, Forrest». Diversi anni dopo, mentre lo schermo televisivo rimanda le immagini dell’attentato a Ronald Reagan [ill. 3], Forrest riceve una lettera da Jenny, della quale aveva ormai perso le tracce, che le chiede di recarsi da lei a Savannah7. Qui scoprirà di essere padre del piccolo Forrest, nato dall’unica notte d’amore trascorsa con la sempre amata Jenny che, l’indomani, era scomparsa nel nulla come era solita fare. I due attentati, due tentativi di interrompere una vita, fortunatamente vani, legano tra loro due momenti del ciclo vitale: la morte e la nascita, la scomparsa dell’amata madre e la scoperta di essere padre. Anche per questo ai due attentati non viene data alcuna enfasi, per lo meno per quanto riguarda Forrest: le immagini e il commento scorrono in sottofondo e Forrest, probabilmente, nemmeno se ne avvede, al contrario dello spettatore. Forrest, infatti, in entrambi i casi non sta guardando il teleschermo, ma è occupato a mangiare, prima che la

sua attenzione venga colta dall’importanza delle notizie private che sta ricevendo, ma noi spettatori non possiamo fare a meno di osservare e ascoltare, oltre a quelle private, anche le notizie pubbliche che ricordano due eventi di enorme gravità: se Forrest può ignorare quegli accadimenti, lo spettatore è costretto dalla costruzione narrativa e audiovisiva della scena a prestarvi attenzione, come vedremo più avanti. Ciclico, anche se a livello intertestuale piuttosto che intratestuale, è il modo in cui Forrest Gump, come molto cinema contemporaneo, tende a dare con immediatezza allo spettatore l’informazione che il film sta per mostrare una delle guerre più laceranti per la società statunitense: quella del Vietnam. Anche in questo caso si tratta di un’informazione a livello sonoro: il rumore assordante del rotore delle pale di un elicottero, mezzo da battaglia che, persino a livello dell’immaginario, viene inevitabilmente associato al Vietnam8. In quell’inferno Forrest diverrà amico del suo comandante, il tenente Dan Taylor, i cui antenati sono tutti morti nelle varie guerre americane o a cui gli americani hanno preso parte: il film ce li mostra ripresi in successione, dall’identica angolazione in plongée [ill. 4], mentre cadono a terra privi di vita, con indosso le diverse uniformi a seconda del conflitto e del periodo storico. IMMISSIONI

All’epoca dell’uscita del film, la particolarità maggiormente evidenziata dai media fu come l’attore protagonista, Tom Hanks, venisse fatto interagire con personaggi realmente esistiti per mezzo di sofisticati effetti speciali realizzati grazie alla grafica computerizzata, la stessa che permetteva di “cancellare” elettronicamente le gambe dell’attore che interpretava la parte del tenente Taylor, Gary Sinise.

Una tecnica non del tutto nuova, sebbene ulteriormente raffinata: qualcosa di simile si era già visto in un film come Zelig (Id., 1983) di Woody Allen, in cui il camaleontico eroe eponimo veniva “inserito” in filmati con i personaggi storici dell’epoca in cui la vicenda era ambientata. Se nel film di Allen l’effetto speciale è subordinato al desiderio di uniformarsi di Zelig, che assumeva la fisionomia dei personaggi con i quali veniva a contatto, in Forrest Gump il “trucco” elettronico sembrerebbe, a un primo esame, la messa in opera di uno scenario storico all’interno del quale far muovere il protagonista (e non è certo un caso che, in entrambi i casi, il titolo del film corrisponda al nome del personaggio). Forrest Gump, personaggio di finzione, verrebbe immesso all’interno di uno scenario storico reale. Ciò che è finto e ciò che è vero convivrebbero per far sì che lo spettatore possa rimanere ammaliato dalla storia di Forrest, senza dimenticare che quella è anche la sua storia. Lo spettatore è ovviamente portato a identificarsi con questo idiot savant, che incarna la purezza dell’uomo all american, la parte sana degli Stati Uniti, senza però dimenticare che quella è anche la terra degli assassinî politici, del razzismo, della violenza guerrafondaia. In realtà le cose non stanno proprio così, e la linea di demarcazione che il film instaura tra realtà e finzione, tra vero e falso, è una linea evanescente, se non, in alcuni casi, inquietante. A dimostrazione di ciò vale la pena di enumerare i momenti in cui il personaggio di Forrest viene fatto interagire con personaggi ed eventi reali. Nell’episodio in cui assistiamo alla protesta simbolica del senatore Wallace, che si pone dinanzi all’ingresso dell’università dell’Alabama per impedire l’accesso ai primi due studenti di colore ai quali è stato riconosciuto il diritto di iscriversi, il film alterna inquadrature a colori che ricostruiscono la situazione, inquadrature in bianco e nero che fingono un reportage televisivo e vere riprese televisive

dell’epoca in bianco e nero, all’interno delle quali vengono “intarsiati” Forrest e altri personaggi. Non si tratta, quindi, soltanto di “immettere” Forrest all’interno di immagini “reali”, ma di “sovrapporre” realtà e finzione in modo da renderle indissociabili, indistinguibili, in una texture complessa e composita. Estendendo il concetto di linguaggio anche a quello cinematografico, si potrebbero far proprie le parole di Hayden White che, a proposito dello statuto di veridicità del discorso storico, afferma essere inadeguata l’idea che i fatti costituiscano il corpo del discorso storico mentre lo stile non sia altro che un ornamento, del tutto inessenziale, per quanto gradevole. Oggi è possibile affermare che, tanto nel discorso storico quanto in quello di finzione, il linguaggio è al tempo stesso forma e contenuto e che questo contenuto linguistico deve essere preso in considerazione quanto le altre tipologie di contenuto (fattuale, concettuale, di genere) che insieme costituiscono il contenuto complessivo del discorso9.

Subito dopo il racconto di quel fatto, Forrest ricorda come il senatore Wallace alcuni anni dopo decidesse di candidarsi alle presidenziali: fu allora che venne fatto oggetto di un attentato che il film ci mostra utilizzando unicamente le “vere” immagini televisive a colori. E questa sarà una costante del film: tutti gli attentati verranno presentati agli spettatori per mezzo delle sole immagini “reali”, da quelle televisive al famoso filmato in Super8 di Zapruder dell’assassinio di Kennedy, senza nessuna “interferenza” di immagini spurie. Come se la violenza non appartenesse alla sfera di Forrest, che ne viene preservato anche durante la guerra in Vietnam, dove rimarrà ferito senza quasi accorgersene e dove il suo unico pensiero è quello di portare in salvo i suoi compagni, assolutamente dimentico o inconsapevole del pericolo, quasi intangibile da esso. L’incontro con il presidente Kennedy, durante il ricevimento dell’All-America Team di football universitario di cui Forrest fa parte, presenta ancora una volta un’alternanza tra

inquadrature a colori e altre in bianco e nero che rimandano ancora una volta a un servizio televisivo. In questo caso è la sola figura del presidente a essere “ritagliata” elettronicamente e immessa in uno scenario fittizio [ill. 5]: Kennedy viene “prelevato” dalla Storia e “inserito” nella storia di Forrest, salvo poi essere immediatamente ributtato sul palcoscenico della Storia dal filmato che ne immortala l’assassinio. Al momento di stringere la mano a Kennedy, Forrest che, assetato, ha trangugiato ben quindici bottigliette di Dr. Pepper, alla domanda del presidente «Come si sente?», riferita ovviamente all’orgoglio di far parte della squadra di football, non può far altro che rispondere: «Mi scappa la pipì». Lo stesso trattamento “elettronico” viene riservato al presidente Johnson, che consegna la medaglia d’onore a Forrest per il suo inconsapevole comportamento eroico in Vietnam. Questa volta le immagini sono a colori – perché la televisione, come il cinema prima di lei, si è evoluta tecnologicamente, si avvicina sempre più alla realtà e si prepara a fagocitarla e a sostituirsi ad essa –, ma Johnson viene comunque “importato”10 all’interno di immagini di finzione e chiede a Forrest di mostrargli dove sia stato ferito: alla richiesta l’uomo reagisce senza esitazioni abbassandosi le mutande. L’incontro con John Lennon nel corso dello show di Dick Cavett, al quale Forrest è invitato in qualità di nazionale di ping-pong appena tornato dalla tournée in Cina, primo atto distensivo tra due paesi che si erano sempre affrontati a muso duro, è quasi solo un’occasione per far pronunciare al musicista inglese una frase della sua notissima canzone Imagine: «È facile se ci provi, Dick»11. È facile immaginare un mondo senza eserciti, senza violenze, senza religioni, dice Lennon nella sua canzone: ma anche lui, racconta Forrest, finirà ammazzato. I suoi successi come giocatore di pingpong lo porteranno a essere ricevuto anche dal presidente Nixon che, consegnandogli una targa, gli

promette che si preoccuperà di farlo alloggiare in un hotel come si deve. Durante la notte, dalla finestra della sua stanza dell’hotel Watergate, si accorge della presenza di alcuni uomini che si aggirano nelle stanze buie degli uffici di fronte muniti di torce elettriche e telefona alla sorveglianza perché quelle luci lo tengono sveglio. L’immagine successiva è quella di Nixon che annuncia in TV le dimissioni. In Forrest Gump, quindi, ci troviamo di fronte non già a un personaggio di finzione che viene immesso in un contesto storico reale ma, al contrario, a personaggi storici prelevati dalla Storia e rifunzionalizzati in un universo fittizio. Zemeckis non ci vuole mostrare una vicenda privata e personale che attraversa e si incontra con la Storia ufficiale, quanto piuttosto intende ricondurre la Storia a livello del singolo, banalizzarla, umanizzarla. Del resto, ed è un aspetto questo sul quale mi pare nessuno si sia soffermato, non dobbiamo dimenticare che tutto ciò che noi vediamo non è altro che la visualizzazione del racconto di Forrest: ma chi ci garantisce che stia dicendo il vero? È noto, come ha osservato Odin, che lo spettatore cinematografico instaura un regime di credenza per cui, seppur conscio di essere all’interno di una sala e di assistere a vicende fittizie, vive il film “come se” questo fosse reale12. Ma come essere certi che il racconto di Forrest non sia soltanto il parto dell’immaginazione di un innocuo ritardato mentale, come pare pensare l’uomo grassoccio che si allontana dalla panchina deridendo quello stupido che si vanta di essere un multimiliardario? E se il suo punto di vista fosse quello corretto? Abbiamo già accennato in precedenza a come Zemeckis mostri anche gli attentati subiti dai presidenti Ford e Kennedy, ma vale la pena di soffermarsi ancora su queste scene, sebbene in questo caso non ci troviamo di fronte a un innesto di immagini di repertorio dentro immagini girate ex

novo. Entrambi gli eventi sono però presentati in modo da imporsi in maniera decisa all’attenzione degli spettatori. La prima cosa che vediamo sono, infatti, le immagini a tutto schermo degli attentati: si tratta ovviamente di immagini televisive che vengono però presentate, in un primo momento, senza la consueta “cornice” dell’apparecchio televisivo. Le immagini televisive diventano così immagini filmiche, materia elettronica inglobata e fagocitata dalla pellicola chimica. Soltanto in un secondo tempo, un’inquadratura più distanziata ricontestualizza le immagini nel loro ambito, quello del teleschermo e la nostra attenzione viene deviata verso i messaggi indirizzati a Forrest, incurante degli accadimenti riproposti dal notiziario. A differenza di Forrest, lo spettatore non può godere di questa “distanza”, non può trascurare queste immagini, che si impongono a lui con tutta la violenza del grande schermo cinematografico. Zemeckis usa la televisione per trasformarla in cinema puro, ma al tempo stesso ne lamenta l’invadenza: forse, allora, non è il cinema a fagocitare la televisione, ma la TV che si prepara a sferrare il suo attacco (mortale?) al cinema. Del resto ciò che ha reso possibile lo stesso film Forrest Gump non è forse la tecnologia elettronica, quella che sta alla base della stessa televisione? OMISSIONI

Abbiamo già fatto cenno a come Forrest Gump ometta alcuni elementi riconducibili alla cultura afroamericana, come i riferimenti alle figure o agli omicidi di Martin Luther King e Malcolm X o le radici nere del ballo di Elvis Presley: è pur vero che, seppure in una scena della durata di pochi secondi, Zemeckis mostra un personaggio nero che “si prende la rivincita”. Si tratta della vedova del povero Bubba, alla quale

Forrest dona la metà dei moltissimi denari ricavati dalla pesca dei gamberi, cosicché, sottolinea il narratore, la donna non sarà più obbligata a servire. A questo punto, un’inquadratura di breve durata ma di notevole impatto, mostra la moglie di Bubba, seduta a una tavola imbandita, che viene servita da una donna bianca [ill. 6], un’immagine del tutto inconsueta anche nel cinema contemporaneo statunitense spesso così politically correct. Piuttosto, altre due omissioni, non già a livello della corretta rappresentazione storica, ma interne alla narrazione, ci paiono decisamente significative. Mi riferisco al discorso di Forrest davanti alla folla di manifestanti a Washington e alla lettera che Forrest figlio lascia sulla tomba di Jenny. Giunto a Washington per la cerimonia di conferimento della medaglia d’onore da parte del Congresso dalle mani del presidente Johnson, Forrest finisce letteralmente trascinato da un gruppo di reduci dal Vietnam che manifestano affinché venga posta fine al conflitto. Forrest si ritrova così sul palco allestito davanti alla Reflecting Pool davanti al Lincoln Memorial, dove si è radunata una folla immensa [ill. 7]. Sul palco, viene invitato dallo speaker a raccontare della sua esperienza nella «fottuta guerra del Vietnam»13. L’enorme folla si ammutolisce di colpo e Forrest introduce il suo discorso così: «C’è solo una cosa che posso dire sulla guerra del Vietnam». Ma proprio allora un militare scollega i cavi dell’impianto di amplificazione cosicché nessuno riesce a sentire nulla. Una volta risolto il sabotaggio, Forrest ha terminato il suo discorso: nessuno ha sentito nulla, la folla resta muta, ma lo speaker lo abbraccia commosso e lo ringrazia per le sue parole. Che dire di questa omissione? Rammentiamo che Forrest sta raccontando queste vicende ai suoi “vicini di panchina”, quindi il fatto che le persone convenute alla manifestazione non abbiano potuto ascoltare le sue parole dovrebbe

essere ininfluente, dal momento che Forrest dovrebbe sapere bene ciò che ha detto, indipendentemente dall’azione sabotatoria del militare incarognito. Ci troviamo di fronte a una nuova, fugace intrusione dell’istanza narrativa che riprende brevemente il suo controllo per frustrare le attese dello spettatore o è lo stesso Forrest a omettere di riportare le proprie parole? E perché mai non dovremmo conoscere il pensiero di Forrest sulla guerra del Vietnam? Forse perché lui, gran bravo ragazzo americano, si dichiara contrario a quella guerra? Oppure, invece, perché è fiero di averci combattuto? O ancora perché racconta semplicemente l’esperienza vissuta in prima persona della guerra, senza esprimere posizioni a favore o contro il conflitto? Quello di Zemeckis non ci pare un semplice escamotage, né la scelta un po’ vile di un regista che non vuole scontentare nessuno, su un tema ancora così delicato e lacerante per la cultura americana. Forse quell’esperienza resta ancora indicibile, o forse è già stata detta da altri film che ne hanno ben saputo rappresentare la dimensione infernale e disumanizzante, quali The Deer Hunter (Il cacciatore, 1978) e Apocalypse Now (Id., 1979) da rendere superfluo un ulteriore punto di vista. Allora ognuno di noi spettatori è chiamato a colmare quel vuoto, ciascuno con la propria sensibilità, il proprio pensiero, la propria esperienza, il proprio sapere cinematografico. La scelta di Zemeckis non è, a mio avviso, irrispettosa nei confronti del pubblico, quanto piuttosto, all’interno di un film apparentemente di semplice lettura e scandito da una narrazione lineare, l’apertura di un vuoto che siamo noi a dover colmare, un vuoto che non è un nulla, ma una molteplicità, di pensieri, di punti di vista, di posizioni ideologiche. Siamo noi a decidere cosa Forrest pensi della sua esperienza in Vietnam. L’altra importante omissione è nel pre-finale del film, quando Forrest si reca alla tomba di Jenny, sotto il maestoso albero di fronte alla

grande casa di Greenbow [ill. 8]. Qui, nel corso di un lungo e toccante monologo, che è in realtà un dialogo con Jenny, Forrest lascia sulla tomba una lettera scritta alla madre dal piccolo Forrest, una missiva che il padre non può leggere. Forrest poggia la busta accanto alla lapide, che reca la semplice scritta «Jenny: 6 luglio 1945 22 marzo 1982», senza nessuna indecisione, nessun tentennamento, fedele ai desideri del figlio. Il pudore che Forrest ha conservato lungo tutta la sua esistenza arriva a fargli sacrificare la legittima curiosità paterna alla volontà del figlio. Nonostante il personaggio del piccolo Forrest appaia soltanto nei minuti finali del film e la sua rilevanza sia, necessariamente, piuttosto ridotta, è evidente che, anche in questo caso, la curiosità dello spettatore per il contenuto di quella missiva sia grande. Ma ancora Zemeckis non vuole rivelarci tutto. Se, nel caso del discorso a Washington, ci troviamo di fronte al racconto di un’esperienza individuale di un evento drammaticamente pubblico, nazionale, addirittura planetario, nelle sue ripercussioni, come una guerra14, qui assistiamo a un momento di grande intimità, di sentimenti privati, così esclusivi da tagliar fuori una delle figure genitoriali. Così Zemeckis pretende da noi spettatori lo stesso rispetto e lo stesso pudore di Forrest Gump. A differenza del discorso di Washington, che abbiamo definito un vuoto che noi siamo chiamati a colmare, nello specifico ci troviamo di fronte a un troppo pieno, un miscuglio di sentimenti, sensazioni, emozioni che rimangono, per noi spettatori, impossibili da decifrare, districare: possiamo forse solo immaginarli. In questo troppo pieno, non c’è spazio per le nostre idee, i nostri punti di vista, le nostre supposizioni. Nelle due omissioni operate da Forrest Gump non vi è nulla di simile alla scelta programmaticamente irrispettosa nei confronti dello spettatore messa in campo da pellicole recenti quali Caché (Caché –

Niente da nascondere, Michael Haneke, 2005) e Babel (Id., Arturo González Iñárritu, 2006). Nel film di Haneke – che racconta di una famiglia la cui vita viene sconvolta dal recapito di una serie di videocassette che riprendono l’esterno dell’abitazione e i movimenti dei componenti della famiglia –, la scelta di lasciare un finale aperto, dal quale è possibile ricavare alcuni indizi che fanno pensare che il probabile mandante sia lo stesso giovane figlio della coppia, senza però che lo spettatore possa esserne certo, appare insultante eticamente. In un film per cui l’essenza stessa del racconto è data dalla ricerca della misteriosa identità di colui che registra e recapita le videocassette, il fatto che questa identità non venga rivelata con certezza mi pare non si inserisca in una logica di depistaggio e di frustrazione delle attese spettatoriali, quanto in un atteggiamento vetero-autoriale che porta il regista ad atteggiarsi a demiurgo anche quando è sconveniente esserlo. In Caché, non mi infastidisce tanto il fatto che non si scopra l’autore del misfatto, quanto che allo stesso Haneke paia assolutamente non interessare affatto chi sia il perpetratore. Caché è un film basato su un espediente, che fa di quell’espediente la propria materia, una sorta di macguffin volutamente non dimenticato, ma ossessivamente reiterato. Non di vuoto qui si tratta, ma appunto di nulla. Nel caso, invece, di Babel, abbiamo anche qui una lettera: quella che la giovane ragazza giapponese scrive prima di tentare di suicidarsi lanciandosi nel vuoto dal terrazzo del suo appartamento, un proposito che, come scopriremo, la giovane abbandonerà. Come in Forrest Gump, anche in questa occasione allo spettatore non sarà dato sapere cosa la ragazza abbia scritto in quella lettera. Per un atteggiamento opposto a quello di Haneke, vale a dire probabilmente perché troppo interessato al proprio personaggio e a ciò che scrive – e a conferma di questo il regista ha dichiarato che sul set è stata scritta una vera lettera –, Iñárritu

opera una scelta che non è dettata dal pudore, quanto piuttosto da un’ossessiva vicinanza al personaggio. Il troppo amore per il personaggio provoca il troppo vuoto della lettera, una missiva che non siamo chiamati a rispettare, come in Forrest Gump, ma a esaminare, come una prova. Se la giovane si mette a nudo, anche la lettera fa lo stesso, pur nascondendosi ai nostri occhi, si svela occultandosi, per eccesso di emozioni, diviene insensibile. La lettera di Babel è essenziale perché illeggibile, quella di Forrest Gump è illeggibile perché essenziale. Anche in questo si conferma la peculiare autorialità di un regista come Robert Zemeckis: nel rifiuto del cliché dell’autore, nella scelta di non provocare il pubblico, ma neppure semplicemente di blandirlo. Forse, di rispettarlo.

1. Il movimento di bacino di Forrest che ispira il giovane Elvis

2. «Corri, Forrest, corri!»

3. Le immagini televisive dell’attentato a Reagan

4. Un antenato del tenente Dan Taylor

5. Forrest Gump al cospetto di JFK

6. La vedova di Bubba servita da una domestica bianca

7. Forrest si prepara a tenere il suo discorso “inudibile”

8. L’albero di Forrest e Jenny

Cast Away di Roy Menarini È curioso pensare a Cast Away1 come a un film del pre-11 settembre. Se fosse stato realizzato dopo gli avvenimenti, non c’è dubbio che molti di noi, critici e studiosi, avrebbero orientato la propria interpretazione nel senso di una metafora della paura, dell’isolamento e del senso di precarietà indotto dagli attacchi terroristici. In questo caso, invece, il film porta a emersione alcuni problemi comunque interessanti: per esempio, il fatto che, assai prima del nefasto giorno, gli Stati Uniti fossero provati da una sensazione di fragilità e malessere che anche altre pellicole del periodo provvedevano a sottolineare. Inoltre, la scelta di Zemeckis (raccontare una storia in cui la sua prediletta tecnologia fosse completamente bandita, almeno dal punto di vista diegetico) pone altrettante questioni sul valore da dare all’odissea di Chuck. Non dimentichiamo, inoltre, che Cast Away giunge nelle sale in un momento di particolare interesse per le avventure di “decivilizzazione” indotta. È proprio in quegli anni che nasce Survivor, show televisivo statunitense in cui un gruppo di concorrenti si batte per una ricompensa finale sfidando le privazioni di una vita su un’isola deserta. Il format, esportato senza successo anche in Italia, è stato poi recuperato negli anni successivi in tutta Europa, grazie ad alcuni accorgimenti come l’adozione della diretta e la presenza di personaggi più o meno famosi tra i partecipanti. Il film di Zemeckis, insomma, sembra situarsi in una zona dell’immaginario collettivo già immaginata e testata da altri media – sia pure in forma di simulazione dell’esperienza – e si pone da subito, sia pure non senza qualche fatica, come meditazione intorno a una verosimile condizione estrema di esistenza.

IL TEMPO E LO SPAZIO. STRUTTURA DEL FILM

Cast Away è per solito considerato un film tri-partito. A una sezione iniziale, che racconta il lavoro di Chuck prima del disastro aereo, segue la lunga parte centrale, ambientata sull’isola deserta, e infine una conclusione allargata, dove la narrazione si concentra sul ritorno a casa del protagonista. Lo schema sarebbe dunque: patria-isola-patria. E questa è certamente l’impressione che lo spettatore ricava a una prima lettura del film. A ben vedere, tuttavia, le cose non sono così semplici e la figura del chiasmo (AB-BA) appare assai più indicata a suggerire la forma strutturale della pellicola. Vediamo perché. Parte I Il film si apre su una strada di provincia. Un camion della FedEx entra nell’inquadratura e sceglie una delle quattro vie sterrate che si presentano a un quadrivio. Il fattorino ritira un pacco da spedire. Comincia qui il lungo viaggio del plico, che Zemeckis racconta ora ricorrendo a una soggettiva dell’oggetto poi a forme di semi-soggettiva, comunque ponendo il punto di ripresa all’altezza della busta imbottita. Il percorso del collo si conclude in Russia, a Mosca, nei pressi della piazza Rossa. Nel momento in cui il pacco viene estratto dal camion, si aprono alcuni piani sequenza che ci accompagnano alla scoperta di Chuck e del suo lavoro: il protagonista è impegnato a spiegare al nuovo team russo della Federal Express la filosofia della compagnia. Tutto è dominato dal tempo. Si scopre così che Chuck si è fatto spedire da Memphis un plico per poterlo veder giungere proprio di fronte agli impiegati e analizzare il numero di ore che l’oggetto ha impiegato ad arrivare lì [ill. 1]. La frase di presentazione del personaggio è «Mai commettere il peccato di perdere di vista il tempo»: un manifesto di

poetica. La sequenza prosegue. I camion partono e attraversano Mosca, gli ostacoli che si frappongono vanno risolti con la creatività, e soprattutto in fretta. Le ottantasette ore che il pacco di Chuck ha richiesto per attraversare il mondo e giungere di nuovo al suo mittente sono intollerabili. «In ottantasette ore si fanno le rivoluzioni», afferma il protagonista, avendo un sicuro effetto sugli ascoltatori. Affrontiamo con più cura la primissima sequenza. Sui titoli di testa, la scena si apre su un’inquadratura fissa di una strada di provincia, non asfaltata. Pochi secondi dopo, una lenta panoramica da sinistra a destra va a definire lo spazio rappresentato: la strada prosegue fino a un incrocio, dove si aprono quattro percorsi possibili. Nel frattempo, un camion della FedEx sbuca dal lato destro dell’inquadratura fino a esserne nuovamente escluso quando la panoramica si blocca, inquadrando la strada diritta infine imboccata dall’automezzo. La fuga prospettica è garantita. Siamo nell’America profonda: La FedEx giunge ovunque – potrebbe anche trattarsi di uno spot pubblicitario, in fondo. Qui, però, la necessità dell’incipit, oltre che garantire la chiusura circolare della narrazione nella parte conclusiva del film, offre un primo quadro simbolico intorno al tema oppositivo civilizzato/non civilizzato, importante nel prosieguo della narrazione. Un altro movimento di macchina molto elaborato segue senza stacchi il restante viaggio del camion fino a che esso non parcheggia di fronte a una casa isolata, quindi la macchina da presa si avvicina – sempre senza interruzioni di montaggio – al conducente che esce dal veicolo ed entra nel garage, adibito ad atelier, di una donna. Improvvisamente, il punto di osservazione, o di ripresa se si preferisce, diventa quello del pacco FedEx. Non si tratta di una soggettiva, quanto di una semi-

soggettiva, essendo l’obiettivo come “appoggiato” sopra il plico. Si dà inizio al piano sequenza per come lo abbiamo descritto poc’anzi. Vale la pena sottolineare che esso si divide a sua volta in due parti. La prima, della durata di circa venti secondi, accompagna il pacco fino al rimorchio del camion. La chiusura del portabagagli garantisce evidentemente uno stacco occulto, che la diegesi nasconde. La seconda, invece, lunga circa quaranta secondi, procede dalla riapertura di un camion della FedEx, in Russia, dove il plico è giunto, e accompagna l’oggetto fino alla porta di casa del destinatario. È qui che il piano muta di segno, poiché la prossimità con il plico si attenua via via fino a che la macchina da presa si allontana insieme al dipendente della FedEx che ha lasciato l’oggetto in mano del cliente. La sequenza successiva si svolge a cena. È Natale, intorno al tavolo sono riuniti Chuck e la compagna Kelly, gli amici e i parenti. A disposizione, una quantità di cibo improbabile [ill. 2]. L’opulenza della civilizzazione moderna viene qui introdotta in termini chiaramente iperbolici, a testimoniare ciò che il protagonista perderà (l’unica cosa che gli “resterà addosso” è il proprio corpo: compreso il mal di denti che sta crescendo inesorabilmente). Il regalo di Natale che Kelly gli fa è un orologio a cipolla, antico, di famiglia. Il tempo si conferma dunque come il tema dominante della prima sezione del film. Infine, la lunga sequenza dell’incidente aereo. La violenza della catastrofe è impressionante e la perdita di controllo del mezzo disperata [ill. 3]. Chuck, vivo per caso, viene sbattuto qua e là da una tempesta furiosa e incontrollabile. Finisce più volte sott’acqua, ferito, terrorizzato. Il senso di decivilizzazione e il panico verso la natura incontrollabile sono enfatizzati dal ricorso a rumori stordenti e immagini caotiche.

Fulmini, fiamme, onde, pioggia, tuoni. Solo dopo un’interminabile tortura, Chuck approda alla terra ferma. Ripresosi dallo svenimento, scopre di trovarsi su una spiaggia deserta. Ogni tecnologia è silente. L’unica, beffarda traccia di civiltà sono i pacchi FedEx, fradici e ancora imballati, precipitati anch’essi sul bagnasciuga [ill. 4]. Parte II La seconda parte del film prende il via dopo trenta minuti. Si racconta la prima esperienza della solitudine: mangiare, bere, esplorare, curarsi, scaldarsi. Il personaggio è ancora sovrappeso e non sa come misurare il mondo intorno a lui. Sente suoni di cui non sa indicare la provenienza o la causa. Si accorge di essere ridotto alle caratteristiche di un uomo primitivo, tanto è vero che ben presto comincia a lasciare traccia di sé attraverso il ricorso a rudimentali graffiti murari, ovvero i geroglifici. La speranza della comunicazione è ancora viva: Chuck scrive sulla spiaggia «Help», cerca aiuto in qualsiasi modo, pensa di avvistare navi lontane, si imbatte nel cadavere del pilota dell’aereo e lo seppellisce con un rituale primitivo, cerca la fuga ottenendo null’altro che una nuova ferita. Infine – e qui si introduce un elemento sostanziale della narrazione – dipinge il pallone da pallavolo marca Wilson come un volto umano e comincia a parlargli. È il suo Venerdì, è la sua ultima possibilità di parola. In questa fase, Zemeckis progetta la messa in scena come campo di contraddizioni tra le esigenze del protagonista e le risposte del luogo in cui si trova costretto a vivere. Se la civilizzazione rappresenta tutto ciò che l’uomo ha fatto per circondarsi di una struttura atta a esistere comodamente, l’isola è il territorio degli ostacoli. Tutto va conquistato, a partire dalle più elementari esigenze umane: bisogna ottenere

il fuoco, cercare di assumere sostanze nutritive nelle maniere più avventurose, garantirsi la possibilità di sopravvivere. La regia insiste, attraverso dettagli ed enfatizzazioni sonore, sull’inesperito. Chuck, dapprima presentato come un uomo d’azione e deciso ad attraversare il mondo insieme ai suoi oggetti, è ora costretto all’immobilità. Ogni tecnologia, compresa la misurazione del tempo più tradizionale (come l’orologio a cipolla), appartiene alla vita precedente. Interpretare la vita selvaggia necessita di un nuovo schema cognitivo. Ecco perché ci sembra che questa parte del film possa essere considerata coerente e singola: riguarda, certo, il macro-episodio del naufragio e della sopravvivenza, eppure è divisa in due momenti assai diversi. Questa cesura è segnata dalla ribellione di Chuck, che non accetta di aver subito un “lutto di civiltà”. Dovrà bastare a se stesso e dovrà trovare le risorse spirituali e materiali per resistere a lungo, forse per tutta la vita. L’estrazione del dente senza anestesia rimane nella memoria come evento centrale della fase di adattamento. Inutile sottolineare che la spiaggia in cui si trova Chuck è altamente “simbolica”. Lo diciamo non in termini ingenui, bensì letterali. Chi ricorda Contact, sa bene che in quel caso la tanto vituperata sequenza in cui la scienziata Ellie pensava di essere giunta su un altro pianeta veniva ambientata su una risacca, dove invece di un extraterrestre arrivava ad apparirle una forma umana con le sembianze del padre scomparso. Si scopriva poco dopo che la protagonista, interpretata da Jodie Foster, non si era mai mossa dalla terra, essendo il viaggio astrale fallito sul nascere. Ma nel periodo di incoscienza (o forse di assenza fisica, pensando a un viaggio al di fuori del tempo e dello spazio), Ellie ha “esperito” qualcosa di indicibile. Il mare, la spiaggia e la figura paterna appartenevano dunque a una forma simbolica attraverso cui il subconscio di Ellie (secondo gli scettici) o l’entità non

identificata (secondo i più fiduciosi) cercava di mettersi in comunicazione con lei. L’isola deserta per Chuck è qualcosa di simile: i fatti avvengono per davvero – e mai il film fa qualcosa per farci dubitare dell’affidabilità narrativa (a differenza di Contact) – ma la dimensione astratta emerge con forza. Non è un caso che alcuni critici abbiano stigmatizzato l’inverosimiglianza del film2, per motivi del tutto referenziali, come l’assenza di insetti o lo scarso realismo dei pericoli naturali. Sarebbe davvero sorprendente scoprire che un autore esperto e sceneggiatori astuti come quelli del film si siano “dimenticati” di inserire elementi a suffragio della credibilità dell’esperienza vissuta da Chuck. Anzi, è probabile che alcuni di questi elementi avrebbero reso più avventurosa ed emozionante la vicenda del protagonista sull’isola, laddove invece l’insistenza sull’aspetto antropologico e di adattamento umano dell’individuo supera ogni altra tentazione hollywoodiana. Non è dunque credibile che Zemeckis abbia scioccamente sottovalutato gli elementi narrativi potenziali garantiti dal trovarsi su un’isola deserta, ed è assai più probabile che – in nome di una scelta “teorica” – li abbia volutamente lasciati da parte. La seconda parte del film, che dunque corrisponde alla prima ambientata sull’isola, termina nel buio, con il pallone Wilson truccato da umano. Comincia qui a declinarsi il tema del feticcio, destinato ad allargarsi nella seconda parte del testo come funzione metaforica potente. Parte III La terza parte viene introdotta dalla prima cesura temporale esplicita del film. La didascalia «Quattro anni dopo» giunge quando il film è cominciato da un’ora e sedici minuti. La sorpresa – metafilmica, visto

il lavoro di dimagrimento dell’attore – è invece garantita dal mutamento fisico del protagonista. Non solo smagrito, come è inevitabile che sia, ma anche visivamente simile all’icona classica del naufrago [ill. 5]. Ancora una volta, Zemeckis gioca con lo stereotipo. In senso postmoderno, egli inietta ironia nel sistema iconografico del film: per sottolineare che la verosimiglianza è un valore che, da un punto di vista estrinseco e oggettivo, non gli interessa, Zemeckis immagina che Chuck non possa essere altro che ogni naufrago. Di più: si può persino pensare che Chuck abbia letto Robinson Crusoe o che almeno non sia a digiuno di illustrazioni per l’infanzia, caso mai come ricordo lontano, e che abbia optato per una scelta estetica tradizionale. E che il suo look risponda a un’esigenza di messa in scena psicologica. D’altra parte, Chuck – in questa seconda parte del film – è giunto all’autoreferenzialità. Non cerca più un aiuto esterno. È abituato a vivere da solo, circondato da totem e orpelli. Il sistema di segni è divenuto oramai proprio e indipendente. Wilson è diventato un feticcio. La dimensione infantile e primitiva ha preso il sopravvento: animismo e superstizione, tracce grafiche e simboli riempiono la vita solitaria del protagonista. Il tempo è azzerato. E lui stesso ride del suo passato. Con Wilson/specchio il rapporto è conflittuale: amore, stizza, affetto, rabbia, ricongiungimenti. La scena madre del film (di un film dove le scene madri sono realizzate col dono dell’antiretorica) è proprio il momento in cui, durante il tentativo di fuga, Chuck smarrisce il pallone tra le onde. La disperazione di perderlo è straziante, e la scommessa melodrammatica di Zemeckis altrettanto rischiosa: far piangere gli spettatori insieme al protagonista per il lutto di un oggetto.

La fuga si presenta insperata, grazie a un ulteriore reperto civile approdato sulla spiaggia dopo chissà quanti percorsi. Si tratta di una paratia prefabbricata, adattabile a vela rigida. I preparativi per l’evasione, grazie al paravento che può accogliere l’aria e spingere la barca, sono finalmente vincenti. L’objet trouvé (nel vero senso del termine) è il bricolage selvaggio dell’homo americanus. Chuck non si rassegna ancora a vivere per sempre da solo [ill. 6]. Durante la fuga accadono due fatti importanti. Dapprima Chuck guarda negli occhi un cetaceo dallo sguardo indecifrabile, forse vagamente complice. Altra sequenza intollerabile se misurata in termini di congruità. Sublime, invece, se si pensa al film come a un “corteggiamento” poetico del cinema e della narrativa popolare, dell’illustrazione primitiva e della letteratura per l’infanzia. È appunto solo uno sguardo, un momento, che testimonia le possibili varianti del racconto, per l’appunto appena costeggiate, lambite, carezzate. Cast Away potrebbe diventare da un momento all’altro un racconto fantastico, à la Jules Verne, ma non percorre quella strada. Questa volta, infatti, il fantastico è bandito, e rimane invece una natura ostile e muta. Nemmeno il Fato sembra avere molto a che fare con questa storia. Il secondo momento interessante giunge quando, sempre nell’atto di superare la barriera corallina e lasciare la sua prigione, Chuck guarda per la prima volta l’isola in prospettiva centrale. Dopo anni passati a scrutare l’orizzonte, ora Chuck è l’orizzonte. Lo scambio di prospettiva dice più di qualsiasi riflessione. È un ribaltamento di ripresa che metaforizza in termini di sguardo soggettivo ciò che sta accadendo al testo narrativo. Parte IV

L’ultima macrosequenza del film riguarda il ritorno a casa di Chuck e prende avvio a un’ora e quarantadue minuti dall’inizio. Essa è introdotta da una forte ellissi. Lasciamo il protagonista addormentato sulla zattera di fortuna che si era costruito e lo ritroviamo sull’aereo che lo riporta a casa, comprensibilmente teso. La didascalia («Quattro settimane dopo») indica un intervallo assai più ridotto del precedente («Quattro anni dopo») e offre l’idea che il tempo, nel mondo dei vivi e degli esistenti, abbia ricominciato a scorrere velocemente. Del resto, «Quarantacinque minuti» è la prima frase che lo steward gli dice, alludendo al tempo che manca per l’atterraggio. Il tempo ritorna: è ciò che differenzia l’indifferenziato. Ci viene occultato il momento del ritrovamento, risparmiati gli abbracci al naufrago e il lauto pasto dell’affamato, evitato ogni altro passaggio didascalico. Nel frattempo, Kelly – che ora ha un marito (il dentista di Chuck) e due figli – viene avvertita, e sviene per l’emozione. Proprio sull’asse Chuck/Kelly viene impostata la parte finale del film. Il reinserimento di Chuck nel mondo civilizzato si presenta, naturalmente, difficoltoso, ma mai quanto trovare la compagna, al cui ricordo si era aggrappato come a una scialuppa di salvataggio, maritata e madre. Si intreccia narrativamente il tema della famiglia e del matrimonio. Chuck, prima di partire per il viaggio fatale, ha donato a Kelly un anello; durante la cena di Natale, l’insistenza di parenti e amici sul tema del matrimonio aveva suggerito una soluzione imminente. Insomma, Chuck si era perso nel mare e nell’isola deserta proprio nel momento in cui si era convinto a stabilizzarsi: facile metafora, forse, in opposizione al lavoro fatto di viaggi e attraversamenti del mondo. Chuck attende Kelly una prima volta nell’hangar dell’aeroporto. La donna, però, rinuncia all’ultimo momento a causa delle emozioni troppo potenti. È il

marito a incontrare Chuck, con imbarazzo comprensibile. In seguito, è Chuck che si fa portare a casa di Kelly: l’incontro infine avviene, il bacio e l’abbraccio testimoniano che l’amore è ancora vivo, ma ormai è troppo tardi [ill. 7]. In una sequenza in automobile simile per certi versi a quella finale di The Bridge of Madison County (I ponti di Madison County, 1995) ma ribaltata (là Meryl Streep fino all’ultimo tende la mano verso la maniglia della portiera indecisa se lasciare il marito e correre dall’amante; qui Kelly tentenna, domandandosi se restare in auto con Chuck o tornare dalla sua famiglia). In entrambi i casi, la protagonista sceglie la conservazione. Ci sono i bambini, cui non si può imporre un mutamento improvviso. Chuck, in queste sequenze, è un fantasma. Redivivo, a dir poco, revenant. Non sarà un caso che tra le due “fette” di film, Zemeckis abbia girato una ghost story come Le verità nascoste. In fondo, anche questa lo è, con Chuck nelle vesti di spettro: spettrale, infatti, anche fisicamente. Infine si ritorna al posto iniziale. Là dove è il pacco che era partito verso Mosca. Chuck giunge per riportare il collo trovato sull’isola. Si tratta di un gesto di riconquista della realtà. Non va letto evidentemente come richiamo all’ossessione lavorativa o, peggio, come spot per la Federal Express. È invece un modo per Chuck di riaffermare il ciclo vitale, che – come vedremo – nel suo caso corrisponde quasi completamente al ciclo delle merci. Il quadrivio che apre e chiude il film è simbolo fin troppo chiaro. Chuck deve solo scegliere da che parte andare, magari rispondendo agli inviti neanche troppo impliciti che la ragazza sul furgone gli fa, oppure cambiare completamente strada [ill. 8]. Da quel punto, gli spiega la giovane donna, si può andare praticamente dappertutto. Si tratta di un’ennesima riprova di come nel cinema di Zemeckis gli spazi rappresentati abbiano di continuo un valore diegetico e un valore topico

astratto. Non si intende qui solamente la normale dinamica per cui uno spazio cinematografico si carica di echi simbolici e di riverberi sullo scandaglio psicologico dei personaggi. È, al contrario, una vera poetica del “topos”, quella del regista americano, dove a essere messi in discussione sono contemporaneamente la rappresentazione cinematografica (attraverso la virtualizzazione indotta dagli effetti speciali digitali), la verosimiglianza diegetica (poiché ogni spazio è al contempo spazio reale e spazio astratto) e il paesaggio americano (grazie a una riconfigurazione radicale dei loci communes statunitensi, di cui l’isola di Cast Away è negazione e al tempo stesso riflesso). Strutturalmente, non possiamo parlare di film circolare. Il protagonista non giunge a destinazione da dove era partito, e nemmeno il film costituisce un tondo. Di più: Chuck non era presente nella prima sequenza, da cui prende avvio la storia, poiché si trovava (presumibilmente) già a Mosca. L’umanesimo di Zemeckis, quindi, avvia una sostituzione: Chuck al posto del plico. L’uomo americano passato attraverso la prova di maturazione si libera dall’idolo e si rimette al centro delle scelte. Il quadrivio, così, passa dall’essere usurata metafora del “cammin di nostra vita” a luogo in cui Chuck riprende a esistere in virtù di uno scambio simbolico con l’oggetto. Inoltre, il quattro diventa forma stessa del testo. Quattro sono le parti in cui è diviso. Quattro sono i punti cardinali: nord-sud-ovest-est del quadrivio offrono tutte le possibilità che l’isola negava, appiattita sul bidimensionale. E quattro, naturalmente, sono gli elementi naturali che Chuck, nella sua esperienza lontana dalla civiltà, si trova costretto ad affrontare: l’acqua, aria, terra e fuoco si annunciano attraverso l’incidente aereo e finiscono col diventare i compagni di vita per il protagonista. Quattro sono gli anni

passati sull’isola. Quattro le settimane che separano il naufrago ritrovato dalla sua Kelly. Ricordiamo, inoltre, che il quadrivio costituiva nell’antichità, insieme al trivio, la forma educativa propedeutica per ogni scienza teologica e filosofica. Le materie del quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia) assumono un valore ancillare rispetto al trivio (formato da retorica, grammatica, dialettica). Proseguendo per questa via, diventa forte la tentazione di applicare la suddivisione antica a Cast Away e al cinema di Zemeckis, che non a caso sembra una fusione di elementi matematici e algoritmici (la tecnologia infografica) ed elementi discorsivi (la narrazione). Così come non sembra un caso che il film si presenti diviso in tre parti nella fisionomia apparente, e in quattro – secondo la forma chiasmica suggerita – a un’analisi più attenta, come se ci trovassimo di fronte a un trompe l’oeil. E non insistiamo oltre, per non eccedere in erudizioni fumose. Basta fare un salto su Wikipedia e godersi tutti gli altri significati, matematici e non, che il numero quattro comporta. Accontentiamoci di quanto detto, ben sapendo però che Cast Away rende assai congrue queste riflessioni, grazie a spie testuali e indicatori narrativi molto evidenti. «CAST AWAY» COME ATOPIA

Dunque, i termini di riferimento per comprendere Cast Away sembrano essere il lavoro sul tempo, sullo spazio e sull’oggetto. Vediamoli uno alla volta, dopo averli affrontati durante l’opera di segmentazione del film. È apparentemente superficiale affermare che il cinema di Zemeckis sia nel segno dello spazio/tempo. A quale cineasta non potrebbe applicarsi una categoria così generica? Eppure, non sapremmo come altro definire l’ossessione di Zemeckis per queste aporie del

“cronotopo”, per dirla secondo il celebre neologismo di Michail Bachtin. Tutti i suoi film hanno a che fare con elementi che provengono ora dalla tradizione del fantastico ora da quella della science fiction, in grado di affrontare nodi problematici della nazione statunitense. L’esempio di Ritorno al futuro è emblematico: laddove la trilogia rinuncia a elaborare varianti troppo complesse del viaggio nel tempo e dei conseguenti paradossi logici, opera invece in maniera magistrale sui miti di provincia del folclore statunitense, sui futuri possibili del capitalismo americano, sui rapporti tra scienza e società, fino a sfiorare temi scabrosi come l’incesto e la violenza famigliare. Lo stesso vale per Forrest Gump, che – a differenza di Marty McFly – non ha a disposizione una macchina per attraversare il tempo, ma che tuttavia scorrazza lungo gran parte della storia americana trovandosi sempre al posto giusto nel momento giusto. E che dire di Contact che slitta da un possibile viaggio nello spazio (alla ricerca di altre forme di intelligenza extraterrestri) a un viaggio nel tempo, grazie alla svolta narrativa che abbiamo analizzato poco sopra. E gli esempi potrebbero continuare, se lo scopo del presente saggio fosse di tracciare una poetica generale del regista. Ma, visto che vi è chi, nelle pagine precedenti, lo fa assai meglio e più approfonditamente, ci limitiamo a dire che anche Cast Away partecipa di queste “false” configurazioni spazio/temporali che, attraverso varianti complesse, Robert Zemeckis ha sempre messo in scena. Molti dei suoi film, infatti, narrano nuove versioni di fatti più celebri (anche I Wanna Hold Your Hand, 1964: allarme a New York, arrivano i Beatles!, 1978 per certi versi), o reinventano la storia attraverso il punto di vista di un personaggio, o ancora lavorano sul repertorio sociale e mediatico d’America esponendolo a una revisione iperbolica (Gump nell’atto di stringere la mano al presidente Kennedy).

In molti casi, le pellicole del regista si occupano di raffigurare una utopia, un luogo nel quale gli elementi di instabilità personale, comunitaria e sociale trovano una – sia pure fantasiosa e trasognata – soluzione pacifica. La spiaggia di Contact, la strada percorsa dal maratoneta Forrest Gump, la città natalizia di The Polar Express sono utopie. Ogni utopia, come sanno gli esperti di fantascienza, possiede una versione negativa e rovinosa chiamata distopia. E anch’essa è presente nei film del regista, ogni volta che i mondi fantastici del cineasta si caricano di eventi funesti, negativi e ostili. Si può dire, per esempio, che ogni qual volta Marty McFly viaggia nel tempo, crea automaticamente un’utopia e una gemellare distopia, a seconda dei mutamenti cronologici che induce sulla realtà. Aggiungiamo che il largo ricorso agli effetti speciali digitali e la sperimentazione tecnica esasperata – come nel caso dei “falsi” storici digitali di Forrest Gump, della motion capture di The Polar Express o, prima, dei corpi metamorfosati e ridotti a giocattolo di La morte ti fa bella – investono il cinema stesso di un ruolo utopico, dove l’immaginazione e la fantasia trovano ospitalità. Bene, dunque. E se dovessimo decidere quale “topos” è più adatto a rappresentare l’isola di Cast Away, che cosa risponderemmo? Se è vero, come crediamo, che la lunga permanenza sull’atollo del novello Robinson Crusoe abbia un valore di morality tale, e che quindi gli elementi narrativi in esso compresi possiedano una dimensione metaforica insistente, come definiamo quel luogo: un’utopia o una distopia? L’impressione è che ci troviamo di fronte a una atopia. Il film suggerisce che sia proprio l’assenza di una individualità topografica a costituire il valore di exemplum del film. Niente insetti, niente bestie feroci, niente indigeni, niente di niente: l’avventura di Chuck è un’odissea da fermo, è una prigionia schiacciata su

un orizzonte vasto e pur tuttavia limitato, soffocante. La porzione di spiaggia in cui lo vediamo muoversi è sorprendentemente ridotta: la frustrazione di ogni movimento nell’isola e di ogni conquista di spazi più ampi lo costringe all’immobilità. Pensiamo alla serie televisiva Lost, che gioca in maniera spudorata sulla tensione fantastica tra razionale e irrazionale, e che utilizza al contrario l’isola come un “moltiplicatore” di spazi, tanto è vero che i personaggi si muovono nel sottosuolo, in superficie, sulle cime delle colline, nelle grotte, in riva alla spiaggia. Si dirà, non a torto, che in quel caso la lunga serialità impedisce soluzioni visive troppo claustrofobiche, ma rimane il fatto che Cast Away insiste in maniera sorprendente sul “set” dell’isola. Tentazioni metacinematografiche a parte, l’atopia si fonda dunque su una indecidibilità del valore simbolico da attribuire all’esperienza utopica/distopica e sulla plateale inverosimiglianza del luogo prescelto. È al tempo stesso la risoluzione degli opposti nel cinema di Zemeckis e la sua messa a rischio radicale. Che cosa significa per il personaggio di Chuck la lunga assenza? Che valori assume dal punto di vista esistenziale? Quale lezione trarne? Su questo, anche i critici più ben disposti – e non ce ne sono stati molti, a dire la verità3 – hanno ammesso di non avere idee precise. Forse Cast Away ci avverte che è più facile adattarsi a un mondo estremo e solitario che non a un mondo comunitario e fondato sui compromessi sociali. Lo sguardo del film su Chuck è senza dubbio ambivalente: la sua dedizione al lavoro non sembra così eccessiva e disumana da fargli meritare un avvertimento del Fato di tale durezza; e, d’altra parte, l’esperienza di vita gli costa affetti che già aveva intenzione di stringere a sé, come dimostra l’anello di fidanzamento regalato a Kelly prima del viaggio maledetto.

Ecco allora farsi strada una lettura più affascinante: nel cinema di Zemeckis, e in Cast Away più apertamente, la vita è dominata da un Caso necessario ma non per questo più leggibile. Non c’è nulla di teleologico nelle avventure di McFly, Gump, Ellie o Chuck: sono tutti protagonisti di vicende paradossali e paradigmatiche, ognuno di loro viene investito di un ruolo determinante per saggiare confini e caratteristiche della comunità americana, ma quasi mai essi riescono davvero a modificare il mondo intorno a loro. Chuck, infatti, alla fine sembra più sorpreso da come le persone intorno a lui cercano di far rientrare la sua disavventura nel ciclo delle cose che accadono durante l’esistenza, che non dal ritrovarsi a casa. Lo iato che si è aperto come una voragine non si sutura facilmente. Eppure, lo stato di atopia (o di acronia in Contact, che ha il medesimo rapporto con l’ucronia fantascientifica rispetto a quello che l’atopia presenta con l’utopia fantastica) non ha assunto né un ruolo salvifico né una funzione gnoseologica esplicita. È un tratto tipicamente postmoderno, quello della fragilità del senso e dell’ambivalenza dei simboli narrativi, ed è un aspetto teorico che Zemeckis affronta con evidente consapevolezza, non accontentandosi di accoglierlo come vettore principale dei racconti della contemporaneità. Di qui, probabilmente, la sensazione di ambiguità che i critici meno disposti all’analisi rilevano nei suoi film. FETICCI GLOBALI

Se il tema dello spazio/tempo e della disposizione del cronotopo assume una rilevanza primaria nel film, quello dell’oggettualità non sembra di minor importanza. Da subito vale la pena ammettere che non intendiamo qui sollevare una questione ontologica che

pure darebbe – credo – i suoi frutti interpretativi. Rimaniamo all’anticamera del ragionamento speculativo e alla porta di ingresso di una vera e propria lettura filosofica di Cast Away. Tuttavia, non rinunciamo a qualche riflessione. Dunque, il film di Zemeckis allude all’esperienza antropologica del personaggio e ne sottintende il ritorno al primitivo. Abbiamo del resto già analizzato i momenti nei quali Chuck rinuncia al ricorso comunicativo esterno (del resto frustrato) e costruisce un sistema di segni autoreferenziale. Il fatto che faccia uso di feticci non è sorprendente né originale. Più curioso, invece, appare il fatto che il film disponga un elemento di opposizione dialettica tra feticci primitivi e feticci contemporanei. Se il pallone Wilson è un “manufatto antropomorfo” (che insieme al manufatto zoomorfo viene considerato dagli etnologi come feticcio primario), i plichi della FedEx non possiedono altra forma che quella necessaria a essere spediti. Eppure, nel ciclo della comunicazione immateriale, l’oggetto trasportato – in attesa del momento in cui la materia potrà essere scomposta e riaggregata altrove – necessita ancora di cure concrete, di viaggi articolati, e di tempi che possono essere ridotti, sì, ma fino a un certo punto. Per Chuck, il lavoro è importante. Lo comprendiamo subito, a inizio film. Già, ma perché è così importante? Perché il protagonista è ossessionato dal tempo e dalla merce. L’uno senza l’altra non ha senso. E il contrario. La merce viene feticizzata. O meglio, visto che non la si può definire antropomorfa, viene dotata simbolicamente di spirito, secondo l’evoluzione del feticismo che si chiama animismo. Cast Away è la storia di un uomo che ritorna al primitivo e mette in atto gli stessi comportamenti che era abituato a inscenare nel mondo civilizzato. Fin qui, certo, non ci sarebbe nulla di davvero innovativo.

Zemeckis guarda con qualche interesse alla tradizione della filosofia marxista – storicamente, non è l’unico a farlo dentro Hollywood – e all’etnografia più semplificata. Quel che invece davvero colpisce è il ricorso onomastico. Ogni oggetto si nominalizza con la marca che lo ha prodotto. Il feticcio antropomorfo pallone è Wilson, non John, Jack o Fido. Per Chuck non ci sono dubbi: il pallone, estratto dal flusso delle merci e finito con lui sull’isola, si merita un nome. Ma, invece che cercargli un nome particolare in grado di personalizzarlo e dotarlo di un’identità, Chuck utilizza la marca che lo ha prodotto. E a sua volta il film non fa più nulla per occultare la relazione tra film e merce, o tra film e product placement. Un film sulle merci si fa con le merci stesse, che possiedono un nome e un cognome scelto dall’industria. A questo punto, ognuno scelga la strada che preferisce. Chi pensa che Zemeckis abbia superato ogni limite del buon gusto innalzando a protagonisti gli sponsor produttivi, FedEx e Wilson, può legittimamente rifiutare le riflessioni fin qui aperte e giudicarle alla stregua di un accanimento terapeutico. Coloro che invece, come chi scrive, trovano in questa estremizzazione dei rapporti capitalistici un’ottima strategia artistica per parlare del nostro presente e della nostra realtà sociale, possono guardare a Cast Away come a un film importante. Un film che, moltiplicando il senso nascosto e innescando relazioni controverse tra processi narrativi e rappresentazioni simboliche, attua il progetto più ambizioso di certo cinema popolare: dire qualcosa di originale e dirlo con apparente semplicità.

1. Il tempo come ordine produttivo ed esistenziale

2. La sazietà come principio e obiettivo della società capitalistica

3. In balia del “tempo”: la natura come disordine impossibile da controllare

4. Sull’isola: spazio limitato, tempo infinito

5. L’icona classica del naufrago

6. La zattera della salvezza

7. Il ritorno a casa: il ricongiungimento impossibile con il passato

8. Da che parte andare? Il futuro come orizzonte dei possibili

Le verità nascoste di Luisella Farinotti L’uomo non deve potersi guardare in volto, perché è la cosa più terribile che esista. La Natura gli ha dato il dono di non poter fissare i suoi stessi occhi. Soltanto nell’acqua dei fiumi e dei laghi egli poteva fissare il suo volto. E perfino la posizione che doveva prendere era simbolica. Doveva curvarsi, abbassarsi per commettere l’ignominia di vedersi. L’inventore dello specchio ha avvelenato l’animo umano. FERNANDO PESSOA, Il libro dell’inquietudine *

LO SPAZIO LIQUIDO (EMERSIONI)

Su uno sfondo blu scuro mosso da un leggero movimento compaiono in bianco i nomi delle case di produzione (Twentieth Century Fox e Dreamworks, seguite da ImageMovers Production). Le scritte, in un lettering essenziale e sottile, sono poste al centro del quadro, mentre lo sfondo si viene via via definendo grazie a un movimento incessante, come di un incresparsi di onde. Una nebbia sottile vela a tratti l’immagine mentre sulla superficie scura dell’acqua, agitata da un lento respiro, emerge il titolo, che sembra provenire dalla profondità dei fondali. La scritta What Lies Beneath1, sempre in bianco, sembra galleggiare, “ondeggia” lentamente prima di scomparire nell’oscurità dello spazio liquido [ill. 1]. La scelta di integrare il titolo allo sfondo rendendolo quasi parte del profilmico e, più ancora, l’assenza di altri elementi paratestuali (fino alla fine non verranno presentati i credits), segnalano la volontà di non marcare la soglia di entrata nel testo, eludendo quella sorta di «zona franca»2 tra il mondo della realtà e quello della finzione che sono i titoli di testa. Questa scelta di un confine “fluido”, luogo di un passaggio inavvertito più che di una separazione, rafforza quanto

dichiara già il titolo: l’occultamento diventa l’ordine del discorso tanto quanto della storia. Zemeckis non «smaschera la finzione»3, non designa il film in quanto tale (“un film di”), nasconde il carattere artificiale e arbitrario del limite introducendoci in un mondo i cui confini – tra realtà e apparenza, tra verità e immaginazione, tra vivi e morti – non sono affatto definiti4. Il movimento successivo della macchina da presa che si immerge sotto la superficie dell’acqua, rende visibile ciò cui il titolo allude: qualcosa effettivamente “giace sul fondo”, portarlo a galla sarà compito di Claire e di noi spettatori, invitati a districarci nel labirinto di false apparenze e di segni rivelatori disseminati nel corso del film. «Una soglia non può che essere attraversata»5, scrive Genette in chiusura del suo volume dedicato ai fenomeni paratestuali, dichiarando che ogni discorso sulle frange del testo non può che essere un discorso sul testo stesso. Se la soglia è uno spazio di transizione fondamentale all’ordine del racconto, è però anche il luogo della transazione all’ordine della scrittura: spazio di messa in forma dei processi di significazione, in cui si istruisce il nostro sguardo, vengono predisposte le nostre attese e i nostri saperi. Così Zemeckis non solo dichiara da subito il meccanismo che governa l’intreccio, ma introduce nelle primissime immagini un elemento chiave del film, un elemento fisico e simbolico insieme, la cui qualità fluida e sfuggente ben rappresenta l’universo messo in scena. L’acqua è al centro de Le verità nascoste: luogo di soluzione dell’enigma e di risoluzione narrativa, ma anche, più sottilmente, referente simbolico delle contraddizioni e dei mutamenti incessanti della storia. Il tema dell’acqua si lega sia all’immaginario del mistero – l’acqua come forza segreta e insondabile – sia all’idea del dinamismo delle trasformazioni, al flusso come elemento di congiunzione, di “attraversamento”, di rivelazione e scoperta. L’acqua

porta via, ma anche porta a, nasconde e rivela, congiunge e trascina, lega e isola. Se nelle prime immagini è massa oscura e profonda, spazio misterioso di occultamento, via via si offrirà come cornice scenografica della quieta bellezza del paesaggio o come superficie riflettente, specchio di una visione insostenibile. Zemeckis sfrutta la “fluidità semantica” dell’acqua: la sua ricchezza evocativa e metaforica, ma anche la sua qualità plastica, la varietà fisica di un elemento capace di continue trasformazioni, che sembra sfidare le leggi cui sono sottoposte molte realtà naturali. Nel corso del film l’acqua è presente in forme e stati diversi: come superficie liquida estesa, apparentemente calma e immobile; come nebbia che avvolge, isola e rende invisibile il contorno delle cose; come nuvola di vapore in cui sembrano prendere corpo i fantasmi; come pioggia battente che riempie lo spazio e, infine, nell’ultima scena, come neve che ricopre il piccolo cimitero, manto protettivo che concede riposo alla vita. Al di là dell’immediata valenza simbolica dei diversi stati fisici – l’acqua come fondo segreto e impenetrabile, come ostacolo e isolamento, o, al contrario, elemento di congiunzione tra mondi, materia “trasparente” di rivelazione e purificazione, forma evanescente dell’impercettibile – più importante ci sembra il processo generale per cui la concretezza della materia si converte in pura astrazione, diviene forma e figura di una dimensione mentale. In linea con tutta una tradizione del cinema fantastico e di fantascienza, Zemeckis elegge l’acqua a spazio dell’“altro”: incarnazione cangiante di qualcosa di inafferrabile, abisso mentale prima ancora che fisico, in cui prende corpo il fluire e il perdersi senza posa della coscienza6. Del resto già l’incipit definisce la piena corrispondenza tra spazio liquido e spazio mentale nel momento in cui

attribuisce a una sorta di incubo la prima “visione” di uno spettro. Dopo la scomparsa del titolo, che, si noti, si inabissa dopo l’improvvisa emersione, segnalando il doppio movimento cui sarà sottoposta la mente di Claire, la macchina da presa si immerge nella profondità delle acque. Tra un intrico di ostacoli visivi – dall’oscurità dei fondali, alle erbe acquatiche – l’immagine sembra rivelare il volto spettrale di una donna dagli occhi sbarrati [ill. 2]. La visione è improvvisa e altrettanto velocemente si converte nel volto di una donna dagli occhi azzurri, immersa nell’acqua di una vasca da bagno. La donna tossisce e ansima violentemente, come a riprender fiato, apparentemente preda di un incubo. È un cambiamento di stato a marcare l’entrata nel pieno del racconto: più specificatamente è un’alterazione di uno stato di coscienza – l’uscita da un incubo – a definire il passaggio nel mondo finzionale. Varchiamo, insieme a Claire, una “soglia naturale” che segue peraltro tutta una serie di marche di rottura: dal movimento di immersione iniziale, alla scomparsa della musica che accompagnava la sequenza inaugurale, fino al passaggio a una luminosità piena. Si ha però l’impressione di essere ancora immersi nell’incubo: la sala da bagno dai toni grigioazzurri, avvolta dai vapori dell’umidità, sembra prolungare lo spazio liquido e il movimento fluido della macchina da presa che avanza con un lento carrello in avanti, scivolando all’altezza del pavimento verso la vasca, insinua la sensazione di una presenza invisibile. Il respiro affannoso della donna accresce il senso di inquietudine, rivelando un disagio che troverà in quella visione inaugurale la soluzione. L’incipit ci consegna una scena emblematica in cui si condensa il senso del film, il suo gioco di ambiguità e contraddizioni. Quel sogno apparente – che solo il prosieguo della storia ci consentirà di interpretare come prima forma di “possessione” da parte del

fantasma, aprendo la lunga catena di ribaltamenti interpretativi che segna il testo – sembra rivelare le profondità segrete dell’inconscio. Le visioni successive avranno i caratteri di allucinazioni, di proiezioni, di sdoppiamenti, di dislocazioni o di fantasie ossessive, ancora tracce dell’inconscio, certo, ma che il film lascia volutamente in una zona di indefinibilità, assecondando quello statuto di incertezza che apre le porte al fantastico. Solo in questa sequenza inaugurale il fantasma è dichiaratamente il corpo immaginario dell’universo interiore di Claire, oggettivazione angosciante di qualcosa che preme per essere riconosciuto. Si tratta di una sorta di «deposito figurativo e narrativo dell’inconscio»7 cui la mente ricorre per coprire qualcosa di inconfessabile. Traccia di una lacuna dell’inconscio, il fantasma è il perturbante freudiano: «tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che è invece riaffiorato»8. E come il perturbante (das Unheimliche) per Freud si regge sulla paradossale convivenza di familiare (heimlich) e sconosciuto (unheimlich), è cioè la reazione al ritorno del rimosso9, anche le visioni di Claire le rinviano l’immagine estranea e straniante di un Sé irriconoscibile, radicalmente “altro”. Freud insiste sull’aspetto di effrazione, di frattura […] che suscita nel soggetto l’esperienza del perturbante. Ciò che si ritrova non è l’identità perduta, ma l’impossibilità dell’identità. Non un’identità ma un’extimità. Una alterità che si scava, senza lasciarsi assorbire dall’identità, proprio dentro l’intimo del soggetto. Un fuori che si manifesta da dentro. Un’intimità, una prossimità che si rivela come un’esteriorità indomabile, straniera, non-inglobabile nell’identità dell’io10.

È questa esperienza di una presenza-assenza a se stessa, come di una “intimità esteriore” (l’extimité di Lacan), che sperimenta Claire: l’improvvisa perdita di familiarità della casa che sembra animarsi inspiegabilmente e il mancato controllo delle proprie percezioni sono i sintomi di una dissonanza tra io e mondo, di un disagio interiore che “prende corpo”.

Non è certo un caso che in un film che mette in scena un processo di riemersione del rimosso sia completamente assente la dimensione onirica. Non ci sono sogni ne Le verità nascoste, né rappresentati né raccontati. Nemmeno allo psicoanalista, cui si rivolge Claire nel tentativo di capire quello che (le) sta accadendo. Il film non riconduce mai esplicitamente il fantasma a uno sdoppiamento illusorio o allucinatorio – cui la dimensione onirica lo consegnerebbe –, mantenendo degli “spazi vuoti”, degli elementi di esitazione che riproducono l’ambiguità e la confusione che sperimenta Claire. La donna descrive all’analista lo spettro che ha visto riflesso nell’acqua della vasca, come una sorta di suo doppio: «era accanto a me […] sembrava… me, solo che aveva gli occhi verdi» [ill. 3]. L’invito a mettersi in contatto con il fantasma, a comunicare “in qualche modo” a “scoprire che cosa vuole” fornisce già la chiara indicazione che l’inconscio prende forma nello sguardo proiettivo di Claire: il revenant è parte della scena immaginaria in cui il soggetto diviene presente a se stesso11. Il fantasma nel contempo rivela – è l’emersione di una lacuna dell’inconscio – e nasconde: devia l’attenzione dal processo che l’ha generato, producendo una visione subordinata al nascondimento. Così le prime interpretazioni delle presenze che animano la casa come segnali dello spettro della giovane vicina, funzionano come schermo protettivo frapposto tra Claire e ciò che deve essere lasciato fuori dalla sua vista, vale a dire il segreto indicibile che riguarda la sua esistenza. In questo senso il fantasma «chiede di essere visto soltanto per distogliere l’attenzione da ciò che nasconde»12. L’incertezza tra il “dentro e il fuori” appartiene tanto alla protagonista – che disloca l’angoscia in una proiezione fantasmatica – quanto alla messa in scena. L’ambigua convivenza tra mondi o stati di coscienza

segna tutto il film che privilegia, fin nella costruzione diegetica e nei procedimenti sintattici, le zone di confine. Si pensi solo agli interni della casa: ogni ambiente è incorniciato da finestre aperte sul paesaggio circostante che consentono uno sfondamento dei confini del visibile. L’esterno entra nell’inquadratura sia come ulteriore spazio d’azione (spessissimo qualcosa accade “ai bordi” del quadro, nelle zone di confine, ai margini della visione), sia come richiamo a “un oltre”, a qualcosa che “sta fuori” ma che è sempre presente [ill. 4 eill. 5]. Questa stessa funzione è assolta dagli specchi – di cui la casa è piena – veri e propri moltiplicatori del campo visivo, anche nel senso profondo di accesso a una visione altrimenti negata13. Frequenti sono anche le immagini di soglie o di linee di separazione: come la porta di casa che si ostina a non voler restare chiusa, definendo il primo varco simbolico dell’inconscio [ill. 6], o le finestre – da cui Claire spia la turbolenta coppia dei Feur – cornici di un “quadro” nel quale la donna si vede in assenza, nella posizione rassicurante garantita dalla distanza e nell’illusione di una separazione voyeuristica. Zemeckis mostra Claire all’interno del quadro, parte della scena che si rivela al suo sguardo [ill. 7]. Siamo nella prima parte del film, subito dopo aver svegliato la figlia, Claire è nell’ampia anticamera al piano superiore. La parete sul fondo è tagliata in verticale da due finestre che danno sulla casa dei vicini. Mentre la donna sistema una lampada su un tavolino, la macchina da presa le si avvicina lentamente, fino a raggiungere un largo primo piano. Il movimento di avvicinamento sposta il centro dell’inquadratura verso la finestra sulla sinistra, di fronte alla quale è la donna; è però possibile intravedere nella finestra sulla destra, ormai ai margini dell’inquadratura, due figure che si definiscono con precisione solo nel momento in cui Claire si dirige verso la finestra e guarda

all’esterno: si tratta dei due vicini che litigano. È questa la loro prima apparizione nel film. La macchina da presa include la donna nel quadro – i cui bordi sono definiti dall’intelaiatura della finestra – collocandosi leggermente dietro le sue spalle. Quella che vediamo è una semi-soggettiva che si lega «all’idea che il seguire le cose dall’interno dell’azione porta a esporsi troppo o a restarne soggiogati»14. C’è poi la staccionata che separa il giardino dalla casa dei vicini. Claire si ferisce ogni volta che cerca di superare lo steccato tra i due territori, così come il suo sguardo è sempre ostacolato e la visione parziale, annebbiata, limitata quando cerca di “guardare oltre” [ill. 8 e ill. 9]. Zemeckis calcola con estrema precisione la geometria compositiva dell’immagine, ricorrendo frequentemente a una “rottura dell’inquadratura” che consente la fluttuazione del visivo tra dentro e fuori, tra l’apparenza e il suo oltre. La verità viene a galla, affiora tra le nebbie della coscienza. Si tratta solo di saperla riconoscere. LA SCENA ALLO SPECCHIO

La violazione dei confini è, prima di tutto, attraversamento della soglia tra visibile e invisibile o, in una dimensione fantastica e perturbante, tra naturale e soprannaturale, reale e immaginario, vivente e inanimato. Il carattere sfuggente e molteplice di una realtà che sembra mostrarsi solo in forma elusiva o, al contrario, sembra tradire una “volontà” inafferrabile, consegna lo sguardo a un’esitazione perenne, come se prevalesse la natura ingannevole del vedere. In questa scena segnata dallo smarrimento del senso e da una continua fluttuazione della verità (e del visivo), rientra pienamente il tema

del doppio: figura connessa all’inganno e alla rivelazione, al nascondimento e alla frammentazione dell’identità. Il film mette in scena un gioco continuo di rifrazioni e rispecchiamenti che investe tanto i personaggi quanto lo spazio. Se la protagonista appare dislocata in un altrove inaccessibile, e solo la sua immagine “riflessa” consente il confuso delinearsi di una verità, la realtà appare spesso filtrata da specchi, velata da vapori e da nebbie, sfocata e dai contorni incerti, ambigua e imprendibile come un riflesso sull’acqua. Da qui la presenza ridondante di immagini scopiche, di protesi dell’occhio, di sguardi indagativi che cercano di superare l’opacità della visione. Identificazioni, proiezioni e rovesciamenti speculari sono le manifestazioni di un reale il cui senso sembra sempre dislocato altrove, relegato nell’ombra o nelle lacune dell’immagine. Il doppio è quindi, innanzitutto, opposizione tra manifesto e latente, tra illusione dell’immagine e verità del fantasma, tra ordine e desiderio. A un livello più elementare, il doppio investe la stessa struttura del film che si organizza su precise simmetrie e su frequenti duplicazioni narrative: Claire si reca due volte in visita dai vicini, due volte nel laboratorio di Norman in Università a chiedere aiuto, due volte dallo psicoanalista, due volte si immerge nel lago. Norman simula un incidente nella vasca da bagno che anticipa, nelle condizioni generali, il finto incidente in cui Claire dovrebbe perdere la vita; il tentativo finale di omicidio della moglie duplica, nelle modalità e nel luogo, l’assassinio di Madison, la giovane amante. Questa accumulazione ripetitiva – di cui qui si è dato solo qualche esempio – riproduce l’andamento per tentativi dell’indagine di Claire, il filo delle sue esitazioni, il suo tragitto di sperdimento segnato da continui ritorni; insieme, funziona strategicamente per disegnare il labirinto di false piste e di continui ribaltamenti

interpretativi, come in un gioco di specchi, ordito dal film. Il doppio si manifesta anche come sdoppiamento dei personaggi: slittamento proiettivo, riflesso di una mancanza. I Feur vengono presentati da subito come figure speculari: la loro opposizione agli Spencer è così marcata da suggerire un’unità latente. La prima apparizione dei giovani vicini corrisponde alla prima apparizione di Norman15; le due coppie si “fronteggiano”: l’una abbracciata, impegnata in un sommesso gioco erotico che la sola presenza della figlia rende “inadeguato”, l’altra nel pieno di un litigio; gli Spencer sono “al sicuro” nella loro casa, dietro una finestra da cui osservano dall’alto “i pazzi” della casa a fianco, gli altri in giardino, incuranti dello sguardo e del giudizio esterno. Le stesse abitazioni sono esemplarmente antitetiche: ordinata e con il giardino curatissimo quella degli Spencer, trascurata, cadente e con il giardino incolto quella dei Feur. Anche le successive apparizioni dei vicini costruiscono un immediato gioco di riflessi: l’intensità sonora dei loro orgasmi spinge gli Spencer a batterli in un’improvvisata competizione sessuale; il pianto di Claire in giardino trova un doppio speculare nel pianto di Mary, oltre la staccionata. Il continuo sovrapporsi di identità-alterità che, si noti, si lega alla coppia oppositiva ordine-disordine, passionalità/sperdimento di contro a razionalità/controllo16, ha termine nel momento in cui Mary spiega a Claire i motivi del suo turbamento. La «passione che mi consuma, così prossima al dolore fisico», di cui parla la donna come di un’esperienza comune a chiunque abbia amato, consegna Claire al vuoto della sua esistenza e, insieme, fa emergere la memoria del suo passato, quello di musicista capace di “far piangere” per l’intensità delle sue esecuzioni, ma anche quello del suo precedente legame con il padre di Catlin, scomparso tragicamente17. I vicini sono così lo

specchio di quel che si è perso e che riemerge confusamente alla coscienza, così come le loro liti rendono manifesto ciò che Claire si ostina a tenere segreto. La distanza si converte in identità, aprendo un varco nell’ordine inflessibile del controllo. Se i vicini funzionano come la proiezione di una parte di sé repressa, come immagine allo specchio in cui si riconosce la propria mancanza, lo spettro è invece l’immagine perturbante del Sé, corpo spaventoso dei fantasmi dell’inconscio. Il doppio è qui sdoppiamento allucinatorio, fino all’identificazione, come nella scena della “possessione”, in cui Claire è la “reincarnazione” della giovane Madison, l’amante del marito scomparsa misteriosamente. Non solo i gesti, il comportamento, il linguaggio appartengono all’altra donna, anche i tratti fisici si modificano, in una perfetta metamorfosi nell’altro. Claire è dominata da un impulso, da un richiamo invincibile che proviene dal fantasma e dal suo segreto. Un “oggetto mediatore” – la treccia sottratta dalla camera della ragazza – consente il sovrapporsi di identità18 e, in forma dislocata, il riemergere di quel sapere così a lungo confinato nell’inconscio. In questa scena di seduzione-rivelazione agisce un complesso gioco di rifrazioni e identificazioni speculari. Non solo Claire si è trasformata in Madison – come anche Norman non può fare a meno di “riconoscere”, allontanando con violenza il “fantasma” – ma quando rientra in sé, si vede, in una rimemorazione e allucinazione al contempo, riflessa nello specchio dell’ingresso che le restituisce il ricordo traumatico della scoperta del tradimento del marito [ill. 10]. La memoria riemerge come proiezione nel presente di una scena passata: Claire vede se stessa vedere nello specchio Norman sdraiato sulla scrivania con una giovane donna, nelle stesse circostanze appena vissute nei panni di Madison. In questa “scena

allo specchio” vengono ribaltati i rapporti di presenzaassenza, osservatore-osservato, identità-alterità. Questa perdita di ruoli e di identità dichiara la fine della relazione tra Norman e Claire, condannando la donna, in un gioco di perfetta specularità, alla stessa fine di Madison. Se per Claire le identificazioni speculari hanno una funzione di svelamento, in Norman il doppio si converte in doppiezza, in maschera e nascondimento: controllo dell’impulso e razionalizzazione della ferocia. Alcuni lapsus rivelano, come piccoli strappi della maschera, la vera natura dell’uomo, preda di una competizione narcisistica col padre. Il doppio è anche il Super-Io, la figura del padre come identità proiettiva, fantasma invadente di cui Norman ha occupato la casa e la cattedra, ma il cui nome lo incatena a un’identità riflessa. Riconoscersi come altro da sé, riflettersi in un’immagine ideale o in un immaginario del tutto illusorio: la verità di ciò che si è giace nel fondo del lago come un segreto inaccessibile. L’ORDINE DELLA TRASPARENZA

Il primo raddoppiamento messo in scena nel film è di natura strettamente cinematografica: Le verità nascoste è il risultato di un confronto con una tradizione di scrittura, quella del cinema classico. Tendenza profonda del film classico, specificatamente del film americano, a costituirsi in scene, in segmenti, la cui chiusura garantisce l’autonomia sistematica: fino alla perversione, fino a fare di un sistema parziale un incastro già quasi illimitato di relazioni19.

Questo sistema di «rime generalizzate», in cui il testo è sottoposto a una gerarchizzazione organica dei segni, è, per Bellour, la forma del grande classicismo americano e, nello specifico, la forma dell’estetica

hitchcockiana, capace di integrare la più piccola unità significante nel sistema del racconto per poi eccederlo, proiettandosi in un immaginario che costituisce il suo orizzonte simbolico. Hitchcock è il riferimento esplicito de Le verità nascoste. Il gioco di citazioni – alla cui scoperta si è esercitata buona parte della critica20 – ci sembra però secondario rispetto al tentativo evidente di ricostruire la forma classica, in primis nella centralità accordata al meccanismo di integrazioni narrative, ma anche nella ricostruzione di una certa qualità del visivo, nella ricerca luministica, nelle scelte cromatiche, nell’orchestrazione geometrica delle inquadrature. Perfino la scelta di certi volti corrisponde alla precisa ricostruzione di un mondo: se la Pfeiffer appare come la versione aggiornata della bionda hitchcockiana, fredda e dall’emotività controllata, Harrison Ford viene usato contro la sua abituale maschera di ruolo, rompendo la coincidenza tra apparenza fisica e carattere morale, anche qui secondo la lezione di Hitchcock. Del resto la frattura tra interprete e personaggio funziona come ennesima messa in scacco delle attese dello spettatore, moltiplicando il labirinto delle false interpretazioni orchestrato dal film. Classico è anche il modo di costruzione dei personaggi: non c’è scavo psicologico dei caratteri, siamo di fronte a puri tipi definiti dalla rete di azioni e opposizioni che li rivelano. La verosimiglianza logica dei loro comportamenti, la stessa possibilità di motivarne le azioni o i turbamenti (deve partire la figlia perché Claire si senta perduta e nel vuoto l’angoscia possa emergere) non ne modifica il carattere classicamente esemplare. Il film è segnato dallo sforzo di ricostruzione di “un mondo” oltre che di un modo di produzione. Questa “rimemorazione del mito” vuole essere una ricostruzione filologica, una sorta di doppio perfetto dell’originale, ma insieme vuole esserne un ripensamento, un’apertura a nuove

visioni: quelle garantite dalla tecnologia come strumento che consente di superare i confini del mostrabile. I movimenti fluidi della macchina da presa che si sposta nello spazio liquido della casa ormai priva di coordinate stabili, in cui i rapporti volumetrici e perfino i limiti fisici sembrano essersi persi, sono molto più di un puro virtuosismo visivo: sono la rappresentazione di quello sconfinamento, tra mondi e stati mentali, di cui fa esperienza Claire21. L’orizzonte immaginario che sta dietro il film di Zemeckis è, però, a differenza di Hitchcock e dei suoi tanti fantasmi, il cinema stesso: luogo di un ordine simbolico dai confini precisissimi, di una disciplina dello sguardo che non ammette fratture. Nulla sfugge all’artificio calcolato al millesimo, al piano rigorosissimo di orchestrazioni combinate di simmetrie visive, sonore e narrative. Nulla sbanda, nessun elemento si sottrae al calcolo combinatorio e ai meccanismi indiziari del testo, con l’effetto paradossale dell’impossibilità di perdersi in un film che mette in scena una perdita di equilibrio. Domina una concordanza delle parti, un’organizzazione di indizi e false piste che produce un disorientamento calibrato. Questa «totale consapevolezza della forma»22 è forse il debito più forte nei confronti di Hitchcock, anche se in Zemeckis l’orchestrazione è talmente perfetta da risultare a tratti meccanica. È come se il “calco” fallisse per eccesso di adesione, in una vertigine di rimandi, di risonanze, di specularità sintomatiche. Le verità nascoste è un film che si offre soprattutto come spettacolo della propria sistematicità, del segno come traccia simbolica che contamina tutta la rappresentazione. Questa euforia indiziaria sembra produrre più un godimento ermeneutico, riflesso del percorso di ricerca di Claire (un nome che la destina a un compito) e, prima ancora, del gioco combinatorio

pianificato dal regista e dalla sceneggiatura. In questo, probabilmente, è un film pienamente classico, perché, come ci ricorda Bellour, «per la sua mise en abîme, la rima generalizzata del film classico presume, ultimo affetto testuale, il desiderio incantato dell’analista»23.

1. Il titolo emerge dalla profondità delle acque

2. La prima rivelazione spettrale

3. Il riflesso speculare: il fantasma come doppio proiettivo

4. Tra interno ed esterno: nell’inquadratura, nella coscienza

5. Tra interno ed esterno: nell’inquadratura, nella coscienza

6. La casa si anima: la porta che non si chiude come primo varco simbolico dell’inconscio

7. Dentro/fuori: l’illusione della separazione vojeuristica

8. Guardare “oltre”

9. Guardare “oltre”

10. Guardarsi allo specchio: il fantasma del passato riemerge come immagine riflessa

Note al testo Gianni Canova Il cinema di Robert Zemeckis. Per un’immagine ibrida e meticcia 1Il

testo che la storiografia della critica cinematografica indica come luogo programmatico e fondativo della cosiddetta “politique des auteurs” è l’articolo di François Truffaut Ali Babà et la “politique des Auteurs”, in «Cahiers du cinéma», n. 44, febbraio 1955 (trad. it. Ali Babà e la “politica degli autori”, in AA.VV., Les Cahiers du cinéma. La politica degli autori. Seconda parte: i testi, Roma, minimum fax, 2004). 2Per

una messa a punto lucidamente problematica della nozione di autorialità filmica, con particolare attenzione anche alle forme che essa assume nello scenario complesso della contemporaneità, si veda G. Pescatore, L’ombra dell’autore. Teoria e storia dell’autore cinematografico, Roma, Carocci, 2006. 3Ibid.,

p. 157.

4In

lingua italiana, l’unica monografia che gli è stata dedicata resta a tutt’oggi il volume di Antonio Tedesco, Il fantacinema di Robert Zemeckis, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 1998. 5L.

Quaresima, Una voce plurale, in A. Boschi-G. Manzoli, a cura di, Oltre l’autore II, Fotogenia. Storie e teorie del cinema, n. 3, Bologna, Editrice Clueb, 1996, p. 10. 6Pescatore,

L’ombra dell’autore, cit., p. 161.

7Quel

che va in onda, nella citata sequenza di Used Cars, non è il messaggio promozionale che i pirati dell’etere avevano programmato, bensì un visibile che si impone nella sua imprevedibile oggettività evenemenziale, alterando il flusso percettivo dei telespettatori sintonizzati su quel dato canale e creando incontrollabili effetti-shock. 8Simili

inquadrature non sono infrequenti nel cinema contemporaneo. Si pensi anche solo a quella che apre Carlito’s Way (1993) di Brian De Palma, dove in un unico piano sequenza un’inquadratura che sembrava una soggettiva del personaggio di Al Pacino agonizzante si trasforma in un’oggettiva su di lui che sta guardando. 9Così

commenta la sequenza Flavio De Bernardinis: «Ciò che nella consuetudine filmica avrebbe richiesto “effettivamente” un’inquadratura A, Ellie che corre e allunga la mano, e un’inquadratura B, la mano di Ellie, ora di spalle, che apre l’armadio, è qui risolto, grazie a un effetto, attraverso un’unica fluida inquadratura in cui il campo/controcampo AB lascia spazio a un’interfaccia interna alla stessa immagine. Ellie è di fronte e, simultaneamente, di spalle rispetto alla cinepresa: la dimensione del fuoricampo è drasticamente esclusa. La visione, così, è il recto e il verso dell’inquadratura, il davanti e il dietro dell’immagine e anche, quindi, il prima e il dopo della sequenza. Il presunto campo/controcampo A-B, infatti, si fonde in un’unica “cosa sensoria” che non promuove alcuna

successione, nessun battito di ciglia che distingua due campi visivi distinti» (F. De Bernardinis, Hollywood faccia e controfaccia, in «Bianco & Nero», LVIII, n. 4, ottobre-dicembre 1997, p. 73). 10Cfr.

F. Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema esperienza modernità, Milano, Bompiani, 2005. 11Per

ulteriori approfondimenti sul rapporto fra Contact e i limiti del visibile, mi permetto di rinviare al mio L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Milano, Bompiani, 2000, pp. 49-53. Ma sempre su Contact sono da vedere almeno anche gli interventi apparsi sui «Cahiers du cinéma» (Kent Jones sul n. 516, p. 60, e Jérome Larcher sul n. 517, p. 81), oltre a P. Krames, Want to take a ride? Reflections on the blockbuster experience in “Contact”, in J. Stringer (Ed.), Movie Blockbusters, London 2003, pp. 128-140, e Federico Chiacchiari su «Cineforum», n. 368, ottobre 1997. 12In

Contact ciò che il personaggio di Jodie Foster sperimenta durante il suo viaggio spaziale non è nulla per la società “civile” e per la comunità scientifica che la accolgono sarcastiche e diffidenti al suo ritorno, così come nulla è il tempo trascorso su un’isola deserta dal protagonista di Cast Away per gli amici e i colleghi che festeggiano il suo ritorno come se i millecinquecento giorni di isolamento non fossero affatto passati, e come se tutto continuasse a essere come prima, regolato dai ritmi del lavoro e della produzione. 13F.

Carmagnola-T. Pievani, Pulp Times. Immagini del tempo nel cinema d’oggi, Roma, Meltemi, 2003, p. 93. 14Cfr.

P. Marocco, Giocare con il tempo. Le molteplicità temporali nel cinema di Robert Zemeckis, in «Segnocinema», n. 71, gennaio-febbraio 1996, pp. 8-11. 15Carmagnola

Pievani, Pulp Times, cit., p. 95.

16P.

Bertetto, Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Milano, Bompiani, 2007, p. 121. 17Ivi. 18I

due termini iconico e idolico sono usati qui nell’accezione proposta da Philippe Quéau secondo cui l’icona è un’immagine apparente, mentre l’idolo contiene in sé un’idea, e prospetta un vedere che implica un sapere già predeterminato. Cfr. P. Quéau, Eloge de la simulation, Paris, Champ Vallon, 1986. 19J.

Joyce, Verismo ed idealismo nella letteratura inglese (Daniel Defoe e William Blake), in G. Corsini - G. Melchiori, a cura di, Scritti italiani, Milano, Mondadori, 1979, p. 159. Il testo, scritto da Joyce direttamente in italiano, fa parte di un ciclo di conferenze tenute dallo scrittore nel marzo 1912 all’Università Popolare triestina.

Marco Toscano Chi ha incastrato Roger Rabbit

1Nella

Hollywood del 1947 i cartoni lavorano fianco a fianco con gli umani. Il detective Eddie Valiant sembra l’unico a non condividere la simpatia verso le allegre creature: in passato un cartone ha ucciso suo fratello, tirandogli in testa un pianoforte. Tuttavia quando il produttore R.K. Maroon, preoccupato dalle insoddisfacenti prestazioni sul set di Roger Rabbit, gli offre l’incarico di provare che la bella moglie Jessica lo tradisce con il padrone di Cartoonia, Marvin Acme, Valiant accetta. Le sue foto gettano Roger nello sconforto: quando il corpo di Acme viene trovato schiacciato da una cassaforte il coniglio è l’unico indiziato del giudice Morton, il quale ha elaborato un intruglio – la “salamoia” – in grado per la prima volta di eliminare un cartone. Per sfuggire alle faine del giudice Roger si rifugia proprio a casa di Valiant, convincendolo della sua innocenza: quest’ultimo lo aiuta a nascondersi, deciso a far luce sulla vicenda. Intuendo come il movente dell’omicidio di Acme (del quale non è stato rinvenuto testamento) sia legato a un progetto di speculazione edilizia che prevede la costruzione di una nuova superstrada e la cancellazione di Cartoonia, Valiant si reca nell’ufficio di R.K. Maroon. Il produttore viene però assassinato proprio mentre il detective lo sta interrogando. L’inseguimento del presunto responsabile conduce Valiant nella città dei cartoni, in cui ritrova Jessica Rabbit e si persuade della sua buona fede. Poco dopo i due vengono catturati dalle faine e condotti nel magazzino Acme, dove la gigantesca macchina della salamoia costruita da Morton sta per spazzare via l’intera Cartoonia. Di fronte all’imminente esecuzione di Roger e Jessica, Valiant si esibisce in un numero circense che, una dopo l’altra, fa (letteralmente) morire dal ridere le faine. Anche lo scontro con il giudice sembra risolversi in suo favore, ma quest’ultimo si rivela immune dalle pratiche di schiacciamento a cui ha condannato Acme e, anni prima, il fratello di Eddie. Il giudice è in realtà un cartone, e non uno qualsiasi. La lotta riprende ad armi impari finché Morton è investito da un potente getto di salamoia, sciogliendosi orribilmente. La ricomparsa in extremis del testamento di Acme restituisce Cartoonia ai cartoni. 2J.

Magny, You know what? I’m happy, in «Cahiers du cinéma», n. 412, ottobre 1988, p. 57. La traduzione di questa, come di tutte le citazioni, è mia. 3Ibid.,

p. 58.

4Ibid.,

p. 59.

5Le

paure espresse da Magny sono largamente condivise. Si legge ad esempio su «Cinema nuovo», n. 317, gennaio-febbraio 1989, p. 40, che «Roger Rabbit segnerebbe un’altra tappa in quel processo di “derealizzazione” di cui ci avvertono i più sensibili scrutatori del mondo contemporaneo da Adorno a Barthes, da Virilio a Baudrillard. […] L’immaginario standardizzato produce una realtà seconda, fittizia, che lentamente si sovrappone e si sostituisce alla prima, rendendo irriconoscibile la differenza». 6Cfr.

J. Rosenbaum, L’été américain, in «Cahiers du cinéma», n. 411, settembre 1988, p. 29. 7Cfr.

A. Conforti, Chi ha reso miliardario Roger Rabbit?, in «Cineforum», n. 285, maggio 1989, p. 60.

8Magny,

You know what?, cit., p. 57. Sulla stessa linea P. Rouyer, De chair et de papier, in «Positif», n. 332, ottobre 1988, p. 47. Di parere opposto invece David Chute, che esalta una sceneggiatura solida e un intreccio che, nella sua estrema complicazione, richiama la migliore tradizione noir – dimostrando un particolare legame con il Robert Towne di Chinatown (cfr. D. Chute, Toon Noir, in «Film Comment», vol. 24, n. 4, luglio-agosto 1988, pp. 12-14). 9«Lo

choc più sorprendente non è d’altro canto il guardarli [i cartoni] coesistere in uno stesso spazio filmico con degli attori umani, quanto, per la prima volta, vedere i personaggi della Paramount, della MGM, dei Terry Toons Fox o dei Lonely Tunes e dei Merry Melodies Warner che incontrano le creature labializzate Disney». Magny, You know what?, cit., p. 58. In effetti Zemeckis sceglie di rappresentare non il mondo animato di un solo autore, di uno studio o di un personaggio, ma il mondo dei cartoni in generale. Cfr. Rosenbaum, L’été américain, cit. 10Come

sottolinea Rouyer, «in questi casi si tratta soltanto di sequenze specifiche, generalmente di balletti, prive di un’incidenza significativa sullo sviluppo narrativo» (Rouyer, De chair et de papier, cit., p. 46). Who Framed Roger Rabbit rappresenta invece il primo film di combined techniques «in cui la commistione fra attori veri e attori disegnati è completa e plausibile». Cfr. G. Bendazzi, L’animazione, in G.P. Brunetta, a cura di, Il cinema americano, Torino, Einaudi, 2006, vol. I, pp. 888-889. 11Magny,

You know what?, cit., p. 58. Il complesso sistema di riferimenti messo in atto dal film va comunque ben oltre: ad esempio, interrogato nel bar dal giudice che sta cercando «un coniglio», un avventore lo irride chiamando in causa Harvey, coniglio immaginario e amico invisibile del protagonista della celebre pièce di Mary Chase, trasposta sullo schermo da Henry Koster (Harvey, 1950). 12Rouyer, 13L’opera

De chair et de papier, cit., p. 47.

di Zemeckis nella sua totalità, in effetti, si configura come un esercizio di “sintesi”. Se infatti Who Framed Roger Rabbit «si pone come sistematico tentativo volto a sintetizzare aspetti molto significativi della cultura audiovisiva del Novecento, a livello di tecniche della rappresentazione, soluzioni figurative, strutture dell’intreccio, figure della fabula, miti dell’immaginario collettivo, tecnologie produttive, tipologie di investimento e sfruttamento del prodotto», il cinema del regista dimostra di essere, al pari di quello di Spielberg, tendenzialmente “totale” (secondo la definizione coniata da La Polla in riferimento a quest’ultimo), in quanto «le sue citazioni e i suoi riferimenti ai più svariati universi della comunicazione di massa (fumetto, cartoon, narrativa di consumo, cinema di genere, televisione, spettacolarizzazione supertecnologica) non devono essere limitativamente intesi come echi metasemiotici assemblati da un colto e raffinato cinefilo», bensì ricollegati all’intuizione di un cinema come luogo di convergenza di una moltitudine di forme espressive del nostro tempo. Cfr. Conforti, Chi ha reso miliardario, cit., pp. 57-58. In virtù di ciò si assiste anche a quel fenomeno di “ibridismo” tipico del postmoderno – superamento della tradizionale e rigida dicotomia tra industria e arte, prodotto di intrattenimento e cultura alta, la quale risulta filtrata dai mass media – nell’accezione utilizzata da Fredric Jameson in

Postmodernism, or the Cultural Logic of the Late Capitalism, in «New Left Review», n. 146, 1984 (trad. it. Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, Milano, Garzanti, 1989). 14A

proposito dei caratteri pregnanti della postmodernità si veda anche G. Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Milano, Bompiani, 2000. 15Magny,

You know what?, cit., p. 59.

16È curioso peraltro notare, come fa Rosenbaum, come il film stesso sembri introiettare l’idea di un’impalpabilità autoriale: tra tanti interpreti, che sembrano creare da sé le proprie gag, l’unico vero regista che appare nel film (Raoul Raoul) si vede molto brevemente (e le sue indicazioni non sono messe in pratica da Roger), mentre l’inventore Marvin Acme viene addirittura ucciso. L’autosufficienza dei cartoni è infine rafforzata dall’epilogo della vicenda, che li vede diventare a tutti gli effetti padroni del proprio mondo. 17U.

Eco, Lector in fabula, Milano, Bompiani, 1979.

18F.

De Bernardinis, Lo spettatore incastrato, in «Segnocinema», n. 37, marzo 1989, pp. 62-63. 19Per

una mappa dei caratteri tipici del noir – nonché per sondare l’opportunità di una sua effettiva definizione in quanto “genere” e non piuttosto in virtù di una riconoscibilità di “tono” o di “umore” (come sostiene nel 1970 Raymond Durgnat in un articolo intitolato Paint It Black: The Family Tree of the Film Noir apparso su «Cinema», ripreso due anni dopo da Paul Schrader in Notes on Film Noir, su «Film Comment») –, si vedano tra gli altri: F. Hirsch, The Dark Side of the Screen: Film Noir, New York, Paperback, 2001; A. Silver-J. Ursini, The Noir Style, Woodstock, Overlook Press, 1999; A. Silver-J. Ursini, Film Noir Reader, New York, Limelight Editions, 1996; R. Borde-E. Chaumeton-P. Hammond-J. Naremore, A Panorama of American Film Noir, 19411953, New York, Paperback, 2002; E.A. Kaplan, Women in Film Noir, London, Hardcover, 1999; A. Silver-E. Ward, a cura di, Film Noir. An Encyclopedic Reference to the American Style, Woodstock, Overlook Press, 1979; R. Barton Palmer, Hollywood’s Dark Cinema: The American Film Noir, New York, Paperback, 1994; F. Krutnik, In a Lonely Street. “Film Noir” Genre, Masculinity, London-New York, Routlege, 1991; M. Fabbri, E. Resegotti, a cura di, I colori del nero, Milano, Ubulibri, 1989; L. Gandini, Il film noir americano, Torino, Lindau, 2001. 20Cfr.

Rosenbaum, L’été américain, cit., p. 30. Il carattere di estraneità del sesso all’universo dei cartoni è ancora più marcato in Cool World di Ralph Bakshi, che mette in scena una dimensione parallela animata nella quale l’unica regola coincide col divieto per un cartone di avere rapporti sessuali con un umano, avvenimento che produrrebbe il collasso del mondo stesso. 21De 22Al

Bernardinis, Lo spettatore incastrato, cit., p. 63.

contrario di ciò che afferma Magny nel suo articolo, il giudice non sembra ordire la speculazione che prevede la cancellazione di Cartoonia per il solo piacere della velocità, ma pare pensare concretamente ai

profitti che ne deriveranno. Nonostante il suo piano sia sovente etichettato come “folle” o “stupido”, esso risponde a una razionalità calcolatrice e finalizzata tipicamente umana. 23In

effetti, in una scena poi esclusa dal montaggio definitivo, le faine “impiantano” sul capo di Valiant una testa di maiale animata, trasformandolo temporaneamente (il detective se ne libera poi con una doccia) in un organismo propriamente “ibrido”, metà disegno e metà uomo (quale nel film sarà solo il giudice, nella sequenza conclusiva). Quella di Valiant è una vera metamorfosi, anche se non nell’accezione letterale e nell’adattamento grafico del Nichetti di Volere volare (1991) – o del detective e del disegnatore di Cool World (Fuga dal mondo dei sogni, 1992) –, ma nelle forme forse più radicali (giacché garantiscono un’effettiva compresenza delle due nature) descritte in precedenza, più rilevanti anche di quelle che investono i personaggi del successivo Death Becomes Her (La morte ti fa bella, 1992) la cui “cartoonizzazione” è nuovamente affidata agli effetti speciali (corpi in cui si aprono fori perfettamente circolari, manichini frantumabili e riassemblabili). 24Da

notare che nella prima fase del combattimento, quando il giudice ha delle fattezze “umane”, Valiant ha la meglio grazie a un barattolo di colla “reale”, mentre nella seconda, dopo la “resurrezione” in forma di cartone, innaffia il giudice di salamoia grazie a un martello animato. 25Cfr.

De Bernardinis, Lo spettatore incastrato, cit., p. 62.

26Ivi. 27Magny,

You know what?, cit., p. 59.

28A

proposito della crisi dell’antropocentrismo nel cinema postmoderno e di un corpo attoriale “inadeguato”, scrive Canova: «Chi ha incastrato Roger Rabbit […] segna un punto di non ritorno non tanto per l’avvenuta e possibile antropomorfizzazione dei cartoon, quanto piuttosto – molto più radicalmente – per la tendenziale cartoonizzazione degli attori in carne e ossa». Canova, L’alieno e il pipistrello, cit., p. 142. 29Cfr.

A. Tedesco, Il fantacinema di Robert Zemeckis, Alessandria, Falsopiano, 1998, p. 74. 30Da

notare come il giudice, nella sua forma umana, porti sempre degli occhialetti scuri, quasi a dover nascondere due pupille effettivamente “artificiali”, inverosimili, comunque rivelatrici di un’anomalia (non a caso, una volta tornato cartone, i suoi occhi-coltelli guizzano senza più alcuna protezione). 31Angelina

incarna infatti ciò che la sua autrice Joel vorrebbe essere, sicura di sé e sensualissima (la mossa del lancio del coltello con cui l’eroina letteraria si libera del nemico è la stessa che la protagonista azzarda nel finale, ma senza successo), così come Jesse rappresenta quello che per lei costituisce l’uomo ideale (come farà successivamente Jake, Jesse corre in soccorso della donna in pericolo, ma mentre quest’ultimo non sbaglia un colpo, il primo spara spesso, ma senza centrare mai nessuno). Inoltre è esemplare come il cattivo che minaccia Joel pronunci la medesima frase rivolta dal cowboy ad Angelina.

32Cfr.

Magny, You know what?, cit., p. 58. La velocità, continua il critico francese, è modalità privilegiata anche nella prospettiva degli effetti speciali, ciò che consente loro di risultare verosimili (mentre le – peraltro trascurabili – imperfezioni tecniche sono evidenziabili unicamente nelle inquadrature più statiche). 33Cfr.

Rosenbaum, L’été américain, cit., p. 31.

34Cfr.

Magny, You know what?, cit., p. 59.

35La natura autosufficiente di tale sezione sembra confermata peraltro dalla nascita di tre cortometraggi prodotti per sfruttare la grande popolarità del personaggio Roger Rabbit, distribuiti nelle sale e modellati sulla “striscia” iniziale, Somethin’s Cookin’, della quale riproducono le dinamiche tipiche (Roger baby-sitter tartassato nel tentativo di “salvare” Baby Herman, perennemente all’inseguimento di qualcosa – non più biscotti ma biberon, palloncini e animali) e riprendono molti elementi (le siringhe di Tummy Trouble come i coltelli da cucina, il percorso irto di pericoli di Baby tra i padiglioni del tiro a segno di Rollercoaster Rabbit, lo “sgonfiarsi” svolazzante del globo terrestre di Trail Mix-Up che ricorda quello di Roger, e così via). 36Cfr.

G. Turner, Roger Rabbit, né d’ombres et de lumière, in «American Cinematographer», n. 7, vol. 69, luglio 1988, cit. in «Cahiers du cinéma», n. 412, ottobre 1988, p. 60. 37Tuttavia

può essere interessante notare, prendendo in considerazione i prodotti collaterali al film di Zemeckis, come non tutte le dinamiche di questo tipo appaiano sotto controllo. Se in Who Framed Roger Rabbit è il regista a interferire arbitrariamente con la dimensione animata e a interromperne lo svolgersi (similmente a quanto accade nel corto Tummy Trouble), negli altri due spin-off il rovesciarsi di una dimensione nell’altra muta di segno. In Trail Mix-Up, ad esempio, il getto di un geyser è talmente potente da scaraventare Roger, Baby e altri due personaggi animati nel mondo reale, portandoli a scontrarsi con il Monte Rushmore – ed è al contrario significativo ritrovare nell’animarsi allarmato delle facce dei presidenti quel procedimento di “cartoonizzazione” della realtà che è proprio del lungometraggio. E ancora, in Rollercoaster Rabbit la folle corsa sull’ottovolante di Roger e Baby prevede la loro “fuoriuscita” (letterale) dal bordo della pellicola, per concludersi infine con l’irruzione nel profilmico e la coerente distruzione della stessa, già in precedenza reinventata come binario improvvisato. Pellicola attraversata, stravolta (Roger continua a non attenersi al copione, come nel film), riadattata ad altri usi e fisicamente incendiata: i cartoni affermano la propria esistenza al di fuori (al di qua) della dimensione finzionale, facendosi carico di uno sconfinamento nella realtà che sembra dunque giustificare in pieno il doppio senso del titolo originale (con Roger Rabbit davvero non più framed, “inquadrabile”, nel momento in cui tecnicamente oltrepassa i limiti del dispositivo, ma anche nel rifiuto di rigirare la scena e nello sfidare il regista a prenderlo). 38Dal

punto di vista tecnico la commistione non è solo quella tra animazione e realtà: anche all’interno della “visualizzazione” dell’inesistente, si è fatto ricorso a procedure “miste” che sposano

tecnologia e alto artigianato, effetti speciali all’avanguardia con le tecniche più tradizionali del disegno animato. 39Lo

schermo della sala cinematografica funziona come porta sulla memoria durante il cartone di Pippo – Valiant racconta a Roger di suo fratello – e squarcio sulla verità con il cinegiornale – grazie al quale il detective comprende il piano del giudice. 40Un

altro sperimentatore instancabile: basti pensare all’adozione della tecnica del rotoscoping (ricalcare con il disegno figure riprese dal vivo) per un film come The Lord of the Rings (Il Signore degli Anelli, 1978), altra direzione di esplorazione per l’approntamento di un’immagine “ibrida”. 41Si

è detto infatti come, nonostante le apparenze, tra i personaggi di Who Framed Roger Rabbit che denotano una natura mista il giudice sia quello ontologicamente meno esposto: il suo è appunto una sorta di “camuffamento” che non interferisce con l’essere un cartone (qualifica semmai intaccata da un punto di vista morale). 42In

effetti tutto il film di Bakshi potrebbe essere letto come una fantasia del reduce Frank Harris, che ha perso la madre in un incidente in moto, o del fumettista Jack Deebs, in prigione dopo aver ucciso la moglie. Se essi scelgono di rinchiudersi in un mondo artificiale per alleviare il proprio dolore, la delusione per la vita spinge al contrario Valiant a fuggire da Cartoonia (ed è tanto più paradossale notare come, nell’ottica dei protagonisti, Cool World – città oscura e poco rassicurante – sia meta desiderabile, mentre Cartoonia – variopinta e allegra – sia al contrario un luogo di incubo). 43Un

atto peraltro, quello compiuto dal cartone Holly, di sottile incestuosità e addirittura (in una lettura in chiave biblica) blasfemia: facendo l’amore con Deebs, che è di fatto l’autore di quel mondo, Holly giace con il proprio padre/Creatore.

Vincenzo Buccheri Ritorno al futuro 1Ritorno

al futuro

Marty McFly, diciassette anni, abita a Hill Valley, ridente cittadina americana, è fidanzato con la bella Jennifer e sogna di diventare musicista rock, ma a scuola è svogliato e ha paura del fallimento. Falliti infatti sono i suoi familiari, come gli rimprovera il preside della sua scuola, Strickland: nerds i fratelli, inetto il padre, frustrata e semi-alcolizzata la madre… L’unico vero amico di Marty è lo scienziato pazzo Emmett “Doc” Brown, che una notte lo invita a raggiungerlo nel parcheggio del Centro commerciale Due Pini per sperimentare la sua nuova invenzione: una macchina del tempo ricavata da una splendida DeLorean (EVENTO CATALIZZATORE). Ma Doc non fa in tempo a salire sull’auto che viene ucciso da una banda di terroristi libici cui aveva rubato il plutonio necessario ad alimentare la vettura. Marty fugge a bordo della DeLorean e, attivando per sbaglio la macchina del tempo, finisce nella Hill Valley del 1955 (PRIMO PUNTO DI SVOLTA). Qui conosce i suoi genitori (George e Lorraine), Doc e il

“nemico” Biff, tutti in versione giovane. Il problema è che la diciassettenne Lorraine, invece di innamorarsi di George, un imbranato voyeur succube del prepotente Biff, si innamora proprio di Marty, rischiando di causare un paradosso spazio-temporale (la sparizione di Marty e dei suoi fratelli dalla faccia della terra) (PUNTO DI NON RITORNO). Così, mentre Doc studia un piano per riportare Marty nel futuro (per avviare la DeLorean in assenza di plutonio serve l’energia del fulmine che colpirà la torre dell’orologio la notte del 12 novembre), Marty cerca di provocare l’incontro fatale tra George e Lorraine in occasione del ballo scolastico “Incantesimo Sotto il Mare”. Non tutto andrà come previsto, ma alla fine George troverà il coraggio di picchiare Biff che insidiava Lorraine e di dichiararsi alla ragazza, ristabilendo il corso naturale degli eventi. A missione compiuta, con una corsa a perdifiato, Marty riesce a salire sulla DeLorean giusto in tempo per sfruttare il fulmine che colpisce la torre dell’orologio (SECONDO PUNTO DI SVOLTA). Tornato nel 1985, Marty trova le cose leggermente cambiate, come se la ribellione di George contro Biff avesse dato i suoi frutti: il padre è diventato un famoso scrittore di fantascienza, la madre è felice e in forma, i fratelli sono due yuppie, mentre Biff è un poveraccio ridotto a lavare le auto di famiglia. Marty sta per baciare Jennifer quando Doc ricompare a bordo della DeLorean per adempiere una missione urgente: portare i due ragazzi nel futuro… Ritorno al futuro parte II Accompagnato da Doc e da Jennifer, Marty va nel futuro per impedire a suo figlio di essere coinvolto in una rapina (lui non lo vede, ma il suo futuro non è roseo: ha abbandonato la musica perché si è rotto una mano in una sfida automobilistica). La missione va a buon fine ma Biff da vecchio, venuto a conoscenza della macchina del tempo (EVENTO CATALIZZATORE), la usa per tornare nel 1955 e consegnare a se stesso giovane un almanacco che riporta i risultati sportivi degli ultimi cinquant’anni (PRIMO PUNTO DI SVOLTA). Quando torna nel 1985, Marty si trova davanti a un presente alternativo, in cui Biff è un multimiliardario che, grazie all’almanacco, si è arricchito con le scommesse sportive, ha ucciso il padre di Marty e sposato Lorraine (PUNTO DI NON RITORNO). Marty torna nel 1955 e impedisce al giovane Biff di venire in possesso dell’almanacco, ma quando si tratta di ripartire con Doc per il 1985, un fulmine colpisce la DeLorean e la proietta in un altro tempo (SECONDO PUNTO DI SVOLTA). Marty, rimasto solo, riceve da un fattorino della Western Union una lettera spedita da Doc nel 1885: si trova nel Far West! Marty va a cercare il Doc del 1955 per chiedergli una mano, ma questi, appena lo vede, sviene per l’emozione. Ritorno al futuro parte III La DeLorean (che il Doc del 1885 aveva nascosto in una miniera) viene riparata dal Doc del 1955. Marty torna nel 1885 a riprendere Doc perché ha saputo che il pistolero Buford “Cane pazzo” Tannen (un antenato di Biff) lo avrebbe ucciso a tradimento (EVENTO CATALIZZATORE). Una volta nel West, però, un guasto al serbatoio causato da un attacco indiano rende la DeLorean inutilizzabile (PRIMO PUNTO DI SVOLTA). L’unica possibilità è farla spingere da una locomotiva lungo un tratto di ferrovia in costruzione. Ma

Doc si innamora di Clara, la nuova maestra del paese, mentre Marty accetta la sfida a duello di Tannen perché non vuole sentirsi dare del fifone (PUNTO DI NON RITORNO). Alla fine Bufford viene sconfitto – grazie a un piccolo trucco –, ma, al momento di partire per il futuro con la DeLorean, Doc decide di rimanere nel West vicino a Clara (SECONDO PUNTO DI SVOLTA). Appena tornato nel 1985 la DeLorean finisce distrutta da un treno. Marty si precipita da Jennifer e finalmente riesce a baciarla. Inoltre il ragazzo rifiuta la sfida automobilistica lanciatagli da un compagno di scuola, evita l’incidente che gli avrebbe compromesso la carriera e si assicura un futuro felice con Jennifer. Nell’ultima scena, Doc torna dal West con una macchina del tempo ricavata da una locomotiva per presentare a Marty e Jennifer la sua nuova famiglia (la moglie Clara e i due figlioletti, Giulio e Verne) e per ricordare loro la morale dell’avventura: «Il futuro non è già scritto. Da nessuna parte. Il futuro lo facciamo noi. Perciò, fate bene il vostro». Detto questo, riparte per il passato da cui è venuto. 2La

bibliografia sul postmodern è sterminata. Qui limitiamoci a segnalare alcuni contributi fondativi: F. Jameson, Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism, in «New Left Review», 1984 (146) (trad. it. Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, Milano, Garzanti, 1989), poi uscito in versione più estesa con lo stesso titolo nel 1991 (Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism, Durham, Duke University Press, 1991), J.F. Lyotard, La condition postmoderne, Paris, Minuit, 1979 (trad. it. La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1981); G. Vattimo, La società trasparente, Milano, Garzanti, 1989; M. Perniola, La società dei simulacri, Bologna, Cappelli, 1980; O. Calabrese, L’età neobarocca, Roma-Bari, Laterza, 1987. Un utile compendio è comunque R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, Torino, Bollati Boringhieri, 1997. Sul cinema della postmodernità, per un quadro riassuntivo, si vedano A. Negri, Lucidi disincanti, Roma, Bulzoni, 1997, che tenta un’analisi sistematica dei procedimenti linguistici, L. Jullier, L’écran post-moderne, Paris, L’Harmattan, 1997 (trad. it. Il cinema postmoderno, Torino, Kaplan, 2006) e G. Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Milano, Bompiani, 2000. Utili indicazioni sulla transizione anche in F. La Polla, Il nuovo cinema americano, Venezia, Marsilio, 1985 e M. Fadda, Hollywood fin de siècle: sogno e realtà americana nell’era della globalizzazione, in F. La Polla, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Milano, Il Castoro, 2004. Due interessanti letture del cinema della postmodernità in A. Friedberg, Window Shopping, Berkeley/Los Angeles/London, University of California Press, 1993, e in F. Jameson, Signatures of the Visible, New YorkLondon, Routledge, 1992 (trad. it. parziale Firme del visibile, Roma, Donzelli, 2003). 3Jameson,

Postmodernism, cit.

4Sul

meccanismo narrativo della saga, cfr. U. Eco, Tipologia della ripetizione, in F. Casetti, a cura di, L’immagine al plurale, Venezia, Marsilio, 1984. 5B. McHale, Postmodernist Fiction, London-New York, Routledge, 1987, p. 10. La traduzione di questa, come di tutte le citazioni, è mia.

6T.

Elsaesser-W. Buckland, Studying Contemporary American Film. A Guide to Movie Analysis, London-New York, Arnold-Oxford University Press, 2002, p. 226. 7Si

pensa soprattutto a R. Bellour, L’analyse du film, Paris, Albatros, 1979 (trad. it. L’analisi del film, Torino, Kaplan, 2005) e T. Kuntzel, Le travail du film, in «Communications», n. 19, 1972. Sulla teoria psicoanalitica del cinema la letteratura è vastissima. Mi limito a segnalare due utili introduzioni: F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, Milano, Bompiani, 1993, e R. Stam, Film Theory. An Introduction, Oxford, Blackwell, 2000 (trad. it. Teorie del film, Roma, Dino Audino, 2005). Sui metodi di lettura psicoanalitica del film, indicazioni in L. Albano, Lo schermo dei sogni. Chiavi psicoanalitiche del cinema, Venezia, Marsilio, 2004, in P. Bertetto, a cura di, Metodologie di analisi del film, Roma-Bari, Laterza, 2006 (si vedano in particolare i saggi di V. Pravadelli, Feminist Film Theory e Gender Studies, pp. 59102, e di P. Bertetto, L’analisi come interpretazione. Ermeneutica e decostruzione, pp. 179-222) e in R. Salvatore, a cura di, Schermi psicoanalitici, numero monografico de «La Valle dell’Eden», n. 15, luglio-dicembre 2005. 8Elsaesser-Buckland, 9Ibid.,

Studying, cit., p. 223.

p. 227.

10Ibid.,

p. 228.

11Ibid.,

p. 229.

12Sul

set up - pay off, cfr. S. Field, The Screenwriter’s Workbook. A Workshop Approach, New York, Dell, 1984 (trad. it. La sceneggiatura. Il film sulla carta, Milano, Lupetti, 1991); sulla “classicità” della struttura in atti nel cinema contemporaneo, cfr. K. Thompson, Storytelling in the New Hollywood: Understanding Classical Narrative Technique, Cambridge Mass., Harvard University Press, 1999. 13R.

Menarini, Robert Zemeckis, in R. Menarini-L. Gandini, a cura di, Hollywood 2000. Panorama del cinema americano contemporaneo. Autori, Genova, Le Mani, 2001, p. 324. 14F. Pfeil, Another Tale to Tell: Politics and Narrative in Postmodern Culture, London, Verso, 1990. 15Elsaesser-Buckland,

Studying, cit., p. 233.

16Per

colmo d’ironia, Huey Lewis interpreta la parte dell’insegnante che boccia Marty all’audizione. 17Elsaesser-Buckland,

Studying, cit., p. 236.

18Ivi. 19Senza

voler fornire delle sintesi impossibili, ricordiamo che la psicoanalisi lacaniana è centrata sulla relazione tra Simbolico, Immaginario e Reale nella formazione della soggettività. L’inconscio non va inteso nel senso freudiano di area della mente che ospita istinti primitivi o ricordi repressi, ma come l’insieme delle leggi che controllano il soggetto. Questo inconscio è «strutturato come un linguaggio», cioè è un sistema basato su una mancanza e su un sistema di relazioni. Nell’Immaginario, che è una dimensione contraddistinta dalla relazione

con l’immagine del proprio simile, il soggetto sperimenta il senso di una pienezza illusoria (come il bambino che, nella cosiddetta “fase dello specchio”, si percepisce come un’unità). Nel simbolico, invece, che è la dimensione contraddistinta dalla formazione dell’identità sessuale attraverso il conflitto edipico e l’accettazione di altri codici come il linguaggio, il soggetto si configura come semplice significante nella catena dei significanti, cioè all’interno della struttura che, come si è detto, lo “prende” e lo controlla (la Legge del linguaggio e della società). Il Reale, che già in senso freudiano rappresentava qualcosa di diverso dalla realtà materiale, indica invece la realtà psichica costituita dai desideri e dai fantasmi inconsci: in Žižek fa riferimento all’emergere di alcuni frammenti (petit objet a) che non sono parte dell’ordine del simbolico, e che possiedono una valenza pregnante. 20A.

Piotti, Voci, in S. Žižek, Il Grande Altro. Nazionalismo, godimento, cultura di massa, a cura di M. Senaldi, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 203. 21Ibid.,

p. 204.

22Elsaesser-Buckland, 23Ibid.,

Studying, cit., p. 247.

p. 206.

24Come

scrive Žižek a proposito di un episodio occorsogli durante il servizio militare (il dottore che costringe un soldato a masturbarsi davanti ai commilitoni per capire se è vero che sente dolore al pene durante l’erezione): «in questa scena c’era in nuce l’intero dispositivo del potere: uno strano miscuglio di godimento imposto e di umiliante esercizio del potere, il rappresentante del potere che urla ordini severi, ma simultaneamente condivide con noi, i suoi subordinati, risate oscene a testimonianza di una profonda solidarietà», Žižek, Il Grande Altro, cit., p. 11. 25Elsaesser-Buckland, 26Ibid.,

p. 247.

27Ibid.,

p. 248.

Studying, cit., pp. 246247.

28Ivi. 29Ivi. 30Su

questo “nuovo volto” del capitalismo, cfr. L. Boltanski-E. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Paris, Gallimard, 1999.

Riccardo Caccia Forrest Gump 1Seduto

su una panchina alla fermata d’autobus della città di Savannah, Forrest Gump racconta alle varie persone che si avvicendano accanto a lui la propria storia. Da piccolo fu costretto a portare delle ingombranti protesi alle gambe che lo aiutavano a camminare. Viveva solo con sua madre in una grande casa le cui stanze venivano affittate ad alcuni pensionanti. Mentalmente ritardato, poté studiare in una scuola

“normale” grazie al sacrificio della madre, che trascorse una notte con il preside in cambio della sua ammissione. La conoscenza con la piccola e graziosa Jenny diventerà una costante della sua vita: assieme frequenteranno il liceo e l’università dell’Alabama, dove assisteranno alle proteste quando due studenti neri verranno per la prima volta ammessi in quell’istituto. Dopo aver giocato a football nella squadra che raggruppa i migliori giocatori delle università e avere incontrato il presidente Kennedy, Forrest si arruola. Nel frattempo Jenny, cacciata dall’università per aver posato nuda per «Playboy», si unisce a un gruppo di hippy, mentre Forrest parte per il Vietnam. Qui conosce Bubba, un uomo di colore che lo convince, una volta tornati a casa, ad acquistare una barca per la pesca dei gamberi. I due sono sotto il comando del tenente Dan Taylor. Durante un agguato, Forrest riesce a salvare Taylor e molti altri compagni, ma non Bubba, che muore. Ricoverato in un ospedale militare, Forrest diventa un provetto giocatore di ping-pong. Tornato in patria riceve dal presidente Johnson la medaglia d’onore. Durante la grande manifestazione contro la guerra tenuta a Washington, Forrest rincontra Jenny, alla quale regala la medaglia. Divenuto nazionale di ping-pong, Forrest si reca in tournée in Cina. Al ritorno viene invitato a uno show televisivo assieme a John Lennon e incontra il presidente Nixon. Alloggiato all’hotel Watergate, segnala che qualcuno si aggira nottetempo con delle torce dentro ad alcuni uffici. Intanto Jenny conosce la droga e medita il suicidio. Quando rincontra il tenente Taylor, ridotto su una sedia a rotelle in seguito all’amputazione delle gambe, Forrest lo convince a unirsi a lui per realizzare il sogno di Bubba: acquistare una barca per la pesca dei gamberi. Gli affari non vanno molto bene, ma quando un uragano distrugge tutte le imbarcazioni di Bayou La Batre tranne quella di Gump e Taylor, i due cominciano a pescare enormi quantità di gamberi. La BubbaGump, così si chiama la società, diventa una grande impresa. Dopo la morte della madre, Forrest fa ritorno nella casa d’infanzia a Greenbow, Alabama, mentre Taylor continua a curarsi degli affari, che vanno a gonfie vele. Dopo una breve parentesi felice con la rediviva Jenny, con la quale trascorre una notte d’amore, prima che lei scompaia di nuovo nel nulla, Forrest comincia a correre. Correrà per cinque anni in lungo e in largo, fino a che deciderà di smettere perché troppo stanco. Una lettera di Jenny lo prega di recarsi da lei a Savannah: qui Forrest scoprirà che, dalla notte con Jenny, è nato un bimbo, al quale la donna ha dato il suo stesso nome. I tre vanno ad abitare assieme a Greenbow, ma la felicità è di breve durata: Jenny muore di AIDS. Dopo una visita alla tomba di Jenny, il padre accompagna il figlio a prendere per la prima volta lo scuolabus. Nell’attesa gli legge il libro che era solita leggergli sua madre. 2H. White, The Content of the Form. Narrative Discourse and Historical Representation, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1987, p. 1. La traduzione di questa, come di tutte le citazioni da opere in lingua inglese, è mia. 3L’affermazione

del regista è tratta dall’episodio intitolato Seul le cinéma, delle Histoire(s) du cinéma, capitale opera del 1988 che, con capacità visionaria e anticipatrice, da far impallidire tanta sedicente “videoarte” contemporanea, utilizza il video e l’elettronica per comporre una personale, provocatoria e “provocante”, “storia/e” del cinema.

Dell’opera, recentemente pubblicata in Francia in un cofanetto di quattro dvd dalla Gaumont, esiste anche una versione cartacea con la riproduzione di fotogrammi degli episodi e le trascrizioni delle parole del regista. Da qui è tratta la citazione: J.-L. Godard, Histoire(s) du cinéma, Paris, Gallimard-Gaumont, 1998, vol. 2, Seul le cinéma/Fatal beauté, p. 44, traduzione mia. 4Questo

episodio ci offre l’occasione per sottolineare come, in linea con il pensiero politically correct, alcuni studiosi statunitensi abbiano messo in evidenza come Forrest Gump trascuri o riduca ai minimi termini il ruolo degli afro-americani nella società e nella cultura USA. Secondo Alan Nadel, ad esempio, la danza che Forrest insegna a Elvis è una danza tipicamente nera; inoltre tra i numerosi attentati e omicidi politici “rimessi” in scena dal film, sono assenti quelli di Martin Luther King e Malcolm X, così come viene ascritto a Forrest il merito di aver scoperto l’intrusione che portò al cosiddetto scandalo Watergate, quando colui che denunciò realmente il fatto era una guardia giurata afro-americana (cfr. A. Nadel, Flatlining on the Field of Dreams. Cultural Narratives in the Films of President Reagan’s America, Brunswick, NJ, Rutgers University Press, 1997, in particolare le pp. 205-210). Altri interventi che pongono in risalto questa spoliazione o espropriazione sono: R. Wiegman, Whiteness Studies and the Paradox of Particularity, in «Boundary», 2, 1999; J. Hyland Wang, A Struggle of Contending Stories. Race, Gender, and Political Memory in Forrest Gump, in «Cinema Journal», 3, 2000. Ringrazio Matteo Bittanti per la segnalazione di questi interventi. 5R.

Burgoyne, Prosthetic Memory/Traumatic Memory: Forrest Gump, http://tlweb.latrobe.edu.au/humanities/screeningthepast/firstrelease/fr049 9/rbfr6a.htm. Si tratta della prima versione di un saggio poi pubblicato, con lo stesso titolo, all’interno del volume Film Nation. Hollywood Looks at U.S. History, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1997, pp. 104122. 6Circolarità

rilevata anche da M. Veronesi, Le soglie del film. Inizio e fine nel cinema, Torino, Kaplan, 2005, p. 102. 7Ed

è proprio dalla panchina di una fermata di autobus di Savannah che prende l’avvio il film e che Forrest viene investito del ruolo di narratore della storia e della Storia. L’ultima ascoltatrice del suo racconto, l’anziana signora commossa fino alle lacrime, lo informerà che per recarsi all’indirizzo fornitogli da Jenny non è necessario attendere l’autobus: il posto si trova a due passi da lì. L’attesa era dunque assolutamente innecessaria e, forse, il suo unico scopo era quello di offrire a Forrest l’occasione per raccontare la sua vita ai suoi ascoltatori occasionali e, soprattutto, a noi spettatori. 8Si

vedano i precedenti di The Deer Hunter (Il cacciatore, Michael Cimino, 1978), Apocalypse Now (Id., Francis Ford Coppola, 1979), Platoon (Id., Oliver Stone, 1986), per citare solo alcuni degli esempi più noti. 9H.

White, Figural Realism. Studies in the Mimesis Effect, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1998, p. 4. 10Per

la precisione, in questo caso particolare, soltanto la testa appartiene al “vero” presidente Johnson, testa che viene “trapiantata”

elettronicamente sul corpo di una controfigura. 11Qui,

come nell’incontro precedente con Johnson e in quello successivo con Nixon, la computer graphic viene utilizzata persino per modificare il labiale dei personaggi, in modo da creare una perfetta corrispondenza tra le frasi proferite e i movimenti delle labbra e della bocca. 12R.

Odin, Pour une sémio-pragmatique du cinéma, in «Iris», 1, 1983.

13Nella

versione originale, «the war of Viet-fucking-nam».

14Non

mi pare superfluo ricordare come la guerra del Vietnam sia passata alla storia, tra l’altro, come la prima guerra mediatica, un conflitto ampiamente diffuso e raccontato dalla televisione, non soltanto agli Stati Uniti, ma al mondo intero, il che spiega anche, in parte, perché la mobilitazione contro quella guerra sia stata così vasta e abbia varcato i confini degli USA.

Roy Menarini Cast Away 1Chuck

Noland è un dirigente della Federal Express abituato a viaggiare intorno al mondo e a formare nuovi quadri dirigenziali ai quattro lati del globo. Il tempo e la capacità di trasportare gli oggetti sono le ossessioni di Chuck, considerato dai colleghi il più esperto e affidabile tra i sostenitori della “filosofia” FedEx. La sera di Natale, però, costretto a un viaggio improvviso, è coinvolto in uno spaventoso incidente aereo. Precipitando con il mezzo sul Pacifico, Chuck si trova miracolosamente vivo ma solo, alla deriva nell’Oceano. Approda su un’isola deserta dove, per ben quattro anni, deve fare i conti esclusivamente con se stesso e la sopravvivenza primaria. Solo grazie a una zattera di fortuna, costruita con i reperti dei pacchi postali finiti con lui sull’isola, riesce a fuggire e a intercettare una nave. In America, dove tutti lo avevano dato per morto, il ritorno non è semplice. L’amata Kelly è sposata con un altro uomo e ha già due figli. I colleghi non comprendono ciò che lui ha vissuto. I media sono incuriositi solo dalla paradossale vicenda. Bisogna ricominciare tutto da capo, nulla è più come prima. 2E.

Levy, Cast Away, in «Variety», 8, dicembre 2000.

3Diciamo,

in generale, che la critica quotidianista non è stata tenera con il film, al contrario di quella specializzata, di cui ricordiamo almeno G. Canova, Wilson, l’Avatar della socialità, in «Duel», n. 86, febbraio 2001; M. Garofalo, Cast Away, in «Segnocinema», n. 108, marzo-aprile 2001; E. Higuinen, Cast Away, in «Cahiers du cinéma», n. 554, febbraio 2001; F. La Polla, Il tempo sospeso delle balene. Cast Away di Robert Zemeckis, in «Cineforum», n. 402, febbraio-marzo 2001; F. Marineo, Cast Away: il naufragio del tempo, in «Duel», n. 86, febbraio 2001.

Luisella Farinotti Le verità nascoste

Rubiamo l’exergo dal bel saggio di Lucilla Albano, L’identificazione speculare e le sue metamorfosi, in «La psicoanalisi», 40, 2006, pp. 54-78. Si tratta di un gesto in sintonia con l’oggetto della nostra analisi: questo “plagio dichiarato” riproduce infatti il gioco di citazioni hitchcockiane messo in atto nel film, ma anche il meccanismo di falsificazione e raddoppiamento che governa l’intreccio. *

1Norman

Spencer – studioso di genetica in una prestigiosa Università – e la moglie Claire – una violoncellista che ha abbandonato da tempo l’attività concertistica – si sono trasferiti da un anno sulle rive di un lago, nel Vermont. La bellissima casa in cui vivono era del padre di Norman, un noto matematico la cui fama ingombrante grava ancora sul figlio. La giovane Catlin, figlia di Claire, parte per il college, lasciando la madre alla solitudine di giornate vuote, scandite dai lavori in giardino e dall’ordine domestico. La casa sembra però animarsi, preda di inspiegabili accidenti: porte che si aprono, oggetti che cadono, computer e stereo che si accendono da soli, vasche da bagno che si riempiono d’acqua. La donna avverte sempre più distintamente la presenza di qualcuno o qualcosa e, in un primo tempo, pensa si tratti del fantasma della giovane vicina di casa: Claire immagina sia stata uccisa dal marito, con cui più volte l’aveva sorpresa litigare. La verità emergerà lentamente, figura perturbante di qualcosa di inafferrabile, per la mente più ancora che per i sensi. 2C.

Metz, Pour servir de préface, in N. De Mourgues, Le Générique de film, Paris, Méridiens Klincksieck, 1994, p. 8. 3«I

credits svolgono un discorso contraddittorio: mentre avviano la finzione la smascherano come finzione, rivelando che il film è un oggetto testuale, fabbricato», V. Re, L’ingresso, l’effrazione. Proposte per lo studio d’inizi e fini, in V. Innocenti-V. Re, a cura di, Limina. Le soglie del film/Film’s Thresholds, Udine, Forum, 2004, p. 111. 4I

titoli di testa si configurano come uno spazio di indecisione tra il dentro e il fuori del racconto e hanno quindi un carattere ambivalente: ci informano sulle circostanze reali della produzione (svelano gli attori dietro i personaggi, i nomi dei tecnici e del regista che hanno realizzato il film) nel momento stesso in cui inaugurano la finzione introducendoci in un mondo, richiamando un’atmosfera, un ambiente o un genere. Tra gli studi più recenti sulle soglie del testo, si segnala: AA.VV., Anfänge und Enden. (Fin d’un début Ende eines Anfangs), in «montage/av», 12, 2, 2003; De Mourgues, Le Générique de film, cit.; Innocenti-Re, a cura di, Limina. Le soglie del film/Film’s Thresholds, cit.; V. Re, Ai margini del film. Incipit e titoli di testa, Pasian di Prato (Udine), Campanotto Editore, 2006; M. Veronesi, Le soglie del film. Inizio e fine nel cinema, Torino, Kaplan, 2005. Si potrebbe obiettare che è sufficiente la presenza del nome della ImageMovers – la casa di produzione fondata da Zemeckis nel 1998 – per dichiarare la paternità del film. Si tratta però di un segno di riconoscimento noto solo a uno spettatore informato. Del resto, basterebbero allora le locandine o tutti gli apparati peritestuali, in cui il nome del regista è presente a chiare lettere, per ipotizzare che tutti gli spettatori sappiano comunque che il film è di Zemeckis. Quello che ci

sembra interessante è l’omissione di un dato “obbligato”, la scelta per un rapido scivolamento oltre la frontiera che separa realtà e finzione. Zemeckis riserva un’attenzione particolare ai titoli di testa e alla costruzione dell’entrata nella finzione. Per limitarci a qualche esempio, Who Framed Roger Rabbit (Chi ha incastrato Roger Rabbit, 1988) riproduce nel cartone animato che funziona da prologo – vero e proprio film nel film – lo stile dei cortometraggi Warner degli anni quaranta, aprendo a un sistema di citazioni – di genere, personaggi, modi di rappresentazione – che segna tutto il film. Nella trilogia di Back to the Future (Ritorno al futuro I, II, III, 1985-1990) ai classici titoli sovrimpressi sulla sequenza inaugurale, si unisce, nel terzo capitolo, una sorta di “rassegna storica” delle trasformazioni del logo della Universal che è già indice di quella cavalcata nel tempo messa in scena nel film. Del resto, già l’inizio del primo “episodio” è emblematico: in piano sequenza vediamo decine di orologi il cui battito incessante viene interrotto dallo scoppio di un amplificatore che, segnando la fine dei titoli di testa, getta il protagonista nel pieno del racconto. La continuità temporale della ripresa e la misura regolare del tempo scandito dagli orologi definiscono un ordine che verrà sovvertito nel film, mentre lo spostamento violento di McFly provocato dallo scoppio, anticipa il volo dei suoi viaggi nel tempo. In Forrest Gump (Id., 1994) i titoli di testa scorrono mentre nelle immagini seguiamo il lento volteggiare di una piuma. Forrest, seduto su una panchina alla fermata di un autobus, prende la piuma e la infila in un libro. Qui terminano i credits. Nella scena finale Forrest è con il figlio in attesa dello scuolabus e gli mostra il libro che aveva nella sequenza iniziale. Nell’aprirlo, la piuma riprende a volare nell’aria. Se il movimento della piuma è regolato dal caso, come, in gran parte, la vicenda del protagonista, la circolarità della situazione collega inizio e fine, in un’idea di passaggio – qui da padre in figlio – come eterna ripetizione di esperienze identiche che il film attribuisce allo stesso movimento della Storia. 5G.

Genette, Seuils, Paris, Éditions du Seuil, 1987 (trad. it. Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 1989, p. 404). 6Si

pensi solo ai labirinti d’acqua della “zona” in Stalker (Id., Andrej Tarkovskij, 1979) o all’oceano pensante di Solaris (Id., 1972), sempre di Tarkovskij, ma anche al più recente The Wild Blue Yonder (L’infinito spazio profondo, 2005) di Werner Herzog, al pianeta senza vita che ha i tratti di un abisso marino. O, in una dimensione più orrorifica, a Honogurai mizu no soko kara (Dark water, 2002) di Hideo Nakata in cui l’acqua è l’elemento di congiunzione tra il fantasma e i viventi. 7A.

Bellavita, Fantôme e fantasme: l’emersione del reale nel cinema, in «La psicoanalisi», 2004, 36, p. 163. 8S. Freud, Das Unheimliche (1919), in Gesammelte Werke, 12, Frankfurt a. M-London, Fischer Verlag Imago Publishing Co., 1940 (trad. it. Il perturbante, in Opere di Sigmund Freud, IX, Torino, Bollati Boringhieri, 1977, p. 86). 9«Anzitutto,

se la teoria psicoanalitica ha ragione di affermare che ogni affetto connesso con un’emozione, di qualunque tipo essa sia, viene trasformato in angoscia qualora abbia luogo una rimozione, ne segue che

tra le cose angosciose dev’essercene un gruppo nel quale è possibile scorgere che l’elemento angoscioso è qualcosa di rimosso che ritorna. Questo tipo di cose angosciose costituirebbe appunto il perturbante […] se questa è realmente la natura segreta del perturbante, allora comprendiamo perché l’uso linguistico consente all’Heimliche di trapassare nel suo contrario, l’Unheimliche: infatti questo elemento perturbante non è in realtà niente di nuovo o di estraneo, ma è invece un che di familiare alla vita psichica fin dai tempi antichissimi e a essa estraniatosi soltanto a causa del processo di rimozione», Ibid., p. 102. Freud si riferisce qui al riemergere di un sapere magico e arcaico di cui l’animismo, la magia, l’onnipotenza del pensiero sono le forme più ricorrenti. Il pensiero primitivo procede come le credenze infantili, quindi ognuno di noi, per Freud, ha esperienza di questo modello interpretativo del mondo: è qualcosa di familiare alla nostra vita psichica per quanto non più familiare dopo lo sviluppo dell’attività logico-razionale. Nella terza parte del saggio, Freud distingue tra ritorno del rimosso, che ha a che fare col desiderio, e ritorno del superato, che ha a che fare con le credenze. I fantasmi, i revenant, i fenomeni di animismo sono perturbanti in quanto ritorno del superato, sono infatti elementi che appartengono a modalità infantili di pensiero. Nel nostro film, il fantasma è sia il prodotto di una credenza infantile (e pertanto perturbante in quanto ritorno del superato), sia la proiezione di una frattura dell’inconscio (e pertanto perturbante in quanto ritorno del rimosso). 10M.

Recalcati, La morte nel corpo. Sul Perturbante di Freud, in Id., L’universale e il singolare, Milano, Marcos y Marcos, 1995, p. 69. Recalcati riprende qui il concetto di Extimité formulato da Lacan e sviluppato da Jacques-Alain Miller. L’extime è ciò che ci è più prossimo e, nel contempo, più estraneo. È una “intimità esteriore”. Sul perturbante si veda anche A. Bellavita, Schermi perturbanti. Per un’applicazione del concetto di Unheimliche all’enunciazione filmica, Milano, Vita & Pensiero, 2005. 11Il

film in più occasioni suggerisce una relazione tra Claire e il fantasma. Si pensi solo alla scena del party dai Templeton, quando la padrona di casa ricorda a Claire l’incidente avvenuto un anno prima, durante la festa per la cattedra Dupont assegnata a Norman: «Sei stata così male, ricordi?», «Oh, l’avevo completamente rimosso… le ruppi un bicchiere», «Mia cara, era un misero bicchiere del catering, ma tu sei diventata pallida come un lenzuolo, non riuscivi a respirare, sembrava che avessi visto un fantasma». Si noti come, anche nel momento in cui riemerge la memoria di una scena traumatica, la censura continui a imporsi, spostando su dettagli secondari – il bicchiere rotto – il ricordo di ciò che aveva causato l’angoscia. Anche la scritta che appare sullo specchio appannato del bagno, «You know», subito dopo l’ennesima visione dello spettro, dichiara un sapere senza memoria, sepolto come un segreto nell’inconscio. La stessa ostinazione di Claire a negare il proprio disagio, quel continuo ripetere «sto bene» a quanti, ben prima dell’apparizione del fantasma, non fanno che chiederle come stia, disegna il profilo di un soggetto che procede per rimozioni. Del resto ci fornisce già un indizio la sequenza inaugurale: della prima visione spaventosa e angosciante non c’è traccia nei discorsi

successivi col marito, con la figlia o con l’amica, né il comportamento di Claire tradisce un’inquietudine. È come se nulla fosse accaduto. 12Bellavita,

Fantôme e fantasme, cit., p. 64.

13Sugli specchi come oggetto filmico privilegiato cfr. C. Metz, L’énonciation impersonelle, ou le site du film, Paris, Klincksieck, 1991 (trad. it. L’enunciazione impersonale o il luogo del film, Napoli, ESI, 1995). 14F.

Casetti, Dentro lo sguardo, Milano, Bompiani, 1986, p. 85.

15Il

gesto che introduce la figura del marito di Claire ha un carattere ambiguo: Norman abbraccia la moglie da dietro, avvolgendole il collo con un braccio. La donna, che sta osservando dalla finestra la lite dei vicini, si spaventa. Il gesto amoroso si converte in aggressione consegnandoci un indizio che solo ex post potremo interpretare correttamente. È un’altra traccia l’invito a fare sesso «svelti e piano», in un modo furtivo che dice di un piacere o di un’abitudine al nascondimento. La stessa frase con cui l’uomo si congeda, «non sopporto questo rifiuto… vado a correre», pur nell’ironia dei toni, anticipa il profilo di un personaggio narcisista e competitivo, che presto scopriremo preda del confronto con il padre, un insigne matematico di cui vuole duplicare il successo. 16Lo

stesso tipo di opposizione agisce, in realtà, anche tra Norman e Claire: lo scienziato e l’artista, la razionalità del genetista che ambisce a controllare la vita di contro alla sensibilità della musicista, dedita, un tempo, all’arte della soggettività assoluta. È questa sensibilità che Claire ha represso, rinunciando alla propria identità. Tutto il film potrebbe essere analizzato a partire da questa opposizione tra maschile e femminile, seguendo la traiettoria di liberazione di Claire. Attorno a questa identità femminile portatrice di un altro desiderio e di uno sguardo capace di penetrare i “punti ciechi” di Norman, si potrebbe costruire un percorso interpretativo vicino alla prospettiva femminista sul cinema. Sugli studi di Gender e la Feminist Film Theory si veda V. Pravadelli, Feminist Film Theory e Gender Studies, in P. Bertetto, a cura di, Metodologie di analisi del film, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 59-102, cui si rinvia anche per i ricchi riferimenti bibliografici. 17Il

film mette in scena questo nodo oscuro e angoscioso rappresentato dal passato, nella scena in cui Claire, in soffitta, sfoglia un vecchio album di fotografie e viene via via sommersa dall’ansia. Non a caso, come traccia di un’alterità violenta, tra le foto della sua felicità con la piccola Catlin e con il suo precedente compagno, anche lui musicista, appare un’istantanea dell’automobile distrutta nell’incidente dell’anno prima. La catastrofe del presente marca la perdita della felicità passata. La donna fugge in lacrime, abbandonando la “scena della memoria”. 18Con

“oggetto mediatore” i teorici del fantastico indicano «un oggetto che comprova l’attraversamento della soglia che divide naturale e soprannaturale, mettendo in crisi i paradigmi di realtà dei personaggi e del lettore, e suscitando così uno scacco gnoseologico», M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1998, p. 274. Anche la chiave del cofanetto, e poi la collana, svolgono la stessa funzione mediatrice e sostituiscono la treccia bruciata in un rito di liberazione dai due coniugi.

Sul cinema fantastico si veda anche J.-L. Leutrat, Vie de fantômes. Le fantastique au cinéma, Paris, Cahiers du cinéma, 1995. 19R.

Bellour, L’analyse du film, Paris, Albatros, 1979 (poi Paris, CalmannLévy, 1995) (trad. it. L’analisi del film, Torino, Kaplan, 2005, p. 178). 20Il

catalogo di scene hitchcockiane comprende: il tuffo nel lago di Claire che riprende quello di Madeleine in Vertigo (La donna che visse due volte, 1958); da questo stesso film deriva il tema della reincarnazione; il voyeurismo e il riconoscimento proiettivo guardante/guardato è preso da Rear Window (La finestra sul cortile, 1954); la strategia legata alle comunicazioni telefoniche viene da Dial M for Murder (Delitto perfetto, 1954), mentre Norman è, fin dal nome, legato a Psycho (Psyco, 1960), ma sostituisce alla madre la figura incombente del Superego paterno. A Psycho si legano anche il bagno come luogo chiave del racconto e l’automobile con cadavere sepolta nel lago. Da Suspicion (Sospetto, 1941) arriva la rete di sospetti e occultamenti che grava sulla coppia, e la citazione hitchcockiana si spinge fino alla musica di Alan Silvestri che riproduce chiaramente le partiture di Bernard Hermann. Ma ci sarebbero anche citazioni da The Shining (Shining, 1980) di Kubrick e da Les diaboliques (I diabolici, 1954) di Clouzot (sempre il bagno con cadavere), come rileva Tesson su i «Cahiers du cinéma» (n. 459, settembre 2000, p. 88) non distinguendo forse tra citazione intenzionale e la memoria inevitabile di cui ogni immagine è una sorta di deposito. 21Sulla

metamorfosi liquida della casa cfr. C. Tesson, Apparences, in «Cahiers du cinéma», 459, settembre 2000, p. 88. Sul valore metacinematografico della tecnologia nel cinema di Zemeckis si veda R. Menarini, Robert Zemeckis, in L. Gandini-R. Menarini, a cura di, Hollywood 2000. Panorama del cinema americano contemporaneo, vol. II – Autori, Recco-Genova, Le Mani, 2001, pp. 324-330. 22Bellour, 23Ibid.,

L’analisi del film, cit., p. 61.

p. 181.

Biografia a cura di Ivan Moliterni Robert Lee Zemeckis nasce il 14 maggio 1952 a Chicago, nell’Illinois. Inizia a occuparsi molto presto della realizzazione di alcuni cortometraggi (The Lift, A Field of Honor) girati con una cinepresa 8mm. L’esecuzione e la presenza di punti di vista originali documentano la precocità del giovane regista e un talento capace di esprimersi anche in opere audiovisive di breve durata: A Field of Honor (1973) riceve il premio speciale della giuria agli Student Academy Awards nel 1975. Terminati gli studi liceali, Robert si iscrive alla Northern Illinois University, trasferendosi in un secondo tempo presso la University of Southern California for Film Studies di Los Angeles (USC). In tale struttura, annoverata tra le più accreditate scuole di cinema degli Stati Uniti, ottiene il diploma nel 1973 e incontra Bob Gale. I due, oltre a stringere un rapporto di amicizia, impostano una cooperazione duratura per la stesura di soggetti e sceneggiature nel corso degli anni. Dai primi lungometraggi a Used Cars (La fantastica sfida, 1980), proseguendo con Back to the Future (Ritorno al futuro, 1985) e i film a episodi – Go to the Head of the Class (Il capo della classe) contenuto in Amazing Stories (Storie incredibili, 1986) – per concludere la trilogia con Back to the Future Part II (Ritorno al futuro parte II, 1989) e Back to the Future Part III (Ritorno al futuro parte III, 1990). Durante gli studi universitari si concretizza la conoscenza di Steven Spielberg, momento essenziale nella carriera di Zemeckis. L’USC, infatti, organizza visite periodiche agli studi della Universal Pictures, con l’obiettivo di far accostare gli allievi alle modalità e alle tecniche di lavoro interne a ciascuna divisione. È l’occasione che consente al futuro cineasta di mostrare

uno dei suoi prodotti, particolarmente valorizzato dallo stesso Spielberg in quanto emblema espressivo della cultura pop. Dopo la Film School, Zemeckis effettua alcune esperienze lavorative che gli consentono di dedicarsi al montaggio dei servizi mandati in onda dall’emittente NBC nei telegiornali. Interviene anche nella postproduzione di spot pubblicitari, consolidando i contatti con Bob Gale. Insieme ricorrono proprio a Steven Spielberg che, pronto a investire sulle nuove generazioni, commissiona loro la scrittura del soggetto e della sceneggiatura di una prima pellicola, I Wanna Hold Your Hand (1964: allarme a New York, arrivano i Beatles!, 1978 – regia di Zemeckis), e in seguito dirige 1941 (1941 Allarme a Hollywood, 1979), assegnando nuovamente a entrambi il copione. Il sodalizio con Spielberg-produttore marca l’attuazione di svariati film: Used Cars, i tre capitoli di Back to the Future, Amazing Stories e Who Framed Roger Rabbit (Chi ha incastrato Roger Rabbit, 1988). Romancing the Stone (All’inseguimento della pietra verde, 1984) registra l’intervento produttivo di Michael Douglas, star del film accanto a Kathleen Turner e Danny DeVito; Mary Ellen Trainor (Elaine) diventa la prima moglie di Zemeckis (la seconda sarà un’altra attrice, Leslie Harter). Intraprese sin dall’inizio, le collaborazioni consolidano gradualmente l’affinità tra le idee dell’autore e il cammino che Hollywood è intenzionato a compiere in quel periodo. Nel quinquennio 1985-1990 il regista di Chicago porta a compimento quattro lungometraggi, significativi non solo in vista di una consacrazione definitiva, ma anche per la singolarità con cui viene trattata la materia filmica. La trilogia di Back to the Future è una trasvolata compiuta da personaggi e spettatori attraverso la sostanza del tempo cinematografico, a

spasso nelle epoche dell’America. Il primo film riceve il premio Oscar per gli effetti speciali sonori e la nomination per la migliore sceneggiatura originale. Le riprese di Back to the Future Part II e Back to the Future Part III, effettuate in successione tra il 1989 e il 1990, richiedono dieci mesi di elaborazione. Affiora una straordinaria capacità di narrare avventure seducenti racchiuse all’interno di uno sguardo positivo sul mondo: i dislocamenti temporali in età differenti sono un segno distintivo della fiducia nelle capacità individuali di generare l’avvenire a partire da acquisizioni e conoscenze presenti. È l’evoluzione dei tempi e dei caratteri, la crescita personale del protagonista, Marty McFly (Michael J. Fox), il cui temperamento viene svelato progressivamente. Zemeckis dimostra di essere attratto da una sperimentazione sulle tecniche cinematografiche che sovverte l’universo filmico e le sue figure. Conservando una dedizione al classico coinvolgimento dell’osservatore e proiettandosi verso l’innovazione, egli comprende la necessità di rendere inconsueta anche la messa in scena, il modo di esibire le immagini. Who Framed Roger Rabbit fa coabitare sullo schermo gli attori e i loro simulacri animati. Le connessioni cinema-televisione si fanno sempre più accentuate, così che le serie Tales from the Crypt (1989-1995) e Two-Fisted Tales (1991) si trasformano nei film a episodi Tales from the Crypt (Racconti dalla cripta, 1989) e Two-Fisted Tales (Incubi, 1993). Zemeckis gira And All Through the House (Id.) per la prima pellicola – i restanti due segmenti sono di Walter Hill e Richard Donner – e Yellow (Giallo) per la seconda, contrassegnata anche dalle parti dirette da Tom Holland e ancora R. Donner. Tra lungometraggi di successo e amicizie illustri, creazioni e figura dell’autore trovano ampia diffusione. Nel 1991, ad esempio, egli fa la sua apparizione in

Make It Happen di Michael Rissi insieme a Randal Kleiser e Gorge Lucas. La ricerca di una visione in grado di entusiasmare si evolve in etichetta stilistica, risultato da ottenere tramite la lavorazione accurata, con l’impiego tecnologico progettato sin dalle fasi di scrittura. L’Oscar per gli effetti speciali visivi (a opera dell’Industrial Light & Magic di George Lucas) attribuito a Death Becomes Her (La morte ti fa bella, 1992 – tra gli interpreti, oltre a Meryl Streep e Bruce Willis, anche Goldie Hawn e Isabella Rossellini) precede di poco i riconoscimenti con cui viene gratificato il film seguente, Forrest Gump (Id., 1994). I sei Oscar decretano il consenso ufficiale, l’affermazione scaturita dall’abilità di armonizzare i molteplici stadi creativi e le professioni coinvolte: opera filmica, regia, attore protagonista (Tom Hanks), montaggio, sceneggiatura non originale ed effetti speciali visivi rappresentano le classi premiate. L’autore fa (s)correre i fotogrammi insieme ai decenni americani, tra guerre e controcultura, adatta il proprio materiale alle condizioni dei filmati di archivio. Zemeckis comprende il valore di un’attività in grado di includere più competenze, affiancando la figura di produttore a quella di regista e sceneggiatore. Interviene nella produzione di alcune serie televisive degli anni novanta, da Johnny Bago (1993), di cui gira anche la puntata Johnny Bago Free at Last, a Perversions of Science (1997). Finanzia, inoltre, diverse pellicole, tra cui The Public Eye (Occhio indiscreto, H. Franklin, 1992), Trespass (I Trasgressori, W. Hill, 1992), The Frighteners (Sospesi nel tempo, P. Jackson, 1996), Thir13en Ghosts (I tredici spettri, S. Beck, 2001), Ghost Ship (Nave fantasma – Ghost Ship, S. Beck, 2002), Gothika (Id., M. Kassovitz, 2003), Monster House (Id., G. Kenan, 2006), e The Reaping (I segni del male, S. Hopkins, 2007). Tra il 1997 e il 1998 ultima la

costituzione di una casa di produzione, la Image Movers, con i soci Steve Starkey e Jack Rapke. Infine, sovvenziona taluni suoi film: Death Becomes Her, Contact (Id., 1997), What Lies Beneath (Le verità nascoste, 2000), Cast Away (Id., 2000), The Polar Express (Polar Express, 2004) e Beowulf (La leggenda di Beowulf, 2007), a dimostrazione di una spiccata esperienza conseguita nei mestieri del cinema. A tal proposito, concorre spesso alla redazione degli script: oltre ai film citati, scrive a quattro mani con Gale Trespass e partecipa alla sceneggiatura di The Polar Express. Deciso poi a non abbandonare l’universo televisivo, elabora il soggetto di Chopper (1975), episodio della raccolta Kolchak: The Night Stalker (19741975). Infine, è sua la regia del documentario TV The 20th Century: The Pursuit of Happiness (1999). La dimensione fantascientifica torna a essere scrutata al fine di evidenziarne le collisioni con l’estrema concretezza dei “sistemi” nei quali viene calato l’individuo. Contact affianca sogni e visioni soggettive agli interessi istituzionali e di potere. I movimenti (quelli della mente umana, i viaggi nello spazio-tempo, i percorsi interni a mondi reali o animati) transitano attraverso molti testi della filmografia di Robert Zemeckis. E ciò riguarda persino l’esecuzione materiale, a volte dinamica, itinerante. Le riprese di Cast Away e What Lies Beneath vengono effettuate in maniera alternata e i due film escono nello stesso anno (2000). Il primo, infatti, interrotto per concedere a Tom Hanks il periodo di dimagrimento, è terminato in una fase successiva, espediente che ha reso possibile la realizzazione di What Lies Beneath durante la pausa. Il thriller interpretato da Harrison Ford e Michelle Pfeiffer accoglie riferimenti all’intelaiatura hitchcockiana alla stessa stregua dei film comprendenti più segmenti. Il cineasta statunitense si giova della virtualità tecnologica, esprime l’inclinazione a incorporare le

invenzioni nelle composizioni realistiche: la performance capture – in grado di riprodurre con fedeltà le movenze degli attori – umanizza le figure di The Polar Express ottenute mediante la procedura digitale di animazione tridimensionale. Per di più, la pellicola viene immessa sul mercato sia nel classico formato 35mm che in quello IMAX 3D. Beowulf, invece, realizzato con la medesima tecnica, è l’ultimo lungometraggio in parte autoprodotto, adattamento dell’omonimo poema epico. Un’esperienza eclettica si fa forma esteriore di contenuti versatili. La cinematografia poliedrica di Robert Zemeckis introduce un’impronta autoriale, effigie di fantastico e vero, racconto allettante che scruta le cicatrici del farsesco senza rinnegare la commedia dell’esistenza.

Filmografia a cura di Ivan Moliterni 1972 The Lift Regia: Robert Zemeckis; soggetto e sceneggiatura: Robert Zemeckis; fotografia: Bill Mauger; montaggio: Mustafa R. Gursel; musica: Bill Manov, Warren Wolfe; interpreti: Michael Fuller; origine: USA; durata: 7’. 1973 A Field of Honor Regia: Robert Zemeckis; soggetto e sceneggiatura: Bob Gale, Robert Zemeckis; fotografia: Horace Jordan; montaggio: Mustafa R. Gursel; interpreti: Pete Belcher, Hugh Gillin, Roger Pancake; origine: USA; durata: 15’. 1978 I Wanna Hold Your Hand (1964: allarme a New York, arrivano i Beatles!) Regia: Robert Zemeckis; soggetto e sceneggiatura: Bob Gale, Robert Zemeckis; fotografia: Donald M. Morgan; montaggio: Frank Morriss; costumi: Rosanna Norton; interpreti: Nancy Allen (Pam Mitchell), Bobby Di Cicco (Tony Smerko), Marc McClure (Larry Dubois), Susan Kendall Newman (Janis Goldman), Theresa Saldana (Grace Corrigan), Wendie Jo Sperber (Rosie Petrofsky), Eddie Deezen (Richard “Ringo” Klaus), Christian Juttner (Peter Plimpton), Will Jordan (Ed Sullivan), Read Morgan (padre di Peter), Claude Earl Jones (Al), James Houghton (Eddie), James Hewitson (Neil), Dick Miller (sergente Brenner); produzione: Tamara Asseyev, Alexandra Rose, con la partecipazione di Bob Gale; produttori esecutivi: Steven Spielberg; origine: USA; durata: 104’; distribuzione: Giangi Film.

Sinossi – Le vicissitudini affrontate dai sostenitori ostinati dei Beatles ai tempi della loro prima esibizione negli Stati Uniti. Tre fanciulle provenienti dal New Jersey sognano di avvicinare il quartetto di Liverpool atteso negli studi dell’Ed Sullivan Show. La passione coinvolge numerosi giovani dell’epoca convinti di prendere parte a un evento d’eccezione. Solo una delle tre teen-agers non mostra particolare attenzione alla vicenda, al contrario delle due amiche che aspirano allo scoop fotografico o all’incontro con il proprio idolo. Durante il tragitto verso New York conoscono altri tre ragazzi e insieme riescono a raggiungere l’hotel dove alloggia il complesso musicale; le circostanze si complicano, facendo smarrire ogni aspettativa di concretizzare il desiderio iniziale. Ormai determinato a procurarsi i biglietti per lo spettacolo, il gruppo viene travolto dall’esaltazione di massa che segna l’attesa insistente per la manifestazione. All’interno di un simile clima, i fan approdano sul set televisivo e assistono all’agognato concerto. 1980 Used Cars (La fantastica sfida) Regia: Robert Zemeckis; soggetto e sceneggiatura: Bob Gale, Robert Zemeckis; fotografia: Donald M. Morgan; montaggio: Michael Kahn; scenografia: Peter Jamison; musica: Patrick Williams; interpreti: Kurt Russell (Rudolph “Rudy” Russo), Jack Warden (Roy L. Fuchs/Luke Fuchs), Gerrit Graham (Jeff), Frank McRae (Jim, il meccanico), Deborah Harmon (Barbara Jane Fuchs), Joe Flaherty (Sam Slaton), David L. Lander (Freddie Paris), Michael McKean (Eddie Winslow), Michael Talbott (Mickey), Harry Northup (Carmine), Alfonso Arau (Manuel), Al Lewis (giudice H.H. Harrison), Woodrow Parfrey (Chartner); produzione: A-Team, Columbia Pictures Corporation; produttori esecutivi: John Milius, Steven Spielberg; origine: USA, durata: 111’; distribuzione: DMV.

Sinossi – Rudy Russo è un rivenditore di auto usate, abile negli affari e in possesso di una spiccata attitudine a gestire la clientela. Tuttavia aspira a un impiego di maggior consistenza nell’America delle opportunità, non volendo trascorrere l’intera esistenza assillato dalla necessità di convincere il pubblico ad acquistare vetture in realtà usurate. Vorrebbe proporsi come candidato senatore, ma occorre il denaro di cui non dispone; l’unico che gli offre sostegno è il proprietario della New Deal Used Cars, Luke Fuchs. Quando l’anziano (da tempo malato di cuore) muore di infarto in seguito a una folle corsa in auto, a Rudy non resta che programmare un’intensa operazione pubblicitaria che gli assicuri più compratori. Un proposito lontano, complesso da portare a termine data l’ingerenza di Roy, gemello di Luke e gestore di un’attività identica posta sul lato opposto della strada. L’uomo aspira a ereditare il lotto del fratello e spalleggia il sindaco che vuole far passare la superstrada su quella proprietà. La concorrenza tra i due oltrepassa spesso i confini della legalità, tra intrusioni su canali televisivi privati e spettacoli invitanti per cittadini di provincia. L’arrivo di Barbara, figlia di Luke, coinvolge sentimentalmente il protagonista, tanto da indurlo a rinunciare ai risparmi accumulati per aiutare la donna durante il processo montato dall’avidità di Roy. 1984 Romancing the Stone (All’inseguimento della pietra verde) Regia: Robert Zemeckis; soggetto e sceneggiatura: Diane Thomas; fotografia: Álex Phillips Jr., Dean Cundey; montaggio: Donn Cambern, Frank Morriss; scenografia: Lawrence G. Paull; costumi: Marilyn Vance; musica: Alan Silvestri; interpreti: Michael Douglas (Jack T. Colton), Kathleen Turner (Joan Wilder), Danny DeVito (Ralph), Zack Norman (Ira), Alfonso Arau (Juan), Manuel

Ojeda (Zolo), Holland Taylor (Gloria), Mary Ellen Trainor (Elaine), Eve Smith (Mrs. Irwin), Joe Nesnow (Super), José Chávez (Santos), Camillo García (autista dell’autobus), Ted White (Grogan); produzione: Michael Douglas, con la partecipazione di Jack Brodsky e Joel Douglas; origine: Messico/USA; durata: 105’; distribuzione: Fox. Sinossi – Joan Wilder, autrice di romanzi rosa popolari, viene sopraffatta dalle medesime peripezie su cui prima poteva solo fantasticare. La telefonata di due sequestratori (i cugini Ralph e Ira) la costringe a recarsi in Colombia per liberare la sorella (Elaine): il prezzo del riscatto è una mappa del luogo inviatale dal cognato poco prima di essere assassinato. A causa degli ostacoli frapposti dal “colonnello” Zolo, capo della polizia corrotta e comandante di un piccolo esercito privato, Joan prende una direzione errata, senza poter raggiungere Cartagena. Dispersa nella foresta colombiana, si imbatte nel suo futuro accompagnatore, Jack Colton, un cacciatore di volatili attratto dall’oceano e dal fascino di girare il mondo a bordo di una barca. Le vicissitudini si susseguono: inseguimenti nel fango, coccodrilli, notti trascorse in vecchi aerei precipitati e villaggi ostili. Un ausilio inatteso giunge da un ammiratore della scrittrice, pronto a ospitarli e ad agevolare la loro fuga. La scoperta del sito tracciato sulla pianta ne svela l’intimo valore: in corrispondenza del “forcone del diavolo” giace nascosto uno smeraldo, il “cuore” prezioso. Così, anche dopo una breve separazione, Jack e Joan ottengono il rilascio di Elaine, si svincolano dai malfattori e, in possesso della pietra verde, affrontano una reale avventura da innamorati. 1985 Back to the Future (Ritorno al futuro) Regia: Robert Zemeckis; soggetto e sceneggiatura: Bob Gale, Robert Zemeckis; fotografia: Dean Cundey; montaggio: Harry Keramidas, Arthur Schmidt;

scenografia: Lawrence G. Paull; costumi: Deborah Lynn Scott; musica: Alan Silvestri; effetti: Industrial Light & Magic (ILM), Kevin Pike; interpreti: Michael J. Fox (Marty McFly), Christopher Lloyd (Dr. Emmett “Doc” Brown), Lea Thompson (Lorraine Baines McFly), Crispin Glover (George McFly), Thomas F. Wilson (Biff Tannen), Claudia Wells (Jennifer Parker), Marc McClure (Dave McFly), Wendie Jo Sperber (Linda McFly), George DiCenzo (Sam Baines), Frances Lee McCain (Stella Baines), James Tolkan (Strickland), J.J. Cohen (Skinhead), Casey Siemaszko (3-D), Billy Zane (Match); produzione: Universal Pictures, Amblin Entertainment; produttori esecutivi: Kathleen Kennedy, Frank Marshall, Steven Spielberg; origine: USA; durata: 116’; distribuzione: Uip. 1986 Amazing Stories (Storie incredibili) episodio Go to the Head of the Class (Il capo della classe) Regia: Robert Zemeckis; soggetto: Mick Garris; sceneggiatura: Mick Garris, Tom McLoughlin, Bob Gale; fotografia: Vincent A. Martinelli; montaggio: Wendy Greene Bricmont; scenografia: Rick Carter; musica: Alan Silvestri; interpreti: Scott Coffey (Peter Brand), Christopher Lloyd (professor B.O. Beanes), Mary Stuart Masterson (Cynthia Simpson); produzione: Amblin Entertainment, Universal Tv; produttori esecutivi: Steven Spielberg; origine: USA; durata: 35’; distribuzione: Uip. Sinossi – Un disco ascoltato al contrario suggerisce a Peter e Cynthia la ricetta del sortilegio con cui ricambiare le punizioni dell’arcigno professor Beanes. L’incantesimo viene compiuto allo scoccare della mezzanotte, anche se l’innocua maledizione del singhiozzo si converte nella morte dell’insegnante. Resuscitato e forte di una testa rammendata, Beanes tornerà ad accanirsi sui suoi scolari.

1988 Who Framed Roger Rabbit (Chi ha incastrato Roger Rabbit) Regia: Robert Zemeckis; soggetto: dal romanzo Who Censored Roger Rabbit? di Gary K. Wolf; sceneggiatura: Jeffrey Price, Peter S. Seaman; fotografia: Dean Cundey; montaggio: Arthur Schmidt; scenografia: Roger Cain, Elliot Scott; costumi: Joanna Johnston; musica: Alan Silvestri; effetti: Industrial Light & Magic (ILM), George Gibbs; interpreti: Bob Hoskins (Eddie Valiant), Christopher Lloyd (giudice Doom), Joanna Cassidy (Dolores), Charles Fleischer (voce Roger Rabbit/Benny/Greasy/Psycho), Stubby Kaye (Marvin Acme), Alan Tilvern (R.K. Maroon), Richard LeParmentier (tenente Santino), Kathleen Turner (voce Jessica Rabbit), Joel Silver (Raoul), Paul Springer (Augie), Richard Ridings (Angelo); produzione: Amblin Entertainment, Silver Screen Partners III, Touchstone Pictures; produttori esecutivi: Kathleen Kennedy, Steven Spielberg; origine: USA; durata: 103’; distribuzione: Warner Bros. 1989 Tales from the Crypt (Racconti dalla cripta) episodio And All Through the House (Id.) Regia: Robert Zemeckis; soggetto e sceneggiatura: Fred Dekker; fotografia: Dean Cundey; montaggio: Stephen Semel; scenografia: Virginia Lee; musica: Alan Silvestri; interpreti: Mary Ellen Trainor (moglie), Larry Drake (evaso), Marshall Bell (Joseph, il marito), Lindsey Whitney Barry (Carrie Ann); produzione: Richard Donner, Joel Silver, William Teitler; origine: USA; durata: 26’. Sinossi – La funesta confusione tra Bene e Male, l’inconveniente successivo all’omicidio pianificato tra le mura domestiche. Notte di Natale: una donna colpisce a morte il marito mentre la radio annuncia l’evasione di

un serial killer dal manicomio criminale. Così, si trova a difendere il focolare dall’aggressione dello psicopatico, tentando di accusarlo anche del proprio delitto. L’uomo, armato e travestito da Babbo Natale, viene ospitato dalla piccola Carrie Ann, ansiosa di scartare i suoi doni. Back to the Future Part II (Ritorno al futuro parte II) Regia: Robert Zemeckis; soggetto: Bob Gale, Robert Zemeckis; sceneggiatura: Bob Gale; fotografia: Dean Cundey; montaggio: Harry Keramidas, Arthur Schmidt; scenografia: Rick Carter; costumi: Joanna Johnston; musica: Alan Silvestri; effetti: Industrial Light & Magic (ilm); interpreti: Michael J. Fox (Marty McFly/Marty McFly Jr./Marlene McFly), Christopher Lloyd (Dr. Emmett “Doc” Brown), Lea Thompson (Lorraine Baines/McFly/Tannen), Thomas F. Wilson (Biff Tannen/Griff Tannen), Elisabeth Shue (Jennifer Parker/McFly), James Tolkan (Strickland), Jeffrey Weissman (George McFly), Casey Siemaszko (3-D), Billy Zane (Match), J.J. Cohen (Skinhead), Charles Fleischer (Terry), Darlene Vogel (Spike), Jason Scott Lee (Whitey); produzione: Neil Canton, Bob Gale, con la partecipazione di Steve Starkey; produttori esecutivi: Kathleen Kennedy; Frank Marshall, Steven Spielberg; origine: USA; durata: 107’; distribuzione: Uip. 1990 Back to the Future Part III (Ritorno al futuro parte III) Regia: Robert Zemeckis; soggetto: Bob Gale, Robert Zemeckis; sceneggiatura: Bob Gale; fotografia: Dean Cundey; montaggio: Harry Keramidas, Arthur Schmidt; scenografia: Rick Carter; costumi: Joanna Johnston; musica: Alan Silvestri; effetti: David Blitstein, Ken Ralston, Scott Farrar, Industrial Light & Magic (ILM); interpreti: Michael J. Fox (Marty McFly/Seamus McFly), Christopher Lloyd (Dr. Emmett “Doc” Brown), Mary Steenburgen (Clara Clayton), Thomas F. Wilson (Buford

/Biff Tannen), Lea Thompson (Maggie McFly/Lorraine McFly), Elisabeth Shue (Jennifer Parker), James Tolkan (sceriffo James Strickland), Matt Clark (barista del saloon), Marc McClure (Dave McFly), Wendie Jo Sperber (Linda McFly), Jeffrey Weissman (George McFly), Flea (Douglas J. Needles), Todd Cameron Brown (Jules Brown), Dannel Evans (Verne Brown); produzione: Neil Canton, Bob Gale, con la partecipazione di Steve Starkey; produttori esecutivi: Kathleen Kennedy, Frank Marshall, Steven Spielberg; origine: USA; durata: 118’; distribuzione: Uip. 1992 Death Becomes Her (La morte ti fa bella) Regia: Robert Zemeckis; soggetto e sceneggiatura: Martin Donovan, David Koepp; fotografia: Dean Cundey; montaggio: Arthur Schmidt; scenografia: Rick Carter; costumi: Joanna Johnston; musica: Alan Silvestri; effetti: Industrial Light & Magic (ILM); interpreti: Meryl Streep (Madeline Ashton), Bruce Willis (Dr. Ernest Menville), Goldie Hawn (Helen Sharp), Isabella Rossellini (Lisle von Rhoman), Ian Ogilvy (Chagall), Adam Storke (Dakota), Nancy Fish (Rose), Michelle Johnson (Anna), Mary Ellen Trainor (Vivian Adams), William Frankfather (Franklin); produzione: Universal Pictures, Steve Starkey, Robert Zemeckis, con la partecipazione di Joan Bradshaw; origine: USA; durata: 103’; distribuzione: Uip. Sinossi – Cedimento materiale e disfacimento della carne: la vita (in)finita dell’estetismo. Il chirurgo Ernest Menville tradisce l’amore promesso a Helen e sposa Madeline, stella di Broadway e antagonista memorabile della sua ex fidanzata. Il matrimonio degenera nella sopportazione tra estranei, con i due coniugi che cercano rifugio nell’alcolismo o l’epidermico conforto procacciato dalla giovinezza apparente. È come morire lentamente, infatti a Ernest non rimane che ritoccare i cadaveri per renderli presentabili prima

dell’esposizione. Sono trascorsi degli anni ed Helen sembra aver superato la delusione subita, diventando scrittrice affermata e incantevole. L’incontro con la rivale e la scoperta del suo nuovo aspetto esteriore obbligano Madeline a impiegare l’estremo rimedio, il filtro dell’imperitura freschezza acquistato a caro prezzo da una dea ammaliatrice. L’uccisione violenta delle due donne rivela gli esiti concomitanti del siero: Madeline ed Helen continuano a vivere, vincolate al reciproco sostegno e costrette a osservare il cedimento progressivo del corpo. Necessitano di continui interventi dall’esterno per conservarsi più a lungo, così che Ernest e il suo mestiere si prospettano come alleati ineluttabili, ripiego a cui ricorrere quando la bellezza viene scalfita. Il chirurgo riesce a schivare un simile destino, preferendo avviare un centro di studi sulla donna, la fondazione per alcolisti e un’agenzia matrimoniale. Al funerale le sue amanti sono manichini ormai sgretolati. 1993 Two-Fisted Tales (Incubi) episodio Yellow (Giallo) Regia: Robert Zemeckis; soggetto e sceneggiatura: Jim Thomas, John Thomas; fotografia: Don Burgess; montaggio: Michael Thau; musica: Alan Silvestri; interpreti: Kirk Douglas (generale Calthrob), Eric Douglas (tenente Calthrob), Dan Aykroyd (Milligan); produzione: William Teitler; produttori esecutivi: Richard Donner, David Giler, Walter Hill, Joel Silver, Robert Zemeckis; origine: USA; durata: 30’; distribuzione: Penta. Sinossi – Un frammento di vigore o di mancata audacia in famiglia. È il 1918 sul fronte francese; il tenente americano Calthrob, figlio di un generale devoto all’onore bellico, viene punito dal padre con la fucilazione dopo l’insuccesso di una missione speciale e la conseguente disfatta della divisione. I proiettili delle

armi (che dovevano essere caricate a salve) sono letali e il tenente perisce sotto i colpi delle odiate esecuzioni. 1994 Forrest Gump (Id.) Regia: Robert Zemeckis; soggetto: dall’omonimo romanzo di Winston Groom; sceneggiatura: Eric Roth; fotografia: Don Burgess; montaggio: Arthur Schmidt; scenografia: Rick Carter; costumi: Joanna Johnston; musica: Alan Silvestri; effetti: Industrial Light & Magic (ILM), Allen Hall; interpreti: Tom Hanks (Forrest Gump), Robin Wright Penn (Jenny Curran), Gary Sinise (Dan Taylor), Mykelti Williamson (Benjamin Buford “Bubba” Blue), Sally Field (madre di Forrest), Michael Conner Humphreys (Forrest bambino), Haley Joel Osment (Forrest Gump Jr.), Harold G. Herthum (dottore), Bob Penny (Crony), Margo Moorer (Louise), Siobhan Fallon (Dorothy Harris), Hanna Hall (Jenny Curran bambina), Kevin Mangan (padre di Jenny), Fay Genens (nonna di Jenny); produzione: Paramount Pictures; origine: USA; durata: 142’; distribuzione: Uip. 1997 Contact (Id.) Regia: Robert Zemeckis; soggetto: dall’omonimo romanzo di Carl Sagan, con la partecipazione di Ann Druyan; sceneggiatura: James V. Hart, Michael Goldenberg; fotografia: Don Burgess; montaggio: Arthur Schmidt; scenografia: Ed Verreaux; costumi: Joanna Johnston; musica: Alan Silvestri; effetti: Industrial Light & Magic (ILM), Ken Ralston; interpreti: Jodie Foster (Eleanor Arroway), Jena Malone (Eleanor bambina), David Morse (Ted Arroway), William Fichtner (Kent), Sami Chester (Vernon), Timothy McNeil (Davio), Matthew McConaughey (Palmer Joss), Tom Skerritt (David Drumlin), Max Martini (Willie), James Woods (Michael Kitz), Angela Bassett (Rachel Constantine), Rob Lowe (Richard Rank), Jake Busey (Joseph), John

Hurt (S.R. Hadden); produzione: Steve Starkey per Warner Bros. South Side Amusement Company, con la partecipazione di Steven J. Boyd, Ann Druyan, Rick Porras, Carl Sagan, Robert Zemeckis; produttori esecutivi: Joan Bradshaw, Lynda Obst; origine: USA; durata: 150’; distribuzione: Warner Bros. Sinossi – L’opportunità di comunicare mediante frequenze radiofoniche conquista Eleanor Arroway, astronoma che ha sempre creduto nella ricerca di intelligenza extraterrestre (progetto SETI). Ideazioni scientifiche aperte a nuove forme di vita vengono affiancate a concezioni teologiche (lo scrittore Palmer Joss), nel mezzo di interrogativi sulla civiltà umana. La studiosa contrasta l’impossibilità di conoscere a fondo il corso veritiero dell’esistenza, anche se deve lottare nell’immediato con la precarietà degli stanziamenti. Durante le rilevazioni di frequenze nel Nuovo Messico, la ricezione di segnali numerici codificati provenienti da Vega genera risonanze in tutto il pianeta: mobilitazione dei media, dibattito a livello istituzionale, frenesia e fanatismo. Gli impulsi contengono le istruzioni per costruire un dispositivo di trasporto spaziale in grado di ospitare un singolo passeggero. La scelta ricade sul dottor Drumlin, colui che, pur non avendo portato avanti il programma, tenta di affermarsi di fronte alla collettività. L’umanità rischia di non sopravvivere alle derivazioni tecnologiche: la distruzione dell’impianto da parte del terrorismo uccide Drumlin e rende attuabile la partenza di Ellie sul congegno di riserva fabbricato dagli americani in Giappone. Il percorso attraverso sentieri spazio-temporali guida Eleanor fino alla visione del padre (scomparso da tempo), ma un ritorno immediato della scienziata diffonde incertezza circa la realtà del viaggio. Emozioni e ricordi sono captati come segnali, favoriscono il contatto con totalità sconfinate. 2000 Cast Away (Id.)

Regia: Robert Zemeckis; soggetto e sceneggiatura: William Broyles Jr.; fotografia: Don Burgess; montaggio: Arthur Schmidt; scenografia: Rick Carter; costumi: Joanna Johnston; musica: Alan Silvestri; interpreti: Tom Hanks (Chuck Noland), Helen Hunt (Kelly Frears), Nick Searcy (Stan), Chris Noth (Jerry Lovett), Lari White (Bettina Peterson), Geoffrey Blake (Maynard Graham), Jenifer Lewis (Becca Twig), Paul Sanchez (Ramon), David Allen Brooks (Dick Peterson), Semion Sudarikov (Nicolai), Anne Bellamy (Anne Larson), Leonid Citer (Fyodor); produzione: 20th Century Fox, Dreamworks, Image Movers/Playtone; produttori esecutivi: Joan Bradshaw; origine: USA; durata: 144’; distribuzione: Uip. What Lies Beneath (Le verità nascoste) Regia: Robert Zemeckis; soggetto: Sarah Kernochan, Clark Gregg; sceneggiatura: Clark Gregg; fotografia: Don Burgess; montaggio: Arthur Schmidt; scenografia: Rick Carter, William James Teegarden; costumi: Susie DeSanto; musica: Alan Silvestri; interpreti: Harrison Ford (Dr. Norman Spencer), Michelle Pfeiffer (Claire Spencer), Diana Scarwid (Jody), Joe Morton (Dr. Drayton), James Remar (Warren Feur), Miranda Otto (Mary Feur), Amber Valletta (Madison Elizabeth Frank), Katharine Towne (Catlin Spencer), Victoria Bidewell (Beatrice), Eliott Goretsky (Teddy), Ray Baker (Dr. Stan Powell), Wendy Crewson (Elena), Sloane Shelton (signora Templeton), Tom Dahlgren (Dean Templeton); produzione: 20th Century Fox, Dreamworks, Image Movers; produttori esecutivi: Joan Bradshaw, Mark Johnson; origine: USA; durata: 130’; distribuzione: Fox. 2004 The Polar Express (Polar Express) Regia: Robert Zemeckis; soggetto: dal racconto omonimo di Chris Van Allsburg; sceneggiatura: Robert Zemeckis, William Broyles Jr.; fotografia: Don Burgess,

Robert Presley; montaggio: R. Orlando Duenas, Jeremiah O’Driscoll; scenografia: Rick Carter, Doug Chiang; costumi: Joanna Johnston; musica: Alan Silvestri; effetti: Sony Pictures Imageworks Inc., Robin A. Linn, Julian Sarmiento; interpreti: Tom Hanks (bambino protagonista/padre/conducente/mendicante/Scrooge/Ba bbo Natale), Leslie Harter Zemeckis (Sarah/madre), Nona Gaye (bambina protagonista), Peter Scolari (bambino solitario), Michael Jeter (Smokey/Steamer); produzione: Castle Rock Entertainment, Playtone, Image Movers, Golden Mean, Universal CGI, Warner Bros.; produttori esecutivi: Tom Hanks, Jack Rapke, Chris Van Allsburg; origine: USA; durata: 99’; distribuzione: Warner Bros. Sinossi – Il Polar Express è il treno diretto nel regno di Babbo Natale poco prima che questi inizi la distribuzione dei regali. Protagonista è un bambino scettico che sta perdendo ogni residuo di speranza nel mondo fiabesco che gli è stato raccontato e i compagni di viaggio raffigurano altre declinazioni delle eventuali espressioni associate al mondo infantile: Billy (che non ha mai vissuto la festa); il saputello attento alle regole; la bimba di colore animata da un puro spirito natalizio. Il cammino segue molteplici traversie, tra luoghi ghiacciati, macchinisti maldestri e apparizioni di mendicanti fantasmi sul tetto del convoglio. Nonostante ciò, la puntualità inseguita dal capotreno viene rispettata, consentendo alla spedizione di giungere al Polo Nord. La fiducia necessita spesso di simboli tangibili: il primo dono elargito è un campanello consegnato al piccolo eroe come segno del vero Natale. Ciascun passeggero del Polar Express riceve un insegnamento corrispondente alla natura soggettiva, messaggio educativo da custodire. La mattina seguente il tintinnio del regalo è una sorpresa che permane anche a distanza di anni.

2007 Beowulf (La leggenda di Beowulf) Regia: Robert Zemeckis; soggetto: dall’omonimo poema epico; sceneggiatura: Neil Gaiman, Roger Avary; fotografia: Robert Presley; montaggio: Jeremiah O’Driscoll; scenografia: Doug Chiang; costumi: Gabriella Pescucci; musica: Alan Silvestri; effetti: Gentle Giant Studios Inc., Sony Pictures, Imageworks Inc., W.M. Creations; interpreti: Ray Winstone (Beowulf), Angelina Jolie (madre di Grendel), Anthony Hopkins (Re Hrothgar), Robin Wright Penn (Regina Wealthow), Crispin Glover (Grendel), John Malkovich (Unferth), Alison Lohman (Ursula), Brendan Gleeson (Wiglaf), Chris Coppola (Olaf), Sebastian Roché (Wulfgar), Greg Ellis (Garmund); produzione: Warner Bros. Pictures, Image Movers, Shangri-La Entertainment, Paramount Pictures; produttori esecutivi: Roger Avary, Neil Gaiman, Roger Roberts, Martin Shafer; origine: USA; durata: 114’; distribuzione: Warner Bros. Sinossi – La dimora del sovrano danese Hrothgar viene attaccata dal ripugnante e feroce demone Grendel, inducendo il leggendario guerriero Beowulf (nipote del re dei Geati) a intervenire per intraprendere un glorioso combattimento ed evitare altre stragi. L’uccisione del mostro da parte del protagonista scatena l’ira vendicatrice della spietata madre di Grendel: in seguito all’incontro con la creatura ammaliante Beowulf ottiene da Hrothgar la guida del regno ma, costretto ad affrontare dopo alcuni anni un drago gigantesco, muore eroicamente durante il duello.

Bibliografia MONOGRAFIE E SAGGI DI CARATTERE GENERALE

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