Mauro Bolognini. Ediz. illustrata 8880334557, 9788880334552


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Italian Pages 206 [163] Year 2008

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Mauro Bolognini. Ediz. illustrata
 8880334557, 9788880334552

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Pier Maria Bocchi è critico cinematografico. Collabora con le riviste «Cineforum», «Blow Up», «Rifrazioni». Ha scritto per la Storia del cinema italiano della Scuola Nazionale di Cinema e per numerosi testi collettanei. Tra le sue pubblicazioni: Michael Mann (2002), Mondo Queer. Cinema e militanza gay (2005), Woody Allen. Quarant’anni di cinema (2010). È collaboratore del dizionario dei film Il Mereghetti. Dal 2007 fa parte del comitato di selezione del Torino Film Festival. Alberto Pezzotta (1965) è autore tra l’altro di La critica cinematografica, Patrick Tam: Dal cuore della New Wave, Tutto il cinema di Hong Kong, Regia Damiano Damiani, Martin Scorsese - Taxi Driver, Forme del melodramma. Oltre ai Castori su Mario Bava, Clint Eastwood e Abel Ferrara, è autore di Il western italiano. Scrive sul «Corriere della Sera», «Ciak», «Cineforum» e «Giudizio universale». Collabora alMereghetti, alla Storia del cinema mondiale di Brunetta e alla Storia del cinema italiano del CSC. Dal 2008 fa parte del comitato di selezione della Mostra del cinema di Venezia. Il Castoro Cinema n. 228 © 2008 Editrice Il Castoro srl viale Abruzzi 72, 20131 Milano [email protected] www.castoro-on-line.it Edizione digitale 2013 www.ridigito.it In copertina: La Viaccia ISBN: 978-88-8033-758-4

Pier Maria Bocchi, Alberto Pezzotta

Mauro Bolognini

MAURO BOLOGNINI

Cinema? Il cinema sarà l’evasione… Non so… Non lo so che cos’è il cinema. È raccontare delle cose che non saprei vivere, forse. È proprio la parte di noi che non vive e può prendere vita o nelle pagine di un libro o nel cinema. (1) Il lavoro Mi piace il lavoro, il carosello degli incontri, il fervore con cui si mettono insieme le cose. Mi piace poco dover sempre lavorare in fretta, chiudere in poche settimane quello che dovrebbe essere un lavoro di mesi, preoccuparmi di mille problemi economici e diplomatici che non dovrebbero riguardare il regista. Il cinema è assorbente, ma non mi distrugge la vita. Sono i produttori che me la distruggono. (2) Messaggi e critici

Non lavoro per la storia del cinema, lavoro per me. Se quello che viene fuori è buono o cattivo, lo vedremo poi. Non penso ai messaggi, alla critica di sinistra, ai cineclub. Ho bisogno di seguire questo metodo. Ognuno, del resto, adotta i criteri che gli sono più congeniali. Perciò quando mi chiedono: «Qual è il film della tua vita, quello che faresti carte false per realizzare?», dovrei rispondere: non lo so; oppure: tutti. Anche nel cinema, credo, è il tono che fa la canzone. Poi se qualcuno vorrà divertirsi a trovare delle costanti, dei fili rossi, dei motivi ricorrenti nel mio lavoro, potrà sbizzarrirsi. Io leggo molto volentieri le critiche serie sul mio lavoro, scopro in tutte qualcosa di me che non sapevo. (3) La libertà di cambiare Cerco i miei soggetti in biblioteca. Poi, una volta individuata la storia, cerco quasi sempre di attualizzarla. […] Anche se il libro continua ad avere una sua esistenza ben precisa, cinematograficamente deve essere plasmato alle rinnovate esigenze. In questo caso l’opera di uno sceneggiatore è troppo leggibile. Durante le riprese sento il bisogno di cambiare continuamente la sceneggiatura. Chiaramente non mi interessa lavorare con uno story-board – come si fa adesso – perché non voglio sapere quello che accadrà. So quello che devo fare ma non ho il bisogno di trascriverlo. Devo essere sempre in una condizione di estrema libertà. Devo inseguire le cose. (4) Romanzo o copione? Ho sempre pensato che si potesse scegliere. Non esiste nessuna pregiudiziale aprioristica verso niente e nessuno. È solo un concetto di libertà. Davanti a un testo mi sento più libero piuttosto che davanti a una sceneggiatura. Alla base esiste la possibilità di operare delle scelte che mi siano congeniali. Un qualcosa che riesco a cogliere nel racconto che mi corrisponda, e che in un certo qual modo sia una sorta di autobiografia. (4) Sceneggiatore o scrittore? La differenza che intercorre tra i due è molta: lo sceneggiatore possiede un sistema, delle regole, non si contraddice mai; lo scrittore, invece, non conosce regole, è più fresco, i suoi confini sono illimitati, i personaggi che descrive non sono descritti perfettamente. (4) Le fonti Ho sempre ubbidito a una cosa sola: me stesso. Mai alle tendenze. E la letteratura era l’unica fonte da cui avevo imparato tutto, tanto quanto dalla strada. Nella strada ho cercato ogni giorno immagini che mi aiutassero a trovare le radici più profonde di verità che appartenessero ai personaggi del libro scelto. C’è poi tanta differenza fra la letteratura e la vita? (5) Uomini e donne Qualsiasi storia, che può essere un dramma sociale o la storia di vent’anni di fascismo, mi interessa se al centro c’è un personaggio che posso vedere drammaticamente: mi interessa il dramma di un uomo o di una donna. Se è solo per fare un documentario o un comizio non mi interessa. Mi interessa se al centro c’è la storia umana […]. (1) Resistere La Resistenza è un fatto che deve nascere a scuola, nella prima elementare, a casa, deve stare con noi tutta la vita. Poi diventa naturale. la strumentalizzazione di qualsiasi cosa mi infastidisce. Però questa è la nostra Storia e con questa dobbiamo stare. La parte bella di noi. […] I documenti ci sono: basta una faccia, l’espressione di una persona in un cinegiornale: si vede la gente, c’è la fame,

la miseria, c’è tutto. Inutile prendere un attore, un’attrice. I documenti ci sono: bisogna vedere quelli. Certo, ci possono essere tante storie per il cinema, tragiche, terribili, di uomini o di donne, dentro la Resistenza, ma solo se c’è il dramma vero, di una persona… Insomma, tutto quello che è manifesto non mi piace, tutto quello che invece è il dramma di un uomo dentro la storia mi interessa. (1) Il direttore d’orchestra Le immagini sono musica. Il libretto è già stato scritto, l’idea, la tesi già esiste. Anche la sceneggiatura esiste, il passo seguente è la realizzazione del film. Il regista, in senso assoluto, è autore solo del tempo. È autore nel momento in cui mette a posto le varie “partiture” del film: lo sceneggiatore, lo scenografo, il costumista, l’operatore, e poi l’attore e tutti gli altri che collaborano al film. Quindi è autore in quanto “direttore d’orchestra” e “manovratore” del tempo. Sempre parafrasando il linguaggio musicale, il regista deve scegliere il “tempo” adatto: allegro, andante, adagio, allegretto, e così via… (4) L’occhio e l’inquadratura Non posso pensare a inquadrature vuote… Per me l’inquadratura è importantissima, anche se non la ricerco, come mi è stato spesso rimproverato. Io giro molto stando alla macchina da presa. Prima provo la scena, poi vado in macchina e la vedo per la prima volta. Sto sulla faccia di un’attrice, aspetto che succeda qualcosa. Non sempre succede, ma quando capita è meraviglioso. Sono un ladro, rubo. (6) La forma Sarebbe il fallimento totale se pensassi alla forma per sé. Infatti non ci penso mai. (7) L’immagine Non posso bendarmi gli occhi. Perché non dovrei guardare? Io guardo. Credo in ciò che racconto, ma credo anche nell’immagine. Non che ci pensi, ma so che è importante; il cinema è anche immagine. (7) Il futuro Credo di avere raccontato più storie di donne che di uomini, mi sembra… non lo so, perché ho poca memoria: quando ho finito un film lo dimentico, perché altrimenti non riuscirei a farne un altro. Mi piace andare avanti, non mi piace restare a guardare. Quando mi parlano dei miei film passati non ascolto, perché so che voglio fare ancora delle cose. Moravia era un maestro in questo, era il più giovane di tutti, guardava sempre avanti: bisogna guardare avanti, non si può stare a pensare a quello che si è fatto. (1) Il gene dei luoghi In quanto al mio lavoro, sono stato accusato di guardare troppo i Macchiaioli. È ovvio che i Macchiaioli li ho sempre visti, dalla mia nascita. Sono vissuto a Pistoia, ho studiato a Firenze. Questi pittori li ho dentro di me, fanno parte delle cose quotidiane. Non so neanche in cosa consista la loro influenza su di me. I Macchiaioli esprimevano nei loro quadri la vita quotidiana; le opere che ho visto appese alle pareti rappresentavano le cose che vedevo a casa mia, o a casa degli altri, o nelle strade, o negli ospedali. (8) Rossellini

Il mio mito, quello che cerco di studiare, è Rossellini, e solo Rossellini. Per me Rossellini era un genio, non era il neorealismo, era… il Padreterno. Mi ha chiesto di girare una scena di Vanina Vanini [1961] perché non stava bene. «Ma non posso», gli ho detto. E lui: «Ti dico che devi. E poi ti insegno una cosa per cui mi sarai grato». Era lo zoom. (6) Pasolini Scelsi Pasolini quando nessuno lo voleva, né produttori, né critici, né registi. E lo imposi. Scelsi anche, naturalmente, la maniera che mi era più congeniale per rappresentarlo, senza tradire il mio amore per le immagini, anche perché ho sempre creduto che è più “rivoluzionaria” una rosa ben dipinta che un brutto manifesto politico, come diceva Picasso. (9) Pasolini e la regina Di Pier Paolo ho un ricordo tenerissimo: una notte si lavorava a una sceneggiatura, discutevamo. Pioveva, lo accompagnai alla fermata dell’autobus e abbiamo visto una fila lunghissima di macchine: c’era la regina d’Inghilterra a Roma. Queste automobili si sono fermate e dalla prima è scesa la regina con qualcuno che le teneva l’ombrello. È salita per la gradinata e ce la siamo trovata davanti. E Pier Paolo era lì: si sono guardati; lei ha sentito lo sguardo di Pasolini. Credo che abbia guardato più i suoi occhi che la scalinata. È stato un momento incredibile, perché non c’entravano niente l’uno con l’altro. Abbiamo fatto una risata, poi, e siamo partiti. (1) Il carattere Io tendo a nascondermi, a star dietro le cose, ad avere dei segreti. In superficie, invece, la mia personalità è facile, comprensibile e accettabile. Ai produttori basta questo. (2) Il vuoto Non abbiamo più un Paese, non abbiamo più un Cinema. A Hollywood hanno l’americanità da esportare ed è un ingrediente importantissimo nei loro film. Noi invece non sappiamo nemmeno in che società viviamo: come facciamo a trovare la fiducia di raccontare e produrre qualcosa di nostro, competitivo sul mercato internazionale? (10) I giovani Ho sempre pensato al futuro e in particolare ai giovani, ai quali credo di lasciare un documento della nostra epoca. Noi, volere o no, siamo figli dell’Ottocento. I giovani del Duemila saranno figli del Novecento. Per questo siamo la loro Storia. Le rassegne devono servire ad aiutare i giovani ad approfondire i problemi che noi abbiamo affrontato prima di loro, a capire di più il perché questo mondo non ci piaceva, come non piacerà ai giovani del Duemila il loro mondo. (5) Le dichiarazioni sono tratte da: 1. Memoria, mito, storia. La parola ai registi. 37 interviste, Torino, Regione Piemonte/Archivio Nazionale Cinematografo della Resistenza, 1994. 2. Intervista di Tullio Kezich, «Settimo giorno», 59, 1959. 3. Intervista di Tullio Kezich, «Settimo giorno», 3, 1961. 4. Intervista del 1990, in Mauro Bolognini. Il fascino della forma, ANCCI, 1996. 5. Antonio Frintino (a cura di), Metello - Una storia italiana, Pistoia, Edizioni Brigata del Leoncino - Confartigianato, 1998. 6. Mauro Bolognini regista per caso, documentario-intervista di Donatella Baglivi, trasmesso su CineClassics nel 1998. 7. Jean A. Gili, Le cinéma italien, Paris, 10/18, 1978.

8. Antonio Frintino e Pier Marco De Santi (a cura di), Mauro Bolognini. Cinema tra letteratura, pittura e musica. Restauro del film “La Viaccia”, Pistoia, Edizioni Brigata del Leoncino, 1996. 9. Berenice [Jolena Baldini], Bolognini. Percorsi della memoria, Pistoia, Comune di Pistoia/Cassa di risparmio di Pistoia e Pescia, 1993. 10. Mauro Bolognini, Film di qualità senza truffare il pubblico, «La Stampa», 09/08/1977.

Un regista rimosso Che cosa ha da dire un regista come Mauro Bolognini al cinema contemporaneo, alla cultura dell’Italia di oggi? Regista letterato, esteta, calligrafo, estenuato, decadente: la vulgata critica solitamente l’ha sistemato così. E da subito. Nel 1962, recensendo Senilità su «Cinema nuovo», Adelio Ferrero attribuisce a Bolognini «la scaltra e sorvegliata abilità del descrittore di gusto, del raffinato collezionista di pezzi d’antiquariato, del morbido evocatore di atmosfere spente e desolate». Senilità: bello ma senz’anima, si intitola la recensione di Morando Morandini su «Stasera», in cui si legge: «Dove descrive o tratteggia, Bolognini è artista; ma quando narra, si limita a decorare. Tutti, o quasi, i particolari sono esatti, ma manca la sostanza». Questa griglia interpretativa è stata riproposta da gran parte della critica nei decenni successivi. Recensendo il suo ultimo film per le sale, La villa del venerdì, nel 1991 Tullio Kezich abbozza un bilancio della sua poetica, in termini rispettosi ma pur sempre limitativi: Bolognini ha «inseguito e descritto per quarant’anni… un’idea del bello, un’utopia del bello… sempre abilmente confondendo realtà e

finzione, concretezza e illusione, autorialità e manierismo». È davvero il bello ciò che ha inseguito Bolognini? Se fosse così, se fossimo convinti di questo, un Castoro su Bolognini ce lo saremmo risparmiati. Non era nostra intenzione spolverare le ragnatele da un’opera dimenticata e sostanzialmente innocua, per riproporla come prelibatezza archeologica in un’epoca dove le rivalutazioni non si negano a nessuno. Anche se, stranamente, ne beneficiano i mestieranti di serie C più che i protagonisti del cinema medio che riempivano le sale. E non da ora: lo notava Gian Piero Brunetta nel lontano 1977, nel primo (e forse unico) saggio di ampio respiro che vuole ricostruire l’autonomia espressiva e l’importanza dell’opera di Bolognini, trascurata «non solo per ignoranza, ma per una vera e propria opzione metodologica» che porta a privilegiare le aree marginali (o i Grandi Autori) rispetto al cinema medio. Il primo assunto che vuole dimostrare questo libro è che Mauro Bolognini non è un pallido esteta più attento ai soprammobili che a ciò che dicono i personaggi, un ectoplasma crepuscolare chiuso in una biblioteca di buone letture magari un po’ morbose. Non è neanche un regista cinefilo, anche se è uno dei registi più bravi del cinema italiano. Bravi in senso oggettivo: per la capacità di muovere la macchina da presa e dirigere gli attori, di usare il bianco e nero o il colore. Dal punto di vista tecnico, Bolognini vale quanto Germi, Lattuada, Visconti: e non solo perché spesso usa gli stessi collaboratori. Come Visconti, è un uomo di cultura: non solo ama e conosce la letteratura e la musica, ma è anche un architetto che riprende le città (Roma, Trieste, Lucca, Firenze…) attento ai loro valori scenografici, artistici, urbanistici, sociali. Rispetto a Visconti è meno interessato all’ideologia, non si confronta direttamente con il marxismo, anche se è uno spirito libero, un borghese naturaliter di sinistra che sa comprendere le ragioni degli oppressi. E, diversamente da Visconti, è anche un artigiano vecchia maniera, uno che sa cavare il massimo da budget risicati, che ruba le riprese per strada e non lo fa notare sullo schermo. Le definizioni in negativo, tuttavia, non bastano, e non avvicinano ancora al nocciolo del cinema di Bolognini, a ciò che ai nostri occhi lo rende insostituibile. In quarantasei titoli (trenta film, dodici episodi, quattro film televisivi di varie durate), Bolognini attraversa quasi quarant’anni di cinema e di società italiana. Inizia quando il neorealismo sta cambiando faccia e l’Italia sta uscendo dalla miseria post-bellica, finisce quando la televisione ha sostituito la realtà. In questo arco di tempo non solo lavora con un’invidiabile continuità, ma tenta anche qualcosa che ai suoi colleghi più celebrati è riuscito solo in parte: tenere un occhio al passato e uno al presente – ma vedendo nel passato le radici del presente, e parlando del presente per proiettarsi nel futuro. Nel 1962 Bolognini gira Senilità, nel 1963 La corruzione. I critici dell’epoca non sono certo stupidi, ma lavorano con il bilancino e sono specialisti nello spaccare il capello in quattro: e non si accorgono di quanto questi due film così diversi siano spietati, mostrino impietosamente come la società reprima l’individuo e come l’individuo sia lieto di farsi manipolare. Dieci anni dopo, con film come Libera, amore mio… e L’eredità Ferramonti, il discorso diventa ancora più esacerbato, ma rimbalza su una critica che non accetta da Bolognini discorsi politici (forse perché non sarebbero all’altezza di un “illustratore”), e che nei suoi film vede solo le carrozze – per poi lamentarsene. L’unico altro regista italiano che abbia tentato qualcosa di simile – seguire il presente e insieme riflettere sistematicamente sul passato – è Luchino Visconti, idolo della critica marxista tanto quanto Bolognini ne è stato disprezzato. Ma se c’è un elemento che differenzia Bolognini da Visconti, è che il primo «in realtà odia il passato», come scriveva lucidamente Moravia a proposito di Bubù, nel 1971. E aggiungeva: «Forse, inconsciamente, ce ne fornisce un ritratto repellente. Nessuno vorrebbe vivere nel passato di Bolognini… è un tempo di meschinità, di angustia, di ristrettezza, di mortificazione e di vergogna… È un passato che mortifica e fa soffrire, e per il quale non si prova nostalgia». Pochi hanno voluto ascoltare quello che dicevano questi film, al di là della confezione accurata ma niente affatto leziosa. Fin da Marisa la civetta, Giovani mariti e “Arrangiatevi”, Bolognini parla di

cose scomode. Essenzialmente, parla di sesso: di ruoli sessuali, consumi sessuali, miti sessuali, condizionamenti sociali che creano traumi sessuali. La critica italiana, dominata dal super ego marxista prima e dall’es cinefilo dopo, non è mai riuscita a fare i conti con questi temi con serenità e lucidità. E non è un caso che tra i pochissimi critici d’antan che si entusiasmano per Bolognini vi sia Pietro Bianchi: un borghese laico, apolitico e sensibile all’erotismo. «Sinuoso, portato alla discrezione, al chiaroscuro, Bolognini non ha trovato difficoltà nel raccontare vicende che sono piuttosto lontane dai temi soliti del nostro cinema. Il suo istinto gli ha detto che non esistono vicende sconvenienti e altre che non lo sono. Ha risolto delicati problemi con un tatto, un’acutezza, una precisione espressiva che hanno stupito i nostri censori ma li hanno costretti a non calar fendenti sulla celluloide… Il regista li ha messi con le spalle al muro: o proibire il film o lasciarlo, press’a poco, come il regista l’aveva presentato», scriveva Bianchi nel 1961, cauto ma preciso, in un ritratto di Bolognini contenuto nel libro edito da Cappelli che raccoglie la sceneggiatura di La Viaccia, diverse interviste e altri materiali. Di fatto Bolognini non rende le cose facili, non solo ai censori ma anche ai critici. Di fronte al sesso non ammicca, non consola, non stuzzica, non ironizza. Mostra e analizza, con una radicalità e un’acutezza che rimane ignorata. Bolognini è anche un regista rimosso, cancellato. Se n’era accorto anche lui, molto presto. Agostino, uno dei suoi film più espliciti nell’affrontare il tema della sessualità, è stato sottoposto a una censura ufficiosa che l’ha quasi fatto scomparire: dal 1963 si è rivisto pochissimo, e mai in una forma accettabile. L’opera di Bolognini è costellata di censure non sempre gravi, se misurate in metri di pellicola, ma costanti e solo a volte riparate. Molti dei suoi film più importanti sono diventati invisibili per vari motivi: oltre ad Agostino, ci riferiamo a La giornata balorda, a L’assoluto naturale e agli episodi di La donna è una cosa meravigliosa. In tempi recenti, Bolognini ha goduto di convegni e di restauri (che solo nel caso eccellente di Il bell’Antonio hanno poi prodotto un dvd), cose che non si negano a nessuno, ormai. Così come nessuno ha mai contestato che Bolognini abbia diritto a una nicchia nella storia del cinema italiano, in compagnia di registi “medi” come Damiani, Pietrangeli, Vancini, Zurlini. L’alternativa alla liquidazione frettolosa non deve essere però una rivalutazione o sopravvalutazione retorica o di circostanza. Bolognini è un regista insolito e unico, per ciò di cui parla. Ma non è un bizzarro, o un marginale avulso dal contesto: per capire il suo cinema occorre tenere presente la fondamentale funzione di raccordo che il cinema italiano medio svolgeva tra alto e basso, non solo divulgando, ma anche creando e anticipando, in un dialogo continuo. Prendiamo il rapporto di Bolognini con Pasolini, per esempio. Divulgatore manierista dell’opera pasolinana, esteta delle borgate, diluitore del realismo e della rabbia di Ragazzi di vita: se ne sono lette di tutti i colori. Ma tralasciamo per il momento temi e ideologie, e concentriamoci sullo stile che, come si sa, è questione di morale. Oggi che i dvd sono disponibili, l’incipit di Accattone (1961, fot. 1), visto subito dopo quello di La notte brava (1952, fot. 2), non è più così sconvolgente. Sarà che il montatore è lo stesso, Nino Baragli. Rimane il fatto che Bolognini non volge a maniera uno stile cinematografico che ancora non esiste: piuttosto, lo forgia. E se siamo abituati a identificare l’immagine di Pasolini per la “frontalità”, e quella di Bolognini per gli «scorci, i valori prospettici, la profondità di campo», come scrive Brunetta nel saggio citato, le due immagini che riproduciamo mescolano imprevedibilmente le carte. Qual è la più pasoliniana? Occorre allora riscrivere un capitolo della storia del cinema? Basterebbe aggiungere una nota, e avere meno certezze e pregiudizi. Poi, certo, Bolognini è un regista che, a differenza dei Grandi Autori, spesso è venuto a patti con il mercato, non ha tenuto a fare di ogni film la propria opera, anche se si è concesso il lusso di follie del tutto personali (L’assoluto naturale su tutte). E anche nei film più sciatti e buttati via (e non ne ha girati pochi, specie a fine carriera), ha sempre tenuto a inserire la notazione scomoda, il granello che impedisce di funzionare perfettamente alla macchina commerciale. Non si tratta di indulgere ancora una volta a una mitologia autorialista. Piuttosto, si tratta di riconoscere la

mano, il tocco, il tic, l’ossessione. Il tocco non fa l’autore, ma può spiegare come funziona il cinema medio: a vari livelli, a volte in modo strabico o schizofrenico, comunque articolato e complesso.

FOT 1

FOT 2

Bolognini non si è mai proposto come innovatore e fondatore di correnti, ha rilasciato poche interviste significative, non ha elaborato riflessioni teoriche o dichiarazioni di poetica. Ma si è trasformato di continuo, non si è mai ripiegato diventando la maniera di se stesso, se non negli anni Ottanta, quando muore il cinema italiano. In varie occasioni è stato un innovatore geniale, e non se ne è accorto nessuno: vedi La notte brava e La giornata balorda. Spesso è stato un interprete originale di momenti di mutamento e di crisi, del cinema e della società: da Gli innamorati e Giovani mariti a Gran bollito. Spesso ha amato fare il regista letterario, da La Viaccia a Metello, da Per le antiche scale a L’eredità Ferramonti: e in questo caso è stato scambiato per un illustratore, o meglio, si è preferito liquidarlo come tale, per renderlo innocuo. Oggi che certe ideologie non sono più in vigore, rivedere i suoi film dovrebbe essere più semplice. Non sempre è così, perché sono subentrati altri pregiudizi, altre incrostazioni. Vorremmo mostrare quante sorprese offre il cinema di Bolognini, quanto ci sia ancora da lavorare sul cinema italiano. (a.p.) Da Pistoia a Cinecittà Mauro Bolognini nasce il 28 giugno 1922 a Pistoia. Il padre è un commerciante, la madre è casalinga. Ha due fratelli, uno dei quali, Manolo, diventerà prima organizzatore e poi produttore cinematografico, e in più occasioni sarà al suo fianco. «Ho cominciato a pensare a fare cinema in chiesa, da ragazzino, quando mi portavano alla messa». Così racconta Bolognini alla giornalista Jolena Baldini, che gli ha dedicato un introvabile librointervista edito dal Comune di Pistoia nel 1993. Ma il giovane Mauro è costretto dai genitori a iscriversi alla facoltà di Medicina. Il primo giorno gli mostrano un cadavere, e lui scappa per iscriversi al corso di Architettura dell’Accademia delle Belle Arti di Firenze. Il papà è un antifascista; e Mauro nasce antifascista. A diciassette anni Silvano Fedi, il suo compagno di banco di liceo classico, è già arrestato per la sua fede avversa al regime: morirà giovanissimo, e al suo nome intitoleranno una strada di Pistoia. È proprio questo amico che appassiona Mauro (inadatto per partire per la Resistenza) alle letture classiche: Dante, Stendhal, Rimbaud, Baudelaire, Leopardi. A Firenze, tra i compagni di corso, vi sono anche Franco Zeffirelli e Piero Tosi. La facoltà

fiorentina è un po’ fuori dal tempo, racconta Bolognini a Jean A. Gili in un’intervista rimasta unica per l’impegno profuso. Ma ciò che studia in seguito gli si rivela molto utile. «Avevamo persino materie che non esistono nelle facoltà delle altre città italiane, per esempio le materie decorative, il nudo, il disegno dal vero… Avevamo un esame importante che consisteva nel disegnare gli alberi, i visi, i corpi. Questa osservazione attenta ha molti rapporti con i film che faccio». Sul finire degli anni Quaranta Bolognini, Zeffirelli e Tosi si recano a Roma per finire Architettura. I primi due fanno il viaggio insieme, in jeep: «Allora non c’era l’autostrada, le strade erano piene di curve e, curva dopo curva, senza che ce ne accorgessimo, volarono via disegni, libri. Insomma arrivammo a Roma e c’era rimasta solo una copia della rivista Domus». L’evento è in qualche modo un presagio, ma per il momento Bolognini non se ne rende conto, lieto com’è di avere definitivamente abbandonato la sua città natale, verso cui prova sentimenti di insofferenza. A Roma, Bolognini e gli amici Zeffirelli e Tosi si iscrivono all’Accademia di Ottone Rosai. Si stabiliscono alla pensione Amerigo in Piazza del Popolo: tra i clienti, Antonio Cederna e Gino Carlo Sensani. È il 1947. L’incontro con Sensani, uno dei più grandi costumisti del teatro e del cinema sonoro italiani, è per tutti illuminante: Bolognini ne trae il gusto dell’esattezza filologica, e la lezione di trasformare i personaggi in vere e proprie “creature”, e non “manichini”. I tre studenti sono ammessi come “uditori” al suo ultimo corso di costume al Centro Sperimentale di Cinematografia. È così che Bolognini, per la prima volta, entra in contatto diretto con il mondo del cinema. Zeffirelli prende la sua strada, che lo porta a essere aiuto regista di Visconti; Tosi diventa a poco a poco uno dei più apprezzati e richiesti costumisti di film; e Bolognini abbandona l’università per andare sui set. Il suo primo impiego è come assistente volontario in Anni difficili di Luigi Zampa (1948), un film dalla lavorazione travagliata tratto dal racconto Il vecchio con gli stivali di Vitaliano Brancati. Bolognini va a sue spese in Sicilia: incrocia Luchino Visconti, che sta girando La terra trema (con Zeffirelli come aiuto regista, per l’appunto), e conosce Brancati, di cui porterà sullo schermo Il bell’Antonio, nel 1960. Malgrado la timidezza, Bolognini conquista la fiducia del regista di L’onorevole Angelina e in Campane a martello (1949) viene promosso ad aiuto regista. L’impegno è importante: produce Carlo Ponti, le star sono Yvonne Sanson e Gina Lollobrigida, e il film si gira in doppia versione, italiana e inglese. Come aiuto regista di Zampa, Bolognini lavora in almeno altri sei film, nei quali non sempre viene accreditato. Il livello varia vistosamente: se Anni difficili è una riflessione sul fascismo e sul trasformismo degli italiani, Campane a martello è un esempio di sottoneorealismo epigonale e ricattatorio; Signori, in carrozza! (1951, con Aldo Fabrizi e Peppino De Filippo) è farsa sulla bigamia, Processo alla città (1952, su soggetto di Francesco Rosi ed Ettore Giannini) è una vigorosa denuncia anticamorristica. Capire che cosa Bolognini tragga da questo apprendistato fa parte delle speculazioni, e comunque presupporrebbe una riflessione seria su un regista, Luigi Zampa, ancora poco indagato, e sistematicamente vilipeso sia da destra sia da sinistra. Del cinema di Zampa, Bolognini non riprende certo i difetti più tipici: il populismo anti-ideologico, il bozzettismo, il patetismo, la faciloneria stilistica. Ma è indubbio che un film in costume (e di fattura molto più accurata della media) come Processo alla città lasci il segno sul futuro autore di Fatti di gente perbene. E come aiuto regista, Bolognini conosce molte star che poi dirigerà nei suoi film. Nel 1952 Bolognini si fa le ossa anche in Francia, dove lavora in due coproduzioni: L’ora della verità (La minute de verité) di Jean Delannoy, con Michèle Morgan, Jean Gabin e Walter Chari (sostituito da Daniel Gélin nell’edizione francese) e Naso di cuoio (Nez de cuir) di Yves Allégret, con Jean Marais. Lì impara che “il regista non è uno che grida”, come a Cinecittà, ma qualcuno che cerca la fiducia e la complicità dell’attore. Il 1953 è un anno di trapasso. Bolognini viene stranamente retrocesso ad assistente alla regia in una produzione minore come Ho scelto l’amore di Mario Zampi, una farsa anticomunista con Renato

Rascel. Ma conosce anche Ermanno Donati e Luigi Carpentieri dell’Athena Cinematografica, i produttori che lo faranno esordire come regista. Il suo primo lavoro per loro è la collaborazione alla sceneggiatura di Canzone appassionata di Giorgio C. Simonelli: gli altri accreditati sono Zampa, Gino De Sanctis e Jacques Rémy; gli ultimi due saranno gli sceneggiatori di La vena d’oro, il secondo film da regista di Bolognini. Canzone appassionata è un dramma ambientato in un commissariato (di poco in anticipo sul filone semiserio lanciato dal successivo Accadde al commissariato [1954], ancora di Simonelli), dove si cerca il movente dell’omicidio commesso da una star dell’avanspettacolo. Le persone interrogate danno ognuna la loro versione, e attraverso diversi flashback si fa luce su una storia di passione e legami di sangue proibiti. Il film non vale niente per la messa in scena, ma la sceneggiatura presenta alcuni motivi di curiosità. Il gioco dei diversi punti di vista sembra tener conto del successo internazionale di Rashomon (Id., di Akira Kurosawa, Leone d’Oro al Festival di Venezia nel 1951), e il progressivo svelamento della soluzione implica un paio di sorprese dal sapore vagamente incestuoso, molto ardite per il tempo e per un simile prodotto popolare di consumo: è facile intravedere interessi bologniniani in nuce. È proprio in Canzone appassionata che Bolognini trova una delle star del suo esordio dietro la macchina presa, Ci troviamo in galleria. Si tratta di Nilla Pizzi, che aveva trionfato al primo Festival di Sanremo (1951) con Grazie dei fior; nel film di Simonelli è la protagonista “omicida” e ovviamente canterina. Ci troviamo in galleria Nel 1953 Ermanno Donati e Luigi Carpentieri propongono al giovane Bolognini un esordio di non grande impegno: un film-varietà come se ne facevano tanti allora, su misura per i due protagonisti. La già citata Nilla Pizzi non fa che cantare dall’inizio alla fine; tra le canzoni, accanto all’ovvia Grazie dei fior e alla romantica Cherie, spiccano pezzi del repertorio romano (Nanni - Una gita a li castelli), napoletano (Quanno staje cu mmè, ’O ciucciariello) e internazionale (Quizás, quizás, quizás). Al suo fianco c’è Carlo Dapporto, che dagli anni Trenta è sulla cresta dell’onda nel mondo dell’avanspettacolo. Tra gli sceneggiatori del film spicca Lucio Fulci, cui si devono ammiccamenti come il fatto di chiamare “Trio Bava” (con riferimento burlesco all’amico Mario) un complessino di finti negri. Roma. In un punto di ritrovo (ispirato alla galleria Colonna) il capocomico Ignazio Panizza, in arte Gardenio, assolda alcuni artisti di varietà disoccupati per una tournée in provincia. All’esordio, Gardenio viene preso a pomodori in faccia, e solo la soubrette Marisa salva lo spettacolo. Una sera il pubblico reclama sul palcoscenico la barista del posto, Caterina Lari, che ha una splendida voce. La donna accetta la proposta di Gardenio e si unisce alla compagnia, con un cognome spagnolo, subendo l’ostilità di Marisa. Il potente impresario Tittoni, appena sente Caterina, ne capisce il valore. E Gardenio si spaccia come suo fidanzato, obbligandola in pratica a sposarlo. Convocata alla radio, Caterina diventa presto una star. Come contentino, Gardenio partecipa in ruoli minimi a spot e trasmissioni radiofoniche, e viene umiliato in un programma televisivo sperimentale, dove viene preso a torte in faccia. Alla fine si ribella e fa fare una figuraccia in diretta al commendator Buzzin, produttore di un pestifero sciroppo, il Cipol, che deve pubblicizzare. Stanco dei troppi impegni di Caterina e del proprio ruolo gregario, Gardenio decide di separarsi da lei. Caterina, generosamente, finanzia Tittoni perché procuri a Gardenio una serata al Sistina. Questi, ignaro, ottiene per la prima volta successo, anche senza Caterina. E si riconcilia con lei, chiamandola sul palco per cantare una canzone fuori programma.

La prima delle quarantadue opere cinematografiche di Bolognini manifesta un impegno artistico ridotto. Forse l’esordiente regista andava cauto e cercava solo di fare esperienza, forse non riteneva il caso di infiorettare una materia bisognosa solo di una messa in scena semplice e funzionale.

Quindi pochi carrelli, e macchina da presa fissa che segue impassibile il dipanarsi delle scenette: il tutto negli sgargianti colori cartolina del Ferraniacolor, sperimentati l’anno prima da Totò a colori di Steno. Ci troviamo in galleria comunque è uno strano oggetto: il modulo del film-varietà (inaugurato da I pompieri di Viggiù di Mario Mattòli, 1949) è rispettato dalla convenzionalità della vicenda, che troppo spesso si interrompe per far spazio alle canzoni della Pizzi. Ma nel dipingere il mondo dei guitti morti di fame, Bolognini introduce tocchi per nulla compiacenti e anzi stridenti con la patinatura del film-canzone: «Apportammo le debite modifiche [al soggetto originale], lo svisammo sull’avanspettacolo in generale», dichiara nell’Avventurosa storia del cinema italiano. Bolognini tiene sicuramente presenti i recenti film sul mondo dello spettacolo: Luci del varietà di Lattuada e Fellini (1950) e Vita da cani di Steno e Monicelli (1950). E si aggiorna ai tempi che stanno cambiando, intravedendo una nuova fase del varietà: Marisa cerca di imparare La vie en rose, e l’impresario dichiara: «Oggi in una compagnia di rivista ci devono essere dodici negri, una soubrette svedese e un coreografo americano». Più che al neorealismo, però, Bolognini guarda a una frivolezza alla Achille Campanile, e approda al grottesco anticipando la crudeltà di Basta guardarla di Luciano Salce (1970) e di Polvere di stelle di Alberto Sordi (1973). Lo sceneggiatore di quest’ultimo, Ruggero Maccari, avrebbe collaborato non accreditato a Ci troviamo in galleria, secondo una testimonianza dello stesso Bolognini a Jolena Baldini. Fin dall’inizio, introdotto dall’immancabile voce over del cinema italiano degli anni Cinquanta, il tono è beffardo: mentre si dice che nella galleria «si raccolgono i magnati della borsa e ferve la vita politica», noi vediamo romanacci che discutono sguaiati, con manifesti del Pci sullo sfondo (e le falci e martello, all’epoca, erano più temute delle donne scosciate). Alla menzione di «artisti, soubrettine, comici, macchiettisti, ventriloqui, soprani», appare una vera e propria galleria di freaks, compreso un bambino che fuma. Coerentemente, la “bomba della comicità” Gardenio non solo non fa affatto ridere, con battute affettate e modesti doppi sensi, ma è un perdente patetico, borioso, vanitoso, egoista e incapace di imparare dagli errori. Che Dapporto si cali con tanta naturalezza in un personaggio così sgradevole è quasi inquietante, e sfiora l’autolesionismo. Le sequenze in cui Gardenio viene umiliato alla radio e in televisione (fot. 3) testimoniano del precoce interesse del cinema italiano per il nuovo medium, che guarda caso viene subito sconsacrato. La televisione non ha alcuna aura, viene vista con scetticismo popolano, e umilia e sfrutta chi vi partecipa. Gardenio però ha una possibilità di rivalsa, mostrando in diretta che il re è nudo e che lo sponsor, il digestivo Cipol, in realtà è una schifezza. Il borghese Bolognini preferisce il mondo basso del varietà: ballerina sudate e con le ascelle non depilate, cani di ogni genere, ma anche il luogo di un rapporto spontaneo e paritetico con il pubblico, che grida «Vogliamo le donne!». A questo proposito, Bolognini registra senza falsi pudori e con distacco sociologico il motto del maschio medio, e lo inserisce ecumenicamente in un mondo dove la confusione sessuale è grande, tra travestimenti e personaggi effeminati come quello interpretato da Fiorenzo Fiorentini.

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Il discorso sul cinema entra curiosamente in questo film dove si parla di tanti altri media. Ed è evocato due volte nella figura del suo massimo artista, Charles Chaplin. Prima è Luci della ribalta (Limelight, 1952) a essere citato nei dialoghi, con procedimento insolito per l’epoca, quando Sep ricorda a Gardeno un metodo infallibile per mandare in scena una ballerina riluttante: darle uno schiaffone (ovviamente, applicato da Gardenio su Marisa, il metodo non si rivela efficace). Nello spettacolo finale, Gardenio viene finalmente applaudito in un numero in cui, atteggiandosi a Monsieur Verdoux (Id., 1947, fot. 4), canta una canzoncina ispirata a un umorismo macabro. Nella realtà era un vecchio cavallo di battaglia di Dapporto, e si era già visto nel citato I pompieri di Viggiù. Con tutto ciò, non si vuole sopravvalutare un’operina, ricordata dai più per una delle prime apparizioni consistenti di Sophia Loren (fot. 5): capelli rosso fuoco, fa vedere le gambe e danza anche con ballerini neri. Probabilmente Ci troviamo in galleria non c’entra molto con il cinema di Bolognini: ma dimostra un’intelligenza vigile e ironica anche dietro la confezione da prodotto commerciale. Ed è capace di punzecchiare il perbenismo borghese, come quando Alberto Sordi telefona a casa di Gardenio facendo la voce di Mario Pio, uno dei suoi personaggi radiofonici, e lo fa infuriare chiamandolo “signor Lari”, con il cognome della moglie. Guai a mettere in dubbio l’auctoritas del maschio, nel 1953.

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La vena d’oro È due anni dopo, con La vena d’oro, che Bolognini ha davvero la possibilità di gettare le fondamenta, seppur ancora con un po’ d’incertezza, di una visione del cinema che di lì a poco la farà da padrona. Il film è tratto dalla commedia omonima di Guglielmo Zorzi (che ne firmò anche da regista la trasposizione cinematografica del 1928, ma il film pare andato perduto), messa in scena per la prima volta nel 1919. I due produttori del film Ermanno Donati e Luigi Carpentieri vi si erano già avvicinati durante le riprese di La nemica di Giorgio Bianchi (1952), sempre prodotto dalla loro Athena Cinematografica (come peraltro Ci troviamo in galleria). La sceneggiatura, secondo le parole di Donati e di Carpentieri riportate nel press-book dell’epoca, è passata sotto tre revisioni, perché «[…] ci siamo accorti che l’argomento, pur appartenendo al genere commerciale presentava molte difficoltà investendo delicati problemi psicologici». Infine gli sceneggiatori Gino De Sanctis, Jacques Rémy e lo stesso Bolognini sono giunti «a una stesura che ci ha pienamente soddisfatti, in

quanto mantiene gli elementi determinanti del successo teatrale, contenendo nello stesso tempo notevoli aspetti cinematografici», ribadiscono ancora Donati e Carpentieri, che già con la seconda stesura del copione riescono tra l’altro a far cambiare idea al Centro Cattolico Cinematografico: dall’etichetta Ar (cioè adulti con riserva, a un passo dallo “sconsigliato”), affibbiata alla prima versione della sceneggiatura, si passa alla più accettabile A (adulti); «l’aver eliminato le “riserve” stava a significare che il film, pur continuando a essere considerato inadatto ai giovani, non richiedeva per gli adulti la “piena maturità morale”», scrive Luigi Cipriani. Quello di Bolognini è un immaginario di intimità proibite svelate con rigore, che il più delle volte fa i conti con la collettività e, in maniera spesso dirompente, con il sociale. Se si considera che La vena d’oro è un prodotto (distribuito per giunta da una major, la Rank) costruito per la ventinovenne Märta Torén, star svedese all’epoca molto in voga anche in Italia (e qui alla sua terz’ultima prova: morirà a soli 31 anni nel 1957, per leucemia), si può capire quanto Bolognini sia ancora intimorito da un mercato esigente, che egli conosce ma soltanto in quanto “aiuto” (soprattutto di Luigi Zampa), e non ancora come autore in grado di imporsi: lo confermano le parole sbrigative che liquidano l’opera come “sentimentale”, rilasciate a Gili. Eppure La vena d’oro affrontareoro, che si aggancia direttamente ad Agostino e Gran bollito (molto più che a Un bellissimo novembre) nell’affrontare determinate dinamiche famigliari, e che sembra addirittura prefigurarli, tradisce immediatamente uno sguardo che soltanto negli anni Sessanta, dopo le commedie e i drammi di borgata, avrebbe veramente trovato forma compiuta. Primi del Novecento, nella campagna romana. Il liceale sedicenne Corrado si appassiona agli scavi archeologici diretti dall’ingegner Manfredi: terminati gli studi, il giovane vuole diventare archeologo. Il suo entusiasmo è tale che la sera rincasa sempre tardi: la madre vedova, Maria, e la vecchia governante Teresa lo aspettano ogni volta ansiose; inoltre, per la sua passione trascura perfino la coetanea Carla, di lui innamorata; e partecipa malvolentieri alle partite di cricket organizzate dalla matura cugina, la contessa Giulia Carena, che tra l’altro riserva al giovane un’attenzione morbosa. Un giorno Corrado pensa di invitare per colazione Manfredi, per farlo conoscere alla madre, che si innamorerà di lui, ricambiata. Corrado si fa via via più geloso dell’uomo, pretendendo la madre tutta per sé; mentre Maria da parte sua non sa se dar corso al suo nuovo amore o abbandonarlo per ritrovare il figlio. Un viaggio per fare shopping a Roma di Manfredi e Maria è per Corrado la goccia che fa traboccare il vaso: nemmeno le premure di Carla, delusa e triste, riusciranno a distrarlo da un’inquietudine sempre più scontrosa, che gli fa perfino tralasciare la passione per l’archeologia. La madre intanto organizza con la complicità di Giulia il veglione di capodanno a casa sua: Maria balla con Manfredi, Carla vorrebbe ballare con Corrado, Giulia lo vorrebbe per il bacio di mezzanotte, Carla anche: Corrado osserva ombroso la madre e l’amato uniti, finché il ragazzo, ai primi minuti del nuovo anno, scappa in solitudine. La madre e Teresa sono preoccupate, al punto che Maria e Manfredi sono costretti a dirsi addio: soltanto così la madre potrà riavere il figlio. È Carla a ritrovarlo: riesce a dargli il bacio del buon anno, e a rasserenarlo. Corrado torna a casa, riabbraccia la madre piena di gioia, che gli comunica l’imminente partenza di Manfredi, e la sua intenzione di vendere la villa per trasferirsi a Milano dalla sorella. Durante gli imballaggi, Maria confessa di non riuscire a dimenticare Manfredi. Corrado si infuria facendola piangere, e Teresa lo sgrida con parole severe e dure. In uno slancio inaspettato di generosità, Corrado si reca alla zona archeologica dove incontra Manfredi, pregandolo di tornare dalla madre per non vederla più soffrire. Corrado è finalmente cresciuto.

Basandosi su un testo apparentemente datato e fuori moda (Alberto Albertazzi, recensendo il film per «Intermezzo», prende atto della cura dell’insieme ma si chiede «se valesse la pena riportare sullo schermo una trama che, pur se ambientata come la commedia in un’epoca ormai piuttosto lontana, appare fatalmente superata e di non grande interesse»), Bolognini, che sembra rifarsi al melodramma esasperato hollywoodiano coevo o di poco precedente nel declinare la progressiva disperazione di Maria come madre e come amante, comincia proprio qui a chiarire la sua visione dei

rapporti tra consanguinei. Questi si trovano costretti da un egoismo ancora troppo interiorizzato per poter dipendere dall’esterno e dagli altri: la società e le classi, in La vena d’oro, sono universi a sé stanti, cercano di incidere (Giulia su Corrado) ma restano fuori da un turbinio di sentimenti e di “immoralità” che è ancora tutto dentro i corpi dei personaggi. Sono ancora lontane, insomma, le relazioni indissolubili tra l’io e il mondo di Agostino, Un bellissimo novembre e Gran bollito. Ma a questi La vena d’oro rimanda esplicitamente non tanto per le effusioni incestuose tra Maria e Corrado, comunque evidentissime e assai arrischiate per l’epoca (l’inizio, con la scena a letto, mentre il figlio si lava la faccia con l’acqua del catino che la madre gli porge, è indicativo e straordinariamente simbolico, fot. 6), piuttosto per un individualismo che non riesce ad aprirsi all’altro, e che soltanto il finale conciliante ripara un poco. Corrado non è meno morboso di Maria: entrambi si abbracciano a vicenda in un legame che non può che essere deleterio, per sé e per le persone circostanti (fot. 7). Corrado, inoltre, anticipa per molti versi l’incapacità di amare comune a numerosi personaggi del cinema di Bolognini; il suo è un blocco adolescenziale lontano dall’impotenza di Il bell’Antonio, ma vicino non solo per età alla pulsione innominata e incompresa di Agostino, e anche ai freni inibitori ed essenzialmente dubbiosi dello Stefano di La corruzione. Corrado porta già con sé e dentro di sé le inquietudini amorose del maschio di Bolognini, persona sottomessa al potere femminile e incapace di lucidità: è un uomo in fieri che soltanto accondiscendendo alla passione della madre per Manfredi (concessione ben più importante nell’universo dell’autore rispetto a quella di accettare finalmente le avance di Carla) riesce a districare sentimenti senza nome e senza volto.

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Dopo Ci troviamo in galleria, La vena d’oro è il primo film che permette a Bolognini di praticare in qualche modo la sua laurea in Architettura ed elaborare quella che nel corso degli anni verrà riconosciuta (più spesso che no con punte di denigrazione calligrafica) come eleganza di messinscena, e che anche i detrattori non hanno mai potuto sottovalutare: alle scenografie di Alberto Boccianti e ai costumi di Maria De Matteis è già riservata quell’attenzione maniacale che troverà il suo apice con i drammi d’epoca degli anni Sessanta e Settanta. Con la loro imponenza, questi elementi fanno da contrasto ai sentimenti e alle passioni trattenute dei personaggi, che vivono compromessi all’interno di una struttura in cui anche la musica di Carlo Rustichelli si unisce a comporre una partitura ove le scene madri e la recitazione sofferta sono forse ancora un po’ troppo di maniera (fot. 8): la Torén, il diciassettenne Mario Girotti (poi famoso protagonista del western all’italiana con il nome di Terence Hill) e Bianca Maria Ferrari nei panni di Carla, in particolare, non lesinano dal caricare teatralmente l’interpretazione. Ma il mélo “vietato” alla TennesseeWilliams (fot. 9) apre vere e proprie voragini nel cinema italiano del tempo, già in pieno neorealismo rosa. La vena d’oro è un George Stevens senza il contesto, un crogiuolo di sensazioni proibite e di non detto che solo in rarissime occasioni (la partita di cricket, il veglione di capodanno) offre la visione sul parterre poco invitante della società dentro la quale la storia accade: per la maggior parte, è come se la vicenda avvenisse negli animi di Maria e Corrado, una lotta letteralmente intestina che dolorosamente porta entrambi alla maturazione. La vena d’oro fruga nei cuori dei protagonisti lasciandosene forse troppo illanguidire, ma Bolognini è già capace di giostrare i sentimenti dai segni opposti con un’efficacia anche polifonica (sono magistrali gli incastri di sguardi e di desideri inespressi durante il veglione, fot. 10) che pare scalpitare per raffinarsi ulteriormente. Al suo primo film in costume, genere in cui il regista avrebbe trovato bacino ideale da cui attingere per poter rappresentare le sue idee sulle cose, Mauro Bolognini mette il dito nella piaga del nucleo domestico, ma si ferma lì, non apre le finestre sulla contemporaneità: bisognerà aspettare sei anni, con La Viaccia, per ritornare di nuovo al passato e raccontare così il presente.

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Gli innamorati Alla fine del 1954 Bolognini si trova accreditato come regista e cosceneggiatore di I cavalieri della regina, un adattamento dei Tre moschettieri di Dumas con Domenico Modugno nella parte di Athos. Il regista effettivo, non accreditato su alcuni manifesti, pare sia un americano, tale Joseph Lerner. Bolognini è un supervisore, un aiuto, un regista della seconda unità, un prestanome? Le coproduzioni dell’epoca prevedono tutti questi casi. In seguito l’interessato ha negato ogni coinvolgimento diretto («Non ho neanche partecipato alla lavorazione. Ho aiutato nella scelta degli attori e dei luoghi»), liberandoci per il momento dall’onere di esaminare un film divenuto irreperibile. Si tratta, in ogni caso, dell’ultimo détour prima della sua affermazione al centro del cinema italiano con Gli innamorati, che esce nel 1955, la vigilia di Natale. Il produttore è un giovanissimo indipendente, Alessandro Iacovoni: «un ragazzetto ventenne», racconta Bolognini nell’Awenturosa storia fofiana, che gli si presenta con un braccio al collo frutto di una caduta dal motorino e una decina di milioni raggranellati assieme all’amico Tonino Cervi. Quest’ultimo porta nel film suo padre Gino, che si ritaglia una bella caratterizzazione, per quanto non sia del tutto a suo agio con il dialetto romanesco. Nato sull’onda di un entusiasmo giovanile, il film vince un meritato Nastro d’argento alla sceneggiatura, si difende al botteghino, e l’anno dopo è in concorso a Cannes. Se Ci troviamo in galleria si inserisce in un filone di scarse ambizioni (anche se commercialmente remunerativo), e La vena d’oro è un’opera segretamente personale e con pochi legami con il cinema del suo tempo, Gli innamorati si innesta in un genere che è al centro sia del successo popolare, sia del dibattito critico: il “neorealismo rosa”. Il termine dovrebbe comparire per la prima volta in un polemico saggio di Tullio Kezich apparso su «Letteratura» (13-14, gennaio-aprile 1955), forse sulla scia di una recensione di Giuseppe Marotta a Le ragazze di San Frediano (ora in Questo buffo cinema), dove si parla di «realismo idillico, roseo». Già nel 1953 il successo di Pane, amore e fantasia di Comencini era stato letto dalla critica impegnata come una pietra tombale del neorealismo. A ben guardare, tuttavia, il neorealismo era sempre stato in affanno. Il suo canone era sempre stato molto ristretto, e l’idea stessa non solo di una poetica unitaria, ma anche di un filone, era stata presto messa in crisi da quasi tutti i film di quell’area: dal “disimpegno” di Sotto il sole di Roma di Renato Castellani (1948) alla svolta spiritualista di Stromboli, terra di Dio di Roberto Rossellini (1949), dalla commistione di generi hollywoodiani di Riso amaro di Giuseppe De Santis (1948) al bozzettismo corale di Una domenica d’agosto di Luciano Emmer (1950); e non va dimenticato il cinema di un regista come Luigi Zampa che, a partire da L’onorevole Angelina (1947), del neorealismo prende attori e ambientazioni, e ne propone una vulgata percepita come artisticamente meno qualificante. Il successo straordinario del film di Comencini istituzionalizza e rende serializzabili moduli di confezione e di racconto già diffusi, e di cui è facile trovare gli antecedenti (vedi Due soldi di speranza di Castellani, 1951): non rinuncia al populismo, ma ammorbidisce le punte più aspre, sia in senso ideologico, sia in senso estetico, e va più esplicitamente verso la commedia tradizionale. Film come quelli di Dino Risi – da Viale della speranza, 1953, all’epocale Poveri ma belli, 1956 – e

Racconti romani di Gianni Franciolini (enorme successo del 1955) sostituiscono la città alla campagna, e puntano su formule codificate: verità dell’ambientazione, della lingua e delle facce, populismo folkloristico che nasconde una morale piccolo borghese, sostanziale assenza della tragedia. È un cinema proverbialmente romano, anche se Zurlini, nel 1954, con Le ragazze di San Frediano propone un “cinema di quartiere” nella Firenze del romanziere Vasco Pratolini, con una punta di spregiudicatezza in più. Bolognini ha sempre dichiarato la piena responsabilità autoriale di Gli innamorati, e ha detto di avere scelto il soggetto: ne sono autori due giovani sceneggiatori semiesordienti, Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa, entrambi destinati a una lunga carriera anche registica, e l’anno dopo subito coinvolti, guarda caso, in Poveri ma belli. Il risultato è qualcosa di sottilmente diverso rispetto al genere che è appena esploso, e di cui pure prende le star, da Franco Interlenghi ad Antonella Lualdi al più effimero Sergio Raimondi. Per motivare questa differenza, forse bisogna tenere conto di un altro modello non dichiarato ma evidente: Cronache di poveri amanti di Carlo Lizzani (1954), tratto da un romanzo di Pratolini. A suo modo “degenere” e scorretto, il film di Lizzani declina il neorealismo rosa in chiave popolana e libertaria. L’ambientazione (Firenze), l’epoca (il 1925) e le passioni politiche (l’antifascismo) sono ovviamente diverse dalla Roma contemporanea di Bolognini: ma rimane l’idea di un microcosmo urbano che alimenta vincoli fortissimi e umanamente veri, opponendosi al mondo esterno. Roma. Nando va prendere l’amico Luciano all’uscita di prigione, a Trastevere, e lo porta in moto a piazza di Montevecchio, nel quartiere antico e popolare di Ponte. Nando è un meccanico, per arrotondare fa l’attore in fotoromanzi da quattro soldi. Ha una relazione distratta con una collega attrice, Alba (che gli rinfaccia di essere più interessato alle motociclette), e bisticcia sempre con la pantalonaia Marisa. Quest’ultima lavora davanti alla sua officina, è innamorata di lui ma non lo ammette. La sua moto è in comproprietà con due vicini: Franco, che ha un chiosco da bibitaro, e Otello, barbiere. Entrambi sono innamorati – con diverse speranze – di Adriana, bella e fiera sorella di Nando, che lavora con Otello. Ma Franco non è insensibile al fascino di Ines, moglie inquieta dell’oste Cesare, che una volta bacia nel retro bottega mentre il marito gioca a biliardo. Ines e Cesare sono ai ferri corti, lei non si sente desiderata e la differenza d’età pesa. Dopo una domenica pomeriggio in balera, Franco si apparta con Ines vicino alla ferrovia, ma rinuncia a portare a termine la storia con lei. Intanto Adriana si fidanza con Otello, ma solo per ingelosire Franco. Ines, amareggiata e frustrata, torna a casa, sta per fare le valigie, ma la reazione dignitosa del marito («Sono vecchio, ho sbagliato a sposarti») la fa rimanere con lui. Luciano, che si sente un po’ emarginato, ruba la moto dei tre ma viene scoperto e picchiato. Adriana sta andando in autobus al concorso per parrucchieri per fare da modella a Otello, ma Franco la segue in moto, la fa scendere simulando un incidente, la convince ad andare con lui al mare e le dichiara il suo amore. Tornando a Roma, sfascia la moto. Quando Nando viene a saperlo è doppiamente furibondo, dato che ritiene Franco un fannullone; lo vuole menare, ma Franco si rifiuta di scendere in piazza, e lo schernisce dalla finestra. Al che Adriana esce dalla bottega di Otello con i capelli orrendamente tagliati, e proclama di fronte a tutto il vicinato sceso in piazza il diritto di scegliere l’uomo che vuole amare. Franco finalmente scende. Nando sfoga la sua rabbia sull’incolpevole Marisa, ed è dopo averle dato uno schiaffo che capisce di essere innamorato di lei. Otello abbozza. Franco e Adriana si avviano in piazza Navona; Nando l’ha accettato per futuro cognato, anche se lo considera un “fijo de na migno…”, come gli dice il ragazzetto Capoccione.

Il film è aperto, chiuso e contrappuntato da una voce narrante che elabora in senso letterario gli eventi, mantenendo però una sguardo interno, senza paternalismo. Si tratta di un soggetto collettivo, di un “noi” che ricorda quello di Cronache di povere amanti, e che fin dalle prime parole («Non era la prima volta che qualcuno di noi finiva in galera») tende a stabilire una distanza dallo spettatore borghese. Anche in Racconti romani di Franciolini i protagonisti vanno in galera, ma la voce narrante cala dall’alto, è esterna e moralista. Qui il punto di vista resta interno, anche nelle parole

finali che danno voce a un senso di appartenenza e di condivisione, conferendo un significato più profondo al titolo: «Ognuno di noi era innamorato degli altri». Gli “innamorati”, quindi, non sono solo la Lualdi e Interlenghi, Raimondi e la Moriconi: tutti sono innamorati di tutti, sono una grande famiglia che ignora l’ordine borghese, e che è delimitata anche topograficamente in un quartiere, se non in una piazzetta (oggi purtroppo rovinata dai neobarbari che schiamazzano fino a notte fonda davanti a un bar alla moda). Poi, certo, la critica di sinistra dell’epoca insorgeva perché la visione della vita espressa nel film è quietista e rinunciataria: «Vivere nel nostro quartiere significava accontentarsi di poco: imparare il mestiere, ingrandire l’officina, essere il re del biliardo, avere una ragazza, e qualche volta anche due». Parole riprese da Adriana quando consola il sor Annibale (l’ottimo Gigi Reder) respinto da Marisa: «I nostri ragazzi sono tutti qua. E così se una deve pensare a un marito, lo pensa tra uno di questi. Non sappiamo ancora chi è, ma sarà sempre uno di loro». È un mondo chiuso, autosufficiente, impreparato all’esterno e agli altri da sé; un universo che sembra non avere un cordone ombelicale con il resto del mondo. Un microcosmo che forse fa un po’ paura, ed è comunque legato a solide tradizioni da Italia contadina: dal punto di vista sessuale, infatti, è sostanzialmente puritano. L’adulterio rimane solo una tentazione; e anche la libertà sessuale espressa alla fine da Adriana nel liberatorio monologo in piazza («Ho fatto l’amore come tutte le ragazze di questo quartiere») è da prendersi in senso metaforico. Ma è anche un mondo dove le donne sanno ottenere rispetto e fare le proprie scelte in libertà, al di là del controllo dei fratelli e degli altri uomini. I padri, come in tanti altri film di Bolognini, sembrano assenti. E gli uomini, dietro la prepotenza manesca, spesso nascondono una sostanziale pusillanimità o immaturità. L’attrice Alba arriva a mettere in dubbio l’integrità eterosessuale del freddo Nando («Prova a fargli abbracciare una motocicletta, forse si riscalderà… Io non lo so, ma si direbbe che non è un uomo», dice al regista del fotoromanzo). E se Nando arriva alla fine a una maturazione, rendendosi conto dell’amore di Marisa, l’amico Otello rimane irrisolto e sostanzialmente asessuato.

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Quello di Gli innamorati è comunque un mondo arcaico, che sa resistere al fascino dei mass media: si veda con quale indifferenza Nando reciti dei “fumetti”, dando origine a buffi contrasti tra costumi improbabili, rovine antiche e traffico della metropoli (fot. 11). E se l’episodio dei fotoromanzi rimanda ovviamente a Lo sceicco bianco di Federico Fellini (1952), altrove emergono caratteri prepasoliniani, fatto di cui Bolognini era conscio e anche orgoglioso. Si vedano certe ambientazioni periferiche come quelle che fanno da fondale al mancato adulterio (fot. 12), o certe facce da balera (fot. 13). Un personaggio come Luciano, l’emarginato del gruppo, l’introverso («Non era abbastanza sbruffone e lo lasciavamo più solo, forse per questo aveva maturato qualcosa che avrebbe potuto perderlo»), sembra già anticipare i “ragazzi di vita” pasoliniani, come fa notare Bruno Di Marino nella Storia del cinema italiano del Csc; ed è escluso, come gli altri, da quell’unica normalizzazione possibile che è il matrimonio.

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Bolognini e i suoi sceneggiatori amano questo mondo premoderno, della cui scomparsa imminente probabilmente sono consapevoli. La voce narrante temporalmente indeterminata e la musica quasi sempre lirica e nostalgica di Carlo Rustichelli (i titoli di testa scorrono su una melodia da organetto di Barberia) convergono nel conferire un alone di nostalgia struggente a una realtà che per altri versi è pienamente contemporanea. In questo modo Bolognini evita i poli del dibattito sulla fine del neorealismo. E anzi, un anno dopo Senso di Visconti, realizza, senza alcuna pretesa teorica, il proprio “superamento”, per riprendere il termine di Guido Aristarco. Lo può fare perché neorealista non lo era mai stato – tanto più che veniva dall’apprendistato con Zampa. E diventa subito “realista”, con un approccio che è robustamente filologico, e anche in questo prepasoliniano: lo mostrano la precisione topografica e soprattutto il linguaggio, che per l’epoca è triviale, sgrammaticato e gergale («A fa’ l’amore a Adriana gliel’ho imparato io», «Ti ha mandato in bianco»), ma è anche scopertamente poetico e sentimentale.

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Dopo lo stile alimentare di Ci troviamo in galleria e il barocchismo tardo calligrafico (ma aperto sul futuro) di La vena d’oro, Bolognini definisce lo stile che lo accompagnerà fino alla fine del decennio. Suoi elementi base sono il bianco e nero – nitido e all’occorrenza chiaroscurato –, la profondità di campo con azioni contrastanti nei piani diversi (si veda Interlenghi che si immalinconisce quando sente Otello che dice a Nando di essersi fidanzato con Adriana, fot. 14), e la mobilità della macchina da presa combinata alla predilezione per il piano-sequenza. Bolognini dà spazio agli attori per sviluppare le emozioni all’interno della scena, ma non inchioda la macchina da presa frontalmente: se ne sta spesso da parte, segue i personaggi, si adatta ai loro spazi scoprendoli man mano. Si veda l’elegantissimo piano-sequenza della prima lite tra Ines e Cesare: Cosetta Greco è davanti a uno specchio, poi entra Gino Cervi, lei esce di campo lasciandolo solo (ma comparendo per un attimo nello specchio), alla fine lui la raggiunge ritrovandola davanti a un altro specchio (fot. 15). Allo stesso modo l’uso di ambienti reali sa sempre valorizzare gli spostamenti dei personaggi, gli andirivieni tra le tre botteghe che si affacciano sul “campiello” di piazza Montevecchio: il garage di Nando, la sartoria, il barbiere. Tutto sembra naturale ed è perfettamente funzionale, senza sembrare teatrale. E ha la freschezza della realtà catturata.

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Bolognini fa convivere l’elaborazione stilistica e la cura dell’inquadratura con una fluidità ariosa. All’epoca, nella tirchieria che contraddistingueva la critica, al massimo venne preso per quello che oggi si definirebbe un film “carino”. Con pertinenza Sergio Toffetti, nella citata Storia del cinema italiano, ha parlato per questo e i film immediatamente successivi del regista di «Nouvelle vague all’italiana»: retrodatando una definizione che Lino Micciché assegnava agli esordi dei primi anni Sessanta.

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Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo Nell’era dei film corali e dei bozzetti postneorealisti, è diffusa una rappresentazione blandamente ironica e in realtà bonaria delle forze dell’ordine. Dopo il successo di Un giorno in pretura di Steno (1954), Accadde al commissariato di Giorgio C. Simonelli (1954) e Accadde al penitenziario di Giorgio Bianchi (1955), era inevitabile un film sui vigili urbani. Produce il prolifico Luigi Rovere, allora titolare della Imperial, che aveva al suo attivo anche Lo sceicco bianco di Fellini; sarà anche

il produttore del ben diverso Agostino (1962). Per Bolognini è un ripiegamento su un film su commissione: ma al botteghino è il sedicesimo film italiano della stagione, e gli incassi sono doppi rispetto a ciascuno dei due film precedenti. Roma: nella banda dei vigili urbani, diretta dal maresciallo, suonano i personaggi del film. La guardia Alberto è servile con i superiori e inflessibile con pedoni e automobilisti (multerà anche suore e pompieri); si atteggia a conoscitore della Francia, prende lezioni da un’improbabile Madame Jolanda, ma viene bocciato all’esame che gli consentirebbe un passaggio di grado. La guardia scelta Giuseppe sogna di comporre l’inno della banda, e si vanta di avere uno zio monsignore (in realtà sua zia ne è solo la perpetua). Il brigadiere Pietro ha una figlia, Maria, che sta per sposare il pugile Sandro, e rischia di rimanere solo con il piccolo Tonino. Sandro vince l’incontro con un pugile dei vigili e sposa Maria con la benedizione del padre. Alberto, malgrado il richiamo del maresciallo, fa troppe contravvenzioni e viene trasferito a Milano, dove dirige il traffico in piazza del Duomo in preda al «magun», come dice lui. Il collega Paolo l’ha sostituito come timpanista al concerto della banda, ma è sempre fuori tempo.

Il film non è sgradevole, ma è tra i meno convinti di Bolognini, che pure si concede il cammeo di un passante con un pallone in mano (fot. 16), che ride senza motivo attirando l’ira della guardia Alberto. La sceneggiatura di Ruggero Maccari, Ettore Scola e Nicola Manzari (su soggetto una tantum di un direttore di produzione, Paolo Frascà) allinea una serie di bozzetti, senza preoccuparsi troppo di far interagire i personaggi; e fa convergere il racconto verso due episodi (il match e il matrimonio di Maria) incapaci di costruire suspense o curiosità. Con un canovaccio così povero di eventi, Bolognini corre ai ripari e cerca di trasformare il film in un’opera buffa. Arrangiamenti rossiniani per banda aprono e chiudono il film, e la colonna sonora di Rustichelli contrappunta tutte le scene, concepite come assoli e duetti dei vari attori. Le esibizioni e i pezzi di bravura di questi ultimi sono di fatto il maggiore interesse del film, malgrado qualche lungaggine. L’ormai celebre Sordi, nell’anno di Lo scapolo di Antonio Pierangeli (1955) e Un eroe dei nostri tempi di Mario Monicelli (1955), cesella un personaggio che avrà lunga vita, e di cui si vedrà una diretta emanazione in Il vigile di Luigi Zampa (1961). È diventato un classico del suo repertorio la sequenza dell’esame di francese, in cui non sa tradurre la frase “Il giardino di mia zia è pieno di fiori”: “zia” prima viene parafrasato come «la soeur de ma mère», e poi tradotto in un improbabile “ziiii”. Ma anche Fabrizi e Peppino hanno dei momenti splendidi. Il primo è rassegnato, fatalista, romanissimo, pacioso anche se portato all’esasperazione da un bambino burino: questi, interpretato dall’habitué Giancarlo Zarfati (vedi Gli innamorati e Marisa la civetta), viaggia in Lambretta con padre e madre, e lo insulta con una parola che comincia per esse, prima che il padre gli tappi la bocca. Quanto a Peppino, è petulante, nevrotico, patetico, pronto alle scuse più assurde (notevole il momento in cui si scopre che usa le medagliette del monsignore al posto delle monetine per l’ascensore). Più in ombra rimangono Manfredi e Cervi; a quest’ultimo viene affidato un elogio della tolleranza e del “chiudere un occhio”, in un film che si avvale della collaborazione del corpo dei vigili urbani e che più volte mette in scena le proteste di chi viene multato.

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Ben nascosti dietro un tessuto convenzionale, non mancano comunque spunti nelle corde di Bolognini. Non è indifferente la descrizione di un piccolo mondo dove avere uno zio monsignore può essere titolo di vanto, dove chi esercita un minimo di potere si gonfia di orgoglio, e dove raccomandazioni e italici compromessi sono all’ordine del giorno. Nel profondo Bolognini è inorridito dall’ambiente angusto, conformista e vischioso in cui si muovono i suoi personaggi. E si vendica trasformando Peppino in una sissy ben mascherata dietro la divisa. Ha il San Sebastiano del Sodoma appeso sopra il comodino; e quando Fabrizi gli dice di abbracciarlo perché vuole un metro di paragone per le misure del vestito da sposa di sua figlia, reagisce con troppo trasporto (fot. 17). Alla fine è pienamente femminilizzato, anche nei vestiti e nelle mossette (fot. 18). La malizia è più consapevole che nelle gag tradizionali dell’uomo en travesti. Ed è coerente in un film dove non ci sono madri, e anche il pater familias vedovo Fabrizi viene maternizzato.

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Marisa la civetta Carlo Ponti conosce Bolognini da quando era stato aiuto di Zampa per Campane a martello (1949) e Cuori senza frontiere (1950). Nel 1957, ormai slegato da De Laurentiis, Ponti coproduce Marisa la civetta con la Produciones Cinematograficas Balcazar madrilena: il che spiega la presenza di ben quattro attori iberici nel cast, a partire da Francisco Rabal. Fin dal titolo si vuole sfruttare il richiamo di Marisa Allasio, la bionda attrice popolarissima dopo il successo di Poveri ma belli di Dino Risi (1956), dove recitava la parte di una ragazza intraprendente ma sotto sotto piccolo borghese; in precedenza era stata la protagonista in cerca di indipendenza di Ragazze d’oggi di Luigi Zampa (1955), sempre prodotto da Ponti. L’operazione appare derivativa, e dal film di Risi provengono altri due attori (Renato Salvatori ed Ettore Manni) e varie situazioni. Non per questo Bolognini rinuncia a un tocco personale, ma allora non se ne accorge nessuno. Gli incassi di Marisa la civetta sono buoni ma non eccezionali: un terzo del primo maggior successo della stagione, il sequel Belle ma povere di Risi; e fa meno anche di un altro film con la Allasio dello stesso anno, Susanna tutta panna di Steno. Il film è importante anche perché segna l’incontro di Bolognini con due sceneggiatori con cui collaborerà in molte altre occasioni: Pier Paolo Pasolini e la scrittrice toscana Lucia Drudi Demby, qui accreditata come Tatina Demby, moglie dello scrittore afroamericano William Demby. Pasolini

si stava avvicinando al cinema da tre anni, con collaborazioni che in seguito fu il primo a bollare come alimentari. Di Marisa la civetta scrisse: «È passato per un filmetto volgare mentre, invece, nella sua esilità, era un elegante prodotto epigono del neorealismo» («Vie Nuove», 12/09/1959). Pasolini si riferiva probabilmente alla stroncatura di Marotta su «L’Europeo», che esordiva: «Questo film comico italiano è l’onomastico, il genetliaco e il matrimonio del cattivo gusto e della platealità». Per tutto l’articolo Marotta si soffermava sui modi escogitati per evidenziare le forme della Allasio, e accusava Bolognini di traumi da mancato allattamento; in realtà manifestava solo le sue turbe personali, mentre sferrava un meschino attacco trasversale al più noto degli sceneggiatori del film, che come poeta aveva appena vinto il premio Viareggio. Anche gli studiosi pasoliniani non si sono mai soffermati su Marisa la civetta; solo Stefania Parigi ha rilevato il possibile tocco del futuro regista in certe ambientazioni: lo spogliatoio di una squadretta di calcio, le infime balere di periferia frequentate dai soldatini in libera uscita. Nell’area del neorealismo epigonale, è comunque un esito da non sottovalutare. E il realismo pasoliniano dà spessore all’eleganza di Bolognini: è il primo capitolo di una collaborazione che ha dato sempre splendidi risultati. La giovane Marisa, orfana di un ferroviere, vende bibite e gelati sulla banchina della stazione di Civitavecchia. Tutti i maschi del luogo sono innamorati di lei, che accetta disinvolta i loro pesanti apprezzamenti senza peraltro concedere nulla. Appena incontra Angelo, marinaio che sta per imbarcarsi sul traghetto che va a Palermo, è colpo di fulmine. I due si baciano sugli spalti della fortezza, ma subito dopo la sua partenza, Marisa va a stuzzicare Luccicotto, calciatore che sta per fare il servizio di leva. Il nuovo capostazione, il rigido Antonio, è scandalizzato dalle scollature di Marisa e vorrebbe mandarla a un corso da telegrafista, ma non è insensibile al suo fascino. Un altro spasimante è il serio Luigi, vicecapostazione. Quando torna Angelo, l’amore per lui rinasce: e i due si scambiano confidenze nascosti tra le merci accatastate vicino al porto. Ma poi Marisa si mostra gelosa di Luisa, la spocchiosa fidanzata di Antonio, che per conto suo la tratta con disprezzo. E dopo una serata passata a ballare con Luccicotto, Marisa decide di colpo di fidanzarsi con Luigi. Quando Angelo li sorprende a baciarsi, per vendetta innaffia la ragazza con un idrante. Marisa allora capisce di essere innamorata di Angelo, e lascia Luigi. Ma quando il ragazzino Fumetto le dice di avere visto Angelo con un’altra donna (una ballerina d’avanspettacolo di passaggio in città), va a Roma alla ricerca di Luccicotto. Vari militari in libera uscita la accompagnano tra le balere della domenica pomeriggio: ma quando trova Luccicotto cambia idea, e non gli dà neanche un bacio. Sul treno del ritorno Antonio, che ha lasciato la fidanzata, confessa invano il suo amore a Marisa. Quando a Civitavecchia Marisa vede Angelo che saluta la ballerina in partenza, lo innaffia con l’idrante. Per tutta risposta lui la convince – o forse la costringe – a fare le valigie e a partire con lui. L’ultima inquadratura è dedicata a Fumetto e a una sua piccola amica che commentano la partenza di Marisa.

Più che guardare da epigono il neorealismo, Marisa la civetta sembra risalire al realismo poetico francese, o almeno alla sua vulgata postbellica di René Clement e Yves Allégret. Il populismo del neorealismo rosa e straccione viene infatti superato da ambizioni liriche più scoperte. Nel dialogo tra Marisa e Angelo sdraiati in cima a un cumulo di sacchi, con il porto sullo sfondo (fot. 19), emergono una sensualità, una malinconia e un gusto della libertà che non hanno nulla a che spartire con le baruffe della “Bersagliera” o dei bellimbusti di piazza Navona. L’ambientazione in una cittadina portuale, in un luogo di passaggio come una stazione, non è indifferente: i personaggi sono sempre in movimento, alla ricerca di una possibile indipendenza, e la macchina da presa li segue in lunghi carrelli, spesso in spazi aperti, tanto fluidi quando ariosi. Stilisticamente, Bolognini non ha nulla da invidiare a un Germi, anche se eccede lievemente le necessità di un intreccio che spesso pare scorrere nelle convenzioni della commedia dell’epoca.

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In realtà vi sono varie piccole infrazioni alle regole del genere, trasgressioni al conformismo che all’epoca facevano scattare la “E” di “Escluso” nelle schede del Centro Cattolico Cinematografico. Marisa civetta con ancora più possibili fidanzati che la Giovanna di Poveri ma belli, senza peraltro concedersi a nessuno, ma non ha molto a che spartire con lei. Bolognini disse di essersi ispirato alla Locandiera goldoniana, ma la relativa (o parziale) promiscuità di Marisa non ha una motivazione economica, e neanche una ricerca del piacere quasi consumistica come quella di Giovanna (che diceva: «Bacio tanti ragazzi per vedere chi mi piace di più»). Marisa è un’anima inquieta, una solitaria senza radici e senza autorità parentali che vegliano su di lei, una creatura poetica che ha paura di essere ingabbiata, più vicina alla posteriore Holly Golightly di Colazione da Tiffany di Truman Capote (1959) che alle ragazze dell’epoca in cerca di accasarsi L’impatto della formosa Marisa sulla popolazione maschile è reso con un’esplicitezza notevole per l’epoca. La carrellata in cui Marisa passa davanti a un muretto popolato da soli uomini (foto. 20), non fa che perfezionare una sequenza di Poveri ma belli – film dal quale proviene anche il lessico per l’epoca nuovo e triviale (“bona”, “fata”…). Ma Marisa, come molte altre allumeuses dell’epoca, è tutta fumo e niente arrosto, è una vergine provocante che al massimo concede baci e scollature generose, in attesa del vero amore. Nel film l’unica presumibile attività sessuale si svolge fuori campo, tra Angelo e la ballerina di Cesena. Da questo punto di vista un film come Le ragazze di San Frediano osava di più, ma non a caso, perché il protagonista era un uomo. Ciononostante lo spirito di fondo è ben diverso da quello perbenista di buona parte del cinema italiano dell’epoca. La provocazione sessuale più forte e inedita (e in ciò si può forse misurare l’apporto di Pasolini) consiste nel fatto che la femmina Marisa infrange varie soglie e tabù. Entra in un mondo di soli uomini, dallo spogliatoio della squadra di calcio alla caserma. È una minaccia che sgretola la solidarietà tra maschi che vivono sempre in branco: oltre ai calciatori, vi sono i marinai che stanno in camerata, i militari in libera uscita… Ma non c’è nessuna misoginia: è la constatazione di una legge di natura, che conoscono anche i bambini – come l’orfano Fumetto e la sua amichetta Prosperella.

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Il finale, in cui Angelo strappa letteralmente Marisa al suo mondo e la conduce con sé di corsa, sembra adeguarsi a una morale tradizionale, secondo cui alla fine la donna deve mettere la testa a posto e sottomettersi al maschio; nel film era stata espressa dal facchino Polidor. Ma Bolognini evita il conformismo attribuendo alla furia di Angelo un valore comunque positivo, di rottura, movimento, libertà. Marisa guarda la stazioncina dalla finestra della sua stanza, mormora «Non posso andar via», il film sembra poter finire lì, in chiave crepuscolare e di rinuncia (fot. 21). E invece subito dopo, con brusca ed efficace ellissi, Angelo la sta trascinando via (fot. 22). Non ci sono conflitti di classe in Marisa la civetta, perché si svolge in un mondo autosufficiente, quasi fiabesco (anche per questo appare pertinente il riferimento francese). E per questo si può concedere il lusso dell’ottimismo. Il realismo che interessa a Bolognini, o quello che si può permettere, è quello del desiderio. Nel cinema del 1957 di più non può osare, ma è già tanto, ed è qualcosa di leggermente anomalo nel cinema italiano, come si è già detto a proposito di Gli innamorati. Giovanni Buttafava (in un testo oggi raccolto in Gli occhi del sogno, Roma, Bianco & Nero, 2000, p. 140) lo inseriva nella sua “videoteca ideale”, definendolo, tra una malignità e l’altra, «un film fra Poggioli e Demy, del tutto a-italiano».

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Giovani mariti Dopo Gli innamorati, per Giovani mariti Bolognini sceglie un altro soggetto di Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa: di impronta altrettanto generazionale, ma di ambiente sociale diverso. Luoghi e personaggi si ispirano alla natia Pistoia, ma per essere più libero, Bolognini decide di girare a Lucca. Produce «il più disinvolto dei produttori d’assalto dell’epoca» (Alberto Farassino), quell’Emanuele Cassuto che, tra cambiali non pagate, nel 1961 produsse anche La notte di Antonioni e La ragazza in vetrina di Emmer. Il film va a Cannes, dove vince la Palma per la sceneggiatura. A Pasolini, uno dei tanti accreditati, pare si debbano soprattutto la stesura finale e i dialoghi, la cui natura letteraria, con abbondanza di citazioni, pare fosse stata poco apprezzata all’epoca. Gli incassi, comunque, sono discreti, e il cast (con star del neorealismo rosa come Antonio Cifariello, Franco Interlenghi e Antonella Lualdi, oltre all’emergente Sylva Koscina) garantisce comunque un buon richiamo. Lucca. Cinque amici poco più che ventenni – Franco, Marcello, Ettore, Antonio e suo fratello

minore Giulio – corrono per la città di notte, fanno il bagno in un fiumiciattolo, si ubriacano, svegliano osti e prostitute. Il giorno dopo Franco sposa Donatella in chiesa. Antonio flirta con la civettuola e vergine Ornella. Il giovane Giulio è vanamente innamorato di Laura, che per conto suo ha perso la testa per Ettore, il bello del gruppo. Questi invece inizia una relazione carnale con la ricca forestiera Mara. Il ritorno di Franco dal viaggio di nozze sconcerta gli altri quattro: l’amico è cambiato, si è imborghesito, e desideroso di sistemarsi ruba pure il posto di lavoro a Marcello, architetto come lui. Quando Marcello incontra sotto la pioggia Lucia, nuova in città, è colpo di fulmine. Gli altri amici lo scherniscono, fanno i guastafeste quando li sorprendono a passeggio nel parco. Antonio, che si è innamorato seriamente di lei, cerca anche di sottrargliela, ma ne ricava solo un bacio dopo un appuntamento sulle mura. Ettore sposa Mara. Laura è a pezzi, ma forse si accorge, finalmente, dell’amore sincero di Giulio. Passano mesi. Dopo il battesimo del figlio di Ettore, per festeggiare la partenza di Marcello per Milano viene organizzata una serata come ai vecchi tempi. Ma l’acqua del fiume è fredda, l’oste è morto. Vengono caricate in macchina tre prostitute del bordello locale; Giulio se ne va per primo. Mentre tutti ballano e amoreggiano in un bar, Franco, preso dal senso di colpa, se ne va; Antonio, che non ha digerito di essere stato respinto da Lucia, provoca Marcello, e fanno a pugni. La mattina dopo Marcello parte, pieno di amarezza, di dubbi su quanto potrà durare il suo amore per Lucia, di nostalgia per le amicizie che ha perduto. Sul pullman con lui c’è solo Lucia, che cerca di capirlo e consolarlo.

Giovani mariti è la naturale evoluzione di Gli innamorati, e insieme l’uscita dal neorealismo rosa e populista. C’è ancora la voce narrante che enuncia i temi: «Chi avrebbe potuto pensare che uno di noi stava per sposarsi? Stava per cambiare quella nostra esistenza che ci pareva senza fine, come la nostra amicizia e la nostra giovinezza». Ma non è più un “noi” generico, appartiene a un personaggio, Antonio: che, come gli altri, man mano si distacca dal gruppo. E infatti alla fine la voce narrante viene abbandonata. Al tema della fine delle illusioni e alla maggiore consapevolezza dei personaggi corrisponde un ambiente sociale diverso. Bolognini si immerge per la prima volta nella borghesia contemporanea, senza la rete di protezione del populismo; e in pratica non ha modelli cui raffrontarsi. Non mancano, nella prima metà degli anni Cinquanta, eccellenti film di ambientazione borghese, come Le infedeli di Mario Monicelli (1952) e Febbre di vivere di Claudio Gora (1953). Ma in questi casi l’analisi sociale impietosa è inscindibile dalla tragedia, mentre Bolognini evita il dramma: non calca i toni, e preferisce un finale in sordina. Le sfumature malinconiche, l’ambientazione provinciale, molti snodi narrativi (la presa di coscienza dopo la baldoria) e la presenza stessa di Franco Interlenghi non possono non evocare I vitelloni di Federico Fellini (1953), come molti si accorsero all’epoca. Ma indipendentemente dalle diverse sensibilità di registi e sceneggiatori, è una provincia più incattivita e arida quella di Giovani mariti, meno piccolo-borghese in senso ottocentesco, e anche più smaliziata e consapevole. I “vitelloni” mai avrebbero pronunciato frasi come «Qui siamo in provincia. È una continua lotta contro la meschinità, la maldicenza, l’ipocrisia. Tutto va male e tutto è eterno». I “leoni” di Bolognini – così chiamano se stessi – respirano già un’aria da anteprima del boom. La casa del neosposato Franco è modernamente gelida e spigolosa. Tra i cinque protagonisti non ci sono sognatori e aspiranti artisti. Si possono ancora citare poesie per far colpo sulle ragazze, ma lavoro, carriera e sistemazione («Sposo un miliardo», dice Ettore) vengono prima dell’amore. E dovette dare fastidio, all’epoca, la descrizione di queste ragazze di buona famiglia che vanno a messa la domenica e intanto pensano alle loro tresche; e di questi bravi ragazzi che dopo un battesimo vanno a puttane, in una sequenza sorprendente (anche se si risolve in un nulla di fatto) che deve aver lasciato qualche ricordo in La rimpatriata di Damiani (1963). Il film, non a caso, inaugura la penosa storia della persecuzione censoria di Bolognini. Alfredo Baldi, in Schermi

proibiti, elenca ben tredici richieste di tagli e modifiche, a volte solo sui dialoghi (la parola “mignotta” deve essere bandita, per esempio). A volte è difficile capire quale livello di manipolazione presenti la copia corrente che passa in televisione. Si tratta certamente di interventi modesti, che lasciano intatto il film – a riprova di quanto aveva notato il citato Pietro Bianchi. Ma è la dimostrazione che Bolognini (e Pasolini) avevano messo il dito nella piaga, e l’assenza di tragedia redentrice, il tono di normalità, dovettero essere ancora più irritanti per i perbenisti dell’epoca.

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Bolognini però non cerca lo spaccato sociologico diretto (come poteva essere il caso, appunto, di Le infedeli), e cerca un’elevazione poetica nell’universalità dei temi. Giovani mariti è un film non solo sulla fine della giovinezza e dell’amicizia, ma sullo scontro tra uomini e donne, sull’irruzione della donna nel mondo chiuso dei maschi. «Abbasso le donne» grida Franco ubriaco alla maîtresse del casino che ha svegliato (fot. 23): dopo una dissolvenza appare una donna con velo da sposa, che però non è la sua futura moglie Donatella, ma l’amica Laura (fot. 24). Potrebbe sembrare un modo tradizionale di riproporre l’immagine della donna angelicata, o della moglie borghese ideale che aspetta i maschi dopo le loro scappatelle. Sono modelli che sicuramente appartengono all’universo mentale dei personaggi; ma Bolognini non manca di sottolineare come donne e uomini appartengano a mondi diversi, forse inconciliabili. All’epoca, tra molte limitazioni ingenerose, l’aveva notato acutamente Giulio Cattivelli: «Pur essendo popolato di belle ragazze, Giovani mariti è forse il primo film italiano pensato e realizzato da un punto di vista esclusivamente e diremmo partigianamente maschile, e dove serpeggia un avvertibile, amaro, quasi rancoroso senso di misoginia, che costituisce una delle sue componenti più interessanti». Interessante anche perché i “leoni” lucchesi escono a pezzi tra le contraddizioni. Da una parte considerano le donne delle sciagure che rovinano gli amici, dall’altra se ne innamorano, ma alla fine privilegiano le ragioni dell’economia a quelle dei sentimenti: come Marcello, che lascia Lucia a Lucca. Quest’ultima è la più sensibile e intelligente delle ragazze del film, ma anche lei è forse incapace di comprendere davvero la nostalgia del suo fidanzato per ciò che ha perduto.

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Bolognini non vuole mettere ordine in queste contraddizioni. Probabilmente accetta la polifonia degli apporti di sceneggiatori molto diversi, che comprendono anche il romanziere Carlo Bernari ed Ennio Flaiano, non accreditato ma ricordato da Bolognini nell’Avventurosa storia e dal truccatore Francesco Freda (mentre Piero De Bernardi, chiamato in causa da alcuni, ha negato ogni coinvolgimento nel film). E trova precise chiavi figurative per esprimere le sue idee sulla inconciliabilità dei sessi. Mentre le donne sono spesso inguainate da vestiti punitivi, il corpo maschile è costantemente erotizzato: vedi il bagno iniziale in mutande, le nuotate in piscina (con effetti pre-David Hockney), le docce con pose plastiche (fot. 25). L’incompatibilità diventa cromatica quando Antonio/Interlenghi vestito di bianco si confronta con Lucia/Lualdi nerovestita (fot. 26).

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Un altro risarcimento poetico Bolognini lo trova nell’ambientazione. Lucca fornisce una scenografia quasi inedita di rara bellezza: è una cassa armonica che amplifica e nobilita i personaggi. Ed è una città spesso notturna, deserta, che toglie peso al realismo. Certe invenzioni sono parafelliniane (la baracca del tiro a segno nella piazza del mercato), anche se Bolognini non si spinge all’onirismo di Le notti bianche di Visconti (1957). La fotografia di Armando Nannuzzi vince il Nastro d’argento, ed è l’inizio di una collaborazione importante. “Arrangiatevi” Dopo tanti piccoli produttori, Bolognini firma un contratto con un tycoon dell’epoca, Angelo Rizzoli. Il progetto sembra piuttosto commerciale: il protagonista è Peppino De Filippo, la guest star è Totò. Nel 1959 “Arrangiatevi” incassa meno di I tartassati di Steno e poco più di Totò, Eva e il pennello proibito dello stesso regista. Il soggetto prende spunto dalla recente legge Merlin, entrata in vigore nel settembre 1958. La sceneggiatura è firmata da una coppia di grande talento: Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, che si erano affermati con Le ragazze di San Frediano di Zurlini. A pochi giorni dalla chiusura delle case chiuse, Bolognini gira in una vera casa di tolleranza romana, in via Fontanelle Borghese, e gli episodi di curiosità morbosa raccontati nel film si riproducono durante le riprese, tra le proteste di un onorevole missino che gridava allo scandalo (rintuzzato da Totò e De Filippo) e le visite di nobili ficcanaso. La protagonista femminile, Laura Adani, era diventata una star della cronaca rosa sposando il duca Luigi Visconti di Modrone: tra le più brave

attrici di teatro italiane, non recitava davanti a una macchina da presa dal 1943. 1946: la crisi degli alloggi costringe la famiglia Armentano a coabitare con una famiglia di profughi istriani. Tredici anni dopo gli istriani sono in attesa dell’ottavo figlio; per Peppino e la moglie Maria la coabitazione è penosa. La figlia più grande, Maria Berta, è fidanzata col pugile Romano; la sorella Bianca studia alle magistrali; i fratelli Nicola e Salvatore sono rispettivamente bersagliere e seminarista. Il suocero di Peppino, Illuminato, litiga sempre con il nonno istriano; un suo tentativo di mandarlo in ospedale provoca una doppia ernia a entrambi. Mentre fa il pedicure a un ecclesiastico, Peppino viene avvicinato dal viscido Pino Calamai, che gli propone una casa da dieci stanze a sole 10.000 lire al mese. Trattasi infatti di un ex casino. Dato che Peppino ha perso in una scommessa procuratagli da Calamai le 100.000 lire dategli da Romano per cambiare casa, è costretto a trasferirsi nell’ex casino, nascondendo la verità a moglie e figlie. Nicola combina il guaio peggiore quando fa credere ai commilitoni che il bordello funzioni ancora, clandestinamente. E il suo commilitone Felice comincia a corteggiare l’ignara Bianca all’uscita di scuola, credendola “una di quelle”. Quando Maria scopre la verità sull’ex casa, è indignata. Anche Romano lascia Maria Berta, per la gioia del reporter Luciano, innamorato della ragazza. Peppino dà le “dimissioni” da capofamiglia. Maria, distrutta, sta per andarsene a fare la domestica, ma vedendo un gruppo di soldati davanti a casa, convinti che il casino sia ancora aperto, reagisce scacciandoli e rivendicando la propria dignità ai vicini maliziosi. Illuminato arringa “militari e civili” dalla finestra: «Piantiamola con queste nostalgie. A voi italiani è rimasto un chiodo fisso. Oltre che incivile, è inutile. Ormai sono chiuse. Arrangiatevi!» L’armonia è ritrovata, e arriva anche Felice per chiarire l’equivoco e chiedere la mano di Bianca.

La stagione neorealista, rosa e non, sta finendo. E se l’incipit evoca la Roma del 1946 con una voce narrante ormai ridotta a luogo comune, presto il tono diventa comico. Alla vista del cadavere di una pittrice portato dal condominio di via Pistoia 45, presto sia Peppino sia l’istriano si rendono conto che si è liberato un appartamento, e iniziano una corsa a perdifiato per arrivare per primi al Commissariato degli alloggi. Ma il tono paradossale era già in nuce nella scarpina piumata del cadavere (fot. 27), che spicca incongruamente tra necrofori e curiosi, negando tragicità alla morte. Bolognini affermò di non essere tagliato per le commedie e di esservisi adattato malvolentieri, ma “Arrangiatevi” è un film diretto da un regista in forma, che si diverte e sa divertire.

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Certo, rimangono vari scampoli di neorealismo rosa, a partire dai personaggi delle figlie di Peppino e dei loro affari sentimentali. Ma il trattamento riservato al fidanzato pugile (il secondo nel cinema di Bolognini, dopo Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo) segnala la malizia del regista: il giovanotto (Giorgio Ardisson) è un bigotto che non beve né caffè né alcolici, ed è subito sbeffeggiato da nonno Illuminato/Totò, che intuisce la mancata consumazione di altri piaceri, e anzi si rallegra quando lascia la nipote. Quanto all’altra love story, tra la figlia minore Bianca e il soldato Felice (Luigi De Filippo, figlio di Peppino), è sporcata dall’equivoco (un po’ più pesante che in film coevi e abbastanza audaci come Mariti in città 1957 di Comencini): il ragazzo la scambia per una prostituta, e alla fine, indispettito dalla sua ritrosia, cerca di baciarla a forza. A Bolognini i panni della commedia rosa stanno stretti: ma al di là degli attacchi laterali, è proprio il soggetto del film a

fornirgli un’occasione d’oro per rivalersi sul perbenismo borghese. “Arrangiatevi” è uno dei primi film post legge Merlin, ed è piuttosto radicale, per l’epoca, nell’alludere ai costumi sessuali dell’italiano medio. Rappresentare i bersaglieri di leva che non vedono l’ora di andare al casino, e padri di famiglia che confessano passate frequentazioni, era abbastanza per infastidire un’Italietta democristiana, che “tollerava” purché si facesse tutto di nascosto. Invece Bolognini apre la casa chiusa e invita gli italiani a maturare e arrangiarsi. L’arringa finale di Totò (fot. 28) è un grande pezzo non solo attoriale ma anche morale. Bolognini esprime tutto il suo schifo per l’Italia alla lndro Montanelli con il “chiodo fisso” del casino: istituzione per intere generazioni, era stato anche un banco di prova della virilità e un ipocrita strumento per salvare il matrimonio ed evitare il divorzio. Chiusi i casini, è ora che gli italiani maturino. I censori, ovviamente, maturi non erano, e imposero un divieto ai minori di sedici anni e alcuni taglietti qua e là, anche se per fortuna non se ne trova traccia nella versione che circola in dvd: dove per esempio è intatta la sequenza in cui Totò trova un nudo femminile sotto la carta da parati di camera sua (fot. 29).

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“Arrangiatevi” è una commedia curiosamente e coraggiosamente acre, che non fa sconti ai personaggi e li porta impietosamente al punto di rottura, per rivelare le contraddizioni e la meschinità dei loro valori. I tre maschi di famiglia (suocero, padre e figlio) sono stati tutti nel casino della Sora Gina: ma escluso il primo, tremano all’idea che moglie e figlie oggi abitino in un ex luogo di peccato. E verranno puniti perché, per nascondere la verità, alimenteranno l’equivoco che il casino sia ancora aperto. Peppino è un padre di famiglia impari al suo compito e non a caso femminilizzato: esercita un mestiere non virile (fa il pedicure); a letto, in occasione delle nozze d’argento, non si accorge che la moglie ha indossato una sottoveste speciale, e invece si stringe nel suo scialletto. Alla fine, travolto dagli eventi, darà le “dimissioni” da capo famiglia. In questo sfascio della famiglia cattolica, Bolognini non salva neanche le donne: la moglie Maria non è dipinta certo teneramente nel suo perbenismo, ed è sicuramente parodica la sottolineatura melodrammatica della colonna sonora quando, pur di uscire dall’ex casino, decide di fare la donna di servizio. Poi, certo, è lei a salvare la situazione, a scacciare i soldati infoiati e a sfidare i vicini: ma perché sostituisce il marito imbelle.

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La maggiore simpatia di Bolognini va ovviamente al personaggio di Totò: vecchio, cinico, scettico,

bizzoso, litigioso, egoista ma sanamente edonista, e lontano da qualunque ipocrisia. Sul set l’attore si sentì un po’ ingabbiato, e Bolognini in seguito dichiarò a Gili di essersi quasi pentito nell’aver spinto l’attore a contenersi e autolimitarsi. Comunque sia, Totò è in gran forma. E se in generale gli giova essere diretto da un regista vero, per alcuni numeri può approfittare della classica macchina fissa inchiodata davanti a lui; e trova una spalla ideale non solo in Peppino, ma anche nel felliniano Achille Majeroni (fot. 30), il nonno istriano, cui Bolognini toglie tutti i birignao del vecchio trombone.

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Come in altri suoi film, Totò non risparmia gag antireligiose: al nipote seminarista immerso nel suo breviario chiede con aria innocente: «Che romanzo stai leggendo?». E quando arriva un prete a benedire la casa, infila una serie di facce spassose di finta contrizione e cocente scocciatura. Bolognini non perde l’occasione per rappresentare la laicizzazione e banalizzazione della religione: Roma è in fibrillazione per il conclave, ma sul colore delle fumate si organizzano scommesse che saranno fatali per Peppino.

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Per essere una “semplice” commedia, “Arrangiatevi” è confezionato con un’attenzione insolita. La cura delle inquadrature, l’uso della profondità di campo (fot. 31), di luci e ombre, sono da manuale. Ma non è solo rivalsa formalista. Quando Bolognini gioca sui piani diversi dell’inquadratura, è per rafforzare l’effetto comico, creando una grammatica ad hoc. Si veda come usa Franca Valeri, alle prese con scomodi trampoli, mentre in primo piano Peppino è irretito da uno scatenato Vittorio Caprioli (fot. 32). Il vero protagonista del film, e l’intuizione formale più forte, è comunque la casa. Con due scenografi come Mario Garbuglia e Carlo Carsetti, Bolognini costruisce un mondo art déco quasi surreale (fot. 33), ma subito dopo lo sconsacra, facendolo abitare da una famiglia di borghesi che convertono ad appendiabiti la fontanella con statua. Dopo La vena d’oro, l’architetto Bolognini torna al suo amore per la scenografia come “pieno” espressivo. Ma con mossa inedita, ridicolizza il mondo che ha costruito, gli fa perdere l’aura: non celebra la vittoria della modernità, ma non piange nemmeno la fine di un mondo del bric à brac che era stato forse seducente, ma non certo felice. Per il momento occorre voltare pagina, e cambiare davvero tutto. L’Italia si sta trasformando, e Pier Paolo Pasolini se ne accorge meglio di altri, anche perché il suo punto di vista è dal basso.

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La notte brava e La giornata balorda Alla fine degli anni Cinquanta Pasolini intensifica il suo lavoro di sceneggiatore, e intende portare sullo schermo il mondo che ha raccontato nei romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959). Per Bolognini scrive La notte brava (1959) e La giornata balorda (1960): il mondo di Marisa la civetta e Giovani mariti sembra lontano anni luce. Ed è enorme anche il divario con un altro film pasoliniano ugualmente ambientato nelle borgate romane: Morte di un amico di Franco Rossi (1960), che esce tra i due film di Bolognini. Non a caso, Pasolini ritira la firma come sceneggiatore dal film di Rossi, per contrasto con il produttore-sceneggiatore Sandro Ghenzi: e il risultato, per molti versi, sembra appartenere ancora agli anni Cinquanta del neorealismo rosa. Mentre tra i due film di Bolognini e Accattone (1961), esordio dietro la macchina da presa di Pasolini, lo iato è meno vistoso di quello che i critici hanno sempre ripetuto. La prima scena di Accattone, con i borgatari seduti ai tavolini del bar sulla sinistra dell’inquadratura, sembrerà riprendere specularmente quella iniziale di La notte brava, con le prostitute indolenti che battono sul marciapiede a destra dell’inquadratura (ma bisogna sottolineare che Accattone deve non poco anche a Sotto il sole di Roma [1948] di Renato Castellani, regista spesso sbeffeggiato da Pasolini stesso). La prima vistosa innovazione è di tipo tematico: con La notte brava i ragazzi di vita pasoliniani giungono finalmente in primo piano, dal basso. Ed è un ingresso che funge da terremoto sia nel cinema italiano dell’epoca, sia in quello del suo regista. La notte brava è il film più nervoso di tutta la filmografia bologniniana, e si distacca anche dal suo gemello per uno stile che strappa la formalità tradizionale delle opere precedenti. È come se il montatore Nino Baragli spiani già il terreno per lo sperimentalismo esasperato di La bella di Lodi (di Mario Missiroli, 1963). Finora nel cinema di Mauro Bolognini non si è mai vista un’irrequietezza simile, se non come specificità caratteriale individuale (l’ansia mai doma di Marisa, per l’appunto). La notte brava pare un test di resistenza per il regista di Pistoia, la cui messinscena prende strade impervie e non previste. Roma. I giovani nullafacenti Scintillone e Ruggeretto avvicinano le due prostitute Anna e Supplizia che stanno litigando: le dividono e le portano con sé in auto. Fanno una sosta a casa di er Mosciarella, dove c’è una veglia funebre: è morta la moglie, ma lui mangia in cucina beato. Scintillone e Ruggeretto vorrebbero vendergli alcune armi che tengono nel portabagagli, ma er

Mosciarella dice che non è il momento. È Bella Bella, un altro giovane senza arte né parte, nipote del vedovo, a sentire tutto, e a offrire ai due di accompagnarli da un amico interessato, che però confessa di non avere una lira. Delusi, i tre si fanno convincere da Anna ad andare in un posto di sua conoscenza a Fiumicino per tentare la vendita: in una catapecchia stanno un sordomuto e la prostituta Nicoletta, l’affare è per sole 100.000 lire. Nicoletta si unisce al gruppo, che fa una sosta in aperta campagna: Ruggeretto si apparta con Supplizia, Scintillone con Anna e Bella Bella con Nicoletta. Verso sera, i tre uomini abbandonano improvvisamente le tre donne, ma si accorgeranno più tardi di essere stati derubati di tutti i soldi. Dopo aver evitato la rissa, si uniscono ai ricchi Achille e due suoi amici: faranno una sosta a casa di Achille, dove Ruggeretto fa l’amore con Laura (che dice d’esser la sorella del nuovo amico, ma in verità è la cameriera), e Bella Bella ruba un portafogli. I tre scappano ma nello spartirsi il denaro, Ruggeretto picchia Bella Bella, e Scintillone fugge con il malloppo. Ruggeretto si fa accompagnare per le strade di Roma da un amico in vespa sulle sue tracce, mentre Scintillone spende i soldi a bere con gli amici. Incontra Rossana, una sua fiamma: a casa di lei, lascia qualche soldo alla madre sora Fernanda, che fa cantare il più grandicello dei suoi quattro figli piccoli affinché Scintillone gli dia 1.000 lire, e poi si reca con Rossana in un locale da ballo, dove viene però fatto arrestare dai poliziotti perché indesiderato. Sul posto capita proprio in quel momento Ruggeretto: Rossana, rimasta sola, va con lui. Cenano in un ristorante ormai deserto per l’ora tarda, si baciano, poi lui l’accompagna in taxi. Alla fine Ruggeretto resta solo: appallottola la banconota da 1.000 lire rimastagli e la getta via.

La giornata balorda, che esce nel 1960, dopo Il bell’Antonio, si basa liberamente su due racconti di Alberto Moravia, Il naso, da Racconti romani, e La raccomandazione, da Nuovi racconti romani. Dal primo deriva l’episodio della salma e dell’anello, di cui lo scrittore si serve per raccontare l’avidità di due “amici” poveracci e ladri per necessità la vigilia di Ferragosto: il “naso” del titolo è lombrosianamente quello del più sfortunato dei due, «un naso a batocchio, storto, livido, con la punta a gnocco sormontata da un brutto neo marrone. Era un naso che dava tristezza soltanto a guardarlo; figuriamoci a portarlo», causa apparente di ogni disgrazia (al termine vengono sorpresi sul fatto dai carabinieri e portati al Commissariato). Dal secondo discende l’andirivieni del protagonista “raccomandato” per mezza Roma in cerca di un posto (nel libro, di autista), dal ragioniere Moglie all’avvocato Scardamazzi e ritorno (ma manca nel testo il personaggio interpretato da Jeanne Valérie, Marina, che il regista vuole in un primo momento affidare alla Cardinale, già impegnata però per La ragazza con la valigia di Zurlini, e “prenotata” dunque da Bolognini per il suo lavoro successivo, che sarebbe stato La Viaccia). Pare che tra gli appunti di Pasolini sul film, rinvenuti dopo la sua morte, siano citati i titoli di altri due racconti da Nuovi racconti romani: Lo scimpanzé e Addio alla borgata; ma in La giornata balorda non ce n’è traccia: presumibilmente, si intendeva utilizzarli, ma poi non se ne fece nulla. I toni di La notte brava qui si acquietano, le “arroganze” della storia si limano, ma lo stile non si vergogna comunque di aprirsi a sussulti ed ellissi. Il ventenne Davide Saraceno vive in un casermone nella periferia romana. Ha avuto un figlio con la giovane Ivana, una vicina che non ha potuto ancora sposare perché non ha una lira né un lavoro. Davide inizia la sua giornata uscendo di casa e prendendo il tram assieme all’amica ed ex fiamma Marina, che fa la manicure “particolare” a domicilio. Davide si reca a chiedere un impiego allo zio, che gestisce una discarica: con una telefonata gli fissa un appuntamento con il ragioniere Alberto Moglie, il quale lo raccomanda con una lettera all’avvocato Scardamazzi. Dopo aver incontrato il nipote in un ufficio pubblico, Scardamazzi lo rimanda al mittente, cioè al ragioniere Moglie. Deluso e amareggiato, Davide gironzola per le strade di Roma fino a quando rincontra Marina, che ha un appuntamento con un cliente: Moglie. Di fronte al suo ufficio c’è un appartamento dove giace la salma di un onorevole: porta al dito un grosso anello, che fa gola a Davide. Lui e Marina si recano sul tetto e si abbandonano ad alcune effusioni. Poi insieme vanno da Moglie. Poco dopo, Davide incontra in trattoria il facchino Carpiti, che lavora per Romani, trafficante di olio spurio (1% di oliva, il resto grasso di cavallo). Assieme a Carpiti va in camioncino

verso Fiumicino. Sulla strada incontrano la prostituta Sabina. In riva al mare, Davide fa la conoscenza di Romani, della sua donna Freja e della signora Moglie, sulle sdraio a prendere il sole. Dopo un bagno, Davide va con Carpiti al porto per caricare il grasso. Di ritorno, vengono raggiunti da Freja, che gli comunica che la polizia sta cercando il carico. La donna fa riportare da Carpiti la sua auto a casa, e lo sostituisce alla guida del camioncino. Davide e Freja si appartano in aperta campagna, e poi bruciano il veicolo. Tornano a piedi a casa di Freja, dove lei consegnerà a Carpiti 50.000 lire per Davide (gli servono per rilevare un lavoro di facchino ai mercati generali); ma Carpiti darà al giovane soltanto 2.000 lire, intascandosi il resto. È ormai sera, Davide torna a casa: ma non prima di aver fatto di nuovo un salto nell’appartamento dell’onorevole defunto, per sottrargli l’anello e venderlo. Consegnerà il denaro ricevuto a Ivana e alla madre sora Tosca per il battesimo del bimbo: con quelli che rimangono si comprerà il posto di facchino.

La notte brava e La giornata balorda vanno subito incontro a guai con la censura. Il 9 novembre 1959 il primo subisce un divieto ai minori di sedici anni, ma la proiezione pubblica è accordata soltanto con l’eliminazione di quattro scene, per un totale di trenta metri di pellicola. Il 12 novembre l’Ajace Compagnia Cinematografica, per la quale Alessandro Jacovoni e Tonino Cervi producono il film, comunica i tagli effettuati con un telegramma. Nel 1977, però, l’opera va incontro a una seconda edizione, dalla quale viene tolto il divieto e anche sette ulteriori inquadrature. Quasi tutti i tagli sono stati reintegrati dal dvd attualmente sul mercato; manca ancora all’appello la prima delle sequenze sottratte, quella in cui Scintillone e Anna sono distesi sull’erba (che i censori definiscono “spiaggia”: svista o cialtronaggine?). Prima che La giornata balorda venga girato, il ministro Tupini, letta la sceneggiatura depositata al ministero, si scaglia contro l’oscenità del linguaggio. Nell’ottobre del 1960 vengono imposti al film sei tagli (da apportare a un dialogo, a un’inquadratura e a quattro scene) per un totale di trentatre metri; mentre è del 16 novembre l’ordinanza del procuratore della repubblica di Milano con cui si dispone il sequestro della pellicola (in cartellone al Nuovo Excelsior) per offesa al comune sentimento del pudore e la denuncia di Moravia, Pasolini e Bolognini per spettacolo osceno: pare dia fastidio la scena del protagonista che ruba l’anello al morto (ritenuta «raccapricciante»), mentre ciò che realmente irrita è la rappresentazione dei disoccupati, delle ragazze-squillo e degli adulteratori di prodotti alimentari. La notte brava vince nel 1960 il Nastro d’Argento per il miglior soggetto, e si basa su una sceneggiatura scritta da Pasolini nel 1957, dalla quale però manca del tutto la vicenda con Achille e i suoi due amici (la rottura tra Scintillone, Ruggeretto e Bella Bella per colpa del furto è risolta con l’espediente di un ferito di un incidente automobilistico, abbandonato dai protagonisti contro un muricciolo e trafugato del portafogli, dell’orologio e dell’anello, che Scintillone vende a er Mosciarella per 100.000 lire). In essa, il dialetto assurge a lingua unica, e lo sguardo basso-mimetico dello scrittore si elabora in un mondo dove non c’è nient’altro che la borgata. Pasolini s’ispira certo a Ragazzi di vita, suo primo romanzo del 1955, ma le atmosfere e alcune dinamiche del film trovano forte corrispondenza anche nelle pagine di Notte nella città di Dio, il secondo capitolo della “Parte prima” del romanzo Una vita violenta, pubblicato da Pasolini proprio nel 1959. Una domenica, sul fare della sera, i sei protagonisti del testo, Tommasino, Lello, il Cagone, il Matto, Salvatore e Ugo, dopo aver preso parte a una bravata di stampo missino ai danni di un albergo, scorrazzano per le vie di Roma prima su un’auto rubata e poi su un’altra, rapinano tre benzinai (pestandone uno a sangue), rubano quattro valigie e due borse da una Capitan per venderne il contenuto a un ricettatore per 25.000 lire, sostano a più riprese per mangiare, finiscono in un locale in chiusura dove pagano l’orchestrina affinché suoni per loro fuori per strada, infine a notte inoltrata si dividono; Tommasino e Lello s’addormentano su una panchina e all’alba aspettano il tram per tornare a casa, ma il secondo finisce con la mano e la gamba maciullate dal mezzo. Rispetto a La notte brava, in Notte nella città di Dio non ci sono donne (gli amici non riescono a trovare il portone della prostituta

Marianna la Nasona, mandando all’aria l’unica possibilità di divertimento sessuale), però lo spirito e la filosofia di vita sono i medesimi; mentre alcuni eventi – primo fra tutti la vendita della refurtiva – sembrano identici. All’epoca, a tracciare un legame tra il film e il capitolo in questione fu Ludovico Zorzi nella sua recensione per «Comunità», ma non se n’è mai fatta menzione altrove, per quanto se ne sa. Gli edifici burocratici in cui Davide si ritrova sballottato, in La giornata balorda, sono invece farina del sacco di Moravia, mentre tipicamente pasoliniano è tutto il resto, a partire dai casermoni. Le due unità di tempo di La notte brava e La giornata balorda, quasi fossero film in tempo reale, suggeriscono traiettorie personali, l’una piatta, l’altra discendente, che attraversano un solo mondo, e che identificano la ricerca di un diversivo e di un lavoro come unica risorsa di vita, destinata a restare frustrata. Pasolini non ha mai amato molto La notte brava, specialmente la scelta di Bolognini per le star d’oltralpe Brialy e Terzieff (anche le protagoniste erano tutte star di allora, Elsa Martinelli, Rosanna Schiaffino, Antonella Lualdi, Mylène Demongeot, Anna Maria Ferrero): al posto di que st’ultimo avrebbe voluto Franco Citti (poi in Accattone), il cui fratello Sergio peraltro lavorava con gli autori alla stesura del copione. E dell’apparente inconciliabilità tra personaggi e interpreti – e tra storia e messinscena – si accorgono pure alcuni critici: Pandolfi scrive che «è davvero comico assistere allo spettacolo di questi attori occupati a scimmiottare la gente di malaffare, beninteso, senza scomporre la loro presunta bellezza» (tra i sostenitori, invece, è Ernesto G. Laura su «Bianco & Nero», che ne celebra «la struttura narrativa solida e ben equilibrata nelle sue parti»). Pasolini preferiva La giornata balorda, nonostante sia proprio Bolognini a ricordare quanto lo sceneggiatore volesse tagliare e ridurre i piani-sequenza iniziale e finale, con la macchina da presa rivolta verso l’alto a riprendere le balconate, i passanti, i panni stesi delle case popolari, per lui ridondanti ed eccessivi (fot. 34). Eppure sono proprio queste invenzioni stilistiche (in La notte brava Bolognini usa per la prima volta la camera-car, nella sequenza del cortile), alcune delle quali si rincorrono dall’uno all’altro film, che fanno pensare a un’impostazione un antineorealista. L’apparente artifizio tecnico è strumento di approccio a due universi, quello passato e quello che sta per arrivare. La modernità, per Bolognini, non significa rinunciare a un’eredità artistica, men che meno tradirla, piuttosto elaborarla per raccontare da una parte un’epoca finita, dall’altra un’epoca agli esordi.

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Bisogna ammettere che La notte brava e La giornata balorda sono idealmente più film di Pasolini che di Bolognini: del primo sono l’argomento, gli universi intimi e collettivi, le aspettative; del secondo è in principal modo lo stile (anche se l’incipit di La notte brava, come detto così vicino a quello di Accattone, è puro Pasolini). Se è vero che La notte brava può ricordare la deriva esistenziale di un gruppo di maschi alle soglie di un’adultità che non si vuole affrontare e nei rapporti distruttivi con il sesso femminile, come accade in Giovani mariti, risultano però preponderanti altre suggestioni: l’implosione beffarda o sofferta delle azioni compiute dai personaggi, l’impraticabilità del presente, la sensazione di esserci e di non esserci al contempo, la brama del denaro e la realizzazione della sua precarietà. I tre amici di La notte brava e Davide corrono verso la conoscenza del proprio fallimento, che arriva forse troppo presto, nel giro di circa ventiquattr’ore. Pasolini è tutto per i suoi protagonisti, per il loro sconcerto interiorizzato; quando Ruggeretto resta solo con le 1.000 lire (fot. 35), e quando Davide torna a casa accanto al figlio (fot. 36), nei finali (ma la sceneggiatura di Pasolini per La giornata balorda ne prevede uno diverso: Davide torna a casa con i soldi per il battesimo e un disco di musica americana per la futura moglie, e tutto si chiude con un ballo assieme ai vicini), entrambi non hanno nulla degli uomini, ma sembrano ragazzini che prima fanno i gradassi e rubano l’anello a un morto, e poi tacciono a se stessi – ma non vuol dire che non la sentano – l’inevitabile inutilità delle cose. E come dei ragazzini saranno capaci di ricominciare tutto daccapo l’indomani, tornando d offrire un liquorino agli amici al bar una volta ritrovatisi in tasca qualche spicciolo, e tornando a meravigliarsi di fronte ai Romani di questo mondo. Su di loro, Bolognini scarica l’insofferenza per un decennio che si andava concludendo, e il timore per quello che si stava aprendo. Spezza la linearità con dei vuoti, lascia che le scene scivolino via senza concluderle, sottrae le spiegazioni e induce lo spettatore a un tour de force interpretativo che per gli anni era davvero inconsueto (Truffaut era appena arrivato, mentre Godard stava per arrivare). Baragli si dà a stacchi di montaggio arditi, e la consequenzialità a singulto delle scene possiede un’ansia che rispecchia quella dei personaggi. Un esempio sono due sequenze molto simili in cui i protagonisti si appartano con le donne, e poi le abbandonano. In La notte brava, Scintillone, Ruggeretto e Bella Bella cercano un posto per trascorrere un momento di relax con le rispettive donne (fot. 37); lo stacco è brusco, quando dall’alto vediamo i tre amici che salgono velocemente in auto salutando e canzonando le compagne (che restano fuori scena, fot. 38). In La giornata balorda, durante il viaggio in furgone, Carpiti e Davide fanno una sosta dalla prostituta Sabina: sotto un ponte, Carpiti si avvicina a lei mentre Davide in primo piano quasi li nasconde all’obiettivo, la scena successiva è per il furgone che si allontana, e l’altra ancora riprende Sabina che sbracciandosi lo rincorre (fot. 39). Il pensiero sulla donna è chiaro, ma colpisce la durezza degli eventi combinata a una non celata fretta di passare oltre, per vedere cosa c’è dopo. Un altro montaggio sorprendente è usato per unire due scene di La notte brava: l’auto con i protagonisti, Achille e i suoi amici fa retromarcia, e una velocissima dissolvenza ci catapulta nella rissa in un bar. Abituati finora alla limpidezza narrativa delle opere precedenti del regista, simili accorgimenti rappresentano una grossa novità, al pari del jazz quasi free di Piero Piccioni (ancor più originale in La giornata balorda, il cui brano dei titoli di testa sembra anticipare il Morricone aritmico di certi thriller italiani anni Settanta), e non è casuale.

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II bell’Antonio

«Quest’agosto il giovane produttore Alfredo Bini mi ha proposto di scrivere per Bolognini la sceneggiatura del libro di Brancati: erano anni, da quando lavorava come aiuto di Zampa, che Bolognini avrebbe voluto fare questo film. Già vari tentativi di sceneggiatura erano stati fatti (una di Brancati stesso) ma nessuna, per una ragione o per un’altra, era riuscita convincente. E poi il film, pur attraendoli, non riusciva a parere facile e commerciabile ai produttori: avevano paura. Invano Bolognini pestava i piedi e si lamentava: pareva ormai una cosa folle e quasi ridicola. Finalmente un giovanotto ha capito che un regista deve fare ciò il cui spirito è in lui: e Bini, sereno, ha rischiato, puntando su Il bell’Antonio e su Bolognini. E anche un poco su di me, affidandomi il libro – di cui già esisteva un trattamento di Visentini – per la sceneggiatura». A parlare, anzi a scrivere (su «il Reporter») è Pasolini; l’agosto è quello del 1959, quando La notte brava è già terminato ma deve ancora ricevere la prima proiezione pubblica (che avverrà il 12 novembre), e quando La giornata balorda è ancora di là da venire. Il trentatreenne Alfredo Bini, dopo la co-produzione di La legge è legge di Christian-Jaque (1957), assieme al più anziano Cino Del Luca e alla Francia, decide dunque di investire su un progetto difficile, e che senza dubbio avrebbe suscitato un polverone. Fin dai primi anni Cinquanta la trasposizione cinematografica del romanzo di Brancati incappa in continue e dure resistenze da parte della direzione generale dello Spettacolo. Lo scrittore firma di proprio pugno una stesura per Carlo Ponti, che non ne fa nulla. Nel 1956 è Ponti stesso a proporre a Bolognini il film, con protagonista Antonio Cifariello, ma anche in quell’occasione è un niente di fatto. Il bell’Antonio di Vitaliano Brancati è pubblicato per la prima volta nel 1949 (sempre nello stesso anno esce anche a puntate su «Il Mondo»), è ambientato negli anni del fascismo, e racconta di uno studente universitario catanese impotente. Per Brancati, la vicenda è grimaldello al fine di scoperchiare l’integralismo deleterio del pensiero politico e sessuale, durante un periodo già di per sé castrante e diretto all’omologazione della persona. Gli sceneggiatori Gino Visentini e Pier Paolo Pasolini optano per lo spostamento temporale della vicenda al presente, che può apparire controproducente allo slancio invettivo della storia. Pasolini opta altresì per rendere l’impotenza del protagonista soltanto un’inibizione nei confronti dell’amore. Il che non è piaciuto alla critica. Anni Cinquanta. Dopo aver abbandonato a letto la sua fidanzata («Perché vuoi umiliarti? Non posso»), l’universitario Antonio Magnano ritorna a casa, a Catania. La madre Rosaria lo accoglie con gioia, il padre Alfio sembra sospettoso. La vicina di casa, Elena Ardizzone, si ringalluzzisce alla vista di Antonio: è segretamente innamorata di lui. Assieme al cugino Edoardo, Antonio si reca in una villa dove si sta svolgendo un party quasi orgiastico di deputati e commendatori; vi partecipa anche l’onorevole Calderana di Roma. Antonio si porta dietro la fama di tombeur des femmes: gli ospiti parlano di uomini e virilità, mentre una ragazza, Nanda, si dimostra disponibile e bacia Antonio. Rosaria e Alfio vorrebbero che Antonio sposasse Barbara Puglisi, appartenente a una delle famiglie più note e ricche della città: il ragazzo accetta dopo precedenti rifiuti. Alfio si rasserena: l’eredità virile della famiglia può continuare. A seguito dei preparativi e degli accordi per la dote con il padre della ragazza, il notaio Puglisi, e dopo il funerale del padre della signora Puglisi, Antonio e Barbara possono finalmente convolare a nozze. Gli sposi vanno ad abitare nel casolare di campagna dei Magnano, presso il giardino della Piana, donato da Alfio al figlio. Dopo tre mesi, Barbara non è ancora incinta: Francesca, la domestica, le dice che è peccato. Antonio confessa a Barbara il suo problema: è impotente. Lei gli dice che lo amerà sempre. Venuto a conoscenza della situazione, il notaio Puglisi si reca a casa dei Magnano e dice tutto ad Alfio, il quale si infuria: come può suo figlio, che lui ha sempre saputo conteso dalle donne, essere impotente? Puglisi vuole che sua figlia si convinca di essere ancora signorina: in questo modo, il matrimonio sarebbe annullato. Barbara approva le idee del padre: dice ad Antonio che gli vorrà sempre bene, ma non come tra moglie e marito, perché il loro sposalizio non esiste davanti a Dio. Antonio si rinchiude in se stesso, mentre Barbara dice a Rosaria di essere stata offesa e disprezzata dal figlio, il quale dovrebbe chiederle perdono. Edoardo riesce a far uscire Antonio da camera sua: in auto, la sera, questi confessa al cugino che la sua fama di donnaiolo è tutta falsa e fondata sul nulla. Barbara si risposa, mentre Alfio va con una prostituta per provare a se stesso

di essere uomo, facendosi venire un infarto, e morendoci a letto. Rosaria scopre che la domestica Santuzza è incinta: il padre è Antonio. In casa Magnano torna improvvisamente la gioia, che si sparge subito per tutta Catania. Al telefono con Edoardo, Antonio si chiede perché dovrebbe essere contento, mentre il cugino gli dice che finalmente potrà essere quello che è, cioè un uomo, come tutti.

Ma ci sono altre divergenze abbastanza importanti rispetto al romanzo. Tra l’altro, manca il personaggio di Ermenegildo Fasanaro, zio di Antonio e fratello della madre Rosaria: nel libro è l’unico vero depositario della confessione del nipote (che copre ben due lunghi capitoli), uomo vecchio e stanco, giramondo e lucidissimo nella sua laicità nichilista. Edoardo, il cugino di Antonio, ha un ruolo ben maggiore per Brancati: violentemente antifascista, non solo fa in modo di essere nominato podestà di Catania per rinunciare in seguito al ruolo suscitando scandalo, ma finisce in carcere e nei campi di concentramento. I finali, poi, si differenziano completamente nel suggerire la vera natura dei personaggi; sia quello di Brancati sia quello di Pasolini/Bolognini vedono una telefonata tra Antonio e Edoardo: ma nel libro manca Rosaria e la sua gravidanza, e Antonio sogna di stuprare la donna di servizio cinquantenne, mentre il cugino gli racconta la sua tragedia in prigionia; abbandonatolo furibondo, Edoardo si reca a casa sua dove in un impeto irrefrenabile violenta la giovane portinaia; il testo poi si chiude proprio sulla telefonata di Edoardo in lacrime al cugino, due uomini sconfitti e “impotenti” in quanto non riescono a far fronte agli eventi e alle cose, figure piccole, vittime del mondo, della società e di se stessi, che Brancati non assolve affatto, ma anzi guarda pietosamente nella loro penuria di amor proprio e di moralità. Per Il bell’Antonio i guai censori non si fanno attendere. Il divieto è ai minori di sedici anni, ma si devono modificare certi dialoghi. I tagli però continuano per fino durante la programmazione stessa. Su «Catania Sera» si scrive: «Brevemente, per non entrare nei dettagli: si scopre che alcune scene apparse su uno schermo catanese non si sono viste su un altro schermo catanese. Ai tagli della censura ufficiale si aggiungono i tagli della censura locale (non ufficiale); che per di più si è comportata non solo in modo diverso da quella nazionale, ma addirittura ha tagliato una copia in modo diverso da come ha tagliato l’altra». Sotto i colpi delle forbici finiscono anche la scena iniziale (fot. 40) e quella in cui Barbara chiede alla domestica Francesca come si fa a fare i figli, per un totale di 64,5 metri di pellicola: il dvd ora le reintegra, ma alcuni dialoghi restano purtroppo ancora ripuliti.

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L’idea di portare gli eventi dal fascismo all’oggi non tradisce lo spirito del romanzo. La denuncia del “gallismo” (che Brancati ha già affrontato nel suo precedente libro, Don Giovanni in Sicilia) resta integra; mentre l’ortodossia standardizzante fascista si specchia senza problemi nella coltre fumosa di un meridione che è atavico e nel contempo spinto da urgenze “moderne” arriviste e di potere. Antonio è il pulviscolo incosciente nell’occhio di istituzioni materiali e mentali, che fin dal suo ritorno non sa come affrontare (si veda la scena sul balcone con la vicina Elena, esageratamente entusiasta e subdolamente invadente). Quindi vi si lascia scorrere sopra, senza scatti, senza intervenire. Ed è questo che più di ogni altra cosa irrita chiunque (padre, suoceri, chiesa): la

presenza di Antonio è inerte nella società che si vuole celebrare e portare avanti; dunque è da scansare. Antonio non ha forza, ma c’è una ragione: in un universo in cui l’essere uomo è rappresentato dall’arroganza maschia, Antonio ha imparato a mettere in pratica la sua virilità esclusivamente sul letto di compagne occasionali, da “una botta e via”, cioè l’apoteosi della virilità superomistica, quella da leggenda tra gli amici (Scintillone, Ruggeretto e Bella Bella, magari) e da tramandare ai posteri e agli eredi; di fronte all’innamoramento, però, il suo “funzionamento” s’arresta senza rimedio. Nella civiltà dell’Antonio di Pasolini, non c’è posto per i veri sentimenti: che debbono essere invece meccanici, a comando, immediati. Il matrimonio è unione su procura, contratto di valori economici e di doti; l’amore è istigazione a procreare, a lasciare dei consanguinei che permettano il proseguimento della (propria) specie. Oltre che di matrice cattolica, si tratta giustappunto di uno specchio abbastanza - esplicito del fascismo. L’ideologia pasoliniana è limpida, e la condanna di un unidirezionalismo sessuale dominante è evidente. Inoltre, è anche la volgarità dell’immaginario siciliano (e, di riflesso, italiano tutto) che il film sottolinea. Le pretese dei comportamenti tra le lenzuola fanno il paio con il putridume “osceno” con cui si conducono gli affari politici. Francesca dice a Barbara di guardare i cani, per sapere come si fa a letto; Alfio non trova di meglio che cercare conferma della propria prestanza con una puttana, restandoci secco; la chiesa, intanto, o tace o prende le parti – poco implicitamente – di chi si può dire non soddisfatto. Lo sguardo che Il bell’Antonio getta sul Paese non riguarda (ancora? più?) la cosiddetta Italietta, bensì una struttura fondata su basi secolari e indistruttibili, più forte di quanto si credano forti gli stessi “votanti” (anzi, forse loro malgrado), in fin dei conti soltanto pedine ignoranti di un tradizionalismo culturale egemone. Antonio, figura fantasmatica che fa prevedibilmente paura a chi gli sta intorno, si abbandona a un lassismo indotto sinceramente poco propositivo: il suo “non fare niente” è sintomo anche di una debolezza martirica che lascia qualche dubbio sull’effettiva “utilità” sociale della storia. Antonio non si ribella allo status quo, scuote il terreno ma solo indirettamente, finisce per adagiarvisi provando quello che gli altri volevano che provasse, e non è mai troppo tardi. Antonio è un pavido, seppur obbligato; e la costrizione a una vita già programmata (dalla madre e dal padre, dai parenti, dagli amici, dai preti, dalla società) non dovrebbe annientare sul nascere la rivoluzione. La scena finale davanti allo specchio, mentre Antonio è al telefono con il cugino Edoardo, potrebbe essere indicativa in questo senso (fot. 41): domandandosi le ragioni fittizie della sua presunta felicità, è come se il protagonista si interrogasse anche sul suo ruolo stesso da – appunto – protagonista, inevitabilmente compromesso dall’incapacità di poter fare qualcosa per sé e per incrinare lo stato delle cose. L’Antonio di Pasolini vive male e fa molto poco per ovviare a una situazione simile; anzi, china la testa. L’incriminazione degli apparati pubblici e della collettività in generale la fa da padrona, in un mondo che non permette né sfoghi, né d’applicare le proprie specificità (anche sessuali); eppure anche solo un accenno di insurrezione attiva, a maggior ragione se contestualizzata nel presente, avrebbe forse accompagnato Antonio Magnano al di là del costume del santo e più verso l’armatura del lottatore.

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La lenta e progressiva discesa di Antonio verso l’omologazione al pensiero catanese (cioè a dire, ai

dettami di Santa romana Chiesa, della cultura della forza e dello Stato) è messa in scena da Bolognini con carrelli dolci, perlomeno fino a quello finale, sconvolgente, sul protagonista che osserva immobile in strada l’ex moglie, appena sposatasi con un altro, andarsene in auto. Da quel momento, il regista letteralmente scende assieme ad Antonio, per una discesa che è topografica ma soprattutto morale: la camminata di Mastroianni giù per la strada che sembra addentrarsi nel cuore della città (non in piano-sequenza ma con tre stacchi, primo piano/mezzo primo piano/mezza figura/totale, a evidenziare la sua sempre maggior solitudine), è simbolo non soltanto di un allontanamento dal passato prossimo, ma in special modo di un reinserimento, ovviamente il suo in un alveo di normalità (fot. 42). Antonio torna a casa, ed è Rosaria a scoprire per prima la sua non diversità fisiologica, quando si accorge di Santuzza incinta: la soddisfazione che il figlio procura alla madre è anche di carattere edipico, perché soltanto così l’amore voluto e desiderato da lei è pure un amore per sé, quello che la reintegra nella società, quello che la fa tornare donna e madre “giusta”. D’altro canto, l’assolvimento di Antonio ai suoi doveri di maschio è anche nei confronti della madre, è con l’ingravidare la domestica che egli “(ri)porta piacere” alla madre (fot. 43). L’Edipo di Il bell’Antonio è sublimato ma non trascurabile. E la fotografia piena di chiaroscuri di Armando Nannuzzi si poggia sul biancore comunque ombroso di Mastroianni come a rilevarne le macchie di un cancro incipiente e sempre più velenoso: fino al riflesso finale di se stesso di fronte allo specchio, dove non c’è più alcun bianco, e il nero profondo diventa trasparenza. A questo proposito Filippo Sacchi su «Epoca» scrive: «[…] quel mirabile primo piano finale di Mastroianni, dove il volto doloroso del bell’Antonio si riaffaccia, sempre più bello, sempre più stanco, sempre più affilato, sempre più lontano come il pallido vanente emblema di una giovinezza perduta. E fosse anche solo per questo eccezionale primo piano, sarebbe ingiusto non citare il nome dell’operatore, Nannuzzi».

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Vincitore della Vela d’oro al Festival di Locarno e del primo premio al Festival del Cinema Italiano in Brasile, al Festival di Acapulco e al Festival di Lima, Il bell’Antonio vede un Bolognini diverso rispetto a La notte brava (per non parlare poi delle opere precedenti). La regia non è nervosa, il più delle volte il montaggio di Baragli è rilassato, eppure si percepiscono inquietudini non sopite e malumori repressi, in grado di spiccare anche negli esterni e nei totali all’apparenza più ariosi (la “fuga” di Barbara verso Francesca attraverso il podere). Appare esagerato il manicheismo di Pierre Brasseur nei panni del padre Alfio (e il doppiaggio di Ivo Garrani non aiuta), mentre è ammirevole l’equilibrio di Rina Morelli (della cui bravura Mastroianni, racconta Bolognini, restava incantato). Ma si capisce che Bolognini, come regista prima ancora che autore, ha ormai assunto un controllo pressoché totale del mestiere, mentre è proprio con questo film (lodatissimo da Pasolini stesso) che

uno degli argomenti a lui cari, la lotta del singolo contro un mondo che va per altre e non benvenute strade, trova vero fondamento. La Viaccia Nell’autunno 1960, finito La giornata balorda, Bolognini va a trovare Pasolini per parlargli del suo nuovo film, La Viaccia, tratto da L’eredità di Mario Pratesi. Pasolini non sembra molto interessato a questo “vecchio romanzo”, anche perché sta cercando di passare dietro la macchina da presa con Accattone, e se la sta vedendo brutta. Ha già trovato un protagonista – l’esordiente Franco Citti – e ha già girato due sequenze di prova nelle borgate: ma queste non sono piaciute, pare per insufficienza tecnica, a Federico Fellini, che in un primo momento si è proposto come produttore con il marchio della neonata Federiz, fondata con Angelo Rizzoli. In seguito sono subentrati Tonino Cervi e Angelo Jacovoni, che vorrebbero Franco Interlenghi come protagonista, ma non ne esce nulla di concreto. Bolognini sfoglia il copione di ripresa di Accattone, si entusiasma e si prende a cuore la faccenda. Fin qui il racconto di Pasolini. Secondo la Baldini, Bolognini di fatto costringe Alfredo Bini, che si sta preparando a realizzare in coproduzione con la Francia La Viaccia, il suo film fino a quel momento più ambizioso, a finanziare anche Accattone. Entrambi i film usciranno nel 1961. In apparenza non c’è nulla in comune tra le borgate pasoliniane e la Firenze ottocentesca di Bolognini: e sembra anzi che da questo momento le strade di Bolognini e Pasolini divergano. Di fatto, non collaboreranno più, anche se continueranno a frequentarsi e a consigliarsi. Ma il protagonista di La Viaccia, Amerigo Casamonti, è un personaggio che ha precisi elementi di continuità con quelli dei tre film precedenti di Bolognini, si batte contro un universo famigliare e sociale che gli va stretto, aggrappato com’è a un tradizionalismo cieco. E lo fa praticamente senza parlare, e soltanto con poche azioni, due delle quali, le più macroscopiche (innamorarsi di una prostituta e rubare allo zio), lo porteranno alla rovina, fisica e morale. L’eredità di Mario Pratesi venne pubblicato nel 1889 ed è ambientato oltre mezzo secolo prima, durante l’età leopoldina dei primi anni Dieci, a Siena e nel contado senese. A innamorarsi del libro è per primo il costumista Piero Tosi, «non perché sia un bel romanzo, […] ma perché c’è dentro un’idea di prim’ordine, c’è un personaggio straordinariamente moderno»: letta l’edizione curata nel 1943 da Vasco Pratolini per Bompiani, Tosi cerca per anni di convincere produttori e registi a portarla sullo schermo, riuscendoci infine con Bolognini, il quale da par suo convince Bini. È lo stesso Pratolini, assieme a Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa, a scriverne l’adattamento. Si decide di posticipare la vicenda suppergiù agli anni in cui Pratesi scrive il romanzo; inoltre, si abbandona il contesto senese per sostituirlo con quello fiorentino, ben conosciuto da Bolognini per i suoi studi e da Tosi per i natali. Il podere del romanzo si chiama Bel sole, ma Pratolini si ricorda di uno del tempo in cui passò da ragazzo, nella Val di Chiana, chiamato appunto La Viaccia. Ma il cambiamento forse più essenziale al senso del film è di portare in primo piano la dipendenza di Amerigo per l’amata (che nel film si chiama Bianca, e non Zaira come nel libro), lasciando il resto a fare da sfondo, anche se “agente”. 1885. Alla “Viaccia”, un casolare della campagna fiorentina con podere annesso, muore il capofamiglia Casamonti. Il figlio Ferdinando si offre di comprare la proprietà: il fratello Stefano e la famiglia avrebbero potuto continuare ad abitarci e a lavorarci. Amerigo, figlio di Stefano, parte per Firenze, dove lavorerà per lo zio nella sua bottega. Ferdinando vive con Beppa, senza esserle sposato e nascondendole i soldi. Amerigo è mandato dallo zio a riscuotere i debiti in giro per la città: un giorno, sotto la pioggia, vede per caso una bellissima donna che scoprirà chiamarsi Bianca, e lavorare in un bordello. Ma Amerigo non ha il denaro per permettersela: così lo ruba ogni sera dalla cassa della bottega dello zio. Bianca vuole soltanto i soldi, senza legami, senza sentimenti: spiega ad Amerigo che i clienti vogliono più spesso redimerla, ma lei non ne vuole sapere. A poco a poco, però, la donna comincia ad affezionarsi al giovane Casamonti, ricambiata.

Intanto Ferdinando e Beppa si accorgono dei furti del nipote, che torna alla “Viaccia ” dicendo al padre di aver preso il denaro come anticipo sullo stipendio. Stefano non può sopportare l’onta di avere un ladro in famiglia e si reca alla bottega del fratello per chiedere perdono, picchiando infine il figlio davanti a tutti. Ferdinando però non vuole più vedere il nipote, anzi chiede a Stefano di ripagarlo: in tutto, 50 lire. Stefano non ha denaro a sufficienza, e offre addirittura al fratello le prestazioni di Carmelinda, cognata di Amerigo. Quest’ultimo torna infine da Bianca al bordello: non possono fare a meno l’uno dell’altra. Nel frattempo fa amicizia con Dante, un anarchico che gli propone di partecipare ad alcune azioni; ma Amerigo, senza un soldo, preferisce diventare il buttafuori del bordello. Le prostitute lo usano per ogni tipo di commissione. Un giorno, Amerigo incontra per la strada la madre Giovanna, che lo prega di recarsi al capezzale di zio Ferdinando. Il prete celebra il matrimonio tra Beppa e Ferdinando in punto di morte: così la donna, diventata vedova e scoperto il nascondiglio dei soldi del marito, resta anche l’unica erede della “Viaccia”. Durante un ballo in maschera per carnevale al bordello, Amerigo finisce in una rissa con un pretendente di Bianca vestito da Arlecchino che lo accoltella allo stomaco, mandandolo all’ospedale. Da cui, ferito e sanguinante, esce per andare a cercare Bianca al bordello, nel frattempo chiuso dalla questura; ma là incontra solo la maîtresse, che gli dice di non sapere dove si trovi la donna: Amerigo la vede dietro una finestra; o è forse soltanto un’immaginazione? Trascinandosi fino alla “Viaccia”, Amerigo osserva da lontano Beppa, nuova padrona, discutere con il padre e la famiglia; e poi stramazza al suolo.

«Una storia, dicevo, esemplare, consunta forse, questa patina del tempo! e di molta attualità. Il ragazzo contadino che s’inurba e che è rapito d’amore per una giovane prostituta; più che i sensi, la bellezza di lei lo ha conquiso: è la spera del Diavolo, il mercato dell’anima. E a coro, l’avidità, la grettezza, l’avarizia tipicamente toscane, caratterizzate dall’epoca, che lo circondano. La luce anche, l’utopia, la speranza che lo ha tentato: il “bene”». Sono parole di Pratolini. Viene da pensare che L’eredità di Pratesi sia l’epopea di morte della famiglia dei Casamonti, mentre La Viaccia rappresenti invece “semplicemente” una storia d’amore in un contesto sociale. Nel romanzo, la trasformazione e la crescita del giovane Amerigo, che peraltro muore poco dopo la metà a causa della pugnalata a un polmone per mano dell’amico Tognaccio, è molto più nervosa e quasi “isterica”; la Zaira è poco più di un personaggio secondario (e soltanto in un capitolo veramente “oggettivata” con un passato e una sorta di ideologia personale, altrimenti sempre vissuta attraverso gli occhi degli altri personaggi e le voci del sentito dire); molto più spazio è dedicato alle vicende in casa Casamonti e a figure che nel film sono soltanto abbozzate (tra cui le più importanti sono Gustavo, figlio di Beppa, e Domenico detto Filusella, fratello maggiore di Amerigo); mentre tutta l’ultima parte, di non poche pagine, si concentra su “un’altra” eredità, quella dello zio Ferdinando, un gruzzolo di denari della cui scomparsa per furto i parenti s’accusano a vicenda, andando perfino per vie legali: è Stefano a ritrovarselo in un seggiolone antico del fratello Ferdinando ed è Gustavo, dopo averlo scoperto, a uccidere Stefano in una colluttazione. Dalla dichiarazione riportata di Pratolini, si capisce bene che le intenzioni non erano più quelle di ricreare un ampio quadro storico in cui il soldo è la prima ragione della disfatta degli uomini e tra gli uomini; piuttosto, il concentrarsi su Amerigo e sulla sua passione “insana” per Bianca è strumento per rilevare la tensione distruttiva di un giovane in un mondo fermo al passato e ancorato a un pensiero provinciale di consanguineità autarchica. L’inquietudine di Amerigo è tutta per un universo che non capisce, che lo obbliga a lavorare e a possedere la terra, a mantenere intatto il “filo” della famiglia e a preservarne la stirpe e – appunto – l’eredità. L’unico modo che lui trova per scagliarsi contro il proprio nome e ciò che esso rappresenta è di allontanarsene gradualmente innamorandosi perdutamente di una puttana; il che, per i Casamonti di La Viaccia, non è forse meno deprecabile dei piccoli furti del ragazzo dalla cassa dello zio (onta irreparabile), ma per Amerigo è di certo più significativo e definitivo rispetto addirittura alla possibilità di prendere parte ad azioni anarchiche con l’amico Dante.

Per Bolognini, dunque, non sono ancora arrivati i tempi delle rivolte politiche di Metello. La rivoluzione, in La Viaccia, si attua tra le pareti, quelle dei Casamonti e del bordello, e quelle non meno claustrofobiche di una Firenze gretta e chiusa, uggiosa e poco salubre, che Tosi ricostruisce con minuzia partendo dalla descrizione che ne fece Stendhal, attraverso le collezioni Alinari, Seurat e i dipinti dei Macchiaioli Giovanni Fattori, Telemaco Signorini, Adriano Cecioni (una fonte d’ispirazione importante è il noto quadro La toilette del mattino di Signorini, riprodotto alla lettera in un primo piano di Bianca che si pettina). Immediati e ovvi i ricordi del film tratto da Brancati: tanto Catania è per Antonio Magnano una prigione per la propria specificità caratteriale e sentimentale, da ridurlo a un automa, così Firenze (e la sua campagna circostante famigliare) è per Amerigo una tomba in cui crepare amando e sperando inutilmente in un futuro diverso. Non è difficile cogliere l’interesse di Bolognini per una storia simile, assolutamente contro la famiglia (intesa soprattutto come albero genealogico nei cui intrichi la personalità individuale soffoca) e contro la pigrizia e l’inaridimento delle menti attaccate ossessivamente al “suolo” del proprio mondo: menti, per giunta, che formano un’intera civiltà, dove l’unico pensiero è in forma di denaro, e il futuro non ha altra fisionomia che il suo possesso. Il podere di La Viaccia (fot. 44) è simbolo di un patrimonio ma anche di una secolarità che, per Bolognini e per Pratesi, riguarda uno sguardo: sulle persone, sulle dinamiche tra di loro, sulle cose. La sceneggiatura è chiara, il nuovo è lì dietro la porta ma non riesce ad avanzare. Nel romanzo come nel film viene presa di mira la toscanicità, eppure in entrambi i casi è un presente universale avido e rinsecchito a farla letteralmente da padrone. Se però la storia e le storie di L’eredità agiscono con una forza centrifuga, che travolge tutto e tutti, quella di passione e di morte tra Amerigo e Bianca, una storia d’epoca, è invece centripeta, si annulla da sola, diretta contro se stessa: a farne le spese sono proprio Amerigo e Bianca, mentre il resto rimane fermo e pressoché inalterato. L’amore, tratteggiato come passione travolgente e un po’ primitiva (Amerigo schiaffeggia Bianca, che da parte sua lo tratta sovente con sufficienza maliziosa ed egoista – fot. 45 e 46), è sintomo di qualcosa ancora di là da venire, e dunque invivibile; l’unico amore fattibile è quello del corpo, tra le lenzuola e nelle stanze decadenti di un casino, dove è come se i vestiti e i drappi coprissero la polvere (metaforica e non) accumulatasi con gli anni (fot. 47 e 48). L’irrompere di Amerigo nella quotidianità del bordello ha la medesima valenza del terremoto causato in famiglia per i suoi furti; d’altronde, sia bordello che casa, non così dissimili nella loro rigida sistematicità, sono governati da autorità indefesse (rispettivamente, la tenutaria, falsamente bonaria e in verità subdola, e Stefano, severo e ignorante).

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Ad Amerigo, Jean Paul Belmondo dona un’indolenza leggermente codarda (è di nascosto che decide di non partecipare alle dimostrazioni di Dante) ed ebete, invero efficace nel costruire un personaggio sul quale gli eventi si accatastano senza apparente ordine, schiacciandolo. Bini, dopo un primo rifiuto dell’attore francese causa impegni irrinunciabili, chiede a Sami Frey e Alain Delon di interpretare la parte del protagonista: ma entrambi devono declinare (il primo perché ricoverato in clinica, il secondo impegnato – con ritardi – sul set di Che gioia vivere! di René Clément). Rincontrato per caso Belmondo, gli offre di girare il film per soli venti giorni, gli unici liberi per l’attore. A Firenze, la troupe lavora con lui per metà film, mentre l’altra metà sarebbe stata girata in seguito con la controfigura: la fretta si vede, ma risulta funzionale al carattere del ruolo e al suo rapportarsi ai luoghi e al contesto. La Cardinale di Bianca, invece, si fa doppiare da Rita Savagnone come per Il bell’Antonio, e adotta atteggiamenti scostumati che tradiscono un bisogno d’affetto assente in superficie. Bianca è una puttana che rifiuta prevedibilmente ogni legame con i clienti, anche quelli benestanti che le offrono di sistemarsi una volta per tutte; ma la relazione che instaura con Amerigo la sorprende esattamente nella sua volgarità disillusa, illudendola di un futuro, di una pace forse sempre rincorsa ma mai confessata; illudendola, soprattutto, di un amore. Amerigo e Bianca al pari di Romeo e Giulietta: la battaglia tra le rispettive famiglie è soltanto introiettata, mentre quella dei due protagonisti nei confronti del mondo esterno non avrà gli stessi toni mélo di Shakespeare, ma non si discosta più di tanto dalla sua definizione (Amerigo muore, Bianca se ne va, il bordello viene chiuso dalla questura).

FOT 48

La Viaccia, più di La vena d’oro, è il primo vero dramma in costume di Bolognini: dal film del 1955 il regista ha fatto molta strada, e ha perfezionato uno stile che ormai non ha sbavature. La densità delle scene è merito dei costumi di Piero Tosi (che per la loro perfezione s’ispira a La signora col cagnolino [1960] di Josif Chejfic: «Di film “vestiti bene” ne ho visti molti, ma nessuno in cui il costume fosse così mirabile, così discreto, ridotto al minimo come effetti grazie al massimo di puntualizzazione») e della scenografia del futuro regista Flavio Mogherini, entrambi vincitori del Nastro d’Argento nel 1962; ma in special modo di un controllo dei movimenti della macchina da presa che predilige la fissità o i carrelli leggeri. Le stanze del bordello presentano un’ipertrofia scenografica che fa da contrasto al vuoto gelido del podere dei Casamonti, tanto che a volte si fa fatica a distinguere le persone dagli oggetti (fot. 49): segno che in nessuno dei due mondi, quello famigliare e quello adottivo, Amerigo trova pace. Ma Bolognini e il montatore Baragli sono sempre capaci di sorprendere: e nella sequenza dell’accoltellamento, giocano con tre stacchi e relative ellissi che lasciano attoniti (fot. 50).

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Con La Viaccia, ormai sono limpide forma e poetica di Bolognini, che ancora una volta va incontro ai soliti guai con la censura (quattro tagli piuttosto ridicoli, per un totale di otto metri, tutti appartenenti a scene nel bordello) e al divieto ai minori di sedici anni. Viene al solito scambiato dalla critica per un calligrafico vuoto; eppure dichiarerà a Gili: «In generale, la ricerca che faccio, diciamo, della forma, non costituisce mai un fine in sé; cerco di trovare la vita nelle cose, e poi se ci riesco, non lo so. Quando giro a Firenze o a Roma cerco sempre, in queste strade, in questi costumi, la vita. […] Cerco per prima la verità, la vita: la mia presunzione sta nel ricercare la vita delle cose. […] Tosi ha lavorato alla ricerca della verità nei costumi, andando a frugare nelle cassapanche dei contadini, e prendendo ogni sorta di vestiti. Si trattava di non disegnare i costumi che piacciono tanto alla critica, e che per me sono ripugnanti, perché rappresentano la finzione cinematografica. […] Si cercava perfino la polvere per coprire la gente». Mentre Tosi, sul set, dice al critico Pietro Bianchi: «Gli abiti dei contadini sono veri. Li abbiamo scovati nelle case di campagna, in Toscana e in Emilia. È stato facile far aprire vecchie casse, e son venute fuori quelle giacchette striminzite, con le maniche a mezzo polso, la vita alta, i “revers” esilissimi. Bastò farli adattare alle figure fisiche degli attori, e ottenere subito quel che ho voluto soprattutto: che la gente, cioè, non fosse “in costume”, ma “vestita”. Che sembrasse gente dell’epoca con indosso le cose sue, senza niente di

falso. […] Poi ci sono state le discussioni con il calzolaio. Quando gli ho ordinato le scarpe per le donne non riusciva a capire che stivaletti e scarpine andavano fatti in forma settecentesca, e non fine ottocento. Ci fu una moda, in quell’epoca, assai particolare, che ottenne successo soprattutto nelle scarpe. Era un ritorno al Settecento, con la punta ricurva d’ispirazione orientale e il tacco a rocchetto. Scarpe come le portano certe donne nei dipinti di Longhi. Discutemmo a lungo, ma poi riuscii a dimostrargli che quel taglio settecentesco era giusto. Gli feci vedere una vecchia fotografia di donna, e gli indicai il “pouff” dietro i vestiti. Non ricorda il “panier”?, gli dissi. E notai che settecenteschi erano anche certi cappellini a feluca, del periodo di Maria Antonietta. Così, per le scarpe, facemmo delle forme di creta, finché riuscimmo a ottenerne una in cui c’era la linea giusta». Scrive lo stesso Bianchi: «Erano, Mauro e Pierino (Piero Tosi, n.d.a.), due poeti alla ricerca del tempo perduto; si muovevano, assorti, tra vecchi panni, ammennicoli, merletti e falpalà come intenti, presi nel giro stregato della memoria poetica. Uno stato di grazia che Stendhal ha chiamato cristallizzazione e Proust un trasalimento del cuore». Filippo Sacchi su «Epoca» ha però da ridire: «Qui non è più nemmeno fotografia, è incisione, acquaforte, litografia. È come se ci portassero in giro in una galleria fatta interamente di disegni e di stampe dell’Ottocento, anzi di macchiaioli toscani, con vedute della vecchia Firenze e dei colli, squisite eleganti impressioni in bianco e nero, quasi tutte riprese in giornate di nuvolo o di pioggia per poter più finemente giocare coi grigi e coi chiaroscuri (non devono aver mai visto sole a Firenze nel 1885); oppure meticolosi interni umbertini illuminati a gas, con mobili grevi, galeotte specchiere e divani capitonnés. E sarebbe bellissimo se fossimo davvero in una galleria, ma qui siamo in un film […]. Quelle raffinate, preziose vignette retrospettive non bastano più, occorrono personaggi vivi e in carne e ossa. […] Nella Viaccia c’è addirittura l’ossessione pittorica: si direbbe che, continuamente attirato dalle cose e dallo sfondo, l’obbiettivo passi oltre ai personaggi, che diventano allora sagome statiche, a loro volta oggetti dipinti». Bolognini osa chiudere con un campo lunghissimo della Viaccia, al tramonto (fot. 51), con i dialoghi appena percettibili, che funge da ultima visione di Amerigo morente e insieme da pietra tombale su una concezione della proprietà impossibile da abbattere e da comprendere.

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Senilità Dopo il successo di Il bell’Antonio e La Viaccia, Bolognini prosegue con gli adattamenti letterari. Forse non si accorge, o non si preoccupa, di servire su un piatto d’argento l’etichetta che i critici cercano per metterlo in una bacheca e renderlo innocuo e prevedibile. In un primo momento subentra a Pietro Germi nell’adattamento di Metello di Vasco Pratolini, uscito nel 1955 tra grandi discussioni; ma passeranno otto anni prima che il progetto si realizzi. Bolognini ripiega allora su Senilità di Italo Svevo: un mondo diverso per epoca e ceto. Pratolini lo sconsiglia: il romanzo dello scrittore triestino non è l’opera di un minore come Pratesi, ma è entrato da poco nel pantheon della letteratura italiana; e probabilmente l’autore di Metello è preoccupato dalla difficoltà di rendere

sullo schermo la minuziosa e impietosa analisi psicologica sveviana, che prefigura la psicoanalisi al pari del coevo Arthur Schnitzler. Bolognini trova un nuovo sodale in un altro scrittore, Goffredo Parise, che è diventato noto nel 1955 con Il prete bello, dal 1960 si è trasferito a Roma ed è desideroso di cimentarsi con il cinema. Con lui collaborerà direttamente in Agostino e nell’episodio La balena bianca di La donna è una cosa meravigliosa; e in altre due occasioni (l’episodio I miei cari di La mia signora e L’assoluto naturale) si ispirerà a suoi testi. Il film si realizza grazie a Moris Ergas, uno dei produttori più avventurosi di quegli anni, e anche dei più aperti a opere anticonvenzionali. All’inizio, come testimonia una prima stesura della sceneggiatura riemersa di recente e studiata da Barbara Sturmar, si pensa di spostare l’ambientazione a Venezia, in modo da accontentare i distributori americani: ma le vivaci reazioni dei triestini, testimoniate dalla stampa dell’epoca, impongono di girare nella città di Svevo. Per il ruolo di Angiolina, la Cardinale, al terzo film con Bolognini, viene preferita a Barbara Lass e Jean Seberg: questa volta non è doppiata e sfoggia un caschetto alla Louise Brooks. Anche se nel romanzo il personaggio è biondo, la scelta appare a tutti riuscita. All’epoca convince meno Anthony Franciosa nella parte del protagonista maschile: e sul set i rapporti con Bolognini non sono buoni. D’altronde si tratta di una terza o quarta scelta, dopo Montgomery Clift e Marcello Mastroianni. Nel 1962 gli incassi sono buoni (meno di Sexy al neon di Ettore Fecchi, ma più di L’eclisse di Michelangelo Antonioni), e arriva anche il primo premio al festival di San Sebastian. Trieste, 1928. Impiegato con deposte velleità di scrittore, Emilio Brentani ottiene un appuntamento da una ragazza conosciuta per strada, Angiolina, e si prefigura “un’avventura facile e breve”. Vive da solo con la sorella Amalia, zitella, e ha come unico amico lo scultore Stefano Balli, donnaiolo di cui Amalia è invano innamorata. Angiolina si presenta a Emilio come una giovane povera ma onesta che sostenta la famiglia con il suo lavoro da sartina; gli concede al massimo dei baci, e lo irretisce sempre di più. Gli promette di andare a letto con lui dopo che si sarà sistemata con tale Volpini, un vecchio che promette di sposarla. Stefano, che durante un’uscita a quattro capisce subito di che pasta è fatta la ragazza, cerca invano di mettere in guardia l’amico, avvertendolo delle frequentazioni equivoche di Angiolina, di cui è stato testimone. Di fronte alla ripetute bugie della ragazza, Emilio trova la forza di lasciarla. Intanto Amalia si innamora sempre più di Stefano, rendendosi patetica e ridicola. Stefano ostenta di non accorgersene, ed Emilio gli dice di non andare più a casa loro. Un giorno incontra per caso Angiolina, e questa volta va subito a letto con lei, e per di più a casa della ragazza. Si stabilizza un nuovo tipo di relazione: Emilio affitta una camera e le passa dei soldi, facendo finta che siano prestiti. Ma le bugie e le contraddizioni di Angiolina lo fanno impazzire nuovamente di gelosia. Amalia si ammala di polmonite, e si scopre che si drogava con l’etere. Emilio scopre che Angiolina ha posato nuda per Stefano, e che con ogni probabilità è stata la sua amante. Ma è quest’ultimo ad assistere Amalia morente, mentre Emilio va a un “ultimo” appuntamento con Angiolina. Questa volta però le dà della “puttana” e la caccia con violenza. Dopo il funerale di Amalia, Emilio rivede Angiolina con un marinaio. Cerca di avvicinarla, si umilia dicendole che le vuole bene ancora, viene picchiato dal giovanotto, e in lacrime la vede allontanarsi. La sua voce narrante dice: «Com’eravamo stati colpevoli io e Amalia a prendere la vita tanto sul serio. Non ti rivedrò più, Angiolina, sono solo, solo, ma ti amerò sempre».

Il romanzo di Svevo viene pubblicato per la prima volta nel 1898. Bolognini trasferisce l’azione nel 1928, anche se l’unica indicazione cronologica è fornita dai vestiti e dal taglio dei capelli. Lo giustifica con il fatto che la seconda edizione del libro esce nel 1927, e che la vicenda in realtà è universale. Di certo Senilità è il modello inconfessato di un recente successo letterario come La noia di Alberto Moravia (1961), che nel 1963 diventerà un film di Damiano Damiani. In quello stesso anno uscirà un altro romanzo di tema affine, Un amore di Dino Buzzati (a sua volta portato sullo schermo da Gianni Vernuccio nel 1965). D’altra parte Sergio Antonielli aveva parlato sprezzantemente di Moravia come di «uno Svevo vulgato e accessibile» per «un pubblico ignaro

della letteratura e della vita», che in lui riconosce la «propria cattiva coscienza». Il tema di superficie del romanzo di Svevo è quindi nell’aria: e Bolognini, al cinema, arriva per primo. Il passaggio dal mondo austroungarico sveviano all’Italietta da poco fascistizzata è comunque funzionale, come scrive Brunetta in Il cinema italiano contemporaneo, al «discorso sui tabù, sulle convenzioni sociali e le repressioni che condizionano la vita dell’individuo», iniziato in Il bell’Antonio. E la sceneggiatura è sostanzialmente fedele al romanzo: ha lo stesso inizio brusco, anche se sacrifica vari episodi e deve rinunciare alla complessità analitica sveviana. Per esempio nel romanzo sono sicuramente meglio analizzate le motivazioni di Emilio che, mentre la sorella è in agonia, va all’ultimo appuntamento con Angiolina. Con il discorso indiretto libero Svevo svela impietosamente il tessuto di scuse e alibi con cui il personaggio mente a se stesso, cedendo alle proprie pulsioni; mentre nel film l’evento si svolge in modo più sbrigativo e meccanico, a scapito anche della verosimiglianza. Altrove gli interventi sono di tipo didascalico: l’insulto “puttana” rivolto ad Angiolina non compare in Svevo, che invece gira attorno a questa parola con pruderie d’altri tempi. Un’innovazione più vistosa da parte degli sceneggiatori (accanto a Parise c’è l’esperto Tullio Pinelli) è l’introduzione di una voce narrante in prima persona (il romanzo invece è eterodiegetico, in termini narratologici), che appare dopo cinque minuti e punteggia sporadicamente la vicenda. Non a caso la voce compare nel finale, un episodio assente dal romanzo, che si conclude invece con una vana ricerca di Angolina da parte di Emilio. Ed è forse l’unico momento di sottolineatura melodrammatica, l’unica concessione al tema decadente dello “schiavo d’amore”. Emilio viene picchiato dal marinaio che accompagna la ragazza, e la sua voce over pronuncia parole mielose e non propriamente sveviane. In un film dove tutti sono variamente perdenti, patetici e sgradevoli, e dove la macchina da presa molto spesso non è all’altezza dei personaggi, ma è in plongée (fot. 52) o li riprende dal basso, Bolognini probabilmente cercava nella narrazione in prima persona un mezzo per infondere un po’ di pathos. Emilio, peraltro, è afflitto da un io debordante: non fa che ripetere «provo compassione di me stesso», «avevo punito me stesso». È l’uomo decadente, arrivato a un eccesso di consapevolezza e incapace di avere un rapporto diretto con la realtà. Bolognini e i suoi sceneggiatori trattano però senza indulgenza questo mito della letteratura del primo Novecento, e lo riducono alla dimensione piccoloborghese di uno scapolo che vive con la sorella, cerca un’avventura facile, e ne viene duramente punito. Nel film compare un’altra innovazione, così macroscopica da essere meno avvertibile, e quindi più sottile. L’Angiolina di Bolognini, la donna come forza naturale irresistibile, specie nella prima parte è molto più presente rispetto a quella del romanzo. La narrazione di Svevo è sì in terza persona, ma filtra Angiolina sempre dal punto di vista di Emilio, o di Stefano. Al cinema, per un procedimento inevitabile, Angiolina risulta più oggettivata, e quindi allo stesso livello di Emilio. Come abbiamo visto, è accaduto anche per il personaggio di Bianca di La Viaccia, rispetto alla Zaira di Pratesi. Certo, in entrambi i casi dipende anche dal fatto di avere a disposizione la Cardinale che, come star, va trattata con il dovuto riguardo.

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Bolognini fa pronunciare la parola “puttana” a Emilio, ma non riproduce le sue elucubrazioni

maschiliste. Il fatto che lo spettatore occupi una posizione esterna e superiore ai personaggi evita ogni sottolineatura univocamente misogina. Noi vediamo Emilio cadere nelle bugie di Angiolina e diventarne succube. Ma questo succede non perché il personaggio femminile sia cattivo. Da una parte Emilio si costruisce, ancora una volta da solo, tutta una sovrastruttura sentimentale per giustificare la sua voglia di sesso, e finisce per crederci. Dall’altra i personaggi sono il prodotto della società in cui vivono, e in questo senso la critica dell’epoca non fu capace di cogliere il marxismo spontaneo e non premeditato di Bolognini. Nel mondo borghese l’amore è un commercio e una transazione, specialmente se valica le differenze di classe, e tanto più – viene voglia di aggiungere – se il contesto è quello di una città mercantile come Trieste. Come da manuale hegeliano del rapporto servo-padrone, lo sfruttatore Emilio diventa sfruttato, e la sfruttata Angiolina ottiene una rivalsa. Anche Amalia è trattata in modo altrettanto impietoso, pur essendo un personaggio più “nobile”, in quanto perdente e destinato alla morte. L’«alta scuola» (Grazzini) di Betsy Blair, contrapposta alla recitazione più spontanea della Cardinale, assicura al personaggio una statura tragica, ma non un’assoluzione. Amalia è lo specchio di Emilio spostato di qualche anno, è la senilità realizzata, e in questo senso la sua morte non è il solito, detestabile espediente drammaturgico per cui in un film o in un romanzo deve morire qualcuno. La morte di Amalia è necessaria per smantellare tutte le bugie di Emilio. Quanto a Stefano/Philippe Leroy, forse è più scolorito e sacrificato che nel romanzo, ma rappresenta anche l’occasione per smontare il mito dell’artista bohémien, in realtà complice del mondo ai cui margini vive.

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Il talento di Bolognini sta nell’incarnare questi rapporti di classe e di denaro nella concretezza delle architetture: in appartamenti sovraccarichi e bui come quello di Emilio e Amalia (fot. 53), in uffici involontariamente kafkiani come quelli in cui lavora il primo, non potrebbero vivere altri personaggi. E tanto Bolognini ama esteticamente questo mondo, quanto ne coglie l’aspetto di prigione soffocante. All’ universo borghese si aggiunge quello in bilico tra proletariato e piccola borghesia: case umide eppure aspiranti a un decoro fasullo come quelle di Angiolina o dell’affittacamere. Qui la deformazione grottesca è più spiccata. La famiglia di Angiolina, con la madre che regge il moccolo alle tresche della figlia che la mantiene, e la sorellina che pare già avviata sulla buona strada per sfruttare i maschi, è un’invenzione agghiacciante (di cui Damiani probabilmente si ricorderà in La noia). E serve a esplicitare l’avversione di Bolognini per l’istituzione della famiglia, con una forza forse inedita, e che avrà gli opportuni approfondimenti nei film successivi. Stilisticamente, Senilità è anche uno dei film del regista in cui dominano il pianosequenza e il campo lungo. Il personaggio si perde tra le architetture (fot. 54), e Trieste non è un luogo di sogno come la Lucca nostalgica di Giovani mariti, ma una città buia, fredda, piovosa, un po’ austroungarica e un po’ umbertina, dove il mare non apre alcun orizzonte di fuga, ma appare come un limite. I primi piani sono relativamente rari e improvvisi, e acquistano per questo tanta più forza (fot. 55). E Bolognini è stato sicuramente uno dei registi più abili a cogliere la bellezza torva della Cardinale.

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Agostino Al contrario della Trieste di Senilità, la Venezia di Agostino è soleggiata, en plein air, sudata; e il mare, se non apre un orizzonte di fuga, di certo assume una simbologia amniotica e sessuofobica assieme che per il giovane protagonista è al contempo cullante, rassicurante, curiosa, misteriosa e spaventosa. Luigi Rovere, che aveva già prodotto Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo, stavolta decide di finanziare un progetto ben diverso, che sarebbe stato distribuito per giunta dal “magnate” Dino De Laurentiis. Il romanzo breve omonimo di Alberto Moravia alla base del film racconta della scoperta della sessualità di un decenne e della sua passione più che vagamente incestuosa per la madre vedova; ma l’argomento scottante, di cui si rende conto lo stesso Bolognini («era forse un film piuttosto forte quando l’ho girato»), non intimorisce la produzione né il regista, che per la prima volta affronta il formato scope (a cui tornerà soltanto un’altra volta, con Madamigella di Maupin) e s’affida dopo Senilità di nuovo a Parise per la sceneggiatura. Bolognini avrebbe in seguito dichiarato: «Agostino è uno dei film che mi è piaciuto di più fare». Venezia. Il decenne Agostino è in vacanza con la madre in un hotel di lusso. Le sue giornate iniziano con la colazione in camera (durante le quali si prodiga a servire la madre), poi in spiaggia. In cabina, la madre spoglia e mette il costume ad Agostino; la madre, con un due pezzi, è osservata con voluttà dai maschi vicini. Agostino e la madre vanno al largo con il pattino: si tuffano e fanno il bagno. Una mattina, mentre prende il sole, la madre è avvicinata dal baldanzoso Renzo, che la invita per un viaggio in motoscafo: lei accetta, dicendo al figlio di aspettarla accanto al lettino. I viaggi in motoscafo si ripetono nei giorni seguenti, e Agostino vi prende parte (anche al volante del mezzo), però riluttante, perché pare non gradire il rapporto che si è instaurato tra Renzo e la madre. Agostino vorrebbe di nuovo sua madre tutta per sé, e quando Renzo non si fa più vedere, il ragazzo ritrova la felicità: con la madre fa passeggiate per piazza S. Marco e visita La Biennale. Poi però Renzo ritorna. Agostino, dopo aver ricevuto uno schiaffo dalla madre per aver adottato un tono irrispettoso («Ti fa aspettare, eh?»), si rifugia in cabina a piangere, dove improvvisamente entra Berto, un ragazzino poco più grande di Agostino, a torso nudo: sta giocando con gli amici. Agostino lo prega di farlo entrare nel gioco, e gli consegna le sigarette della madre. Berto gli dice di seguirlo, lo obbliga a fare una tirata, gli brucia il braccio con il mozzicone acceso. Ma Agostino gli va dietro comunque, fino a una spiaggia dove, accanto a una

baracca di legno, c’è un uomo, il Saro, intento a lavorare a una rete. Arrivano poi gli amici di Berto, che viene picchiato per aver barato al gioco nascondendosi nella cabina. I ragazzi, seminudi e sporchi, sono tutti molto incuriositi da Agostino, in maglietta e pantaloncini bianchi. Lo interrogano sulle avventure amorose della madre con Renzo, ma lui dimostra di non capire: il più grande dei ragazzi, Sandro, gli dice che è come fanno i cani, mentre altri due ragazzi, Scarpa e Tripoli, mimano sulla spiaggia un amplesso. Agostino ne resta traumatizzato, tanto che non sa più cosa pensare della madre. In camera la osserva, la spia, mentre i suoi rapporti con gli altri coetanei ospiti dell’albergo si raffreddano. Agostino non riesce a fare a meno della compagnia dei suoi nuovi amici: con loro gioca, fa il bagno, va in barca. È a Sandro, il più maturo, che sembra affezionarsi di più, ed è proprio Sandro che gli fa conoscere il casolare dove una prostituta, la vacca Tecla, fa quello che si vuole per 3.000 lire. Gli incontri tra la madre e Renzo continuano. Un giorno Agostino va alla baracca del Saro: con lui c’è soltanto Tripoli. Il Saro offre ad Agostino di andare in barca a raggiungere gli altri, ma Tripoli si oppone fermamente, dicendo che vuole andare lui solo con il Saro, che però lo lascia a terra. In barca, il Saro fa prendere il timone ad Agostino, e gli appoggia la mano sulla sua. Raggiunti gli altri su un isolotto vicino, Agostino viene da loro canzonato come “mentina”, al pari di Tripoli: ma Agostino non ne capisce il significato. Sarà Sandro a spiegarglielo. Mentre la sua inquietudine aumenta sempre più (causandogli anche degli incubi), Agostino una sera prende dei soldi dalla borsetta della madre, e si fa accompagnare da Sandro alla baracca della vacca Tecla. Ma la prostituta lo rifiuta, accettando solo l’amico. Tornato in camera dice alla madre, appena rientrata, che d’ora in poi vuole essere trattato come un uomo.

Gli argomenti trattati da Agostino, comunque, devono avere influito sul suo destino tragico. Distribuito anche come Agostino o la perdita dell’innocenza e vietato ai minori di diciotto anni, esce in sala per una settimana soltanto, per poi scomparire nel nulla. L’attrice svedese protagonista, Ingrid Thulin, già nota soprattutto per un paio di film di Ingmar Bergman, ne detiene i diritti per la Svezia, dove esce regolarmente (garantendole anche una percentuale sugli incassi); ma nel resto del mondo va incontro a un oblio che dura fino ad oggi. Difficilissimo da vedere in una versione decente (da noi esce col formato sbagliato in una vhs ormai introvabile), Agostino «è rimasto nei cassetti. Per motivi misteriosi…», confermerà Bolognini, che decide assieme a Parise di apportare soltanto una modifica al romanzo di Moravia: non più Viareggio, bensì Venezia. «Ho situato il film in una città diversa da quella del romanzo: ho preferito Venezia a Viareggio per il desiderio di avere più acqua. Questo tema dell’acqua c’era anche a Viareggio, città marittima, ma a Venezia era ancora più forte. Il tema dell’acqua è più dolce a Venezia che in qualsiasi altra città direttamente sul mare», dirà il regista a Gili. Moravia accorda a Bolognini il permesso di cambiare tutto quello che vuole, ma Agostino rimane un resoconto fedele del romanzo. Perfino nel suo declinarsi spiccio e senza fronzoli. La voce off violentemente letteraria, che contrappunta gli eventi a rivelare gli stati d’animo e i pensieri turbinosi e contradditori di Agostino, cozza volutamente con l’elementarità “primordiale” sia del percorso del protagonista, sia del contesto. Ma non è un orpello lezioso, anzi riflette lucidamente il caos mentale di un bambino ricco ed educato che improvvisamente e senza difese si trova a fare i conti con “cose” sconosciute. L’apprendistato alla conoscenza dei propri stimoli significa per Agostino dare letteralmente un nome a processi finora vissuti senza veramente “saperli”. Dal quotidiano bagno in mare rigenerante con la madre all’incubo, il passo è breve, sia nel film sia nel romanzo. Agostino non è in grado di identificare correttamente la sua vicinanza carnale con la madre (fot. 56), e sarà quella con il Saro e i suoi ragazzi, altrettanto carnale, a portarlo sulla strada del chiarimento (fot. 57). Posto dinanzi a dei corpi nudi, titanici e irraggiungibili (Saro e Renzo), invidiabili (Sandro), o paritari ma ugualmente intimidatori (Berto, Tripoli, Scarpa), e altresì ai sentimenti primitivi che li muovono e li governano, Agostino non sa più che fare di se stesso, della madre e della vita che fino a questo momento era andato vivendo con tranquillità superficiale.

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In termini generali, Agostino è il classico coming of age; ma Bolognini è troppo avanti per gli anni, e vuole mettere in scena più di quanto il comune senso del pudore possa accettare. Prima di lui, nel 1960 già Giuseppe Bennati con Labbra rosse, Damiano Damiani con Il rossetto e Alberto Lattuada con Dolci inganni hanno reso conto dei turbamenti adolescenziali o pre-adolescenziali (di due sedicenni Bennati e Damiani, di una dodicenne Lattuada); Bolognini abbassa di più l’età, quella appena uscita dall’infanzia e non ancora entrata nell’adolescenza, e non si nasconde dietro veli di opportunismo borghese. Il suo protagonista scopre il sesso attraverso lo sguardo (l’amplesso mimato da Scarpa e Tripoli sulla spiaggia, un misto animalesco di gioco, prepotenza e morbosità, fot. 58) e l’udito (Sandro gli sussurra all’orecchio le preferenze del Saro, fot. 59); e si ritrova di fronte a una nuova madre e a un nuovo sé: della prima, gli viene rivelato senza peli sulla lingua e volgarmente quello che fa con Renzo, e la sua carica erotica così tanto desiderata dai bagnanti e dai ragazzi stessi e mai da lui realmente considerata; di sé, Agostino conosce desideri, vergogne, rifiuti, “gusti” che prima non aveva mai pensato di possedere. Infine è Agostino stesso a dichiarare perentoriamente alla madre di voler essere trattato come un uomo, d’ora in avanti. Ma per lui essere uomo è misterioso e terrificante come essere un ragazzo; l’insuccesso del suo proposito di essere sverginato dalla vacca Tecla lo coglie nel pieno delle pulsioni e delle tensioni, che egli non può che riconoscere come tratti distintivi dell’essere uomini. La decisione subitanea di essere considerato un uomo non è per il film e per il romanzo una soluzione. Entrambi si chiudono con le due frasi: «Come un uomo, non poté fare a meno di pensare prima di addormentarsi. Ma non era un uomo; e molto tempo infelice sarebbe passato prima che lo fosse».

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Le vicende affrontate da Agostino non risolvono né concludono alcunché, piuttosto rivelano, implicano, suggeriscono. Il direttore della fotografia Aldo Tonti rappresenta questo momento di passaggio, dove le epifanie sono più oscure dei segreti a cui si riferiscono, con dei chiaroscuri intimistici che rispecchiano lo stato mentale del ragazzo: in camera (fot. 60), a letto, in cabina, nella baracca del Saro, Agostino è circondato da ombre, che sembrano diradarsi una volta all’aperto, sulla spiaggia, in mare. E Bolognini riempie il formato scope di vuoti e di acqua, dove lo sguardo impreparato del protagonista Paolo Colombo si perde, e dove anche soltanto un gesto (il Saro che in barca appoggia la mano su quella di Agostino, fot. 61) assume significati esponenziali. Il montaggio di Baragli – che comunque durante l’incubo ovattato si sbizzarrisce in piani svariati, campi e controcampi sfalsati ed ellissi – appare disteso; mentre il regista si serve soprattutto di totali e di campi lunghissimi per sfruttare al meglio i paesaggi delle isole della laguna veneziana. Ma ad Agostino sono riservati anche dei carrelli leggeri, bruschi o sconvolgenti: quando tra gli schiamazzi dei ragazzi osserva ammutolito Scarpa e Tripoli che si rotolano sulla spiaggia a mo’ di amplesso, Bolognini gli s’avvicina brutalmente (e ripetutamente, con tre stacchi) nello stesso modo con cui aveva ripreso Antonio durante la partenza in auto di Barbara, appena risposatasi, in Il bell’Antonio.

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Moravia rimane molto soddisfatto dal lavoro svolto dal regista. Tanto da difenderlo a spada tratta su «L’Espresso» contro gli attacchi e «la cecità della critica» (Fernaldo Di Giammatteo su «Bianco e Nero», per esempio, stronca film e regista senza appello: «ama il formalismo postdannunziano, sensualistico e antiquariale […]. La necessità delle distinzioni, che dovrebbe essere fondamentale per un regista eclettico come lui, non sa neppure cosa sia. E non se ne preoccupa»). Lo scrittore non solo si allea con Bolognini nel sostenere il primato di un romanzo su un soggetto originale («dato il basso livello culturale dei “soggettisti”»); ma scrive che Agostino è «un bel film, uno dei suoi migliori», giustificandone i pochi cambiamenti rispetto al testo e apprezzandone soprattutto le scene con i ragazzi, così tanto disprezzate dalla critica per la presunta «mano pesante» del regista. La corruzione Nel marzo del 1963 Bolognini annuncia che girerà un adattamento di Tonio Kröger di Thomas Mann per la Titanus. Si fanno sopralluoghi a Lubecca e si parla di Maximilian Schell come protagonista, ma non se ne fa niente. Prima di abbandonare per un paio d’anni il lungometraggio e provare a mettere in pratica la sua poetica con la stringatezza del cinema a episodi, il regista lascia allora momentaneamente da parte anche l’ispirazione narrativo-letteraria, per dedicarsi a una vicenda di ambientazione contemporanea su un soggetto di Ugo Liberatore (che viene dalle sceneggiature per film mitologici e d’avventura e da quelle per Il mulino delle donne di pietra di Ferroni [1960] e L’isola di Arturo [1962] e La rimpatriata [1963] di Damiani, e che esordirà nella regia nel 1967 con Il sesso degli angeli, specializzandosi nel cosiddetto filone erotico-esotico), sceneggiato con Fulvio Gicca Palli. A finanziare per l’Arco Film è di nuovo Alfredo Bini, ancora una volta in co-produzione con la Francia. La corruzione riceve il divieto ai minori di diciotto anni, il Premio Federazione Nazionale dei Cineclub al Festival di San Sebastian nel 1964, e le solite accuse di vacuità calligrafica. Terminato il collegio universitario, il giovane Stefano Mattioli, deciso a prendere la strada del noviziato, torna a casa. Prima però fa visita a un convento di frati, dove gli viene mostrata la sua futura cella, nel caso decidesse di entrarvi. Il padre di Stefano, Leonardo, lo riceve all’aeroporto. Stefano vuole andare subito a trovare la madre, in clinica per esaurimento: «50.000 lire al giorno», ci tiene a fargli sapere il padre. In ufficio Leonardo, ricchissimo industriale, minaccia il magazziniere affinché copra un ammanco nella contabilità: Stefano è testimone della scena, e sembra prendere le parti del dipendente. A un party, Leonardo presenta il figlio a Morandi, scrittore di sinistra che collabora con il padre. È al party che Stefano conosce Adriana, segretaria privata di Leonardo già intravista in ufficio. Rientrati a casa, Stefano confessa al padre, che ha per lui progetti di denaro, di voler diventare novizio. Leonardo non la prende bene e, per convincerlo a desistere, gli offre un weekend in mare sul suo yacht. Il giorno della partenza si presenta anche Adriana. In mare aperto, Stefano non gradisce la presenza della donna, mentre lei a poco a poco lo seduce. È il padre che, anche con le parole («Ma tu, scusami, ce l’hai con le donne?» chiede al figlio; «No, le trovo molto belle», risponde lui), e con la complicità di Adriana, architetta il cedimento di Stefano ai piaceri della carne: dopo un litigio con il padre, che gli dice che non

acconsentirà mai ai suoi desideri religiosi, Stefano finisce tra le braccia della donna. Rientrati a terra, Leonardo torna in ufficio, dove è presente anche Stefano quando il magazziniere, disperato, si suicida gettandosi giù dalla finestra. Leonardo, con la complicità di Morandi e l’aiuto del suo avvocato, compra il silenzio del padre del morto con i soldi. Stefano è schifato, e cerca di convincere Morandi a ribaltare tutto, mettendo alle strette Leonardo e creando uno scandalo: ma lo scrittore rifiuta. Disgustato da suo padre, Stefano si aggira nottetempo da solo per le strade della città. Telefona ad Adriana, che lo viene a prendere in auto. Giungono in una balera, dove numerosi giovani stanno ballando un pezzo di hully-gully. Adriana scende per cercarvi il fratello, mentre Stefano, rimasto in auto, scoppia in lacrime.

Lo sguardo sulla contemporaneità di La corruzione si aggiorna rispetto alle opere precedenti sul “presente”. Fin già dal titolo, che riguarda una corruzione morale, prima di tutto. Ambientato nel Nord di un’Italia facoltosa (e girato tra Como e Milano), dove ormai la struttura piramidale degli affari porta soltanto alla possibilità di buttarsi giù da piani sempre più alti senza il rischio di sopravvivere (fot. 62), il film affronta una questione in apparenza semplice: l’impossibilità per la gioventù di seguire la propria vocazione, attorniata da obblighi famigliari, pressioni esterne e richiami prosaici irresistibili (su tutti, il denaro). Su un’idea che sembra anticipare le atmosfere della controcultura, Bolognini s’allontana però dalla retorica giovanilistica e riflette sull’intimità di un personaggio tradito: dal padre, dal mondo, da se stesso. La condanna dell’immoralità dei costumi non gli prende la mano; ed è l’universo interiore di Stefano, improwisamente scoperto e senza protezioni, che a Bolognini interessa. Un altro Agostino: La corruzione è il viaggio – anche letterale, sulla barca – verso un coming of age altrettanto violento, ma più subdolo e forse per questo più doloroso. In superficie, si tratta di una via crucis di un giovane che non può che chinare la testa di fronte alle cose: l’ultima inquadratura lo vede in auto, solo, in lacrime, con il capo abbassato, disperato. Ma il percorso adottato da Bolognini non è scolastico, non fa tappa alle istituzioni sociali, lascia parlare il privato. Ciò che accade sulla barca è un gioco di potere tra due soli personaggi, padre e figlio, mentre un terzo incomodo, Adriana, è agli ordini del primo per “corrompere” il secondo. Sull’acqua avviene una tragedia classica, in cui la donna è tentatrice e l’innocenza ne subisce il fascino (fot. 63), fino all’abbandono estremo tra le sue braccia, che Filippo Sacchi su «Epoca» definisce «forse la più bella, la più intensa, la più lirica scena erotica del nostro cinema» (fot. 64). Ma il discorso non è qualunquista, la misoginia, se c’è, è soltanto indiretta, e la pietà è per chiunque, tranne che per i potenti. Ne sono esclusi dunque Leonardo, il voltagabbana Morandi e tutte le persone di cui si attornia l’industriale; mentre Adriana finisce per rappresentare la debolezza di un’umanità al servizio dei padroni, di cui il magazziniere suicida è esclusivamente un esempio plateale.

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Affacciatosi sul mondo dopo aver vissuto di libri, Stefano si accorge a sue spese che l’integrità, sia essa religiosa o sociale, non esiste. Il colpo più duro però arriva dalla famiglia. Per Bolognini, si tratta di un ennesimo scontro tra consanguinei maschili: dopo i padri e i figli di Il bell’Antonio e La Viaccia (e, su coordinate diverse, “Arrangiatevi”), quelli di La corruzione mettono in scena una lotta impari che prevedibilmente porta alla sconfitta il più giovane, forte soltanto delle proprie idee. Lo scontro tra Stefano e Leonardo è tra due ideologie di vita, cui il regista concede pochi benefici del dubbio. Lo spirito, inteso come rettitudine lucida di un pensiero, appartiene a entrambi; è solo un problema di forza. E di collettività: l’individualismo è soffocato da un’omologazione ormai generale. Tanto che Bolognini chiude il film con una scena che lascia senza fiato e per la novità nel cinema dell’epoca (un paio di mesi prima Il boom di Vittorio De Sica conteneva una scena di hullygully collettivo ambientata in una casa borghese, ma intenzioni e aspirazioni erano diverse), e per l’efficacia inquietante della messa in scena. Il dancing in cui numerosi giovani stanno ballando l’hullygully (fot. 65) è simbolo di una standardizzazione generazionale che il film dà già per

avvenuta, mentre il cinema se ne accorgerà un po’ più avanti. I giovani sono al passo con i tempi andando a tempo; Stefano, che voleva seguire la fede per un altrove senza volto, riceve il colpo di grazia proprio guardando in faccia l’oggi più evidente, dopo peraltro aver scoperto la vera faccia del pater familias. Sempre Sacchi: «è la prima volta che si tenta in un film italiano di presentare seriamente una crisi giovanile, non (come è generalmente) quale espediente per giustificare continuate esposizioni di nudità, ma cercando di darle dimensioni morali e umane». Bolognini, che non vuole però affatto puntare l’indice contro la gioventù e i suoi passatempi, non sale in cattedra e non fa la morale: osserva, usa la metafora, e ne fa un incubo. La scena, incalzante e ossessiva, è girata con la macchina a mano, dall’interno, tra i corpi, senza giudicare, e l’effetto è senza precedenti (fot. 66); i primi piani di Stefano, a distanza, sull’auto da solo con lo sguardo perso nel vuoto, sempre più immersi nelle ombre della fotografia di Leonida Barboni (fino all’ombra finale, quando china e nasconde la testa piangendo in un nero senza alcun contorno), sono fulminanti. Il montatore Baragli fa miracoli, stringe e armonizza il ritmo come fosse un campocontrocampo tra il volto del protagonista e la balera. «Il mondo è quello che è e non si cambia. Io sono ricco, e difenderò i miei quattrini. Come fa mio padre»: è l’ultima frase di Stefano prima del pianto, didascalica fin che si vuole, ma suona come un’iscrizione sepolcrale.

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Via via incompreso e sottovalutato, poco visto e mal interpretato (tanto che Brunetta nel suo saggio Letteratura e cinema nell’opera di Bolognini lo liquida – al pari del successivo Madamigella di Maupin – su una visione evidentemente frettolosa; mentre Sandro Zambetti su «Cineforum» punta l’indice sulla presunta «estrema incertezza ideologica del film»), La corruzione trova appunto in

Sacchi un difensore illuminato: «È un dramma intimo e introverso, e quindi cinematograficamente difficilissimo, che Bolognini è riuscito a raccontare con simpatia e schiettezza, superando, mi pare abbastanza bene, quel pericolo di predicatoria demagogia insito nell’analisi di queste crisi del costume borghese, e se mai arrivando alla denuncia più che attraverso la pittura polemica di quel mondo, attraverso i riflessi che essa ha nella crisi personale del ragazzo». La corruzione inscena un universo “moderno” in cui il singolo, capace di intendere e di volere, paradossalmente riceve troppo per poter scegliere. Patriarcale e maschilizzato, il mondo di Stefano non ha sfoghi; le donne o sono insidiose e disilluse (Adriana), o assenti perché “scioltesi” in una depressione forse inevitabile (la madre). Ambientato negli anni Sessanta, il contesto di La corruzione a ben vedere non è così dissimile da quelli dei film precedenti del regista: l’uomo (inteso come maschio padrone) detiene il potere, il superomismo è la nuova e sempiterna regola d’esistenza, il pensiero segue binari preordinati, e la femminilità come alternativa di vita è proibita. Anche Stefano è in questo senso “femminile”: La corruzione è l’opera in cui Bolognini riversa la sua visione queer senza più veli (e in maniera più teorica rispetto a Il bell’Antonio), al di là delle preferenze sessuali; e anticipa per certi versi la tragicità gay di Luchino Visconti, che però a partire da La caduta degli dei (1969) ne avrebbe fatto una trasfigurata questione personale e di “martirio”. Se ne riparlerà più avanti, nella postfazione: ma Bolognini chiude immediatamente qua il pessimismo di gender (dopo peraltro averlo filtrato ben bene con il suoi film degli anni Cinquanta, senza che nessuno se ne accorgesse), non serve annichilirsi per simili ragioni, quando la libertà è alla portata di tutti, basta volerla. Difatti, il film successivo, Madamigella di Maupin (che esce nel 1966) sarebbe stato il suo più definitivo in questo senso. La donna è una cosa meravigliosa Nella stagione della commedia all’italiana, Bolognini in un primo momento sembra starsene appartato. Vi rientra in un secondo momento: dal 1964 al 1968 partecipa a ben otto film a episodi, con undici tra corto e mediometraggi. Appare opportuno riunirne la trattazione, anche perché nello stesso periodo dirige solo due lungometraggi: Madamigella di Maupin e Arabella (1967). I film a episodi sono stati a lungo indicati da una critica ingessata come il prodotto più deteriore e mercantile della stagione. Negli anni Sessanta, il cinema degli sketch in realtà è uno strumento duttile per l’analisi di costume, come già scriveva Brunetta nel saggio su Bolognini del 1977, e in particolare per un costante aggiornamento sull’ossessione del sesso, l’emancipazione della donna e il cedimento della morale cattolica. L’erotismo è chiaramente indicato nei titoli ammiccanti (Controsesso, 1964; L’idea fissa e Su e giù di Mino Guerrini, 1964 e 1965). E la declinazione femminile (Le bambole, 1965; Le fate, 1966; Le streghe, 1967) è anche un modo per compensare l’emarginazione della donna dalle commedie, quasi sempre gestite da attori maschi. Last but not least, la censura viene messa a dura prova da un progressivo allargamento delle nudità mostrabili e dell’esplicitezza delle situazioni. Bolognini contende a Luigi Comencini e Franco Rossi la palma di stakanovista del genere. Forse considera questi filmetti in miniatura un modo comodo di sbarcare il lunario mentre si dedica ad altri impegni: nel 1965 mette in scena I’Ernani di Giuseppe Verdi al Teatro Massimo di Palermo, e comincia un’attività di regista di opere liriche che lo impegna anche due volte all’anno. Forse accetta masochisticamente di abbassare le proprie ambizioni, dopo avere preso atto dell’impossibilità di realizzare progetti a lui cari. Dopo il mancato adattamento di Tonio Kroger, la stessa sorte tocca alle Memorie di Casanova: la sceneggiatura viene scritta con Giovanni Comisso, Goffredo Parise e Tullio Pinelli, ed è data come pronta in un’intervista di Alfredo Todisco dell’ottobre 1963. In questo caso il progetto non va in porto per l’audacia: all’inizio «Casanova si calava le mutande e mostrava le piaghe della sifIlide», racconta Bolognini nel 1990. «I produttori rimasero spaventati al punto tale che mi insultarono».

Sinecura o compromesso, Bolognini mostra comunque un’affinità elettiva nei confronti della misura breve. Attraverso gli episodi girati in questi anni sente il polso della società, e approfitta dei vantaggi del racconto rispetto al romanzo. Molti di essi sono opere tutt’altro che minori. L’esordio di Bolognini nel cinema degli episodi avviene con La balena bianca, un mediometraggio dalla storia complessa. Nel 1961, a quanto pare, Parise aveva scritto un soggetto dal titolo La donna cannone, per un film a episodi prodotto da Moris Ergas dal titolo Il Gran Guignol. Quando Bolognini lo gira (non è dato sapere se prima o dopo La corruzione), il titolo è diventato La balena bianca. Ma di Il Gran Guignol non se na fa niente. Al che Ergas fa girare a Bolognini un altro episodio, Una donna dolce, dolce, con Sandra Milo e Vittorio Caprioli. E nel 1964 confeziona La donna è una cosa meravigliosa con i due Bolognini, il premiato corto d’animazione Love del giapponese Yoji Kuri, e un episodio a tecnica mista con Sandra Milo, realizzato da Pino Zac e Giulio Questi. Bolognini aveva molto a cuore La balena bianca. Si era spinto a dire a Gili che era una delle cose migliori che avesse girato. E si rammaricava dell’accoglienza ricevuta al festival di Venezia, dove La donna è una cosa meravigliosa passò fuori concorso, raccogliendo solo fischi. Nelle sale il film fu distribuito con il contagocce, e incassò poco. In un circo, il nano Eros è marito della donna cannone Miriam, che è un’abile acrobata malgrado la stazza. Eros ha una relazione con la nana Luciana, un’altra acrobata, che come lui parla con accento spagnolo. Stanco di essere sfruttato (anche sessualmente), Eros tenta di uccidere la moglie in ogni modo. Ma Miriam, una romagnola dal carattere gioviale, non si accorge mai di nulla. Strangola un orso affamato, nella cui gabbia Eros l’aveva fatta entrare. In seguito, una dose di topicida le fa solo l’effetto di una purga; e sopravvive anche all’esplosione di una bombola di gas. Nel frattempo Luciana dice di aspettare un figlio e comunica a Eros di voler fuggire con il ragioniere del circo, che le fa la corte. Deciso al tutto per tutto, Eros fa cadere Miriam mentre sta in equilibrio su una palla a venti metri di altezza. Ma Miriam si risolleva da terra come se nulla fosse. Non si uccide la donna cannone, conclude Luciana sconsolata, mentre dondola su un trapezio.

Il motivo dell’indignazione dell’epoca si capisce facilmente: Bolognini non era mai stato così sgradevole e radicale nel mettere in scena il rapporto tra i sessi. In La balena bianca il classico triangolo borghese diventa un rapporto tra mostri, dove il nano, sposato a un “pachiderma” (così definisce una volta Miriam), parrebbe autorizzato a trovare la felicità con una “lilliput” come lui. In realtà il rapporto tra i due nani è altrettanto grottesco: vestiti di tutto punto, si danno appuntamento in un caffè (fot. 67) e poi vanno in una camera a ore “per meridionali” (dove non chiedono documenti). L’immagine conturbante dei due a letto (fot. 68) è una scena primaria che sembra connotare l’eterosessualità come qualcosa di innaturale e ripugnante. La critica dell’epoca non coglie di certo la malizia del discorso del regista, ma si ferma alle apparenze, al cattivo gusto esibito con compiacimento, e in gradodi mettere a disagio perché rovescia gli stereotipi. Luciana è una vamp, inguainata in corpetti e calze nere con la riga; ma non è mostruosa in quanto nana che cerca di essere sexy, lo è proprio in quanto quintessenza del sex appeal. Ed Eros è uno dei tanti maschi imbelli del cinema di Bolognini. Comunque non sarebbe corretto parlare di misoginia: perché se c’è un personaggio a cui vanno le simpatie dello spettatore e del regista è proprio Miriam: dotata della voce romagnola di Ave Ninchi, simpaticamente indistruttibile, impermeabile alla malizia, ha un rapporto concreto con le cose, che si esprime anche nel fatto di esigere dal marito una prestazione al giorno. E di fronte alle frigide aspirazioni piccolo borghesi dei due nani, ha un rapporto disinibito con le cose e in particolare con il cibo: mangia tanto, rutta e non ha problemi di evacuazione (operazione durante la quale, dice Eros, espelle anche vetri e bulloni).

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Il piccolo film, immeritatamente dimenticato, è un divertissement acido, che acquista maggiore pregnanza se letto all’interno della filmografia del regista. È un banco di prova in cui Bolognini testa nuove tonalità grottesche, che riemergeranno periodicamente in futuro, nei momenti di massima libertà e forse coinvolgimento personale, come probabile rivalsa nei confronti di una macchina produttiva che esige solo repliche del già noto. La felicità del risultato, è dovuta anche a una confezione straordinaria. In questo senso Bolognini è un formalista: perché crea invenzioni in ogni inquadratura, convertendo l’acrimonia in un surplus stilistico, che eccede le ragioni del racconto, e diventa puro piacere. Il meraviglioso bianco e nero di Gianni Di Venanzo allestisce antri piranesiani dietro le gradinate, e crea geometrie di bianchi e neri e pattern astratti (fot. 69). E nel finale il flou abbagliante del vestito bianco di Miriam le toglie peso, e rende plausibile che rimbalzi come una palla cadendo dalla piattaforma sospesa.

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Visto oggi, l’episodio appare inevitabilmente felliniano, anche se il mondo circense evocato da Bolognini sembra anticipare I clown (1970) piuttosto che omaggiare il finale di 8 ½ (1963). Va notato l’esordio del costumista Danilo Donati, che di Fellini (e Pasolini) sarà un prezioso collaboratore. Bolognini attribuiva meno valore al secondo episodio del film, Una donna dolce, dolce. Alla sceneggiatura pone mano il giovane Tonino Guerra. Roma. Rossella tratta il marito Carlo, ingegnere, come se fosse un bambino: gli fa il bagnetto, non si rende conto di umiliarlo e imbarazzarlo davanti agli amici. Per averlo vicino a sé lo fa ammalare,

ma poi si nega alle sue richieste erotiche. Per non farlo andare a Berlino, lo fa cadere da una scala a pioli. Su una sedia a rotelle, tutto ingessato, Carlo ormai è regredito allo stadio infantile. Per giocare a palla con una bambina, cade nel Tevere e muore. Poco dopo Rossella sposa un allocco, Quinto, che già al ricevimento accondiscende a essere trattato come un infante.

Anche in questo caso si immagina lo sconcerto degli spettatori dell’epoca. Il soggetto sembra rovesciare quello di La moglie bambina di Franco Rossi (che in 3 notti d’amore, 1964, sostituì proprio Bolognini): qui c’è un marito bambino, ma gli sviluppi sono molto più agghiaccianti. Solo Il professore di Ferreri (episodio di Controsesso, 1964) è altrettanto audace nel buttare all’aria le regole del film a episodi, arrivando alla pura deformazione. Rispetto a La balena bianca, la misoginia è più facile, e anche più scoperta. Ma al di là della caratterizzazione davvero mostruosa di Sandra Milo, il discorso è diverso, più radicale e inquietante. Moglie che desessualizza il marito trattandolo da neonato, Rossella e la sua madre-orchessa (fot. 70) costituiscono un asse matriarcale che si dedica deliberatamente alla distruzione del maschio. La tesi emerge chiaramente dai dialoghi del film: ogni donna è madre, e se non è madre trasforma il marito in bambino; e ogni madre non accetta che il figlio cresca, per tenerlo sotto controllo. Il maschio, a ogni buon conto, è tutt’altro che incolpevole: Carlo in fondo è lieto della propria regressione anale, che gli consente di essere recuperato come oggetto di piacere, secondo una paradossale pedofilizzazione del desiderio femminile. E alla fine, ridotto alla semi-immobilità, sarà vittima ancora una volta di una femmina. Sembra che Bolognini si rivolti a un orrore biologico prima ancora che a una legge sociale. E dietro toni frivoli, rappresenta cortocircuiti identitari del mondo borghese che emergeranno in forma più compiuta in Gran bollito.

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Formalmente, anche questo episodio è un tour de force. Bolognini estremizza i tratti distintivi del suo stile, e ne fa quasi un’autoparodia, tra immagini caleidoscopiche (fot. 71) e specchi deformanti. Ma nulla prepara alla gratuità della lunga sequenza onirica: Rossella entra in una specie di balera dove, districandosi tra uomini che la molestano, assolda un picchiatore per dare una lezione al marito. La musica per fisarmonica di Piero Piccioni, l’atmosfera padana e sudata, dettagli come quelli di un uomo tenuto al guinzaglio sembrano prefigurare certe sequenze di Miranda (1985) di Tinto Brass: che non a caso appare all’inizio dell’episodio nella parte dello scapolo Mario (era il periodo in cui lavorava per Moris Ergas). Altri due personaggi dell’entourage del primo Brass partecipano al film: Gian Carlo Fusco, come attore nella scena onirica suddetta (fot. 72), e Franco Arcalli come montatore. Nel finale il suo tocco è inconfondibile: una specie di freeze frame con il nuovo marito che si produce in un ridicolo baciamano in mezzo alle orchesse viene scomposto e rimontato cubisticamente, seguendo il ritmo della colonna sonora.

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Continuando il gioco dei rimandi, una geniale chiosa a 8 ½ sta nel prendere Edra Gale, ossia Saraghina, come madre di Sandra Milo. E il finale con la bambina munita di palla che fa morire il protagonista anticipa Toby Dammit (episodio di Tre passi nel delirio, 1967): forse Operazione paura di Bava (1966) non era stato l’unico ispiratore della bambina diabolica felliniana. Splendore e decadenza dei film a episodi La mia signora, prodotto da Dino De Laurentiis, esce in sala nell’autunno 1964, prima di La donna è una cosa meravigliosa, anche se verosimilmente è stato girato dopo, ed è premiato da un successo molto più cospicuo. Tutti e cinque gli episodi sono interpretati dalla moglie del produttore, Silvana Mangano, e da Alberto Sordi, in un tour de force di grande finezza psicologica. Se si escludono i due sciocchi sketch di Tinto Brass, gli episodi di Luigi Comencini (Eritrea) e di Bolognini (I miei cari e Luciana) sono tra i risultati migliori del genere. I miei cari è tratto da un racconto di Goffredo Parise apparso il 30/12/1963 sul «Corriere della sera» (e poi raccolto in Il crematorio di Vienna, 1969). È la terza volta che Bolognini incontra Parise, uno scrittore a lui congeniale, spietato nel descrivere le ipocrisie della borghesia del boom. La sceneggiatura di Rodolfo Sonego estroflette e oggettiva tutto quanto, nel racconto, è rimuginare interiore del personaggio, ma gli rimane fedele. La corsia di un ospedale. Marco da più di un mese è ricoverato senza sapere perché. Arrivano a trovarlo moglie, suocera e figlioletto. Quest’ultimo lo schifa: «Mi vergogno di avere un papà malato». La suocera lo rimprovera e lo tratta da irresponsabile. E la moglie, alla fine, non è da meno: «Sono sola, e non ci si sposa per stare soli. Sono sposata, sono tua moglie, quindi ho il dovere di amarti. Ma se tu mi ami, devi guarire». Il giorno dopo se ne andranno al mare. Mario, sconsolato, pieno di sensi di colpa, allibito, dice che possono anche non passare a trovarlo.

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L’epoca del consumismo trionfante è segnalata dal discorso in cui Flavia paragona il marito a un oggetto difettoso, che non ha neanche il diritto di riportare nel negozio dove l’ha comprato per esigere un rimborso o una sostituzione. A parte il lato sociologico, l’episodio prosegue la vena misogina e grottesca di La donna è una cosa meravigliosa. Nella famiglia non c’è scampo, anche e solo lombrosianamente: la suocera è una virago, la moglie è anaffettiva (e la Mangano è imbruttita dalla parrucca, fot. 73), e anche il bambino è un piccolo mostro. Ma il piacere segreto di Bolognini è quello di infierire anche sulla vittima, un povero borghesuccio indifeso che fa la fine che si merita: complice, fino a prima di ammalarsi, di quella “vita di convenzioni” che esalta la suocera, ora ne è diventato la vittima. E Sordi si trasforma in una maschera inerme, patetica (fot. 74), e tuttavia irresistibilmente e atrocemente buffa.

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Nella stringatezza, l’episodio è semplice e perfetto. Il più disteso Luciana non è da meno, anche se il tono è meno angosciante. La sceneggiatura di Rodolfo Sonego questa volta è originale, e il suo autore ne era particolarmente soddisfatto, rammaricandosi caso mai di non averne tratto un lungometraggio. Aeroporto di Fiumicino. Mentre pranza con la moglie in partenza, Giovanni scambia sguardi allusivi con Luciana, moglie di un attempato industriale. Entrambi sono vessati dai rispettivi coniugi, che prendono lo stesso aereo. Rimasto solo, Giovanni tenta invano di abbordare Luciana. Li riunisce la notizia che l’aereo su cui viaggiano i loro coniugi ha avuto un guasto: deve volare per sei ore sopra Roma, per consumare il carburante e poi tentare un atterraggio di emergenza. Giovanni e Luciana vanno in chiesa, al mare, al ristorante. Le loro confessioni si fanno sempre più intime, emerge la loro insoddisfazione e la speranza che l’aereo si sfracelli. Vanno a letto in una locanda. Ma poi l’aereo atterra senza problemi: Giovanni e Luciana si riuniscono mesti ai loro ignari coniugi.

La costruzione dei personaggi si intreccia con una progressione drammatica ineluttabile e irresistibile: dall’impacciata seduzione iniziale (dove Giovanni e Luciana sono separati da un vetro cui avvicinano le mani per ritrarle subito) si passa a un’audacia sempre maggiore (Giovanni finge di saltarle letteralmente addosso sulla spiaggia, Luciana confessa di non avere rapporti sessuali con il marito). Al momento decisivo – e ciò deve essere piaciuto molto a Bolognini – è la donna a

prendere l’iniziativa. Comunque il desiderio viene consumato (fot. 75), e anzi Luciana esige un surplus che Giovanni non è in grado di concederle. Rispetto alle norme delle commedie anni Cinquanta, mettere in scena l’adulterio può essere sorprendente, nell’Italia del 1964, ma non è più un problema. Due anni dopo Sonego svilupperà alcune situazioni dell’episodio (il ristorante con stanze per la “pennichella”, il cameriere allusivo) nel secondo segmento di Signore & signori di Germi, dove la trasgressione diventa un momento di liberazione positiva, al di là di ogni morale convenzionale. Angariati da due coniugi insopportabili (la moglie di Giovanni è una virago lombarda che lo chiama “bestia” e lo domina fisicamente, il marito di Luciana è un vecchio pedante), i protagonisti sono due vittime che hanno diritto a un risarcimento. Ma in quanto vittime, sono anche consenzienti e ipocriti, e quindi meritano di tornare nella loro prigione quotidiana.

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La chiave dell’episodio si ha nella scena in chiesa, dove neanche di fronte a Dio i due prendono la responsabilità dei propri desideri, e anzi li proiettano su di lui. «Tu che hai sempre protetto gli umili, non hai bisogno di suggerimenti», pensa Giovanni, con irresistibile effetto comico. Bolognini adotta con disinvoltura i tratti tipici della commedia italiana che assicurano la risata amara: la complicità mista a denigrazione verso il personaggio, la tragedia volta in farsa. Ma non dà di gomito allo spettatore, non lo consola, gli offre uno specchio impietoso. L’episodio con cui Bolognini contribuisce a Le bambole, nel 1965, è Monsignor Cupido: è forse il primo film italiano ispirato a una novella di Boccaccio, la terza della terza giornata («Sotto spezie di confessione e di purissima conscienza, una donna innamorata d’un giovine induce un solenne frate, senza avvedersene egli, a dar modo che il piacer di lei avesse intero effetto»). Il film ottiene un ottimo successo e incorre in assurdi guai giudiziari: soprattutto per l’episodio di Dino Risi in cui Nino Manfredi in mutande freme per fare l’amore, ma anche per i seminudi di Gina Lollobrigida in un episodio che ha l’aggravante di scherzare con gli ecclesiastici. Monsignor Filippo Arcudi, veneto e rustego, è a Roma per il concilio ecumenico. Lo accompagna l’ingenuo nipote Vincenzo. La moglie dell’albergatore, Beatrice, mette gli occhi su quest’ultimo, ma non riesce ad attirarne l’attenzione. Al che si lamenta con monsignore del comportamento irrispettoso del nipote. Vincenzo si becca vari schiaffoni, ma la seconda volta finalmente capisce che la donna lo desidera, e decide di stare al gioco. Beatrice si serve del prelato per comunicare a Vincenzo i dettagli del loro primo appuntamento d’amore. Alla fine i due sono diventati complici, mentre monsignore non sospetta niente, e crede che il nipote abbia ormai messo la testa a posto.

Dietro l’apparenza di divertissement libertino, Bolognini sembra quasi volgere in burla i temi di La corruzione. La suspense sta nella realizzazione del desiderio di Vittoria, e il desiderio dello spettatore è che l’imbranato Vincenzo finalmente goda della donna che gli si offre. Il lieve spiazzamento bologniniano sta nel rappresentare la donna come soggetto desiderante e il maschio come oggetto. In questo caso la matura tentatrice non ha però i tratti repellenti di un personaggio come la contessa Giulia Carena di La vena d’oro: e anzi Bolognini esalta la sensualità della Lollobrigida. Particolarmente divertente e fuori dalle regole è il gioco di sguardi costruito nella sequenza in cui

Beatrice spia Vincenzo dal buco della serratura. Prima la donna voyeuse spia l’uomo che si spoglia, capovolgendo la situazione canonica ed erotizzando il corpo del primo (con effetto comico, quando Beatrice fa un’espressione sbalordita, in reazione alla nudità di Vincenzo, fot. 76). Poi la donna, in una sottoveste semitrasparente, si offre al medesimo buco della serratura, sperando di essere spiata, ma l’unico voyeur è lo spettatore, e non Vincenzo: e Beatrice si indigna (fot. 77). È anche un modo per sbeffeggiare il voyeurismo a senso unico del cinema tradizionale degli anni Cinquanta: dove la donna viene spogliata, nei limiti del consentito democristiano, ma lo spettatore voyeur non viene mai chiamato in causa; e al parziale soddisfacimento della pulsione scopica non segue mai, sullo schermo, la consumazione del desiderio. Che invece Bolognini, lungi da ogni ipocrisia, concede lieto ai suoi personaggi.

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L’episodio, tra l’altro, è diretto con mano felice. La fotografia di Leonida Barboni – uno dei più sottovalutati maestri della luce del cinema italiano, che con Bolognini aveva fatto La Viaccia – si destreggia tra scale, specchi e vetri; e la musica di Armando Trovajoli accompagna sorniona la vicenda, passando bruscamente da un valzer a sonorità anni Sessanta. A distanza di pochi mesi da Le bambole, nel 1965 esce I tre volti, un’operazione con cui Dino De Laurentiis intende lanciare come attrice Soraya: la “principessa triste” delle cronache mondane dell’epoca, ex moglie dello scià di Persia ripudiata nel 1958. Michelangelo Antonioni dirige un lungo prologo metacinematografico con Soraya e il produttore nella parte di se stessi. Gli altri due episodi sono girati da Bolognini e da Franco Indovina, in sostituzione dei previsti Bergman e Fellini. Il film ha una pessima fama, e la carriera di Soraya finisce lì. Comunque incassa discretamente, e l’episodio di Bolognini, Gli amanti celebri, è molto meno sciocco di quello che parve allora.

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Linda ha lasciato il ricco marito Rudolph per amore dello scrittore Robert. Dopo due anni il rapporto è in crisi: sono perseguitati dai paparazzi, Robert non riesce più a scrivere. Su un’isola ammettono che il loro amore è finito. Intanto Rudolph è arrivato con il suo yacht. Robert spera che sia venuto a riprendere Linda, e anche lei conta di tornare dal marito. In realtà quest’ultimo non la rivuole, e invece le comunica di avere iniziato le pratiche del divorzio. Robert ha sentito tutto nell’altra stanza, e scoppia a ridere. Segue una lite furiosa. Qualche tempo dopo Robert e Linda vanno insieme a una festa in maschera a Venezia, senza scambiarsi una parola.

Dietro una cornice da jet set internazionale, come si diceva allora, con cambi repentini di location (con qualche abbellimento nel Partenone iniziale e nella Venezia a lume di torcia), a Bolognini interessa aggiungere un capitolo alla sua analisi dei rapporti tra uomo e donna. Poco importa che i personaggi siano stereotipati, se fanno emergere qualche verità. Non c’è alcuna corrente erotica tra i due, e l’unico momento di tenerezza e di contatto, paradossalmente ma non troppo, si ha quando confessano di non amarsi più. Ed è crudele la descrizione di come Robert speri che Linda lo pianti, e di come reagisca con rabbia alla notizia che il marito non se l’è ripresa. Bolognini sa essere spietato nell’analisi dei sentimenti: e se nessuno se ne accorge, è per la recitazione impacciata di Soraya, che Bolognini tenta di vivacizzare con primissimi piani (fot. 78), anche se alla fine è la sua nuca a risultare più espressiva (fot. 79). Richard Harris è curiosamente (o forse no) femminilizzato, con il volto coperto sotto uno strato di trucco: forse serve a rendere universale – priva di connotazioni di gender la rappresentazione della fuga da un amore.

FOT 78

Gran parte del 1965 è occupato dalle faticose riprese di Madamigella di Maupin, per cui si rimanda al capitolo successivo. Per riposarsi, Bolognini gira Fata Elena, un episodio di Le fate, che esce nel marzo 1966. Dopo Le bambole, produce ancora Gianni Hecht Lucari (o “Sketch” Lucari, come veniva soprannominato all’epoca), ottenendo un altro successo. Nella raccolta, di buon livello, il segmento più noto (e articolato) è Fata Marta di Pietrangeli. Il contributo di Bolognini è breve ma fulminante.

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Una villa borghese, d’estate. Elena sta lavorando al tombolo mentre il marito è addormentato. Accoglie Luigi, amico del marito, che le chiede un alka seltzer. Dopo brevi schermaglie pro forma, gli si concede in cucina. Arrivano alcune amiche, il marito si sveglia, ed Elena è rapidissima a ricomporsi e a fare finta di niente. Quando torna a casa, in una villa vicina, Luigi capisce che forse

anche sua moglie Claudia l’ha tradito in cucina con un conoscente. Anche se ora sta ricamando in salotto, impassibile, senza un capello fuori posto.

Lo sceneggiatore Rodolfo Sonego ha raccontato a Tatti Sanguineti di essersi ispirato all’immagine di Silvana Mangano che ricamava nella villa di De Laurentiis per immaginare un apologo sul “mistero delle Penelopi”. L’episodio si doveva intitolare L’alka seltzer; il bicchiere con le bollicine diventa una metafora-metonimia per l’attività che si scatena fuori campo. Il contributo registico sembra comunque più spiccato che negli episodi di La mia signora, che erano partiture già perfette che richiedevano solo una messa in scena funzionale. Bolognini è abile a costruire l’atmosfera di seduzione sempre più esplicita che trapela dietro dialoghi che rispettano le apparenze, scavando nei volti di Raquel Welch, sfinge enigmatica, e di Jean Sorel, maschio che si crede furbo e in realtà fa solo quello che gli lascia fare la donna. Il gioco del campo-controcampo crea una tensione erotica, che viene poi riempita dalla rivelazione del corpo della Welch, in un clamoroso vestito di Pier Luigi Pizzi che le lascia la schiena nuda (fot. 80).

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Nei tre episodi girati nel 1967 prima di Arabella, Bolognini comincia a divertirsi di meno. Le streghe è il secondo portemanteau che De Laurentiis dedica alla Mangano, convocando registi prestigiosi come De Sica, Visconti e Pasolini (che firma l’episodio più famoso, La terra vista dalla luna). Bolognini le fa fare di nuovo coppia con Sordi in Senso civico, ma si tratta solo di una barzelletta di 5 minuti. Una signora dall’accento straniero carica sulla sua vettura un guidatore insanguinato dopo un tamponamento. Parte di gran carriera facendosi largo tra il traffico romano a suon di clacson, ma anziché depositare il ferito al pronto soccorso, arriva in aperta periferia, dove la attende un presumibile amante, e lascia il poveretto in mezzo al nulla.

La bieca protagonista, nuovo mostro-femmina nella galleria del regista, in realtà è l’anello di congiunzione tra due dei più noti personaggi degli sceneggiatori Age e Scarpelli: Tognazzi che sfreccia in mezzo al traffico in L’educazione sentimentale, primo episodio di I mostri di Dino Risi (1963), e Sordi soccorritore senza senso civico nel monicelliano First aid di I nuovi mostri (1977). Da notare, nel nostro episodio, l’ambientazione periferica, l’arguzia con cui Bolognini riprende il popolino vociante, i segni di un’incombente volgarizzazione nel monologo farneticante di Sordi che sostiene tutto l’episodio. Per il medesimo film Bolognini dirige uno sketch ancora più breve, Perché?. Obiettivamente modesto, finisce due anni dopo in Capriccio all’italiana. Una milanese logorroica e il suo fidanzato taciturno sono incolonnati sulla loro spider Ferrari. La donna insulta tutti e vorrebbe che il fidanzato sfrecciasse via. Aggredita da un autista esasperato, porge una chiave inglese al fidanzato. Questi gli dà una botta in testa e finisce sui giornali: «Tragedia dell’autostrada. La fidanzata del feritore si domanda piangendo: Perché?».

La Mangano è conciata in modo improbabile (fot. 81), e la misoginia è ancora più scoperta. Prima di Roma di Fellini (1972) e di L’ingorgo di Comencini (1979), rimane la

rappresentazione di una piccola apocalisse sull’asfalto, con italiani sempre più beceri e incattiviti.

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Nel 1967 Bolognini contribuisce anche alla coproduzione di L’amore attraverso i secoli, unico italiano con Franco Indovina. Per Notti romane, Ennio Flaiano firma una delle sue sceneggiature meno memorabili. Durante un banchetto, il console Flavio Cesare si annoia alle declamazioni del poeta Menippo. Quando sa dell’esistenza di un postribolo, vuole andarci subito, resistendo alle proposte della moglie Domitilla. Ovviamente la bella velata che trova nel bordello è Domitilla, che rivela la propria identità, lo aggredisce e gli dà del porco. Ma presto Flavio capisce che Domitilla non si trova lì per caso, e vi si prostituisce regolarmente.

Bella di giorno ambientato nella Roma di Svetonio, l’episodio vale molto meno del suo protagonista Gastone Moschin e dello sforzo scenografico. Due anni prima di Fellini Satyricon, Bolognini codifica tipologie e fisionomie da decadenza dell’Impero romano: efebi, matrone lussuriose, schiave discinte, facce assurde. E anche le maschere grottesche di Danilo Donati (il cui contributo è stato espunto finora da tutte le filmografie) sembrano anticipare quelle felliniane. Il filone dei film a episodi ormai declina, e De Laurentiis raschia il fondo della botte con Capriccio all’italiana (1968), dove recupera tre sketch di Le streghe rimasti nel cassetto (oltre al citato Perché?, gli altri sono La bambinaia di Monicelli e Viaggio di lavoro di Franco Rossi, che viene remixato con un cartoon di Pino Zac). L’unico merito del film è contenere Che cosa sono le nuvole? di Pasolini. Per l’occasione Bolognini gira anche un episodio nuovo, La gelosa: una barzelletta stiracchiata scritta da Cesare Zavattini. Milano. Durante una serata in discoteca, Paolo provoca la gelosia di Silvana ballando con una ragazza. A casa fanno la pace (e l’amore). Ma la mattina dopo, lui decide di comportarsi in modo misterioso per esasperarla. Silvana lo pedina finché lo vede entrare in un palazzo. Sale le scale, estrae una pistola, si mette a sparare. Paolo esce in mutande e la soccorre: era andato solo dal sarto.

Ira Fürstenberg, un’altra nobildonna passata (più stabilmente) alla recitazione, è inguardabile, e Bolognini si vendica imponendole una mise allucinante: parrucca fucsia, cappottino futuribile rosso di Mila Schön, stivali e incredibili doppi occhiali avvolgenti (fot. 82). Walter Chiari va di puro mestiere. Nel fatidico 1968, l’unico l’aggiornamento di costume è affidato a riprese di giovani sciamannati che ballano all’inizio. È davvero poco.

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Madamigella di Maupin «Madamigella di Maupin è stata un’occasione persa. Il libro di Théophile Gautier è bellissimo e mi piaceva tanto. Ma qualche volta il film è come una macchina che sfugge al controllo e che non si riesce più a manovrare. Ci fu tutta una serie di incidenti. Doveva essere una produzione tedesca, con tanti soldi, poi tutto è crollato. Siamo capitati in Jugoslavia. Questo è il solo film “avventuroso” che io abbia realizzato. Tutti gli altri, anche con pochi mezzi, in Italia o all’estero, sono stati fatti all’interno di strutture precise. Questo invece era davvero un’avventura. Ci siamo bendati gli occhi e il film è quello che è». Sono le uniche parole che Bolognini spende con Gili su Madamigella di Maupin, che gira nel 1965, dopo il suo sesto episodio, quello per I tre volti. È evidente uno scarto notevole rispetto alla “serietà” dei lungometraggi precedenti, come se l’autore voglia prolungare il periodo di vacanza (confermato anche dal film successivo, Arabella). Ma sono anche parole ingiustamente severe e modeste: Madamigella di Maupin è sì un divertissement avventuroso, e in questo perfetto nell’equilibrio degli elementi comici e d’azione (e di gran lunga migliore rispetto appunto ad Arabella, e anche più dispendioso: il press-book dell’epoca parla di un budget di un milione e mezzo di dollari), ma sotto la superficie del cappa e spada Bolognini rispetta benissimo la morale del testo di Gautier, di cui abbandona numerosi personaggi ma non lo spirito liberale e “libertino”. Francia, XVIII secolo. Alla residenza di monsieur di Maupin e della nipote Maddalena, durante una giornata soleggiata, si sentono in lontananza le cannonate delle truppe ungheresi che avanzano. La paura crea scompiglio, e si deve abbandonare la proprietà. Si dice che gli invasori si facciano precedere da mercenari che usano violenza contro ogni forma umana, non disdegnando nemmeno gli uomini. Maddalena, adolescente in fiore che agogna la libertà, si traveste da seminarista, lo zio tutore da donna. Durante la fuga a cavallo per rifugiarsi in convento, mentre lo zio sfida da solo un gruppo di mercenari, Maddalena decide di servirsi del travestimento da uomo per conoscere il mondo. Si farà chiamare Teodoro. In paese, il capitano Alcibiade sta reclutando soldati per servire il re e la patria: Maddalena, scambiata per un ragazzo, anche se magrolina è costretta a prendere le armi. Un suo tentativo di fuga finisce tra le grinfie di alcuni briganti: ma verrà salvata da Alcibiade, che la fa alfiere della bandiera. Maddalena/Teodoro e il capitano Alcibiade si recano al castello della vedova Rosetta Duras per consegnarle le ceneri del marito generale. Il poeta («inedito») cavaliere d’Albert, che Rosetta vuole costringere a esser suo amante, si infatua immediatamente di Maddalena/Teodoro: è proprio quello il suo ideale di bellezza, peccato sia un ragazzo. Maddalena/Teodoro e Alcibiade rifiutano di partecipare a una recita (con Teodoro nei panni di una donna!); Rosetta vuole andare a letto con Teodoro, mentre d’Albert li sorprende e in duello scopre il petto di Maddalena e la sua vera identità. Lasciato il castello, Alcibiade e Maddalena/Teodoro si uniscono ai soldati in una cascina. Li raggiunge d’Albert, che confessa a Maddalena il suo amore. Lei però lo rifiuta: e dorme nello stesso letto con Alcibiade, di cui s’innamora. Per allontanare e far ingelosire d’Albert, gli dice di essere stata tra le braccia del capitano tutta la notte. Con la sua fanteria che se la dà a gambe, Alcibiade va da solo in battaglia, mentre Maddalena/Teodoro riesce a scappare. Del capitano Alcibiade non si trova più

il corpo: lo si crede morto sul campo. Maddalena/Teodoro, rattristata, diserta. Sulla strada, s’imbatte nella carrozza della vedova Duras, che sta accompagnando d’Albert, deluso e demoralizzato per l’assenza della sua amata, a farsi frate: ma i due fuggono insieme in paese, in una locanda, in due camere separate, affamati. D’Albert vorrebbe che la ragazza, che non gli ha mai rivelato il suo vero nome, riprendesse a vestirsi da donna, ma Maddalena insiste coi suoi abiti maschili. In mezzo alla folla, Maddalena/Teodoro rivede Alcibiade: gli corre incontro baciandolo sulla bocca, con non poco imbarazzo dell’uomo. D’Albert comprende che Alcibiade è innamorato di Teodoro; insieme, i tre, da bravi “uomini”, decidono di andare al bordello, dove Alcibiade non si decide a scegliere una donna, e vuole parlare di come è riuscito a scampare alla morte. Una prostituta, Ninon, fa segno a Teodoro di seguirla. In camera, Maddalena le si rivela, chiedendole i suoi abiti femminili: pensa che soltanto ritornando alla sua vera identità potrà confessare ad Alcibiade il suo amore. Ninon vuole in cambio i suoi abiti maschili: anche lei intende conoscere il mondo. Alcibiade è confuso: chiede a d’Albert di dargli un bacio «per prova». Rosetta giunge sul posto e sorprende d’Albert, che pretende soltanto per sé. Il cavaliere fugge a cavallo con Ninon vestita da alfiere: la sostituzione non lo turba più di tanto, anzi. Durante un ballo, Alcibiade vede Maddalena, “tornata donna”, ma lui continua a pensarlo uomo: «Perché ti sei vestito da donna?» le chiede infastidito. Maddalena cerca di convincerlo di essere donna, Alcibiade si ostina a negare: fino a quando lei non gli mostra il seno che si intravede dalla scollatura del vestito.

Madamigella di Maupin, vincitore del Premio alla Regia al XIV Festival di San Sebastian nel 1966, è uno dei film più “estremi” di Bolognini sul gender e sui confini labili dell’identità sessuale; ovvio che dai più venga sottovalutato al pari di una sciocchezzuola sporcacciona qualunque (mentre si continua peraltro a ridurre il cinema di Bolognini a una patina calligrafica). Piuttosto che recuperare le atmosfere dei cappa e spada di Riccardo Freda, il regista e lo sceneggiatore Luigi Magni sembrano ispirarsi al film Storie d’amore proibite (Il cavaliere e la zarina), una co-produzione italofrancese del 1959 diretta da Jacqueline Audry (in sostituzione di Alessandro Blasetti), dove la confusione dei sessi – basata sulla personalità “scandalosa” del Cavaliere d’Eon – appare molto simile a quella di Bolognini, anche se assai meno coraggiosa, annacquata con numerosi eventi ininfluenti e messa in scena senza alcuna eleganza. Madamigella di Maupin, al contrario, non solo funziona magnificamente come avventura di cavalieri e cavalli, amore e guerra, spade e duelli, ma è un testo imprescindibile per capire la visione del mondo di un regista aperto alle infinite possibilità della passione, senza barriere di specificità. Attraverso un contesto “leggero”, Bolognini condanna ancora una volta l’omologazione, però stavolta quella sessuale e “intima”, obbligata da codici comportamentali tradizionalistici e dal pensiero comune. Senza dimenticare gli stereotipi del genere (la fuga iniziale a cavallo possiede un ritmo invidiabile e un montaggio sapientissimo, sempre del fidato Baragli), Madamigella di Maupin rileva la friabilità di tutti i regolamenti; in particolare, quelli guerreschi tra uomini sono per Bolognini esclusivamente dei sipari dietro i quali declinare i più vari movimenti identitari, dove finalmente il sesso non ha più connotazioni rigide, e anzi si libera di ogni “vestito” proprio indossandone uno “non suo”. Il film non è mai facile né prevedibile nell’elaborazione degli equivoci tra i personaggi, non diventa mai becero, non si abbassa allo sketch demenziale neanche quando l’evidenza della verità parrebbe eccessiva. Bolognini è certo abile e malizioso, ma molto più intelligente di quanto siano disposti ad ammettere i detrattori; soprattutto, è moderno e in anticipo sui tempi, laico per il rifiuto di una sola morale e di tutte le morali. Madamigella di Maupin e il suo regista rappresentano per mezzo della cartina di tornasole del XVIII secolo una finestra su un mondo che sta cambiando, e per fortuna. Però Bolognini non è ingenuo, e non si crea illusioni che il suo universo, in cui il sesso e i sessi sono mischiati senza preoccupazioni, possa rifiutare i compromessi. Il finale, con d’Albert che scappa a cavallo con Ninon, la sostituta di Maddalena vestita militarmente come lei, e con Alcibiade che finalmente realizza la vera natura del suo oggetto d’amore, mette un po’ d’ordine ma non troppo. Il poeta cavaliere si dimostra superficiale ma anche “piccolo” nella sua paura di restare senza amore: la sua è

una fuga dalle grinfie della vedova Duras, ma pure una richiesta d’aiuto non così tanto velata, in un mondo dove l’uomo – e non soltanto il maschio – è destinato a restare solo al di là delle avventure da letto di una notte; in questo senso, la filosofia dell’uno vale l’altro (Ninon per Maddalena) acquista una malinconia contemporanea. Il capitano Alcibiade, da parte sua, vede l’incavo dei seni di Maddalena (fot. 83) e capisce: però intanto è riuscito con il tempo a elaborare l’inquietudine di essersi innamorato di un ragazzo, chiedendo addirittura a d’Albert di baciarlo per provarne l’efficacia (fot. 84); l’unione finale tra lui e lei, più che tra un uomo e una donna, è ancora tra un vestito e un altro, senza tanta importanza per ciò che entrambi contengono e nascondono. È Maddalena a insistere di “tornare femmina” per poter confessare ad Alcibiade il proprio amore, mentre il capitano, trovandosi infine davanti un “vero” uomo, magari non si sarebbe fatto alcun problema, ormai. Bolognini sveste il comune senso del pudore con i costumi sgargianti di Danilo Donati, e le sue intenzioni guardano avanti. Il corpo e il volto “ossei e neutri” di Catherine Spaak servono a Bolognini e ai “compagni di sventura” (l’Alcibiade di Robert Hossein e il d’Albert di Tomas Milian) come simulacri indefessi di un’alterità che percorre la guerra senza venirne offesa né ferita, ma anzi offendendo e ferendo la guerra stessa nei suoi principi apparentemente più intoccabili, ovvero il rigore militare, il cameratismo, la “maschità”, l’azzeramento dei sentimenti. Teodoro ha la funzione del Victor di Victoria, l’alter ego maschile di Julie Andrews in Victor Victoria (Victor/Victoria, di Blake Edwards, 1982) di Blake Edwards: per sopravvivere, esalta il travestitismo come massima celebrazione dell’individualità e dell’indipendenza, e travolge tutto e tutti piegando ogni cosa a sé. È Teodoro la vera “guerra”, in questo caso realmente santa.

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Bolognini non irride agli orrori dei morti in battaglia, non mette alla berlina il sangue, e nemmeno gli interessa la politica (a meno di non considerare politico il suo discorso sui sessi); piuttosto, racconta ancora una volta un passato in cui è possibile riscontrare di nuovo il presente, però non si lascia affatto prendere dallo sconforto, si incarica di un rinnovamento morale, amplia gli orizzonti (simbolici) e crea un intreccio scopico di incredibile complessità. Il ribaltamento dello sguardo dei personaggi – inclusi quindi i loro desideri – è continuo; le battute si inanellano senza tregua; e la profondità di campo è spesso sinonimo di un rilancio della storia e di rispetto della persona assieme (si veda la scena della ricomparsa in paese di Alcibiade, creduto morto in battaglia, addossato al muro sullo sfondo, quasi indistinguibile rispetto ai passanti, che Maddalena e d’Albert vedono in campo lungo, fot. 85). La costruzione della scena non è mai per Bolognini un semplice lavoro di genere, in questo caso l’avventura da cappa e spada; né peraltro si tratta di abbellire un evento o soltanto di ingigantire con le scenografie e i costumi l’assunto del film (come invece fa un po’ Storie d’amore proibite, con la fotografia in Dyaliscope di Henri Alekan e Marcel Grignon e le scenografie di Georges Colasson e Alexandre Trauner). Per Bolognini, il formato a schermo panoramico 2.35:1 (usato per la seconda e ultima volta dopo Agostino) non serve a magnificare il set (tra la Slovenia e Lubiana); i totali e le riprese paesaggistiche ci sono ma sono ridotti al minimo, mentre il regista trasforma il Techniscope in un vero e proprio campo di battaglia dei sessi, dove le armi sono i travestimenti e le pallottole i corpi travestiti. Nessuno ne resta immune: chi non indossa altro vestito che il suo (Alcibiade, d’Albert), finisce nel caos letterale dei sensi (fot. 86); chi invece si fa largo con un vestito non suo (Maddalena), assume una nuova identità (Teodoro) e mette sanamente in crisi quella degli altri (fot. 87). Alberto Moravia, nella sua recensione per «L’Espresso», è ben consapevole del ruolo che l’“abito” occupa nel film: «il vestito, che è una pura invenzione della civiltà, nel travestimento riesce a essere più forte della natura». In conclusione, è la libertà a vincere, più che gli uomini o le donne.

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Arabella Girato nel 1967 tra un episodio e l’altro, Arabella è prodotto da Maleno Malenotti, un indipendente dai progetti audaci (Ombre bianche [The Savage Innocents] di Nicholas Ray, 1960) e dalla sorte tragica (venne rapito nel 1976 e mai più rilasciato). A quanto pare il soggetto (del felliniano Brunello Rondi) circola da qualche anno, e viene adattato quando Bolognini si prospetta come regista. L’intenzione è di girare una commedia con un cast internazionale adatto per l’esportazione, come accade spesso in quel periodo – basti pensare a Caccia alla volpe di De Sica (1966) e Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare di Pasquale Festa Campanile (1967). In questo caso i nomi di richiamo sono Virna Lisi (che attraversava un breve momento di visibilità internazionale), James Fox (reduce da Il servo [The Servant] di Joseph Losey, 1963) e due caratteristi inglesi, Margareth Rutherford alias Miss Marple e Terry-Thomas, che qui si produce in quattro parti e travestimenti diversi (anche i titoli di testa italiani, inspiegabilmente, ne menzionano solo tre, ignorando l’agente del fisco). Della partita avrebbe dovuto far parte anche Totò, per cui Bolognini aveva in cantiere progetti più sostanziosi, come un adattamento di I fratelli Cuccoli di Aldo Palazzeschi: ma il principe De Curtis muore nell’aprile 1967. Roma, 1928. L’anziana principessa Danesi, proprietaria di una fabbrica di ceri, non ha mai pagato le tasse ed è perseguitata da due agenti del fisco. La nipote Arabella sa sempre come trovare i soldi necessari. A Salsomaggiore, un maître d’hotel è preoccupato per l’antiestetico vespasiano eretto di fronte al suo albergo. Arabella gli fa credere di essere un’amante del duce e si fa pagare per garantire la rimozione del vespasiano; guasta anche i piani di un ladro, Giorgio, che stava per svuotare la cassaforte dell’hotel. A Napoli irretisce un generale inglese vanitoso. Giorgio gli scatta foto compromettenti: ma Arabella, appena lo scopre, riesce a farsi consegnare dal generale i soldi del ricatto. In Toscana, il duca Moretti la invita nella sua villa: Arabella viene pagata per “guarire” il figlio omosessuale, Saverio. In realtà questi si finge gay per procurarsi donnine di nascosto dalla madre possessiva. Arabella allora insegna a Graziella, la promessa sposa di Saverio, a rendersi attraente, e facilitare così la “trasformazione” di Saverio in eterosessuale. Parte dalla villa incassando compensi da tutti. Al casinò di Venezia incontra Giorgio, ignorando di averlo incrociato due altre volte: si impietosisce per la sua sfortuna, e passa una notte d’amore con lui. Al mattino scopre di essere in un letto di Ca’ Rezzonico: Giorgio è il figlio del custode del museo, e l’ha derubata. A Roma la nonna ha pensato di dar fuoco alla casa per incassare l’assicurazione, ma poi dimentica la polizza. Arabella si avventura tra le fiamme e Giorgio, pentito, arriva a salvarla e a dichiararle il suo amore. Nel frattempo il fidanzato ufficiale di Arabella, Filiberto, ha rinunciato alle sue pretese. Si annuncia la prossima avventura: Giorgio, travestito da prete, viene paracadutato da Arabella e dalla nonna nei Giardini vaticani, per rubare il tesoro del papa.

Bolognini considerava Arabella un divertissement, e aveva ragione. Dei suoi film scomparsi dalla circolazione è uno dei meno necessari, ma contiene abbastanza bizzarrie da attirare lo spettatore curioso. Il filone in cui si colloca – quello di furti, truffatori e belle avventuriere, in una cornice d’epoca – è uno dei meno appetibili di quegli anni. Ma Bolognini sa inserire tocchi personali in un

copione apparentemente innocuo. Se non sono farina del suo sacco, sono sicuramente nelle sue corde le frecciate anticlericali e antifasciste. La vecchia principessa fabbrica ceri per religiosi, vanta una bolla di dispensa papale ed elargisce medagliette con indulgenza da novanta giorni («Fanno sempre comodo»), si circonda di insipidi prelati e damazze delle nobiltà nera: ma alla fine accompagna l’innamorato di sua nipote a svaligiare il Vaticano. La satira del fascismo è certo facile e annacquata, e riguarda soprattuto l’episodio di Salsomaggiore, dove Arabella si finge un’amante del duce in grado di far rimuovere un vespasiano (fot. 88); ma spunta anche inaspettata, come quando i futuri sposini Saverio e Graziella, reduci da una notte d’amore, salutano il padre e Arabella con il braccio teso e tutti seriosi (lui ha appena “riconquistato” la propria virilità). È una punta di grottesco gratuito e irridente, quale ormai ci si aspetta dal regista.

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Ancora più nelle corde di Bolognini è il trattamento dei rapporti famigliari. Arabella è l’ennesimo personaggio privo di famiglia, e proprio per questo indipendente e disinibito. La sua unica parente è la nonna, che peraltro le confessa, verso la fine, di quali malefatte e infrazioni alla morale si siano macchiate le loro antenate. Il suo fidanzato ufficiale, Filiberto, è un donnaiolo che dovrebbe sposare per interesse (lui è ricco, lei è nobile): e nessuno dei due prova imbarazzo per i reciproci tradimenti. L’episodio con Giancarlo Giannini finto gay da redimere (fot. 89) costituisce poi un vero e proprio film nel film, un segmento a parte dove non a caso non compare l’insipido personaggio di James Fox. La caratterizzazione del gay è abbastanza sopra le righe per l’epoca. E se presto si scopre che è una messa in scena, rimane però una responsabile: una madre castratrice ed edipica, che minaccia di abbandonare il letto del marito per andare a dormire dal suo piccolo. Paola Borboni si presta a una caricatura spassosa della mamma avvolgente di La vena d’oro. Ed è altrettanto buffa la ribellione del marito (Terry-Thomas, nella parte meno macchiettistica e più umana). Armato di una minuscola pistola, esplode in un liberatorio: «D’ora in poi in questa casa comandano gli uomini. Il matriarcato è finito!» Uomini o donne, per Bolognini sono tutti ridicoli, quando si adeguano ai ruoli imposti dalla società: ma in questo caso la sua simpatia va verso il povero marito.

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Nel 1967 girare un divertissement non significava rinunciare allo stile. Bolognini incontra per la prima volta Ennio Morricone ed Ennio Guarnieri: due collaboratori importantissimi, che lo seguiranno fino alla fine della sua carriera. La sequenza dei titoli di testa è quasi sperimentale. Alcuni festanti ballano prima un tango e poi un charleston: a volte si bloccano in pose spettrali da

manichini di cera, a volte si dimenano in un silenzio rotto solo dal ticchettio di una specie di metronomo. Non c’è nostalgia verso questo mondo di grotteschi zombie che ballano. Bolognini è ben lieto di sfruttare scenografie liberty e di costruire inquadrature piene di fiori e specchi (fot. 90), ma le dissacra con un vespasiano di ghisa traforata come un pizzo («È vergine», dice il maître a uno squadrista in camicia nera che si appresta a inaugurarlo).

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Un bellissimo novembre Bolognini torna al cinema “letterario” nel 1969, con un romanzo però recente, pubblicato soltanto due anni prima. Ercole Patti, scrittore siciliano già portato al cinema da Mario Soldati con Quartieri alti (1945) e da Dino Risi con Un amore a Roma (1960), scrive Un bellissimo novembre nel 1967, ma non è la prima volta che Bolognini ha a che fare con lo scrittore nato a Catania: nel 1960, Patti (allora critico cinematografico di «Il Tempo») fa parte con Josef von Sternberg, Freddy Buache, Martin Schlapper e Betsy Blair della giuria che a Locarno assegna la Vela d’oro a Il bell’Antonio. Un bellissimo novembre inaugura per il regista una stagione molto ricca e insieme “tombale”: gli anni Settanta saranno per lui e per la critica il canto del cigno del suo cinema apparentemente calligrafico, di ispirazione appunto letteraria ma, per i detrattori, con poco cuore al di là della ricostruzione d’ambiente perfetta. Le parole che Giuseppe Turroni dedica a Un bellissimo novembre su «Bianco e Nero» sono infatti un’ennesima testimonianza del solo interesse estetico che il cinema di Bolognini suscita nella critica: «Anche Bolognini è maestro in quell’ambiguità delle immagini, segno dell’edonismo e dell’esibizionismo dei tempi. […] Questi registi-illustratori non fanno né del grande spettacolo, né spettacolo buono (anche nel senso morale), né del cinema autentico. […] Va tuttavia a vantaggio di Bolognini la sua sapienza figurativa, il suo buon gusto, e il seguire una linea di discorso che non è di tutti. Ma il cinema vero lo si segue in altri modi, ricorrendo a una realtà più concreta. La letteratura è un’arma a doppio taglio. Pochi registi sanno cimentarsi con essa vincendo la battaglia dello stile. Il fatto è che si tratta di linguaggi diversi. […] Nel film di Bolognini si respira odore di vecchio, il ritmo non ci prende, la maniera ci sommerge […]». La critica dunque lo stronca (con un’eccezione nobile, la recensione di Gérard Legrand per «Positif», che lo definisce «une vraie grâce»); però il film è anche uno dei pochissimi di cui Bolognini nelle interviste preferisce non parlare, o comunque che liquida con poco (a Gili confesserà: «È un film che odio»). La colpa pare stare tutta nelle incomprensioni e nel rapporto abbastanza burrascoso con la star protagonista, Gina Lollobrigida, che dopo aver già conosciuto il regista sul set di Campane a martello (1949) di Luigi Zampa (per il quale Bolognini fu aiuto regista) e aver interpretato per lui l’episodio Monsignor Cupido in Le bambole, sembra non aver gradito il carattere “osé” di alcune situazioni del film. Bolognini fu accusato d’aver tradito il romanzo, in special modo il finale, che nel libro è tragico mentre nel film sarebbe “happy”. Sicilia. Il diciassettenne catanese Nino vive con il fratellino Umberto e la madre vedova Elisa in un grosso appartamento antico. È evidente subito che tra Nino e la madre c’è un rapporto problematico: si scoprirà più avanti che è vivo in lui il ricordo di lei in camera da letto con zio Concetto. È proprio Concetto, cui Nino riserva occhiate diffidenti, che il giorno dei morti li

accompagna a Zafferana, alla villa di campagna dello zio Alfio. Li accoglie la domestica Assunta, mentre sua figlia adolescente Rosaria, che l’aiuta nelle faccende, pare restare stregata dal fascino di Nino. Durante una messa si ritrovano tutti i parenti, tra cui Amalia, la moglie di Alfio, soggetta a frequenti esaurimenti nervosi. Nino fa comunella con i cugini coetanei Mimì e Giulietta: i due ragazzi scherzano con la ragazza sull’eredità della zolfatara dello zio Alfio, che cammina con le stampelle. Mentre a casa si scambiano i regali, arriva anche zia Cettina, la «pecora nera della famiglia» perché indipendente e libera. Nino, che vorrebbe andare a Londra a studiare, resta intrigato dal fascino della zia, che gli chiede di aiutarla a disfare le valige. Nino è sempre più turbato, anche perché Cettina sembra adottare nei suoi confronti atteggiamenti di leggera seduzione. Il giorno successivo arriva anche Biagio, il marito di Cettina: con lui c’è il collega Sasà, un giovanotto ricco e affascinante che pare intendersela con la donna. Nino, che rifiuta le avance di Rosaria, osserva e spia Cettina in continuazione, desiderandola, inquietandosi quando la vede abbracciata a Sasà nel tiro alla foglia dei fichi d’india e dando in escandescenze quando a tavola vede il ganzo metterle una mano sulle gambe. La zia da parte sua, con Biagio lontano per un affare, continua a irretirlo, facendosi fare addirittura una doccia improvvisata: poi finiscono a letto insieme. Il giorno seguente, la gioia di Nino dura poco: Biagio torna, mentre Cettina accetta da Sasà l’offerta di un viaggio a Catania sulla sua turbo («Lo zio Biagio vuole restare vedovo», afferma il ragazzo con tono scontroso davanti a tutti). Giulietta vuole appartarsi con Nino: lui accetta malvolentieri, e fanno sesso. Ma Nino pensa soltanto a Cettina, anche a come si adagia tra le braccia di Sasà. Al suo ritorno alla villa, le chiede impetuoso cos’ha fatto in città con lui. A teatro, dove sono presenti anche Biagio e il “rivale” Sasà, Nino osserva la madre e la zia, mentre questa gli mette una mano sulla coscia. Dopo una battuta di caccia, Nino corre per il bosco alla ricerca di Cettina: la trova distesa assieme a Sasà in un casolare della proprietà. Infuriato, la schiaffeggia, chiedendole: «Perché sei fatta così?». Nino convolerà a nozze con Giulietta, mentre sarà Mimì a partire per Londra abbandonando la “prigione” della famiglia: baciando zia Cettina davanti alla chiesa, Nino le dice: «È andato tutto bene. A presto».

Il breve romanzo di Patti si svolge intorno alla metà degli anni Venti, ma Bolognini, assieme agli sceneggiatori Lucia Drudi Demby, Antonio Altoviti e Henry Waughan, preferisce portare la vicenda al presente. Nel libro i rapporti sessuali tra Nino e Cettina sono più d’uno; mentre le due ultime pagine descrivono la morte del ragazzo, che dopo aver visto la zia e Sasà in atteggiamenti intimi in una casupola nel castagneto del podere di zio Alfio, scappa sconvolto attraverso il bosco, scontrandosi ripetutamente contro gli alberi e gettandosi infine in un vallone, con la testa sfracellata contro una roccia. Per Bolognini, la vicenda di Un bellissimo novembre è ancora una volta lo strumento privilegiato per rilevare la prigionia derivata da un pensiero egemone e insieme per rappresentare lo scarto inevitabile ma non benvenuto tra attitudini ed età diverse, anch’esso dipendente dall’omologazione di vedute. La famiglia allargata di Un bellissimo novembre non è molto lontana dalla società di Il bell’Antonio, e forse non è un caso se entrambe sono catanesi. Per Bolognini, l’ossessione passionale di Nino per la zia e la sfrontatezza astuta di quest’ultima nei suoi confronti (fot. 91), non sono esclusivamente una maniera come un’altra per esplicitare ancor di più le ossessioni “pedofile” di certo cinema italiano del decennio che si andava concludendo (a cui anche lui aveva contribuito con Agostino) e nel contempo spingere il pedale dei centimetri di pelle mostrati, dati i tempi più permissivi; la “voglia” del ragazzo per la zia (peraltro più anziana rispetto al romanzo, dove Cettina ha 28 anni) è metafora di un desiderio di evadere dai recinti sia di un’età che la mentalità altrui vuole ancora acerba e dunque inerme, sia di una società troppo chiusa e autarchica da permettere di respirare sano (fot. 92).

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Nella descrizione di un mondo che pare cibarsi di se stesso, e dove la specificità e i bisogni individuali – anche “soltanto” di crescere – sono castrati, Un bellissimo novembre torna alla “civiltà” di Il bell’Antonio, La corruzione e Madamigella di Maupin, quella imbalsamata dal tempo e da regole volute e tramandate dall’uomo stesso che lo vive. Nino ha sì una “voglia matta” del corpo e del calore e delle forme di Cettina (fot. 93), ma si tratta della necessità del proibito in una famiglia che è prima di tutto una cella. Al pari dell’aspirazione di recarsi a Londra per studiare, così da abbandonare anche soltanto per un po’ l’ambiente famigliare, il desiderio di essere sverginato dalla zia rappresenta per Nino la possibilità di sferrare un colpo al parentado e al mondo che rispecchia. Un mondo dove però le “sozzerie” si fanno a porte chiuse, di nascosto, lontano dagli occhi indiscreti e dai pettegolezzi, o che comunque vengono rimosse, taciute: Nino scorge l’intimità tra la madre Elisa e lo zio Concetto attraverso la porta socchiusa della camera da letto, e ne resta ossessionato (fot. 94); la notte, in camera sua, Rosaria concede il suo corpo a un membro di media età della larga famiglia, mentre vorrebbe far suo anche Nino; Cettina e Sasà trascorrono ore insieme e fanno sesso o lontano dalla casa di Zafferana, in città, o in un fienile del podere dove nessuno (tranne Nino) li può vedere; Nino e Cettina riescono ad avere dei momenti d’intimità soltanto quando tutti sono già addormentati o sono fuori portata. A differenza di Il bell’Antonio, in cui lo scandalo diventava pubblico, Un bellissimo novembre fa avvenire ogni cosa senza grandi clamori nella famiglia e nella società: lo scandalo è imploso, e viene autofagocitato senza consapevolezza dalla famiglia stessa, dentro le cui maglie Nino finisce per poter continuare ad applicare indisturbato, almeno per qualche anno, la sua passione. L’ultima battuta rivolta alla zia, «È andato tutto bene. A presto», implica un appuntamento al prossimo incontro, senz’altro fuori casa, o in casa quando tutti ne sono fuori.

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Bolognini è chiaro e per niente conciliante. Non assolve nessuno, né Nino, né Cettina: per dar sfogo ai suoi bisogni, il primo rinuncia al suo spirito ribelle (compresi gli studi in Inghilterra) e si rende membro della famiglia come qualsiasi altro, per mezzo di una cerimonia nuziale inbreeding che è anche celebrazione ulteriore del potere esclusivo e chiuso all’esterno della casta; la seconda non fa di meglio che osservare a distanza e in disparte l’evolversi delle cose, senza intervenire, un po’ preoccupata, un po’ galvanizzata dal desiderio proibito. Per Bolognini non ci sono veri santi né vere vittime: laddove nel romanzo Nino appare come un “perseguitato” dal sesso e in particolare dalla procacità della zia, nel film anch’egli risulta infine un esempio rappresentativo perfetto della sua famiglia. In essa tutti sono vittime e carnefici al contempo, ognuno è stritolato dai meccanismi tradizionalistici che la governano e però se ne serve pure a suo vantaggio, in modo che la vita si svolga e si concluda dentro il medesimo nucleo famigliare, senza sbocchi. Bolognini fa di più che inscenare (con abbondanza di ralenti e di fotografia flou di Armando Nannuzzi [fot. 95], mentre la musica melodica di Morricone accompagna da par suo) una passioncella adolescenziale tormentata, a metà tra la pruderie e lo sporcaccione. D’altronde non si può negare che Un bellissimo novembre sia figlio del grande successo di Grazie zia di Salvatore Samperi (che è del 1968, e che, guarda caso, proprio Ercole Patti recensisce per «Il Tempo» nel maggio dello stesso anno); ma è anche la prima delle riduzioni per il cinema dei romanzi di Patti più “scabrosi”, quelli di ambiente siciliano e delle passioni adolescenziali proibite, tra suggestioni incestuose e ardori semipedofili: La seduzione di Fernando di Leo (1973, che quasi anticipa specularmente di un anno Le farò da padre… di Alberto Lattuada), La cugina (1974) di Aldo Lado con Massimo Ranieri (che vi sarebbe arrivato fresco fresco da Imputazione di omicidio per uno studente), Giovannino di Paolo Nuzzi (1976). Bolognini scava un monolito dal di dentro, ne sottolinea ancora una volta contraddizioni e ipocrisie, e non crea dei martiri; nella famiglia di Un bellissimo novembre vivono approfittatori, vecchi padri padroni, uomini nulli vessati da madri vecchissime, uomini d’affari senza scrupoli, comari pettegole, vedove incapaci di tornare alla vita, cugini scafati, ragazzi e ragazze già attaccati al soldo. Cettina, che all’inizio appare come la vera e unica ribelle, in grado di fare quel che più le piace in barba ai parenti e alle loro malelingue, libera e bella, infine non si dimostra in grado di gestire l’esistenza che lei stessa ha forgiato per sé, e ne resta intrappolata suo malgrado. Bolognini fa quel che può dell’irruenza formosa e un po’ ebete della Lollobrigida, e riesce nonostante tutto a creare un

personaggio femminile efficace nel contesto, fanciullesco per la sua incoscienza comunque calcolata, vorace e incontentabile, eppure debole proprio per il suo essere così scoperto, senza maschera. Mentre Paolo Turco nei panni di Nino è bravo a rendere le ansie, le rabbie e i colpi di testa di un diciassettenne (nel libro sedicenne) angosciato ma infine molto meno innocente di quanto la sua disavventura dia a intendere (fot. 96).

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Il mondo si accartoccia di nuovo e sempre su se stesso, ci dice Bolognini; il sesso e i sessi non possono nulla contro il dominio dell’ordine, tanto nel passato (La Viaccia), quanto nel presente (Il bell’Antonio, La corruzione). Sono già arrivati i tempi della politica: Un bellissimo novembre in fondo non è altro che il resoconto di un tentativo fallimentare di due giovani anarchici – Nino e Cettina – di strappare il velo dell’omologazione. Gli anni Sessanta sono agli sgoccioli, e per il regista si sta aprendo un decennio dove singolo e collettività acquisteranno una caratura politica ben più marcata che in precedenza, nonostante Bolognini sia il primo a non ritenere se stesso e il suo cinema politici, peccando però ancora una volta di eccessiva modestia (perché il suo cinema è politico eccome, in special modo quello che avrebbe fatto di lì a poco): «Io non faccio politica […]. La condizione del personaggio m’interessa, diventa politica solo in conseguenza. D’altronde, non credo alla politica quando è fatta con tutti i dogmi dei “politici”. Non posso fare del cinema in quanto uomo politico, lo faccio in quanto cineasta. Credo che Picasso abbia detto una cosa molto giusta: “Una rosa dipinta bene è più politica, ha più valore politico, che un manifesto scritto male”». L’assoluto naturale Nel 1969 L’assoluto naturale nasce in circostanze particolari. Producono i piccoli Tirrenia Studios: ironia della sorte, è l’ultimo film girato negli stabilimenti della ex Pisorno, l’Hollywood italiana situata a metà strada tra Pisa e Livorno, che il fascista Giovacchino Forzano aveva lanciato nel 1934, tre anni prima di Cinecittà. Bolognini, cui probabilmente viene data carta bianca, si sente libero di osare e di seguire il suo estro come non gli capita da La balena bianca. Lo spunto è il libro omonimo di Goffredo Parise, pubblicato nel 1967, anche se scritto nel 1963: si tratta di una specie di dialogo “platonico” tra un uomo e una donna (e alcuni comprimari), in cui lo scrittore veneto riversa riflessioni sull’impossibilità di una qualunque comprensione tra i sessi, rispecchiando anche la propria crisi coniugale. Dal libro, accolto freddamente, il regista Franco Enriquez trae nel 1968

un allestimento teatrale con Renzo Montagnani e Valeria Moriconi. Bolognini teneva molto a questo film, che allora non piacque a nessuno. Dal 1969 praticamente non si è mai rivisto, ed è una delle tante lacune nella conoscenza di questo regista. Piaccia o no, all’interno della sua opera costituisce un punto d’arrivo, un ne plus ultra e una vetta di impegno artistico. In un cimitero ottocentesco un fotografo e scrittore, Peter, vede una donna bellissima, Ella, di cui non riesce a catturare l’immagine. La rivede in un autolavaggio, e sale sulla sua macchina. L’attrazione è immediata ed esplicita: vanno in un motel e consumano. Ma la mattina, in macchina, ci sono i primi screzi e incomprensioni. Lui la trova disumana (non si ferma neanche a soccorrere la vittima di un incidente), lei lo trova intellettuale, sentimentaloide, parolaio. Si fermano in un altro motel. Ella si spoglia e fa il bagno nuda in piscina davanti a due meccanici. Più tardi, a letto, l’intesa sessuale se n’è andata. Ella fa spese al supermercato dell’autogrill, dicendo di trovare più soddisfazione negli oggetti, e che anche Peter per lei è un oggetto. Gli brucia sotto il naso il suo manoscritto, e per dimostrare quanto lo ama, così dice, si fa scopare dai due meccanici, sempre davanti a lui: nei loro occhi di bruti, dice, almeno si specchia come una donna reale. Peter cerca brevemente rifugio in una chiesa avvenirista. Poi, in camera, la schiaffeggia, la assale, inizia a strangolarla, per poi rabbonirsi e impegnarsi ad accettare le lezioni che lei gli vorrà impartire. Ella lo porta in un allevamento di bachi da seta e gli mostra un documentario in cui due farfalle si accoppiano: la morale è che gli uomini sono come insetti, e il maschio serve solo all’accoppiamento: è un’appendice del suo organo genitale, che funziona anche senza testa. Poi lo porta a casa di sua madre, che vive con tre vecchie (nonna, bisnonna e trisavola) e una zia. Le vecchie assalgono e processano Peter, vogliono che si trasformi in un uomo medio procacciatore di reddito. Peter scappa con Ella, che sembra improvvisamente comprensiva. Ma in macchina lui dice che tutto è finito tra loro, e medita il suicidio. Anche questa ipotesi non soddisfa Ella: se lui si suicidasse, sarebbe come tradirla. Peter scende e cammina lungo la strada, all’alba. Ella lo tira sotto con la macchina e si allontana.

In collaborazione con gli sceneggiatori Ottavio Jemma e Vittorio Schiraldi, Bolognini compie un’interessante operazione sul libro di Parise. Dato che il testo è quasi privo di intreccio, inventa un’ambientazione e una serie di eventi, peraltro puntualmente ispirati dagli otto quadri originari. Il goffo “uomo di Neanderthal” con cui la Donna di Parise tradisce l’Uomo, per esempio, si duplica nei due meccanici che Ella provoca in due occasioni. Solo nel finale il distacco è abbastanza netto: in Parise l’uomo si lascia impiccare in una scena molto teatrale, qui viene travolto da una donna assassina. Di Parise, Bolognini conserva i dialoghi, sia pure ridotti all’osso. Ciò che dicono i personaggi del film è al 90% Parise: ma le loro parole, anziché galleggiare in un vuoto teatrale, sono calate in un contesto reale. Con l’effetto di dare spessore e nuove dimensioni a un testo speculativo. L’assoluto naturale è sicuramente un film misogino. Non è un film definitivo, dato che Bolognini ha continuamente variato il suo approccio alla donna. Ma tale misoginia ha una motivazione forte nel contesto che rappresenta il film. Dopo la fuga letteraria e i tormenti edipici di Un bellissimo novembre, Bolognini torna ad affrontare l’Italia contemporanea, con una risolutezza che si era ammorbidita negli ultimi, trascurabili film a episodi – da Le streghe in poi, per intendersi. Il suo colpo di genio è trasportare i concettosi dialoghi di Parise in un freddo mondo contemporaneo: garage, motel, autogrill, autostrade, fabbriche, una chiesa ipermoderna. Sui titoli di testa scorrono però le statue ottocentesche di un cimitero, quello di Livorno, di cui il protagonista maschile legge le lapidi che trasudano retorica borghese. Dal corridoio in prospettiva del cimitero si passa bruscamente a quello di un altro luogo, che presto scopriamo essere un autolavaggio (fot. 97): la modernità ha le radici nel capitalismo ottocentesco. Bolognini salda idealmente il mondo di La Viaccia e Senilità a una società nuova, apparentemente diversa, ma con precise costanti di fondo. Una di queste è la donna: presentare la Koscina per la prima volta al cimitero, tra le lapidi, significa attribuire al personaggio femminile un ruolo di nemesi. Il simbolismo è facile, e rincarato da una

trovata fantastica (Ella non è catturabile dalla macchina fotografica) che poi non ha sviluppo. Ma presto scopriamo che Ella è fatta di una pasta diversa rispetto a Bianca e Angiolina. Certo, è la natura che si contrappone alla cultura e al raziocinio, il calcolo animalesco che prevarica lo stolto sentimentalismo del maschio. Niente di nuovo sotto il sole, se non fosse che è una Natura che argomenta, e usa sofisticate armi di terrorismo psicologico per umiliare il suo nemico, prima di eliminarlo fisicamente. Per farla breve, Ella non è solo Natura, ma è anche il prodotto di una società, che è l’Italia del Boom. Non è solo Donna, ma è anche Donna Borghese, Donnamassa. «Tanti soldi», chiedono al maschio le vecchiacce. L’Uomo soccombe non solo in quanto maschio, ma anche in quanto vittima di una società mercificata, dove le persone sono ridotte a cose monetizzabili: e il breve episodio della spesa all’Autogrill, che peraltro riprende uno degli episodi “astratti” del libro, potrebbe essere ambientato nell’Italia di oggi.

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La prima molla che fa scattare la rabbia di Ella è rintracciabile nel momento in cui Peter comincia a metaforizzare, a parlare degli ideali femminili che in lei trova incarnati, a paragonare i suoi seni alle sferiche palle di cannone del Barone di Münchhausen. «Sono una donna. Tu puoi possedermi ma ti proibisco di inventarmi», dice Ella riprendendo le parole di Parise. E proprio qui sta la sua grettezza: non lasciare spazio all’immaginazione, sottoporre tutto a una dimensione utilitaristica. È qui che sta il grido di ribellione di Bolognini, al di là della connotazione misogina. Di certo si sente l’aria dei tempi nella descrizione di sperimentazioni sessuali, come quando la borghese si concede agli operai (per dimostrare a Peter quanto lo ama, secondo la paradossale argomentazione del testo di Parise – o per salvare il loro rapporto, avrebbe detto il personaggio di qualche commedia dell’epoca: nel 1970 lo scambismo già approda in un film medio come Il divorzio di Romolo Guerrieri). In questo contesto pieno di segnali di attualità, la sfida di Bolognini è allestire una parabola acre e grottesca, dandole un minimo sviluppo nell’intreccio, ma conservando l’antipsicologismo del testo di Parise. I personaggi parlano e agiscono senza osservare alcuna verosimiglianza, prendono decisioni in un attimo. Sono simboli e funzioni concettuali più che personaggi tradizionalmente intesi, certo; ma in un’epoca in cui straniamento e alienazione sono diventati di massa, non è neanche così strano. E un road movie come Week-end (di Jean-Luc Godard, 1967) è sicuramente l’ispiratore dell’episodio prelynchiano della donna insanguinata riversa sull’asfalto.

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Per fare accettare questo antipsicologismo, Bolognini congegna un apparato formale che, per quanto figlio della sua epoca, rimane stupefacente; allora riuscì a convincere anche un critico come Giovanni Grazzini. Alla sua seconda collaborazione con il regista, Ennio Guarnieri usa un vocabolario molto variato. Spesso schiaccia i volti con il teleobiettivo, riempiendo l’inquadratura di macchie fuori fuoco, con un effetto da nuova figurazione, più vicino alla casualità del nascente iperrealismo che al simbolismo pop art (fot. 98). Altre volte ricrea la profondità di campo con abbondanza di specchi (fot. 99). Nel finale rende il grigiore antonioniano di un complesso industriale all’alba, ma prima colora con due gelatine diverse la scena di Peter che assale Ella: e la Koscina rossa con un seno verde è qualcosa che neanche Mario Bava avrebbe mai osato.

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Nella memoria di qualche spettatore di allora, L’assoluto naturale è rimasto circondato da un alone scandaloso. Il film subì anche un sequestro per oscenità, che impedì a Moravia di recensirlo (si veda «L’Espresso» del 2 novembre 1969); in seguito venne prosciolto dal giudice istruttore del tribunale di Pisa. Il 1969 peraltro è l’anno in cui nel cinema italiano crollano la morale comune e certe barriere del visibile. Metti, un sera a cena di Giuseppe Patroni Griffi, Scacco alla regina di Pasquale Festa Campanile, Femina ridens di Piero Schivazappa. e Una ragazza piuttosto complicata di Damiano Damiani sono titoli in qualche modo affini a L’assoluto naturale per la provocazione della morale borghese, lo scavo nell’erotismo, il gusto del paradosso e l’arte del dialogo. E testimoniano tutti di una libertà produttiva e di un gusto sperimentale dove si mescolano con disinvoltura alto e basso, regole dei generi e impari ambizioni d’autore. Il film di Bolognini però passa sotto silenzio, come peraltro era facile prevedere per un’opera così strana e poco compiacente. I nudi mai integrali di Sylva Koscina giustificano ghiotte anticipazioni su “ABC” (anche se Callisto Cosulich mette le mani avanti: «Si tratta di una pellicola con molta probabilità estranea all’erotismo pedestre che infesta attualmente il sottobosco, e talvolta non soltanto il sottobosco, del cinema italiano»). Ma gli incassi rimangono bassi. Nella copia conservata alla Cineteca Nazionale, i nudi sono fugaci, e le scene sessuali appena accennate (fot. 100). Due anni dopo le foto di scena del film diventano un cineromanzo per soli uomini («Cinesex», 37, 1971): abbastanza comico per come tenta di normalizzare i dialoghi di Parise (mai citato, come del resto Bolognini), e lievemente più spinto, ma solo per una maggiore quantità di scatti nelle scene clou. Va comunque sottolineato come Bolognini non si tiri indietro nella rappresentazione del sesso

e nell’esposizione del corpo femminile. Non fa il pudico, e dice pane al pane. Nella logica dell’argomentazione parisiana, mostra quale fascino abbiano le armi di seduzione del nemico. E un’attrice dalla tecnica modesta come la Koscina è perfetta: volta a volta è seducente e mostruosa, ridicola (con certi cappottini con inserti di pelliccia) e altera. L’episodio del documentario con le due farfalle che si accoppiano, sorprendentemente esplicito, rimane un momento disturbante come non se ne vedevano da quando Tognazzi discuteva di eugenetica canina in Marcia nuziale di Ferreri (1965). Come in La balena bianca, Bolognini riproduce la scena primaria come un trauma. Ma ha sempre la scappatoia del sorriso acido e del gusto del grottesco. L’episodio della casa matriarcale, con un campionario di vecchiacce e vecchine capeggiate da Isa Miranda imparruccata che sembra un travestito, è uno dei momenti di guilty pleasure che Bolognini ogni tanto si è concesso nella sua carriera: depone i panni del regista esteta e raffinato e diventa un autore di caricature più feroci di Grosz, senza temere il cattivo gusto, di cui conosce bene la vitalità.

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Metello e Bubù Bolognini fa seguire all’esperimento di L’assoluto naturale due dei suoi film più “classici”, entrambi di ispirazione letteraria e tra i suoi più grandi successi al botteghino. Metello è tratto dal romanzo di Vasco Pratolini, scritto nel 1952 ma uscito nel 1955, primo della trilogia Una storia italiana che comprende i successivi Lo scialo (1960) e Allegoria e derisione (1966). Originariamente il libro doveva intitolarsi Il figlio di Caco: nelle pagine di Pratolini (ma non nel film, dove il nome diventa Poldo), Caco è il soprannome del padre di Metello. Alfredo Bini ne acquistò per primo i diritti ai tempi di Il bell’Antonio; e duran te le riprese di La Viaccia, pretese la regia di Pietro Germi: che però, da bravo socialdemocratico, non ne volle sapere di girare un film comunista, finendo per litigare furiosamente con il produttore. Il progetto dunque passò nelle mani di Bolognini che, insieme a Bini e Pratolini stesso, fece anche dei sopralluoghi a Firenze e nel Mugello; Lila Lenopri aveva preparato persino i bozzetti, ma la fatica di trovare un protagonista (doveva essere Albert Finney, appena reduce da Sabato sera, domenica mattina [Saturday Night and Sunday Morning, di Karel Reisz, 1960], ma era impegnato a teatro) fece arenare di nuovo la cosa. Soltanto poco meno di dieci anni dopo, ma in economia, Bolognini riesce a portare il romanzo sullo schermo. Sono in quattro a scrivere la sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, Luigi Bazzoni, Ugo Pirro e il regista stesso, per il quale Pratolini aveva adattato (assieme a Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa) L’eredità di Mario Pratesi per La Viaccia. Bubù invece si basa sul romanzo breve Bubu di Montparnasse dello scrittore nato a Cérilly (Allier) Charles-Louis Philippe, pubblicato in Francia nel 1901 e tradotto per l’Italia nel 1944 proprio da Pratolini; alla sceneggiatura, Giovanni Testori, Mario Di Nardo e ancora Bolognini. I due film sono molto simili sia nello stile, sia nella descrizione di un mondo popolare alle prese con una quotidianità di sudore e di stracci. Metello vede l’esordio per il grande schermo di un re della canzonetta dell’epoca, Massimo Ranieri, che Bolognini rivorrà per Bubù (ma non nel ruolo del titolo) e per Imputazione di omicidio per uno studente. È Gianni Hecht Lucari (già accanto al regista per gli episodi di Le bambole e Le fate, e in seguito per Imputazione di omicidio per uno studente, L’eredità Ferramonti

e per l’episodio Sarò tutta per te di Dove vai in vacanza?) a produrre Metello, mentre il fratello del regista, Manolo Bolognini, finanzia Bubù: è la prima volta che è al suo fianco in questo ruolo, dopo essere stato più volte organizzatore generale o direttore di produzione. La critica come sempre elogia la confezione, e poco altro; su Metello, però, si dimostra molto più indulgente, e le lodi sono numerose, anche se Tullio Kezich frena: «Ne risulta un romanzo sceneggiato di impeccabile nitore figurativo. […] Bolognini è più portato a interessarsi dei moti del cuore: eppure la sequenza memorabile è quella della carica contro il funerale con le bandiere rosse e nere. Qui si sentono la tensione e il furore della repressione umbertina e lo sforzo che fece l’Italia a diventare un paese moderno. In altre situazioni il film scivola nel descrittivo e rivela qualche indecisione piacevole a vedersi ma un po’ inerte, proprio come il Metello di Massimo Ranieri». Mentre su Bubù, le parole del francese André Cornand sono più superficiali, nonostante i para goni alti: «[…] C’era un romanzo populista francese molto bello. C’è ora un bel film italiano melodrammatico in linea con tutte le opere di Bolognini. […] La bellezza delle immagini – calligrafismo ben conosciuto dal regista –, che ricordano Degas, Renoir e Toulouse-Lautrec […], e l’eccezionale qualità dell’interpretazione fanno di Bubù un’opera bella e ricca». Firenze, 1880. L’anarchico Poldo Salani esce dal Carcere delle Murate. La moglie gli mostra il figlio: dice che si chiama Metello, anche se il padre voleva i nomi Libero o Comunardo. Tre anni dopo, Poldo finirà travolto in una piena dell’Arno. A diciassette anni, e dopo aver vissuto a Rincine, un paese del Mugello, Metello dice ai genitori adottivi Tinai, in procinto di emigrare in Belgio perché in campagna non c’è lavoro, di voler restare a Firenze. Fa la conoscenza di Betto Lampredi, anch’egli anarchico, che gli propone di stare a casa sua. Metello trova lavoro in un cantiere diretto dall’ingegner Badolati. Ben presto l’amicizia di Betto costa cara a Metello, che finisce in prigione, dove sono rinchiusi altri anarchici. Metello viene schedato come «figlio di anarchico, discepolo di Betto e muratore». Al cantiere, mentre fa la doccia, Metello fa la conoscenza della vicina, Viola, che chiede al giovane di curarle i campi intorno a casa. I due finiscono a letto assieme. Un collega fa delle insinuazioni pesanti su Viola, e Metello fa a botte. Il ragazzo parte per il servizio di leva, per 1095 giorni, durante i quali scrive a Viola. Rientrato a Firenze, Metello chiede al deputato Del Buono un aiuto per lavorare. Sarà il signor Pallesi, anch’egli muratore, a farlo assumere di nuovo al cantiere di Badolati. Metello scopre che Viola ha un figlio (che potrebbe anche essere suo), mentre sul lavoro cominciano i tagli al personale: tra i primi a dover andarsene sono i più vecchi come Metello e Pallesi, che muore cadendo da un’impalcatura. Al funerale di Pallesi, Metello incontra la figlia, Ersilia, mentre la funzione si trasforma in una baruffa quando i gendarmi a cavallo chiedono che le bandiere rosse socialiste vengano rimosse. Con altri compagni, Metello finisce in galera per un anno e tre mesi per ribellione alla forza pubblica e istigazione alla rivolta: alla sentenza è presente Ersilia. Quando esce, Metello la rincontra: si sposano e hanno un bambino. Un giorno su una scalinata Metello con la moglie e il figlio rivede Viola, e di fronte a casa il suo fratellastro Olindo Tinai, appena tornato dal Belgio. Lo ospitano a casa propria. La vicina, Idina, è invadente, ma Metello e Ersilia rifiutano sempre i suoi inviti (tranne in seguito uno per il teatro). Metello fa assumere Olindo al cantiere di Badolati: dove però il malumore è sempre più intenso, colpa del lavoro sottopagato. È così che i muratori si mettono in sciopero, mentre Badolati minaccia azioni definitive. Nel frattempo, Idina desidera Metello: che alla fine cede, sorpreso però da Ersilia. Lo sciopero continua, e Olindo tradisce spiriti da crumiro. Scoppiano numerose sommosse, i gendarmi arrestano Del Buono, mentre Ersilia affronta Idina urlandole in faccia di scordarsi di Metello. Al cantiere si arriva allo scontro armato: i brigadieri sparano, e Giovanni Renzoni, un compagno amico di Metello, finisce ucciso. Badolati urla che i rappresentanti del sindacato sono riusciti a trovare un accordo con gli impresari: i lavoratori hanno vinto. Metello finisce però in prigione per istigazione alla sommossa: alla scarcerazione, ci sarà Ersilia incinta e il figlio ad attenderlo, dopo aver ricevuto da Viola una busta piena di soldi. In questo modo, «Siamo ricchi, possiamo pagare i debiti e vivere per un po’ senza affanni».

Un’imprecisata città industriale del Nord, fine Ottocento. La giovane operaia Berta se ne va di casa; il padre le dice: «Finirai anche tu come tua sorella». Il suo fidanzato, Luigi Bertò detto Bubù, lascia il forno in cui lavora e, rivolgendosi a un collega fornaio, dice: «E tu se vuoi fare fortuna, invece del pane, impara a manipolare le donne». Berta e Bubù passano il tempo in un luna-park. Vanno a vivere in un piccolo appartamentino: ben presto però Bubù, ormai nullafacente, sottolinea che ci sono le spese da pagare, e che i soldi mancano: «Domani, una sera, quando esci dal lavoro, se qualcuno ti guarda, dì di sì, accetta». Così Berta diventa una prostituta, e Bubù il suo protettore. L’universitario Piero, che vive con un altro studente, Luca, vorrebbe avere una donna. Davanti a un cantastorie di strada, Piero conosce Berta, che viene picchiata da Bubù perché porta a casa poco denaro, e partecipa al funerale di una collega morta. Le prostitute si lasciano intrattenere dalle parole e dalle canzonette di Giulio, amico di Bubù, mentre Berta e Piero si rivedono e finiscono a letto assieme. Berta però comincia a sentirsi debole: confessa a Bubù di avere la sifilide, come la sorella Bianca. Bubù, disperato, chiede soldi alla madre, che lo scaccia. Giulio convince Bubù a non rattristarsi, e a vivere felice come se niente fosse: continuerà dunque a fare l’amore con Berta. Lei però finisce all’ospedale, dove riceve una lettera di Piero, che le comunica di sapere della sua condizione e che d’ora in poi non la vuole più vedere. Berta gli risponde che anche lei non vuole più vederlo, consigliandogli di curarsi perché pensa sia stato lui a infettarla. Piero le riscrive: è andato a farsi visitare, e anche lui ha la sifilide. Pensa sia stata Berta a passargliela. Intanto Bubù resta senza soldi: rapina una bottega, ma viene arrestato durante la fuga e incarcerato. Dimessa dall’ospedale, Berta, senza più nessuno, va a supplicare la madre di Bubù, che scaccia anche lei; va dunque a vivere nell’appartamento di Bianca, e torna a fare la vita. Una sera bussa alla porta di Piero, con il quale riallaccia i rapporti. A casa della sorella c’è anche il suo uomo-protettore, e lo spazio, soprattutto a letto, è troppo piccolo per tre. La malattia di Bianca si aggrava, e la donna finisce in ospedale. Un giorno Berta riceve la notizia che il padre è morto. Fa visita alla famiglia, rivede i fratelli e la madre, e dà loro dei soldi per il funerale. Uscito di galera, Bubù si reca con Giulio a casa di Piero: ordina a Berta di rivestirsi e di andare con lui, non prima di essersi fatta pagare da Piero per la notte. «Finché sarà marcia, finché ci sarà uno sulla terra che non abbia troppo schifo ad andarci insieme, Berta sarà mia», dice Bubù a Piero, minacciato da Giulio con un coltello. Piero non interviene, e resta solo: nella sua testa, la voce di Berta: «Avresti dovuto precipitarti in strada, e gridare “laggiù ammazzano una donna”. Piangi, Piero, piangi e crepa!».

La sequenza di Metello citata da Kezich, la carica contro il funerale con le bandiere rosse e nere, è celebrata anche da Filippo Sacchi: «[…] È un film che ci propone un Bolognini inconsueto […] sociale […]. L’attrattiva e […] la grazia del film è proprio nella rappresentazione di quei primi conflitti sociali ai quali la squisita perfezione figurativa del regista finisce per dare l’ingenuità e insieme l’elegiaca lontananza retrospettiva dell’antica stampa. Significativo […] l’episodio centrale: il funerale del muratore […]. È una sequenza perfetta: guardate il gioco stupendo dei toni tra il rosso delle bandiere e il nero della cassa e del corteo, e l’irrompere […] dei cavalleggeri con le loro […] sciabole e arabescate divise […]. Il quadro è talmente bello che persino la violenza e la ribellione diventano pittoriche, raffinate, idealizzate». Ma tale scena non è il solo perno politico esplicito del film, che resta a ogni modo un affresco storico convincente, attraverso il quale Bolognini si prodiga con enfasi a raccontare le difficoltà dell’uomo nel sociale, e la crudeltà inevitabile di quest’ultimo nel farci i conti. Il regista riprende fedelmente la giovinezza, gli slanci e le passioni via via sempre meno timidi e impacciati del Metello pratoliniano, e ne fa un vero e proprio stendardo che sventola mosso dagli umori del tempo. Metello è termometro di un’epoca che sta cambiando più in fretta di quanto egli stesso possa sopportare; e le sue vicende, private e pubbliche, ne vengono travolte e nel contempo sviluppate. Metello, insomma, cresce nonostante tutto: la sua è una consapevolezza di mondo e anche di sé, al pari di Stefano di La corruzione. Più delle opere precedenti, Metello è per il regista la prima vera occasione per poter affrontare senza metafore né veli lo scontro tra le esigenze e il pensiero del singolo e la collettività in cui egli agisce.

Per Bolognini, come sempre, è una questione di maturazione e di coscienza, che nel caso di Metello è individuale (lo sbandamento per Idina lo fa avvicinare ancora di più alla moglie Ersilia) e sociale insieme. Per Metello la sicurezza della famiglia è dunque da preferire alle incertezze di un’amante un po’ scapestrata, e le battaglie infinite contro i padroni rappresentano la doverosa maturazione di classe. La moralità, per Metello e per Bolognini, sta tutta nella “presa di uno sguardo”, che il personaggio acquista bruscamente e più spesso a sue spese. Non è diverso per Berta in Bubù. Anche il suo è un percorso di consapevolezza di un universo sociale e insieme di un’individualità che si accorge purtroppo andare completamente alla deriva ed essere in balìa degli altri. La prostituzione, vendita in autonomia del (proprio) corpo, è invece per Berta la prigione dell’indipendenza. E non soltanto perché c’è Bubù, suo uomo e magnaccia: sono soprattutto il contesto e il tempo, con la povertà, le malattie (la sifilide), l’impossibilità a soddisfare la fame, i lavoretti umili, la famiglia stessa (quella di Berta, seppur lontana, la tiene ancora legata a sé, economicamente ma non solo: e alla morte del padre, lei stessa lo capisce) a reprimerla, e a vestirla con abiti di vittima (i costumi sgargianti e colorati di Piero Tosi non riescono a cambiare nulla). La sua voce (off), che nel finale rimprovera Piero adirata, è emblematica al pari di un’iscrizione sepolcrale: con quelle parole, «Avresti dovuto precipitarti in strada, e gridare “laggiù ammazzano una donna”. Piangi, Piero, piangi e crepa!», Berta prende coscienza senza più dubbi del suo stato, di donna sottomessa all’uomo, di vittima delle cose. Nel romanzo di Philippe, è Pierre invece che dice a se stesso: «Ah! ora tu piangerai, dirai: “Mio Dio, mio Dio! come sono sfortunato!” Ma tu non hai coraggio abbastanza per poterti meritare la felicità. Piangi e crepa! Se eri solo avresti dovuto scendere in camicia a piedi nudi e gridare: “Aiuto!” Avresti dovuto scendere in strada, fermare i passanti, dir loro: “Accorrete! Stanno assassinando una donna, lassù!”». Il cambiamento degli sceneggiatori e del regista, da un pensiero tra sé e sé di Pierre a un attacco diretto, seppur solo mentale, di Berta a Piero, non è casuale. Bolognini ancora una volta è ben lungi dall’assolvere l’un personaggio o l’altro; come in Un bellissimo novembre, per lui nessuno è veramente innocente, né peraltro nessuno è veramente colpevole: e anche la donna, che in ultimo si scaglia contro Piero intimandogli di piangere e di crepare perché non è intervenuto quando Bubù e Giulio sono comparsi a riprenderla, pecca di eccessiva ingenuità, figurina sballottata tra persone e accadimenti senza essere in grado non tanto di gestirli, quanto almeno di elaborarli. La coscienza di Berta, a differenza di quella di Metello, è passiva: il muratore fiorentino mette in atto delle azioni e pratica un pensiero (politico, morale), mentre la puttana subisce le cose e il mondo con poca autonomia, tranne quella di continuare a fare la puttana (magari ubriaca). Il vittimismo causato da una società crudele, in particolare con le donne, c’è ed è evidente; ma Bolognini non se la sente di riscattare totalmente la protagonista, perché anche lei ha delle colpe, che riguardano soprattutto se stessa. I personaggi per Bolognini sono troppo importanti per essere divisi rigidamente tra buoni e cattivi, vittime e carnefici: se il bell’Antonio, Amerigo di La Viaccia, Emilio di Senilità, Stefano di La corruzione e Cettina e Nino di Un bellissimo novembre non riuscivano a far fronte agli altri e a sé, fino alle estreme conseguenze, anche Berta è incapace di vivere e di viversi, non si slega da Bubù né dalla strada, non taglia i ponti. Metello in questo è più “protagonista” e meno vittima, lui i ponti li taglia eccome, e finisce spesso dietro le sbarre. Poco prima di Libera, amore mio…, in cui il fallimento degli ideali assumerà contorni universali e paradossali, Metello e Bubù già guardano in faccia le contraddizioni del mondo, le crepe di un’ideologia politica e individuale assieme, celebrata e difesa a oltranza per il suo carattere di lotta contro il dominio dei ricchi e dei potenti, e a poco a poco capita per ciò che è veramente, cioè “soltanto” un pensiero, giusto fin che si vuole ma scollegato dalla realtà e incapace di gestirla. La rivoluzione, allora, che per Metello è socialista e una questione di principio, e per Berta invece è tutta riflessa su di sé, è una presa di posizione necessaria ma inutile. Bolognini però è sempre dalla parte di chi combatte senza armi se non la parola e l’integrità (anche a costo dell’ingenuità), e di

certo non crede alla futilità delle azioni e dell’ideologia di Metello e di Berta. I due restano a loro modo “eroi” (e non vittime) al pari di molti protagonisti del cinema del regista precedente e futuro: eroi perché in grado di pensare con la propria testa e di agire sulla propria pelle, magari anacronistici, ma mai imbelli. Per Bolognini è dunque sempre un problema di morale personale, che si scontra inevitabilmente con la società, e anche quando le regole del mercato sembrano intervenire più che altrove, come nel caso di Metello e Bubù, che per motivi diversi non hanno mai soddisfatto appieno il regista. Confessa a Gili: «Questo è un film che tenevo a realizzare e l’ho fatto con molta cura, veramente in modo molto attento. Non capisco perché Bubù non è mai stato presentato in Francia, poiché vi si distribuiscono tanti film. Bubù sarebbe dovuto piacere ai francesi, almeno per il romanzo: ho parlato con degli amici francesi, non conoscevano neanche il libro di Charles-Louis Philippe, mentre in Italia questo testo è stato importantissimo per una certa letteratura: ha generato molte cose». Al di là della probabile fallacia dell’informazione (la critica di Cornand sopra riportata, e pubblicata su «La Revue du Cinéma - Image et Son», ne è prova), Bolognini riconosce anche alcuni errori, primo fra tutti a suo parere la decisione di girare il film tra Milano e Torino per poi “mettere assieme” le riprese in maniera indistinguibile. «[…] avrei dovuto girare il film a Parigi, come era indicato nel romanzo. È stata una debolezza da parte mia; d’altronde, girare a Parigi avrebbe posto molti problemi». Inoltre, il regista sostiene che la giovinezza dei personaggi non sarebbe piaciuta al pubblico («Io avrei forse dovuto, nel mio film, mostrarli ancora più giovani»): segno comunque che nonostante tutto, Bolognini bada prima di tutto alle sue idee e alla sua poetica, seppur in un contesto produttivo commerciale. E non manca come sempre un apparato tecnico di prim’ordine, dove le rifrazioni di luce del direttore della fotografia Ennio Guarnieri lavorano sull’immagine in esterni (Metello) richiamando esplicitamente i dipinti dei Macchiaioli («[…] all’ultimo Lega, alla Scuola di Piagentina e alle cosiddette “mutazioni della macchia”, che hanno in Signorini e in Nomellini i loro esponenti di spicco» precisa Pier Marco De Santi, perché «[…] un generico riferimento alla pittura dei Macchiaioli non basta. Anzi, diremo di più: non significa niente»), però senza gusto copistico, e anzi creando un mondo alternativamente dai colori caldi (lo splendido inseguimento a piedi di Ersilia tra la folla e i banchi del mercato, alla ricerca del marito appartatosi con Idina, fot. 101) o freddi (le sequenze dentro alle Murate, con i muri altissimi, fot. 102) che rispecchiano l’intimismo e la “visione” stessa dei personaggi; al pari peraltro dei costumi di Piero Tosi, la cui ispirazione, puntualizza ancora De Santi, «non è da ricercarsi nella pittura dei Macchiaioli, ma nelle lastre fotografiche dei ritratti della piccola borghesia fiorentina dei fratelli Alinari» (alla cui collezione il costumista aveva già attinto per La Viaccia). Mentre il lavoro sugli interni di Bubù fa miracoli in spazi ristretti e con la profondità di campo, dove il buio (le scene a letto, fot. 103) e il chiaro (la sequenza in cui Berta rientra a casa dopo la notizia della morte del padre, fot. 104) assumono anche in questo caso tonalità intimistiche. Dei due film, Metello è il più castigato (fot. 105); ed è strano si sia omesso dalla sceneggiatura, tra le altre cose, l’episodio dello sverginamento del protagonista con la giovane puttana Michela, costretta a letto per la mancanza dell’uso delle gambe (parentesi sessuale e di maturazione molto “bologniniana”). Bubù riceve invece il divieto ai minori di diciotto anni, evidentemente sia per l’argomento e il contesto trattati, sia per un discreto numero di nudi molto vicini all’integrale, cui si prestano tutti gli attori principali (con l’eccezione di Luigi Proietti): Ottavia Piccolo (fot. 106) e Massimo Ranieri, la coppia di Metello (dove quest’ultimo è molto più in parte), e il biondo e bellissimo Antonio Falsi, alias Bubù, adocchiato da Bolognini in un ristorante romano dove faceva il cameriere, dopo che GianMaria Volonté si era reso indisponibile.

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Imputazione di omicidio per uno studente Nel 1972 Bolognini dà un contributo al cinema impegnato e civile che è diventato produttivamente redditizio in seguito a Indagine su un cittadino al di sopra ogni sospetto di Elio Petri (1970) e Confessione di un Commissario di Polizia al Procuratore della Repubblica di Damiano Damiani (1971). Il legame al filone è evidente fin dal titolo chilometrico: Imputazione di omicidio per uno studente. L’autore del soggetto orginario, intitolato Se muore un poliziotto, è Ugo Pirro, lo sceneggiatore del celebre film di Petri: a detta di Bolognini, era stato scritto in precedenza, ed era passato per varie mani, fino a perdere d’attualità se non a snaturarsi. Il cast punta su Massimo Ranieri, al terzo film con Bolognini, e su Martin Balsam, bravo attore americano che il successo del citato film di Damiani aveva reso molto richiesto nel nostro cinema. Produce Gianni Hecht Lucari. In una borgata romana, una manifestazione di studenti e operai si scontra violentemente con la polizia. Uno studente cade colpito da un colpo d’arma da fuoco. Il giovane Fabio Sola, già manganellato, ne è sconvolto: raccoglie un tirapugni, e si scaglia contro un poliziotto. Più tardi, in questura, lo studente Massimo Trotti, che era stato caricato su un cellulare all’inizio degli scontri, è interrogato dal mellifluo commissario Malacarne e dal collega Cottone, un fascistone. Il sangue sulla sua maglietta lo incrimina come assassino dell’agente che abbiamo visto colpire da Fabio. Quest’ultimo, intanto, nasconde il tirapugni nella propria stanza. Suo padre è il giudice Aldo Sola, che ignora le idee politiche del figlio, ed è incaricato di aprire un’inchiesta sui fatti avvenuti. Sola interroga Trotti, che per conto suo accusa la polizia di avere sparato allo studente ucciso. Sola si scontra con la diffidenza e l’omertà dei due commissari. Fabio intanto si consulta con Alfio Ricci, un capetto di movimento. Vorrebbe costituirsi, ma gli altri compagni lo dissuadono: in tal modo metterebbe in cattiva luce gli studenti. La posizione di Massimo peggiora, malgrado la testimonianza a suo discarico di un prete operaio. Fabio sottrae gli atti dell’inchiesta e li fa pubblicare sul giornale di Ricci. Il giudice Sola è in grave imbarazzo: interroga Ricci, e apprende da quest’ultimo che Fabio testimonierà a favore di Trotti. Il confronto tra padre e figlio è drammatico: il giudice gli fa confessare di avere trafugato gli atti dell’inchiesta, ma Fabio gli dice di non avere più nulla in comune con lui, lo accusa di non impegnarsi per scoprire chi ha sparato allo studente e gli consegna il tirapugni, per dimostare che Trotti è innocente. Ma non si costituirà: lo farà solo quando il padre avrà incriminato il poliziotto colpevole. Il giorno dopo Sola interroga Cottone, reticente, strafottente: è lui il probabile assassino, dato che ha comprato munizioni non d’ordinanza dello stesso calibro usato per uccidere lo studente. Poi fa scarcerare Trotti e va dal procuratore generale a rassegnare le dimissioni: dice di non avere più fiducia nella giustizia. Uscito dal “Palazzaccio”, butta nel Tevere il tirapugni che gli ha dato Fabio.

Imputazione di omicidio per uno studente è uno dei film meno personali e riconoscibili di Bolognini, e non a caso il parco dei suoi collaboratori artistici è diverso dal solito, fatta eccezione per Ennio Morricone e il montatore Nino Baragli. Ma per quanto Bolognini fosse consapevole di inserirsi buon ultimo in un filone già sfruttato, non si può negare la sua onestà e buona fede. «Io non voglio giudicare più, ma capire»: le parole con cui il giudice Sola motiva alla fine le proprie dimissioni valgono anche per Bolognini, che si identifica con questo borghese galantuomo. Alieno

da ogni fanatismo e favoritismo, il giudice Sola diffida dei tutori dell’ordine con la pistola facile così come degli extraparlamentari offuscati dalle ideologie e plagiati dai capetti di turno. Per lui i morti sono tutti uguali, come rinfaccia al commissario fascista e come esemplifica una delle poche immagini a effetto (fot. 107) di un film esteticamente neutro. Il limite di Sola, come quello del film, è di essere un po’ retorico, di esprimersi in modo pomposo, di non essere capace di farsi ascoltare dai più giovani, malgrado tutte le sue buone intenzioni.

FOT 107

L’inizio con gli scontri tra studenti e poliziotti ripresi con la macchina da presa a mano rimanda ad analoghe sequenze di massa di Metello, e per l’ennesima volta non è ciò che ci si aspetta da un regista “estenuato” e “calligrafo”. Il resto del film ha comunque un andamento da melodramma, con le sottolineature orchestrali di Morricone puntuali a ogni colpo di scena. Bolognini era sicuramente affascinato dal tipico meccanismo alla Pirro (o alla Dürrenmatt) della sceneggiatura: potrà un giudice incolpare il proprio figlio? Ma ciò che gli interessa non è l’astratto paradosso giudiziario: sono le conseguenze emotive, il dramma del padre che scopre nel figlio un estraneo, un ribelle, un potenziale nemico, e ciò nonostante è costretto a riconoscerne le ragioni. In un cinema come quello di Bolognini, dove i padri di solito sono assenti, imbelli o corruttori, Aldo Sola ha una nobiltà rara: e proprio perché deve ammettere la propria sconfitta, la propria incapacità di comunicare. Fabio, forse anche per i limiti oggettivi e l’inverosimiglianza del trentunenne Massimo Ranieri, è un personaggio meno risolto. E finisce con l’essere visto sempre dal punto di vista del padre: come un estraneo, un ribelle di buona famiglia le cui motivazioni andrebbero capite meglio, anche se è forte la tentazione di liquidarle come posa o capriccio. Completa il triangolo familiare una madre che ovviamente è un’agitata (visto che la interpreta Valentina Cortese), e crea solo confusione. Bolognini non è molto generoso con lei. Del melodramma, Imputazione ha anche la scansione per così dire musicale: tanti trii e duetti, Balsam contro Pino Colizzi, Balsam contro Mariano Rigillo (un prete operaio di maniera), Balsam contro Ranieri. Anche la disposizione degli attori spesso è ostentatamente teatrale (fot. 108): peraltro, va detto, sono quasi tutti in parte. Quando invece Bolognini cerca il tocco di costume, cade nei peggiori cliché da cinema borghese: come nei rapidi scorci nelle cantine dove si tengono improbabili concerti (c’è anche Maria Monti che canta Scappa fratello scappa, versi di Giordano Falzoni e musica di Morricone), o nel covo degli extraparlamentari – con falci e martello, icone del Che, «Lotta continua» appesa al muro e le compagne che escono dalle lenzuola con le tette al vento.

FOT 108

Libera, amore mio… Dopo un film poco sentito, Bolognini ne dirige uno a cui tiene molto, e che gli consente di uscire dalla letteratura. Ma Libera, amore mio… si rivela uno degli episodi più sfortunati della carriera. Il soggetto è di Luciano Vincenzoni, uno degli sceneggiatori più geniali del cinema italiano, che si ispira alla propria madre per costruire il personaggio di un’anarchica che attraversa fascismo e lotta partigiana, fino a constatare il tradimento dei propri ideali dopo la liberazione. Bolognini trova un’interprete convinta in Claudia Cardinale, al terzo film con lui; il resto del cast, da Adolfo Celi a Philippe Leroy, da Bekim Fehmiu a Luigi Diberti, è all’altezza, anche se non è certo commerciale la scelta come coprotagonista di Bruno Cirino, allora noto per il televisivo Diario di un maestro di Vittorio De Seta (1973). Il produttore è Roberto Loyola, personaggio che viene dal cinema di serie C. E Libera, amore mio… rischia la stessa fine che farà due anni dopo il film per cui Loyola è passato alla storia, Cani arrabbiati di Mario Bava: quella di rimanere incompiuto e mai distribuito. Pier Marco De Santi parla peraltro di censure politiche e ostacoli di vario genere, fin dalla stesura della sceneggiatura. Nel 1975 interviene l’Italnoleggio e il film ottiene finalmente una distribuzione (nel frattempo è uscito il film successivo del regista, Fatti di gente perbene): ma le recensioni sono tiepide, e il pubblico lo trascura. Bolognini si consola con un telegramma entusiasta che gli invia Luchino Visconti, e che è riprodotto in Mauro Bolognini. Percorsi della memoria: «Sento il bisogno irresistibile di dirti quanto il film mi sia piaciuto et quanto lo trovi bello impegnato forte et valido stop». Prologo. Felice Valente si è asserragliato su un terrazzo inneggiando all’anarchia. La figlioletta Libera (all’anagrafe Libera Libero Amore Anarchia) lo convince a deporre il fucile, ma poi lo vede incatenato dalla polizia. Anni dopo Libera è madre di due bambini, Carlo e Anna. È il primo maggio, e in pieno fascismo va in giro vestita di rosso insultando gli squadristi. Suo padre è al confino a Ustica. Il suo compagno Matteo, sarto militare napoletano, cerca di frenare i suoi ardori politici. Ma dopo che Libera urla «abbasso il duce» dalla finestra, vengono espulsi dalla città in cui abitano. A Livorno, Libera sembra calmarsi, ma interviene a un saggio ginnico di giovani italiane per contestare la politica familiare fascista. Segue nuova espulsione, questa volta a Modena. Prima, però, Libera va a trovare il padre a Ustica. All’osteria si può parlare di politica, tanto nessuno sente i vari confinati: tra questi c’è anche Sandro Poggi, idealista democratico e bell’uomo da cui Libera è molto colpita. A Modena, Libera si scontra subito con Franco Testa, un gerarca locale, e litiga con la sorella di Matteo, rimandando il previsto matrimonio regolarizzatore. All’insaputa del marito, nasconde in soffitta Sandro, che è fuggito da Ustica e sta per andare in Spagna, dove è in corso la guerra civile. Con l’aiuto del tassista Ceccarelli, Libera gli procura documenti falsi e riesce a metterlo su un treno. Matteo le perdona di non averle detto nulla. Ma Franco Testa la fa condannare a cinque anni di confino a Ustica, dove il padre la attende tutto fiero. Scoppia la guerra. Matteo sposa Libera, che poi viene rimandata a Modena in domicilio coatto, separandosi dal padre. Al cinema, di fronte a un cinegiornale sulla campagna di Russia, Libera dà in escandescenze; viene messa agli arresti domiciliari, Matteo perde il lavoro: seguono lite e riconciliazione. La gioia della caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943, è breve. Modena è occupata dai nazisti. Il figlio Carlo si unisce a un gruppo partigiano, come Libera, che procura armi e contribuisce a far saltare un ponte. Con Matteo, venuto sventatamente a cercarla, c’è un momento di tenerezza tra la paglia di una stalla, mentre i nazisti la cercano. Un giorno vede fucilare in piazza Sandro, che la riconosce. Dopo una crudele rappresaglia nazista, Libera aiuta a catturare vari soldati nel comando cittadino, che vengono linciati. Subito dopo viene arrestata e picchiata. Matteo la visita in prigione e le dice di essersi unito a un gruppo partigiano. Intanto anche Ceccarelli viene ucciso. Il 25 aprile 1945 Libera riabbraccia il figlio. Sistemata con la famiglia in uno scomodo alloggio per sfollati, va in prefettura a informarsi sulla sua domanda per una casa, e vi trova Testa, tutto mogio ma sano e salvo. Al che va subito a protestare al Cln: ma

un onorevole le dice che non si possono epurare tutti gli ex fascisti, e che ora deve pensare solo a fare la casalinga. Libera torna a casa. Alcuni partigiani stanno dando la caccia a un fascista asserragliato su un tetto. Libera ignora i loro avvertimenti, esce allo scoperto, si trova in mezzo a una sparatoria, e muore.

Libera, amore mio… tradisce evidenti problemi di produzione. Alcuni personaggi (come Felice) scompaiono senza motivo; e la ricostruzione storica, specie nella seconda parte, ha trascuratezze che da Bolognini non ci si aspetterebbe. Si tratta comunque di dettagli marginali: di fatto è uno dei film più sottovalutati del regista. E in questo caso la sottovalutazione non è quella di cui è vittima il film piccolo, personale, per pochi, impari (come è il caso di L’assoluto naturale). La sottovalutazione di Libera, amore mio… ha i caratteri di una vera e propria rimozione politica. Con la consueta generosità e mancanza di acrimonia, Bolognini dichiarava a Gili che il ritardo nella distribuzione aveva reso “polemico”, e quindi sgradevolmente fazioso, un film che invece era “profetico”. Nel discorso finale rivolto all’onorevole del Cln che giustifica il reintegro del fascista Testa, Libera argomenta che «se non ci sbarazziamo dei fascisti oggi, ce li ritroveremo dappertutto, con i manganelli e le bombe». Nel 1974 le stragi di piazza della Loggia e del treno Italicus avevano reso queste parole amaramente attuali. Ma il discorso politico del film è ancora più ampio, come dice Sandro a Libera, per convincerla che Mussolini non è l’unico problema: «Il fascismo vero e pericoloso è quello dei potenti, degli speculatori… è quello che si maschera anche dentro la democrazia». Bolognini era fiero e soddisfatto del film, proprio perché vi svolgeva un discorso politico esplicito come non mai, dove il passato svela il presente. Posto tra Metello e Fatti di gente perbene, Libera, amore mio… radicalizza lo sguardo del primo, e prepara al teorema del secondo. Il passato non è più un oggetto archeologico o pretesto per nobili slanci poetici, ma è un presente più vero. Perché, al di là del travestimento, è lì che trovano le radici le contraddizioni, le tensioni e le brutture del mondo che ci circonda, ed è più facile riconoscerle in quello specchio. Insieme a Girolimoni, il mostro di Roma di Damiano Damiani (1972), Il delitto Matteotti di Florestano Vancini (1973) e La villeggiatura di Marco Leto (1973), Libera, amore mio… riapre l’interesse del cinema italiano alla rivisitazione di fascismo e antifascismo. Bolognini, che in precedenza aveva affrontato l’epoca fascista in modo indiretto (Senilità) o con i toni della burletta (Arabella), si ricollega agli episodi politicamente più rigorosi di un filone storico nato all’inizio degli anni Sessanta, spesso ingiustamente bistrattato. Il trasformismo e la mancata punizione del fascista Testa richiamano la sorte che tocca al personaggio sanguinario di Gino Cervi in La lunga notte del ’43 di Vancini (1960). Ma forse nessun film, finora, aveva affrontato così direttamente il tradimento degli ideali della lotta di liberazione. Al contrario della protagonista di L’Agnese va a morire, che Giuliano Montaldo porterà sullo schermo nel 1976, Libera non viene uccisa dai tedeschi: si lascia uccidere, in un gesto estremo di sfida e di provocazione – un po’ perché non può accettare che anche dopo il 25 aprile ci sia ancora un fascista in giro a sparare dai tetti, un po’ perché capisce che nell’Italia repubblicana non c’è più posto per lei. «Tornatene a casa a fare la madre e la moglie», le dice l’onorevole: e lei si fa ammazzare. È anche il limite dell’idea anarchica, che fiorisce in condizioni di repressione, quando c’è un nemico da combattere, ma implode quando trionfa una pace vischiosa come quella dell’Italia postbellica. Eppure Libera, amore mio…, quasi paradossalmente, non è un film cupo, e Bolognini non ha paura della commedia. Una vita difficile di Dino Risi (1961) è echeggiato nell’idea di rappresentare momenti epocali – come l’inizio della guerra – mentre i personaggi sono a tavola. Sequenze come il dialogo tra Matteo e il colonnello che gli propone, invano, di prendere la tessera del Partito, hanno i tempi e l’arguzia del miglior Zampa, che al fascismo aveva dedicato film di vario livello come Anni difficili (1948) e Gli anni ruggenti (1962). Ma non si tratta solo di spunti e citazioni: la commedia è la chiave con cui Bolognini racconta in modo trascinante la ribellione al grigiore del fascismo. Libera è un corpo estraneo nell’Italietta in camicia nera, è una macchia di colore (rosso), è un pugno nell’occhio, ma anche una donna che non sta zitta, urla, si avvale efficacemente della trivialità (a

proposito del padre del duce, dice: «Era meglio se si faceva una pippa»), dice sempre le cose “sbagliate”. E il racconto ha il suo passo: il punto di vista non è infatti quello di un conformista o di un pavido, come avveniva in alcuni dei film sul fascismo degli anni Sessanta, ma di una ribelle. Quindi il tono non è di farsa o di satira più o meno compiacente, ma di adesione vitalistica alla protagonista. Bolognini racconta l’antifascismo istintivo e pittoresco di Libera e del padre come una commedia, perché è l’unico modo per stare dietro alla loro generosità: che in parte è ingenua, ma è anche coraggiosa, indomita, non reprimibile. L’uso degli spazi urbani è spesso monumentale e geometrico (fot. 109 e 110), secondo quella stilizzazione “littoria” che era stata divulgata da Il conformista di Bernardo Bertolucci (1970). Ma il film non cede alle lusinghe visive, e va di corsa: nella prima mezz’ora Libera e la sua famiglia cambiano tre città diverse, e le discussioni domestiche sono rese concitate dalla macchina da presa a mano, dai carrelli e dal montaggio serrato.

FOT 109

L’episodio della fuga di Sandro (con Matteo che ignora di avere un evaso in soffitta) segna il passaggio dai toni quasi picareschi della prima parte a quelli tragici e cupi della seconda. È un trapasso inevitabile, perché la guerra non si può raccontare in tono ilare. Se certi episodi (la strage nazista) sono tirati via per evidente fretta realizzativa e limiti di budget, altri sono inediti e potenti: come la visione del palazzo nel cui scalone i nazisti espongono i partigiani impiccati. E le immagini assumono la forza da visione dantesca (fot. 111).

FOT 110

La morte di Libera è preparata da una suspense inevitabile, con un senso di tragedia incombente accettato e ricercato sventatamente dalla protagonista. La sequenza si chiude con un evidente omaggio a Roma città aperta, con tocchi di rosso (il vestito, i pomodori) dagli ovvi richiami simbolici (fot. 112). È un momento arrischiato, anche perché all’immagine di Libera riversa segue un controcampo con uno zoom in avanti (fot. 113): per Pier Marco De Santi “accarezza” il personaggio, ma per alcuni potrebbe essere in agguato la retorica del carrello di Kapò (di Gillo Pontecorvo, 1960), stigmatizzata a suo tempo da Rivette. Comunque non è finita: perché mentre lo zoom stringe sulla testa di Libera, interviene una voce over con i suoi ultimi pensieri, pratici e sconnessi («Che faccio qui per terra? Dovevo fa’ ‘na cosa…»). E poi campo lungo e panoramica della macchina da presa che si alza verso il cielo. Bolognini non fa spesso queste cose: regista antiretorico e spesso crudele, qui però non può non rendere omaggio a un’eroina uccisa sia dal

fascismo sia dall’Italietta democristiana che avanza.

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Al di là del fatto che il soggetto è di Vincenzoni, Libera, amore mio… appartiene al regista anche per i temi profondi, espressi in questo caso svolti con ottica nuova. Libera è anche una madre, ma non è edipica o possessiva. Felice è un padre assente, forse un po’ cialtrone, ma ha trasmesso alla figlia gli ideali giusti. Matteo è un marito che sa di non essere un eroe, ed è molto più simpatico di altri maschi del cinema di Bolognini. Quando litiga con Libera dopo la scoperta dell’evaso in soffitta e fa le valigie, ricorda Peppino in “Arrangiatevi”, che si dimette da padre di famiglia; ma conosce anche tenerezza e passione, e alla fine diventa pure partigiano. Libera, amore mio… è uno dei film più ariosi e solari di Bolognini. È la pars construens dopo tante opere dedicate all’analisi impietosa della coppia e della famiglia borghese. E l’indicazione di una felicità possibile: almeno finché la società e la storia non reprimono gli individui.

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Fatti di gente perbene Il delitto Murri, avvenuto a Bologna il 28 agosto 1902 nell’abitazione della vittima conte Francesco Bonmartini in via Mazzini 39 (oggi strada Maggiore), fu un avvenimento che destò parecchio scandalo, e non soltanto negli ambienti altolocati dell’aristocrazia direttamente coinvolta. Il processo venne istruito il 21 febbraio 1905 a Torino, e concluso agosto dello stesso anno. «Credo che in qualsiasi Paese, se un affare simile fosse scoppiato, gli scrittori ne avrebbero certamente tratto dei romanzi», dice Bolognini a Gili. E invece nulla, non è stato scritto alcun romanzo

sull’argomento. Fu invece scritto nel 1974 un importante testo di resoconto e memoria storici firmato da Renzo Renzi per Cappelli nella collana I & D - Inchieste e Documenti, coevo al film che Bolognini dedica a quegli eventi (Renzi e Bolognini si scambiano difatti molte informazioni e documenti, e il regista stesso scrive per il libro cinque paginette di suo pugno). È qui che si scopre che agli inizi degli anni Sessanta doveva essere proprio Renzi a esordire nella regia con un film sull’argomento, su incarico di un produttore amico, e che poi rinunciò per la mole del materiale e della documentazione, incapace di trovarvi un filo conduttore. Inoltre, anche Michelangelo Antonioni e Valerio Zurlini (che voleva Jeanne Moreau per la parte di Linda Murri) si erano interessati per qualche tempo al progetto, ritirandosi dopo poco. È nel 1974, dunque, nel suo secondo e già avviato periodo letterario di grande fortuna, che Bolognini affronta e “narra” ancora una volta il presente riallacciandosi direttamente al passato, su soggetto e sceneggiatura di Sergio Bazzini e su ricerche storiche di Gianfranco Zurlini. Fatti di gente perbene è una co-produzione con la Francia: tra i finanziatori italiani c’è Luigi Scattini, specializzato nei mondo-movie e nel genere erotico-esotico, e qui al suo esordio come produttore assieme a Mario Ferrari per la Filmarpa di Alberto Adami (l’unico altro film prodotto da Scattini sarebbe stato Divina creatura di Giuseppe Patroni Griffi, l’anno successivo). Il cast è imponente e internazionale, da Giancarlo Giannini (all’epoca in auge per le commedie di Lina Wertmüller: sono ormai lontani i tempi della caratterizzazione di Arabella, sette anni prima) a Catherine Deneuve, da Fernando Rey a Marcel Bozzuffi; torna a lavorare con il regista anche Rina Morelli, dopo Il bell’Antonio, mentre Tina Aumont è alla seconda prova con lui dopo Metello e prima di La storia vera della Signora dalle Camelie. Fatti di gente perbene riceve le solite diffidenze critiche: Enzo Natta sulla «Rivista del Cinematografo» lo stronca dando la colpa a tutto e a tutti, alla forma a scapito dei contenuti, alla sceneggiatura di Bazzini e ai suoi dialoghi letterari, all’analisi psicologica moscia e all’approssimazione dell’intreccio; Maurizio Porro su «Cineforum» scrive: «Ma nel preferire sempre e comunque il sussurro allo strillo, la pellicola si indebolisce, manca di globuli espressivi, si ritorce contro la sua stessa ispirazione. E anche in questo caso il “décor” trionfa»; Roberto Alemanno su «Cinema Nuovo» ne fraintende completamente «il discorso moralistico». L’opera però vince nel 1975 il David di Donatello come miglior film ex aequo con Gruppo di famiglia in un interno di Visconti. Bologna, inizi del secolo scorso. Tullio Murri è un socialista dalla carriera politica in ascesa: tutti lo danno per deputato. Va a letto con Rosina Bonetti, la domestica di famiglia. La sorella di Tullio, Linda, e il marito Francesco Bonmartini, dopo tre anni di separazione, davanti all’arcivescovo Svampa decidono di ricostituire la famiglia, ma con una riconciliazione apparente: ognuno farà ciò che crede. Tullio e Linda hanno un rapporto morboso: lei gli confida di non poterne più di Francesco. Pio Naldi, medico che sta per essere cacciato dall’Ordine, è amico di famiglia. Tullio osserva il dottor Carlo Secchi che prova l’efficacia del curaro su una pecora. All’università, il rinomato professor Augusto Murri istruisce gli studenti sui pericoli dell’ignoranza sociale. Tisa Borghi, aiutante di Secchi, porta un pacchetto con del curaro a Tullio. Intanto Linda e il marito si trasferiscono nella loro villa di Venezia; mentre l’idea di Tullio di uccidere il cognato, constatato l’esaurimento di Linda, diventa sempre più impellente. Tullio cerca di convincere Pio ad aiutarlo nel delitto: gli offre 3.000 lire. Nella casa di Bologna, Tullio e Pio attendono nervosi il ritorno di Francesco: verrà ammazzato, con la complicità di Rosina. Il corpo viene ritrovato dopo alcuni giorni per la puzza. L’assassinio desta scandalo: conduce l’inchiesta l’irreprensibile giudice Stanzani, che dubita subito dell’onestà intoccabile dei Murri. Stanzani interroga i coinvolti; Tullio in treno confessa alla sorella la sua colpa. Stanzani fa arrestare Rosina per falsa testimonianza. In un confronto nella residenza dei Murri, si scopre che Linda riceveva per dei festini privati il dottor Secchi: Stanzani dice ad Augusto, fattolo chiamare sul posto, «Io mi rendo conto del suo orgoglio di libero pensatore. Ma anche lei deve imparare come tutti che prima o poi veniamo giudicati: un giorno certo da dio, oggi magari da me, perché io rappresento la giustizia. […] Lei è un uomo di scienza, un socialista, e diffonde idee nemiche della religione e dell’ordine costituito. Io invece ne

sono il difensore». Augusto viene a sapere da Linda la colpevolezza del figlio: per lui ciò costituisce un grosso smacco al suo ruolo di genitore e di maestro. Sui fatti, il direttore del giornale vuole eccitare la folla e provocare una psicosi di massa. Tullio per un po’ si dà alla macchia. Il primo a costituirsi è Pio, che dice di essersene andato prima dell’omicidio: ma viene accusato di complicità. L’arcivescovo è preoccupato di tutto il fervore socialista. Stanzani arresta anche Linda, per istigazione e complicità. Poi è Tullio a costituirsi. Il fanatismo inquisitore di Stanzani vorrebbe complice anche Augusto: ma Tullio si ostina a dire di essere l’unico implicato, scagionando la sorella. Pio tenta il suicido. Tisa confessa di aver recapitato il curaro a Tullio: vuole vedere Linda dietro le sbarre, perché prima era lei la donna del Secchi. Al processo, vengono tutti condannati: Tullio a trent’anni, Linda, Carlo Secchi e Rosina a dieci anni, e Pio, che un flashback rivela veramente assente durante l’omicidio, a trent’anni. Ma Linda viene scagionata dal Re, perché Augusto salva sua figlia malata: «la giustizia non è uguale per tutti».

A Bolognini piacerebbe intitolare il suo film Delitti e affetti, o Una tragedia familiare. Per lui l’essenziale riguarda i protagonisti, le persone, più che la vicenda. Come sempre, per il regista a essere importanti sopra ogni cosa sono gli uomini e le donne; e capire loro significa anche capire le ragioni, le psicologie, i contesti, i sensi, o – come in questo caso – i moventi. «Non è un giallo, ma un dramma psicologico, di intensi affetti familiari, popolato da figure difficili ad afferrarsi nella loro identità vera, sotto le vaghe, sfuggenti, contraddittorie apparenze», scrive nel libro di Renzi. Il cinema di Bolognini è fatto di persone, al di là di ciò che mettono in pratica e fanno; la moralità di Bolognini sta proprio nell’aderire totalmente all’intimità e alla psicologia dei “suoi” personaggi, e non alla raffigurazione millimetrica degli stessi nella realtà (ed è questo uno dei motivi che hanno condotto negli anni a denigrare e non capire la sua poetica e le sue opere). È lo stesso Bolognini a confermare di essersi servito del delitto Murri per parlare del presente: «Il senso del film? C’è un tentativo di attualizzarlo, legata com’è la vicenda a un momento storico non troppo lontano. Ecco il tema: come strumentalizzare un delitto passionale per scopi politici, addirittura elettorali, in quel momento. Ma il punto forte è la lotta contro il vecchio Murri». Bolognini confessa che, se ne avesse la possibilità, rifarebbe daccapo il film, puntando tutto sul e intorno al personaggio di Fernando Rey, che nella vicenda è centro di dolore sommo, per la sconfitta delle sue idee come uomo di cultura e di scienza, e delle responsabilità di padre. A onor del vero, e constatati gli interessi del regista, non si può nascondere che l’Augusto Murri di Fatti di gente perbene sia evidente nel suo fallimento (a volte molto efficace, come nel confronto dialettico con il giudice Stanzani) ma non così in primo piano come forse Bolognini vorrebbe. Sono tantissimi i personaggi, che il regista comunque gestisce in maniera magistrale parallelamente al processo giudiziario, ma si finisce per tratteggiare ognuno di loro un po’ troppo nel pubblico a scapito del privato. In questo modo, la ricostruzione cronachistica dei fatti vince sulla definizione dei caratteri, più suggerita che compiuta. Viene da pensare che la colpa non sia tanto di Bolognini o della sceneggiatura, quanto davvero dell’intrico psicologico e sentimentale che anni prima fece desistere Renzi. I veri Augusto, Linda, Tullio e Stanzani furono così “complicati”, sia nella loro natura sia nei legami che li univano, che pare difficile se non impossibile condensarli in due ore, a maggior ragione se si devono raccontare i fatti e se si ha una decina di personaggi “di contorno” altrettanto importanti, e non solo per la soluzione del mistero. Bolognini afferma di non credere a un rapporto incestuoso tra Linda e Tullio, mentre convalida l’idea di una relazione edipica tra Linda e il padre. In Fatti di gente perbene, però, è più il primo a venire alla luce, rispetto a quest’ultima. Mentre il rapporto tra Augusto e il figlio, che nella realtà è inizialmente flebile e critico (sembra che il padre lo definisse una “mummia vestita di seta”) e in seguito all’omicidio si rinsalda strettissimo, nel film rimane più che altro non detto e poco incisivo; manca per esempio l’episodio di Augusto che prende un appartamento vicino al carcere dove è rinchiuso Tullio (al quale scriveva tantissime lettere) per stargli più vicino, rilevante nel subitaneo cambiamento affettivo del padre per il figlio. Mentre è giocoforza condensato ma molto efficace lo scacco che il professore universitario illuminato subisce di fronte a se stesso e alla società, che

improvvisamente lo rifiuta addossandogli ogni colpa, soprattutto quella di aver cresciuto figli simili. L’interpretazione di Rey è implosa e forse eccessivamente catatonica, ma è funzionale allo shock del personaggio che non può credere che ogni suo insegnamento, ogni sua idea e tutti i pensieri “donati” agli studenti e in special modo a Linda e a Tullio siano andati a vuoto. La caccia alle streghe dell’inquisitoria di Stanzani è ovviamente per Bolognini grimaldello per scoperchiare un passaggio storico letteralmente epocale: l’Ottocento era appena finito e il Novecento è da poco iniziato, e le aspirazioni di rinnovamento (rappresentate dalla modernità laica del pensiero di Augusto e pure dal socialismo di carriera di Tullio) si ritrovano ostacolate da un vento contrario in cui il cattolicesimo sfrenato e ottuso e la sordità al nuovo necessario la fanno da padroni. Il conte Bonmartini, che come ricorda Bolognini i suoi contadini al processo definirono appunto un padrone, è la vittima giusta al momento giusto: la sua morte mette d’accordo la classe bassa e la classe alta, popolo e nobiltà, affinché si possa (ri)cominciare una “santa” inquisizione mai veramente abbandonata. Bolognini decide di sintetizzare grandemente ciò che segue alle sentenze processuali, ma anche soltanto l’accenno finale, in cui il Re scagiona Linda perché Augusto ne guarisce la figlia malata, non riduce lo scoramento di un regista – uomo liberale di cultura e di intelligenza – che riscontra contraddizioni e paradossi sociali e “civili” senza termine. Fatti di gente perbene diventa allora per Bolognini il naturale proseguimento della visione politica messa in scena quattro anni prima con Metello e soltanto un anno prima con Libera, amore mio… (che però esce dopo, nel 1975). Al regista interessa lo scollamento dal sociale dell’individuo, al di là di azioni, moventi e colpe. Bolognini non sta né con Linda né con Tullio; e se deve parteggiare per qualcuno, è esclusivamente per Augusto e per le sue idee mancate: «[…] egli dava troppo fastidio. Chiedeva l’abolizione del catechismo nelle scuole, si batteva contro certe fandonie dei medici d’allora […]. Murri era un uomo che, a causa della sua dialettica, del suo pensiero teorico, si era creato una quantità di nemici. Nel momento del delitto se li trovò tutti addosso. Il suo dramma fu questo: l’essere tradito da tutti, come se non avesse fatto niente. Una città intera che lo abbandona, almeno prima del processo. Egli fu un uomo tradito da tutti, in tutte le cose nelle quali aveva creduto. Gli crollò addosso il mondo intero». Come a Metello e a Libera cadono gli ideali, anche ad Augusto Murri la realtà del delitto per mano del figlio (che, scrive Renzi, si dice essere stata un diverbio tra Bonmartini e il cognato sulla situazione fisica e psicologica di Linda, mentre il film inscena una vera e propria premeditazione di Tullio) è miccia che fa esplodere qualsiasi certezza, a partire da quella che lo lega ai figli, fallimento primario. Alla larga dal drammone languido, Bolognini filma con molta precisione; si lascia condurre dalle luci geniali di Ennio Guarnieri, che slittano dal calore morboso (la sequenza iniziale nella stanza a tre, con Giannini, la Deneuve e la Aumont, fot. 114) al gelo dell’aula del tribunale; inventa snodi narrativi ribaltando nel significato alcune “armi” come l’ellissi (bellissima la confessione “muta” sul treno in corsa di Tullio alla sorella, ripresa dall’esterno del finestrino, immersa nel buio del fuori campo e della notte, fot. 115); ed è in grado persino di giocare con il genere, quando cadenza la lunga sequenza preparatoria dell’omicidio come un thriller a montaggio alternato, con Tullio e Pio Naldi in casa e Bonmartini che da Venezia vi sta tornando (mentre Ennio Morricone si autocita spudoratamente con una nenia a carillon quasi identica a quella di Per qualche dollaro in più, fot. 116). Per un prodotto che la memoria storica relega nel recinto dei polpettoni calligrafici, Fatti di gente perbene, lungi dall’essere il miglior Bolognini, merita una rilettura più attenta e contestuale, dove per una volta le intenzioni possiedono la stessa valenza dei risultati.

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Per le antiche scale «Io dovevo vestire delle false infermiere, dei falsi pazzi; era molto difficile ritrovare i visi intravisti, ricostruire qualche cosa che non era la verità. Credo che tutto si possa ricreare, tranne la follia, la follia non si rifà». Riguardo alla trasposizione cinematografica del romanzo di Mario Tobino Per le antiche scale (pubblicato da Mondadori nel 1972, e in quello stesso anno vincitore del premio Campiello), che Bolognini realizza nel 1975, il regista si lamenta con Gili perché gli è stato impossibile filmare con dei veri matti, lui che ne ha incontrati diversi visitando un manicomio; e ricorda il coevo Matti da slegare - Nessuno o tutti (con una certa stizza, seppur sempre ben camuffata dietro un atteggiamento signorile: le accoglienze soprattutto critiche riservate alle due opere sono ben diverse), il documentario firmato da Silvano Agosti, Marco Bellocchio, Stefano

Rulli e Sandro Petraglia su alcuni internati del manicomio di Colorno in provincia di Parma, che promuove apertamente il pensiero dello psichiatra Franco Basaglia sul reinserimento del malato nella società. Prodotto da Fulvio Lucisano e girato in esterni al manicomio di San Salvi di Firenze (dove gli unici personaggi “veri” sono due infermiere ex pazienti, lì residenti ormai da decenni) e in interni nell’abbandonato Istituto San Michele di Roma, un’ex casa di rieducazione, Per le antiche scale si basa su una sceneggiatura di Bernardino Zapponi, Raffaele Andreassi, Tullio Pinelli, Mario Arosio e Marie Sinko Solleville, e conta del consueto parterre tecnico di prim’ordine. Marcello Mastroianni è scelto per il ruolo da protagonista, nonostante Tobino descriva il personaggio come «biondo, alto, gli occhi celesti, vigoroso, un che di longobardo; aveva una barbetta a punta che soleva in certi momenti stringere nel pugno»: resta la barbetta, ma l’attore pare l’esatto opposto (Bolognini con Gili lo difenderà però a spada tratta, portando chissà perché a confronto Max von Sydow, scelta che per il regista sarebbe stata più furba sul piano commerciale internazionale ma meno adatta al contesto). Mastroianni è attorniato da una sfilza di attrici famose da far invidia a un harem: Françoise Fabian (che aveva interpretato da poco Per amare Ofelia [1974], il secondo film di Flavio Mogherini, l’ex scenografo di Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo, Marisa la civetta, Giovani mariti e La Viaccia: esordio sul grande schermo di Renato Pozzetto e quasi una versione “matura”, comicosurreale e triviale di Agostino!), Marthe Keller, Adriana Asti (era dai lontani tempi di “Arrangiatevi” che non lavorava più con il regista, il quale la chiamerà anche per i due film successivi e per un cammeo in La famiglia Ricordi), Lucia Bosè (già in Metello), Barbara Bouchet. E Bolognini, da par suo, cavalca la moda più permissiva del nudo, spogliandole con generosità senza precedenti e senza seguiti (tranne forse in La venexiana) nel suo cinema (fot. 117, 118 e 119). Il regista dice di non essere stato interessato alla descrizione della vita manicomiale, bensì al mistero della follia e delle sue cause. Ma i critici storcono il naso. Tullio Kezich non ci va per il sottile: «Tobino è secco, fulminante, espressionista; Bolognini è morbido, sfumato, impressionista. […] Tutto è gradevole, perfino i matti, e i nudi femminili che rallegrano la vista starebbero bene in un altro film».

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Sono gli anni dell’avvento del fascismo. Il professor Bonaccorsi gestisce il manicomio di Lucca con l’aiuto dell’infermiera Bianca. Gianna, una delle internate, aiuta nelle pulizie e nelle faccende domestiche. Dopo una festa di carnevale, giunge la dottoressa Anna per fare pratica per tre mesi con Bonaccorsi, con il quale ha intrattenuto un rapporto epistolare per più di un anno. Anna è una basagliana in anticipo sui tempi, mentre Bonaccorsi ricerca imperterrito un gene della follia, spaventato lui stesso di poter impazzire. Anna conosce i colleghi del professore e, a cena, il direttore dell’istituto, la moglie Francesca e la procace Carla. Bonaccorsi ha una relazione con Francesca, mentre Carla va a letto con un gerarca. Tra i pazienti, la giovane Laura giace nuda in uno stato catatonico, rifiutando il cibo. Bonaccorsi, parlando con i colleghi medici, si chiede i motivi della follia: per lui, una ragione comune deve esserci, «il segno della follia». Anna riesce a calmare le intemperanze di alcuni pazienti, mentre Gianna dà segni di squilibrio schiacciando un pulcino con un sasso, e a letto si struscia nuda con un cuscino. Bianca e due suore accompagnano in città per un gelato il giovane Tonio, internato tranquillo a cui i dottori permettono di prestare una mano in laboratorio; mentre Bonaccorsi si intrattiene con Carla. Al tavolino di un bar, alla presenza di alcuni militari, Tonio però ha uno scatto d’ira: lo riportano in manicomio e lo legano alla branda, e Bonaccorsi gli promette che lo guarirà presto, con una medicina particolare. I parenti vengono a visitare i pazienti. Gianna si trafigge il petto con uno spillone di più di venti centimetri, ma non muore: a letto, confessa ad Anna che è da tanto tempo che le fa male la testa, da quando sua madre la colpiva. Al microscopio, esaminando numerosi vetrini con il sangue dei pazienti, Bonaccorsi crede d’aver scoperto l’agente biologico che provoca la schizofrenia: un punto nero a raggi rossi, «il microbo della follia». Ma Anna è perplessa, non c’è nessun punto nero, è un difetto del solvente, e dice al professore ciò che pensa di lui: «Lei è malato, non c’è nessuna differenza tra lei e loro. Lei ha tutti i sintomi della schizofrenia, le trema il mento, sbarra gli occhi, e soffre di manie». Bonaccorsi risponde che per amare i pazzi bisogna essere un po’ pazzi, ma ribadisce che lui ha soltanto paura di diventarlo. Chiede a una suora di accompagnarlo alla cella dove sta rinchiusa nuda sua sorella: «ti temo», le dice. Il professore decide di lasciare il manicomio; la follia di Gianna peggiora; e Francesca, dopo aver salutato Bonaccorsi privatamente, si suicida gettandosi dalla finestra. Laura si riprende e mangia qualcosa. In treno, Bonaccorsi è in uno scompartimento con alcuni fascisti; un gerarca recita il loro credo, tra cui: «Come prima cosa, si dovrebbero eliminare gli uomini viziosi, le puttane, e gli artisti. Vere e proprie prove di forza».

Mario Tobino è stato per quarant’anni primario dell’Ospedale Psichiatrico di Lucca. Sulla sua esperienza ha scritto due libri: Le libere donne di Magliano (1953) e, diciannove anni dopo, Per le antiche scale. Del primo si era interessato a lungo Federico Fellini, che andò anche a trovare Tobino all’Ospedale (restandone sconvolto, ricorda Kezich). Con Tullio Pinelli, Fellini incominciò a scrivere il soggetto, ringiovanendo il protagonista medico (l’io del libro, cioè Tobino stesso) per renderlo più vitellone, schiacciato dalla claustrofobia dell’istituto di lavoro e smanioso di fuggire in città per divertimento (anticipando nei locali e nelle compagnie femminili La dolce vita, sostiene sempre Kezich). Fellini voleva Montgomery Clift come protagonista. Del progetto non si fece più nulla. Forse non è un caso che più di vent’anni dopo, nel film che Bolognini trae da Per le antiche scale, ci sia Marcello Mastroianni, l’attore feticcio del regista di Rimini, e tra gli sceneggiatori

proprio Pinelli. In verità, Per le antiche scale si basa solo sul primo capitolo del libro, Dentro la cerchia delle mura, in cui il protagonista, il dottor Anselmo, ripercorre i “fasti” del dottor Bonaccorsi attraverso i racconti e i ricordi di chi l’ha conosciuto. Bonaccorsi, una leggenda dell’ospedale ora pensionato, chiuso in casa e inflessibile a non voler veder nessuno, se non la sorella (quella sana di mente) che vive con lui, unico suo tramite con gli altri e con il mondo, è per Tobino figura ben più incomprensibile e “sfrangiata” di quella di Bolognini e degli sceneggiatori, che peraltro inventano di sana pianta molti personaggi (Gianna, l’infermiera Bianca, la dottoressa Anna), ne modificano altri (Tonio prende il posto di Achille, un contadino con famiglia sottomesso agli ordini del dottore), danno un nome a chi nel libro ne resta senza (delle donne con cui Bonaccorsi si intrattiene sessualmente, soltanto Francesca assume un’identità sostanziosa), creano situazioni del tutto nuove (lo scontro tra Bonaccorsi e Anna, l’uscita di Tonio per il gelato, il suicidio di Francesca, il finale sul treno). Inoltre, il contesto fascista del film è ben più ingombrante, mentre per Tobino è un’incidenza che porta Bonaccorsi e i suoi colleghi ad abbandonare l’istituto, e poco altro. Il sesso e i nudi, comunque, sono tutti di Bolognini. Delle cui aspirazioni, per un’analisi concreta delle ragioni della follia, Per le antiche scale non fa un servizio ottimale, è da ammettere; invece è molto più efficace – e quasi definitivo per la poetica dell’autore – nella rappresentazione dello scontro fra i sessi e della loro inconciliabilità. È vero che non è un film sulla vita nei manicomi, né sui matti che li abitano; è un film invece sul ruolo dell’uomo e della donna a contatto l’un con l’altra in situazioni estreme (il fascismo, il manicomio), e sull’impossibilità vicendevole di “andare d’accordo”. In più, Bolognini fa di Per le antiche scale il teorema massimo della sua visione castratrice della donna, non la sola e univoca sua visione, ma in questi anni – in attesa di L’eredità Ferramonti e soprattutto di Gran bollito – di nuovo evidentissima e crudele. È come se qui trovassero sfogo supremo i personaggi femminili di La vena d’oro, Marisa la civetta, Senilità, La corruzione, i due episodi di La donna è una cosa meravigliosa (in special modo Una donne dolce, dolce), I miei cari di La mia signora, Fata Elena di Le fate, Senso civico di Le streghe, Perché? di Capriccio all’italiana, Un bellissimo novembre e, se possibile, L’assoluto naturale. A fare le spese di tutte queste erinni in déshabillé è naturalmente il maschio. Che non può che arrendersi, gettare la spugna; abbandonare “l’harem”, appunto. Bonaccorsi, nella sua “follia” sia di credenza ereditaria (lo confessa impaurito verso la fine, alla sorella “matta” rinchiusa nuda in una stanza, fot. 120), sia professionale (la ricerca di un gene alla base della malattia), rispecchia per Bolognini un altro scacco, dopo quello di Augusto Murri in Fatti di gente perbene: è un fallimento anche qui individuale, di fronte al pensiero basagliano della dottoressa Anna, ma riguarda in special modo un “genere”, quello maschile, che non può (più?) fare i conti con il “genere” femminile, destinato a rimanere opposto e incomprensibile. In Per le antiche scale convergono le suggestioni bologniniane sui ruoli dell’uomo e della donna e, prima del grottesco di Gran bollito, che in questo senso sarà un testo teorico, la sconfitta del primo per mano della seconda assume connotati perfino storici. Il fascismo, nelle mani di Bolognini, è campo di scontri e terreno su cui avviene una vera e propria battaglia dei sessi. Dopo averlo tralasciato dal romanzo Il bell’Antonio di Vitaliano Brancati, adesso è ancora ben più di uno sfondo: irrompe quando meno te lo aspetti (al bar, Tonio dà “di matto” quando vede alcuni militari), sembra ammorbare l’atmosfera stessa dell’istituto (le rifrazioni calde di luce “gialla” di Guarnieri, come sempre sorprendenti, tagliano l’immagine come ad aprirvi delle ferite), ed esplode nel finale sul treno in tutta la sua volgarità e “ontologica follia” (fot. 121). Bonaccorsi è battuto due volte, da ciò che pensava di “avere in mano” (il manicomio, i malati, i colleghi, l’oggetto della sua ricerca), e da ciò che forse riteneva lontano e stra-ordinario, cioè fuori dal suo quotidiano (il fascismo). L’ideologia fascista come prigionia della mente lo colpisce duro soltanto davanti al gerarca che gli vomita addosso pensieri e parole osceni; per Bonaccorsi, è la fine della fine. Come maschio, il professore lascia il suo trono: al manicomio restano solo le donne (tranne Francesca, suicida), gli

uomini o non si vedono mai o poco (il direttore, i colleghi), o sono inerti (i malati). Come sconfitta del superomismo a opera del gentil sesso, che si rinchiude e difende in una roccaforte in cui non può nulla nemmeno la violenza fascista, è davvero un’idea sepolcrale.

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Ma c’è il rovescio della medaglia, che farebbe uscire dalla finestra i sospetti altamente misogini entrati dalla porta. Il manicomio di Per le antiche scale potrebbe benissimo rappresentare per Bolognini anche l’unico rifugio paradossalmente sano dove riparare in un mondo gestito dalla supremazia arrogante dell’uomo. Quando il maschio è fascista, presuntuoso o pavido, la donna lo sconfigge sul suo stesso campo, e prende possesso del suo regno. In esso, la donna non soltanto governa, ma si rasserena, aiuta il prossimo, addirittura si risveglia (appena partito il professore, Laura torna “alla vita”). Fuori l’uomo, la donna è l’unica in grado di svolgere un lavoro e di capire veramente i problemi e le sue soluzioni. Il colpo di coda per il regista di Senilità, Una donna dolce, dolce e L’assoluto naturale non è di poco conto. In mezzo a numerosissimi nudi anche integrali e durezze improvvise (Gianna che schiaccia il pulcino con il sasso), Bolognini (accompagnato dalla musica di Morricone, che per l’occasione si fa incalzante e da incubo) ci conduce verso una conclusione della vicenda che ha l’effetto di un cazzotto. La sequenza sul treno è secca, in crescendo, lapidaria: Bonaccorsi è finito come uomo di scienza, come uomo che spera, che s’illude; e che fa sesso, volendo convalidare il suo essere maschio. Che si tratti di misoginia o no, tutte le donne con cui ha avuto rapporti – tranne una, Francesca – continuano comunque a vivere; mentre lui, dopo la consapevolezza, sul treno si avvia verso la vecchiaia e l’oblio. Bolognini è spietato; e dietro una superficie “osé”, che pare volersi abilmente adeguare allo spirito popolare e sporcaccione del mercato cinematografico italiano contemporaneo, nasconde una disillusione senza rimedio. L’eredità Ferramonti Il romanzo L’eredità Ferramonti di Gaetano Carlo Chelli fu pubblicato nell’estate del 1883, e in seguito a recensioni ottime l’editore Sommaruga ne fece una seconda ristampa l’anno successivo. Tra i primi a celebrarlo fu Benedetto Croce. Nel 1972, il testo venne ripubblicato nella collana Centopagine di Einaudi grazie all’interesse del suo direttore Italo Calvino e di Roberto Bigazzi. L’8 aprile 1973, Pier Paolo Pasolini lo recensì su «Tempo» con enorme entusiasmo: tanto da sollecitare a più riprese Bolognini affinché si decidesse a portarlo sullo schermo (anche senza copione, «Butta

via tutto, prendi il libro di Chelli e basta; tutto, c’è tutto nel libro», così diceva Pasolini al regista). Non ci volle molto: per la Flag Production di Gianni Hecht Lucari (alla sua quinta collaborazione con Bolognini), L’eredità Ferramonti arriva nel 1976 al Festival di Cannes, dove la protagonista Dominique Sanda vince il premio come miglior attrice (ex aequo con Mari Töröcsik per il film ungherese A Löcsei fehér asszony di Gyula Maár, inedito in Italia). Un anno dopo, Adriana Asti vince il premio del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici come miglior attrice non protagonista. Il cast internazionale comprende anche Anthony Quinn, Fabio Testi, Luigi Proietti (al secondo lavoro con Bolognini dopo Bubù) e Paolo Bonacelli. Sono Ugo Pirro e Sergio Bazzini, con la consulenza di Bigazzi stesso, a scrivere la sceneggiatura. Dirà Bolognini a Gili: «Il libro m’interessava per questa descrizione della distruzione di una famiglia, e anche per un personaggio – l’antagonista – e cioè il cognato, l’uomo politico. […] Quest’uomo che sarà il vincitore è, a mio parere, l’autentico mostro, quello che avrà tutto il denaro: sogna politica, sarà il futuro uomo politico italiano». Ci vorranno quasi dieci anni perché L’eredità Ferramonti venga distribuito in Gran Bretagna, con il titolo The Inheritance e un doppiaggio curato da Paul Mueller. Nella sua recensione comunque positiva per il «Monthly Film Bulletin», Philip Strick si sofferma più che altro sull’apparato estetico di prim’ordine, parlando di «un tocco di Tissot e una nota vigorosa di Tiziano». Ma sono evidenti le ragioni dell’interesse bologniniano: si tratta di una storia che mette in luce la grettezza e l’arrivismo della classe borghese italiana piccola e media, propensa a sacrificare qualsiasi cosa pur di arrivare al potere. Roma, 1880. Il vecchio e burbero Gregorio Ferramonti chiude il forno di sua proprietà. Sul posto, i tre figli in attesa dell’eredità: Mario, diventato pappone; Teta, con il marito cispadano Paolo Furlin, arrampicatore burocratico; Pippo, l’unico ad aver continuato a lavorare al forno fino alla fine. Restano tutti a bocca asciutta, tranne qualche lira per Pippo, che compra a poco prezzo («3.000 lire adesso, il resto un tanto al mese») la bottega dei Carelli: sarà la figlia Irene a dargli una mano e a insegnargli il mestiere. Pippo e Irene si sposano: in chiesa, dei parenti sono presenti soltanto Teta e Paolo, che coinvolge Pippo nei lavori di dragaggio del Tevere. La domestica aggiorna Gregorio sulle vite dei figli: i due saltuariamente vanno a letto assieme. A un party, Irene conosce Flaviana Barbati, l’amante di Mario: Irene vuole avvicinarlo per convincerlo a fare pace con i fratelli. Mario accetta: adesso tutti i fratelli si sono riconciliati. Ma Mario sospetta delle intenzioni di Irene, e capisce che dietro le buone azioni c’è uno schema ben preciso per arrivare ai soldi dell’eredità famigliare: e con lei stringe un accordo di complicità, anche sessuale. Il prossimo passo di Irene è farsi ben volere da Gregorio, che dapprincipio ne rifiuta la presenza in casa, ma a poco a poco ne subisce il giovane fascino ammaliatore. Irene mente a tutti, e intanto le sue visite a casa di Gregorio diventano quotidiane, con il vecchio che non riesce a rinunciarvi. Pippo si dà all’alcol perché intuisce le tresche della moglie: una sera la sorprende con Mario in atteggiamenti intimi, ma non interviene. La trappola passionale di Irene ai danni di Gregorio funziona: il vecchio le mostra la cassaforte dove custodisce il testamento in cui dichiara di lasciarle ogni cosa. A una festa di carnevale, Teta affronta Irene minacciandola di spifferare tutto al padre, mentre Irene umilia Mario dicendogli che si è soltanto servita di lui e del suo denaro per i suoi scopi. Poco dopo, Gregorio le mostra una lettera; è di Teta: «Sei un vecchio idiota. Irene fa all’amore con Mario mentre Pippo beve per non vedere. Mario non ha più un centesimo. Guardati da Irene, se non ti vuoi rovinare, perché lei vuole solo i tuoi soldi». Ma Irene riesce a convincerlo che si tratta di una calunnia. Gregorio però muore: Irene gli ruba dalla tasca la chiave della cassaforte, da cui preleva il documento che le assicura l’eredità. Durante la veglia funebre, Irene comunica ai figli Ferramonti che Gregorio le ha lasciato tutto. Mario, disperato soprattutto per amore, si suicida di fronte a Irene con un colpo di pistola. Nessuno crederà più alle menzogne della donna: verrà processata e additata come creatura mostruosa.

Nel romanzo di Chelli, il coinvolgimento diretto di Paolo Furlin allo svolgimento degli eventi è molto più consistente rispetto al film. Assieme alla moglie Teta, è lui ad aspettare nell’ombra la caduta di tutti gli altri personaggi, e a trarne poi vantaggio personale. Mentre anche Pippo e Mario

possiedono più spessore: è quest’ultimo che, prima del suicidio teatrale, si riavvicina al fratello – che peraltro si abbassa e nega a tal punto da decidere di stare accanto alla moglie, fino letteralmente alla follia – nel tentativo di rivedere Irene, affinché il suo piano tragico possa andare in porto senza sospetti. Chelli inoltre descrive con grande efficacia il contesto di pettegolezzi che i comportamenti dei protagonisti suscitano: ne viene fuori un andirivieni di pensieri, voci e chiacchiere che muta di segno a ogni azione, simbolo di una società incapace di qualsiasi integrità di sguardo. È in questo modo che Irene, in un primo momento celebrata come donna umile e generosa e poi massacrata dall’opinione pubblica per le sue apparenti trame, finisce per tornare al rango di santa dopo che rinuncia al ricorso della sentenza che le toglie ogni diritto all’eredità. E mentre Irene entra con la solita malizia tra le grazie di un altro uomo ricco e benvoluto in società, Desiderio Pennucci, sperando di recuperare prestigio e potere, i coniugi Furlin si prodigano a dimostrare agli occhi altrui la loro “umanità” mentre si prendono cura di Pippo fino alla sua morte, ritrovandosi in seguito tra le mani un patrimonio ingentissimo. «Vollero intera l’apoteosi di gente onesta e di cuore. Durante tutto un mese portarono in giro lo spettacolo dei loro visi angosciati. Poi il cavalier Paolo rassegnò le sue dimissioni. Si montava la testa con mille progetti grandiosi. Mulinava di entrare nella carriera politica, facendosi eleggere deputato. Nell’intimità, Teta gli prodigava adorazioni idolatre…»: così finisce il libro, chiarendo ancor di più il panorama politico di cui Chelli espone nelle pagine precedenti la nascita e la crescita. Il film è meno attento alla rappresentazione dei giochi politici privati. Anche se per Bolognini le cose sono chiare, e il discorso sulla contemporaneità è palese: ma gli interessano di più i singoli personaggi visti nella loro pochezza intimistica, una miseria morale che per il regista – al pari di Chelli – si esercita tra le quattro pareti della camera da letto o del soggiorno, più che fuori. Bolognini aumenta da par suo il carattere erotico delle situazioni, e rende Irene una vera e propria mangiatrice di uomini, ma subdola, oltre che intelligentissima. E la visione d’insieme sulla praticabilità della menzogna e dell’inganno come anche strumento di seduzione fisica e mentale, al di là della questione meramente monetaria, non fa sconti. I personaggi di L’eredità Ferramonti non possiedono capacità intellettuali, l’adescamento e le aspirazioni si fondano su parametri basilari, quasi animaleschi: il primato sugli altri, il potere, la disponibilità economica senza pari. Rispetto a Fatti di gente perbene, dove il conflitto avveniva maggiormente sul piano intellettuale, per l’appunto, gli uomini e le donne di L’eredità Ferramonti ragionano più con la matematica del popolo, quella della proprietà. Si può possedere un negozio (la bottega comprata a poco prezzo), un capitale (quello del vecchio Gregorio, per il quale la brama di tutti non conosce limiti), un uomo. A Bolognini, come sempre, preme principalmente sottolineare un possesso umano, fonte e conseguenza insieme della corsa al potere della società, mai doma, e senza fine. Per arrivare al denaro e al dominio, Irene “possiede” prima Pippo, poi Mario, infine Gregorio (fot. 122); “possiede” anche Teta e Paolo, e soltanto la cognataavrà il coraggio di affrontarla apertamente. Lo fa a una festa in maschera, e non è un caso: per Bolognini, questo momento è di importanza primaria (mentre nel romanzo è soltanto un evento tra i tanti), una delle numerose mascherate presenti nei suoi film, come strumenti per mettere in luce l’ambiguità dei personaggi, la loro penuria e nel contempo per orchestrare situazioni essenziali al discorso sui sessi, che sappiamo essere tra i punti cardine della poetica bologniniana (fot. 123). È qui che Irene si svela per ciò che è, macchina senza sentimenti i cui progetti infine non trovano più sostegno neanche con il trucco e dietro un costume da carnevale (fot. 124).

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Le intenzioni di Bolognini sono abbastanza scoperte: entrare nel privato dei Ferramonti per capire ciò che sta avvenendo nella realtà pubblica. Il regista si serve del groviglio dei rapporti tra i personaggi per filmare la nascita di una nazione e la morte di una famiglia, da una parte l’alba di un’ideologia di dominio, dall’altra il tramonto di un’istituzione “casalinga”. Attraverso la distruzione dei Ferramonti, Irene vuole assurgere al potere; poi però ne viene travolta, ma un Paese ben delineato è già “in piena forma”. Il sesso, per Bolognini, è ancora una volta arma funzionale come una pallottola: difatti, fa restare stecchito Gregorio sul letto della sua camera (fot. 125), mentre Irene ha un subitaneo moto di orrore, ma dura poco, giusto il tempo di alzarsi e di prendere possesso dell’atto testamentario con il quale il vecchio le lascia tutto. Anche Mario ci resta secco, per propria mano, perché non può più avere Irene. La messa in scena del circolo vizioso tra desideri e risultati trova in Bolognini il giusto sguardo carnale, che non risparmia nessuno (neanche la domestica di Gregorio), e che non si eleva sopra umori popolari da strada, da cortile, da tinello. Il sesso di L’eredità Ferramonti avviene in mezzo a cosciotti di maiale o nel buio di un sottoscala, è unto e sporco anche quando è implicito o rimosso. Non c’è piacere, solo calcolo. E anche la fotografia di Ennio Guarnieri abbandona le sue classiche rifrazioni di luce per inquadrature dal rigore frontale (fot. 126), dove la sontuosità della scenografia di Luigi Scaccianoce (già accanto a Bolognini per Senilità e i due episodi di La donna è una cosa meravigliosa) riempie l’immagine con spirito “godereccio” ma consapevolmente mortuario. L’eredità Ferramonti è l’ultimo vero film di Bolognini dove il costume e la ricostruzione ambientale (fatta spesso velocemente e clandestinamente per le vie di Roma, racconta il regista, per evitare grane con le forze dell’ordine, che non avrebbero mai concesso i permessi relativi) assurgono a metafora di una grande abbuffata. Negli anni Ottanta, quando Bolognini comincerà a lavorare per la televisione, le cose saranno diverse: non ci sarà più spazio per una vera condanna, altri i mezzi, e le intenzioni resteranno tramortite dagli obblighi. Dal passato, allora, non si potrà che cogliere uno spunto singolo, e mai più un’intera collettività, la realtà tutta.

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Gran bollito Nella seconda metà degli anni Trenta, prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, Leonarda Cianciulli, nata il 14 novembre 1893 a Montella nell’Irpinia, a trentasette anni si trasferì a Correggio con il marito e gli unici quattro figli sopravvissuti di diciassette gravidanze. Per scongiurare la partenza per il fronte del primogenito, sacrificò alcune amiche sterili smembrandone i corpi e facendone sapone. Venne processata nel 1946; la sentenza la condannò per omicidio a scopo di rapina. Finì i suoi anni al manicomio di Aversa, dove morì il 15 settembre 1970. Nicola Badalucco viene in possesso del diario che la cosiddetta “saponificatrice di Correggio” tenne proprio ad Aversa: un dettagliato resoconto delirante su come evitare la terza guerra mondiale. Decide di parlare con l’unico giudice sopravvissuto del processo, che ammette essere stato un errore rubricare la sentenza come omicidio a scopo di rapina. Badalucco racconta che il progetto di portare sullo schermo le imprese della Cianciulli interessa dapprincipio Roman Polanski e poi Marco Bellocchio, che però non ne fanno nulla. Anche Lina Wertmüller si appassiona al personaggio, e ne scrive una commedia, Amore e magia nella cucina di mamma, pubblicata nel 1973 sulla rivista «Sipario» e mai andata in scena. Subentra Bolognini: il quale, racconta Ernesto Baldo su «La Stampa», pare avesse pensato prima ad Anna Magnani e poi a Sophia Loren per il ruolo della protagonista, che va invece a Shelley Winters. Badalucco scrive una prima stesura del soggetto con Luciano Vincenzoni, che poi abbandona la cosa. La sceneggiatura del solo Badalucco passa sotto

molti titoli: Black Journal, La signora degli orrori, La signora dell’orrore, Sapone di donna, Donne all’interno, La saponificatrice. Quello definitivo con cui esce in sala è Gran bollito. È sempre Badalucco a raccontare che i primi giorni delle riprese sono funestati da numerosi incidenti, come se la lavorazione e la troupe fossero ammantati dall’ombra sciagurata dei riti magici della Cianciulli. Incidenti che peraltro tornano anche molti anni dopo, verso i primi anni Novanta, quando il musicista d’avanguardia Egisto Macchi pensa di portare sulle scene la vicenda, con un melodramma da camera a piccola orchestra, pianista, soprano e un’attrice che scandisce gli eventi per il pubblico. Macchi scrive le musiche, ma nei primi anni Novanta muore a Montpellier, proprio dove doveva andare in scena l’opera; muore anche la soprano che avrebbe dovuto partecipare, Alide Maria Salvetta. Il progetto però resiste, e va in scena un anno dopo a Roma, per commemorare la scomparsa del musicista: regia Giuliano Montaldo, costumi Elisabetta Montaldo, soprano Lisa Peers, narratrice Patrizia Zappa Mulas, pianista Antonio Ballista. Prodotto dalla Triangolo Film di Alessandra Riccardi Infascelli, Gran bollito vede un cast internazionale altisonante: accanto alla Winters (doppiata da Regina Bianchi), ci sono Max von Sydow, Alberto Lionello, Renato Pozzetto, Laura Antonelli, Mario Scaccia, Milena Vukotic, Franco Branciaroli, Rita Tushingham, Adriana Asti e Maria Monti. Negli anni che precedono la Seconda guerra mondiale, da Napoli Lea arriva in treno in una cittadina del Nord. Al condominio in cui ha traslocato, la vicina Lisa Carpi l’aiuta a portare le valigie. Nel nuovo grande appartamento, al marito di Lea, Rosario, viene un infarto, e rimarrà costretto a letto. Lea apre una ricevitoria del lotto. Fa amicizia con Berta Maner, che sta per partire per l’America dove rivedrà dopo vent’anni il marito. Lea le racconta di aver avuto tredici figli, dodici dei quali morti o prima della nascita o subito dopo: l’unico sopravvissuto, l’universitario Michele, è il suo cocco. In chiesa, Lea vede che Michele s’accompagna a Sandra, insegnante di danza che vive nell’appartamento di Stella Kraus, cantante di cabaret. Don Onorio celebra la messa, mentre la sorella Maria suona l’organo. Lisa confessa a Lea di essere perseguitata dal demonio. Nel condominio abita anche Palma, in attesa di un uomo. La domestica di Lea è Tina, una sempliciotta ebete senza la parola. Lea dà un party d’addio per Berta, che è attratta da don Onorio. Intanto Lea scopre Michele a letto con Sandra, e s’infuria. La sera prima della partenza, Lea invita Berta a dormire da lei, mentre due vicine zitelle spiano dalla finestra di fronte. Lea decapita l’amica e la fa a pezzettini per farli bollire in un grosso pentolone con la soda caustica e farne sapone. Al locale dove canta Stella, Lea balla con il figlio, ma quando arriva Sandra, è lasciata sola. Lea offre alle sue amiche dei biscotti ossi di morto fatti con le ossa di Berta tritate con l’aiuto di Tina. Per allontanare da Sandra il figlio, Lea obbliga Tina a offrirglisi nuda: ma lui la rifiuta. Sempre più spaventata dal diavolo che le compare con il membro eretto, Lisa si rifugia da Lea: la donna le fa bere il “latte di vecchia”, la fa sdraiare sul tavolo a testa in giù, la decapita e ne fa altro sapone, nel frattempo richiestissimo. Il marito, cui l’infarto ha tolto la parola ma non l’udito, comincia a sospettare della moglie. Le vicine consegnano a Maria una delle saponette donate da Lea: ha un brutto odore. Sandra va a pranzo a casa di Lea, che però continua a detestarla. Maria trova nella saponetta un anello di Berta, e sviene: Lea le confessa i suoi delitti, e Maria ci resta secca. Al funerale celebrato dal fratello, è presente il nuovo maresciallo. Lea fa a pezzi anche Stella. Intanto le prove contro di lei aumentano, e il figlio parte per il servizio militare. Sandra va ad abitare da Lea, che teme un’altra guerra in cui tutti i giovani verranno mandati al macello. Durante un confronto tra Lea e Sandra, il maresciallo e i carabinieri giungono sul posto e arrestano Lea. I vicini le danno del mostro: «Chi, io? Ma siete pazzi!».

Badalucco definisce Gran bollito un noir grottesco, e conferma i “prestiti” dal Monsiuer Verdoux di Chaplin. Nomi e alcune circostanze sono cambiati rispetto alla realtà dei fatti; e una delle frasi che aprono il film, «L’idea di questa storia è stata liberamente tratta da avvenimenti realmente accaduti, in America, in Egitto e in Italia. Ma il riferimento a persona vissute o ancora viventi è assolutamente inesistente», appare a bella posta per evitare grane con famigliari ed eredi. La critica storce il naso, e resta abbastanza sconcertata e perplessa di fronte alla scelta di far interpretare a tre

uomini – Lionello, von Sydow e Pozzetto – le amiche di Lea (fot. 127): tanto da suggerire ad alcuni letture psicanalitiche di quart’ordine (Piero Sola su «Bianco e Nero»: «E forse proprio questo rapporto madre-figlio […] è la chiave della scelta di affidare a uomini tre ruoli femminili: come non considerare che molti travestiti hanno alle spalle un rapporto particolare con i genitori e soprattutto con la figura materna?»). In realtà, lo sceneggiatore afferma che fu di Bolognini l’idea, desessualizzare – o ipersessualizzare – delle vittime sterili, in grado dunque di non poter “essere madri”, di non poter partorire figli. Per Lea, che di figli ne ha avuti tredici, si tratta dell’offesa massima alla sua ideologia di mamma e di donna, protettrice a oltranza del suo “frutto” (l’unico sopravvissuto) di fronte a un mondo o infecondo, o che manda a morire i propri. Per il regista è un’invenzione geniale, che non ha precedenti (neanche Vittorio Caprioli con Splendori e miserie di Madame Royale [1970] si era spinto così oltre), ed è pari a un compendio illuminante su tutta la sua poetica dei sessi finora messa in scena. L’idea di far tornare dopo la loro morte in abiti femminili Lionello, von Sidow e Pozzetto, ma stavolta in abiti maschili (il maresciallo, l’impiegato di banca e il carabiniere), è successiva, e rende il contesto identitario del film ancora più travolgente.

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Come suggerisce il titolo stesso, Gran bollito è un calderone spiritato che trancia ogni possibile coordinata con il reale e il previsto, e dove cuociono le suggestioni più diverse. La morale comune va a farsi benedire, e Bolognini parla di relazioni e specificità sessuali come fosse un carnevale. In questo, Gran bollito è la summa di tutte le mascherate bologniniane, rappresentazioni con il trucco vistoso di doppiezze e ambiguità varie; ciò che in precedenza era un avvenimento incidentale che serviva al regista per sottolineare un personaggio e un mondo, qui diventa regola e sguardo di vita primari e unici. Il regista parla di incesto (fot. 128), cannibalismo e stupro (quello che sogna Lisa per mano del diavolo e del suo pene gigantesco), di sguincio ma non timidamente, attraverso il filtro apparentemente faceto del grottesco; e intanto scardina il bon ton borghese, le buone maniere, lasciando bollire sul fuoco una condanna non proprio esigua di un intero Paese. L’Italietta che ne viene fuori ha davvero le ossa ridotte in polvere: il mammismo, il pettegolezzo e l’imbecillità finiscono per incarnarne la tradizione. Lea, che teme la guerra come le donne (nella realtà, una profezia mise in guardia la Cianciulli proprio da questi due “mali”), vuole eliminare le pretendenti (e sue rivali) del figlio e nel contempo vendicarsi di un torto “atavico”, quello che periodicamente imbratta di sangue la terra. La critica del personaggio, però, non è elementare; Lea è la versione freak di Maria, la madre di La vena d’oro, la sua proiezione distorta. Se Lea è così, la colpa non è sua, bensì del pensiero comune, delle credenze popolari, del potere, della religione. Lea è anche la versione incestuosa di tutte le donne “amanti” del cinema di Bolognini. La sua lotta contro il nemico è ideologica, analfabeta ma a suo modo ideologica; si basa su concetti semplici, da cucinino, una ricetta di famiglia, biscotti di ossa di morto (fot. 129), liquore, un pentolone capiente, e l’apparenza di vicina cordiale (oltre che venderlo, regala il sapone con molta generosità). Lea è la perfetta dirimpettaia, l’opposto delle sue, le due sorelle zitelle: lei si fa solo gli affari suoi, e soprattutto quelli del figlio. Tutto avviene in casa, i panni sporchi si lavano proprio lì.

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Prima delle riprese, le intenzioni di Bolognini sono di attuare una sorta di rappresentazione teatrale, con tanto di palcoscenico (la grossa cucina, il tavolaccio su cui “opera”) e di sipario (la tenda che separa la cucina dal resto dell’appartamento). Presto fatto: con la scenografia e i costumi di Danilo Donati, Gran bollito porta in scena una santa della democrazia cristiana, colei che pratica i dettami propugnati dal potere, la difesa della famiglia e della prole. Lea è cresciuta timorosa di Dio, che però le ha tirato un brutto scherzo, impedendole di moltiplicarsi come avrebbe voluto e lasciandole solo un pargolo (fot. 130): chi può biasimarla se vuole difenderlo con le unghie e i denti (letteralmente: prima degli omicidi, la Cianciulli s’è tolta i denti, cavata le unghie e tagliata i capelli, offrendo tutto alla Madonna)? Bolognini, che non ha mai odiato fino in fondo i “cattivi” dei suoi film, e lungi dal giustificarli, guarda a questa poveraccia con pietà partecipe, ne fa un mostro da temere ma ne piange anche la “ragione sociale”, quella che la allontana dalla realtà per chiuderla in meccanismi mentali da “donna del popolo”.

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La “messa a distanza” del grottesco serve a Bolognini per evitare la seriosità e il discorso a tesi. Bando agli stereotipi da salotto e da dibattito televisivo, Gran bollito è anche un divertissement pregiatissimo, zeppo di figurine indimenticabili e interpretato con verve indomita. Il regista non si fa mai prendere la mano dal caricaturale, invece è sorprendentemente elegante nella composizione dell’inquadratura, tra riflessi (bellissimo il primo “contatto” ravvicinato tra Lea e Sandra, alla scuola di ballo, fot. 131) ed ellissi (si veda come risolve gli omicidi tra ombre e stacchi secchi di montaggio del solito Nino Baragli). Si percepiscono la passione e il piacere di Bolognini; ma dietro

il riso e le teste mozzate, c’è sempre una visione sugli uomini e sulle donne che guarda in faccia il presente appoggiandosi al passato (relativamente prossimo, in questo caso). Il riso, allora, mai come in Gran bollito si trasforma in ghigno funebre. I tempi delle barzellette veloci degli episodi degli anni Sessanta sono ormai preistoria; Gran bollito ci mette la pietra sopra.

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Sarò tutta per te Nella seconda metà degli anni Settanta i film a episodi conoscono una ripresa di fortuna e attirano di nuovo investimenti produttivi e registi di prestigio. È l’epoca di Di che segno sei? (1975), Quelle strane occasioni (1976), I nuovi mostri (1977). Gianni Hecht Lucari e Angelo Rizzoli chiamano Bolognini a contribuire a Dove vai in vacanza?. Uno dei campioni d’incasso del Natale 1978, il film viene ricordato soprattutto per il lungo episodio di Alberto Sordi, Vacanze intelligenti, di contagioso anti-intellettualismo qualunquista. Sarò tutta per te di Bolognini, il primo segmento, è il più breve (poco più di mezz’ora) e passa quasi inosservato. La commissione in apparenza è meno gratificante dei progetti di cui Bolognini ha pieni i cassetti, e che elenca ad Anna Maria Mori su «la Repubblica» del 27/09/1978: un adattamento di un racconto di Henry James e uno di Mia madre di Georges Bataille con Charlotte Rampling, una storia ispirata al caso di Bruneri e Cannella… Ma il film va rivisto. Estate. Il maturo dentista Enrico viene mollato dalla giovane amante Luisa. Estorce un invito all’ex moglie Giuliana, da cui ha divorziato dodici anni prima. Questa abita nella villa di un suo altro ex, Armando, e gli fa capire di avere ancora voglia di lui. La fretta di Enrico però la maldispone; decide quindi di tenerlo a bada, e lo turba con le sue rivelazioni (ha avuto anche rapporti con una donna). L’arrivo di una serie di ospiti rovina ogni atmosfera seduttiva. Primo è Tommaso, un giovanotto finto tonto figlio di Armando. Successivamente sono i suoi amici nudisti e cannaroli. Poi tre giornaliste femministe, amiche e colleghe di Giuliana, tra cui la temibile cicciona Virginia, che prende il sole in topless e discute di come “disarmare il pene”. Quando, sotto l’effetto di uno spinello, Enrico sembra avere convinto Giuliana ad appartarsi, arriva Armando: è molto giù, è stato tradito da un’altra donna, e Giuliana lo consola passando la notte con lui. Il giorno dopo Enrico, fuori di sé, litiga con Giuliana, reclamando ciò che secondo lui gli è dovuto. Giuliana gli dà dell’arido egoista, ma accondiscende freddamente portandoselo in camera da letto. Enrico è un po’ imbarazzato («A me le cose forzate non piacciono»), e fa cilecca («Sono mortificato»). Non capisce perché Giuliana ne sia intenerita, e parte. In un ristorante legge con fare allusivo un improbabile menu, ammirando una cameriera dal seno prorompente.

Scritto da tre specialisti come Roberto Gianviti (per il soggetto), Ruggero Maccari e Iaia Fiastri, Sarò tutta per te è uno dei film più devastanti e scatenati di un’epoca in cui la commedia all’italiana si incattivisce e accetta frontalmente la volgarità. Si tratta di un fenomeno molto diverso rispetto alla vena goliardica e basso-materiale corporea che diventa preponderante nel cinema di serie B. Il cinema “alto” dei Risi, Comencini, Loy, Monicelli, Scola, Salce evita il détour dell’ammiccamento complice, consentito in un contesto marginale, ma ingloba ed esibisce il deteriorarsi dei costumi con impassibilità e spudoratezza. Visti oggi, questi film (che paradossalmente sono i meno rivisti dai

trashofili) lasciano spesso basiti per il cinismo. E Sarò tutta per te all’epoca viene percepito come un punto di non ritorno di volgarità, pari solo a L’anatra all’arancia di Salce (1975), non a caso sempre con Ugo Tognazzi. L’Italia è cambiata, il suo cinema è sull’orlo del baratro, anche se gli incassi sono ancora soddisfacenti. Dopo Gran bollito, il breve episodio consente a Bolognini di tornare a occuparsi del presente. Il fatto che non girerà più nulla fino a La storia vera della Signora dalle Camelie, nel 1981, forse induce a caricare di significato indebito un film probabilmente realizzato di corsa e con la mano sinistra (anche se con varie raffinatezze di casting). Ma con il senno di poi nulla sembra casuale in Sarò tutta per te, sia che lo si prenda all’interno della filmografia del regista (dei cui temi costituisce una summa di rara acredine), sia che lo si giudichi nel contesto del cinema e della società dell’epoca, di cui è uno specchio emblematico, impietoso e per nulla complice. Bolognini si sporca le mani, accetta il product placement più pacchiano, inserisce musichette di Ennio Morricone mai così alimentari e svaccate (con gemiti che riciclano Scusi, facciamo l’amore? [di Vittorio Caprioli, 1968]), e immerge tutto in una luce da spot per le vacanze di nuovi ricchi. E il film è innanzitutto un aggiornamento sulla nuova borghesia, spaccata in due tra edonismo sfrenato e mode di sinistra (le amiche femministe, i figli che vanno a Parigi in autostop). Sarebbero luoghi comuni satirici da film di Steno, se la prospettiva di Bolognini non fosse radicalmente sessuale. Tutto il plot ruota attorno a un coito procrastinato e poi ovviamente mancato, secondo un meccanismo ancora una volta classico (si veda almeno un sottovalutato episodio di Renato Castellani, Una donna d’affari, in Controsesso, 1964). Ma solo Bolognini poteva essere così lucido nell’analizzare e smontare tutte le mitologie maschili, ponendole a confronto con l’altro e il diverso. Enrico non si nega nulla, dalla mantenuta giovane alla fantasia lesbica a tre (quando propone alla femminista Antonietta di seguire lui e Giuliana in camera, dopo lascive visioni da cannabis). Ma per due volte vede messa in dubbio la propria integrità di eterosessuale che proclama: «Smettere di fare l’uomo mi fa proprio schifo». Prima è lo sguardo di un ragazzo in un ristorante (fot. 132), e poi è la presenza nel letto accanto al suo del fotografo bisex Fulvio, addormentato chiappe all’aria come la statua di Ermafrodito.

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Tognazzi è un interprete ideale, e Bolognini coglie con pregnanza il suo sguardo spermatico (fot. 133). Ed è con questi occhi, pertinentemente, che osserva una quantità di donnine nude e seminude,

liete o indifferenti di esibirsi, tra cui spiccano la giovane Lory del Santo, all’inizio, e Lorraine De Selle (fot. 134) in un’entrata in scena memorabile. Arriva anche a un’erotizzazione ancora abbastanza inedita e audace del corpo di Stefania Sandrelli (fot. 135), che approfondisce quella dell’episodio comenciniano L’ascensore di Quelle strane occasioni, e che è il climax di un desiderio destinato a sgonfiarsi.

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Per Enrico le donne sono solo «roba da mangiare», gli rifaccia Giuliana in un supermercato pieno di marche. Coerentemente, troverà il suo paradiso in un ristorante dove vengono offerti piatti via via più surreali («marsotto alle noci, polenta spudorata, lingua scarlatta»), insieme a una cameriera allusiva dalla camicetta trasparente. È un momento in cui la dimensione biografica del gastronomo Tognazzi si sovrappone al personaggio, con autoironia intertestuale: anche la grande abbuffata è alla portata di tutti, e al massimo alzerà il colesterolo. Rimane un fondo di amarezza e malinconia: Bolognini sotto sotto prova pietà per quest’uomo, per questo borghese (un collega di classe sociale, quindi, di certo a lui più vicino dei giovanotti ebeti), che “non ama l’amore, non ama la vita”, ed è già merce tra le merci, oggetto tra gli oggetti.

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Nell’epoca del nascente iperconsumismo, nel secondo boom degli anni Settanta che prospera malgrado (o a causa di) bombe, stragi e terrorismo, il rapporto tra i sessi sembra diventare definitivamente transazione economica, sopraffazione, ipocrisia, prova del nove dell’impossibiltà di comunicare, che si tratti di uomini e donne, vecchi e giovani. E la femminista che espone programmi di lotta contro il fallocentrismo è patetica quanto Enrico, il cui pene non funziona, e serve al massimo per uno scherzo di cattivo gusto, alla Amici miei: se lo fotografa con una polaroid, e subito dopo finge di fotografare un tipo, porgendogli un’istantanea che gli sarà «molto somigliante». Regista spietato, senza falsi pudori e al tempo stesso sempre empatico, sempre dentro la realtà, Bolognini si immerge per l’ultima volta in un mondo e in un immaginario che sta trionfando e che tra non molto diventerà irrappresentabile. Nel 1977 può permettersi ancora la posizione di chi offre uno specchio. Nel decennio successivo, quello dei Vanzina, di Vacanze di Natale, Yuppies e Via Montenapoleone, la società aderirà alla rappresentazione come una pellicola trasparente e non più distinguibile. La realtà diventerà cinema, o meglio spettacolo. E allora non ci sarà più spazio per il cinema “volgare” dei Bolognini, dei Salce, dei Monicelli e di tanti altri capaci ancora di dare

fastidio, di inceppare l’omologazione perfetta. La storia vera della Signora dalle Camelie Gli anni Ottanta, che per Bolognini rappresenteranno la tomba dell’ispirazione e insieme la “mercificazione” della propria poetica nell’unico ambito egemone del tempo, la televisione, iniziano con una co-produzione con la Francia realizzata dal fratello Manolo; tra i committenti, Les Films du Losange, la società fondata da Barbet Schroeder e Eric Rohmer nel 1962. La storia vera della Signora dalle Camelie viene girato nel formato televisivo 1,37:1 e in due versioni, una di poco meno di due ore per la sala, e una di tre ore per la Tv (che lascia però insoddisfatto il regista). Il film è distribuito da una major importante, la Gaumont, e può contare su un budget considerevole e un cast di grandi nomi: Isabelle Huppert, Gian Maria Volonté, Fernando Rey (di nuovo con Bolognini dopo Fatti di gente perbene), Bruno Ganz, Carla Fracci. Ispirato alla storia vera di Alphonsine Plessis, nata il 16 gennaio 1824 a Nonant e morta (con il nome di Marie Duplessis) il 3 febbraio 1847 a Parigi, in boulevard de la Madeleine, il film vince nel 1981 tre Nastri d’Argento (a Carla Fracci come miglior attrice esordiente, a Mario Garbuglia per la migliore scenografia e a Piero Tosi per i migliori costumi) e due David di Donatello (ancora scenografia e costumi); ma la critica nei confronti del regista non cambia (Tullio Kezich parla di «quadri d’epoca […] folle di personaggi grandi e piccoli […] ambienti e costumi […]»), e anche quella francese è impietosa. Francia, prima metà dell’Ottocento. A teatro, Alexandre Dumas figlio segue le prove del suo dramma su Marguerite Gauthier, ispirato alla vita di Alphonsine Plessis. Che fin da giovane, povera e ingenua, è avviata alla prostituzione dal padre: per soldi la vende al signor Bernier, che accetta di tenerla a casa sua. In processione in chiesa, Alphonsine indossa fiori rossi su un abito bianco, creando scandalo. Il prete le dà rifugio per una notte, ma è attratto da lei e s’impicca. Alphonsine e il padre fuggono per evitare problemi. Su un battello, la ragazza conosce il conte Stackelberg e la figlia malata. Il padre vende Alphonsine a Maxence, che ha un banchetto di zucchero filato alle fiere. Ma di lui Alphonsine si stanca presto, e trova lavoro prima in una filanda, poi a teatro dietro le quinte («Io voglio stare di là, e non qua»): tra il pubblico il conte Perregaux. Alphonsine finisce a letto con il conte Agenor de Guiche, che la toglie dalla strada, le fa provare i piaceri della ricchezza e le fa scendere le scale nuda per gli amici. Alphonsine entra nei girotondi della nobiltà di Parigi. In un parco rincontra Stackelberg, che l’invita a stare con lui, senza impegno. Alphonsine gli chiede soldi in continuazione, mentre rivede Perregaux, che se n’infatua di lei e le chiede di sposarlo. Lei accetta, diventando contessa Perregaux e cambiando il nome in Maria. In una fumeria d’oppio, Perregaux le comunica di essere in procinto di partire per un viaggio: lei però non lo segue, contando sulla massima libertà di entrambi. È alla fumeria che Alphonsine rivede il padre: diventerà il suo maggiordomo. A teatro, Alexandre Dumas, figlio del noto scrittore, vede per la prima volta Alphonsine. Nella residenza Perregaux, ormai tutta sua per l’assenza del marito, Alphonsine dà, con la complicità del padre e dell’amica Clémence, dei festini privati che si tramutano in orge. Dumas s’innamora perdutamente di lei, che gli si concede, senza rinunciare agli altri. Il padre Dumas gli dice: «Quando si diventa vecchi è meglio avere una torta in due che una merda da soli». Dumas figlio ingelosisce Alphonsine facendosi vedere alle serate con una ragazza, Costanza. Nel frattempo Alphonsine, la cui salute cagionevole peggiora sempre più, trova godimento nella lussuria, anche la più bizzarra: in un macello, beve il sangue di una mucca appena sgozzata. Perregaux torna dal suo viaggio, mentre Alphonsine continua a frequentare sia Dumas sia Stackelberg, che però l’abbandonano presto. Alphonsine tossisce sangue, e c’è soltanto il padre accanto a lei a curarla. Sorretta da lui, muore a letto a soli ventitré anni. Dumas porta in scena con grande successo la vicenda: c’è anche il padre di Alphonsine tra il pubblico: «Sapete cosa mi diceva Alphonsine prima di morire? Non mi rassegnerò mai a lasciare questo mondo di banditi e di prostitute».

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Il decennio della televisione è appena cominciato, e Bolognini ne sente il richiamo allettante come tutti. Pensa che sia quello il posto giusto per realizzare ciò che il cinema non permette più di fare, visione del mondo e sforzi produttivi compresi; ma prima di accorgersi che non è tutto oro quel che luccica, il regista cerca palesemente un ponte tra i due mezzi, e riesce a recuperare l’ispirazione che molti già davano per perduta. La sceneggiatura di Enrico Medioli (che ha scritto tra gli altri per Luchino Visconti e Valerio Zurlini), su un soggetto di Vladimir Pozner e del noto sceneggiatore francese Jean Aurenche, ha già l’andamento dello sceneggiato, in cui le ellissi temporali servono per semplificare, e non sono più segni autoriali. La regia di Bolognini stesso sembra al servizio della televisione: riprese frontali, primi piani, pochi campi lunghi. Ma l’immagine è piena, il dettaglio riempie il set, la profondità di campo è di nuovo sintomo di uno sguardo capace di andare al di là delle cose, anche quando pare non essercene più bisogno. Mentre non è inutile né banale sottolineare quanto il regista possa ancora mettere in scena il sesso senza veli (ancheletteralmente, nel nudo integrale e frontale “in crescendo” della Huppert che scende le scale, tra le ombre e le luci calde in interni del direttore della fotografia Ennio Guarnirei, fot. 136). Finché si può, Bolognini osa raccontare di padri vagamente incestuosi che vendono la propria figlia a ricchi signori laidi, di preti bavosi che si impiccano per il senso di colpa (fot. 137), di nobili sessuomani (fot. 138 e 139), di orge e di orgette (fot. 140) con una sincerità che sul piccolo schermo di li a poco sarebbe stata censurata. Il suo è dunque ancora cinema, che cerca però di fare i conti con una nuova realtà. Ma per il regista non è una questione di scandalo preconfezionato; Bolognini non ipoteca un’entrata scioccante nei tinelli degli italiani, il cui bon ton forse potrebbe restare indispettito di fronte al côté osé del film. Per lui, sesso e nudo sono ancora funzionali alla storia e alla Storia; e la “nuova” contemporaneità rende tutto più attuale.

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La triste vicenda di Alphonsine è specchio del presente più che mai: la vendita di sé, il denaro come unica moneta accettabile, il trionfalismo sociale come statuto identitario, lo sfruttamento dei sentimenti. Il passato “di Bolognini” è odierno tanto quanto “in passato”, se non di più. E l’Ottocento dei Plessis, dei Dumas e dei Perregaux è una selva di scambi mercantili al pari degli Ottanta appena cominciati. Magari Bolognini non se ne accorge, però la sua coerenza poetica è lungimirante. Dietro le immagini “piene”, si riconosce un’ipertrofia caotica che non a caso porta alla morte (fot. 141). La storia vera della Signora dalle Camelie (La Signora dalle Camelie è il titolo appunto del romanzo di Alexandre Dumas, scritto nel 1848: ne trasse ispirazione Giuseppe Verdi per La traviata, e molti registi, tra cui Abel Gance, ne fecero delle trasposizioni cinematografiche) si apre su una nuova epoca, gli Ottanta, che sarà anche per il regista stesso funesta. Il film ha la struttura del melodramma e nell’inscenare la scena (le sequenze metalinguistiche a teatro con Carla Fracci, di cui all’epoca si parla molto: quelle iniziali delle prove e quelle conclusive dello spettacolo pubblico, fot. 142) Bolognini accomuna arte e vendita di sé senza più soluzione di continuità. La conquista del successo artistico giunge quando la vita e i legami di sangue non esistono più: per Dumas e la sua opera, gli applausi, simbolo di affermazione e notorietà, arrivano quando Alphonsine è morta, mentre il padre vaga delirando come a ricercarne ancora la presenza e la “visione” (il finale nel foyer del teatro con Volonté che straparla).

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La storia vera della Signora dalle Camelie assomiglia a una lunga processione di morte e possiede toni senza speranza; come a celebrare un funerale che non ha fine, lo scandire degli eventi ha qualcosa dell’ineluttabilità. E laddove Bolognini inserisce la nota stonata, come una scheggia al fianco di un cadavere davvero tisico (la sequenza della protagonista al macello, tra il bianco del suo vestito e il rosso del sangue di una mucca sgozzata di fresco, un momento di orrore erotico che non stonerebbe affatto in un film di Borowczyk, fot. 143), il processo della decomposizione in atto non può conoscere arresti. L’ascesa in società e la discesa verso la morte di Alphonsine sono percorsi paralleli destinati a sovrapporsi. I patti di non coinvolgimento amoroso con i suoi amanti riproducono l’ideologia del prestito economico; Alphonsine è consapevole di sé e dei tempi, e a suo modo rispettabile nella società del consumo. È un prestito suicida ad armi pari, un corpo per del denaro; e il languore è sinonimo di deperimento. «Oggi è pressoché impossibile fare un film come La Signora dalle camelie. Almeno per quanto riguarda la produzione italiana. È impensabile un anno di preparazione, una équipe di sartoria e costumi che curi figura per figura, comparsa per comparsa…»: sono parole di Bolognini riportate nel 1984 su Il cinema italiano d’oggi raccontato dai suoi protagonisti di Franca Faldini e Goffredo Fofi, due anni dopo La Certosa di Parma, e due anni prima di La venexiana. Sconforto e pessimismo si evidenziano da soli; e prima che la televisione lo cannibalizzi totalmente, concedendolo sporadciamente al cinema “desaturato” della sua natura, La storia vera della Signora dalle Camelie è l’ultimo, vero Bolognini. È il suo canto del cigno.

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La Certosa di Parma La Certosa di Parma è la prima monumentale esperienza bologniniana esclusivamente per la televisione (dopo alcuni brevi documentari co-diretti con Guido Sacerdote per le rubriche Odeon di Rai 2 e Variety di Rai 1), l’opera che inaugura per il regista la stagione della decadenza. Per la Rai e Telemünchen, Enrico Medioli, Lucia Drudi Demby e Jean Grualt (sceneggiatore per Truffaut e Resnais, tra gli altri) condensano in cinque puntate di circa un’ora ciascuna il romanzo che Stendhal scrisse in cinquantadue giorni nel novembre del 1838 (ma riveduto e corretto su consiglio di Balzac nell’autunno del 1840). Si capisce che Bolognini crede nel progetto, traghettare la propria poetica nel piccolo schermo, cercando di utilizzarne peraltro a proprio vantaggio strumenti e limiti, come se fosse a teatro, «girare La Certosa di Parma è stato come mettere in scena Shakespeare». Ma le speranze e le aspirazioni non possono trovare terreno fertile: nel 1984 l’impero del tubo catodico è già in stato troppo avanzato per poterne usufruire con originalità; e lo sceneggiato finisce per raffigurare perfettamente l’anima di un mercato e di una committenza fondata sulla piattezza buona per tutte le stagioni e per un pubblico da cucina. 1. Fine Settecento, i francesi occupano Milano, il popolo esulta. La contessa Gina Pietranera fa visita alla cognata marchesa del Dongo, alla cui tavola pranza il tenente Robert. Il marchese del Dongo, in sprezzo di Napoleone, si rifugia in una sua tenuta fuori città. Il secondogenito del Dongo, dopo Ascanio, è Fabrizio, nato all’alba del nuovo secolo. Trascorre i primi anni dell’infanzia con la zia Gina, che lo instrada ai principi liberali così tanto detestati dal fratello di lei, devoto servitore dell’imperatore austriaco. Adolescente, Fabrizio rinnega gli insegnamenti paterni e fugge di casa per combattere al fianco di Napoleone, nel frattempo scappato dall’isola d’Elba. La zia Gina, ora vedova, preoccupata e innamorata di lui, non sa come impedirglielo. Ascanio denuncia agli austriaci il fratello, che viene incarcerato dai francesi perché scambiato per una spia. Gina, per tentare di impedire alla denuncia il suo corso, si rivolge al conte Mosca, capo della polizia di Parma. Intanto Fabrizio, uscito di prigione, raggiunge Waterloo, dove il 18 giugno 1815 Napoleone è sconfitto dall’esercito anglo-tedesco.

2. Sul campo, Fabrizio è aiutato da una vivandiera: ma resta ferito, e torna dalla zia. Gina e Fabrizio devono però separarsi di nuovo a un posto di blocco. Il conte Mosca, innamorato di Gina, le suggerisce di seguirlo a Parma: sposando per convenienza un ricco duca avrebbe un patrimonio cospicuo, una tenuta a Sacca e il lasciapassare del principe bigotto della città, Ernesto IV. Gina accetta; a Parma, diventata duchessa Sanseverina, nel giro di poco tutti parlano di lei e tutti la vogliono, mentre ambitissime sono le sue feste. Anche il principe s’innamora di Gina, e pure il figlio ereditario ha un debole per lei. Mosca, che sembra accorgersi del trasporto di Gina per il nipote, propone di mandare a Napoli Fabrizio, ricercato dalla polizia, per intraprendere la carriera ecclesiastica. Lui va per il bene della zia. 3. Tornato monsignore dopo anni a Parma, Fabrizio ritrova di nuovo la zia. Il ragazzo va a letto con l’attricetta di teatro Marietta, che fa ingelosire l’attore Giletti. Con una lettera anonima, Ernesto IV mette in guardia Mosca alla passione di Gina per il nipote, che s’accorge improvvisamente nel bosco dei veri sentimenti della zia nei suoi confronti, restandone sconvolto. Fabrizio, che se l’intende anche con la principessa Pallavicino, scampa a un attentato di Giletti. Per allontanarsi dalla zia, Fabrizio le dice di voler andare a trovare la madre. Nella sua villa di famiglia, rivede anche il padre, ormai malato e infermo. Sulla strada, Fabrizio s’imbatte in Marietta e Giletti: i due uomini finiscono per battersi, e con un coltello Fabrizio uccide Giletti per legittima difesa. Rassi, uomo di fiducia del principe di Parma, fa in modo che Fabrizio venga incolpato di omicidio e inseguito dalla polizia. 4. Gina, addolorata, vuole lasciare Parma: ma non prima di aver ingannato con le parole Ernesto IV affinché rinunci a firmare la sentenza di condanna che grava sul nipote. Gina rimane così a Parma, ma il principe non ha annullato definitivamente i capi d’accusa su Fabrizio: che viene attirato in un

tranello con una lettera falsa e arrestato. Incarcerato nella torre Farnese della Cittadella, Fabrizio vede dalle sbarre della finestra Clelia Conti, figlia del generale Fabio Conti già incontrata tempo prima vicino al lago di Como, che abita proprio sotto la sua cella. Disperata, Gina non sa come fare per liberare Fabrizio, che ora non pensa ad altro che a Clelia, promessa in sposa dal padre a un uomo che lei non ama. Fabrizio s’innamora di lei, ricambiato. Per amore di Gina, il conte Mosca impedisce a Rassi di avvelenare Fabrizio con il cibo. La notte, Gina e Ludovico, un amico fidato di Fabrizio, da una torre distante fanno segnali al prigioniero con la lanterna: lo libereranno presto. Ma all’idea di scappare e quindi di non poter più vedere Clelia, Fabrizio si fa prendere dallo sconforto. 5. Gina, aiutata dal rivoluzionario Ferrante Palla, che discretamente l’ha amata e seguita di nascosto per anni, riesce a preparare la notte della fuga senza intoppi. Fabrizio e Clelia si dicono addio. Di nuovo in libertà, Fabrizio torna a vivere con la zia, nei confronti della quale mantiene però un gelido distacco, rattristandola. Intanto Ferrante Palla, istigato da Gina per vendetta, avvelena il principe Ernesto IV durante una battuta di caccia. Ne prende il posto il figlio. Rassi, assetato di potere, indaga per identificare i colpevoli. Gina, con il timore di venire scoperta, diventa dama di compagnia della madre del principe, peraltro ancora innamorato di Gina. 6. Gina riesce a convincere il principe della malafede di Rassi, e a bruciare senza averli letti i documenti sugli assassini del padre. Gina decide di sposare Mosca, che l’ha sempre aiutata e consigliata, fino ad accettare Fabrizio per il suo bene. Incarcerato di nuovo, Fabrizio rivede Clelia: e con lei finisce a letto. Per rimetterlo ancora una volta in libertà, Gina acconsente ai desideri del giovane principe: passare una notte con lui. Fuori di prigione, Fabrizio abbandona ogni cosa per dedicarsi agli impegni di monsignore. A Parma, nella chiesa della Steccata, le sue prediche diventano seguitissime. Ma non rinuncia ad andare a letto con Clelia, nel frattempo sposatasi. L’amata però muore presto; Fabrizio, rinchiusosi in clausura alla Certosa, e Gina la seguiranno dopo poco. Mosca, di nuovo solo, torna ai suoi libri. Dopo l’esperienza insoddisfacente della versione televisiva di La vera storia della Signora dalle Camelie, Bolognini pretende nel contratto la clausola che vieta di ridurre lo sceneggiato per le sale. Farà lo stesso con Gli indifferenti. Il regista sostiene di aver voluto rendere un servizio quasi didattico a Stendhal, come a voler invitare il pubblico (ignorante) della televisione a scoprire i classici: «Mi sarebbero bastate dieci pagine sole del romanzo per fare un film, un capitolo è già una storia. Se avessi fatto Stendhal per il cinema, avrei girato solo l’episodio di un giovane che va alla ricerca di Napoleone. La versione televisiva, di oltre sei ore, permette invece una lettura completa del capolavoro». Ammesso che lo spettatore televisivo tipo degli anni Ottanta possa gradire trecento minuti di passioni e intrighi del cuore all’acqua di rose e in costume più di quello di uno o due decenni dopo, l’ingenuità progettuale di Bolognini fa un po’ tenerezza. La Rai, che detiene al tempo il monopolio, mentre le reti private sono ancora lontane dal minacciarne l’impero, mette in cantiere altri polpettoni storici “didattici”, da I Borgia a Verdi a Marco Polo. Nel 1974, fu Claude AutantLara, in Francia, a voler per primo portare in Tv il libro La Certosa di Parma (mentre al cinema l’aveva fatto Christian-Jaque nel 1948 con un drammone omonimo di quasi tre ore distribuito inizialmente in due parti, L’ombra del patibolo e Amanti senza speranza), con l’intenzione di concludere una trilogia stendhaliana iniziata con L’uomo e il diavolo nel 1954 (da Il rosso e il nero) e proseguita nel 1973 proprio in televisione con Lucien Leuwen. Ma il progetto si arenò; e a nulla valse la causa intentata dal regista alla Tv francese. Quando Autant-Lara viene a sapere che Bolognini è al lavoro sul libro, scrive agli inizi del 1981 un pamphlet dal titolo Télémafia, in cui elenca nel dettaglio le vicende che l’hanno portato a dover rinunciare alla sua versione. Il cast di Bolognini è internazionale: Marthe Keller nei panni di Gina Sanseverina, Andrea Occhipinti (non ancora distributore illuminato e anzi deciso a intraprendere la strada del sex symbol: due anni dopo andrà nudo a cavallo accanto a Bo Derek in Bolero Extasy [Bolero] di John Derek, facendo sognare fan di tutte le risme) in quelli di Fabrizio del Dongo, di nuovo Gian Maria Volonté

(dopo La storia vera della Signora dalle Camelie) con accento parmense per l’occasione, Lucia Bosé (al suo terzo lavoro con il regista), George Wilson e tanti altri. Le riprese si susseguono per sei mesi, tra l’Emilia, la Lombardia e il Lazio. Bolognini gira in ben quattrocentoquarantotto ambienti reali, quelli dove Stendhal immaginava la sua vicenda, tra Mantova, Parma, Soragna, Bracciano; la battaglia di Waterloo è ricostruita nella campagna di Civitavecchia, mentre per la Certosa, inesistente, è stato usato un edificio lombardo. Costo complessivo: tre miliardi. Bolognini afferma con insistenza di aver voluto riprodurre il romanzo con estrema fedeltà, cosa per lui fattibile solo in televisione. Lo sceneggiato va in onda su Rai 1 per sei domeniche, dal 12 settembre 1982. Dopo le ininterrotte critiche denigratorie al suo cinema, al suo primo ingresso di peso in Tv Bolognini riceve numerosi elogi.

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«[…] nel mio sceneggiato, ci sono molte scene solo apparentemente ferme, perché a muoverle sono i sentimenti dei personaggi, che ho cercato di esprimere soprattutto attraverso le immagini, limitando al massimo il dialogo». Ma la sopravvalutazione di Bolognini del mezzo e del risultato stesso è esagerata. La messa in scena di La Certosa di Parma è tutta frontale, piatta, esangue; e non bastano la scena di Waterloo (filmata alternativamente in campo lunghissimo o per primi piani), le decine di attori in ruoli non secondari o le migliaia di comparse a ravvivare un mélo in cui il sentimento è programmatico, anche se sincero. La poetica bologniniana del passato come filtro per guardare alla contemporaneità è confermata dall’autore stesso («[…] una lettura fatta con le lenti di oggi per sottolineare l’attualità dell’opera»), ma ormai la dinamica è meccanica, gli zoom la fanno da padroni; e le avventure di corte e di letto (fot. 144) rispecchiano una struttura cadenzata su ritmi blandi che non riescono a trasmettere né i palpiti dello spirito, né l’angoscia del vivere.

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Si comprende la simpatia di Bolognini per Gina Sanseverina, eroina testarda e indipendente che non accetta ciò che gli altri vogliono per lei. È una donna in anticipo sui tempi, purtroppo però troppo avanti per essere capita (soltanto il conte Mosca ne comprende l’ansia, ma tardi) e per non restare schiacciata da una società di contratti, patti e concessioni. Mentre la sua venerazione per il nipote Fabrizio va oltre l’amore (fot. 145): è la passione per una gioventù di sguardo, imbelle e coraggiosa, che non conosce legami se non quelli voluti e ricercati a costo della libertà (Fabrizio vuole restare in carcere per continuare a “innamorarsi con lo sguardo” di Clelia, fot. 146). Gina, che vuole più di tutto essere ciò che non può essere, cioè libera da vincoli sociali, trasferisce sul nipote la sua stessa

spinta “rivoluzionaria”. Ma la televisione, nonostante i buoni propositi, appiattisce ogni cosa. I momenti migliori di La Certosa di Parma sono di sceneggiatura (il dialogo incalzante tra Gina e Ernesto IV, fot. 147), e non di regia; Bolognini, anche quando deve chiudere, sembra poco ispirato: e sequenze come quella finale, in cui il conte Mosca torna da solo in biblioteca, sono “belle” solo in teoria. Non è tutta colpa sua: lo spettacolo di massa autoriale per la televisione è come un libro di testo per le scuole, e adeguarsi è diventato inevitabile.

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La venexiana Dopo La Certosa di Parma, Bolognini lavoricchia. Nel 1983 accetta con qualche esitazione di girare un documentario sulla città natia, I giorni di Pistoia. La commissione gli arriva dalla Cassa di risparmio di Pistoia e Pescia, che celebra il 150° anniversario. Ne esce un prodotto di narrazione storica molto tradizionale. Bolognini comunque fugge dalla celebrazione, e non è tenero verso certi lati del carattere dei suoi concittadini. Sottolinea le lotte fratricide e assurde che hanno insanguinato secoli di storia, e ricorda chi, come lo scultore Marino Marini e l’architetto Giovanni Michelucci, ha deciso di abbandonare un ambiente provinciale. Come aveva fatto anche lui, molti anni prima. L’anno dopo, in pieno boom della videomusic, Bolognini firma un videoclip per Amanda Lear, Assassino, dove la cantante dal fascino ambiguo volteggia tra tamarri in cuoio nero, concedendo nudi fugaci e spunti sadomaso. Nel 1986 il napoletano Ciro Ippolito, ex attore, produttore e regista che ha fatto i soldi con un cinema locale e vernacolare (sceneggiate con Mario Marola, mélo, poliziotteschi), reduce da esperimenti trash ante litteram con gli Squallor (Arrapaho e Uccelli d’Italia, 1984), decide di fare un salto di qualità e assolda il veterano Bolognini come garanzia artistica e foglia di fico per un film in grado di catturare il pubblico borghese in cerca di emozioni pruriginose: lo stesso che in quegli anni decreta il successo di film come La chiave di Tinto Brass (1983) e Fotografando Patrizia di Salvatore Samperi (1984), ultimi esempi di erotismo di massa per il grande schermo. E come “porno-soft” (sia pure vietato solo ai minori di quattordici anni) viene impietosamente accolto anche La venexiana, smontando le ambizioni di autopromozione del produttore. D’altra parte non si può pretendere altro, quando le attrici di richiamo sono Laura Antonelli e Monica Guerritore – la starsimbolo del filone dai tempi di Malizia di Saperi (1973), e la più giovane erede lanciata da

Fotografando Patrizia –, e queste vengono spogliate come da contratto. Gli incassi comunque sono buoni (oltre un miliardo dell’epoca). Con Massimo Franciosa, Bolognini adatta una licenziosa commedia di anonimo del Sedicesimo secolo, riscoperta nel 1928, la cui peculiarità è di rappresentare le donne non come tradizionali oggetti del desiderio, ma come soggetti sessuali attivi e desideranti. E se è costretto a rinunciare al tessuto pluridialettale dell’originale, un po’ sembra divertirsi. Venezia, prima metà del Cinquecento. Messer Jules, appena arrivato in città, viene notato da due nobildonne: la vedova Angela e la coniugata Valeria. Entrambe lo vogliono, e una all’insaputa dell’altra mobilitano la servitù per invitarlo a casa propria. La cameriera di Angela, Nina, chiede aiuto al gondoliere Bernardo, e riescono nel loro scopo. La serva di Valeria, Oria, una finta perbenista che vuole salvare le apparenze, invece fallisce. La notte d’amore tra Jules e Angela è spiata da Bernardo e Nina, che ne traggono ispirazione per i propri piaceri; alla fine Angela concede al giovanotto anche le sue “chiappettine”. Uscito da casa di Angela stremato, Jules è convinto comunque da Oria a raggiungere la sua padrona. Valeria si infuria quando vede al collo di Jules un gioiello che riconosce come appartenente ad Angela. Jules se ne va. Per ritrovarlo, Valeria si traveste da uomo e percorre calli e sottoporteghi. Lo ritrova, lo riporta a casa, fanno l’amore. Jules si dilegua appena prima che torni il marito di Valeria, e se ne va da Venezia.

Nel testo rinascimentale Bolognini trova la rappresentazione di una sessualità amorale, dove uomini e donne giocano ad armi pari. «Anche le donne che appaiono diverse per gli abiti, una volta dimessi questi non solo sono oggetto d’amore, ma amano come gli uomini», recita l’epigrafe iniziale del film. Bolognini ignora invece il tema enunciato (probabilmente come copertura moralistica) nel prologo della commedia, dove la forza della passione è paragonata a un inebetimento che colpisce soprattutto le donne. A interessargli è il principio per cui nella ricerca del piacere è lecito ingannare e mentire (a se stessi in primo luogo, quando ci si proclama innamorati). Tanto tutto è effimero, e l’unico senso sta nella coazione a ripetere, alla ricerca di esperienze sempre nuove. È una morale libertina che Bolognini fa sua senza remore, traducendola in una logica narrativa che ha un’affinità precisa con la pornografia. Alla notte d’amore con Angela segue la mattinata d’amore con Valeria: il corpo maschile è sempre pronto all’azione e quello femminile sempre voglioso e disponbile. L’unico alibi è quello della messa in scena in costume e della forma raffinata, quella che si richiede proverbialmente a un regista come Bolognini e che è amplificata dalla bellezza delle location, dei palazzi affrescati (uno dei quali in realtà è laziale) e degli arredi. Ma questa “artisticità” finisce con il giocare contro il film e la sua amoralità. La rappresentazione del sesso si rivela infatti accademica e frigida: i corpi sono bloccati in pose plastiche (fot. 148), le esposizioni di epidermide sono calcolate al millimetro, gli sguardi rimangono compassati anche quando si rappresentano trasgressioni: vedi la sodomizzazione di Angela (in anticipo su Così fan tutte di Brass, 1992) e la fellatio fuori campo, invenzioni rispetto alla commedia. È un peccato, perche per la prima mezz’ora il film vive di un’atmosfera carnale più sanguigna che nella media del filone. Se per Brass (La chiave) Venezia è una cittàvulva, per Bolognini è una città fallica: affeschi satireschi, artisti di strada che raccontano storie di “cazzoni” e “cazzini”, metafore visive di ogni tipo (anguille, colonne), uomini che orinano pubblicamente (a partire da Jules, spiato alla finestra da Angela, che commenta: «Non ho mai visto nulla di più bello»), gesti osceni di ogni tipo. E la forza di eros travalica le differenze di sesso e di classe, come nella scena in cui Angela infoiata si reca nottetempo nel letto della serva Nena (fot. 149), cercando il sostituto di un corpo maschile. Il dialogo, in quest’ultimo caso, non aggiunge nulla (e caso mai smorza) quello della commedia. Ma la consumazione del desiderio è deludente e frigida. E a nulla vale che verso la fine Valeria si travesta da uomo, come una novella Madamigella di Maupin, e in queste vesti seduca Jules (con ovvia coda del bacio pubblico tra i due, con commento scandalizzato di un passante: cose che faceva già Festa Campanile in Adulterio all’italiana, nel 1966).

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La venexiana rimane così moscio, non riesce a scardinare davvero le convenzioni e il buon gusto, e risulta infinitamente più innocuo e asettico di film come Per le antiche scale o L’eredità Ferramonti. Sono cambiati i tempi, certo. E un po’ contano anche le scelte di casting infelici o stridenti: Jason Connery (Jules), figlio di Sean, è legnoso e impacciato, Clelia Rondinella (Oria) è troppo teatrale, Claudio Amendola non ce la fa a darsi un accento veneto. Mosca addio Dal marzo 1985 Michail Gorbachev, il nuovo segretario del Pcus, inizia la cosiddetta Glasnost. Molti registi italiani, in passato spesso condizionati dalla militanza nel Pci, ne approfittano per saldare vecchi conti, o per riflettere senza censure su un passato che in precedenza era tabù. Carlo Lizzani racconta una vittima dello stalinismo, Nikolaj Bucharin, in Caro Gorbaciov (1988); Damiano Damiani racconta l’alba della rivoluzione nel televisivo Il treno di Lenin (1988). Li precede Bolognini, che in Mosca addio (1987) racconta la triste storia della repressione di una dissidente, la scienziata Ida Nudel, all’epoca nota per essere stata la prima donna a fare un sit-in di protesta nella Piazza Rossa. La sceneggiatura di Nicola Badalucco era pronta dal 1984. Se il film si gira, probabilmente è perché Liv Ullmann accetta la parte della protagonista. L’interesse di Bolognini per la Russia non doveva comunque essere peregrino: tra le sceneggiature che non riesce a girare c’è anche un adattamento di Delitto e castigo di Dostoevskij. Lo realizzerà nel 2005, con il titolo Raul - Diritto di uccidere, il nipote Andrea Bolognini, che di Mosca addio è aiuto regista. Mosca, 1970. L’astronoma Ida Nudel spera di espatriare con la sorella Elena e l’amato Yuri, un dissidente appena tornato dal gulag. Dopo un anno di pratiche burocratiche, gli altri due possono partire, ma Ida no. Fino all’ultimo lo nasconde, per evitare che Yuri e Elena rimangano nell’Urss. Rimasta a Mosca, partecipa a manifestazioni di protesta finché viene arrestata e internata in una clinica. Quando ne esce, nel 1975, la scoperta di un microfono in casa sua la fa impazzire di rabbia. Viene arrestata un’altra volta, e deportata in Siberia. Viene destinata a un campo di lavoro dove è l’unica donna. Per difendersi da un tentativo di stupro deve usare il coltello. Finalmente viene trasferita in un campo femminile, dove rifiuta qualunque trattamento di favore. Dopo quattro anni viene liberata, ma non può risiedere a Mosca. Yuri le scrive che si è sposato in America. Ida trova rifugio in un villaggio di provincia dove si adatta a una vita povera e insignificante. Nel 1984

la intervistano due giornalisti occidentali. Ida, tra le lacrime, ammette il fallimento della propria vita. Ma almeno, dice, è viva.

L’approccio di Bolognini è umanitario più che politico. Fin dalle prime scene è evidente che Ida è perseguitata in primo luogo in quanto ebrea; e subito dopo perché è una donna che non sa tacere e non si adatta ai ruoli prefissati. Quando viene deportata, per annichilirla, viene messa a dormire in una camerata di soli uomini, buona parte dei quali allupati. L’episodio, pur sbrigato senza troppa insistenza (ma in modo abbastanza esplicito da suggerire che alcuni altri reclusi si masturbano davanti a lei), appare quasi fuori luogo, per la crudezza, nel contesto di un film di denuncia civile con destinazione privilegiata sul piccolo schermo (la Rai difatti coproduce). Ed evidenzia l’attenzione di Bolognini alla sessualità come strumento di sopraffazione e di discriminazione, nel momento stesso in cui sottolinea che è una componente ineliminabile della persona. La vita di Ida alla fine è inutile perché non ha avuto l’amore e ha perso il suo uomo. La repressione totalitaria colpisce in primo luogo il sesso e i sentimenti, come mostrava Orwell in 1984.

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In questo modo Bolognini evita la retorica ideologica e di parte, anche se certe scelte di sceneggiatura sono fatte con il bilancino: per una comunista cattiva (la Francesca Ciardi di Cannibal Holocaust in versione lesbonazi), ce n’è una umana e idealista (la responsabile del campo di lavoro femminilie, interpretata da un’Anna Galiena quasi irriconoscibile). I veri limiti sono comunque altri, a partire da quella patina polverosa che hanno quasi tutti i film del decennio diretti da grandi registi anziani, ormai poco interessati a questioni di stile e convinti che i grandi temi si reggano da soli. In questo caso, poi, si avverte che tutto il lavoro registico è rivolto alla Ullmann, per la quale vengono allestiti veri propri assoli, dall’esplosione della rabbia di Ida quando si scopre spiata (fot. 150) alla trasformazione in una sopravvissuta di se stessa (fot. 151). Il modo classico di girare dei registi della generazione di Bolognini (e ciò vale anche per Damiani e Rosi) si esaurisce nell’illusione che l’esito di un film si possa affidare alla verità della recitazione. Ma ciò non basta più: il cinema è sempre più debole, e cerca disperatamente un appiglio al reale, alla Storia che fugge via e che, al contrario che in passato, è molto, troppo più veloce. Non a caso Mosca addio si chiude appena prima che inizi la Glasnost: il passato si può raccontare, ma il presente?

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Gli indifferenti

Nel 1987 Bolognini rinnova il sodalizio produttivo con Ciro Ippolito. La destinazione questa volta è televisiva, e le ambizioni di partenza sono alte: produrre una miniserie di quattro ore, che andrà in onda contemporaneamente nei quattro Paesi europei coproduttori. La scelta del soggetto cade su Gli indifferenti di Alberto Moravia, che al cinema è stato adattato nel 1964, da Francesco Maselli. Il cast è composito, da prodotto per l’esportazione, con vecchie glorie (Liv Ullman, Peter Fonda e la stessa Laura Antonelli) e giovanotti oggi dimenticati come Sophie Ward e Chris Campion; in quest’ultimo forse Bolognini si illude di vedere una reincarnazione di Jean Sorel. Il risultato è meno eclatante: la durata si riduce a due ore standard, e il film rimane fermo per un anno. Viene trasmesso un sabato sera nel 1988, su Rete 4, in contemporanea con Fantastico su Canale 5. Bolognini, all’epoca, polemizza garbatamente sia sulla collocazione di palinsesto, sia sulla presenza degli spot («Dovrebbero farne tre volte di più. Così la gente si stuferebbe, spegnerebbe la tv e andrebbe al cinema»). Roma, fine anni Venti. L’architetto Leo Merumeci si è introdotto nella famiglia Ardengo, con lo scopo di impossessarsi della loro splendida villa. È stato l’amante della madre, la vedova Mariagrazia, che ora tiene succube e tratta con distacco, e ha iniziato una relazione segreta con la figlia Carla: che ha accettato per “noia”. L’altro figlio, il giovane Michele, cerca di aprire gli occhi alla madre e dà del “ladro” a Leo, ma è costretto a fargli le scuse. Trova rifugio in Lisa – una matura amica di famiglia che ha del tenero per lui, e rinnega una passata relazione con Leo – e in una giovane prostituta. Tra un tè danzante e una cena, la situazione finanziaria degli Ardengo precipita, e i mobili vengono pignorati malgrado i consigli dell’avvocato di famiglia. Mariagrazia non ha la forza di ribellarsi ai ricatti emotivi di Leo, e anzi passa una notte con lui. Dopo avere saputo da Lisa (con cui è andato a letto) che Carla ha una tresca con Leo, Michele va a casa sua con una pistola. Ma viene disarmato dall’uomo; l’arma, comunque, era scarica. In un confronto con i due fratelli, Leo si offre di sposare Carla per rimediare ai loro guai economici. Lisa, intanto, si taglia le vene dopo una serata di débauche con tre marinai e un ballerino negro. Segue ennesima uscita in società: i tre Ardengo vanno a un ballo in maschera, e Leo, unico non travestito, li accompagna in macchina. Mariagrazia è trionfante nel suo costume spagnolo perché Leo l’avrebbe “salvata”: ma ignora che sta per sposare sua figlia.

Gli indifferenti ha tutte le caratteristiche e i difetti del prodotto televisivo. Stile piano se non piatto, sovrabbondanza di primi piani, luci quasi sempre diffuse, attori intorpiditi schiacciati dal doppiaggio. Nella media dell’epoca, aveva sicuramente le stigmate del prodotto di qualità: attori di pregio, regia “raffinata” (ossia attenta alle scenografie), qualche brivido pruriginoso. Il romanzo di Moravia viene smontato in una serie di scene madri, duetti, trii e quartetti, che finiscono per smorzare il flusso drammaturgico; i trapassi da una sequenza all’altra ignorano l’evoluzione psicologica dei personaggi, e sembrano rispondere a una logica narrativa da soap-opera. I dialoghi sono pieni di chiose didascaliche assenti nel testo di partenza: è Michele a spiegare, per chi non l’avesse capito, che «questo è il nostro delitto: l’indifferenza». Per tacere delle sue riflessioni pseudo-sveviane («Pensare è lo stesso che vivere»). E non sono certo felici gli episodi inventati di sana pianta dagli sceneggiatori Medioli e Drudi Demby: una giovane prostituta (Isabelle Pasco, che fornisce qualche mezzo nudo d’ordinanza) con cui Leo si confida, e un’assurda coda in cui Lisa raccatta tre marinai e un ballerino nero in un localino improbabile dove si suona jazz – il tutto con luci arancioni alla Querelle (di Rainer Werner Fassbinder, 1982) – prima di suicidarsi. Quanto all’ambientazione d’epoca, è ancora più scolorita che nel film del 1964. Maselli, sfumando i richiami al fascismo (il romanzo venne pubblicato nel 1929 e piacque poco al regime) voleva svolgere un discorso più generale sulla corruzione della borghesia di ogni epoca. Bolognini accresce questa dimensione apolitica: da gerarca fascista, Merumeci diventa un palazzinaro. «Si trattava di fare un film dentro i personaggi, non contro di essi. Io sono un borghese, complice della borghesia, i pamphlet di denuncia non mi interessano», dichiara il regista alla conferenza stampa. In ciò ha il

conforto di Moravia: «Essendo nato e facendo parte di una società borghese, Gli indifferenti furono tutt’al più un mezzo per rendermi consapevole di questa condizione», aveva obiettato lo scrittore nel 1945 a chi leggeva il libro in chiave ideologica. Ma il proposito bologniniano di raccontare un mondo dall’interno fallisce. I personaggi del film, infatti, non sono neanche rappresentativi di una classe: vivono nel vuoto, sono marionette di intrighi da telenovela, ricchi che piangono perché vittime del troppo lusso. È triste vedere il regista di Senilità e Per le antiche scale – per citare due film ambientati nella stessa epoca – diventare l’ombra di se stesso, ed essere vittima di un livellamento da piccolo schermo cui peraltro, negli stessi anni, sottostanno la maggior parte dei suoi colleghi. Eppure Gli indifferenti non si può liquidare in fretta e ridurre ai suoi evidenti difetti. Ogni tanto si trova il tocco dell’iconoclasta, che sporca lo spettacolo per la buona borghesia: come nella sequenza – ispirata dal testo, anche se non del tutto fedele – in cui Carla, mezza sbronza, è oggetto di un assalto sessuale di Leo, e lo blocca mettendosi a vomitare (fot. 152). Ed è evidente che Bolognini cerca comunque di tirare le fila di discorsi iniziati tanti anni prima. Visto all’interno della sua opera, Gli indifferenti diventa così un film certamente più interessante, anche se non per questo riuscito o da salvare.

FOT 152

Tematicamente, lo spostamento di prospettiva su Mariagrazia segnala una chiave di lettura precisa. Nel film di Maselli il primo nome in cartellone era quello di Claudia Cardinale, la figlia, giovane inquieta e mancata ribelle: in sintonia sia con l’epoca (il 1964), sia con lo spazio che occupa effettivamente nel romanzo. Nel lavoro di Bolognini, il primo nome è quello di Liv Ullman, la patetica mater familias cui crolla il mondo addosso. Non è solo una questione di prestigio: Mariagrazia è il personaggio più complesso. È l’ennesima madre possessiva («Michele fa sempre quello che gli dice la mamma», afferma all’inizio), destinata a essere beffata crudelmente, tradita sia dall’amante sia dalla figlia. Ma, con facile metafora, è anche uno specchio del regista. Ciò che la sostiene è far finta che nulla sia cambiato, che gli splendori passati non siano finiti, che il mondo intorno non sia brutto e corrotto. È credere ancora che «quando la passione non c’è, tutto manca», anche se in quel momento sta parlando del menu della cuoca. Mariagrazia resiste fino alla fine, chiude gli occhi davanti alle menzogne e alle truffe di Leo, e alla fine scende trionfante le scale nel suo vestito da ballerina di flamenco, nell’ultima mascherata del cinema di Bolognini. Questi le risparmia il crollo: nel corso del film l’ha ridicolizzata (la scena davvero imbarazzante in cui accenna un charleston), ma non ci lascia assistere alla sua distruzione. Le lascia tutte le sue illusioni: che Leo sia una brava persona, che lei sia una brava madre. E sono illusioni analoghe a quelle di Bolognini regista: che si possa fare un buon film per la televisione, quando attorno il cinema italiano è crollato. La metafora sarebbe stata perfetta se nella parte di Merumeci, al posto di Peter Fonda, ci fosse stato il produttore (ed ex attore) Ciro Ippolito. Il crepuscolarismo che tante volte è stato affibbiato a Bolognini, quasi sempre a sproposito, diventa in questo film una chiave di lettura pertinente. Stravolgendo il cinismo da Nuova Oggettività del romanzo, Bolognini trova in questi intrighi di ricchi imbelli un’allegoria di fallimento. È un fallimento morbido, continuamente camuffato e procrastinato, e celebrato alla fine con un ballo in

maschera, tra pierrot e clown tristi. La villa del venerdì Nel 1988 Bolognini annuncia l’adattamento per il grande schermo del best seller Vestivamo alla marinara di Susanna Agnelli, ma un anno dopo il progetto appare definitivamente bloccato. Nel 1989 dirige un documentario su Palermo in occasione degli imminenti mondiali di calcio, e un telefilm (Vaghe sembianze) per la serie di Reteitalia Colpo di Fulmine: di quest’ultimo, ignorato da quasi tutte le filmografie, si sono perse le tracce. Maggiori soddisfazioni arrivano a Bolognini dal teatro: nel 1989 mette in scena I giganti della montagna di Luigi Pirandello nella Valle dei Templi di Agrigento, con Irene Papas e Luigi Pistilli. Il suo ultimo film per il cinema nasce nel 1991 da una commissione analoga a quella di La venexiana. Un altro produttore che viene dalla serie B, Galliano Juso, cerca di entrare nel salotto buono con un film erotico di classe. Ingredienti: un cast internazionale con attori da coproduzione (Julian Sands, Tcheky Karyo e la polacca Joanna Pacula, resa nota da Gorky Park); un alibi letterario (il soggetto è tratto da uno degli ultimi racconti Alberto Moravia, uno scrittore già ispiratore, all’epoca, di film come La disubbidienza di Aldo Lado [1981], L’attenzione di Giovanni Soldati [1985] e La cintura di Giuliana Gamba [1989]); un regista percepito come “raffinato”. Purtroppo Bolognini ne esce peggio che nel caso di La venexiana. Lo sceneggiatore Stefano accetta a malincuore che sua moglie Alina ogni venerdì vada a passare il fine a settimana a casa del suo amante, il pianista Paolo, che ha una villa sul mare, vicino a loro. Anche Stefano la tradisce (con una motociclista nel cesso di un autogrill, con la comune amica Luisa, con una prostituta): ma solo per dispetto. Alina gli confessa di avere scoperto che le piace essere picchiata da Paolo, e che per questo lo ama ancora di più. Stefano è sconvolto, ingolla whisky doppi, la pedina, pensa di rubarla a Paolo come se fosse lui l’amante. Ma è Paolo a introdursi nel loro giardino e a fare l’amore violentemente con Alina tra le piante, dopo un infe lice episodio di sesso coniugale. Stefano comincia a concepire fantasie omicide, come se la stessa Alina richiedesse di essere uccisa. Una notte la segue fino alla villa. Non visto, le punta una pistola, ma non spara. Tornando a casa dopo un’altra dose di botte, Alina vede Stefano riverso sulla spiaggia. Lo raggiunge, gli dice che ne ha abbastanza di Paolo e che non tornerà mai più da lui. I due si abbracciano, ma la villa dell’amante è sullo sfondo.

Lo sceneggiatore Sergio Bazzini, dai nobili trascorsi ferreriani, fa del suo meglio per rimpolpare le trentacinque paginette del modesto racconto moraviano che dà il titolo alla raccolta omonima pubblicata nel 1990. Moravia tratta temi consunti (lo spunto del marito cornuto che, per riconquistare la moglie, vuole diventarne l’“amante”, era già in Con quale amore, con quanto amore di Festa Campanile, 1969), e sembra descrivere la trama di un film più che creare dei veri personaggi. Purtroppo Bazzini non resiste ad aggiungere una sottostoria che rimane assai confusa, dove Stefano e il regista Piero intervistano, in vista del film che stanno scrivendo, una Lolita in erba che ama sedurre gli uomini. Forse è un lontano ricordo, aggiornato all’amoralità odierna, della vischiosa sorellina di Angiolina in Senilità: ma rimane una digressione non sviluppata. Bolognini non sembra credere troppo all’analisi psicologica e alla plausibilità dei protagonisti, stereotipati nei dialoghi e programmatici nei comportamenti. Ma non ce la fa a replicare L’assoluto naturale; e non riesce a essere nemmeno misogino, come ai bei tempi, dato che Alina non è una femme fatale o la nemesi del maschio ingenuo: è solo una cretina che non conosce nemmeno la definizione di “sadomasochismo”. Si sarebbe tentati di attribuire alla superficialità dei personaggi il valore di un giudizio su di loro, di farne rappresentanti di una società che già usa i cellulari ma ormai ha perso ogni coordinata (e sarebbe anche un modo di trovare un senso al sottointreccio della Lolita). In realtà Bolognini non sembra ambire a tanto. Eppure, a livello di messa in scena, ha due idee chiare su come affrontare questi borghesi vuoti, trasgressori – è il caso di dirlo – della domenica.

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Da una parte Stefano e Alina sono spogliati sistematicamente: la loro nudità, che sia simultanea (fot. 153) o non, non crea mai una corrente erotica tra i due (come nel racconto di Moravia, Stefano ama Alina, ma non la desidera). Ciò serve evidentemente a rendere i personaggi inermi, indifesi, bisognosi di pietà, secondo una strategia ben nota, per esempio, a un Eriprando Visconti. Allo stesso tempo il nudo diventa banale, si svilisce a moneta corrente, diventa quasi comico tanto è insistito, e finisce con il sabotare il film. Galliano Juso si ritrova con ancora più nudi di quelli che, da produttore, avrebbe sperato, ma La casa del venerdì è un film frigido, anerotico. Ed è anche, va aggiunto, la perfetta implosione e pietra tombale di un filone, firmata da un regista che negli anni Sessanta – altri tempi – era stato un pioniere nella liberalizzazione del corpo sullo schermo. L’altra idea di Bolognini è quella di servirsi della musica di Morricone (bella, nel suo filone romantico-melodico) come di un continuum spalmato per tutto il film. Un po’ distrae dai dialoghi e dalla banalità delle situazioni, un po’ gioca di contrasto (dolcezza contro violenza); in ogni caso introduce l’unica nota tragica in un dramma mancato e che si conclude a coda di pesce. A volte è anche lievemente dissonante, creando un effetto di inquietudine che in un altro contesto si sarebbe definito sottile, e che qui è solo impari. Ed è nella musica (si ascolta anche la Gymnopédie N. 1 di Erik Satie, già usata in Agostino) che Bolognini ritrova se stesso: l’unica malinconia possibile nella resa, nello sfascio di tutto un cinema. La famiglia Ricordi In occasione della presentazione alla stampa di La villa del venerdì, Bolognini annuncia di avere in cantiere un sequel di Il Gattopardo per la televisione. Suso Cecchi D’Amico, Enrico Medioli e Massimo Franciosa arrivano a scrivere un trattamento completo: Bolognini contatta alcuni degli attori del film di Visconti, ma non se ne fa nulla. L’ultimo film che realizza è una miniserie per Rai 1, La famiglia Ricordi. Il tema era già stato trattato da Carmine Gallone in Casa Ricordi, nel 1954. Per Bolognini è l’occasione per fare il punto su una delle passioni della sua vita, l’opera lirica, e probabilmente per sfruttare le regie che ha firmato nel corso di oltre vent’anni: ciò spiega lo spazio concesso nel film a opere non sempre famose come Elisabetta regina d’Inghilterra e Il pirata. Le quattro puntate di La famiglia Ricordi vengono trasmesse nel gennaio 1995: ormai è cinema senza più eco, al di fuori di ogni interesse della critica, anche se in grado di fare buoni ascolti. L’unica reazione palpabile è quella degli eredi di Giacomo Puccini, che protestano per il trattamento poco lusinghiero riservato al compositore. 1. Milano, 1812, la voce narrante di Giovanni Ricordi racconta come costruì un “piccolo impero” nell’editoria musicale, mentre declinava quello di Napoleone. Stampatore di musica, Ricordi si assicura l’esclusiva delle opere di Gioacchino Rossini, e impone una quota per il noleggio delle sue partiture. Rossini, pigro riciclatore delle proprie opere, ottiene successo a Napoli con Elisabetta regina d’Inghilterra e inizia una relazione con la soprano Isabella Colbran. A Milano tornano gli austriaci, che censurano Il turco in Italia di Rossini. In una cucina, il compositore ha la prima idea del Barbiere di Siviglia. La prima a Roma è un fiasco per la claque antirossiniana, ma il vecchio

Paisiello capisce di doversi fare da parte. Ricordi mette sotto contratto il giovane Gaetano Donizetti, carbonaro e puttaniere. Verrebbe arrestato se la soprano Giuditta Pasta non offrisse le sue grazie al governatore. 1822: Rossini incontra il vecchio Beethoven, sordo e malinconico. A Milano arriva il giovane compositore catanese Giovanni Bellini. Giovannina Lucca, editrice rivale di Ricordi, fa rubare i suoi abbozzi e li pubblica come opere di “anonimo”. Bellini dirige Il pirata alla Scala. Rossini è ammirato, Donizetti se ne va via invidioso. 2. Ricordi alimenta la rivalità tra Donizetti e Bellini. Entrambi si contendono il cuore e la voce della capricciosa soprano Maria Malibran. Il matrimonio di Rossini con la Colbran si sfascia. Donizetti si scopre malato di sifilide ed è preda di accessi di follia. Bellini cade nelle grinfie del banchiere inglese Lewis, che lo deruba e gli piazza nel letto la propria moglie. Intanto Ricordi si ingrandisce e manda il figlio Tito, ardente patriota, a Londra, ad aprire una filiale. Nel 1835 Bellini, sequestrato dai due Lewis vicino a Parigi, è vittima di un male misterioso, viene abbandonato e muore. Donizetti ne dà la notizia dopo il trionfo della sua Lucia di Lammermoor. La Malibran, sconvolta, cade da cavallo e muore. Ricordi cerca un nuovo compositore: Tito gli suggerisce Giuseppe Verdi, depresso per l’insuccesso delle sue prime opere. Su invito di Tito, Verdi compone il Nabucco, trovando l’interprete ideale nella soprano Giuseppina Strepponi. 3. Va’ pensiero diventa l’inno dei patrioti, ma nel 1848, durante le Cinque giornate di Milano, Verdi è a Parigi con la Strepponi, che poi sposa. Rossini ha smesso di comporre. I Lucca vanno a Vienna per incontrare Wagner e diventarne editori e promotori in Italia, contrastando Ricordi e Verdi. Questi si innamora di Teresa Stolz, soprano moglie del direttore d’orchestra Mariani, con cui litiga. La Strepponi apprende la verità dopo un confronto doloroso con il marito. A Bologna Verdi assiste ammirato al Lohengrin. In loggione c’è il giovanissimo Giacomo Puccini, che non ne è convinto. Torna a casa a Lucca a piedi, e manifesta i suoi sogni di compositore alla sua famiglia, fatta di sole donne. 4. Fine dell’Ottocento. Verdi e Puccini, quest’ultimo ormai compositore affermato, vengono presentati a Umberto I, re d’Italia. Verdi non ha in simpatia il re e compone la sua prima opera comica, il Falstaff. Tito Ricordi accetta di fondersi con la casa d’edizioni della vedova Lucca, ma muore di lì a poco. Puccini compone la Manon, litiga con Mascagni ed è in crisi sia con Elvira, la convivente madre di suo figlio, sia con l’amante clandestina Corinna. Un confronto a tre non risolve nulla. Quando muore il marito di Elvira, Puccini la sposa, e Corinna gli fa causa. L’ingenua servet ta Dorina si innamora del maestro e, perseguitata da Elvira, si suicida. Elvira viene condannata a sei mesi con la condizionale, la famiglia di Puccini va a pezzi. Verdi muore. Dopo la Grande guerra, Puccini e Toscanini assistono a un’esecuzione di l’Histoire du soldat di Stravinskij. Il primo ha un tumore alla gola e sa che non potrà finire la sua ultima opera, la Turandot, che Toscanini esegue fermandosi al punto dove l’ha lasciata il compositore. Una voce over enuncia: «Se gli uomini capissero il legame che c’è tra la musica e la loro anima, riuscirebbero a vincere il polverone in cui sono sommersi». Nella prima puntata la voce narrante di Giovanni Ricordi, con goffi innesti di dialetto milanese, promette una focalizzazione che man mano viene abbandonata. Nell’ultima puntata i Ricordi quasi scompaiono: il serial ormai è diventato una carrellata nella storia della musica lirica italiana, contrapponendo con pedanteria le vette della creazione artistica a vicende umane spesso miserevoli. La sceneggiatura a più mani (anche illustri: Sergio Bazzini, Enrico Medioli, Ugo Pirro) non sfugge alla peggiore aneddotica. Rossini improvvisa la cavatina del Barbiere di Siviglia percuotendo pentole in una cucina, e poi incontra il vecchio Beethoven; Verdi all’ultimo momento decide di non buttare il libretto del Nabucco in una stufa, e in quell’istante si sente il Va’ pensiero in colonna sonora. Donizetti/Alessandro Gassman, quando è in preda alla sifilide, sembra il dottor Jekyll in procinto di diventare Mr. Hyde. L’efebico Bellini/Kim Rossi Stuart è protagonista di un segmento che vorrebbe essere torbido, e muore come un’eroina di melodramma, riverso tra le lenzuola con le

chiome sciolte, mentre un temporale agita le cortine del letto. «Stiamo diventando i personaggi dei nostri drammi», aveva detto in precedenza Donizetti. Ma la melodrammatizzazione, cui altre volte era ricorso Bolognini per dare ritmo a copioni deboli, questa volta non funziona, anche perché appare ridondante: in un film sull’opera lirica, scandito da brani cantati sul palcoscenico, il pathos sulla vita dei compositori risulta tautologico, se non importuno. La prima puntata è quella più riuscita, perché è più incentrata su Giovanni Ricordi (interpretato dal regista Francesco Barilli, malamente doppiato), imprenditore cinico e lungimirante, che riesce ad arricchirsi con l’arte considera la cultura come un bene commerciale («La Scala vende musica», dice). Bolognini ne è in fondo affascinato, ed è tenero anche verso la sua rivale Giovannina Lucca (in un bel cammeo di Adriana Asti), che non si fa scrupolo di rubare gli spartiti di Bellini per trarne ballabili e canzonette. Bolognini vuole mostrare come da sempre l’arte sia merce, e debba venire a patti con editori, produttori, distributori ed esercenti che la prostituiscono, ma ne assicurano la diffusione e non ne intaccano l’essenza. A volte lo stesso Ricordi diventa una metafora dell’artista, come quando dice al figlio, che vorrebbe impegnarsi nella lotta contro gli austriaci: «Fare il nostro mestiere è l’unico modo di fare politica». In questi momenti Bolognini sembra trovare la necessità di un’operazione altrimenti illustrativa e superficiale. Ma nella televisione ormai berlusconizzata tutto si riduce a pettegolezzo, chiacchiericcio, curiosità offerta a un pubblico distratto. Alla scarsa riuscita del film contribuiscono il cast spesso improbabile e raccogliticcio, e i limiti produttivi man mano evidenti, con buchi clamorosi (che fine fa Giovanni Ricordi?) e troppe sequenze risolte alla bell’e meglio, si immagina, dal regista della seconda unità (il funerale di Verdi è particolarmente ridicolo). Gli splendori artificiali della mise en scène non sono più quelli di una volta. Ci si può concedere un momento camp – Daniel Ezralow che balla quasi nudo Le creature di Prometeo, in mezzo a luci gialle e verdi che sembrano venire da un mitologico anni Sessanta – ma il ridicolo è dietro l’angolo. Il vecchio Bolognini non ha più fiducia in un sistema produttivo che gli propina non-attrici come Anna Kanakis, Domiziana Giordano e Melba Ruffo. Ma non ha più fiducia neanche negli uomini, nelle donne e nei sentimenti. Anche la musica che tanto ama sembra nascere solo dalla miseria umana. E forse la cattiveria che mostra verso quasi tutti i personaggi è coerente con la decostruzione del passato che sorreggeva i suoi film negli anni Settanta. Al di là del facile gusto iconoclasta e scandalistico, se La famiglia Ricordi riesce a dire qualcosa, è nella rappresentazione dei rapporti tra uomo e donna. In ogni puntata c’è un confronto doloroso, in cui coniugi e amanti si rinfacciano le accuse peggiori. L’amore svanisce subito, anche il giorno stesso del matrimonio. Ipocrisia, cinismo, menzogna sembrano inevitabili. Malgrado il titolo, nel film di “famiglia” ce n’è poca, e i Ricordi sembrano riprodursi per partenogenesi. Una delle poche immagini pacificate è quella di Giuseppina Strepponi e Teresa Stolz che, anziane, assistono insieme al Falstaff del loro amato Verdi. Almeno per chi riesce a invecchiare, può calare il sipario senza strepiti. Per Bolognini il sipario cala il 14 maggio 2001. Fanno in tempo ad arrivargli tardivi riconoscimenti: nel 1996 il Leoncino d’oro, attribuito dalla pistoiese “Brigata del Leoncino”; nel 1999 il David di Donatello alla carriera. Ma una lunga malattia negli ultimi due anni lo priva della capacità di parlare. Gli rimane la consolazione del suo splendido appartamento in piazza di Spagna, e la nostalgia delle cene con Pasolini, Moravia, Elsa Morante. Ha scritto Gianni Amelio su «Film Tv»: «Quando Bolognini si ammalò gravemente esitai ad andarlo a trovare, e fu lui che mi pregò di farlo con un bigliet to che conservo ancora. Mentre si consumava davanti ai nostri occhi, non gli vidi mai perdere l’umore graffiante e il coraggio. Amava la buona maldicenza ma gli piaceva di più sentire dalla bocca degli altri il taglia e cuci sulle conoscenze comuni. Negli ultimi tempi approvava con un cenno del capo o dissentiva con una smorfia. Era la sua maniera di esorcizzare la fine». Un regista fuori dal coro

Luigi Cipriani, nel saggio “Bolognini e le valutazioni morali” contenuto in una pubblicazione dell’Ancci del 1996 (Mauro Bolognini. Il fascino della forma), si chiede il perché la Chiesa si occupi anche di cinema; risponde: «L’ambivalenza del cinema, cioè il suo potersi rivolgere per opera dell’uomo al bene e al male, è ciò che ha richiamato e tuttora richiama l’attenzione della Chiesa». E riporta la Lettera enciclica “Miranda prorsus” di Pio XII: «Sapendo che da questi mezzi audiovisivi possono derivare grandi beni e grandi pericoli secondo l’uso che ne fa l’uomo, anche in questo campo la Chiesa intende compiere pienamente la sua funzione». Bolognini è un antifamilista e un anticlericale (oltre che un antifascista), e ciò dovrebbe bastare a renderlo inviso alla Chiesa, la quale si rivela perentoriamente ostile nei riguardi di quasi tutti i suoi film, almeno quelli più importanti e più discussi. Bolognini dà fastidio, ma lo fa in maniera umile – atteggiamento che lo contraddistingue anche nella vita – e in maniera “mascherata”. In due modi: a parte i pochi film sul presente, più esplicitamente di condanna (e quindi più facilmente attaccabili), quelli in costume paiono ininfluenti proprio perché “in costume”, e dunque non contemporanei, poco attinenti alle “cose di oggi” e meno “pericolosi”; inoltre, Bolognini inscena spesso delle “mascherate”, singole scene o interi film (Gran bollito) in cui i personaggi principali e le comparse sono vestiti da carnevale o soltanto con un trucco vistoso (Bubù) che li stacca con effetto caricaturale dal contesto. Che a Bolognini interessi il passato per parlare del presente, è ormai un dato acquisito. In esso vede la contemporaneità, diversa nelle scenografie e nei “costumi”, per l’appunto, ma per il resto simile all’odierno orrore sociale. Nei suoi film, Bolognini vuole mettere in scena il rischio dell’egemonia di pensiero; e lo fa affidandosi a racconti popolari, della gente comune. La sua borghesia non è mai quella di Visconti: è più “bassa”, più “a terra”; e in questo più sanguigna, più carnale. Gli intrighi e i limiti, però, sono i medesimi, cioè quelli di un armamentario limitato dalle regole sociali, dalle aspettative pubbliche, dalla Storia. Tutto ciò che accade nelle famiglie dei film di Bolognini, accade per impossibilità di esplosione. I drammi umani bologniniani (di stampo letterario o no, poco importa) finiscono implosi perché la rivoluzione esterna o rimane castrata dal corso degli eventi, o termina con l’imprigionamento (anche simbolico, della solitudine o della morte). Bolognini guarda avanti ma è un pessimista, perché conosce il passato, da cui non pensa che il presente e il futuro possano distanziarsi più di tanto. La prigione di Bolognini è sempre anche, se non in special modo, sessuale. Il sesso possiede purtroppo dei limiti, e non c’è altro colpevole che non sia l’idea comune (ovvero quella tradizionalistica). La differenza tra uomo e donna e la famiglia sono solo dei corollari, importanti fin che si vuole, ma dei corollari: prima, per Bolognini, dovrebbe esserci il desiderio di evadere. Per lui, la valenza simbolica e insieme realistica di una fuga non conosce paradossi: si può fuggire dagli altri come da se stessi; in entrambi i casi, poi, si finisce in un vicolo cieco. Soltanto una volta, con Madamigella di Maupin, Bolognini si riserva il sorriso della vittoria della libertà sessuale; altrove, scappare – in termini sessuali – è sempre infruttuoso, infelice, quando non addirittura sinonimo di adeguamento. Non si deve biasimare l’uomo, si deve invece processare la società. La persona che cresce e matura, politicamente, culturalmente, intimamente, serve a Bolognini per rappresentare i limiti imposti dal volere dominante, che nel corso del tempo cambia “vestito” ma non muta spirito e prepotenza. Al di là delle questioni da rotocalco, la specificità sessuale è sempre intesa da Bolognini come una scelta sacrosanta. Poi la collettività ci mette lo zampino, e tutto va a rotoli (o tutto rientra nei ranghi, che è lo stesso). C’è una differenza sostanziale (e veramente ontologica) con il sesso di e per Visconti, il regista a cui più di tutti Bolognini è accostato. Per l’autore di Morte a Venezia, l’individualismo sessuale simbolizza uno dei caratteri impari dell’uomo in lotta contro il mondo, sotto la cui forza imbattibile egli è destinato a perire, e quindi a non vivere la propria predisposizione e il proprio desiderio. Per Bolognini, invece, la natura sessuale è un’ideologia di

guerra, fallimentare nei confronti della società, d’accordo, ma mai con se stessi. Per Visconti (al pari di un Jarman, per esempio), si tratta di martirio; per Bolognini, di resistenza. Per il primo, tutto finisce con l’uomo; per il secondo, l’accettazione dello status quo è sinonimo di coscienza acquisita, mentre la morte è il primo passo, il più eclatante, di un’eredità per i posteri. Visconti s’intristisce e s’illanguidisce di fronte all’impossibilità dell’uomo di esistere come sé; Bolognini al contrario ammette la superiorità d’armi della società, ma ne fa al contempo un mezzo di consapevolezza e di “successo” del sé sessuale, sconfitto dal mondo ma rinvigorito nell’orgoglio. Non è un paradosso: i protagonisti della maggior parte dei film di Bolognini crepano di fronte alle cose e agli eventi, ma rinforzano il loro essere “indipendenti nella massa”, diversi fino alla morte. A differenza di Visconti, i fallimenti dei personaggi bologniniani ne rispettano l’alterità ideologica, cioè politica, cioè culturale. Gli uomini e le donne di Bolognini vincono proprio quando perdono con la collettività, ne escono ammaccati (quando non morti, come Amerigo di La Viaccia, Peter di L’assoluto naturale, Libera, Mario Ferramonti e Alphonsine di La storia vera della Signora dalle Camelie) ma sensibilmente coscienti di essere ciò che sono in verità. E questo vale sia per le commedie, sia per i drammi. Quando Stefano di La corruzione china la testa, nel finale, davanti al dancing in cui i giovani ballano l’hully-gully, si ammette una sconfitta, ma nello stesso tempo si rinsalda con il fuoco un’idea individuale, di assoluta e inconciliabile differenza rispetto al resto. Non è un caso che il film del 1963, assieme a Il bell’Antonio, sia l’opera più apertamente omosessuale di Bolognini. Lui che di omosessuali non parla mai, se non di sguincio (il Saro di Agostino, il “finto” Saverio di Arabella), fa del suo cinema un immaginario queer in cui la metafora e la similitudine servono a togliere il velo del pudore borghese. Mettendo ordine tra le decine di personaggi, e guardando bene, colpiscono i travestimenti imprevisti (De Filippo in Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo, la Spaak di Madamigella di Maupin, Lionello, von Sydow e Pozzetto di Gran bollito); ma più numerose sono le partecipazioni in maschera e con il trucco momentanee, che sembrano “non avere senso” nella vicenda: il ballo di carnevale di La Viaccia, i costumi circensi di La balena bianca, il tango e il charleston nell’incipit di Arabella, il bordello di Notti romane, il funerale di Bubù, la festa manicomiale in maschera con cui inizia Per le antiche scale, il carnevale “rivelatore” di L’eredità Ferramonti, il ballo in maschera di Gli indifferenti. Ma il senso è interno o, per usare un brutto termine, metatestuale: queer, per Bolognini, non è la natura dell’uomo, bensì il suo “offrirsi” nel mondo, che mai e poi mai potrà accettarlo né essergli uguale. In questo significato, sono perfettamente e completamente queer anche Marisa che fa la civetta con i pretendenti, la famiglia Armentano che trasloca in una ex casa d’appuntamento, Amerigo il ribelle che s’innamora di una puttana, il giovane Nino di Un bellissimo novembre che si sposa per poter continuare ad andare a letto con la zia, Metello che lotta contro i padroni, Berta che se ne infischia della sifilide e del destino avverso, Libera e Alphonsine che si battono per la libertà a costo della vita. Sono queer, allora, i rivoluzionari, gli anarchici, quelli che non ci stanno, quelli che per un’idea – anche sbagliata, anche folle, anche omicida, come Tullio Murri, Irene Carelli, Lea – sono disposti a scontrarsi con l’intera civiltà omologata. Bolognini allora è frocio nello sguardo sul mondo, perché racconta sempre di personaggi che, nel bene e nel male, non ci stanno. Non è necessario inscenare due uomini o due donne assieme, a letto: per lui, il sesso si fa anche soltanto con l’essere e con l’esserci, con il farsi vedere, con il farsi notare. Che Bolognini sia misogino o ami di più il corpo degli uomini rispetto a quello delle donne è questione da parrucchiera; e misurare i centimetri di pelle maschile mostrati più o meno maliziosamente (con una progressiva e ovvia abbondanza più gli anni passano, facendo cadere censure, barriere e pudori) è aneddotica sterile. Bolognini dice cose serie su di sé e sulla sua poetica di sguardo anche ridendo e scherzando, tanto che negli anni Ottanta firma persino la regia sbarazzina del videoclip per Assassino di Amanda Lear. C’è una ragione, e non è la più severa: fino all’ultimo, Bolognini preferisce mettersi dalla parte di chi dimostra

l’inclinazione alla differenza, anche soltanto con un travestimento, anche soltanto con un po’ di cerone sulle gote o l’eyeliner. Non conosce vergogna, Bolognini, com’è giusto che sia per un intellettuale e un “uomo di mondo”; ma la sua visione della vita e dei sessi è sempre stata troppo avanti per essere capita. (p.m.b.)

Le durate sono verificate sulle copie correnti. La data si riferisce alla prima proiezione pubblica; si è indicata una doppia data quando il visto di censura è stato rilasciato nell’anno precedente. 1953 | Ci troviamo in galleria

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: Fede Arnaud, Alberto Liberati; sceneggiatura: Steno [Stefano Vanzina], Alessandro Continenza, Lucio Fulci, Luigi Viganotti, Mauro Bolognini (e Ruggero Maccari, non accreditato); fotografia (Ferraniacolor, 1,37:1): Marco Scarpelli; scenografia: Alberto Boccianti; costumi: Maria Cecchi Baroni; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Mario Serandrei; aiuto regista: Mariano Laurenti; interpreti: Carlo Dapporto (Ignazio Panizza in arte Gardenio), Nilla Pizzi (Caterina Lari), Sophia Loren (Marisa Chanel), Mario Carotenuto (commendatore Tittoni), Fiorenzo Fiorentini (Pippo), Carletto Sposito (Poppo), Maria Gloria Crociani (Agata), Gianni Cavalieri (Sep), Gianni Agus (attore radiofonico), Giusi Raspani Dandolo (attrice radiofonica), Alberto Talegalli (Ciccio), Alberto Sordi (se stesso), Cino Tortorella (Caporali), Enio Girolami (spettatore che protesta), Franco Migliacci (Michel), Franco Giacobini (funzionario Rai), Giuseppe Rotunno, Gianni Musy Glori (bulletti in galleria), Silvio Noto (cameriere), Gigi Reder (attore

seduto al tavolino);produzione: Ermanno Donati e Luigi Carpentieri per Athena Cinematografica ed Enic; origine: Italia; durata: 90’; prima proiezione pubblica: 06/11/1953; distribuzione: Enic Film. 1955 | La vena d’oro

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dall’omonima commedia di Guglielmo Zorzi; sceneggiatura: Gino De Sanctis, Jacques Rémy, Mauro Bolognini; fotografia (bianco e nero, 1,37:1): Carlo Carlini; scenografia: Alberto Boccianti; costumi: Maria De Matteis; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Roberto Cinquini; aiuto regista: Mariano Laurenti; truccatore: Francesco Freda; interpreti: Marta Toren [Märta Torén] (Maria), Richard Basehart (ingegnere Manfredi), Mario Girotti [poi Terence Hill] (Corrado), Titina De Filippo (Teresa), Hélène Vercors (signora Albani), Bianca Maria Ferrari (Carla), Elsa Vazzoler (Giulia Carena), Violetta Napierskha (Violetta), Leonardo Botta (amico di Corrado), Henri Vilbert (dottor Albani); produzione: Ermanno Donati e Luigi Carpentieri per Athena Cinematografica; origine: Italia; durata: 86’; prima proiezione pubblica: 30/09/1955; distribuzione: Rank; v.m. 16 anni. 1955 | Gli innamorati

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa; sceneggiatura: Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Giuseppe Mangione, Mauro Bolognini (non accreditati: Giuseppe Berto, Alessandro Continenza, Pasquale Puntieri); fotografia (bianco e nero, 1,37:1): Massimo Sallusti; scenografia: Giulio Bellardini; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Otello Colangeli; aiuti regista: Mariano Laurenti, Milo Panaro; interpreti: Antonella Lualdi (Adriana), Franco Interlenghi (Franco), Nino Manfredi (Otello), Sergio Raimondi (Nando Latini), Valeria Moriconi (Marisa), Cosetta Greco (Ines), Gino Cervi (Sor Cesare), Decimo Cristiani (Luciano), Alessandra Panaro (Marcella), Nadia Bianchi (Alba Del Bosco), Gigi Reder (Annibale), Oscar Blando (Er Gratta), Guido Alberti (Alberto), Giancarlo Zarfati (Capoccione), Tony Ucci (presentatore);produzione: Alessandro Iacovoni [e Antonio Cervi]; origine: Italia; durata: 85’; prima proiezione pubblica: 24/12/1955; distribuzione: Rank; v.m. 16 anni. 1956 | Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: Paolo Frascà; sceneggiatura: Ruggero Maccari, Ettore Scola, Nicola Manzari; fotografia (bianco e nero, 2,35:1): Aldo Giordani; scenografia: Flavio Mogherini; costumi: Elio Costanzi; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Roberto Cinquini; aiuto regista: Mariano Laurenti; interpreti: Alberto Sordi (Alberto Randolfi, guardia), Peppino De Filippo (Giuseppe Manganiello, guardia scelta), Aldo Fabrizi (Pietro Spazziali, brigadiere), Gino Cervi (maresciallo), Valeria Moriconi (Maria), Tiberio Mitri (Sandro), Nino Manfredi (Paolo), Alessandra Panaro (Carlotta), Riccardo Garrone (automobilista derubato), Memmo Carotenuto (passante che protesta), Mino Doro (esaminatore), Anita Durante (zia), Alvaro Strina (se stesso), Edoardo Nevola (Tonino), Giancarlo Zarfati (ragazzino pestifero), Mauro Bolognini (passante); produzione: Luigi Rovere per Enic - Imperial Film; origine: Italia; durata: 91’; prima proiezione pubblica: 19/04/1956; distribuzione: Enic. 1957 | Marisa la civetta

Regia: Mauro Bolognini; soggetto e sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini, Tatina Demby [Lucia Drudi Demby], Mauro Bolognini; fotografia (bianco e nero, 1,37:1): Carlo Carlini; scenografia: Flavio Mogherini; costumi: Piero Tosi; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Roberto Cinquini; aiuto regista: Mariano Laurenti; interpreti: Marisa Allasio (Marisa), Renato Salvatori (Ángel), Francisco Rabal (Antonio), Ángel Aranda (Lucio detto “Luccicotto”), Ettore Manni (Luigi), Giancarlo Zarfati (Fumetto), Luz Márquez (Luisa), María Jesús Quadra (ballerina di Cesena), Polidor [Ferdinand Guillaume] (facchino), Enio Girolami (soldato biondo), Mimmo Palmara (marinaio), Umberto Orsini (marinaio), Pier Paolo Pasolini (uomo alla stazione); produzione: Carlo Ponti per Cei-Incom (Roma) e Produciones Cinematograficas Balcazar (Madrid); produttore esecutivo: Clemente

Fracassi; origine: Italia/Spagna; durata: 81’; prima proiezione pubblica: 03/10/1957; distribuzione: Cei-Incom; v.m.16 anni. 1958 | Giovani mariti

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa; sceneggiatura: Carlo Bernari, Enzo Curreli, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Luciano Martino (non accreditato: Ennio Flaiano); dialoghi e stesura finale: Pier Paolo Pasolini, Mauro Bolognini; fotografia (bianco e nero, 1,37:1): Armando Nannuzzi; scenografia: Flavio Mogherini; costumi: Piero Tosi; musica: Mario Zafred; montaggio: Roberto Cinquini; aiuto regista: Mariano Laurenti; truccatore: Francesco Freda; interpreti: Franco Interlenghi (Antonio), Gérard Blain (Marcello), Antonio Cifariello (Ettore), Enio Girolami (Franco), Raf Mattioli (Giulio), Isabelle Corey (Laura), Antonella Lualdi (Lucia), Sylva Koscina (Mara), Anna Maria Guarnieri (Ornella), Rosy Mazzacurati (Donatella), Lyla Rocco (Gilda), Anne Marie Baumann (Fanny), Lilly Mantovani (Lily), Guido Celano (padre di Franco), Marcella Rovena (madre di Franco), Roberto Chevalier (Checchino); produzione: Emanuele Cassuto per Nepi Film, Silver Films (Roma) e Zodiaque Films (Parigi); origine: Italia/Francia; durata: 97’; prima proiezione pubblica: 12/03/1958; distribuzione: Lux Film; v.m. 16 anni. 1959 | “Arrangiatevi”

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dalla commedia Casa nova… vita nova di Mario De Majo e Vinicio Gioli; sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi; fotografia (bianco e nero, 1,37:1): Carlo Carlini; scenografia: Mario Garbuglia, Gastone Carsetti; costumi: Piero Tosi, Orietta Nasalli Rocca; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Roberto Cinquini; aiuto regista: Mariano Laurenti; interpreti: Peppino De Filippo (Peppino Armentano), Totò [Antonio De Curtis] (Illuminato), Laura Adani (Maria Armentano), [Maria] Cristina Gajoni (Maria Berta Armentano), Catia [Cathia] Caro (Bianca Armentano), Vittorio Caprioli (Pino Calamai), Franca Valeri (“Siberia”), Achille Majeroni (vecchio istriano), Giusi [Raspani] Dandolo (moglie slava), Marcello Paolini (Nicola Armentano), Luigi De Filippo (Felice, commilitone), Giorgio Ardisson (Romano, pugile), Mario Valdemarin (Luciano, reporter), Adriana Asti (servetta), Enrico Olivieri (Salvatore Armentano), Lola Braccini (Sora Gina), Federico Collino (monsignore), Mimmo Poli (pollarolo), Giuliano Gemma (pugile alla pesa) [Alberto Bonucci, indicato da alcune fonti, non è presente]; produzione: Cineriz; direttore di produzione: Oscar Brazzi; origine: Italia; durata: 109’; prima proiezione pubblica: 04/09/1959; distribuzione: Cineriz; v.m. 16 anni. 1959 | La notte brava

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dal romanzo Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini; sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini, Laurence Bost (e Sergio Citti, non accreditato); fotografia (bianco e nero, 1,78:1): Armando Nannuzzi; scenografia: Carlo Egidi; costumi: Marcel Escoffier; musica: Piero Piccioni; montaggio: Nino Baragli; aiuto regista: Rinaldo Ricci; interpreti: Jean Claude Brialy (Scintillone), Laurent Terzieff (Ruggero, detto Ruggeretto), Franco Interlenghi (Gino, detto Bella-Bella), Tomas Milian (Achille), Antonella Lualdi (Supplizia), Elsa Martinelli (Anna), Anna Maria Ferrero (Nicoletta), Rosanna Schiaffino (Rossana), Mylène Demengeot (Laura), Marcella Valeri (sora Fernanda), Mario Meniconi (er Mosciarella), Maurizio Conti (Pepito), Sergio Palmisano (il sordomuto), Franco Balducci (Eliseo); produzione: Alessandro Jacovoni e Tonino Cervi per Ajace Compagnia Cinematografica (Roma), Franco London Film (Parigi); origine: Italia/Francia; durata: 94’; prima proiezione pubblica: 12/11/1959; distribuzione: Euro International Films; v.m. 16 anni. 1960 | Il bell’Antonio

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dall’omonimo romanzo di Vitaliano Brancati; sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini, Gino Visentini; fotografia (bianco e nero, 1,85:1): Armando Nannuzzi;

scenografia: Carlo Egidi; costumi: Piero Tosi; musica: Piero Piccioni; montaggio: Nino Baragli; aiuti regista: Nicolò Ferrari, Luigi Bazzoni; interpreti: Marcello Mastroianni (Antonio Magnano), Claudia Cardinale [doppiata da Rita Savagnone] (Barbara Puglisi), Pierre Brasseur [doppiato da Ivo Garrani] (Alfio Magnano), Rina Morelli (Rosaria Magnano), Tomas Milian (Edoardo), Fulvia Mammi (Elena Ardizzone), Patrizia Bini (Santuzza), Anna Arena (signora Puglisi), Guido Celano (onorevole Calderana), Maria Luisa Crescenzi (Francesca), Jole Fierro (Mariuccia), Cesarina Gherardi (zia Giuseppina), Alice Sandro (Nanda); produzione: Cino Del Luca per Produzioni Cinematografiche Europee, Alfredo Bini per l’Arco Film (Roma), Lyre Cinématographique (Parigi); direttore di produzione: Manolo Bolognini; origine: Italia/Francia; durata: 102’; prima proiezione pubblica: 04/03/1960; distribuzione: Cineriz; v.m. 16 anni. 1960 | La giornata balorda

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia, da Il naso (in Racconti romani) e La raccomandazione (in Nuovi racconti romani) di Alberto Moravia; sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Marco Visconti (e Sergio Citti, non accreditato); fotografia (bianco e nero, 1,78:1): Aldo Scavarda; scenografia: Carlo Egidi; costumi: Pier Luigi Pizzi; musica: Piero Piccioni; montaggio: Nino Baragli; aiuti regista: Luigi Bazzoni, Franca Modiano, Guy Seligmann; interpreti: Jean Sorel (Davide Saraceno), Lea Massari (Freja), Paolo Stoppa (ragionier Alberto Moglie), Jeanne Valérie (Marina), Valeria Ciangottini (Ivana), Rik Battaglia (Carpiti), Luigi Giacosi (Romani), Marcella Valeri (Sora Tosca), Isabelle Corey (Sabina), Enrico Glori (avvocato Scardamazzi); produzione: Paul Graetz per Produzioni Intercontinentali, Euro International Films (Roma), Transcontinental Films (Parigi); origine: Italia/Francia; durata: 87’; prima proiezione pubblica: 29/10/1960; distribuzione: Euro International Films; v.m. 16 anni. 1961 | La Viaccia

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dal romanzo L’eredità di Mario Pratesi; sceneggiatura: Vasco Pratolini, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa; fotografia (bianco e nero, 1,85:1): Leonida Barboni; scenografia: Flavio Mogherini; costumi: Piero Tosi; musica: Piero Piccioni; montaggio: Nino Baragli; aiuti regista: Luigi Bazzoni, Albino Cocco, Vincenzo Gamna; interpreti: Jean Paul Belmondo (Amerigo Casamonti), Claudia Cardinale [doppiata da Rita Savagnone] (Bianca), Pietro Germi (Stefano Casamonti), Paul Frankeur (Ferdinando Casamonti), Gabriella Pallotta (Carmelinda Casamonti), Romolo Valli (Dante), Paola Pitagora (Anna), Gina Sammarco (la maîtresse), Marcella Valeri (Beppa), Emma Baron (Giovanna), Claudio Biava (rivale di Amerigo vestito da Arlecchino), Maurice Poli (un cliente), Nando Angelini (un giovane), Olimpia Cavalli (prostituta), Duilio D’Amore (Bernardo), Rosita Di Vera Cruz (Margherita), Gianna Giachetti (prostituta), Emilia Moghetti (cameriera), Aurelio Nardi (uomo-pallone), Dante Posani (Gustavo), Ada Passeri (cassiera), Franco Balducci (Tognaccio), Dolly Sampieri (prostituta), Maria Grazia Balvetti (prostituta), Giuseppe Tosi (un parente Casamonti); produzione: Alfredo Bini per Arco Film (Roma), Lionello Santi e Goffredo Lombardo per Galatea, Societé Generale de Cinématographie (Parigi); origine: Italia/Francia; durata: 101’; prima proiezione pubblica: 15/08/1961; distribuzione: Titanus; v. m. 16 anni. 1962 | Senilità

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dal romanzo omonimo di Italo Svevo; sceneggiatura: Goffredo Parise, Tullio Pinelli [non accreditato: Mauro Bolognini]; fotografia (bianco e nero, 1,78:1): Armando Nannuzzi; scenografia: Luigi Scaccianoce; costumi e arredamento: Piero Tosi; musica: Piero Piccioni; montaggio: Nino Baragli; aiuti regista: Luigi Bazzoni, Albino Cocco, Franco Rossellini; interpreti: Anthony Franciosa [doppiato da Romolo Valli] (Emilio Brentani), Claudia Cardinale (Angiolina Zarri), Betsy Blair [doppiata da Lilla Brignone] (Amalia Brentani), Philippe Leroy (Stefano Balli), Aldo Bufi Landi (collega di Emilio), Franca Mazzoni (Margherita), Marcella

Valeri (affittacamere), John Stacy (medico), Ersilia De Marco (madre di Angiolina), Romano Puppo (marinaio), Nando Angelini (amico al bar); produzione: Moris Ergas per Zebra Film (Roma) e Aera Film (Parigi); organizzatore generale: Manolo Bolognini; origine: Italia-Francia; durata: 110’; prima proiezione pubblica: 08/03/1962; distribuzione: Ceiad-Columbia; v.m. 14 anni 1962 | Agostino

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia; sceneggiatura: Goffredo Parise; fotografia (bianco e nero, 2,35:1 [Totalscope]): Aldo Tonti; scenografia: Maurizio Chiari; costumi: Maurizio Chiari; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Nino Baragli; aiuto regista: Luigi Bazzoni; interpreti: Paolo Colombo (Agostino), Ingrid Thulin (la madre), John Saxon (Renzo), Mario Bartoletti (Saro), Aldo Bussaglia (Berto), Roberto Mancia (Sandro), Gennaro Mesfun (Tripoli), Franco Schiorlin (Scarpa); produzione: Luigi Rovere per Baltea Film; origine: Italia; durata: 89’; prima proiezione pubblica: 06/12/1962; distribuzione: Dino De Laurentiis Cinematografica; v.m. 18 anni. Nota: distribuito anche come Agostino o la perdita dell’innocenza. 1963 | La corruzione

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: Ugo Liberatore; sceneggiatura: Ugo Liberatore, Fulvio Gicca [Palli]; fotografia (bianco e nero, 1,85:1 [Vistavision]): Leonida Barboni; scenografia: Maurizio Chiari; costumi: Maurizio Chiari; musica: Giovanni Fusco; montaggio: Nino Baragli; aiuti regista: Paolo Bianchini, Gianfranco Zurlini, Jacques Baratier; interpreti: Jacques Perrin (Stefano Mattioli), Alain Cuny (Leonardo Mattioli), Rosanna Schiaffino (Adriana), Isa Miranda (signora Mattioli), Filippo Scelzo (rettore del collegio), Ennio Balbo (Morandi), Anna Glori (Gianna), Marcella Valeri (suora); produzione: Alfredo Bini per l’Arco Film (Roma), S.O.P.A.C. -Burgundia Film (Parigi); organizzatore generale: Manolo Bolognini; origine: Italia/Francia; durata: 82’; prima proiezione pubblica: 22/11/1963; distribuzione: Titanus; v. m. 18 anni. 1964 | La mia signora

[terzo episodio] Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dal racconto omonimo di Goffredo Parise; sceneggiatura: Rodolfo Sonego; fotografia (b/n, 1,66:1): Otello Martelli; scenografia: Mario Garbuglia; costumi: Gabriella Mayer e (per Silvana Mangano) Piero Gherardi; musica: Armando Trovajoli; montaggio: Nino Baragli; aiuto regista: Silvio Maestranzi; interpreti: Alberto Sordi (Marco), Silvana Mangano (Clara), Elena Nicolai (la suocera), Elena [Lella] Fabrizi (suor Paolona); durata: 8’40”. Luciana [quarto episodio] Regia: Mauro Bolognini; soggetto e sceneggiatura: Rodolfo Sonego; fotografia (b/n, 1,66:1): Otello Martelli; scenografia: Mario Garbuglia; costumi: Gabriella Mayer e (per Silvana Mangano) Piero Gherardi; musica: Armando Trovajoli; montaggio: Nino Baragli; aiuto regista: Silvio Maestranzi; interpreti: Alberto Sordi (Giovanni Ferrero), Silvana Mangano (Luciana Pagliano), Marisa Fiorio (Roberta Ferrero), Mario Canocchia (Carlo Pagliano); durata: 34’40”. Produzione: Dino De Laurentiis Cinematografica; origine: Italia; durata totale: 100’; primaproiezione pubblica: 29/10/1964 distribuzione: Dino De Laurentiis Cinematografica. Nota: gli altri episodi sono L’uccellino di Tinto Brass, Eritrea di Luigi Comencini, L’automobile di Tinto Brass. I miei cari

1964 | La donna è una cosa meravigliosa

[primo episodio] Regia: Mauro Bolognini; soggetto: Goffredo Parise; sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Goffredo Parise; fotografia (b/n, 1,85:1): Gianni Di Venanzo; scenografia: Luigi Scaccianoce; costumi: Danilo Donati; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Nino Baragli; aiuto regista: Luigi Bazzoni; interpreti: Carmen Najarro [doppiata da Ave Ninchi] (Miriam), Arnoldo La balena bianca

Fabrizio (Eros), Giampiera Colombo (Luciana); durata: 35’. Una donna dolce, dolce [secondo episodio] Regia: Mauro Bolognini; soggetto: Antonio [Tonino] Guerra, Giorgio Salvioni; sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Antonio [Tonino] Guerra, Giorgio Salvioni; fotografia (b/n, 1,85:1): Otello Martelli; scenografia: Luigi Scaccianoce; costumi: Piero Tosi; musica: Piero Piccioni; montaggio: Franco Arcalli; aiuto regista: Silvio Maestranzi; interpreti: Vittorio Caprioli (Carlo Minardi), Sandra Milo (Rossella), Edra Gale (madre di Rossella), Quinto Permeggiani (nuovo marito), Tinto Brass (Mario), Poldo [Bendandi] (picchiatore), Gian Carlo Fusco (uomo che balla), Beba Loncar (amica di Rossella), Angela Minervini, Nany Colombo; durata: 40’. Produzione: Moris Ergas per Zebra Film (Roma) e Aera Film (Parigi); organizzatore generale: Manolo Bolognini; origine: Italia-Francia; durata totale: 85’; prima proiezione pubblica: 31/12/1964; distribuzione: Cineriz; v.m. 18 anni. Note: con ogni probabilità, il film è stato girato prima di La mia signora, anche se distribuito dopo. Nella versione originaria, oggi irreperibile, i due episodi di Bolognini erano accompagnati da un “intermezzo animato” comprendente Il mondo è delle donne di Pino Zac [e Giulio Questi] e Amore (titolo originale: Love) di Yoji Kuri. 1965 | Le bambole

[quarto episodio] Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dalla novella III, 3 del Decameron di Giovanni Boccaccio; sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi; fotografia (b/n, 1,85:1): Leonida Barboni; scenografia: Gianni Polidori; costumi: Veniero Colasanti; musica: Armando Trovajoli; montaggio: Roberto Cinquini; aiuto regista: Mariano Laurenti; interpreti: Gina Lollobrigida (Beatrice), Jean Sorel (Vincenzo), Akim Tamiroff (monsignor Arcudi), Gianni Rizzo (marito di Beatrice), Camillo Milli (segretario); produzione: Gianni Hecht Lucari per Documento Film e Orsay Film; origine: Italia/Francia; durata: 33’ (durata del film: 109’); prima proiezione pubblica: 27/01/1965; distribuzione: Columbia Ceiad; v.m. 18 anni. Nota: gli altri episodi sono La telefonata di Dino Risi, Il trattato di eugenetica di Luigi Comencini, La minestra di Franco Rossi. Monsignor Cupido

1965 | I tre volti

[secondo episodio] Regia: Mauro Bolognini; soggetto e sceneggiatura: Clive Exton, Tullio Pinelli; fotografia (Technicolor, 1,85:1): Otello Martelli; scenografia: Franco Bottari; art director: Piero Tosi; musica: Piero Piccioni; montaggio: Nino Baragli; aiuto regista: Silvio Maestranzi; interpreti: Soraya [Esfandiyari Bakhtiyari] (Linda), Richard Harris (Robert), José Luis De Villalonga (Rudolph von Hagen), Esmeralda Ruspoli (Edda); produzione: Dino De Laurentiis Cinematografica; origine: Italia; durata: 40’ (durata del film: 115’); prima proiezione pubblica: 12/02/1965; distribuzione: De Laurentiis. Nota: gli altri episodi sono Prefazione / Il provino di Michelangelo Antonioni, Latin lover di Franco Indovina. Gli amanti celebri

1965/1966 | Madamigella di Maupin

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dal romanzo omonimo di Théophile Gautier; sceneggiatura: Luigi Magni [e José G. Maesso]; fotografia (Technicolor, 2,35:1 [Techniscope]): Roberto Gerardi; scenografia: Ezio Frigerio; costumi: Danilo Donati; musica: Franco Mannino; montaggio: Nino Baragli; aiuti regista: Ruggero Deodato, Massimo Castellani; interpreti: Catherine Spaak (Maddalena di Maupin/Teodoro), Robert Hossein (capitan Alcibiade), Tomas Milian (d’Albert), Mikaela [Micaela Rodríguez Cuesta] (Rosetta Duras), Ángel Álvarez (monsieur di Maupin), Ottavia Piccolo (Ninon), Franco Squarciapino (primo maestro), Cesare Gelli (secondo maestro), Manolo

Zarzo (sergente); produzione: Jolly Film (Roma), Consortium Pathé (Parigi), Tecisa (Madrid), Filmservis (Lubiana); origine: Italia/Francia/Spagna/Jugoslavia; durata: 95’; prima proiezione pubblica: 13/01/1966; distribuzione: Unidis; v.m. 18 anni. 1966 | Le fate

[terzo episodio] Regia: Mauro Bolognini; soggetto e sceneggiatura: Rodolfo Sonego; fotografia (Eastmancolor, 1,37:1): Leonida Barboni; scenografia e costumi: Pier Luigi Pizzi; musica: Armando Trovajoli; montaggio: Nino Baragli; aiuto regista: Renzo Marignano; interpreti: Jean Sorel (Luigi), Raquel Welch (Elena), Pia Lindström (Claudia), Massimo Fornari (Alberto);produzione: Gianni Hecht Lucari per Documento Film e Columbia Films; origine: Italia/Francia; durata: 14’ (durata del film: 111’); prima proiezione pubblica: 22/11/1966; distribuzione: Columbia Ceiad; v.m. 14 anni. Nota: gli altri episodi sono Fata Sabina di Luciano Salce, Fata Armenia di Mario Monicelli, Fata Marta di Antonio Pietrangeli. Fata Elena

1966/1967 | Le streghe

[secondo episodio] Regia: Mauro Bolognini; soggetto e sceneggiatura: Age [Agenore Incrocci], [Furio] Scarpelli, Bernardino Zapponi; fotografia (Technicolor, 1,85:1): Giuseppe Rotunno; costumi: Piero Tosi; musica: Piero Piccioni; montaggio: Nino Baragli; aiuto regista: Massimo Castellani; interpreti: Alberto Sordi (la vittima), Silvana Mangano (la “soccorritrice”), Renzo Marignano (l’amante); produzione: Dino De Laurentiis Cinematografica/Les Productions Artistes Associés; origine: Italia/Francia; durata: 5’30” (durata del film: 105’); prima proiezione pubblica: 22/02/1967; distribuzione: Dear/United Artists; v.m. 14 anni. Nota: gli altri episodi sono La strega bruciata viva di Luchino Visconti, La terra vista dalla luna di Pier Paolo Pasolini, La siciliana di Franco Rossi, Una sera come le altre di Vittorio De Sica. Senso civico

1967 | L’amore attraverso i secoli / L’Amour à travers les âges - Le Plus vieux métier du monde Notti romane [secondo episodio]

Regia: Mauro Bolognini; soggetto e sceneggiatura: Ennio Flaiano; fotografia (Eastmancolor, 1,85:1): Dario Di Palma; scenografia: Ottavio Scotti; costumi: Danilo Donati; musica: Michel Legrand; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Gastone Moschin (Flavio Cesare), Elsa Martinelli (Domitilla), Giancarlo Cobelli (Menippo), Gianni Solaro, Luigi Leoni; produzione: Les Fils Gibé, Francoriz, Rizzoli Film, Rialto Film; origine: Francia/Italia/Rft; durata: 18’ (durata del film: 110’); prima proiezione pubblica: 21/04/1967; distribuzione: Cineriz; v.m. 18 anni. Nota: gli altri episodi sono L’età della pietra di Franco Indovina, La ghigliottina di Philippe De Broca, Oggi di Claude Autant-Lara, L’amore nel 2000 di Jean-Luc Godard, La Belle époque di Michael Pfleghar. 1967 | Arabella

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: Giorgio Arlorio, Brunello Rondi; sceneggiatura: Adriano Baracco; fotografia (Eastmancolor. 1,85:1): Ennio Guarnieri; scenografia: Alberto Boccianti; costumi: Piero Tosi; musica: Ennio Morricone; montaggio: Eraldo Da Roma; aiuto regista: Roberto Malenotti; interpreti: Virna Lisi (Arabella), Terry-Thomas [Thomas Terry Hoar-Stevens] (esattore/maître d’hotel/Generale Horace Gordon/duca Pietro Moretti di Trivulziano), James Fox (Giorgio), Margaret Rutherford (principessa Ilaria Danesi), Giancarlo Giannini (Saverio Moretti), Paola Borboni (Emma Moretti), Milena Vukotic (contessina Graziella), Antonio Casagrande (Filiberto), Giuseppe Addobbati (secondo esattore), Esmeralda Ruspoli (nobildonna), Renato Chiantoni, Renato Romano; produzione: Maleno Malenotti e Luciano Perugia per Cram Film; origine: Italia; durata: 103’; prima proiezione pubblica: 29/11/1967; distribuzione: Interfilm. Nota: nel 1974 venne redistribuito con il titolo Il bell’Azione - Arabella, spacciando Giannini come

protagonista. Un altro titolo alternativo ricordato dalle fonti è La ragazza del charleston. 1968 | Capriccio all’italiana

[terzo episodio] Regia: Mauro Bolognini; soggetto e sceneggiatura: Age [Agenore Incrocci], [Furio] Scarpelli, Bernardino Zapponi; fotografia (Technicolor, 1,85:1): Giuseppe Rotunno; costumi: Piero Tosi; musica: Piero Piccioni; montaggio: Nino Baragli; aiuto regista: Massimo Castellani; interpreti: Silvana Mangano (lei), Renzo Marignano (il fidanzato); durata: 4’. La gelosa [sesto episodio] Regia: Mauro Bolognini; soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini; fotografia (Technicolor, 1,85:1): Silvano Ippoliti; scenografia: Emilio Carcano; costumi: Bice Brighetti e (per Ira Fürstenberg) Mila Schön; musica: Carlo Savina; montaggio: Nino Baragli; aiuto regista: Massimo Castellani; interpreti: Walter Chiari (Paolo), Ira Fürstenberg (Silvana); durata: 22’. Produzione: Dino De Laurentiis Cinematografica; origine: Italia; durata totale: 82’; prima proiezione pubblica: 13/04/68; distribuzione: Euro International. Note: Perché? è uno scarto di Le streghe. Gli altri episodi sono La bambinaia di Mario Monicelli, Il mostro della domenica di Steno [Stefano Vanzina], Che cosa sono le nuvole di Pier Paolo Pasolini, Viaggio di lavoro di Pino Zac [e Franco Rossi]. Perché?

1968/1969 | Un bellissimo novembre

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dal romanzo omonimo di Ercole Patti; sceneggiatura: Lucia Drudi Demby, Antonio Altoviti, HenryWaughan; fotografia (Eastmancolor, 1,85:1): Armando Nannuzzi; scenografia: Vanni Castellani; costumi: Cesare Rovatti; musica: Ennio Morricone (Nuddu cantata da Fausto Cigliano); montaggio: Roberto Perpignani; aiuto regista: Fabrizio Gianni; interpreti: Paolo Turco (Nino), Gina Lollobrigida (Cettina), Gabriele Ferzetti (Biagio), Danielle Godet (Elisa), André Laurence (Sasà), Corrado Gaipa (Alfio), Margarita Lozano (Amalia), Pasquale Fortunato (Umberto), Jean Maucorps (Mimì), Ettore Ribotta (Concetto), Grazia Di Marzà (Assunta), Franco Abbina (Enzo), Isabella Savona (Giulietta), Ileana Riganò (Rosaria), Vanni Castellani (Turiddu), Maria Rosaria Amato (Juzza), Giuseppe Naso (zio Nicola), Amalia Troiani (Maria); produzione: Adelphia Compagnia Cinematografica (Roma), Les Artistes Associés (Parigi); origine: Italia/Francia; durata: 92’; prima proiezione pubblica: 05/04/1969; distribuzione: Dear Film; v.m. 14 anni. 1969 | L’assoluto naturale

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dal libro omonimo di Goffredo Parise; sceneggiatura: Ottavio Jemma, Vittorio Schiraldi, Mauro Bolognini; fotografia (Technicolor, 1,66:1): Ennio Guarnieri; scenografia: Giorgio Bini; arredamento e costumi: Vanni Castellani; musica: Ennio Morricone; montaggio: Nino Baragli; aiuto regista: Paolo Pietrangeli; interpreti: Lawrence Harvey (Peter), Sylva Koscina (Ella), Guido Mannari (meccanico), Giorgio Tavaroli (meccanico), Isa Miranda (madre di Ella), Isabella Digerini Nuti Tolomei Cini (nonna), Nella Tessieri Frediani (bisnonna), Amalia Carrara (trisonna), Felicity Mason (zia), Gina Sanmarco (vecchia), Franca Sciutto (donna dell’incidente); produzione: Raimondo Castelli per Tirrenia Studios; origine: Italia; durata: 86’; prima proiezione pubblica: 28/09/1969; distribuzione: Cineriz; v.m. 18 anni. 1970 | Metello

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dal romanzo omonimo di Vasco Pratolini; sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, Luigi Bazzoni, Mauro Bolognini, Ugo Pirro; fotografia (Technicolor, 1,85:1): Ennio Guarnieri; scenografia: Guido Josia; costumi: Pierluigi Samaritani (supervisione: Piero Tosi); musica: Ennio Morricone; montaggio: Nino Baragli; aiuti regista: Umberto Angelucci, Mauro Cappelloni; interpreti: Massimo Ranieri [doppiato da Rodolfo Bandini] (Metello Salani), Ottavia Piccolo (Ersilia Pallesi in Salani), Tina Aumont (Idina), Lucia Bosè (Viola), Pino Colizzi (Giovanni

Renzoni), Luigi Diberti (Ferdinando Lippi), Corrado Gaipa (ingegner Badolati), FrankWolff (Betto Lampredi), Renzo Montagnani (Poldo Salani), Mariano Rigillo (Olindo Tinai), Adolfo Geri (deputato Del Buono), Manuela Andrei (Adele Salani), Franco Balducci (Sante Chellini), Claudio Biava (Nardini), Steffen Zacharias (Pallesi), Gabriele Lavia (un carcerato); produzione: Gianni Hecht Lucari per Documento Film; origine: Italia; durata: 111’; prima proiezione pubblica: 06/03/1970; distribuzione: Titanus. 1971 | Bubù

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dal romanzo Bubu di Montparnasse di Charles-Louis Philippe; sceneggiatura: Giovanni Testori, Mauro Bolognini, Mario Di Nardo; fotografia (Technochrome, 1,85:1): Ennio Guarnieri; scenografia: Piero Tosi, Guido Josia; costumi: Piero Tosi; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Nino Baragli; aiuti regista: Piero Baldini, Antonio Canti, Rolando Raparelli; interpreti: Ottavia Piccolo (Berta), Antonio Falsi (Luigi Bertò detto Bubù), Massimo Ranieri (Piero), Luigi Proietti (Giulio), Gianna Serra (Bianca), Marcella Valeri (madre di Bubù), Mauro Bolognini (spettatore); produzione: Manolo Bolognini per B.R.C. Produzione Film; origine: Italia; durata: 100’; prima proiezione pubblica: 08/02/1971; distribuzione: Euro International Films; v.m. 18 anni. 1972 | Imputazione di omicidio per uno studente

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: Ugo Pirro; sceneggiatura: Ugo Pirro, Ugo Liberatore; fotografia (S.P.E.S., 1,85:1): Giuseppe Ruzzolini; scenografia: Guido Josia; costumi: Maria Baroni; musica: Ennio Morricone (Un po’ per giorno di Morricone-Bigazzi, cantata da Massimo Ranieri; Scappa fratello scappa di Morricone-Falzoni, cantata da Maria Monti; Gente grida di Fiorenzo Fiorentini, cantata da Marina Fiorentini e Federico Pietrabruna); montaggio: Nino Baragli; aiuto regista: Mauro Cappelloni; interpreti: Martin Balsam (giudice Aldo Sola), Massimo Ranieri (Fabio Sola), Turi Ferro (commissario Malacarne), Giuseppe [Pino] Colizzi (commissario Cottone), Luigi Diberti (Massimo Trotti), Carlo Valli (Alfio Ricci), Valentina Cortese (Luisa Sola), Salvo Randone (procuratore generale), Mariano Rigillo (don Luca Binda), Petra Pauly (Carla Stale), Maria Monti (cantante); produzione: Gianni Hecht Lucari per Documento Film; origine: Italia; durata: 99’; prima proiezione pubblica: 21/01/1972; distribuzione: Titanus. 1974 | Fatti di gente perbene

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: Sergio Bazzini; sceneggiatura: Sergio Bazzini (ricerche storiche: Gianfranco Zurlini); fotografia (Technospes, 1,85:1): Ennio Guarnieri; scenografia: Guido Josia; costumi: Gabriella Pescucci; musica: Ennio Morricone; montaggio: Nino Baragli; aiuti regista: Mauro Cappelloni, Pascal Vidal, Mario Garriba; interpreti: Giancarlo Giannini (Tullio Murri), Catherine Deneuve (Linda Murri), Corrado Pani (Pio Naldi), Marcel Bozzuffi [doppiato da Paolo Ferrari] (giudice Stanzani), Paolo Bonacelli (Francesco Bonmartini), Tina Aumont (Rosina Bonetti), Fernando Rey [doppiato da Alberto Lionello] (Augusto Murri), Ettore Manni (Carlo Secchi), Rina Morelli (Giannina Murri), Laura Betti (Tisa Borghi), Giacomo Rossi Stuart (Riccardo Murri), Lino Troisi (direttore di giornale), Bruno Lanzarini (arcivescovo Svampa), Valentino Macchi (prelato assistente), Kim Rossi Stuart (Giovanni Bonmartini), Loretta Rossi Stuart (Maria Bonmartini), Monica Scattini (Francina), Andrea Matteuzzi (pubblico ministero Augusto Righi), Augusto Gallina (delatore del giudice); produzione: Luigi Scattini e Mario Ferrari per Filmarpa realizzata da Alberto Adami (Roma), Lirafilm (Parigi); origine: Italia/Francia; durata: 114’; prima proiezione pubblica: 28/09/1974; distribuzione: P.A.C. (Produzioni Atlas Consorziate); v.m. 14 anni. 1975 | Libera, amore mio…

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: Luciano Vincenzoni; sceneggiatura: Luciano Vincenzoni, Nicola Badalucco [e Mauro Bolognini, non accreditato]; fotografia (Eastmancolor, 1,85:1): Franco

Di Giacomo; scenografia: Guido Josia; costumi e arredamento: Piero Tosi; musica: Ennio Morricone; montaggio: Nino Baragli; aiuti regista: Mauro Cappelloni, Antonio Canti, Guido Valentini, Jannis Diamantopoulos; interpreti: Claudia Cardinale (Libera Valente), Bruno Cirino (Matteo Zanoni), Adolfo Celi (Felice Valente), Philippe Leroy (Franco Testa), Bekim Fehmiu (Sandro Poggi), Luigi Diberti (Ceccarelli), Marco Lucantoni (Carlo), Maria Vittoria Virgili (Anna), Eleonora Morana (insegnante di ginnastica), Tullio Altamura (onorevole), Rosalba Neri (Wanda) produzione: Roberto Loyola Cinematografica; origine: Italia; durata: 108’; prima proiezione pubblica: 21/03/75; distribuzione: Italnoleggio Cinematografico. Nota: il film è stato girato nel 1973. 1975 | Per le antiche scale

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dal romanzo omonimo di Mario Tobino; sceneggiatura: Bernardino Zapponi, Raffaele Andreassi, Tullio Pinelli, Mario Arosio, Marie Sinko Solleville; fotografia (Eastmancolor, 1,85:1): Ennio Guarnieri; scenografia: Piero Tosi; costumi: Piero Tosi; musica: Ennio Morricone; montaggio: Nino Baragli; aiuti regista: Mauro Cappelloni, Dino Squizzato; interpreti: Marcello Mastroianni (professor Bonaccorsi), Françoise Fabian (dottoressa Anna), Marthe Keller (Bianca), Adriana Asti (Gianna), Barbara Bouchet (Carla), Lucia Bosè (Francesca), Pierre Blaise (Tonio), Silvano Tranquilli (medico), Charles Fawcett (direttore), Ferruccio De Ceresa (gerarca sul treno); produzione: Fulvio Lucisano per Italian International Film (Roma), Les Productions Fox Europa (Parigi); origine: Italia/Francia; durata: 98’; prima proiezione pubblica: 06/11/1975; distribuzione: 20th Century Fox; v.m. 14 anni. 1976 | L’eredità Ferramonti

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dal romanzo omonimo di Gaetano Carlo Chelli; sceneggiatura: Ugo Pirro, Sergio Bazzini (con la consulenza di Roberto Bigazzi); fotografia (Technospes, 1,85:1): Ennio Guarnieri; scenografia: Luigi Scaccianoce; costumi: Gabriella Pescucci; musica: Ennio Morricone; montaggio: Nino Baragli; aiuti regista: Dino Squizzato, Gianfranco Zagni; interpreti: Dominique Sanda (Irene Carelli in Ferramonti), Anthony Quinn (Gregorio Ferramonti), Luigi Proietti (Pippo Ferramonti), Fabio Testi (Mario Ferramonti), Adriana Asti (Teta Ferramonti in Furlin), Paolo Bonacelli (Paolo Furlin), Rossana Di Lorenzo (domestica), Rossella Rusconi (Flaviana Barbati), Harald Bromley [Harold Bradley] (Andrea Barbati);produzione: Gianni Hecht Lucari per Flag Production; origine: Italia; durata: 106’; prima proiezione pubblica: 11/08/1976; distribuzione: Titanus; v.m. 14 anni. 1977 | Gran bollito

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: Luciano Vincenzoni, Nicola Badalucco; sceneggiatura: Nicola Badalucco (dialoghi aggiunti: Angelo Dallagiacoma); fotografia (Technospes, Eastmancolor, 1,85:1): Armando Nannuzzi; scenografia: Danilo Donati; costumi: Danilo Donati; musica: Enzo Jannacci (Vita mia cantata da Mina); montaggio: Nino Baragli; aiuto regista: Antonio Gabrielli; interpreti: Shelley Winters [doppiata da Regina Bianchi] (Lea), Max von Sydow (Lisa Carpi/maresciallo), Alberto Lionello (Berta Maner/impiegato di banca), Renato Pozzetto (Stella Kraus/carabiniere), Laura Antonelli (Sandra), Mario Scaccia (Rosario), Milena Vukotic (Tina), Franco Branciaroli (don Onorio), Rita Tushingham (Maria), Adriana Asti (Palma), Antonio Marsina (Michele), Liù Bosisio (vicina zoppa), Maria Monti (altra vicina), Giancarlo Badessi (amica di Lisa), Alberto Squillante (carabiniere), Marco Modugno (studente); produzione: Alessandra Riccardi Infascelli per Triangolo Film; origine: Italia; durata: 110’; prima proiezione pubblica: 20/10/1977; distribuzione: P.A.C. (Produzioni Atlas Consorziate); v.m. 14 anni. 1978 | Dove vai in vacanza?

[primo episodio] Regia: Mauro Bolognini; soggetto: Roberto Gianviti; sceneggiatura: Ruggero Maccari, Iaia Fiastri; Sarò tutta per te

fotografia (Eastmancolor, 1,85:1): Luciano Tovoli; scenografia: Lorenzo Baraldi; costumi: Piero Tosi; musica: Ennio Morricone; montaggio: Nino Baragli; aiuto regista: Mauro Cappelloni; interpreti: Ugo Tognazzi (Enrico), Stefania Sandrelli (Giuliana), Pietro Brambilla (Tommaso), Loredana [Lory] Del Santo (Luisa), Clara Colosimo (Virginia), Marilda Donà (Antonietta), Lorraine De Selle (Diana), Emilio Lo Curcio (Fulvio), Adriano Amidei Migliano (Armando), Ricky Tognazzi, Rodolfo Bigotti, Brigitte Petronio (ospiti), Elisabetta Pozzi (cameriera); produzione: Gianni Hecht Lucari per Rizzoli Film; origine: Italia; durata: 33’ (durata del film: 153’); prima proiezione pubblica: 21/12/78; distribuzione: Cineriz; v.m. 14 anni. Nota: gli altri episodi sono Si, buana di Luciano Salce e Le vacanze intelligenti di Alberto Sordi. 1981 | La storia vera della Signora dalle Camelie

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: Jean Aurenche, Vladimir Pozner; sceneggiatura: Enrico Medioli; fotografia (Technicolor, 1,37:1): Ennio Guarnieri; scenografia: Mario Garbuglia; costumi: Piero Tosi; musica: Ennio Morricone; montaggio: Nino Baragli; aiuti regista: Michele Scalera, Herve Grandsart; interpreti: Isabelle Huppert (Alphonsine Plessis/Maria), Fernando Rey (conte Stackelberg), Fabrizio Bentivoglio (Alexandre Dumas figlio), Gian Maria Volonté (Plessis, il padre), Bruno Ganz (conte Perregaux), Clio Goldsmith (Clémence), Piero Vida (Bernier), Mario Maranzana (Alexandre Dumas padre), Fabio Traversa (prete), Yann Babilée (conte Agenor de Guiche), Paola Borboni (parente nobile), Carla Fracci (Marguerite Gauthier), Cecile Vassort (Henriette), David Jalil (Maxence), Stefania Pierangelini (Thérèse), Tina Aumont (signorina de Valnoble), Gina Rovere (operaia); produzione: Manolo Bolognini per Opera Films Produzione (Roma), Margaret Menegoz per Les Films du Losange, Gaumont, FR.3 (Parigi), Tele-München (Monaco); origine: Italia/Francia; durata: 114’ (versione televisiva: 180’); prima proiezione pubblica: 26/02/1981; distribuzione: Gaumont/CDI; v.m. 14 anni. 1982 | La Certosa di Parma

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dal romanzo di Stendhal; sceneggiatura: Jean Gruault, Enrico Medioli, Lucia Drudi Demby; fotografia (Technicolor, 1,37:1): Camillo Bazzoni; scenografia: Mario Chiari; costumi: Ugo Pericoli, Aldo Buti; musica: Paolo Terni; montaggio: Alessandro Lucidi; aiuto regista: Roberto Palmerini; interpreti: Marthe Keller [doppiata da Rita Savagnone] (Gina Sanseverina), Andrea Occhipinti (Fabrizio del Dongo), Gian Maria Volonté (conte Mosca), Pascale Reynaud (Clelia Conti), George Wilson [doppiato da Antonio Guidi] (principe Ernesto IV), Yann Babilée (principe ereditario), Piero Vida (Fabio Conti), Renato Scarpa (Rassi), Lucia Bosé (marchesa del Dongo), Muzzi Loffredo (marchesa Raversi), Antonello Fassari (Ludovico), Franco Ressel (generale Fontana), Giancarlo Badessi (Pernice), Jean Boissery (Ferrante Palla), Yves Beneyton (sergente a Waterloo), Fabio Traversa (antiquario), Marc Porel (tenente Robert), Heiner Lauterbach (conte Pietranera), Hans-Michael Rehberg (marchese del Dongo), Laura Betti (vivandiera), Nelly Borgeaud (principessa Clara Paolina), Peter Capell (abate Blanes), Mario Feliciani (monsignor Landriani), Roberto Herlitzska (Giletti), Ottavia Piccolo (Marietta), Giuliana Calandra (Elvira), Teresa Ann Savoy (principessa Pallavicino), Giancarlo Prati (Ascanio del Dongo), Bruno Visentin (Berda), Renato D’Amore (barbone), Marne Maitland (don Cesare), Paola Rinaldi (Cecchina); produzione: Rai - Radiotelevisione Italiana, Roberto Levi per ITF - Polytel Italiana, Herbert Kloiber per Telemünchen; origine: Italia/Francia/Rft; durata: 300’ (a 25 fot/sec), in 5 puntate; prima trasmissione: Rai 1, ore 20.40, dal 12/09/1982 al 18/10/1982. 1986 | La venexiana

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dall’omonima commedia di anonimo del XVI secolo; sceneggiatura: Massimo Franciosa, Mauro Bolognini; fotografia (Technicolor, 1,85:1): Beppe [Giuseppe] Lanci; scenografia: Gastone Carsetti; costumi: Aldo Buti; musica: Ennio Morricone; montaggio: Alessandro Lucidi; aiuto regista: Roberto Tatti; interpreti: Laura Antonelli (Angela),

Monica Guerritore (Valeria), Jason Connery [doppiato da Tonino Accolla] (Jules), Claudio Amendola (Bernardo), Clelia Rondinella (Oria), Cristina Noci (Nena), Stefano Davanzati (lenone), Annie Belle [Brilland] (prostituta); produzione: Ciro Ippolito per Lux International; origine: Italia; durata: 87’; prima proiezione pubblica: 04/04/1986; distribuzione: Titanus; v.m. 14 anni. 1987 | Mosca addio

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: Enrico Roseo, Marcello Andrei; sceneggiatura: Nicola Badalucco, con la collaborazione di Lucia Drudi Demby, Robert Balchus, Mauro Bolognini, Eric Bercovici; fotografia (Technicolor, 1,37:1): Ennio Guarnieri; scenografia: Francesco Ricceri; costumi: Enrica Biscossi; musica: Ennio Morricone; montaggio: Nino Baragli; aiuti regista: Andrea Bolognini, Francesco Papa; interpreti: Liv Ullmann [doppiata da Vittoria Febbi] (Ida Nudel), Daniel Olbrichski (Yuri), Aurore Clément (Elena), Anna Galiena (direttrice del campo di lavoro), Francesca Ciardi (poliziotta), Toni Orlandi (ex marito di Ida), Carmen Scarpitta (manifestante), Stefano Davanzati (violentatore), Saverio Vallone (giornalista); produzione: Enrico Roseo per Roseo Film, Istituto Luce, Rai, Sacis; origine: Italia; durata: 95’; prima proiezione pubblica: 19/02/1987; distribuzione: Istituto Luce. 1987/1988 | Gli indifferenti

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dal romanzo di Alberto Moravia; sceneggiatura: Enrico Medioli, Mauro Bolognini, Lucia Drudi Demby [non accreditato: Sergio Bazzini]; fotografia (Eastmancolor, 1,37:1): Ennio Guarnieri; scenografia: Francesco Frigeri; costumi: Aldo Buti (supervisione: Piero Tosi); musica: Ennio Morricone; montaggio: Alessandro Lucidi; aiuto regista: Andrea Bolognini; interpreti: Liv Ullmann [doppiata da Vittoria Febbi] (Mariagrazia Ardengo), Peter Fonda [doppiato da Ferruccio Amendola] (Leo Merumeci), SophieWard [doppiata da Cristina Boraschi] (Carla Ardengo), Chris Campion [doppiato da Oreste Baldini] (Michele Ardengo), Laura Antonelli (Lisa), Isabelle Pasco (prostituta), Rate Furlan (avvocato), Riccardo Salvino, Stefano Davanzati, Annie Belle [Brilland]; produzione: Ciro Ippolito per Lux Produzioni/Titanus [e Reteitalia, Betafilm, Group Seydoux, Maxwell Mirror]; origine: Italia/Rft/Francia/Gb; durata: 117’ (a 25 fot/sec);prima trasmissione: Rete 4, ore 20.30, 01/10/1988. 1989 | Vaghe Sembianze

Episodio della serie Tv Colpo di Fulmine. Regia: Mauro Bolognini; sceneggiatura: Simona Izzo, Roberta Colombo; fotografia: Giuseppe Ruzzolini; scenografia: Francesco Frigeri; interpreti: Jenny Seagrove, Vanni Corbellini, Clara Colosimo. Produzione: Alessandro Fracassi per Racing Pictures, Reteitalia, Telecip; durata: 30’. Nota: film non reperito. Titolo alternativo: Vaghe sembianze di Venezia. Alla stessa serie appartengono Permette questo ballo? di Enrico Maria Salerno, Passi felpati e Arrivederci Roma di Clive Donner. 1991 | La villa del venerdì

Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dal racconto omonimo di Alberto Moravia; sceneggiatura: Sergio Bazzini; dialoghi: Francesca Bregni; fotografia (Eastmancolor, 1,85:1): Giuseppe Lanci; scenografia: Claudio Cinini; costumi: Alberto Spiazzi e (per Joanna Pacula e Julian Sands) Giorgio Armani; musica: Ennio Morricone; montaggio: Sergio Montanari; aiuto regista: Andrea Bolognini; interpreti: Julian Sands [doppiato da Tonino Accolla] (Stefano), Joanna Pacula [doppiata da Liliana Sorrentino] (Alina), Tcheky Karyo [doppiato da Rodolfo Bianchi] (Paolo), Lara Wendel (Luisa), Marco Di Stefano (Piero), Veronica Del Chiappa (Sara), Jeanne Valérie (madre di Sara), Sonia Topazio (motociclista), Ines Nobili (prostituta); produzione: Galliano Juso per Metrofilm e P.A.C.; origine: Italia; durata: 90’; prima proiezione pubblica: 04/10/1991; distribuzione: Uip; v.m. 14 anni.

1995 | La famiglia Ricordi

Regia: Mauro Bolognini; soggetto e sceneggiatura: Enrico Medioli, Roberta Mazzoni, Sergio Bazzini, Ugo Pirro, Andrea Bolognini; fotografia (Telecolor, 1,77:1): Camillo Bazzoni; scenografia: Pierfrancesco Frigeri; costumi: Aldo Buti; supervisione alle musiche: Paolo Terni; montaggio: Paolo Benassi; aiuti regista: Andrea Bolognini, Francesco Papa; interpreti: Francesco Barilli (Giovanni Ricordi), Luca Barbareschi (Gioacchino Rossini), Angela Molina (Isabella Colbran), Alessandro Gassman (Gaetano Donizetti), CatherineWilkening (Giuditta Pasta), Kim Rossi Stuart (Vincenzo Bellini), Adriana Asti (Giovannina Lucca), Anna Kanakis (Maria Malibran), Mariano Rigillo (Giuseppe Verdi), Laura Morante (Giuseppina Strepponi), Domiziana Giordano (Teresa Stolz), Massimo Ghini (Giacomo Puccini), Lucrezia Lante della Rovere (Elvira Puccini), Edoardo Siravo (Tito Ricordi), Alain Cuny (Giovanni Paisiello), Mino Bellei (Somaglia), Arnaldo Ninchi (Barbaja), Melba Ruffo (Giuditta Turina), Vittoria Belvedere (Louise Lewis), Lino Capolicchio (Angelo Mariani), Carolina Rosi (Corinna), Daniel Ezralow (ballerino del Prometeo), Luigi Diberti (amico di Beethoven), Renato Scarpa (impresario di Rossini), Jeanne Valérie (madre della Strepponi), Giuditta Del Vecchio (Dorina), Cosimo Cinieri (pubblico ministero), Elio Pandolfi, Antonio Cantafora, Guerrino Crivello, Salvatore Puntillo, Sonia Topazio (prostituta); produzione: Rai 1, European Coproduction Association, Junior Film International; organizzazione: Manolo Bolognini; origine: Italia; durata: 330’ (a 25 fot/sec), in 4 puntate; prima trasmissione: 08/01/1995, Rai 1 (prima puntata). VARIE 1978 | La vita per un applauso

Regia: Mauro Bolognini e Guido Sacerdote; durata: 16’; prima trasmissione: 28/02/1978, Rai 2. 1978 | C’era una volta un ragazzo

Regia: Mauro Bolognini e Guido Sacerdote; durata: 13’; prima trasmissione: 21/05/1978, Rai 2. [Documentari per la rubrica “Odeon”: un incontro con l’ottantacinquenne tenore Giacomo LauriVolpi, e con un giovane che ha cambiato sesso] 1980 | Erté

Regia: Mauro Bolognini e Guido Sacerdote; prima trasmissione: 21/02/1980, Rai 1. 1980 | Vo’ da Maxim allor

Regia: Mauro Bolognini e Guido Sacerdote; prima trasmissione: 21/02/1980, Rai 1. 1980 | Il clan Bosé

Regia: Mauro Bolognini e Guido Sacerdote; prima trasmissione: 03/04/1980, Rai 1. [Documentari per la rubrica “Variety”: un incontro con l’ottantenne scenografo franco-russo, una storia del celebre ristorante parigino e un incontro con Lucia e Miguel Bosé] 1983 | I giorni di Pistoia

Regia: Mauro Bolognini; consulenza storica: Lucia Gai, Giancarlo Savino; supervisione: Giovanni Grazzini; fotografia (colore, 1,33:1): Tonino Nardi, Giuseppe Ruzzolini; montaggio: Alessandro Lucidi. Produzione: Cassa di risparmio di Pistoia e Pescia; durata: 38’. 1984 | Assassino

Regia: Mauro Bolognini; interprete: Amanda Lear; durata: 4’ [Videoclip trasmesso come sigla finale della trasmissione Be Bop Alula, su Italia 1]. 1989 | 12 registi per 12 città Palermo

Regia: Mauro Bolognini; fotografia: Ennio Guarnieri; produzione: Istituto Luce - Rai.

Nota: episodio di un documentario realizzato in occasione dei mondiali di calcio del 1990. Gli altri segmenti sono diretti da Michelangelo Antonioni (Roma), Giuseppe Bertolucci (Bologna), Carlo Lizzani (Cagliari), Alberto Lattuada (Genova), Mario Monicelli (Verona), Ermanno Olmi (Milano), Gillo Pontecorvo (Udine), Francesco Rosi (Napoli), Giovanni Soldati (Torino), Franco Zeffirelli (Firenze), LinaWertmüller (Bari). COLLABORAZIONI 1948 | Anni difficili

Regia: Luigi Zampa; assistente alla regia: Mauro Bolognini (non accreditato). 1949 | Campane a martello

Regia: Luigi Zampa; aiuto regista: Mauro Bolognini. 1950 | Cuori senza frontiere

Regia: Luigi Zampa; aiuto regista: Mauro Bolognini. 1950 | È più facile che un cammello…

Regia: Luigi Zampa; aiuto regista: Mauro Bolognini. 1951 | Signori, in carrozza!

Regia: Luigi Zampa; aiuti regista: Mauro Bolognini, Leopoldo Savona, Jean Laviron. 1952 | Processo alla città

Regia: Luigi Zampa; aiuti regista: Mauro Bolognini, Nanni Loy, Pietro Notarianni. 1952 | La Minute de verité | L’ora della verità

Regia: Jean Delannoy; consulente per l’edizione italiana: Mauro Bolognini. 1952 | Nez de cuir| Naso di cuoio

Regia: Yves Allégret; aiuto regista: Mauro Bolognini. 1953 | Ho scelto l’amore

Regia: Mario Zampi; assistenti alla regia: Mauro Bolognini, Franco Morabito. 1953 | Lasciateci in pace

Regia: Marino Girolami; aiuti regista: Mauro Bolognini, Carlo Moscovini. 1953 | Anni facili

Regia: Luigi Zampa; aiuti regista: Nanni Loy, Leopoldo Savona (e Mauro Bolognini, non accreditato). 1953 | Canzone appassionata

Regia: Giorgio C. Simonelli; sceneggiatura: Luigi Zampa, Gino De Sanctis, Mauro Bolognini, Jacques Remy. 1954 | L’arte di arrangiarsi

Regia: Luigi Zampa; aiuti regista: Ottavio Pellegrini (e Mauro Bolognini, non accreditato). 1954 | I cavalieri della regina

Regia: Joseph Lerner (e Mauro Bolognini?); sceneggiatura: Ennio De Concini, Ivo Perilli, John Rich, Golfiero Colonna, Mauro Bolognini. REGIE DI OPERE LIRICHE 1964

Tosca di Giacomo Puccini (Roma, Teatro dell’Opera) 1965

Ernani di Giuseppe Verdi (Palermo, Teatro Massimo)

1966

Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea (Firenze, Teatro Comunale) Manfredi di Byron, con musiche di scena di Robert Schumann (Roma, Teatro dell’Opera) 1967

Il pirata di Vincenzo Bellini (Firenze, Teatro Comunale) Il trovatore di Giuseppe Verdi (Roma, Teatro dell’Opera) 1968

La straniera di Vincenzo Bellini (Palermo, Teatro Massimo) 1969

La vestale di Gaspare Spontini (Palermo, Teatro Massimo) 1970

La traviata di Giuseppe Verdi (Verona, Arena) 1971

Pagliacci di Ruggero Leoncavallo e Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni (Firenze, Teatro Comunale) Elisabetta regina d’Inghilterra di Gioacchino Rossini (Palermo, Teatro Massimo) 1972

Norma di Vincenzo Bellini (Milano, Teatro alla Scala) Carmen di Georges Bizet (Milano, Teatro alla Scala) 1973

Mosè di Gioacchino Rossini (Firenze, Teatro Comunale) 1977

Norma di Vincenzo Bellini (Milano, Teatro alla Scala; anche regia della diretta su Rai 1, il 18/01/1977) 1978

Aida di Giuseppe Verdi (Venezia, Teatro La Fenice) 1979

Turandot di Giacomo Puccini (Verona, Arena) Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea (Verona, Arena; anche regia televisiva [Rai 2, 26/11/1979]) 1980

La fanciulla delWest di Giacomo Puccini (Roma, Teatro dell’Opera) 1981

Il duca d’Alba di Gaetano Donizetti (Firenze, Teatro Comunale) 1985

La vedova allegra di Franz Lehár (Napoli, Teatro San Carlo) 1991

Don Carlos di Giuseppe Verdi (Venezia, Teatro La Fenice) La vedova allegra di Franz Lehár (regia televisiva, Rai 2, 01/07/1991) Tosca di Giacomo Puccini (Roma, Teatro dell’Opera; anche regia televisiva [Rai 2, 08/07/1991]) Le fonti ricordano anche una Madama Butterfly e un Rigoletto. REGIE TEATRALI 1974

Il ritorno a casa di Harold Pinter (con Carla Gravina, Umberto Orsini, Corrado Pani, Mario

Carotenuto) 1975

Il sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare (con Bruno Cirino e Paola Pitagora) 1989

I giganti della montagna di Luigi Pirandello (nella Valle dei Templi di Agrigento, con Irene Papas e Luigi Pistilli) 1991

II sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare (con Paola Gassman e Ugo Pagliai) 1995

Così è se vi pare di Luigi Pirandello (al Teatro Nazionale di Roma, con Alida Valli) Le fonti ricordano anche regie di Filumena Marturano di Eduardo De Filippo e di Viaggio dentro la notte di Eugene O’Neill.

Su Bolognini non è stato scritto poco. Gran parte della produzione critica, tuttavia, è affidata a pubblicazioni di limitata diffusione e di ardua reperibilità. E molti suoi film sono rimasti inesplorati dopo le recensioni d’epoca. Finora sono mancate sia una filmografia affidabile, sia una bibliografia anche minima. Alle lacune della prima abbiamo cercato di ovviare nelle pagine precedenti, con un lavoro minuzioso, che corregge molti errori perpetuatisi negli anni. La bibliografia che segue è invece una primissima sistemazione, fortemente selettiva per quanto riguarda le recensioni. SAGGI E MONOGRAFIE Pietro Bianchi (a cura di), Mauro Bolognini -La Viaccia, Bologna, Cappelli, 1961 (ristampato nel 1978) [contiene la sceneggiatura del film, un profilo di Bolognini, interviste a Vasco Pratolini, Piero Tosi e Alfredo Bini, un testo di Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa]. Mauro Bolognini - Appunti sul cinema italiano/1, Roma, Istituto poligrafico dello Stato/Repubblica italiana/Ministero degli affari esteri [contiene l’intervista di Jean A. Gili del 1976 (cfr. infra) in tre lingue e il saggio di Gian Piero Brunetta Letteratura e cinema nell’opera di Bolognini]. Bruno Duval, Une question d’héritage. Note sur la matière et la manière d’un réaliste toscan, «La Revue du Cinéma - Image et Son», 317, maggio 1977.

Mauro Bolognini tra cinema e letteratura, Assisi, Ancci, 1990. Berenice [Jolena Baldini], Bolognini. Percorsi della memoria, Pistoia, Comune di Pistoia/Cassa di risparmio di Pistoia e Pescia, 1993 [Biografia-intervista illustrata, con un soggetto inedito e una selezione di recensioni a cura di Attilio Caselli]. Lino Miccichè (a cura di),“Il Bell’Antonio”di Mauro Bolognini. Dal romanzo al film, Torino, Associazione Philip Morris Progetto Cinema/Lindau, 1996 [con saggi di Callisto Cosulich, Micciché, Gian Carlo Ferretti, Tullio Kezich, Stefania Parigi, Bruno Torri, Vito Zagarrio, testimonianze, interviste a Claudia Cardinale e Marcello Mastroianni, e il découpage del film a cura di David Bruni]. Antonio Frintino e Pier Marco De Santi (a cura di), Mauro Bolognini. Cinema tra letteratura, pittura e musica. Restauro del film “La Viaccia”, Pistoia, Edizioni Brigata del Leoncino, 1996 [Atti del convegno, con interventi di Gian Piero Brunetta, De Santi, Simona Costa, Raffaele Monti, e testimonianze di Bolognini e Piero Tosi] Mauro Bolognini. Il fascino della forma, Ancci, 1996 [saggi di Alfredo Baldi, Cristina Bragaglia, Claudio Camerini, Luigi Cipriani, Fernaldo Di Giammatteo, Massimo Giraldi, Elio Girlanda, Ruggero Guarini, Ernesto G. Laura, Enrico Magrelli, Aldo Nicastro, Angelo Pizzuto, Luca Verdone, e la ristampa di tre interviste]. Antonio Frintino (a cura di), Metello - Una storia italiana, Pistoia, Edizioni Brigata del LeoncinoConfartigianato, 1998 [contiene saggi di Simona Costa e Pier Marco De Santi, e un’intervista a Bolognini]. Pier Marco De Santi, Libera, amore mio… -Una storia dell’Italia, Pistoia, Edizioni Brigata del LeoncinoConfartigianato, 1999 [contiene il soggetto originale di Luciano Vincenzoni]. Antonio Frintino e Pier Marco De Santi (a cura di), Mosca Addio. Storia di Ida Nudel ebrea russa dissidente deportata, Pistoia, Edizioni Brigata del Leoncino-Confartigianato, 1999 [contiene saggi di Simona Costa e De Santi, e la sceneggiatura originale di Nicola Badalucco]. Pier Marco De Santi, “Suggestioni figurative in La Viaccia e Metello di Bolognini”, in Leonardo De Franceschi (a cura di), Cinema/Pittura. Dinamiche di scambio, Torino, Lindau, 2003. Jean A. Gili, Mauro Bolognini, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Dizionario dei registi del cinema mondiale, Torino, Einaudi, 2005. Barbara Sturmar (a cura di), Senilità di Mauro Bolognini, Pistoia, Centro Mauro Bolognini/Comune di Trieste, Servizio Bibliotecario Urbano - Museo Sveviano, 2005. Antonio Frintino (a cura di), Cinema e letteratura. La donna, la storia. Atti del convegno, Pistoia, Centro Mauro Bolognini, 2006 [cfr. in particolare gli inteventi di Laura Diafani su Bolognini e Palazzeschi, e di Valerio Acampora sul sequel di Il Gattopardo]. INTERVISTE E DICHIARAZIONI Tullio Kezich, «Settimo giorno», 59, 1959; 3, 1961 [entrambe sono riprodotte in Mauro Bolognini. Il fascino della forma, cit.]. Esiste un nuovo cinema italiano? (tavola rotonda), «Filmcritica», 88, 1959. Alfredo Todisco, La pagina scritta sullo schermo, «Corriere della sera», 20/10/1963. Jean A. Gili, in Le cinéma italien, Paris, 10/18, 1978 (tradotta in Mauro Bolognini -Appunti sul cinema italiano/1, cit.). Ranuccio Bastoni, Furente il regista Bolognini: «Assassinano un mio film!», «Corriere d’informazione», 02/05/1974. Gian Luigi Rondi, «Il Tempo», 17/05/1975. Gian Luigi Rondi, «Il Tempo», 22/02/1981. Mauro Bolognini, Film di qualità senza truffare il pubblico, «La Stampa», 09/08/1977. Anna Maria Mori, Gli amori dolci, impossibili della nostra gente perbene, «la Repubblica», 27/09/1978. Maria Pia Fusco, Dentro la scatola della memoria, «la Repubblica», 13/12/1981. Maria Serena Palieri, Scandalose venexiane, «l’Unità», 21/01/1986 Catherine Spaak, «Corriere della sera», 22/05/1986. Mino Guerrini, Vestiranno alla marinara, «Epoca», 12/06/1988. Andreina De Tomassi, Preferite la moglie o l’amante?, «Il Venerdì di Repubblica», 01/03/1991. Alain Elkann, «La Stampa», 13/08/1992 (poi in Interviste 1989-2000, Milano, Bompiani, 2000). Memoria, mito, storia. La parola ai registi. 37 interviste, a cura di Alessandro Amaducci, Giovanna

Boursier, Rosa Carluccio, Daniele Gaglianone, Giacomo Gambetti, Paolo Gobetti, Paola Olivetti, Franco Prono, Torino, Regione Piemonte/Archivio Nazionale Cinematografo della Resistenza, 1994. RECENSIONI E MATERIALI SUI SINGOLI FILM Gli innamorati

Ugo Casiraghi («l’Unità», 06/04/1956); Arturo Lanocita («Corriere della sera», 06/04/1956); Gian Luigi Rondi, «Il Tempo», 28/01/1956; Lamberto Sechi, «La settimama Incom illustrata», 28/04/1956. Marisa la civetta

Ugo Casiraghi (l’Unità, 10/01/1958); Giuseppe Marotta («L’Europeo»), in Marotta ciak, Milano, Bompiani, 1958. Giovani mariti

Giulio Cattivelli («Libertà») in Al cinema con Cat. Giulio Cattivelli e i film italiani (1945-1994), a cura di Mario Molinaroli e Stefano Pareti, Piacenza, Berti, 2006; Leo Pestelli («La Stampa», 14/03/1958); Tullio Kezich («Sipario», maggio 1958). “Arrangiatevi”

Adelio Ferrero («Cinema nuovo»), in Per un altro cinema. Recensioni e saggi 1956-1977, Alessandria, Falsopiano, 2005. La notte brava

Ugo Casiraghi (l’Unità, 19/11/1959); Tommaso Chiaretti, («Il Paese», 19/11/1959); Maurizio Liverani («Paese sera», 20/11/1959); Alberto Moravia («L’Espresso», 22/11/1959). Il bell’Antonio

Pietro Bianchi («Il Giorno», 05/03/1960); Ugo Casiraghi («l’Unità», 05/03/1960); Giulio Cattivelli («Libertà») in Al cinema con Cat, cit.; Alberto Moravia («L’Espresso», 13/03/1960); Pier Paolo Pasolini, “Il messaggio del Bell’Antonio: confessioni d’uno sceneggiatore”, in I film degli altri, a cura di Tullio Kezich, Parma, Guanda, 1996; Morando Morandini («La notte», 05/03/1960); Lorenzo Pellizzari («Cinema nuovo», 144, 1960); Filippo Sacchi («Epoca»), in L’epoca di Filippo Sacchi. Recensioni 1958-1971, a cura di Nuccio Lodato, Falsopiano, Alessandria, 2003; Angelo Solmi («Oggi», 17/03/1960); Gianni Amelio (I muri di Bolognini, «Film TV», XIII, 15, 17-23 aprile, 2005); Dino Messina («Il bell’Antonio» che scandalizzò i democristiani, «Corriere della Sera», 20/07/2007). La giornata balorda

Marco Bellocchio («Film selezione», 8, 1961); Edoardo Bruno («Filmcritica», 103-104, 1960); Alberto Moravia («L’Espresso», 27/11/1960); Lorenzo Pellizzari («Cinema nuovo», 151, 1961); Paolo Valmarana («Bianco e Nero», XXII, 1, 1961); Ludovico Zorzi («Comunità», XIV, 77, febbraio 1960). La Viaccia

Giovanni Arpino («Stasera», 14/12/1961); Marco Bellocchio («Film selezione», 8, 1961); Edoardo Bruno («Filmcritica», 114, 1961); Ugo Casiraghi («Cinema nuovo», 151, 1961); Massimo Mida («Cinema 60», 15/18, 1961); Filippo Sacchi («Epoca»), in L’epoca di Filippo Sacchi. Recensioni 1958-1971, cit.; Piero Tosi («Fiera del cinema», 11, 1960 e 1, 1961). Agostino

Ugo Casiraghi (l’Unità, 08/12/1962); Fernaldo Di Giammatteo («Bianco e Nero», XXIV, 3, 1963); Tullio Kezich, in Il FilmSessanta, Milano, Il Formichiere, 1979; Alberto Moravia («L’Espresso», 16/12/1962). Senilità

Pietro Bianchi («Il Giorno», 14/03/1962); Adelio Ferrero («Cinema nuovo», 156, 1962); Giovanni Grazzini («Corriere della sera»), in Gli anni Sessanta in cento film, Bari, Laterza, 1978; Tullio Kezich, in Il FilmSessanta, cit.; Alberto Moravia («L’Espresso», 18/03/1962); Morando Morandini («Stasera», 14/03/1963); Antonello Trombadori («Vie nuove», 15/03/1962). La corruzione

Ugo Casiraghi (l’Unità, 13/12/1963); Giovanni Grazzini («Corriere della sera», 13/12/1963); Tullio Kezich, in Il FilmSessanta, cit.; Filippo Sacchi («Epoca»), in L’epoca di Filippo Sacchi. Recensioni 19581971, cit.; Sandro Zambetti («Cineforum», 33, marzo 1964). La mia signora

Angelo Solmi («Oggi», 25/11/1964); Sandro Zambetti («Cineforum», 40, dicembre 1964). La donna è una cosa meravigliosa

Ugo Casiraghi (l’Unità, 13/3/1966); Giacomo Gambetti («Cineforum», 38/39, 1964). Le bambole

Mario Soldati («Rivista del cinematografo», 3, 1965). I tre volti

Adriano Aprà («Filmcritica», 154, 1965); Tullio Kezich, in Il FilmSessanta, cit. Madamigella di Maupin

Ugo Casiraghi (l’Unità, 14/01/1966); Tullio Kezich, in Il FilmSessanta, cit.; Alberto Moravia («L’Espresso», 23/01/1966). Le fate

Pietro Bianchi («Il Giorno», 22/11/1966); Giovanni Grazzini («Corriere della sera», 26/11/1966). Un bellissimo novembre

Tullio Kezich, in Il MilleFilm, Milano, Il Formichiere, 1977; Giuseppe Turroni («Bianco e Nero», XXX, 9/10, 1969); Gérard Legrand (Ce merveilleux automne, «Positif», 138, maggio 1972). L’assoluto naturale

Callisto Cosulich («ABC», 23/05/1969); Oreste del Buono («L Europeo»), in Il comune spettatore, Milano, Garzanti, 1979; Giovanni Grazzini («Corriere della sera», 14/11/1969); Angelo Solmi («Oggi», 03/12/1969); «Cinesex», 37, 16/04/1971 (cineromanzo dalle foto di scena di Mauro Novi). Metello

Aldo Bernardini («Bianco e Nero», XXXI, 5/6, 1970); Ugo Casiraghi («l’Unità», 11/03/1970); Ermanno Comuzio («Cineforum», 92-93, maggio-agosto 1970); Oreste del Buono («L Europeo», 26/03/1970); Adelio Ferrero («Mondo Nuovo», 05/04/70); Giovanni Grazzini («Corriere della sera»), in Gli anni Settanta in cento film, Laterza, Bari, 1988; Tullio Kezich, in Il MilleFilm, cit.; Lino Micciché («Avanti!»), in Cinema italiano degli anni 70, Venezia, Marsilio, 1980; Morando Morandini («Tempo», 21/03/1970); Giovanni Raboni («Avvenire», 11/03/1970); Filippo Sacchi («Epoca», 12/04/1970); Aggeo Savioli (l’Unità, 19/03/70); Paolo Valmarana («Il Popolo», 19/03/70); Antonello Trombadori («Vie nuove», 15/03/1970). Bubù

Pietro Bianchi («Il Giorno», 24/02/1971); Ugo Casiraghi («l’Unità», 24/02/1971); Tullio Kezich, in Il MilleFilm, cit.; Lino Micciché («Avanti!»), in op. cit.; Alberto Moravia («LEspresso»), in Al cinema, Milano, Bompiani, 1975; Raphaël Bassan (Bubu, «Ecran 77», 57, aprile 1977); Bruno Duval («La Revue du Cinéma - Image et Son», 316, aprile 1977). Imputazione di omicidio per uno studente

Pietro Bianchi («Il Giorno», 22/01/1972); Ugo Casiraghi («l’Unità», 22/01/1972); Giovanni Grazzini («Corriere della sera», 23/01/1972). Fatti di gente perbene

Pietro Bianchi («Il Giorno», 23/10/1974); Giovanni Grazzini («Corriere della sera», 23/10/1974); Tullio Kezich, in Il MilleFilm, cit.; Salvatore Piscicelli («Cinema 60», 99, 1974); Maurizio Porro («Cineforum», 140, gennaio 1975); Francesco Savio («Il Mondo»), in Il mondo di Francesco Savio. Recensioni 1973-1976, a cura di Francesco Cordelli e Emidio Greco, Falsopiano, Alessandria, 2002. Si veda anche Renzo Renzi, Il processo Murri, Bologna, Cappelli, 1974 (con uno scritto di Mauro Bolognini). Libera, amore mio…»

Pietro Bianchi («Il Giorno», 22/03/1975); Ugo Casiraghi (l’Unità, 22/03/1975); Bruno Damiani («Cineforum», 146, agosto 1975); Giovanni Grazzini («Corriere della sera», 22/03/1975); Tullio Kezich, in Il MilleFilm, cit.; Francesco Savio («Il Mondo»), in op. cit.; Massimo Mida Puccini («Giorni», 06/08/1975); Angelo Solmi («Oggi», 09/04/1975). Per le antiche scale

Giulio Cattivelli («Libertà») in op. cit.; Tullio Kezich, in Il MilleFilm, cit.; Morando Morandini («Il Giorno», 22/11/1975); Francesco Savio («Il Mondo») in op. cit.; Aldo Tassone (Vertiges, «La Revue du Cinéma -Image et Son», 317, maggio 1977). L’eredità Ferramonti

Ugo Casiraghi (l’Unità, 03/10/1976); Giovanni Grazzini («Corriere della sera», 18/09/1976); Morando Morandini («Il Giorno», 03/10/1976); Claire Clouzot (L’Héritage Ferramonti, «Ecran 77», 57, aprile 1977; nello stesso numero compare anche un’intervista a Dominique Sanda); Raymond Lefèvre («La Revue du Cinéma - Image et Son», 318, giugno-luglio 1977); Paul Vecchiali («Saison 77»); Philip Strick (The Inheritance, «Monthly Film Bulletin», november 1975).

Gran bollito

Ermanno Comuzio («Cineforum», 170, dicembre 1977); Giovanni Grazzini («Corriere della sera»), in Cinema 77, Bari, Laterza, 1978; Tullio Kezich («la Repubblica», 24/10/1977); Piero Sola («Bianco e Nero», XXXIX, 1, gennaio-febbraio 1978); Lorenzo Codelli («Positif», 208-209, 1978). Dove vai in vacanza?

Giovanni Grazzini («Corriere della sera», 22/12/1978), Tullio Kezich («la Repubblica», 22/12/1978); Jean A. Gili («Ecran 79», 85, 1979). La storia vera della Signore dalle Camelie

Ugo Casiraghi (l’Unità, 27/02/1981); Tullio Kezich («la Repubblica», 27/02/1981); Stefano Reggiani («La Stampa», 03/04/1981); Robert Grelier (La Dame aux Camélias, «La Revue du Cinéma - Image et Son», 360, aprile 1981); Gérard Legrand («Positif», 242, maggio 1981). La venexiana

Giovanni Grazzini («Corriere della sera»), in Cinema ’86, Bari, Laterza, 1987; Tullio Kezich, in Il FilmOttanta – Cinque anni al cinema (1982-1986), Milano, Oscar Mondadori, 1986; Stefano Reggiani («La Stampa», 05/04/1986). Mosca addio

Sauro Borelli (l’Unità, 20/02/1987); Renzo Fegatelli («la Repubblica», 21/02/1987). La villa del venerdì

Irene Bignardi («la Repubblica», 10/10/1991); Tullio Kezich («Corriere della sera», 10/10/1991). FONTI STORICHE, DOCUMENTI, RACCOLTE DI TESTIMONIANZE (in ordine alfabetico) Adriano Aprà e Stefania Parigi (a cura di), Moravia al nel cinema, Roma, Associazione Fondo Alberto Moravia, 1993. Archivio informatico del cinema italiano (www.anica.it). Alfredo Baldi, Schermi proibiti. La censura in Italia 1947-1968, Roma, Biblioteca di Bianco & Nero, 2003. Maurizio Baroni, Platea in piedi. Manifesti e dati statistici del cinema italiano (tre volumi, 1945-1978), Sasso Marconi, Bolelli, 1995-1999. Sandro Bernardi (a cura di), Storia del cinema italiano, Volume IX - 1954/1959, Marsilio-Edizioni di Bianco & Nero, Venezia-Roma 2004. Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, voll. 3 e 4, Roma, Editori Riuniti, 1982. Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo, Roma-Bari, Laterza, 2007. Gianni Canova (a cura di), Storia del cinema italiano, Volume XI - 1965/1969, Marsilio-Edizioni di Bianco & Nero, Venezia-Roma 2002. Stefano Consiglio e Fabio Ferzetti (a cura di), Le botteghe della luce, Milano, Ubulibri, 1983. Nicola De Cilia, “Attenzione alla puttana santa: Goffredo Parise e il cinema”, in Giancarlo Beltrame (a cura di), Luci sulla città. Treviso e il cinema, Livio Fantina e Paolo Romano, Venezia, Marsilio, 2005. Caterina d’Amico de Carvalho, Guido Vergani, Piero Tosi: costumi e scenografie, Milano, Leonardo Arte, 1997. Luciano De Giusti (a cura di), Storia del cinema italiano, Volume VIII - 1949/1953, Marsilio-Edizioni di Bianco & Nero, Venezia-Roma 2003. Daniele Del Pozzo e Luca Scarlini (a cura di), Gay - La guida italiana in 150 voci, Milano, Mondadori, 2006. Giorgio De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano, Volume X - 1960/1964, Marsilio-Edizioni di Bianco & Nero, Venezia-Roma 2001. Franca Faldini e Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti. 1935-1959, Milano, Feltrinelli, 1979. Franca Faldini e Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti. 1960-1969, Milano, Feltrinelli, 1981. Franca Faldini e Goffredo Fofi (a cura di), Il cinema italiano d’oggi 1970-1984 raccontato dai suoi protagonisti, Milano, Mondadori, 1984. Francesco Freda, 50 anni allo specchio senza guardarsi. Il cinema nel diario di un truccatore, Roma, Gremese, 1996. Lino Micciché, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, Venezia, Marsilio, 2002.

Andrea Pergolari, La fabbbrica del riso. 32 sceneggiatori raccontano la storia del cinema italiano, Roma, Un mondo a parte, 2004. Pier Paolo Pasolini, Per il cinema, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, Milano, Mondadori, 2001. Roberto Poppi, Dizionario del cinema italiano. I film vol. II. Tutti i film italiani dal 1945 al 1959, Roma, Gremese, 2007. Roberto Poppi, Mauro Pecorari, Dizionario del cinema italiano. I film vol. III. Tutti i film italiani dal 1960 al 1969, Roma, Gremese, 2006. Roberto Poppi, Mauro Pecorari, Dizionario del cinema italiano. I film vol. 4. Dal 1970 al 1979, Roma, Gremese, 1996. Roberto Poppi, Dizionario del cinema italiano. I fdm vol. 5. Dal 1980 al 1989, Roma, Gremese, 2000. Tatti Sanguineti (a cura di), Italia Taglia, Ancona-Milano, Transeuropa, 1999. Tatti Sanguineti (a cura di), Il cinema secondo Sonego, Bologna, Transeuropa, 2000. RINGRAZIAMENTI Alberto Pezzotta ringrazia: Sergio Toffetti e Domenico Monetti/CSC (per Arabella e L’assoluto naturale), Roberto Cadonici e Massimo Donnini/Centro Mauro Bolognini di Pistoia, Lorenzo Pellizzari e il suo archivio, Silvio Alovisio/Museo Nazionale del cinema/Fondazione M.A. Prolo, Anna Gilardelli, Gabriele Giuli, Sara D’Amario, Fabio Francione, Roberto Poppi, Enrico Lancia, Alberto Spadafora, Luciano De Giusti, Paolo Mereghetti, James Demby, Francesco Barilli. Pier Maria Bocchi ringrazia: Arturo Invernici/Fondazione Alasca, Cristina D’Osualdo/Ripley’s Home Video, Jacopo Sgroi/Dolmen Home Video, Luca Malavasi per alcune ricerche d’archivio, Gianluigi Negri per Amanda Lear.

Indice Bolognini secondo Bolognini Mauro Bolognini Un regista rimosso Da Pistoia a Cinecittà Ci troviamo in galleria La vena d’oro Gli innamorati Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo Marisa la civetta Giovani mariti “Arrangiatevi” La notte brava e La giornata balorda Il bell’Antonio La Viaccia Senilità Agostino La corruzione La donna è una cosa meravigliosa Splendore e decadenza dei film a episodi Madamigella di Maupin Arabella Un bellissimo novembre L’assoluto naturale Metello e Bubù Imputazione di omicidio per uno studente Libera, amore mio… Fatti di gente perbene Per le antiche scale L’eredità Ferramonti Gran bollito Sarò tutta per te La storia vera della Signora dalle Camelie La Certosa di Parma La venexiana Mosca addio Gli indifferenti La villa del venerdì La famiglia Ricordi Un regista fuori dal coro Filmografia Nota bibliografica