Il mondo naturale e la fenomenologia 8884831601, 9788884831606

Allievo sia di Husserl sia di Heidegger, per il suo progetto di sviluppare la ricerca del primo coniugandola con la svol

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Il mondo naturale e la fenomenologia
 8884831601, 9788884831606

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Jan Patočka

Il mondo naturale e la fenom enologia a cura di Alessandra Pantano

Allievo sia di Husserl sia di Heidegger, per il suo progetto di sviluppare la ricerca del primo coniugan­ dola con la svolta ontologica del secondo, il boemo Jan Patočka (Turnov 1907-Praga 1977) è considera­ to uno degli interpreti più originali della fenomeno­ logia contemporanea. Filo conduttore del pensiero di Patočka è una rinno­ vata riflessione sul mondo naturale, indagato nella complessità dei suoi rapporti con l’esistenza umana. Per la prima volta questa riflessione viene qui pre­ sentata al lettore italiano attraverso i suoi saggi più significativi, composti tra il 1965 e il 1972: gli anni in cui Patočka conduce la propria riflessione filoso­ fica nella dura situazione di emarginazione cui è sot­ toposto dal regime totalitario cecoslovacco.

Alessandra Pantano (Verona, 1975) è specialista del pen­ siero di Jan Patočka, che ha stuccato anche mediante alcuni soggiorni presso l’archivio Patočka di Praga. Ha curato la traduzione e l'introduzione di alcuni testi filosofo ceco per le riviste “aut aut” e “humanitas”.

ISBN 88-8483-160-1

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INDICE

Alessandra Pantano U na riflessione filosofica a partire DAL MONDO NATURALE

p.

7

Guido Davide Neri La

fenomenologia

p. 33

(a cura di Alessandra Pantano) N ota editoriale

p. 54

Il mondo naturale e la fenomenologia

p. 55

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Per la preistoria della scienza del movimento: il mondo, la terra, il cielo e il movimento T della vita umana Il mondo naturale e la fenomenologia La filosofia della crisi delle scienze secondo Edmund Husserl e la sua concezione di una fenomenologia del “mondo della vita” Intero del mondo e mondo dell’uomo

p. 57 p. 73

p. 127 p. 149

Alessandra Pantano

UNA RIFLESSIONE FILOSOFICA A PARTIRE DAL MONDO NATURALE a G uido

1. La formazione filosofica di Jan Patočka In un’intervista del 1967, concessa in occasione del suo sessantesimo compleanno, Jan Patočka ricordava: “Friburgo rappresentò in primo luogo l 'incontro personale con Husserl. Egli, pur essendo in pensione dal 1929, mi accolse a braccia aperte; mi metteva in guardia contro il tentativo di combinare la sua filosofia con quella di Heidegger, tanto che non voleva neppure che io frequentassi le lezioni di Heidegger, cosa che io, in quanto borsista, ero tenuto, e a cui sinceramente tenevo. Gli dedicai però privatamente tutta la mia attenzione te il mio tempo: in particolare chiesi a E. Fink, che allora era assistente e che ora è ordinario all’Università di Friburgo, di rivedere sistematicamente con me una serie di problemi fondamentali per la comprensione della fenomenologia”1. Jan Patočka nacque nel 1907 nella città di Turnov, nella Boemia orientale. Fin dai suoi primi studi filosofici, egli dimo­ strò un particolare interesse per la fenomenologia: in essa sco­ priva una possibilità, per il pensiero filosofico contemporaneo, di superare i limiti del positivismo e del neopositivismo. La sua formazione filosofica iniziò alla fine degli anni Venti a Parigi, all’Università della Sorbona, dove ebbe modo 1

J. Patočka, Sulla filosofia e sui filosofi , in appendice a Id., Saggi ere­ tici sulla filosofia della storia , tr. it. di G. Pacini, CSEO, Bologna 1981, pp. 169-170.

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di conoscere Brehier, Lalande Gilson, Koyré, ma soprattutto come egli stesso ricorda in quell’intervista - di incontrare per la prima volta Edmund Husserl, verso il quale provava profonda ammirazione e stima intellettuale. Era il 1929 e Husserl teneva i Discorsi parigini. Quattro anni più tardi, con la borsa di studio della fonda­ zione “A. Humboldt”, Patočka poté continuare i suoi studi a Berlino e a Friburgo, dove diventò un allievo personalmente vicino a Husserl e un uditore dei corsi di Heidegger. Fu so­ prattutto l’assistente di Husserl, Eugen Fink, a richiamare l’attenzione di Patočka sulla straordinaria speculazione filo­ sofica di Heidegger e sulla svolta ontologica che aveva im­ presso alla fenomenologia. Nonostante le divergenze tra Hus­ serl e Heidegger, Patočka volle frequentare entrambi i pensa­ tori, confrontando le loro due posizioni fenomenologiche. In questo suo tentativo Patočka ebbe un solo maestro, Fink, che era in grado di “criticare acutamente Heidegger dal punto di vista della fenomenologia husserliana di quel periodo, e natu­ ralmente anche Husserl dal punto di vista di Heidegger”2. In questo incrocio di lezioni, seminari e colloqui, Patočka cominciò a maturare l’idea filosofica del mondo naturale. Nel 1936 inaugurò le sue attività all’Università Carolina a Praga con l’opera II mondo naturale come problema filosofico. Dal 1939 fino alla sua morte le sue attività universitarie furono continuamente ostacolate dai diversi regimi totalitari succe­ dutisi in Cecoslovacchia. Fu quello un lungo periodo di occu­ pazioni e persecuzioni, prima da parte della Germania nazi­ sta, poi, dal 1948, da parte del regime comunista, a cui Patočka si oppose durante la Primavera di Praga diventando infine uno dei leader di “Charta 77”3. 2 3

Ibidem . “Solamente nel 1945 Patočka riprende il suo insegnamento, che inter­ rompe nel dicembre 1949 a causa del nuovo potere. Lavora quindi per due anni all’Istituto Masaryk, che poi viene chiuso; e diventa uno

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2 . La tematizzazione del mondo naturale Il concetto di mondo naturale ha sempre occupato un posto centrale nel pensiero di Patočka, tale da costituire il filo con­ duttore di tutto il suo pensiero filosofico. La tematizzazione del problema del mondo naturale corrisponde per il filosofo ceco al tentativo di affrontare una serie di problemi: in primo luogo significa impegnarsi a “cogliere i problemi autentici sotto la superficie delle certezze apparenti generalmente ac­ cettate”, ossia a problematizzare l 'ovvietà del mondo che si impone nella quotidianità media. Nell’epoca della scienza e della tecnica, il mondo in cui viviamo è infatti inserito all’intemo di un processo universale di oggettivazione in cui tutto ciò che è, compresa l 'esistenza umana, diviene un oggetto di calcolo e di fruizione, una risorsa di sfruttamento immediato. In secondo luogo, il tema del mondo naturale si intreccia con il motivo per cui l '“inaudito slancio” proprio della potenza umana, invece di rendere “l’uomo più contento di sé e riconci­ liato”, ha paradossalmente “condotto a dei cataclismi storico­ sociali di immensa portata”. Non per ultimo, “nell’epoca in cui il capitalismo è trapassato in un supercapitalismo mono­ polistico e in cui anche il suo rivale critico, il socialismo, mu­ ta le proprie forme e constata criticamente i fenomeni di alie­ nazione all‘interno del suo stesso corpo sociale, il porre il problema del mondo naturale è diventata una questione urdei collaboratori deiristituto di Pedagogia J.A. Komenský. Nel 1958 sarà membro dell’Istituto di filosofia dell’Accademia delle Scienze. Nel 1968, durante il governo Dubček, viene nominato professore or­ dinario alla facoltà di filosofìa. Riprende i suoi corsi per qualche me­ se. Quando non gli sarà più possibile, per decreto, di pubblicare e di occupare il suo posto, continuerà a tenere in privato, secondo il suo ritmo accademico abituale, alcuni seminari di filosofia seguiti da un gruppo molto attivo di universitari diplomati provenienti da diverse facoltà” (H. D eclève, Patočka et les signes du temps, “Etudes phé­ noménologiques”, 1, 1985, p. 25).

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gente, anche se con ciò non si pretende di scoprire né di pro­ mettere alcun toccasana universale, né un capovolgimento sensazionale della situazione”4. Confrontandosi con le riflessioni fenomenologiche di Hus­ serl e di Heidegger e con i loro limiti5, Patočka cerca insomma di rinnovare la concezione del problema del mondo naturale, riportandola alla complessità del rapporto tra mondo ed esi­ stenza umana e inquadrandola in una dimensione storica. A suo avviso, se da un lato Husserl ha tentato di dare realtà e fi­ ducia alle cose stesse ripensando il nostro rapporto con il mon­ do della vita, dall’altro non ha portato a termine la sua analisi strutturale del mondo naturale “fino all’uomo nei concreti fe­ nomeni del lavoro, della produzione, dell’azione e dell’opera”. L’analisi di Husserl si è limitata a considerare l’origine dell’og­ gettivazione nell’ambito del pensiero filosofico europeo, ricon­ ducendo questo mondo naturale, incerto e relativo, alla co­ scienza pura e assoluta. Patočka scorge un limite anche nelle analisi filosofiche di Heidegger: se da un lato a quest’ultimo spetta il merito di aver scoperto il movimento di perdita di sé dell’esistenza umana, dall’altro egli limita il problema dell’oggettivazione al “destino metafisico di cui siamo diventati vitti­ me e al cui pericolo dobbiamo rimanere esposti”. L’analisi fenomenologica del mondo naturale di Patočka si guarderà dal non cadere da un lato “in quel soggettivismo che scorge l’assoluto stesso nel fondo dell’uomo” e dall’altro “nell’irrazionalismo di quell’essere preliminare alla cui gra­ zia e disgrazia si troverebbe esposto il senso stesso dell’esse­ re umano” 6. 4 5

6

J. Patočka, Il mondo naturale e la fenomenologia, infra, pp. 84-85. Le riflessioni fenom enologiche di Husserl e di Heidegger sul tema del mondo naturale sono delineate da G. D. Neri nelle pagine qui di seguito riprodotte. J. Patočka, Il mondo naturale e la fenomenologia, infra, p. 126.

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In questa problematica la posta in gioco è alta: nel liberare il mondo dal progetto di dominio della tecno-scienza, ne va del destino dell’Europa. Il XX secolo è considerato da Patočka il secolo in cui l’Europa delle grandi potenze, giunta sull’orlo dell’abisso, si prepara alla catastrofe finale. In questo secolo di guerre, in­ fatti, a suo avviso si respira in ogni paese europeo la consape­ volezza dell’ineluttabile declino dell’Europa. Nelle parole di Patočka sul “profondo smarrimento, di per­ dita di ogni fondamento” si sente l’eco delle conferenze di Husserl sulla crisi delle scienze europee, tenute a Vienna e a Praga nel 1935 e organizzate dallo stesso Patočka con Land­ grebe in collaborazione con il Circolo filosofico di Praga7. Come spiega il filosofo praghese, poco prima della guerra Husserl aveva saputo annunciare “la crisi della ragione euro­ pea, una ragione che, senza perdere la sua efficacia teorica e pratica, ha tuttavia visto svanire il suo fondamento essenziale, 7

N ell’intervista del 1967 Patočka afferma: “A Natale del 1934-35 fui ospite di Husserl a Friburgo e con lui approntai un lavoro insieme con il Circolo stabilendone tutte le modalità; parlammo anche delle lezio­ ni che egli avrebbe tenuto a Praga nell’autunno di quell’anno; furono l ’embrione dell’ultima incompiuta opera di Husserl La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale” (J. Patočka, Sul­ la filosofia e sui filosofi, cit., pp. 174-175). Dopo la morte del mae­ stro nel 1938, Patočka iniziò l’opera di salvataggio del vasto lascito manoscritto husserliano che sarà poi completata a Lovanio, in Belgio, dal filosofo francescano Padre van Breda. “Alla fine del 1938 - rac­ conta Patočka in quella intervista - dopo Monaco, in un momento in cui tutto era dato per perso, giunse a Praga un giovane era il filo­ sofo francescano di Lovanio H. Leo van Breda. Era esperto di feno­ menologia husserliana e consapevole dell’importanza dei manoscritti inediti; aveva accertato la loro collocazione e sapeva che la maggior parte di essi doveva trovarsi in qualche luogo della Germania, in ma­ no a persone a cui erano stati affidati dalla moglie di Husserl; nel no­ stro archivio a Praga avevamo conservato due manoscritti già trascrit­ ti da Landgrebe, il quale era solito portarne qualche pagina per volta” (J. Patočka, Sulla filosofia e sui filosofi, cit., pp. 177-178).

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il suo significato esistenziale, la sua giustificazione interna e la sua verità profonda”8. La riflessione di Patočka è dunque il frutto dell’esperienza dell’Europa dell’Est, con il fallimento del suo mito rivoluzio­ nario, e dell’Ovest, con la sua logica di dominio reazionario. Con la sconfitta di questi due mondi, sorgono per lui alcune decisive domande, quali: è possibile pensare a un mondo nuovo? Che senso può avere ancora cercare un’identità del­ l’Europa di fronte al suo declino?

3. 1 movimenti dell’esistenza umana “Il mondo naturale, - scrive Patočka - il mondo della vita umana, si può comprendere [...] solo come il complesso dei modi essenziali del comportamento umano, dei suoi presup­ posti e sedimenti. [...] Soltanto uno di essi è indirizzato verso il tema dell’apertura, del manifestarsi, del disvelarsi e della tradizione. Gli altri hanno per loro tema il radicarsi dell’uomo nella regione aperta del mondo comune degli uomini, nonché la difesa e la conservazione di questo mondo. Soltanto l’esa­ me e la comprensione dei rapporti reciproci di tutti questi movimenti potrebbe dare l’immagine di che cos’è il mondo naturale, il mondo della vita umana. Ma siamo ancora lontani dalla soluzione di questo problema”9. Secondo il filosofo ceco, l 'esistenza umana si dispiega in tre movimenti, ognuno dei quali ha un suo senso, una propria forma originaria e una diversa temporalità: innanzitutto il movimento del radicamento e dell’accettazione del mondo, 8

J. Patočka, La filosofia della crisi delle scienze secondo Edmund

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Husserl e la sua concezione di una fenomenologia del “mondo della vita**y infrOy p. 131. J. Patočka, Saggi eretici sulla filosofia della storia , cit., p. 47.

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poi quello della sua difesa e conservazione e, infine, quello della verità nel senso dell’apertura e della libertà. In particolare, nei primi due saggi qui pubblicati Per la preistoria della scienza del movimento: il mondo, la terra, il cielo e il movimento della vita umana e II mondo naturale e la fenomenologia si può notare come Patočka, a differenza dei suoi maestri, restituisca la problematica del mondo natu­ rale alla complessità dei rapporti tra mondo ed esistenza. Nel­ la definizione dei tre movimenti egli infatti pone al centro il “contatto con gli altri”, individuandovi ciò che conferisce al nostro mondo “il suo contenuto più proprio e anche il suo senso principale, e forse addirittura tutto il suo senso”10. Il radicamento nel nostro mondo è dunque garantito dal­ l’accoglienza da parte degli altri. “È negli altri che la terra di­ venta calda, amabile, benigna. Gli altri sono pertanto la dimo­ ra originaria, e non una mera necessità esteriore; sono lo stes­ so ancoraggio nell’esistenza, il rapporto con ciò che è già preparato per noi nel mondo”11. Il movimento dell’accettazione consiste in un radicamen­ to e in un adattamento nel mondo attraverso un’accoglienza preliminare che ci mette al coperto, ma che implica il fatto di mettere il nostro proprio essere nelle mani degli altri. L’accettazione diventa così la prima condizione necessaria per la nostra esistenza e sopravvivenza: senza questo movi­ mento di accettazione e di radicamento nel mondo, non si potrebbe vivere, ovvero l’uomo non potrebbe realizzare il suo senso originario. Il mondo naturale viene allora a coincidere con il mondo mitico, in cui l’uomo vive inizialmente nell’accettazione di un destino che non ha scelto, ma che è stato imposto da for­ ze superiori. 10 11

J. Patočka, Il mondo naturale e la fenomenologia, infra, p. 105. J. Patočka, Per la preistoria della scienza del movimento: il mondo, la terra, il cielo e il movimento della vita umana, infra, pp. 67-68.

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Il secondo movimento dell’esistenza, il “funzionamento nell’inserimento” nel mondo, è legato al primo: una volta ac­ cettata la vita nel suo stato di bisogno, si deve difenderla e conservarla. “Si tratta di un ambito in cui noi dobbiamo atte­ nerci ai mezzi, in cui la vita inevitabilmente si frammenta, in cui diventa letteralmente una serie di istanti caratterizzati dal prendersi cura, diventa un mezzo finalizzato a se stesso; e pertanto il suo movimento può essere definito un movimento di autoprolungamento e autoripetizione che rappresenta una deprivazione di sé”12. È il mondo del lavoro e della fatica: l’uomo, costretto a provvedere ai propri bisogni, assume un rapporto strumentale con le cose e con gli altri, li oggettiva e oggettiva sé, diventan­ do esso stesso cosa tra le cose. “L’altro è qui presente nell’u­ tensile, nello strumento, nell’attrezzatura di cui mi servo”13. In questo contesto, la figura dell’altro significa soltanto un “con­ corrente, un ostacolo” contro il quale si deve lottare per la dife­ sa e la conservazione della vita. Gli uomini, vincolati dai pro­ pri bisogni, diventano “come forze, come realtà scisse che si trovano in un continuo moto di collisioni, influenze, intralci re­ ciproci”14. In un contesto di degrado e di perdita di sé, l’essereinsieme con l’altro diventa una contrapposizione nel senso di una sottomissione o di uno sfruttamento. Come sottolinea G. D. Neri, il problema dell’oggettivazio­ ne e della reificazione che si manifesta in forma acuta nel mondo moderno ha le sue radici “nel movimento più genera­ le dell’esistenza umana, in particolare nella dimensione del lavoro e dell’organizzazione della vita” 15. Dal mondo moder­ 12 13 14 15

J. Patočka, Per la preistoria della scienza del movimento: il mondo, la terra , il cielo e il movimento della vita umana, infra, p. 68. J. Patočka, Il mondo naturale e la fenomenologia, infra, p. 117.

Ibidem. G. D. Neri, Il mondo del lavoro e della fatica , “aut aut”, 299-300, 2000, p. 169.

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no ad oggi, questa “dipendenza della vita da se stessa” impe­ disce all’esistenza di sottrarsi alla propria condizione servile e di sudditanza. Il mondo naturale, il terreno del dispiegamento di questi due movimenti fondamentali della vita umana, viene a coin­ cidere secondo Patočka con il mondo mitico, pre-istorico, an­ teriore alla ricerca di senso filosofica. Questa esistenza rego­ lata dall’ovvietà e dalla mitologia quotidiana costituisce un mondo che “ha un senso dato, magari modesto ma certo. Es­ so ha un senso - e quindi una comprensibilità - per il fatto che esistono dei poteri - il demoniaco, gli dèi - che stanno al di sopra dell’uomo, lo dominano, e decidono del suo destino. [...] L’uomo riceve un suo posto solo in relazione a questo potere superiore, ma comunque lo ottiene e se ne accontenta. Ciò che in tal modo conferisce all’uomo il suo posto è l’ele­ mento decisivo del mondo, che ne determina il destino e l’a­ zione”16. Nel mondo mitico il sapere della tradizione ostacola qualsiasi problematizzazione, offrendo risposte che precedo­ no le domande per soddisfare il bisogno di certezze e di rassi­ curazioni dell’uomo. La chiarezza su ciò che è, vale a dire la chiarezza della realtà che si manifesta così come è, non ap­ partiene al sapere umano ma divino. All’uomo mitico non è dato conoscere le strutture profonde dell’esistenza, quelle strutture date e non modificabili imposte da entità superiori. Egli quindi non deve far altro che accontentarsi di un sapere limitato, di un sapere che non si fonda sullo “sguardo in ciò che è”, ma su un racconto tramandato dal passato. Il terzo movimento fondamentale della vita umana, che è già presente all’interno del mondo pre-istorico, costituisce la possibilità fondamentale dell’apertura al mondo. Per r e s i­ stenza umana, quindi, “è sempre in agguato una celata possi­ bilità di problematicità, possibilità che può improvvisamente 16

J. Patočka, Saggi eretici sulla filosofia della storia , cit., pp. 48-49.

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esplodere”, ma che per lo più rimane “in forma nascosta e per così dire rimossa” 17. Finché resistenza umana non si stac­ cherà dal ciclo naturale di riproduzione della vita e di produ­ zione-consumo dei prodotti del lavoro, non potrà mai ricono­ scere in se stessa la possibilità della libertà. Perciò, finché la vita non comprenderà la sua problematicità, non vi sarà altra vita che quella “concreta, alla quale non viene in mente nient’altro che vivere (come scopo), e d’altra parte essa è tal­ mente saturata dal compito di procurarsi l’immediato pane quotidiano e di sfruttare ciò che offre il mondo circostante che l’adempimento di tali compiti riempie quasi compietamente il piano della quotidianità”18. H movimento dell’apertura e della libertà è “una possibilità del tutto nuova dello spirito umano”, una possibilità quindi “che avrebbe potuto non realizzarsi e che la maggior parte del­ le umanità, anche altamente civilizzate, non conosce [...]”19. La vita umana scopre all’improvviso di non essere servitù di un potere superiore e nemmeno un accumulo di cose da pro­ durre e consumare. Essa è ben altro: è apertura, è rapporto di comprensione al senso dell’essere e del mondo. Si apre ora la possibilità fondamentale per l’esistenza di un regno nuovo, il cui senso non ha origine dalle cose, e tuttavia coglie le cose nella loro essenza, un regno dello spirito e della libertà. “Il terzo aspetto del movimento della vita è caratterizzato dall’accedere alla conquista di sé mediante la dedizione di sé, mediante la rivendicazione e l’assunzione della finitezza”20. Questa possibilità fondamentale, che dischiude il passag­ gio dalla mera vita alla vita autentica, presuppone un’espe­ 17 18 19

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Ibidem. Ibidem. J. Patočka, Platone e VEuropa, tr. it. di M. Cajthaml e G. Girgenti, Vita e Pensiero, Milano 1997, (traduzione parzialmente modificata), pp. 88-89. J. Patočka, Per la preistoria della scienza del movimento: il mondo, la terra, il cielo e il movimento della vita umana, infra, p. 69.

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rienza difficile e traumatica. Essa implica uno scuotimento assoluto che minaccia ogni cosa anche la più solida e radica­ ta: “Essere significa essere nell’assoluta singolarità, nell’e­ sposizione al pericolo assoluto. La minaccia è assoluta quan­ do in essa tutto è minacciato, quando con il suo realizzarsi non resta nulla. Ma nella minaccia assoluta la terra si è av­ venturata oltremodo al di là dei suoi limiti, si è messa alla mercé dell’abisso. [...] ‘C’è’ qui ancora qualcosa d’altro oltre lo svariare dei suoi fenomeni e dalla loro iterazione. Qualcosa di totalmente diverso da tutto ciò che è essente”21. Priva di tutto ciò che può offrire all’esistenza un punto di appoggio, un radicamento e uno scopo definitivi, la vita si scopre non come un assoluto, ma come finita. Affrontare fac­ cia a faccia la propria finitezza significa innanzitutto rinun­ ciare a ciò che ci incatena alla vita e che ci obbliga a vivere nella cattiva infinitezza della ripetizione. La vita come nuda, quindi, la vita che “si è conquistata co­ me esistenza non può chiudersi, perché in tal modo ricadreb­ be nuovamente nella mera autocontinuazione”. Chi ha esperi­ to la scossa esistenziale, ha distrutto ciò che lo separava dal­ l’altro: solo così egli può aprirsi e dedicarsi all’altro. “La vita che ha aderito alla propria finitezza si è conquistata soltanto per dedicarsi. E questo vuol dire: per appellarsi, per conse­ gnarsi agli altri, non in vista della semplice continuazione della loro perdita di sé, ma per trovare una comune, pura inte­ riorità, per una reciproca compenetrazione, per realizzare il miracolo di un intimo accesso agli altri”22. I filosofi greci, in particolare Platone e Aristotele, che per primi fecero esperienza di questa apertura all’essere del mon­ do, identificavano l’inizio della sapienza, l’origine della filo­ 21 22

J. Patočka, Il mondo naturale e la fenomenologia, infra, p. 120. J. Patočka, Per la preistoria della scienza del movimento: il mondo, la terra , il cielo e il movimento della vita umana, infra, p. 70.

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sofia, con uno stato di meraviglia e di stupore: non la meravi­ glia per le realtà particolari, ma per questa realtà originaria. Questo stato di meraviglia, simile a un lampo che illumina il mondo, costituisce simultaneamente la nascita della filoso­ fia, della vita politica e della storia. Ed è su questo stesso lampo che sorge il fondamento filosofico della civiltà euro­ pea. “La storia ha inizio là dove la vita diventa libera e intera, là dove essa crea coscientemente uno spazio per un’esistenza tale che non si esaurisca nella mera accettazione, e là dove, in conseguenza della scossa impartita a quel ‘meschino’ senso della vita che l’accettazione porta con sé, l’uomo si decide a tentare qualcosa di nuovo, a dare un senso a se stesso in quel­ la luce che gli appartiene ora come l’essere del mondo in cui esso si trova inserito”23. La meraviglia, lo stupore costituiscono dunque il passag­ gio da un atteggiamento di fiducia non riflesso, designato come mitico, a un atteggiamento in cui tutte le credenze ra­ dicate sono messe in discussione da un domandare filosofico. Per Patočka questa scossa profonda coincide allora con il passaggio dal mondo mitico ad un mondo fondato sul sen­ so filosofico. Con la domanda filosofica si scopre il ruolo imprescindibi­ le dell’uomo, inteso come il “luogo della manifestazione”. In­ fatti, l’uomo non è solo una cosa tra le altre, ma è anche un elemento strutturante della manifestazione24. Perciò, se nel 23 24

J. Patočka, Saggi eretici sulla filosofia della stona , cit., p. 73. Dire che l’uomo, con la domanda filosofica, si scopre come l’essere della manifestazione non significa affatto concepire la manifestazione come un “vissuto” che abbia la sua realtà nella coscienza assoluta. L’apparire in quanto tale, pur avendo come momenti ciò che appare (il mondo) e ciò a cui l’apparente appare (la soggettività), non coinci­ de con essi. Il mondo, l’universo di tutto ciò.che è appartiene al fon­ damento stesso dell’apparire senza identificarsi con esso; l’ente, in quanto si manifesta, implica, proprio per potersi manifestare, “qual­ cuno” a cui apparire. Ma la manifestazione, l’apparire in quanto tale è

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mondo mitico l’atteggiamento dell’uomo corrispondeva a un errare cieco nella sfera della chiarezza, con la nascita della fi­ losofia tutto ciò si trasforma in un atteggiamento di ricerca della verità. Patočka riprende qui l’insegnamento della filoso­ fia greca, in particolare di Platone e della sua “cura dell’ani­ ma”. La cura dell’anima “si sviluppa attraverso un pensare che domanda”, cioè un dialogo, in cui è fondamentale “ac­ consentire a lasciarsi problematizzare, a farsi porre doman­ de”. Nel dialogo si deve porre in discussione ogni certezza, anche la più ovvia e consolidata. La cura dell’anima, quindi, non si esaurisce in una mera contemplazione o accettazione di ciò che si mostra nella realtà, ma consiste in una prassi che investe tutta la vita, una prassi che si autoindaga, si autocontrolla e si autounifica nel pensiero e nella vita. Una volta fatta esperienza della domanda filosofica, non si vive nella certezza e nella garanzia della verità: la nascita del­ la filosofia non implica infatti l’esclusione definitiva dal mondo naturale. Per lo più l’uomo conduce un’esistenza le­ gata al ciclo naturale della vita piuttosto che alla verità, conti­ nua ad obbedire a entità superiori accontentandosi belle ri­ sposte precostituite piuttosto che guardare alla verità proble­ matica. La libertà è qualcosa che l’uomo deve conquistarsi con responsabilità e lotta, “mediante dedizione, mediante la rivendicazione e l’assunzione della finitezza. [...] Nel mo­ mento in cui la vita si dimostra capace di affrontare faccia a faccia la propria finitezza, essa è in grado - come ha cercato di mostrare Heidegger - di superare la sua precedente disper­ sione, la sua ‘caduta’ nelle cose e il loro potere su di sé, cioè la propria cosificazione. Oppure, per dirla con Hegel, tutto il assolutamente originario e indipendente dall’ente che appare, sia esso il mondo o la soggettività. Si tratta di un apriori che funge in modo anonimo ed è alla sua luce che le cose appaiono anche se esso viene ignorato. (J. Patočka, Platone e l ’Europa, cit., pp. 45-66.)

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solido terreno su cui poggiava fino allora la vita ha preso a tremare in essa. Ha preso a tremare la terra stessa su cui la vi­ ta poggiava. Se è giusto caratterizzare l ’uomo come abitante della terra, ecco che in lui la terra è sconvolta da un terremo­ to. Egi scopre questa sua esistenza non in quanto accettata e radicata, bensì come nuda, e nell’attimo stesso scopre che la terra e il cielo hanno un loro trans, cioè un loro ‘al di là’”25.

4. La fenomenologia asoggettiva A partire da questa esperienza traumatica è possibile com­ prendere la proposta fenomenologica comparsa in alcuni sag­ gi di Patočka degli anni Settanta26, cioè l’idea di una fenome­ nologia asoggettiva, considerata dagli interpreti in modo di­ scordante: come uno dei contributi più originali del dibattito contemporaneo sulla fenomenologia oppure come un’inten­ zione inevitabilmente fallimentare. Come si può già intuire dal termine “asoggettiva”, il progetto di Patočka è la formula­ zione di una fenomenologia che non abbia il proprio fonda­ mento nella sfera della soggettività, ma cerchi il “fondamento ultimo dell’apparire”, ciò che va oltre il soggetto e, potrem­ mo aggiungere, l’oggetto della manifestazione. Va da sé che questo nuovo progetto necessita di una revisione della feno­ menologia, caduta con Husserl in un soggettivismo trascen25 26

J. Patočka, Per la preistoria della scienza del movimento: il mondo, la terra, il cielo e il movimento della vita umana, cit., p. 69. I saggi che approfondiscono questa tematica sono : Epoché e riduzio­ ne, tr. it. di A. Pantano, “aut aut”, 299-300, pp. 142-151; Der Subjek­ tivismus der Husserlschen und die Möglichkeit einer “asubjektiven” Phänomenologie; D er Subjektivismus der Husserlschen und die For­ derung einer “asubjektiven” Phänomenologie ; Was ist Phänomeno­ logie? in Die Bewegung der menschlichen Existenz, a cura di K. N el­ len, Klett-Cotta, Stuttgart 1991.

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dentale. Partendo dalla prospettiva ontologica di Heidegger, Patočka tenterà di “restituire così alla fenomenologia quel senso di una ricerca dell’apparire in quanto tale, che forse co­ stituiva l'intenzione originaria del suo fondatore”27. Alla base della “fenomenologia asoggettiva” risiede un’a­ nalisi approfondita della terminologia husserliana, in partico­ lare del termine “epoché” nella sua radicalizzazione e distin­ zione dalla riduzione: “una fenomenologia senza riduzione è forse possibile; ma nessuna fenom enologia lo è senza epoché”28. Secondo Patočka l 'epoché non deve essere intesa come una mera introduzione alla riduzione del mondo a quel terreno solido e insormontabile che è costituito dalla coscien­ za pura. Si tratta piuttosto di un movimento esistenziale che apre al senso originario dell’essere, in altre parole alla libertà. Come la tesi relativa al mondo, anche l’immediatezza della datità dell’io è un pregiudizio, che come tale deve essere messo tra parentesi. La radicalizzazione dell'epoché non ac­ cetta nessun limite, ma vuole estendersi in modo universale, mettendo tra parentesi non solo la credenza nel mondo ogget­ tivo, ma anche quella relativa al soggetto. Senza coincidere con un esercizio puramente filosofico che genera la libertà del pensiero finito, come aveva inteso Husserl, l'epoché è costitutiva dell’essere stesso dell’uomo, presuppone cioè la trascendenza dell’Esserci, in quanto rap27

28

J. Patočka, Der Subjektivismus der Husserlschen und die Möglichkeit einer “asubjektiven” Phänomenologie, in Die Bewegung der mensch­ lichen Existenz, cit., p. 282. N elle Idee di Husserl l ' epoché è intesa com e un’introduzione alla riduzione del mondo alla coscienza pura e trascendentale; come ta­ le, essa “non può estendersi su tutto”, ma si limita a neutralizzare il solo mondo oggettivo. Per un maggior approfondimento del signifi­ cato di epoché e di riduzione nella fenom enologia di Husserl si ve­ dano qui di seguito le pagine di G. D. Neri a pp. 45 e sgg., mentre per Tanalisi critica di Patočka su questi concetti rimandiamo a Epo­ ché e riduzione, cit.

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porto e apertura al senso dell’essere. È proprio nell’uomo e nella sua finitezza che si fonda questa possibilità radicale dell'epoche, in quanto egli è quell’ente che è essenzialmente in rapporto con l’essere e che è comprensione della differenza ontologica: l’uomo coincide con il luogo dell’apparire e della comprensione delle cose e di se stesso. L'epoché non è perciò qualcosa che decidiamo deliberatamente, ma è ciò che siamo essenzialmente: è un atto di libertà costitutivo dell’essere stesso dell’uomo. Essa presuppone, in quanto suo fondamen­ to, il rapporto di apertura e di comprensione proprio dell’es­ sere dell’uomo. Questo atteggiamento di estraniamento, di shock e di stu­ pore che ci sottrae per un istante alla dipendenza dal mondo naturale è lo stesso, secondo Patočka, che ci fa vivere nel mondo. Non è certo una condizione facile, ma è l’unica pos­ sibile per “imparare a vivere nella problematicità”. Così concepita, “l'epoché non costituisce l’accesso a un qualsiasi ente o a un pre-ente, sia esso mondano o non-mondano, ma forse proprio per questo diventa l’accesso all’apparire anziché a ciò che appare, diventa quindi l’accesso all’apparire in quanto tale”29. L’universalizzazione dell'epoché permette in­ somma l’accesso “di un sol colpo all’apriori universale che apre il luogo dell’apparire tanto per il reale quanto per chi espe­ risce”. Tale “a priori universale”, che Patočka chiama con il termine “sfera fenomenica”, è la struttura fondamentale senza la quale non sarebbe possibile alcuna manifestazione. Ecco che cosa rimane da questo processo di sospensione e di sottrazione così radicale da comprendere la tesi relativa al mondo e al soggetto: certamente non una mera astrazione, bensì l’apertura al fondamento ultimo della manifestazione, “la cui funzione si dispiega nel rendere possibile un rapportò a sé, una struttura dell’essere senza la quale non sarebbe pos­ 29

J. Patočka Epoché e riduzione, cit., p. 149.

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sibile nessun apparire”. Un “ambito originario”, una sfera al­ l’interno della quale ogni cosa è e si manifesta. Ciò significa che, nonostante essa accompagni ogni nostra esperienza, non può essere ridotta all’esperienza stessa, in quanto essa è asso­ lutamente originaria. L'epoché radicale ci ha condotto infatti al di là della totalità dell’ente, e precisamente in quella strut­ tura pre-empirica tanto ricercata dalla filosofia. Patočka sottolinea infatti che la “sfera fenomenica” è più radicale e profonda della cosa psichica o fisica, perché la sua essenza consiste nel manifestare le cose così come esse sono. Si tratta, quindi, di una sfera regolata da leggi sui generis, cioè da leggi diverse da quelle dell’oggetto empirico e della mente umana. “La legalità o, se si vuole, la struttura dell’ap­ parire è interamente indipendente dalla struttura delle-cose che sono; non si può dedurre la manifestazione in quanto tale né dalle strutture oggettive né dalle strutture psichiche”30. L’apparire deve quindi emergere nella sua struttura pura, sen­ za essere confuso con alcuna realtà che possa fungere da so­ strato e da appoggio: “il fondamento ultimo e più profondo della spiegazione filosofica, la risposta ultima alla domanda della filosofia, non può essere nessun ente. La struttura del· l'apparire deve basarsi su se stessa”31. In maniera complementare, nel saggio Intero del mondo e mondo dell'uomo si avanza l’idea di una fenomenologia co­ smologica che non sia rivolta alla forma contingente del mondo, alla molteplicità accidentale del mondo, ma che pren­ da in esame “quel che le fa essere un mondo, cioè un unico­ intero, universale, non oltrepassabile, che contiene in sé tutte le realtà e possibilità effettive” del mondo, ambiente dell’uo­ mo. Il mondo dell’uomo è infatti costituito di un centro a cui 30 31

J. Patočka, Platone e l'Europa, cit., (traduzione parzialmente modifi­ cata), p. 60. Ivi, p. 69.

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gli enti appaiono, "e in questo senso, relativo all'uomo. Per tale mondo vale la proposizione homo-mensura”32. L’uomo, posto al centro del mondo in quanto ciò a cui gli enti monda­ ni apppaiono, misra le cose tra di loro e in riferimento a sé, prendendo così la via dell’oggettivazione”. Questa via, quel­ la della scienza, giunge a considerare i contenuti e le strutture intramondani, fattuali e contingenti, senza sfiorare la questio­ ne del tutto del mondo nella sua compagine fondamentale. Invece il tutto del mondo è per Patočka un mondo senza cen­ tri. Esso coincide con il fondamento ultimo, preliminare e ne­ cessario del mondo dell’uomo.

5. La tecnica e la guerra La scienza, nata nell’antica Grecia come sguardo intuitivo del mondo, si è trasformata in un sapere strumentale che pri­ vilegia l’efficacia pratica e il dominio su ogni cosa che si pre­ senta in un “mondo di fatto”. Alla nuova scienza moderna non interessa “la comprensione del senso del mondo”: essa mira invece alla sua previsione, anticipazione e misurazione in strutture generali. Questa scienza si rivela sempre più co­ me una scienza universale e una tecnologia. Sebbene non sia in grado di comprendere il senso delle cose e del mondo in quanto tale, la scienza tecnicizzata è capace di trasformare e manipolare il mondo secondo le nostre esigenze, senza riusci­ re in realtà a soddisfarle. “La scienza - scrive Patočka in La filosofia della crisi del­ le scienze secondo Edmund Husserl e la sua concezione di una fenomenologia del 'mondo della vita’ - che è il fonda­ mento vitale della nostra società, ciò senza cui l’umanità del­ l’era industriale non potrebbe sopravvivere, è allo stesso tem32

J. Patočka, Intero del mondo e mondo dell'uomo, infra, pp. 156 e 160.

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po l’origine del vuoto e dell’anonimato che colpiscono la vita moderna, della scomparsa di un senso tangibile, di un’astra­ zione senza fondo. Ciò che ci tiene in vita ci priva nello stes­ so tempo di tutte le vivendi causas di ordine superiore, la­ sciandoci soli davanti a un caos di istinti e di tradizioni, lega­ to insieme solo in modo artificiale”33. Π mondo, le cose, gli uomini perdono così la loro autonomia e vengono inseriti in un’“immensa rete di relazioni”, dove essi assumono il loro ruolo specifico e dove il loro essere è definito dalla funzionalità e dall’efficacia. Con ciò si comprende la tra­ sformazione dell’ambiente mondano in qualcosa di “trasparen­ te e disponibile”, e dell’uomo in un essere effettivamente “uni­ versale” e “planetario”. ‘Tutto è necessario, messo al proprio posto, e messo a disposizione per ogni utilizzo”34. La tendenza delle scienze moderne a trasformare e a manipolare l’ente sem­ bra rispondere alle intenzioni di Bacone, secondo cui sarebbe stato possibile per l’uomo dominare la natura intera: il sogno del regnum hominis appare sul punto di realizzarsi. Ma il risultato di questo processo universale sembra essere un pericolo per l’uomo, il quale perde la sua fondamentale possibilità di essere “vita nella verità”, di essere cioè un ente privilegiato in grado di comprendere il senso dell’essere e di rapportarsi ad esso. Nell’epoca della tecnica, quindi, la gran­ dezza dell’uomo non consiste più nella comprensione e nella responsabilità nei confronti del mondo in cui vive e degli altri con cui si rapporta, ma consiste piuttosto nel disporre di enor­ mi masse di energia accumulate e sempre disponibili. L’uo­ mo, diventato ormai il funzionario di questo processo univer­ 33

J. Patočka, La filosofia della crisi delle scienze secondo Edmund

34

Husserl e la sua concezione di una fenomenologia del “mondo della vita ”, infra, p. 143. J. Patočka, Die Gefahren der Technisierung in der Wissenschaft bei Ed­ mund Husserl und das Wesen der Technik als Gefahr bei Martin Hei­ degger, in Id., Die Bewegung der menschlichen Existenz, cit., p. 334.

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sale, è “indegno della sua essenza”, perché ormai capace di conoscere solo delle verità singolari di ordine pratico, mentre la “verità” gli è sconosciuta. “L’uomo non ha un regnum, non è un regnum. Le possibi­ lità prodigiose si sono consumate e sciupate nell’organizza­ zione miope del funzionamento meccanico della vita confina­ ta solo sul piano dei fatti, dove l’uomo non è altro che un ac­ cumulatore di energia”35. Ma in questo mondo di pure forze, l’uomo viene a sua volta sfruttato e dominato dalle stesse for­ ze che egli aveva accumulato e che si sono trasformate in una potenza anonima, la “Forza”. Il regnum hominis si è quindi trasformato in regimen hominum, cioè in un dominio sull’uo­ mo, in cui chi domina è la Forza, quell’ente supremo che crea e distrugge ogni cosa e che l’uomo con la sua ragione tecnica non riesce a controllare. “Nella Forza si nasconde l’Essere che non ha cessato di essere quella luce che illumina il mon­ do, anche se ora è una luce maligna”36. Nell’epoca attuale, quindi, tutti i vantaggi pratici della scienza tecnicizzata si trasformano in svantaggi problematici. “Il vuoto che affligge la vita ha preso una forma materiale, è diventato una possibilità assurda di negazione della vita, una potenza di distruzione che supera tutto ciò che l’uomo può costruire e produrre di positivo. Questa potenza ha fornito l’Europa dei mezzi per il suo suicidio - l’Europa, che da due' secoli deteneva il monopolio della civiltà razionale e l 'ege­ monia su quasi l’intero globo, l’Europa che si identificava con l’umanità in quanto tale”37.

35 36 37

J. Patočka, Réflexion sur l'Europe, in Liberté et sacrifice , tr. fr. di E. Abrams, M illon, Grenoble 1990, p. 199. J. Patočka, Saggi eretici sulla filosofia della storia , cit., p. 140. J. Patočka, La filosofia della crisi delle scienze secondo Edmund

Husserl e la sua concezione di una fenomenologia del umondo della vita", infra, pp. 143.

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La prima guerra mondiale ha segnato il definitivo imporsi di quel modo di comprendere la realtà che si era affermato nel XVII secolo. Per Patočka la trasformazione del mondo in una riserva di energia deve necessariamente verificarsi attra­ verso la guerra, perché quest’ultima costituisce il mezzo più efficace per una rapida liberazione delle forze accumulate. E come rivelano le guerre del XX secolo, la fine di un conflitto non significa l’instaurarsi della pace: dopo la Grande Guerra, in cui l’Europa ha avviato il processo della propria autodi­ struzione, la seconda guerra mondiale non è stata altro che “una replica, con un meccanismo bellico ancora più assurdo, un’ancora più grave mancanza di un piano generale, atti di violenza ancor più improvvisati, un ancor più grave scatena­ mento di odi e ancora più incredibili atti di vendetta e di rap­ presaglia”38. E nella nuova situazione di armamento atomico, una nuova guerra ha covato sotto le ceneri dell’ultimo con­ flitto mondiale: la guerra fredda. Il XX secolo, quindi, può essere considerato come il “se­ colo del potere, della guerra e della morte”. Ciò che trionfa ancora è quella Forza che ci affascina, ci abbindola é control­ la le nostre vite. La pace, allora, è un aspetto della guerra, è una “tappa menzognera che sconfigge l’avversario senza spa­ rare un colpo”, un momento tattico in cui la Forza domina in modo latente. Il tentativo di chiudersi nel proprio guscio è al­ lettante ma fallimentare, giudica Patočka, perché “la Forza e la tecno-scienza aprono tutto il mondo alla loro azione in mo­ do tale che ogni evento trova un’eco ovunque”39.

38 39

J. Patočka, Saggi eretici sulla filosofia della storia , cit., p. 152. t o \p . 156.

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6. I l sacrificio Le riflessioni filosofiche di Patočka, così sorprendente­ mente attuali, non si concludono con l’accettazione passiva dell’ormai proclamata morte dell’Europa. Certo, un motivo che rende la situazione europea così terribile è proprio “la rassegnazione al declino”, è il fatto che l’Europa stessa abbia smesso di credere nel suo fondamento filosofico. Ma Patočka affronta la questione di “ciò che salva” (das Rettende), po­ nendo quesiti sulla possibilità della sopravvivenza dell’Euro­ pa e sul ritorno al proprio fondamento spirituale da parte del­ l’umanità europea. Quella scossa tellurica, quell’esperienza traumatica e an­ che quell’epoché radicale che appaiono negli scritti filosofici assumono ora il senso di un conflitto, di una lotta e di un “sacrificio”. La soluzione del conflitto all’interno dell’essere stesso, de­ terminato dal fatto che l’essere si nasconde là dove si svela la chiarezza degli enti, non può essere semplicemente attesa co­ me una Gunst des Seins, un favore dell’essere, cioè come il ricomporsi di un’armonia dell’essere stesso. Non può essere una soluzione pacifica e regolata. È necessario un impegno da parte dell’uomo nell’affrontare frontalmente il pericolo. Questa “soluzione conflittuale”, che si confronta con il na­ scondimento dell’essere nella chiarezza degli enti, non deve esibirsi in gesti esteriori privi di efficacia, ma deve avere il carattere di una determinazione assoluta a sottrarsi al dominio della Forza. Questa sottrazione deve sapere andare fino in fondo, spingersi fino all’estenuazione della vita, fino all’e­ stremo limite dove si supera anche l’ultima catena della vita, fino a superare il ricatto che si fonda sulla volontà di auto­ conservazione. L’esperienza etica del sacrificio si fonda infatti sulla capa­ cità fondamentale dell’uomo di rivolgere lo sguardo dell’ani­ 28

ma da ciò che appare all’apparire in quanto tale. Colui che si sacrifica, infatti, si sottrae alla sfera dell’ente e si rapporta esplicitamente a ciò che, senza essere nulla di reale, fornisce il fondamento dell’apparire della realtà. In questo senso il concetto di sacrificio assume il fondamentale significato della manifestazione della libertà umana rispetto al dominio dell’ente e della tecnica. “Nel sacrificio c’è l’essere: l’essere si dà a noi, non nel nascondimento ma espressamente”40. Questa esperienza è “radicale e paradossale”. Il sacrificio non deve riguardare nessun ente, non deve perseguire scopi determinati, ma “in un senso essenziale, è sacrificio per niente, se si intende per il niente ciò che non è un ente”. Il sacrificio è “il punto di partenza di una svolta nella nostra comprensione del mondo e della vita, capace - al di fuori di ogni svalorizza­ zione romantica - di ricondurci finalmente a noi stessi e con cip di superare l’era della comprensione tecnica, in apparenza tanto ricca, ma in realtà così indigente nella sua essenza”41. Il sacrificio non è ciò che si può avere, ma è ciò che noi siamo. La capacità di sacrificarsi non è quindi qualcosa di cui solo alcuni uomini sono dotati, mentre altri ne sono privi, bensì è costitutiva dell’essere umano. L’uomo che si'sacrifica non accetta più di essere un funzionario del processo univer­ sale della tecnica, non vuole essere soggetto alla Forza. Egli piuttosto vuole “vivere nella verità”, perché solo così sarà in grado di togliere lo sguardo dall’apparente per cogliere il sen­ so dell’apparire come tale. La capacità del sacrificio è insomma la caratteristica di­ stintiva dell’uomo che non vuole semplicemente attendere un qualsiasi segno di cambiamento da parte dell’essere (Gunst 40

J. Patočka, Die Gefahren der Technisierung in der Wissenschaft bei

41

Edmund Husserl und das Wesen der Technik als Gefahr bei Martin Heidegger, cit., p. 356. lvi, p. 358.

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des Seins), ma crea le condizioni di possibilità affinché l’e­ vento dell’essere possa realizzarsi. Nelle ultime pagine dei Saggi eretici, Patočka rivolge alla “intellighenzia tecnica” e all’umanità in generale un appello, affinché costituiscano una “solidarietà di coloro che hanno vissuto il crollo”. Si tratta di una solidarietà che nasce da un’unica esperienza, appunto quella del “crollo”, cioè di uno scuotimento radicale del senso ingenuamente accettato, tale da generare non la caduta nel non senso, ma la scoperta della possibilità di raggiungere un senso più libero e ambizioso. L’esperienza del crollo è, in un senso profondo, quella della libertà dell’uomo dalla mera quotidianità, da tutti quei legami che lo incatenano alla vita e dal lavoro inteso come destino vitale. “L’eventualità del crollo della fede ingenua nel senso della vita si fa sentire continuamente, ma viene respinta”42, perché una tale esperienza è “pericolosa e rischiosa”, in quan­ to trascina la vita in un ambito in cui non c’è nulla di ciò che prima costituiva il senso già dato e accettato, ma c’è piuttosto una maggiore profondità di senso della vita. La disposizione dell’uomo al sacrificio radicale gli permette, solo dopo l’e­ sperienza del crollo che scuote ogni certezza data, di provare un profondo stupore di fronte al mondo, in quanto quest’ulti­ mo non è più un insieme di fatti e di cose, ma è il luogo in cui le cose appaiono così come esse sono. Ecco quindi “ciò che salva”: la solidarietà degli scossi, di coloro che sanno di che si tratta nella storia, degli uomini del­ lo spirito che sono in grado di sopportare l’assenza di senso dell’epoca del nichilismo e di porre in gioco la loro stessa vi­ ta, affinché divenga visibile che l’umanità è caduta nell’illu­ sione che il senso sia qualcosa di garantito. La solidarietà, che si fonderà sull’esperienza del crollo e secondo l’etica del sacrificio, non formulerà dei programmi positivi, bensì si e­ 42

J. Patočka, Saggi eretici sulla filosofia della storia , cit., p. 91.

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sprimerà “silenziosamente” in ammonimenti e proibizioni43. Per Patočka questa solidarietà di uomini, e di “eroi”, deve es­ sere capace di dire un profondo “no” al modo di comprensio­ ne impostoci dalla Forza dominante. Questo “no” il filosofo lo pronunciò durante gli anni della guerra fredda: con l 'instaurazione del regime comunista in Cecoslovacchia, Patočka fu costretto a ritirarsi dal mondo culturale e intellettuale, ma, nonostante questa interdizione, egli continuò le sue ricerche in un minuscolo appartamento sotterraneo. Durante il terrore staliniano e il neostalinismo degli anni Sessanta, lavorando in queste condizioni, divenne un tramite importante della cultura filosofica europea presso gli intellettuali della giovane generazione (tra questi, in parti­ colare Karel Kosík). Durante la “Primavera di Praga”, in quell’atmosfera di protesta e insieme di speranza, anche un filosofo “non marxi­ 43

Ivi, p. 158. In questi termini si esprime Patočka nei suoi scritti politici degli ultimi mesi, dedicati ad illustrare il significato del movimento di “Charta 77”. N el Manifesto della “ Charta 7 7 ”, scritïo da Jan Patočka, Václav Havel e Jičí Hájek, appaiono queste paiole: “ ‘La Charta 77’ si sviluppa su un terreno di solidarietà e di amicizia di co­ loro che dividono la preoccupazione per la sorte degli ideali ai quali essi sono associati e associano ancora la loro esistenza e il loro lavo­ ro. La ‘Charta 77’ non è una organizzazione, non ha né statuti né or­ gani permanenti né condizioni statutarie di adesione. N e fanno parte tutti coloro che sono d’accordo con i suoi principi, partecipano al suo lavoro e lo sostengono” (P. Garimberti, Il dissenso nei Paesi dell’Est, Vallecchi, Firenze 1977, p. 107). Negli scritti politici di Patočka: “Charta 77 non è né un’associazione né un’organizzazione; il suo fondamento è esattamente personale e morale, e quindi impone degli obblighi. [...] Tutto ciò significa che i partecipanti di Charta 77 non agiscono seguendo degli interessi na­ scosti, ma [...] obbedienti ad un comandamento che è più alto di qual­ siasi privilegio e obbligo politico e che è anzi la loro fondazione au­ tentica e solida” (J. Patočka, The Obligation to Resist Injustice, in E. Kohák, Jan Patočka. Philosophy and Selected Writings, University o f Chicago Press, Chicago & London 1989, p. 342).

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sta e non comunista” come Patočka, si unì al nuovo ceto pro­ motore di un profondo rinnovamento del sistema politico. La chiusura totale delle prospettive che sembravano anco­ ra praticabili nel ’68-69 lo indusse poi a continuare la lotta: da un lato con la volontà di confermare il senso nazionale esi­ stenziale aperto dalla Primavera di Praga; dall’altro con la di­ sposizione ad affrontare le responsabilità politiche del pre­ sente fino alle estreme conseguenze personali. Tutto ciò gli fece pronunciare, negli anni della normalizza­ zione del regime filosovietico di Husak, un coraggioso e radi­ cale “no”, finalizzato anch’esso a strappare alla Forza domi­ nante un po’ di terreno. “Chi lo aveva conosciuto durante gli anni più difficili - racconta G. D. Neri - dedito ai suoi studi sulla fenomenologia e sulla filosofia della storia non poteva immaginare un impegno politico così convinto e rischioso come quello che Patočka si assunse in extremis con Charta 77”44. Nel gennaio del 1 9 7 7 divenne portavoce di questo Gruppo per i diritti dell' uomo e del cittadino. Tale convinto impegno politico nella lotta contro ogni tipo di ingiustizia mi­ se in pericolo la sua vita. Tre mesi dopo la nascita di “Charta 77” morì in seguito all’esaurimento fisico causatogli dagli in­ terrogatori della polizia.

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G. D. Neri, Un fenomenologo nel socialismo reale, in “Fenomenolo­ gia e scienze dell’uomo”, CLESP editrice, Padova 1979, p. 49.

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Guido Davide Neri

LA FENOMENOLOGIA

[Quello che segue è il testo preparatorio di una conferenza che Guido Davide Neri doveva tenere presso la Fondazione “G. Tomolo” di Verona il giorno 22 febbraio 2001 all’inter­ no di un corso dal titolo “Approcci alla filosofia”. Questa conferenza non si svolse mai: a causa di una fulminea e leta­ le malattia, egli morì il 29 marzo 2001. In quell'anno, l'ultimo prima del ritiro pensionistico, Neri lavorava al tema del mondo naturale, riscoprendo nel pensie­ ro di Jan Patočka un’analisi stimolante per le ricerche feno­ menologiche su quel tema. La scelta di pubblicare questo testo nella presente ràccolta di saggi di Jan Patočka nasce, principalmente, dal desiderio di ricordare l ’importanza del contributo di Neri allo studio e alla conoscenza in Italia del pensiero di un filosofo il cui nome for­ se solo ora sta uscendo dall’ombra1; inoltre, la lucida ricostru­ zione che Neri offre del tema del mondo della vita, partendo 1

Cfr. gli studi di G. D. Neri su Jan Patočka, di seguito elencati in ordi­ ne cronologico: Un fenomenologo nel socialismo reale , in “Fenome­ nologia e scienze dell’uomo”, 1, 1979, pp. 45-52; Intorno alVidea “filosofica” di Europa , in AA.VV., Azione e contemplazione. Scritti in onore di U. Pellegrino , IPL, Milano 1992, pp. 415-424; VEuropa dal fondo del suo declino , “aut auť\ 283-284, 1998, pp. 129-156; Prem esse a I movimenti d e ll’esistenza umana. Tre scritti di Jan Patočka , a cura di G.D. Neri e A. Pantano, “aut aut”, 299-300, 2000, pp. 122-128, 152-153; Il mondo del lavoro e della fatica , “aut aut”, 299-300,2000, pp. 167-176.

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dai primi studi di fenomenologia in Italia e ponendosi in con­ fronto con Husserl e Heidegger, sembra contribuire efficace­ mente a introdurre la lettura dei saggi di Patočka qui raccolti. Non essendo mai stato portato a termine, il testo si presen­ ta in forma frammentaria. Il titolo La fenomenologia e quelli dei paragrafi sono dell'autore. (A. R)] Dopo essermi assunto - temo incautamente - l’impegno di parlare in sessanta minuti di un movimento che dura da un secolo e che tende a identificarsi con gran parte della filosofia europea del Novecento, mi sono detto che dovevo prendermi qualche libertà: 1) di concentrare la mia conversazione su un tema che considero fondamentale: quello del rapporto, nella fenomenologia, tra il mondo nuovo e mondo della vita e la famosa “epoche" fenomenologica (termini che chiarirò); 2) di inserirmi nel mio argomento da una porta laterale, evitando lo stile del manuale ed evocando invece alcune situazioni signi­ ficative per lo sviluppo della fenomenologia in Italia, alle quali ho potuto assistere personalmente. Nei miei anni di studio universitari ho incontrato i prota­ gonisti dei due successivi trapianti della fenomenologia di Husserl in Italia. Il primo era Antonio Banfi, allievo e amico personale di Husserl, che a partire dagli anni Venti ha sviluppato una sua originale interpretazione della fenomenologia. Dai suoi scritti e insegnamenti è nata una scuola filosofica d’ispirazione fe­ nomenologica, e a Banfi noi - suoi allievi degli anni Cin­ quanta - dovevamo il fatto che la fenomenologia ci apparisse non come una scuola tra tante altre, ma come una tradizione viva, che si ricollegava al suo fondatore. Il secondo di questi protagonisti, su cui vorrei spendere qualche parola, era un allievo di Banfi, Enzo Paci. A partire dagli anni Cinquanta Paci si era dedicato a un lavoro appas­ sionante (per lui e per noi) di diffusione e interpretazione del34

le opere di Husserl. Per comunicare meglio i motivi che ani­ mavano questa ripresa della fenomenologia e l 'entusiasmo che l’accompagnava, vorrei evocare, come per contrasto, quello che era il clima - tutt’altro che esaltante - della cultura filosofica di quegli anni in Italia. Paci lo ha descritto allora come uno stato di “nevrosi” della filosofìa, cioè una sua si­ tuazione depressiva e tendenzialmente suicida. Questa situa­ zione dipendeva da varie circostanze: una era il prevalere, in anni estremamente tesi come quelli della guerra fredda, delle ideologie politiche (basta pensare al marxismo d’impronta staliniana), che pretendevano spesso di fornire risposte a tutti i problemi, sottraendo spazio e respiro alla problematica filo­ sofica. L’altra era il diffondersi di una mentalità e ideologia scientista, che faceva pagare alla filosofia il disprezzo in cui la cultura scientifica era stata tenuta dal neo-idealismo italia­ no. In sintonia con la prima diffusioned e ll'empirismo logico aveva successo il motto secondo cui di ciò di cui non si pote­ va parlare si doveva tacere, e si trattava spesso dei problemi fondamentali della filosofia. L’azione congiunta di queste ideologie, quella politica e quella scientista, generava un’atmosfera di afasia e di scetti­ cismo diffuso. Ed è proprio contro questa nevrosi filosofica che la nuova ondata fenomenologica promossa da Paci costi­ tuiva un fattore tonificante. In netto contrasto con il grigiore di quegli anni, Paci diffondeva sulla sua rivista “aut aut”, fondata nel 1951, una cultura multiforme e assolutamente non ideologica. Una cul­ tura che, senza essere ostile al pensiero scientifico, evitava di farsene colonizzare e di sviluppare complessi di inferiorità. Su “aut aut” - e con Paci, frequentandolo - non si parlava so­ lo di filosofia e di scienza, ma del romanzo moderno, della musica contemporanea, di arte e di architettura. Nelle sue lezioni a Pavia (dove mi ero trasferito a metà de­ gli anni Cinquanta) Paci commentava la Fenomenologia del­ 35

la percezione di M. Merleau-Ponty. Questi, come è noto, era esponente, insieme a Sartre, di una fenomenologia orientata in senso esistenzialista. In Merleau-Ponty Paci ritrovava un’analoga larghezza di orizzonti culturali, un’analoga con­ trarietà all’ideologia e alle restrizioni scientistiche. “La vera filosofia - scriveva Merleau-Ponty - consiste nel reimparare a vedere il mondo” e a proposito della fenomenologia ag­ giungeva: “Essa è laboriosa come l’opera di Balzac, di Prou­ st, quella di Valéry o quella di Cézanne [...] per la stessa vo­ lontà di cogliere il senso del mondo allo stato nascente. Sotto questo profilo essa si confonde con lo sforzo del pensiero moderno”2 - e Merleau-Ponty intendeva: si identifica con tut­ to ciò che di creativo c’è nel pensiero e nell’arte moderna. Come già per Merleau-Ponty, anche per Paci diventava importante, per questa rinascita della fenomenologia, la sco­ perta delle opere inedite di Husserl e tra queste in modo parti­ colare dell’ultima, La crisi delle scienze europee, scritta ver­ so il 1935 ma pubblicata solo negli anni Cinquanta. Un testo che è stato un vero avvenimento anche per noi apprendisti fenomenologi. E il nucleo centrale di quest’opera era costituito proprio da quel tema del mondo della vita su cui dovremo soffermarci. Husserl: scepsi, fisicalismo, mondo della vita Mi sono immesso da una porta laterale, ma ora devo entra­ re più direttamente nel merito della fenomenologia husserlia­ na. Ho parlato di nevrosi della filosofia e di scetticismo diffu­ so. Husserl era un vero aiuto a superare lo scetticismo e il complesso di inferiorità verso la scienza e le filosofie “scien­ tifiche”. 2

M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945, tr. it. di. A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 31. [N.d.C.]

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Aveva già un suo peso il fatto che Husserl stesso venisse alla filosofia dal mondo scientifico, dalla matematica e dalla logica. Anche alla filosofia Husserl chiedeva scientificità e ri­ gore, ma insegnava a distinguere il rigore dall'esattezza che compete alle scienze matematiche. Del resto Husserl attribuiva proprio alla tradizione scienti­ fica moderna - o per meglio dire: alla sua autointerpretazione filosofica - le motivazioni profonde dello scetticismo e della crisi di sfiducia nella ragione che ricompare continuamente nel pensiero europeo. Come ha scritto Hannah Arendt, dai tempi di Cartesio il sentimento che domina tutto il pensiero moderno è il dubbio o se vogliamo il sospetto nei confronti della realtà - senti­ mento che sostituisce e cancella del tutto quello dello stupore e dell’ammirazione per l’apparire fenomenico del mondo, che aveva accompagnato la nascita del pensiero greco e che per Platone e Aristotele era all’origine stessa della filosofia3. Questo dubbio invincibile rifletteva la sfiducia dell’uomo moderno verso il mondo così come ci è aperto dai nostri sen­ si. Da quando la cosmologia copernicana, rinforzata dal can­ nocchiale di Galileo, aveva mandato in frantumi l’immagine sensibile dell’universo in cui gli uomini avevano creduto per millenni, scienziati e filosofi avevano sollecitato a diffidare dei sensi e a costruire piuttosto l’idea di una realtà assoluta assolutamente non percepibile - raggiungibile solo attraverso modelli e costrutti geometrico-matematici. Così da una parte l’insieme delle nostre certezze restava confinata entro la sfera del cogito cartesiano; il mondo in sé 3

II passaggio dalla filosofia antica, in cui aveva una posizione centrale il thaumazein, la meraviglia per tutto ciò che è in quanto è, alla filo­ sofìa dei moderni, dominata invece dal de omnibus dubitandum est di Cartesio è descritto in H. Arendt, The Human Condition, The Univer­ sity o f Chicago, Chicago 1958, tr. it. di S. Finzi, Vita activa. La con­ dizione umana, Bompiani, Milano 1994, pp. 202-203. [N.d.C.]

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sui va dall’altra parte. Nel mezzo uno spazio vuoto, che ri­ schiava di popolarsi di geni malignie ingannatori. La situazione era proprio quella descritta alla fine del Sei­ cento da un cartesiano, Bernard Le Bovier de Fontenelle: Tutta la filosofia [...] è fondata su due cose; cioè sul fatto che abbiamo la mente curiosa e la vista cattiva [...]. Quindi i veri fi­ losofi passano la vita non credendo a quello che vedono e stu­ diandosi di indovinare quello che non vedono, condizione, mi pare, non troppo da invidiarsi. Da ciò io mi immagino la natura come un grande spettacolo somigliante all’opera: dal vostro pal­ co non potete vedere il teatro come realmente è; le decorazioni e le macchine furon disposte per produrre di lontano effetti piace­ voli e furon nascoste alla vostra vista le ruote e i contrappesi che operano tutti i movimenti [...] e chi vedesse la natura tal quale è, vedrebbe la parte posteriore del teatro dell’Opera4. Ecco cos’è il “sospetto” che domina la filosofia moderna, e che è anche all’origine di ogni scetticismo. È proprio questa nuova metafisica generata dalla fisica moderna che Husserl attacca nelle sue Idee per una fenome­ nologia pura5 (1913) e poi di nuovo ne La crisi delle scienze europee (1935)6. Questo essere in sé fisico non è che la proie­ 4 5

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B. Le Bouvier de Fontenelle, Conversazioni sulla pluralità dei mondi - Dialogo dei morti, Milano 1945, pp. 39-41. [N.d.C.] E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenolo­ gischen Philosophie , Erstes Buch, Niemeyer, Halle/Saale 1913 (poi ripreso in “Husserliana”, Bd. Ili, a cura di W. Biemel, Nijhoff, Den Haag 1950), ed. it. a cura di V. Costa, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, “Introduzione” di E. Franzi­ ni, 2 voli., Einaudi, Torino 2002, vol. I, Libro I: “Introduzione gene­ rale alla fenomenologia pura”. [N.d.C.] E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die tran­ szendentale Phänomenologie, parti I e II originariamente in “Philosophia”, 1, 1936, ed. completa contenente anche una ΙΠ parte inedita ora in “Husserliana”, Bd. VI, a cura di W. Biemel, Martinus Nijhoff, Den Haag 1954, tr. it. di E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la feno­ menologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1961. [N.d.C.]

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zione e la sostantificazione di modelli geometrico-matematici, cioè di forme ideali elaborate a partire dal mondo della no­ stra comune esperienza. L’assurdo è di pensare che queste formazioni ideali (prodotte dalla mente) siano non solo l’es­ sere assoluto delle cose, ma la causa delle nostre rappresenta­ zioni sensibili (da cui in realtà derivano!), le quali sarebbero solo immagini distorte della realtà vera. Bisogna al contrario - pensava Husserl - ridare fiducia al nostro mondo sensibile. Bisogna rifiutare di credere alla falsa dottrina (costruzio­ ne della scienza moderna) secondo cui noi avremmo solo a che fare con delle immagini (false) delle cose reali. Bisogna dire invece che noi abbiamo a che fare con le cose stesse, che siamo in presa diretta sul reale e non in un gioco di specchi deformanti. Ovvero, per dirlo con le parole di Merleau-Ponty: “Non ci si deve chiedere se percepiamo veramente un mondo anziché immagini illusorie; bisogna dire al contrario: il mondo è pro­ prio quanto noi percepiamo”. È soltanto sulla base di qualcosa che ci è dato, dell' appari­ re di un mondo (di un “il y a”, diceva Merleau-Ponty), cioè sulla base di un fenomeno, di un significato, del significato­ mondo, che ci è poi possibile ogni dubbio, ogni conferma o smentita dei significati dati - perfino l’emergere di contraddi­ zioni interne all’esperienza così gravi da mettere in crisi la stessa possibilità del costituirsi di un mondo. E infatti - dice Husserl riconoscendo al pensiero scettico tut­ to il suo spazio di gioco - a priori “non è detto che ci debba es­ sere un mondo, una cosa qualsiasi”. È pensabile che “l’esperire brulichi di contraddizioni irriconciliabili”, che l’esperienza si mostri cioè a un tratto riluttante a mantenere le normali connes­ sioni ordinate che danno luogo a un mondo di cose. Che insom­ ma non ci sia più un mondo. Come se il mondo si liquefacesse. La fantasia filosofica di Husserl qui rasenta il surrealismo. 39

Al suo posto potrebbero prodursi delle “rozze formazioni unitarie, effimeri punti di arresto di visioni”, del tutto inette a costituire delle realtà stabili, delle unità di durata capaci di sussistere per se stesse. In luogo di un mondo (“kosmos”) avremmo dunque un caos. Ma naturalmente, se questa è una possibilità-limite inerente al­ l’esperienza, resta pur sempre una possibilità vuota fintanto che non si presenti effettivamente nell’esperienza stessa. Nel frattempo nulla ci impedisce di cercare di percorrere i sentieri che l’esperienza di fatto via via ci apre (se ce ne apre). Con questa meditazione così radicale, che arriva fino all’i­ potesi di una vanificazione del mondo, Husserl implicava: 1) che ogni dubbio, ogni scepsi è legittima purché il suo terreno di partenza sia l’offrirsi primario di un fenomeno o si­ gnificato-mondo. 2) che il mondo, per quanto ci appaia solidamente legato dalle coerenze che di fatto ricorrono nell’esperienza, non è nulla di assoluto: è così, ma potrebbe essere altro o non esse­ re. Che insomma non è così ovvio che il mondo sia e che sia proprio così. E dove le cose non ci appaiono più ovvie, riaf­ fiora quel sentimento dello stupore che era stato soffocato dal dubbio e dal sospetto. 3) infine Husserl, con la sua “annihilatio mundi”, vorrebbe sostenere che mentre il mondo, la sua stessa sussistenza, è qualcosa di relativo, dunque al limite del dubitabile, la co­ scienza cui il mondo si offre (o cui eventualmente vien meno) è assoluta, sopravvivrebbe cioè al dissolversi del kosmos in kaos, sarebbe in questo caso una coscienza modificata (popo­ lata di “rozze formazioni”, una specie di follia), ma sarebbe pur sempre sussistente. Questa assolutizzazione della coscienza rappresenta quella svolta della fenomenologia in senso idealistico che è stata contestata dalla maggior parte dei suoi allievi. La netta sepa­ razione tra coscienza assoluta e mondo (tra una “immanenza” 40

della coscienza e una “trascendenza” del mondo per usare una terminologia più tecnica) crea una serie di problemi di difficile soluzione. Per indicarne uno: qual è, in questo duali­ smo, lo statuto del corpo proprio, che Husserl vorrebbe so­ spingere nel mondo delle oggettività costituite e relative, ma che allo stesso tempo considera una realtà non propriamente costituibile, qualcosa che non si lascia oggettivare e sembra rifluire dal lato della coscienza? Sia Heidegger che MerleauPonty, per indicare due dei maggiori continuatori critici della fenomenologia, hanno insistito su queste difficoltà dell’idealismo husserliano, su queste aporie che proprio certi testi di Husserl ci costringono a riconoscere. Il “mondo della vita ” Lo stesso Husserl del resto, quando ritorna nella sua ultima opera La crisi delle scienze europee sul problema del rappor­ to tra coscienza e mondo, sembra preoccupato delle conse­ guenze del proprio estremismo idealistico, di questo apnullamento del mondo che lascerebbe sopravvivere la coscienza pura nella sua follia solitaria. Di fatto al centro di quest’ultima opera di Husserl c’è pro­ prio il tema del mondo e precisamente di quel mondo natura­ le della nostra esperienza che Husserl aveva già difeso nelle Idee contro l'In sé assoluto della scienza moderna. Di nuovo, attraverso una minuziosa analisi del metodo galileiano e dei suoi fraintendimenti filosofici, Husserl arriva a dimostrare la primarietà di quello che ora chiama il mondo della vita: Solo questo, e non le idealizzazioni della fisica, ha diritto di chia­ marsi mondo reale. È in nome di questo mondo naturale della nostra vita che Husserl ci sollecita ad applicare una prima epoché fenomenolo­ gica, quel metodo cioè che consiste nel mettere tra parentesi o detto diversamente - nell’astenersi dall’utilizzare le spiegazioni 41

che le scienze naturali pretendono di darci della nostra visione del mondo, del fenomeno stesso dell' apparire di un mondo. Il mondo della vita diventa dunque il momento centrale della riflessione dell’ultimo Husserl. Husserl vorrebbe ora fame oggetto di una scienza particolare (naturalmente senza ricorrere alle scienze naturali che sono state epochizzate). Ma insorgono gravi difficoltà. Questo mondo dell’esperienza co­ mune, riconosce Husserl, non sembra essere qualcosa di uni­ tario, si declina al plurale, vi sono tanti “mondi della vita” differentemente caratterizzati quante sono le culture storiche. Come fondare dunque una scienza su ciò che è sempre stori­ camente e culturalmente relativo? (si riaffaccia lo spettro del­ lo scetticismo!) Husserl tenta qui una risposta che - di nuovo - lascerà in­ soddisfatti molti dei suoi allievi e continuatori. Egli pensa che nonostante la relatività delle culture e dei modi di vita, le strutture profonde del mondo della vita - quelle legate alla sfera percettiva - si mantengano universalmente stabili. La temporalità, la spazialità, la connessione causale, la correla­ zione soggetto-oggetto - queste categorie fondamentali del­ l’esperienza costituirebbero una rete di apriori sempre validi e unificanti al di là delle differenze culturali. Nonostante i numerosi problemi che solleva (in quanto si te­ meva che questa dottrina degli apriori comportasse una limita­ zione della storicità dell’esperienza) la tematica del mondo del­ la vita è stata decisiva per una ripresa di interesse per la feno­ menologia di Husserl quando, negli anni Cinquanta, è stato pubblicato per la prima volta il testo integrale de La crisi delle scienze europee. Con il tema del mondo della vita la fenome­ nologia mostrava di sapersi rinnovare e di saper affrontare i problemi posti dalle scienze storiche e sociali, dall’antropolo­ gia culturale e infine anche dal pensiero marxista. In particola­ re Enzo Paci, negli anni Sessanta, ha lavorato a lungo sul pos­ sibile incontro tra la critica husserliana dell’oggettivismo 42

scientifico e la critica marxista del feticismo economico, visti entrambi in contrasto con il mondo naturale della vita. D’altra parte bisogna aggiungere che l’interesse e a volte l’entusiasmo con cui questa nozione veniva accolta poteva nascondere un equivoco. Poteva cioè sembrare che Husserl, con il concetto di mondo della vita, avesse toccato una specie di terra promessa; che fosse questo il vero punto di arrivo della sua meditazione. Si intendeva cioè il richiamo al mondo della vita come ritorno a una dimensione originaria di auten­ ticità, da ricuperare nella sua purezza al di là delle deforma­ zioni indotte dalla mentalità scientistica o economicistica. In queste letture c’era il rischio di un equivoco, almeno per quanto riguarda le intenzioni di Husserl, per il quale il mondo della vita non è il mondo autentico e originario, e nemmeno come lo intende in modo originale Merleau-Ponty - il mondo selvaggio che precede ogni oggettivazione, la fonte profonda di ogni senso delle cose. Se mai, esso è il mondo della realtà dell’esistenza quotidiana, dove il vero e il presunto, l’autenti­ co e l ’inautentico sono mescolati indissolubilmente. È il mondo della doxa, con le sue verità relative. Le due epoché La nostra vita quotidiana è un intreccio di credenze che noi assumiamo ingenuamente come delle verità ovvie. Noi vivia­ mo in modo “naturale” in queste verità, quelle che il nostro mondo circostante accetta, senza farcene un problema. Il mondo si offre al nostro sguardo e alle nostre manipolazioni e noi ne siamo coinvolti, assorbiti. Siamo come persi nella di­ mensione mondana. Così possiamo vedere l’ambiguità del mondo naturale: es­ so è per noi una conquista in quanto ci libera dall’oggettivismo metafisico delle scienze naturali; ma è anche un limite, che rischia di chiuderci nelle sue ovvietà. 43

Perciò Husserl, raggiunto questo terreno-base del mondo della vita, in base alla prima epoché sulla metafisica delle scienze naturali, ci sollecita, come filosofi, a ripartire, a com­ piere un secondo movimento o epoché. E questa volta la mes­ sa in parentesi, la presa di distanza, riguarda proprio lo stesso mondo della vita o mondo naturale. Husserl stesso ci dice che questa epoché è qualcosa di “in-naturale”, perché anziché la­ sciarci pigramente vivere nel mondo ce ne distoglie, rovescia la direzione del nostro sguardo dalle cose del mondo alla sfe­ ra della coscienza e dei suoi atti, dove si manifesta non tanto il “che cosa” quanto il “come” del costituirsi del mondo. (È un po’ come in pittura...) E naturalmente questa riflessione sul come, sugli atti costi­ tutivi della coscienza, produce non solo un distacco dall’ade­ sione immediata al sapere mondano, ma anche la possibilità di un’analisi critica delle nostre credenze, una critica radicale di tutto 1’esistente, dunque la via per una ri-costituzione feno­ menologica del mondo, una vera emendatio, una purificazio­ ne da tutta una serie di concezioni mal poste e improprie. Husserl attribuiva a questa riflessione così radicale sulle matrici soggettive del nostro mondo costituito una funzione decisiva per la rinascita dello spirito che era stato quello della filosofia greca, di quella filosofia che aveva dato origine allo spirito europeo, superando la dimensione del mondo naturale e quella, connessa, del mondo mitico. L’idea filosofica di Eu­ ropa si affaccia in Husserl come il progetto di “un’umanità radicalmente diversa, capace di una responsabilità assoluta di sé e fondata su intuizioni teoriche assolute”7. Tutte le sue spe­ ranze di un superamento della crisi in cui era caduta l’uma­ nità attuale erano riposte in questa “rinascita dell’Europa dal­ lo spirito della filosofia attraverso un eroismo della ragione”8. 7 8

E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascen­ dentale, tr. it. cit., p. 341. Ivi, p. 358.

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Jan Patočka, un allievo di Husserl su cui torneremo nelle nostre conclusioni, ha osservato che Husserl, per una ironia della sorte, sognava la resurrezione dell’Europa proprio men­ tre questa era sul punto di soccombere con la seconda guerra mondiale. Ciò che di europeo - o diciamo di occidentale - si è effettivamente imposto in seguito alla guerra è la mondia­ lizzazione della scienza e della tecnica, ma spesso in confor­ mità di uno spirito assai poco filosofico (basti pensare alla corsa agli armamenti nell’età nucleare).

Heidegger: angoscia e stupore Questa valenza dell'epoché come presa di distanza, libera­ zione dalla presa del mondano, ci dà lo spunto per cogliere in modo intuitivo il nuovo orientamento che Martin Heidegger, il maggiore allievo di Husserl, imprime al movimento feno­ menologico. Anche Heidegger, in Essere e tempo, si pone il problema della possibilità che ci è data di sottrarci alla presa che il mondano mantiene normalmente sulla nostra vita, di libe­ rarci dall’adesione spontanea a quella dimensione sociale di usanze e di credenze in cui i significati e i valori sono detta­ ti da un soggetto anonimo, impersonale. Dove perciò le no­ stre credenze e convinzioni sono come coperte da una pati­ na di ovvietà. Questo mondo inautentico della “quotidianità media” è in fondo l’analogo, in Heidegger, del mondo naturale di Hus­ serl. Ma il suo superamento non dipende, primariamente, da un atto volontario come l'epoché di Husserl, dalla decisione liberamente assunta da parte del filosofo di non lasciar più valere le istanze coinvolgenti, assuefacenti del mondo natura­ le, di prenderne le distanze. 45

Anziché essere prodotte da un atto volontario o dall’ap­ plicazione di u n metodo, le circostanze che ci possono sot­ trarre alla presa del mondano sono per Heidegger la conse­ guenza di un evento che ci sopraggiunge, o di una situazione in cui ci troviamo a cadere, al di fuori della nostra volontà: di una disposizione emotiva in cui il senso e il non senso delle cose ci si manifesta sotto una luce nuova. (E vorrei sottolineare questo rilievo dato da Heidegger alla disposizio­ ne emotiva come “apertura” primaria al significato di ciò che ci circonda). Soprattutto nei suoi scritti degli anni Venti, Heidegger ha ribadito il valore di apertura e di scoprimento di una disposi­ zione emotiva fondamentale, quella dell’angoscia. In questa disposizione di fondo (che non è assimilabile alla paura, ecc.) è come se si allentassero i legami che ci tengono avvinti alle cose del mondo; come se il mondo, nella sua totalità, si allon­ tanasse da noi, perdendo così la presa che su di noi mantene­ va, il suo carattere assoluto cui eravamo consegnati. “Nella chiara notte dell’angoscia” (sono le parole di Heidegger) si manifesta il Nulla che circonda noi e il mondo ora visto a di­ stanza. Un Nulla che significa - anche qui come in Husserl la contingenza del mondo. In altre parole, l’ente totale quale ora si manifesta, il mon­ do non ci soffoca più con la sua assolutezza schiacciante. Non è un assoluto: potrebbe non essere. Proprio per ciò cessa quella assimilazione “ovvia” in cui vivevamo prima e che dettava l 'adeguazione dei nostri comportamenti, delle nostre credenze e discorsi. Per un momento siamo sottratti al mon­ dano. E anche se dovremo ricadervi, dopo questo momento di rottura lo vedremo forse con occhi nuovi. Il mondo ci appare ora come segnato da una singolare stranezza o estraneità che si manifesta nello stupore e ci costringe a formulare la do­ manda metafisica fondamentale: “perché l'essente e non piut­ tosto il nulla?”. 46

C’è dunque analogia tra questo distanziarsi angosciato e stupito dal mondo e l '“annichilazione” husserliana: in en­ trambi i casi il mondo perde la sua perentorietà. Vacilla, dice Heidegger. Anche qui abbiamo una specie di epoché, ma pro­ dotta da uno shock esistenziale che si identifica con la dispo­ sizione emotiva fondamentale. Si potrebbe forse dire che quello stupore che in Husserl sembra seguire l 'epoché (intesa come un’operazione metodica volontaria), in Heidegger è la condizione involontaria, l’evento subito, che precede e rende possibile l'epoché medesima. Heidegger è ritornato in un corso del 1937-38, intitolato Domande fondamentali della filosofia9, sul significato di questo stupore originario, che riprende la nozione di thaumazein cui Platone e Aristotele attribuivano l’origine della filosofia. Questa svolta impressa da Heidegger alla problematica del mondo naturale e della liberazione dai vincoli del mondano, si fa presto sentire sulla cerchia degli allievi di Friburgo, ri­ masti vicini al vecchio Husserl, come Eugen Fink e il filosofo praghese Jan Patočka, che ho già nominato, e che si è fonda­ to in quello stesso ambiente. Il vecchio Husserl, che aveva rotto con Heidegger per motivi sia filosofici che politici, non avrebbe voluto che i suoi allievi più fedeli ascoltassero la si­ rena heideggeriana. Ma la forza e l’originalità del pensiero di Heidegger hanno finito per imporre una svolta alla stessa in­ terpretazione della fenomenologia. Così, per tornare al nostro tema, Fink interpreta esplicita­ mente l 'epoché come stupore e insiste sulla natura traumatica dello stupore, da cui prende origine la filosofia, uno stupore che “fa tremare il suolo” di tutte le presunte certezze su cui si

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M. Heidegger, Grundfragen der Philosophie , Klostermann, Frankfurt am Main 1984, tr. it. di U. M. Ugazio, Domande fondamentali della filosofia , Mursia, Milano 1990.

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basa sia la vita quotidiana che lo stesso sapere scientifico: “Con lo stupore ciò che era evidente diventa incomprensibile,l' ordinario diventa straordinario”. La natura dello stupore è rivelata dalla parola greca ekplexis, resa nei dizionari con ‘sbalordimento, stordimento, stupore, costernazione, terrore, spavento’ (e derivata dal verbo plesso: batto, percuoto, urto). Con questa interpretazione così drammatica dello stupore Fink, e Heidegger prima di lui, si ricollegano alle intuizioni di Schelling circa lo sconvolgimento prodotto dal “t e ”, dal “fatto che” del darsi del mondo. Con il sorgere dello stupore - scrive ancora Fink - “l’uo­ mo assiste alla rovina delle sue tradizioni di sapere, delle sue nozioni acquisite sul mondo e sulle cose, sperimenta la ne­ cessità di un nuovo modo di confrontarsi con Vente e di un nuovo progetto del senso dell’‘essere’ e della ‘verità’”. Cercherò ora di ritrovare un filo conduttore delle cose che ho detto, e di aggiungere qualcosa come conclusione. 1) La prima mossa cui abbiamo assistito, da parte di Hus­ serl, è stato il confronto con lo scetticismo, con il dubbio e sospetto legato allo sviluppo delle scienze moderne. L’affer­ mazione che non abbiamo a che fare con “immagini” ma con le cose stesse ridà fiducia al nostro rapporto con il mondo e restituisce realtà al nostro mondo della vita. 2) Ma una volta fugato il sospetto, non abbiamo con ciò ri­ trovato ancora lo stupore degli antichi. Il mondo della vita naturale è descritto da Husserl e da Heidegger come mondo delle “ovvietà” e di quello che mediamente si pensa e si dice. Solo con la seconda epoché, o con lo shock esistenziale - con questo effetto di straniamento - ci sottraiamo all’ovvietà del mondano e cogliamo l’enigmaticità delle cose, dunque rigua­ dagniamo lo stupore e la domanda filosofica. 3) D’altra parte questa condizione - l’essere “fuori dal mondo” - non è una condizione in cui possiamo permanere stabilmente. 48

Husserl parla dell'epoché come di un metodo da praticare in tempi determinati, tra altre funzioni di cui si compone an­ che la vita del filosofo. Heidegger sottolinea l 'eccezionalità di quello spaesamento angosciato, che interrompe la quotidia­ nità e le sue ovvietà. Al mondo naturale tutti dobbiamo ritornare, riprendere ter­ ra, riacquisire il senso comune delle cose, utilizzarle ecc. Per conseguenza l 'atteggiamento filosofico non è un possesso stabile. Perché esso sia possibile bisogna che quella specie di terremoto che ha aperto un giorno la strada alla domanda filo­ sofica, tomi a prodursi sempre di nuovo in ciascuno di noi. 4) Questo contrasto ineliminabile tra atteggiamento naturale (al quale sempre ritorniamo) e epoché “estraniante” ci aiuta a comprendere come mai la filosofia non si sia mai imposta sta­ bilmente come il mondo della “ragione europea” (Husserl) sul mondo naturale, cioè su quel modo di vita che ha preceduto la nascita della filosofia e che continua a sopravviverle. Tra gli allievi di Husserl e di Heidegger, è soprattutto J. Patočka il filosofo che ha meditato, anche in senso storico, su questo passaggio traumatico dal mondo naturale pre-filosofi­ co alla filosofia. Se la filosofia ha una nascita storica, che si i­ dentifica con l’età della polis, ciò implica che sia esistito un mondo naturale in cui la domanda filosofica ancora stentava a sorgere. Un mondo in cui il ciclo naturale della vita (dalla nascita alla morte, attraverso le fatiche ripetitive del lavoro e della lotta quotidiana) dominavano integralmente l 'esistenza umana. E in cui questa vita dedita solo alla propria riprodu­ zione era accettata come un fatto ovvio e indiscutibile, come un destino imposto agli uomini da entità superiori. Così anche quel tipo di sapere che domina nel mondo natu­ rale pre-filosofico, il sapere mitico, è un sapere ricevuto, non ri­ cercato ma accettato a occhi chiusi sull 'autorità della tradizione. Solo con il crollo di questo mondo mitico si apre una di­ mensione completamente nuova. Nella polis greca i movimenti 49

elementari del mondo naturale e della cura della vita non ven­ gono soppressi, ma limitati e confinati nella casa, nel privato. A fianco si apre uno spazio di vita pubblica non più protet­ ta dalla tradizione, uno spazio di iniziativa e di rischio che in­ veste tutte le dimensioni dell’esistenza, dunque anche il sape­ re: “tremano perfino le colonne della vita sociale, della tradi­ zione e del mito [...], la vita si rinnova e tutto appare sotto una luce diversa: all’uomo libero sono cadute le scaglie che ricoprivano i suoi occhi, ma non perché veda nuove cose, bensì perché le vede in modo nuovo. È come un paesaggio ri­ schiarato da un lampo in cui [l’uomo] è solo, senza appoggi, condannato ad accontentarsi di ciò gli si mostra; è appunto l’istante dell’alba creativa, il primo ‘giorno della creazione’, enigmatico e tanto più trascinante per il fatto che esso abbrac­ cia, porta in sé e trascina via con sé l’uomo sbalordito”10. È un medesimo lampo quello che illumina, simultanea­ mente, la nascita della filosofia, della vita politica (come vita libera della polis) e della storia (come vita che non segue più la routine naturale, ma un proprio progetto autonomo). Ed è in quel lampo che sorge anche l’occidente europeo, lo spirito della vita europea, cioè di una vita che accetta di vivere nella problematicità aperta (senza soluzioni precostituite). Ma ora Patočka si domanda: cosa è accaduto dopo la nasci­ ta della filosofia? Cosa è avvenuto di quell’Europa filosofica che avrebbe dovuto generare una forma di esistenza superiore? In realtà anche l’uomo occidentale moderno, che pure ha fatto l’esperienza della filosofia, continua spesso a condurre un’esistenza più legata al ciclo della semplice vita che non a un progetto di storia, continua a obbedire a delle potenze su­ periori (anche se non sono più gli dei), a riprodurre credenze mitiche (accettate a occhi chiusi). Continua cioè a pagare un abbondante tributo al mondo naturale. 10 J. Patočka, Saggi eretici sulla filosofia della storia , tr. it., di G. Pacini, CSEO, Bologna 1981, pp. 72-73.

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Proprio l’esperienza del nostro secolo, con le sue ideologie di rigenerazione del mondo, ma con la sua realtà di masse umane spostate ciclicamente dalla fabbrica al fronte, dalla pa­ ce alla guerra, o anche con la sua rincorsa al benessere come contenuto supremo della vita, sembrerebbe convalidare la conclusione pessimistica di Hannah Arendt, secondo cui il movimento della vita semplicemente naturale starebbe per cancellare le basi di quell’esistenza storica che erano state poste dalla polis greca. Come se la natura, che l’uomo voleva sottomettere alla storia umana con il potere della scienza e della tecnica, si prendesse una rivincita e tornasse a sottomet­ tere la vita umana ai propri cicli elementari; e ciò proprio me­ diante la scienza, la tecnica e il benessere. Con una riserva però, che Patočka ha avanzato, e che rap­ presenta forse un freno rispetto al pessimismo della Arendt: che l’uomo europeo, nonostante questo continuo ricorrere del­ l’atteggiamento naturale, non può più vivere in modo ingenuo (come l’uomo pre-filosofico) una vita semplicemente natura­ le. La traccia di quello scuotimento da cui è nata l’interroga­ zione filosofica è qualcosa di incancellabile, è diventatar un destino che continuerà a tormentarlo e a essergli di pungolo. [A questo punto del manoscritto compaiono due conclusio­ ni. Le presentiamo qui di seguito con la convinzione che que­ sta prìma fosse stata redatta inizialmente e poi sostituita dal­ la seconda. Prima versione della conclusione] 5) Può suonare strano che si dica che l’uomo moderno, con la sua tecnologia sofisticata e il suo sapere scientifico, vi­ ve ancora secondo il mondo naturale e l’atteggiamento natu­ rale. Ma nonostante l ’apparenza contraria, la razionalità scientifico-tecnica non è qualcosa che si sottragga (come la ragione filosofica) all’atteggiamento naturale. Al contrario, la 51

tecnologia non fa che prolungarlo, dotandolo di protesi artifi­ ciali, di mezzi supplementari. E quanto alle scienze naturali, sappiamo che esse si formano a partire dal mondo della vita, senza mettere in discussione l'ovvietà di questo mondo. Man­ ca del tutto, nell’atteggiamento delle scienze naturali, - come nel mondo della vita - lo stupore per l'essere-così delle cose, e per il fatto che qualcosa si dia. Così le scienze e la tecnologia restano al servizio della vita naturale anche se sembrano allontanarcene, in quanto ricoprono il mondo naturale di figure geometriche e di for­ mule matematiche. 6) Nell’insieme, per riassumere la situazione in una sola immagine, è come se la natura e il mondo naturale, che l’uo­ mo voleva assoggettare alla storia e dominare con la tecnica, si prendessero una rivincita, utilizzando le stesse realizzazio­ ni tecniche più grandiose per imporre agli uomini una ripro­ duzione allargata, amplificata, della semplice vita naturale, che si fa beffe di ogni progetto storico. A queste conclusioni poco ottimistiche sono giunti, indipendentemente, due allievi di Heidegger, Jan Patočka e Hannah Arendt, riflettendo sulla storia dell’occidente e sulla modernità. [Seconda versione della conclusione] Così possiamo cercare di concludere riproponendoci il problema della cultura filosofica europea (oggi il problema di un’identità europea come problema filosofico e non solo co­ me centro della competizione economica globale, è stato ri­ proposto dopo F 89 da Morin, Derrida, Cacciari...) Se ci domandiamo che cosa ha trasmesso la cultura filoso­ fica europea (in quanto nata da quello shock e stupore) alle altre culture dalle quali si è originariamente separata (ma che oggi non ne sono più separate, perché ne sono state invase e pervase, quindi non sono più culture chiuse nel mondo sem­ plicemente naturale) forse la risposta è: ha trasmesso l’esi­ 52

genza di far convivere, insieme con l 'atteggiamento naturale che si rigenera costantemente, perché coincide con la vita stessa e con la sua apertura spontanea sul mondo, anche la di­ sponibilità a prenderne le distanze, a quella epoché che ci sot­ trae per un istante al commercio immediato con il mondo, ma che ci apre alla dimensione della verità. Vivere nel mondo e prenderne anche le distanze non è una condizione facile. È anzi una condizione inquietante, perché impone di rinunciare ad un’esistenza sostenuta da certezze e garanzie, come quelle del mondo mitico. È una condizione che Patočka riassumeva in una frase: “imparare a vivere nella problematicità”.

NOTA EDITORIALE I saggi che compongono questo volume si concentrano sul tema del “mondo naturale”, documentandone la posizione centrale nel pensiero di Jan Patočka. Tale posizione, che a sua volta il testo di Guido D. Neri qui pubblicato colloca all’interno dell’orizzonte del pensiero fenomenologico, ha suggerito di assegnare alla raccolta il titolo stesso di uno dei suoi saggi più significativi: Il mondo natu­ rale e la fenom enologia.

Di seguito sono elencati i dati bibliografici relativi a ciascuno di tali saggi. 1

P er la preistoria della scienza del movimento : il mondo , la ter ­ ra , IL CIELO E IL MOVIMENTO DELLA VITA UMANA (K prehistorii vědy O

pohybu: svět, země, nebe a pohyb lidského života). Pubblicato nella rivista ceca “Tvář II”, Praga 1965, 10, pp. 1-5. Traduzione italiana dal ceco di Gianlorenzo Pacini, già pubblicata in “aut aut”, 299-300, 2000, pp. 129-141. 2 II mondo naturale e la fenomenologia (Přirozený svět a fenome­ nologie). Testo pubblicato per la prima volta in traduzione slovacca ! /n e llæ raccolta Ezistencializmus a fenomenológia , Obzor, Bratislava ! I 1967/ pp. 27-71. Il testo originale ceco è stato pubblicato nella raccolNtadrsaggi Přirozený svět a pohyb lidské existence, Praga 1980, vol. I, pp. 1-49. Traduzione italiana dal ceco di Gianlorenzo Pacini, rivista da Guido Davide Neri e Alessandra Pantano. 3 L a filosofia della crisi delle scienze secondo E dmund H usserl E LA SUA CONCEZIONE DI UNA FENOMENOLOGIA DEL “MONDO DELLA VI­ TA” (La philosophie de la crise des sciences d ’après Edmund Husserl et sa conception ďune phénoménologie du umonde de la vie”). Testo scritto in lingua francese e pronunciato a Varsavia nel maggio 1971. Pubblicato in “Archiwum Historii Filozofii i Mysli Spolecznej”, Var­ savia 1972, X V in , pp. 3-18. Traduzione italiana dal francese di Ales­ sandra Pantano. 4 I ntero del mondo e mondo dell ’uomo . O sservazioni per un inizio di cosmologia contemporanea (Weltganzes und Menschenwelt. Be­ merkungen zu einem zeitgenössischen kosmologischen Ansatz). Testo composto in lingua tedesca e pubblicato in Weltaspeckte der Philo­ sophie. Rudolf Berlìnger zum 26. Okt. 1972 , Rodopi, Amsterdam

1972, pp. 243-250. Traduzione italiana dal tedesco di Alessandra Pantano.

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IL MONDO NATURALE E LA FENOMENOLOGIA

PER LA PREISTORIA DELLA SCIENZA DEL MOVIMENTO: IL MONDO, LA TERRA, IL CIELO E IL MOVIMENTO DELLA VITA UMANA.

La moderna fenomenologia ha sviluppato l 'affascinante problema dell’oggettivazione. Essa ci insegna che gli uomini conoscono originariamente la realtà in una situazione, in un orientamento che sono variabili a seconda degli individui, e che hanno dovuto anzitutto elaborare una tecnica - dapprima approssimativa e ancora situazionale, e solo in seguito com­ plessa e artificiale - di reciproco accordo nella varietà delle situazioni particolari: una tecnica di misurazione, di pesatura e di confronto che è la sola in grado di determinare unaTforma precisa cui si possa in ogni circostanza tornare a riferirsi co­ me a qualcosa di costante e identico. Essa ha mostrato inoltre come tutta la scienza sia un processo che porta avanti e svi­ luppa in modo sempre più raffinato una prassi originariamen­ te semplice di oggettivazione. Dal momento che la scienza è appunto un tale proseguimento del processo di oggettivazio­ ne, il quale a sua volta presuppone una realtà situazionale e orientata e si fonda sulla verifica continuamente protratta,del­ l’ipotesi di una natura oggettiva (ipotesi che nondimeno resta sempre e soltanto tale), non è possibile affermare che la scienza abbia già raggiunto in qualche caso il terreno dell’as­ soluta oggettività. Bisogna riconoscere che essa è soltanto un metodo, una via, e che nessuno dei suoi risultati può essere affermato come la realtà stessa. 57

Ma ora si pone la domanda: a che cosa ricollegare questo processo di oggettivazione? Non è qualcosa di autosuffìciente e non lo si può comprendere a partire solo da se stesso. D’al­ tra parte, non è neppure possibile spiegarlo come un’immagi­ ne soggettiva prodotta dall’azione di un’esteriorità oggettiva sulla nostra coscienza, sul soggetto, e questo proprio perché è il terreno oggettivo che a noi manca. Quindi non possiamo far altro che risalire a ciò da cui ha inizio il processo di og­ gettivazione per cercare di chiarire per via di riflessione la si­ tuazione in cui esso si produce. Ma cos’è questo inizio? Se non è nulla di oggettivo, dovrà evidentemente avere un carat­ tere soggettivo. Bisogna tuttavia richiamare subito l’attenzio­ ne sul fatto che soggettivo [subjektivní] non significa la stessa cosa che soggettuale [subjektni]. “Soggettuale” per noi desi­ gna i vissuti di cui concretamente si compone la vita del sog­ getto. “Soggettivo” può essere non soltanto un vissuto, bensì anche ciò che è esperito senza però che di esso si componga­ no i vissuti; qualcosa, quindi, che non appartiene loro real­ mente. Una prospettiva, ad esempio, è qualcosa di soggettivo, ma non è soggettuale; l’aspetto di una cosa è qualcosa di sog­ gettivo, ma non è un vissuto, non è qualcosa di soggettuale, come lo è invece lo sguardo che la considera. Quindi risalen­ do la via dell’oggettivazione fino al suo punto di partenza, non perdiamo ancora di vista il carattere di cosa [věcnost], naturalmente pur sempre entro rapporti soggettivi e nei suoi aspetti situazionali. Al contrario, già all’inizio del processo di oggettivazione ci si scopre una tale ricchezza di strutture co­ sali che, se vorremo cogliere la struttura essenziale, dovremo far ricorso a radicali semplificazioni. È assolutamente naturale dare inizio a questo tentativo - e cioè risalire all’origine di ogni oggettivazione - prendendo le mosse da ciò che è più ovvio: dal fatto che la realtà sta nel percepito, nelle cose “date ai sensi”. Ma non appena riuscia­ mo davvero a svincolarci da ciò che è determinato dall'ogget58

tivazione quale dato sensibile, ci rendiamo subito conto che nell’esperienza concreta non esiste né un singolo dato sensi­ bile, né un insieme di tali dati. Ogni presenza sensibile è già inserita in una totalità determinata, e questa totalità è difficile ad analizzarsi, giacché il linguaggio, con il cui aiuto dobbia­ mo procedere all’analisi, è già esso stesso orientato sui risul­ tati dell’oggettivazione, per quanto provvisoria e primitiva essa sia, e per giunta è impregnato di vari schemi che sono stati attinti dalla tradizione della psicologia obiettiva. In un certo senso, la totalità preliminare è presente come lo sono le cose singole. Solo è evidente che essa non può essere “sensi­ bilmente data” allo stesso modo di tutto ciò che, appunto, “agisce sugli organi sensoriali”. Posso avere le singole cose ma­ terialmente davanti a me, posso poi di nuovo soltanto pensar­ le “in modo vuoto”, oppure rappresentarmele solo soggettiva­ mente in maniera incompleta. Ma quanto alla totalità, che pu­ re è anch’essa sempre già qui (almeno nella mia vita adulta e normale), non posso mai ricondurmela davanti nella sua pre­ senza materiale, e cioè in una presenza analoga a quella delle singole cose. Eppure ogni singolarità proviene a noi da quella totalità come una sorta di esplicitazione, di espressa rappre­ sentazione di ciò che in essa era contenuto in maniera som­ maria e inviluppata. In maniera figurata siamo soliti dire che la totalità è qui presente come un orizzonte, e cioè è sempre qui e sempre sostanzialmente identica nonostante qualsiasi mutamento degli oggetti e di ciò che la riempie. È facile obiettare: questo “orizzonte del mondo” è un prodotto della memoria e della fantasia che elaborano i dati sensoriali; ma se andiamo ad interrogare la memoria e la fantasia, vedremo che esse non sono nient’altro che una quasi-percezione, una percezione irreale del modo in cui “percepiremmo se perce­ pissimo realmente”, e vedremo che ogni percezione presup­ pone già una totalità da cui le cose ci si manifestano, da cui emergono per poi ritornare ad immergercisi non appena noi ci 59

distogliamo da esse; si tratta quindi di una totalità prelimina­ re. Quindi possiamo descrittivamente caratterizzare la co­ scienza dell'orizzonte e la sua totalità - anche dell’orizzonte più estremo, e cioè l’orizzonte del mondo - come qualcosa di originario, qualcosa che non si può comporre partendo dalle impressioni sensoriali, né dalle rappresentazioni ricalcate su queste, né dalla combinazione delle une e delle altre. Pertanto dal punto di vista fenomenologico discende in mo­ do assolutamente naturale la tesi che la vita umana è sempre caratterizzata come vita nel mondo, come vita in una totalità già anticipata. Si intende che questa totalità è un non-mostrarsi di ciò che può essere mostrato, è una inespressa presenza di ciò che può essere reso espressamente presente, che essa ha i suoi modi di vicinanza e di lontananza, di esposizione e di non-esposizione, e che la prima evidente espressione di questo ambito inapparente consiste nella fascinazione da parte di ciò che è percettivamente possibile e disponibile. Ma neanche questo si può affermare senza rettifiche, giacché in questa tota­ lità sono disponibili, non meno che gli accessi mediante la per­ cezione sensibile, anche tutti gli altri possibili accessi all’ente e al quasi-ente. E non si può neppure trascurare la circostanza che già il fatto stesso di una presenza non sensibile di ciò che è sensibilmente accessibile è qualcosa di vertiginoso, qualcosa che apre la porta a una sorta di mistero dell’evidenza, del qua­ le non ci rendiamo conto dal momento che facciamo quasi tutt’uno con esso, in esso ci muoviamo, siamo e viviamo. Quindi la vita umana è caratterizzata da una totalità già an­ ticipata. Ma come ora possiamo definire il rapporto che assu­ miamo nei confronti di ciò che sorge e tramonta in questo orizzonte della totalità, nei confronti di ciò che si manifesta in esso o sul suo sfondo? Penso che il filo conduttore per la de­ finizione dei nostri incontri nel mondo consiste nel fatto che il veicolo e il mediatore di questi incontri è il movimento, il nostro proprio movimento nel quadro del mondo e di tutto 60

ciò che nel mondo stesso può presentarsi e apparire. Ma ciò significa che si tratta del movimento di un essere alla cui es­ senza appartiene il mondo, del movimento di un essere del mondo [světový], un essere che per propria, specifica essenza non si trova nel mondo come una pietra, una pianta o magari anche un animale, bensì un essere che non può compiere mai nulla di specificamente umano senza rapportarlo - esplicita­ mente o implicitamente - alla totalità anticipata. Ma perché parliamo espressamente di movimento? Il movi­ mento non viene già da tre secoli caratterizzato nella filosofia e nella scienza semplicemente come cambiamento di luogo, e quindi come qualcosa che appartiene al mondo oggettivo, alla sfera della res extensa, e non è quindi qualcosa di particolare e di inadeguato a una descrizione soggettiva e a un compito così essenziale qual è quello di farci comprendere la natura della nostra vita e del suo modo di coesistenza con le cose e con le altre persone? Il fatto è che la succitata definizione, ri­ salente al XVII secolo, è già essa stessa il risultato di una og­ gettivazione sofisticata e di vasta portata. Ancora oggi noi parliamo di moti dell' animo, di emozioni o commozioni, del movimento della vita; ci tornano agevolmente in mente cele­ bri “immagini” e “metafore” che hanno svolto e svolgono tut­ tora un ruolo importante nella vita culturale, come quella del­ la vita intesa come viaggio o pellegrinaggio; grandi opere poetiche, come l’Odissea o la Commedia di Dante, non sareb­ bero possibili senza una tale “immagine”, e non è escluso che si tratti di qualcosa di più di una semplice immagine. In un tempo a noi vicino un noto pensatore ha proclamato: “Dasein ist immer unterwegs”', e come potrebbe trovarsi in cammino un essere che non compie un movimento? Penso che tra il movimento oggettivato e il movimento della nostra vita esista una certa comunanza che ci permette appunto d’impiegare la stessa espressione riferendoci a en­ trambi: in entrambi i casi il movimento si svolge effettiva61

mente tra cose ed è un movimento corporeo. Nelle sue com­ ponenti più evidenti il movimento della nostra vita è un mo­ vimento corporeo. Unicamente in base al movimento del no­ stro corpo e in connessione con esso noi siamo in grado di comprendere il nostro contatto percettivo con le cose, che non è mai un riflesso passivo degli oggetti, bensì la risposta a un “io” che si orienta attivamente, un io al quale una tale di­ zione è resa possibile dal dominio sul suo corpo, di cui ogni soggetto è immediatamente cosciente. Una delle più gravi de­ ficienze della psicologia empirica del passato consisteva nella mancata considerazione del fatto che la percezione non è sol­ tanto accompagnata da movimenti, bensì è una loro compo­ nente, anzi è essa stessa movimento. In sostanza, quella psi­ cologia non aveva saputo liberarsi del concetto oggettivistico e meccanicistico del movimento. Ma se la nostra vita è determinata come movimento, ne di­ scende un’importante conseguenza: questo movimento ri­ chiede un suo referente, e un tale referente non può essere semplicemente “il mondo in generale”; il mondo infatti è la somma di ogni realtà e di ogni oggettività in generale, mentre qui c’è bisogno di un referente reale e tale che, nei suoi con­ fronti, la nostra vita possa delinearsi appunto come movimen­ to; ci vuole insomma un referente solido. Pertanto in questo mondo primordiale è indispensabile ciò in rapporto a cui noi ci muoviamo, ciò che ci fornisce il criterio del movimento e della quiete, ciò in cui o su cui il movimento si dispiega. Per­ tanto la terra (già Husserl lo diceva) è originariamente (in questo mondo soggettivo, ma non soggettuale) qualcosa di indispensabile. Così la terra è anzitutto un solido appoggio e il sostrato per qualsiasi movimento, sia nostro che delle altre cose. Essa è l’appoggio universale, e pertanto è anche il pro­ totipo di tutto ciò che è massiccio, corporeo, materiale, è il “corpo universale”, di cui tutte le cose sono in certo modo delle parti; come, del resto, è attestato dalla loro mancanza di 62

autonomia, dal loro comparire e scomparire. Attraverso que­ sto aspetto della terra quale portatrice e referente di tutti i movimenti e di tutti i rapporti si manifesta inoltre il fatto che la terra è potenza. La potenza è più che la forza: quest’ultima si manifesta solo occasionalmente, mentre la potenza è qual­ cosa che agisce in permanenza, qualcosa che ha il suo regno su cui “domina”. La terra domina sugli elementi e sulle cose, sui non viventi e sui viventi. Nei viventi questo suo dominio si manifesta in ogni loro movimento; l’orizzontale della terra domina nella verticale della vita. Ma il dominio della terra nella sfera della vita è parimenti dominio sulla vita e sulla morte. Giacché la terra non è soltanto terra-appoggio e porta­ trice, ma è anche terra-nutrice. La corporeità del nostro movi­ mento vitale si manifesta infatti, tra l’altro, per il fatto che il senso e lo scopo naturalmente (“istintivamente”) dato del mo­ vimento vitale, che si frammenta in singoli movimenti-fun­ zioni corporei, consiste nella stessa vita corporea, nella sua riproduzione e continuazione individuale. E in questo mondo corporeo è evidentemente la terra nutrice che domina per tut­ to ciò che essa prepara, rende possibile o impossibile, cosic­ ché noi stessi siamo da essa pervasi e siamo noi stessi - in una considerazione astratta - una sua parte o modificazione. Tuttavia la terra non è l’unico referente del movimento vi­ tale, e non lo è per ragioni essenziali. Ciò emerge già da una certa caratteristica della terra che la definisce come referente: la sua essenziale vicinanza intesa come accessibilità. Esiste anche un altro referente alla cui essenza appartiene la lonta­ nanza: un referente impalpabile, inaccessibile al contatto cor­ poreo, per quanto si manifesti in tutta la sua presenza; un re­ ferente al quale appartiene tutto ciò che è per sua essenza in­ tangibile: i cieli, la luce, la tenebra, le luci e i “corpi” celesti, tutto ciò che racchiude il nostro orizzonte senza chiuderlo, ciò che configura l’esterno come un interno che ci circonda in continuazione. Come la terra è anzitutto donatrice di ogni 63

“dove”, così il cielo è in primo luogo donatore del “quando” grazie al suo alternarsi della notte al giorno, della luce alla te­ nebra, con tutti i suoi cicli, i suoi eventi e passaggi. E con ciò esso è allo stesso tempo donatore di ogni chiarezza e di ogni coscienza di ciò che è vicino, coscienza che è in essenziale rapporto con ciò che è lontano; nella luce del cielo la terra si accende di colori che rivelano le cose nella loro essenza, non soltanto in vicinanza, ma anche in. lontananza. Soltanto l 'orientamento in relazione con la terra e il cielo ci mostra che cos’è il contatto sensibile umano, ci mostra che esso è possibile soltanto nel movimento di un essere del mon­ do che è in grado di rapportarsi non solo con enti singoli, bensì con le fondamentali potenze del reale, quelle accessibili come le inaccessibili, quelle di approccio sostanzialmente agevole così come quelle lontane e remote. Esso ci mostra inoltre che questo contatto umano assume un suo senso dall ' atteggiamento globale del movimento della vita, che presen­ ta nell’uomo degli alti e dei bassi, e pertanto si realizza anche in un’altra dimensione, una dimensione di profondità, che tenteremo di delineare. Giacché il contatto sensibile può esse­ re totalmente concentrato su ciò che, nella cosa, si riferisce al ritorno biologico - in me istintivamente pratico - del movi­ mento vitale a se stesso; ma può invece contenere quella pe­ culiare vertigine che insorge nel momento in cui la terra e il cielo cessano di essere una mera “cosa per...”, e diventano un punto di passaggio, un rimando all’incommensurabile e la scoperta di un contesto inaudito. Noi pensiamo che i singoli movimenti eseguiti dal nostro soggetto corporeo - i movimenti inerenti al camminare (con le loro varie modalità del riposo, della posizione seduta, di quella eretta e così via), come quelli inerenti al toccare, al prendere e a tutti quegli interventi sulle cose che si realizzano per mezzo di essi - non siano comprensibili di per se stessi, bensì che ricevano un loro senso solo se intesi come mezzi fi64

nalizzati a determinati scopi; pensiamo che siano essenzial­ mente movimenti “da... a...”, movimenti orientati e dotati di un senso che oltrepassa ciascuna delle loro fasi. Un tale senso compete loro in maniera essenziale come movimenti, altri­ menti noi li considereremmo non già come movimenti con­ creti di un essere concreto, bensì come movimenti anormali, come tropismi, oppure li considereremmo astrattamente. Per­ tanto è indispensabile, per caratterizzare nella loro comple­ tezza i movimenti, cogliere la globale, preventiva significa­ zione in cui essi sono inseriti. In un essere del mondo [světový] una tale prefigurazione deriva da due punti di vista: per un verso dal fatto che ogni sua operazione e la sua attività costituiscono un rapporto al mondo, e per un altro dal fatto che nel suo rapportarsi al mon­ do esso è sostanzialmente sia soggetto che oggetto e quindi, come soggetto, è essenzialmente co-soggetto. Il rapporto con il mondo può quindi essere un rapporto che si istituisce, che ha inizio, un rapporto di acquisizione del mondo, oppure un rapporto di funzionamento in un quadro d’inserzione nel con­ testo del mondo, oppure infine un rapporto che abbraccia nel suo sguardo questo inserimento stesso e lo domina. La tripli­ ce natura di questo rapporto al mondo possiamo coglierla me­ diante la considerazione della temporalità della vita, e cioè in base all’intima caratteristica del suo movimento. Acquisire il mondo, ancorarsi e radicarsi in esso è possibile soltanto attraverso l’intermediario degli altri; il semplice, em­ pirico fatto dell’umana impotenza in età infantile non è un mero, rozzo fatto: in realtà esso si trova in connessione con' la legge che inerisce all’essere stesso dell’uomo, che non sorge come una combinazione bell’e pronta di reazioni istintiva­ mente preparate, bensì deve egli stesso guadagnarsi realmen­ te il proprio mondo; ma tale acquisizione del mondo si realiz­ za nell’ambito di una protezione che gli è garantita dall’acco­ glienza da parte degli altri. È negli altri che la terra diventa 65

calda, amabile, benigna. Gli altri sono pertanto la dimora ori­ ginaria, e non una mera necessità esteriore; sono lo stesso no­ stro ancoraggio nell’esistenza, il rapporto con ciò che è già preparato per noi nel mondo, ciò che ci accoglie e che dobbia­ mo già preventivamente trovarvi per poter vivere e per poter compiere tutti gli altri movimenti della vita. Pertanto al nostro radicamento corrisponde nel suo insieme il carattere tempora­ le di passato, la dimensione temporale di ciò che ci è già glo­ balmente aperto in una passività preliminare, il “come ci tro­ viamo, come stiamo”. Pertanto l’ancoraggio nell’esistenza, questo primario movimento umano, ci mostra, con evidenza ancora maggiore che non tutta la successiva mobilità umana, che il movimento dell’uomo è in realtà un co-movimento in reciprocità con gli altri. E le cose non vanno altrimenti per le altre modalità del movimento vitale, giacché la seconda fase, quella “presente”, e cioè la fase del funzionamento nell’inseri­ mento, è anch’essa naturalmente caratterizzata dal nostro con­ essere con gli altri, i quali si trovano qui non solo nella loro presenza corporea e i loro modi derivati, ma anche con le loro opere, con i sedimenti della loro attività, con le situazioni da loro create o di cui essi sono componenti insieme con noi. La fase del funzionamento nell’inserimento è caratterizzata dalla prevalenza dell’oggettività, dall’orientamento sullo strumen­ tale, dalla non-tematizzazione del fine vero e proprio, che svanisce nell’indifferenza di ciò che è ovvio e che non è nient’altro che il protrarsi e il riprodursi dell’ “esistenza”. Si tratta di un ambito in cui noi dobbiamo attenerci ai mezzi, in cui la vita inevitabilmente si frammenta, in cui diventa lette­ ralmente una serie di istanti caratterizzati dal prendersi cura, diventa un mezzo finalizzato a se stesso; e pertanto il suo mo­ vimento può essere definito un movimento di autoprolunga­ mento e autoripetizione che rappresenta una destituzione di sé. È un movimento che è caratterizzato, nel rapporto con gli altri, dalla stessa atomizzazione che riscontriamo nella ffam66

mentazione nell’istante, nel presente iterato; in questa sfera ogni compartecipante è un partner che rappresenta un centro chiuso su se stesso, che è orientato, solo per se stesso, verso quell’autocontinuazione che è appunto un’auto-destituzione. Se lo osserviamo, vediamo che esso può significare per noi soltanto un concorrente, un ostacolo, un incitamento a metter­ ci in corsa, un segno esteriore di ciò che potrei ottenere e che mi manca, cosicché il nostro modo di essere-insieme è sostan­ zialmente il modo della contrapposizione. Il terzo aspetto del movimento della vita è caratterizzato dall’accedere alla conquista di sé mediante la dedizione di sé [sebevydání], mediante la rivendicazione e l’assunzione della finitezza. Il presente iterativo non è soltanto una necessità, ma è insieme anche un sottrarsi a se stessi, alla propria dipen­ denza e finitezza, che in tal modo si fa meno evidente, si eclissa - pur restando presente - come qualcosa che si stempera in ognuna delle nostre funzioni. Nel momento in cui la vita si dimostra capace di affrontare faccia a faccia la propria fini­ tezza, essa è in grado - come ha cercato di dimostrare Hei­ degger - di superare la sua precedente dispersione, la sua “ca­ duta” nelle cose e il loro potere su di sé, cioè la sua propria cosificazione. Oppure, per dirla con Hegel, tutto il solido ter­ reno su cui poggiava fino ad allora la vita ha preso a tremare in essa. Ha preso a tremare la terra stessa su cui la vita pog­ giava. Se è giusto caratterizzare l’uomo come abitante della terra, ecco che in lui la terra è sconvolta da un terremoto. Egli scopre questa sua esistenza non in quanto accettata e radicata, bensì come nuda, e nell’attimo stesso scopre che la terra e il cielo hanno un loro trans, cioè un loro “al di là”. Ciò al tem­ po stesso significa che in essi non c’è nulla che possa offrire all’esistenza un punto d’appoggio definitivo, un radicamento, uno scopo o un perché definitivi. Che la vita possa superare il proprio movimento di caduta non significa che lo debba. Il ri­ velarsi della finitezza come qualcosa che regna sulla vita e 67

che perciò la minaccia, può diventare lo strumento di un con­ trollo esteriore della vita stessa, e quindi rientrare nel quadro di quella sua autocontinuazione che è auto-destituzione. Può presentarsi cioè come il suo aspetto estremo: quella forma estrema che è rappresentata dalla vita combattiva e dall’avven­ tura, ma soprattutto dal comando e dal dominio. È indubbia­ mente presente nell’uomo una caratteristica che è specificamente umana, che non è riscontrabile in nessun’altra creatu­ ra: l’esigenza e la possibilità del rischio come può provarli solo un essere libero, quell’esigenza e quella possibilità su cui ha tanto acutamente insistito Kojève nelle sue penetranti analisi dei testi di Hegel: quel bisogno che crea gli alpinisti, i sommozzatori, i cosmonauti e gli acrobati, quel bisogno in cui si fa sentire la libertà battendo alla nostra porta, senza pe­ raltro mettere ancora in moto la valanga. Ma se la valanga si è messa in moto, allora non c’è più nulla che possa fermarla. La terra e il cielo perdono il loro potere. “C’è” qualcosa davanti a cui essi si fermano, qualcosa che non s’inchina davanti a nulla, e davanti a cui la terra e il cielo s’inchinano in noi. E questo significa che la terra e il cielo diventano lo scenario per “qualcosa di superiore”. Ne consegue che il precedente senso e indirizzo della vita e del suo movimento s’invertono. La vita, che era rivolta su se stessa in un contesto di degradazione e di oblio di sé, ora in­ vece si rivolge fuori di sé, là dove conquista se stessa. E ciò significa che essa non può rivolgersi a nient’altro che a un’al­ tra vita. La vita che si è conquistata come esistenza non può chiudersi, perché in tal modo ricadrebbe nuovamente nella mera autocontinuazione; la vita che ha aderito alla propria fi­ nitezza si è conquistata soltanto per dedicarsi. E questo vuol dire: per appellarsi, per consegnarsi agli altri, non in vista della semplice continuazione della loro perdita di sé, ma per ritrovare una comune, pura interiorità, per una reciproca com­ penetrazione, per realizzare il miracolo di un intimo accesso 68

agli altri. Giacché quel terremoto, che ha scosso il solido ter­ reno di appoggio, ha distrutto anche ciò che separa, ciò che ci rende reciprocamente estranei. Il movimento dello spirito nel­ le sue forme più svariate è un movimento di intima compene­ trazione reciproca, ed equivale ad un autosuperamento più al­ to, più profondo della durata empirica e dell'immaginaria so­ pravvivenza. Husserl si è sforzato di mostrare che la vera via di accesso all’assoluto è la discesa nella soggettività, ma an­ che che la vera forma di questa soggettività assoluta è l’intersoggettività, la comprensione che l’altro è una modalità della mia propria soggettività, che è una modalità della vita che presentifica la vita stessa, senza peraltro riprodurla. In questa intuizione di Husserl c’è una grande profondità, ma essa non basta di per se stessa a eliminare l’estraneità di due io; a ciò è anzitutto indispensabile un sommovimento del cielo e della terra, una scossa che fa sì che venga modificata la direzione globale del movimento vitale, che prima ci divideva. Soltanto adesso si presenta la possibilità che coloro che partecipano alla medesima rivelazione della nullità della terra, fin qui coinvolta nella cattiva finitezza della ripetizione, riescano a concepire una nuova terra, una terra che sia la rivelazione di un nuovo regno, che non dipende da loro, bensì che viene lo­ ro incontro, un regno il cui senso non ha origine dalle cose, e tuttavia coglie le cose nella loro essenza, un regno dello spiri­ to e della libertà. Così il movimento della conquista di sé attraverso la remis­ sione e la dedizione di sé diventa al tempo stesso un esplicito rapporto con il mondo in totalità; un rapporto in cui il mondo è qui presente nel modo più originario e tale che in nessun al­ tro modo esso può presentarsi in misura più piena e più pro­ pria; un rapporto che non strappa al mondo l’ultimo velo di mistero - come si sforza di fare una conseguente oggettivazio­ ne - bensì preserva questo mistero, si affida ad esso, si chiari­ sce e si approfondisce proprio nell’atto di affidarglisi, anziché 69

perdersi e disperdersi. Giacché in questo movimento l’uomo diventa egli stesso parte e partecipe di questo mistero ultimo: del mistero del mondo in totalità, del mistero dello spirito, del cielo e della terra, del mistero del loro incontro. Mistero che non può essere tradotto in un problema da risolvere, giacché l ' oggettivazione, che è il presupposto della sua traduzione e svolgimento in un problema, si sviluppa essa stessa soltanto sul terreno del mondo e del suo mistero preliminare. Ma quel terremoto, attraverso cui la vita deve passare per diventare esistenza ed essere in grado di donarsi, dimostra al tempo stesso che la lotta è qualcosa che appartiene necessa­ riamente al movimento della vita, nello stesso modo in cui l'amore appartiene a quel movimento della vita che abbiamo chiamato radicamento, e il lavoro al movimento che protrae la vita mediante l’esercizio delle funzioni. Infatti la condanna della vita che soccombe alla propria alienazione rappresenta inevitabilmente una sfida e una minaccia per la vita stessa, e chi è minacciato provvede alla propria difesa attaccando. Qui è la terra a essere minacciata in lei, e pertanto è minacciata la potenza, e la potenza si concentra sulla distruzione di chi la minaccia; pertanto è inevitabile accettare la lotta, provocarla, condurla a fondo. Dunque la lotta è radicata nell’essenza stes­ sa dell’uomo; ma non quella lotta che è un aspetto dell’autoalienazione che si prolunga, bensì la lotta che equivale al suo contrario e che ne costituisce il superamento. Giacché la vita umana non è mai data, bensì - nel suo aspetto autenticamente umano - dev’essere sempre conquistata, e il movimento di ta­ le conquista è il superamento, quindi la lotta. Ma non è forse meramente fantastico questo tentativo d’in­ terpretazione del senso del movimento della vita umana? Noi pensiamo che se ne possono apportare delle prove; prove che sono in un certo senso “oggettive”, delle prove storiche. Giac­ ché alla sua luce è possibile comprendere anche il processo e il progresso dell’oggettivazione. La chiave per comprendere 70

l 'oggettivazione, per comprendere la trasformazione del mon­ do meramente dato in un mondo dominato da un pensiero umano oggettivo e comune a tutti, è appunto l'oggettivazione del movimento. L’uomo è diventato il padrone intellettuale del mondo non mediante l'oggettivazione della forma, ma soltan­ to attraverso questa “oggettivazione indiretta”, il cui aspetto determinante è il movimento. Possiamo vedere allora, proprio nella storia del concetto di movimento, come il movimento faccia resistenza, come, per meglio resistere, si differenzi in celeste e terrestre, regolare e irregolare, e come, anche là dove vengono compiuti degli espliciti tentativi per oggettivarlo, es­ so continui a mantenere tutta una serie di caratteristiche che si possono spiegare solo sulla base del contesto primario del movimento della vita, così come abbiamo cercato di definirlo in ciò che precede. La storia del concetto di movimento, la storia dei modi di concepirlo, è pertanto un correlato, un indi­ spensabile complemento e al tempo stesso anche una convali­ da dell’analisi dell’esistenza come movimento. (Traduzione diiG. Pacini)

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IL MONDO NATURALE E LA FENOMENOLOGIA

I Il problema del “mondo naturale” si è posto in maniera esplicita nell’ambiente filosofico positivista, ambiente orienta­ to in senso ostile verso la metafisica tradizionale tanto nella scienza che fuori del suo ambito. In quel contesto si traevano le conseguenze della critica empiristica dei concetti di sostan­ za e causalità. La concezione positivista della conoscenza co­ me meramente fenomenica e relativa (che non penetra oltre il dominio di ciò che è dato ai sensi) e quella altrettanto positi­ vista dell’ente come ciò che è semplicemente dato, senza ul­ teriori aggiunte, traevano alimento dalla crisi della visione meccanicistica propria della scienza moderna della natura, che si faceva sentire progressivamente sul finire del secolo diciannovesimo, ad onta di tutti i successi ottenuti. H meccanicismo moderno non era ovviamente mera scien­ za, era in realtà di natura metafisica. Tuttavia la nascita di tale metafisica è in stretta connessione con il metodo della scienza matematica della natura, così come essa era stata elaborata dopo la prima vittoriosa affermazione dell’eliocentrismo da Copernico a Keplero - da tutta una serie successiva di mecca­ nicisti, da Galileo fino.a Newton. Fino ad oggi il processo del­ la nascita di questa metafisica, che per lungo tempo si è, per così dire, confu sa con la “visione scientifica del mondo”, non è stato studiato a fondo né filosoficamente chiarito. È tuttavia certo che a tale processo non è collegato soltanto il sorgere del­ la moderna scienza della natura, bensì anche di ciò che chia­ 73

miamo psicologia e l’origine delle scienze umane e sociali, che nella psicologia hanno il loro fondamento. Lo stesso processo condiziona altresì - cosa non meno certa - il sorgere delle mo­ deme tendenze scettiche neU’empirismo, quale risposta alla te­ merarietà e al carattere arbitrario di questa costruzione metafi­ sica, nonché i tentativi di reagire a tali tendenze nel criticismo e nelle filosofie idealistiche dell’epoca post-kantiana. Tutti i critici della metafisica meccanicistica mettono in evi­ denza il suo carattere artificiale. Quale ente vero e proprio non viene più considerato qualcosa di semplicemente dato, qualco­ sa all’interno di cui già viviamo naturalmente e ci muoviamo sul fondamento dei nostri naturali e istintivi automatismi, bensì qualcosa di costruito dal pensiero. Lo strumento di cui dispo­ niamo per pensare questo ente in senso proprio è una scienza delle entità accessibili solo nella spontaneità del nostro pensie­ ro: la matematica. È questa che c’insegna a formulare le vere correlazioni oggettive, le leggi strutturali della natura. Tra que­ ste avranno un posto anche quelle che un giorno registreranno il regolare verificarsi dei nostri fenomeni soggettivi, istintiva­ mente dati. La soggettività diventa così essa stessa un elemento dipendente, un’espressione dell’oggettività. Un ulteriore momento di artificialità consiste in questo: il metodo matematico-causale presenta il vantaggio che, grazie ad esso, ci troviamo d’un tratto all’interno del mondo delle co­ se in sé, rispetto a cui il mondo che ci è immediatamente offer­ to è un mero “riflesso” soggettivo. Pertanto noi in qualche mo­ do accediamo alle “cose in sé”, le quali, d’altronde, sono qual­ cosa che di principio non può essere esperito. Ci troviamo in un mondo duplice: in un mondo con il nostro pensiero e in un altro con la nostra vita. Una tale scissione è definitiva, e non c’è nulla che ci permetta di gettare un ponte tra i due mondi. Π momento soggettivamente più rilevante dell’artificialità consiste nel fatto che il soggetto è escluso non solo dalla diret­ ta partecipazione alla comprensione del mondo, ma anche dal­ 74

la partecipazione all’azione nel mondo, giacché ciò che a tale azione realmente partecipa non è il soggetto vivente con il proprio vissuto, bensì il suo sostrato materiale privo di vissuto. Ora è importante tener presente che il passaggio nel mon­ do delle “cose in sé” della fisica si effettua partendo da ciò che è immediatamente dato, e tale dato è soggettivo, garantito dalla certezza di sé della coscienza, scoperta da Cartesio. La praticabilità di questo passaggio dipende dall’affidabilità dei nostri concetti e dei metodi oggettivamente razionali, soprat­ tutto matematici e metafisici (la sostanza, la causalità). È contro questi tre fronti che scende in campo la scepsi dell’empirismo moderno. Una tale scepsi porta con sé la conse­ guenza che il passaggio alle “cose in sé” è accompagnato da un punto interrogativo, diventa problematico, sicché la dico­ tomia del mondo sembra a prima vista attenuarsi. Anche le costruzioni della fisica si riducono a strutture sostanzialmente soggettive, empiriche, dell’esperienza soggettiva. Ci trovia­ mo pertanto a vivere in un mondo, e anche quando ricorriamo al pensiero non oltrepassiamo in realtà i limiti di questo mon­ do vissuto. In compenso diventa problematico “quefl’altro mondo”, e con esso anche la scienza naturale matematica. Ora il positivismo rappresenta il tentativo di conciliare quel mondo unitario - sebbene soggettivo e relativo (al sog­ getto) - che noi viviamo e i metodi della scienza naturale ma­ tematica. Tale conciliazione si dovrebbe ottenere mediante la rinuncia dei concetti “metafisici” di sostanza e causalità che verrebbero sostituiti dal più efficace ricorso ai concetti di re­ lazione e di funzione. L’impiego dei metodi matematici viene qui interpretato diversamente rispetto alla concezione mecca­ nicistica del mondo: essi non aprono la via a un altro mondo, ma costituiscono solo un discorso sul mondo vissuto diverso dal discorso corrente: il discorso della previsione esatta. Il mondo scientifico e delle scienze naturali si purifica in tal modo da tutto ciò che lo oltrepassa salvo che in senso relativo 75

e pratico. In tal modo si ottiene una “purificazione dell’espe­ rienza” e, in notevole misura, anche un ritorno alla “visione naturale del mondo”1. 1

La crisi della concezione meccanicistica si apre proprio in connessio­ ne con l'evoluzione della fisica moderna e in seguito al confronto di tale evoluzione con la concezione positivistica del sapere quale mera esatta descrizione d ell’empiria che, per principio, non oltrepassa l’empiria stessa. Nella sua forma classica il meccanicismo è una com­ binazione della teoria corpuscolare con lo spazio e il tempo assoluti di Newton: sono appunto questi i principali rappresentanti di quelle “cose in sé” ,della sua metafìsica. La dinamica e la scienza della gra­ vitazione universale, queste due teorie non tra loro identiche delle forze, la teoria corpuscolare combinata con la teoria delle forze che risiedono negli elementi naturali, la meccanica del punto, del corpo solido, dei fluidi perfetti, la scienza dell’attrito interno e dell'elasti­ cità e la meccanica analitica si sono combinate con queste rappresen­ tazioni. La loro vasta applicazione si ha nella meccanica celeste. L’e­ voluzione di altri rami della fisica, non meno matematici ma indipen­ denti dalle rappresentazioni corpuscolari della meccanica classica (e cioè dalle loro concezioni “metafìsiche” della sostanza) e dalle loro, rappresentazioni delle interazioni reciproche (quale il secondo princi­ pio della termodinamica) porta così a porsi il problema di un metodo unitario per tutti i campi della fisica e della loro reciproca interdipen­ denza nonché della possibilità di una reciproca deducibilità. Così, per esempio, la termodinamica, nélla sua forma generalizzata quale ener­ getismo, pretende di affermarsi quale scienza universale, esente da rappresentazioni e modelli “metafisici”. (Il fatto che il concetto di energia di per se stesso è un concetto sostanziale, e cioè un concetto di conservazione, è sfuggito ai partigiani dell’energetismo.) L’ottica e la scienza dell'elettromagnetismo, esenti da rappresentazioni corpuscolai, si sono imposte accanto alla meccanica classica. Se le rappresen­ tazioni corpuscolari hanno sanzionato il loro ingresso nella termodi­ namica con la teoria cinetica del calore, in seguito la loro evoluzione nella meccanica statistica ha preso nuovamente la strada delle astra­ zioni non intuitive. Le idee classiche sul moto di un corpo solido nel­ lo spazio e nel tempo assoluti si sono poi trovate in contraddizione con l’esperimento di M ichelson-M orley, e le concezioni classiche della continuità del processo di propagazione dell’onda elettromagne­ tica si sono scontrate con l’enigma della ripartizione dell’energia nel­ lo spettro del corpo nero, e con ciò si è avuta una crisi acuta del mec­ canicismo. - Sull’evoluzione della fisica nel diciannovesimo secolo e

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Così dunque è sorto il problema della visione naturale del mondo e, correlativamente, quello del mondo naturale. Si tratta di un problema, per il fatto che la diagnosi della malat­ tia e la terapia indicata non convincono tutti coloro che vi ri­ flettono. A dimostrazione di ciò citeremo tutta una serie di voci che pretendono di formulare una diagnosi più profonda. La metafisica del meccanicismo nel suo nucleo essenziale può essere definita in vari modi ed è quanto hanno fatto alcu­ ni noti filosofi. Whitehead parla di “dicotomia” della natura e della visione del mondo, dicotomia che, sostanzialmente, ri­ salirebbe addirittura alle concezioni degli atomisti greci. Burtt parla di una trasformazione parallela verificatasi nelle concezioni 1) della realtà, 2) della causalità e 3) del pensiero umano; la realtà viene interpretata non come il mondo delle cose qualitative presentateci dall’intuizione, bensì come un mondo costituito in sostanza da entità e relazioni matemati­ che; dall’azione operante vengono escluse le motivazioni fi­ nalistiche e la causalità diventa meramente efficiente; le qua­ lità, fatta eccezione per quelle suscettibili di geometrizzazione, vengono relegate nella soggettività e il pensiero viene confinato quale riflesso nei processi cerebrali. Husserl ha po­ sto soprattutto l’accento sul ruolo assunto dalle idealizzazioni matematiche resesi autonome, che vengono presentate come l’unico mondo vero e oggettivo. Koyré mette in evidenza l’importanza del platonismo nel sorgere di questa concezione già per la prima generazione di meccanicisti, da Copernico a Keplero, e insiste anche sul platonismo dello stesso Galileo e sul suo matematicismo cosmico. Heidegger e i suoi allievi, nello sforzo di penetrare fino agli ultimi fondamenti ontologi­ ci, caratterizzano questa epoca del meccanicismo secondo la prospettiva metafisica più svariata, ma al tempo stesso anche sulla sua crisi vedi: O.Costa de Beauregard, La notion de temps: equivalence avec Vespace, Hermann, Paris 1963, pp. 17-28.

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più indeterminata. Heidegger considera tutta la scienza mo­ derna non solo come collegata con la metafisica, bensì addi­ rittura come il punto estremo cui tende devoluzione di tutta la metafisica. La metafisica è una distorta concezione dell’es­ sere, che trasforma l’essenziale non-oggettualità di questo fondamento originario in un mero oggetto, in una mera cosa. La metafisica del meccanicismo è al tempo stesso una mani­ festazione di quella metafisica che consiste in quella occul­ tante, incomprensiva “interpretazione” dell’essere che viene praticata dalla tecnica moderna. La formulazione filosofica centrale di questa pratica metafisica è il principio di ragione, il principium rationis, così come, dopo due millenni di incu­ bazione, è stato formulato da Leibniz nel diciassettesimo se­ colo quale principio della necessità di una ragione per tutto ciò che sussiste. Heidegger interpreta questo principio come principio della calcolabilità universale. Non c’è nulla, nulla esiste se non nella misura in cui soddisfa a questo principio e si integra e si adegua alle esigenze dell’universale assicura­ zione per mezzo del calcolo. Questo principio dunque s’iden­ tifica con un’oggettivizzazione esatta e radicale dell’ente. Una tale oggettivizzazione trasforma l’ente, l’universo, in un oggetto che si contrappone al soggetto; il soggetto, che mira ad assicurarsi nel mondo, se lo pone di contro per poterlo do­ minare. In questo senso il mondo diventa una rap-presentazione [pred-stavà] . E in questo senso poi tutta l’epoca moder­ na diventa l’epoca dell’“immagine del mondo”, se si s’inten­ de “immagine” nel senso di “oggettivizzazione”, di “rappre­ sentazione per il soggetto”, di un “oggetto di riscontro del­ l’attività esplicita di giustificazione e di calcolo del sogget­ to”, di un “prodotto della produzione rappresentante”. Gli autori anglosassoni presentano una diagnosi che, in op­ posizione al positivismo, apporta un unico nuovo contributo: essi si rendono conto del fatto che qualsiasi concezione che voglia surrogare il meccanicismo sarà a sua volta una conce­ 78

zione filosofica totale del mondo, e in questo senso sarà di nuovo una metafisica. Ciò non è riconosciuto dal positivi­ smo, che pensa di potersi sottrarre a un tale destino grazie al suo relativismo e alla sua concezione pratica della verità inte­ sa come conferma empirica. (Gli sfugge il fatto che un tale concetto della verità non si può applicare alla stessa conce­ zione del positivismo, in quanto anch’essa pretende di poter cogliere lo stato delle cose quali esse sono, e non soltanto co­ sì come esse vengono confermate nella pratica.) I contributi più profondi alla critica della concezione posi­ tivistica del ritorno al mondo naturale vengono da Husserl e Heidegger. Per poterli valutare adeguatamente dobbiamo ri­ prendere un’ulteriore analisi della concezione positivista. II positivismo si propone di eliminare la dicotomia per cui il mondo si presenta diviso in causa fisica da una parte e conse­ guenza soggettiva dall’altra (cioè immagine-riflesso della vera realtà fisica). Perciò esso riduce sia la realtà fisica che quella psichica ad un unico piano che viene chiamato piano “dei dati neutri” da Mach, Avenarius, Bertrand Russell e altri. Questo piano è il materiale da cui prendono forma e si costituiscono, attraverso vari tipi di relazioni reciproche, da una parte .gli og­ getti della fisica e dall’altra quelli della sfera psico-fisiologica. Le connessioni della sfera fisica sono connessioni di dati neutri nella misura in cui sono reciprocamente dipendenti nel loro ve­ rificarsi. Quelle della sfera psico-fisiologica sono invece di­ pendenti da un determinato “sistema C”, che di per sé è anch’esso un complesso di dati neutri, ma che regola una pecu­ liare incidenza collettiva di dati neutri che potremmo chiamare una “prospettiva d’insieme sulla totalità dell’universo”, e cioè sull’insieme di tutti i dati, e pertanto anche su se stesso. Questa visione “naturale” del mondo riposa su due grandi, inconfessati presupposti. 1. Il “piano neutrale” non è in realtà neutrale, ma soggettivo; giacché se non fosse il piano soggettivo, quello del vissuto, 79

non avrebbe senso affermare l’immediata datità dell’oggetto in connessione con il sistema C. In questo piano si cela in realtà il piano della certezza di sé della coscienza scoperta da Cartesio, nella forma in cui è stata recepita dall'empirismo inglese. 2. Nel quadro del piano neutrale si presentano due tipi fon­ damentalmente diversi dei momenti dell’ente: gli elementi, o dati, e le connessioni funzionali del loro presentarsi, e cioè, sostanzialmente, le leggi matematiche. Il ruolo dirigente, quindi quello di vera realtà, viene qui at­ tribuito - non meno che nel meccanicismo - alle leggi mate­ matiche. Sono queste che, non soltanto regolano il presentarsi degli elementi, ma ne determinano anche il carattere. Se gli elementi debbono conformarsi alle leggi generali della natura, essi debbono anche costituire degli argomenti nelle connes­ sioni funzionali stabilite da tali leggi. Ciò significa che deb­ bono avere la natura di elementi capaci di correlazione. Gli elementi neutri non sono i dati dell’esperienza, bensì corri­ spondono all’esigenza della costruttibilità matematica. Essi costituiscono una sopravvivenza del meccanicismo nel nu­ cleo centrale di questa visione “naturale” del mondo. La di­ pendenza del vissuto soggettivo dall’oggetto non si è in nes­ sun modo attenuata per il fatto che il “sistema C” è diventato un insieme di elementi. Il processo di presentazione degli ele­ menti nel contesto della prospettiva privata si mantiene ugualmente dipendente dall’impersonale processo della loro presentazione nel meramente oggettivo “sistema C”. Abbia­ mo così un duplice concetto di soggetto: il primo è onnicom­ prensivo e onni-inglobante, e coincide con quel “piano neu­ tro” all’interno del quale si “costituiscono” le connessioni fi­ siche e quelle che si riferiscono alla prospettiva privata, e il secondo invece è particolare, e cioè il concetto di quella pro­ spettiva privata dipendente dall’oggettivo “sistema C”. Il positivismo ha quindi ripreso dal meccanicismo, in mo­ do totalmente acritico, alcuni fondamentali presupposti. In

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primo luogo il presupposto che la vera realtà consista nei rap­ porti matematici, senza peraltro che si sia indagato che cosa essi siano, come si ottengano, né come sia la loro genesi nel­ l’esperienza. In base a tale presupposto l’atteggiamento “na­ turale” al mondo risulta ancor più estraniato rispetto al carat­ tere originario del mondo, giacché così si è introdotta una struttura cosale, oggettivamente matematica, direttamente al­ l’interno del vissuto, e non soltanto nella causa del vissuto stesso. Il positivismo rappresenta quindi un tentativo di ga­ rantirsi che il mondo non-naturale era solo il prodotto di un’interpretazione tradizionale e ormai sorpassata; che quindi tutto andrà a posto se sostituiremo coerentemente la metafisi­ ca con la logica e la matematica. In secondo luogo, il positivismo ha accettato il presuppo­ sto secondo cui tutto ciò che è deve, in definitiva, manifestar­ si nel suo essere sul piano delle certezze, che è poi il piano dei dati; e il piano delle certezze è il piano del soggetto. Ma entrambi questi presupposti sono stati sottoposti a critica - nel loro tentativo di trovare una via d’uscita dalle tenebre della crisi del moderno pensiero oggettivistico - da quei filoso­ fi che anch’essi riabilitano il “mondo naturale”, ma in misura molto più radicale che non i positivisti, e cioè i fenomenologi Husserl e Heidegger, ciascuno dei due in modo diverso.

Il Prima di affrontare la questione di come i due citati pensa­ tori sviluppano e rinnovano il tema del “mondo naturale”, vo­ gliamo segnalare la rilevanza di tale problema per la vita: perché questo tema ha in realtà tanta importanza e a quale scopo è necessario risolverlo? 81

Dal punto di vista filosofico sta al primo posto l’impegno a cogliere i problemi autentici sotto la superficie delle certezze apparenti generalmente accettate, a tornare a problematizzare l’ovvietà con cui ci s’impone la metafisica della scienza e della tecnica (o meglio, della tecno-scienza) e liberare il no­ stro sguardo grazie a questa problematizzazione dell’ovvio. Quindi, grazie a tale sguardo liberato, cogliere le possibilità del pensiero e della vita che ci erano sottratte dai preconcetti precedenti o ci erano nascoste da una visione eccessivamente ristretta. Esporci così a una verità più profonda, velata da quella metafisica. Ma in connessione con tutto ciò c’è anche un altro aspetto che non si riferisce al solo dominio della filosofia e delle disci­ pline puramente spirituali. Si tratta del fatto paradossale che con quel meccanicismo metafisico è strettamente connesso l’i­ naudito slancio preso dalla potenza umana, uno slancio, che però invece di rendere l’uomo più contento di sé e riconciliato, ha condotto a dei cataclismi storico-sociali di immensa portata. Soltanto in base a quella metafisica è stato possibile l’insorgere di fenomeni sociali tipici dell’epoca moderna, in particolare il moderno capitalismo, che è fondato sullo stesso atteggiamento estremamente oggettivistico nei confronti della realtà umana, che ha subordinato i rapporti umani alla medesima legge del calcolo e ha praticato direttamente nei loro confronti il modello meccanicistico. In un certo senso si può dire che la filosofia classica tedesca, con la sua dialettica quale metodo sintetico capace di abbracciare la suprema totalità, è stato un tentativo di dare una risposta alla situazione intellettuale e vitale creata dal­ la realtà e dalla struttura ideale della moderna metafisica mec­ canicistica. Il problema del mondo naturale potrebbe essere quindi definito come la medesima questione in una nuova si­ tuazione storica e posta su un nuovo piano. Nell’epoca in cui il capitalismo classico è trapassato in un supercapitalismo mono­ polistico e in cui anche il suo rivale critico, il socialismo, muta 82

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le proprie forme e constata criticamente i fenomeni di aliena­ zione all'interno del suo stesso corpo sociale, il porre il proble­ ma del mondo naturale è diventata una questione urgente, an­ che se con ciò non si pretende di scoprire né di promettere al­ cun toccasana universale, né un capovolgimento sensazionale della situazione. Ora è essenziale rilevare che in Edmund Husserl la proble­ matica del “mondo naturale” si muove realmente in quella di­ mensione che abbiamo ora delineato: la sua filosofia è, all’ini­ zio, una riflessione sui fondamenti della scienza moderna e so­ prattutto della matematica, riflessione criticamente indirizzata contro il mero pragmatismo e il mero tecnicismo rivolto al suc­ cesso nella scienza; quindi Husserl fa ritorno ai fondamenti cartesiani della scienza e a una nuova e approfondita medita­ zione cartesiana che gli permette di scoprire il senso più profondo degli sforzi compiuti dal moderno empirismo (e posi­ tivismo). In base a questa meditazione egli scopre la contraddi­ zione essenziale del cartesianesimo, che è poi la contraddizio­ ne di tutta la scienza moderna: il tentativo di trovare un fonda­ mento assoluto e ultimo di tutto ciò che ha per noi sensb e si­ gnificato viene identificato brevi manu con la fondazione ma­ tematica, mentre tuttavia il senso stesso dei concetti e delle co­ struzioni matematiche resta non spiegato, e questa mancata spiegazione contraddistingue tutta la metafisica oggettivisticorazionalistica. Ma cosa significa in realtà tornare al cartesianesimo? Significa perseverare nel punto in cui Cartesio ha fallito. Cartesio non si è mantenuto fedele al suo ego cogito, alla pu­ ra e immediata certezza di sé, bensì l’ha abbandonata con le sue prove dell’esistenza di Dio, su cui poi ha fondato l’evi­ denza oggettiva come pure l’evidenza della matematica e del­ le altre discipline, soprattutto della fisica. Cartesio pone la domanda giusta sul terreno giusto , e cioè la domanda sull’origine di tutto ciò che ha e che può avere si­ 83

gnificato per noi; ma in realtà ciò che gli interessa è conferire una legittimazione, al più presto e sui fondamenti più solidi, a ciò che egli già sa di Dio, del mondo e dell'anima. E dal mo­ mento che tutto ciò egli lo sa già, si affretta a interpretare il terreno appena scoperto in funzione di questo suo sapere, e così facendo egli lo perde di vista. La certezza di sé della coscienza non è infatti una semplice ovvietà, non è un campo dove si trovino raccolti già pronti tutti i tesori della conoscenza, come quei “simplices” in cui Cartesio vedeva il fondamento di tutte le scienze costruibili in forza di un metodo. Per poter attingere a ciò che in tale certezza di sé è certo, e cioè dato, bisogna anzitutto ripulire quel terreno. Peraltro anche Cartesio questo lo sa bene, essen­ do contrario ad ogni pregiudizio. Ma non è abbastanza radi­ cale, giacché lascia sussistere il pregiudizio principale, che consiste nel fatto che noi sappiamo già quello che siamo: una cosa tra tutte le altre cose nell’infinita connessione dell’azio­ ne causale, che ci abbraccia come un qualsiasi granello di se­ nape, come un suo atomo infinitesimale, anche se dotato di un’anima. Cartesio non sottopone questa nostra situazione es­ senziale alla sua scepsi e alla sua sospensione metodica. Egli sospende e considera scetticamente soltanto quel mondo in cui ci troviamo inseriti e che ci appare immediatamente dato e accessibile in maniera evidente in tutta la ricchezza delle sue qualità e dei suoi rapporti vitali. Ciò significa che egli eli­ mina proprio il mondo naturale. Al suo posto sostituisce il mondo della fisica, cioè una struttura matematica che ci è mediata per via causale. Se ora ci rifacciamo al punto da cui Cartesio ha preso le mosse, ci troviamo obbligati a rinunciare a tutte le sue verità metafisiche, e cioè proprio a quelle su cui egli ha posto mas­ simamente l’accento: la dimostrazione dell’esistenza di Dio, la dimostrazione - in base alla veracitas Dei - dell’oggetti­ vità di un mondo predisposto in senso matematico, la dimo­ 84

strazione dell’anima quale sostanza semplice. Tutto ciò non potrà più avere per noi nessuna validità, in quanto dovremo concentrarci solo ed esclusivamente su ciò che è immediata­ mente dato come tale, su ciò che è già qui nella riflessione, e tutte quelle verità metafisiche non sono immediatamente tali: tutte quelle realtà come Dio, il mondo, l’anima sono solo og­ getti a cui tendono e a cui alludono i decorsi vitali immedia­ tamente dati, sono dei poli verso i quali s’indirizza la vita, ma la datità - garantita dal cogito - è propria solo della tensione come tale, ma non degli oggetti. Questi ultimi, infatti, rientra­ no nel senso del processo vitale, ma non nella loro esistenza assoluta, bensì soltanto nella loro significazione, che è colle­ gata con tale processo. Ma ecco cos’è ora di estrema importanza: nell' ego riflesso non ci troviamo davanti un qualche residuo indubitabile del mondo, della realtà. In esso abbiamo il terreno su cui cresce tutto ciò che ha un significato, cioè il terreno di ogni senso possibile, sia questo Dio, il mondo o il mio io come tale, l 'iouomo. Il terreno di tutti i significati, in tutta la loro ricchezza semantica, nei loro rapporti logici e strutturali, nel loro rife­ rirsi reciprocamente gli uni agli altri, nella loro concatenazio­ ne e nella loro dipendenza unilaterale o reciproca. Tutto ciò possiamo constatarlo nei vari significati presi come meri si­ gnificati, senza attribuire loro l 'esistenza. E certo possiamo constatarlo nella misura in cui essi sono i correlati di certi ti­ pici processi del nostro vissuto, che ci è intimamente e origi­ nariamente dato nella riflessione, come significati della per­ cezione sensibile, della rappresentazione, del ricordo, come risultati di un’esplicita teorizzazione, e così via. E così ora appare chiaro che il terreno scoperto da Carte­ sio non è il terreno dell’anima umana individuale intesa co­ me substantia cogitons, come pensava Cartesio. Ma non è neppure la struttura universale della sostanza pensante, e neppure l’io universale dell’appercezione trascendentale di 85

Kant. È bensì il campo universale di creazione di significato. L’errore di Cartesio consiste nel non aver rigorosamente di­ stinto tra i due soggetti: il primo come soggetto riflesso nello sguardo radicalmente purificato, che non ammette se non ciò che gli è dato, ciò che vede, e il secondo come uno degli og­ getti che non gli sono altrettanto dati (bensì sempre in gran parte al di fuori di questa datità riflessiva e anche della possi­ bilità di una tale datità). E allo stesso tempo appare anche chiaro che, nel senso del significato, nulla assolutamente è andato perduto nella scepsi cartesiana modificata (modificata nel senso che essa non con­ siste in un interesse negativo per il mondo, bensì in un inte­ resse esclusivo per la datità del vissuto riflessivo). Tutto il mondo è ancora qui presente - come significato. Ma questo mondo, che è presente in una costante correlazione signifi­ cante con tutto il vissuto, ormai non è più il mondo cartesiano della scienza matematica della natura. È invece il mondo na­ turale, originariamente e fondamentalmente anteriore, già da­ to in precedenza. E così adesso - e soltanto adesso, dopo questa purificazio­ ne del cogito cartesiano - abbiamo la possibilità di studiare effettivamente il mondo naturale, e non soltanto di presuppor­ lo o di parlarne astrattamente. E allo stesso tempo vediamo che i positivisti avevano intuito il vero problema, e vediamo anche la tesi metafisica non dimostrata che si trova a fonda­ mento dell’autocomprensione della scienza matematica della natura. E inoltre vediamo che i loro avversari materialisti, che accusavano i positivisti di soggettivismo e di un idealismo al­ la maniera di Berkeley o di Hume, non avevano neanch’essi interamente torto: l’intenzione del positivismo nello scoprire il “piano neutrale”, da cui si costituiscono, in due serie di re­ lazioni, sia la realtà fisica che quella personalmente privata (psichica), è rivolta verso quel primo soggetto che genera da sé tutti i significati. Esso però genera il senso, i significati 86

non come realtà, bensì appunto come significati. Per non aver effettuato la cartesiana sospensione di validità, e cioè la so­ spensione della fede nel mondo, il positivismo è andato ine­ vitabilmente a cacciarsi in una serie di complicati problemi che fanno del suo schema della realtà - il cosiddetto moni­ smo neutrale - qualcosa di ancor più incomprensibile del vecchio schema dualistico ereditato dal XVII secolo. Il rap­ porto tra il piano neutrale e i piani derivati è infatti concepito come un rapporto reale; le realtà fisiche sono definite dai rap­ porti reciproci, reali e funzionali delle parti del piano neutro; mentre le realtà psichiche sono date dal fatto che determinate parti “condizionano” una sorta di prospettiva sul tutto, e cioè un determinato ordinamento di tutti i dati, ordinamento cen­ trato nell'immagine del proprio corpo; il tutto, il piano neu­ trale, è dunque contemporaneamente condizionante e condi­ zionato. Gli oggetti stessi devono essere definiti nella loro realtà come classi di prospettive; le classi - in quanto concet­ ti - devono per altro avere le qualità delle realtà, e in partico­ lare devono esercitare un'azione; azione che assumerà l ’a­ spetto paradossale di qualcosa di contemporaneamente e con­ cordemente dato, senza che vi sia contatto, in tutti i vari' luo­ ghi dello spazio: la vecchia teoria dell’armonia prestabilita2. Con l’esclusione di entità sostanziali, relativamente stabili, e dell’azione causale nel senso comunemente accettato, la realtà non viene semplificata, bensì si frammenta in un tritu­ me impressionistico, e per giunta diventa incomprensibile com’essa possa tenersi insieme. In un terrore addirittura feti­ cistico di assumere come proprio un qualche concetto che non sia attinto all’esperienza, il positivismo perde di vista quel fondamentale transcensus che sempre la vivifica e fa 2

Vedi la critica del “monismo neutrale” secondo Lovejoy e altri in R. Ruyer, La conscience et le corps , P.U.F. (Presses Universitaires de France), Paris 1950.

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dell’esperienza stessa esperienza di qualcosa che poi, però, non può mai trovarsi sul medesimo piano di esistenza del flusso reale riflessivamente dato.

Ili Nelle sue analisi della correlazione di reale (vissuto) e i­ deale (significato), tutta la fenomenologia si muove nel cam­ po del “mondo naturale”. Studia la struttura e la logica delle sue componenti, giacché questo mondo è una ricca struttura che non solo viene vissuta nell’originale, cioè viene percepi­ ta, ma anche presentificata - e ciò sia realmente, sia soltanto in un modo “come se” - e viene altresì constatata, analizzata, e così via. E così come si presuppongono e si rinviano reci­ procamente i processi del vissuto, allo stesso modo i loro cor­ relati ideali si collegano tra loro e concorrono a costruire una ricca struttura. Ciò disegna il compito della “costituzione” delle oggettualità nella coscienza o correlativamente ad essa, e l’intera costituzione è anzitutto e fondamentalmente una co­ stituzione del mondo naturale. E tuttavia proprio questo fatto - e cioè che tutta la fenome­ nologia è propriamente fenomenologia del mondo naturale ha avuto la conseguenza paradossale che Husserl ha reso tema­ tico solo eccezionalmente e relativamente tardi il mondo natu­ rale come un problema particolare. Di fatto, la tematizzazione del mondo naturale presuppone la tematizzazione del mondo, cosa diversa dal tematizzare gli oggetti nel mondo. Presuppone cioè che si sia chiarito se la coscienza del mondo si possa ri­ condurre alla presa di coscienza degli oggetti e del loro insie­ me, o se invece il mondo come tale non debba essere accessibi­ le già da prima e in un certo modo particolare, specifico e inso-

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sütuibile. Il mondo naturale come mondo non poteva essere ri­ velato fintanto che il mondo come mondo non si fosse svelato. Il compito di cogliere il “mondo naturale” coincide con il problema di cogliere nell'uomo ciò che non dipende dalle ca­ sualità storiche della sua evoluzione, dunque ciò che di comu­ ne può essere mantenuto mediante variazione in tutte le moda­ lità della vita umana. Bisogna insomma trovare un fondo co­ mune di possibilità sia per l’uomo “preistorico” che per quello storico, sia per quello civilizzato che per il “primitivo”, sia per le culture elementari che per quelle superiori. Bisogna mostra­ re in quale fondamento tutte queste possibilità hanno la loro sorgente. Allo stesso tempo non si deve negare che tra queste determinazioni fondamentali rientra anche la storicità dell’uo­ mo, ma naturalmente la storicità è qualcosa di ben diverso dal­ la storia. Anche l’uomo che non ha storia è tuttavia storico; esiste storicamente nel senso che non si limita a vegetare secon­ do il ritmo naturale, bensì deve rapportarsi al proprio essere. Anche la “non-storicità”, intesa nel senso di una carenza di storia fattuale, è pur sempre nell’uomo qualcosa di scelto, è una possibilità contingente tra le altre, giacché anche ritorno non-storico è fondamentalmente capace di avvertire la vertigi­ ne della libertà nell’angoscia che lo tiene davanti all’abisso al di sopra del quale si libra la sua vita fattuale. Ma cogliere ciò che è comune mediante variazione non si­ gnifica ancora necessariamente aver colto un' essenza dell’uo­ mo data una volta per tutte. Intesa in senso essenziale, la stori­ cità non significherebbe anzi nient’altro che l’assenza di una determinazione di contenuto che si possa cogliere nell’uomo una volta per tutte come ciò in cui consiste e permane il suo essere. L’u o m o naturale” in senso moderno è sempre soltanto uno schema, e precisamente lo schema del problema dell’u­ manità. L’uomo non si trova davanti al proprio essere già compiuto, come invece una pietra, un animale o un dio. Se ciò significhi già eo ipso che è lui stesso a conferirsi il suo, o se si 89

tratti di un più profondo processo dell’essere stesso che si ser­ ve di lui e in lui si realizza, queste sono due possibili interpre­ tazioni della sua libertà tra le quali non intendiamo qui decide­ re. Vogliamo solo mettere in chiaro che le due fondamentali possibilità dell’uomo, esistere “storicamente” (avere una sto­ ria fattuale e rapportarsi al proprio passato negandolo o pre­ servandolo) ed esistere “non-storicamente” (non negare il pro­ prio passato, bensì identificarsi con esso, riviverlo nell’eterno ritorno dell’identico), sono entrambe delle possibilità di un es­ sere storico, se si assume qui la parola “storico” nel suo senso ontologico, e non in quello della storia come insieme di fatti. Queste due possibilità sono qualcosa che si realizza, per così dire, fatalmente, giacché l’uomo si presenta essenzialmente in queste due modalità [modifikace], e pertanto ha ragione LéviStrauss quando dice che la più importante esperienza che l’uo­ mo abbia fatto di se stesso è stato rincontro, in seguito alla scoperta del Nuovo Mondo alla fine del XV secolo, tra la mo­ dalità europea, storica per eccellenza (e già eminentemente conscia della propria storicità sulla base della concezione cri­ stiana) e la modalità neolitica dell’umanità. Solo se evitiamo di pensare la storia come un semplice prolungamento della biologia mediante gli strumenti biologi­ ci specifici dell’uomo (giacché un tale prolungamento della biologia potrebbe tranquillamente dar luogo a una situazione in cui si permarrebbe in Indefinitum in uno stato “non-stori­ co”, privo di una tradizione esplicita, della scrittura e di uno “stato” in senso europeo) - solo a questa condizione si pone il problema in quale senso nell’uomo la storia fattuale sia in grado di trasmettere l’essenziale. Un’adeguata definizione del mondo naturale comprende i seguenti punti fondamentali, che esigono un’analisi più ap­ profondita. 1) Il mondo non è primariamente dato come un insieme di cose, cioè non è dato secondo il modo della coscienza in cui 90

vengono intuite e date le singole cose e i loro insiemi; esiste bensì una coscienza più originaria delle totalità e di una totalità più ampiamente comprensiva, anzi onnicomprensiva: la co­ scienza del mondo. È indispensabile analizzare specificata­ mente questo particolare modus della coscienza, nonché l’ori­ gine dei correlati significanti che in esso sono radicati. Soltanto così si chiarisce il significato del “mondo”; questo è un polo del rapporto con il mondo: il polo della periferia, della totalità. 2) La percezione e l’intera datità originaria del contenuto del mondo naturale è collegata in maniera essenziale con la vita corporea: la vita nel mondo naturale è vita corporea (an­ che se si tratta di una corporeità fenomenica, e non oggettiva, fisica); il contenuto molteplice del mondo naturale è essen­ zialmente soggettivo-relativo; si tratta di un mondo essenzial­ mente orientato, prospettico, situazionale. Questo è l’altro po­ lo, il polo interiore della mondità. Considerando il punto primo, partiamo dalla rappresenta­ zione più corrente: il mondo è l’insieme di tutte le cose e noi ci rendiamo presente tale insieme nello stato di autodatità e di presenza immediata, cioè nella percezione delle cose. Ile cose percepite sono normalmente per noi, nel loro pieno stato di datità, delle cose date in modo cinestitico-visuale, il che si­ gnifica che sono orientate intorno a noi dal punto di vista del­ la loro vicinanza-lontananza, a portata di mano e di sguardo. La prossimità non è soltanto la prospettiva attuale sulle cose, bensì è anzitutto il nostro inserimento tra loro e la nostra fa­ miliarità con esse; una familiarità che è dapprima individuale, ma in seguito si presenta in uno stile iterativo delle cose, che vengono a formare appunto l’ambito rassicurante con le sue componenti sia cosali che co-umane, il paesaggio che com­ prende tutto quel che di nuovo vi si presenta continuamente per l’azione e per lo sguardo. La prospettiva attuale, che si perde in un non-attuale indefinito, lo stile noto e familiare, i cui contorni si vanno gradatamente cancellando e passando in 91

ciò di cui abbiamo soltanto una conoscenza generica, finisce per trapassare in tutta una serie di varianti che non si dimo­ strano solo possibili, ma che anche si realizzano, quali: un paesaggio a noi estraneo, montano, selvaggio, il deserto, il mare, immense e sconosciute città, miracoli della tecnica, formicai umani, ghiacci e nevi perenni... lo spazio cosmico. Ma tutto ciò ci rinvia a qualcos’altro ancor meno noto e con­ sueto; non arriviamo mai alla fine delle possibilità di muta­ mento di stile e mai nessun mutamento di stile è assoluto. E tuttavia è sempre presente una polarità tra ciò a cui sento di appartenere, che mi è essenzialmente vicino e ciò che invece è attualmente vicino, ma essenzialmente lontano, estraneo, cosicché il mondo si scinde per essenza in mondo proprio e mondo estraneo. Se ora consideriamo questa correlazione di attuale-non at­ tuale, noto-ignoto, familiare-estraneo, vicino-lontano e allo stesso tempo teniamo presente che la datità della percezione è sempre datità di una singolarità (mentre lo stile supplisce le singolarità che sono qui, ma date per me nel modo dell’inde­ terminatezza), allora si rende evidente che il non-attuale, l’i­ gnoto, l’estraneo e il lontano possono entrare nella percezione solo a condizione che vi siano presupposti e che si siano già da sempre prodotti sul suo sfondo. La cosa non scompare con la percezione e posso sempre tornare al suo aspetto preceden­ te, il che significa che io già so in precedenza che l’aspetto è aspetto di qualcosa che non scompare. Io debbo condurre alla percezione l’idea di ciò che non dispare, e ciò significa che la percezione si produce nell’orizzonte di tale idea. (Il mutamen­ to è possibile soltanto sul terreno di ciò che non scompare.) Non posso dedurre l’orizzonte dalle percezioni: esso non è un semplice “insieme di sensazioni” che siano passate in un’inat­ tualità attualizzabile; appunto il fatto che siano passate, ma non siano semplicemente scomparse, costituisce un nuovo e originale aspetto conferito dalla coscienza di orizzonte. Il 92

non-scomparire di ciò che si sia dato costituisce solo uno dei casi della datità del non-dato, della presenza del non-presente e fornisce anche la testimonianza del fatto che qui davanti a noi c’è molto più di ciò che la percezione ci presenta e ci mo­ stra. La percezione della singolarità si sa già sempre all’inter­ no di un’infinita inattualità attualizzabile. Pertanto la perce­ zione non si verifica tra le datità di sempre nuove percezioni, bensì già fin dall’inizio in una totalità che è qui, anche se non è percepita. Ed è proprio questa totalità che nella percezione si articola nelle due parti di ciò che è dato e di ciò che non è dato, del presente e del non-presente, dell’attuale e dell’inat­ tuale, di ciò che si è reso familiare e di ciò che è estraneo. Queste strutture sono pienamente comprensibili solo in quan­ to già in anticipo si dia qualcosa come una presenza origina­ ria, non sensibile, dunque in questo senso la datità della tota­ lità. Questa presenza originaria - che non è percettivamente presente nel senso di una singolarità percettiva originariamen­ te data - è nondimeno così familiarmente presente che non necessita di quella garanzia che è data dalla possibilità di di­ stinguere le singole datità, di quella peculiarità situazìònale per cui si caratterizzano le singolarità percettive. Qualcuno potrebbe obiettare che l’originaria, non sensibile presenza della totalità sarebbe opera della memoria e del pen­ siero. Ma la memoria, nel senso del ricordo, non è nient’altro che la quasi-presenza della singolarità. Quindi la presenza ori­ ginaria della totalità non può venire dedotta da essa. Allo stes­ so modo neppure il pensiero, inteso come attività di giudizio esplicito, può costituirne l’origine, giacché questo pensiero non è altro che una schematizzazione, un’idealizzazione e un’operazione di variazione eidetica che presuppone la datità sensibile e la elabora con la sua attività spontanea ed esplicita. Al contrario qui abbiamo una datità preliminare, prima­ ria, non percettiva. Il fatto che essa non sia percettiva e cor­ porea come gli aspetti della singolarità non significa che si 93

tratti di una datità assolutamente non originaria, convertibi­ le in un altro modo che soltanto allora diventerebbe in senso proprio oggetto dell’intuizione. Se m 'immagino anticipatamente il lato posteriore del tavolo posso ricondurre tale rap­ presentazione all’intuizione, ma non potrei mai ricondurre all’intuizione per esempio la cosa materiale nella sua tota­ lità, l’idea sempre anticipata. Allo stesso modo stanno le co­ se con la totalità preliminare. Così come non posso rivivere pienamente il passato - se non nella “quasi-presenza” del ri­ cordo - giacché in tal caso perderei l’intera dimensione del passato, allo stesso modo non posso mai percepire il mondo, e nessuno spirito lo può fare, e cioè non può ricondurre tut­ to a un’attualità simultanea. La coscienza di orizzonte non può mai essere ricondotta ad una coscienza priva di oriz­ zonte, anche se ogni atto è un atto entro un orizzonte. L’orizzonte non è un'intenzione che possa essere riempita. L’o­ rizzonte è sempre allo stesso modo come totalità; ciò che muta è soltanto il suo rapporto con ciò che gli si pone da­ vanti e a cui esso fa da sfondo. L’orizzonte è lo sfondo per un determinato primo piano; tutto ciò che è attuale può e deve emergere dall’inattualità per tornare poi a perdervisi. Tutte queste non sono altro che immagini figurate che so­ stanzialmente vogliono dire che la prospettiva attuale non crea l’ente: l’ente è qui prima di essa e indipendentemente da essa; l’ente è anche senza la, prospettiva, mentre la pro­ spettiva non può mai darsi senza l’ente. L’orizzonte totale del mondo significa che la totalità preli­ minare si trova sempre e sotto ogni riguardo - spaziale, tem­ porale o di contenuto - al di là dei limiti di ogni attualità. Il mondo è sempre di più di quanto qualsiasi prospettiva possa cogliere di esso. L’orizzonte interno della cosa significa che la cosa è non meno inesauribile del mondo: la cosa non è un mero aggre­ gato di aspetti. Io sono in grado di anticipare e così di realiz­ 94

zare ogni aspetto non-attuale; in un certo senso tutti gli aspet­ ti di una cosa sono contemporaneamente presenti; ma l’oriz­ zonte interno della cosa non consiste nei rimandi di un aspet­ to all’altro e neppure nel rimando reciproco di tutti gli aspet­ ti. Nell’orizzonte non c ’è la cosa quale è vista, bensì quale è anche non vista. Nelle prospettive non ci troviamo dinanzi a nient’altro che la cosa stessa nell’originale, ma ciò non signi­ fica che quella cosa sia una prospettiva o la semplice sintesi di prospettive singole. L’orizzonte interno, questa componen­ te non intuitiva - o meglio, questo necessario pendant di tut­ te le prospettive intuitive - ci mostra che anche nel dato in­ tuitivo e attuale è presente qualcosa che non si può mai ri­ condurre a nessuna intuizione o sintesi di intuizioni. Così, per esempio, nella coscienza di una cosa non abbiamo soltan­ to la coscienza di un’infinita pluralità di prospettive che si ri­ mandano reciprocamente, bensì, allo stesso tempo, anche la coscienza della non-prospetticità della cosa; la cosa stessa non è in alcun modo una prospettiva, anche se ci viene data all’interno di essa. La datità preliminare precedente non intuitiva della totalità è alla base di certe particolari modalità del comportamento umano che non hanno per oggetto delle singolarità, né la solu­ zione di singole situazioni, né le misure unilateralmente orientate nel mondo, bensì sono modalità in cui l’uomo si comporta nei confronti della totalità assumendola come tale. Si tratta di comportamenti privi di scopo se ci si riferisce a un risultato immediato, a meno che non si voglia considerare uno scopo proprio il prendere coscienza o il vivere quella che è la situazione umana in generale, cioè essere situati all’inter­ no della totalità. Ciò che certi autori definiscono un compor­ tamento ritualmente-rappresentativo è possibile soltanto su questa base. Si trova qui anche il fondamento di quella dico­ tomia assolutamente straordinaria e totalmente incommensu­ rabile con quella nostra, moderna, che è stata spesso constata95

ta nell’uomo allo stadio “primitivo”: la “realtà vera e propria” è per lui “soprannaturale”, è cioè una realtà che non si può re­ golare né manipolare tecnicamente; esiste una differenza so­ stanziale tra ciò che si può e ciò che non si può manipolare. Secondo il moderno modo di vedere è manipolabile proprio il mondo in sé, mentre il mondo immediato non lo è. Secondo il modo di vedere arcaico, al contrario, non è manipolabile la totalità, il cui modo di manifestazione è di un ordine total­ mente diverso da quello delle singolarità a cui soltanto si può rivolgere qualsiasi tentativo di manipolazione. Ora, il fatto che questo particolare atteggiamento verso la totalità, in cui è contenuto il mistero essenziale, possa diventare a sua volta, in via secondaria, oggetto di tentativi di manipolazione, quali la magia, non dimostra ancora che il suo senso originario sia magico. Allo stesso modo, il fatto probabile che dalla rappre­ sentazione rituale siano derivate delle conseguenze seconda­ rie di enorme importanza pratica non dimostra ancora che in tali conseguenze - come l’addomesticamento, l’agricoltura, il totemismo - si trovasse il loro senso autentico e originario. Considerando ora il secondo punto, è necessario d’altra parte rilevare che la presenza percettiva, attuale, che soltanto con il pendant del non-presente forma la totalità del mondo, è essenzialmente orientata, prospettica, situazionale. Sono già orientate le percezioni tattili-cinestetiche; in esse il contrasto tra il tenere e il toccare da una parte e il muoversi-verso, il rapportarsi a ... costituisce il rudimento della datità del vici­ no e del lontano. Ma l’essenziale carattere di orientamento nel campo tattile consiste nella soggettività del toccare, nel fatto che in esso sentiamo la cosa e noi stessi, il nostro corpo. Ma l’orientamento è non meno evidente nella sfera visiva, dove è bensì assente il momento della sensazione di sé me­ diante la vista, ma in compenso la prospettiva è proiettata in­ torno a un centro che costituisce il fenomeno del corpo pro­ prio, percettivamente incompleto. Se andiamo oltre la mera 96

attualità percettiva e consideriamo anche lo scorrere del tem­ po, l’orientamento si manifesta nel contesto della vita come essere situato. Di quest’ultimo fanno parte non soltanto la percezione, ma allo stesso modo anche il ricordo, la fantasia, l’espressione verbale. La situazione è ciò in cui devo trovar­ mi per comprenderla - non al di sopra o davanti ad essa - e pertanto la comprendo sempre soltanto in parte. L’orientamento e la situazionalità rinviano alla corporeità, intesa come pratica, libera corporeità. Unicamente per mezzo del corpo - di un corpo che siamo in grado di governare di­ rettamente - possiamo essere attivi nel mondo e partecipare realmente ai processi di modificazione delle cose che vi si svolgono. Ma la corporeità è orientamento anche in un altro senso: con i suoi bisogni il corpo fa sì che la vita assuma per scopo se stessa e che le oggettività le servano come mezzi a questo scopo. L’orientamento si realizza quindi attraverso il corpo in sen­ so soggettivo, attraverso il corpo attivo, ma ciò non significa che si tratti esclusivamente di orientamento verso il corpo. L’orientamento corporeo ha il suo centro referenziale fuori del corpo proprio: ogni orientamento è orientamento della nostra azione, della nostra intromissione corporea agente, e ciò esige un referente. Un tale referente del nostro proprio flusso effi­ ciente e realizzatore (che è un movimento nel senso più origi­ nario della parola, un movimento vissuto dall’interno) è un so­ strato permanente e immobile: la terra. L’immobilità della ter­ ra rientra nell’orientamento originario del mondo. La terra è ciò su cui essenzialmente si fonda e si appoggia l’azione orientata e orientante. Non possiamo :in nessun caso agire se non fondandoci su questa salda base della nostra comune si­ tuazione vitale. E tuttavia la terrà non è soltanto l’indispensa­ bile radicamento di ogni nostra azione: essa, al tempo stesso, è il saldo punto d’appoggio per tutto. Tutte quelle che chiamia­ mo “cose” poggiano su di essa; anche quando una determinata 97

cosa - un pallone o una nuvola - si libra al di sopra di essa, le resta pur sempre ancorata e deve vincere la resistenza di qual­ cosa che la lega. La terra è il prototipo di tutto ciò che è mas­ siccio, corporeo, materiale, è il “corpo universale”, rispetto a cui tutte le cose sono in qualche modo parti, come del resto è dimostrato dal loro tendere verso la terra, dalla loro mancanza di autonomia, dalla loro origine e dalla loro fine. Pertanto ori­ ginariamente la terra - nel quadro di questa ρυσις primaria qui analizzata - non è un qualsiasi corpo tra gli altri e non è comparabile a null’altro, giacché tutto il resto delle cose che si possono presentare e con cui possiamo aver a che fare si rife­ riscono ad essa come al loro sostrato che è sempre presuppo­ sto. Essa è l 'orizzontale naturale, nei cui confronti noi assu­ miamo in ogni istante un atteggiamento o una posizione; l’al­ zarsi, il fare dei passi, il muoversi - presuppongono immanca­ bilmente la terra; al tempo stesso essa produce tensione e affa­ tica, sorregge e dà pace. Attraverso il suo aspetto di portatrice e referente di tutti, i rapporti la terra si manifesta pertanto anche come forza e po­ tere. La forza è ciò che si mostra occasionalmente e che entra in conflitto con altri, nei cui confronti si può dimostrare pari, trionfatrice o soggetta. Il potere è invece qualcosa di perma­ nente che ha un suo proprio ambito, un suo regno in cui non ha avversari. La terra regna sulle vette e sugli abissi. Domina anche sugli elementi che sono delle forze che coesistono ac­ canto ad essa o anche contro di essa, ma in ultima analisi è la terra che ha potere su di loro. Giacché anche il corso d’acqua, anche l’oceano sono costretti ad aderire ad essa e l’aria - l’at­ mosfera - è anch’essa qualcosa di analogo all’oceano: già Pla­ tone paragonava noi uomini ad esseri viventi sul fondo del mare. Ma la terra è potere anche in tutto ciò che è vivo e che anche quando si rivolge contro la terra, riceve pur sempre da essa il proprio orientamento. La terra domina anche sulla ver­ ticale, sulla vita che si verticalizza. In ultima analisi è ancora 98

essa che, con i suoi elementi, nutre la vita; è lei la vita e anche qualcos’altro oltre la vita. È la terra che porta la vita, la nutre, la lascia sorgere e perire, si copre di vita e con essa nasconde il suo estremo volto, nudo e implacabile. Questo aspetto della terra come potere non è per nulla meno orientato del suo aspetto quale referente, quale sostrato immobile di ogni movi­ mento e ogni attività. Giacché la terra-potere non è una forzaoggetto che io mi limito a constatare o a pensare; bensì è qual­ cosa che domina su di me, qualcosa nel cui ambito io mi muo­ vo insieme alle altre cose, qualcosa a cui non posso, non sono capace di sfuggire neppure come un uccello nell’aria o come una nuvola che si libra in cielo; anche questi ultimi sono sì più liberi, ma pur sempre vincolati. E la terra è potere sulla vita e sulla morte anche come terra nutrice. Io dipendo dalla terra nutrice per il fondamentale ritmo dei miei bisogni corporei, giacché il corpo non è soltanto ciò grazie a cui sento e agisco, ma anche ciò che mi impone i miei primi e più fondamentali compiti; esso è ciò a cui fanno ritorno il sentire e l’agire, ritor­ no che avviene sempre per l’intermediario di ciò che in defini­ tiva è offerto dalla terra, ciò che in qualche modo è preparato da essa, su di essa o in essa, giacché quando si dice che l’uo­ mo è una creatura terrestre non si usa una metafora poetica, bensì si coglie una verità essenziale. Tuttavia la terra non è l'unico referente. La terra è un saldo terreno sotto i piedi e il suo modus fondamentale - anche se non esclusivo - è la vicinanza. La terra è essenzialmente vici­ na, seppure enormemente estesa e difficilmente raggiungibile nelle sue parti più lontane; ma in definitiva è accessibile e co­ munque avvicinabile (in vari e diversi modi). Ciò significa che per il suo carattere massiccio, il suo peso e la sua oriz­ zontalità, la terra oppone una risposta a un comportamento volontario tattile-cinestetico da parte di un essere dotato di muscoli che sviluppa una forza, oppone resistenza, s’impen­ na, supera le resistenze, è attivo, lavora. C’è tuttavia anche un 99

altro referente, essenzialmente lontano questo, impalpabile, non governabile per contatto corporeo, anche se si manifesta in modo eminentemente presente; un referente a cui appartie­ ne tutto ciò che è essenzialmente intangibile, come il cielo, la luce, le luci e i “corpi” celesti, tutto ciò che il nostro orizzon­ te abbraccia senza comprenderlo, che forma l 'esterno come un interno che ci abbraccia continuamente, un referente che essenzialmente parla soltanto alla nostra vista che è poi il senso silenzioso della distanza. Nonostante la sua lontananza il cielo costituisce una sfera non meno orientata della terra, ma mentre la terra conferisce anzitutto ad ogni cosa il suo “dove”, il cielo le conferisce il suo “quando”, giacché il cielo è la sfera della luce e delle tenebre, del giorno e della notte, del loro sopraggiungere e del loro trascorrere. Ma esso è an­ che, al tempo stesso, un donatore del “dove” in senso emi­ nente, giacché il cielo è intatto e intangibile, portatore di se­ gni che permangono sempre al medesimo posto. Sulla terra ci si può perdere, ma mai nel cielo. E inoltre è donatore di ogni chiarezza e pertanto anche di ogni sapere sul vicino nel suo contrasto con il lontano, giacché le cose possono svelarsi sol­ tanto nella luce e quindi anche la terra può mostrarsi nella sua natura intima come ciò che si fa incontro alla luce solo con una certa esitazione e superficialmente, mentre nel suo intimo le si chiude davanti e le sfugge. Nella luce la terra e il cielo svariano di mille colori che svelano le cose sostanzialmente non in se stesse, bensì a distanza, in separatezza, in superfi­ cie; si tratta di uno svelamento essenzialmente inafferrabile che corrisponde alla natura “celeste”, lontana, distaccata e inafferrabile della luce. Così la terra e il cielo sono in un con­ tatto e in una compenetrazione permanente, richiamandosi re­ ciprocamente in un rapporto che li lega insieme nell’ambiente naturale di un essere che ha in sé la chiarezza, cioè la vici­ nanza e la lontananza, il dominio e l’esposizione di sé, la vo­ lontà attiva e la capacità di distanziarsi. 100

È soltanto sullo sfondo della terra e del cielo - sfondo non essenzialmente né sempre necessariamente tematizzato - che noi ci confrontiamo con le cose intramondane. La terra e il cielo sono qualcosa che non rientra mai pienamente nel qua­ dro del comportamento pratico e del relativo atteggiamento. Indubbiamente la terra e il cielo sono dei referenti pratici, ma non sono soltanto questo. Hanno infatti una loro propria profondità, che non è rivolta a noi, e che avvertiamo conti­ nuamente. È chiaro che le cose che maneggiamo e che com­ prendiamo proprio attraverso la loro manipolazione sono le cose dei nostri bisogni, che s’inseriscono nelle nostre funzio­ ni corporee e nelle nostre capacità di provvedere, così come una ruota dentata s’ingrana in un’altra o come una medaglia si adatta al suo stampo. E non vi s’inseriscono in modo isola­ to, come realtà singole chiuse in se stesse, bensì in rimandi concreti: una chiave in mano a un fabbro rimanda alla serra­ tura, al materiale impiegato e al tornio; invece in mano all’in­ quilino rimanda alla stanza con la sua separatezza, il suo arre­ damento, il suo contrapporsi all’estemo, al luogo di lavoro e così via. Questa “totalità di appagatività” della cosa, di ciò a cui serve e di ciò che è, è al tempo stesso ciò in cui la cosa ci si dischiude, ciò che di essa originariamente comprendiamo, il modo in cui la percepiamo, ciò che in essa vediamo. Ra­ gion per cui, la percezione come tale non costituisce per noi l’accesso decisivo alla realtà, ma è soltanto qualcosa che si inserisce nella connessione fungente del modo in cui le cose stanno e di ciò che ne è di esse. S’intende che la terra e il cie­ lo hanno una funzione anche in questo ambito essenzialmente pratico: la terra come “ciò in cui, su cui, da cui”, e il cielo co­ me luce e tempo dell’operare, del riposo ecc. Ma non sarebbe giusto vedere in essi soltanto questa funzione pratica e tanto meno considerarla come la loro funzione fondamentale e principale. A differenza delle cose pratiche, la terra e il cielo non comportano soltanto la possibilità di fungere in contesti 101

concreti, bensì anche l’eminente ed essenziale possibilità di mostrare il contesto. La terra e il cielo non sono soltanto del­ le cose per..., bensì al tempo stesso esigono e richiamano ad un tutt’altro atteggiamento rispetto a quello immediatamente pratico in cui il contesto scompare interamente assorbito dal fine del positivo svolgimento dell’azione. La terra, con i suoi luoghi peculiari, e il cielo, con la sua infinità e la sua essen­ ziale lontananza, sono al tempo stesso lo spunto di una singo­ lare vertigine in cui il mondo si manifesta come mondo nella sua mirabile peculiarità, nel suo portento. Il comportamento immediatamente pratico ha il suo senso teleologico soprattutto nell’ambito della vita: ciò che qui vie­ ne assunto come fine è la vita stessa, e cioè la vita nei suoi bi­ sogni che o si ripetono periodicamente, oppure sono ormai sganciati dal rapporto con i naturali ritmi vitali. Da questo ap­ pagamento dei bisogni sorge così una teleologia secondaria, in cui quelli che erano originariamente dei mezzi diventano dei fini e così via all’infinito, cosicché l’adempimento di compiti strutturati via via in modo sempre più complesso può esso stesso attuarsi in forme complicate, che si ripetono tutta­ via nella loro struttura fondamentale. È in questo campo del comportamento pratico che va loca­ lizzata ogni attività di orientamento, di analisi e di sintesi del­ l’intelligenza pratica dell’uomo. Il contesto pratico, la totalità del modo in cui ne va delle cose (la totalità della loro “appagatività”), la comprensione che si attua all’interno di tale contesto, è uno dei motivi per cui non avvertiamo il carattere orientato dell’originaria pre­ senza della datità. Il contesto pratico è il solo a diventare te­ matico; le cose invece, nel loro presentarsi sensibile-prospet­ tico, vengono trascurate. Sebbene il rapporto d e llorienta­ mento pratico agli oggetti sia il quadro in cui si muove in permanenza la comprensione di ogni funzione e di ogni agire quotidiano, e sebbene la nostra vita tra le cose sia pertanto 102

sempre una vita tra cose orientate e quindi tra prospettive di datità, tuttavia noi trascuriamo questo modo di darsi delle co­ se per privilegiare un altro loro aspetto, e cioè l’aspetto del loro significato, del loro senso che, essendo qualcosa che non percepiamo, bensì comprendiamo, è (dal punto di vista sensi­ bile) aprospettico. Così la prospetticità significativa si so­ vrappone a quella intuitiva mettendola a tacere. Oltre alle cose che si inseriscono nel contesto dei bisogni e la teleologia secondaria che ne deriva, è il contatto con gli al­ tri che occupa il centro del nostro mondo. Il contatto con gli altri è la componente primaria e più im­ portante del centro del mondo naturale, il cui suolo è la terra e la cui periferia è il cielo. Il contatto con gli altri è il vero e proprio centro del nostro mondo, ciò che gli conferisce il suo contenuto più proprio e anche il suo senso principale, e forse addirittura tutto il suo senso. È soltanto il contatto con gli al­ tri che crea il vero e proprio ambiente in cui l’uomo vive. Il nostro contatto sensibile con la realtà presente, la nostra per­ cezione, assume il suo significato principale per il fatto che essa comunica alla realtà degli altri, alla loro compresenza con noi nel mondo, il sigillo della sua immediata forza di convinzione. D’altra parte vale anche l’inverso: il contatto sensibile, la percezione, è essenzialmente orientato non verso l’ambito delle cose, bensì verso la sfera degli uomini; il no­ stro spazio, fin dal suo fondamento e per tutta la sua struttura, è uno spazio umano; infatti tutta la sua struttura centrale e centrata ha sì il suo punto di partenza da me, ma ha il suo sbocco in te, in quell’altro che ci è tanto più vicino che noi a noi stessi in quanto è l 'oggetto reale del nostro sguardo es­ senzialmente non-oggettivo, della nostra azione, del nostro orientamento che si adatta alla realtà, del nostro discorso. La nostra prospettiva orientata parte da me e mette capo all’og­ getto presente. Tale oggetto presente, quello che è qui e pres­ so il quale propriamente io sono, non deve necessariamente 103

essere un altro io, un altro uomo, ma in tal caso c ’è in esso qualcosa di non-completo, di non adempiuto; l’oggetto pres­ so il quale propriamente noi siamo non è mai un “esso” o un, “lui”, ma è il tu. Il tu è sempre un oggetto vicino, un oggetto alla mia portata; non è mai quello del quale parliamo, ma sempre e soltanto quello con il quale parliamo. In questo con­ tatto e in questo rispecchiarci nell’altro cogliamo per la prima volta embrionalmente noi stessi, ci vediamo e ci viviamo nel­ le sue reazioni e nel suo comportamento con noi che scorgia­ mo immediatamente. E questa struttura dell’altro, più vicino a noi che noi stessi, e, simmetricamente, vicino a se stesso at­ traverso di noi, costituisce la base su cui è innestato ciò che vi è di più importante in tutto il dramma della vita. Gli uomi­ ni sono in rapporto tra loro attraverso questo reciproco lega­ me e in assenza di esso non sarebbe neppure pensabile la loro connessione biologica. È appunto questo rapporto che costi­ tuisce quell’ambiente umano in cui l’uomo cresce e in cui im­ para a vivere ancora prima che non tra le cose. Naturalmente esistono anche degli orfani e dei bambini abbandonati, ma ta­ li casi costituiscono delle mere anomalie sullo sfondo della normalità: infatti la vita dell’uomo sarebbe fisicamente im­ possibile senza una qualche prossimità con il contatto uma­ no. Tale impossibilità fisica è una conferma del fatto che nes­ suna vita umana potrebbe avere un senso in assenza dell’al­ tro, e cioè del fatto che qualsiasi significato, che si costituisca nella nostra vita o trovi in essa risonanza, è sempre un signifi­ cato orientato verso il rapporto con gli altri. Ciò, del resto, deriva già da quanto detto sopra: lo strato essenziale della no­ stra esperienza, la percezione sensibile, è teleologicamente orientata a far sì che in essa si rifletta e si esprima la presenza dell’altro: le cose e gli altri costituiscono fra loro la polarità originaria; le cose sono un modo d’essere deficitario, quello in cui non si mostra nient’altro. E la nostra propria esperien­ za, da privata e personale, diventa obiettiva attraverso gli al­ 104

tri. Il mondo diventa un mondo reale, qualcosa che ingloba il tutto, proprio per il fatto che l’esperienza mia propria viene inserita in quella di tutti gli altri, per il fatto che io vedo me stesso a priori soltanto grazie al mio preventivo inserimento tra gli altri, i quali sono miei oggetti, ma in modo tale che io posso essere presso di me soltanto grazie al loro aiuto e pas­ sando attraverso di essi. È profonda convinzione di Husserl che l’altro io, l’espe­ rienza dell’altro, non sia nient’altro che la coscienza che presentifica nel modo della presenza attuale: io posso rendere presente la mia propria vita solo a condizione che sia preven­ tivamente scaduta nell’inattualità, nel passato; pertanto, se esiste una presentificazione dello psichico attuale, si deve ne­ cessariamente trattare di uno psichico estraneo. Tuttavia va forse precisata l’espressione “presentificazione”. Non si tratta di una riproduzione, ma di una percezione diretta. Io mi com­ prendo qui semplicemente come l’oggetto di una situazione significante, in cui però la causa, il portatore attivo è un qual­ cun altro. Il bambino non proietta sulla madre il suo proprio sentimento, sì avverte il suo sorriso e le sue carezze come una situazione significante, in cui entrambi i partners sono inseri­ ti, secondo lo schema dell’emittente e del ricevitore. Non si ha qui un vissuto originariamente proprio che proietteremmo poi sui fenomeni espressivi dell’altra persona, ma una situa­ zione complessiva che ha i suoi poli e che viene interpretata “specularmente” da parte dei due partecipanti. Pertanto non comprendiamo originariamente né noi stessi né l’altro come due io, bensì come due attive componenti della situazione. Il riuscire a realizzare che l’altro è un autentico io nello stesso senso in cui lo sono io, che anche lui ha un vissuto, sente, pensa e ha una sua interiorità, rappresenta una scoperta che presuppone un lungo cammino. Il punto di partenza primor­ diale è rappresentato dalla situazione significante bipolare, la situazione in cui due poli corporei analoghi svolgono un ruo­ 105

lo complementare. Può servire da esempio la comprensione del significato di una parola: tale comprensione è possibile solo nella situazione del discorso, dove il bambino riceve ciò che l’altro gli dà, cosicché il significato una volta che sia sta­ to compreso è sempre un significato emesso dall’altro, e non creato solipsisticamente da me. Allo stesso modo anche una conversazione, un aggrottar delle ciglia o un rimprovero sono sempre una situazione bipolare, in cui comprendo me stesso come oggetto e l’altro, eo ipso, come agente. Pertanto ci vie­ ne spontaneo - e a giusto titolo - di attribuire il significato non a noi stessi, bensì prioritariamente agli altri, quali emetti­ tori e attivi autori. Nella sua essenziale dimensione, la vita umana coincide con la ricerca e la scoperta dell’altro in sé e di sé nell’altro. Nell’intero dramma della vita umana ciò che è in gioco è il sa­ pere se verrà o non verrà scoperto ciò che è già contenuto im­ plicitamente in quel contatto primordiale e meramente situa­ zionale: l’interiorità che si nasconde dietro tutto ciò chè si ma­ nifesta. L’altro e io ci scopriamo reciprocamente nell’unità di una situazione significante. L’altro e l’io, in quanto si manife­ stano, appartengono entrambi all’ambito oggettuale, sono qualcosa che ho davanti a me. Ciò che rimane celato è il fatto che questi oggetti possono manifestare soltanto grazie al fatto che c’è qui un io anteriore sia rispetto all’io oggettivo mio proprio che a quello altrui. E rimane celato anche il fatto che questo io anteriore implica parimenti un secondo io anteriore. E tuttavia sono qui presenti non solo due oggetti, due cose, ma anche il rapporto e il legame tra i due. Tra una madre e il suo bambino esiste un rapporto più intimo che non la mera compresenza di due cose. Il sentimento che li lega reciproca­ mente proviene da una profondità pre-oggettiva. In esso i due esseri sono collegati, la vita dell’uno è compresa nella vita dell’altro. Ognuna delle due parti possiede se stessa nell’altra, ma in un modo tale che ne ottiene più della sua propria soli­ 106

tudine. Solitudine che significa sempre una mera intenzione non adempiuta, un’assenza, un’aspirazione a qualcosa. Pertanto fin dall’inizio della vita l’uomo è immerso, radica­ to anzitutto nell’altro e questo radicamento nell’altro funge da mediatore per tutti gli altri rapporti. L’altro è primariamente colui che si prende cura dei nostri bisogni prima che noi siamo in grado e che cominciamo a provvedervi insieme a lui3. È l’altro che fa sì che siamo sempre appagati e prossimi alla me­ ta nonostante tutte le nostre peculiari esigenze e insufficienze. È l’altro che ci protegge contro le conseguenze di tali insuffi­ cienze. L 'altro - anzi, nella naturale e inevitabile rete di rap­ porti reciproci, gli altri - sono ciò che ci protegge, ciò grazie a cui soltanto la terra può diventare per me veramente terra, il cielo diventare cielo. Gli altri sono la dimora originaria. Ma la dimora, cioè questo mettere radici, non è possibile nell’isolamento. La casa è il luogo dove, per mezzo delle per­ sone, si realizza il radicamento nelle cose, dove cioè i bisogni vengono soddisfatti. Ma i bisogni devono essere governati e seguiti con cura, e questo avviene solo in parte nella casa. Il governo dei bisogni, il lavoro, costituisce l'esterno, imposto di lavoro, la sfera dell’oggettività, della positività. Questa sfera è varia a seconda delle circostanze storiche e sociali, va­ rio è ciò che bisogna dominare e con cui bisogna convivere e pertanto è vario anche ciò a cui deve sacrificarsi colui che è impegnato nella soddisfazione dei bisogni. Per il cacciatore 3

A prima vista siamo qui in presenza della stessa situazione che si ve­ rifica negli animali “nidicoli”, ma in questi ultimi si tratta soltanto di portare a termine e compiere la funzione uterina, giacché qui è assen­ te quel lungo periodo nel corso del quale si acquista la cosciente pa­ dronanza di sé e del mondo - come avviene per l’uomo - e in cui per­ tanto il contatto interiore è presupposto. Negli animali è sufficiente un semplice accenno di contatto; in essi il contatto non si realizza in una completa e a lungo perdurante atmosfera in cui si forma Vindivi­ duum, e cioè un essere che è per qualcuno, e pertanto assolutamente unico al mondo.

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questa sfera equivale sostanzialmente a un terreno di lotta, mentre per il contadino il lavoro e la lotta si differenziano ed è nel grande ciclo astrobiologico che egli deve integrarsi. Per l’uomo moderno questa sfera è rappresentata dalla marcia meccanizzata del processo produttivo e burocratico. Ognuna di queste sfere forma, definisce, radica l’uomo nel suo ruolo, lo fa coincidere con la sua funzione e attività, quindi in certo modo lo oggettivizza. Ognuna lo conduce in mezzo agli altri uomini quali compartecipi della stessa esteriorità, quali suoi elaboratori; uomini che lo aiuteranno, oppure gli nuoceranno concorrendo con lui, oppure combineranno in varie propor­ zioni questi tipi di comportamento. Così il rapporto con le co­ se, una volta che l’uomo vi si sia radicato e abbia al tempo stesso scoperto l’aspetto cosale della vita, condiziona l’ulte­ riore rapporto con gli uomini. L’ambito più intimo è costitui­ to dal radicamento negli uomini, che è reso possibile dal radi­ camento nelle cose quale condizione pura e semplice della vi­ ta; quest’ultimo, a sua volta, è reso possibile dall’assunzione di un rapporto esteriore con gli uomini, quale condizione del­ la predetta condizione. I rapporti di potere - rapporti di coor­ dinazione e subordinazione nella solidarietà e nell’opposizio­ ne - sono in definitiva ciò su cui si fonda la vita. I rapporti di potere presuppongono una considerazione esteriore dell’uo­ mo, visto come una forza, un collaboratore o un ostacolo nel­ l’accesso ai mezzi oggettuali della vita. Ma un tale rapporto dall’esterno con gli altri, visti come una forza condizionante e condizionata, sia nel lavoro che nei bisogni, è per sua natu­ ra inseparabile da un rapporto alla propria vita attraverso la morte, allo stesso modo in cui il radicamento originario pre­ suppone un rapporto alla propria vita attraverso la vita altrui. I rapporti di potere costituiscono una considerazione dell’al­ tro non meno interiore dell’amore primario, ma a partire dal­ l’altro lato della vita: infatti la vita è, al tempo stesso, una to­ talità infinita, capace di ampliarsi e di rinnovarsi totalmente e 108

sempre di nuovo in ognuno dei suoi elementi, e in ogni suo elemento è allo stesso tempo un individuo finito, che deve ne­ cessariamente rapportarsi alla propria fine. E deve vivere tale fine o cercando di allontanarla ed evitarla, oppure affrontan­ do attivamente la minaccia. Il che nella pratica significa so­ stanzialmente affrontare la minaccia per sé da parte degli altri e parallelamente costituire una minaccia per gli altri. Quindi proprio nel centro della vita, nell’ambito di ciò che è vicino, ci troviamo di fronte a tre generi essenziali di rap­ porti umani: il rapporto infinito con se stesso attraverso l’altro, che tende alla considerazione del proprio essere quale vi­ ta infinita; il rapporto con se stesso e con gli altri come forze finite, rapporto che rende possibile il potere, l’organizzazione sociale, la disciplina del lavoro e i rapporti di proprietà; e in mezzo a questi due precedenti, il rapporto con se stesso come un essere bisognoso (e quindi parimenti come finito, ma vi­ vente nella finitudine) attraverso la terra nutrice, rapporto in cui è radicato il lavoro con tutti i suoi elementi mediati e l’or­ ganizzazione per la soddisfazione dei bisogni. In altre parole si tratta dell’opera della vita attraverso la vita stesse, dell’o­ pera della vita che si è legata alla terra e al cielo, e infine del­ l’opera della vita attraverso la morte. Nell’ultimo rapporto la vita è vista come libera anche nei confronti di se stessa; in quello intermediario come dipendente per la propria conser­ vazione dal contesto del cielo e della terra, dunque come le­ gata, non libera; nel primo come libera anche nei confronti della morte, come infinita nonostante tutta la sua dipendenza e per la sua libertà nei confronti di se stessa. Dunque l’altro - e, di conseguenza, noi stessi per gli altri - è anzitutto colui nel quale e per mezzo del quale affondia­ mo primariamente le nostre radici. Tale radicamento provie­ ne dal profondo della reciprocità, ma non è ancora uno svela­ mento dell’altro nella sua essenza. Al contrario, l’altro si ce­ la nella sua funzione e nel suo ruolo, e allo stesso modo noi 109

stessi, affondando le nostre radici nella terra nutrice e collaborando all’opera del soddisfacimento dei bisogni, assumia­ mo i ruoli più vari con i quali apparentemente veniamo a coincidere. L’essere bisognoso che noi siamo, nel suo lavoro teso alla soddisfazione dei bisogni, vive permanentemente preso nelle catene della vita - cioè di una morte continuamente vinta e allontanata - ma distogliendo lo sguardo da quella fine sempre presente e possibile. Vive incatenato, da una parte, alla terra nutrice e, dall’altra, in balìa dei potenti, di coloro che organizzano la vita e determinano la soddisfa­ zione dei bisogni. In tale situazione ognuno degli esseri biso­ gnosi è un essere oggettivato che sta nel mondo come una cosa tra le altre cose. Tuttavia, in un senso più profondo, non diventa mai una co­ sa, come è già attestato dal carattere primario del suo radica­ mento negli altri; forse già per il fatto che l’uomo, fin dall’ori­ gine, è qualcosa che sporge fuori del suo proprio centro, qual­ cosa che va al di là della propria persona conchiusa, della pro­ pria corporeità e del proprio stato di bisogno. (Ciò invero vale parimenti per l’animale, ma solo in quanto è spinto da una ne­ cessità meramente istintiva, mentre nell’uomo è sempre pre­ sente un elemento di libero consenso; l’uomo è con-creatore di questo rapporto con gli altri, quindi vi si identifica e allo stesso tempo se ne distanzia; è quindi in grado di comprendere e d'intuire una tale infinità nell’altro.) Anche nei casi in cui mi limito a svolgere il mio ruolo e vedo negli altri solo il loro, anche in un tale rapporto simmetrico è presente al tempo stes­ so un’insoddisfazione e la ricerca di un rapporto più profondo. L’insoddisfazione esprime il rifiuto di qualsiasi aspetto finito oggettivo. Essa, al tempo stesso, rappresenta sul piano affetti­ vo e pratico una liberazione dalla finitezza, è volontà di ri­ schio, di morte di tutto ciò che è determinato. Ma anche una tale volontà di superamento posso realizzarla soltanto attraver­ so l’altro, soltanto quando l’altro - che è il mio oggetto 110

compie lo stesso mio movimento, ma in modo tale che io sono il suo oggetto, come lui è il mio. Il superamento della figura finita può avvenire attraverso la lotta e allora bisogna che l’al­ tro si presenti come realtà del pericolo. Questa situazione è stata dialetticamente analizzata da Hegel come lotta per la vita e per la morte. Tuttavia in questa lotta non nasce alcuna co­ scienza positiva di sé, giacché anche l’altro vi è altrettanto di­ struttivo e negativo quanto me. Un più profondo superamento della finitezza, che invece presenta un contenuto positivo, si realizza nel caso in cui io investo la mia vita nell’altro, senza effettuare il movimento di ritorno da lui a me stesso, ma dedi­ candomi a lui; divento me stesso con la creazione dell’altro, così come lui lo diventa attraverso la mia e ogni tappa di tale rapporto conduce necessariamente da me all’altro e viceversa. Nel caso della lotta non ottengo alcuna autocoscienza superio­ re, se non quella - meramente negativa - che io non sono una cosa né in generale una qualche oggettività. Nel caso della de­ dizione all’altro raggiungo la coscienza di me stesso come es­ senzialmente infinito, in grado di riprodurre la totalità in ogni parte e di generare un altro essere fuori di me, un essere che non solo non è finito, ma non è neppure un oggetto. Io induco tale essere a compiere lo stesso movimento e esso rimane libe­ ro e non-oggetto, grazie al fatto che lo compie sul suo altro, su di me. Io manifesto il mio non essere finito, dedicando l’intero mio essere finito all’altro, il quale, a sua volta, mi restituisce il suo, in cui il mio è contenuto. Pertanto è essenziale, al centro del nostro mondo, passare dalla mera vita data alla manifestazione della vita verace ciò si ottiene grazie a un movimento che scuote il radicamento og­ gettivo e l’alienazione nel ruolo, nella cosificazione. Inizial­ mente si tratta di un movimento meramente negativo che si li­ mita a distruggere il legame che c’incatena alla vita, che ci li­ bera, ma senza svelare nulla. E che infine diventa un movimen­ to che manifesta positivamente l’essenziale, come vita univer­ 111

sale, che crea tutti in tutti, che provoca l’altro alla vita, al supe­ ramento di sé verso l’altro e, insieme a lui, verso l’infinito. I rapporti primordiali fondamentali al centro del mondo si trovano in una relazione evidente non solo con le componenti essenziali del mondo, ma anche con la natura originariamente temporale - e quindi storica - dell’esistenza umana. Il rappor­ to di radicamento è un rapporto di passato riferito a ciò che è qui già da sempre, è una penetrazione attraverso le strutture umane che giunge alla terra e al cielo e attinge la totalità preli­ minare; il suo ambito è pertanto la coscienza preliminare del­ l’orizzonte e l'originario rapportarsi totalmente a sé, la dispo­ sizione emotiva, il “come stiamo”, il “come ci sentiamo”. Il provvedere ai bisogni, l’assunzione, l’adempimento di un ruo­ lo e l’identificarsi con esso sono in uno stretto rapporto con ciò che è presente e dato e la sua cosificazione. Il confrontarsi con la finitezza, con la morte e il nulla scuote a fondo ogni molo, anche se è originariamente collegato con un molo de­ terminato, quello di chi combatte. Questo molo presenta però la particolarità di ricacciare l’uomo alla periferia dell’umanità, dal tepore dell’ambiente quotidiano verso il gelo del non esse­ re. Ma nel corso del confronto si verifica un distacco tra l’uo­ mo e il suo molo. Qui s’impone un problema ineludibile. Un problema a cui non può dare risposta la conseguenza sociale della minaccia, rappresentata dall’organizzazione della forza, dalla disarticolazione dell’umanità in una costellazione di for­ ze. Resta tuttavia ancora lo sguardo sulla totalità che può for­ nire una risposta a quella domanda che è stata capace di di­ struggere il molo e di evocare la libertà, ma non è stata capace di darle un contenuto né di definirla. La vita umana nel suo rapporto con gli altri ha dunque aspetti fondamentali che sono al tempo stesso dimensioni del mondo e dimensioni del tempo. Qualsiasi fare, qualsiasi orien­ tamento o comportamento deve essere preceduto da un anco­ raggio, da un radicamento che si realizza nella dimensione 112

della passività, dell’essere esposti. È qui che anzitutto si apre una totalità che è precedente alle parti ed è essenzialmente inesauribile e si scopre il nostro rapporto con essa - o, meglio, il suo rapporto con noi - nell’affettività, nel modo in cui si “intona” con noi, nel come le siamo esposti, come siamo aper­ ti e sensibili nei suoi confronti. Qui pertanto è presente nel modo più originario quella componente non individuata del mondo che non viene mai completamente alla luce. È evidente che tutto ciò si trova in uno stretto rapporto con una dimensio­ ne determinata della vita personale: il mondo intero può essere per noi come un grembo materno, come una calda, mite, sorri­ dente volta protettiva, oppure può essere pervaso dal gelo co­ smico con il suo freddo alito mortifero, a seconda che vi sia o no chi nel mondo e dal mondo ci sorrida e ci corrisponda. La possibilità della vita equivale alla possibilità di questo calore, di questo sorriso che risponde al nostro, di questo iniziale ap­ prodo in un luogo protetto, che coincide con l'affidarsi del no­ stro proprio essere in mani altrui, un’intimità che non ammette estraneità, pur nella differenza. Ciò significa che la vita è pos­ sibile unicamente in quanto sia già entrata in un calote predi­ sposto, nella passività dell’essere compenetrati dall'accetta­ zione, e quindi solo sul fondamento di un passato che ha reso possibile gettare l’ancora e mettere radici. Il calore della vita non è solo un “sentimento” in cui la vita si può inizialmente sviluppare per diventare in seguito una vi­ ta in un’attività personalmente assunta e svolta. È anche la ri­ presa di quella vita che viene nuovamente accettata e “senti­ ta” nel rapporto erotico che sarà tanto più vitale e indispensa­ bile quanto più la vita “personale” abbia subito un processo di meccanizzazione e “spersonalizzazione”, fino ad essere non ’più presente a se stessa (per la perdita totale di sé nella pre­ senza delle cose). Agli occhi dell’altro - che è una persona parimenti spersonalizzata che si ridesta dall’occultamento del corpo ridotto a strumento - comincio di nuovo a vivere, a 113

sentire la mia vita in tutto ciò che finora mi sfuggiva ed era presente solo in maniera nascosta. Senza tuttavia che tale vita diventi un oggetto, si distacchi da me e mi si contrapponga; essa acquista un’inaudita intensità e forza d’attrazione, senza peraltro perdere nulla della sua impenetrabilità, della sua in­ violata profondità e del suo inattingibile mistero, di quella sua lontananza che tradisce la dimensione del passato. Nel rap­ porto erotico vengo donato a me stesso non in ciò che faccio di me, in ciò a cui aspiro o realizzo, bensì in ciò che già sono, ed è in questo che risiede quella passività inseparabile dalla magia che è propria di tutta questa dimensione. La vita mi viene restituita - e in ciò ritroviamo la caratteristica del pas­ sato - qui viene “ripetuto” ciò che in realtà non è mai stato at­ tuale, che è direttamente presente come dono, come qualcosa a noi dedicato, a noi indirizzato, qualcosa che non possiamo mai offrirci, assicurarci o procurarci da noi. Appunto per que­ sto è caratteristica propria dell’autentico erotismo l’immedia­ tezza dello scoprire: infatti qualsiasi manipolazione, qualsiasi tentativo di impadronirsi del rapporto inevitabilmente lo alte­ ra, lo insozza, lo rende triviale, oggettuale, “volgare”. Se il metter radici è qualcosa che si riferisce al passato non ad un passato ormai scomparso, ma che è sempre inevita­ bilmente qui con noi - allora esso si deve manifestare in una continua esposizione a quei poteri in cui il nostro originario radicamento ci ha reso possibile crescere. Una tale esposizio­ ne non significa una solitudine tra cielo e terra; infatti la terra è sempre già al tempo stesso la terra degli uomini, proprio in quanto terra nutrice. Giacché la terra nutrice vuole essere co­ stretta a una tale funzione e l’obbligarla a nutrirci è qualcosa che esige la compartecipazione, la collaborazione, il consumo in comune. In questo processo l’altro è un’indispensabile for­ za cooperatrice, una particolarità, una cosa tra le altre cose, proprio come lo sono anch’io in questa sfera. La sfera in cui si fa, si realizza qualcosa - sfera in cui siamo tutti intercam­ 114

biabili - è quella del presente, della funzione e del ruolo, ap­ punto perché ha il suo punto di partenza nella prestazione, nel trattare con le potenze nella loro parcellizzazione, nelle sin­ gole occasioni e circostanze. Tutti i “maneggi”, “gli interven­ ti”, i contenuti tecnici sono sempre essenzialmente in corso, cioè sempre presenti, sempre “qui”. Lo svolgimento di tali funzioni comporta la nostra identificazione con esse, inseri­ sce la nostra vita in questa permanente prossimità che vive momento per momento, e con i singoli momenti compone poi il tutto, il “programma di vita”, nel cui quadro si trova il “tempo per...” La cosalità e la cosificazione di tutta questa sfera sono dunque anch’esse possibili unicamente in seguito all’instaurarsi di un determinato tipo di rapporti umani, giac­ ché qui nulla è mera natura, mero istinto, struttura già bell’e pronta, ma tutto è tradizionalità. Una tradizionalità che non appartiene però al passato, bensì comporta l 'inevitabile pre­ senza degli altri accanto a me, la loro compartecipazione. L’altro è qui presente nell’utensile, nello strumento, nell’at­ trezzatura di cui mi servo. Se è attualmente con me, egli è la presenza di un’utilità, mentre se è assente è l’utilità di una presenza, e lo stesso sono io per lui. E tuttavia questa dimen­ sione dell’essere insieme non è affatto una coesistenza mera­ mente indifferente, nel modo stesso in cui posso dire di tro­ varmi insieme a un utensile, uno strumento, un macchinario o un parco e così via. Si manifesta qui sempre altresì una “con­ trapposizione”. Infatti i collaboratòri sono sempre in un certo senso dei rivali, anche nell’aiuto reciproco, nella condivisio­ ne e così via. I centri individuali nel loro “personale” interes­ se (che è quello più generale, in cui tutti si accordano) si ma­ nifestano proprio come forze accanto ad altre forze, come realtà scisse che si trovano in un continuo moto di collisioni, influenze, intralci reciproci, e ciò sempre di nuovo e sempre ora. Una tale compresenza degli uni con gli altri è al tempo stesso una presenza in contrapposizione; tuttavia non si tratta 115

di una contrapposizione che miri alla distruzione dell’altro, bensì soltanto alla sua sottomissione e al suo sfruttamento. Tutta questa sfera è una sfera che polverizza l’uomo e lo ato­ mizza. Gli atomi, rapportandosi fra loro nel modo della “con­ trapposizione”, si equilibrano e si livellano reciprocamente. Si realizza così il paradosso di una atomizzazione a partire dal rapporto con l’altro, di una ripetizione del medesimo, sen­ za continuità. Grazie a tale ripetizione del medesimo, delle funzioni e delle prestazioni, si ottiene il risultato della conti­ nuazione della vita: la vita è sempre di nuovo qui ed è sempre in grado di ripetere il medesimo e cioè la “riproduzione” del­ l’identica vita individuale e generica. Il fatto che anche il terzo fondamentale rapporto con l’al­ tro è un rapporto temporale si desume dalla sua relazione con il futuro, il non essere, la morte (rapporto dato e presente sot­ to l’aspetto delle cose e delle forze). Il rapporto libero è sem­ pre inevitabilmente un rapporto di reciproca minaccia: io so­ no minacciato dall’altro e l’altro è minacciato da me. Dal fat­ to che questo rapporto è individualizzante in un senso più profondo, in quanto non polverizza gli uomini in atomi, ben­ sì approfondisce la loro identità e il loro rifiuto della “norma­ lità”, non si può dedurre che in esso non sia contenuto anche l’altro: l’altro ne è assente solo come norma, come qualcosa di totalmente esteriore che s’imponga all’interiorità. L’altro vi è sì presente, ma sotto l’aspetto di un’altrettanto possibile identità, cui risuona ora un appello tacito, non indirizzato. Vi è presente come identità alienata in quelle inevitabili forme funzionali di una vita che è dispersa in tali funzioni e nel loro senso oggettivo. Qualsiasi rapporto libero interviene a dissol­ vere una simile dispersione reificata, rappresenta per essa una minaccia che si ritorce di conseguenza anche contro di sé. Qualsiasi libero rapporto è inevitabilmente un conflitto. Una libera vita è inevitabilmente lotta. Nel suo senso più ori­ ginario, nel senso in cui è necessario e inseparabile dalla vita, 116

la lotta non deriva dalle funzioni vitali e dagli istinti, dal pro­ cesso necessario di riproduzione di eterno ritorno della vita su se stessa. La vita non è un mero status che si prolunga: già nella sfera istintivo-vitale, essa è un progetto di sé. Così inte­ sa la lotta è un modo di autoriproduzione, è un aspetto del carattere terrestre della vita, del suo rapporto con la terra nu­ trice, di cui qualsiasi vita è parte. Una simile lotta può even­ tualmente essere sostituita con qualcos’altro che sia in grado di realizzare più pienamente e più efficacemente il progetto di autoriproduzione sul piano dei mezzi e delle possibilità umane. Ma ciò non rende superflua la lotta nel suo senso più profondo. La lotta è indispensabile come lotta che ridesta. Una tale lotta non è in via primaria un attacco, ma una provo­ cazione al contrattacco, alla repressione, alla soppressione. Soltanto nella difesa contro questa antecedente repressione, contro il potere che soltanto adesso diventa ciò che è, si giun­ ge alla rivolta. La rivolta non deve sempre e necessariamente manifestarsi come violenza fisica; questa è qui qualcosa di secondario, una semplice conseguenza, anche se è strettamente collegata con il fatto che il risveglio è sempre finito. Il risveglio è un rinnovamento, è l’autentico disvelamento della vita non nella sua passata profondità e passiva donazione, bensì nell’appello che emana dal suo disporsi ad assumerò e aderire a ciò che non può essere evitato quale destino finale, ciò che inevitabilmente arriva, ma che, proprio per questo, ci rende possibile di non dissiparci, di non disperderci nella di­ menticanza di noi stessi. Si può pertanto dire che la lotta e la disposizione alla lotta in senso estrinseco fornisce l’occasione perché l’uomo colga e comprenda la lotta stessa nel suo senso autentico e profon­ do. In questo secondo senso la lotta è anzitutto la sconfitta della mortificazione nel nostro intimo, la sconfitta della di­ spersione nei singoli istanti ripetitivi di un presente alienante (nell'esteriorità che si trova “in presenza”). La mortificazione 117

è la stessa morte che, alle nostre spalle, si è impadronita della vita e l’ha svuotata con il pretesto di assicurarne la continua­ zione, la ripetizione dei suoi singoli istanti. Paradossalmente la mortificazione può essere sconfitta unicamente attraverso l'adesione aperta alla mortalità [přihlášené k smrtelnosti], cioè a ciò davanti a cui la mortificazione fugge continuamen­ te e che continuamente conferma proprio con la sua fuga. Non esiste nessun altro mezzo per affrontare e superare que­ sto continuo fuggire che non sia appunto tale aperta adesione. È proprio in forza di tale adesione che la vita cessa di essere una eterna ripetizione del medesimo, un eterno ritorno. In tut­ ti i ritorni si mantiene soltanto ciò che si può percepire, vede­ re e constatare come il medesimo, ma non viverlo, non esser­ lo. Essere significa essere nell’assoluta singolarità, nell’espo­ sizione al pericolo assoluto. La minaccia è assoluta quando in essa tutto è minacciato, quando con il suo realizzarsi non re­ sta nulla. Ma nella minaccia assoluta la terra si è avventurata oltre modo al di là dei suoi limiti, si è messa alla mercé del­ l’abisso. Essa non è più quel saldo έδος άσραλές αì έ ì , terra eternamente salda, quale si presenta originariamente. “C’è” qui ancora qualcosa d’altro oltre lo svariare dei suoi fenome­ ni e della loro iterazione. Qualcosa di totalmente diverso da tutto ciò che è essente. Pertanto la terra e il cielo “sono”, ma solo l’uomo “esiste”. Unicamente per mezzo dell’uomo è possibile che tutto l'essente , tutta l’universale totalità sia una totalità, che abbia il suo terminus, il suo τέλος, la sua fine. Ciò significa che que­ sto tutto è trasceso, è richiamato in dubbio e che gli viene po­ sta una domanda. Ma porre un interrogativo davanti alla terra e al cielo significa offrirsi in sacrificio affinché qualcosa d’al­ tro possa “essere”, affinché la terra e il cielo non manifestino soltanto se stessi, bensì siano la manifestazione di “qualcosa di superiore”. Questo “qualcosa di superiore” è possibile uni­ camente grazie a questo rivolgimento assolutamente origina­ 118

rio. Soltanto se l’uomo ne è capace, soltanto se si verifica in lui, solo allora questo qualcosa di superiore esiste. Esso non può mai essere “oggettivamente” dimostrato o certificato, perché è superiore proprio rispetto all’oggettivo, a ciò che è preliminarmente dato, alla “totalità”. Nel riconoscimento e nell’accettazione della finitezza av­ viene qualcosa di diverso dalla proclamazione del nulla e del nichilismo: si ha invece un superamento della finitezza che è un autentico superamento nel senso del superare e conserva­ re. La vita è capace non soltanto di prolungarsi attraverso la destituzione di sé, ma anche di transustanziarsi attraverso la rinuncia a sé. È capace di proclamarsi non potenza suprema, bensì mera impotenza che si consegna alla potenza del senso più alto e primordiale. Qui soltanto la vita acquista la forza negativa di darsi, di dedicarsi. Ma un essere esistente non può dedicarsi che a un altro essere come lui. La forza di transu­ stanziazione della vita è la forza di un nuovo amore, un amo­ re che si consegna agli altri, incondizionatamente. Ma soltan­ to in questo amore l’ipseità è se stessa, senza costringere l’al­ tro nella privazione di sé. Soltanto qui alla dispersione di una vita atomizzata si sostituisce un’intima continuità, grazie alla quale l’altro non è più un estraneo, bensì un “io” essente, e ciò non solo astrattamente, in un’idea, ma in forza della pro­ pria dedizione. Ciò in modo analogo a quanto avviene nell’a­ more vitale, biologico, ma in modo libero, non delimitato, universale. Non si tratta di amore nel senso della simpatia o della partecipazione a una comune sofferenza, bensì di un amore che è partecipazione, una comune gloria e vittoria sulla propria degradante egocentricità. L’amore biologico è soltan­ to una metafora incompleta e inconseguente di questo amore autentico ed estremo. Vediamo così che i fondamentali modi di rapportarsi al mondo sono al tempo stesso rapporti temporali, cioè movi­ menti per mezzo dei quali noi incontriamo il nostro prossimo, 119

l’altro. Il mondo naturale, il mondo in cui l’uomo vive la sua episodica, inconclusa giornata di vita, è fin dall’inizio una to­ talità manifesta che però non ci è aperta davanti come una scena di teatro che possiamo abbracciare con lo sguardo e che il regista ci permette di dominare. Si tratta invece di una tota­ lità nella quale noi siamo sempre come una componente che vi è immersa, a cui non è mai né possibile né permesso ele­ varsi al di sopra della totalità. Perciò tutta la nostra coscienza della totalità è qualcosa di antecedente che non è mai possibi­ le tradurre in una visione oggettiva che ci permetta di porci contro o al di sopra di essa. E si tratta parimenti di una tota­ lità, all’intemo della quale eseguiamo noi stessi il nostro mo­ vimento vitale, il quale, essendo un movimento all’interno della totalità, è sempre ad essa rapportato, e quindi non è mai un movimento “assoluto”, bensì soltanto uno spostamento del punto di vista. Un movimento che vede la totalità dal proprio punto di vista e vede se stesso sullo sfondo della totalità. La totalità pertanto è una continuità di prospettive, da cui parte una molteplicità di strade sempre e soltanto verso altre pro­ spettive, e mai fuori di esse. Questo è soltanto un diverso mo­ do di esprimere il fatto della corporeità, nel cui quadro si svolge questo movimento e ogni suo orientamento; le poten­ ze, all 'interno delle quali si svolge il movimento, sono i suoi referenti; esso si rivela quale movimento per il fatto che si svolge nelle modalità del radicamento, del prolungamento di sé attraverso la destituzione di sé e della conquista di sé attra­ verso l’esposizione al pericolo, tutte modalità di carattere temporale e rapportate all’altro. Nella conquista di sé si ottie­ ne finalmente la conquista dell’altro in sé e di sé nell’altro, a condizione che si realizzi l’estremo movimento di autotra­ scendimento nell’accettazione della finitezza.

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IV

In ciò che precede abbiamo cercato di mostrare come il mondo preliminare della nostra vita pre-teoretica è originaria­ mente il mondo in cui ci muoviamo e in cui siamo attivi, e non il mondo che constatiamo e contempliamo. Il mondo e l’uomo sono in un movimento reciproco; il mondo ingloba l’uomo in modo tale che l’uomo, insieme agli altri, può in es­ so eseguire il movimento del radicamento, quello del prolun­ gamento di sé attraverso la destituzione di sé e quello del ri­ trovamento di sé attraverso la rinuncia a sé. Un tale movi­ mento è movimento nel senso più originario e più forte di questo termine; ogni nostro “movimento fisico” è in realtà parte di quel movimento totale e onnicomprensivo che noi stessi siamo, giacché i nostri movimenti sono essenzialmente movimenti di un “corpo soggettivo”, o sono indelebilmente caratterizzati nel loro senso da questo corpo, e allo stesso mo­ do qualsiasi datità è parte di un orientamento che è essenzial­ mente corporeo, e perciò la si può caratterizzare come movi­ mento. È movimento la nostra nascita, il nostro venire? accet­ tati, il nostro incontro con le cose nell’intuizione, le nostre reazioni istintive, la nostra autoriproduzione nella nostra di­ pendenza dagli altri e nelle nostre prestazioni nel lavoro; e ancora, è movimento il nostro abbandono della casa natale con la maturità, il tentativo di ritrovare la nostra propria vita nell’amore fisico, il ritorno a una nostra propria casa e l’ulte­ riore, tipico movimento iterativo; è movimento il lavoro e la lotta che rivela in noi una dimensione in cui diventa possibile arrivare a rimuovere la nostra degradazione. E infine, è movi­ mento ciò grazie a cui possiamo finalmente incontrarci con noi stessi e con l’altro intesi entrambi non come una mera co­ sa, ma come un essere vivente che si sorpassa e si trascende, non come un io soggetto alla morta infinità iterativa dell’ac­ quisizione. E qualsiasi spazio, nonché i suoi contenuti, gli 121

stati e i mutamenti che in esso constatiamo sono originaria­ mente i referenti del nostro primario movimento, hanno un senso soltanto in connessione con esso e ci sono aperti sol­ tanto per il motivo che il movimento di un essere che non è privo di mondo, è un essere del mondo, non può accadere, non può essere una mera e graduale evoluzione di uno stato, ma deve venire eseguito, per cui un tale movimento ha il suo reale “da dove” e “ verso dove”, il suo “tra”, il suo divenire e i suoi incontri. Il mondo naturale è il mondo del movimento, la sua chia­ ve è il movimento nel mondo, il movimento di un essere mondano. Ma questo ci fornisce ora almeno un inizio di ri­ sposta al problema di come il mondo naturale si può con­ vertire nel suo opposto. Vediamo infatti che al movimento di un essere mondano inerisce necessariamente una fase, o modus, la cui natura consiste in un diretto orientamento del­ la vita contro se stessa, e cioè la fase dell’autoprolungamen­ to mediante la destituzione di sé, nell’orientamento verso l ' oggettività e nella perdita di sé attraverso la dispersione nella sfera oggettiva. Husserl, nella Crisi, ci ha mostrato come nella vita del­ l’uomo, dalla sua prassi quotidiana, dal suo aver a che fare con le cose, derivi necessariamente un processo di oggettivizzazione che conduce dapprima al nascere di pratiche, ri­ cette e procedimenti di misurazione, quindi alla nascita della geometria come arte dell’oggettivazione; ci ha mostrato an­ che come in seguito all’oggettivazione e alla razionalizzazio­ ne di singole sfere sottomesse con successo alla matematizzazione, ponendo il compito di una prassi razionalizzante-oggettivante all’infinito, si estenda gradualmente a tutte le sfere della realtà. L’ideale che si afferma nella scienza moderna e la sua conseguenza, la tecnoscienza, non si limita a manipo­ lare i singoli oggetti, ma mira a manipolare la realtà nella sua più vasta estensione. Questa prassi razionalizzante-oggetti122

vante, questa arte finisce poi per considerarsi come un acces­ so alla vera realtà in sé, dal momento che le manca la capa­ cità di uno sguardo riflessivo sulla vita, da cui pure essa è sorta, e che è totalmente assorbita e affascinata dagli oggetti che si trova davanti tra i quali sa orientarsi, che è capace di analizzare, inventando metodi per dominarli mediante il cal­ colo. Così la vita umana finisce per trovarsi presa nella rete che essa stessa ha costruito. L’oggettivazione, considerata da Husserl come l’evento fondamentale per l’uomo e come componente della storia es­ senziale dell’uomo, dev’essere pertanto connessa con il mo­ vimento fondamentale dell’esistenza umana. Ma questo Hus­ serl non lo fa, giacché nelle sue analisi filosofiche non viene posto il problema del movimento globale con cui coincide la vita umana nel mondo. Pertanto in Husserl il processo dell' oggettivazione si sviluppa in pieno accordo con il principio della demobilizzazione del movimento (di cui è pieno ovun­ que l’ente oggettivato), ma d’altra parte resta difficile com­ prendere perché le cose stiano così e come mai parallelamen­ te a tale processo si verifichi una progressiva perdita del mondo (giacché il mondo, quale totalità primordiale e inattin­ gibile, è indissolubilmente collegato con il movimento della vita). Husserl si è limitato a rivelare che il modo in cui la tec­ noscienza interpreta l 'oggettivazione, che essa stessa produ­ ce, è un modo distorto. L’oggettivazione si attua in realtà sul terreno del mondo naturale, e non, viceversa, il mondo natu­ rale sul terreno delle entità oggettive che la tecnoscienza avrebbe scoperto al di là di esso. Infine Husserl ha chiarito che , l' oggettivazione è un movimento il cui senso è inseparabile dalla convivenza con gli altri nel mondo, in quel mondo in cui dobbiamo comunicare tra noi, dobbiamo collaborare e trovare tra noi e per noi dei legami e delle connessioni. È stato Heidegger a scoprire il movimento del prolunga­ mento di sé attraverso la perdita di sé e quello di conquista di 123

sé attraverso la dedizione di sé. Ma dal momento che, ai suoi occhi, questi due movimenti si trovano in un’antitesi inconci­ liabile, esprimendo due concezioni fondamentalmente diverse dell’essere dell’ente (l’una metafisicamente sovratemporale, l’altra storica), e dal momento che per lui queste concezioni non sono opera dell’uomo, bensì un modo preliminare di quell’apertura all’interno della quale l’uomo deve necessaria­ mente sempre muoversi, Heidegger non vede nella metafisica dell’oggettivazione semplicemente un’autointerpretazione della vita erronea perché incompleta, bensì uno specifico de­ stino metafisico di cui siamo diventati vittime e al cui perico­ lo dobbiamo rimanere esposti. Tra le due concezioni non è possibile nessuna mediazione. Anche se Heidegger insiste sul fatto che il movimento di perdita di sé è qualcosa d’inevitabi­ le, egli non analizza il fondamento ultimo di tale necessità, e cioè la corporeità, la naturalità dell’essere umano. Con le sue analisi del corpo proprio e del movimento corporeo, Husserl era andato molto più vicino al disvelamento di tale naturalità. Parimenti Husserl, mettendo l’accento sul punto d’intersezio­ ne interiore dell’umana coesistenza e sull’intersoggettività come la dimensione senza la quale sarebbe inafferrabile l’au­ tentico movimento dell’esistenza umana, dimostra in quale direzione sia possibile approfondire l’analisi del movimento della conquista di sé attraverso la dedizione. Nelle pagine che precedono ci siamo sforzati di accennare al modo in cui sarebbe possibile sviluppare la problematica del mondo naturale e della sua oggettivazione. Ci siamo sfor­ zati di non cadere in quel soggettivismo che scorge l’assoluto stesso nel fondo dell’uomo (e ai cui occhi l’uomo appare co­ me un essere interiormente infinito), e neppure nell’irraziona­ lismo di quell’essere preliminare alla cui grazia e disgrazia si troverebbe esposto il senso stesso dell’essere umano. Nel pri­ mo caso si renderebbe necessario approfondire il movimento dell’esistenza nel mondo fino a vedervi un movimento per 124

cui dapprima il mondo verrebbe creato; ma, come abbiamo visto, il mondo è sempre anticipatamente dato nei nostri con­ testi di significato. Nella seconda ipotesi questo movimento non avrebbe alcuna implicazione umana, nessun valore prati­ co, e si ridurrebbe a un mero dialogo tra ciò che è superiore e la terra di cui l’uomo sarebbe l 'intermediario; ma rimarrebbe totalmente emarginato da questo processo ciò che l’uomo è e ciò che può essere per l’uomo. * * *

L’oggettivazione. - Husserl non ne contesta la legittimità, ma è contrario alla sua ipostatizzazione metafisica secondo la qualel ' oggettività matematicamente intesa è la realtà, l’unica esclusiva realtà. Ad una tale concezione Husserl contrappone la sua assolu­ ta soggettività come la realtà in cui l 'oggettivazione è com­ presa e sul cui terreno si sviluppa. Ma se esiste non solo la soggettività, ma anche il mondo in modo altrettanto assoluto, allora l’oggettivazione dev’essere veramente il processo per mezzo del quale si coglie il Inondo “in sé” - la matematica, le leggi e la struttura saranno ciò ver­ so cui convergono tutte le esperienze dei soggetti. D ’altra parte, ciò verso cui convergono i soggetti non può esistere di per se stesso; ciò è inconcepibile, in quanto si tratta di rappor­ ti, che esigono dei termini. Ciononostante vi sono leggi matematiche, non meno di co­ me, per esempio, vi sono limiti: il limite condiziona il proces­ so di avvicinamento al limite, e in tal senso è. Esse condizio­ nano tutto ciò che converge verso di loro, e cioè sono leggi causali; nello stesso tempo esse non s’identificano nella loro obiettività con nessuna approssimazione che può essere rag­ giunta dalla nostra oggettivazione. D ’altra parte, non è possibile considerare queste leggi, questa struttura puramente oggettiva del mondo, soltanto co125

me limiti degli atti di costituzione nell'ego trascendentale, o anche nell’intersoggettività trascendentale. Se bisogna accet­ tare la tesi del mondo preliminarmente dato come totalità in cui il soggetto è sempre inserito e che sempre oltrepassa il soggetto grazie al suo significato di totalità (e che è garantito simultaneamente al cogito), se la trascendenza soggettiva è garantita dall'immanenza della totalità proprio come l’imma­ nenza soggettiva del vissuto riflesso, in tal caso non si può negare che l'oggettività abbia un senso per se stessa. Tuttavia non può venir posto come esistente “in sé” nulla che sia una mera astrazione dalla soggettività, come per esem­ pio gli oggetti visivi privati di certe qualità, cosiddette “prima­ rie”, come accade nel materialismo meccanicistico. Nessuna prospettiva, o elemento di una prospettiva, può esistere in sé. Possono pertanto sussistere delle mere analogie della sog­ gettività trascendentale, delle monadi dormienti o delle unità dinamiche, forse effimere... Neppure ciò che converge verso il limite dell’assoluta oggettività può esistere di per sé (e tan­ to meno delle sue componenti), e neppure d’altro canto un ta­ le limite. Il limite e gli aspetti convergenti sono correlativi. E gli aspetti convergenti non possono essere limitati soltanto ai soggetti trascendentali, bensì devono venire parimenti rappre­ sentati in “nude monadi”. Non è possibile quindi appoggiare completamente la prote­ sta di Husserl contro l’assolutizzazione, l’ipostatizzazione dell ' oggettivazione. È indispensabile accedere a una concezione metafisica dell’oggettivazione, ma non è possibile oggetti vare né le mere datità prospettiche, come se non implicassero una prospettiva (e quindi un soggetto), né i puri limiti strutturali, che sono eo ipso delle mere forme (che già per il loro stesso senso non possono esistere in sé); si rende però necessario ri­ correre a una monadologia, che accanto ai soggetti trascen­ dentali, conoscerà anche delle monadi nude e dormienti. (Traduzione di G. Pacini) 126

LA FILOSOFIA DELLA CRISI DELLE SCIENZE SECONDO EDMUND HUSSERL E LA SUA CONCEZIONE DI UNA FENOMENOLOGIA DEL “MONDO DELLA VITA”

Poco prima della guerra, Husserl ha rivolto la sua attenzio­ ne al problema dello spirito europeo, legato a quello delle sue radici, della sua situazione attuale e delle sue possibilità futu­ re. Egli credeva in un’Europa detentrice di una missione spe­ ciale (si potrebbe dire anche privilegiata) nei riguardi dell’in­ tera umanità. Egli fondava questa fede su una filosofia essenzialmente idealista, secondo cui il mondo era la “realizzazione” (Lei­ stung) di una intersoggetività fondamentale che, muovendosi all’interno di un ambito di esperienze regolate che manifesta­ no l’essere delle cose, coincide nel suo profondo con la ragio­ ne. La situazione privilegiata dell’Europa consisterebbe, dun­ que, proprio nel fatto che la ragione si trova al centro della storia europea. Esistono numerose tradizioni spirituali, ma solamente la tradizione europea ha posto la generalità dell’e­ videnza, cioè della fondazione e della ragione al centro stesso delle sue aspirazioni. È solo in Europa che il progetto di vive­ re nella verità, di vivere, secondo l’espressione di Husserl, in modo “responsabile”, è nato e si è sviluppato in un pensiero coerente, suscettibile di una riproduzione universale, di ap­ profondimenti e insieme di correzioni. 127

Questa grandiosa tradizione, che risale ai pensatori del­ l’Antichità greca, è stata rinnovata nella modernità da motivi originali che le hanno conferito più forza e ampiezza. Se l’o­ pera maggiore dello spirito greco è stata la creazione di una scienza razionale, soprattutto matematica, e di una filosofia, il cui compito è di riflettere sulle condizioni di possibilità del pensiero che renda conto di ciascun procedimento, il pensiero dell’Europa moderna ha edificato una scienza universale e una tecnologia fondata su questa scienza; in parallelo ha con­ cepito, almeno all’inizio, l’idea di una fondazione filosofica radicale di ogni sapere razionale. Se i Greci hanno saputo costituire, in mezzo all’oceano della realtà semplicemente data, isole di pensiero razionale capace di spiegare uno dei suoi ambiti, il pensiero moderno ha esteso le sue pretese a tutto un continente di razionalità, proponendosi di fondare un sapere unificato che comprendes­ se tutto senza eccezione. Se la geometria greca gravita attor­ no a certe forme e relazioni privilegiate, la pretesa di quella moderna è di esaurire subito tutte le forme e di raggiungere un’universalità che non ammetta alcun privilegio. Certo, il grande slancio che ha segnato gli inizi dell’epoca moderna è stato incoronato da successi imponenti, sia nel campo della teoria che nella pratica. Grazie all’universalizzazione della ragione moderna, la scienza razionale è divenuta una forza incomparabile nelle mani dell’uomo. Ma come è possibile allora spiegare il fatto che i contemporanei di Hus­ serl abbiano perso, in gran parte, la fede nella ragione? Che si siano allontanati da ciò che aveva costituito, da così lungo tempo, la grandezza e il valore dell’Europa? La scienza do­ mina in tutti gli ambiti, senza di essa non possiamo più esi­ stere, ma la ragione, che è il suo fondamento, non ci attrae più, non ci sembra più la chiave dell’universo, ce ne allonta­ niamo per avvicinarci a qualcos’altro, in particolare a un agi­ re che non si sottomette al giogo della ragione. Ricordiamo 128

che queste riflessioni avvengono nel 1935, all’alba di un pe­ riodo in cuil ' irrazionalismo doveva giungere al suo apice. Ci si potrebbe chiedere se la domanda sollevata da Husserl ci in­ teressi ancora, dato che l 'irrazionalismo di allora non esiste più e non ha nessuna forma di attualità. È vero che quell’irra­ zionalismo si è volatilizzato nei temporali della nostra epoca. Ma noi abbiamo ritrovato la fede nella ragione come la inten­ deva Husserl? Sappiamo che non è così. Questo spiega il fat­ to che nessuna opera di Husserl abbia suscitato, nel dopo­ guerra, un maggior interesse di quello dimostrato per la Crisi, dove espone la sua teoria. È chiaro che, dalla fine della guer­ ra, non si è potuto evitare di interrogarsi sulle origini della ca­ tastrofe in cui la preponderanza dell’Europa è sprofondata. E la Crisi denunciava il anticipo la crisi della ragione europea, una ragione che, senza perdere la sua efficacia teorica e prati­ ca, ha tuttavia visto svanire il suo fondamento essenziale, il suo significato esistenziale, la sua giustificazione interna e la sua verità profonda. Per questo motivo l’opera di Husserl ha acquisito un significato che l’autore stesso non aveva potuto prevedere. L’importante distinzione tra la scienza, creazione doppiamente efficace della ragione, e la ragione nella sua funzione esistenziale e metafisica, che rimane tuttavia la sor­ gente di vita della scienza, costituisce una delle tesi e degli interessi principali dell’opera. Questa distinzione fondamentale tra la scienza come risul­ tato dell’aspirazione a una fondazione evidente di ogni for­ mula teorica (che, per essere fondata, deve essere ricondotta alla sua origine) e la scienza come tecnica coronata di succes­ si teorici e pratici non è una tesi nuova nell’ultimo Husserl. Già in numerosi passaggi della sua prima opera teorica, la Fi­ losofia d e ll aritmetica, Husserl critica i pensatori che, dediti al loro compito di costruire teorie astratte che permettono di risolvere problemi di ordine superiore, trascurano di analizza­ re i concetti fondamentali fin ai loro elementi originali, dati 129

in quanto tali, e che quindi soccombono facilmente alla tenta­ zione di mal interpretare i processi simbolici, che nella pratica sono comuni e indispensabili, ma il cui senso originale è sva­ nito. La teoria nominalista dei numeri di Helmholtz e Kronecker fornisce un esempio di tale procedura. Il passaggio di un’intuizione originaria a un formalismo simbolico, per quanto sia necessario e fertile, dà luogo a errori fondamentali che, nascosti sotto a bei risultati formali, passano inosservati. Nella prima parte delle Ricerche logiche, i Prolegomeni a una logica pura pongono una distinzione caratteristica che va nello stesso senso. Nel § 9 i procedimenti metodici sono divi­ si da una parte in reali fondazioni e dispositivi ausiliari, i quali comprendono abbreviazioni e succedanei di fondazioni, dall’altra in artifici che servono a preparare, ad agevolare o a fissare possibili fondazioni future. Le esposizioni fondamen­ tali della seconda parte delle Ricerche logiche ruotano attorno al tentativo di chiarire la relazione tra pensiero simbolico, in­ tenzione significante, ma “vuota” e il suo “riempimento”. Questo tema, che si trova all’origine di molte teorie husserlia­ ne - come l’idea di intenzionalità che mira alla “cosa stessa” nei diversi modi di darsi o la teoria dell’intuizione categoriale e eidetica - continua ad occupare il pensiero di Husserl fino alla sua ultima opera. Il tratto ammirevole della riflessione husserliana, rivolta su apparenti “banalità” che a causa del lo­ ro modo abituale rimangono non tematizzate e inosservate, si manifesta qui in tutta la sua ampiezza. Si capisce che la svolta segnata nel pensiero moderno dal Rinascimento, con i suoi metodi nuovi di una fecondità e di una generalità finora sconosciuti, seguiti da una formalizza­ zione sempre più radicale, abbia fornito più che mai l’occa­ sione di interpretazioni inautentiche. Il pensiero che si separa e si vuota del suo contenuto intuitivo non perde la sua effica­ cia, ma può sempre dare risultati estremamente interessanti. Così tutti sanno che con diverse specie di “numeri” si posso­ 130

no effettuare operazioni valide, senza rendersi conto del vero significato delle strutture, sia che si tratti di “numeri” negati­ vi, irrazionali o immaginari. Si è allora tentati di considerare questi risultati positivi come garanzie di teorie dubbiose che si costruiscono, prescindendo da una vera analisi fondamen­ tale, per spiegare la natura di questi processi di pensiero. La teoria husserliana della scienza moderna non è altro che una riflessione sui pericoli della fecondità, sulle trappole della genialità, sull’irrazionale generato dalla razionalità stessa in un modo non necessario, ma neppure fortuito. (Questo aspetto oscuro della razionalità, questo lato negativo della scienza non sono forse la causa di quei mali, che hanno spianato la strada alla catastrofe che la riflessione husserliana si propone­ va di evitare e che purtroppo rimangono sempre presenti?) Riassumiamo il pensiero di Husserl sul rapporto tra filoso­ fia, scienza e razionalità. La scienza, secondo Husserl, è vera­ mente scienza, intesa come sapere fondato nella ragione e chiaro in se stesso, solamente se resta in un contatto stretto con la filosofia, suo terreno originale e fondamento. Ma la filosofia è vita (dedita al pensiero) che risponde al bisogno di una re­ sponsabilità totale del pensiero. L’atteggiamento responsabile è ciò che regola l’opinione sull’intuizione nel senso dello sguardo in ciò che è, e non il contrario. Solo l’atteggiamento responsabile quindi rende possibile la vita nella verità, essenza della filosofia e di ogni scienza che è in contatto con la filoso­ fia. La vita nella verità è la razionalità. Gli antichi Greci hanno fondato questa vita nella verità come un bios caratteristico, co­ me una tradizione il cui senso può sempre essere ritrovato, rin­ novato e arricchito grazie proprio a questa tradizione. Il punto di partenza di questa fondazione originale è il mondo della vita che può essere caratterizzato nel modo se­ guente. È un mondo soggettivo, che non ha coscienza della sua soggettività; il mondo di una tradizione particolare, che non ha coscienza di questa particolarità; il correlativo di 131

un’umanità contingente, che non ha coscienza di questa con­ tingenza. Sicuramente, questa umanità deve intendersi su questo mondo intersoggettivo, parla un linguaggio comune che serve come fondamento alla verità e all’errore (che non è che un modo dell’essere nella verità). La verità del mondo della vita è pratica, imprecisa, relativa in rapporto alla situa­ zione, ma non fantastica né “relativa” nel senso dell 'arbitrio individuale. Essa basta ai bisogni pratici a cui si riferisce. È vicina all’intuizione: gli esseri di questo mondo sono degli esseri concreti, dati nella loro mera originarietà, anche se sempre nelle prospettive condizionate da punti di vista parti­ colari. Tuttavia questi diversi punti di vista sono uniti in una reciprocità non tematica, che ha la funzione di far astrazione dalle particolarità soggettive. Là dove non si tratta di indivi­ dui umani, i dati sono di una generalità tipica, anche se le de­ terminazioni sono per essenza private di precisione. Tra i caratteri distintivi di questo mondo, occorre sottoli­ neare quello della forma. Chi dice forma, dice privilegio, e certe forme privilegiate hanno una portata pratica molto parti­ colare. Si sa che le considerazioni di simmetria e di propor­ zione hanno permesso, fin dagli inizi delle civiltà antiche, di concepire immense costruzioni, il cui carattere raffinato e or­ ganico continua a suscitare la nostra ammirazione. I compiti di questo genere necessitano di misure; e la misura è resa possibile da una sola forma privilegiata fra tutte le altre: è la forma di una retta, di un profilo di un corpo solido, forma a cui si può sovrapporne un’altra dello stesso carattere e che può a sua volta essere sovrapposto ad altre. Questa particola­ rità è alla base di un processo di perfezionamento indefinito delle procedure di misura di cui il campione, soggettivo e og­ gettivo, diventa durante questa evoluzione qualche cosa di puramente convenzionale. La misura si muove in una dimen­ sione di oggettività pura, nella dimensione di un significato identico per tutti quelli che effettuano la stessa procedura, e o132

gni perfezionamento dell’arte di misurare è nello stesso tem­ po un passo verso l 'oggettivazione precisa. La precisione è solo un ideale-limite al quale ci si può avvicinare indefinita­ mente senza mai raggiungerlo in realtà. (È evidente che la misura presuppone allo stesso modo l 'oggettivazione realiz­ zata per mezzo della numerazione fondata sulle procedure di coordinazione e di scambio, procedure che si fondano, in quanto tali, sulla coordinazione originaria delle situazioni dei partecipanti di un discorso. Così il mondo della vita si incam­ mina da sé verso l ' oggettivazione, rimanendo sempre in un’indeterminazione soggettiva). Il passaggio decisivo verso una nuova tappa della raziona­ lità e della comprensione del mondo interviene proprio quan­ do ci si rende conto che il processo di perfezionamento tecni­ co della misura, anche se in realtà senza fine, tende, per que­ sta stessa ragione, verso un limite ideale che può essere con­ siderato a parte, in modo da costituire un ambito di forme-no­ zioni non solo oggettive, ma anche precise. Queste nozioni, che si potrebbero dire oggettive alla seconda potenza, non po­ tranno mai conoscere una realizzazione adeguata, ma non rendono nemmeno possibili operazioni e costruzioni perfetta­ mente identiche, al cui interno chi è in grado di comprenderle si muove in uno spazio di identità assolute. Questa idealizza­ zione permette di fondare la geometria elementare come scienza razionale. Nell’ambito della riflessione filosofica ge­ nerale, la purezza delle forme geometriche genera la purezza delle idee. La geometria e la filosofia ricercano uno stesso ideale di verità in sé, l’ideale di una verità non più relativa al mondo delle prospettive e dell’approssimazione, al mondo della vita, ma “assoluta” nel senso di un ideale di non-relatività e di precisione. Nonostante questa conquista significativa, la scienza greca resta sicuramente una scienza di forme privilegiate e di con­ cetti capaci di sfruttare le formule vere su queste “forme ve­ 133

re”. Le “verità in sé” che formulano le teorie greche poggiano su forme ideali e sono perciò più vicine al mondo della vita. Il ruolo centrale dei “cinque corpi platonici” nella geometria antica offre un’immagine giusta di questa scienza, che pur aprendo nel mondo naturale una via di accesso alla razionalità delle idealizzazioni, lascia il terreno di questo mondo solo per definirlo e indicare delle possibilità da considerarsi con preci­ sione rigorosa, cosa che appare a prima vista come un caos ir­ rimediabile. L’idealizzazione geometrica non è una semplice ipotesi, è un passaggio alla determinazione di un “in sé” che, per sua natura a priori, è il determinato. Ciò che caratterizza invece la scienza moderna è l’idea portata all’estremità di una razionalizzazione universale che, fornendo al mondo dato una struttura di determinazione pre­ cisa, non ammette alcun ambito di razionalità modello e non riconosce più né casi privilegiati né ambiti di predilezione. Auguste Comte ha già visto un esempio rappresentativo dello spirito di questa scienza nella geometria cartesiana, che per­ mette di determinare qualsiasi forma con precisione e si im­ mette in un’esplorazione di un universo infinito di forme. Ma questo è solo un caso particolare che illustra l’idea, fino allo­ ra inaudita, di un universo razionale dell’ente, universo unico e infinito, che può essere dominato da una scienza razionale che lo sfrutta metodicamente e in modo sistematico. Ciò è re­ so possibile dalla concezione, sconosciuta dall’Antichità clas­ sica, di una matematica formale che si sviluppa dall’algebra alla matematica dei continui fino alla geometria analitica algebrizzata. Per mezzo di un’aritmetizzazione della geometria si passa ad una formalizzazione universale. Lo sviluppo della dottrina algebrica dei numeri e delle grandezze si avvia verso un’analisi puramente formale, verso una teoria degli ambiti formali, verso una “logistica” in senso moderno. Dalla fine del XVII secolo, Leibniz concepisce il suo progetto geniale di una mathesis generalis, di una matematica universale che ai 134

nostri giorni viene costruito in modo sistematico. In fondo si tratta di una logica formale, di ambiti di compatibilità delle forme costruibili di un “qualche cosa” in generale e di una teoria generale di questi ambiti. (Ciò che oggi si chiama la teoria dei sistemi è un tentativo di organizzare questa mate­ matica formale e universale.) La formalizzazione e l’assiomatizzazione costituiscono dei problemi nuovi di questa sfera di una razionalità specificamente moderna, la cui efficacia ac­ cresce con la sua generalità formale. Questa efficacia va di pari passo con due idee non meno ri­ voluzionarie che Husserl associa indissolubilmente a Galileo. Sono l’idea di una causalità esatta e quella di una matematizzazione indiretta. Il mondo naturale della vita, in quanto in­ sieme di forme vagamente tipiche, coincide con la somma dei comportamenti vagamente regolari dei suoi componenti. Co­ me le forme vaghe possono ricevere una determinazione pre­ cisa grazie alle idealizzazioni geometriche, così i comporta­ menti vaghi degli oggetti, le sequenze dei loro cambiamenti tipici sono suscettibili di un trattamento analogo, trattamento crono-geometrico. È in questo modo che Galileo riuscì a con­ vertire il problema del movimento in una questione di legge matematica. Come per le forme spaziali considerate statisti­ camente con i loro riempimenti qualitativi, così la possibilità di determinazione aumenta indefinitamente per le forme del movimento e le concatenazioni di causalità che diventano da quel momento calcolabili e analizzabili. La portata della matematizzazione indiretta è più grande ancora. Anch’essa affonda le sue radici nel mondo della vita “ingenuamente da­ to”, dove sperimentiamo gradazioni d’intensità, come pure continue intersezioni del qualitativo e del quantitativo. L’An­ tichità greca ha conosciuto le speculazioni sui numeri che co­ stituiscono la sostanza, l’essere stesso delle cose. Potrebbe dunque sembrare che la matematizzazione indiretta si svilup­ pi in modo parallelo alla idealizzazione dello spazio e alla i­ 135

dealizzazione del comportamento causale delle cose. Invece Husserl crede di dover rilevare su questo punto una divergen­ za notevole. La matematizzazione indiretta non si fonda su una semplice idealizzazione, ma su una ipotesi. Questa ipote­ si presuppone che si possa trovare, per qualsiasi riempimento qualitativo, una corrispondenza nell’ambito rigorosamente matematico delle forme spaziali o spazio-temporali; presup­ pone inoltre che si possa considerare solamente questa corri­ spondenza per predire, sulla base della determinabilità esatta di questi ambiti, gli avvenimenti futuri che saranno così do­ minati dal pensiero. A differenza del processo di idealizza­ zione, questa ipotesi non è niente di evidente a priori, ma nella sua generalità è un’intuizione che ha qualcosa di sor­ prendente. Questa ipotesi - secondo la quale esiste sempre e per ogni dato qualitativo una struttura corrispondente di ra­ zionalità geometrica - è e resta un’ipotesi. Un’ipotesi di ge­ nere particolare, che si verifica sempre, senza per questo per­ dere il suo carattere ipotetico. Qui, in quello che si potrebbe chiamare la razionalità obiettiva, la razionalità della natura, viene alla luce una dualità estremamente degna di attenzione. Vale a dire che noi possediamo una sola forma razionale e ge­ nerale di un’oggettività ideale alla quale non corrisponde al­ cun parallelo nell’ambito del qualitativo. Bisognerebbe esa­ minare più da vicino questo fatto fondamentale, distinguere il procedimento metodico e l’interpretazione. Il procedimento metodico consiste nel far corrispondere alle strutture qualita­ tivamente sperimentate e che sono realizzabili come espe­ rienze vere solamente in questo modo (che sola ne fa oggetti intuiti, dati nella loro originalità) una struttura spazio-tempo­ rale puramente matematica; per Galileo sono soprattutto strutture geometriche. Tuttavia l’interpretazione che ne dà differisce profondamente da quella che compie effettivamen­ te. Di fatto egli coordina due strutture; l’interpretazione, sulla base della tradizione delle idealizzazioni geometriche, crede 136

di raggiungere il solo essere vero delle cose in apparenza qualitative, così come si raggiunge l’essere vero delle cose estese in e per mezzo delle idealizzazioni geometriche. È in questo modo che si deve intendere il celebre detto di Galileo quando afferma che il libro della natura è scritto in cerchi e triangoli. Questo detto sta all’origine di una tradizione molto potente che non ha smesso di rafforzarsi durante tutta l’epoca moderna, soprattutto in seguito allo sviluppo sempre crescen­ te della formalizzazione delle matematiche. Questa formaliz­ zazione è ciò che premette di ridare sempre di nuovo all’ipo­ tesi fondamentale la sua forza in apparenza inesauribile. Si trovano sempre strutture formali che possono essere coordi­ nate alla datità di un ambito concreto, in modo da considerare in seguito questo ambito come il modello di quelle strutture. L’interpretazione galileiana conduce a due conseguenze di importanza capitale. In primo luogo un procedimento metodi­ co viene eretto metafisico; il mondo naturale, il solo mondo in cui si può vivere direttamente e che può essere l’oggetto di un’esperienza vera, diventa fenomeno di un mondo delle strutture dell’essere in sé, la cui sostanza è matematica. Si confonde l’efficacia delle formule, la loro capacità nel rende­ re possibile la previsione dei fenomeni con il loro senso vero, il senso di idealizzazioni sempre più formali. Ne consegue ed è questa la seconda conseguenza - un impoverimento del senso di ogni procedimento scientifico, che non trova più un terreno solido su cui appoggiarsi. Poiché la scienza in verità mira solo all’efficacia pratica che si concentra nelle formule, non vede altro che questo aspetto tecnico del suo compito; il senso delle strutture stesse e del loro ruolo nell’esperienza le diventa sempre più indifferente. (Si cerca poi di venirne fuori costruendo astrattamente alcuni punti di corrispondenza con la realtà concreta dell’esperienza, ricorrendo specialmente ai motivi sensualistici e alla loro ricca tradizione, senza preoc­ cuparsi dei presupposti metafisici che vi si trovano implicati.) 137

Tutto ciò comporta per la scienza la perdita del suo senso rea­ le e vitale e la costituzione di un regno assoluto di astrazione che “appare” attraverso i dati sensibili. E dal momento che, grazie ai progressi della formalizzazione, il procedimento metodico diventa universalmente applicabile, si sfocia in un fisicalismo astratto, la cui ultima conseguenza è di bandire lo spirito e il suo funzionamento dall’ambito delle realtà; lo spi­ rito, condannato ad essere eliminato dalle strutture oggettive, le sole vere ed efficaci, viene definitivamente confinato in una regione secondaria dell’essere. Da quel momento il mon­ do equivale a un insieme di strutture fiscaliste (non solo fisi­ che, ma oggettive ed efficaci, sempre costruite matematicamente) che comportano qua e là delle isole di traduzione sog­ gettiva di apparenze secondarie. È una visione tanto piatta e noiosa quanto efficace, una visione che non ha proprio niente da dire all’essere umano concreto. Questa privazione totale di senso, elevata a verità ultima (poiché è la scienza come istan­ za della ragione investita di una funzione vitale e sociale che sembra garantire questa verità), ha influenza sulla società contemporanea, sull’insieme del suo comportamento, provo­ cando delle reazioni come l’irrazionalismo e il misticismo, il ritorno a un agire privo di fondamento razionale, la fuga nell ' immaginario, nel sentimento e nella pura corporeità. Questo riepilogo dell’atteggiamento di Husserl al riguardo della scienza del suo tempo e della conseguente crisi dello spirito europeo richiede un breve commento supplementare al fine di indicare il posto che tale concezione occupa in rappor­ to ad altre teorie della scienza. Senza essere una critica, que­ sto commento ne costituirà la premessa. Per prima cosa cre­ diamo di discernere qualche punto d’incontro significativo con il positivismo. In particolare il positivismo di Mach e Avenarius che per primo predica il ritorno al “mondo naturale” abbandonato dall’introiezione metafisica e dalla scienza esplicativa che la continua. La grande differenza è da un lato 138

l’accento posto dalla concezione husserliana sull’apri ori e sull’idealizzazione e, dall’altro lato, il fatto che sarebbe falso, secondo Husserl, ridurre la scienza a mera previsione e non riconoscerle alcun tipo di spiegazione. La posizione husserliana si distingue dal neo-kantismo in quanto posizione critica. Per Husserl, il fatto della scienza, la scienza come la si pratica al giorno d’oggi, non richiede di es­ sere giustificata razionalmente, ma di essere criticata dal punto di vista di una fenomenologia pura della ragione. In parecchi fenomenologi si nota una tendenza a formare un fronte comune con il neo-kantismo, una tendenza a definire la fenomenologia come una riflessione critica sulle condizioni della conoscenza per cui l’evidenza, la riflessione e, in correlazione, la verifica formerebbero una struttura indissolubile che garantisca alla fi­ losofia il suo carattere di scienza autonoma, pur evitando ogni metafisica. Avremmo una seconda osservazione da fare intorno il concetto di mondo della vita (o “mondo naturale”). Questo mondo non è in alcun caso il mondo dato o sensibile contrap­ posto al mondo che costruiamo con il pensiero. Esso è “costi­ tuito”, se non costruito, dal pensiero attivo. La concezione kan­ tiana di mondo ci sembra abbastanza vicina al mondo naturale nel senso husserliano. È il mondo dell’esperienza concreta, il mondo di una correlazione fondamentale tra intuizione e pen­ siero. A questo proposito concorderemo con chi attribuisce a Husserl il torto di fare riferimento alla tradizione filosofica car­ tesiana piuttosto che a quella kantiana. Ciò che Husserl denun­ cia nel nostro mondo costruito artificialmente non è il pensiero che funziona fino nelle regioni del dato, ma il pensiero intera­ mente emancipato che, invece di trovare il suo riempimento in­ tuitivo nell’esperienza, si rende completamente indipendente da esso, per usurparne infine il posto; in questo modo non si fa altro che rinnovare i tentativi del razionalismo del XVII secolo e soccombere in modo naturale all'empirismo che, si potrebbe dire con Hegel, ne costituisce la verità. 139

Il tema del mondo naturale potrebbe dunque fornire un ali­ mento sostanziale ai tentativi di gettale un ponte fra fenome­ nologia e kantismo. In realtà, gli husserliani sostenitori del neo-kantismo sembrano nutrire poca simpatia per questo te­ ma, dando piuttosto la priorità alla riflessione soggettiva, alla riflessione sul fatto di un’oggettività sempre correlativa alle funzioni soggettive che la fondano. La ricerca di queste fun­ zioni, sempre possibile e aperta alle correzioni, costituisce il compito della filosofia critica, compito necessario anche se non può mai essere portato a termine. Si potrebbe forse rilevare un’analogia tral ' atteggiamento degli husserliani neo-kantiani nei confronti di Husserl e quel­ lo dei neo-kantiani rispetto a Kant stesso. L’intenzione di Kant non era quella di istituire una critica della conoscenza in generale e della conoscenza scientifica in particolare, bensì fondare ciò che si potrebbe chiamare una metafisica dell’e­ sperienza o, in altre parole, fornire all’ontologia generale una fondazione nelle fonti prime delle nostre idee, così anche l’intenzione della fenomenologia di Husserl è puramente me­ tafisica. Nella Crisi Husserl lo afferma espressamente e trac­ cia le linee fondamentali di questa metafisica. La metafisica è il punto dove la filosofia fenomenologica si distingue dalla fenomenologia in quanto scienza filosofica fondamentale. Se­ condo Husserl, questa disciplina fondamentale rende possibi­ le e mira alla fondazione di una metafisica che è, come quella di Kant, una metafisica dell’esperienza. Tuttavia, il suo meto­ do non è quello di una regressione logica e argomentativa verso le condizioni di possibilità, ma un metodo che è di esperienza o, piuttosto, di intuizione stessa. Per intuizione si deve intendere l’intuizione razionale in senso husserliano, cioè un’intuizione che è la presenza originaria della cosa, in­ tenzionata di fronte allo sguardo spirituale del soggetto. Ecco perché il ricorso al mondo naturale non è un ritorno a un po­ stulato teorico, come per esempio il sensualismo. Al contra­ 140

rio, questo ritorno deve essere fatto per mezzo di una descri­ zione libera da ogni pregiudizio, esente da modelli teorici e da teorie preconcette, una descrizione disposta ad accettare tutto ciò che si dà, nei limiti del suo stato di datità, con tutte le conseguenze. In fondo è il metodo che Husserl pratica fin dall’inizio del suo percorso filosofico: il metodo di un svela­ mento estremamente fecondo delle cose che, a causa della lo­ ro banalità, non vengono tematizzate. È a questo che Hegel pensava dicendo che le cose note (gekannt) non sono tuttavia ancora conosciute (erkannt). Prima di iniziare a esporre la teoria del mondo naturale, che deve fungere da terapia per una malattia entrata nella sua fase critica, sottolineiamo ancora una volta l’ingegnosità e la perspicacia della diagnosi husserliana: per non parlare poi della sua attualità che nel corso del tempo aumenta invece che diminuire. Una delle più grandi contraddizioni della no­ stra epoca viene analizzata in termini molto chiari e convin­ centi. La scienza, che è il fondamento vitale della nostra so­ cietà, ciò senza cuil ' umanità dell’era industriale non potreb­ be sopravvivere, è allo stesso tempo l’origine del Vuoto e del­ l’anonimato che colpiscono la vita moderna, della scomparsa di un senso tangibile in un’astrazione senza fondo. Ciò che ci tiene in vita ci priva nello stesso tempo di tutte le vivendi causas di ordine superiore, lasciandoci soli davanti a un caos di istinti e di tradizioni, legato insieme solo in modo artificia­ le. Ma non è tutto. Al momento attuale, anche i vantaggi pra­ tici sono diventati problematici. Il vuoto che affligge la vita ha preso una forma materiale, è diventato una possibilità as­ surda di negazione della vita, una potenza di distruzione che supera tutto ciò che l’uomo può costruire e produrre di positi­ vo. Questa potenza ha fornito l’Europa dei mezzi per il suo suicidio - l’Europa, che da due secoli deteneva il monopolio della civiltà razionale e l’egemonia su quasi l’intero globo, l’Europa che si identificava con l’umanità in quanto tale. Og­ 141

gi, nell’era delle società di massa, questa potenza ha acquisito una dimensione colossale che comincia a dispiegarsi davanti ai nostri occhi; una dimensione caratterizzata da un’angoscia crescente che suscita sempre di più il rifiuto delle giovani ge­ nerazioni. Di fronte ad una diagnosi così penetrante, non ci resta che analizzare la terapia proposta. Sfortunatamente bisogna dire la metafisica “fenomenolo­ gica” che Husserl ci presenta come risultato e fondamento della sua descrizione analitica del mondo naturale è in fin dei conti deludente. Del resto, Husserl non l’ha sviluppata com­ pletamente: la sua opera è rimasta infatti incompiuta. Si po­ trebbe definire con maggior chiarezza il suo pensiero fondamentale, facendo riferimento alla conferenza pronunciata a Vienna nel 1935. Qui Husserl designa il mondo naturale co­ me risultato di comuni realizzazioni (Leistungen) di soggetti­ vità per cui questo mondo costituisce un elemento di unione senza la sostanzialità propria. Si tratta infatti di un rovescia­ mento totale della visione fisicalista, una rivoluzione più che copernicana - invece di isole di soggettività circondate da un mare infinito di strutture fisicaliste, di schemi astratti, senza vita e privi di qualità, si ha un mare di intersoggettività detta “trascendentale” che racchiude unità oggettive, unità di senso che sono costituite da un comune sforzo di coscienze comu­ nicanti. Questo risultato metafisico è deludente sotto molti punti di vista. Per prima cosa, il mondo naturale della vita in­ genua è privata dell’indipendenza d’essere che caratterizza i suoi “oggetti” in rapporto alle coscienze finite, che si identifi­ cano con i loro substrati corporali; una metafisica dell’intersoggettività trascendentale che costituisce il mondo ha biso­ gno di soggetti assoluti e assolutamente dati. In questa solu­ zione Husserl sembra fondere insieme due concetti: da un la­ to il concetto fenomenologico di un mondo naturale, strato elementare della nostra esperienza, essenzialmente soggettivo, ma che si trova in una correlazione interna con un insieme di 142

soggetti finiti, e dall’altro lato un concetto fenomenologico più antico secondo cui il lavoro fenomenologico deve con­ centrarsi sull’immanenza apodittica, data in modo assoluto e originario nella riflessione del flusso di coscienza. Se la sog­ gettività è lo stesso mondo naturale, non è solo superfluo ma del tutto impossibile cercare per questo mondo un altro fon­ damento infinito, perché è esso stesso l’infinità. L’intersoggettività trascendentale quindi non è altro che un sogno, che la fenomenologia del mondo naturale non giustifica. Conduce forse a qualcosa l’idea stessa di un ritorno al mondo naturale, come fondamento dimenticato che restitui­ sce all’oggetto della scienza il suo vero senso di essere speri­ mentato? L’idea in quanto tale sembra aprire al pensiero una via prima d 'allora mai seguita, ma rimane ancora da compie­ re un’analisi descrittiva di questo mondo e da determinare il suo rapporto con l’essere umano concreto. Ciò nonostante al­ cune ricerche fenomenologiche portano, a parer nostro, con­ tributi di valore su certi punti trascurati da Husserl. Ci si potrebbe chiedere innanzi tutto se il mondo naturale della vita, considerato come fondamento dimenticato della ra­ zionalità scientifica, è colto nella sua originalità, ot se invece, dando priorità a questa visione, non lo consideriamo in modo unilaterale. Il mondo della vita non è innanzi tutto il mondo della prassi umana, il mondo in cui mangiamo e lavoriamo, dove noi ci prendiamo cura dei nostri affari per mezzo del fondo, mai espressamente percepito ma sempre disponibile, che rappresenta la nostra esistenza fisica, corporale? Questo mondo non si apre a un “io posso” più che a un “io percepi­ sco” o a un “io osservo”? L’originarietà del mondo della vita non è dunque in primo luogo un’originarietà di natura attiva? Non sono oggetti ciò a cui miriamo facendoci guidare dalle loro linee di forza, ciò che, se ci abbandoniamo ad essi, ci guidano da un compito all’altro, compiti che dobbiamo assol­ vere? Il mondo naturale, considerato in questo modo, non sa­ 143

rebbe un mondo dell’intuizione, ma utilizzerebbe l’intuizione come un passaggio attraverso cui accedere alle sue funzioni primordiali. Queste funzioni consistono nell’ in vista di qual­ cosa in cui la prassi realizza i πράγματα che incontriamo di passaggio. Di passaggio verso cosa? Proprio verso questo in vista di, che è sempre un οϋ ένζχα che costituisce la mia presenza in questo insieme di πράγματα disposti in vista del compito cui devo adempiere. È sotto l’aspetto di questo οϋ ένεχα che io mi comprendo, ed è questo οϋ ένεχα che non solo scaturisce e conduce la mia azione attraverso i πράγμα­ τα attuali, ma nello stesso tempo mi fa comprendere questi e me stesso. La comprensione delle cose e la comprensione di me stesso formano insieme un tutto strutturato le cui parti rinviano l’uno all’altro; tutte le nostre azioni, le manipolazio­ ni e le messe a punto che noi effettuiamo sulle cose sono gui­ date da questo tutto; verso questo esse si dirigono senza por­ tarlo davanti al mio sguardo, senza mai “tematizzarlo”. Ogni azione ha il suo tema, un compito naturale che mi obbliga, ma ogni tema si trascende di fatto verso questa totalità non tematica, senza che ci sia bisogno di “pensarci” o di “rappre­ sentarselo”; in questo modo riunisce un οϋ ένεχα e i πράγ­ ματα che gli servono come punti di appoggio o ostacoli. Questa totalità non tematica, verso cui ogni prassi si trascen­ de, è dove viviamo effettivamente; è il “luogo” della vita concreta; è ciò a cui pensiamo quando diciamo “vivere” inte­ so. come “essere nel mondo” ; infine, è ciò che lasciamo quando scompariamo dal mondo dei viventi quando moria­ mo. È a questo fenomeno che Eraclito intendeva dicendo che gli svegli hanno un solo mondo comune, a partire dal quale ciascuno si reca nel suo mondo quando cade nel sonno o nel sogno. Così l’azione si trascende nella totalità di cui il nostro οϋ ένεχα a chiave; è dunque questa totalità che merita il no­ me di mondo naturale della vita. O piuttosto, in termini filo­ sofici, non è l’ambiente circostante concreto a cui la nostra 144

vita conferisce la sua strutturazione che merita questo nome, ma ciò che, nei fondamenti stessi della nostra vita concreta, rende possibile una tale strutturazione: la mondanità del mon­ do dove Tesserci dell’uomo si trascende. Detto ciò, si vede che un tale mondo naturale non è un mondo in cui l’esperienza è possibile nel senso di un’intui­ zione, sensibile o altro, ma un mondo del bene (o del male). Perché il bene è un altro modo di esprimere quell’in vista di, ου évexa che oltre agli oggetti, compiti, programmi e mani­ polazioni guida la strutturazione. La necessità husserliana di un’originarietà primordiale, la necessità di risalire a partire da tutto ciò che è derivato fino all’origine prima ci conduce dun­ que al suo concetto di mondo naturale: da un mondo correla­ tivo dell’intuizione in cui le cose stesse sono date (e non i lo­ ro succedanei in intuizioni vuote o in riempimenti immagina­ ri, né i loro surrogati simbolici o puramente formali) a un mondo che è innanzitutto quello del bene (o del male) e che per questo motivo merita di essere chiamato mondo dell’esi­ stenza umana concreta. Ora l’esistenza umana concreta in quanto essere nel mon­ do non può mai essere colta in sé e a partire da se stessa, indi­ pendentemente dal movimento che la pone in mezzo alle cose e la fa entrare in contatto con esse. La soggettività quindi è il mondo della vita nella sua totalità concreta. E questa sogget­ tività è essenzialmente finita, vale a dire che deve fare riferi­ mento alle cose che la nostra manipolazione con i suoi pre­ supposti fondamentali sottomette alla sua strutturazione. La soggettività non crea queste cose, né aggiunge loro niente; per ciò è essa stessa all’origine della comprensione delle co­ se, all’origine del fatto che comprendiamo che le cose ci sono e ciò che sono, come funzionano e a ciò che rimandano. Hus­ serl credeva in una soggettività percepibile, nell’interiorità della sua immanenza, con una riflessione oggettivante. Ma questa soggettività assoluta non esiste più del mondo naturale 145

della vita in quanto mondo delle esperienze intuitive. Il mon­ do della vita è il mondo del bene e del male e la soggettività è quella del dramma del bene e del male; bene e male di un es­ sere essenzialmente finito che non saprebbe vivere senza un progetto non tematico di un bene, senza “sapere”, sempre non tematicamente, che questo progetto è legato all’ombra della possibilità estrema di non progettare del tutto. A partire da tutto questo si comprende facilmente che il mondo naturale è un mondo in cui si deve poter vivere, vivere insieme, essere accettati e accolti, ricevere la protezione che ci permette di assumere i compiti concreti per difenderci e lottare contro ciò che ci minaccia nell’ambito circostante del­ le cose e degli uomini. È il mondo degli esseri corporei che lottano e lavorano; che si avvicinano gli uni e si allontanano dagli altri, vivono a distanza; che comunicano con il mondo degli altri attraverso la comprensione e il linguaggio; che si rapportano con l 'esistenza nella sua totalità, dunque con il mondo in quanto tale. La corporeità, la reciprocità, la spazia­ lità concreta compresa di familiarità ed estraneità, il linguag­ gio - sono tutte strutture costanti di questo mondo. Il radica­ mento, la vicinanza, il rinnovamento dei legami di protezione formano uno dei suoi movimenti circolari fondamentali, men­ tre l’altro è costituito di strutture della distanza umana e del­ l’organizzazione per ogni lotta continua degli uomini in con­ trasto gli uni con gli altri e contro la potenza schiacciante del­ le cose. Infine, ci sono dei punti di riferimento necessari, im­ portanti e profondi secondo una diversa modalità, punti di ap­ poggio della nostra esistenza fisica e luminosa, che rappresen­ tano insieme la profondità nascosta di ciò che ci parla: il cielo e la terra, ciò che è sempre presente in modo inapparente in e attraverso le cose della natura, ciò che si rivela infine come ciò che avvolge il mistero delle cose e della vita. La mobilità fondamentale dell’esistenza umana porta tutti questi movi­ menti di fronte al suo dilemma fondamentale, che consiste nel 146

fatto che essa può vivere solo grazie a un sapere nascosto (nascosto a se stesso) su un bene che, sempre misterioso nella sua presenza indispensabile, resta all’ombra altrettanto miste­ riosamente ambigua. È il motivo per cui il mondo naturale de­ ve essere considerato, in ultima analisi, come il mondo della storicità concreta, non solo in relazione alla sua tradizionalità essenziale, ma a causa del dramma, della “storia” che in essa si svolge, dove il nuovo si nasconde sotto vesti antiche. Mi si è permesso di aggiungere qualche osservazione criti­ ca a questo abbozzo generale sulla problematica di un’analisi del mondo naturale in quanto mondo del bene e del male. Il mondo naturale in quanto mondo del bene e del male rompe il mondo husserliano di una soggettività che, volendo innanzitutto conoscere, trasforma qualsiasi cosa, persino se stessa, in oggetto dell’intuizione. Una soggettività di questo genere può constatare certe malattie della ragione. Lo vedia­ mo proprio nel caso di Husserl, quando di fronte alla scienza più tecnicizzata rinnova la domanda critica, la stessa che Kant rivolse alla metafisica. Ma questa domanda sarà in gra­ do di indicarci la via positiva che la ragione deve seguire per fondare non solo una scienza o i fondamenti di una nuova scienza, ma anche una vera praxis umana? Jürgen Habermas, in una discussione di qualche anno fa a Praga sulle scienze sociali, ha espresso alcuni dubbi su quelle possibilità della fe­ nomenologia che appaiono nella Crisi. Criticare la forza prin­ cipale della nostra attuale vita sociale è già tanto. Mostrare inoltre il punto in cui questa forza probabilmente devia verso una tecnica scatenata, è già dare un suggerimento pratico. Ma bisogna riconoscere che non si è approdati ancora definitiva­ mente alla riva positiva, e che la terapia di una malattia non è la dietetica, la positività che saprà restituire alla vita la sua pienezza e darle la possibilità di ritrovarsi. La concezione del mondo della vita come il mondo del be­ ne e del male porta a tutto questo? Non sarebbe impossibile, 147

tant’è che questa concezione ci mostra una realtà capace di contenere qualcosa come un senso, un riempimento, valido non solo soggettivamente, ma per così dire in sé. In fin dei conti, l’uomo prende parte volentieri ad ogni sorta di negati­ vità, se l’esperienza che ne fa apre ad una chiarezza di questo genere. Ma il mondo naturale in quanto mondo del bene e del male non è ancora una volta un mondo soggettivo? In questo modo non si tratta di un mondo esposto a tutte le eclissi e ca­ tastrofi dell’esistenza finita? Se 1’esistenza finita è il concre­ to, se questa rende possibile il mondo primordiale della vita, non siamo in realtà sfuggiti a una soggettività per caderne semplicemente in un’altra ancora più angosciante? Ora, se effettivamente l'esistenza finita, progettando le sue possibilità sotto forma di un ου έν€χα non tematico, si tra­ scende nel mondo, non si può affermare che questo mondo sia unicamente la sua creazione. Il mondo della vita ha solo la funzione di eclissarsi davanti alle cose e alle persone che esso rivela e manifesta. Questo mondo appartiene alla dimensione specifica d e ll’essere che si potrebbe chiam are manifestazione. Le regole e le strutture della manifestazione non sono quelle degli enti manifestati. L’essere della manife­ stazione non è opera degli uomini; il tempo che essa presup­ pone non è creato dall’esistenza; la manifestazione avvolge l’uomo, ha sì bisogno di lui, ma anche di altre cose. In fine si tratta della manifestazione, l’essere del fenomeno a cui, se­ condo me, la fenomenologia mira. Terminerei dunque questo intervento con una citazione di Hegel, spogliando le sue paro­ le del loro riferimento allo spirito assoluto infinito: “Il feno­ meno è un nascere e un perire che non nasce né perisce, ma esiste in sé, e il cui movimento consiste nel fornire alla verità l’essenza della sua vita”. (Traduzione di A. Pantano)

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INTERO DEL MONDO E MONDO DELL’UOMO Osservazioni per un inizio di cosmologia contemporanea

Il pensiero di Eugen Fink, secondo cui nel corso della sto­ ria spirituale dell’Occidente l’oblio del mondo aumenta e si esprime in particolare nella “pluralità di mondi” assunta sen­ za esitazioni dai filosofi (per cui il dualismo di mundus sensibilis et intelligibilis occupa una posizione privilegiata), trova - così almeno crediamo - una chiara illustrazione nel destino che incontrò la geniale idea di spazio in Kant, una delle com­ pagini fondamentali [Grundfugen] dell’intero del mondo [Weltganzes], che assumerebbe il primato rispetto a tutti gli “spazi” e i “luoghi”, che quindi non potrebbe mai essere con­ cepito come una congiunzione [Zusammenfügung] di questi ultimi, i quali da parte loro si basano solo su “limitazioni” di questo elemento anticipante (per questo motivo, anche lo “spazio” inteso come concetto universale è qualcosa di deri­ vato e rinvia all’originario unico intero). Esso non ha assunto alcun significato cosmologico; interpretato fin dall’inizio a partire dal mundus intelligibilis, diventò prima “omnipraesentia phaenomenon”, poi nel sistema critico il fondamento della sintesi soggettivo-fenomenica dell’esperienza. Forse si potrebbe rischiare, a partire dal pensiero kantiano di spazio, di sviluppare le idee cosmologiche di Fink - cariche di una rara forza speculativa - in una sistematica che in qualche mo­ 149

do si allontana da esse, per quanto poggi sulla riflessione mo­ dalizzante finkiana. Questo è quanto si dovrà schizzare nelle pagine seguenti. Che cosa significa in Kant il carattere anticipante dell’inte­ ro spaziale rispetto alle sue “limitazioni”? Certamente non che sia possibile uno “spazio vuoto”, lo spazio di per sé, pri­ ma di ogni “limitazione”. Ciò significa che l’unicità dello spazio intero non può mai essere composto dal molteplice in esso presente. Ma deve pur sempre esserci una qualche “limi­ tazione”; e dunque, rispetto a cos’altro il carattere anticipante manterrebbe il suo primato? Il primato consiste nel fatto che, se una molteplicità immensa e infinita di limitazioni acciden­ tali è possibile, l’unico-intero conserva invece il rango di pre­ supposto necessario. In definitiva, dunque, il carattere antici­ pante risiede anche qui in una determinazione relativamente alla modalità; l’intero ha il carattere di un qualcosa di neces­ sariamente dato in anticipo rispetto alle limitazioni accidenta­ li pensabili, cioè possibili. Ma possiamo, d’altra parte, osservare in modo analogo an­ che la stessa molteplicità delle limitazioni. Ogni singola limi­ tazione è accidentale, e può essere sostituita solo da un’altra, cosa che non accade invece per la limitazione in generale. Al fondo delle singole limitazioni sta non solo il limitato unico­ intero, ma anche la limitazione necessaria in quanto tale. Si delineano così, dietro l’accidentalità delle singole limitazioni, due ordini di necessità. L’intero spaziale mostra nelle limita­ zioni effettive le accidentalità, delle quali esso stesso e la li­ mitazione in generale rappresentano le compagini necessarie, che penetrano l’una nell’altra e reciprocamente si fondano. L’osservazione dell’intero spaziale è un punto di partenza favorevole per una riflessione cosmologica; è vero che l’inte­ ro spaziale è solo un qualcosa di astratto, in cui si prescinde dal fatto che delle limitazioni effettive hanno preceduto quelle presenti, passate senza speranza di ritorno, e che altre limita­ 150

zioni arriveranno anche se non ci sono ancora; ma proprio il fatto di costituire un taglio istantaneo, una sincronia dell’inte­ ro di spazio-tempo, un’interezza per così dire compiuta e quindi reale, fa dell’intero spaziale un punto di partenza ap­ propriato. Già in esso stesso si incontrano non solo un elemento necessario rispetto alle accidentalità delle limitazioni, ma una compagine [Fuge] - e la considerazione relativa al movimento nel· tempo ne aggiunge un’altra. La compagine dà ad ogni singola cosa, presente di fatto in quanto “limitazione” o parte di una limitazione onnicomprensiva, il luogo e il tratto di tempo del suo essere, cioè del suo apparire come un che di configurato all’intemo di altre configurazioni, compaginato nel loro ritmo di sorgere e sprofondare. Sul fondo della com­ pagine, che non è essa stessa una configurazione, la quale può in tal modo entrare nell’apparire, le configurazioni emergono e svaniscono: così si manifestano. La compagine anticipante, necessaria, che non appare in quanto tale ma solo nelle cose, è quindi il fondamento oscuro, perché indeterminato, del mon­ do che determina tutte le cose, in esse dominando; la compa­ gine ha luogo sempre e in modo necessario, ma non iè essa stessa un ente che possa giungere ad apparire. Ma allora, esiste davvero quest’intero che tutto compren­ de, la compagine del mondo, che domina in ogni “limitazio­ ne” o “riempimento” accidentali? Non si tratterà semplicemente di una necessità soggettiva o di una struttura [Gefüge] di tali necessità che ci obbliga concettualmente a pensare così l’esperienza, con il suo contenuto e la sua forma, senza che queste considerazioni abbiano un vero rilievo cosmico? La modalizzabilità dell’accidentale, la possibilità di sostituirlo con altre accidentalità, unita alla non modalizzabilità della compagine del mondo non porta a nessuna decisione. Che si possa eliminare una cosa solo sostituendola con un’altra non risolve ancora se l’eliminazione o la sostituzione avvengano nella rappresentazione o nella realtà delle cose stesse. Ma va­ 151

le per ogni intero, sia che si tratti di una successiva unione di parti sia di un intero anticipante, la fondazione reciproca di intero e parte; essi si presuppongono l’un l’altro. Nel caso in cui non si possa accedere direttamente all’intero mediante esperienza, è sufficiente essere a conoscenza di esso per quello che è, e avere il diritto di sostenere che il significato di una sua parte risulta indipendente dal soggetto. Un tale diritto sembra riscontrabile in una fenomenologia “asoggettiva” del­ la percezione, che non ha bisogno di riconoscere i limiti dell’autodatità riflessiva dell’immanenza che si svolge nella per­ cezione apodittica di sé, e vede il senso della percezione co­ me fondato, in modi intricati e non immediatamente evidenti, nelle manifestazioni stesse del mondo, in quelle non soggetti­ ve. Non è questo il luogo per un approfondimento; è suffi­ ciente la comprensione della sua verità. Se risulta giustificato porre come indipendente dal soggetto una parte della manife­ stazione accidentale del mondo, della “limitazione” dell’inte­ ro del mondo, la stessa cosa vale anche per questa limitazione che avvolge il mondo, così come per ogni cosa limitata. Per questa ragione non si dovrebbe dire che il mondo in quanto tale, o almeno in quanto intero attualmente accidentale, sia inaccessibile all’esperienza percettiva. Anche nell’esperienza percettiva delle cose intramondane esiste una sorta di inac­ cessibilità, perché le cose sono date originariamente sempre in modo prospettico-unilaterale, e mai in totalità; è vero che in esse la singola cosa anticipata come vuota è accessibile ad un’intuizione riempiente, cosa che non si verifica con l’intero del mondo; ma anche in questo caso non si dà un’inaccessibi­ lità totale. (Kant, invece, riferisce l’origine della sensazione al mondo delle cose in sé, l’intero spaziale al mondo fenome­ nico sensibile.) Appurata perciò la realtà effettiva di un intero di mondo fattuale, contingente, la riflessione di modalizzazione di Fink apre innanzitutto la strada alla compagine unica del mondo 152

che, superando esistenze e manifestazioni accidentali, regna su ogni cosa in modo illimitato. La riflessione di Fink è stata rimproverata di naturalismo e di cadere in un’ontologia della semplice presenza; ma ciò sta a significare che la compagine del mondo che regna nell’intero del mondo accidentale viene vista a sua volta come un ente, mentre essa è il fondamento del mondo che compagina l’apparire. La compagine del mon­ do è il compaginamento [Fügung] dell’interezza anticipante, di “ciò che è da limitare” o “da riempire” e di ciò che è ne­ cessariamente accidentale, un compaginamento che domina su ogni cosa e su ogni apparire del fattual-intramondano e che gli accorda un posto e un tratto di tempo, senza che essa stessa appaia in quanto tale. La compagine del mondo non è un ente, né una cosa né un movimento, un processo o un ac­ cadere, ma è ciò che propriamente regna sull’unico intero del mondo, che non si può abbracciare con lo sguardo e che do­ mina ogni singola cosa. Dal momento che essa è in realtà quel che compagina i fenomeni in quanto tali, nello stesso tempo è quel che li conduce alla propria determinatezza, alla definizione e delimitazione, alla loro costituzioné interna ed esterna; oscura essa stessa nel fondamento del suo compagi­ nare, la compagine conduce tutto e ciascuna cosa alla luce dell’apparire. Domina così nella compagine del mondo un qualcosa di nascosto, che non è un essere singolo né una somma e totalità di ciò da cui però hanno origine i fenomeni e, con essi, il chiaro e la (di lui) chiarezza. Nel mondo in quanto realtà necessaria degli accidenti domina quel che, in definitiva, non è un ente, ma ciò che rende possibile l'appari­ re dell’ente e il suo risprofondare. Le considerazioni sulla modalizzazione di F ink, e quelle ad esse affini, che qui abbiamo tentato di abbozzare sulla scorta di Kant, sembrano indicare come, contrariamente all’opinione corrente, una sorta di fenomenologia dell’intero del mondo sia possibile, una fenomenologia che non è rivolta alla forma 153

contingente del mondo e alla molteplicità accidentale del mondo, bensì a quel che le fa essere un mondo, cioè un unico­ intero, universale, non oltrepassabile, che contiene in sé tutte le realtà e possibilità effettive. Questa fenomenologia ricerca la fonte che rende possibili i fenomeni, scoprendo la compa­ gine del mondo, in cui le parti e l’intero del mondo si compa­ ginano reciprocamente e il necessario elemento reale insieme al necessariamente accidentale portano all’unità dell’apparire. Questa “fenomenologia dell’intero del mondo” deve costantemente tener d’occhio la sua originarietà superiore, deve di­ stinguere tutte le analogie e i “modelli” dell’ente intramondano da ciò che non è né un organismo né in generale un’essen­ za, una sostanza. Rispetto a tutte le interezze si distingue per la sua irripetibilità, che tuttavia non è un’individualità; perché le individualità se ne stanno nettamente le une di fianco e contro le altre, mentre l’intero del mondo non può avere nien­ te al di fuori e “accanto” a sé. E sebbene in esso si incontrino solo accidentalità manifeste e non si possa avere un’esperien­ za reale [reell] di altro che non sia accidentale, l’intero del mondo non è la “somma” di queste singole accidentalità; que­ ste, al contrario, sono solo sue “limitazioni”, le quali nel loro insieme rinviano all’intero anticipante della compagine del mondo, nascosta in tutti i fenomeni. La compagine del mondo stessa può essere raggiunta solo grazie alla modalizzazione, all’essere-altro o al non-essere dell’accidente a noi accessibi­ le, cioè sul fondamento di ciò che si mostra come sostituibile, sul fondamento delle “limitazioni” che esso porta con sé. Ab­ biamo già visto come l’elemento necessario nel fondamento del mondo sia forzatamente congiunto all’accidental-fattuale; che in esso interezze parziali [Teilganze] quali il tempo, lo spazio, il mosso e il movimento siano connesse fondandosi reciprocamente, ma si trovino anche fondazioni unilaterali, le quali sono tuttavia in rapporto con il fondamento stesso del mondo - è quel che meglio testimonia il fenomeno dell’appa154

rir-mi. Perché è chiaro che l’intero del mondo può essere rap­ presentato senza l’apparir-mi; per esistere non ha bisogno di qualcosa come un centro a cui apparire. Il tentativo di supera­ re resistenza di tali centri, che non solo appaiono come altre accidentalità, ma a cui piuttosto il resto stesso appare, riesce perfettamente; essi possono essere sostituiti integralmente da accidentalità senza questo carattere - un mondo senza centri, un mondo completamente non centrato è possibile, concepibi­ le; tali centri non si sostituiscono per forza con altri centri, ma con fenomeni, cioè “limitazioni”, non centrati del quadro spa­ zio-temporale. Il mondo non ha bisogno di tali centri per la sua realtà effettiva. E tuttavia esiste di fatto una relazione molto ben articolata dell’apparire a-me con il mondo, con il fondamento del mondo; l’apparir-mi è una dimensione del mondo, possiede una struttura interna, completamente propria che rende possibile che mi appaiano le cose, quel che accade nel mondo e io stesso. Così nel fondo stesso del mondo è po­ sto un ente non necessario, il quale d’altra parte fa necessaria­ mente apparire l’elemento necessario che lo precede come un modo difettivo di essere, come qualcosa che certamente appa­ re ed è, ma a cui manca la chiarezza del riferire-a-sé, il rap­ portarsi interiormente a sé e ad altro. Nella serie delle “limitazioni” di ciò che “riempie” gli or­ dinamenti interi dello spazio-tempo, l’uomo occupa dunque una posizione particolare, che consiste non nell’apparire sem­ plicemente come tutto il resto, nell’avere il proprio luogo e tratto di tempo, ma nel fatto che nel suo apparire si dà ancora un altro movimento, che fa sì che anche le cose che appaiono, così come egli stesso gli appaiano, si schiudano a suo favore. AU’intemo del primo apparire, l’apparire dell’uomo costitui­ sce un regno interiore, pulsante e straordinario. L’intero del mondo gli si riunisce attorno, circondando colui al quale i fe­ nomeni si mostrano, mentre egli stesso appare a se stesso con il “mondo a lui circostante” [Umwelt] che gli si rivolge, che 155

ricorre a lui, lo appaga e da lui pretende. Il mondo diventa il “mondo circostante”: nell'apparir-mi il mondo ha ricevuto un centro, e ci sono molti centri simili nell’unico mondo onni­ comprensivo, il quale per se stesso non presuppone né pos­ siede alcun centro. Nell’apparir-mi lo spazio diventa lo spa­ zio del mondo circostante, lo spazio dato secondo prospettive sul fondamento di un orizzonte ultimo onnicomprensivo. Il “non ancora” e il “mai più” del tempo diventano un permane­ re anticipante, che si trattiene in quel che è presente. Ma an­ che la dimensione delle “limitazioni” è presente non solo nel cambiamento variegato del mondo circostante: in essa devo ben compaginarmi, essa deve concedere da parte sua il terre­ no perché questo accada. Questo terreno si mostra come il caldo focolare del mondo circostante nel movimento organi­ co dell’essere creati e accolti da una società di uomini che si accettano e si sostengono reciprocamente. L’elemento organi­ co e la microsocietà costituiscono l’asse, lungo il quale il mo­ vimento più fondamentale della vita umana compagina quest’ultima nel suo apparire. Emerge così, anche nel mondo cir­ costante, il suo carattere non modalizzabile, che è presente in una certa forma in ogni cambiamento delle condizioni di vita in modo positivo o difettivo: le cose di casa, la patria, a diffe­ renza della fredda lontananza ed estraneità. Questo carattere non modalizzabile, questa struttura del mondo circostante si è mantenuta quindi rispetto ad un movimento fondamentale della vita che si potrebbe designare come movimento di ac­ cettazione, la cui realizzazione consiste innanzi tutto nel tro­ vare nel mondo circostante un appoggio “caloroso” e simpa­ tizzante, poi nel tendere ad esso in prima persona e infine nel custodirlo. In questo movimento si diventa dapprima un cen­ tro. Il secondo movimento, quello dell’inserimento nei rap­ porti con lo stato delle cose, approfitta di questo centro, lo utilizza come una forza tra le forze, come una parte costitutiva della faticosa difesa da quell’elemento costantemente minac­ 156

cioso per la vita centrata in comunità, proprio dei rapporti mutevoli che questa situazione di fondo comporta. Questo se­ condo movimento segna il campo dell’agire dell’essere uma­ no, creando il posto a quel luogo costituito da lavoro e padro­ nanza, organizzazione e lotta. Il terzo movimento fondamentale dell’esistenza umana mostra in modo chiaramente espresso quel che anche i primi due sono, seppur in modo velato. Infatti, anche i primi due movimenti partono da un centro e hanno luogo nell’intero universale, che però si nasconde alle spalle del mondo circo­ stante che ci si stringe addosso. E il velamento significa che né il centro né l’intero del mondo si presentano espressamen­ te e che il confronto reciproco con quanto è esterno può ri­ chiedere per sé l’intero movimento della vita. Che il centro divenga espressamente ciò la cui essenza e attività mi interes­ sano prima di tutto e in tutto il resto, non è quindi separabile da un rapporto esplicito con l’intero. Perché io non posso rap­ portarmi esplicitamente a me stesso, senza realizzare espres­ samente il mio apparire in mezzo ad altri contenuti mondani e l’apparire a me stesso in esso. Ci sono molti modi in cui que­ sto rapporto si realizza e non è questo il luogo per discuterne in dettaglio. Vogliamo solamente mettere in evidenza che in questo comportamento si delinea quel che si potrebbe chia­ mare un “mondo interno”, che chiaramente dà forma anche al mondo circostante esterno in vari modi, in particolare rispetto a dimensioni religioso-cultuali e artistiche. Nel suo centrarsi, il mondo diventa mondo circostante e si riflette in se stesso. Può darsi riflesso solo nel mondo; esso non oltrepassa il mondo, sebbene presupponga il sorgere di un qualcos’altro che non si manifesta nel mondo, cioè dei centri. Il mondo dell’uomo consiste nell’attività di una pluralità di centri, plu­ ralità che non compromette l’unità del mondo. I molti centri, di cui ognuno è un centro del mondo circostante, costituisco­ no i punti focali dell’unico mondo. Gli unici centri che il 157

mondo fa vedere apertamente sono questi centri finiti del mondo circostante, nei quali e per i quali la chiarezza delle manifestazioni, la loro intima determinatezza e costituzione trovano una corrispondenza nella loro ricettività, nel loro “apparire per essi”. Ciò non significa chiaramente che qual­ cosa come il senso del mondo si compia nell’uomo; perché il mondo non ha qualcosa come un “senso”, che sarebbe perciò come un elemento del suo contenuto. “Senso” significa supe­ rare il sensato per qualcosa di ulteriore e non c’è niente oltre al mondo. Ma il mondo dell’uomo e il suo mondo circostante mostrano che il grande mondo può offrire un terreno al com­ pimento del senso dell’essere un uomo, al punto da poter di­ venire una patria per l’uomo. Il mondo dell’uomo è quindi un centro - e in questo senso, relativo all’uomo. Per tale mondo vale il principio homomensura. Ciò non significa però che l’uomo si accontenti di realizzare il suo centro e di misurare le cose a partire da sé. Egli cerca di misurare l’un con l’altro quel che gli si manife­ sta, prendendo così la via dell’oggettivazione. Questa via, o­ pera della scienza, lo avvicina ai contenuti e alle strutture in­ tramondani, fattual-accidentali; non è questa la via che con­ duce all’intero del mondo stesso nella sua struttura di fondo [Grundgefu ge]. La fenomenologia del mondo in quanto inte­ ro, che essa adocchia, non è una metafisica, che aspirerebbe a scoprire un “mondo vero” dietro i fenomeni, ma è il tentativo di rendere trasparenti i fenomeni stessi rispetto all’unica inte­ rezza in essi stessi presente. (Traduzione di A. Pantano)

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